Epistulae Heroidum 1-3
 8800812589, 9788800812580

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P. OVIDII NASONIS

EPISTULAE HEROIDUM 1- 3 A CURA DI

ALESSANDRO BARCHIESI

FELICE LE MONNIER - FIRENZE 1992

INDICE

Narratività e convenzione

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Abbreviazioni bibliografiche

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Nota di presentazione del testo

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Premessa

ISBN 88-00-81258-9

PROPRIETA LETTERARIA RISERVATA

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I: PENELOPE Nota introduttiva

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Testo

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Traduzione

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Commento

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Il: FILLIDE

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Nota introduttiva

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Testo

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Traduzione

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Commento

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III: BRISEIDE Nota introduttiva

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Testo

191

Traduzione

197

Commento

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APPENDICE

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INDICI

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Parole e cose notevoli

251

Passi citati

265

Opera pubblicata con il contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche

i'.

Officine di Agnano Pisano della «Giardini editori e stampatoti in Pia..

P.

,i M306

".

PREMESSA «Per'l'interpretazione di Ovidio non è rimasto molto da fare. Le sue parole sono di rado oscure, a meno che siano corrotte». Con tale fredda accoglienza Housman salutava il lavoro, faticoso, di Arthur Palmer, il cui commento alle Heroides (1898: rivisto e completato da L. C. Purser) doveva restare l'unico a tutt'oggi. Non so spiegare perché le Heroides siano attualmente la meno, e peggio, commentata opera ovidiana: i motivi indicati da Housman non hanno fermato un gran numero di imprese esegetiche parallele. (Amores, Ars, Remedia, Fasti, Metamorfosi, Ibis, Tristia hanno oggi ricchi commenti, spesso più d'uno per opera, e tutti recenti). Forse si può notare che la tradizione manoscritta offre il quadro più difficile fra tutti i testi ovidiani. Housman, dopo una lucida analisi della situazione, rinunciò a pubblicare il testo. Una nuova edizione promessa da E. J. Kenney, e ovviamente molto attesa, continua a non apparire. I lavori preparatori, e l'edizione di Dórrie con i suoi difetti e meriti, hanno chiarito una realtà un po' disarmante: il critico testuale delle Heroides, si è scritto autorevolmente, è quasi rinviato al punto di partenza degli studi ovidiani moderni, all'orizzonte operativo di uno Heinsius —nel senso che nessuno è riuscito a mettere ordine nel grande numero dei testimoni, e la scelta fra lezioni concorrenti rimane affidata alle capacità selettive dell'editore. Ogni lezione tramandata ha intrinseche possibilità di essere giusta, in un quadro segnato da incessanti pratiche di contaminazione e interpolazione. (I nostri strumenti —lessicali, metrici e stilistici — ci avvantaggiano parecchio su Heinsius, ma è preoccupante dover competere con lui in altre qualità). Si può certamente ritenere che una nuova edizione critica, viste anche le molte imperfezioni che i recensori segnalano nell'utilissima fatica di DSrrie, sia il desideratum più urgente. Ma anche i nuovi editori delle Ihroidu avranno bisogno di strumenti interpretativi, che l'invecchiato lovom dl Palmer non può più garantire. Proprio per l'am-

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pia libertà di scelta riservata all'editore, e la quantità delle varianti plausibili, si richiede un approfondimento che solo un esegeta ha l'agio di permettersi. Troppo spesso l'apparato di Dórrie continua a occuparsi di varianti o congetture evidentemente errate, quando un semplice controllo di usus scribendi, o un'indagine sui modelli letterari utilizzati nel singolo contesto, basterebbe a indicare una via migliore e a semplificare l'insieme. Non di rado fenomeni di questo tipo continuano a trovare accoglienza del testo. Personalmente, ho tentato una soluzione di compromesso: il lavoro di commento si fonda sulle edizioni critiche esistenti, e perciò accetta il rischio di ricevere informazioni errate sullo stato della tradizione, ma naturalmente opera in piena autonomia sul piano della selezione. La speranza è quella di formare in tempi ragionevoli una sorta di bilancio esegetico, rivolto anche a chi tornerà ad addentrarsi nei più di 200 testimoni disponibili. Prima di scontrarsi con le oscurità della tradizione e con la carenza di strumenti esegetici, il mio interesse per le Heroides partiva da ragioni d'altro tipo. Per chi è attratto dal fenomeno dell'intertestualità, dai testi che si offrono a una lettura «doppia», è difficile immaginare un banco di prova più ricco. L'arte allusiva non è nelle Heroides un fenomeno occasionale, che impreziosisce singoli contesti, ma è anzitutto una scelta di poetica. Le lettere non sono comprensibili, e non vogliono essere comprese, fuori dal loro intertesto. A questi problemi è dedicato il saggio introduttivo che affronta, per campioni e senza pretese di esaustività, la poetica `intertestuale' delle Heroides. Ma le regole del gioco prevedono anche una straordinaria varietà di modelli alternati: possiamo osservare, all'interno di un genere che si autoregola con grande chiarezza, come Ovidio affronta con caratteristica autonomia modelli diversi quanto lo sono Callimaco e Virgilio, Omero e Euripide, Sofocle e Catullo. Nello stesso tempo è importantissimo cogliere l'azione di un modello `nascosto', mai esibito e dominante: l'elegia romana che serve da fondamento alle Heroides e che nelle Heroides viene continuamente, perfidamente «tradìta». L'elegia romana che dopo aver tanto proclamato il suo ancoramento alla «vita vissuta» svela, nello specchio di Ovidio, convenzioni, procedimenti, tendenziosità di struttura. E chiaro che il commento deve prestare attenzione qui a tutti i più diversi livelli dell'allusione letteraria, e non solo all'influsso di singoli testi, ma anche all'azione di convenzioni, codici, marche lessicali. Non manca neppure il più classico fra i problemi della Quellenforschung: la necessità di inferire su modelli perduti o frammentari (Euripide, Callimaco e la

PREMESSA

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poesia alessandrina, e la tragedia romana arcaica, costringeranno spesso a esercizi di questo tipo). Un secondo campo di interesse, che ho scoperto un po' più tardi, riguarda la natura (e- l'artificialità) dello stile poetico ovidiano. Il commento cerca di documentare i paralleli che mi sembrano rilevanti: non ho inteso fornire con regolarità vere e proprie statistiche lessicali, ormai facilmente accessibili tramite lessici e concordanze d'autore, Thesaurus, e grandi vocabolari: però non ho esitato quando mi sembrava di poter definire un certo livello di stile o certe condizioni d'uso di un nesso, di un vocabolo. I paralleli interni all'opera ovidiana, che rischiano di essere debordanti in un commento, sono sfoltiti ma non potevano essere trascurati: anzi, di particolare interesse sono molti paralleli che mostrano, con la loro densità asimmetrica, certe differenze di genere e di poetica tra zone diverse dell'opera ovidiana (p. es. opera «elegiaca» e Metamorfosi, Metamorfosi e Fasti) o che possono suggerire osservazioni sulla cronologia e l'evoluzione del poeta. Tanto più che lo statuto «generico» delle Heroides — che possono essere studiate come un genere misto e, più utilmente, come un genere a sé — continua ad essere incerto e può dipendere anche dall'esame di minute parentele o affiliazioni. Un'altra misura di auto-limitazione riguarda quei problemi generali che hanno ricevuto sinora molta attenzione e su cui non speravo di ottenere progressi: questioni come la cronologia dell'opera giovanile di Ovidio e l'arrangiamento interno del liber Epistularum sono accessibili, ad esempio, nella comoda sintesi di H. Jacobson (un libro importante anche per l'esegesi di molti passi particolari, come si vedrà nel commento, e soprattutto per lo studio delle fonti). Ciò vale anche per l'immagine complessiva dell'epistolografia antica, che è argomento da monografia o da manuale. Ho ritenuto invece di anticipare per ogni lettera uno schizzo particolare, dove si delinea brevemente qualche aspetto importante che rischiava di perdersi nello sminuzzamento delle singole note. Neppure ho voluto rinunciare alla traduzione: anche se ora ne esiste una ottima (G. Rosati, Milano 1989), mi è sembrato che una traduzione mia potesse alleggerire e facilitare la consultazione del commento. Allo stesso fine va il trattamento delle questioni testuali, e la presenza di uno specchietto differenziale rispetto all'edizione di Diirrie. Dimenticavo di aggiungere che secondo me le Heroides sono un testo piacevole, e che spero questa mia perversione trasparirà anche dalle note di commento. Ancora più impervio sarebbe negare che le Heroides siano accusa-

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PREMESSA

bili di superficialità. Tuttavia, anche a costo di contraddire l'opinione prevalente, vorrei introdurre qualche distinguo. Fra le critiche rivolte a quest'opera, primeggia quella di monotonia e ripetizione eccessiva: tutte queste situazioni ripetute (congedo, attesa, parole al vento, nozze funeste etc.) erano davvero necessarie, e sono tollerabili? L'idea di un testo che si scompone in una fredda combinazione di tratti simili, manipolati come in un gioco di carte, può ripugnare a molti (gli antichisti non sono obbligati ad amare Queneau e Calvino). Eppure, è dimostrabile che Ovidio sa adattare le ripetizioni ai singoli contesti, e varia le situazioni tipiche a seconda dei casi individuali. Nessuno come lui (forse aiutato da una formazione retorico-giuridica) sembra aver capito che le situazioni narrative sono insieme infinite, e limitate: perché è possibile differenziarle tra loro attraverso variazioni anche minime, ma anche riconoscerne l'analogia profonda di tratti fondamentali. Probabilmente il carattere seriale delle Heroides si collega a questa illuminata visione della letteratura. Sarebbe davvero fuorviante accusare Ovidio di mancanza di fantasia: le regole del gioco, che ingabbiano il testo e rendono praticamente inevitabili le ripetizioni, sono state, dopotutto, create appositamente dall'autore. La rete di somiglianze che collega le epistole è certamente voluta, e sottintende un quesito non certo superficiale. E un problema che riguarda l'identità dei personaggi mitici e letterari. L'identità si fonda a partire da alcuni tratti narrativi: ma questi tratti possono essere, almeno in gran parte, comuni ad altri personaggi. I personaggi di Ovidio, come è noto, sono particolarmente autocoscienti e amano indugiare su analogie e differenze. E Ovidio ama svelarci almeno una parte dei suoi problemi di artefice: lo fa, appunto, mettendo a nudo certe analogie. Fillide, la cui storia somiglia tanto a quella di Didone, è una Didone più ingenua, meno vissuta: pochi tratti differenziali, e questa è già un'altra storia. E Issipile e Medea, che amano lo stesso uomo, e sono così portate alla violenza, non saranno per caso un po' uguali? Il poeta si interroga e ci porta vicino al luogo in cui tutte le storie vanno a intersecarsi. Ma questa combinatoria di fatto esclude ogni sincera partecipazione, e questo ci riporta al problema della «superficialità». Non sono mancati tentativi di riscatto: ma sottolineare troppo i momenti seri, o persino tragici, è pericoloso (come dimostra, fra l'altro, il generoso tentativo di Hermann Frànkel). Le Heroides sfuggono a una partecipazione ingenua, a un'immedesimazione con il personaggio che dice `io'; ciò equivale, per molti, a concludere che la letteratura ha avuto una facile vittoria sulla vita. Credo che questo verdetto sarebbe tutto

esteriore e affrettato. Certamente l'orizzonte delle eroine non è che letteratura o mito: ma lo sforzo con cui ogni eroina si appropria di questo contesto fittizio e cerca di tradurlo in termini propri, ognuna a suo vantaggio e secondo un codice personale, non può essere minimizzato. «Trascrivendo» l'Odissea e l'Iliade o l'Eneide o l'Ippolito o l'Eolo, le eroine cercano ogni volta di estrarre un senso autentico dalla propria vita. Proprio perché accettiamo l'inquadramento della finzione letteraria, non dobbiamo restare indifferenti a questa scommessa. *

* Per utili suggerimenti e pazienti discussioni sono grato a Gian Biagio Conte, Marco Fantuui, Mario Libate, Scevola Mariotti, Michael Reeve, Sebastiano Timpanaro

NARRATIVITÀ E CONVENZIONE 1. L'autonomia di ogni singola lettera è la nitida legge compositiva che Ovidio si è dato nelle Eroidi. Autonoma, ogni lettera, perché il testo — naturalmente con tutte le implicazioni di cui riesce a dotarsi, e su questo si tornerà — deve fornire da sé tutte le informazioni sufficienti e, soprattutto, è fatto in modo da non chiedere risposta o integrazione. Anche per questo motivo,' non dev'essere casuale che al primo posto della raccolta troviamo l'epistola di Penelope. Penelope scrive una lettera ma dice esplicitamente di non volere una risposta da Ulisse (nil mihi rescribas tu tamen...): vuole suo marito a casa (...ipse veni), subito, e in chiusa della lettera aggiunge amaramente: «anche se torni fra un momento, ti sembrerò una vecchia» (1,116). Fra un momento? Certo, la lettera sembra destinata a non trovare risposta né esito. Per un motivo eminentemente pratico: è rivolta ad indirizzò sconosciuto. Penelope, infatti, vuole affidarla a qualche straniero di passaggio da Itaca, nella speranza che abbia la

t L'ordine tramandato delle epistole ha buone probabilità di essere ovidiano, anche se preferirei non costruire troppo su questo dato. Per quanto riguarda il `non chiedere risposta', non è questo il solo motivo per staccare nettamente le Eroidi singole da quelle doppie (quasi certamente più tarde per rilievi di stile, metrica, paralleli interni etc.): e noi eviteremo qui di riferirci alle epistole 16-21, che pongono problemi di poetica piuttosto diversi. L'idea che le epistole non possano avere risposta sembra chiaramente implicata sin dall'epistola di Penelope: l'iniziativa dell'amico Sabino che (Amores 2, 18, 27 sgg.) compose qualche risposta degli eroi (p. es. proprio Ulisse), può aver avuto il carattere scherzoso di una violazione intenzionale, un po' da guastafeste (comunque in spirito ovidiano, data la passione di Ovidio per il disvelare tongue-in-cheek le convenzioni letterarie e la loro arbitrarietà). Al v. 32 (quodque legar Phyllis, si a di Ovidio, basata pro. modo v i v i t, adest) sembra podere une e 1-15: la aitumlot s prio sulla stretta scanhlem peso anche quam agi in cui Fillide scrive non del v. 27 riceve più

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ventura di comunicare con Ulisse. È quasi un messaggio nella bottiglia. Ma c'è un secondo motivo. La lettera non avrà mai risposta perché, mentre viene scritta, Ulisse si trova già ad Itaca.z L'epistola ovidiana si inserisce con precisione nella fabula dell'Odissea, testo universalmente noto che Ovidio intende rispettare in tutta la sua intelaiatura di dati. Penelope ha avuto tanti anni per meditare lettere e anzi — come Ovidio si preoccupa di chiarire ai vv. 59-62 — ne ha scritte molte, affidandole a tutti i naviganti di passaggio. Ma questa lettera non si colloca in un punto qualsiasi della monotona lunga attesa. La lettera è chiaramente 'datata' a un giorno in cui Telemaco è rientrato ad Itaca da Sparta, e ha raccontato a Penelope qualche incerta notizia del padre.' Questo è, in termini lessinghiani, davvero un 'fecondo istante' della storia. In quel giorno — come dimenticare Omero? — la casa di Penelope ospita un viaggiatore straniero, un Cretese che dice di sapere molte cose (per la Penelope ovidiana, potrebbe essere un ottimo corriere). Ma il lettore di Omero sa chi è veramente il Cretese, e sa che dopo una sola notte — il protinus di Penelope! — egli rivelerà la sua vera natura a tutti. Ancora una notte, e la lunga attesa di Penelope sarà finita. Così, la prima epistola del libro fornisce ai suoi lettori le delicate regole di un nuovo gioco letterario. Questi testi vanno intesi come lettere in senso proprio — scritte in una determinata occasione, con un preciso destinatario, con un intento preciso. Sono però delle stra-

ne lettere, perché il lettore non si aspetta da esse alcuna conseguenza. La terza epistola è scritta da Briseide per Achille. Briseide è nelle mani di Agamennone, e l'ambasceria ad Achille (Iliade IX) è già fallita: «domani» — Briseide l'ha sentito dire (fama est, 3,57) — Achille vuole prendere il mare di gran carriera («sì, dimani vedrai, se te ne cale, / coll'aurora spiegar sull'Ellesponto / i miei legni le vele, ed esultanti / tutte di lieti remator le sponde», secondo una delle più memorabili riuscite di Vincenzo Monti). Allora sembra di capire che Briseide scriva di notte, la notte cruciale che separa il giorno dell'ambasceria dal giorno campale della battaglia alle navi. Al principio della lettera, Briseide accenna ai pericoli dell'avventurarsi di notte, e non sapremmo darle torto: in questa lunga notte Omero ambienta un pericoloso andirivieni di spie ed agguati. E questo l'unico momento utile, l'unico tempo morto in cui potrebbe inserirsi il tentativo epistolare di Briseide; l'ambasceria è fallita, e Briseide ne ricanta i temi da una nuova prospettiva. Ma già l'indomani, come ci assicura Omero, porterà la soluzione cercata da Briseide. In una lunghissima giornata di battaglia (che mette a disagio le nostre edizioni per le scuole, costrette a siglare il libro XI «mattinata del ventiseiesimo giorno» dal principio del poema, e il lontano XVIII «ultime ore del ventiseiesimo») Patroclo cadrà, Ettore avrà le armi di Achille, l'ira sarà finita, e Briseide potrà tornare alla tenda del suo amato. La conclusione non sarà priva di qualche amara ironia, perché Briseide avrà il risultato che cerca, ma perderà il suo unico amico, l'uomo gentile che aveva sempre cercato di consolarla (cfr. Il. 19, 287 sgg.; ep. 3,23 sg.). Il tempo della lettera è null'altro che un sottilissimo taglio praticato nella sequenza che compone l'intreccio dell'Iliade. Evidentemente le storie, di cui Ovidio conosce così bene la continuità (cfr. «MD» 16, 1986, p. 77 sgg.), hanno anche proprietà interstiziali, discontinue. Il lettore non può che inserire questi tagli in un quadro già dato una volta per tutte, immodificabile, e tale che l'esistenza della lettera non saprà in alcun modo condizionarlo. Infatti, questo contesto narrativo è fissato altrove, consegnato ai testi letterari (o più genericamente ai mitologemi) su cui Ovidio ha scelto di operare. In altre parole, l'autonomia narrativa della lettera è curiosamente intrecciata alla sua inefficacia pragmatica: e l'inefficacia implicata dal contesto convoglia ogni lettera verso lo spazio dell'illusione. (L'amante è morto, è partito, ama già un'altra, è partito e non tornerà o — variante più sottilmente ironica — tornerà, ma secondo cause indipendenti, catene di motivazione che la lettera non ha sotto il tetto controllo). I,a

2 Buone osservazioni su questo punto in D. F. Kennedy, The epistolary mode and the first of Ovid's Heroides, ..Class. Quart.» 34, 1984, p. 413 sgg., uno dei primi lavori che affronti i problemi di poetica posti dalle Heroides in modo dettagliato. Importanti anche H. Frinkel, Ovid: a poet between two worlds, Berkeley-Los Angeles 1945, pp. 36-39: F. Della Corte, / miti delle Heroides. in Opuscula /V, Genova 1973, p. 39 sgg. 3 Cfr. vv. 63-65; 99 (nuper). Questo è chiaramente il terminus post quem della lettera di Penelope. In Omero Telemaco tarda parecchio a informare la madre sul viaggio a Pilo e Sparta; quando si decide a farlo. in 17.107 sgg., l'indovino Teoclimeno aggiunge che in realtà Odisseo non solo è vivo, ma si trova già in patria e prepara vendetta contro i pretendenti (17, 152-161). Penelope accoglie la cosa come una profezia di incerto valore. Sii b i t o dopo— con un drammatico montaggio degli eventi — Omero narra che Odisseo sta avvicinandosi, sotto spoglie di mendico, alla casa natale, ed è riconosciuto dal suo vecchio cane. Anche il tema per cui Penelope affida messaggi a tutti i forestieri di passaggio è in certo modo lo sviluppo (quasi l'inversione) eli un suggerimento omerico. In 14.372 sgg. Eumeo spiega ad Odisseo che Penelope accoglie spesso viaggiatori, chiedendo notizie del marito, e che fra di essi si trovano dei veri e propri impostori Odisseo, curiosamente, è l'ultimo di questi impostori.

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competenza narrativa del lettore lo pone in uno stato di superiorità ironica rispetto alla limitata visuale del personaggio che dice io. 4 Le Heroides sono non semplicemente dei derivati intertestuali (al pari di tanta altra poesia antica) ma anche (se si può accettare una definizione quasi scherzosa, che vorrebbe cogliere il carattere ludico dell'operazione ovidiana) dei veri e propri ` i n t e r t e s t i'; formazioni interstiziali, sviluppate in sezione di altri testi. Il gesto del poeta non è di chi voglia completare il proprio modello. Queste operazioni letterarie presuppongono in genere che si colga nei modelli come un vuoto da riempire — nell'antefatto, nel séguito, entro il corpo stesso del racconto; o almeno che il racconto si integri di qualche sua diramazione interrotta: che fine avrà fatto Anna, la pietosa sorella di Didone, che abbandoniamo vicino alla pira nel quarto dell'Eneide (Silio Italico 8, 50 sgg.)? E neppure si può dire che l'iniziativa del narratore arrivi qui a concepire una vera e propria sceneggiatura alternativa, utilizzando la storia tradizionale come un `mondo possibile' su cui innestare nuove potenzialità (magari con intenzioni demistificanti o comunque ideologiche: «Se tu avessi parlato, Desdemona» 5). La poetica delle Eroidi suggerisce, più semplicemente, che è possibile aprire nuove finestre su storie già compiute. Le virtù narrative di Ovidio si rivelano proprio nel rispettare la sceneggiatura tradizionale; ogni lettera ricava il suo spazio bianco da una narrazione in sé piena e compatta, talora anche drammaticamente serrata e incalzante. La spettacolare abilità del poeta ha qualcosa di chirurgico: sceglie il punto propizio, seziona, e richiude senza lasciare traccia di sé. Molto si gioca sulla distanza fra il testimone, autore della lettera, e i tradizionali punti di vista cui la sceneggiatura è consegnata. Manipolando questo scarto, si possono concepire ricadute ironiche sulla consapevolezza del lettore: tali da colpire, ad esempio, una certa pochezza del testimone, o da minare ironicamente i valori affidati

alla narrazione, o in entrambi i sensi assieme. Sviluppando con minore tatto queste ricette, non è difficile arrivare a un Vangelo di Giuda, o a un Amleto visto dai poveri Rosencrantz e Guildenstern. L'efficacia dello scarto è garantita, in Ovidio, da una scelta narrativa fondamentale: quello che per il lettore è un testimone risulta invece (misurato rispetto alle proprie intenzioni) piuttosto un persuasore: la soggettività del punto di vista è garantita ogni volta dalla finalità pragmatica del testo. Anche in questo senso, la somiglianza tante volte invocata fra le Heroides e i monologhi drammatici si rivela debole, episodica, non costitutiva.

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4 Nel romanzo epistolare del Settecento, opera `a più voci', la superiorità prospettica del lettore è data non dalla competenza intertestuale, ma semplicemente dal fatto che nessun personaggio ha il privilegio di una visione completa degli avvenimenti: solo il lettore, complice diretto dell'autore, può ricomporre le visuali dei singoli narratori in un disegno complessivo. Sulla poetica di questa forma narrativa importante J. Rousset, Forma e significato, Torino 1976, p. 81 sgg. Sull'illusione come spazio unificante dell'opera ovidiana cfr. il bel saggio sulle Metamorfosi di G. Rosati, Narciso e Pigmalione, Firenze 1983. 5 Cfr. la rinascita femminista delle Heroides, ora voce delle escluse, in Christine Briickner, Ungehaltenen Reden ungehaltener Frauen (Hamburg 1983), e W. Schubert, «Antike und Abendl.» 31, 1985, p. 76 sgg.

2. Conquistare, riconquistare, o perpetuare l'amore: ritagliate entro i testi e i miti più diversi, le Heroides hanno in comune questa intenzione. E questo che le fa così simili tra loro, e così somiglianti a un genere già consolidato, preesistente al nuovo opus ovidiano:6 voglio dire l'elegia romana. Dell'elegia sappiamo che è il genere monologico per eccellenza.? 6 Ho l'impressione che i tentativi di ricavare troppo da A. A. 3, 346 ignotum hoc aliis ille novavit opus vadano drasticamente limitati, in un senso e nell'altro. La proclamazione di novità assoluta si scontra, naturalmente, con il regesto dei debiti che ogni filologo può compilare facilmente secondo il solito sistema della Kreuzung der Cattungen. D'altra parte, la discussione se le Heroides vadano proprio a costituire un genere nuovo, una nuova Dichiari, rischia di avvitarsi a vuoto. Mi sembra almeno evidente che le Heroides intraprendono un `gioco' nuovo, con regole appositamente create. Nessuna delle obiezioni portate contro la sincerità della proclamazione ovidiana suona davvero convincente. È vero che le consuetudini dei poeti romani farebbero attendere un Primus ego... dall'intonazione solenne; ma le rivendicazioni di originalità (e di originale `importazione' dalla Grecia) vanno pur sempre lette nel loro preciso ambito. Ovidio nell'Ars non sta presentando i suoi capolavori alle generazioni future, ma si dedica a elencare i consumi culturali che possono arricchire le doti di una signorina del bel mondo (i consigli successivi, ai vv. 349 sgg., riguardano l'opportunità di saper ballare bene). In tale contesto non c'è spazio per un exegi monumentum, ma neppure conviene limitare troppo la portata di ignotum... novavit; sugli Amores Ovidio non si sbilancia allo stesso modo e non si attribuisce i gradi di caposcuola (sarebbe stato difficile dopo aver citato, sei versi prima, Gallo Properzio e Tibullo). 7 V. in generale G. B. Conte, L'amore senza elegia, introd. a Ovidio, Rimedi all'amore, a cura di Caterina Lazzarini, Venezia 1986, p. 11 sgg., utile ai nostri fini sia per l'analisi dei rapporti che Ovidio, sin dalla sua opera giovanile, intrattiene con l'elegia romana (relativismo, messa a nudo delle convenzioni, autoriflessività), sia, più complessivamente, per l'attenzione verso la natura e la funzionalità del genere letterario. Sulla pertinenza delle Heroides (in quanto zweckhaftes Brief) al genere elegiaco, bene, sinteticamente, W. Stroh, Die rtimische Liebeselegie als werbende Dichtung, Amsterdam 1971, p. 190 n. 59. Se si sposta il discorso alla con-

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Non si tratta solo di restrizione tematica — il tema unificante, come nelle Heroides, è l'amore — ma soprattutto dell'effetto costante di una voce individuale, che attira a sé ogni tema. L'elegia potrebbe trattare, come in effetti fa, anche di mitologia, morale, paesaggio, questioni legislative, politica estera, vacanze al mare; ma si distingue, appunto, per la perentoria riduzione di ogni interesse esterno al fuoco centrale, che è la persona del poeta innamorato, con il suo orientamento dominante: la conquista e difesa dell'amore. Lo specifico dell'elegia sta proprio in questa riduzione monologica: è lo spazio dove parla, di regola, una voce sola. Il contributo dell'elegia alle Heroides non può essere allineato (come ancora qualcuno propone) alla lunga lista delle influenze e degli incroci (secondo piatti ricettari da Kreuzung der Gattungen); in questo senso, anche la definizione corrente di `monologhi lirici' ha in sé qualche elemento di confusione. Il contributo dell'elegia è diverso, per qualità, dagli influssi di altri generi, perché non si tratta solo di materiali e tecniche narrative, e neppure solo di un tema unificante, l'amore, ma soprattutto di una prospettiva unificante. L'elegia insegna alle eroine come si può `ridurre' ogni realtà esterna attirandola verso la persona dell'amante; e come si può alimentare un discorso poetico attraverso la resistenza, l'irriducibilità di un punto di vista personale nei confronti del mondo `esterno', mentre parzialità del punto di vista e orientamento pragmatico ( l'intento della Werbung, del corteggiamento elegiaco) si sostengono a vicenda. Così, soprattutto, va misurata la scelta ovidiana dell'epistola d'amore, che dà forma `istituzionale' alla soggettività elegiaca.

e quello dell'enunciazione. Con ciò, naturalmente, resta comunque aperta una ricca gamma di effetti: che va, per esempio, dall'ingenua identificazione in un racconto memorialistico, sino a effetti complessi di distacco e di ironia — che sono, allora, molto più forti e radicali di quelli che un racconto eterodiegetico saprebbe produrre. Occorre ora considerare l'interazione tra questa forma omodiegetica, monologica, e il carattere intertestuale che già avevamo delineato. Qui sorge, infatti, una divergenza notevole tra elegia e `eroide'. Non c'è alcun dubbio che la singola elegia possa proiettare un suo contesto narrativo, adombrando intorno a sé la traccia di uno sviluppo temporale, situandosi in una storia già in parte nota, giocando sul ricorrere di una `persona' elegiaca che via via si determina meglio nelle varie inquadrature del libro. Ma non sembra altrettanto tipico che si assuma come contesto una sequenza narrativa già nota e `citabile'. Sappiamo che nell'elegia l'identità e la persona del locutore hanno notevole peso nell'orientare il significato del testo; in qualche occasionale esempio (come nei cosiddetti Rollengedichte) questa informazione può assumere un valore non solo supplementare ma decisivo, e produrre una trasvalutazione dei contenuti (in qualche caso, una rilettura ironica dell'insieme). Ma nelle Heroides tutto il complesso delle informazioni che individuano il personaggio risulta, regolarmente, decisivo per l'interpretazione del testo, anche quando si tratta di informazioni solo presupposte o tendenziosamente sottaciute. Un'epistola come quella di Issipile, poniamo, risulta assai piatta alla lettura per chi non ha informazioni sul mito sufficienti a proiettare una cornice narrativa. Issipile vuole ammonire Giasone con una sua tendenziosa lettura della storia di Medea, vista come una barbara e crudele fattucchiera che si compiace a versare il sangue dei suoi congiunti. Non c'è dubbio che l'interpretazione di Issipile voglia suonare gelosa e faziosa, tanto più se si richiama alla mente la Medea giovinetta e trepidante di Apollonio Rodio. Ma lo stesso Apollonio Rodio (come in genere il sapere mitologico corrente, la basilare «enciclopedia» del mito che regola la competenza del lettore) ci ricorda che Issipile — mentre accusa Medea di fratricidio e altri complotti — è famosa nel contesto della storia di un terribile uxoricidio di massa. Nell'insieme, l'epistola suona come un testo elegiaco (soggettività, corteggiamento, lamento e gelosia ne sono le dominanti) in cui però il contesto narrativo e le informazioni paratestuali (identità e biografia del locutore) assumono un'importanza soverchiante. Di quella restrizione monologica che è propria dell'elegia romana

3. Il campo di studi che alcuni chiamano poetica, altri narratologia, o analisi del racconto, ci ha ormai abituato a considerare la narrazione `in prima persona' come una scelta significativa, dotata di implicazioni e variazioni anche molto sottili. Senza entrare troppo in dettaglio, credo che quasi tutti gli studiosi del racconto consentirebbero su questa prima caratteristica evidente: è tipico della narrazione in prima persona sottolineare il processo di ricreazione soggettiva degli eventi narrati; e questo modo della narrazione produce nel lettore una più intensa partecipazione al `farsi' del racconto, mentre si rende netto e percepibile lo spessore che corre fra il tempo del racconto cretezza delle `fonti' elegiache che nutrono le Heroides, l'importanza del IV libro di Properzio (Aretusa, Tarpea), per quanto ben nota, merita ancora di essere sottolineata.

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— restrizione di voce, di campi tematici, di ideologia — Ovidio ha fatto nelle Eroidi una convenzione narrativa: le sue epistole operano tagli `elegiaci' sul materiale narrativo dell'epos, della tragedia, del mito; la riduzione monologica di questo materiale non è che l'estrema estensione dell'imperialismo elegiaco. E lo scarto che corre fra tempo dell'enunciazione e tempo narrato garantisce il margine dell'ironia e della riflessività. L'altra faccia dell'operazione è che proporre quindici diverse soggettività elegiache significa in fondo oggettivare, guardare dall'esterno l'amore elegiaco. Questa costruzione culturale ha un suo naturale corteggio di sentimenti — passione gelosia rancore trepidazione angoscia — e un suo armamentario di tattiche — minacce, lusinghe, ricatti, autoumiliazioni, autoesaltazione, suppliche, denunce, rinunce; ma dev'essere guardata dall'interno, se elegia ha da essere. Le Heroides sono un omaggio al codice elegiaco, che riceve il potere di «ricantare» le storie del mito, solo che se ne fissi un'opportuna prospettiva: ma questa espansione del codice finisce per essere una presa di distanza, uno sguardo disincantato. Replica e serialità sono in generale patrimonio o di un'arte popolare o di un'arte sottilmente consapevole, colta e derivativa; nelle Heroides, direi che entrambe queste strategie hanno un loro peso. Queste elegie non possono dimenticare tutto lo spessore consolidato del loro codice: come già negli Amores, Ovidio presuppone che l'elegia sia un altrove già costituito, e fa sì che il lettore non lo dimentichi. Sappiamo che Ovidio può ormai contemplare dall'esterno questo scenario elegiaco. La sua evoluzione come poeta d'amore (già in gran parte consumata, per quanto possiamo capire, ai tempi delle Epistulae Heroidum) lo ha portato a riformulare tutto il patrimonio tradizionale, la giovane tradizione dell'elegia. Relativismo e ironia hanno guidato l'operazione, il cui segno tipico è la trascrizione dell'amore-passione in un nuovo codice galante. A questo punto, la posizione raggiunta si rivela un osservatorio distaccato (presupposto frequente nelle Heroides, e dominante nei Remedia), rispetto al quale esiste ormai un'elegia `all'antica'. Questa sorta di Ur-elegia si distingue per chiusura, assolutezza, unione orientata di poetica e scelta di vita: è seria, pura, in un certo senso anche ascetica. Per questo, soprattutto, il modello di Properzio assume tanta importanza nelle Eroidi. Il procedimento — che consiste nel `rendere visibile' il codice letterario e culturale secondo cui si opera — ha implicazioni curiose per le Heroides; dove il mondo rappresentato non è più, come negli Amores, esattamente il tradizionale mondo della poesia elegia-

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ca. Infatti queste eroine dell'epica e del dramma non sono nate 'dentro' e `per' il codice elegiaco, come forme o esperienze dell'io elegiaco: possono solo, con un certo anacronismo, appropriarsene. In questo senso, già l'apparizione di Penelope al primo posto della raccolta ha un indubbio valore programmatico. Alcuni procedimenti usati qui da Ovidio (cercheremo subito di illustrarli) introducono il lettore a un universo letterario nuovo, né antico né moderno, né epico né elegiaco, ma fondato sull'esitazione, sulla compresenza, sullo slittamento di codici e valori. 4. Penelope non è solo un personaggio epico: è un paradigma da elegia, notevole non solo per la sua frequenza, ma anche per la stabilità della sua funzione esemplare. L'orientamento funzionale è appunto la forza che trasforma il mito fissandolo, come si usa dire, in un paradigma.8 Nelle situazioni elegiache in cui il suo esempio è convocato, Penelope manifesta il valore dell'eros coniugale e della fedeltà ad ogni prezzo. Nel nome di Penelope Catullo chiude la tirata benaugurante del suo epitalamio (61, 230). Di qui procede la retorica dell'elegia: il fedele eros coniugale di Penelope si presenta per metafora come il grado estremo di ciò che il poeta innamorato può chiedere alla sua donna. Properzio rinfaccia questo esempio a Cinzia fedifraga e incostante: Penelope poterat bis denos salva per annos vivere, tam multis femina digna procis; coniugium falsa poterat differre Minerva, notturno solvens texta diurna dolo; visura et quamvis numquam speraret Ulixem, illum expectandofacta remansit anus. (2, 9, 3-8)

Ovidio se ne è ricordato: le ultime parole della lettera alludono a Properzio: protinus ut venias, fatta videbor anus (v. 116). Ecco come un elegiaco vede Penelope. Ma Penelope come vede la sua stessa storia? Se tutta la vicenda può riassumersi in un gesto emblematico (ed è difficile trovarlo, per un'attesa ventennale consumata nelle stanze delle donne), questo sarebbe certo il motivo della tela. Proper-

8 Il problema dell'exemplum elegiaco è studiato con metodo nuovo da F. Lechi, Testo mitologico e testo elegiaco. A proposito dell'exemplum in Properzio, «MD» 3, 1979, p. 83 agg. (su Penelope v. in particolare p. 87, su Briseide, p. 88 sgg.).

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zio stesso mostra di considerarlo esemplare: l'astuzia notturna simboleggia la volontà di restare fedele ad ogni costo eludendo i Proci («tu — riprende la parola Properzio — nemmeno una notte haí saputo -star sola, nemmeno un giorno, Cinzia»). Questo corrisponde a una mancanza clamorosa nel testo di Ovidio. Il racconto di Penelope, condensato fedele e completo della fabula omerica, non trova spazio per il celebre inganno della tela. Come annota stupito Arthur Palmer, «it is strange that Ovid dici not make more use of the story of Penelope's web» (n. ad 1,10). Ancora più strano è l'uso che Ovidio ne fa `in positivo':

Stavolta Cinzia è diversa. Per questa volta, parla con voce propria. Aspetta fedele un innamorato che indugia in amori externi (come Ulisse); trova interminabile la notte (1, 3, 37 nani ubi longa meae consumpsti tempora noctis, la spatiosa nox di Penelope); si rifugia allora nella casta matronale attività del tessere. Cinzia ora si vede come Penelope. Ma la Penelope di Ovidio vede se stessa come una Cinzia. La sua tela non è più un epico inganno: è solo il mezzo per ingannare le notti in cui è privata del suo giusto amore. La deformazione del modello omerico denuncia uno scarto soggettivo: un punto di vista che «rilegge» il tema epico da una prospettiva elegiaca. L'allusione a Properzio è il segnale più evidente di questa nuova codificazione. Con leggerezza di tocco, Ovidio ci insegna che anche i grandi temi dell'epica possono diventare elegiaci: basta cambiare punto di vista, e accettare la restrizione monologica che è propria dell'elegia. Non esiste amore elegiaco senza rivali. Ovidio scopre anche in Penelope una possibilità di questo tipo; non può farla onnisciente, eppure la porta, per intuito femminile, molto vicina alla `verità' (che è poi la testuale oggettività del modello, l'Odissea).

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O utinam tum cum Lacedaemona classe petebat obrutus insanis esset adulter aquis! non ego deserto iacuissem frigida letto non quererer tardos ire relicta dies nec mihi quaerenti spatiosam fallere noctem lassaret viduas pendula tela manus. (vv. 5-10) Tutti sanno che la tela è un inganno, la falsa Minerva e il nocturnus

dolus di Properzio, í Sóot di Omero (Od. 19,137). L'eroina epica, appunto perché epica, è la sposa dell'eroe della metis: la sua ruse è contigua e congruente a quella dello sposo Odisseo; ma se Odisseo cessa di essere roXvcPewv per diventare solo persona amata, destinatario di un'epistola elegiaca d'amore, Penelope non sarà più l'accorta eroina capace d'inganni. Così la tela in Ovidio serve solo, letteralmente, a ingannare il tempo. Nessun lettore obiettivo, leggendo questi versi, penserebbe che Penelope lavora di notte a disfare una tela. Fallere noctem, però, è un'espressione ardita in latino: ha molta più forza metaforica del nostro cliché corrispondente, e soprattutto qui si parla (con evidente plusvalore erotico) di notti, non di tempo in generale: il tempo dell'amore si misura innotti. Questo ci riporta indietro, e nuovamente verso un'elegia properziana: «O utinam talis perducas, improbe, noctes me miseram qualis semper habere íubes! Nam modo purpureo fallebam statuine snmhum,9 rursus et Orpheae carmine, fessa, •lyrae; interdum leviter.mecum deserta querebar externo longas saepe in amore moras!» (1, 3, 39-44) 9

130.

Lo stilema è analizzato da P. Fedeli nel suo commento ad 1., Firenze 1980, p.

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Haec ego dum stulte metuo, quae vestra libido est, esse peregrino captus amore potes. Forsitan et narres, quam sit tibi rustica coniunx, quae tantum lanas non sinat esse rudes. (vv. 75-78)

In prospettiva simmetrica, Properzio diceva a Cinzia obicitur totiens a te mihi nostra libido (3, 19, 1). Il lettore sa che anche Ulisse ha ceduto; ma sa anche che, appena libero di andarsene (v. 80 revertendi liber), ha preferito la mortale Penelope alla divina Calipso. «So anch'io, e molto bene, che rispetto a te la saggia Penelope ha poco valore, per grandezza e per aspetto... ma anche così voglio e desidero ogni giorno tornarmene a casa, vedere il ritorno» (5, 215 sgg.). Su questo dettaglio comparativo fa presa il linguaggio della gelosia, il linguaggio erotico della Penelope ovidiana. 'Axtbvóg (cfr. 5, 217) significa qualcosa come «debole, di poco valore»; Odisseo si rivolge ad una signora divina. Ma Penelope sta pensando ad un amore straniero, con tutte le connotazioni relative, e l'opposizione muta di segno. Rudis è chi non è iniziato ai giochi d'amore; rusticus è per Ovidio una parola-chiave, l'attributo di tutto «ciò che si oppone all'e-

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sprit di città»,10 alla cultura galante. Filare la lana è il più ovvio emblema della castità matronale; con modernizzante irriverenza Ovidio vede nella matrona lan f ca la tipica donna che non sa fare all'amore: «odio quella che si dà solo perché è inevitabile, siccaque de lana cogitat ipsa sua» (Ars 2, 685 sg.). Spinta dalla gelosia, Penelope arriva a concepire se stessa come un modello negativo: dialoga con l'Odisseo omerico attraversando il linguaggio della poesia galante. 5. Anche Briseide è un paradigma della poesia d'amore. Il suo personaggio ha indubbiamente aspetti romantici — la donna amata da Achille (Il. 9,342 sg.), nel cui nome iniziò l'ira funesta; modificando l'assetto dei valori culturali, e puntando tutto sull'eros ferito di Achille, invece che sull'orgoglio offeso, se ne potrebbe cavar fuori un'Iliade `elegiaca', un grande testo epico che si iscrive tutto (paradossale esperimento) dentro una `tenue' storia d'amore. Ma talora i poeti romani preferiscono valorizzare un tratto che ha implicazioni più realistiche. Briseide è una schiava (serva Hor. c. 2, 4, 3; captiva Prop. 2, 9, 11; ancilla Ov. am. 2, 8, 11). Il suo rapporto con Achille è proiezione eroica di un tema quotidiano, quello degli amori ancillari. Cosa non si è fatto per amore di una serva.11 L'epistola di Ovidio tiene dovuto conto di questa collocazione `sociologica' del paradigma. Tutto l'andamento della lettera è condizionato dalla posizione sociale di Briseide, e il confronto con le tonalità della nobile legittima sposa Penelope riesce istruttivo. Ma anche qui possiamo trovare implicazioni elegiache nella situazione narrativa. Già la situazione offriva a Ovidio una prospettiva piuttosto insolita: l'esperienza di un amore ancillare, contemplata, per una volta, dal basso, non nella prospettiva dell'uomo libero o addirittura del dominus. Ma che cosa avviene, in termini di codice elegiaco, se una schiava è amata dal suo padrone?

1° Cfr. N. Scivoletto, Musa focosa, Roma 1976, p. 71 (e tutta la trattazione alle pp. 57 sgg.); altre indicazioni in M. Labate, L'arte di farsi amare, Pisa 1984, p. 41 n. 44. Cfr. anche l'aria di gelosia in Levio, fr. 18 Mor. 11 Su Briseide nella poesia d'amore v. in generale G. Pasquali, Orazio lirico, IIa ed., Firenze 1964, p. 491 sgg.; Nisbet-Hubbard, comm. a Hor. carro. II (4,3), Oxford 1978, p. 70 (da considerare anche la fortuna iconografica dell'abductio di Briseide, con le sue tonalità da romanzo sentimentale; utili indicazioni in Gabriella Frangini-Maria C. Martinelli, «Prospettiva» 25, aprile 1981, p. 4-13).

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Torna in mente un modello culturale che nell'elegia romana è fondamentale, anche quando resta implicito: la relazione «servopadrona» depositata nel legame di obsequium verso la donna, la donna amata che l'ego elegiaco apostrofa come sua domina, e tutto il relativo campo semantico che usiamo etichettare servitium amoris. È importante per i lettori moderni cogliere il forte scarto di queste immagini rispetto alle norme sociali: per inventare un nuovo rapporto verso la donna si mette in gioco la più consolidata fra le norme sociali, e la distinzione tra liberi e servi si incarica di rappresentare metaforicamente la soggezione di un uomo libero a una donna (non di rado, fra l'altro, una donna di condizione libertina). Bisogna ricordare che, in Gallo e in Properzio, non si tratta solo di un linguaggio galante (che poteva essere già diffuso nell'epigramma greco e nello stesso Catullo) ma di un campo semantico che rinvia a una scelta di vita non conformista: il nucleo del servitium amoris è infatti «la degradazione implicita nell'innamoramento»;12 e la degradazione può agire, ovviamente, solo se adottiamo il punto di vista dell'ego elegiaco — un signore romano di buona famiglia, uno che sta abbastanza in alto da poter amministrare al lettore la propria rinuncia. L'adozione del punto di vista di Briseide (che parla «aus der Haremperspektive»)13 produce effetti di spiazzamento. I topoi ormai usuali dopo Gallo Tibullo e Properzio vengono attraversati da una nuova prospettiva. L'uso intensivo e proprio di dominus ci ricorda che il campo metaforico dell'elegia non è simmetrico e bilaterale: la relazione dell'amante con la sua domina non è percorribile nel senso contrapposto. L'io innamorato che monologa qui è socialmente quello di una schiava (Briseide lo ricorda continuamente), una che, se mai, potrà innalzarsi attraverso l'amore (Briseide vi allude con tatto). La degradazione simbolica dell'amante elegiaco è sostituita da una soggezione concreta e brutale: un personaggio che parla di sé come di un munus (v. 20),14 di una serva (v. 100) e che rifiuta l'appellativo di domina (v. 101). Ma ci sono ironiche novità anche sull'altro ver12

V. la lucida sintesi di P. Fedeli, in «Atti Conv. Studi Properziani», Assisi 1986, p. 294, e in generale l'importante saggio di R.O.A.M. Lyne, Servitium amoris, «Class. Quart.» N.S. 29, 1979, p. 117 sgg. 13 La brillante definizione è di Walther Kraus, Die Briefpaare in Ovids Heroiden, «Wiener Studien» 65, 1950-1, p. 60. 14 Declinando così in prima persona la designazione di Briseide quale yépa5 che è usuale nel racconto omerico dell'ira di Achille: una tecnica ricorrente nella grammatica allusiva delle Heroides.

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sante della comunicazione amorosa. La scelta del servitium amoris è alleata, come sappiamo bene, a quella della militia amoris, e al rifiuto del servire la patria in anni. Chi è dalla parte dell'amore milita contro la guerra. Briseide è certamente una voce elegiaca: non sapremmo definire altrimenti la premessa dell'epistola, che ne annuncia il contenuto come lamento rivolto alla persona amata (querela elegiaca, insomma):15

6. Credo che la portata di questa operazione abbia a che fare soprattutto con le convenzioni letterarie e il loro funzionamento. Non si tratta di parodiare e sovvertire l'elegia, magari in nome di poetiche alternative, o modelli di vita, che devono affermarsi, ma solo di rivelarne alcuni `spessori' convenzionali. Esattamente lo stesso accade con l'epica. L'indugio di Briseide o Penelope tra mondo epico e mondo elegiaco non va interpretato come parodia o sovversione della tradizione epica. Sarebbe ingenuo pensare che la temperie amorosa delle epistole voglia aggredire l'epica e discioglierla sotto il dominio del più `moderno' genere elegiaco: proprio la struttura narrativa delle epistole — autonoma, ma continuamente minacciata dalle implicazioni della cornice diegetica, dei `fatti' — ci ricorda che il mondo epico mantiene una sua identità. La proclamazione dei valori elegiaci, come abbiamo appena visto, è ambigua, relativizzata; così pure, l'epica non è annullata o criticata, ma solo attraversata da nuovi punti di vista. Ancora una volta, l'accento cade sul potere delle convenzioni: le convenzioni proprie di ogni genere, che regolano l'assimilazione dei materiali narrativi o biotiti alla struttura letteraria. Anche qui, come nelle trasformazioni dei modelli elegiaci, risulta determinante la mossa del `prendere alla lettera' quei temi che si sono via via depositati in convenzione, perdendo contatto con le proprie origini concrete. L'epistola di Briseide ci aiuta ancora con un esempio. Questo gioco illusionistico di convenzione e realtà vissuta è particolarmente intenso al v. 52, quando più intenso è, apparentemente, il pathos `diretto' e l'investimento emotivo del personaggio monologante:

si mihi pauca queri de te dominoque viroque fas est, de domino pauca viroque querar. (vv. 5-6)

Ma le circostanze forzano la voce elegiaca a lanciare un appello alle armi: Arma cape, Aeacide! (v. 87) e a condannare la degradazione insita nella militia amoris: tibi plectra moventur, I te tenet in tepido mollis amica sinu . I Et quisquam quaerit, quare pugnare recuses — / pugno nocet, citharae noxque Venusque iuvant. I Tutius est iacuisse toro, tenuisse puellam, l Threiciam digitis increpuisse lyram, l quam manibus clipeos et acutae cuspidis hastam / et galeam pressa sustinuisse corna (vv. 113-120); viene ricantata, fra l'altro, la programmatica predicazione dell'otium elegiaco che gli Amores di Ovidio svolgevano in termini quasi identici: tutius est fovisse torum, legisse libellum, I Threiciam digitis increpuisse lyram (2, 11, 31 sg.). Iacuisse toro, tenuisse puellam ricorda un momento marcato della poesia di Tibullo (1, 1, 46), là dove il lettore scopre perla prima volta che sta leggendo un poeta d'amore. Se guardiamo alle origini del servitium amoris, dobbiamo riconoscere a questa concezione una carica di anticonformismo, di libertà, di lotta ai condizionamenti della convenzione sociale; ma questa lotta alle convenzioni — qui sta il revisionismo elegiaco di Ovidio — ha depositato anch'essa una convenzione letteraria e ha ormai come uno spessore acquisito. Se il servitium o la militia amoris sono diventati convenzioni o istituzioni, se ne potrà mostrare la relatività, quella parzialità che il codice elegiaco dovrebbe per sua natura sottacere.

15 Su queri, querimonia e simili come designazioni dell'elegia (talvolta connotative e spesso, in pratica, tecniche) v. p. es. S. Hinds, The metamorphosis of Persephone. Ovid and the self-conscious Muse, Cambridge 1987, p. 103 sg. (con bibliografia); A. R. Baca, The themes of Querela and Lacrimae in Ovid's Heroides, «Emerita» 39, 1971, p. 195 sgg. (piuttosto deludente).

tu dominus, tu vir, tu mihi frater eras.

È ben noto il successo di queste formule in ambito erotico-elegiaco. Sempre alla ricerca di un'iperbole dei sentimenti consueti, il poeta allarga l'impero della sua domina a spese di ogni altra relazione affettiva: tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes (Prop. 1,11,23). Più o meno mediatamente, queste enumerazioni 'sostitutive' risalgono tutte a una famosa scena omerica. È l'amore coniugale di Andromaca per Ettore, reso memorabile dall'enumerazione «tu sei mio padre, mia madre, mio fratello, il mio fiorente compagno» (Il. 6, 429-30): 'Extop, &Tàp ov µoí èoot. natìip xaì ,nótvta µr)TT)p i1Sè xaaíyvrlto5, ov Sé !WL *cascò; napaxo(trig...

È difficile e forse anche secondario stabilire fino a che punto i poeti

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d'amore siano sensibili alla persistenza del modello omerico.1ó Ma è almeno legittimo ricordare che il gesto passionale e patetico fu creato per una figura femminile, isolata in un mondo di eroi guerreggianti. E notevole che il poeta innamorato scelga come suo modello l'eros di Andromaca; per quanto, la stessa fortuna e diffusione del cliché poteva stemperare il riferimento, renderlo più generico. Però Ovidio ha una memoria poetica molto letterale: ricorda la battuta di Andromaca, e anche il contesto omerico, la vera originaria motivazione di quelle audaci parole. Spesso la fortuna di una Pathosformel è legata a una giusta dose di dimenticanza, e il sublime nasce da una caduta di verosimile. In Omero, Andromaca si esprime così perché, di fatto, non ha più né padre né madre né fratelli. La guerra li ha inghiottiti e lo sposo Ettore è, letteralmente, tutto il suo mondo. Oltre la possibile, temuta perdita di Ettore, Andromaca intravede un totale annientamento, schiavitù e desolazione. Questo destino di Andromaca, nell'Iliade è solo tragicamente presentito. Di faccia ai timori delle donne troiane, solo un personaggio si presenta come concreto anticipo di questo destino. E la prigioniera di guerra Briseide, che come Andromaca ha perso tutti i suoi cari nella distruzione della patria, e in più, come Andromaca teme per sé, ha sofferto la morte del legittimo sposo e la condizione di schiava. Già entro l'intreccio del poema Briseide, nel lamento sul cadavere di Patroclo, presenta al lettore la proiezione del destino di Andromaca. Dopo il lamento di Briseide, Andromaca conoscerà ancora una parte di questo destino: vedrà cadere il marito: l'ultimo tratto di similarità — distruzione della città, ratto, e destino di schiava — cade al di fuori della trama omerica, ma non per questo è meno prevedibile e incombente. Sembra quindi che tra Briseide e Andromaca già esistesse come un naturale parallelismo, un facile passaggio di idee e di motivi. Ma il trasferimento della formula patetica ha per il testo di Ovidio implicazioni paradossali. Possiamo vederle rispecchiate nel destino tragico di un terzo personaggio, certamente familiare a Ovidio: Tecmessa, nell'Aiace di Sofocle.17 Tecmessa si trova, nel cuore del dramma,

in situazione simile alla Briseide ovidiana. È schiava di guerra e concubina, e deve far valere le sue ragioni di moglie senza esserlo, da un'angolazione subordinata. Così, il suo disperato appello ad Aiace comincia dalla cruda parola `padrone', w SéanoT'Aias: e la Briseide di Ovidio inizia (vv. 5-6) e sigilla (v. 154) la lettera chiamando Achille dominus. Come la Briseide ovidiana, Tecmessa è angosciata da un futuro speculare a quello che ha già sofferto. Ciò che la aspetta, se Aiace viene a mancare, è una replica del passato. A questo punto, Sofocle provoca il confronto con Andromaca. Ogni lettore della scena, l'appello di Tecmessa ad Aiace, sente nella forte costruzione patetica un richiamo al sesto dell'Iliade. Le somiglianze sono significative e volute — l'appello di Tecmessa, la visione angosciosa del futuro, lo spavento del figlioletto lì presente al dialogo — e lo sono anche le diversità: Tecmessa non è una legittima sposa, Aiace non è più un vero eroe omerico, atteso da un `naturale' destino di guerriero. Perciò è anche significativo ciò che Sofocle ha tralasciato nel modello omerico, provocando il confronto, e fermandolo ad un certo punto, `prima' che Tecmessa possa pronunciare la famosa battuta di Andromaca. I più attenti interpreti di Sofocle usano sottolineare questo `arresto' della struttura allusiva: «come potrebbe dire Tecmessa ad Aiace `tu sei per me padre, madre, fratello, marito', quando la desolazione della sua famiglia, se anche non materialmente la morte di suo padre e di sua madre, risalgono all'opera di Aiace?» ... «Sarebbe disumano che Tecmessa amasse tanto chi le aveva ucciso i genitori» ... «Sophocles is probably thereby avoiding the special horror of the idea that Tecmessa has been cohabiting with the man who killed her father».18 È il pubblico di Sofocle che deve integrare il movimento intertestuale, scoprendo la crudele differenza che divide Tecmessa e Andromaca. Tecmessa, sotto il peso di una lacerante tensione, vive il già tragico modello di Andromaca senza poterlo fiduciosamente `riempire'; resta come al di sotto. Ovidio chiude il cerchio, e porta la sua Briseide — oltre i limiti segnati dal tatto drammaturgico di Sofocle — a esplorare una vera e propria `perversione' del modello omerico. Ogni singolo dato narrati-

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V. soprattutto P. Fedeli nel comm. a Properzio 1 (11,23), Firenze 1980, p. 282, che considera con molta cautela l'efficacia diretta del modello omerico sulle formulazioni degli elegiaci romani. Altre applicazioni importanti del motivo sono p. es. Aesch. Choe. 235-45; Ap. Rh. 4,369 sg. 17 Una certa analogia tra la Briseide ovidiana e Tecmessa è stata vista con acume da L. P. Wilkinson, in AA.VV., L'influente grecque sur la poésie latine de Catulle d Ovide, Vandoeuvres-Genève 1956 (Entr.Hardt II), p. 229 n. 3.

18 Cfr. rispettivamente G. Paduano, Tragedie e frammenti di Sofocle, I, Torino 1982, p. 195 n. 32; Due seminari romani di Eduard Fraenkel, a cura di L. E. Rossi, Roma 1977, p. 15; P. E. Easterling, The Tragic Homer, «Bull. Inst. Class. Stud.» 31, 1984, p. 4; inoltre è da vedere il bel lavoro specifico di G. M. Kirkwood, Homer and Sophocles' Ajax, in «Essays presented to H. D. F. Kitto», London 1965, p. 51 agg.

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vo rimane, come si è visto, sotto esplicita responsabilità di Omero: è Omero a raccontare la cruda realtà che Achille si è presa Briseide uccidendo i suoi cari. Ma la Briseide di Ovidio implora Achille per la spada stessa che li ha trafitti; in un caso del tutto simile, Tecmessa si limitava a supplicare Aiace per il «letto» che l'ha unita a lui. Restando perfettamente fedele ad Omero, Ovidio scopre nell'Iliade la chiave di una riduzione della convenzionalità. La sua versione, così rispettosa, è già perversione, proprio perché il topos, esemplare epico rivissuto come Pathosformel dalla tradizione elegiaca, si rivela ora troppo concretamente adeguato alla situazione vissuta. Allo stesso modo, tradizionali espressioni elegiache — non solo «tu sei tutta la mia famiglia», ma anche «ti seguirò in capo al mondo», «sono al tuo servizio», «tu sei il mio vincitore» — vengono ora rimotivate e subiscono una riduzione di scarto, che le riporta dall'iperbole sentimentale alla descrizione di uno stato di fatto. Vedremo ora cosa succede al più illustre di questi topoi: «io muoio d'amore». 7. Ci è ormai chiara l'importanza che, in epistole come la prima o la terza, assume lo status tradizionale delle eroine. Si tratta di personaggi epici noti all'elegia come paradigmi: gli elegiaci si fondano appunto sulla provenienza `esterna' dei personaggi per poi operare un'assimilazione al contesto elegiaco; e il paradigma assume valore proprio per il suo essere convocato 'da fuori', da un mondo letterario diverso e preesistente. Ovidio sfrutta questa traccia per lavorare sulla compresenza di mondi diversi; l'indugio fra i codici dell'elegia e dell'epos è appunto lo spazio letterario di queste epistole, e la compresenza dei codici ne svela insieme i poteri (cioè gli specifici campi di influenza)19 e la natura convenzionale, relativa. Ma non tutti i

personaggi delle Heroides, e nemmeno tutti i personaggi epici, si prestano a questo gioco. Didone, ad esempio, non è (almeno, non ancora) un paradigma: piuttosto, è un personaggio della poesia d'amore. Scegliendo un modello romano, e un modello non ancora paradigmatico, così vicino nel tempo, Ovidio ha rischiato più del solito e, a giudicare da molti suoi critici o semplici lettori, ha pagato con uno scadimento di qualità. Certamente l'epistola VII risulterebbe, in un'improbabile inchiesta, fra le meno amate dell'intera raccolta. Si può pensare che, come il grande Omero, anche il sublime Virgilio del IV libro potesse offrire una 'giusta' resistenza: ma — anche se tra la Didone epica e quella epistolare entrano in gioco vivaci scarti di livello — la difficoltà, per Ovidio, è un'altra: in un certo senso, il modello epico ha già preso l'iniziativa che spetterebbe alla poetica delle Heroides, e Ovidio è stato prevenuto. Non c'è dubbio che la riscrittura debba, anzitutto, ribassare tutte le punte sublimi, cioè, essenzialmente, tragiche del modello virgiliano: e questo programma viene eseguito con scrupolo. Nessuno dei momenti `alti' in cui si consuma la vocazione tragica di Didone viene rispettato da Ovidio: la settima epistola verifica e contrario quant'era importante, per l'eroina di Virgilio, trovarsi ad essere o sentirsi via via (e in termini molto letterali, allusivamente precisi) come Fedra, Medea, Alcesti, Penteo, Aiace, Andromaca, Elena, Evadne. Liberata da questi riferimenti, Didone è davvero un personaggio diverso. Ma la Didone virgiliana non è solo un personaggio epico a 'vocazione' tragica; ha già assorbito, almeno in una certa misura, quei veleni propriamente elegiaci che Ovidio (come ormai sappiamo) destina alla sue eroine.20 E questo assorbimento che danneggia il lavoro di assi-

19 Un esempio istruttivo di queste delimitazioni di campo e di pertinenza è l'uso che l'epistola di Briseide fa dell'ambasceria ad Achille in Iliade IX. Briseide si ripromette fiduciosamente di riuscire a convincere Achille là dove gli ambasciatori achei hanno già fallito (per l'atteggiamento di Briseide cfr. Tarpea in Prop. 4, 4, 59-60). Dapprima vengono enumerate con grande precisione letterale tutte le promesse che Agamennone ha avanzato per rappacificarsi (vv. 27-38); ma Briseide sottolinea che lei sola ha le armi (naturalmente elegiache: le braccia intorno al collo e il contatto degli occhi, vv. 131-2) per convincere Achille. Fin qui i due mondi sono giustapposti. Ma c'è un argomento usato dagli ambasciatori omerici che propriamente 'invade' il campo di Briseide: intendo l'apologo di Meleagro che, come sappiamo, Fenice ha usato invano per ammansire Achille. I critici omerici hanno spesso notato, fin dall'antichità, che si tratta di un esempio un po' strano: propriamente, abbiamo qui la storia di un eroe che rifiuta qualsiasi offerta per tornare a

combattere — ciò che appunto farà anche Achille. L'esempio ha quindi in sé il segnale dell'insuccesso. Ma Fenice stesso racconta che l'unica persona capace alla fine di piegare Meleagro fu la sua amatissima moglie Cleopatra. L'apologo è quindi 'più giusto' in bocca a Briseide, che può tracciare un chiaro parallelo fra sé e Cleopatra e richiamarsi all'efficacia dell'amore (vv. 91 sgg.). Sappiamo altrettanto bene che il mondo dell'epica avrà poi la sua rivincita: Achille tornerà a combattere non per i begli occhi di Briseide ma per motivi squisitamente epici (vendetta eroica, restaurazione del proprio onore di guerrietoi. 20 I problemi posti dall'enclave erotico-elegiaca del libro IV nel contesto epico dell'Eneide corrispondono a una zona nevralgica della poetica (li Ovidio: la questione è sino a che limite si possa 'forzare' l'epica verso altri generi senza che ne sia smarrita l'identità, e diventerà cruciale, ovviamente, quando Ovidio concepisce le Metamorfosi (buone osservazioni in S. Hinds, The rnetamorphosis of Persephone.

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milazione. Sappiamo che per questa storia d'amore epica Virgilio ha forzato all'estremo l'apertura del suo epos: tragedia, lirica erotica, epigramma, poesia d'amore ellenistica, forse persino commedia, e di sicuro anche elegia romana, hanno portato il loro contributo. Non si tratta solo di materiali compositivi; Didone non solo vive situazioni da elegia ma (è più importante, nella struttura del racconto) a tratti parla con linguaggio erotico ed elegiaco; proprio in questo è drammaticamente chiara la sua scissione interiore e la sua impossibilità a dialogare con Enea. Il grande spazio che Didone ha nel testo epico è uno spazio, più che di azione, di autoespressione; è naturale che nell'Eneide non esista qualità di voce più `soggettiva' della sua. Possiamo collegare a questa idea il dato quantitativo che Didone parla molto: un dato interessante anche per Ovidio. Nell'arco del suo libro Ovid and the self-conscious Muse, Cambridge 1987, p. 133 sg.). Nei Tristia Ovidio ha un indimenticabile epigramma sulla `provocazione' rappresentata da Eneide IV: il contesto è vincolato, come è noto, alla difesa dell'Ars amatoria, ma la formulazione va certamente oltre l'occasione specifica: et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor contulit in Tyrios arma virumque toros, nec legitur pars ulla magis de corpore toto, quam non legitimo foedere iunctus amor (tritt. 2, 533-36) L'effetto `avvolgente' della coppia Tyrios...toros (il plurale è pungente, cfr. P. Maas «Arch. Lat. Lex.» 1902, p. 499) ha da un lato evidenti suggestioni erotiche (potenziate, più che da un eventuale, trito calembour su arma, dalla vaga fisicità del successivo pars...de corpore), dall'altro introduce a un paradosso letterario: la storia epica (arma virumque) è come abbracciata, inquadrata, dall'eros cartaginese, ma è anche vero, all'inverso, che questa storia d'amore (così fortunata) è propriamente solo una parte subordinata nel grande `corpo' dell'epos. Va notata anche la polivalenza di arma virumque, che è insieme incipit segnaletico dell'Eneide, indice metaletterario (l'epos eroico: v. G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario. Torino 19852, p. 47 sgg.), e allusione (ironica perché ineccepibilmente letterale) a un episodio del Libro IV. Non solo l'eroe è stato nel letto di Didone, ma vi ha dimenticato, fatalmente, le sue armi, e Virgilio ne fa menzione proprio con il cliché `epico-eroico' arma vir-:

Didone ha voce diretta per più di 180 esametri — e a questo corrisponde, in Ovidio, un'epistola lunga poco più di 190 versi (una lunghezza non comune nelle Heroides). Il bilanciamento delle misure fa riflettere. L'iniziativa epistolare di Ovidio rischia di soffocare, ma per eccesso di stimoli. La Didone virgiliana già offre quasi tutto l'occorrente. Spesso non c'è che da declinare il modello: Virgilio dice uritur, e la nuova Didone uror (4,68; v. 25). Ma qui la riduzione delle convenzioni è già in agguato. Uror ut inducto ceratae sulphure taedae, con la sua inattesa, piromaniaca fisicità, ci ricorda che il fuoco d'amore si avvia ormai a diventare, fuor di metafora, un triste falò, cfr. Aen. 4,504 s. at regina, pyra penetrali in sede sub auras I eretta ingenti taedis atque ilice setta...; e così la delicata, graduale progressione di Virgilio (dalle prime metafore di passione incendiaria sino al rogo fatale) viene compressa, riassunta in un emblema che ne denuncia le matrici elegiache.tt Non diversamente l'immagine conclusiva (191 s. nec mea nunc primum feriuntur pectora telo; l ille locus saevi vulnus amoris habet) condensa in epigramma la sottile progressione per cui, in Virgilio, la ferita d'amore (annunciata già in 4,1 saucia) finisce per trasfigurarsi nella realtà della spada infissa nel petto. Così la poetica epistolare, che per sua natura `comprime' il flusso delle enunciazioni narrative, elabora il testo virgiliano mettendone a nudo certe potenzialità elegiache. Più spesso ancora, i grandi discorsi patetici del quarto libro virgiliano offrono modelli grammaticalmente e retoricamente già orientati. La riduzione monologica ha i suoi consueti effetti, che già abbiamo familiari: non solo tutto è riportato al punto di vista di Didone, ma siamo indotti a partecipare al processo di ricreazione soggettiva che il monologo impone alle vicende già note. Rispetto alla struttura dell'Eneide, è notevole più che altro la soppressione di quella voce narrativa che controllava tutto, e interveniva a compensare empatia e simpatia, voce del personaggio e

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... arma viri, thalamo quae fixa reliquit impius, exuviasque omnis lectumque iugalem... (4. 495 sg.) Quanto all'idea di `mettere a letto' le armi eroiche, non escludo un riferimento ironico in più. Nel più famoso annuncio dell'Eneide offerto dalla poesia augustea, Properzio (2,34,63) aveva presentato un Virgilio qui none Aeneae Troiani suscitat arma: `mettere a letto' è giusto l'opposto di suscitare `risvegliare' (oltre che 'mettere in moto').

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Sui campi metaforici `fiamma' e `ferita' nel IV libro v. da ultimo Ph. Hardie, Virgil's Aeneid: Cosmos and lmperium, Oxford 1986, p. 232 (che cita la bibliografia più importante). Sulle implicazioni dell'ultima battuta di Didone (4, 661 s. hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto l Dardanus) cfr. la fine interpretazione di R. O. A. M. Lyne, Further voices in Vergil's Aeneid, Oxford 1987, p. 48; v. anche 5, 4 s. quae tantum accenderit ignem / causa latet... In Ovidio lo spostamento da uritur al `programmatico' uror (cfr. Amores 1, 1.26) è limpido indice di uno sconfinamento: da un'epica a tendenza elegiaca verso un'elaborazione elegiaca di temi epici.

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istanza del fato.22 Ma, appunto, già l'Eneide ci aveva abituato a una forte voce soggettiva, capace di imporre irriducibili scarti: Enea empio, e la sua missione insensata e vuota; scarti che suonano molto più decisi nell'Eneide, nel contesto formato dalla voce del narratore e dalla solidarietà del fato. La vacillazione del vero indotta dal monologo ovidiano non raggiunge, perciò, gli effetti di altre epistole. `Almeno avessi un piccolo da te' (Virgilio) sovrasta, per forza e autonomia visionaria, il tanto criticato `potrei essere incinta' di Ovidio. Ci ritroviamo così a rimpiangere certi effetti di sospensione, di ironia, di lavoro sulle convenzioni, che ci erano apparsi dominanti nelle epistole `omeriche'. Ma c'è pur sempre un altro aspetto da esplorare, e ha a che fare, ancora una volta, con il `tempo' dell'epistola e con quello del suo modello. Le tabelle comparative di modelli e prestiti non godono più di buona stampa, ma uno sguardo alla sequenza dei modelli virgiliani avrebbe ancora molto da insegnarci. Se ne deduce, intanto (ma non è un rilievo sorprendente), che Ovidio trova modo di riproporre non solo i dati principali della narrazione virgiliana, ma anche tutte le principali `prese di parola' che Didone aveva nel corso del quarto libro. Lo spazio continuo dell'epistola affianca citazioni, variamente esatte, da tutti i discorsi e monologhi di Didone. Inutile sottolineare che questo campionario è ridistribuito in un monologo epistolare in sé continuo, omogeneo e coerente. L'impressione, se mai, è che l'epistola ovidiana riesca ad essere più continua e coerente di un qualsiasi suo discorso-modello: le oscillazioni psicologiche, i ragionamenti `a spirale', gli 'Auf- und Ab-' elegiaci o drammatici, sono certamente più marcati in Virgilio che in Ovidio. Tuttavia, per un lettore che ricorda Virgilio, l'effetto è comunque paradossale. In uno spazio continuo vediamo sfilare — senza che sia rispettata la localizzazione originaria, e la disposizione progressiva, dei singoli prelievi! — una serie di loti famosi, che siamo abituati a collegare con singoli contesti, variamente motivati dal corso dell'azione epica e dallo sviluppo psicologico (minacce e blandizie, speranze e propositi di suicidio). Ne deriva già una prima lezione di relativismo. Conviene anche chiedersi se esiste, nel modello, una sorta di blank che legittimi l'inserzione della lettera (una verifica che si era

rivelata utile per le epistole `omeriche'). La narrazione virgiliana, incalzante e continua, non lascia prevedere spazi adatti, ma un possibile punto d'intersezione c'è, ed è stato individuato da tempo:23

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G. B. Conte, Saggio d'interpretazione dell'Eneide: ideologia e forma dei contenuti, « MD» 1, 1978, p. 34 sgg. = Virgilio. /l genere e i suoi confini, Milano 1984, p. 82 sgg.

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ire iterum in lacrimas, iterum temptare precando cogitur et supplex animos summittere amori ne quid inexpertum frustra moritura relinquat. (4, 413-15) Virgilio fa seguire un discorso indirizzato ad Anna, che dovrà poi più volte riferire i messaggi (cfr. 4,237 sg. talisque miserrima fletus / fertque refertque soror). La possibilità di un'epistola risulta, qui, persino plausibile. Ed è naturale dedurre da qui la tonalità dominante dell'epistola, che sarà in effetti supplichevole e dimessa (supplex animos summittere amori; cfr. 424 i, soror, atque hostem supplex adfare superbum),24 nonché naturalmente l'inquadratura `nafrativa' (Enea ha già deciso di partire subito). Inoltre, la ripetitività che è indiziata dal testo virgiliano (4, 413 ire iterum in lacrimas, iterum temptare...; 4, 438 fertque refertque soror; 4, 447 adsiduis hinc atque hinc vocibus) è certo una buona giustificazione per le insistenze della Didone ovidiana; e forse tutta la lettera va immaginata sotto il segno di un commento illustre — il verso che in Virgilio precede direttamente ire iterum in lacrimas... Quid non mortalia pectora cogis è una buona risorsa per Ovidio, che forse già si aspetta, del tutto ragionevolmente, aspre critiche per la disponibilità umiliata e la totale arrendevolezza della sua Didone. Insomma, la lettera non è solo un'intersezione rispetto al testo epico di Virgilio: esprime anche la ricerca di un preciso `luogo' elegiaco entro la continuità del racconto virgiliano. Improbe amor... La reazione del narratore, con la sua `fermata' simpatetica imposta al racconto, già denuncia il trapasso verso una zona di confine. In questa zona nevralgica i ripetuti messaggi d'amore, carichi di obsequium, vanno a sfiorare i limiti del mondo elegiaco: temptare precando. La funzione di Anna come messaggera d'amore è già, potenzialmente, un tratto elegiaco (che subito, non a caso, il

23 P. es. nella nota introduttiva all'epistola, nel commento di Arthur Palmer (Oxford 1898 = Hildesheim 1967, p. 339). 24 In questa stessa chiave, forse, il cigno (con cui Didone si identifica ex abrupLo al principio dell'epistola) viene rappresentato come abiectus (cfr. E. J. Kenney, in Cambridge History of Classical Literature. //. Latin Literature, Cambridge 1982, p. 424): il termine ha le connotazioni «demoralizzato, abbattuto» e anche »umile» (non solo di persone. ma anche di stile letterario!).

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narratore limita e trasvaluta: miserrima è un vigile richiamo verso il severo codice tragico che incombe sulla vicenda): ... miserrima... fertque refertque soror; c'è qui un'assonanza leggera, ma non inutile, con i moduli tipicamente elegiaci del go-between che tiene a contatto gli amanti: tabellas... portans i t q u e r e d i t q u e (la mezzana di Tibullo, 2,6,46); [quaerere] quas ferat et referat sollers ancilla tabella, (Ovidio stesso, in am. 2,20,41): solo che qui refert non deve, come nel cliché elegiaco, implicare una risposta, ma una ripetizione unilaterale. La comunicazione elegiaca resta solo incipiente, e il racconto virgiliano si svia altrove. L'intersezione con il modello è anche un modo di anticipare le obiezioni e le risposte emotive del lettore: problemi di verosimile, e soprattutto indignazione (che nel corso dei secoli non è mancata) per le pesanti umiliazioni (una versione peggiorata dell'obsequium elegiaco) inflitte all'eroina virgiliana. Ovidio sembra insinuare che ha colto la sua Didone «al punto più basso» nel diagramma della storia: inutile protestare se la regina ha pochi sussulti di dignità e, ad esempio, invece di maledire Enea, si augura (secondo modi tipici del propempticon elegiaco) di non avergli, con i suoi appelli, augurato un naufragio.25 (Questione di psicologia o di situazione? Esiste per così dire un personaggio alternativo, un'altra Didone, o è il dialogismo proprio della lettera che impone le sue strategie? La poetica delle Heroides implica questa oscillazione, ma non intende risolverla). Tuttavia, l'effetto della strategia epistolare non può fermarsi qui. Non stiamo, dopotutto, leggendo un nuovo discorso della Didone virgiliana (quasi un super-monologo che li contiene tutti), ma una lettera, un gesto comunicativo che proietta intorno a sé l'ombra di una situazione, di una strategia, di un intento preciso. Possiamo riferirci, in Virgilio, solo ad un accenno di intenzione, ed è, fra l'altro, un verso piuttosto problematico: ne quid inexpertum frustra moritura relinquat.

8. Ma l'epistola ovidiana fornisce da sé indicazioni migliori. Possiamo cercarle anzitutto nel frontespizio e nell'explicit. La lettera si chiude con l'imago di Didone che scrive tenendo pronta in grembo la spada troiana, ed è sigillata da un epitimbio in piena regola (v. 197 praebuit Aeneas et causam mortis et ensem...; per il gioco sulla spada `dimenticata' v. sopra, n. 20); e si apre, addirittura, con la promessa di un canto del cigno:

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25 La conversione del motivo dimostra non tanto un ethos diverso (la Didone ovidiana sarebbe «più mite» dell'altra) quanto piuttosto un adeguamento al fine pragmatico della lettera, la Werbung. Per il confronto con i modi del propempticon elegiaco v. p. es. Prop. 1, 8, 17 (richiamato da J. Adamietz, «Wúrzb. Jahrbb.» N.F. 10, 1984, p. 125). Solo leggermente diversi sono i casi in cui l'amante esplicita la sua invettiva contro la persona che parte (con accuse di infedeltà, appelli agli dei etc.) e poi ritratta per paura di attirare tempeste sulla navigazione della persona amata. Questo modulo tipicamente elegiaco è riutilizzato ad es. nell'epistola di Laodamia, che è incernierata su un cambiamento di tono molto netto (v. 132 sed quid ago? revoco? revocaminis omen abesto!); v. anche her. 2, 135-38.

sic ubi fata vocant, udis abiectus in herbis ad vada Maeandri concinit albus olor.2ó

Il motivo segnala, con la massima chiarezza desiderabile, che Didone sta pronunciando i suoi ultima verba in un clima di assoluta disperazione; ne faceva simile uso Apollonio Rodio, in un passo che forse, per qualche specifica somiglianza (lo scenario di erba umida, le rive del fiume che fanno eco), può essere stato direttamente presente a Ovidio. Medea e le sue compagne, quando la morte appare sicura, intonano un lamento di morte (Arg. 4,1300-1303): tl óts xczÀa vecovto5 én' ógpvot IlaxtwÀoio xvxvot xtvrlaovaty éòy µéXog, àµgì Sè Xetµtóv égor)et; (3pépetat notaµoió te xaià pée$ea...27 La convenzionalità del motivo suggerisce, nel quadro della poetica `epistolare' di Ovidio, una lieve dissonanza. Certo, se si guarda al testo di Virgilio, questa Didone disposta a morire non appare certo 26

L'inizio della lettera pone gravi problemi di testo, che qui ci toccano in modo molto marginale. L'autenticità dei versi che Dtirrie numera 1/2 (omessi da tutti i codici principali tranne uno) è fortemente dubbia, anche per motivi di lessico; soprattutto lascia perplessi che Didone chiami la sua lettera carmen; anche accettando un influsso del distico successivo (il carmen del cigno), l'espressione non ha paralleli nelle Heroides (salvo quando l'autrice è Saffo! cfr. 15,6). Dato che il testo autentico difficilmente poteva cominciare con un sic ubi... (v. 3 Dórrie), si sono prodotti notevoli sforzi per difendere la genuinità di 1-2 (cfr. in particolare E. A. Kirfel, Untersuchungen zur Briefform der Heroides Ovids, Bern 1969, p. 61 sgg.). Dal nostro punto di vista, è interessante che il distico incriminato contenga espressioni come moriturae e ultima verba; ma anche eliminando questi versi, l'immagine del cigno (certamente autentica) mantiene tutto il suo valore di frontespizio programmatico. 27 Per l'elevatezza tragica (in questo contesto, in realtà, melodrammatica) dell'espressione, si noti che fata vocant è nesso virgiliano (Aen. 10,471) e che il corrispondente greco xaXei i etitapµévt) è definito »espressione da poeta tragico» in Platone, Fedone 115 A; inoltre, l'immagine del cigno che presagisce la propria fine ha alcune illustri attestazioni nella tragedia greca (importanti le osservazioni di Wilamowitz a Eur. Her. 110 e di Fraenkel a Aesch. Ag. 14.44 sg.).

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una novità. In questo senso vanno non solo gli ultima verba della Didone virgiliana, ma anche, come è noto, un accenno contenuto nelle sue prime parole, la prima battuta rivolta ad Enea nella crisi del IV libro: ...nec moritura tener crudeli funere Dido? (v. 307). Non si può essere più virgiliani di così: moritura è il tema conduttore di questo personaggio, e spetta al lettore avveduto distinguere via via, nelle varie stazioni del dramma, lo scarto decrescente dell'ironia drammatica — moritura è prima commento del narratore, poi voce del personaggio, che si gradua da slancio emotivo, a coscienza albeggiante, a lucida disperazione, a concreta decisione di darsi la morte. Diremmo allora che Ovidio ha condensato, secondo i modi della poetica epistolare, lo sviluppo di una complessa e delicata isotopia narrativa. La decisione di comporre gli ultima verba epistolari dell'eroina ci invita a considerare più attentamente i novissima verba della protagonista virgiliana. Didone muore (definitivamente) così:

Il canto del cigno si rivela così un incremento di illusione. Come tutte le altre Heroides, questa lettera già si presenta dotata di un alone illusorio: è inefficace, perché già la misuriamo col suo esito, ed è scritta nel momento sbagliato, quando tutto è già successo. Ma, mentre il contesto del mito condanna e annulla l'intenzione pragmatica, la stessa intenzione finisce per demistificare l'esplicito inquadramento della lettera, che è l'annuncio di una fine. Dopo la calcolata incertezza di ne quid inexpertum frustra moritura relinquat, lo sviluppo narrativo virgiliano prevede che Didone — nella celebre Trugrede — mascheri con un tentativo d'altra natura (la magia che dovrà risolvere, o restituire, il suo rapporto con Enea) la propria decisione di uccidersi: novis p r a e t e x e r e f u n e r a sacris (4, 500). Ironicamente,29 Ovidio ha composto una lettera in cui la decisione di morire maschera, con ostentazione, il reale tentativo di convincere e riconquistare Enea. Pallida d'amore, invece che pallida morte futura, la regina rientra così per l'ultima volta in quel mondo elegiaco da cui Virgilio, facendo precipitare la sua vocazione tragica, l'aveva prematuramente esclusa.

«felix, heu nimium felix, si litora tantum numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae.» Dixit, et os impressa toro: «Moriemur... (4, 667-69) Questo tema d'addio alla vita diventa, nelle mani di Ovidio, un'ironica osservazione incidentale, nel corso di un'argomentazione persuasiva, il cui senso generale è «non è vero che un dio ti sta guidando verso un prospero futuro: rimani qui!»: «Sed iubet ire deus!» vellem, vetuisset adire Punica nec Teucris pressa fuisset humus. (vv. 141-42) Sarebbe inutile accumulare tutti i paralleli di questo tipo:28 ogni lettore non prevenuto riconosce che questa lettera non è in nessun modo l'annuncio di un suicidio: è invece, in ogni suo particolare, in ogni significativa declinazione e revisione del modello virgiliano, un tentativo di riconquistare Enea. (Il senso di colpa verso Sicheo, altro fattore del suicidio, viene smorzato con il sintomatico appello da veniam culpae; decepit idoneus auctor, v. 107). Lo spazio della lettera è quella tenace differenza che divide il `morir d'amore' dell'elegia dall'amor mortis del codice tragico. 28

L'idea che la lettera sia dominata da una sincera disposizione al suicidio è facilmente confutata da J. Adamietz, «Wiirzb. Jahrbb.» N.F. 10, 1984, p. 121

sgg.; buone osservazioni già in W. S. Anderson, in J. W. Binns (ed.), Ovid, London-Boston 1973, p. 49 sgg.

29 Sull'ironia di Ovidio come `esitazione' rispetto alle convenzioni dei vari generi v. Conte (cit. sopra, n. 7), p. 23 sg., con la bibliografia ivi citata, alle note 24 e 34.

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE I commenti a testi latini vengono citati in genere con il solo nome dell'autore e il passo a cui si riferiscono (ad esempio, Fedeli indica, a seconda del passo di Properzio citato, il commento al I oppure al III libro di questo autore). Austin

Axelson Bómer

CA

Citroni Della Corte

Dbrrie Fedeli

P. Vergili Maronis Aeneidos liber primus, with a commentary by R. G. Austin, Oxford 1971 P. Vergili Maronis Aeneidos liber secundus, with a commentary by R. G. Austin, Oxford 1964 P. Vergili Maronis Aeneidos liber quartus, with a commentary by R. G. Austin, Oxford 19632 P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, with a commentary by R. G. Austin, Oxford 1977 B. Axelson, Unpoetische Wórter. Ein Beitrag zur Kenntnis der lateinischen Dichtersprache, Lund 1945 P. Ovidius Naso. Die Fasten, Kommentar von F. Bómer, I-II, Heidelberg 1957-58 P. Ovidius Naso. Metamorphosen, Kommentar von F. mer, Heidelberg 1969 (1-3); 1976 (4-5); 1976 (6-7); 1977 (8-9); 1980 (10-11); 1982 (12-13); 1986 (14-15). Collectanea Alexandrina. Reliquiae minores poetarum Graecorum aetatis Ptolemaicae, edidit J. U. Powell, Oxford 1925 M. Valerii Martialis Epigrammaton liber primus, a cura di M. Citroni, Firenze 1975 F. Della Corte, Perfcdus hospes, in AA.VV., Hommages à M. Renard, Bruxelles 1969, I 312-21 (= Opuscula IV, Genova 1973, 29-38) P. Ovidii Nasonis Epistulae Heroidum, edidit H. Dórrie, Berlin-New York 1971 Sesto Properzio, Il primo libro delle Elegie, a cura di P. Fedeli, Firenze 1980

44 Fedeli Fordyce

Haupt-KornEhwald-von Albrecht Heinze Heinze, Ovids

elegische Erz¢hlung Hofmann

Hollis H.-Sz. Housman Housman CP Hross Jacobson Jocelyn

KiesslingHeinze

Kirfel Knox Kroll

EPISTULAE HEROIDUM

Sesto Properzio, Il libro terzo delle Elegie, a cura di P. Fedeli, Bari 1985. Catullus. A commentary by C. J. Fordyce. Oxford 1961 P. Vergili Maronis Aeneidos libri VII-VIII, with a commentary by C. J. Fordyce, edited by J. D. Christie, Oxford 1977 P. Ovidius Naso Metamorphosen, Buch 1-VII, DublinZiirich 196911 ; Buch VIII-XV, Dublin-Ziirich 19700 R. Heinze, Vergils epische Technik, Leipzig-Berlin 19153 R. Heinze. Ovids elegische Erziihlung, in Id., Vom Geist des Rómerturns. Ausgew¢hlte Aufsàtze, herausgegeben von E. Burck, Stuttgart 19603, 308-403 J. B. Hofmann, La lingua d'uso latina, introduzione, traduzione italiana e note a cura di L. Ricottilli, Bologna 19852 Ovid. Metamorphoses Book VIII, edited by A. S. Hollis, Oxford 19832 Lateinische Syntax und Stilistik von J. B. Hofmann, neubearbeitet von A. Szantyr, Múnchen 1965 M. Annaei Lucani Belli Civilis libri decem, editorum in usum edidit A. E. Housman, Oxford 19272 The Classical Papers of A. E. Housman, ed. J. Diggle and F. R. D. Goodyear, Cambridge 1972 H. Hross, Die Klagen der verlassenen Heroinen in der lateinischen Dichtung, Diss. Miinchen 1958 H. Jacobson, Ovid's Heroides, Princeton 1974 The Tragedies of Ennius. The fragments edited with an introduction and commentary by H. D. Jocelyn, Cambridge 1967 Q. Horatius Flaccus, Oden und Epoden, erkliirt von A. Kiessling, besorgt von R. Heinze, Dublin-Ziirich 196813; Satiren, erklàrt von A. Kiessling, erneuert von R. Heinze, Dublin-Ziirich 1968í0; Briefe, erklàrt von A. Kiessling, bearbeitet von R. Heinze, Dublin-Ziirich 19708 E. A. Kirfel, Untersuchungen zur Briefform der Heroiden Ovids, Bern-Stuttga rt 1969 P. Knox, Ovid's Metamorphoses and the tradition of Augustan poetry, Cambridge 1986 C. Valerius Catullus, herausgegeben und erklilrt von W. Kroll, Stuttgart 19685

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

K.-S. Lyne

Me Keown NisbetHubbard

Norden Palmer

Pease Pfeiffer Pichon Platnauer Ross Sedlmayer Shackleton Bailey Skutsch Smith

Sii Triinkle

45

R. Kiihner-C. Stegmann, Ausfiihrliche Grammatik der lateinischen Sprache, I -Il, Leverkusen 19553 Ciris. A poem attributed to Vergil edited with an introduction and commentary by R. O. A. M. Lyne, Cambridge 1978 Ovid: Amores, edited by J. Mc Keown, I - II, Liverpool 1987; 1989 A commentary on Horace: Odes. Book I, by R. G. M. Nisbet and M. Hubbard, Oxford 1970 A commentary on Horace: Odes. Book II, by R. G. M. Nisbet and M. Hubbard, Oxford 1978 P. Vergilius Maro. Aeneis Buch VI, Stuttgart 19574 P. Ovidi Nasonis Heroides, with the Greek translation of Planudes, edited by the late A. Palmer (-L. C. Purser), Oxford 1898 Publi Vergili Maronis Aeneidos liber quartus, edited by A. S. Pease, Darmstadt 19672 Callimachus. Edidit R. Pfeiffer. Volumen I: Fragmenta, Oxford 19652 R. Pichon, lrzdex verborum amatoriorum, Paris 1902 M. Platnauer, Latin Elegiac verse, Cambridge 1951 D. O. Ross, Style and tradition in Catullus, Cambridge Mass. 1969 H. Sedlmayer, Critischer Commentar zu Ovids Heroides, Wien 1881 D. R. Shackleton Bailey, Propertiana, Cambridge 1956 The Annals of Q. Ennius, edited with introduction and commentary by O. Skutsch, Oxford 1985 The Elegies of Albius Tibullus, edited by K. F. Smith, Darmstadt 19782

Supplementum Hellenisticum ediderunt H. Lloyd -Jones P. Parsons, Berlin-New York 1983 H. Trúnkle, Die Sprachkunst des Properz und die Tradition der lateinischen Dichtersprache, Wiesbaden 1960

Verducci

F. Verducci, Ovid's toyshop of the heart. Epistulae Heroidum, Princeton 1985

Wilkinson

L. P. Wilkinson, Greek influence on the poetry of Ovid, in L'influence grecque sur la poésie latine, Entretiens Hardt 2, Vandoeuvres-Genève 1956, 223-256

46 Williams

EPISTULAE HEROIDUM

P. Vergili Maronis Aeneidos liber tertius, edited with a commentary by R. D. Williams, Oxford 1962 P. Vergili Maronis Aeneidos liber quintus, edited with a commentary by R. D. Williams, Oxford 1960.

(Tutte le altre opere rilevanti sono citate per esteso nel corpo del commento. Le riviste sono citate con abbreviazioni usuali, e con sigle usuali i più noti strumenti di consultazione quali Thesaurus, Oxford Latin Dictionary, Liddell-Scott-Jones, Lewis-Short, Ernout-Meillet, Realencycloptidie. Questa non è, com'è evidente, una completa bibliografia sulle Heroides, ma ne esistono di recenti e molto ricche, cfr. soprattutto Diirrie 19-42; M. L. Coletti in ANRW I1.31.4, 1981, 2385 sgg. e anche Jacobson 410-417).

NOTA DI PRESENTAZIONE DEL TESTO Dopo lunghi dilemmi, ho rinunciato ad accompagnare il testo con un apparato critico. Anche se non ho svolto lavoro nuovo sulla tradizione manoscritta, un apparato sarebbe stato ugualmente desiderabile come aiuto alla lettura e alla consultazione del commento. Il vero ostacolo è rappresentato proprio dai risultati dell'edizione di Dórrie, con il suo intento programmatico di rappresentare «conspectum... memoriae Ovidianae qualis erat ante hos DCC annos» (p. 5). Da un lato, come hanno sottolineato i recensori più impegnati, il robusto apporto di collazioni fresche è inquinato da molte sviste; e una revisione sistematica implicherebbe un rifacimento. Dall'altro, e questo è certamente un merito di Diirrie, la natura della tradizione esclude ormai il ricorso a sigle riassuntive e raggruppamenti familiari. L'apparato sarebbe fuori proporzione rispetto ai suoi modesti intenti. Perciò mi sono limitato a segnalare i punti più problematici attraverso un apparato senza sigle, che ha la pura funzione di attrarre l'attenzione del lettore e di rinviare alle note esegetiche (nelle quali, quando occorre, ho usato senza scrupoli le sigle di Diírrie). Un apparato così astratto — familiare ai lettori di Omero più che a quelli ovidiani — può sembrare paradossale, ma in un certo senso è un ritratto adeguato per l'anarchica trasmissione delle Heroides. Per comodità faccio seguire anche uno specchietto delle divergenze fra le mie scelte e quelle di Diirrie.

TAVOLA COMPARATIVA'

Dórrie 1,3

Troia iacet, certe 1,24 cineres 1,28 Troia fata 1,29 tiustiquet

Questa edizione Troia iacet certe, cinerem Troica fatta iustique

1,75 stulte meditor 1,103 tHaect faciunt 1,113 ut iam

stulte metuo

2,10 invita nunc et amante nocent

invita nunc es amante nocens

2,28 demeruisse meo? 2,142 iuvat

demeruisse meo. libet

3,18 redderet 3,30 blandas... preces

Hac faciunt ut tu

prenderet

3,44 meis 3,55 repellas

blanda... prece malis repellar

3,115 si quisquam quaerit

et quisquam quaerit

I: PENELOPE

Alla parete c'era anche la fotografia di una statua greca rappresentante Penelope seduta, con lo sguardo meditabondo e l'indice alzato. «A che starà pensando?» domandò Joyce. «Sta valutando i pretendenti» suggerì Budgen «cercando di decidere quale sarà il marito più docile». «Per me» disse Paul «sta dicendo: gli dò un'altra settimana». «La mia idea» disse Joyce «è che stia cercando di ricordarsi l'aspetto di Ulisse. Vedete, lui è stato via tanti anni, e a quel tempo non esistevano le fotografie». R. Ellmann, James Joyce Aut quid Odyssea est, nisi femina propter amorem / dum vir abest, multis una petita procis? Ov. trist. 2,375 sg.

Tra le divergenze non sono compresi errori di stampa e questioni di punteggiatura con limitate implicazioni di senso.

IA. R. Baca, Ovid's claim to originality and Heroides I, «Trans. Proc. Am. Philol. Alga.» 100, 1969, 1-10; E. Merone, La prima epistola delle Eroidi, Napoli 1974; Jacobson 243-276; D. F. Kennedy, The epistolary mode and the first of Ovid's Heroidea, «Clave. Quart.» 34, 1984, 413 sgg. i

Non abbiamo alcuna prova esterna che l'ordine tramandato delle Heroides risalga a un'iniziativa dell'autore, ma data la situazione l'onere della prova dovrebbe essere a carico di chi sostiene il contrario. Se la sistemazione attuale, con quattordici lettere singole (a questo fine è meglio prescindere dal problema di Saffo) seguito dalle 'doppie', deriva da una risistemazione ovidiana del materiale, diventa piuttosto vano chiedersi quale fosse la sequenza (o anche la consistenza) originaria delle epistole `singole' al loro primo comparire in forma di libro. Ma anche se quello che abbiamo è frutto di cure altrui, non c'è particolare motivo di sospettare che l'ordine originario di 1-14 sia stato alterato: per adattarsi a quale nuovo disegno? Se si tiene ferma la probabilità che l'ordine tràdito sia autentico, non c'è però da aspettarsi risultati clamorosi: la forma del libro non svela recondite ed esatte regole compositive (ma questo non sembra dimostrabile neppure per altri poeti augustei). Qualche spunto interessante emerge però dalla posizione di singole lettere, come ad esempio quella di Penelope. Se la lettera di Penelope davvero apriva la galleria delle eroine, alcuni tratti pertinenti possono apparire motivati, ad esempio: (a) la chiara struttura epistolare dell'esordio (cfr. anche n. a 1, 1),' comune a qualche altra lettera, ma comunque necessaria a chiarire, attraverso l'incipit, la struttura di un'opera letteraria dal genere ancora poco familiare, e non preceduta da alcun proemio; (b) il carattere più

Non mi pare che si possano trarre conclusioni simili dagli explicit delle lettere; né 14 né 15 (che potevano proporsi come finale della raccolta originaria di epistole `semplici') hanno segnali di congedo particolarmente marcati: a meno di considerare tale, su un livello quasi allegorico, il `salto' di Saffo a Leucade. Per quanto riguarda le epistole `doppie', non va sottovalutato che 21, l'ultima lettera di questa seconda serie, e ultima anche nella raccolta complessiva rappresentata dai nostri manoscritti, si conclude (caso unico nelle Heroides) con un marcato segnale explicitario, il più marcato possibile nello stile epistolare latino: `VALE!' (21, 250); cfr. tri,rt, 5, 13, 34.

52

53

PENELOPE

NOTA INTRODUTTIVA

`vero' di tutta l'inquadratura epistolare rispetto a quella di tutte, o quasi, le altre lettere (dove spesso scarseggia la credibilità, e la motivazione, della comunicazione epistolare); in questo senso, giustamente, Jacobson 276 «perhaps more than any other poem in the Heroides this one maintains the pretense of being a letter... Ovid took extra care to maintain formai illusions and adhere to formai techniques in this poem because of its important position as a gateway to the whole corpus. Once the reader is acclimated to the world of the Heroides and its assumptions, Ovid then feels able to cast away most of the moorings... »; (e) il fatto che Penelope è probabilmente (insieme a Didone che occupa. con il numero VII, un punto centrale del liber) la più famosa eroina della raccolta; (d) il carattere epicoantico del modello, l'Odissea (l'unico altro personaggio appartenente a questo strato, Briseide. è indubbiamente meno protagonista di lei I sembra conveniente ad aprire una serie in cui figurano personaggi di genere più `moderno' (tragedia, epica ellenistica, elegia, poesia romana). Per quanto riguarda l'esito della lettera, il fatto che sia positivo (anche se per nulla condizionato dal messaggio di Penelope; v. il saggio introd., p. 17) suggerisce una certa analogia con 8 e 14, le altre epistole di cui la nostra competenza mitologica lascia intravedere una conclusione positiva. D'altra parte è chiaro che Ovidio tende soprattutto alla variazione, distanziando fra loro ad es. epistole segnate da una morte imminente (2, 4, 7, 9, 11, 13 e forse 15) e epistole meno tragiche; epistole affini per sfondo «storico» (guerra di Troia in 1, 3, 5, 7 e 13); epistole rivolte a personaggi identici o contigui (Giasone 6, 12; Teseo 10, cfr. 2 e 4 a suoi figli). Se poi si accetta come genuina, e conclusiva della serie, l'epistola di Saffo, ne guadagna evidenza la progressione letteraria: dal mondo dell'Odissea a quella della (sia pure più antica e classica) poesia d'amore. In conclusione, la posizione dell'epistola non sembra casuale, anche se occorre essere prudenti nei collegamenti e negli schemi. Un certo interesse di Ovidio per i problemi di arrangiamento delle raccolte epistolari è del resto evidente là dove il poeta confessa di non aver pensato a un'artistica disposizione, in Poni. 3,9,53-4.

L'epistola è interamente modellata sull'Odissea, nel senso che nessun'altra fonte è necessaria a comprendere i fatti esposti o presupposti — alcune divergenze, per lo più spiegabili o veniali, sono discusse nelle note ai vv. 15-16; 37-40; 61-65; 91; 99-100. La puntuale conoscenza dell'Odissea che Ovidio presuppone nel suo pubblico (più che in qualsiasi altra lettera tranne la VII dove, ovviamente, l'Eneide è presupposta ancora più intensamente) porta a una divertente suggestio falsi per quanto riguarda la collocazione dell'epistola `dentro' l'Odissea (cfr. il saggio introd., p. 15 sgg.). Nello stesso tempo, però, il tono della lettera sarebbe incomprensibile per chi ignora lo spessore paradigmatico che la figura di Penelope ha accumulato nella storia della sua fortuna. Anzitutto il personaggio si presenta nella sua esemplarità, quell'esemplarità che soprattutto l'elegia romana ha consolidato; reciprocamente, Penelope è guardata `attraverso' l'elegia romana, con movimento inverso al precedente. La sua esemplarità, come la famosa tela, viene costantemente costruita e `decostruita'. Il personaggio di moglie ideale che era servito da ammonimento a tante puellae moderne tende ora, in una certa misura, a vedere se stessa come una moderna puella. In secondo luogo. Ovidio avrà tenuto presenti due modelli specifici: Properzio 3, 12 e 4, 3.3 Si tratta dei due testi con cui Properzio ha fatto di più per aprire la strada alle Heroides: l'eroide di Aretusa a Licota, anzitutto (4, 3), ma anche l'apostrofe del poeta a Postumo che è andato a combattere lontano lasciando la moglie in lacrime (3, 12). Entrambe queste elegie hanno chiare affinità con il genere epistolare delle Heroides (4, 3 ne è addirittura un archetipo), entrambe sono centrate su un amore coniugale — Properzio le ha volute così, certo anche per non entrare in concorrenza con il tema `soggettivo' dell'amore non-coniugale per Cinzia —, entrambe offrono un significativo spazio alla figura di Penelope. Se in 4, 3 l'identificazione può essere solo implicita — perché alla voce epistolare di Aretusa non si adatterebbe un movimento di tipo `riflessivo': dev'essere il lettore a ricondurre, ad esempio. il modello del lavoro domestico e notturno (4, 3, 33 sgg.) al celebre paradigma della tela — in 3, 12 la voce del poeta è libera di tracciare un compiuto parallelo: prima del confronto conclusivo (v. 38 vidi Penelopes ,4elia Galla fidem), la corrisponderete identificazione tra il marito lontano e Ulisse giustifica un raffinato

2 Cfr. la buona messa a punto sull'ordine compositivo delle epistole in Jacobson 407-409. A favore della sequenza 1-15 nell'ordine che abbiamo oggi si può citare il controverso passo sulle Heroides in am. 2, 18. 11 sgg., dove Penelope e Saffo sono citate al primo e all'ultimo posto, e l'idea che Ovidio alluda all'opera già completata (o definitivamente organizzata) appare molto probabile.

'e Sui rapporti fra 4, 3 e le Heroides è importante H. Merklin, Arethusa und Lnodamia, «Hermcs » 96. 1968. 461-494.

54

PENELOPE

sommario dell'intera Odissea (vv. 24-37). Anche se 3, 12 non è formalmente una lettera, sarebbe sofistico negare l'interdipendenza dei due carmi: anche chi vuole accettare una datazione alta delle Heroides (intorno al 15 a.C.) non dovrebbe opporsi all'anteriorità di entrambi i testi properzianì, fra cui 4, 3 è di datazione un po' nebulosa, ma 3, 12 si colloca sicuramente prima del 22. 4 Il riferimento all'Odissea e quello alla tradizione elegiaca sono sufficienti a definire il retroterra letterario dell'epistola I, anche se naturalmente sarebbe incauto escludere qualche altro stimolo meno evidente. La piccola tirata di gelosia ai vv. 75-78, ad esempio, ha un chiaro nesso intertestuale con l'Odissea (per gli effetti ironici v. le mie note ad loc.), ma anche una curiosa somiglianza con Levio (Protesilaudamia, fr. 18 Mor.), che attribuiva alla sua Laodamia una raffinata `aria' di gelosia coniugale. La presenza di Levio nelle Heroides può essere maggiore di quanto sappiamo documentare, e il trasferimento di motivi da un'eroina all'altra rientra in una tecnica contaminatoria tipica di Ovidio. La struttura `narrativa' della lettera è una fra le più concise e chiare fra le Eroidi: rispetto alle altre eroine, Penelope si distingue (e pour cause) per dominio di sé e lucidità espositiva. I vv. 1-58 ci accompagnano lungo tutta l'esperienza della guerra di Troia, intrecciata con l'angoscia e la solitudine di Penelope (58 è esattamente il verso mediano nella sequenza 1-116, anche se non farei troppo conto di queste speculazioni); segue un'esposizione dell'incertezza di Penelope nel successivo periodo (decennale) di assenza, vv. 59-80, e una vera e propria analisi della critica situazione di Itaca (81-116): vengono passati in rassegna tutti i personaggi che giocheranno un ruolo nella seconda parte dell'Odissea, e la descrizione dello status di Itaca si intreccia abilmente con una serie di argomenti persuasivi che possono far presa su Ulisse (senso dell'onore, gelosia, preoccupazioni economiche, rapporti familiari). L'insieme è dunque spartito Per i nostri limitati fini, è sufficiente tener ferma per Properzio III e IV la cronologia vulgata, e per le Hernides due semplicissimi punti (sviluppati con energia da Jacobson nella sua discussione alle pp. 300-318, in mezzo a una quantità di problemi che qui rinunciamo a riassumere): (a) la quantità di riecheggiamenti dell'Eneide presuppone una certa distanza dalla data di pubblicazione del poema (Ovidio non era nella cerchia degli intimi) e, soprattutto, la VII epistola suona come una reazione meditata a un testo che ha già acquisito il suo statuto di classico; (b) i paralleli interni alle opere amatorie di Ovidio, nella loro globalità, indiziano una maggiore vicinanza alla composizione delle opere didascalico-erotiche, Ars e anche Remedia, che a quella degli Amores.

NOTA INTRODUTTIVA

55

a metà fra una pseudo Iliade e una pseudo Odissea. Anche l'equilibrato rapporto fra narrazione dei precedenti, descrizione dello stato attuale, e appelli persuasivi al destinatario, collabora all'impressione che l'epistola abbia un qualche valore programmatico nell'economia della raccolta.

I

5

lo

15

20

Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe. Nil mihi rescribas tu tamen; ipse veni! Troia iacet certe, Danais invisa puellis, — vix Priamus tanti totaque Troia fuit! O utinam tum, cum Lacedaemona classe petebat, obrutus insanis esset adulter aquis! Non ego deserto iacuissem frigida lecto, non quererer•tardos ire relicta dies nec mihi quaerenti spatiosam fallere noctem lassaret viduas pendula tela manus. Quando ego non timui graviora pericula veris? Res est solliciti piena timoris amor. In te fingebam violentos Troas ituros; nomine in Hectoreo pallida semper eram; sive quis Antilochum narrabat ab Hectore victum, Antilochus nostri causa timoris erat, sive Menoetiaden falsis cecidisse sub armis, flebam successu posse carere dolos. Sanguine Tlepolemus Lyciam tepefecerat hastam; Tlepolemi leto cura novata mea est. Denique quisquis erat castris iugulatus Achivis, frigidius glacie pectus amantis erat.

1 batte: haec

1'alrner

2 tu tamen Bentley: attamen: sed tamen: attinet

.9elius

FP.G49 Apthonius CLK VI 109,30 et 111,21

10 lassaret: lassasset

Heelorr vietum: ah buste revictum Housman

19 Tlepolemus (et 20 Tlepolemi)

editore.: Tri(p)tolem. vel tri(p)tolom.

15 ab

58

25

30

:35

40

45

50

HER. 1, 23-54 (PENELOPE)

Sed bene consuluit casto deus aequus amori: versa est in cinerem sospite Troia viro. Argolici rediere duces, altaria fumant, ponitur ad patrios barbara praeda deos. Grata ferunt nymphae pro salvis dona maritis; illi vieta suis Troica facta canunt. Mirantur iustique senes trepidaeque puellae, narrantis coniunx pendei ab ore viri. Atque aliquis posita monstrat fera proelia mensa pingit et exiguo Pergama tota mero: "Hac ibat Simois, haec est Sigeia tellus, hic steterat Priami regia celsa senis; illic Aeacides, illic tendebat Ulixes, hic lacer admissos terruit Hector equos." Omnia namque tuo senior te quaerere misso rettulerat nato Nestor, at ille mihi. Rettulit et ferro Rhesumque Dolonaque caesos, utque sit hic somno proditus, ille tdolonl. Ausus es, o nimium nimiumque oblite tuorum, Thracia notturno tangere castra dolo totque simul mattare viros adiutus ab uno! At bene cautus eras et memor ante mei. Usque metu micuere sinus, dum victor amicum dictus es Ismariis isse per agmen equis. Sed mihi quid prodest vestris disiecta lacertis Ilios et murus quod fuit esse solum, si maneo, qualis Troia durante manebam, virque mihi dempto fine carendus abest? Diruta sunt aliis, uni mihi Pergama restant, incola captivo quae bove victor arat; iam senes est, ubi Troia fuit, resecandaque falce luxuriat Phrygio sanguine pinguis humus;

24 cinerem: cineres 27-28 secl. Reeve 27 nymphae: nuptae N. Heinsius: sponsae Bentley 28 Troica: Troia facta: fata 29 iustique: iusti: laetique Schenkl: lassique Riese 33 haec est: hac est 36 lacer admissos: alacer missos 40 dolon: dolo: vigil Palmer: lucro Tyrrell: metu Bentley 48 esse solum: ante solum: ante solum esse 51 uni mihi: soli mihi

59

HER. 1, 55-90 (PENELOPE) 55

60

65

70

75

80

85

90

semisepulta virum curvis feriuntur aratris ossa, ruinosas occulit herba domos; victor abes nec scire mihi, quae causa morandi aut in quo lateas ferreus orbe licet. Quisquis ad haec verti[ peregrinam litora puppim, ille mihi de te multa rogatus abit; quamque tibi reddat, si te modo viderit usquam, traditur huic digitis charta notata meis. Nos Pylon, antiqui Neleia Nestoris arva, misimus; incerta est fama remissa Pylo; misimus et Sparten; Spade quoque nescia veri. Quas habitas terras aut ubi lentus abes? Utilius starent etiam nunc moenia Phoebi; irascor votis heu levis ipsa meis! Scirem ubi pugnares et tantum bella timerem et mea cum multis iuncta querela foret. Quid timeam ignoro; timeo tamen omnia demens et patet in curas area lata meas. Quaecumque aequor habet quaecumque pericula tellus, tam longae causas suspicor esse morae. Haec ego dum stulte metuo, quae vestra libido est, esse peregrino captus amore potes. Forsitan et narres, quam sit tibi rustica coniunx, quae tantum lanas non sinat esse rudes. Fallar et hoc crimen tenues vanescat in auras neve revertendi liber abesse velis. Me pater Icarius viduo discedere letto cogit et immensas increpat usque moras. Increpet usque licet! Tua sum, tua dicar oportet; Penelope coniunx semper Ulixis ero. Ille tamen pietate mea precibusque pudicis frangitur et vires temperat ipse suas. Dulichii Samiique et quos tulit alta Zacynthos turba ruunt in me luxuriosa proti inque tua regnant nullis prohibentibus aula; viscera nostra, tuae dilacerantur opes.

62 notata: novata

75 metuo: meditor

83 sum: sim

86 ipse: ille

60

95

100

105

110

115

HER. 1, 91-116 (PENELOPE)

Quid tibi Pisandrum Polybumque Medontaque dirum Eurymachique avidas Antinoique manus atque alios referam, quos omnes turpiter absens ipse tuo partis sanguine rebus alis? Irus egens pecorisque Melanthius actor edendi ultimus accedunt in tua damna pudor. Tres sumus imbelles numero: sine viribus uxor Laertesque senex Telemachusque puer. Ille per insidias paene est mihi nuper ademptus, dum parat invitis omnibus ire Pylon. Di, precor, hoc iubeant, ut euntihus ordine fatis ille meos oculos comprimat, ille tuos! Hac faciunt custosque boum longaevaque nutrix, tertius immundae cura fidelis harae. Sed neque Laertes, ut qui sit inutilis armis, hostibus in mediis regna tenere potest. Telemacho veniet, vivat modo, fortior aetas; nunc erat auxiliis illa tuenda patris. Nec mihi sunt vires inimicos pellere tectis; tu citius venias, portus et ara tuis! Est tibi, sitque precor, natus, qui mollibus annis in patrias artes erudiendus erat. Respice Laerten: Ut tu sua lumina condas, extremum fati sustinet ille diem. Certe ego, quae fueram te discedente puella, protinus ut venias, fatta videbor anus.

91 dirum: durum 95 actor: auctor 101 hoc: o! N. Heinsius 103 hac Tyrrell: haec: hoc: hine /blerkel 105 armis: annis 107-8 posi 109-10 trartsp. Bentley 110 ara editores: aura 113 ut tu Beruley: ut iam 116 venias: redeas.

I Questa, Ulisse, a te pigro, la tua Penelope invia. No, non scrivere risposte: vieni di persona! Odiata dalle donne di Grecia, Troia di certo è caduta: ma non valeva tanto Priamo, e Troia tutta intera. Oh, se le acque furiose Io avessero sepolto, l'adultero, quando navigava verso Sparta! Io non sarei giaciuta fredda in un letto solitario, non lamenterei abbandonata i giorni che passano lenti, e la tela pendente non fiaccherebbe le mie mani di vedova, mentre cerco di ingannare i grandi spazi della notte. Quando non ho temuto rischi più gravi del vero? L'amore è così pieno di angosciose paure. Mi figuravo i Troiani pronti alla carica su di te; al nome di Ettore ero sempre sbiancata. Se uno raccontava di Antiloco vinto da Ettore, era Antiloco la causa del mio timore; se di Patroclo, caduto sotto armi non sue, io piangevo che gli inganni potessero finir male. Tlepolemo aveva intiepidito col suo sangue la lancia del Licio; la sua morte rinnovò la mia ansia. Insomma, chiunque fosse sgozzato nel campo degli Achei, il mio cuore innamorato era più freddo del ghiaccio. Ma un dio giusto si è preoccupato del mio legittimo amore: Troia è ridotta in cenere, e mio marito è salvo. Sono tornati i capitani argivi, fumano gli altari, barbare prede sono offerte agli dei patrii; portano grate offerte le spose per i mariti incolumi. Ed essi cantano le imprese dei Troiani, vinte dalle proprie imprese: vecchi giusti e trepide fanciulle li ammirano, e a quei racconti la moglie pende dalla labbra del suo uomo. Ecco che qualcuno, sulla tavola imbandita, indica le feroci battaglie, dipinge con un pochetto di vino l'intera rocca di Pergamo: «Qui scorreva il Simoenta, questa è la terra Sigea, qui sorgeva la ripida reggia del vecchio Priamo; lì la tenda di Achille, lì quella di Ulisse; qui Ettore massacrato spaventò i cavalli al galop-

63

PENELOPE

TRADUZIONE

po». Tutta la storia, infatti, l'ha riferita a tuo figlio, mandato alla tua ricerca, il vecchio Nestore, e tuo figlio a me. Raccontò di Reso e di Dolone uccisi di spada, traditi uno dal sonno, l'altro ***. Hai osato giungere fino al campo dei Traci per inganno notturno, troppo, troppo dimentico dei tuoi cari, e scannare insieme tanti guerrieri, con un solo aiutante! Davvero prudente, e attento a me! I1 mio petto continuò a pulsare finché — dissero — te ne andasti vincitore tra le schiere amiche sulla pariglia di Ismaro. Ma a me che giova Ilio smantellata dai vostri muscoli, e terra spianata, dove c'era il muro, se resto così com'ero, quando Troia esisteva, e mio marito è lontano e mi manca senza più fine? Solo per me Pergamo dura, per le altre è distrutta — il vincitore, da colono, la sta arando con un bue predato; ecco, dove Troia fu, è un campo di grano, e la terra, fertile di sangue frigio, è lussureggiante, da mietere con le falci; ossa semisepolte di eroi sono urtate dagli aratri ricurvi, l'erba nasconde macerie di case: tu manchi, vincitore, e non posso sapere perché ti trattieni, e in che zona del mondo sei scomparso, cuore di pietra. Chiunque volge a questa riva la sua nave straniera, riparte dopo molte domande su di te, e gli affido un foglio vergato di mia mano, se mai ti incontrerà. Noi abbiamo fatto chiedere a Pilo, nella contrada dell'antico Nestore; da Pilo è tornata una vaga diceria; e a Sparta; anche Sparta non conosce la verità. Che terre abiti, dove ti trattieni, pigro? Sarebbe un vantaggio se sorgessero ancora le mura di Apollo (incostante, detesto le mie stesse preghiere!): saprei dove combatti, temerei solo la guerra, e il mio lamento si mescolerebbe a tanti altri. Non so di cosa ho paura; però ho paura di tutto, dissennata, e c'è grande spazio per le mie angosce. Tutti i pericoli che ha il mare, tutti quelli che ha la terra, io li immagino cause della lunga attesa. E mentre covo scioccamente queste paure, vogliosi come siete, tu potresti essere preso da un amore estraneo. Forse stai raccontando che donna ordinaria è la tua sposa, dedita alla lana, raffinata solo in quella. Che io mi inganni, svanisca nel vento questa accusa, e tu non possa mancare da qui se ti è libero il ritorno. Mio padre Icario mi spinge a lasciare il letto vedovile e protesta sempre contro la mia interminabile attesa. Protesti pure ancora! Sono tua, è giusto che si dica: io, Penelope, sarò sempre la

moglie di Ulisse. In qualche modo, si fa piegare dal mio affetto e dalle mie caste preghiere, e lui stesso raffrena il suo vigore. Da Dulichio, da Same, dall'erta Zacinto, si avventa su di me la folla bramosa dei Proci, dominano senza ostacoli nella tua reggia: carne nostra, i tuoi beni sono fatti a pezzi. Perché rammentare Pisandro, Polibo, il terribile Medonte, le avide mani di Eurimaco, di Antinoo — per la tua indecorosa assenza tu li nutri tutti, con le sostanze procurate dal tuo sangue. Iro il pitocco e Melanzio, che spinge le capre da mangiare, sono il tocco finale, e vergognoso, alla tua rovina. Siamo tre in tutto, imbelli: la tua debole moglie, il vecchio Laerte, il fanciullo Telemaco. Questi poco fa mi è stato quasi soppresso, mentre prepara, contro il parere di tutti, il viaggio a Pilo. Gli dei (io prego) facciano che, secondo l'ordine della natura, sia lui a chiudere i miei occhi e i tuoi. Dalla nostra parte stanno il bovaro, la vecchia nutrice, e, terzo, il fedele guardiano del porcile immondo. Ma neanche Laerte, inabile alle armi com'è, può governare circondato dai nemici. A Telemaco, pur che viva, giungerà un'età più solida: quella che ha ora andrebbe tutelata dall'aiuto di un padre. Io certo non ho forza di cacciare i nemici dalla casa: vieni più in fretta, riparo e asilo dei tuoi! Tu hai — e ti resti, io prego — un figlio, che sin dagli anni più teneri andava allevato alle capacità paterne; guarda poi Laerte: solo perché tu gli chiuda gli occhi, riesce ancora a differire il giorno estremo del destino. Certo, io, che al tuo partire ero fanciulla, se anche arrivi fra un istante, ti apparirò una vecchia.

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COMMENTO i HANC

Il confronto con le ellissi proprie della nostra corrispondenza commerciale (invocato in difesa di hanc da E. Merone, La prima epistola delle Eroidi, Napoli 1974, 40) è in realtà il più insidioso argomento in favore della proposta haec di Palmer. L'argomento di Palmer è appunto che difficilmente un testo letterario così raffinato poteva esordire con un'ellissi ignota alla lingua poetica. In effetti paralleli a questo costrutto si trovano esclusivamente nell'epistolario ciceroniano (v. l'accurata discussione di Kirfel 85 n. 259). Buoni paralleli per haec sono invece Her. 10, 3 quae legis; Pont. 4, 14, 1 haec tibi mittuntur; con haec (sia pure riferito a mandata) si apre l'epistola di Aretusa (Prop. 4, 3, 1) che ha avuto notevole influsso sulla concezione delle Heroides. Il tentativo di sottintendere non epistulam ma salutem, anche sulla base della versione planudea (cfr. H. Sedlmayer, «Wien. Stud.» 2, 1880, 150), cade perché è difficile ammettere l'esistenza di una Uberschrift salutem. Si tocca così tangenzialmente il grosso problema delle intestazioni epistolari trasmesse da alcuni mss. di Ovidio. La probabilità che testate del tipo PENELOPE ULIXI siano genuine è oggi vivacemente controversa (a favore dell'autenticità ma con cautela è p. es. E. J. Kenney, «Class. Rev. » 84, 1970, 196; si potrebbe anche sostenere che Ovidio tende a riassorbire artisticamente queste didascalie nel movimento del discorso poetico, e quindi difficilmente prevedeva la necessità di una designazione preliminare. Ma questa considerazione, valida per la grande maggioranza delle epistole, trova un limite nel fatto che in qualche caso i nomi dei due personaggi coinvolti sarebbero dilazionati sino ad un livello di oscurità intollerabile per il lettore, cfr. p. es. Jacobson 404 sg. Come si vede, i problemi `paratestuali' posti dalle Heroides sono ancora lontani da una soluzione tranquillizzante). Tuttavia, un dato molto più solido da

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cui partire è che il titolo complessivo e originario dell'opera (comunque fosse presentata nella sua prima edizione) doveva suonare Epistulae (con la possibile aggiunta di Heroidum). In questa luce l'ellissi iniziale di epistulam appare molto più tollerabile, e l'incipit del testo viene a integrarsi strettamente con la sua intestazione complessiva.

considerazione la variante di tradizione indiretta attinet, ricavabile da Aftonio, che è difesa in modo interessante da Housman, «Class. Rev.» 16, 1922, 88 sgg. = CP III 1052 sgg.; Kirfel 85-87. Attinet per il resto ha una sola attestazione in Ovidio, her. 12, 210, dove però regge l'infinito, e a giudicare dal ThIL non è mai accompagnato dal congiuntivo (che non avrebbe in sé motivo di stupirci, cfr. refert. Non del tutto chiaro H.-Sz. 348).

I LENTO

L'epiteto, come è frequente negli attacchi delle epistole ovidiane, riceve un supplemento di intensità dalla sua posizione e fissa una prima chiave di lettura. Ulisse è in primo luogo `lento a ritornare' (cfr. Stat. Si/v. 2, 1, 118 tarde remeantis Ulixis; 2, 6, 57 tardi reditus Ulixis; 2, 7, 49), ma l'aggettivo, nel codice galante ed elegiaco, è impregnato di connotazioni come `freddo in amore, flemmatico, incapace di ricambiare': Prop. 1, 16, 12 a pereat, si quis lentus amare potest!; 3, 8, 20 hostibus eveniat lenta puella meis!; questa sfumatura è collegata ai sospetti e alle gelosie della moglie, che affiorano più avanti nella lettera. (Per una combinazione di elementi simile cfr. rem. 243 lentus abesto; sull'uso erotico di lentus v. Fedeli a Prop. 1, 15, 4, con molti esempi; inoltre, H. D. Naylor, «Class. Rev.» 21, 1907, 43). Infine, lentus può essere applicato a un marito «poco reattivo» che - cfr. am. 2, 19, 31 - non è prontamente geloso verso chi gli corteggia la moglie. Penelope insidiata dai Proci rivolgerà ad Ulisse anche questo rimprovero. Può essere utile notare subito la particolare frequenza di lessico `modernizzante', galante ed elegiaco, in tutta la prima parte della lettera (cfr. p. es. il commento a vv. 4, 7, 9, 10). Se l'ordine tramandato delle epistole è ovidiano, questo immediato contrasto fra situazione epica e stilizzazione moderna ha anche un valore programmatico, e situa il nuovo testo nello spazio letterario dei generi tradizionali. 2 TU TAMEN Questa congettura di Bentley è stata accolta da Palmer e Dórrie. La tradizione diretta ha attamen (sed tamen il solo E: i paralleli di 11, 108 e 17, 186, con identica sede metrica e posposizione di sed tamen, suggeriscono una contaminazione). Attamen fa difficoltà, per il senso e lo stile (cfr. her. 8, 24 «Ipse veni!») se si interpunge dopo rescribas, e per l'ordine delle parole se si interpunge prima di ipse. Le altre congetture proposte, come praestat adesse: veni! (D. A. Slater, «Class. Rev.» 30, 1916, 73) non possono competere con l'economica logicità della soluzione bentleiana. Merita invece attenta

IPSE VENI!

La Penelope ovidiana è di un assoluto ottimismo rispetto a quella originaria. Nell'Odissea il pessimismo di Penelope è continua fonte di effetti ironici (v. B. Fenik, Studies in the Odyssey, Wiesbaden 1974, p. 45). D'altra parte, non avendo dubbi sull'incolumità del marito, Penelope risulta di una fedeltà meno esemplare e astratta. Ovidio elimina dal personaggio quell'ostinata e disperata fedeltà `eroica', su cui contava Properzio per farne un paradigma: cfr. 2, 9, 8 visura et quamvis numquam speraret Ulixem (cfr. forse Lucil. 53940 Kr. quod vivere Ulixen I speras). 3 IACET Opposto a stare, cfr. v. 67 e n. L'uso assoluto di iaceo «giacere al suolo annientato» è abbastanza originale, drastico (cfr. ThIL VI 7, 16 e Ov. met. 13, 505 iacet Ilion ingens; in Virgilio è usato di guerrieri abbattuti). Dato che più comune e tradizionale è l'accostamento con participi di uso predicativo, p. es. Enn. scen. 89 V.' cui nec arae patriae stant, fractae et disiectae iacent; Sulp. Ruf. Cic. ep. 4, 5, 4 prostrata et diruta [sc. oppida] ante oculos iacent; Lucan. 6, 132 iacuere perempti; Sen. Ag. 925; Oed. 1040; Stat. Ach. 1, 657 igni ferroque excisa iacebit [sc. Scyros], mi pare che ne derivi un effetto di sottile aprosdoketon per il nesso con invisa puellis: come se invisa per un attimo suonasse predicativo (e l'odio delle ragazze fosse il vero motore dalla distruzione di Troia). CERTE

Da legare con iacet, nonostante l'ambiguo ordine delle parole. Infatti certe si adatta molto bene a una precisazione carica di rimprovero (`introducing a reminder which justifies a grievance' Fordyce a Catull. 30, 7, che richiama Catull. 64, 149; Verg. Aen. 1, 234), cioè il quesito implicito di tutta la lettera, «perché tardi?». Il riferimento di certe a invisa non avrebbe una funzione altrettanto percepibile.

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DANAIS

Danaus agg. è poetico (Verg. Aen. 3, 602), più moderno del di per sé poetico Danai sost. PUELLIS

Donne in generale (non solo, come è noto, ragazze da marito; v. anche il v. 27 e n.) ma comunque considerate in una prospettiva di rapporto d'amore con l'uomo. Ancora un `segnale elegiaco'. L'uso controllato di puella nelle Metamorfosi (Knox 54) conferma che si tratta di una parola ormai compromessa con il campo elegiaco. Virgilio nell'Eneide ha 47 casi di virgo, e puella solo due volte, sempre nell'austera e rituale formula pueri innuptaeque puellae (2, 238; 6, 307, con la bella nota di Austin a 2, 238). 4 La tonalità elegiaca, implicita in puellis, si sostanzia ora del richiamo a situazioni tipiche. Per l'uso di tanti in contesto analogo v. p. es. Prop. 3, 20, 4 tantine, ut lacrimes, Africa tota fuit? (rivolto a una donna lasciata sola: rimprovero a chi antepone all'amore i commerci per mare, cfr. Fedeli ad 1.), e anche Tib. 2, 6, 42 non ego sum tanti, ploret ut illa semel; Prop. 4, 3, 63 ne, precor, ascensis tanti sit gloria Bactris (Aretusa a Licota), cfr. 1, 6, 13; 3, 12, 3 tantiue ulla fuit spoliati gloria Parthi? Ov. am. 3, 6, 37 sg. nec tanti Calydon nec tota Aetolia tanti / una tamen tanti Deianira fuit; her. 13, 133 vix Helene tanti totaque gaza fùit. V. anche 7, 45 e n. I due esempi properziani in sede epistolare (3, 12 è `quasi' una eroide) fanno di questo modulo un topos `incipiente'. 5-6 wTEX', utinam, con riModulo tradizionale, di tipo `prologico' salita alle cause e alle premesse di un evento sgradito); forse però l'uso di adulter, anche se trito (cfr. Verg. Aen. 10, 92; 11, 268; Hor. carm. 1, 15, 19 e 4, 9, 13; Prop. 2, 34, 7; adultera Ov. her. 5, 125, di Elena), prende un suo colore dal contesto e dall'ethos intensamente matrimoniale della casta Penelope. Una tirata di Penelope contro l'adultero Paride sembra essere attestata in un frammento esametrico greco, purtroppo male inquadrabile; cfr. SH 952, con le annotazioni ad loc. di Parsons-Lloyd Jones. OBRUTUS INSANIS

Cfr. Prop. 3, 7, 6 obruis insano ... mari (il verbo, a partire da Verg.

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Aen. 1, 69 in contesti di naufragio, è di uso forte e drastico: sommergere senza lasciare traccia); Stat. Ach. 1, 72 (riferito a Paride). 7-8 Per il tema `giorni e notti' si può notare Hom. Od. 13, 336 sgg. (il quadro di Penelope che Atena presenta a Odisseo) A TE Tot avtwg / ~joTa~ èvl µryapoLoty, óitveal Sé 01 aisì / cp$ivovaty vvxTEs TE xal f tata Sàxev xsovorl. 7 Cfr. nel complesso Catull. 68, 29 frigida deserto tepefactat membra cubili; Prop. 4, 7, 6 et quererer lecti frigida regna mei (la frequenza di riecheggiamenti properziani in questa sezione introduttiva dà da pensare); Ov. am. 3, 5, 42 frigidus in viduo destituere toro; her. 19, 69. Frigida denuncia una carenza erotica (Mat. 12 Mor. sinu... amicam refice frigidam caldo) e insinua anche un pericolo che diventerà più esplicito nell'ultimo verso di questa lettera (cfr. Ov. A .A . 1, 370 frigida deserta nocte iacebis anus). Per deserto... lecto cfr. v. 81; her. 5, 106 viduo... toro; Prop. 1, 15, 18 vacuo... in thalamo (Fedeli ad loc. discute ampiamente questo tropo patetico). Simile, ma un po' più ardito, viduas... manus al v. 10. 8 Un verso intenzionalmente sgradevole per l'abbondanza di r: si noti ire re- e anche il bisticcio fra quererer e, al v. 10, quaerenti. Ovidio definisce la r (in accordo con ben note prescrizioni retoriche) aspera littera in fast. 5, 481 sg. Buoni paralleli per l'espressività della r sono Prop. 4, 7, 6 e Tib. 2, 3, 9 nec queReReR quod sol gRaciles exuReRet aRtus (entrambi con il cacofonico quererer); Prop. 4, 3, 23 teneros urit lorica lacertos; Ov. am. 3, 6, 36 irata fracta querere manu; her. 2, 46 (con desererer che offre la solita perseverazione `morfematica'); una situazione sgradevole è evocata anche da Hor. sat. 1, 2, 127 nec vereor ne durn futuo vir rure recurrat (con Kiessling-Heinze ad loc.). L'insistenza su queror / querela è in tutte le Heroides non solo un'isotopia tematica, ma anche una sorta di indice metaletterario, che rinvia alla scelta del metro elegiaco e alla querela che è costitutiva del genere elegiaco (per la bibliografia v. il saggio introd., p. 28 n. 15; si noti soprattutto her. 15, 7 dove Saffo motiva la scelta del

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distico elegiaco - invece che dei consueti lyrici modi - con l'urgenza di un tema flebile, lamentoso).

67; 14 casi di Ovidio. Lassus ha distribuzione assai analoga, pur essendo ben attestato in latito arcaico. Viduas manus appartiene a un tipo di ipallage che, per quanto diffuso, trova esempi particolarmente incisivi nel linguaggio emozionale dell'elegia, v. p. es. Prop. 4, 3, 6 con dextra; 4, 4, 22 con manus; Ov. A . A . 2, 216; medic. 36 maga... manus; etc.

9-10 La tela di Penelope, proverbiale anche a Roma (è usata, per fare un unico esempio, come simbolo riassuntivo dell'Odissea in Ov. am. 3, 9, 30): la variazione consiste nel nominarla incidentalmente e con una suggestio falsi che non deve sfuggire; cfr. il saggio introd. p. 24 sg. per la `disgiunzione' fra modello epico e modello elegiaco. I passi omerici rilevanti sono Od. 2, 93 sgg.; 19, 138 sgg.; 24, 128 sgg.; è proprio l'eccessiva notorietà del motivo a rendere piccante la variazione ovidiana. 9 SPATIOSAM Epiteto notevole: prima di Ovidio in poesia si ha solo l'avv. spatiosius, p.d. di Properzio (3, 20, 11). Anche l'uso con notazioni di tempo sembra innovazione ovidiana, cfr. am. 1, 8, 81 tempus; met. 8, 529 aevum, e 15, 623 vetustas. Qui il lettore può divertirsi a ricordare che al ritorno del marito Penelope avrà una notte d'amore veramente spatiosa, prolungata per intervento divino (cfr. Od. 23, 243): sarà giustamente risarcita. Per le lunghe notti degli amanti frustrati v. p. es. Hor. carm. 1, 25, 7; epist. 1, 1, 20; Prop. 1, 12, 13.

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12 Un concetto volutamente semplice, di buon senso quotidiano, cfr. Cic. Att. 1, 2, 24 non ignoro quam sit amor omnis sollicitus atque anxius. Anche res est ha un sapore idiomatico e colloquiale: molti esempi in Ovidio (cfr. Palmer ad I.; H.-Sz. 444 sg.; A. Traina, Lo stile «drammatico» del filosofo Seneca, Bologna 19874, 86 sg. n. 1). V. anche Ov. met. 7, 719 cuncta timemus amantes!; her. 6, 21 credula res amor est; Pont. 2, 7, 37 res timida est omnis miser; her. 18, 109 omnia sed vereor; quis enim securus amavit? Il senso esatto di Prop. 1, 11, 18 omnis... timetur amor continua ad essere disputato (Fedeli ad loc.; E. Wistrand, Miscellanea Propertiana, Göteborg 1977, 43-48) ma probabilmente non si colloca sulla stessa linea. 13 Non ci sono altre attestazioni di Tros nelle Heroides, e le numerosissime occorrenze nell'Eneide rendono chiaro il colorito epico-eroico della designazione.

FALLERE NOCTEM

Per il gioco su fallere v. ancora sopra, p. 24. Interessante soprattutto Od. 19, 137 i yw Sì; SóXous toXvnei w «e io aggomitolo inganni». Per il carattere raro e poetico del costrutto v. Hor. sat. 2, 7, 114 somno fallere curam; sat. 2, 2, 12; Prop. 1, 3, 41 (un modello principale di tutto questo passo) purpureo fallebam stamine somnum; Ov. met. 8, 651 medias fallunt sermonibus horas. Confrontabile, in contesto pure erotico, il gr. vnvan&ti; (Meleagro, A . P. 5, 197, 2); Ov. her. 19, 55 deceptae... noctis; 37 sg. ducentes statuina_ feminea tardas fallimus arte moras. 10 Anche lassare è attestato, prima di questo caso, solo in poesia elegiaca; quanto meno, appare parola colloquiale-elegiaca, letterariamente `giovane' (come origine potrebbe essere più antica delle nostre attestazioni, cfr. delassare in Plauto). Cfr. Tib. 1, 9, 55; Prop. 4, 8,

14 Da contrastare con her. 13, 63-65: per Laodamia, ancora poco informata, Ettore è ancora un nescioquis, ma già fonte di angoscia. Hectoreo viene direttamente dallo stile elevato virgiliano, cfr. Aen. 2, 542 sg. corpus... Hectoreum, ma già Cic. poet. 24, 2 Mor. Hectoreo... ense, senza diretto corrispondente nell'originale omerico. `Extóecog ha fortuna piuttosto sporadica in poesia greca, p. es. Hom. 11. 2, 416 etc. Questi usi dell'epiteto hanno senza dubbio paralleli nello stile poetico greco, ma sono anche ben radicali nelle tendenze idiomatiche del latino (la comodità metrica è solo una componente, in casi come questo, subordinata). E certamente previsto un conflitto di registri con pallida in (aliquo), che suona come un tipico stilema elegiaco, su cui v. Fedeli a Prop. 3, 8, 28 (dove comunque il pallore ha diversa origine).

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15-16 È veramente strano che Ovidio non ricordasse la morte di Antiloco per mano di Memnone (Od. 4, 187 sgg.; Pind. Pyth. 6, 28 sgg., etc.), o, quanto meno, la presenza di Antiloco vivo e vegeto negli eventi che seguono la scomparsa di Ettore nell'Iliade. Fra tutte le ipotesi proposte, quella di una scarsa conoscenza di Omero è la più difficile da controbattere, ma anche una delle meno attraenti. Molte strategie alternative sono state proposte e confutate: (a) supporre che l'errore denoti ignoranza e confusione da parte di Penelope; (b) interpretare victum come allusione non alla morte, ma alla fuga di Antiloco davanti a Ettore, episodio brevemente narrato in 11. 15, 583-96: l'accostamento con Patroclo e Tlepolemo, e la formula riassuntiva quisquis erat... iugulatus (22) sono a prima vista contro questa esegesi; (c) correggere (due volte) il nome del guerriero ucciso: p. es. Amphimachum Poliziano (11. 13, 185) Anchialum Muncker (11. 5, 609) Archilochum Schoppa (Darei. 20). I1 doppio errore non è inconcepibile. Si noti che (secondo l'apparato di Dòrrie) quasi tutta la tradizione presenta ai vv. 19-20 Triptolemus I Triptolemi; fa difficoltà però affiancare un nome semisconosciuto a due eventi cospicui come la morte di Patroclo e quella del figlio di Eracle Tlepolemo; (d) correggere il nome dell'uccisore: Memnone Poliziano; ab poste revictum Housman («Class. Rev. » 11, 1897, 102 = CP 1381 sg.). Questa strategia elimina proprio l'insistenza sul nome di Ettore che è attesa alla luce di 14 nomine in Hectoreo pallida semper eram (e cfr. Ov. her. 13, 63 sgg.) e del successivo esempio di Patroclo. Housman ha lucide obiezioni contro le altre proposte, ma la sua congettura introduce fra l'altro un'accezione di revinco decisamente insolita e troppo generica (difficoltà cui sfugge vulnere victum di Bentley); (e) un singolo autore antico, Hyg. fab. 113, 1, attesta per una volta uccisione di Antiloco per mano di Ettore. Si è pensato a lungo che il passo di Igino sia o corrotto o dipendente da Ovidio (p. es. Housman, «Class. Rev.» 11, 1897, 103); ma potrebbe rappresentare una tradizione indipendente, che spiegherebbe la divergenza da Omero (cfr. D. Porte, Ovide et la tradition homérique dans Hér. 1, 15 et 91, «Revue de Philol.» 50, 1976, 238 sgg., utile anche per la storia della questione; e cfr. la n. a 1, 91 Medontaque dirum). Questa tradizione potrebbe avere interessato Ovidio, dato che non sono poi molti i personaggi famosi di parte greca uccisi da Ettore. Nel complesso però la spiegazione (b) è la migliore: Penelope è spaventata per Antiloco, messo in fuga con pericolo di vita, e poi piange (in crescendo) la morte di Patroclo.

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MENOETIADEN

Cfr. 3, 23 e n. 17-18 L'allusione alla morte di Patroclo, che riveste in battaglia le armi di Achille, è ingegnosamente contestualizzata perché proprio Ulisse è maestro di simulazioni e travestimenti. Il riferimento può sembrare incerto, almeno finché non torna in mente che il linguaggio del v. 18 allude a Verg. Aen. 2, 44 dona CARERE DOLIS Danaum, con il séguito sic notus Ulixes? Per falsis... armis cfr. l'agudeza di Sen. Tro. 447 vera ex Achille spolia simulato tulit . Sub armis è comune in prosa storica e evitato da Virgilio (solo Aen. 5, 585, in una comparazione): qui è chiaramente usato in dipendenza dall'idea di camuffamento, e il nostro passo non va perciò assimilato a sub a. = in armis. 19 LYCIAM L'uccisore è il re litio Sarpedone, cfr. Hom. Il. 5, 628. TEPEFECERAT

Cliché epico ben noto, cfr. Hom. 11. 16, 333 e 20, 476 nàv S'vmEe$eeµóty* 1 itpos alµaTL; Verg. Aen. 9, 419 hasta haesit tepefacta cerebro; 9, 701 fixo ferrum in pulmone tepescit; 10, 570 ut semel intepuit mucro; Hor. sat. 2, 3, 136 (parodistico); Ov. met. 15, 107 incaluisse... maculatum sanguine ferrum. Tuttavia, l'adozione di un soggetto umano rinnova il cliché e gli imprime una leggera torsione manieristica, inattesa (cfr. Ov. met. 15, 735 incalfacit hostia cultros; Pont. 4, 5, 35). Forse non casuale l'accostamento con frigidius glacie (v. 22); per questi `slittamenti' del pensiero tra un distico e l'altro cfr. 3, 57-60 lintea piena / pectus inane. L'antitesi, anche se non motivata sul piano logico, aiuta a far progredire il discorso poetico polarizzandone lo sviluppo. 20 CURA NOVATA Cfr. Pan. Mess. 189 nam cura novatur (riferito a sentimenti e stati d'animo, il composto renovare è decisamente più abituale). 21 QUISQUIS Per l'uso di quisquis senza correlativo v. Housman a Lucan. 6, 550.

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COMMENTO

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IUGULATUS

Iugulare per `uccidere in battaglia' non è affatto parola epica, cfr. l'uso ironico, in contesto antiepico («der derbe Ausdruck enthàlt... eine Kritik dieser vulgàren Epik» Kiessling-Heinze ad loc.) di Hor. sat. 1, 10, 36 iugulat dum Memnona; epist. 1, 2, 32 ut iugulent hominem, surgunt de notte latrones. Non stupisce che Ovidio recepisca il verbo in un contesto grandguignolesco come la battaglia di Lapiti e Centauri delle Metamorfosi (12, 81 e 484). Il normale campo semantico di iugulare sembra comprendere tre specializzazioni: (a) sacrificio di animali (questo senso, ma solo questo, è anche virgiliano, cfr. Aen. 11, 199; 12, 214); (b) lo sgozzamento dei vinti, in particolare nell'arena; (c) l'omicidio (cfr. ovviamente il nostro «tagliagole»). Cfr. anche iugulatio, attestato solo nel Bellum Hispaniense, e solo nel senso specifico di «massacro di inermi». Già in questa scelta lessicale, insomma, c'è un po' di distanza e straniamento dall'azione epica (ciò che appunto caratterizza la prospettiva di Penelope; non vedo perché pensare a un'intenzionale ironia del personaggio). Simile l'uso di mattare al v. 43. In Od. 4, 814-16 Penelope definisce il marito prode e persino $vµokéovza. C'è quindi un percepibile gioco di livelli con Achivis; Achivi è senz'altro il modo più epico e arcaizzante per dire `Greci': l'etnico ha una mezza dozzina di occorrenze in tragedia e solo una in commedia - in Plaut. Bacch. 936 dove non a caso è riferito alla guerra di Troia; l'aggettivo compare la prima volta in Acc. trag. 522 R.2, poi costantemente in poesia elevata. 24 In cinerem (solo in E, F) ha ottime probabilità davanti a -s, cfr. P. Maas, Kleine Schriften, Miinchen 1973, 560 (non serve citare Ov. trist. 5, 12, 68 in cineres ars mea versa foret). V. nel complesso Hor. carm. 3, 3, 20 sg. vertit I in pulverem (riferito alla distruzione di Troia). Inversamente, si potrebbe pensare a un sigmatismo intenzionale, che però non sembra qui motivato dal pathos del contesto. Sospes è parola che in età augustea - ma anche prima - sembra dotata di una carica sacrale, solenne (v. anche A. Ronconi, «Stud. It. Fil. Class.» 25, 1951, 108); è attestata in Ennio, epico e tragico, e in Accio; in Virgilio solo in due passi sostenuti e patetici (Aen. 8, 470; 11, 56); in Ovidio è frequente, ma totalmente assente dalle opere amatorie. L'uso dell'ablativo fa pensare a stilemi tipici delle gratulationes dopo la vittoria (p. es. salute nostra, civibus salvis, etc.), analizzati e

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ricostruiti da E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, II ed., Firenze 1960, 227 sgg. Le 5 occorrenze di sospes in commedia vanno contrastate con ben 180 di salvus (cfr. Jocelyn 384). 25 ARGOLICI... DUCES Verg. Aen. 8, 374 Argolici vastabant Pergama reges. ALTARIA FUMANT

Cliché riassuntivo, tradizionale (Lucr. 6, 752; Verg. ed. 1, 43). 26 BARBARA Tradizionale riferito a Troiani, v. 3, 2 barbarica con la mia nota. 27 NYMPHAE Per un preciso calco dal greco, (su vvµcpa in Callimaco v. R. Pfeiffer, Kallimachosstudien, Miinchen 1922, 7 n. 2) il termine si ritrova - ma non prima di Ovidio - come designazione di puellae dei tempi eroici, vuoi in età da marito, o sposate; però non è mai altrove al plurale, come nota Palmer ad loc. (perciò nuptae, N. Heinsius; sponsae, Bentley). La scelta lessicale è spiegabile, perché in contesti del genere è usuale insistere sul sollievo di fidanzate, spose novelle (sul tipo di Laodamia), e delle mogli in genere. In questo senso, nymphae può anticipare sinteticamente le designazioni puellae (29) e coniunx (30), il tutto in un contesto stilistico (come appare sin dal v. 24) fra i più sostenuti nelle Heroides. Cfr. in generale Hor. carm. 3, 14, 9-10 virginum matres iuvenumque nuper l sospitum («The point of virginum is that the war had been an obstacle to the girls' marriage» R. G. M. Nisbet, in «Papers of the Liverpool Latin Seminar» IV, 1983, 111). E difficile perciò giustificare la necessità di correzioni, pur sempre banalizzanti, o trarre dalla presunta improprietà argomenti per l'atetesi di tutto il distico (ma v. n. a 28). L'interpretazione Nymphae ferunt «le Ninfe ricevono» (presa in serissima considerazione da Palmer e da Jacobson 254 n. 42) ha avuto fortuna immeritata. Non che sacrifici alle Ninfe non siano attestati, anche in contesti perfettamente assimilabili (Prop. 4, 4, 25), o che ferre non significhi «ricevere»; di fatto, come Palmer stesso ammette onestamente, passi quali Ov. met. 7, 156 sg. Haemoniae matres pro natis dona receptis I grandaevique ferunt patres chiariscono bene ciò che un orecchio latino poteva ricavare da tutta la iunctura (v. anche Prop. 4, 3, 72, come iscrizione di dedica, SALVO GRATA PUELLA VIRO). Del resto nel verso 4, 4, 25 di Properzio, usato da

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Palmer ad loc. e in «Hermathena» 20, 1894, 104, tulit significa, per l'appunto, «recò, offrì».

Entrambi gli aggettivi sono presenti nelle Heroides, entrambi sono poetici e attestati fin da Catullo, ma Troius è più raro e apparentemente più scelto: Troius è virgiliano, Troicus no; inversamente, Troicus è attestato anche in prosa, Troius no. In greco la situazione è paragonabile: Tewtxós, ma non Tetti os, è recepito dalla prosa.

28 ILLI VICTA SUIS TROICA FACTA CANUNT Celebrazioni delle gesta, dei xkéa óvSpcīty, sono associate in Omero al ritorno dei Greci: sono sia poetiche (Femio, Demodoco) che autobiografiche (Nestore etc.). Sono contesti che corrispondono molto bene a ciò che gli Augustei pensavano sulla genesi della poesia eroica: ritorno dalla guerra, banchetto, celebrazione di gesta (cfr. la problematica intorno ai carmina triumphalia e convivalia: Catone in Cic. Tusc. 4, 1, 3). Si noti comunque, senza diretta implicazione di `canto eroico', Verg. Aen. 4, 14 quae bella exhausta canebat!; Ov. met. 12, 160 pugnas referunt hostisque suasque. Presa in questo quadro, l'espressione è perfettamente naturale, e introduce un elegante diminuendo in cui la solennità iniziale (cfr. mirantur... senes) trapassa via via in una nota più giocosa e familiare (cfr. 30, 31 sg. e nn.). Penso quindi che la variazione di tono in questi versi sia intenzionale ed artistica (è usata invece come prova di interpolazione per espungere 27-8, insieme con la difficoltà di nymphae, da M. D. Reeve, Notes on Ovid's Heroides, «Class. Quart.» N. S. 23, 1973, 331 sg.). La variante fata accolta da Palmer e Diirrie (facta Bentley, Sedlmayer) appare comunque problematica. Il parallelo di Verg. Aen. 7, 293 (Palmer) lascia perplessi, perché nel discorso di Giunone l'uso del termine è molto più spiegabile e qui invece — a tavole imbandite — fata suonerebbe un po' astratto; inoltre fata canunt, a un lettore non prevenuto, suggerirebbe qualcosa come «profetizzano destini», mentre facta aiuta a selezionare la giusta accezione di cano, «celebrare». Si noti invece che facta ricorre anche nel modello tibulliano (1, 10, 31) cui alludono i vv. 31-32 (cfr. n. ad loc.); non vedo perché definirlo parola `scialba' (Reeve, art. cit.). L'insieme del verso suggerisce bene il tema dell'Iliade. Elogio, e autoelogio, dei vincitori e gesta degli sconfitti sono parte di un unico intreccio. Troia (F, accolto da Dórrie) sembra preferibile a Troica (rell., Palmer) per ragioni eufoniche, accanto a viCta, faCta, Canunt, e cfr. her. 16, 107 Troia caeduntur Phrygia pineta securi. L'argomentazione però è reversibile, sia per le note questioni poste dal tipo di assonanza Dorica castra (Verg. Aen. 2, 27, v. Austin ad loc.) sia per un motivo più specifico: sospetto che la dura assonanza vieta I fatta realizzi un effetto voluto (marziale?).

29 IUSTIQUE L'epiteto sembra immotivato nel contesto; Palmer lo difende con rinvio a fast. 4, 524; 5, 384; met. 8, 704. Nessuno di questi paralleli è tranquillizzante. lustus senex riferito a Filemone, Chirone, e Celeo, risulta sempre, a differenza che qui, motivato dal contesto o dal mito, ed è comunque una qualità individuale. D'altra parte le congetture proposte, come laetique di Schenkl (comunque la più giustificabile, cfr. Ov. A.A. 1, 217 spectabunt laeti iuvenes mixtaeque puellae) o lassique di Riese, non riescono più efficaci del testo tràdito; Dórrie considera iustique una glossa penetrata nel testo, ma non è affatto chiaro a cosa potrebbe riferirsi una tale glossa (non certo alla barocca proposta tremulique dello stesso Dòrrie). Allora sarebbe meglio proporre duri, che ha un bel tono `elegiaco' (cfr. Prop. 2, 30, 13) e renderebbe concepibile («austeri, rigorosi») una glossa come iusti. Se il pensiero deve correre a un personaggio particolare, si può citare il «giusto vecchio» Nestore che (cfr. Od. 3, 244) nEeiot&E SLxas, ma Nestore in Omero è un narratore, non un ascoltatore di gesta. Oppure si può pensare a un consesso di yéeovtes, equivalente greco dei iusti patres romani. Si noti Ov. fast. 3, 58 sgg. sui vecchi che in antico iura dabant (v. 65). Comunque il contrasto con trepidae suggerisce un ascolto meno emotivo e più equilibrato, e garantisce all'epiteto una certa funzionalità contestuale. Per mirantur... trepidae puellae v. p. es. Euphor. 57, 15 Van Gron. tae(3akéat ... è rlrloavto yuvaīxtg [al ritorno di Eracle]. 30 Il verso trae risonanze insieme eroiche ed erotiche dal riecheggiamento di Verg. Aen. 4, 79 pendetque iterum narrantis ab ore: Didone innamorata non si stanca di sentire da Enea le storie della guerra (per l'atmosfera sensuale cfr. anche Lucr. 1, 37). Per il lettore di Omero viene qui anticipato il racconto che Ulisse farà a Penelope, nel corso della prima notte d'amore dopo il ritorno (Od. 23, 200-343). Racconto e notte d'amore sono vagheggiati da Laodamia (13, 113-20) che, a differenza di Penelope, non rivedrà mai il marito.

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31-32 Il contesto di banchetto è di per sé emblema di pace, v. p. es. Enn. scen. 314 V.2 scibam me in mortiferum bellum, non in epulas mittere; tutto il motivo è suggerito da un'elegia antimilitarista di Tibullo, 1, 10, 31-2: vada pure a uccidere in guerra, il soldato, ut mihi potanti possit sua dicere fatta / miles et in mensa pingere castra mero. Va notato che in Ovidio e in tutta l'elegia latina scrivere col vino sulla tavola è un medium già compromesso, una comunicazione dal contesto ricorrente: «a method of flirtation» (Kirby Flower Smith a Tib. 1, 6, 19, v. p. es. Ov. am. 1, 4, 20; 2, 5, 18 sg.; her. 17, 77-90; trist. 2, 454, con esplicito riferimento a Tibullo, cfr. v. 447; Kólblinger 40-43; A. Traina, Poeti latini (e neolatini), Bologna 19862, 9 sg. n. 2; Fedeli a Prop. 3, 8, 25-26). Si attua così, come già in Tibullo, una sorridente riduzione della solennità epica (v. sopra, 1, 28 n.); anzi exiguo mero quasi simboleggia la riduzione dei fera proelia ad una misura da elegia. È divertente richiamare Ars 2, 123 sgg. - una scena chiaramente concepita come pendant a questa lettera - dove Ulisse fa una simile dimostrazione a Calipso, disegnando con un bastoncino nella sabbia (Haec... Troia est.... I hic tibi sit Simois, etc.); è quello che Penelope si aspetta, ma Ulisse lo fa con la donna sbagliata. 33-36 La situazione consente l'innesto e l'inversione prospettica di un motivo virgiliano, utilizzato anche nel passo parallelo dell'Ars: Aen. 2, 29-30 (i Troiani, che pensano finita la guerra, osservano i luoghi abbandonati dall'armata greca): hic Dolopum manus, hic saevus ten-

debat Achilles; l classibus hic locus, hic acie certare solebant. Al v. 33 hac est, quasi concordemente tramandato, è impossibile per motivi linguistici e chiaramente indotto dal precedente hac ibat. La serie hac I haec I hic varia dal quadruplice hic del modello virgiliano, pur mantenendone la stilizzazione nervosa e staccata (la ripetizione, con i brevi cola paralleli, rende l'eccitazione con cui la guerra viene rievocata); la successiva serie illic / illic / hic si riavvicina al modello. 34 CELSA Detto di edifici, è un tocco elevato (Acc. trag. 526 R.2 celsa delubra; celsis... urbibus Verg. Aen. 8, 65; celsae graviore casu / decidunt turres Hor. carm. 2, 10, 10). La reggia è Sóµos vnprl],,ós in Hom. Il. 22, 440.

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35 ULIXES Assente nel modello virgiliano, e introdotto pour cause. 36

HIC LACER ADMISSOS TERRUIT HECTOR EQUOS

Lacer admissos, che si affaccia in pochi mss. tardi, è sicuramente giusto. Alacer missos (che è in tutti i testimoni più importanti) è stato poco felicemente difeso da Th. Nissen, «Hermes» 76, 1941, 92 sg., che corregge terruit in torserat. Alacer di guerrieri è attestato in Virgilio ma non in Ovidio. Il corpo di Ettore è straziato già in Omero (Il. 22, 371, cfr. invece 24, 18 sgg., citato giàda Nissen); l'immagine è resa memorabile dalla descrizione virgiliana (Aen. 2, 270 sgg.) che deve, nella sua macabra fisicità, non pochi spunti alla tradizione tragica (cfr. Austin a 2, 272 e 273). Admittere «lanciare a briglia sciolta» è ben attestato in Ovidio (Palmer ad loc. e la mia n. a her. 2, 114 et sacer admissas exigit Hebrus aquas). Infine, l'espressione è chiaramente presupposta da Cons. Liv. 319 sg. cum vir religatus ad axem l terruit admissos sanguinolentus equos. Per lacer riferito a Ettore v. Enn. scen. 73 V.2 cum tuo lacerato corpore; Stat. si/v. 4, 4, 104

lacerum... Priamiden. La corruttela può essere nata da chi non capiva che il soggetto di

terruit è un morto. Il manieristico concetto ovidiano è che il cadavere sconciato spaventa i cavalli lanciandoli ancora di più nella straziante galoppata (lacer è, per così dire, parzialmente prolettico). Cfr. Anth. Lat. 57 R. Funere turbat equos necdum satiatus Achilles, l Hector et exanimis funere turbat equos (dopo essere stato i t tóSct os). Missos, in ogni caso, sarebbe piuttosto insostenibile davanti a misso del v. successivo. V. anche A . A. 1, 338 Hippolytum pavidi diripuistis equi, dove però pavidi non è affatto certo (cfr. E. J. Kenney, «Class. Quart.» N. S. 11, 1959, 248; contra, G. P. Goold, «Harv. Stud. Class. Phil.» 69, 1965, 63); fast. 5, 310 (ancora Ippolito) consternatis diripereris equis; met. 15, 532 (identico contesto) lacerum...

corpus. 37-40 Questi versi sono definiti «a stupid interpolation» da Housman («Class. Rev.» 13, 1899, 177), che ripropone l'atetesi bentleiana. Bisogna ammettere subito che il secondo distico presenta grossi problemi (cfr. n. a 40, tdoloj'). L'espunzione di 37-38 è molto più criticabile. Penelope non può avere notizie dirette della guerra perché nessun reduce è mai tornato ad Itaca: è giusto quindi precisare che racconti simili sono stati fatti a Telemaco da Nestore, che in

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effetti ha questo ruolo di informatore nell'Odissea (cfr. anche Jacobson 255). L'attenzione per le fonti di informazione è costante nella poetica delle Heroides. Inoltre questi versi hanno una precisa funzione nell'economia del racconto, perché segnalano, al lettore `a che punto è' la storia di Penelope (per questi problemi cfr. il saggio introd., p. 15 sgg.). Te quaerere misso ha posto qualche problema, dato che nessun personaggio umano, e certo non Penelope, manda Telemaco a Pilo, ma l'espunzione non risolve granché; infatti resterebbe comunque una certa contraddizione fra 63-65 e 99-100 (cfr. ad loc.). Il punto è che la Penelope ovidiana ha ottimi motivi per sottolineare il suo interesse e accentuare la sua partecipazione attiva alle ricerche del marito (cfr. Anderson 24). Forse l'intricata collocazione delle parole ai vv. 38-39 sottolinea lo sforzo e la complicazione di questa missione informativa. In ogni caso, misso potrebbe ottimamente riferirsi a un agente divino, cfr. in questo senso Od. 4, 712 («un dio forse l'ha spinto, e forse il suo cuore bramò d'andare a Pilo... »).

39 OMNIA Ci può essere un filo di ironia, perché Omero non attribuisce a Nestore un racconto così ricco, ma Nestore è proverbialmente verboso, e in Od. 3, 114 sgg., in risposta a una domanda circoscritta di Telemaco, dice che per riferire tutto (atavta 114) quello che è successo a Troia dovrebbe trattenerlo per cinque o sei anni.

39-46 La spedizione notturna della Dolonia, l'unica impresa significativa che vede Odisseo protagonista nell'Iliade (cfr. A A . 2, 135 sgg.). Il ruolo di Ulisse è grandiosamente rivalutato rispetto alla tradizione epica; l'impostazione tendenziosa del racconto si può accostare al più misurato autoelogio che Ulisse pronuncia nell'Armorum iudicium ovidiano, met. 13, 238-258. In Omero, nel Reso, e in Virgilio, tutta la strage nel campo di Reso è perpetrata da Diomede; Odisseo si occupa solo dei cadaveri e dei cavalli (11. 10, 488 sgg.). Questo diventa, nella focalizzazione di Penelope, totque simul mactare viros adiutus ab uno. L'effetto del procedimento è di marcare la restrizione di campo e la parzialità del punto di vista di Penelope, che non può evitare di porre Ulisse al centro degli eventi, e indubbiamente esagera i pericoli dell'impresa: mactare, al v. 43, chiarisce molto bene che si tratta di una carneficina di inermi. Secondo Jacobson 256-7, invece, Penelope vuole svolgere una critica «bitingly sarcastic, even insulting» alla mediocre codardia di Ulisse. L'interpretazione rovina il delicato contrasto, tipicamente ovidiano, tra «realtà» e interpretazione soggettiva del mito, e introduce al suo posto un'ingombrante costruzione psicologistica. Sulla relatività delle storie dette e ridette è istruttivo A A . 2, 128: il narratore Ulisse referre aliter saepe solebat idem.

tDOLOt Dolus è parola tematica quando si parla di Ulisse, e le due ricorrenze di 40 e 42, se prese ognuna per sé, non ingenerano particolare sospetto. Tuttavia la ripetizione è particolarmente dura: Sedlmayer richiama a difesa la ripetizione di nurus in 5, 82 e 84, con parallela distribuzione metrica. Altro materiale in H. D. Naylor, «Class. Rev. » 21, 1907, 42 sg. Nella storia di Dolone elementi dolosi non mancano. Odisseo e Diomede gli tendono un agguato (11. 10, 344 sgg.) mentre va a spiare i Greci spinto da una preziosa ricompensa. Si può considerare dolus anche il modo tenuto da Ulisse per strappargli le informazioni (cfr. Jacobson 256 sg. e Ov. met. 13, 98 sgg.; 244 sgg.). Oppure, meglio, il dolus può essere quello tentato da Dolone stesso, che vuole infiltrarsi nel campo degli Achei. Inoltre l'accostamento di Dolone con SóXos / dolus produce un ovvio effetto paretimologico, già noto ad altri letterati antichi, v. [Eur.] Rhes. 158. Ma a complicare la situazione, i codici E e V hanno dolon, che manifestamente ha l'aria di una glossa a ille, penetrata nel testo (se è questo che significa l'apparato di Dòrrie; molto più chiaro Palmer in apparato e nel suo commento a p. 281). Fra le congetture proposte si segnala lucro di Tyrrell: Dolone fu rovinato dalla promessa di un guadagno, il possesso dei cavalli di Achille (si possono citare due passi di Ovidio, A . A . 2, 135 sg. ; met. 13, 253). Vigil di Palmer

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40 HIC Si tratta chiaramente di Reso; per altri casi di hic riferito al termine meno vicino di una coppia v. Shackleton Bailey 259; ThIL VI 2715, 40 sgg. SOMNO PRODITUS

Una chiara derivazione da Verg. Aen. 1, 469 sgg. Rhesi niveis tentoria velis I adgnoscit lacrimans, primo quae prodita somno / Tydides multa vastabat caede cruentus (una scena di violenza memorabile: si noti il cromatismo di cruentus polarizzato da niveis).

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comporta un elaborato, interessante concettismo. Nel passo parallelo di A . A . 2, 136 Dolone è vigil «esploratore, spia», non certo «sveglio», ma l'accostamento con somno proditus attiverebbe anche questo significato, creando quasi un'anfibologia. Per un accostamento delle due idee v. her. 12, 103 insopor ecce vigil; per la nottata di Reso e Dolone è confrontabile Ib. 625-30. Nel complesso la difesa di dolo lascia campo a gravi incertezze, e lo spettro delle soluzioni proponibili - soprattutto se si pensa all'originaria intrusione di un glossema - rimane molto ampio.

9, 21) finisce per ricordare la prassi ufficiale del trionfo romano. Il suggerimento è sviluppato in met. 13, 251 sg. atque ita captivo, victor votisque potitus, l ingredior curru laetos imitante triumphos; cfr. Pont. 3, 4, 100 (di un trionfatore) iunctis... ibit equis; AA. 1, 214.

41 NIMIUM NIMIUMQUE Questa geminazione enfatica non sembra avere precedenti letterari, ma ricorre anche in un poeta legato a Ovidio, di datazione come è noto assai spinosa, `Ligdamo' ([Tib.] 3, 6, 21). A usus è demistificato in met. 14, 671 [Penelope] coniunx timidis audacis Ulixei. 42 TANGERE CASTRA Per tangere come espressione di audacia avventurosa v. p. es. Hor. carm. 3, 3, 54; Ov. met. 4, 779. 43 Mattare, termine di origine sacrificale, si adatta solo all'uccisione di vittime inermi (piuttosto eccezionale Verg. Aen. 10, 413). Cfr. v. 21 iugulatus e n.; Fordyce a Aen. 7, 93 e 8, 294. Sono scelte lessicali ironiche che stringono, per così dire fuori campo, un patto fra autore e lettore, eludendo l'intenzionalità di Penelope. 45 MICUERE Usato normalmente per il pulsare del sangue nelle vene e il palpitare del cuore. Piuttosto vicino Tib. 1, 10, 12 nec audissem corde risicante tubam, che è anche il primo esempio riferito al cuore. Per il nesso con sinus cfr. A . A. 3, 722 pulsantur trepidi corde micante sinus; her. 5, 37 attoniti micuere sinus. 46 I cavalli di Reso erano di proverbiale pregio e velocità, cfr. Hom. Il. 10, 437 (più bianchi della neve); Catull. 58 b, 4; la loro cattura è di particolare importanza secondo certe tradizioni, in quanto sarebbero stati collegati al destino di Troia, cfr. Schol. Hom. Il. 10, 435; Serv. ad Aen. 1, 469. Il ritorno sul carro (equi, cfr. Palmer ad loc.) di Reso (Ismarius genericamente riferito alla Tracia, cfr. Ov. am. 2, 6, 7; 3,

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47 SED MIHI QUID PRODEST Movenza che ricorda certe recusationes di poesia epica in nome dell'amore, cfr. Prop. 1, 9, 9 quid tibi nunc prodest; Ov. am. 2, 1, 29 quid mihi profuerit velox cantatus Achilles? Penelope scopre il punto di vista dell'elegia. DISIECTA

Espressione molto energica: Naev. com. 57 R.2 saxa silvas lapides montes dissicis, dispulveras; «non lasciare pietra su pietra», cfr. Nep. Han. 7, 7; Verg. Aen. 2, 608 sgg. (il modello principale di questo passo) hic, ubi disiectas moles avulsaque saxis / saxa vides... Neptunus muros magnoque emota tridenti l fundamenta quatit totamque a sedibus urbem I eruit; 8, 290 sg.; 355. V. anche Eur. Hel. 108 (di Troia) ovo' lxvog ye tEIxéwv eivat oaTés. LACERTIS

La concretezza dell'espressione è un po' inattesa (cfr. poi Claud. 15, 460; Anth. Lat. 431, 7) e la scelta di lacertis può avere un rapporto con il punto di vista di Penelope `vedova'. 48 ILIOS La forma femminile anche altrove in Ovidio (met. 14, 467) accanto a Ilion (p. es. met. 6, 95); il virgiliano Ilium, è stato autorevolmente suggerito, comporta un tocco di deliberato arcaismo. MURUS QUOD FUIT, ESSE SOLUM

Il cliché più normale in latino è solo aequare (p. es. Ov. fast. 6, 643; trist. 3, 10, 18; Liv. 24, 47). Sono presenti immagini virgiliane: Aen. 3, 3 omnis humo , f umat Neptunia Troia; 3, 11 et campos ubi Troia fuit; 10, 60 atque solum quo Troia fuit - che non deve spingere a normalizzare l'efficace quod del nostro passo. Per questo tipo di equivalenze poetiche cfr. Prop. 4, 1, 1-2 Hoc quodcumque vides... qua maxima Roma est, / ante Phrygem Aeneam collis et herba fuit; Ov. met. 2, 262 sg. siccaeque est campus harenae, l quod modo pon-

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tus erat. Per la variazione si noti trist . 3, 11, 25 non sum ego quod fueram, su Prop. 1, 12, 11 non sum ego qui fueram. 50 DEMPTO FINE Perifrasi molto rara e forse ricercata per l'usuale sine fine; è attestata qui per la prima volta (poi solo trist. 3,11, 2; Sen. Phaedr. 553). Cfr. Lucr. 1, 976 e Ov. am. 1, 9, 10 exempto fine. CARENDUS

La privazione di Penelope trova un'espressione drastica, non comune, in carendus: questo impiego del gerundivo ha certo analogie (cfr. K.-S. I 103 sg.; per careo transitivo, arcaico, I 468) ma carendus non pare altrimenti attestato, e si inserisce in una tipologia inattesa per la lingua poetica augustea. Nel contesto dello stile ovidiano l'effetto è arcaizzante. Cfr. anche Plaut. Stich. 1 sgg. credo ego miseram / fuisse Penelopam ... quae tam diu vidua I viro suo c a r u i t. Aug. civ. 1, 20 è un parallelo di limitato valore perché la coppia allitterante e isosillabica cavendi carendique mali orienta la selezione morfologica. 51 Cfr. met. 13, 507 «soli mihi Pergama restant» (Ecuba dopo la caduta). L'accostamento di due dativi, scolasticamente parlando, di 'vantaggio' e `svantaggio', produce un'antitesi non banale (v. G. Landgraf, «Arch. lat. Lex. » 8, 1893, 46 sgg.), sostenuta dal chiasmo. 52 INCOLA `Insediato come colono', all'uso romano, ma l'espressione non è tecnica e l'uso di incola attributivo è altamente ricercato, cfr. p. es. Ov. fast. 3, 582: si tratta di una vaga suggestione, consapevolmente anacronistica. L'effetto è di sottolineare la definitiva stabilità della conquista. Per la fraseologia ufficiale romana in un caso paragonabile cfr. Liv. Epit. 60 (deduzione di una colonia in solo dirutae Carthaginis). CAPTIVO... BOVE

Captivus è usato anche in poesia per il bottino di guerra (p. es. Verg. Aen. 7, 184 captivi ... currus; 2, 765; 11, 779; Hor. ep. 2, 1, 193 captivum... ebur, captiva Corinthus), ma con bos è ovviamente meno elevato, cfr. Liv. 26, 34, 5 pecua captiva.

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Il modello è, ancora, properziano, 3, 9, 41 moenia cum Graio Neptunia pressit aratro [sc. victor equus], con una somiglianza referenziale solo apparente. L'espressione è paradossale non tanto perché si ara il suolo di una città appena estinta, ma perché Pergamo è collegata all'idea di una ripida rocca ("IXLos alnMtvr) Hom. 11. 13, 773; ardua già Enn. scen. 77 V.2). Per i lettori romani l'aratura del suolo di una città vinta si associava spontaneamente non a un'idea di coltivazione - come qui - ma una precisa norma sacrale, cfr. p. es. Mod. Dig. 7, 4, 21 si... aratrum in ea [sc. civitate] inducatur, civitas esse desinit, ut passa est Karthago (altri esempi sono recati da Fedeli a Prop. 3, 9, 41). Si noti nel complesso dei vv. 47-56 il senso del passare del tempo, riassorbito nell'attesa estenuante di Penelope, e fatto filtrare dalla gradualità delle immagini poste in sequenza progressiva: disiecta - solum - arat - seges - resecanda. 53 UBI TROIA FUIT = Verg. Aen. 3, 11 (riferito però a campos!). Una visita di Ovidio nella Troade è attestata, cfr. Fast. 6, 423. 54 PINCUIS Phrygius per Troiano' è del tutto tradizionale, ma alla scelta non è estranea la connotazione di paese `grasso, opulento' che i Romani associano alla Frigia, cfr. Hor. carm. 2, 12, 22 pinguis Phrygiae Mygdoniae opes («fruchtbar» Kiessling-Heinze). L'immagine è di gusto forte perché pinguis è un termine tecnico dell'agricoltura, e il nesso è quindi di una concretezza violenta, `resa fertile dal sangue', cfr. l'uso di ntaívw in Aesch. Sept. 587; Plut. Mar. 21, e Hor. carm. 2, 1, 29 con la n. ad loc. di Nisbet-Hubbard (per usi neutri di pinguis in poesia v. p. es. Tib. 2, 3, 6 pingue... solum). Notevole la trasformazione di Stat. si/v. 5, 3, 39 dove Phrygio... pingues sanguine campos sono le terre del Lazio dopo la guerra fra Turno ed Enea; cfr. anche Petron. 120 v. 99 nutritas sanguine fruges; Lucan. 7, 8, 65. Il modello centrale di questi versi è chiaramente nelle Georgiche di Virgilio, 1, 491 sgg. ... bis sanguine nostro / Emathiam et latos Haemi pinguescere campos. / Scilicet et tempus veniet, cum finibus illis / agricola incurvo terram molitus aratro l exesa inveniet scabra robigine pila / aut gravibus rastris galeas pulsabit inanis l grandiaque effossis mirabitur ossa sepulcris. Si tratta di una profezia di tempi lontani: le armi arrugginite fanno pensare a una lontana epoca di

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pace futura, e le ossa sono `grandi' come, secondo Omero, erano più grandi dei Moderni gli eroi di una volta. Il modello, nato per esprimere l'attesa di un remoto avvenire, viene piegato alla più concreta e limitata attesa di Penelope.

triumphi, l victor qua terrae quaque patent maria; Lucan. 1, 201 «en adsum victor terraque marique». L'espressione stacca sulla descrizione precedente e introduce una nuova sezione, in cui l'antefatto troiano perde qualsiasi rilievo, ed è forse significativo il richiamo di abes al v. 80 (abesse velis, un altro momento che ha funzione di passaggio nella struttura dell'epistola, cfr. n. ad loc. e Jacobson 275).

55 sg. Oltre al modello virgiliano appena ricordato è presente Prop. 4, 10, 30 in vestris ossibus arva metunt (l'antica, estinta Veio). La properziana `poetica delle rovine' è riutilizzata in modo originale, orientata a esprimere l'estenuante attesa. V. per il suono anche Prop. 2, 6, 36 et mala desertos occupar herba deos. Per curvis aratris cfr., oltre a Verg. ge. 1, 494, Tib. 2, 3, 7 curvum sectarer aratrum. Ossa, isolato dall'enjambement, è di una macabra evidenza. Ruinosus ha l'aria di un termine tecnico (`soggetto a crolli' Vitr. 2, 82); in poesia ancora solo Iuv. 6, 016, in un brano di forte espressività realistica. Come altri agg. in -osus, rientra nella passione di Ovidio per i dettagli descrittivi; intensi e `fisici', questi aggettivi vengono spesso inseriti a contrasto in movenze sentimentali e patetiche, o convenzionali e scolorite. C'è comunque già una larga tendenza virgiliana a neoformazioni o parole giovani in -osus (v. p. es. Williams a Aen. 3, 705 e 5, 352) e una ancora più marcata nel IV libro di Properzio (cfr. Trànkle 60). Notevole anche l'espressività di semisepultus, attestato solo qui in latino (Ovidio si segnala per innovazioni come semi-adapertus, semibos, semicaper, semicrematus e -cremus, -deus e -dea, -homo, -lacer, -reductus, -refectus, -supinus; solo Apuleio può vantare un maggiore contributo individuale). Lo sviluppo di questi aggettivi ha una componente tecnica e una di creatività poetica, e conta anche sull'esempio dei composti in t ii-, dove entrambe queste funzioni sono operanti (ad es. in prosa tecnica o scientifica, e in poesia soprattutto alessandrina). Come riscontro si noti che Ennio ha un solo composto in semi-, mentre una crescente produttività si dispiega in Cicerone poeta (2 nuovi casi), Lucrezio (2), Catullo (4), Virgilio (5). Semisepulta, comunque, apporta un tocco di precisione nell'immagine; Virgilio parlava, separatamente, di elmi urtati dagli aratri e di sepolcri scoperchiati, ed è chiaro che un aratro può urtare solo qualcosa di non profondamente interrato. 57 VICTOR ABES Forse da sentire come rovesciamento di una formula prefissata, cfr. p. es. Catalepton 9, 3-4 victor adest, magni magnum decus ecce

58 FERREUS ORBE Ferreus è una delle parole-chiave che riconnettono l'epistola al codice dell'elegia romana (v. soprattutto lentus al v. 1 e n.). Notevole soprattutto Tib. 1, 2, 65 sg. ferreus ille fuit qui, te cum posset habere, / maluerit praedas stultus et arma segui. Come è ben noto, l'elegia non fa che mediare nel suo codice letterario (attuando una sorta di restrizione ideologica) espressioni già diffuse nella lingua d'uso quotidiana (p. es. in questo caso, cfr. Cic. Fam. 15, 21, 3 ferreus essem si te non amarem). Ma per Ovidio la `restrizione' elegiaca è ormai compiuta, e l'elegia può se mai essere decostruita, ma non ignorata. Per il senso di orbis in Ovidio v. Hollis a A . A. 1, 685; rem. 630. L'idea di fondo sembra che Ulisse può anche aver lasciato la 'parte del mondo' conosciuta. Ovidio certamente conosceva le discussioni dotte (Eratostene etc.) sull'exokeanismòs di Odisseo; a Roma ne abbiamo chiari riflessi in un testo di medio livello come il Panegirico di Messalla (78-9 atque haec seu nostras inter sunt cognita terras, I fabula sive novum dedit'his erroribus ORBEM). 59-60 Accanto alla situazione omerica (Penelope interroga gli stranieri di passaggio e l'ultimo di questi stranieri, come sappiamo, è Ulisse) è opportuno richiamare, con Palmer, Prop. 1, 8, 23-24 Nec me deficiet nautas rogitare citatos l «Dicite. quo portu clausa puella mea est?». Sul tema della lettera v. anche sopra, p. 15 sg. 59 Puppis sembra più naturale se inteso come sineddoche — uso poetico ma ormai trito, sin dagli Aratea di Cicerone e da Catullo — ma il Parrhasius, riportato da Burman, sostiene che si tratti di un'indicazione più tecnica: sarebbe la manovra di approdo descritta p. es. in Verg. Aen. 6, 3 sgg. (obvertunt pelago proras, cfr. invece 7, 35 terraeque advertere proras, l'approdo definitivo nel Lazio), una manovra tipica di una sosta breve quando già si tiene la prora verso il mare,

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pronti a ripartire. Ci sarebbe allora una certa analogia con Prop. 1, 8, 23, citato alla n. precedente, purché lì si interpreti citatos come properantes: gente `di passaggio'. La manovra di approdo con la poppa verso terra è in effetti diffusa, cfr. Liddell-Scott-Jones s.v. nev tvrl. Il parallelo di her. 12, 25 inexpertam Colchos advertere puppim non è comunque a favore di questa interpretazione, se vertere ad è sovrapponibile con advertere (per l'idea di `dirigere verso' una nuova destinazione cfr. Hor. epod. 2, 52, con verto, e Verg. Aen. 6, 410 caeruleam advertit puppim ripaeque propinquat, con puppis «barca»). 62 Notare per `scrivere' è in linea generale un poetismo (Verg. ed. 5, 14; her. 3, 2), e con oggetto ciò su cui si scrive sembra essere una preferenza ovidiana, cfr. am. 1, 11, 14 blanda cera notata manu; Pont. 4, 3, 26 verbis charta notata tribus. Per charta riferito a lettere, biglietti, cfr. Ov. A. A. 3, 623-25. 63-65 Se si riferiscono questi versi alla missione di Telemaco già ricordata a 37-38 (cfr. 37-40 n.), bisogna ammettere una chiara divergenza rispetto a Omero, dove Penelope è ignara della partenza di Telemaco per Pilo e Sparta (cfr. Od. 3, 373 sgg.). D'altra parte Penelope, ormai informata dei risultati del viaggio (cfr. 65 e n.), è verosimilmente interessata a valorizzare agli occhi del marito un proprio ruolo attivo. V. anche 99-100 e n. 63 Vera e propria citazione omerica, non solo per il «vecchio Nestore» ma per Neleia (epiteto ripreso ad hoc). Il riferimento è a Od. 3, 4 sg. ot Sé flaov, Nikrlos Hxt trvov ntoXiE$eov, / Nov. La forma N1Xrlìos è attestata, e applicata a Pilo, nell'Iliade (11, 682).

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dire il vero, qualcosa ha appreso a Sparta (mentre di Nestore come informatore già si parlava prima): cioè che Odisseo è trattenuto dalla ninfa Calipso. Proteo lo rivela a Menelao, e Menelao lo riporta brevemente (Od. 4, 555 sgg.); Telemaco ne informa fedelmente Penelope in 17, 142 sgg. Questo retroscena rende più piccante l'esposizione dei sospetti di Penelope ai vv. 71-78 dove, curiosamente, fa capolino l'episodio di Calipso. Così si spiegherebbe meglio veri che a Bentley (vestri) faceva difficoltà. 66 Per lentus cfr. v. 1 n.; per abes, v. 57 n. 67 Suggerito da Aen. 2, 56 Troiaque nunc stares, con un evidente mutamento di pathos. Per la designazione moenia Phoebi v. Hom. Il. 7, 452-3 e 21, 441 sgg. (dove però l'artefice è solo Posidone, cfr. Ov. her. 3, 151); Eur. Andr. 1009; Tro. 4-7; Hel. 1509-11 q ot(3Eious nveyovs. V. anche a 3, 151. Utilius è una tipica espressione ovidiana in contesti di ideologia erotica (cfr. n. a 3, 54). 68 Cfr. Ov. am. 3, 15, 8 invideo donis iam miser ipse meis. 72 Certi usi metaforici di area, così diffusi in Ovidio, non sono poetici prima di lui: am. 3, 1, 26 «Haec animo, dices, area fatta meo est» («sì, è questo il mio vero campo»); trist. 4, 3, 84 et patet in laudes area lata tuas. In generale area evolve da impieghi più concreti (riferiti a un'imagery di circo o di arena) verso applicazioni più astratte; ma qui c'è una leggera, umoristica riduzione dello scarto. L'area in cui Penelope può esercitare le sue ansie è uno spazio geografico; corrisponde, come sappiamo, all'immensità del mondo attraversato da Ulisse.

65 MISIMUS Mirto + indicazione direzionale, senza oggetto, e con intenzione solo implicita, è un idioma colloquiale senza precedenti poetici (v. p. es. Cic. Att. 4, 11, 1).

73 La struttura fonica del verso, con l'insolita perseverazione della qu, dà una nuova intonazione al tradizionale motivo del `soffrì per terra e per mare', così importante già nel proemio dell'Odissea.

NESCIA VERI

PERICULA

Cfr. Ov. met. 1, 614. È un'indicazione forse meno innocente di quanto sembri, proprio per la sua brevità spazientita. Telemaco, a

10 casi del plur. in Virgilio, 24 in Ov., tutti in questa posizione metrica; periculum offre a Ovidio alcune variazioni dello schema.

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74 SUSPICOR Per la proverbiale sospettosità degli amanti cfr. il suspicor di Prop. 2, 6, 14. Il verbo, che ha 19 attestazioni in Ovidio, è complessivamente molto raro in poesia (Axelson, 68); gli usi oraziani (carm. 1, 17, 25; 2, 4, 22) confermano una specializzazione letteraria nella tematica amorosa.

tive; si noti che externus amor indicherebbe solo amore di una rivale, amore extraconiugale: Prop. 1, 33, 44; 2, 19, 16; Ov. her. 5, 102; 17, 98; met. 14, 380; fast, 2, 804. Cfr. l'aria di gelosia di Levio, Protesilaudamia 18 Mor. aut / nunc

75 METUO La variante meditor accolta da Dùrrie non è convincente: questo verbo in Ovidio vale «escogitare, architettare» non «fare riflessioni» (v. M. D. Reeve, «Class. Quart.» N. S. 23, 1973, 324). Per stulte di `ingenuità' in amore v. Tib. 1, 9, 45. VESTRA LIBIDO

L'opposizione generalizzante fra i sessi è tipico linguaggio da elegia, cfr. p. es. Prop. 3, 19, 1 obicitur totiens a te mihi nostra libido (con Fedeli ad loc.); 2, 9, 31 sg. sed vobis facile est verba et componere fraudes: l hoc unum didicit femina semper opus; 3, 15, 44; 2, 29, 31 (parla Cinzia) «me similem vestris moribus esse putas?» QUAE... EST

Queste forme di relativa parentetica e `compressa', in cui si sottolineano le qualità o i sentimenti di una persona, appartengono a un registro colloquiale e informale; il tipo `di seconda persona' è particolarmente bene attestato (per ovvi motivi di funzione comunicativa) nell'epistolario di Cicerone (p. es. Fam. 7, 2, qui meus in te amor est; 7, 13, 1 quae tua gloria est, ma anche Cael. 45 quae vestra prudentia est). L'esempio poetico più solitamente citato (da K.-S. II 314; OLD s.v. Qui, b 12 a) è Hor. sat. 1, 9, 54, dove la stilizzazione colloquiale è delle più evidenti: «velis tantummodo: quae tua virtus, I expugnabis». Comunque non mancano esempi ovidiani, non solo in situazioni epistolari (Pont. 1, 7, 59 quaeque tua est pietas = 2, 2, 21) ma anche nell'epica, met. 5, 373 «quae iam patientia nostra est». Questo rientra nell'apertura di Ovidio non tanto verso tratti di stile `basso', quanto verso movenze vivaci, svelte, dialogiche, che spezzano certe rigidità del parlato letterario. 76 PEREGRINO Molto usato da Ovidio (in Virgilio solo Aen. 11, 772, di un italico adorno di lusso `esotico'; per l'uso `antipatico' del termine v. anche Hor. carm. 3, 3, 20 nel contesto), spesso senza implicazioni valuta-

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quaepiam alia te puella / Asiatico ornatu affluens / aut Sardiano aut Lydio I fulgens decore et gratia / pellicuit, dove le connotazioni di «amore straniero» (raffinato, disinibito) sono sviluppate con ricchezza di toni; Prop. 3, 20, 6 (di un marito lontano) forsitan ille alio pectus amore terat; e in generale 4, 3, 25 sgg. per la gelosia di Aretusa. Le avventure amorose di Ulisse erano probabilmente trattate nella Sirenocirca di Levio (cfr. F. Leo, «Hermes» 49, 1914, 186). 76-78 Per la rilettura penelopea della scena fra Ulisse e Calipso v. il saggio introd., p. 25 sg. (anche su rustica; cfr. her. 17, 14-15; 188; si noti anche che rusticitas non è attestato in latino prima di Ovidio). Sulla possibilità che Penelope `sappia' v. sopra, n. a v. 65. 78 RUDIS Come rusticus, l'agg. ha un ruolo preciso nell'ideologia modernizzante di Ovidio (cfr. p. es. A . A . 2, 624; 3, 113); l'uso tecnico applicato a lane, abiti, etc. non sembra attestato prima (cfr. met. 6, 19 con Bómer ad loc.) ma dev'essere un tratto usuale, cfr. Fest. 265 M.; CIL 2, 5181, 43. 79

Fallar potrebbe avere un ironico doppiofondo: «possa io sbagliarmi» ma anche «essere tradita». VANESCAT

Verbo scelto e poetico, attestato in Catullo (64, 199 vos nolite paci nostrum vanescere luctum), poi decisamente prediletto da Ovidio (p. es. am. 2, 14, 41; her. 12, 85 vanescat in auras); in prosa non prima dell'età flavia. Per la struttura del verso cfr. Ov. rem. 653. 80 sgg. La parola chiave di questo verso, liber, introduce un'intera sezione finale, 81-116, dove il presupposto unificante è il dubbio, il sospetto che l'assenza di Ulisse sia deliberata, e che si richiedano argomenti

persuasivi per farlo tornare. Già questo presupposto (bene Jacobson 258) è in radicale contrasto con lo sfondo omerico: su di esso poi si

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inserisce, come vedremo tra breve, un tentativo di ingelosire Ulisse (cfr. Sc. Mariotti, «Belfagor» 12, 1957, 619). La raffigurazione dei Proci media con abilità fra il modello omerico (la centralità delle preoccupazioni sulla «roba», cfr. l'ironia di Hor. sat. 2, 5, 79 sgg.) e la strategia galante (i piccanti accenni di minaccia sessuale, cfr. v. 88).

Per il contesto v. Prop. 1, 4, 1-2 quid mihi tam multas laudando, Basse, puellas I mutatum domina cogis abire mea? E possibile che a questa situazione alluda Pacuvio, Niptra 249 R.2 Spartani reportare instat, id si perpetrat.

80 REVERTENDI LIBER Costruzione audace, con paralleli non vicinissimi. Certus eundi Verg. Aen. 4, 554, da contrastare con her. 7, 9 certus es ire, nella stessa situazione narrativa - offre un buon punto di partenza; in generale, prima di Ovidio questi usi del gerundio riguardano per lo più aggettivi come cupidus, peritus, conscius (v. per la documentazione H. -Sz. 375; K.-S. Il 738 sg.). 81 sgg. Nell'Odissea vi sono numerosi brevi accenni, non sempre armonizzati fra loro, al ruolo del padre in un nuovo matrimonio di Penelope (cfr. soprattutto 1, 275 sgg.; 2, 52 sgg., 14, 130 sgg.). D'altra parte una presenza diretta di Icario sulla scena taglierebbe corto alla situazione di incertezza che è funzionale alla narrazione omerica; e Omero non chiarisce neanche esattamente dove Icario stia di casa. Ovidio porta chiarezza assegnando a Icario un ruolo attivo, pienamente giustificato, nelle aspettative dei lettori romani, dal suo ruolo di paterfamilias. Inoltre, le pressioni di Icario verso nuove nozze sono, nella prospettiva suasoria della Penelope ovidiana, un forte elemento di pressione su Odisseo. Tutto ciò trova un netto parallelo nel passo omerico in cui queste insistenze del padre vengono meglio focalizzate. In 15, 16-17 Atena, per affrettare la partenza da Sparta di Telemaco, dice che Icario avrebbe ordinato a Penelope di sposarsi su due piedi con il più ricco dei Proci. L'accenno è chiaramente una trovata estemporanea: serve a precipitare il rientro a casa di Telemaco proprio come, in Ovidio, dovrebbe servire ad affrettare il ritorno di Ulisse. In 19, 158 sg. Penelope riprende di sfuggita questo tema parlando - senza saperlo - a suo marito. 81 PATER ICARIUS Il nome risulta noto a Roma già da Prop. 3, 13, 10 (lcariotis = Penelope).

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83 OPORTET Parola considerata in genere di colorito prosaico, cfr. Lachmann a Lucr. 1, 778 citato e discusso da Axelson 13 sg. (ma v. Fedeli a Prop. 3, 7, 72). Va sottolineato che il recupero in contesti poetici avviene fin da Catullo (solo negli epigrammi, v. 70, 4; 90, 3) e soprattutto in Properzio, in situazioni enfatiche: 2, 8, 25 mecum moriaris oportet; 3, 7, 72 ante fores dominae condar oportet iners (cfr. Ov. Pont. 3, 1, 6 condar oportet humo); 4, 1, 70. In età augustea la parola non sembra ancora acclimatata in poesia elevata; l'unica occorrenza virgiliana, ed. 6, 5, può essere significativa perché si tratta di una recusatio dell'epica (pascere oportet ovis...); è poi ammessa nelle Metamorfosi, 7, 729, in contesto di intonazione eroticoelegiaca (Cefalo e Procri). Nel complesso sembra che il veicolo di oportet in poesia sia un certo lessico della `necessità erotica' tipico di Properzio (considerazioni simili si potrebbero fare per la diffusione di cogor). Per l'uso di dicor in contesti di fedeltà proclamata cfr. Prop. 1, 19, 11 semper tua dicar imago. 82 Cfr. Tib. 1, 3, 16 quaerebam tardas anxius usque moras (e v. K. F. Smith a Tib. 1, 2, 88 per la frequenza di usque negli elegiaci in cadenze fisse). 84 Con involontaria suggestione di immortalità, cfr. Hom. Od. 24, 195 sgg. «si ricordò così bene di Odisseo, del marito legittimo. La fama del suo valore non svanirà mai per lei: gli immortali per la saggia Penelope comporranno un canto piacevole ai terrestri». 85 sg. PIETATE MEA PRECIBUSQUE PUDICIS / FRANGITUR Penelope pronuncia finalmente le parole tematiche che rendono il suo personaggio così popolare. Per il carattere paradigmatico di Penelope a Roma v. Catull. 61, 223; Hor. carm. 3, 10, 11 (antonomastico); Prop. 2, 6, 23 sgg. (amore coniugale, tempia Pudicitiae); 2, 9, 3 sgg. (fedeltà ostinata); 3, 12, 38 (castità, fedeltà); 3, 13, 9-10

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(esempio per assurdo; categoria delle pudicae); 3, 13, 24 (pia Penelope); 4, 5, 7-8 (esempio per assurdo); Ov. am. 2, 18, 29 (candida Penelope); 3, 4, 23 sg. (intemerata); A. A. 1, 475 (per assurdo); 3, 15 (pia Penelope). In Claud. carm. min. 30, 19-32 l'intera Odissea è vista come uno sfondo per esaltare la pudicizia di Penelope: le lunghe avventure esotiche di Ulisse sono finalizzate a comporre una scaena pudicitiae (v. 26). Frangi «commuoversi, addolcirsi» è un uso drastico ma molto comune (p. es. Prop. 2, 28, 34 frangitur et luno si qua puella perii; Palmer richiama l'uso di xataxXótw). Può essere una pura coincidenza ma Icario, così sensibile a pietas e pudicitia della figlia, è uno Spartano, noto alla mitologia per avere eretto una statua alla Pudicizia, Aidos, in onore della virtù coniugale di Penelope (cfr. Paus. 3, 20, 10 sg.). L'allitterazione triplice in fine verso dà un tocco di severità arcaica a questo resoconto.

88 Turba, usato iperbolicamente da Prop. 2, 6, 3 per i corteggiatori di Cinzia, è qui del tutto esatto. Luxuriosa e ruunt in me sono due espressioni drastiche. L'aggettivo non sembra poetico prima di Ovidio, e comunque appare qui in una accezione non frequente (`sfrenati' quasi `assatanati'); ruunt in me fa pensare all'oraziano ruentis / in venerem (carm. 2, 5, 3-4). L'abile pittura di Penelope non è comunque (come pensa Jacobson 269) aliena dalla mentalità dei proci omerici (Od. 1, 366 «tutti si auguravano di mettersi a letto con lei», con notevole schiamazzo). Si tratta anche qui di un topos, cfr. p. es. Prop. 4, 5, 8 lascivo... Antinoo, e il divertente rovesciamento di Hor. sat. 2, 5, 80 [iuventus] nec tantum veneris quantum studiosa culinae. Per la storia di proci - termine basilarmente poetico, molto legato al modello dell'Odissea - v. A. Traina, Poeti latini (e neolatini) 11, Bologna 1986', 35. (Sul numero dei proci omerici (più di 100) v. Od. 16, 245-53). Forse l'accostamento con ruunt e libidinosa rivaluta la parentela di procus con procax `sessualmente aggressivo'. Turba come apposizione di un plurale è elegante, cfr. Prop. 1, 19, 12 formosae veniant chorus heroinae; her. 9, 51 e 15, 202, e specialmente 5, 135 sg.; fast. 5, 298. Ci può essere un lieve sottinteso ironico, se si pensa alla turba clientum che normalmente attornia una casa prestigiosa; sul cliché gioca Marziale, 1, 73, 3-4 ingens / turba fututorum est (di una moglie; Citroni ad loc. richiama Prop. 3, 14, 29 sulla ingens turba che circonda e protegge le donne romane).

86-88 C'è un chiaro, e tatticamente abile, crescendo persuasivo tra le vires esercitate, ma poi controllate, da Icario (cfr. Ov. Pont. 3,6, 24) e la più preoccupante, scatenata libidine dei Proci. 87 Citazione letterale di un verso formulare omerico, spesso usato per introdurre i Proci: Acwi txicp te Eéiµrl te xalv?íicvtt Zaxvvftcp (Od. 1, 246 etc., cfr. Verg. Aen. 3, 270 sg. nemorosa Zacynthos / Dulichiumque Sameque et Neritos ardua...; Ov. met. 13, 711 sg.). Oltre a questo gruppo Omero ricorda anche fra i pretendenti dei «prìncipi» di Itaca, un concetto che non doveva riuscire troppo perspicuo ai lettori romani. ALTA ZACYNTHOS

L'epiteto di Zacinto, «selvosa» in Omero, nemorosa in Virgilio, è variato con ricorso a un altro epiteto paraformulare. Zacynthius esiste fin da Plaut. Merc. 945, ma non è confacente alla poesia esametrica. Samius è molto diffuso, ma naturalmente riferito a Samo. Dulichius ricorre già in Verg. ed. 6, 76; Prop. 2, 21, 13. Per il trattamento prosodico di Z- v. Aen. 3, 270 con Williams ad loc.

89 Aula «palazzo, corte» (diffuso in poesia a partire da Verg. ge. 2, 504 penetrant aulas et limina regum) è un po' solenne applicato al dominio di Ulisse; dato che la principale attività dei Proci (come vedremo subito) è gastronomica, ci potrebbe essere un doppiosenso con aula `recinto per il bestiame'. 90 Dilacero vale `sbranare', cfr. Catull. 64, 152. Housman, «Class. Rev.» 13, 1899, 176 sg. = CP I 478, ha limpidamente mostrato (dopo un suggerimento risalente già a Gronovius) che viscera nostra è ardita apposizione di opes, in base al topos per cui le proprietà sono «carne e sangue» di una persona. Se si accetta questa esegesi, la raffinatezza del costrutto appositivo (cfr. p. es. Ov. met. 13, 495 tuum, mea vulnera, pectus) bilancia la forte prosaicità di viscera, cfr.

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Cic. Dom. 124 visceribus aerarii; Pis. 28 tm. uniam ereptam ex rei publicae visceribus; Q. fr. 1, 3, 7 de visceribus tuis et filii tui. Una componente subordinata può essere l'idea del `banchetto' che dilapida le sostanze, cfr. l'uso di visceratio (p. es. Cic. Off. 2, 55 prodigi, qui epulis et viscerationibus... pecunias profundunt). Il contrappunto nostra / tuae connota la preoccupata fedeltà di Penelope ai beni della famiglia (cfr. Od. 18, 281 sgg.). Cfr. l'uso partecipativo di nostris da parte della legittima sposa Deianira in her. 9, 1 Gratulor Oechaliam titulis accedere nostris. Il tema delle ricchezze dilapidate, `mangiate', `spolpate', è centrale nell'Odissea quasi ogni volta che si parla dei Proci, cfr. 2, 237 sg. xatébovoty (3taiws / otxov 'OSvaoéwg; 4, 318 éO*letai Etot otxos; 16, 431 otxov... éSets; soprattutto 16, 389 xpjµat' ... à&wµev; 18, 280 Movaty (detto da Penelope!). In Od. 16, 127 sg. Telemaco dice che i Proci cp$tvi ovaty éSovtE; / o cov é tóv • tàxa Sri µs S tue e a 1 a o v a t >tal aútóv («forse faranno a pezzi anche me»); ma questo non è un buon motivo per interpretare (Palmer) viscera nostra, «nostro figlio Telemaco»; anche se viscera è spesso usato in Ovidio per «figlio» (v. M. Pokrowskij, Neue Beitrcige zur Charakteristik Ovids, «Philologus» Supp. 11, 1907-10, 398), ne deriverebbe un concettismo di insopportabile oscurità. Jacobson 269 sg. interpreta viscera con un riferimento sessuale, e ne deduce un improbabile «I am sexually assaulted» senz'altro troppo blando rispetto a dilacerantur. (La ricerca continua di overtones sessuali è del resto l'aspetto meno convincente in tutta questa lettura di her. I). Impossibile anche l'accostamento paratattico esperito da Prévost («met en pièces mon coeur et tes biens»).

cam, Bentley). L'intervento più centrato è senz'altro Polybum Amphimedontaque dirum (Accursius) che introduce il nome di un pretendente ben noto, quello che porterà notizie agli eroi dell'Ade in 24, 102 sgg. Molto più improbabile supporre, con Palmer, che Ovidio partisse da una lettura errata di Odissea 22, 242: à t pl Mé&wv per 'A tq qté&uv (nel contesto da cui emergono Pisandro e Polibo). Tuttavia, Danielle Porte (art. cit., sopra, n. a 15-16) ha trovato il nome Medonte in una lista di Proci presso Apollodoro, epit. 7, 27 (la Porte spiega anche dirum alla luce del nome ''AYetog che compare nello stesso passo, costruzione assai forzata). L'ipotesi che Ovidio usasse, almeno per i nomi dei personaggi minori, delle compilazioni mitografiche, è piuttosto verosimile; anche un errore di memoria non ha qui nulla di scandaloso (cfr. Wilkinson 231); ma forse è più probabile un riecheggiamento selettivo di Od. 16, 252 sg.

91-2 Se si guarda al modello, la scelta dei nomi dei Proci è in generale rappresentativa e curata: Antinoo e Eurimaco sono indubbiamente i più in vista; Pisandro e Polibo sono citati come specialmente valorosi in Od. 22, 243-45. 91 MEDONTAQUE DIRUM Ma in questa lista il nome di Medonte pone un serio problema: se Ovidio intende l'araldo di Penelope, si tratta di un personaggio fedele alla casata di Ulisse: informa Penelope sui progetti dei Proci (4, 677 sgg.), e viene risparmiato durante la strage per intercessione di Telemaco (22, 357 sg.). Solo in 16, 252 sg. e 17, 172 sg. il suo nome viene accostato in prospettiva amichevole a quello dei pretendenti. Correggere il solo dirum è medicina insufficiente (dium o di-

DIRUM

Riferito a persone è un epiteto forte e aulico, cfr. p. es. Verg. Aen. 2, 261 e 762 dirus Ulixes; Hor. carm. 3, 6, 36 Hannibalemque dirum. Sul campo semantico v. A. Traina, Poeti latini (e neolatini) II, Bologna 1981, 13-15. 94 Alla luce di Jacobson 261, non è inutile avvertire che partes di Dórrie è un refuso. Per il cliché sanguine parere cfr. Verg. Aen. 11, 24; inoltre, Ov. am. 3, 8, 9 parto per vulnera censu. 95 L'uso della cesura al terzo trocheo è particolarmente amato da Ovidio (che ne fa altrimenti uso assai parco, specie nelle opere elegiache) in versi ricchi di nomi greci: esempi in Haupt - Korn - Ehwald - von Albrecht a met. 7, 397. V. però Norden p. 431 (cesura prima di -que). IRUS EGENS

Definito ntwxós da Omero in sede di presentazione del personaggio (Od. 18, 1); sulla differenza fra egens e pauper è istruttivo Ov. rem. 748 alter egens [Iro] altera pauper [Ecale] erat. PECORISQUE MELANTHIUS ACTOR EDENDI

Melanzio è il capraio `nero' amico dei Proci, il vero anti-Eumeo. Actor è inteso da Palmer ad loc. come una sorta di tecnicismo bucoli-

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co, e lemmatizzato in modo equivoco da alcuni lessici (Georges, OLD; più soddisfacente Lewis-Short). L'uso del termine poggia, naturalmente, su ago, ma sembra che la parola non abbia alcuna tradizione fuori da questo passo: actor in accezione bucolica risulta solo come v. 1. in Ov. fast. 1, 547 (soluzione incerta, cfr. l'apparato di Castiglioni e Bómer ad loc.) e in Il. Lat . 489, dove è quasi certamente giusto ma deriverà da reminiscenza ovidiana. Sembra probabile che Ovidio abbia coniato questa accezione lavorando direttamente sul modello omerico: Od. 17, 213-4 (Melanzio entra in scena per la prima volta) atyas àywv, nàOt RET tQEnov ainoidotat / òeunvov tvricrukeoot, cioè, per l'appunto, come actor pecoris edendi (cfr. anche Od. 20, 173-75; 21, 265-66; 22, 198 sg.); non un `guardiano' di capre (come Eumeo, cura fidelis harae) ma uno che, come di mestiere, porta le capre a servire da banchetto per i pretendenti. Il bisticcio di parole omerico aipolos l aigas l agon serve da spunto a questa innovazione semantica (cfr. la mia nota in «MD» 13, 1984, 159 sg.).

di Telemaco a Pilo: l'agguato omerico è sulla via del ritorno (ingegnoso ma non risolutivo Jacobson 267). In ogni caso, paene ademptus risponde bene all'esigenza di coinvolgere Ulisse nella criticità del momento, senza chiarire troppo i dettagli; nuper è un nuovo tocco alla cronologia `interna' omerico-ovidiana.

96 ULTIMUS «pour comble de», cfr. Iuv. 3, 209 sg. ultimus autem I aerumnae cumulus. Per pudor personalizzato cfr. Ov. met .. 8, 157; Petr. 132, 9 omnium hominum deorumque pudor (rivolto a un fallo personificato, anche se muto). E presente un modulo colloquiale del tipo «il danno e la beffa», cfr. p. es. Hor. carm. 3, 5, 26 sg. flagitio additis I damnum; Plaut. Men. 82 homini misero si ad malum accedit malum. 97 La precisione di tres... numero, `tre in tutto', è potenziata dall'enfatica inserzione di imbelles, in iperbato. Per imbelles ... sine viribus v. p. es. Hom. 11. 2, 201 Cutracios xal etvakxts. 98 PUER Esagerazione patetica: Telemaco, se è figlio di Odisseo, non può avere meno di 19 anni. 99-100 Per il problema della missione di Telemaco cfr. anche 37-40 e n.; 63-65 e n. Invitis omnibus è, in termini omerici, solo parzialmente esatto: la missione di Telemaco è certamente invisa ai Proci ma, soprattutto, i preparativi sono clandestini e la partenza è all'insaputa della stessa Penelope (perciò ignaris Bentley). Meno spiegabile perché Ovidio collochi l'agguato dei Proci prima (dwn parai) del viaggio

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101 L'esigenza del morire in ordine `naturale' è diffusa nella letteratura consolatoria, nell'epigramma funebre e nell'epicedio. Per l'uso nelle epigrafi cfr., oltre al caso citato da Palmer, CE 2127, 5; inoltre p. es. Val Max. 5, 9, 2 ne naturae ordinem confunderet, non nepotes, sed filium heredem constituit. Si noti che anche ordo lignée' è attestato in Ovidio prima di affiorare nei giuristi, cfr. met. 11, 755 (inoltre, Verg. Aen. 7, 177). Ma v. per tutto il topos l'ampia documentazione di Citroni a Mart. 1, 114, 4 sg. 102 COMPRIMAT In questa precisa accezione è un caso isolato; Cons. Liv. 161 formarent oculos comprimerentque meos potrebbe dipendere da Ovidio. Comprimo si usa normalmente per `trattenere' la voce, il fiato; Sen. dial. 4, 4, 2 oculi ad intentationem subitam digitorum comprimantur riguarda il chiudere gli occhi per riflesso spontaneo. In mancanza di paralleli per «chiudere gli occhi» di qualcun altro, è probabile che Ovidio abbia cercato una variazione al più diffuso tondo del v. 113; cfr. anche l'uso di premo (Verg. Aen. 9, 487; Ov. am. 3, 9, 49). 103 HAC FACIUNT Per la storia degli interventi sul tràdito haec cfr. l'apparato di Dórrie e la buona nota di Palmer ad loc.; hac di Tyrrell è la soluzione giustamente prevalente, e stupisce che Dòrrie spenda le croci per questo passo. I paralleli principali sono Enn. ann. 258 V.2 Iuppiter hac stat (presumibilmente «sta dalla nostra», cfr. Skutsch 412 sg.), cfr. Verg. Aen. 12, 565; Cic. MI. 7, 3, 5 video... omnes damnatione invidiaque affectos illac facere (testo controverso); soprattutto, Ov. am. 1, 3, 11 sg. at Phoebus comitesque novem vitisque repertar I hac faciunt (dove ancora è tradito haec). Nonostante le incertezze dei singoli passi, la ricostruzione del modulo, così fragile a mantenersi nella tradizione manoscritta, appare solida; v. G. Luck, «Rhein. Mus.» 105, 1962, 351.

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103-4 Nonostante la forma allusiva della presentazione, né Filezio né Euriclea né Eumeo sono personaggi particolarmente popolari a Roma. La scena che rende famosa Euriclea, il lavacro dei piedi, figurava nei Niptra di Pacuvio, ma Cicerone (Tusc. 5, 46; Pacuv. 247 R.2) attribuisce l'azione ad Anticlea, il che pone vari problemi. 103 LONGAEVA Poetico ed elevato, l'agg. non compare prima dell'Eneide e di Properzio ma ha buone probabilità di risalire a poesia arcaica (forse tragica?), cfr. l'analisi di Norden 177. 104 Il verso bilancia con finezza una sorta di polarizzazione lessicale. Da un lato, hara è parola violentemente `bassa'; in poesia augustea solo Tib. 1, 10, 26 hostiaque e piena rustica porcus hara, ripreso in Ov. am. 3, 13, 6 ex humili vittima porcus hara; quindi - solo caso in poesia epica - met. 14, 286 «claudor hara», descrizione ellittica e sensazionale della metamorfosi circea, in cui l'aprosdoketon narrativo diventa sorpresa lessicale. Certamente Ovidio allude qui alla tanto discussa presenza `realistica' di Eumeo nel contesto eroico della poesia omerica: e in particolare avrà meditato la suggestiva contraddizione di Siog vcpoe(3óg (Od. 14, 3). Il termine `scandaloso' è bilanciato da immundus, che funge spesso in contesti poetici da presa di distanza; si può confrontare Verg. Aen. 5, 333 concidit immundoque fimo sacroque cruore, dove viene attenuata la crudezza difimus, senza del tutto cancellare la forte prosaicità del modello omerico, Il. 23, 775 óv$og «sterco»; rem. 432 in immundo signa pudenda toro (di un letto macchiato di secrezioni). Probabilmente anche l'uso attivo e personalizzato di cura è un tocco raffinato e letterario; cura = curator ricompare solo in usi burocratici del basso impero. In poesia augustea l'uso metonimico di cura è frequente, ma solo in senso passivo, `oggetto di cura', a partire da Verg. ecl. 1, 57 raucae, tua cura, palumbes. L'innovazione ovidiana sarà stata facilitata da custos del v. precedente e dall'analogia di custodia e tutela, frequenti in lingua letteraria nell'accezione «guardiano, protettore». Il nesso cura... fedeli ricompare, ma in senso proprio, in Ov. Pont. 2, 11, 23, sempre applicato a fedeltà verso una persona lontana. Per questa proverbiale qualità di Eumeo v. p. es. Stat. Si/v. 2, 6, 56 sg. non... fidelior... EumaeuA.

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105 Inutilis è di uso normale, anche assoluto, come àxeeiog: persona inadatta a combattere, o `fuori servizio', cfr. p. es. Verg. Aen. 2, 510 (Priamo); 10, 794 (Mesenzio ferito); 2, 647 sg. inutilis annos I demoror (Anchise). Le iuncturae con annis e armis sono entrambe intrinsecamente plausibili. Il Laerte omerico è, naturalmente, assai anziano, e si lamenta di non aver potuto «avere le armi in spalla» (Od. 24, 380) per combattere anche lui, e poi, solo nel finale del poema, si arma, «combattente per forza» di necessità (cfr. 24, 498 sg.). Nel complesso armis, data la vicinanza di hostibus, è leggermente più efficace; ma per la similarità dei due costrutti v. p. es. Fast. 2, 239 puer impubes et adhuc non utilis armis con trist. 4, 8, 21 miles ubi emeritis non est satis utilis annis / ponit ad antiquos, quae tulit, arma Lares. La ripetizione di annis al v. 111 non è argomento decisivo, data la frequenza di queste ricorsività nello stile delle Heroides. 107-8 Lo spostamento del distico dopo 109-10 (Bentley) rende più omogenea la sequenza, ma con l'ordine tràdito si ha un efficace chiasmo Laerte-Telemaco-T. -L. 108 NUNC ERAT Per queste forme di `impazienza' - non del tutto coincidenti con l'irrealtà - cfr. Hor. carm .1, 37, 2-4 nunc Saliaribus / ornare pulvinar deorum I tempus erat, sodales; Ov. am. 3, 1, 23 sg. tempus erat thyrso pulsum graviore moveri; l cessatum satis est: incipe maius opus: il tono di rimprovero sta soprattutto in tuenda, cfr. 19, 130 nullus erat ventis impediendus amor. 109 NEC MIHI SUNT VIRES Cfr. Tib. 2, 6, 10 et mihi sunt vires. 110 CITIUS

«Più in fretta»; Ulisse, come sappiamo, si adegua, si è già adeguato. PORTUS ET ARA

Sintagma tradizionale: rifugio e difesa dei perseguitati, cfr. Cic. Verr. 2, 5, 48 hic locus est unus quo perfugiant, hic portus, haec arx, haec ara sociorum; Mil. 90 aram sociorum, portum omnium gentium; Ov. Triet. 4, 5, 2 sgg. unica fortunis ara reperta meis... qui veritus non ea portai aperire fideles / fulmine percussae confugiumque rati;

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Pont. 2, 8, 68 vos eritis nostrae portus et ara fugae. L'idea di un portus et ara `mobile', che viene in soccorso piuttosto che essere

Ovidio e nessuno in poesia fino a Giovenale; cfr. H.-Sz. 647; McKeown a Ov. am. epigr. 3-4). L'intervento di Bentley ut tu, nemmeno ricordato in apparato da Dòrrie, è un ritocco economico e dà un buon rinforzo al pathos del contesto («perché sia tu, e non altri, a chiudere i suoi occhi»). Inaccettabile, per le ragioni esposte da C. Austin e M. D. Reeve, «Maia» N.S. 22, 1970, 5, l'emendamento ut tandem di J. Diggle, «Class. Quart.» 17, 1967, 130.

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meta di fuga, può sembrare bizzarra, ma forse, dato il suo indebolito tasso metaforico, l'espressione non crea dissonanze con il dinamismo di venias. E comunque poco plausibile la difesa della variante aura tentata da Jacobson 262 n. 60; il parallelo con Prop. 2, 25, 7 è inconsistente, il senso stesso di portus et aura non riesce chiaro, e l'immagine della «nave dell'amore» è estranea a questo passo. Penelope non sta ponendo l'accento sul suo rapporto amoroso col marito, ma sulla funzione protettiva di Ulisse nei confronti dell'intera casata. 111 EST TIBI SITQUE, PRECOR

«L'espressione rimanda certamente a una formula usuale di augurio, su cui Ovidio ha costruito una propria formula poetica» (Citroni a Marziale, 1, 108, 1, con la relativa documentazione). MOLLIBUS ANNIS

E un'estensione poetica di mollis `tenero' applicato a fanciulli, cfr. Sen. Tro. 1145 (la delicata giovinezza di Polissena); ma in contesti di educazione nell'uso di mollis «the idea ìs from soft clay, easily worked» (Palmer), come in Verg. ge. 3, 165 dum faciles animi iuvenum, dum mobilis aetas; per mollis in contesto simile cfr. Sall. Cat. 14, 5 animi molles [sc. adulescentium]... dolis haud difficulter capiebantur; Ov. A . A A. 1, 10 sed puer est, aetas mollis («malleabile») et apta regi. Per la teoria educativa v. p. es. Cic. fin. 3, 9 iis artibus

quas si, dum est tener, combiberit, ad maiora veniet paratior. 112 ERUDIENDUS Il verbo trova accoglienza solo episodica in poesia; prima di Ovidio non c'è che Verg. Aen. 9, 203 (sempre di un rapporto padre-figlio); poi Stat. Theb. 10, 507 (che riprende il costrutto con doppio acc., già in Ov. met. 8, 215, chiaramente sul modello di doceo; in prosa la costruzione più comune sembra quella con ad + acc., e più ancora con abl., eventualmente accompagnato da in). Ovidio ha dunque una marcata preferenza per erudio (8 casi) e ne allarga la flessibilità sintattica (nuovo è anche l'uso con l'inf. proposto da Fast. 3, 820). 113 Il tràdito ut iam crea problemi perché il valore normale di questo nesso è «anche ammesso che» (cfr. Ov. A . A . 1, 346 ut iam fallaris, tuta repulsa tua est; certamente un idioma prosaico, oon 6 esempi in

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114 SUSTINET Dopo una certa esitazione, Palmer finisce con l'interpretare «sopporta», e i paralleli non mancherebbero, cfr. Ov. her. 3, 142 sustinet («sorreggere») hoc animae spes tamen una tui; met. 13, 527 sg. supe-

rest, cur vivere tempus I in breve sustineam, proles gratissima matri; ma dato il nesso con diem sembra più calzante il senso «differisce, rinvia»: un'accezione di per sé non poetica (diffusa in Cicerone epistolare e in Livio). Cfr. anche, nello stesso senso, l'uso di sustento in Ov. rem. 405 sustentata («differita») Venus gratissima (sustentatio vale «proroga, respiro» in Cic. inv. 2, 146); buoni paralleli per «differire» sono Liv. 3, 65 e Cons. Liv. 372 illa rapii iuvenes, sustinet illa senes. Per il valore di «sorreggere, trattenere» cfr. invece Ov. met. 10, 188 animam admotis fugientem sustinet herbis. 115-6 La forza di protinus è notevole: stando alla cronologia omerica (v. il saggio introd., p. 16 e n. 3) Ulisse è addirittura già arrivato a Itaca e sta mettendo piede in casa sua. Ut ha valore concessivo come in un gran numero di passi ovidiani, un impiego forse favorito dalla maneggevolezza metrica; Palmer (Index s.v. ut `even supposing') registra circa 20 casi nelle sole Heroides (fra i suoi esempi, i casi di 7, 21 e 16, 3 non sono validi, 20, 219 è congettura dello stesso Palmer). Tutto il verso è una dichiarata eco di Prop. 2, 9, 8 illum exspectando fatta remansit anus (su Penelope); v. però anche Prop. 3, 25, 16 et quae fecisti fatta queraris anus; Ov. A . A . 3, 69-70 frigida deserta notte iacebis anus (il filone poetico del «quando tu sarai vecchia», con i suoi memorabili esiti in Ronsard e Yeats). Ovidio allude

alla Penelope properziana, exemplum di amore coniugale finalizzato all'amore elegiaco, sottolineando ambiguamente il proprio rapporto con la canonizzazione del mito e insieme con il mondo elegiaco che riassorbe in ed i modelli mitici. Con lo stesso margine di indecisione,

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la protagonista oscilla fra lo statuto paradigmatico del personaggio omerico e quello `moderno' della puella elegiaca. 115 FUERAM La diffusione del ppf. a spese di altre forme di preterito è un fenomeno vasto, con agganci nello sviluppo della lingua e, insieme, aspetti di comodità metrica; tuttavia, sembra possibile isolare una classe di esempi poetici dotati di particolare funzionalità espressiva (v. Fordyce a Catull. 64, 158). Sono casi in cui prevale l'idea di uno `stato' ormai oblitterato da una sorta di cesura temporale intermedia: Verg. Aen. 5, 397-8 si mihi quae quondam fuerat... si nunc foret illa iuventas (cfr. 10, 613 sg.); Prop. 1, 12, 11 non sum ego qui fueram; Ov. trist. 3, 11, 25 non sum ego quod fueram.

II:

FILLIDE

116 ANUS Il problema dell'invecchiamento non è importante per la Penelope omerica; l'interesse per il passare del tempo e la cronologia del mito è invece tipico della poetica ovidiana (cfr. «MD» 16, 1986, 82 sgg.; un buon cenno in G. K. Galinsky, Ovid's Metamorphoses, Oxford 1975, 36). Ci può essere un tocco finale di ironia: quando gli sposi finalmente si rivedono, sarà Ulisse, e non Penelope, a fare questo effetto: la dea Atena lo ha invecchiato artificialmente per renderlo irriconoscibile (Od. 13, 430 sgg.; 432 nakaLov... yépovtos). In 18, 27 egli è persino paragonato esplicitamente a una vecchia (ypit... tool) da un suo nemico.

[G. Knwak, Anabota Alexandrino-Romana, Greifswald 1880, 29-48; M. de Cola, Coniamo I %dio, Palermo 1987, 15-17; Della Corte 312-21; Jacobson 58-75.]

La storia di Fillide sembra fornire alla seconda epistola una `corposità' narrativa inferiore a quella di qualsiasi altra eroide. Non che la lettera manchi di un suo giusto principium individuationis. La voce epistolare trova una sua caratteristica nell'esasperata, giovanile ingenuità: Fillide si rappresenta come il grado estremo dell'innamorata senza ars, e altri personaggi naif come la bucolica ninfa Enone non possono comunque rivaleggiare con lei in semplicità indifesa. Anche lo scenario della lettera riesce a nutrire un'atmosfera ben determinata, diversa da quella di altre epistole: c'è una solitudine umana senza paragoni — Fillide, di tutte le eroine, è l'unica a non proiettare intorno a sé un contesto familiare, e sia pure solo ricordato, violato, o distrutto (come fanno ad esempio Briseide o Arianna o Medea) — e la qualità fisica del paesaggio di Tracia, solitario gelido e inameno, collabora a questo isolamento attraverso sapienti tocchi di scenografia. Ingenuità, solitudine, e ostilità dello scenario, dipingono a sufficienza una situazione che è confermata in modo calzante da paralleli interni all'opera erotica ovidiana (cfr. rem. 55-56; 591-608; A . A . 2, 353-54; 3, 36-7; 459-60). Rimane però un'insolita impressione di vuoto, come una basilare carenza di informazioni e insomma di materiale narrativo. La storia di Fillide, come viene rappresentata e presupposta qui, è quanto di più simile allo scheletro di un motivo tradizionale, il `Lamento della Donna Abbandonata'. La situazione di Arianna è simile nei dati della fabula, ma l'antefatto mitico è ben più ricco, e lo sfondo intertestuale (Catullo 64) permette un ricco gioco di interferenze e presupposizioni. Ci sono, del resto, indizi di collegamento fra l'epistola II e quella di Arianna: la storia di una ragazza che aspetta invano il ritorno di Demofoonte richiama episodicamente quella di una ragazza abbandonata dal padre di Demofoonte. La semplicità della situazione — amore frustrato e lamento — porta Ovidio insolitamente vicino al semplice pathos del Fragmentum Grenfellianum (p. 177 sgg. Powell). Un confronto che, del resto, vuole avere solo funzione d'esempio. Non a caso il personaggio non è attestato in tragedia.

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FILLIDE

NOTA INTRODUTTIVA

Il secondo punto importante riguarda la scarsità di fonti a nostra disposizione per la storia di Fillide: nel giusto collegamento con le precedenti osservazioni, si deve muovere da qui per una valutazione complessiva. I materiali sono, probabilmente, ancora più scarsi per la lettera di Enone ma lì, comunque, non si avverte la stessa carenza di «narratività»: l'inserimento della storia nel ciclo troiano fornisce comunque un buon margine intertestuale. Enone si interroga sul destino di Paride, e ha concrete informazioni da elaborare nel suo monologo. Fillide parla ben poco di Demofoonte, e ha solo un accenno polemico (vv. 67 sgg.) alla sua vita lontano da lei. Certamente il carattere scolorito del perfidus hospes contribuisce a impoverire la lettera e a esasperarne il carattere monologico: ma quanto di questa asciuttezza deriva da una scelta di Ovidio, e quanto da un'obiettiva scarsità di fonti? Qui è il vero nodo da interpretare. I dati fondamentali della storia sono tutti altrimenti attestati: Fillide, principessa tracia, riceve il viaggiatore Demofoonte e gli dà aiuto, ma anche amore, illusa da promesse di matrimonio. Demofoonte parte e non ritorna al tempo stabilito per le nozze, violando insieme il legame di ospitalità e il fidanzamento. Fillide non fa che andare alla spiaggia e scrutare il mare: sempre più delusa, annuncia chiaramente il suo suicidio che avverrà (come risulta da fonti parallele ed è chiaramente suggerito dalla struttura conclusiva del monologo, cfr. n. a 141-42) tramite impiccagione. Su Demofoonte abbiamo pochi tratti segnaletici: è figlio di Teseo, e questa contribuisce un po' a colorare la situazione (Teseo come il figlio è celebre per tradimenti in amore e a differenza del figlio è anche un glorioso eroe). Di Fillide apprendiamo solo che regna sui Traci; nessun particolare sulla famiglia, e sulla situazione dinastica soprattutto, sembra interessare Ovidio. Qualche altro dettaglio, riguardante più l'argomentare di Fillide che la nuda intelaiatura narrativa, avvicina la storia a paralleli famosi. Come Didone, Fillide ricorda l'aiuto concreto che ha prestato all'ospite, e alla sua flotta malconcia; come Didone, Fillide ha promesso al suo nuovo compagno la dote di un potere regale. Un certo numero di riecheggiamenti puntuali da Aen. I e IV sorregge l'accostamento;' vanno considerate anche somiglianze più puntuali nelle tonalità di rimprovero, disillusione e senso di colpa, similarità che però vanno a disciogliersi in un bacino più ampio, un crogiolo di

modelli che è rilevante per quasi tutte le Heroides: non solo Didone, ma anche eroine tragiche, epiche ed elegiache (Medea, Issipile, Arianna etc.) collaborano al comune modello dell'Eroina Abbandonata. Si può pensare che Ovidio si sia appoggiato soprattutto a Didone per sopperire al vuoto di modelli specifici, ma non trovo questa supposizione particolarmente necessaria. Tutto ciò acuisce il nostro interesse per l'esistenza di una trattazione callimachea del mito. L'influsso di poesia alessandrina sul destino delle eroine — poesia mitologica d'amore in distici elegiaci è in generale la più chiara base di partenza per capire le Heroides. E verosimile che questo tipo di poesia abbia influenzato la forma epistolare delle Heroides soprattutto per la tendenza a elaborare una forma di tipo monologico entro impliciti contesti narrativi. Bisogna pensare non tanto alla lirica del Fragmentum Grenfellianum, quanto a modelli di forma elegiaca, su cui cominciamo ad avere indizi notevoli. 2 Nel nostro caso, per fortuna, gli indizi consentono di attribuire con probabilità la storia agli Aitia di Callimaco. I tratti basilari del racconto, già ricordati, sono fatti risalire a Callimaco da un breve riassunto di Procopio: lì abbiamo la promessa tradita, il ritorno mancato, l'eroina che guarda il mare. L'unico frammento direttamente tràdito (cfr. n. al v. 1) lascia supporre lamenti e proteste affidati alla voce dell'eroina: e queste poche parole («Fidanzato Demofoonte, ingiusto ospite») offrono una buona somiglianza con l'intonazione dell'epistola ovidiana. Non è chiaro, invece, a quale particolare aition si ricollegava per Callimaco la vicenda, anche se non sono poche le candidature proponibili (cfr. Pfeiffer p. 395 sg.). Il testo di Ovidio non offre nessun chiaro aggancio in questo senso (cfr. le nn. a 12930; 131); dato però che un riferimento eziologico è chiaramente inscenato dai Remedia amoris (le `Nove Strade', cfr. 56 e 601) e ancora più nell'A rs (3, 37 sg. Quaere novem cur una viae dicantur, et audi 1 depositis silvas Phyllida flesse comis: quaere et audi ha l'aria di un preciso richiamo alla struttura dialogica di Aitia I-II), mi sembra legittimo dedurne che Ovidio conosceva una narrazione callimachea completa, e ne ha deliberatamente reciso questo aspetto; non tanto perché lo strumento epistolare rendeva impossibile ogni riferimento del genere, quanto perché forse un interesse eziologico era escluso dal genere epistolare in cui la storia di Fillide viene ora assorbita. I

' I paralleli sono sottolineati, e anche un po' esagerati, da Jacobson 62-64. Per la solidarietà complessiva di tutte le storie su eroine sedotte e abbandonate v. Della Corte, 312-21: certo non si può scordare Calipso.

2 Notevole soprattutto SH 962-63 (P. Oxy. 39.2884; v. anche J. E. G. Zetzel, «Claae. Philol.» 82, 1987, 359), lamento di una donna abbandonata da un eroe del mito (per le Ipotesi possibili v. le annotazioni di Lloyd-Jones e Parsons ad loc.).

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FILLIDE

Remedia e l'Ars, per loro natura, si prestavano meglio a un accostamento con la narrazione elegiaca-erudita degli Aitia. Si può pensare, come impressione e niente più, che Ovidio abbia attinto a Callimaco una situazione patetica e uno stimolo monologico, rielaborandoli piuttosto liberamente. Il confronto con la storia di Aconzio e Cidippe, dove molto più materiale callimacheo è accessibile, mostra che Ovidio può, quando vuole, proporre estese imitazioni / variazioni su Callimaco. Di per sé, lo stile della II epistola non può bastare a suggerirci rimandi a un modello perduto: neppure le epistole di Aconzio e Cidippe, se non avessimo termini di confronto, potrebbero garantirci qualcosa sulla natura del modello utilizzato. Il riferimento callimacheo, d'altra parte, proietta una luce ambigua sui paralleli tra Fillide e l'Arianna di Catullo o la Didone di Virgilio. Per Arianna, quanto più si abbandona la teoria di un puntuale e unitario modello alessandrino, tanto più diventa verosimile che Catullo abbia utilizzato, tra varie suggestioni, proprio la Fillide callimachea. Il lamento dell'eroina abbandonata sulla spiaggia solitaria è un forte tratto di congiunzione. Per Didone lo sfondo è ancora più incerto, ma Heinze (134 n. 1) ha ragionevolmente confrontato lo scarno fr. 556 Pf. con certe proteste della regina contro il fedifrago Enea. E possibile insomma che qualche somiglianza da noi ascritta ai modelli «trasversali» di Catullo e Virgilio vada invece riportata all'irradiazione di un archetipo comune. (La Medea di Ap. Rh. 4, 355 sgg. complica ancora di più lo scenario). Il metodo della Quellenforschung incontra in casi del genere un limite insuperabile: tanto più se sono coinvolti, come qui, «imitatori» profondamente complessi, che evitano processi di adattamento lineari e regolari. Esaminata come testo ovidiano, l'epistola è interessante soprattutto per il nucleo tematico della simplicitas di Fillide. L'ingenuità dell'eroina è valorizzata dal contrasto implicito con l'arte amatoria teorizzata altrove dal poeta. Il confronto con eroine più mature, in qualche modo più disposte alla malizia e all'apprendimento — Didone, ma soprattutto la `moderna' Fedra — è altrettanto istruttivo. Fillide vive di speranze, si autoinganna, crede alle promesse, arriva troppo tardi a dubitare delle lacrime (cfr. n. a 51-52), e non sospetta l'esistenza di remedia. Il suo suicidio precipita da queste premesse con l'evidenza di un teorema amatorio. Lo stile della lettera è segnato da questa tendenza, anche se sarebbe assurdo pretendere da ogni singola eroide una stilizzazione individuale, una voce autonoma dalla altre. Coerente alla simplicitas del personaggio è certamente una certa impostazione lineare, ripetitiva, e l'uso di un lessico semplice

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e diretto: si noti in questo senso l'insistente `figura iusiurandi' ai vv. 35-42 (cfr. n. a 35 sgg.) come pure la quadruplice ripetizione di credidimus ai vv. 49-53.3 E chiara l'intenzione di Ovidio — non tanto semplice, in realtà, anche per un narratore consumato: rappresentare in modo autoriflessivo, e, inevitabilmente, consapevole, un'ingenuità priva di malizia e di autocontrollo. Anche la struttura della lettera è omogenea a questa scelta. Manca qualsiasi tattica obliqua, e la struttura del discorso non ha una dominante suasoria. Non c'è un vero tentativo di convincere Demofoonte a tornare. L'attesa sempre più pessimista, il ricordo dell'inganno e della seduzione, di nuovo l'attesa disillusa e infine la promessa di suicidio: i vari momenti si collegano in un monologo patetico sostanzialmente continuo e privo di una calcolata architettura. La scelta di uno stile semplice e diretto ricorda i precetti che Ovidio stesso elargisce alle sue discepole nell'Ars: munda sed et medio consuetaque verba, puellae, scribite; sermonis publica forma placet (3, 79 sg.).

Ironicamente, però, anche questa strategia risulterà inefficace, quanto le sofistiche blandizie dell'esperta Fedra lo saranno nella IV epistola.

3 Anche se lo stile elegiaco di Ov. è molto aperto verso anafore e ripetizioni in genere, il quadro complessivo dell'uso dell'anafora in questa lettera è impressionante e trova pochi paralleli in altre epistole. Si noti p. es. 9-10 credita I credimus; 11 saepe / saepe; 17-19 saepe / saepe; 25-26 verba, vela I vela, verba; 29-30 scelus / scelus; 35-42, 6 occorrenze di per nella figura iusiurandi; 49-53 quattro casi di credidimus, con l'ultimo in epifora; 58 poliptoto lateri... latus; 88-89 consuluisse I consului; 99-101 exspectem l exspectem l exspecto (2 anafore e un'epifora, come a 53); 107-115, sei consecutive frasi collegate dall'anafora del relativo. Tutti i punti focali della lettera, in particolare la fallacia del seduttore (35-42), la credulità di Fillide (49-53), e la sua pericolosa tenacia nel sognare il ritorno dell'amante (99101) sono collegati e marcati dal ricorso alle ripetizioni. Il risultato è coerente con il tono compulsivo della querela (v. 8; anche Briseide, quando si lamenta, tende spesso a questo stile iterativo) ma dipinge anche, mi sembra, la nativa semplicità dell'emina che tende a chiamare, più e più volte, le cose col loro nome.

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Hospita, Demophoon, tua te Rhodopeia Phyllis ultra promissum tempus abesse queror. Cornua cum lunae pieno semel orbe coissent, litoribus nostris ancora pacta tua est. Luna quater latuit, toto quater orbe recrevit nec vehit Actaeas Sithonis unda rates. Tempora si numeres, bene quae numeramus amantes, non venit ante suam nostra querela diem. Spes quoque lenta fuit. Tarde quae eredita laedunt credimus. Invita nunc es amante nocens. Saepe fui mendax pro te mihi, saepe putavi alba procellosos vela referre notos. Thesea devovi quia te dimittere nollet; nec tenuit cursus forsitan ille tuos. Interdum timui, ne, dum vada tendis ad Hebri, mersa foret cana naufraga puppis aqua. Saepe deos supplex, ut tu scelerate valeres, cum prece turicremis sum venerata focis; saepe videns ventos caelo pelagoque secundos, ipsa mihi dixi "si valet ille, venit". Denique fidus amor, quicquid properantibus obstat, finxit et ad causas ingeniosa fui.

7 bene quae: quae nos 10 invita: invito es amante nocens Housman: et aman11 te nocent: et amore noces: et amore nocens: invito... es amore nocens Merkel 17 deos: diis: deo Palmer 18-9 in paucis exstant libris XIV putavi: notavi saec. (vici. ad locum) 18 cum: sum turicremis: turiferis: turmoniis sum venerata: devenerata

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HER. 2, 57-90 (FILLIDE)

HER. 2, 23-56 (FILLIDE)

At tu lentus abes! Nec te iurata reducunt numina nec nostro motus amore redis. Demophoon, ventis et verba et vela dedisti; vela queror reditu, verba carere fide. Dic mihi, quid feci, nisi non sapienter amavi? Crimine te potui demeruisse meo. Unum in me scelus est, quod te, scelerate, recepi; sed scelus hoc meriti pondus et instar habet. Iura, fides ubi nunc commissaque dextera dextrae quique erat in falso plurimus ore deus? Promissus socios ubi nunc Hymenaeus in annos, qui mihi coniugii sponsor et obses erat? Per mare, quod totum ventis agitatur et undis, per quod saepe ieras, per quod iturus eras, perque tuum mihi iurasti, nisi fictus et ille est, concita qui ventis aequora mulcet, avum, per Venerem nimiumque mihi facientia tela, altera tela arcus, altera tela faces, Iunonemque, toris quae praesidet alma maritis, et per taediferae mystica sacra deae: si de tot laesis sua numina quisque deorum vindicet, in poenas non satis unus eris! At laceras etiam puppes furiosa refeci, ut, qua desererer, firma carina foret; remigiumque dedi, quo me fugiturus abires. Heu, patior telis vulnera facta meis! Credidimus blandis, quorum tibi copia, verbis; credidimus generi nominibusque tuis; Credidimus lacrimis. An et hae simulare docentur? Hae quoque habent artes, quaque iubentur, eunt? Dis quoque credidimus. Quid iam tot pignora nobis? Parte satis potui qualibet inde capi. Nec moveor, quod te iuvi portuque locoque: debuit haec meriti summa fuisse mei.

35 et undis: iniquis: in undis: et auris 37 fictus: falsus 45 at: aut: ha: a! D. Heinsius 47 quo: quod abires: haberes 50 nominibusque Planudes: numinibusque 53 quid: quod: quo N. Heinsius

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Turpiter hospitium letto cumulasse iugali paenitet et lateri conseruisse latus. Quae fuit ante illam, mallem suprema fuisset nox mihi, dum potui Phyllis honesta mori. Speravi melius, quia me meruisse putavi: Quaecumque e merito spes venit, acqua venit. Fallere credentem non est operosa puellam gloria; simplicitas digna favore fuit. Sum decepta tuis et amans et femina verbis; di faciant, laudis summa sit ista tuae. Inter et Aegidas media statuaris in urbe; magnificus titulis stet pater ante suis; cum fuerit Sciron lectus torvusque Procrustes et Sinis et tauri mixtaque forma viri et domitae bello Thebae fusique Bimembres et pulsata nigri regia caeca dei, hoc tua post illos titulo signetur imago: "Hic est cuius amans hospita capta dolo est." De tanta rerum turba factisque parentis sedit in ingenio Cressa relicta tuo. Quod solum excusat, solum miraris in illo; heredem patriae, perfide, fraudis agis. Illa — nec invideo — fruitur meliore marito inque capistratis tigribus alta sedet. At mea despecti fugiunt conubia Thraces, quod ferar externum praeposuisse meis. Atque aliquis "Iam nunc doctas eat" inquit "Athenas; armiferam Thracen qui regat, alter erit. Exitus acta probat." Careat successibus, opto, quisquis ab eventu facta notanda putat. At si nostra tuo spumescant aequora remo, iam mihi, iam dicar consuluisse meis. Sed neque consului nec te mea regia tanget fessaque Bistonia membra lavabis aqua.

61 quia me: quia: quam me: que: quem te: quia te: quia demeruisse 82 ferar: Casaubonus 72 caeca: celsa 81 at mea: a! mea Sedlmayer 89 tanget: tangit feror 84 armiferam armigeram

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HER. 2, 91-124 (FILLIDE)

Illa meis oculis species abeuntis inhaeret, cum premeret portus classis itura meos. Ausus es amplecti colloque infusus amantis oscula per longas iungere pressa moras cumque tuis lacrimis lacrimas confundere nostras, quodque foret velis aura secunda queri, et mihi discedens suprema dicere voce: "Phylli, fac expectes Demophoonta tuum!" Expectem, qui me numquam visurus abisti? Expectem pelago vela negata meo? Et tamen expecto. Redeas modo serus amanti, ut tua sit solo tempore lapsa fides. Quid precor infelix? Iam te tenet altera coniunx forsitan et nobis qui male favit amor; utque tibi excidimus, nullam, puto, Phyllida nosti. Ei mihi, si, quae sim Phyllis et unde, rogas! Quae tibi, Demophoon, longis erroribus acto Threicios portus hospitiumque dedi; cuius opes auxere meae, cui dives egenti munera multa dedi, multa datura fui; quae tibi subieci latissima regna Lycurgi, nomine femineo vix satis apta regi, qua patet umbrosum Rhodope glacialis ad Haemum et sacer admissas exigit Hebrus aquas, cui mea virginitas avibus libata sinistris castaque fallaci zona recincta manu. Pronuba Tisiphone thalamis ululavit in illis et cecinit maestum devia carmen avis. Adfuit Allecto brevibus torquata colubris suntque sepulchrali lumina mota face. Maesta tamen scopulos fruticosaque litora calco; quaque patent oculis aequora lata meis, sive die laxatur humus, seu frigida lucent sidera, prospicio, quis freta ventus agat.

98 fac: face 102 ut: et 103 iam te: te iam 105 utque: atque Madvig: iamque Hovsman 111 latissima: laetissima 121 litora: vimina Beniky 122 quaque: quaeque: qua aequora: litora lata: nota

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HER. 2, 125-148 (FILLIDE) 125

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Et quaecumque procul venientia lintea vidi, protinus illa meos auguror esse deos. In freta procurro, vix me retinentibus undis, mobile qua primas porrigit aequor aquas. Quo magis accedunt, minus et minus utilis adsto; linquor et ancillis excipienda cado. Est sinus adductos modice falcatus in arcus; ultima praerupta cornua mole rigent. Hinc mihi suppositas immittere corpus in undas mens fuit — et quoniam fallere pergis, erit. Ad tua me fluctus proiectam litora portent occurramque oculis intumulata tuis; duritia ferrum ut superes adamantaque teque "Non tibi sic" dices "Phylli, sequendus eram!" Saepe venenorum sitis est mihi, saepe cruenta traiectam gladio morte perire iuvat. Colla quoque, infidis quia se nectenda lacertis praebuerunt, laqueis implicuisse libet. Stat nece matura tenerum pensare pudorem; in necis electu parva futura mora est. Inscribere meo causa invidiosa sepulchro; aut hoc aut simili carmine notus eris: "Phyllida Demophoon leto dedit, hospes amantem; ille necis causam praebuit, ipsa manum."

134 quoniam: quando illa

142 praebuerunt: -rint: -rant libet: iuvat

148 ipsa:

II La tua ospite del Rodope, Demofoonte, la tua Fillide, si lamenta che sei lontano più del tempo promesso. La tua àncora era stata promessa alle nostre rive entro il compiersi della luna piena — ma la luna per quattro volte si è occultata, per quattro volte è ricresciuta sino al colmo, e l'onda Sitonia non porta Attiche navi. Se calcoli i tempi precisi (noi innamorati siamo forti in questo) il mio lamento non è prematuro. Anche la speranza fu attardata. Tardi crediamo a ciò che fa male: ma ora sei colpevole, a dispetto di chi ti ama. Spesso ho pensato che i Noti tempestosi respingessero le bianche vele. Ho maledetto Teseo, pensando che non ti lasciava andare: ma forse non è stato lui a impedire il tuo viaggio. A volte ho temuto che, mentre ti dirigi ai fondali dell'Ebro, il tuo naufrago scafo sia sprofondato nella schiuma del mare. Spesso, supplice, perché tu stia bene, disgraziato, ho invocato gli dei con preghiere, con altari odorosi d'incenso; spesso vedendo i venti propizi, per cielo e per mare, ho aggiunto dentro di me: «Se sta bene, sta venendo». Insomma l'amore fedele si è immaginato ogni causa possibile di ritardo, anche per chi s'affretta, ed ero creativa nel trovarne. Ma tu, indifferente, non ci sei, non ritorni, non ti riportano le divinità su cui hai giurato, non ti tocca il mio amore. Demofoonte, ai venti hai dato vele e parole: di entrambe mi lamento: vele senza ritorno, parole senza onore. Dimmi un po': che ho fatto di male, a parte amare con poca sapienza? Questo mio delitto poteva conquistarti. Il mio unico crimine, averti ospitato, criminale! ma è un crimine che vale una benemerenza. Dove sono ora il diritto, il rispetto della parola, la stretta di mano, e quel dio così abbondante nella tua bocca bugiarda? Dov'è ora Imeneo, promesso per anni di vita coniugale, che era garante e ostaggio di

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FILLIDE

matrimonio? Per il mare, che tutto si agita per venti e per onde, su cui spesso eri andato, su cui stavi per partire, e per tuo nonno — se anche lui non è inventato — che placa i mari agitati dal vento, per Venere e per le armi troppo efficaci su di me (anni di due tipi: arco e fiaccole), e Giunone, signora che presiede ai letti coniugali, e per i mistici riti della dea tedofora, mi hai giurato. Se fra tanti dèi offesi ognuno vorrà vendicare il suo prestigio, non basterai tu solo ai castighi. Addirittura, pazza, ti ho restaurato le navi malconce, in modo che fosse in regola lo scafo che mi doveva abbandonare, e ti ho dato remi con cui scappare lontano da me. Ohimé, subisco colpi portati dalle mie stesse armi! Ho creduto alle parole lusinghiere, di cui sei ben fornito; ho creduto alla tua stirpe illustre; ho creduto alle lacrime. Ma anche quelle s'insegna a fingere? Anche loro hanno una tecnica, e scorrono a comando? Anche gli dei ho creduto. Perché così tante garanzie? Con una qualunque parte potevi conquistarmi. E non mi sconvolge, averti soccorso con un approdo e un alloggio: questo doveva essere il massimo della mia generosità. Aver coronato l'ospitalità con il letto del connubio, indecorosamente, questo mi pesa, e aver premuto insieme i nostri fianchi. La notte precedente, meglio se fosse stata l'ultima, sinché potevo morire come Fillide perbene. Sì, ho sperato in meglio, perché pensavo di meritarlo: ogni speranza fondata sul merito è giusta. Non è una gloria faticosa ingannare una ragazza disposta a credere: l'ingenuità avrebbe diritto alla simpatia. Innamorata, e donna, sono caduta vittima dei tuoi discorsi: vogliano gli dei che la tua fama non vada oltre. Avrai una statua nel centro della città, fra i discendenti di Egeo: davanti si ergerà, glorioso per le sue iscrizioni, tuo padre. Quando si sarà letto e di Scirone, e del minaccioso Procruste, e di Sini, e della mescolanza di toro e d'uomo, e la vittoria su Tebe, e la disfatta degli Ibridi, e l'irruzione nella cieca reggia del Dio Nero, ecco, la tua effigie, dopo quelle, avrà questa didascalia: «Questo è colui che prese in un tranello la sua ospite innamorata». Fra tanta folla di storie e gesta di tuo padre, ti ha impressionato davvero solo l'abbandono della Cretese. Ammiri l'unica cosa che per lui è un capo d'accusa; ti comporti, traditore, da erede della malizia paterna. Intanto lei — non che la invidio — ha un

TRADUZIONE

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marito migliore, e siede alta su tigri alla cavezza. I Traci, invece, che disprezzavo, fuggono le mie nozze, perché si è saputo che ho preferito un forestiero alla mia gente, e c'è chi dice: «Vada subito ad Atene la dotta; la Tracia guerriera, si troverà un altro per governarla. L'esito giudica le azioni». Io vorrei non avesse mai successo chi pensa che il comportamento si classifichi dai risultati! Allora, se il nostro mare spumeggiasse ai colpi dei tuoi remi, ecco, si dirà subito che ho provveduto bene a me e ai miei. Ma non è vero, e non toccherai il mio palazzo, non laverai le stanche membra in acque bistonie. Resta fissa nei miei occhi quell'immagine, la tua partenza, mentre la flotta già pronta affollava il mio porto. Hai osato abbracciarmi, e avvinghiato al collo della tua amante mi baciavi forte, a lungo, e mescolavi le tue lacrime alle mie, lamentavi che il vento era propizio; hai osato dirmi partendo queste ultime parole: «Fillide, guarda, aspetta il tuo Demofoonte!» Aspettare te, che sei andato via per mai più rivedermi? Aspettare vele che rifiuti al mio mare? Eppure, aspetto. Ritorna, anche se tardi, dal tuo amore, fai che la tua promessa manchi solo di puntualità. Ma che prego, sventurata? Già sei di un'altra sposa forse, e di quell'Amore che mi è tanto avverso. Mi hai dimenticato, al punto che, immagino, Fillide per te non esiste. Povera me, se domandi «quale Fillide? di che paese?». Sono quella, Demofoonte, che ti ha offerto i porti ospitali di Tracia, sbattuto da lungo errare; io che ho accresciuto con le mie ricchezze le tue, e ricca, a te spiantato, feci tanti doni, e tanti ancora ne avrei fatti; che ho messo ai tuoi piedi i vastissimi regni di Licurgo, il cui governo è poco adatto al nome di una donna, là dove il Rodope ghiacciato si stende fino all'Emo ombroso, e l'Ebro sacro sospinge le sue acque impetuose, e a te ho sacrificato la mia verginità, sotto infausti auspici, e la casta cintura fu slacciata da mano ingannatrice. Assistente alle nozze, Tisifone ululò in quelle stanze, e l'uccello solitario intonò un canto lugubre. Anche Alletto fu presente, il collo ornato da serpentelli, e le luci nuziali furono agitate con una torcia di rogo. Anche se afflitta, calpesto scogliere e lidi cespugliosi; ovunque le distese di mare s'aprono alla vista, sia che la terra si allenti al tepore del giorno, o che brillino fredde le stelle, osservo che

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H'ILLInE

vento smuove le onde. E ogni volta che vedo arrivare da lontano una vela, subito mi auguro che siano i miei dèi. Mi spingo avanti nel mare — i flutti a stento mi frenano — dove la distesa instabile estende le sue prime acque. Quanto più s'accosta, tanto meno mi sostengo; cado in deliquio fra le braccia delle serve. C'è un golfo, un po' incurvato come un arco teso; le punte estreme sporgono in scogliere a picco. Da lì avevo l'impulso di gettarmi nelle onde soggiacenti — e così sarà, visto che continui a ingannarmi. Spero che i marosi mi portino e mi sbattano sulle tue rive, e di offrirmi insepolta ai tuoi occhi. Pure se superi in durezza e il ferro e l'acciaio e te stesso, dovrai dire: «Non così mi dovevi seguire, Fillide!». Spesso ho sete di veleni, spesso vorrei finirla con una morte sanguinosa, trafitta di spada. Ma anche mi piacerebbe stringere il collo col laccio, perché si è offerto alla stretta delle tue braccia infide. E deciso: una prontissima morte compenserà il mio tenero pudore; nella scelta della morte scorrerà poco tempo. Sarai indicato sulla mia tomba come l'odioso responsabile; e con questo epitafio, o con uno simile, diventerai famoso: «Fillide l'ha messa a morte Demofoonte, lei innamorata, lui ospite; alla sua fine ha offerto lui la causa, e lei la mano».

COMMENTO 1 Per un'attraente coincidenza, il primo verso presenta strette analogie con l'unico frammento sicuro che ci è rimasto a provare una trattazione callimachea del mito (556 Pf.): vvµq(E Ariaogówv, àSLxE i;évE (accostato da Heinze 134 n. 1 a Verg. Aen. 4, 323 sg. hospes l (hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?). La designazione di Fillide come ospite — messa innanzi a tutto — si rispecchia nel vocativo évs e trova completamento al v. 147 quando Demofoonte, nell'epitafio conclusivo, è chiamato hospes. Più importante ancora, il vocativo vu tcple (influenzato da Eur. Med. 206 iòv... neoSóiav xaxóvvµkpov?) presuppone quella che nella II epistola è una situazione fondamentale: Demofoonte si è regolarmente fidanzato e ha promesso di tornare entro una data fissata per concludere le nozze. Ovidio elabora più volte questo concetto, anche se è difficile indicare riprese esatte di Mixe éve (sul tipo di perfidus hospes; cfr. invece rem. 597 'perfide Demophoon' surdas clamabat ad undas; sotto, v. 78 perfide, cfr. Catull. 64, 133 perfide... Theseu; Ov. fast. 3, 473 dicebam, memini, periure' et 'perfide Theseu!') e anche di vvµTic. V. comunque la n. a 74. Sembra anzi che la lingua poetica augustea faccia una certa resistenza a ricoprire esattamente termini come vu.tq os = «fidanzato, promesso». Sponsa è piuttosto raro ma attestato (Verg. Aen. 2, 245; Hor. carm. 4, 2, 21); sponsus va specializzandosi nel senso di `pretendente' (Catull. 65, 19; Hor. ep. 1, 2, 28; «sposo» Hor. carm. 1, 29, 6; «sposo novello» carm. 3, 11, 31). Cfr. comunque l'uso di sponsalia «fidanzamento» in her. 19, 31, e sponsor al v. 34 sotto. Nessun'altra epistola (anche se si accettano per buoni tutti gli esordi `pieni' tramandati in una minoranza di codici) contiene un incipit altrettanto chiaro e completo, con i due nomi degli amanti

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dichiarati già nel primo verso, e senza forme perifrastiche e sostituzioni patronimiche; parzialmente simile è solo l'esordio della V epistola, e si può osservare che i miti di Fillide e di Enone sono probabilmente, in assoluto, i meno vulgati tra quelli trattati nelle Heroides (diverso il caso di 1, 1, dove i nomi di Ulisse e Penelope sono arcinoti, ma bisogna considerare la probabilità che il verso faccia da incipit per l'intera raccolta, e abbia il compito di segnalare una volta per tutte la struttura epistolare dell'insieme; cfr. la mia nota ad loc.).

(Verg. ge. 1, 428; Prop. 3, 5, 28 coactis / cornibus in plenum menstrua luna redit), con precisa controparte nell'uso greco di xÉgas, cfr. p. es. Arat. 733; 778.

RHODOPEIA

L'aggettivo, che accompagnerà Fillide fino a Dante, Paradiso IX 100, è già attestato (con riferimento a Orfeo) in Verg. ge. 4, 461; Ov. A . A . 3, 321 (cfr. met . 10, 50). Notevole l'assenza di un patronimico, per cui v. al v. 6 Sithonis. Si noti anche il carattere, per così dire, relazionale della designazione: Fillide si presenta nel modo in cui Demofoonte ha più probabilità di ricordarsi di lei («la tua ospite del Rodope»): e già questo è un tratto patetico se si considera il senso di lontananza che domina questa lettera (dai gelidi monti di Tracia all'evoluta Atene) e il timore di Fillide che l'amato neppure ricordi più come lei si chiama, da dove proviene (cfr. vv. 105 sg.). PHYLLIS

Alla luce di A . A . 3, 38 depositis silvas Phyllida flesse comis sembra chiaro che Ovidio conosceva una tradizione poetica in cui si giocava sul nome associato con c akov (tutta l'impostazione del distico 3738, con quaere e audi, ha un distinto sentore callimacheo): ma l'epistola non fa nulla per richiamare questo effetto eziologico, erudito. V. anche P. M. C. Forbes Irving, Metamorphosis and Greek myths, Oxford 1990, 272 sg. 3-5 Per il complesso dell'espressione da confrontare Ov. met. 2, 344 luna quater iunctis inplerat cornibus orbem; 7, 179-81; 7, 530 sg. dumque quater iunctis explevit cornibus orbem I Luna, quater plenum tenuata retexuit orbem; met. 10, 295 sg. L'immagine — la luce delle corna lunari gradualmente si espande e riempie l'intervallo fra di esse formando un cerchio — riesce più grafica e precisa di quella del modello virgiliano, Aen. 3, 645 tertia iam Lunae se cornua lumine complent, di cui viene però ripresa l'allitterazione in co-. 3 CORNUA Della luna crescente, fin da Cic. Ac. 2 fr. 2, poi diffuso in poesia

PLENO... ORBE

Da ricondurre al tipo di ablativo che H.-Sz. 127 etichettano 'risultativo'; di origine poetica, il costrutto trova la sua massima applicazione — per evidenti congenialità di stile e tematica — nelle Metamorfosi di Ovidio, dove è spesso accostato con verbi quali mutare o mutari («trasformarsi sino a constare di» = trasformarsi in). SEMEL

Corretto da Burman in quater, con una certa approvazione da parte di Palmer: verrebbe così attribuita a Fillide (cfr. v. 7) un'impazienza da vera innamorata, che esplode alla scadenza esatta delle promesse: ma tutto il contesto (vv. 8 sgg.) enfatizza piuttosto l'idea che Fillide è stata paziente, ha atteso a lungo, quasi non credendo all'evidenza dei fatti. 4 PACTA La derivazione da paciscor o da pango è piuttosto incerta (cfr. her. 16, 35 te peto, quem pepigit lecto Venus aurea nostro; 20, 157 gemini verba altera patti): la questione, comunque, non è di profondo rilievo perché la confusione è già antica; il senso è `stipulare, promettere', con particolare riferimento a promesse matrimoniali. Cfr. Prop. 4, 3, 11 haecne marita fides et pactae in savia noctes?; Ov. met. 9, 722. Ovidio ha 4 esempi di pactus deponente e 16 di pactus passivo. 5 RECREVIT Il verbo è raro (compare da Lucrezio in poi) e non usuale riferito alle fasi lunari, ma si può confrontare la diffusione di cresco (sin da Varr. rust. 1, 37, 1) e decresco (sin da Cat. agr. 31, 2); qui il prefisso neevoca la frustrazione di Fillide. 6 ACTAEAS 'Amalo; per `Attico' è un poetismo alessandrino molto illustre, noto se non altro per essere la prima parola della Hekale di Callimaco (fr. 230 Pf., con Pfeiffer ad loc.); in poesia romana da Verg. ecl. 2, 24 in Actaeo Aracyntho (di interpretazione un po' controversa, perché l'Aracinto è in Beozia): un'intermediazione neoterica appare probabile. L'agg. è comodo anche per la difficoltà di dire `Ateniese' in poesia dattilica romana.

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È di chiara matrice alessandrino-neoterica l'accostamento di due toponimi preziosi e, da un punto di vista referenziale, fortemente polarizzati fra loro; è il tipo Cnosia Cecropiae tetigissent litora puppes (Catull. 64, 172, cfr. anche her. 7, 142). SITHONIS

Propriamente i Sitoni abitano la penisola di mezzo fra le tre della Calcidica, ma in poesia è normale l'equivalenza con `tracio'. L'aggettivo è inedito in latino, qui e in rem. 605 (ancora di Fillide, anzi riferito direttamente a lei); met. 7, 466; cfr. Nonn. Dion. 13, 336 e 48, 113. Sithonius era già stato introdotto da Verg. ecl. 10, 66, in un contesto impregnato di allusioni a Cornelio Gallo, ed è attraente pensare a un preciso modello data la frequenza di forme affini (con la seconda sillaba breve, il che è tipicamente poetico, cfr. LSJ s.v. Sithōnìa) in poeti imitati da Gallo come Euforione (Et*ovía, 'Tracia', fr. 58.2 Powell) e Partenio (SH 646.3). Cfr. G. B. Conte, Il genere e i suoi confini, Milano 1984, 36 n. 35. Ci sono anche 2 casi in Orazio lirico. Fillide nella tradizione è presentata come discendente (cfr. RE III A, 393) o figlia (Serv. ad ed. 10, 66, notizia molto dubbia) del re tracio Sitone, e ci si può chiedere perché Ovidio non faccia chiarezza su questo punto; cfr. il v. 1 Rhodopeia e i vv. 89 e 111 sg., da cui la posizione dinastica di Fillide risulta abbastanza vaga. Alcuni nomi di genitori di Fillide sono offerti da schol. Aeschin. de fals. leg. 31; che il padre per Ovidio sia Licurgo (v. 111, cfr. RE XX.11024 [Th. Lenschau]) non mi sembra dimostrato dal testo. Forse l'assenza di qualsiasi indicazione di parentela è dovuta soprattutto all'intenzione di accrescere l'isolamento di Fillide, un tema dominante dell'epistola e — ancora più intensamente — nella narrazione parallela di rem. 591-608. 7 TEMPORA SI NUMERES Naturalmente per disinnamorarsi occorre fare il contrario, e non indugiare in calcoli sul tempo di separazione, cfr. Ov. rem. 223 tempora nec numera nec crebro respice Romam. 8 NOSTRA QUERELA Il tema del lamento e della protesta è comunemente espresso nelle Heroides con queror, querela (cfr. a 3, 5-6) ma qui, dato l'accostamento con l'idea del `giorno convenuto', sembra attraente supporre

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un'interferenza ironica con il valore tecnico-giuridico di querela (che non sembra attestato, comunque, prima di Valerio Massimo). 9 SPES QUOQUE LENTA FUIT Ancora i Remedia. 685: desinimus tarde, quia nos speramus amari. Il contrasto con l'atteggiamento di Demofoonte rende lenta pregnante («la speranza fu lenta a svanire — come tu a venire»; cfr. v. 23 at tu lentus abes! e la mia nota a I , I ). Sulle éXníSes date da Demofoonte a Fillide insiste Procopio (epist. 86 p. 565 Hercher: da Callimaco?). 10 La sistemazione di Housman evita una ripetizione piuttosto piatta (laedunt nocent) e mette a fuoco bene la fatica con cui l'innamorata accetta di `processare' l'assente, ma anche l'inevitabilità della sentenza. Per altri versi invita et amante rimane una possibilità attraente: invita sarebbe un richiamo alla massima che precede, amante una precisazione opportuna. 1l Per lo sforzo di motivare in modo incoraggiante il ritardo dell'amato cfr. Prop. 4, 3, 42 peierat hiberni temporis esse moras; Ov. her. 6, 6. PUTAVI

Notavi di G è una corruttela predestinata, in una clausola allineata con nocens (v. 10) e notos (v. 12). 12 Probabilmente da leggere con una polarizzazione fra alba e notos; questi venti proverbialmente forieri di maltempo (0v. am. 2, 6, 44; her. 3, 58 e n.) dovrebbero portare con sé nere nubi, non bianche vele, cfr. p. es. Verg. Aen. 5, 512 Notos atque atra... in nubila; Prop. 2, 5, 12 nubes vertitur atra Noto (per contrasto il Noto primaverile, asciutto, era chiamato Aevxóvotos, cfr. Hor. carm. 1, 7, 15-17). A prima vista, comunque, referre significa «riportare verso di me»; Prévost intende «respingere indietro» (guardando alla rotta verso Fillide), che è attraente per il senso, rispetto a mendax e a Thesea devovi (e cfr. Ov. am. 2, 9, 9 con refert = «risospinge indietro», detto di un vento avverso), e forse meno convincente per la sintassi e per la presenza di alba. Cfr. anche v. 125 sg. Procellosus è usato di venti anche in Liv. 28, 6, 10; prima di Ovidio l'espressione non sembra poetica.

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13 THESEA DEVOVI Secondo Palmer devoveo indicherebbe non solo esecrazione ma addirittura pratiche magiche ai danni di Teseo, cfr. her. 6, 91 devovet absentes simulacraque cerea fingit; am. 3, 7, 79 sg. te... Aeaea venefica... devovet. Ma il confronto tra Fillide e Medea lascia perplessi. E vero che qualche fonte parla di una maledizione e di una scatola magica che causerà la punizione di Demofoonte (Serv. ad ed. 5, 10 e schol. Pers. 1, 34 ignorano questa tradizione, cfr. invece Apollod. Epit.6, 16; Tzetz. ad Lyc. Alex. 496, e Jacobson 59), ma in tutta l'epistola Ovidio non fa nulla per richiamarla, e si può notare anzi che la sua Fillide è depurata da qualsiasi aggressività che non sia riferita a se stessa. In conclusione è meglio dare a devoveo il suo senso debole, generico, e frequente in poesia di «maledire, esecrare»; ci può perfino essere un'allusione precisa, perché Teseo è già «abituato» a maledizioni scagliate da donne tradite e abbandonate, cfr. Catull. 64, 135 (Arianna) «a, devota domum peri uria portas!». Cfr. anche l'idea di Arianna che il padre di Teseo sia avverso alle sue nozze (Catull. 64, 158-9).

sta la paradosis; diis E che, come tutti gli altri testimoni più autorevoli, non reca traccia di 18-19). La correzione deo di Palmer, paleograficamente buona per l'errata anticipazione della s- di supplex, è incredibile per il senso (cfr. anche Purser nell'introd. a Palmer, p. XXXVIII n. 2). L'unica proposta convincente per la sintassi è recuperare diis di E: il costrutto col dativo è in sé plausibile, cfr. p. es. Ov. her. 12, 187 tam tibi sum supplex, quam tu mihi saepe fuisti; met. 14, 374 ut supplex tibi sim dea. Ma la reggenza di ut tu scelerate valeres trova una base troppo debole nel semplice supplex, che nell'uso poetico è regolarmente sostenuto da un verbo di preghiera, così e.g. Verg. Aen. 5, 745 supplex veneratur; 4, 205 dicitur... supplex orasse. Inoltre — un punto molto importante — la forza di ipsa mihi sarebbe meglio spiegabile se incanalata da un movimento `correttivo' del pensiero.

15 VADA Generico di acque: riferito, in particolare, a fiumi, compare in poesia da Virgilio in poi (Aen. 7, 242 fontis vada sacra Numici). Per l'Ebro v. sotto, al v. 114. 16 CANA... AQUA L'immagine è topica del mare agitato (cfr. l'uso di noXtós), ma è possibile che Fillide abbia in mente un pericolo specifico; l'Ebro è di proverbiale irruenza (cfr. a 2, 114) e può quindi creare alla sua foce pericolose correnti. 18-19 Secondo Palmer ad 17 l'intensità di valeres (17) e valet (20) è «incommensurably weakened» dall'interporsi di 18-19: respingendo questi due versi, la continuità del pensiero si salderebbe in modo assai più pregnante: Fillide (evidentemente, in questa fase, assai fiduciosa) non prega per il ritorno di Demofoonte, ma per la sua buona salute: se sta bene, non mancherà di tornare. Effettivamente, dato che la tradizione di 18-19 poggia su testimoni di valore assai tenue e dubbio (v. sotto), è bene chiedersi se la sequenza 17-20 può essere autosufficiente, ma è difficile condividere la posizione di Palmer. È necessario anzitutto fare i conti con saepe deoi it pplex (que-

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Le discussioni più importanti sulla genuinità di 18-19 sono quelle di Housman («Class. Rev.» 11, 1897, 201 sg.), Kenney («Gnomon» 33, 1961, 485) e M. Sicherl («Hermes» 91, 1963, 200-203); ma i migliori argomenti a favore sono già riassunti da Purser a p. XXXVIII dell'introd. a Palmer. Va subito detto che 18-19 sono tràditi in modo eccezionalmente debole (v. Purser cit., Palmer in app., e soprattutto l'apparato di Dórrie): il solo codice di qualche peso a tramandarli nel testo è il Gissensis (XIV sec.; v. H. Roese, De Ovidii Heroidum codice Gissensi, diss. Giessen 1913, p. 7 sgg.); compaiono inoltre a margine in Bn ,(sec. XIV) e nel Vaticano latino 3252, e inoltre nel Vaticano Palatino lat. 1707 (scritto dopo il 1480); poi in edizioni a stampa a partire dall'Aldina del 1502. L'esistenza di questi versi in anni anteriori al XIV secolo non ha lasciato traccia. Il riaffiorare di versi mancanti in tradizioni interpolate così tarde ha comunque paralleli nella tradizione delle Heroides (v. p. es. Sicherl, art. cit.; 7, 25-26 e nn.; 7, 98-99 e nn.). I versi sono, come vedremo più in dettaglio, ben inseriti nello sviluppo del pensiero: Fillide prega per la salute di Demofoonte, e quindi, evidentemente, per le condizioni del mare e del vento (cfr. v. 15 sg., e p. es. Verg. Aen. 3, 460 illa... cursus... dabit venerata secundos); ma il tempo è bello stabile, e allora perché Demofoonte latita? Il passaggio verso i vv. 21-22 è convincente, ed è un gradino in più verso la disillusione di Fillide. D'altra parte non ci sono elementi linguistici o metrici per rifiutare una paternità ovidiana (cfr. le nn. successive) e soprattutto (come osserva p. es. Purser cit.) non manca una spiegazione per la caduta di 18- 19: l'inizio con saepe accomuna v. 17 e v. 19, e motiva

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il salto da parte del copista, come p. es. è avvenuto nel solo E in 141-2 per identità di parola finale tra 140 e 142 (iuvat). 18 Veneror è costruito regolarmente con uno strumentale, come p. es. in Verg. Aen. 5, 744 sg. Pergameumque Larem et canae penetralia Vestae l farre pio et piena supplex veneratur acerra, così come è normale, sia usuale che formale, la resa con ut del contenuto dell'invocazione (cfr. p. es. Plaut. Bacch. 173; Rud. 1349; Liv. 8, 9, 7 Di... Manes, vos precor veneror... uti populo Romano victoriam prosperetis; Tac. Ann. 3, 56; anche se in poesia, con Verg. Aen. 3, 34-6, emerge una certa preferenza per il congiuntivo semplice, che però richiederebbe anteposizione del verbo reggente). Qualche dubbio in più può essere sollevato da cum prece, che comunque è spiegabile come rinforzo di veneror (cfr. precor veneror nella formula liviana appena citata, e Lygd. 3, 2 blandaque cum multa tura dedisse prece). La lezione dell'Aldina sum prece turicremis devenerata focis è inferiore per più motivi: l'allineamento dei due ablativi non riesce chiaro; deveneror è hapax tibulliano (1, 5, 14) e perciò può sembrare a prima vista attraente, ma il senso garantito dal passo tibulliano è «stornare (con preghiera e rituale), pregare per evitare qualcosa» (cfr. deprecor). Turicremis, garantito solo dall'inserzione marginale di Bn e dall'Aldina, appare sano. L'agg. è un flosculo lucreziano, 2, 353 turicremas... aras: forse per la sua bella struttura fonica (che mima il crepitio dell'incenso) l'epiteto, pur appartenendo a una tipologia di composti di stampo arcaico, viene sanzionato da Virgilio (Aen. 4, 453 turicremis... aris), ripreso da Lucano (9, 989 turicremos ... ignes), e già in un passo sicuro di Ovidio, A . A . 3, 393 turicremas ... aras. Si tratta di una genealogia ineccepibile, mentre turiferis (di V e del Vat. Pal.) si presta a qualche obiezione: nella lingua poetica augustea il valore testimoniato è «produttore di incenso», cfr. Verg. ge. 2, 139; Ov. fast. 3, 720; anche Vitr. 8, 3, 13; il senso «fumante di incenso» o simili emerge per noi solo in Stazio (Ach. 1, 520). Turmoniis di Gi è interessante perché testimonia, con la sua corruttela, una qualche `profondità' nel processo di trasmissione di questi versi. 21 Fidus amor dimostra una proba fedeltà di tipo coniugale, cfr. Prop. 3, 12, 6 (epistola di Galla a Postumo) fido... toro; Tib. 2, 2, 11 uxoris fidos... amores. La punta del verso sta in properantibus che

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ancora denuncia, in questa fase dell'evoluzione psicologica di Fillide, il massimo credito alle buone intenzioni di Demofoonte, ma viene subito indebolito da finxit. 22 AD CAUSAS INGENIOSA FUI Quest'uso di ingeniosus potrebbe essere radicato nel linguaggio retorico e pedagogico, cfr. Rhet. Her. 2, 10 quod alius alio... sit... ingeniosior ad eminiscendum. Per il nesso con ad cfr. Ov. met. 11, 313 nasciturAutolycus furtum ingeniosus ad omne; fast. 4, 684 ad segetes ingeniosus ager (con in invece rem. 620; trist. 2, 342 inque meas poenas ingeniosus eram; Ib. 186 in poenas ingeniosus erit). Se la connotazione di ingenium «dote naturale, non acquisita» è presente qui (come nel parallelo delle Metamorfosi e in quello dei Fasti), ci può essere un riferimento alla naturale semplicità di Fillide. Il tema potrebbe avere in qualche modo precedenti callimachei, cfr. her. 20, 23 sgg. non ego natura, nec sum tam callidus usu... te mihi compositis, siquid tamen egimus, arte l adstrinxit verbis ingeniosus amor, dove è sicuramente attivo il modello di Callimaco, cfr. fr. 67, 1-3 Pf. (con le annotazioni di Pfeiffer ai vv. 1 e 3). 23 IURATA L'uso transitivo di iuro (con paralleli greci, cfr. óµvvvat) è diffuso in tutta la lingua poetica augustea, ma l'analogo impiego passivo di iuratus (che ha una forte tradizione con valore mediale) è più raro e probabilmente rappresenta uno sviluppo successivo, cfr. Sen. Ag. 792 iurata superis unda con Ov. met. 2, 46 dis iuranda palus. 25 VENTIS ET VERBA ET VELA DEDISTI (Come Teseo: cfr. Ov. am. 1, 7, 15-16). In allitterazioni simili si riconosce a volte un effetto «scivolato», di leggerezza, cfr. J. Marouzeau, Traité de stylistique latine, Paris 1946, 26 (a proposito di naVlbus VEliVolis). Il normale topos delle `parole al vento' (sin da Hom. Od. 8, 408 sg.; Catull. 64, 142 e 164) viene ravvivato da un'interferenza maliziosa: vela dare ventis è usuale, ma verba dare, preso isolatamente, è una frase idiomatica troppo diffusa per non colpire l'attenzione (_ «darla a bere a qc., ingannare»). L'espressione è comunissima nei comici ma anche ben attestata in Ovidio (p. es. am. 2, 2, 58; 3, 14, 29; trist. 2, 500; 5, 7, 40; her. 21, 123 verba... tua si mihi verba dederunt). Se nell'esametro lo zeugma rende pregnante la costruzione di verba, nel pentametro (caratterizzato da assonanze in -r-) è piuttosto vela a subire una forzatura: vela carent reditu è un'espressione innaturale, modellata ovviamente su verba careni fide.

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27 La stessa dimessa semplicità del lessico (dic mihi, quid feci...) denuncia in Fillide carenza di ars. L'avverbio sapienter è usuale, ma assai raro in poesia: in contesto simile v. Ov. rem. 745 Cnosida fecisses inopem, sapienter amasset (e nell'Ars p. es. 2, 501 e 511). E significativa l'opposizione instaurata già da Plauto fra sapienter e amatorie (Merc. 581 nunc tu sapienter loquere neque amatorie). Il nesso fra amore e ars / sapientia è la grande novità proposta dall'ideologia erotica di Ovidio, simmetricamente nell'Ars e nei remedia, e sempre con l'antimodello della sempliciotta Fillide in grande evidenza: rem . 55 sgg. Vixisset Phyllis, si me foret usa magistro... ; A . A . 3, 41 sgg. quid vos perdiderit dicam: nescistis amare; I defuit ars vobis... (Fillide è citata come esempio tre versi prima).

sarà condizionata dall'usuale connotazione «affidarsi, mettersi alla mercé di qc.».

28 Cfr. her. 7, 165 quod crimen dicis praeter amasse meum? Demereo intensivo, nel senso di «conquistare qc., guadagnarsi i favori o la stima di», non compare prima della piena età augustea (Liv. 3, 18, 3; Ov. A . A . 2, 252); l'uso arcaico (plautino) è il concreto «guadagnare». In senso erotico emereo ha uno sviluppo analogo già in Tibullo (1, 9, 60, cfr. Ov. her. 6, 138). 30 La metafora commerciale insita in instar è mantenuta viva dall'accostamento con pondus, cfr. E-M s.v. instar; Austin ad Aen. 2, 15 (con buona bibliografia). 31 tura fcdesque rappresentano rispettivamente i diritti che garantiscono rapporti interpersonali fra cui il matrimonio (cfr. l'uso di iura in Catull. 66, 83; Prop. 3, 20, 15 sg.; 2, 5, 17; Ov. am. 3, 11, 45), e la fiducia del contraente che viene disillusa, o la parola tradita, cfr. Verg. Aen. 2, 541 sg. iura fidemque / supplicis erubuit. Tutto il verso, nella sua semplicità di linguaggio, trova paralleli in scene famose di protesta contro eroi fedifraghi, cfr. Eur. Med. 21 sg. Boh µèv óexovs, àvaxaXei Sè SE tets, / nktrty peyiotrly, xaì $Eovs Etaetveetat; 496 Tev SEtet xEìe, tjs av nóXX'èXaµ(3etvov; cfr. Ap. Rh. 4, 99 sg.; Verg. Aen. 4, 597 en dextra fcdesque!; Ov. her. 6, 41 (Issipile); fast. 3, 485 (Arianna). Committere nel senso puramente fisico di `mettere in contatto' non è comunissimo, cfr. Ov. am. 1, 4, 43 ne femori committe femur; her. 11, 21, e qui la scelta del verbo

31 UBI NUNC Ubi introduce regolarmente interrogazioni di questo tono (p. es. Ter. Andr. 637 at tamen `ubi fides' si roges, nil pudet hic; Cat. orat. 66 ubi societas? ubi fides maiorum?); con nunc l'effetto è più vivace e anche sarcastico (Virgilio offre due buoni paralleli in discorso diretto, Aen. 5, 391 e 10, 897). Del tutto simile Ap. Rh. 4, 358 sg. nov tot... óexta, nov Sè t Xtxeal vmoaXeoiat (3e(3&aoty; (Medea a Giasone). 32 PLURIMUS Nell'uso quasi-avverbiale di plurimus (o multus) si possono distinguere due filoni: con intensificazione puramente quantitativa («abbondantissimo, in piena, a tutta forza») cfr. p. es. Verg. ed. 7, 60 luppiter... descendet plurimus imbri; Verg. Aen. 6, 659 plurimus... volvitur amnis; Ov. met. 8, 583 (detto da un fiume) feror cum plurimus umquam; e con implicazione di frequenza nel tempo, e insistenza, come qui e in Ov. am. 1, 15, 38 atque ita sollicito multus amante legar; met. 11, 562 sg. plurima nantis in ore est I Alcyone coniunx: illam meminitque refertque; fast. 2, 272 Arcadiis plurimus ille (se. Pan) iugis; trist. 4, 10, 128 in toto plurimus orbe legor. (Queste due tendenze sono trattate in modo indifferenziato da Palmer ad loc. e da Haupt-Korn-Ehwald-von Albrecht a met. 8, 583; 11, 562). Cfr. anche l'uso pregnante di multus («chiacchierone, insistente», cfr. Kroll a Catull. 112, 1). L'effetto è parlato, vivace (v. anche H.-Sz. 161 sg. sulla distribuzione in Volkssprache e in poesia di forme sia attributive che predicative). IN FALSO... ORE

Cfr. her. 6, 63 lacrimis in falsa cadentibus ora (con ipallage più forte); 7, 67. ThlL VI.192.60 cita come unici precedenti Lucr. 4, 483 ab sensu falso; 4, 521 falsis... ab sensibus («mendaci»). 33 SOCIOS... IN ANNOS `In vista di anni di matrimonio'. L'uso di socius riferito a partnership amorosa ha radici nel linguaggio erotico dell'elegia romana, cfr. Prop. 1, 5, 29 socio cogemur amore (`comune e mutuo'); Ov. her. 18, 157 socii... amoris, ma è caratteristica di Ovidio una specializzazione matrimoniale del termine, cfr. A. A. 2, 377; her. 5, 126; met. 9, 796 Venus et luno sociosque Hymenaeus ad ignes / conveniunt. Socia-

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lis = coniugale appare del resto un'iniziativa ovidiana, cfr. am. 3, 11, 45 lecti socialia iura; her. 12, 141, socialia carmina (cioè un epitalamio); 21, 157 socialia sacra; met. 14, 380; fast. 2, 729; trist. 2, 161 sociales... annos; Pont. 3, 1, 73 (cfr. le difficoltà poste ai poeti da coniugalis e nuptialis). HYMENAEUS

Come dio, Imeneo è frequente in tragedia e commedia greca; nel senso di `matrimonio' è (come in latino) un poetismo; per l'uso del singolare v. p. es. Soph. Oed. 422; Eur. lon. 1475; in latino da Pac. trag. 113; Catull. 66, 11 novo... hymenaeo; e in tutto il carme 61, che nella prima parte è un'invocazione e un encomio del dio Imeneo visto come boni l coniugator amoris (44 sg.); 64, 141 optatos hymenaeos (false promesse del padre di Demofoonte ad Arianna prima di abbandonarla); Verg. Aen. 4, 127 hic hymenaeus erit (discusso, ma probabilmente da interpretare `questa sarà la cerimonia nuziale'); Sen. Phoen. 262. Data la presenza di sponsor et obses, qui è ben viva l'autonomia del dio rispetto al concetto, ma l'accostamento con promissus suggerisce la connotazione «nozze». In Ovidio da confrontare her. 11, 101, e tre casi nelle Metamorfosi tutti in associazione con la romana lupo Pronuba, cfr. 6, 429; 9, 762; 9, 796 (v. qui sotto al v. 117). Si noti che Ovidio ha la prima occorrenza di Hymen = matrimonio, her. 9, 134. 34

SPONSOR ET OBSES

Hymenaeus è `garante' della regolare promessa di matrimonio, cfr. her. 15, 116 sponsor coniugti sit dea ptcta sui. In Dioscoride, A . P. 5, 52, il dio è invocato come vendicatore per una promessa di matrimonio mancata. Palmer trova incomprensibile come Hymenaeus possa essere definito un obses, ma la situazione implicata qui è assai chiara: un obses è qualcuno che si lascia `indietro', in terra straniera, come garanzia di un patto (qui, gli sponsalia cui allude sponsor). Demofoonte, appunto, è partito e ha lasciato indietro il più credibile degli ostaggi, Imeneo invocato tante volta dalla sua perfidia. Per il nesso fra i due termini cfr. p. es. Liv. 9, 5, 3 quid... aut sponsoribus

in foedere opus esser aut obsidibus? 35 sgg. Sul tema dei falsi giuramenti Ovidio ha un'intera elegia (am. 3, 3); inoltre v. am. 1, 8, 85; 2, 8, 19; A . A . 1, 633 sgg. (sempre con

periuria, peierare).

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L'insistenza di Fillide su tutti i punti del giuramento è naturale e spontanea, ma la martellante ripetizione di per (sei occorrenze tutte, tranne la conclusiva, in principio di verso o di colon metrico), e soprattutto un verso come 36 PER quod saepe IERAS, PER quod lturus ERAS, rendono probabile il pungente riferimento a un implicito PEIERAS, che è poi al fondo dei pensieri di Fillide: giurare tante volte per, non significherà peierare (perierare, periurare)? 35 Il mare è al primo posto nella lista non perché Demofoonte è un marinaio (cfr. Verg. Aen. 6, 351 dove il timoniere naufrago Palinuro giura per maria aspera), ma, ovviamente, perché la sua natura insidiosa e mutevole denuncia subito l'inattendibilità del giuramento (e insieme la crudeltà di Demofoonte); nelle Heroides un netto parallelo è 3, 53 (v. ad loc.). E a Fillide non resterà che guardare il mare. ET UNDIS

Le varianti iniquis (F, cfr. her. 7, 143 ventis agitaris iniquis) e et auris (G, L, V) sono decisamente banalizzanti, mentre et undis (rispecchiato anche da in undis di E) è più convincente proprio per l'asimmetria di senso rispetto a ventis: così anche Palmer ad loc. («the waves, though part of the sea, are said to toss it»). 36 IERAS Il piuccheperfetto di eo è infrequente in poesia e la scelta può essere motivata dall'ironico «ipotesto» peieras (v. sopra a 35 sgg.). 37 Il dubbio polemico sulla reale ascendenza da una divinità è in effetti un topos, cfr. Verg. Aen. 4, 365 sgg., ma soprattutto Aristeo in ge. 4, 323 (e Call. Hymn. 6, 98 sgg.); però il riferimento di Fillide non è generico e scolorito. La paternità di Teseo è in effetti dubbia, e anzi, secondo una certa maggioranza di testimoni, il vero «nonno» di Demofoonte dovrebbe essere Egeo e non Posidone. La questione ha un notevole riflesso in Bacchilide (17, 33-36; 57-60; 77-80) dove si chiede con insistenza a Teseo di «provare» la sua origine divina. Il testo bacchilideo poteva essere familiare a Ovidio, anche tramite modelli poetici alessandrini. V. anche Jacobson 69 n. 23.

38 Nel modello virgiliano di Aen. 1, 66 [Eolo e i suoi poteri dati da

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Giove] et mulcere dedit fluctus et tollere vento, è necessario legare ventis non solo a tollere ma anche a mulcere (per la questione v. Austin ad loc.; Palmer a 18, 48; Henry ad loc.; Conington a ecl. 2, 26). L'imitazione di Ovidio è pregnante non tanto per la ridistribuzione dei concetti (come sembra sostenere Palmer ad loc.) quanto perché da tutto l'episodio virgiliano risulta chiaro che Eolo non ha diritti sul mare e deve essere subordinato a Nettuno, cfr. Aen. 1, 132 sgg.; 138 sg. «non illi imperium pelagi saevumque tridentem I sed mihi sorte datum». Ovidio, trasferendo a Nettuno la designazione virgiliana di Eolo, cura quindi un perfetto allineamento sul senso narrativo del suo modello (cfr. Aen. 1, 142 dicto citius tumida aequora placar). V. anche Ov. met. 11, 431 sg. (in riferimento di nuovo a Eolo).

per Venere ('AlpeoSíatos óexog) sono in proverbio per essere non vincolanti, cfr. Call. A. P. 5, 6, 4; Meleagro, A. P. 5, 8, 5; Catull. 70, 3-4; Tib. 1, 4, 21 Veneris penuria; Ov. am. 3, 3 (passim); G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 19642, 477 sgg. 41 TORIS QUAE PRAESIDET... MARITIS Forse da leggere come perifrasi di Pronuba, cfr. Verg. Aen. 4, 166 Pronuba lutto con la glossa serviana quae nubentibus praeest; l'appellativo è risparmiato, con efficace sfasatura, per la perversa apparizione di Tisifone al v. 117 (v. ad loc.). In Ap. Rh. 4, 96 Giasone giura per 'Ho" Zvyírl. Alma come attributo di Giunone è un unicum. MARITIS

39 FACIENTIA Ovidio promuove alla lingua poetica una varietà di accezioni familiari o prosaiche di facio, e non è sempre facile mettere ordine. Una grande quantità degli esempi recati da Palmer riguardano l'uso di facio con ad nel senso di «essere compatibile, convenire, adattarsi a», valore già presente in Prop. 3, 1, 20 non faciet capiti dura corona meo. Notevole anche l'uso assoluto in trist. 3, 8, 23 nec caelum nec aquae faciunt nec terra nec aurae («non si confanno, non fanno bene»). Il nostro caso sembra invece inseparabile da attestazioni più tecniche, soprattutto medicinali («avere efficacia, funzionare su», p. es. Plin. nat. 22, 48 radix coeliacis praeclarefacit; usato sia col dat., sia con ad, sia assolutamente): si può così interpretare «armi che su di me sono anche troppo efficaci» piuttosto che «armi anche troppo adatte a me, alla mia natura». Con questo secondo valore Ovidio usa regolarmente nelle Heroides facere ad (cfr. 6, 128; 14, 56; 15, 8; 16, 192); anche se l'esempio properziano già citato mostra un certo interscambio tra i due costrutti. Per la fiaccola come attributo o arma di Cupido v. p. es. Ov. A. A. 1, 21 sg. [Amor] quamvis mea vulneret arcu I pectora iactatas excutiatque faces; am. 2, 9, 5 fax... arcus; Iuv. 6, 139 inde faces ardent, veniunt a dote sagittae. L'uso di fax è già tradizionale, con diversi gradi di scarto metaforico, v. p. es. Tib. 2, 4, 6; Prop. 1, 13, 26; Hor. carm. 3, 9, 13. Per la struttura del v. cfr. Ov. Pont. 3, 3, 67 «per mea tela, faces, et per mea tela, sagittas» (detto da Eros). 39 Se Fillide fosse più esperta saprebbe certamente che i giuramenti

L'aggettivo è attestato fin da Plauto nel senso di `maritata / ammogliato'; con riferimenti più liberi nel senso di `nuziale, coniugale' è più recente e legato alla lingua poetica augustea, cfr. Prop. 3, 20, 26 sacra marita; 4, 3, 11; 4, 11, 33 facibus... maritis; Hor. saec. 20 (cfr. l'impraticabilità di coniugalis o nuptialis in poesia esametrica); però un uso simile si affaccia in Livio (27, 31, 5). 42 Il giuramento per Demetra è comune in greco, ma la forte colorazione di misteri eleusini si adatta molto bene alla provenienza ateniese di Demofoonte. (La presenza di un Demofoonte nel mito di Demetra, hymn. Hom. 2, 234 sgg., è invece una coincidenza casuale.) In Alciphr. 4, 18, 1 l'amante giura alla sua donna, per rassicurarla, µà -rei; 'EXevatvías 15Eetg, µà tà [Avotr1eta avTúwv (l'autore della lettera d'amore si immagina il poeta ateniese Menandro). TAEDIFERAE

Dìs legómenon, cfr. fast. 3, 786 taedifera... dea. DaSotixos (v. LSJ s.v.; di Ecate, schol. [A] Theocr. 2, 12) è attestato come carica ai misteri eleusini; Sgbocpóeos è poetico, di Ecate (Batch. fr. 23, 1), di Furie (CA, adesp., 1154). L'appellativo ha un alone misterico ma anche un preciso riferimento a radici mitiche, cfr. Hymn. Hom. Dem. 48; Ov. fast. 4, 491-93; met. 5, 441 sgg. V. anche Eur. Suppl. 260 nue:pópov *eóty; Bómer a fast. 3, 786 e 4, 493. Non è escluso che Fillide, con tutte le sue speranze di matrimonio, senta nell'espressione un preannuncio di taedae nuziali.

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MYSTICA

LACERAS

L'aggettivo è testimoniato in latino sin da Accio (trag. 687 R.2); di misteri eleusini già in Virgilio (ge. 1, 166 mystica vannus lacchi). Ovidio conferma la popolarità del grecismo, introducendo anche il traslato mysticus «misterioso, occulto», A . A . 2, 640 tectaque sunt solida mystica furta fide (mysteria è già usato così liberamente da Cicerone, poi Veneris mysteria Ov. A . A . 2, 609).

Riferito a oggetti, lacer è assai espressivo, e specificamente poetico, cfr. Ov. A . A . 1, 412 lacerae naufraga membra ratis; Pont. 2, 3, 28; 3, 2, 6; Ib. 275; cfr. pure laniataque classis her. 7, 175 (già Sall. Hist. 4, 28); lacerata... puppis trist. 5, 7, 35. Si può confrontare Tac. ann. 15, 40, 2 pauca tectorum vestigia supererant, lacera et semusta: Tacito ha in prosa i primi esempi di lacer non applicato a corpi umani (v. anche E. Skard, Ennius und Sallust, Oslo 1933, 41 sg.; F. Kuntz, Die Sprache des Tacitus und die Tradition der lat. Historikersprache, Diss. Heidelberg 1962, 83).

44 L'iperbole è ironica e stranita, anche se ricorda certi sviluppi, molto influenzati da Ovidio, della poesia retorica di età neroniano-flavia, p. es. Lucan. 2, 186 sgg. unum tot poenas cepisse caput; 6, 212 sg. tot facta sagittis, l tot iaculis unam non explent volnera mortem; Stat. Theb. 5, 59 totumque in vulnere corpus (con Ov. met. 2, 237 iam loca vulneribus desunt). Per il tema della vendetta divina cfr. Catull. 64, 192. 45 sgg. L'idea che Demofoonte sia giunto in Tracia dopo lunghe peripezie (cfr. 107 sgg. e nn.), e dopo una sorta di naufragio, riesce naturale nel contesto; ma le altre fonti che abbiamo non insistono su una motivazione di questo tipo per spiegare la visita di Demofoonte. Jacobson (60 e n. 72; 62) pensa che si tratti di un'innovazione ovidiana tesa a ricalcare il più possibile la situazione di Enea e Didone. Tuttavia, se Demofoonte è reduce da Troia (cosa di cui comunque Ovidio non fa parola) è del tutto naturale immaginarlo travagliato da errores e anche naufrago: Stesicoro lo faceva arrivare persino in Egitto (63, 15 sgg. in D. L. Page, Lyrica Graeca Selecta, Oxford 19762), ed è difficile immaginare un reduce da Troia che non incontri traversie. A parte questo, lo schema tempesta / mutamento di rotta / approdo presso una regina (o principessa) ospitale ha un carattere così universale che è difficile ricondurlo al solo influsso di Virgilio, ed è imprudente escludere che ricorresse in fonti letterarie greche. 45 AT Come brusca introduzione di minacce, rimproveri, esclamazioni o maledizioni, at è una vivace risorsa sia del parlato che del linguaggio poetico/oratorio. Si può essere tentati di accogliere a! (ricavabile da G e da F ante corr.), cfr. Catull. 64, 135, ma questo finirebbe per indebolire il successivo heu del v. 48.

FURIOSA

AI contrario furiosus riferito a persona ha ben poco di poetico o elevato; mai in Virgilio; è anche tecnico-legale, col valore di «malato di mente». L'esempio poetico più vicino è nelle Satire di Orazio, detto di Agave (2, 3, 304); carm. 2, 16, 5 bello furiosa Thrace è diverso, per l'effetto nobilitante del contesto, del grecismo, e della personificazione. Del tutto prosaico è poi reficio riferito a navi; per il carattere tecnico e usuale dell'espressione v. Caes. B. C. 1, 30, 4; 1, 34, 5; Liv. 27, 22, 12; 30, 2, 2. Cfr. her. 7, 178 semirefecta. 46 Non può sfuggire l'abbondanza di r che va misurata sul tono arrabbiato di questi versi (notevole il cacofonico desererer). Cfr. a 1, 8. FIRMA

Nel senso di `solido, robusto' è aggettivo anche poetico ed elevato (cfr. Verg. Aen. 2, 481; Tib. 1, 2, 6), ma qui sembra in gioco un livello più tecnico, «in buono stato», «a tenuta» (detto di ciò che deve reggere l'acqua e i liquidi, cfr. Cat. agr. 100 di una giara, Cic. Brut. 257 di tetti). 47 REMICIUM Tradizionalmente inteso nel senso di «ciurma, squadra di rematori», cfr. Verg. Aen. 3, 471 remigium supplet; 8, 80 remigioque aptat; Liv. 26, 39, 7, ma la cosa non mi sembra così scontata; i danni subiti ai remi sono un incidente tipico delle tempeste, cfr. Hor. carm. 1, 15, 4 nudum remigio latus, e quest'uso concreto di remigium è attestato anche in Ovidio (fast. 3, 586).

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48 L'origine di questo topos sembra legata a un celebre passo dei Mirmidoni eschilei (fr. 231 Mette): la «fiaba libica» dell'aquila che, ferita a morte, riconosce nella cocca della freccia le sue stesse piume. Il frammento è riferibile alla situazione in cui Achille si vede ritorcere contro le sue stesse armi (tolte da Ettore a Patroclo e subito indossate): questo rende abbastanza preciso il riferimento ovidiano (vulnera, telis... meis), ma va anche notato che nel linguaggio non c'è alcun indizio di aulicità. Lo stile semplice, così tipico di Fillide, ricorda movenze come Plaut. Amph. 269 hunc telo suo sibi, malitia, a foribus pellere; Ov. A . A . 3, 590 telis quin pesar ipse meis.

ego fallere doctus I tergebam umentes credulus usque genas (da notare doctus opposto a credulus); cfr. 1, 4, 71-2 (Venere ama le querellae e i pianti disperati); Prop. 1, 12, 16 (Amore apprezza le lacrime versate), ma il richiamo di Fillide a una specifica techne del piangere a comando non può che coinvolgere l'Ars amandi, cfr. 1, 667 sgg. et lacrimae prosunt; lacrimis adamanta movebis. I Fac madidas videat, si potes, illa genas; I si lacrimae (neque enim veniunt in tempore semper) I deficiunt, uncta lumina tange manu; 3, 291 sg. quo non ars penetrat? discant lacrimare decenter l quoque volunt plorant tempore quoque modo; am. 1, 8, 83-84 quin etiam discant oculi lacrimare coatti I et faciant udas ille vel ille genas (consigli di una ruffiana); rem. 689 sg. neve puellarum lacrimis moveare, caveto; / ut f lerent, oculos erudiere suos. V. anche McKeown a Ov. am. 1, 8, 79-86; 83-4. Anche nel quadro «eroico» delle Epistole ovidiane, Fillide rappresenta il grado estremo della semplicità e della carenza di Ars altre eroine, come Fedra e persino Didone, appaiono in qualche modo più volenterose nell'apprendimento. Si noti anche che, al di fuori della didascalica ovidiana, le lacrime facili dovrebbero essere una naturale caratteristica femminile (cfr. Iuv. 6, 274 sgg.).

49 O nullis tutum credere blanditiis! (Prop. 1, 15, 42). Nonostante la sua usualità, blandus (e blanditiae) è ormai strettamente associato al mondo elegiaco: accomuna persuasione e seduzione. Cfr. anche Catull. 64, 139 sg. blanda... voce (di Teseo seduttore). Eppure era stato chiaro il messaggio dell'Arianna catulliana: nulla viro iuranti femina credat (64, 143). Il plurale credidimus è condizionato dall'impossibilità metrica di credidi; l'altro caso di plurale in questa lettera, excidimus v. 105, è in situazione prosodica equivalente. 50 NOMINIBUSQUE Numinibusque è paradosis concorde (per quanto Planude legge óvóµa6ty) ma è sconsigliato sia dalla ripetizione con dis del v. 53, sia, soprattutto, dal fatto che ogni colon introdotto da credidimus dovrebbe contenere un concetto autonomo e conchiuso. D'altra parte l'associazione fra genus e nomina è una coppia privilegiata, cfr. her. 17, 53 et genus et proavos et regia nomina iactes; Hor. carro. 1, 14, 13 iactes et genus et nomen inutile; Mart. 5, 17, 1 dum proavos atavosque refers et nomina magna. Il plurale numinibus tuis suona poco naturale: il richiamo di Demofoonte è alla discendenza da un singolo dio (cfr. v. 37 sg. e n.), come nel caso di Medea che in her. 12, 80 supplica per genus et numen cuncta videntis avi. 51-52 Her. 12, 93 vidi etiam lacrimas - an pars est [an et ars est Sedlmayer] fraudis in illis? Le lacrime che ingannano l'amante sono un tema presente già nell'elegia augustea «alta» (che ha già certe sue componenti didascaliche) cfr. Tib. 1, 9, 37-38 quin etiam fleba. At non

EUNT

Il verbo è, come è ovvio, di uso estremamente comune (cfr. Cels. 6, 6, 1, di lacrime, Cat. agr. 156, 7 di altri liquidi fisiologici), ma per la sua semplicità si adatta anche allo stile poetico, cfr. Prop. 4, 11, 60; Ov. her. 8, 62; 13, 52 (in poesia elevata p. es. effundi, Verg. Aen. 6, 686; volvi, 4, 449). 53 La collocazione di credidimus in fine di colon, in epifora, è artistica, dopo tre occorrenze in principio di colon e di verso (49, 50, 51). QUID IAM

Anche sulla base della lezione di P ante corr., quod, Palmer accetta quo di Heinsius confrontando Hor. ep. 1, 5, 12 quo mihi fortunam (cui si potrebbe aggiungere Ov. am. 3, 7, 49 quo mihi fortune tantum? quo regna sine usu?; 2, 19, 7; 3,4, 41; met. 13, 102); tuttavia quid iam è altrettanto spontaneo e colloquiale, e non suscita particolari sospetti. 54 lede è quasi-partitivo, un uso bene attestato in Ovidio e di sapore

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`parlato'; lo conferma il parallelo di her. 12, 91 haec animum - et quota p ars poterat? - movere puellae.

poetico: in Virgilio honestus significa esclusivamente «di bell'aspetto».

55 IUVI PORTUQUE LOCOQUE Per nessi simili v. Ov. met. 11, 281 sg. petit, urbe vel agro / se iuvet; Iuv. 3, 211 nemo cibo, nemo hospitio tectoque iuvabit, e la congettura di Palmer iuvi in her. 6, 55; inoltre Verg. Aen. 1, 571 opibusque iuvabo (Fillide come Didone).

61 QUA ME MERUISSE PUTAVI Cfr. Trist. 5, 2, 59 quia me meruisse videbam.

57 CUMULASSE Cumulare «coronare, dare il tocco finale» è di uso ciceroniano e liviano: in questa accezione il verbo non è poetico prima di Ovidio, anche se è recepito da Virgilio tanto in senso fisico che nel traslato «sommergere di» (con in più lo spinoso problema di Aen. 4, 436 cumulatam morte remittam, dove, se si accetta di interpretare «con gli interessi», il valore è abbastanza vicino a quello del nostro passo). Cfr. anche l'uso di cumulus `tocco finale, coronamento', poetico non prima di Ov. her. 9, 20; met. 11, 206.

61-2 L'allitterazione in me-, le ridondanze semantiche, l'omeoteleuto speravi I putavi, e la sentenziosità del v. 62 (cfr. 7; 9-10; 85 sg.), cooperano all'effetto di uno stile «semplice» adatto all'eroina della simplicitas. 63-64 Probabile una reminiscenza delle proteste di Giunone in Verg. Aen. 4, 93-95 «egregiam vero laudem et spolia ampia refertis... una dolo divum si femina victa duorum est» (la solennità delle parole è ironica, ma Ovidio rinuncia anche alla solennità). Per sarcasmi del genere v. am. 1, 7, 37-8 (con la nota di McKeown); her. 3, 144; 21, 117 sgg. (e si noti Cic. inv. 1, 103).

IUGALI

L'aggettivo nel senso di «matrimoniale» o «nuziale» è specificamente poetico (ha fortuna sia per il suo tasso metaforico, sia per i problemi metrici posti da sinonimi come nuptialis o coniugalis), ed è usato in situazioni simili quando parla Didone, cfr. Verg. Aen. 4, 16 vinclo... iugali; 4, 496 lectumque iugalem. Anche Fillide, come Didone, ha una tendenza ad ampliare l'applicazione del termine fuori dalla sfera di un regolare matrimonio. Cfr. anche l'uso di t ytog (p. es. Ap. Rh. 4, 96). 58 LATERI CONSERUISSE LATUS Cfr. her. 19, 138 (Ero a Leandro). La designazione è piuttosto esplicita (probabilmente per la simplicitas di Fillide, che proprio per la sua basilare ingenuità tende a dire «pane al pane») ma non lasciva quanto certi suoi modelli elegiaci, cfr. Tib. 1, 8,26femini conseruisse femur; Ov. am. 3, 7, 10 lascivum femori supposuitque femur (cfr. anche Mat. fr. 12, 2 Mor.). Altre testimonianze in A. Traina-M. Bini, Supplementum Morelianum, Bologna 19902, 30. Il paenitet di Fillide richiama il nocet... conseruisse di Tibullo, cit. 60 HONESTA In questa accezione («perbene, onorata») l'aggettivo non è di effetto

65 Per l'effetto del doppio et cfr. Ov. met. 6, 524 et virginem et unam / vi superat e l'autoparodia di met. 14, 384 sg. «laesaque quid faciat, quid amans, quid femina disces / ... sed amans et laesa et femina Circe!». 66 La percepibile eco del v. 56 chiude una breve sezione e prepara un nuovo movimento concettuale. 67 AEGIDAS Sulla difficoltà di dire `Ateniese' in poesia dattilica (Thesidae Verg. Ge. 3, 383) v. Norden a Aen. 6, 21. Il patronimico, in latino non prima di questo passo, è normalmente legato al nome del solo Teseo, cfr. p. es. Hom. Il. 1, 265; CA p. 130, 1, ma è chiaro dal contesto che Fillide prevede una sequenza di statue dedicate a un'intera dinastia di eroi. La sede è ovviamente Atene, e media... in urbe fa pensare a concrete realtà monumentali, p. es. nell'Agorà dove, fra l'altro, sorgeva un Theseion, e dove Pausania (libro I) ci testimonia non rare rappresentazioni di Teseo, di Acamante, di altri personaggi genealogicamente connessi (in quanto

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eroi, ecisti o signori dell'Attica). Una visita di Ovidio ad Atene è testimoniata (trist. 1, 2, 77), e comunque il riferimento sarebbe più facilmente spiegabile in un perduto modello greco. Ma esiste una spiegazione più lineare: l'esposizione di statue di benemeriti con iscrizioni onorifiche suggeriva a qualsiasi lettore romano una collocazione nel Foro, cfr. p. es. Plin. nat. 34, 17 in omnium municipiorum foris statuae ornamentum esse cepere... et honores legendi aevo basibus inscribi, ne in sepulchris tantum legerentur. Successioni di statue di eroi, summi viri con le iscrizioni dei loro clara acta, anche collocate in sequenze genealogiche lineari (Enea e discendenti, la dinastia Giulia, i re di Alba Longa), dovevano essere familiari soprattutto nell'epoca in cui prende forma il grande impianto celebrativo del Foro di Augusto (cfr. p. es. P. Zanker, Il Foro di Augusto, Roma 1984, p. 15): il complesso monumentale fu inaugurato nel 2 a.C. ma la sua gestazione fu notoriamente lunghissima, estesa per più decenni, e perciò compatibile con un riflesso sulla composizione delle Heroides: in questa luce sarebbe anche meglio spiegabile qualche tratto stilistico nell'enumerazione delle imprese di Teseo, dove sembra evidente una matrice di linguaggio epigrafico `trionfale'; cfr. al v. 71. Si noti che la sequenza delle statue con le loro iscrizioni celebrative ha lasciato una chiara eco in Ovidio, fast. 5, 563-66 videt Aenean [appunto nel nuovo Foro] ... et tot Iuleae nobilitatis avos... videt Iliaden... claraque dispositis acta subesse viris. STATUARIS

L'uso di statuo riferito alla persona effigiata nella statua è sceltissimo, cfr. Plin. nat. 34, 18 Mancinus eo habitu sibi statuit, quo deditus fuerat; Tac. dial. 13, 6 statuar... tumulo non maestus et atrox, sed hilaris et coronatus, rispetto alla tradizionale figura etimologica statuam statuere (Plaut. Bacch. 640; Enn. ann. 567 V.2). Ci sono affinità con l'uso di sto, cfr. il v. successivo e Verg. ed. 7, 32, e di sisto, cfr. Sil. 8, 229 sg., e con l'impiego greco di I,atrl tt e íOtaµat (cfr. Her. 2, 141; Plat. Phaedr. 236 B; Ar. Rhet. 1410 a 33). 68 TITULIS Da intendere in senso concreto («scritte» onorifiche) come mostrano i versi successivi (cfr. anche v. 73). Si noti che secondo certe tradizioni Demofoonte riuscirà a riscattarsi e ad acquistare buona fama: negli Eraclidi di Euripide (vv. 320-26) è proclamato degnissimo figlio e continuatore di Teseo. L'uso di tituli è un po' più metaforico in

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her. 10, 130, dove Arianna offre un netto parallelo a tutta questa tirata amarissima. Cfr. Val. Max. 5, 8, 3 effigies maiorum cum titulis suis. 69-71 L'enumerazione delle imprese di Teseo è tradizionale, e Ovidio stesso ne dà una versione molto più completa nel «peana» di Rei . 7, 433-50, ma un qualche suggerimento poteva venire da Eur. Hipp. 976-80 dove Teseo, accanendosi contro il proprio figlio (ovviamente Ippolito, non Demofoonte), ricorda amaramente le sue vittorie (Sini e Scirone). 69 LECTUS TORVUSQUE L'uso del passivo è perfettamente naturale, cfr. her. 5, 22 et legar Oenone, ma l'accostamento con Procrustes (famoso per il suo terribile «letto») potrebbe essere malizioso. Torvus riferito genericamente a una persona (`feroce') è un tocco elevato e forse arcaizzante (Pac. 37 R.2; Verg. Aen. 10, 170). 70 TAURI MIXTAQUE FORMA VIRI Versione alquanto attenuata di uno dei più malfamati concettismi ovidiani, A . A . 2, 24 semibovemque virum semivirumque bovem (cfr. l'aneddoto in Sen. rhet. contr. 2, 2, 12. Sospetto che l'agudeza sia stata suggerita a Ovidio da Virgilio, che parlando di Caco lo chiama una volta semihomo, Aen. 8, 194, e una volta semifer, 8, 267); cfr. met. 8, 169 geminam tauri iuvenisque figuram; fast. 5, 380 semivir et flavi corpore mixtus equi; her. 10, 127 letum taurique virique (detto da Arianna). L'uso di mixtus è anticipato da Verg. Aen. 6, 25 sg. mixtumque genus prolesque biformis / Minotaurus, a sua volta su Euripide, Cretesi (v. Plut. Thes. 15; fr. 80 e 81.29 Austin; Eur. Meleagr. in «Lustrum» 1981-2, p. 188 fr. 693). Le espressioni euripidee ovµ µ txtov ELSOS e tW QOV All,XTat xa'L (3potoú òutXf cpvoci sono alla base di tutta questa filiazione. V. anche Hollis a met. VIII, p. 160; W. Clausen, «B.I.C.S.» Suppl. 51, 1988, 15, sull'assenza di Minotaurus in poesia. Ov. met. 8, 152 Minos taurorum (prima della storia del mostro) è chiaramente una strizzata d'occhio al lettore. DOMITAE BELLO THEBAE Il mito è celebre per la trattazione nelle Supplici euripidee. L'espres-

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sione ha paralleli in epigrafi celebrative, p. es. CIL I p. 194: Liguribus domitis... triumphauit .

72 PULSATA E il verbo normale per `bussare', sia con oggetti come «una porta», sia (un po' più raro) il luogo a cui si bussa (cfr. Plaut. Rud. 932); tuttavia il verbo ha anche applicazioni più forti (p. es. di assalire, e bombardare, una fortezza) che potrebbero essere pertinenti qui dato il carattere eroico dell'impresa di Teseo.

FUSIQUE BIMEMBRES Fusi è piuttosto preciso: dopo la sconfitta i Centauri furono sloggiati dalla loro sede in Tessaglia, cfr. già Hom. Il. 2, 744 cúOE con Ov. her. 10, 100. Il verbo è comunque tipico di iscrizioni celebrative ufficiali, p. es. CIL I p. 192 Tuscorum exercitum fudit. L'uso di Bimembres è piuttosto tipico della complessità stratificata del lessico poetico latino. Nella sua prima apparizione (in un epillio neoterico, Cornificio fr. 2 Mor.) l'aggettivo è attributo contestuale di Centauros; nella seconda (Verg. Aen. 8, 293, in un passo di stile innologico) è attributo dei nomi propri di due Centauri, definiti allusivamente nubigenae; nel nostro passo, infine, si sostantiva e richiede, anche per la sinteticità dell'allusione, maggiore competenza al lettore. L'aggettivo sembra appartenere a una fortunata famiglia di poetismi, di cui si affermano progressivamente bicorpor (Nevio e Accio; riferito a Centauri e senza nomi propri in Cic. Tusc. 2, 22 haec bicorporem adflixit manum?, in una versione da Sofocle), biformis (Virgilio e Orazio, ma già biformatus in Cic. Tusc. 2, 20 non biformato impetu I Centaurus ictus torpori inflixit meo). Biformis e biformatus possono essere stati suggeriti da &poipos (Lyc. 111, 812) e, soprattutto, da Stcpv rls che ricorre nel passo delle Trachinie sofoclee che Cicerone ha di fronte in Tusc. 2, 22 (cfr. Soph. Trach. 1095, naturalmente riferito a Centauri; fuorviante Norden a Aen. 6, 25). In questa proliferazione di termini c'è una tendenza a svecchiare via via il lessico; se bimembris è stato introdotto da Cornificio, sarà stato per «aggirare» bicorpor che ormai sembrava arcaico (non ricorre più in latino dopo Cicerone). Nel complesso, bisogna guardarsi dal considerare questi composti come calchi `uno a uno' di localizzati modelli greci (cfr. la bella discussione di bicorpor in M. Barchiesi, Nevio epico, Padova 1962, 281 sg.); ad esempio tricorpor che fa la sua apparizione in Virgilio sarà stato influenzato più da Tetacbµatog o dalla preesistenza di bicorpor? Piuttosto, dall'esistenza di un paradigma. La tendenza a designazioni perifrastiche dei Centauri può essere stata avviata dal modello omerico: nell'Iliade questo nome non è usato e si parla genericamente di c71pe9, «le Bestie» (cfr. 1, 268; 2, 473).

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NIGRI... DEI Cfr. p. es. Verg. Aen. 6, 127 atri ianua Ditis Niger associato alla morte e all'oltretomba è elementare e per ciò stesso anche poetico, cfr. Verg. Aen. 6, 134; Hor. carm. 1, 24, 18; 4, 2, 24 nigro Orco; 4, 12, 26; Tib. 1, 3, 4 Mors... nigra; Prop. 4, 11, 2 ianua nigra; Stat. Theb. 6, 376 nigrae... sorores (le Parche). Comunque una tale designazione di Plutone è rara, cfr. met. 4, 438 nigri fera regia Ditis; Sen. H. 0. 1705 nigri regna Iovis (ci sono paralleli greci p. es. con xeXatvós o ttékag, cfr. Soph. Oed. 29). Ditis (ELV) è interpolazione, ametrica, dal passo parallelo di met. 4, 438, o glossa intrusa nel testo. CAECA L'agg. è molto diffuso nel senso di «oscuro, tenebroso», ma v. soprattutto Norden a Aen. 6, 30 (con vari esempi anche per l'uso poetico di TvcpXós); Prop. 1, 19, 8 caecis... locis (in Ade). Con regia l'agg. potrebbe avere una sfumatura più precisa: una reggia oscura perché è «senza finestre», cfr. Van. 1. Lat. 9,58 si fenestram non habet [sc. cubiculum] dicitur caecum. 73-74 L'idea di anticipare un'iscrizione commemorativa di Demofoonte è particolarmente pungente perché Fillide finirà con l'annunciare anche il proprio autoepitafio, cfr. i vv. 146-48. Le due epigrafi si richiamano a vicenda e sembrano anche collegate, guardando al fr. 556 Pf. (sopra, n. al v. 1), da una certa reminiscenza callimachea. Data la posizione conclusiva dell'epitafio, può non essere casuale che 74 sia il verso mediano dell'intera epistola (considerando, come per vari motivi appare giusto, genuini i vv. 18-19). 74 cuius In sintetico &nò xotvoiv con hospita e dolo. Il concetto può essere un'elaborazione suggerita dal greco etvanetrgg (Alc. 283.5 L.-P.; lbyc. 263.10 P.; Eur. Med. 1392; Tro. 866).

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CAPTA

L'ironia è accresciuta dal comune uso del verbo in epigrafi celebrative, cfr. p. es. Taurasia Cisauna... cepit; Hec cepit Corsica (negli

Scipionum elogia). 75 La gravità spondaica del verso è motivata dal contenuto solenne, come quella del v. 77 dal tono di rimprovero. 76

SEDIT

è fissata, si è impressa»; quest'uso di sedeo ha precedenti, solo parzialmente equivalenti, nell'uso poetico di sedet (cfr. p. es. Verg. Aen. 2, 660 sedet hoc animo; 4, 15 animo fixum immotumque sederet; 4, 418; 7, 611 certa seder patribus sententia pugnae; 11, 551) con il valore di «è stabilito, è deciso». I precedenti più ravvicinati sono forse con l'uso di insideo e insido (di idee, ricordi, sentimenti che si fissano nell'animo e nella memoria), da valutare nel quadro delle preferenze poetiche accordate al semplice rispetto al composto. «Si

CRESSA

In casi come questo ha poco senso di discutere se prevalga esigenza di stile o comodità metrica (su Ariadne v. Norden a 6, 28). L'etnico sostantivato ricorre già in Virgilio (Aen. 5, 285); come antonomasia per Arianna è una preferenza ovidiana (am. 1, 7, 16; A. A. 1, 327 sgg.). Fra gli altri epiteti per `Cretese', Cretaeus e Cresius sono poetici, Cretensis prosaico, Creticus di uso misto. Per l'uso alessandrino di Kerlooa v. Call. Aitia fr. 43, 48 Pf.; Lycophr. 1308. Da questo passo si può concludere ex silentio che Ovidio non considera Demofoonte figlio di Arianna come fanno, isolatamente, schol. Hom. Od. 11, 321. Per l'uso sintetico di relicta v. p. es. Prop. 2, 24, 30 [Medea] sola relicta; Ov. am. 2, 18, 22 Phylli relicta; [Tib.] 3, 6, 39 sg. Gnosia...

sola relicta. 78 L'idea potrebbe essere stata suggerita da Catull. 64, 346 [Agamennone] periuri Pelopis... tertius heres, che testimonia anche l'inizio dell'uso traslato di heres in poesia; cfr. Ov. A . A . 3, 459 Demophoon, Thesei criminis heres. Per i costrutti con genitivo v. poi, in senso proprio, heres regni, in B. Alex. 66, 5 e imperii in Sen. Phaedr. 1112; in senso metaforico, belli Liv. 41, 23 11; odii Tac. Ann. 16,

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28. Perfide aiuta l'effetto di continuità della stirpe, cfr. Catull. 64, 132-3 «perfide... perfide... Theseu» e Ov. fast. 3, 473 «dicebam, memini, periure' et `perfide Theseu'» (anche Prop. 2, 24, 44 Theseus... Demophoon, hospes uterque malus; Culex 133; v. anche la similarità fra rem. 597 (Fillide) e A . A . 1, 531 (Arianna) e la n. a 2, 25). AGIS

Con l'idea di conformarsi a una parte già scritta, un copione: Ov. A . A. 1, 611 est tibi agendus amans; (più tecnico) A. A. 1, 502; rem. 384 Thaida quisquis agat. 79 Per meliore marito di Dioniso cfr. Sen. Oed. 499 sgg. 80 Si tratta chiaramente del carro trainato da tigri, o pantere, del corteggio bacchico, che testimonia la fortunatissima seconda unione di Arianna (il passo è per una svista riferito a Cibele da Steier RE 6 a 1, col. 952, e da Richter, Kleine Pauly V col. 826, entrambi s.v. Tiger): cfr. p. es. Ov. A . A . 1, 547 sg. iam deus in curru... tigribus adiunctis aurea lora dabat (per le testimonianze v. Hollis ad loc.; Kiessling-Heinze a Hor. carm. 3, 3, 13; BBmer a Ov. fast. 3, 668). L'uso di in e abl. implica appunto che si tratta di un carro con animali aggiogati (ovviamente Arianna non cavalca tigri), cfr. p. es. Ov. her. 1, 46 Ismariis isse... equis. Capistrum `cavezza' è tecnico e rarissimo in poesia (Verg. ge. 3, 399; Ov. met. 10, 125); il verbo capistrare non ha attestazioni prima di questo passo e riaffiora in autori tecnici (Columella, Plinio il Vecchio). 81 Il nesso, divertente per la sua casualità associativa, è che, se Arianna ha trovato di meglio, Fillide neppure può sperare nei suoi ex corteggiatori rifiutati. Il motivo è certamente apparentato a Verg. Aen. 4, 320 sgg. (Didone si è resa odiosa ai conterranei e ai pretendenti africani per il suo amore con Enea); cfr. anche 4, 36 sg. despectus larbas / ductoresque alii. Il tema - e anche l'impostazione del `pettegolezzo' atque aliquis... - ha una sua tradizione omerica: in Od. 6, 275-81 la principessa Nausicaa paventa immediati pettegolezzi sui suoi rapporti con lo straniero e rimproveri per essersi scelta

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un forestiero disprezzando i locali. La diceria è introdotta da un xai vv tig cúS' elnrlol xaxwteeos che ricorda da vicino la formula ovidiana. Il motivo è riutilizzato e variato da Ap. Rh. 3, 791 sgg. CONUBIA

Questo passo è, insieme con her. 11, 101, una delle rare occorrenze di conubium in poesia elegiaca: per il resto il termine ha corso o come espressione legale, o come poetismo elevato per `matrimonio' e anche `nozze'. I problemi intricati di semantica e (soprattutto) di prosodia sono analizzati da J. Wackernagel, «Festschrift Kretschmer», Wien-Leipzig 1926, 289 sgg., che sottolinea come la prosodia in -ū- sia fenomeno artificioso, unicamente poetico (per i problemi posti soprattutto dall'uso virgiliano cfr. Austin a Aen. 4, 126). 82 EXTERNUM L'uso sostantivato dell'aggettivo («forestiero») non ha una specifica tradizione poetica, cfr. p. es. Cic. off. 3, 28 (opposto a cives); Liv. 8, 26, 5 (opposto a populares). 83 IAM NUNC «Direttamente», senza aspettare Demofoonte; per la forza di iam nunc («senza aspettare, già da subito») cfr. Verg. Aen. 6, 798 sg. huius in adventum (con più di un millennio d'anticipo) iam nunc et

Caspia regna I responsis horrent divom, et Maeotia tellus. DOCTAS... ATHENAS

Il nesso è un cliché, cfr. Hor. sat. 2, 7, 13 sg. doctus Athenis / vivere; Prop. 1, 6, 13 doctas... Athenas; 3, 21, 1 doctas... Athenas; Catalepton [16], 3 doctis Athenis; Ov. tr. 1, 2, 77 quas petii studiosus Athenas; qui ravvivato, oltre che dall'anacronismo, dalla forte opposizione contestuale con la primitiva e marziale Tracia (il riferimento naturale del cliché, esplicito o meno, è di regola Roma). 84 ARMIFERAM L'aggettivo non si incontra prima di Ov. am. 2, 6, 35; A. A. 2, 5. Armigeram di G è una banalizzazione: la scelta di -fer si deve chiaramente alla volontà di rammodernare un aggettivo già arcaico (da Acc. trag. 547 R.2 ) e consumato anche dall'uso come sostantivo (armiger «scudiero, guardaspalle»). La fama dei Traci nel mondo

antico combina bellicosità e rudezza; cfr. la divertente etimologia Thraces truces in Isid. orig. 9, 2, 82, e Liv. 45, 30, 7.

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THRACEN

Forma aulica introdotta da Hor. carm. 2, 16, 5 bello furiosa Thrace; per la forma Thraca, meno grecizzante, v. Verg. Aen. 12, 335 (con Servio ad loc.); Hor. ep. 1, 16, 13. Con Ovidio entra in poesia anche la forma `non marcata' Thracia (met. 6, 435). 85 EXITUS ACTA PROBAT.» CAREAT SUCCESSIBUS Certamente la sententia fa parte del commento anonimo, a cui Fillide risponde con puntualità (exitus / eventu; acta I fatta; probat I notanda putat). Il concetto è un luogo comune, come tale impiegato dagli oratori: Cic. Rab. Post. 1, 1 plerumque facimus ut consilia eventis

ponderemus, et cui bene quid processerit multum illud providisse, cui secus, nihil sensisse dicamus (cfr. al v. 88 dicar consuluisse); ma risale almeno a Euripide, cfr. Hipp. 700 sg. ei S'EV y'Fneaa, xecet'iiaavTE >casi, atboµévco (3aoiXfia); è Achille stesso, parlando per primo, a invitare Patroclo a consegnare Briseide (cfr. qui sotto, vv. 23-24). Ovidio estrae dal silenzio degli araldi omerici una motivazione tendenziosa, in chiave con il tema amoroso dell'epistola. La scena, e in particolare il contegno imbarazzato degli araldi, e l'atteggiamento di Briseide, dovevano essere familiari a una parte del pubblico anche per via iconografica. Le testimonianze figurative dell'abductio di Briseide comprendono episodi di rilievo quali l'affresco pompeiano della 'Casa del Poeta Tragico', il mosaico di Antiochia dalla `Casa del Briseis' Farewell', le miniature dell'Iliade ambrosiana. I tratti comuni indiziano una consolidata tradizione anteriore. Per un accurato esame delle testimonianze v. Gabriella Frangini-Maria C. Martinelli, «Prospettiva» 25, Aprile 1981, 4-13, con ampia bibliografia: le autrici sottolineano in più punti i caratteri sentimentali di questa tradizione. Sul versante letterario (Briseide personaggio `da romanzo') va ricordato G. Pasquali, Orazio lirico, cit., 491-93. 9 SIMUL Cfr. v. 7 e n. La ripetizione dei nomi degli araldi fra esametro e pentametro sottolinea appunto la pronta e scrupolosa esecuzione del comando, un po' al modo di certe ripetizioni formulari omeriche che descrivono la fedele consegna di un messaggio. La stretta associazione dei due nomi fa pensare agli aulici duali del modello (v. n. a 9 sgg.).

'wk .

i•a k 424/1'(44

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BRISEIDE

11 IACTANTES LUMINA

La raffinata iunctura sembra implicare non solo sguardi reciproci, ma un movimento espressivo degli occhi, cfr. p. es. Verg. Aen. 7, 526 sg. aeraque fulgent l sole lacessita et lucem sub nubila iactant (un mobile riverbero). Lo sguardo reciproco fa pensare decisamente a un modello iconografico. Oppure si può supporre uno sviluppo della formula Éi,IxwltEg 'Axatoí (generalmente interpretata `dai mobili occhi') introdotta da Omero in Il. 1, 389: in 1, 391 si cita l'intervento degli araldi presso Achille. 12 UBI ESSET Modulo vivace e colloquiale («che fine ha fatto?»), anche in her. 2, 31; 4, 150; 7, 83; 12, 103 e 119; 19, 90, molto comune, sia nel dialogo quotidiano che in movenze oratorie, polemiche. 13 DIFFERRI L'uso personale di differo non sembra poetico prima di Ovidio (cfr. Cic. Fam. 5, 12, 10 sin differs me in tempus aliud; Ov. rem. 93, opposto a propera), e il verbo è molto più normale con un'indicazione temporale del rinvio. 14-16 Anche qui approfondimento e amplificazione psicologica di un accenno omerico. Nell'Iliade è detto solo che Briseide si avvia «controvoglia» (1, 348 àéxovoa), come «controvoglia» erano venuti gli araldi. Subito dopo Omero descrive non il pianto di Briseide ma quello di Achille: ma una Briseide più patetica poteva essere suggerita dalla tradizione iconografica, o dalla poesia alessandrina, cfr. p. es. Prop. 2, 20, 1-2 quid fles abducta gravius Briseide? quid fles I anxia captiva tristius Andromacha? 14 Su ei mihi! v. Hofmann 111, che giustamente ne segnala l'ampia ricezione in poesia elevata (ma erra descrivendola come un'interiezione `maschile', forse fidandosi troppo delle attestazioni con misero); Trànkle 149 (più scelto e poetico di vae!, per cui cfr. il v. 82). Si tratta in sostanza di un'esclamazione arcaica / usuale che deve la sua stilizzazione all'essere stata accolta presto (Ennio, Accio) in poesia elevata.

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15 RUPIQUE CAPILLOS II nesso ha l'aria di un tic stilistico ovidiano, cfr. her. 5, 141; met. 10, 723, dove però l'oggetto è duplice, e compare anche sinum: riferito a vesti l'uso di rumpo suona più normale. Capillus è notoriamente sgradito alla poesia elevata (Axelson 51, ThIL III 314, 24-48): nell'Eneide solo 10, 382 sanguine turpantem comptos de more capiilos, dove è evidente la ricerca di un pathos più tenero e leggermente intimista. 16 Su un possibile influsso di scolii omerici a /l. 1, 348 v. M. Lausberg, «Gymn.» 90, 1983, 119 sgg. 17-20 La situazione è paradossale, e Ovidio analizza sino in fondo le difficoltà e lo spiazzamento della prigioniera. Abbiamo qui una donna troiana, prigioniera nel campo greco, che vorrebbe liberarsi, ma per raggiungere altri greci, ed è terrorizzata di poter incappare, nottetempo, in qualche troiano (l'idea potrebbe venire dalla Dolonia, cfr. Wilkinson 228). Questo spiega l'enfasi su hostis al v. 18, rende inutile la congettura redderet di Ehwald al v. 18, e neutralizza le proposte di espunzione più volte avanzate per questo passo. Sulle implicazioni di hostis bene anche Verducci 106 sg. La situazione che Briseide teme per sé, finire come schiava di qualche principessa troiana, è paradossale non solo perché parla una donna di parte `asiatica', ma perché questo destino, nell'Iliade, è paventato, simmetricamente, dalle donne della città assediata, cfr. Andromaca in Il. 6, 444 sgg.; 24, 371 sgg. Per il tema del `male in peggio' v. p. es. Acc. trag. 192 R.2 hostem ut profugiens inimici invadam in manus? 17 Custos è termine normale per `sentinella', ma dato il contesto il pensiero corre a una figura dell'elegia erotica romana, il custos odiosus (0v. A . A . 2, 635) che divide gli innamorati (cfr. anche her. 4, 142); la convivenza in custos dei due campi semantici e ideologici è sfruttata in am. 1, 9, 27-8. 19 Alla corretta interpunzione e interpretazione ha contribuito H. D. Naylor, The alleged Hyperbaton of Heroides 3, 19, «Class. Rev.» 25,

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1911, 42 sg. Palmer si chiede perché Briseide dovrebbe temere la prossima notte, ma la risposta è ovvia per i lettori di Il. X. E errato anche dubitare del senso di nocte (che è temporale e non causale), cfr. p. es. Ov. A . A . 2, 138 captis nocte revectus equis.

traccia. La divergenza da Omero è facilmente spiegabile e deriva da una ristrutturazione del tempo narrativo che è tipica della poetica ovidiana nelle Heroides (cfr. Jacobson 337 sg.; D. F. Kennedy, The epistolary mode and the first of Ovid's Heroides, «Class. Quart.» 34, 1984, 420). Nel suo toccante lamento sul cadavere di Patroclo, Briseide dice che Patroclo aveva saputo consolarla dopo lo sterminio della sua famiglia, promettendole un futuro di sposa con Achille (19, 295 sgg.). Questo tipo di promessa è attribuita ad Achille stesso da Ovidio (cfr. vv. 53-4). La consolazione di 23-4 `sostituisce' la consolazione omerica e sposta su un piano più ravvicinato alla situazione presente il motivo del legame Patroclo-Briseide; Ovidio, che non può raccontare attraverso il `taglio' epistolare la morte di Patroclo, desidera comunque ricordare al lettore il patetico lamento di Briseide. O meglio, suggerisce chiaramente al lettore che Briseide sta per perdere il suo unico amico (per questi effetti di lettura cfr. il saggio introd., p. 16 sgg.). La sfasatura rispetto al modello omerico intensifica questa suggestione e agisce come segnale. Il ruolo di Patroclo nella scena della consegna di Briseide è valorizzato anche nell'affresco pompeiano dalla `Casa del Poeta Tragico' (70-79 d.C.).

20 QUAMLIBET In effetti la scelta è ampia: cinquanta se si considera il senso proprio di `nuora', cfr. Verg. Aen. 2, 503 quinquaginta illi thalami, o addirittura cento se si pensa che nurus possa comprendere anche le figlie, cfr. Verg. Aen. 2, 501 centumque nurus (con Austin ad loc.). MUNUS

La lucida insistenza del personaggio sulla propria reificazione si sostanzia di una precisa eco omerica. Briseide è giustamente ossessionata dall'idea di poter essere trattata come un «dono»: è stata fatta schiava, ceduta in premio ad Achille, poi richiesta da Agamennone in cambio di un altro dono perduto. Durante la disputa fra Achille e Agamennone Briseide è continuamente definita yéeag (11. 1, 118; 123; 135 sgg.; 185; 356, etc.), e Ovidio si limita a declinare in prima persona il suo modello. Per l'effetto complessivo di munus itura è illuminante il confronto con Ov. am. 2, 15, 3 munus eas gratum — apostrofe a un oggetto, un regalo all'amante (v. 1 anule... digitum vincture puellae). 21 NOCTIBUS La ripetizione con nocte (19) non è piatta perché la connotazione muta; sul valore erotico del misurare il tempo «a notti» cfr. 1, 9-10. L'uso dell'ablativo per misurare il tempo continuato, ormai normale in Ovidio, non sembra risalire oltre Catullo (109, 5) e trova diffusione già in Properzio (v. Fedeli a Prop. 1, 1, 7; E. LSfstedt, Philologischer Kommentar zur Peregrinatio Aetheriae, Uppsala 1911, 52 sgg.).

23 MENOETIADES Patronimico già usuale nell'Iliade (1, 307 sg.), anche come sostituto del nome proprio; attestato in latino a partire da Prop. 2, 1, 38. TRADEBAR

Anche alla luce del modello omerico (1, 347 &úxe S'àyetv), si può considerare la correzione tradebat (Palmer). La corruzione si potrebbe spiegare con l'insistenza di verbi al passivo in tutto il contesto. Tuttavia, la tendenza della rapta Briseis a rappresentarsi come soggetto passivo dell'azione altrui è molto appropriata alla situazione dell'epistola, e lascerebbe perplessi eliminare uno degli esempi che contribuiscono a questa tonalità peculiare e dominante.

22 Lenta è più pungente se si pensa all'impulsività tipica di Achille e forse, persino, al suo tradizionale attributo nó&as úmvs; cfr. am. 2, 1, 29 velox... Achilles.

Il dettaglio è reso più interessante dal fatto che Patroclo in Omero esegue la consegna senza aprire bocca (cfr. Il. 1, 345-47).

23-24 In Omero è in effetti Patroclo che riconsegna Briseide per ordine di Achille (Il. 1, 337 sgg.); ma di queste parole di conforto non c'è

24 QUID FLES? Forse ispirato da R. 1, 362, dove la madre Teti chiede ad Achille, afflitto per l'offesa subita, ti, xXaiets; (notato da Jacobson, 26 n. 35). Comunque anche il modello diretto di questi versi, la consolazione

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di Patroclo a Briseide rievocata in /l. 19, 295-97, ha espressioni simili: oi)I5è o'Sé t' aoxEg... xXaiety (v. sotto, n. a 54). 25 PARUM Sarcastico, sia letterario che colloquiale (significa anche `bis'); evitato da Virgilio, che ha solo un'occorrenza come avverbio quasinegativo (Aen. 6, 862 frons laeta parum). Cfr. her. 9, 47 haec rnihi ferre parum; peregrinos addis amores. 26 i NUNC Come rinforzo sarcastico di un imperativo si può considerare basilarmente una forma colloquiale, v. Citroni a Mart. 1, 42, 6, ma la sua integrazione in contesti poetici (con ricerca di una vivacità 'drammatica') avviene sin da Virgilio, cfr. Aen. 7, 425 con la nota di Fordyce. I nunc esprime regolarmente un invito sarcastico a fare qualcosa che il contesto rivela impossibile o senza senso (cfr. p. es. Hor. ep. 1, 6, 17; 2, 2, 76). CUPIDI... AMANTIS

Per il nesso cfr. Catull. 70, 3 cupido... amanti; Ov. rem. 611 («amanti passionali»); per l'uso di cupidus v. soprattutto Catull. 107, 1; 4; 5, con tre occorrenze di fila riferite al poeta che si vede restituire, contro le aspettative, l'amata. Catullo ha un ruolo decisivo nella rivalutazione di cupidus in termini di ideologia amatoria, cfr. G. G. Biondi, Semantica di cupidus, Bologna 1979. 27-40 L'ambasceria ad Achille. Ora Briseide ricanta ad Achille ciò che già è avvenuto nel nono dell'Iliade: la sovrapposizione di voci consente a Ovidio pungenti effetti intertestuali (v. anche a n. a 31-38); ma il tutto serve anche come indizio cronologico per localizzare il `taglio' intertestuale operato da Ovidio sulla fabula omerica. Dopo l'ambasceria (1. IX) e dopo la notte delle spie (1. X: Briseide fa benissimo a non avventurarsi fuori!), non c'è che un'unica, interminabile giornata di battaglia (libri XI-XVIII, cfr. 18, 241); in questa giornata decisiva Patroclo cadrà, e Achille sarà indotto ad abbandonare l'ira (riavendo così indietro Briseide). Per il lettore omerizzante la lettera di Briseide - posta tra l'ambasceria fallita e la fine dell'ira di Achille non può che collocarsi in un sottile vuoto prima dello scioglimento narrativo; così, lo si è visto, la lettera di Penelope vuole essere posta `subito prima' del ritorno di Odisseo.

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27-29 TELAMONE ET AMYNTORE NATI... LAERTAQUE SATUS Aiace, Fenice e Odisseo, i legati omerici, sono citati più esplicitamente al v. 129 sg. Le perifrasi genealogiche hanno un evidente valore di solennità epica, segnalando al lettore che qui si ripercorrerà un episodio omerico (inoltre, forse, rimarcano la serietà dell'ambasceria e delle proposte fatte). In particolare satus -f- abl. è un poetismo elevato e arcaizzante (cfr. Norden a Aen. 6, 125), mai altrove nelle Heroides; cfr. met. 13, 123 Telamone satus; 12, 624-25; 13, 346. (Secondo Jacobson 27, Briseide si esprime in questo modo perché ha una vera ossessione per i legami di parentela, di cui è tragicamente priva: una costruzione psicologistica inaccettabile). V. anche Hor. carni. 2, 4, 5 Aiacen Telamone natum (nel contesto è citata anche Briseide). 27-8 Aiace era cugino di Achille; Fenice era stato posto al fianco di Achille quasi come pedagogo o mentore (uno dei sensi possibili di comes nell'epica). Cfr. Cic. de or. 3, 15, 57. Gradus, detto di relazioni di parentela, non sembra attestato prima di questo passo (cfr. met. 13, 43); più tardi è usuale in prosa e come tecnicismo giuridico. 27 AMYNTORE Il personaggio è attestato come padre di Fenice in H. 9, 448; una forma patronimica Amyntorides si affaccia in Ov. A. A. 1, 337. 30 Tutto il verso è chiaramente ispirato da Hom. Il. 9, 113 8wgotoiv t'&yavokoty énEOOL TE kELXLXiotat.

Blandae... preces, lezione di pochi mss. tardi, dà un senso quanto meno accettabile («le loro carezzevoli preghiere si sommavano al pregio di enormi doni»), e soprattutto consente un buon aggancio con i vv. 31-32. Un'alternativa è accettare blanda... prece di F con Bentley e Palmer (preceduti dal Naugerius. Il singolare è bene attestato in Ovidio, cfr. p. es. her. 7, 5). Il vulgato blandas... preces (che è in tutti i testimoni principali tranne F) è leggermente migliore per il senso, ma lascia poi sospesi gli accusativi dei vv. 31-32, fra l'altro allineati con eleganza su quelli del modello omerico (v. n. a 31-38); e correggendo ad esempio fulvos in fulvi (Madvig) si ottiene un brutto iato. Vahlen («Hermes» 17, 1882, 268-70) propose con finezza di intendere comitata «in buona compagnia = con ricchi doni» e di

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interpretare il v. 30 come parentetico. Credo su questa scia, DSrrie stampa blandas... preces e pone tra parentesi il v. 30; ma non capisco in tal caso come si giustifichi la sintassi dei vv. 31-32. Meno peggio sarebbe supporre la caduta di un distico fra redirem e auxerunt, come fa L. Havet, Manuel de critique verbale, Paris 1911, 322 sg.

geminos ex aere lebetas, che è anche (insieme a Aen. 3, 466) la prima attestazione del grecismo. Virgilio sta traducendo Hom. 11. 23, 613 Xél3 ì*'éXr [come premio della gara] 3taµcpavówvta. Fulvus, agg. tipico della poesia elevata, contribuisce alla tonalità epicheggiante che Ovidio persegue.

31-38 L'elenco dei doni ripete con raffinata precisione quello enunciato da Agamennone in 9, 122-57 e fedelmente ripetuto da Odisseo in 9, 264-98: ént'ltnveov5 teínoSaS, Séxa Sè Xevaoio tetXavta, ai$wva5 öš ? é(3rita5 éríxoat, SwSExa Sinnov5 ntìyoìi5 & .ogóeov5, ot àéffi,,ta noeoìv àeovto Swaw S'éntà yvvaixa5 àµvµova éeYa iSvíaS, AEo(3íSa5 ... ... dì. xót),,1lio5 1, 63 vvµcpa 1, 27 Eivanàzr1S 2, 74 nóSaS cwxvS 3, 22 ntcox65 1, 95 nvegóeos 2, 42 Ei$ov(S 2, 6 Tewixós 1, 24 vSatóets 3, 53 vnvanàtr15 1, 9 vyrrl),,òs Sóµos 1, 34 cpéetato5 3, 111

PAROLE E COSE NOTEVOLI

Ablativo `risultativo' 2, 3 di tempo continuato 3, 21 `acciaio' 2, 137 Accio, imitato da Ovidio (?): v. l'indice (2) accompagnatrici di eroine 2, 130 acconciature maschili 3, 120 Achille 3, 1-154 passim carattere magnanimo e megalomane 3, 71-4; 85 pie' veloce 3, 22 suonatore di cetra 3, 113-20 Aftonio 1, 2 aggettivi, in-lentus 3, 41-50 -osus 1, 55-6 semi- 1, 55-6 Aiace, e Tecmessa 30-2; 3, 10310 aitia, sottaciuti nelle Heroides 109; 2, 121-30; 121; 131-2 allitterazioni 1, 85; 2, 25; 61-2; 119; 127; 136; 141-2; 3, 114 Altea, madre di Meleagro 3, 91-8 ambiguità, v. giochi di parole Amore, e amore 2, 104; 3, 42 amore elegiaco, costruzione culturale 19 sgg. amori con le schiave 26; 3, 46 antonomasia 3, 109 Antiloco 1, 15-6

Apollonio Rodio, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) apposizioni, costrutti poetici 1, 52; 88; 90; 3, 20; 62; 94; 149 aratura, di città vinte 1, 52 Arianna, designazioni poetiche 2, 76 influssi su altre eroine 109 sgg.; 2, 121-30; 3, 68 arma virumque 33 n. 20 ars e amore 2, 27; 51-2 arte allusiva, v. intertestualità Atene, statue onorifiche 2, 67 `Ateniese' in poesia romana 2, 6; 67 augusteismo, dell'Eneide 33 n. 20 autoepitaffi 2, 147-8 autonomia delle epistole 15 sgg. Bacco, carro di 2, 80 `barbari' nell'epica 1, 26; 3, 2 Briseide 26-32; 185-9; 3, 1-154 origini 3, 2 sua fortuna dopo Omero 186-8 status sociale 3, 4.6 cacofonia 1, 8-9; 24; 28; 73; 2, 46; 3, 138 calchi e derivati del greco 1, 27; 2, 3; 6; 23; 42; 67; 71; 74; 76;

84; 90; 108; 116; 132; 3, 1; 31; 36; 57 Calipso, opposta a Penelope 25-6 Callimaco, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) cancellature 3, 3-4 Catullo, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) `causa di morte' 2, 147-8 Centauri, designazioni poetiche 2, 71 cesura al 3° trocheo 1, 95 colloquialismi, parlato letterario 1, 12; 65; 75; 2, 32; 39; 45; 53; 54; 98; 105; 3, 26; 82; 131 comodità metrica 1, 115; 2, 49; 57; 76; 84; 105; 108; 112; 1412; 144; 3, 119 composti poetici 1, 55-6; 2, 18; 70; 71 congetture, discusse 1, 15-6; 29; 40; 91; 113; 2, 3; 10; 100; 121; 3, 1; 17-20; 23; 40; 116 accolte nel testo 1, 2; 103; 113; 2, 10; 122; 3, 44 Contini, G. 3, 132 convenzioni letterarie, messe a nudo (v. anche TOPO!) 29 sgg.; 2, 137; 141-2; 144; 14.6; 3, 2 `Cretese' in poesia romana 2, 76 cronologia e datazione delle Heroides 53-4; 2, 117-20 cronologia, interesse di Ovidio per la 15 sgg. cronologia testuale e mitica 15 sgg.; 1, 116; 3, 17-20; 57-8 Cupido, sue armi 2, 49 dèi, invocati nei giuramenti 2, 4842; 3, 53

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e punto di vista narrativo 1, 3740; 3, 147-8 sulla prora di una nave 2, 126 Demetra, iconografia 2, 42 giuramenti per 2, 42 Demofoonte 2, 1-148 passim traditore in quanto figlio di Teseo 2, 78 tradizione sul suo ritorno 2, 45 sgg. Didone, personaggio delle Heroides 33-41 influssi su altre eroine 108-9; 2, 45 sgg.; 55-7; 147-8 Dite, designazioni poetiche 2, 72 Dolone 1, 39-46 domande polemiche 2, 99; 3, 115 domina 27 durezza di cuore, v. TOPOI Ebro 2, 114 elegia, `all'antica' 22-3 inclusa nell'epica/inclusiva dell'epica 26; 33 n. 20; 54-5; 187-9 modello formativo per le Eroidi 1941 passim; v. anche Callimaco Properzio e Tibullo. parole-chiave: blandus 2, 49 custos 3, 17 ferreus 1, 58 lentus 1, 1 pallidus 1, 14 puella 1, 3 queror, querela 28 e n. 15; 1, 8; 2, 8 uro 35 vester 1, 75 epistolare, stile 1, 1; 111; 3, 2

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EPISTULAE HEROIDUM

epitafi 2, 147-8 epiteti omerici 1, 34; 63; 87; 95; 104; 3, 11; 22; 64; 119 epos, idee degli antichi sulle sue origini 1, 28 incornicia l'elegia e ne è incorniciato 26; 33 n. 20; 187-8 stilemi epici, v. epiteti omerici, Omero, patronimici, TOPOI epici, Virgilio Eroidi, ragioni per leggerle 11-13 Eroina Abbandonata 107-11 erotismo 1, 7; 88; 2, 58; 93; 3, 103-10; 107; 114 etimologie ed effetti etimologici 1, 40; 88; 2, 1; 3, 3 Ettore, morte di 1, 36 e Andromaca 29-30 Eumenidi, v. Furie Eumeo 1, 104 Euripide, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) eziologia, v. aitia exempla narrativi 24-6; 32 n. 19; 187; 3, 91-8 explicit, segnali di chiusura 51 n.1 fama 1, 84; 2, 146 Fasti, descrizioni di luogo 2, 1312 femminilità, e poeti elegiaci 30 Fenice, narratore omerico 3, 918; 92-5 fiaccola, di Cupido 2, 39 matrimoniale/funebre 2, 120 `fidanzato' in latino 2, 1 figure di suono (v. anche allitterazioni) 1, 8; 24; 28; 73; 2, 46; 3, 49-50; 115

figure retoriche epifora 111 n. 3; 2, 53 ipallage 1, 10; 2, 33; 3, 59 iperbole 2, 44 metafora 1, 72; 90; 104; 2, 30; 139; 3, 68; 94 Fillide 107-11; 2, 1-148 passim sua genealogia 2, 1; 6; 111 sgg. destino 2, 116; 141-2 fortuna a Roma 107-11 personalità 107-11 formule, di augurio 1, 111; 125 epigrafiche 2, 71; 74; 147-8 omeriche 1, 87 sepolcrali 1, 10 Foro di Augusto 2, 67 Fortuna 3, 43 Furie 2, 119 gelosia, costitutiva dell'elegia 25; 1, 75 genealogie alessandrine 3, 73-4 generi letterari v. elegia, epos, Kreuzung, novità, TOPOI, tragedia giochi di parole 1, 40; 79; 89; 2, 25; 35 sgg.; 36; 69; 70; 143; 3, 39; 53; 133; 150 Giunone Pronuba 2, 41; 117; 119 giuramenti 2, 23; 35-42; 3, 10310 glosse, intruse nel testo 1, 29; 40; 2, 72; 3, 57 gratulationes, stile delle 1, 24 grecismi, v. calchi e derivati dal greco `Greco' in poesia romana 1, 3; 21; 25; 3, 2; 84

PAROLE E COSE NOTEVOLI

hapax legomena 1, 55-6; 2, 41; 87; 135; 144; 3, 127 Heinsius, N. 9 Icario, padre di Penelope 1, 81 iconografia 26 n. 11; 2, 119; 3, 2; 9 sgg.; 14-6 incipit, segnali di apertura 39 n. 25; 51 sg.; 1, 1; 2, 1 ingenuità, rappresentazione dell' 111 interiezioni 2, 45; 3, 61; 82; 98; 125; 149 interpolazioni discusse 39 n. 25; 1, 27-8; 37-40; 107-8; 2, 18-9; 3, 5-8; 145-8 intertestualità 14-41 passim; v. anche Accio, Apollonio Rodio, Callimaco, Catullo, Ennio, Euripide, Levio, Lucrezio, Omero, Orazio, Pacuvio, Properzio, Sofocle, Tibullo, Virgilio intestazioni epistolari 1, 1 invecchiamento, v. TOPOI epici ironia drammatica 36 sgg.; 1, 115-6; 3, 43-4 iscrizioni celebrative 2, 67-8; 71; 73-4 Kreuzung der Gattungen, concetto da rivedere 20 Laerte 1, 105 Lamento della Fanciulla Abbandonata 107-9 Levio, imitato da Ovidio (?) 54; 1, 75 `lex Heyne' 3, 147-8 linguaggio poetico v. apposizioni, calchi e derivati dal greco, comodità metrica, hapax legome-

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na, neologismi, stile elevato, Unpoetische Wórter lira 3, 113-20; 116; 118 Lucrezio, imitato da Ovidio, v. l'indice (2) matrimonio, tema contrastivo nelle Heroides 53 `matrimonio funesto' 2, 117-20 Medonte, araldo della casa di Ulisse 1, 91 Melanzio 1, 95 Meleagro, figlio di Altea 3, 91-8 Metamorfosi, descrizioni di luogo 2, 131-2 Minotauro, designazioni poetiche 2, 70 mirto 2, 121 monologo drammatico 19 sgg. monosillabi, abbondanza 3, 37 narratività, e genere epistolare 15 sgg.; 54 sg.; 107 sgg.; 185 sgg. navigazione 1, 59 negazioni enfatiche 2, 105 neologismi, prime attestazioni e iniziative lessicali 1, 9; 41; 50; 55-6; 96; 2, 28; 42; 120; 121; 129; 131; 3, 43; 58; 65; 104; 118 Nereo 3, 74 Nestore, narratore copioso 1, 39 Nettuno ed Eolo 2, 38 nomi greci, declinazione in latino 1, 48; 3, 39; 87 nomi greci, fraintesi 1, 15-6 Noto 2, 12 notte, come misura di tempo 1, 910; 3, 21 novità, topos poetico 19 n. 6

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EPISTULAE HEROIDUM

Omero, imitato da Ovidio 1541 passim: v. i passi omerici con i riscontri dell'indice (2) discrepanze rispetto a Ovidio 53; 1, 15-6; 37-40; 63-65; 81 sgg.; 90; 99-100; 3, 7; 23-4; 147-8 personaggi omerici v. Achille, Antiloco, Briseide, Calipso, Doione, Ettore, Eumeo, Fenice, Icario, Laerte, Medonte, Meleagro, Nestore, Paride, Patroclo, Peleo, Penelope, Proci, Reso, Telemaco, Ulisse Orazio, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) ordine delle epistole 15 n. 1; 51-2 Ovidio, imitatore di se stesso 1, 31-2; 39-56; 46; 107; 3, 11320 livelli di stile nella sua opera 1, 3; 21; 2, 131-2; 3, 2; 109; 111 Pacuvio, imitato da Ovidio (?): v. l'indice (2) pallore di innamorati 1, 14 Panegirico di Messalla 1, 58 paraklausithyron 2, 124-5 parentela, terminologia 3, 27-8; 74; 93-4 Paride, adultero 1, 5-6 polarizzato con Achille 3, 120 parlato letterario, v. colloquialismi Pathosformel 30; 32 Patroclo, e Briseide 17; 3, 23-4; 44; 47-50; 54 patronimici 3, 27-9; 87 Peleo 3, 135-6 Pelio, lancia del 3, 126

Penelope 1, 1-116 passim esemplarità 23 sgg.; 53; 1, 856 fama 1, 84; 85-6 ottimismo secondo Ovidio 1, 2 tela 23-5; 1, 9-10 perifrasi 1, 14; 2, 71-2; 112; 3, 27-9; 36; 57; 94 periodi lunghi 2, 115 persuasione amatoria 19; 37-38; 3, 91-8 plurali poetici 34 n. 20; 1, 24; 73; 2, 92; 107; 3, 67; 108; 116 `poetica delle rovine' 1, 55-6 polarizzazioni, nel testo poetico 2, 6; 12; 3, 58; 64 polisemia, v. giochi di parole Proci 1, 80 sgg.; 87-8 Procruste 2, 69 Properzio, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) punto di vista narrativo 35; 1, 3740; 43; 188; 3, 31-8; 147-8 recusatio, linguaggio programmatico 1, 47 Reso e i suoi cavalli 1, 40-6 ripetizioni motivate 1, 33-6; 111 n. 3; 2, 35 sgg.; 2, 95; 115; 3, 5-6; 145-8 ripetizioni e autenticità 1, 40; 105; 2, 122; 141-2; 3, 5-6; 9; 145-8 romanizzazione 1, 46; 3, 135-6 rusticità 25-6; 1, 76-8; 78 schiavitù, rapporto servo-padrone 26; 31; 3, 5; 79; 101-2; 154 semi-, agg. in 1, 55-6

PAROLE E COSE NOTEVOLI

serpenti, nell'iconografia delle Furie 2, 119 simmetrie numeriche (?) 245-8 Sofocle, imitato da Ovidio: v. l'indice (2) spondei 2, 75; 97 Stazio, imita Ovidio 3, 51; 80 stile elevato 1, 24; 62; 79; 91; 103; 104; 2, 18; 45; 69; 71; 81; 116; 121; 131; 147; 3, 27-9; 75; 86; 88; 108; 111; 126 suicidio 3941; 2, 135-33 svenimenti 2, 129-30 Tarpea 3, 127 sgg. Telemaco, sua età 1, 98 tempo narrativo 15 sgg.; 1, 37-40; 65; 115-6; 111; 189; 3, 27-40; 44 Teseo, modello di infedeltà 2, 13; 78; 121-30 modello eroico 2, 67-72 Tibullo, imitato da Ovidio 28; v. anche l'indice (2) tigri 2, 80 Tisifone 2, 119 TOPOI, generici e proverbiali: canto del cigno 39 `il danno e la beffa' 1, 96 `dulce et decorum' 3, 106 `giudicare dal risultato' 2, 85-6 `morire a tempo' 1, 101 porto di salvezza 1, 110 `rovinarsi con le proprie mani' 2,48 `superare se stessi' 2, 137 `terra resa fertile dal sangue' 1, 54 `vincere se stesso' 3, 85

263

elegiaci ed erotici: Amore alato 3, 42 `amore vince ogni ostacolo' 3, 96; 134 `ciò che resta di me' 3, 142 ferita d'amore 35 lacrime 2, 51-2 letto solitario 1, 7 lunghe notti 1, 9-10 militia amoris 28; 3, 113 sgg. `muoio d'amore' / `per amore' 32 sgg. `non valeva tanto' 1, 4 occhi e amore 2, 91; 3, 132 ospite fedifrago 2, 1; 31; 78; 147 `palleat omnis amans' 3, 141; 146 parole al vento 2, 25 partenza e commiato 2, 93-4 scrivere sull'acqua 2, 35; 3, 53 `sei tu la mia famiglia' 29 sgg.; 3, 52 servitium amoris 27 sgg. `sono eloquente perché amo' 2, 22; 3, 127 sgg. epici ed eroici: fulmine 3, 63-6 guerrieri abbattuti 3, 49-50 invecchiamento 1, 115 musica rilassante 3, 113-20 prigionia e deportazione 3, 1720; 69 sgg. ritorno del guerriero 1, 24-56; 57 sangue e respiro 1, 19; 3, 4950 `sei nato da...' 2, 37; 3, 133 `sei tu la mia famiglia' 29 sgg.; 3, 52

264

EPISTULAE HEROIDUM

`soffrì per terra e per mare' 1, 73 voragine 3, 63-6 topothesia, descrizione letteraria 2, 131-2 torques 2, 119 Tracia, paesaggio ostile 107 tradizione manoscritta 9-10; 47-8; 2, 18-9; v. poi congetture, glosse, interpolazioni, varianti tragedia, influssi o paralleli in Ovidio 29-31; 186-7; v. anche monologhi drammatici, e l'indice (2) s.v. Accio, Ennio, Euripide, Pacuvio, Sofocle influssi su Virgilio 33 Troia, mura di 1, 67; 3, 151 distruzione 1, 47 sgg. Troiano' in poesia romana 1, 8; 28; 3, 2 Ulisse, avventure amorose 1, 7180 eloquenza 3, 129 exokeanismos 1, 58 narratore 1, 39-46 travestimenti 1, 17-8

ultime parole 39-40 Unpoetische Wórter, parole evitate in poesia, o in certi generi, o risparmiate per effetti speciali 1, 21; 43; 74; 83; 90; 104; 112; 2, 12; 45; 60; 82; 131; 140; 144; 3, 2; 13; 15; 49; 55; 84; 98; 100; 115; 144 ut, valori diversi 1, 113; 116; 2, 105 utilità in amore 1, 67; 3, 54 varianti discusse 1, 2; 24; 28; 33; 36; 75; 105; 110; 2, 10; 11; 45; 50; 53; 72; 84; 89; 100; 121; 141-2; 3, 30; 44; 55; 58; 92-5; 132 Venere, giurare per 2, 39 verbo, desinenze -érunt 2, 142 plurali metricamente comodi 2, 49 uso del piuccheperfetto 1, 115; 2, 36 vino, scrivere con il 1, 31-2 Virgilio, imitato da Ovidio 33-41; v. l'indice (2)

(2) PASSI CITATI (L'indice è selettivo e raccoglie sopratutto testi discussi come modelli e indicatori di una tradizione letteraria) Acc. trag. 10-11 R.2 15 R.2 192 R.2 Adesp. SH 952 Adesp. SH 962-3 Aesch. Ag. 748 Myrm. fr. 139 Mette Alc. 283, 5 V. Anth. Lat. 57 R. [Apollod. ] epit. 7, 27 Ap. Rh. 2, 704 3, 950 3, 951 sgg. 4, 35 sgg. 4, 96 4, 99 sg. 4, 355 sgg. 4, 358-9 4, 1300-3 Ca p. 7 Asclepiad. A. P. 12, 166 Bacch. 16, 33-80 Call. hymn. 1, 37 hymn. 3, 114 sg. fr. 67, 1-3 Pf. fr. 75, 45 Pf. fr. 82 Pf. fr. 230 Pf. fr. 238, 15 Pf.

3, 57; 58 3, 85 3, 17-20 1, 5-6 109 2, 117-20 2, 48 2, 74 1, 36 1, 91 2,90 2, 139 2, 81 3, 75 sgg. 2, 41 2, 31 110 2, 33 39 3, 74 3, 142 2, 37 3, 53 2, 113-4 2, 22 2, 116 3, 127 sgg. 2, 6 2, 123

266 Call. fr. 400 Pf. fr. 556 Pf.

fr. 714 Pf. Catull. 61, 19-20 61, 230 64, 28 64, 126 sgg. 64, 132-3 64, 135 64, 141 64, 153 64, 158-9 64, 161 64, 193 64, 199 64, 249 64, 346 67, 9 sgg. 68, 29 Cic. Att. 7, 3, 5 inv. 1, 103 poet. 24, 2 Mor. Tusc. 2 20, 22 Tusc. 4, 1, 3 Claud. carm. min. ' 30, 19-32 Ciris 445 sg. Cons. Liv. 161, 319-20 Cornific. 2 Mor. Enn. scen. 6 V.2 scen. 30 scen. 73 scen. 94-100 ann. 258 V.2 ann. 356 Euphor. 57,5 van Groningen Eur. Andr. 56-65 Andr. 803

Eur. Hec. 354-66 Hipp. 700 sg. Hipp. 976-80

267

PASSI CITATI

EPISTULAE HEROIDUM

2, 6 109-10; 2, 1; 2, 73-4; 2, 121-30; 2, 146-8 2, 130 2, 11 23 3, 114 2, 121-30 2, 78 2, 13 2, 33 2, 136 2, 13 3, 69 2, 119 1, 79 2, 121-30 2, 78 3, 8 1, 7 1, 103 2, 63-4 1, 14 2, 71 1, 28 1, 85 sg. 3, 75 sgg. 1, 102 1, 36 2, 71 3, 86 2, 120 1, 36 3, 45-9 1, 103 3, 2 1, 29 3, 101-2

3, 44 3, 75 sgg. 1, 85 2, 69-71

Med. 21-2 Med. 206 Med. 496 Med. 1392 Or. 1395 Tro. 1189-91 Tro. 489-97 Cret. fr. 80-1 Austin

2, 31 2, 1 2, 31 2, 74 3, 2 2, 147-8 3, 75 sgg. 2, 70

[Eur.] Rhes. 158

1, 40

Hom. 11. 1, 254 1, 268 1, 320 sgg. 1, 327-33 1, 336 1, 345-7 1, 347 1, 348 1, 362 1, 389 2, 473 2, 690-1 2, 744 3, 54 sgg. 4, 182 5, 628 6, 410 sgg. 6, 429-30 6, 456 sgg. 9, 113 9, 122-57 9, 132-4 9, 186-9 9, 255 sg. 9, 264-98 9, 275 9, 342 sg. 9, 343 9, 361 9, 366 9, 395-99 9, 401 sgg. 9, 496 9, 529-99

3, 86 2, 71 3, 9 sgg. 3, 7 3, 89 3, 23 3, 23 185; 3, 14-6; 3, 16 3, 24 3, 11 2, 71 3, 45 2, 71 3, 120 3, 63-6 1, 19 3, 62 29-32; 3, 52 3, 75 sgg.; 3, 75-80 3, 30 3, 31-8 3, 103-10 3, 113-20 3, 85 3, 31-8 3, 109 26 3, 1 3, 65; 3, 153 3, 111-2 3, 71-4 3, 135-6 3, 85 3, 91-8 3, 133

9, 629

268

EPISTULAE HEROIDUM

9, 664-5 9, 682 sgg. 10, 344 sgg. 10, 347 10, 488 sgg. 11,682 15, 583-96 15, 742 16, 21 16, 33 sgg. 16, 776 19, 216 19, 258 sgg. 19, 287 sgg. 19, 290 19, 291-4 19, 295 sgg. 19, 300 22, 371 22, 440 23, 613 Hom. Od. 1, 246 1, 366 2, 237-8 3, 4 3,114 4, 318 4, 555 sgg. 4, 814-6 5, 128 5, 217 6, 275-8 11, 58-9 13, 336 sgg. 14, 3 13, 430 sgg. 14, 372 sgg. 15, 16-7 16, 127-8 16, 389 16, 431 17, 142 sgg. 17, 152-61 17, 213-4

PASSI CITATI

3, 111-2 3, 57 1, 40 1, 46 1, 39-46 1,63 1, 15-6 3, 119 3, 111 3, 133 3, 49-50 3, 111 3, 103-10 17; 185; 3, 45-9 3, 44 3, 47-50 3, 23-4; 3, 24; 47-50; 54 3, 62 1, 36 1, 34 3, 31 1, 87 1, 88 1, 90 1, 63 1, 39 1, 90 1, 65 1, 21 3, 64 25 2, 81 2, 147-8 1, 7-8 1, 104 1, 115 16 n. 3 1, 81 sgg. 1, 90 1, 90 1, 90 1, 65 16 n. 3 1, 95

18, 1 18, 27 28, 280 18, 281 sgg. 19, 137 19, 158-9 22, 242 22, 243-5 23, 200-343 24, 39 24, 195 sgg. 24, 380 Hor. epod. 5, 15-6 13, 17-8 carm. 1, 15, 14-20 2, 4, 3 2, 4, 5 2, 4, 15-6 2,12,22 2, 16, 5 3, 2, 13 3, 3, 20-1 3, 11, 51-2 3, 14, 9-10 4, 9, 14 A. P. 121-2 sat. 1, 10, 36 2, 5, 79 sgg. 2,5,80 2, 7, 114 Hyg. fab. 113, 1 Il. Lat. 489 Laev. fr. 18 Mor. Lucil. 539-40 Kr. Lucr. 2, 353 3, 249 sgg. 4, 829 Mart. 1, 73, 3-4 Ov. am. 1, 1, 11 1, 1, 26 1, 3, 11-2 2, 8, 11 2, 11, 31-2

269 1, 95 1, 115 1, 90 1, 90 1, 9 1, 81 sgg. 1, 91 1, 91-2 1, 30 3, 49-50 1, 84 1, 105 2, 119 3, 113-20 3, 120 26 3, 27-9 3, 46 1,54 1, 84 3, 106 1, 24 2, 147-8 1, 27 3, 120 3, 86 1, 21 1, 80 sgg. 1,88 1, 9 1, 15-6 1, 95 26 n. 10; 54; 1, 76 1, 2 2, 18 3, 82 3, 125 1, 88 3, 119 35 n. 20 bis 1, 103 26 3, 113-20

270 2, 18, 27 sgg. 2, 20, 41 3, 9, 30 A. A. 2, 24 2, 123 sgg. 2, 135 sgg. 2, 136 2, 353-4 3, 36-7 3, 38 3, 41 sgg. 3, 79 sg. 3, 346 3, 459-60

15 n. 1 38 1, 9-10 2, 70 1, 31-2 1, 39-46 1, 40 107 107-9; 2, 121-30 2, 2 2, 27 111 19 n. 6 107

rem. 55-6 56 223 469 591-608 592 597 601 602 sgg. 776-84

107-9 2, 121-30 2, 7 3, 1 107-9 2, 130 2, 78 2, 121 2, 116 3, 103-110

her.

51 2, 69 1,2 1,8 51 1, 83 2, 70 1, 21 3, 113-20 1,21 1, 39-46 1, 46

1,1 10, 89-90 12,210 15,7 21, 250 met. 7, 729 8, 152 12, 81 12, 157 sgg. 12,484 13, 238-58 13, 251-2 fast. 3, 473 trist. 2, 533-36 3, 1, 15 3, 11, 25 4, 1, 15-6 Pont. 3, 9, 53-4 Ov. ap. Sen. rhet. 2, 2, 2

271

PASSI CITATI

EPISTULAE HEROIDUM

2, 78 34 n. 20 3, 3 1, 48 3, 113-20 52 n. 2 3, 106

Pacuv. trag. 168 R.2 Pan. Mess. 78-9 Paus. 3, 20, 10 sg. Plaut. Merc. 581 Stich. 1 sgg.

3, 122 1, 58 1, 85-6 2, 27 1, 50

Plin. nat. 34, 17

2, 67

Prop. 1, 3, 37 1, 3, 39-44 1, 3, 41 1, 3, 86 1, 4, 1-2 1, 8, 17 1, 8, 23-4 1, 9, 9 1, 10, 24 1, 11, 18 1, 11, 23 1, 12, 11 1, 14, 17 1, 16, 23-4 1, 16, 29-30 1, 19, 11 2, 1, 38 2, 1, 78 2, 6, 3 2,6,14 2,6,36 2, 8, 29-38 2, 9, 8 2, 9, 9-16 2, 9, 11 2, 13, 35-6 2,20,1 2, 24, 44 2, 28, 15-6 2, 28, 38 2, 29, 31 2, 34, 63 3, 3, 33 3, 7, 6 3, 12 3, 12, 3 3, 15, 13 sgg.

25 24 n. 9 1, 9 3, 76 1, 81 28 n. 24 1, 59-60 1, 47 3, 98 1, 12 29-30 1,48 3, 134 2, 124-5 2, 131 1, 83 3, 23 2, 147-8 1,88 1, 74 1, 55-6 187 1, 2; 1, 116 187 26 2, 147-8 187; 3, 14-6 2, 78 2, 118 1, 75 3, 44 34 n. 20 3, 134 1, 6 53 sg. 1, 4 3, 79

272 3, 16, 19 3, 19, 1 3, 20, 6 3, 25, 16 4, 1, 1-2 4, 1, 111 4, 3 4, 3. 1 4, 3, 3-4 4, 3, 11 4, 3, 13 sgg. 4, 3, 42 4, 3, 46 4, 3, 63 4, 4, 25 4, 4, 59 sgg. 4, 5, 8 4, 7, 6 4, 7, 85-6 4, 8, 38 4, 10, 30

Sen. rhet. contr. 2, 2, 12 Sil. 2, 73-5 8, 50 sgg. Soph. Ai. 485-595 491-2 Trach. 1095 Stat. si/v. 4, 4, 35-6 5, 3, 39 Ach. 1, 72 1, 944-5 1, 947-8 Theocr. 2, 6-7 23, 46-48 28, 13 Tib. 1, 1, 46 1, 2, 65-6 1, 3, 16 1, 3, 55-6 1, 5, 8-9

1, 5, 14 1, 8, 26 1, 9, 31

273

PASSI CITATI

EPISTULAE HEROIDUM

3, 146 25; 1, 75 1, 76 1, 116 1, 48 3, 38 534 1, 1 3, 3-4; 3, 3 2, 4 2, 117-20 2, 11 3, 68 1, 4 1, 27 32 n. 19; 3, 127 sgg. 1, 88 1, 7 2, 147-8 3, 2 1, 55-6 2, 70 2, 114 18 30-32 3, 103-10 2, 71 3, 113-20 1,54 1, 6 3, 51 3, 80 3, 42 2, 147-8 245-6 28; 3, 113-20; 3, 114 1, 58 1, 82 2, 147-8 3, 107

2, 18 2, 58 3, 53

1, 10, 12 1, 10, 20-1 1, 10, 26 1, 10, 31 1, 10, 31-2 2, 6, 10 2, 6, 40 2, 6, 46 [Tib.] 3, 2, 29-30 3, 6, 2 Men. 369 Astb. Varr. Verg. ed. 1, 42 10, 66 ge. 1, 491 sgg. 2, 330-1 Aen. 1, 1 1, 30 1, 66 1, 78 1, 138-9 1, 159 sgg. 1, 317 1, 469-71 1, 571 2, 5-6 2, 29-30 2, 44 2, 56 2, 238 2, 409-10 2, 501 2, 504 2, 541-2 2, 608 sgg. 3, 3 3, 11 3, 270-1 3, 482 4, 1 4, 16 4, 24-7

4, 36-7 4, 79 4, 93-5

1, 45 3, 88 1, 104 1, 28 1, 31-2 1, 109 3, 49-50 38 2, 147-8 1, 41 3, 113-20 246 2, 6 1, 54; 1, 55-6 2, 123 34 n. 20 3, 133 2, 38 2, 38 3, 142 2, 131-2 2, 114 1, 40 23, 55 3, 45-9 1, 33-6 2, 17-8 1, 67 1, 3 3, 45-9 3, 20 3, 2 2, 31 1, 47 1, 48 1, 48; 1, 53 1, 87 2, 97 35 2, 57 3, 63-6

2, 81 1, 30 2, 63-4; 3, 144

274

EPISTULAE HEROIDUM

4, 166 4, 166 sgg. 4, 168 4, 320 sgg. 4, 323 sgg. 4, 373-4 4, 412-5 4, 462 sgg. 4, 495-6 4, 496 4, 500 4, 504-5 4, 582 4, 597 4, 667-9 5, 4 5, 208 5, 266 6, 3 sgg. 6, 25-6 6, 307 6. 419 6, 458 6, 532 7, 319 7, 329 7, 351-2 8, 194 8, 267 8, 293 8, 374 8, 406 9, 203 9, 419 9, 612 10,60 10, 18 10, 382 10, 413 10, 865 11, 266 11, 772 11, 880

2, 41; 2, 117 2, 117-20 2, 119 2, 81 2, 1 2, 109-10 37 2, 118 34 n. 20 2, 57 41 35 2, 92 2, 31 40 35 n. 20 bis 3, 119 3, 31 1, 59 2, 70 1, 3 2, 119 2, 147-8 2, 107 2, 117-20; 2, 117 2, 119-20 2, 119-20 2, 70 2, 70 2, 71 1, 25 2, 93 1, 112 1, 19 3, 120 1,48 3, 45 3, 15 1, 43 3, 111 3, 109 1, 76 3, 88

IMPRESSO NELLE OFFICINE DI AGNANO PISANO DELLA GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA

Settembre 1992