Empatia e sviluppo morale

Che cosa succede quando vediamo qualcuno che soffre, o quando noi stessi facciamo (o crediamo di fare) del male a qualcu

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Italian Pages 370 [369] Year 2008

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Empatia e sviluppo morale

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Ma r t i nL. Ho f f ma n

Empa t i ae s v i l up pomo r a l e

i lMul i n oS a g g i

AVVERTENZA DEL CURATORE DEL PDF Mancandomi le pagg. 162, 163, le ho integrate al testo traducendo dall'inglese dell'edizione originale (Empathy and moral development, Cambridge University Press, 2000, pp. 130-132).

a mia moglie Ann, alle mie figlie Amy e Jill, alle mie nipoti Alison, Nicole e Sarah

MARTIN L. HOFFMAN

EMPATIA E SVILUPPO MORALE

IL MULINO

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:

www.mulino.it

ISBN

978-88-15-12404-3

Edizione originale: Empathy and Mora! Development. Implications /or Caring and Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. Copyright © 2000 by Cambridge University Press. Copyright© 2008 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Maurizio Riccucci. Edizione italiana a cura di Anna Emilia Berti. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qual­ siasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Presentazione, di Anna Emilia Berti I.

Introduzione

p. 7 21

PARTE PRIMA: LO SPETTATORE INNOCENTE

II.

L'empatia: attivazione e funzionamento prosociale

53

III.

Lo sviluppo della sofferenza empatica

89

IV.

Rabbia empatica, simpatia, sentimenti di colpa e di ingiustizia

121

PARTE SECONDA: TRASGRESSIONE

V.

Senso di colpa e interiorizzazione morale

143

VI.

Dalla disciplina all'interiorizzazione

173

PARTE TERZA: TRASGRESSIONE VIRTUALE

VII.

Senso di colpa relazionale e altri sensi di colpa virtuali

211

5

PARTE QUARTA:

È

' SUFFICIENTE L EMPATIA?

VIII. Le limitazioni dell'empatia: sovrattivazione e bias

p. 233

PARTE QUINTA: EMPATIA E PRINCIPI MORALI

IX.

X.

XI.

Empatia e principi morali: interazioni e le­ gami

257

Sviluppo dei principi di giustizia fondati sul­ l'empatia

2 87

Dilemmi tra più parti morali e tra cura e giu­ stizia

3 03

PARTE SESTA: CULTURA

XII.

La questione dell'universalità e della cultura

3 15

PARTE SETTIMA: INTERVENTO

XIII. Implicazioni per la socializzazione e l'educazione morale

33 1

Riferimenti bibliografici

347

6

PRESENTAZIONE

La tesi sostenuta in questo libro è che l'empatia, definita come «risposta affettiva più appropriata alla situazione di un'altra persona che alla propria», sia alla base della moralità. Quando è stata proposta da Martin Hoffman per la prima volta verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, questa tesi, come vedremo, ha rappresentato una rivoluzione nella ricerca sullo sviluppo morale, all'epoca dominata da altri approcci. Essa però era tutt'altro che nuova, dato che era stata formu­ lata ed estesamente sviluppata da Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali, un libro scritto più di 200 anni prima (la prima edizione è del 1759, la sesta e ultima del 1790) , ed era ben presente in molti testi della seconda metà dell'Otto­ cento e degli inizi del Novecento espressamente dedicati alle emozioni [Darwin 1 872; Ribot 1 896] o più in generale alla psicologia Uames 1 890; McDougall 1 908; Spencer 1 870] . La proposta di Hoffman ha perciò costituito, più che una novità, il ricongiungimento con una tradizione di pensiero da cui gli psicologi si erano allontanati per abbracciare dei punti di vista che negavano agli esseri umani qualsiasi tendenza di tipo socia­ le. Si tratta di una tradizione ancora poco nota anche a chi si occupa di psicologia e addirittura di empatia, tanto da essere stata omessa in una storia di questo concetto [Wispé 1 987 ] . Mi sembra perciò opportuno dedicare questa presentazione a una breve ricostruzione di questa tradizione, e alla descrizione degli approcci che l'hanno soppiantata nello studio dello sviluppo morale, in modo da offrire al lettore il contesto in cui situare il lavoro di Hoffman. Chi voglia farsi un'idea complessiva dei contenuti del libro, potrà trovarne una sintesi nell'Introduzione scritta dall'autore stesso. Quello che Hoffman (e con lui diversi altri studiosi dell'ar­ gomento) chiamano attualmente empatia ha fatto il suo ingresso 7

nella filosofia morale con il nome di simpatia. La più estesa trattazione di questa passione (termine che possiamo conside­ rare sinonimo del più recente emozione) e del suo ruolo nella moralità si trova nel trattato d i Smith sui sentimenti morali, che inizia con il seguente passo. Per quanto egoista si possa ritenere l'uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe alle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l'altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l'emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza degli altri è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato; infatti tale sentimento, come tutte le passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo [Smith 1759/1976; trad. it. 1995, 81].

Secondo Smith, la nostra partecipazione a ciò che prova un'altra persona può arrivare al punto da farci agire come se ci trovassimo realmente nella sua situazione. Quando vediamo che la gamba o il braccio di un 'altra persona stanno per ricevere un colpo, istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio, e quando il colpo cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi, e ne siamo feriti quanto la vitti­ ma. La folla, quando guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi, come vede fare a lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua situazione [ibidem, 83] .

Smith a propria volta riprendeva ed elaborava la tesi di David Hume esposta nel Trattato sulla natura umana (pubbli­ cato per la prima volta nel1739), secondo la quale emozioni, assieme ad inclinazioni e opinioni, vengono condivise da coloro a cui vengono comunicate. Non c'è qualità della natura umana più notevole, sia in sé e per sé, sia per le sue conseguenze, della nostra propensione a provare simpatia per gli altri, e a ricevere per comunicazione le inclinazioni e i sentimenti altrui, per quanto diversi e addirittura contrari ai nostri.

8

Questo non è solo evidente nei bambini, che abbracciano tranquilla­ mente qualsiasi opinione venga loro proposta, ma anche in uomini del massimo giudizio e intelligenza, che trovano molto difficile seguire la propria ragione e inclinazione in opposizione a quelle dei loro amici e compagni di ogni giorno. A questo principio dovremmo imputare la grande uniformità che possiamo osservare nelle inclinazioni e nel modo di pensare di coloro che appartengono allo stesso popolo [Hume 1874-1875, 332 ] . L'intelaiatura della nostra mente è qualcosa d i analogo all'intelaia­ tura del nostro corpo. Sebbene le parti possano differire nella forma e nelle dimensioni, identiche rimangono in generale la loro struttura e il loro ordinamento. Vi è una notevole rassomiglianza che permane, malgrado tutta la loro varietà; e questa rassomiglianza deve certo con­ tribuire moltissimo a farci entrare nei sentimenti degli altri e farceli abbracciare facilmente e con piacere [ibidem, 334]. In generale possiamo osservare che le menti umane sono specchio l'una all'altra, non solo perché riflettono reciprocamente le loro emo­ zioni, ma anche perché questi raggi di passioni, sentimenti e opinioni si riverberano fino a svanire pian piano, insensibilmente. Così, il piacere che un uomo ricco riceve dai suoi possedimenti, trasmettendosi allo spettatore causa piacere e stima; questi sentimenti, una volta percepiti, e grazie alla simpatia che si ha con essi, accrescono a loro volta il piacere del possessore, e quindi, venendo ancora una volta riflessi, diventano per lo spettatore nuovo motivo di piacere e di stima [ibidem, 382 ] .

La compartecipazione alle emozioni altrui, che entrambi i filosofi denominano simpatia, è, secondo Smith, il nucleo della moralità: è dal simpatizzare con le persone coinvolte in un'azione (ad esempio con il beneficiario di un atto di gene­ rosità o con la vittima di una violenza) che insorgono in chi la osserva quei sentimenti di approvazione e disapprovazione verso chi la compie, sulla cui base vengono costruite le regole più generali della moralità; è d al guardare alle nostre proprie azioni dal punto di vista di un'altra persona, che le approva o disapprova osservandole in modo imparziale, che noi stessi valutiamo la nostra condotta. Smith ha sottolineato che sebbene in alcuni casi la condi­ visione delle emozioni altrui possa sorgere semplicemente alla loro vista, spesso essa richiede «un immaginario scambio d i posto con chi soffre» [Smith 1 75 9/ 1 976; trad. it. 1 995, 82] . Ciò avviene soprattutto quando si osserva qualcuno che non 9

è consapevole della propria disgrazia, come una persona che ha perso la ragione o un bambino troppo piccolo per poter rendersi conto della gravità della malattia che lo ha colpito. In questi casi La compassione dello spettatore deve sorgere interamente dalla considerazione di ciò che lui stesso proverebbe se fosse ridotto nella stessa infelice situazione, rimanendo, cosa forse impossibile, allo stesso tempo capace di osservarla con la sua attuale ragione e il suo attuale giudizio [ibidem, 87].

La nozione di simpatia, con esplicito riferimento a Hume e Smith è stata ripresa da Darwin [1871] nel quarto capitolo de L'origine dell'uomo, dove ha sottolineato il contributo che la partecipazione alle emozioni dei propri simili dà sia ai giu­ dizi morali, mediante l'approvazione o disapprovazione, sia alla stessa azione morale, spingendo ad alleviare la sofferenza altrui. Anche quando siamo del tutto soli, quanto spesso dobbiamo pensare con piacere o dispiacere a ciò che gli altri pensano di noi, alla loro supposta approvazione o disapprovazione! E tutto ciò viene dalla simpatia, elemento fondamentale degli istinti sociali. Un uomo che non possedesse traccia di quegli istinti sarebbe un mostro innaturale [Darwin 1871; trad. it. 1994, 612]. Adam Smith tempo addietro ha detto, come ha fatto recentemente Bain, che la base della simpatia si trova nella nostra forte memoria di precedenti stati di pena o di piacere. Donde «la vista di un'altra per­ sona che soffre la fame, freddo, la fatica, fa rivivere in noi il ricordo di tali stati, che sono penosi anche nel pensiero». Siamo così spinti ad alleviare le sofferenze altrui, in modo da alleviare nello stesso tempo i nostri sentimenti dolorosi [ibidem, 608].

Infine, secondo Darwin la simpatia è anche all'origine di rimorso, pentimento, dolore e vergogna. Questi sentimenti in­ sorgono in un individuo dopo aver compiuto un'azione che ha danneggiato un membro della propria comunità per soddisfare un istinto momentaneamente più impellente di quelli sociali, ma di minor durata. Una volta che questo istinto è stato soddisfat­ to, torna a farsi sentire la simpatia, e con essa il ripensamento sull'azione compiuta, la previsione di cosa ne penseranno i IO

compagni, insomma i sentimenti sopra enumerati, assieme al proponimento di comportarsi diversamente nel futuro. Contrariamente a chi sosteneva che il senso morale fosse appreso, Darwin era convinto che esso avesse una base innata, perché la simpatia è osservabile anche in diversi animali, e deve essere considerata un prodotto dell'evoluzione mediante selezione naturale, per i vantaggi che essa procura alle comunità quando i loro membri sono in grado di sperimentarla. Per quanto complessarnente questo sentimento possa essersi ori­ ginato, poiché è di notevole importanza per tutti quegli animali che si aiutano e si difendono reciprocamente, si sarà potenziato con la selezione naturale. Infatti quelle comunità che comprendono il maggior numero di membri legati da simpatia, prospereranno di più e alleveranno il maggior numero di prole [Darwin 1871; trad. it. 1994, 567].

Nella tradizione di pensiero che ha preceduto la nascita ufficiale della psicologia, la simpatia comprendeva dunque due aspetti strettamente intrecciati: quello cognitivo, consistente nel cogliere lo stato mentale di un'altra persona (!'«entrare nei sentimenti altrui», per usare le parole di Hume); quello emotivo, consistente nel provare a propria volta l'emozione attribuita all'altra persona, o una emozione congruente con la sua situazione, come conseguenza della vividezza delle immagini mentali con cui tale emozione o tale situazione sono rappre­ sentate. A propria volta, le emozioni simpatetiche diventano il punto di partenza per l'approvazione o disapprovazione morale delle azioni, inducono a preoccuparsi di come si può essere giudicati (attraverso la simpatia nei confronti di chi ci giudica) e spingono ad agire moralmente. Di questi aspetti, è stato soprattutto quello cognitivo a ricevere inizialmente l'attenzione degli psicologi, che ne hanno parlato usando varie denominazioni, come coscienza eiettiva (cioè l'attribuzione ad una persona che vediamo compiere una certa azione degli stati mentali che noi stessi proviamo nel compierla [Baldwin 1897]), role taking (assumere il ruolo o il punto di vista di un altro [Mead 1934]), decentramento (rendersi conto che il proprio punto di vista è solo uno dei tanti possibili e cercare di capire anche quelli degli altri [Piaget 194 7]), empatia. Secondo Wispé [1987], quest'ultimo termine è stato coniato 11

dallo psicologo americano Edward Titchener nei primi anni del Novecento per tradurre il tedesco Ein/iihlung, che ricorreva in alcuni testi di estetica per indicare il venir assorbiti dall'oggetto che si sta osservando. L'uso sia del termine tedesco che della sua traduzione inglese si è successivamente esteso dal campo dell'estetica a quello della personalità. Ein/uhlung nel 192 1 è stato adottato da Freud in Psicologia di gruppo e analisi dell'Io per indicare il processo che ci consente di comprendere le altre persone, mentre empatia è stato adottato da Cari Rogers e dai suoi seguaci per indicare la capacità del terapeuta di entrare senza pregiudizi nel mondo di un'altra persona. La capacità di comprendere gli stati mentali altrui, i meccanismi ad essa soggiacenti, e i modi in cui si sviluppano sono attualmente al centro di un'area di ricerca estremamente vivace e attiva, denominata Teoria della mente, le cui origini sono del tutto indipendenti dai filoni di ricerca che in passato si sono occupati di questo tema. La capacità di descrivere e spiegare il comportamento proprio e altrui mediante l'attri­ buzione di stati mentali, denominata come «leggere la mente» o «mentalizzare>> , viene attribuita, da diversi studiosi attivi in questo tipo di ricerca, alla presenza, nella mente umana, di meccanismi innati che generano credenze circa gli stati mentali a partire da certi input percettivi, oppure ad un complesso di credenze sul funzionamento della mente organizzate come una teoria, che consentono di fare delle inferenze [Marraffa 200 1 ] . Un terzo punto di vista, quello della simulazione, si richiama esplicitamente alla nozione di empatia, e sostiene invece che il riconoscimento e la comprensione delle azioni altrui derivano da una sorta di imitazione interiore dei loro movimenti. La scoperta di neuroni specchio, neuroni che si attivano sia quando si esegue un 'azione, sia quando la si vede eseguire da qualcun altro, fornisce la spiegazione in termini neuropsicologici di come tale simulazione possa avvenire [Gallese 200 1 ] . L'aspetto emotivo della simpatia, cioè l'entrare in risonanza con le emozioni di altre persone, venendo sollecitati a soccorrere e confortare chi soffre e a provare rimorso se si è causa della sofferenza, dovette invece attendere a lungo prima di diventare oggetto delle ricerche psicologiche. Secondo Allp ort [ 1 968] , durante i primi decenni del Novecento di rado vennero condotte 12

delle indagini empiriche sui comportamenti positivi nei confronti delle altre persone e le loro basi motivazionali, perché la teoria freudiana, la Prima guerra mondiale, e un clima culturale in cui prevalevano le teorie irrazionalistiche attiravano piuttosto l'attenzione sui comportamenti aggressivi. Quando finalmente iniziarono a fiorire degli studi sui comportamenti sociali posi­ tivi, nel campo delle dinamiche di gruppo, delle risoluzioni di conflitti, delle relazioni industriali, raramente in essi compariva il termine simpatia, forse perché dava l'impressione di essere poco scientifico. Gli studi sulle forme positive di comportamento sociale (come dare, aiutare) crebbero enormemente a partire dagli anni Sessanta [Wispé 1987 ] , stimolati anche dalle teorizzazioni dell'etologia e della sociobiologia sul comportamento altruistico, che a loro volta riprendevano le teorie darwiniane, e questo consentì alla simpatia (ribattezzata come empatia) di trovare posto tra le possibili motivazioni di tale comportamento. Si trattava però di un ambito di ricerca distinto da quello sulla moralità, cioè su emozioni come rimorso, vergogna, senso di colpa, sui giudizi di approvazione o disapprovazione morale di un'azione, e sui comportamenti conformi a regole morali, che vennero invece condotte all'interno di altri approcci. La più influente teoria psicologica sullo sviluppo morale è stata per diversi decenni quella freudiana, secondo cui c'è un conflitto tra le inclinazioni naturali dell'individuo e le esi­ genze della vita sociale. Gli esseri umani vengono al mondo con una dotazione di pulsioni (di autoconservazione, sessuali, aggressive) la cui libera soddisfazione avrebbe conseguenze distruttive su altre persone, e privi di qualsiasi tendenza di natura sociale. La moralità (il Super-Io) si instaura durante la fanciullezza attraverso l'incorporazione di qualcosa di esterno: le proibizioni dei genitori, assieme alle norme sociali che esse rappresentano, e l'ostilità rivolta verso il rivale edipico, che può ora essere rivolta verso il sé, dando origine al senso di colpa che, assieme alla paura delle punizioni e dell'abbandono, è la forza motivazionale che induce a rispettare le regole [Freud 1932 ] . Secondo questo punto di vista, il momento cruciale per la formazione della coscienza morale è quello edipico. Verso i 5-6 anni le fondamenta del Super-lo e le parti principali dell'edificio dovrebbero essere ormai costruiti. 13

I teorici dell'apprendimento, pur non condividendo l'ac­ cento posto da Freud sulla sessualità infantile, hanno condiviso con lui l'idea dell'asocialità e amoralità dei bambini piccoli, e della necessità per i genitori di modificare le inclinazioni naturali dei figli inducendoli prima ad obbedire ai loro comandi e poi, tramite la formazione di riflessi condizionati, a interiorizzare tali comandi sotto forma di regole a cui obbedire anche in assenza di qualcuno che impone e controlla. Anche secondo queste teorie paura e ansia hanno un ruolo cruciale nell'attuazione di questa interiorizzazione, seppure attraverso processi diversi da quelli postulati dalla psicoanalisi [Hoffman 1 970b ] . La teoria psicanalitica e quelle dell'apprendimento hanno guidato gran parte delle ricerche empiriche condotte fino agli anni Sessanta del Novecento, in particolare quelle sulle conse­ guenze che differenti tecniche disciplinari adottate dai genitori possono avere su vari aspetti del comportamento morale dei bambini: la capacità di resistere alle tentazioni, la tendenza a confessare le malefatte, le manifestazioni di senso di colpa. A partire dagli anni Sessanta, con la rivoluzione cognitivista ha cominciato ad affermarsi la teoria di Piaget [ 1 93 2 ] , che ha messo in primo piano il ruolo del giudizio morale, cioè i criteri usati dai bambini a diverse età per valutare le azioni come buone o cattive, giuste o ingiuste. Laurence Kohlberg, che ha ripreso ed elaborato la teoria di Piaget proponendo l' approccio cognitivo-evolutivo ( cognitive-developmenta{), ha condotto e guidato fino agli anni Ottanta molte ricerche sullo sviluppo del ragionamento morale dalla fanciullezza all'età adulta, e ha ispirato un filone di ricerca, tuttora molto produttivo, sulla concezione e l' osservanza di diversi tipi di regole [Turiel 1998; Nucci 200 1 ] . Pur focalizzandosi sul ragionamento, questa li­ nea di ricerca non ha sottovalutato il ruolo delle emozioni nel comportamento morale: secondo Piaget sono esse a dotare le regole sociali del senso di obbligo che le caratterizza e che induce le persone ad adeguare ad esse la propria condotta. Le emozioni di cui parla Piaget sono molto diverse da quelle su cui hanno posto l'accento Freud e i teorici dell 'ap­ prendimento, e più affini a quelle della tradizione dei senti­ menti benevoli a cui app artiene Smith: «Il comportamento del bambino verso le persone testimonia fin dagli inizi ten ­ denze alla simpatia e reazioni affettive in cui è facile trovare 14

gli elementi costitutivi di tutte le condotte morali ulteriori» [Piaget 1932; trad. it. 1972 , 328]. Dai «sentimenti elementari» [ibidem, 3 29] presenti nei primi mesi di vita, si sviluppano secondo Piaget altri sentimenti più complessi, in parallelo con lo sviluppo cognitivo e sociale. Emerge per primo il rispetto per i genitori, che è unilaterale perché è improntato dalla percezione della loro superiorità, ed induce a ritenere giusto, buono, e obbligante ogni loro comando. Man mano che i bambini diventano capaci di inte­ ragire con i coetanei, si instaurano rapporti di cooperazione in cui nessuno ( dato che non ci sono differenze di potere o di autorità) può imporsi agli altri. Ogni bambino è indotto così a capire il punto di vista degli altri mettendosi nei loro panni, e a fare in modo che essi capiscano il suo, e il rispetto diventa reciproco. Nei contesti di cooperazione, i bambini giungono a costrui­ re spontaneamente, attraverso una serie di aggiustamenti o di una esplicita negoziazione, sia delle regole relative ad aspetti più o meno specifici dei loro giochi (ad esempio riguardo all'ordine in cui cominciare, o al come assegnare i ruoli in un gioco di gruppo ) , sia dei principi generali di giustizia, fino a capire la necessità di trattare gli altri come essi stessi vor­ rebbero essere trattati. Il rispetto di queste regole e di questi principi deriva, a questo punto, dalla sensibilità dei bambini per i sentimenti degli altri e dal desiderio di continuare a mantenere con essi dei rapporti basati sulla cooperazione e il mutuo rispetto. Benché l'analisi dei sentimenti coinvolti nella formazione e nel rispetto delle regole costituisca una parte importante del testo di Piaget sul giudizio morale nel bambino, né Piaget, né Kohlberg né gli altri studiosi che ad essi si sono ispirati hanno cercato di tradurre questa analisi in ipotesi verificabili empiri­ camente, limitando le loro indagini allo sviluppo del giudizio e del ragionamento morale. Inoltre, le loro ricerche, condotte mediante interviste, raramente hanno incluso i bambini in età prescolare. La proposta, formulata da Martin Hoffman [1963 ] agli inizi degli anni Sessanta, di estendere lo studio del comporta­ mento morale all'altruismo e alla considerazione per gli altri, e di includere anche il dispiacere empatico tra le emoztom 15

moralmente rilevanti, fu per quegli anni una grande novità, e stimolò la nascita di un approccio allo sviluppo morale diventato sempre più importante, tanto da essere attualmente fra quelli dominanti. Oltre che alla ricerca empirica, Hoffman si dedicò alla sistematizzazione teorica. Egli mise in chiaro le matrici filo­ sofiche del concetto di empatia, richiamandosi ad autori come Shaftesbury, Hume e Adam Smith [Hoffman 1982a] ; riformulò il concetto di senso di colpa, che nella psicanalisi era definito come aggressività rivolta verso il Sé, e considerato potenziale fonte di disturbi mentali, sostenendo che il senso di colpa è dispiacere empatico per la sofferenza di un'altra persona, unito alla convinzione di essere causa di tale sofferenza; propose delle sequenze di sviluppo dell'empatia e del senso di colpa che, a differenza di quelle di Piaget e di Kohlberg, iniziavano con i primi anni di vita, addirittura con la nascita, quando i bambini già manifestano l' inclinazione a reagire alle emozioni altrui, rispondendo con il proprio pianto al pianto di un altro bambino [Sagi e Hoffman 1 976] . Gli effetti che questa propo­ sta ebbe negli anni Settanta in una panorama dominato, come abbiamo visto, dagli approcci psicanalitico, comportamentista e cognitivo-evolutivo, vengono così descritti da due studiose dello sviluppo emotivo e morale nei primi anni di vita: Il lavoro teoretico condotto da Hoffman negli anni Settanta [Hof­ fman 1975] è stato rivoluzionario nel fornire una cornice concettuale che consentiva di integrare approcci diversi alla comprensione dell'in­ teriorizzazione della responsabilità . Egli metteva l'accento sull'intera­ zione di affetti, comportamenti e cognizioni nello sviluppo prosociale e morale. Proponeva degli stadi di sviluppo che mettevano in evidenza l'importanza non solo della media ma anche della prima fanciullezza. Le precedenti concettualizzazioni ritenevano che prima dell'età scolare i bambini non fossero capaci di azioni morali e di comportamenti di cura verso gli altri. La teoria psicanalitica proponeva che la risoluzione del complesso edipico fosse una precondizione necessaria per lo sviluppo del super-io. Le teorie social-cognitive e le teorie stadiali dello sviluppo morale ritenevano che raffinate capacità di pensiero simbolico e rappre­ sentazionale fossero dei prerequisiti per il comportamento morale-etico. Anche le teorie comportamentistiche tendevano a studiare i bambini più grandi, forse per ragioni metodologiche. Storicamente, dunque, con poche eccezioni, gli approcci occidentali allo sviluppo morale avevano portato a teorie e a dati che mettevano in secondo piano la prima fanciullezza [Zahn-Waxler e Robinson 1995, 143-144].

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Le ricerche sui primi anni di vita stimolate da Hoffman hanno messo in evidenza che i bambini già a due anni sono capaci sia di comportamenti prosociali (confortare, aiutare) sia di comportamenti più tradizionalmente considerati morali (senso di colpa, riparazione di una malefatta), sollecitando a rivedere i punti di vista del passato riguardo non solo allo sviluppo ma anche all'educazione morale. Se, come sostiene Hoffman, il senso di colpa comincia a formarsi già a 2-3 anni, e richiede degli interventi da parte dei genitori e altri adulti a contatto con i bambini, per richiamare la loro attenzione sulla sofferenza che il loro comportamento (tirare i capelli, dare uno spintone, portare via un giocattolo) infligge a qualcun altro, è dall'asilo nido che bisogna iniziare l'educazione morale e la prevenzione di prepotenze e atteggiamenti antisociali. Questa educazione deve poi proseguire, e a questo riguardo Hoffman dà alcune indicazioni su come aiutare i bambini (e non solo loro) a comprendere i principi della giustizia, a prendere delle decisioni nei casi in cui empatia e giustizia sono in conflitto, e a contrastare i bias dell'empatia. Come spiega Hoffman, l'empatia non ci spinge a condivide­ re le emozioni degli altri in modo imparziale, ma è vulnerabile rispetto a due tipi di distorsioni o bias: quello di familiarità, che ci induce a empatizzare soprattutto con le persone con cui condividiamo l'appartenenza ad un gruppo (etnico, religioso, professionale o altro), o con cui abbiamo legami di amicizia o parentela; il bias di vicinanza, che ci induce a empatizzare con chi per qualche ragione avvertiamo come vicino perché visibile, o perché la sua situazione ci viene vividamente pre­ sentata da testi scritti o da filmati, rispetto a chi appare solo un numero in una statistica, come quella relativa al numero di bambini che muoiono ogni anno per malattie non curate o malnutrizione. Il pensiero e le ricerche di Hoffman sono in parte già note in Italia, non solo agli studiosi ma anche a psicologi ed educatori interessati allo sviluppo morale, grazie ai compendi contenuti in manuali di psicologia dello sviluppo [Berti e Bombi 1988; 2005] e soprattutto ad alcuni testi dedicati espressamente all'empatia [Bonino, Lo Coco e Tani 1998; Albiero e Matricardi 2006] . Ma Empatia e sviluppo morale, in cui Hoffman espone la sintesi delle ricerche empiriche e delle elaborazioni teoriche della 17

sua intera vita di studioso, presenta un interesse che travalica il campo della psicologia e dell'educazione, investendo temi che riguardano più in generale l'etica, la politica, e le scienze sociali nel loro complesso, e offrendo dei concetti che possono aiutare a capire fenomeni della vita sociale che ci toccano tutti da vicino. ANNA EMILIA BERTI

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MARTIN L. HOFFMAN

EMPATIA E SVILUPPO MORALE

CAPITOLO PRIMO

INTRODUZIONE

Quando dico a qualcuno che il mio campo di studio è lo sviluppo morale, di solito la prima reazione è il silenzio - o, a volte, un'esclamazione di sorpresa. Pensano, costoro, che mi riferisca alla religione, al dire la verità, al declino della famiglia tradizionale, alla proibizione di droghe e alcol e alle gravidanze adolescenziali. Quando aggiungo che mi occupo della consi­ derazione che le persone hanno verso gli altri, gli interlocutori si fanno attenti, dopodiché osservano che deve trattarsi di un oggetto di studio piuttosto frustrante, visto che ognuno bada anzitutto a se stesso: chi mai si prende cura degli altri ( famiglia a parte, forse)? Ma quando faccio notare loro che se ognuno si fosse preso cura solo di se stesso la specie umana non sarebbe sopravvissuta, si fermano, ci riflettono sopra e dicono qualcosa come: «Ma lo sai che forse hai ragione . . . ». Quello evoluzioni­ stico è un argomento forte; sembra ovvio che gli esseri umani debbano avere geni per il mutuo aiuto, visto che, a suo tempo, cacciatori e raccoglitori non sarebbero sopravvissuti se non si fossero aiutati l'un l'altro. Comunque sia, quelli che studiano il comportamento morale prosociale lo fanno nel «primo mondo» alla fine del XX secolo, in una società attraversata da individualismo competitivo e indifferenza verso il prossimo, e sono tutti perfettamente con­ sapevoli che per quanto una persona si prenda cura degli altri, ognuno alla resa dei conti pensa prima di tutto a se stesso: lui (lei) non è l'altro. Ciò nondimeno, le persone fanno sacrifici per gli altri - grandi sacrifici, a volte - e spesso li aiutano in modi meno importanti, e tutto ciò migliora la qualità della vita di tutti e rende possibile l'esistenza sociale. Vi è dunque qualcosa da studiare. Non per nulla si tratta di un tema che ha interessato i filosofi a partire (almeno) da Aristotele, e che gli psicologi studiano da quasi un secolo. La persistenza di 21

questo tema si deve, a mio giudizio, all'ovvia importanza che esso riveste per l'organizzazione sociale e al fatto che sintetizza il dilemma esistenziale umano: come affrontare gli inevitabili conflitti tra bisogni egoistici e obblighi sociali. La filosofia e la religione offrono diverse risposte a questo dilemma, e queste risposte si ripresentano nelle teorie psi­ cologiche contemporanee. Secondo la «dottrina del peccato originale>> , ad esempio, l'uomo nasce egoista e poi, attraverso la socializzazione, acquisisce una coscienza morale che controlla l'egoismo; questa dottrina corrisponde alle prime formulazioni teoriche freudiane e alle teorie dell'apprendimento sociale, che sottolineano quanto siano importanti, per lo sviluppo morale, le ricompense e le punizioni dei genitori (soprattutto il dare o negare affetto) . Diametralmente opposta, e più interessante, è la «dottrina della purezza innata», associata al nome di Rous­ seau. Essa considera il bambino naturalmente buono (sensibile agli altri), ma vulnerabile all'azione corruttrice della società. Questa dottrina corrisponde, per certi aspetti, alla teoria di Piaget; la quale, benché non affermi che i bambini siano na­ turalmente puri, suppone però che la loro relazione con gli adulti crei un rispetto eteronomo per le regole e per l'autorità che interferisce con lo sviluppo morale. Questa corruzione da parte degli adulti può essere vinta solo dal reciproco «dare e avere» dell'interazione libera, senza supervisione, con i propri pari, che, assieme alle capacità cognitive che si sviluppano na­ turalmente, permette ai bambini di assumere il punto di vista altrui e di sviluppare un 'etica autonoma. La somiglianza con la dottrina della «purezza innata» sta nel fatto che l'interazione libera e naturale del bambino premorale favorisce lo sviluppo morale, mentre l'interazione con gli adulti (socializzati) lo ostacola. Tra i filosofi, Immanuel Kant e i suoi eredi - che cercarono di dedurre principi di giustizia universali e applicati in modo imparziale - hanno ispirato il tentativo di Kohlberg (e, in minor misura, di Piaget) di descrivere una successione invariante di stadi morali universali. La versione b ritannica dell'utilitarismo­ rappresentata, tra gli altri, da David Hume e Adam Smith, che consideravano l'empatia un legame sociale necessario- trova espressione nelle attuali ricerche sull'empatia, la compassione e l'etica del prendersi cura. 22

Le teorie contemporanee dello sviluppo morale prosociale tendono a focalizzarsi su W1a singola dimensione, ognuna con i suoi propri processi esplicativi. Le teorie dell'apprendimento sociale si occupano del comportamento di aiuto e affrontano in particolare i processi implicati nella ricompensa, nella punizione e nell'imitazione. Le teorie dello sviluppo cognitivo riguardano il ragionamento morale e si servono di concetti come quelli di assunzione di prospettiva (perspective taking), reciprocità, dise­ quilibrio cognitivo, costruzione progressiva e co-costruzione. Le teorie dello sviluppo emotivo e motivazionale fanno appello a concetti come quelli di identificazione con il genitore, angoscia per la perdita dell'amore, empatia, simpatia, senso di colpa e interiorizzazione morale. Mi occupo da tempo della dimensione emotivo-motivazionale e specialmente dello sviluppo dell'empatia, del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale. A mio giudizio, l'empatia è la scintilla da cui nasce l'interesse umano per gli altri, il collante che rende possibile la vita sociale. Potrà essere fragile ma, verosimilmente, ha accompagnato finora la nostra evoluzione e può ben darsi che duri tanto quanto l'umanità. In questo libro aggiorno i miei studi precedenti e li inquadro in una teoria generale del comportamento morale prosociale e del suo sviluppo, che mette in luce il ruolo morale dell'em­ patia nell'emozione, nella motivazione e nella condotta, ma attribuisce anche speciale importanza alla cognizione. Il mio obiettivo è chiarire i processi che si trovano alla base dell' at­ tivazione dell'empatia e il ruolo che questa ha nella condotta prosociale. Descriverò le forme in cui l'empatia si sviluppa, dalle forme preverbali presenti, forse nei primi esseri umani e ancor oggi nei primati, fino alle più sofisticate espressioni di interesse per le sottili e complesse emozioni umane. Esaminerò inoltre il contributo dell'empatia ai principi del prendersi cura e della giustizia, alla soluzione dei conflitti fra cura e giustizia, e al giudizio morale. Sono trent'anni che lavoro a questa teoria. Essa include elementi degli orientamenti filosofici e psicologici menzionati sopra, ma anche della psicologia cognitiva contemporanea memoria, elaborazione delle informazioni, attribuzione causale e, specialmente, la sintesi di affetto e cognizione. Il suo focus primario è la considerazione per gli altri - quella che spesso è chiamata «etica del prendersi cura» - ma include anche la 23

«giustizia» e la relazione (di mutuo sostegno, benché a volte contraddittoria) tra il prendersi cura e la giustizia. La teoria si propone di dar conto dell'azione umana in cinque tipi di incontri o dilemmi morali, che, mi sembra, ab­ bracciano la maggior parte del dominio morale prosociale. l. Nel primo tipo, il più semplice, vi è uno spettatore innocente del dolore o della sofferenza altrui (di tipo fisico, emotivo, economico) . Il problema morale è: la persona darà aiuto? e, se non lo fa, come si sentirà? 2. Il secondo tipo implica un trasgressore che nuoce o è in procinto di nuocere a qualcuno (in modo accidentale, in una lotta, in una disputa). Qui il problema morale è: la persona eviterà di nuocere all'altro? e, in caso contrario, si sentirà poi colpevole? 3 . Nel terzo tipo di dilemma, che combina elementi dei primi due, vi è un trasgressore virtuale che, pur essendo inno­ cente, crede di avere fatto del male a qualcuno. 4. Il quarto tipo è più complesso: implica più parti morali (multiple mora! claimants) tra le quali la persona è costretta a scegliere. Il problema morale è: a chi dare aiuto? e la persona si sentirà colpevole per avere trascurato gli altri? 5. Il quinto tipo, nel quale il prendersi cura si contrappone alla giustizia, implica non solo più parti morali, ma anche un conflitto fra la considerazione per il prossimo e temi più astratti quali i diritti, il dovere, la reciprocità. Il problema morale in questo caso è: quale principio prevarrà, la cura o la giustizia? e ci sentiremo colpevoli per avere violato l'altro principio? Questi dilemmi - il dilemma tra più parti morali e quello tra cura e giustizia - sono particolarmente importanti in società come le nostre, che stanno diventando sempre più diversificate culturalmente. Tutte e cinque queste situazioni condividono una base motivazionale empatica - dove l'empatia è definita come una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria. Ogni situazione è caratterizzata da sofferenza empatica - si soffre ad osservare qualcuno che soffre - e da una o più motivazioni derivate da tale sofferenza: sofferenza simpatetica, rabbia empatica, sentimento empatico di ingiustizia, senso di colpa. Il libro inizia con un' analisi della situazione dello spetta­ tore innocente, il cui modello si propone di rispondere alle 24

seguenti domande: quali sono le motivazioni che inducono lo spettatore innocente ad aiutare la vittima? Quali sono i meccanismi psicologici alla base dell'attivazione di queste motivazioni? Qual è il loro corso di sviluppo? Queste do­ mande trovano risposta nei primi tre capitoli (prima parte) del libro. Il capitolo secondo comincia definendo l' empatia come una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria. Il tema centrale è la sofferenza empatica (empathic distress), giacché di solito gli spettatori sono tipicamente nella posizione di rispondere a qualcuno che soffre. Illustreremo le prove che mostrano che la sofferenza empatica agisce come una motivazione morale prosociale, ma la maggior parte del capitolo riguarda le varie modalità di attivazione dell 'empatia. Se, come ho sostenuto altrove [Hoffman 198 1 ] , l'empatia è frutto della selezione naturale, essa deve essere una risposta multideterminata, che può essere suscitata da segni o indizi di sofferenza provenienti dalla vittima o dalla situazione in cui essa si trova. Tale in effetti è, ed esamineremo qui cinque forme chiaramente distinte di attivazione empatica. Tre sono preverbali, automatiche ed essenzialmente involon­ tarie: a) la mimesi (mimicry) motoria e la retroazione afferente che ne segue; b) il condizionamento classico; c) l'anociazione diretta tra indizi provenienti dalla vittima o dalla sua situazione e le passate esperienze dolorose dell'osservatore. L'empatia suscitata da queste tre modalità è una risposta affettiva passiva e involontaria, che dipende da stimoli superficiali e richiede il livello più basso di elaborazione cognitiva. Questa semplice forma di sofferenza empatica è tuttavia importante, proprio perché mostra che gli esseri umani sono fatti in modo tale da poter provare, involontariamente e intensamente, le emozioni di un'altra persona - che spesso la loro sofferenza dipende da un' esperienza dolorosa altrui, piuttosto che propria. Queste tre modalità preverbali sono cruciali per suscitare empatia nei bambini, specialmente nelle situazioni faccia a faccia, ma continuano ad operare e a dotare l'empatia di una dimensione di involontarietà nel corso di tutta la vita. Non solo consen­ tono a una persona di rispondere a qualunque segnale, ma la costringono a farlo - in modo istantaneo, automatico e senza richiedere consapevolezza conscia. 25

Vi sono poi due modalità cognitive di ordine superiore: d) l'associazione mediata , cioè l' associazione tra indizi espressivi provenienti dalla vittima o indizi forniti dalla sua situazione e le esperienze dolorose che la persona ha avuto in passato, associazione che è mediata dall'elaborazione semantica di informazioni provenienti dalla vittima o che la riguardano; e) e l'assunzione del ruolo o della prospettiva di qualcun altro (role-taking, perspective-taking) , quando la persona immagina come si sente la vittima o come lei stessa si sentirebbe se fos­ se al suo posto. Tutte e due queste modalità possono essere protratte nel tempo e controllate volontariamente, ma, quando l'attenzione della persona è rivolta alla vittima, possono attivarsi involontariamente e immediatamente alla vista della sofferenza di questa. Esse contribuiscono a estendere la portata della ca­ pacità empatica e permettono di provare empatia per qualcuno che non è presente. A causa dell'esistenza di più modalità di attivazione, la mia definizione di empatia non comporta necessariamente, benché spesso la includa, una stretta corrispondenza fra lo stato affet­ tivo dell'osservatore e quello della vittima. Le diverse forme di attivazione empatica assicurano un certo grado di corrispon­ denza, anche in culture differenti (come vedremo più avanti) , e ciò per due ragioni: l. la mimesi (mimicry) che può essere automatica e avere una base neurale, assicura una corrispondenza quando l' osser­ vatore e la vittima sono in contatto faccia a faccia; 2. il condizionamento e l'associazione assicurano una cor­ rispondenza perché tutti gli esseri umani sono strutturalmente affini ed elaborano le informazioni in modo simile, cosicché è probabile che rispondano a eventi analoghi con analoghe emozioni. Ma a volte l'empatia non richiede una corrispondenza ma anzi può richiedere una certa discrepanza, come quando le condizioni di vita della vittima vengono mascherate dai suoi sentimenti nella situazione immediata. È in queste occasioni che la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo possono avere un ruolo centrale. Nel capitolo terzo, uno dei capitoli chiave del libro, pre­ sento la mia teoria dello sviluppo della sofferenza empatica. La mia tesi è che nello sviluppo avvenga una sintesi tra le emozioni 26

empatiche dei bambini e la loro crescente consapevolezza cognitiva degli altri in quanto distinti da sé. Questa sintesi dà origine a cinque «stadi)) di sviluppo della sofferenza empati­ ca: a) il pianto reattivo del neonato; b) la sofferenza empatica egocentrica, nella quale il bambino risponde alla sofferenza altrui come se fosse lui stesso a patirla; ciò accade nel periodo di sviluppo in cui il bambino è capace di sofferenza empatica (sulla base delle prime forme di attivazione di tipo preverbale) ma ancora non distingue chiaramente tra sé e l'altro ; c) la sofferenza empatica quasi-egocentrica , nella quale i bambini si rendono conto che la sofferenza non è loro, ma dell'altro, e tuttavia confondono gli stati interni dell 'altro con i propri e cercano di aiutarlo facendo per lui ciò che darebbe conforto a loro stessi; d) la sofferenza empatica veridica , nella quale il bambino è più vicino a sentire ciò che l'altro sente realmen­ te, perché giunge a rendersi conto che l'altro ha stati interni indipendenti dai suoi; e) l'empatia nei confronti di esperienze altrui che vanno oltre la situazione immediata (per esempio: malattie croniche, difficoltà economiche, privazioni) , quando il bambino si rende conto che la vita di altre persone può essere fondamentalmente triste o lieta, e, come sottocategoria, quando il bambino prova empatia nei confronti di un intero gruppo (senza tetto, vittime di attentati terroristici ) . In questo capitolo presento anche le prove dell'ipotesi che, a partire dallo stadio c) , la sofferenza empatica dei bambini si trasfor­ mi, in parte, in un sentimento di sofferenza simpatetica o di compassione per la vittima, e che, da quel momento, quando il bambino osserva una persona che sta soffrendo, avverta tanto sofferenza empatica quanto simpatetica. Nel resto del volume, con il termine sofferenza empatica farò riferimento a una combinazione di ambedue i tipi di sofferenza (empatica/ simpatetica) . In questo schema di sviluppo, ogni nuovo stadio comprende e riunisce in sé le conquiste dei precedenti. Nello stadio più avanzato si è esposti a un insieme di informazioni sulle condi­ zioni della vittima che può includere segni espressivi verbali e non verbali provenienti dalla vittima stessa, conoscenze sulle sue condizioni di vita e indizi situazionali. Le informazioni che provengono da queste fonti sono elaborate separatamente: segni non verbali suscitano l'empatia attraverso forme di elaborazione 27

essenzialmente involontarie e cognitivamente superficiali (mi­ mesi, condizionamento, associazione) ; i messaggi verbali della vittima, la descrizione del suo stato o della sua condizione da parte di una terza persona, la conoscenza personale che ne ab­ biamo, richiedono, per suscitare una risposta empatica, forme di elaborazione più complesse (associazione mediata, assunzio­ ne di ruolo) . Nello stadio più avanzato, possiamo riprodurre mentalmente le emozioni e le esperienze suggerite da queste informazioni e considerarle introspettivamente, e in tal modo possiamo comprendere e rispondere affettivamente alle situazioni, ai sentimenti e ai desideri dell'altro, pur mantenendo il senso di separazione tra questa persona e noi stessi. E se le informazioni che possediamo sulle condizioni di vita dell'altro ne contrad­ dicono il comportamento nella situazione immediata, la nostra risposta empatica può essere influenzata da tali informazioni, oltre (e forse più) che dal suo comportamento immediato. Già a questo punto dovrebbe essere chiaro che la cogni­ zione ha un ruolo importante nello sviluppo della sofferenza empatica. La sua importanza appare ancora più evidente nel capitolo quarto, che illustra la tendenza umana a spiegare gli eventi in chiave causale e mostra come le attribuzioni sulla causa della sofferenza altrui possano articolare la sofferenza empatica in quattro affetti morali fondati sull'empatia. l. Quando la causa è oltre la possibilità di controllo della vittima (malattia, incidente, perdita) , la sofferenza empatica degli osservatori si trasforma, almeno in parte, in sofferenza simpatetica, come nella trasformazione evolutiva della sofferenza empatica in simpatetica analizzata nel capitolo terzo. 2. Se la causa è una terza persona, la sofferenza empatica si trasforma in rabbia empatica, cioè una risposta empatica alla rabbia della vittima o un sentimento duplice di tristezza o delusione empatica (se è questo, e non rabbia, ciò che la vittima avverte) e, insieme, di rabbia verso il colpevole. Questa forma duale di rabbia empatica può essere quella prevalente in società come la nostra, dove, a causa della socializzazione, non è usuale avere sentimenti di rabbia aperta. Anche in que­ sto caso, l'empatia comporta una discrepanza fra i sentimenti dell'osservatore e quelli della vittima. 3. Quando vi è una discrepanza tra la natura della vittima e la sua sorte (quando, ad esempio, una brava persona se la 28

passa male) , la patente violazione del principio di reciprocità o giustizia può trasformare la sofferenza empatica dell'osservatore in un sentimento empatico di ingiustizia. 4 . Infine, se gli osservatori non prestano aiuto alla vittima o se i loro sforzi sono vani ( fosse anche per buone ragioni) , essi possono considerarsi causa del fatto che la vittima abbia contin uato a soffrire, e questa percezione può trasformare la sofferenza empatica in senso di colpa per inazione. Ovviamente, può accadere che una persona mitighi la propria sofferenza empatica incolpando la vittima della sua stessa sofferen za. Un aspetto importante del modello dello spettatore è che la sofferenza empatica e le risposte affettive su base empatica non richiedono che la vittima sia materialmente presente. Poiché gli esseri umani hanno la capacità di rappresentarsi gli eventi e di immaginarsi al posto di un'altra persona, e poiché gli eventi rappresentati hanno il potere di evocare risposte af­ fettive, per avvertire sofferenza empatica tutto quel che occorre è immaginare le vittime ( come quando leggiamo delle disgrazie di qualcuno, consideriamo problemi economici o politici che comportano vittime reali o potenziali, o formuliamo giudizi à la Kohlberg su dilemmi morali ipotetici ) . Possiamo anche trasformare una questione morale astratta in una con valenza empatica immaginando, ad esempio, le vittime di una riduzione di personale e i loro sentimenti. La capacità di rappresentazio­ ne fa sì che la morale empatica trascenda gli incontri faccia a faccia tra i bambini e i membri del gruppo primario, sui quali si sono concentrate finora la maggior parte delle ricerche. In tal modo, il modello dello spettatore giunge ad abbracciare una varietà di situazioni il cui limite non è dato dalla presenza della vittima ma dall'immaginazione dell'osservatore. Come il modello dello spettatore è l'incontro morale pro­ totipico per ciò che riguarda l'empatia, e specialmente la soffe­ renza empatica, così il modello della trasgressione è l'incontro morale prototipico per ciò che riguarda il senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia (contrapposto al senso di colpa dello spettatore per inazione) . Il modello della trasgressione, inoltre, pone l 'accento sulla prima socializzazione del bambino nella famiglia ed è l 'incontro prototipico per l'interiorizzazione morale. Le questioni morali sono le seguenti: che cosa motiva una persona a evitare di danneggiare gli altri e a tener conto 29

delle loro necessità, anche quando esse sono in conflitto con le proprie? Quando arrechiamo danno a qualcuno, ci sentiamo poi colpevoli? Quando pensiamo di agire in un modo strumen­ tale e interessato, che sappiamo potrà danneggiare qualcuno (benché non sia questa la nostra intenzione), ci aspettiamo di provare sofferenza empatica e senso di colpa? E che cosa si intende esattamente per interiorizzazione morale? Questi temi sono trattati nella seconda parte del libro (capp. V e VI) . Il senso di colpa e l'interiorizzazione morale sono al centro del capitolo quinto, nel quale descrivo il senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia, presento i dati che dimostrano che esso esiste e che agisce come motivazione morale prosociale, e avanzo delle ipotesi sui processi di sviluppo che intervengono nella sua formazione. Sottolineo anche l'importanza dell'interio­ rizzazione morale, che definisco semplicemente così: la struttura morale prosociale di una persona è interiorizzata quando essa l'accetta e si sente obbligata a rispettarla a prescindere da san­ zioni esterne; in altri termini, le ricompense e le punizioni che prima facevano sì che la persona tenesse conto degli altri hanno perso la maggior parte della loro forza, ed essa sente che la motivazione a tenere conto degli altri scaturisce autonomamente dal suo interno. Nello stesso capitolo sono analizzate le varie concezioni dell'interiorizzazione morale: dalla teoria freudiana alle teorie dell'apprendimento sociale, dello sviluppo cognitivo, dell'attribuzione, dell'elaborazione delle informazioni. Di queste concezioni, quelle che mi sono apparse più utili trovano posto nella teoria dello sviluppo del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale esposta nel capitolo sesto. La mia definizione di motivazione morale interna è che essa: a) ha un carattere irresistibile e obbligatorio; b) è qualcosa che sentiamo provenire dall'interno; c) ci fa sentire colpevoli quando com ­ piamo o consideriamo la possibilità di compiere delle azioni che danneggiano gli altri; d) fa sì che teniamo conto dei bisogni degli altri anche quando sono in conflitto con i nostri. Quando questo conflitto ha luogo, i processi attivatori dell'empatia che agiscono nella situazione dello spettatore possono non avere abbastanza forza da motivare una persona ad agire in modo prosociale. Per creare motivazioni prosociali sufficientemente forti da operare in situazioni di conflitto, i genitori devono attivamente socializzare il bambino al rispetto per gli altri. 30

I genitori interagiscono con il bambino in vari modi, ma solo negli incontri di tipo disciplinare essi creano le interconnessioni necessarie per il senso di colpa e per l'interiorizzazione morale: vale a dire, le interconnessioni tra le motivazioni egoistiche del bambino, il suo comportamento e i danni che ne conseguono per gli altri. E solo negli incontri disciplinari i genitori solleci­ tano il bambino a controllare il proprio comportamento e tener conto dei bisogni e dei diritti altrui. Se i genitori lo fanno in modo appropriato, possono far vivere ai loro figli l'esperienza di controllare la propria condotta attraverso l'elaborazione attiva delle informazioni sulle conseguenze delle proprie azioni per gli altri; esperienza che favorisce lo sviluppo di una motivazione interna, fondata sull'empatia, a tener conto degli altri. Farlo in modo appropriato vuoi dire ricorrere a un atto di induzione quando il bambino nuoce o è sul punto di nuocere a qualcuno. L'induzione mette in risalto sia la sofferenza della vittima sia il comportamento del bambino che l'ha provocata e, come è stato dimostrato, contribuisce allo sviluppo del senso di colpa e all'interiorizzazione dei principi morali. La mia spiegazione è questa: le pratiche disciplinari del genitore comprendono quasi sempre elementi di affermazione del potere e di ritiro dell'amore che sollecitano il bambino o la bambina a prestare attenzione al genitore: se la sollecitazione è debole può accadere che il bambino ignori il genitore; se è eccessiva è possibile che le emozioni suscitate nel bambino (ostilità, timo­ re) gli impediscano di elaborare efficacemente le informazioni dell'induzione e di concentrare l'attenzione sulle conseguenze che le sue azioni hanno su lui stesso. Un'induzione che si adatti al livello cognitivo del bambino e lo solleciti solo quanto basta perché elabori l'informazione dell'induzione e ponga mente alle conseguenze delle sue azioni per la vittima, può suscitare sofferenza empatica e senso di colpa (tramite i meccanismi di attivazione descritti sopra) . In questo modo i genitori possono approfittare di un alleato già presente nel bambino - la sua inclinazione all'empatia - e creare una motivazione morale capace di competere con le sue motivazioni egoistiche. Quando il bambino sperimenta, più e più volte, la sequen­ za che comincia dalla trasgressione, segue con l'induzione da parte dei genitori, a sua volta seguita dalla sofferenza empatica e dal senso di colpa, si crea uno script (copione) della forma 31

Trasgressione ---7 Induzione ---7 Senso di Colpa, cui la sofferenza empatica e il senso di colpa conferiscono forza motivazionale. Quando uno script è attivato per la prima volta in una situazione di conflitto con gli altri, la sua componente motivazionale può non avere forza sufficiente a vincere la prospettiva del benefi­ cio egoistico. Ma lo script può rafforzarsi con la ripetizione e, quando si combina con lo sviluppo cognitivo e la pressione dei pari, può diventare efficace. La pressione dei pari obbliga infatti il bambino a rendersi conto che anche gli altri hanno diritti; la cognizione lo mette in grado di comprendere il punto di vista altrui; la sofferenza empatica e il senso di colpa lo motivano a tenere conto dei diritti e dei punti di vista degli altri. Questi scripts morali prosociali non sono acquisiti in modo passivo; al contrario, sono costruiti attivamente dal bambino in un processo continuo nel quale egli compone, sintetizza e organizza semanticamente le informazioni dell'induzione, met­ tendole in rapporto con le proprie azioni e con la situazione della vittima. Questa elaborazione mentale attiva fa sì che i processi cognitivi e affettivi interni del bambino divengano per lui salienti, e che il bambino percepisca gli scripts e la norma implicita di tenere conto degli altri come sue costruzioni e come parte del suo sistema motivazionale interno. L'intervento dei genitori non è più necessario; per attivare gli scripts, ora della forma Trasgressione ---7 Senso di Colpa, è sufficiente che il bambino sia consapevole di nuocere a qualcuno. Una volta che lo script sia stato attivato, il bambino percepisce il senso di colpa associato allo script e la motivazione a riparare il danno come provenienti dal suo interno. Lo script può essere attivato prima del compimento di un'azione da pensieri e immagini che il bambino, o la bambina, può avere circa i suoi effetti dannosi, e il senso di colpa anticipatorio che ne risulta crea una motivazione a non commettere l'azione; se poi il bambino la commette si sentirà colpevole. In breve, il capitolo sesto illustra le precondizioni dello sviluppo di una precoce motivazione morale a tenere conto degli altri anche quando i loro bisogni sono in contrasto con i nostri. Esperienze successive di vario genere estendono que­ sta motivazione ad aree della vita di cui non si era trattato in famiglia; queste esperienze creano anche abilità e competenze che rafforzano la motivazione e contribuiscono a collegarla 32

con principi morali relativamente astratti, come il prendersi cura e la giustizia. Il capitolo sesto presenta inoltre le prove empiriche della teoria e affronta la questione della direzione degli effetti. Non dovrebbe sorprendere che, una volta acquisiti, gli scripts Trasgressione � Senso di Colpa possano attivarsi e suscitare nel bambino questo sentimento ogni volta che egli crede di avere trasgredito, che sia vero o no. A questo senso di colpa virtuale, e agli atti dannosi che presuppone, diamo il nome di trasgressioni virtuali. La nozione di senso di colpa virtuale non è nuova; una delle definizioni del termine guilt secondo il Webster's Ninth New Collegiate Dictionary è: «senso di colpa, specialmente per violazioni immaginarie». Il capitolo settimo illustra e spiega alcune varianti del senso di colpa vir­ tuale. n primo tipo, il senso di colpa «re/azionale» , può essere endemico delle relazioni strette, giacché esse offrono innu­ merevoli opportunità non solo per ferire l'altro ma anche per credere di averlo ferito. n legame tra i membri della relazione è tale che i sentimenti e gli stati d'animo dell'uno dipendono strettamente da quelli dell'altro e dalle sue azioni. Inoltre, cosa più importante, ognuno dei due sa che l 'altro dipende da lui allo stesso modo, sicché può sviluppare un'acuta sensibilità per le ripercussioni che le sue parole e le sue azioni possono avere sull'altro. Può dunque apparire ragionevole che quando l'uno è triste o scontento e non ne è chiara la causa, l ' altro non solo provi sofferenza empatica ma si senta anche responsabile di quella condizione; se fosse certo della propria innocenza potrebbe anche non sentirsi colpevole, ma ciò presuppone l'esistenza di accurate registrazioni mentali delle interazioni con l 'altro - una forma di contabilità emozionale poco comune nelle relazioni strette. Un altro tipo di senso di colpa virtuale - il senso di colpa per assunzione di responsabilità si ha quando una persona si sente responsabile del danno sofferto da qualcun altro, anche se i fatti mostrano chiaramente che non ne è la causa. Ciò che accade, si direbbe, è che la persona risponde empaticamente alla sofferenza della vittima, ripercorre mentalmente gli even­ ti, conclude che se avesse agito diversamente avrebbe potuto impedire l'incidente, passa dall'avrei potuto all'avrei dovuto, si rimprovera e si sente colpevole. -

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Mentre le relazioni strette e le posizioni di responsabilità sono il contesto nel quale nascono il senso di colpa relazio­ nale e per assunzione di responsabilità, il perseguimento degli obiettivi e degli interessi che accompagnano normalmente lo sviluppo è il contesto più adatto per le trasgressioni virtuali che creano un «senso di colpa evolutivo». Un ragazzo può credere che se lascia la famiglia per andare all 'università farà soffrire i genitori senso di colpa per la separazione ; un altro può pensare che se fa meglio dei suoi compagni li farà sentire inadeguati senso di colpa per il successo. Ci si può sentire in colpa anche per la propria ricchezza, cioè perché si gode di benefici che altri non hanno senso di colpa per la ricchezza. Benché anche gli adulti possano sentirsi in colpa per il pro­ prio benessere economico, associo questo tipo di sentimento allo sviluppo perché sembra più frequente fra gli adolescenti (almeno così era negli scorsi anni Sessanta) e perché per co­ loro che lo sperimentano può avere un ruolo importante nello sviluppo morale prosociale. Come è noto, gli individui che vedono un altro morire o essere ferito o incorrere in qualche disgrazia (a causa di guerre, attentati terroristici, disastri naturali, tagli di personale) , mentre loro restano incolumi, spesso si sentono colpevoli di essersi salvati. Il senso di colpa si compone di emozioni in conflitto: gioia per la sopravvivenza, dolore empatico per le vittime. Se a ciò si aggiunge il segreto sollievo che il peggio sia toccato a qualcun altro, il risultato sarà un doloroso senso di colpa - il senso di colpa per la sopravvivenza. Questo sentimento può essere la risposta alla domanda: «Perché io, perché mi sono salvato proprio io e non qualcun altro?». Ciò che questo inter­ rogativo rivela, e ciò che il senso di colpa per la sopravvivenza può avere in comune con il senso di colpa per la ricchezza, è l'impossibilità di giustificare il proprio privilegio nei confronti della vittima. Il proprio privilegio viola il principio di equità o reciprocità, e la consapevolezza del privilegio può trasformare la sofferenza empatica per la vittima in un sentimento empatico di ingiustizia e in un sentimento di colpa. La larga diffusione del senso di colpa per il proprio privilegio o per la propria sopravvivenza, nonché gli altri tipi di senso di colpa virtuale, confermano la mia convinzione che gli esseri umani, almeno nella nostra società, siano «macchine per il senso di colpa». -

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n capitolo ottavo passa dal ruolo della motivazione empatica nell' agire morale prosociale alle sue limitazioni, dovute al fatto che l'empatia dipende dall'intensità e dalla salienza dei segnali di sofferenza, e dalla relazione tra l'osservatore e la vittima. Una limitazione è che anche se a tutta prima si può pensare che l'attivazione empatica sia maggiore quanto più i segnali di sofferenza sono salienti, se questi lo sono all'estremo possono risultare talmente aversivi da trasformare la sofferenza empatica dell'osservatore in un vivissimo sentimento di sofferenza per­ sonale. Questa sovrattivazione empatica (empathic over-arousa[) può far sì che gli osservatori abbandonino la modalità di risposta empatica, si concentrino sulla propria sofferenza e distolgano la loro attenzione dalla vittima. Un'eccezione è quella delle persone coinvolte in una relazione di aiuto (terapeuta-paziente, genitore-figlio); in questo caso, la sovrattivazione empatica può rafforzare la sofferenza empatica e la motivazione ad aiutare la vittima. La seconda limitazione è la vulnerabilità dell'empatia a due tipi di bias: il bias di familiarità (jamiliarity bias) e il bias di immediatezza (here-and-now bias). Anche se le persone tendono a rispondere in modo empatico a chiunque (o quasi) mostri sofferenza, esse tendono a favorire sistematicamente le vittime che fanno parte della loro famiglia o del loro gruppo primario, o sono amici stretti o hanno caratteristiche simili alle loro (bias di familiarità), come pure le vittime presenti nella situazione immediata (bias di immediatezza) . L a vulnerabilità dell'empatia alla sovrattivazione e a questi bias può non essere un grande problema in società confinate al «gruppo primario», piccole e omogenee come sono, o in incontri morali come quelli dello spettatore e del trasgressore (reale o virtuale) , quando la vittima è una sola. A guardar bene, è pos­ sibile che queste limitazioni racchiudano una virtù nascosta: se le persone rispondessero empaticamente a chiunque mostrasse sofferenza e cercassero di aiutare tutti allo stesso modo, l'esito per la società potrebbe essere la paralisi. Da questo punto di vista, il fatto che l'empatia sia soggetta a bias e alla sovrattivazione può essere un'estrema risorsa di autoregolazione e autoprote­ zione dell'empatia, il che concorda con le crescenti prove che la capacità di regolare le emozioni sia correlata positivamente con l'empatia e con il comportamento di aiuto.

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Nondimeno, la sovrattivazione e specialmente i bias dell'em­ patia possono creare problemi negli incontri che implicano più parti morali e quando il prendersi cura degli altri è in conflitto con le esigenze della giustizia. Questi problemi possono ridursi, secondo la mia ipotesi, se l'empatia è «incorporata» in un prin­ cipio morale con il quale sia congruente, giacché la dimensione cognitiva del principio renderà l'empatia più strutturata e più stabile. Il capitolo nono mette in relazione l'affetto empatico con i principi morali dominanti nella società occidentale: il prendersi cura e la giustizia. Che l'empatia sia congruente con il prendersi cura è ovvio. Essa però è congruente anche con alcuni aspetti della giustizia penale, che implica l'esistenza di vittime; questo è un punto che analizzeremo brevemente. La maggior parte del capitolo riguarda la giustizia distributiva, che considera come dovrebbero essere allocate le risorse della società - in parti uguali oppure secondo il «bisogno», l' «impegno» o il «merito» (la competenza, la produttività). L'empatia è congruente con tutti questi principi di giustizia, ma di meno con la competenza e la produttività. La mia tesi che l'attivazione empatica possa modificare le preferenze di una persona in fatto di giustizia distributiva può essere argomentata, in breve, come segue: se un individuo considera come dovrebbero essere distribuite le risorse della società, un punto di vista interessato gli farà preferire i principi che coincidono con la sua condizione: chi produce molto sceglierà il merito, chi produce poco sceglierà il bisogno o l'uguaglianza. Se si attiva l'empatia, si terrà conto del benessere altrui e anche chi produce molto potrà preferire il bisogno o l'uguaglianza - o , più probabilmente, il merito regolato in modo da evitare la povertà estrema (bisogno) e le eccessive disparità di ricchezza ( uguaglianza). Il merito regolato è al centro della teoria della giustizia del filosofo John Rawls; mi riferisco, in particolare, al «principio di differenza», che annette grande importanza al modo in cui sono trattati i membri «meno favoriti» della società. Rawls fa appello a un «velo di ignoranza» che obbliga le persone, che egli immagina impegnate nella costruzione della società da una prospettiva razionale e totalmente interessata - senza però conoscere il proprio posto nella società -, ad assicurarsi che i bisogni delle persone meno favorite siano tenuti in conto. Ma 36

il velo di ignoranza di R.awls ha anche un'altra finalità: quella di escludere l'empatia, così che il principio di differenza sia fondato su basi puramente razionali e volte alla tutela dei propri interessi. L'impostazione di R.awls è ammirevole, ma molte pagine di questo capitolo sono dedicate a dimostrare che l'empatia e il velo di ignoranza sono in effetti funzionalmente equivalenti, anche se operano in contesti diversi. In virtù della congruenza dell'empatia con la giustizia, le persone provano empatia per le vittime di ingiustizie (ad esem­ pio, persone che siano state defraudate dei loro guadagni o i cui diritti siano stati violati). E, quando provano empatia, possono essere consapevoli tanto del proprio sentimento empatico verso la vittima (sofferenza empatica, senso di colpa, rabbia empati­ ca, sentimenti empatici di ingiustizia), quanto del principio di giustizia in gioco. La contemporanea attivazione di un affetto empatico e di un principio morale crea una connessione, un legame tanto più forte quanto più tale co-occorrenza si ripete. Così, anche quando li si incontra in contesti didattici, «fred­ di», i principi morali possono acquisire le proprietà affettive e motivazionali dell'empatia, e trasformarsi in rappresentazioni con un carico emozionale o in cognizioni prosociali «calde». Questo concetto di cognizione «calda» ha due implicazioni. In primo luogo, quando un principio morale viene successivamente attivato in un incontro morale o in contesti didattici o di ricerca, si attiva anche l'affetto empatico. Esso avrà due componenti: una componente derivante dallo stimolo (la sofferenza della vittima) e una componente derivante dal principio. Quest'ulti­ ma avrà un effetto «accrescitivo» o «diminutivo» sull'intensità della componente derivante dallo stimolo, e così renderà meno probabile la sovrattivazione (o la sottoattivazione) empatica e contribuirà a stabilizzare l'affetto empatico dell'individuo nelle varie situazioni. La seconda implicazione è che i modelli dello spettatore e della trasgressione devono essere ampliati in modo da includere non solo l'affetto empatico suscitato dalla sofferenza della vittima, ma anche i principi morali che possono essere attivati da tale sofferenza e che possono aiutare a stabilizzare l'affetto empatico dello spettatore o del trasgressore. Alla base di gran parte dei principi di giustizia c'è la reci­ procità: le buone azioni dovrebbero essere premiate, le cattive punite; la pena dovrebbe essere proporzionata al delitto. La 37

reciproctta non e Intrinsecamente prosociale, giacché inclu­ de sia l' «occhio per occhio» sia l'idea che «chi lavora sodo dovrebbe essere premiato», ma può divenire prosociale se si associa con l'empatia, come quando il trattamento iniquo di una persona viola la reciprocità. In tal caso, la reciprocità può acuire la sofferenza empatica dell'osservatore e trasformarla in un sentimento empatico di ingiustizia. Infine, da sola o incorporata in un principio morale, l'em­ patia può svolgere un ruolo importante nel giudizio morale. L'argomento fondamentale è stato formulato oltre due secoli fa da David Hume: ovviamente, approviamo le azioni che accre­ scono il nostro benessere e condanniamo quelle che possono danneggiarci; perciò, se proviamo empatia per qualcun altro, approveremo o condanneremo le azioni che lo aiutano o che lo danneggiano; e, salvo essere oltremodo insensibili, se vedia­ mo una persona che fa deliberatamente soffrire qualcun altro, proveremo indignazione (rabbia empatica) . Aggiungo che la maggior parte dei dilemmi morali che si incontrano nella vita possono suscitare empatia perché implicano vittime - visibili o meno - delle azioni, nostre o di un altro, che ci troviamo a giudicare. L'empatia può influenzare il giudizio morale su noi stessi o sugli altri direttamente oppure indirettamente, attraverso i principi morali da essa attivati. Gli studi sullo sviluppo della giustizia distributiva, nei quali ai bambini viene chiesto di assegnare dei premi a destinatari che differiscono per produttività o per altri aspetti, indicano chiaramente ciò che appare equo ai bambini secondo l'età. Que­ sti studi, presentati nel capitolo decimo, mostrano una chiara tendenza evolutiva: i bambini in età prescolare distribuiscono i premi secondo il proprio interesse; quelli di 4 o 5 anni mostra­ no una marcata preferenza per una ripartizione egualitaria dei premi; per i bambini di 8, 9 o più anni, diventa man mano più importante che i premi siano proporzionati al rendimento o al rendimento integrato con il bisogno (povertà) . I bambini più grandi, poi, applicano principi di giustizia differenti secondo il contesto: essi privilegiano la produttività nel premiare il lavoro, l'equità nel caso di votazioni 1, una combinazione di uguaglianza 1

Per la descrizione di questa ricerca si veda il primo paragrafo del cap.

1 0 e relativa nota.

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e bisogno quando si tratta di aiutare qualcuno. Verso gli 1 1 o 12 anni, essi antepongono la «produttività» al «bisogno» nel caso degli estranei, ma equiparano i due principi nel caso de­ gli amici e, non diversamente dagli adulti, trattano allo stesso modo un amico bisognoso e un estraneo produttivo. Vi sono pochi studi evolutivi sul ruolo dell'empatia nel­ la giustizia. La mia ipotesi è che la socializzazione a favore dell'uguaglianza prenda le mosse dalle induzioni dei genitori in materia di condivisione e di rispetto del proprio turno. L' «ugua­ glianza» è incoraggiata anche dalle educatrici della scuola ma­ terna e dell'asilo nido e dalla pressione diretta dei compagni, desiderosi di ricevere la propria parte. Io penso che anche la socializzazione a favore dell'«impegno» cominci nell'ambiente domestico, ma che non sia sistematica fino all'inizio della scuola primaria, quando viene valutato il rendimento scolastico del bambino e viene premiato il miglioramento personale, che, prima di ogni altra cosa, esige impegno. La socializzazione a favore della «produttività» e della «competenza» ha inizio sul serio nelle classi quarta e quinta, quando la valutazione del rendimento scolastico si basa sul confronto con i compagni, e prosegue negli anni successivi sia a scuola sia nel mondo del lavoro. Queste esperienze di socializzazione si aggiungono alle esperienze dirette che il bambino ha sulla giustizia, come la sofferenza che prova quando viene trattato in modo iniquo (ad esempio, quando i suoi sforzi non vengono premiati ) , l'osser­ vazione che anche gli altri soffrono quando vengono trattati in quel modo, le sue risposte empatiche alla sofferenza. Queste esperienze dirette si basano sugli scripts trasgressione-senso di colpa relativi alla condivisione, che il bambino acquisisce, col loro carico empatico, in famiglia. Ne risulta una rete di esperienze che sono la materia prima con cui il bambino può costruire forme sempre più complesse di preoccupazione (concern) per gli altri e di senso dell'equità basati sull'empatia. Grazie al linguaggio, il bambino potrà classificare certi atti come moralmente inaccettabili o iniqui e, infine, dar loro la forma di principi di giustizia generali e astratti ma ancora carichi di affetto empatico. Il linguaggio permette poi che il bambino, da solo o par­ lando con altri, cominci a costruire ragionamenti morali sulla 39

base delle interpretazioni, spiegazioni e risposte emozionali degli adulti, come pure delle proprie risposte cognitive ed emozionali come spettatore e vittima. Il bambino non costrui­ sce il proprio codice morale da zero, come sostengono alcuni psicologi dello sviluppo cognitivo, ma ha comunque un ruolo attivo nel ricostruire e interpretare le norme morali, usando le informazioni trasmesse dagli adulti e la propria esperienza. Tutto ciò può essere descritto come una divisione del lavoro tra le induzioni dei genitori, che trasmettono regole di equità e hanno la forza dell'autorità, la capacità di decentramento del bambino e la sua preferenza per la reciprocità, e le interazioni con i pari che mettono l'accento sull'uguaglianza: i pari, con le proprie pretese, costringono il bambino a rendersi conto che i suoi desideri non sono la sola cosa che conta; il decentramento e la reciprocità gli permettono di comprendere le ragioni delle pretese altrui; le induzioni, agendo sulla tendenza naturale del bambino all'empatia, lo rendono ricettivo a queste pretese. I concetti di equità fondati sull'empatia che si formano in que­ sto modo sono ulteriormente plasmati dai valori trasmessi da genitori, pari, insegnanti, religioni, mezzi di comunicazione. Grazie a queste esperienze, i bambini acquisiscono familiarità con le forme elementari dei principi di cura e di giustizia della nostra società. Questi processi sono solo occasionali prima dell' adole­ scenza, quando l'individuo è iniziato più «formalmente» ai J? rincipi morali che dovrebbero guidare il comportamento. E in questo momento, se mai ve ne è uno, che il ruolo attivo dell'individuo nella costruzione di un codice morale, visibile in tutta la fanciullezza, viene in primo piano. La materia prima continua ad essere frutto della socializzazione, nel modo già visto. Essa include scripts di giustizia/equità carichi di affetto empatico, costruiti negli incontri disciplinari attraverso indu­ zioni riguardanti la condivisione e l'impegno, e arricchiti dalle esperienze personali emotivamente salienti vissute in qualità di spettatore o vittima e dall'influenza dei mezzi di comunicazione. La persona riflette e ragiona su di essi, e nelle discussioni (spe­ cialmente con i pari) può analizzarli, interpretarli, confrontarli e contrapporli, e, infine, accettarli o rifiutarli, costruendo così un proprio sistema di principi morali generali e, entro certi limiti, astratti, ma con un forte carico emotivo. 40

Una volta che una persona abbia interiorizzato un principio di cura o di giustizia e si sia impegnata a rispettarlo, si sia resa conto di avere scelta e contr('Jllo, e si sia assunta la responsa­ bilità delle proprie azioni, ha raggiunto un nuovo livello. La persona può ora tenere conto degli altri e agire con equità nei loro confronti, non solo a causa dell'empatia, ma anche come espressione di principi interiorizzati, come affermazione del proprio sé. Sente che tenere conto degli altri e agire con equità nei loro confronti sono doveri o responsabilità personali. In q ualche caso, questo nesso tra il sé, i principi e il dovere può discendere da un «evento scatenante» di forte impatto emotivo (ad esempio, una gravissima ingiustizia) che induce a riconsiderare le proprie scelte di vita e può dare origine a una nuova prospettiva morale e a un nuovo senso di responsabilità sociale. Seguire un principio morale non sempre equivale a con­ formare le proprie azioni a quel principio. Spesso gli incontri morali implicano più parti morali (multiple claimants), situazioni in cui uno spettatore si trova a dover scegliere quali vittime aiutare, e vi sono incontri che implicano un conflitto tra il prendersi cura e la giustizia. I due tipi di incontro morale sono considerati nel capitolo undicesimo. Ecco alcuni dilemmi del prendersi cura che implicano più parti morali: delle persone rischiano di annegare o sono intrappolate in un edificio in fiamme e i soccorritori devono scegliere chi aiutare; un medi­ co deve decidere se praticare un aborto (dove le parti morali sono il feto, l'adolescente incinta e i genitori dell ' adolescente) ; un avvocato deve decidere se difendere u n uomo che ritiene colpevole di omicidio (qui le parti morali sono l'imputato, che ha diritto a una difesa legale; le sue possibili vittime, se viene rimesso in libertà; i familiari della vittima, che desiderano sia punito); il caso ipotetico di Kohlberg, nel quale un addetto alla difesa antiaerea della Seconda guerra mondiale deve scegliere se restare al suo posto o abbandonarlo per correre in aiuto della famiglia in un quartiere appena bombardato; il dilemma analogo - però reale - dell'infermiera che mentre soccorreva una vittima dell'attentato di Oklahoma City sentì l'esplosione della seconda bomba. La questione etica posta da questi dilemmi è quale sogget­ to dovrebbe essere aiutato. La questione scientifica è chi sarà 41

aiutato. La risposta della biologia evoluzionistica è semplice: in generale, aiutiamo le persone con cui abbiamo in comune più geni. La risposta della psicologia è che quando la parte morale è una sola, proveremo empatia verso chiunque (o quasi) stia soffrendo (cap. m. Quando vi sono più parti morali, proba­ bilmente proveremo empatia nei confronti dei familiari e di chiunque altro susciti un bias di familiarità o di immediatezza ( due bias associati all'empatia; vedi il cap. VIII) , anche se potremo sentirei colpevoli verso coloro che non aiutiamo. In altri termini, la biologia evoluzionistica asserisce che aiutiamo coloro che condividono i nostri geni; la psicologia, che aiutiamo coloro che fanno parte del nostro gruppo primario. Ma il fatto che condividiamo più geni con coloro che appartengono al nostro gruppo primario pone alcuni interrogativi. La risposta della psicologia è essenzialmente la stessa della biologia evo­ luzionista? I bias cui è soggetta l'empatia sono l'equivalente funzionale della condivisione dei geni di un altro individuo? La risposta a queste domande può essere in entrambi i casi positiva, posto che l'empatia derivi dalle pressioni della selezione naturale nell'evoluzione umana [Hoffman 1 9 8 1 ] . In ogni caso, nelle situazioni che implicano più parti morali, l'empatia può non essere abbastanza. Kant e i suoi eredi, Rawls e Kohlberg compresi, sosten­ gono che il prendersi cura è subordinato alla giustizia perché di solito è personale e particolaristico, implica decisioni di tipo affettivo piuttosto che razionale, e manca delle proprietà formali della giustizia. Io preferisco considerare il prendersi cura e i diversi tipi di giustizia come «tipi ideali» che possono presentarsi in gradi diversi in tutte le situazioni. Quando il prendersi cura e la giustizia si presentano assieme possono essere congruenti. Essi possono anche entrare in conflitto, come quando le suppliche di uno studente convincono un professore che la sua «vita sarà distrutta» se non ottiene un bel voto; o quando uno studente chiede a un amico le domande di un esame che quest'ultimo ha appena sostenuto; o come nel dilemma di Kohlberg, ispirato ai Miserabili, nel quale un uomo ruba la medicina che può salvare la vita della moglie. Nei due ultimi dilemmi che abbiamo presentato sopra ( il dilemma dell'addetto alla difesa antiaerea e quello dell'infer­ miera di Oklahoma City) , si può riconoscere un conflitto fra 42

il prendersi cura e la giustizia, se classifichiamo le violazioni del dovere o della responsabilità di una persona come atti ingiusti o come casi di mancata reciprocità tra la condotta e le richieste del ruolo. Per illustrare gli incontri che implicano più parti morali e quelli in cui cura e giustizia sono contrapposte, ricorrerò al dilemma di un professore cui viene chiesto di scrivere una lettera di raccomandazione per uno studente - bravo ma non eccellente - che aspira a un importante posto di lavoro. Se il professore è buon amico dello studente e ha altre informazio­ ni su di lui (ad esempio, sa che ha un fratello malato), potrà esprimere un giudizio molto favorevole. Ma la situazione si complica se il professore prova empatia anche per il collega che è alla ricerca di un candidato particolarmente brillante, o per gli altri candidati sconosciuti che hanno anch'essi bisogno di quel posto. Il dilemma, fino a questo punto, si limita al prendersi cura, ma vi è spazio anche per le questioni di giu­ stizia: il sistema accademico tiene in gran conto il merito Oa produzione scientifica, la competenza) e l'integrità del sistema richiede che le raccomandazioni per un posto di lavoro siano veritiere (che è quanto il collega del professore si aspetta anche in questo caso). Il dilemma fra il prendersi cura e la giustizia si acuisce se il professore dubita che lo studente sia il candidato più qualificato. Se nella sua lettera, in spirito di «giustizia», il professore rivela schiettamente i difetti dello studente, con­ traddice il «prendersi cura» e può provare un senso di colpa empatico per avere tradito lo studente. Se l'empatia per lo studente prevale e il professore scrive una lettera che evidenzia le sue virtù e ne minimizza i difetti, contraddice la «giustizia» e può sentirsi in colpa per questo. Se è vero che la nostra società tiene in gran conto il pren­ dersi cura e la giustizia e che la socializzazione dei bambini prowede all'interiorizzazione di entrambi, e se sono corrette le mie tesi sul nesso tra l'empatia, la cura e la maggior parte dei principi di giustizia, ne segue che il sistema motivazionale degli individui più maturi e con una più profonda interiorizzazione morale sarà caratterizzato dalla presenza di principi di cura e di giustizia carichi di empatia. Questi individui tenderanno perciò a essere sensibili tanto alla dimensione del prendersi cura quanto a quella della giustizia, e ad essere vulnerabili alla 43

sofferenza empatica, al senso di colpa anticipatorio e ad altre emozioni empatiche associate al dilemma tra più parti morali e a quello fra cura e giustizia. Vi sono due cose che la psicologia - ma non la biologia evoluzionistica - può fare: sottoporre questi dilemmi a inda­ gine sperimentale e suggerire il modo di ridurre i bias cui è soggetta l'empatia. Il capitolo undicesimo prende in esame la ricerca sperimentale, il tredicesimo offre alcuni suggerimenti per ridurre quei bias attraverso l'educazione morale. Il capitolo dodicesimo affronta la questione se la teoria esposta in questo libro sia universale o se può valere solo per la nostra cultura. A parte l'argomentazione evoluzionistica e le prove che la sofferenza empatica è una motivazione prosociale universale prodotte dalla ricerca su cervello e comportamento, nel capitolo dodicesimo sostengo che il sé, che svolge un ruolo centrale nella mia teoria dello sviluppo dell'empatia, sia un sé universale e non , come alcuni autori sostengono, una costruzione occiden­ tale, e che gli stadi dello sviluppo dell'empatia siano con ogni probabilità anch'essi universali, giacché concordano con quel che sappiamo sul cervello e sullo sviluppo cognitivo. Nello stesso capitolo sostengo anche che le modalità di attivazione dell'em­ patia sono universali, cioè che ciascuna di esse può suscitare una risposta empatica in chiunque, indipendentemente dalla cultura di appartenenza, in modo automatico e involontario per le forme elementari (mimesi, condizionamento e associa­ zione diretta) e in modo più dipendente dalla cultura per le forme più esigenti sul piano cognitivo (associazione mediata e assunzione di ruolo) . L'universalità del modello della trasgressione - il ruolo dell'induzione nella socializzazione del senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia, e il funzionamento del senso di colpa come motivazione morale prosociale - ha fondamen­ ta meno solide. In tutti i paesi del mondo gli adulti devono trovare necessario, a volte, modificare il comportamento dei bambini contro la loro volontà, ma la maggior parte delle prove empiriche sul ruolo dell'induzione nel senso di colpa per trasgressione e nell 'interiorizzazione morale riguarda gli statunitensi bianchi di classe media. Qui mi propongo di sostenere, provvisoriamente e fino a prova del contrario, che l'induzione e l'affermazione del potere influenzano (la prima 44

positivamente, la seconda negativamente) il senso di colpa per trasgressione, l'interiorizzazione morale e il comportamento prosociale - almeno nelle società fondate sulla famiglia nucleare, nelle quali gli incontri disciplinari, l'affermazione del potere e l'induzione sono frequenti e i concetti di senso di colpa per trasgressione e di interiorizzazione morale sono significativi. In definitiva, credo che vi siano più ragioni per pensare che la morale empatica sia universale che non il contrario. In una cultura fondata sul prendersi cura e sulla maggior parte dei principi di giustizia la morale empatica dovrebbe promuovere il comportamento prosociale e scoraggiare l'aggressività. M a essa non opera nel vuoto, e nelle società multiculturali e con rivalità tra gruppi, la morale empatica, a causa del bias di fa­ miliarità dell'empatia, potrebbe anche contribuire alla violenza tra gruppi. Ma la morale empatica può trovare ostacoli anche all'in­ terno di un gruppo: può essere soffocata da pratiche edu­ cative basate sull'affermazione del potere e da altre norme culturali rigide e intransigenti, o sopraffatta dalle potenti motivazioni egoistiche all'opera negli individui. La morale empatica, pur essendo una motivazione morale prosociale universale, è dunque fragile (l'Olocausto è pur avvenuto ) . Tuttavia, all 'orizzonte non v'è nulla d i meglio d i una morale empatica legata alla reciprocità e a certi principi di giustizia (cap. IX) . La combinazione di empatia, reciprocità e giustizia non è, mi sembra, universale, e per conseguirla saranno ne­ cessarie inventiva e ricerca culturale. Nel capitolo tredicesimo discuto le implicazioni della teoria per metodi di intervento che socializzino i bambini alla morale empatica e riducano la violenza tra i delinquenti minorili maschi. Suggerisco anche vari metodi per attenuare i bias empatici e per rafforzare la motivazione ad agire in modo prosociale al di là delle barriere etniche. Alcuni di questi metodi, con qualche modificazione, possono essere utili per combinare in un tutt'uno la morale empatica, la reciprocità e la giustizia. Nel capitolo tredicesimo osservo anzitutto che quel che dà un ruolo significativo alla socializzazione e all'educazione morale su base empatica è la relazione dell'empatia con la cognizione - una connessione sottolineata in tutto il libro. Alcuni suggerimenti per un intervento seguono direttamente 45

dai capitoli precedenti. Per quanto riguarda i genitori, essi comprendono induzioni frequenti combinate con qualche afferm azione di potere e molto amore; è anche importante che il genitore sia un modello prosociale, che non solo aiuta gli altri ma che, a volte, indica anche la causa della disgrazia di una vittima (per contrastare la tendenza a incolparla) ed esprime apertamente sentimenti empatici e simpatetici. Per ampliare il registro empatico dei bambini, i genitori dovreb­ bero consentirgli di sperimentare una varietà di emozioni. È possibile anche approfittare della tendenza naturale dei bambini a giocare a far finta, offrendogli scenari nei quali essi possano assumere ruoli diversi e possano sperimentare, indirettamente, esperienze emozionali - comprese le risposte empatiche alla sofferenza altrui - che altrimenti potrebbero non avere l'opportunità di vivere. Questi suggerimenti possono essere utili anche nell'ambito dell'istruzione prescolare e della scuola elementare, sempre che gli incontri disciplinari non siano troppo frequenti e distruttivi. In questi incontri, gli insegnanti possono avere la tentazione di affermare il proprio potere così da ottenere obbedienza imme­ diata: l'induzione può sembrare loro un lusso che non si pos­ sono permettere. Tuttavia, siccome in un'aula scolastica vi sono molti bambini a guardare, gli insegnanti possono trarre grande vantaggio da un 'induzione formulata nel modo appropriato e al momento giusto, e adeguata al livello di sviluppo dei bambini. Il modo in cui gli insegnanti disciplinano un bambino attaccabrighe può essere una preziosa esperienza di socializzazione prosociale per l'intera classe («effetto ripple» - un effetto espansivo analogo all'allargarsi di un'onda sulla superficie di uno stagno). I bias associati all'empatia possono indebolirsi nel corso dello sviluppo quando l'empatia viene integrata nei principi morali, giacché questi hanno un effetto stabilizzante. Ma nella società contemporanea, sempre più multiculturale, possono essere necessari sforzi maggiori da parte dei genitori e degli educatori morali per ridurre i bias cui è soggetta l'empatia e per creare la coscienza della profonda unità del genere umano. A questo scopo occorre riconoscere questi bias e insegnare ai bambini che, benché sia naturale provare più empatia per coloro che condividono le nostre esperienze, è necessario un certo grado di imparzialità empatica. Occorre anche sot46

tolineare che, a dispetto delle differenze sociali, culturali e fisiche, le risposte emozionali delle persone sono molto simili: lo sono, ad esempio, quando le persone vengono trattate in modo iniquo o attraversano crisi quali una separazione, la perdita di una persona cara, l'invecchiamento. I mezzi di comunicazione possono essere d'aiuto: i film sono un modo efficace di presentare situazioni di vita più ampie, capaci di favorire l' identificazione empatica con la vita altrui. Vedere che altri hanno preoccupazioni simili alle nostre e condividere le loro emozioni (attraverso la mimesi e altri meccanismi di attivazione empatica) , può favorire il senso di unità e l'empatia tra culture differenti. Quanto al bias di immediatezza dell'em­ patia, gli educatori morali possono insegnare al bambino - e dargli modo di sperimentare - una semplice regola generale: guardare al di là della situazione immediata e chiedersi se le proprie azioni influenzeranno un 'altra persona non solo ora ma anche in futuro, e se vi sono altre persone che potranno essere anch'esse influenzate da quelle azioni. Ultimo, ma non meno importante, è il fatto che l'educatore morale può rivolgere i bias associati all'empatia contro se stes­ si, incoraggiando i bambini a immaginare come si sentirebbe una persona cui tengono molto se si trovasse al posto degli sconosciuti o delle vittime assenti, o al posto di ciascuna delle parti coinvolte in un incontro morale complesso. L'addestra­ mento all'arte della «empatizzazione multipla» ha un duplice effetto: attiva i bias empatici n aturalmente all'opera in ogni individuo e, insieme, li contrasta. La empatizzazione multipla può ridurre la tendenza ad attribuire motivazioni negative alle persone estranee al proprio gruppo, e può rendere più civile la vita in una società multiculturale. Alcune di queste idee si sono dimostrate utili nel trattamento dei delinquenti antisociali, ma vi sono altri metodi, concepiti specificamente per accrescere l'empatia nei delinquenti, che possono essere ancora più efficaci. l . Un p rimo metodo, nella tradizione di Kohlberg, pre­ vede che i partecipanti discutano dilemmi o problemi di tipo sociomorale, in modo da stimolare l'empatia e l'assunzione del punto di vista altrui; i partecipanti devono giustificare le proprie decisioni di fronte alle obiezioni dei leader del gruppo e dei compagni di uno stadio di sviluppo più avanzato. 47

2. Un secondo metodo consiste nel ridurre l'aggressività dei partecipanti dando loro l'opportunità di assumere il punto di vista altrui in situazioni sociali. L'espressione di una lamen­ tela, ad esempio, viene suddivisa in sei passi, uno dei quali è «mostrare di comprendere i sentimenti dell'altro». 3 . Un terzo metodo usa il «mettere di fronte» (con/ronting) , un tipo di induzione che dirige l'attenzione del partecipante sui danni che le sue azioni possono arrecare ad altri membri del gruppo. L'obiettivo è contrastare l'egoismo dei partecipanti, far luce sulle loro distorsioni cognitive, suscitare e rafforzare le loro risposte empatiche. Il metodo del «mettere di fronte» obbliga l'individuo antisociale a indossare i panni dell'altro e a prendere coscienza della concatenazione di danni - comprese le conseguenze per le vittime assenti o indirette - derivante dalle sue azioni dannose. La varietà di questi metodi è impressionante. Quel che sembra mancare è un'analisi teorica che spieghi perché le procedure che producono empatia e altri effetti desiderabili durante i «trattamenti» dovrebbero essere efficaci anche nella vita quotidiana. Credo che una spiegazione siffatta potrebbe prendere le mosse dall'analisi degli effetti a lungo termine dell'induzione (cap. VI). Supponiamo ad esempio che, grazie al metodo del «mettere di fronte» e all'induzione da parte dei compagni e dei leader del gruppo, un partecipante si senta colpevole di un atto di trasgressione per la prima volta nella vita; costui formerà uno script Trasgressione � Senso di Colpa? E lo script si attiverà quando quella persona avrà la tentazione di trasgredire nella vita reale? E, in caso affermativo, lo script sarà abbastanza potente da modificare la sua condotta? Una nota metodologica

In questo libro presento una teoria generale dello sviluppo e del comportamento prosociale. È una teoria multidimensionale, che spazia dal condizionamento classico a principi di giustizia caricati di affetto empatico. Non tutti i punti toccati dalla teoria sono stati compiutamente indagati, ma nella misura in cui essa è coerente e logica (come credo che sia, benché giudicarlo tocchi al lettore), i frammenti sparsi di sostegno empirico di cui gode 48

le conferiscono una certa credibilità. Per colmare le lacune e accrescere la plausibilità della teoria, attingerò a molti aneddoti raccolti negli anni, ricavati da ricerche nelle quali i soggetti erano intervistati o rispondevano in forma scritta a domande aperte, nonché da giornali, riviste, pubblicazioni, relazioni di studenti e mie osservazioni personali. Gli aneddoti possono essere utili a condizione che non riguardino soltanto eventi isolati, ma rappresentino qualcosa che avviene spesso e siano pertinenti ai concetti in discussione. E sono particolarmente utili quando i dettagli in essi contenuti permettono non solo di descrivere un evento, ma anche di far luce sui processi su cui esso si fonda. Anche quando le ricerche non mancano, gli aneddoti possono aggiungere sfumature e suggerire varianti legate al contesto che potrebbero sfuggire alle analisi statistiche. Ecco un esempio dell'uso di aneddoti per spiegare osserva­ zioni e suggerire ipotesi di ricerca. Nel capitolo terzo descrivo una bambina di 1 0 mesi che rispondeva alla sofferenza di un'altra bambina sua coetanea con uno sguardo triste e spro­ fondando il capo nel grembo della madre, come era solita fare quando era afflitta, e un bambino di 12 mesi che nel vedere un amico in lacrime si rattristò e condusse sua madre a consolarlo, benché la madre dell'amico fosse anch'essa lì presente - un errore che un bambino più grande non avrebbe commesso. Queste osservazioni sembravano indicare che la bambina di 1 0 mesi avvertisse sofferenza empatica m a non fosse in grado di distinguerla dalla sofferenza personale; il bambino di 12 mesi, invece, distingueva tra la sofferenza empatica e quella personale e, sapendo che la persona afflitta era l'altro, si preoccupava per lui; non si rendeva però conto che l'altro bambino avrebbe preferito essere consolato dalla propria madre. Queste due osservazioni sembravano indicare l'esistenza di tre livelli di differenziazione sé-altro: a) la confusione tra il sé e l ' altro; b) il riconoscimento dell'altro come entità fisica distinta; c) il riconoscimento dell'altro come qualcuno con stati interni indipendenti dai propri. Un'ulteriore ipotesi, ancor più lontana dai dati, era che il passaggio dal primo al secondo livello di sviluppo consistesse, almeno in parte, nella trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica. Altri ricercatori hanno confermato in seguito queste osservazioni e hanno condotto studi che avvaloravano l'ipotesi della trasfor49

mazione, non in modo definitivo ma abbastanza da giustificare nuove ricerche. I buoni aneddoti possono generare ipotesi e, come spero che gli esempi precedenti dimostrino {certo lo dimostra l'opera di Piaget) , gli aneddoti possono confermare la plausibilità di un'ipotesi. Ma per determinare la validità di un'ipotesi su un processo evolutivo - come la trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica - c'è bisogno di esperimenti, correla­ zioni e, infine, studi longitudinali che impieghino modelli di equazioni strutturali e altri strumenti simili. Nello scegliere gli aneddoti di questo libro ho tenuto conto di queste esigenze, anche se, naturalmente, non tutti gli aneddoti sono ugualmente istruttivi. Posso solo sperare che gli aneddoti e il libro nel suo insieme stimolino nuovi tentativi di mettere alla prova e affinare le formulazioni teoriche.

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PARTE PRIMA

LO SPETTATORE INNOCENTE

CAPITOLO SECONDO

L'EMPATIA: ATTIVAZIONE E FUNZIONAMENTO PROSOCIALE

Siamo spettatori innocenti quando ossetviamo qualcuno che prova dolore, è in pericolo o soffre in qualunque altro modo. Questa sofferenza può implicare dolore o afflizione sul piano fisico per ferite o malattie, dolore emotivo per la perdita - reale o temuta - di una persona amata, paura di un'aggressione, ansia di fallire o di cadere in povertà, e così via. L'interrogativo mo­ rale posto da queste situazioni è se lo spettatore è motivato ad aiutare e, in caso affermativo, fino a che punto la motivazione è interessata o dipende da una sincera preoccupazione per la vittima. Il modello dello spettatore è il prototipo di incontro morale per ciò che riguarda la sofferenza empatica e altri affetti empatici ad essa collegati. Questo modello è anche il contesto della mia teoria dello sviluppo dell'empatia. In questo capitolo propongo una definizione di empatia, mostro che essa opera come una motivazione prosociale e ne illustro i meccanismi di attivazione. Nei capitoli terzo e quarto espongo la teoria dello sviluppo dell'empatia e analizzo quattro sentimenti fondati sull'empatia che fungono anch'essi da motivazioni prosociali: la sofferenza simpatetica, la rabbia empatica, il senso di ingiustizia empatico e il senso di colpa per inazione. I capitoli successivi prendono in esame altri tipi di incontri morali. l.

Definizione di empatia

Gli psicologi hanno definito l'empatia in due modi: a) come una forma di consapevolezza cognitiva degli stati interni di un'altra persona - pensieri, sentimenti, percezioni, intenzioni (per lo stato dell'arte vedi Ickes [ 1997 ] ) ; b) come una risposta affettiva di tipo vicario a un'altra persona. Questo libro si oc­ cupa del secondo tipo di empatia, l'empatia affettiva. Quello di 53

empatia affettiva sembra un concetto nient' affatto complicato - sentire ciò che l'altro sente -, e molti autori lo definiscono semplicemente in base al suo risultato: intanto proviamo em­ patia in quanto i nostri sentimenti coincidono con quelli di un altro. Eppure, quanto più studio l'empatia, tanto più complessa mi appare; perciò ho trovato di gran lunga preferibile defi­ nire l'empatia non nei termini del suo risultato (coincidenza affettiva) ma dei processi alla base della relazione tra il senti­ mento dell'osservatore e quello del modello. Secondo la mia definizione, la condizione essenziale della risposta empatica è il coinvolgimento di processi psicologici che facciano sì che i sentimenti di una persona siano più consoni alla situazione di un altro che non alla propria. Anche se i processi di attivazione dell'empatia suscitano spesso il medesimo sentimento nell'os­ servatore e nella vittima, ciò non accade necessariamente: nel vedere che qualcuno è aggredito, avvertiamo a volte rabbia empatica anche se la vittima, più che adirata, si sente triste o delusa. Ciò non significa negare l'importanza di una precisa valuta­ zione cognitiva dei sentimenti altrui - quella che lckes [ 1 997 ] chiama accuratezza empatica. Di fatto, la mia teoria presuppone un certo grado di accuratezza empatica, anche se, diversamente da Ickes, includo nell'accuratezza empatica la consapevolezza di parte del passato e del probabile futuro del modello (le sue condizioni di vita): una consapevolezza che ha un ruolo importante nel suscitare l 'affetto empatico dell'osservatore. Per questa e per altre ragioni, come vedremo, rinunciare alla condizione della coincidenza affettiva tra osservatore e modello conferisce all'empatia una portata più ampia e altri vantaggi. Il tema centrale è la sofferenza empatica, giacché la condotta morale prosociale di solito implica un aiuto in favore di una persona che è afflitta, prova dolore, è in pericolo o soffre in qualunque altro modo.

2.

La sofferenza empatica come motivazione prosociale

Prima di passare in rassegna l e prove che attestano che la sofferenza empatica è una motivazione prosociale dobbiamo specificare quali sono le prove che ci occorrono. Primo, la 54

sofferenza empatica deve essere correlata positivamente con il comportamento di aiuto delle persone. Secondo, la sofferenza empatica deve non solo essere correlata con tale comportamento ma anche precederlo e favorirlo. Terzo, come altre motivazioni, la sofferenza empatica dovrebbe diminuire e dovremmo sentirei meglio quando aiutiamo qualcuno; dovrebbe invece restare intensa quando non prestiamo aiuto. Le prove che presentiamo di seguito si riferiscono a tutti e tre questi aspetti. l . La sofferenza empatica è associata con l'aiuto. Moltissime ricerche mostrano che quando una persona vede un'altra per­ sona che sta soffrendo di solito risponde in modo empatico o presta esplicitamente aiuto, e quando i dati riguardano tutti e due i tipi di risposta i soggetti per lo più li mostrano entrambi. Queste ricerche sono state esaminate da Hoffman [ 1 98 1 ] e da Eisenberg e Miller [ 1 987 ] . Per aggiornare il quadro, colmare le lacune e dare un'idea dello spirito di questo tipo di studi, possiamo presentare alcuni esempi. In uno studio di Berndt [ 1 979] , un gruppo di bambini empatici di 1 1 - 1 2 anni che avevano discusso un'esperienza dolorosa occorsa a un'altra persona, dedicavano più tempo a fare disegni per bambini ricoverati in ospedale rispetto a un gruppo di bambini empa­ tici che avevano analizzato un evento doloroso della propria vita. Davis [ 1 983 ] ha trovato che gli studenti universitari che avevano conseguito un punteggio elevato in una misura «carta e matita» dell'empatia donavano più denaro dei compagni meno empatici alla maratona televisiva di Jerry Lewis contro la distrofia muscolare. Allo stesso modo, gli studenti universitari empatici si offrivano più spesso volontari e prestavano più ore di lavoro nei ricoveri per senzatetto [Penner et al. 1995 ] . In uno studio di Otten, Penner e Altabe [ 1 99 1 ] , gli psicoterapeuti con un punteggio elevato in varie misure dell 'empatia avevano più probabilità di aiutare alcuni studenti universitari alle prese con un'esercitazione (scrivere una tesina sulla psicoterapia) rispetto ai colleghi meno empatici. In uno studio sperimentale, alcuni studenti universitari osservavano un «complice)) dello sperimentatore impegnato in un compito poco piacevole [Carlo et al. 199 1 ] . A un certo punto, il complice cominciava a mostrare segni di sofferenza e chiedeva al soggetto di prendere il suo posto. Un gruppo di soggetti poteva scegliere se prendere il posto del complice 55

oppure continuare a vederlo soffrire; un altro gruppo, invece, come seconda opzione aveva la possibilità di interrompere l'esperimento e andarsene. Tre quarti dei soggetti del primo gruppo preferirono prendere il posto del complice piuttosto che continuare a provare sofferenza empatica. Va sottolineato che oltre la metà dei soggetti del secondo gruppo preferirono sostituire il complice piuttosto che andarsene, e che costoro erano i membri più empatici del gruppo. Si è visto infine che gli osservatori prestano aiuto prima quando la vittima mostra più dolore [Geer e Jarmecky 197 3 ; Weiss et al. 1973 ] e quando la propria sofferenza empatica è più acuta [Gaertner e Dovidio 1977 ] . I dettagli di questi tre studi si possono trovare in Hoffman [ 197 8]. 2. La sofferenza empatica p recede l'aiuto. Gli studi prece­ denti dimostrano l'associazione tra l'attivazione empatica e il comportamento di aiuto. Altre ricerche sperimentali, risalenti agli anni Settanta ed esaminate da Hoffman [ 1 978] , mostrano che l'attivazione empatica precede e motiva l'aiuto. Nell'ultimo e più interessante di questi esperimenti, condotto da Gaertner e Dovidio [ 1 977 ] , alcune studentesse universitarie erano in contatto, mediante auricolari, con un'altra studentessa, complice dello sperimentatore, la quale interrompeva l'esecuzione di un compito sperimentale per sistemare una pila di sedie che, diceva, erano sul punto di cadere. Subito dopo la complice gridava che le sedie le stavano cadendo addosso, poi non si sentiva più nulla. I risultati principali furono che la frequenza cardiaca delle studentesse cominciava ad accelerare, in media, 20 secondi prima che si alzassero dalla sedia per aiutare la vit­ tima, e che quanto più la frequenza cardiaca di un'osservatrice accelerava, tanto più prontamente essa lasciava il suo posto. In altri termini, l'intensità dell'attivazione fisiologica (empatica) dell'osservatrice era correlata sistematicamente con la prontezza dell'aiuto successivo. 3 . Gli osservatori si sentono meglio dopo l'aiuto. La prova più diretta che la sofferenza empatica decresca d'intensità dopo che l'osservatore ha aiutato la vittima è offerta da uno studio di Darley e Latané [ 1 968] , nel quale i soggetti sentivano rumori che facevano pensare che una persona stesse avendo una crisi epilettica; i soggetti che non reagivano esplicitamente continua­ vano a essere agitati e sconvolti, come testimoniavano le mani 56

tremanti e le palme sudate, mentre nei soggetti che cercavano di soccorrere la vittima, il turbamento era meno persistente. Un risultato simile fu ottenuto da Murphy [ 1 937] in un classico studio condotto in un asilo nido: quando i bambini aiutavano altri bambini, la loro sofferenza empatica sembrava attenuarsi; quando non li aiutavano, la loro sofferenza restava immutata. Questi risultati indicano che la sofferenza empatica, come altre motivazioni, decresce di intensità quando si traduce in comportamento. Nel caso della sofferenza empatica, può essere in gioco un fattore aggiuntivo: l'espressione di sollievo della vittima può produrre in chi aiuta un sentimento di sollievo empatico - una ricompensa vicaria fuori della portata degli osservatori che non prestano aiuto. Una possibile interpretazione di questi risultati è che le persone scoprono per esperienza che aiutare gli altri le fa sentire bene, cosicché, quando provano sofferenza empatica, prevedono tale sentimento e prestano aiuto per questa ragione e non per alleviare la sofferenza della vittima. L' argomento in contrario che è stato avanzato è che le conseguenze di un'azione non dicono nulla della motivazione che ne è a fondamento: il fatto che ci sentiamo bene quando prestiamo aiuto non vuoi dire che prestiamo aiuto per sentirei bene. Per giunta, non vi sono prove che le persone prestino aiuto per questo, anzi ve ne sono del contrario [Batson e Weeks 1996; Batson e Shaw 1 99 1 ] . Se l'osservatore prestasse aiuto esclusivamente a proprio vantaggio - ragionavano questi ricercatori - non si curerebbe di alleviare effettivamente la sofferenza della vittima; il mero atto di aiutare già basterebbe a farlo sentire meglio. Queste ricerche hanno mostrato invece che coloro che provavano em­ patia e prestavano aiuto continuavano ad avvertire sofferenza empatica quando, malgrado gli sforzi e senza loro colpa, non alleviavano la sofferenza della vittima. Ciò implica che chi prova empatia e presta aiuto tiene conto delle conseguenze ultime delle sue azioni per la vittima, e considera importante che le sue azioni riducano la sofferenza di quella. È ragionevole concludere che sebbene l' aiuto fondato sull'empatia faccia sentire bene le persone perché riduce la sofferenza empatica e procura sollievo empatico, il suo scopo principale sia alleviare la sofferenza della vittima. Insomma, la sofferenza empatica è una motivazione prosociale. 57

L'analisi condotta finora potrebbe far pensare che gli es­ seri umani siano macchine perfette della forma «se sofferenza empatica allora aiuto». Non è così: non sempre la sofferenza empatica muove all'aiuto. Le ragioni possono essere più d'una. In primo luogo, come insegna il classico studio di Latané e Darley [ 1970] , la presenza di altri spettatori può interferire con il comportamento di aiuto di una persona attivando assunzioni di «ignoranza pluralistica» («non deve essere una situazione di emergenza, visto che nessuno reagisce») e di «responsabilità diffusa» («di sicuro qualcuno avrà già chiamato la polizia»). In secondo luogo, quando gli spettatori sono soli, la loro motivazione ad aiutare può essere frenata da forti motivazioni egoistiche (paura, spesa energetica, costi finanziari, tempo per­ duto, opportunità sfumate, e così via). Gli spettatori possono avere scoperto per esperienza che l'aiuto li fa sentire bene, ma il costo potenziale dell 'aiuto può rendere meno attraente tale prospettiva. Per un esempio tra i più drammatici, si consideri questa testimonianza, tratta da uno studio nel quale erano messi a confronto tedeschi che avevano aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti durante l'Olocausto con tedeschi che non lo avevano fatto: I miei genitori erano buoni e affettuosi. Imparai da loro ad aiutare il prossimo e a preoccuparmi per gli altri. Vicino a noi abitava una famiglia ebrea, ma quando andarono via me ne accorsi appena. Tempo dopo, quando lavoravo in ospedale come medico, al pronto soccorso giunse un ebreo, portato dalla moglie. Era chiaro che se non fosse stato curato immediatamente sarebbe morto. Ma non ci era consentito curare ebrei; potevano essere curati solo all'ospedale ebraico. Non potevo fare nulla [Oliner e Oliner 1 988, 1 87 ] .

Queste sono le parole d i una persona che non diede aiuto: una persona descritta dagli autori come una «donna buona e compassionevole, incline per sensibilità e per etica professionale ad aiutare una persona gravemente malata, ma che non lo fece» [ibidem] . Come vedremo, i tedeschi che corsero dei rischi per aiutare gli ebrei erano buoni e compassionevoli, ma il brano precedente mostra che quando il costo è elevato la bontà e la compassione possono non bastare. In terzo luogo, in vista dei costi che l'aiuto può compor­ tare, ci si può aspettare che le persone non solo evitino di 58

dare aiuto, ma si guardino anche, prima ancora, dal provare empatia, timorose di ciò che per suo impulso potrebbero fare: cioè pagare i costi dell'aiuto, ivi compresa l'esperienza della sofferenza empatica, con tutta la sua spiacevolezza. Perciò le persone, quando è possibile, potrebbero cercare di prevenire l'empatia per le vittime nel tentativo di sfuggire alle conse­ guenze motivazionali di quel sentimento. Una motivazione ad evitare l'empatia è stata dimostrata sperimentalmente da Shaw, Batson e Todd [ 1 994] : essi prevedevano l'attivazione di questa motivazione quando gli osservatori, prima di incontrare una persona bisognosa, venivano avvertiti che sarebbe stato chiesto loro di aiutarla e che l'aiuto sarebbe stato costoso. Per mettere alla prova questa previsione, alcuni studenti universitari furono invitati a scegliere quale ascoltare tra due richieste d'aiuto di un senzatetto che aveva perso il lavoro ed era gravemente malato: un appello che muoveva all'empatia, in cui l'uomo presenta­ va la sua situazione facendo leva sulle emozioni, e chiedeva all'ascoltatore di immaginare come si sentisse e quanto stesse soffrendo, e un appello in cui l'uomo presentava la sua situazione in modo distaccato e oggettivo. Come previsto, i soggetti che si aspettavano che il costo dell 'aiuto fosse molto alto (passare diverse ore con quell'uomo per dargli sostegno) sceglievano meno frequentemente l'appello che muoveva all'empatia rispet­ to ai soggetti che si aspettavano che il costo deli ' aiuto fosse modesto (un'ora impiegata a scrivere e indirizzare lettere in suo favore). Questa analisi delle motivazioni dell'osservatore illustra bene la complessità del modello dello spettatore. Gli osservatori non si limitano a provare sofferenza empatica e desiderio di aiutare; vi sono anche motivazioni egoistiche, in competizione con la sofferenza empatica, che possono impedire l'aiuto e che, se lo spettatore conosce in anticipo i costi dell'aiuto, possono indurlo a fare il possibile per evitare l'empatia. Il modello dello spettatore, insomma, implica un conflitto /ra la motivazione ad aiutare e le motivazioni egoistiche che possono essere molto forti. Ciò rende ancor più degna di nota l'efficacia della sofferenza empatica come motivazione prosociale. La ragione può essere il suo carattere autorinforzante: dopo avere aiutato qualcuno ci sentiamo bene. Ma in tal caso ci si può chiedere: l'aiuto che scaturisce dall'empatia è prosociale? Io credo che lo sia [Hoff59

m an 198 1 ] : infatti esso è suscitato dalla sofferenza altrui e non dalla propria, il suo fine primario è aiutare un'altra persona, e ci sentiamo bene solo se aiutiamo realmente la vittima. Una considerazione finale sul contributo dell'empatia al comportamento prosociale. Finora mi sono concentrato sull'aiu­ to dato a una persona sofferente, ma alcuni dati mostrano anche che l'empatia riduce l'aggressività [Feshbach e Feshbach 1 969; Gibbs 1987 ] . Che l'empatia sia capace di attenuare l'aggressività è messo in luce nell' analisi del modello del trasgressore (cap. VI) e nell'esame dei metodi di educazione morale impiegati per ridurre l'aggressività dei delinquenti minorili (cap. XIII). Un altro dato, più sottile e meno prevedibile, riguarda la re­ lazione tra l'empatia e la capacità di manipolare le persone. Secondo Christie e Geis [ 1 970], che negli anni Sessanta hanno condotto approfondite ricerche sulla personalità «machiavel­ lica», i manipolatori di successo non sono, come si potrebbe credere, persone molto empatiche, che si servono dell'empatia per capire le motivazioni delle altre persone e poi sfruttano a proprio vantaggio le conoscenze così acquisite. In realtà, si tratta di persone debolmente empatiche e cattive interpreti delle motivazioni altrui. Il loro «vantaggio» sta precisamente nel non essere empatiche: l'insensibilità verso gli altri permette loro di «aprirsi la strada a forza verso i propri obiettivi». Similmente, nel romanzo Biade Runner [Dick 1 968] , gli «androidi» sono presentati come un pericolo pubblico e sono banditi dalla società, perché possono essere più intelligenti di molti esseri umani, e, al tempo stesso, sono completamente privi di empa­ tia 1 • L'androide è considerato il prototipo del manipolatore (e dell'assassino) poiché, essendo incapace di provare sofferenza o afflizione empatica per le disgrazie altrui, nulla di meno della sua distruzione può impedirgli di perseguire i suoi scopi. Naturalmente, chi è incapace di empatia non per questo è condannato a manipolare o uccidere gli altri. O'Neil ha studiato pazienti affetti da un disordine empatico detto sindrome di Asperger (una forma di autismo) , che «si rendono conto, con rammarico, di una lacuna che possono colmare solo con enorme difficoltà» [O' Neil 1 999, F l ] . Costoro si sforzano di scomporre il comportamento (anche comportamenti che le persone di 1

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Sono grato a Krin Gabbard per avermi segnalato questo libro.

solito padroneggiano senza pensare) in elementi distinti così da poterli memorizzare, e si esercitano ad assumere il punto di vista altrui: «" Devo guardarlo negli occhi ? " "Sì , ma giusto un po', quanto basta per fargli capire che stai ascoltando"» [ibidem, F4] ; a questo riguardo si veda anche Sacks [ 1995 ] . Siamo molto lontani dalla naturale sensibilità empatica della maggior parte delle persone, che impedisce loro di essere tanto distaccate da sfruttare gli altri senza riguardo. In altri termini, l'empatia non solo favorisce il comportamen· t o di aiuto, ma ostacola l'aggressività e la capacità di manipolare gli altri. Passiamo ora ai meccanismi alla base dell'attivazione della sofferenza empatica. 3 . L'attivazione della sofferenza empatica Già trent'anni fa [Hoffman 1 978] descrissi, e ripropongo ora in forma aggiornata, cinque forme di attivazione empati­ ca. Tre di esse sono elementari, automatiche e, ciò che è più importante, involontarie. Le descriverò per prime. 3 . 1 . MimesP È trascorso quasi un secolo da quando Lipps [ 1 906] de­ scrisse la mimesi, ma già centocinquanta anni prima essa era stata intuitivamente compresa da Adam Smith che osservò: Quando vediamo che la gamba o il braccio di un'altra persona stanno per ricevere un colpo, istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio, e quando il colpo cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi, e ne siamo feriti quanto la vittima. La folla, quando guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi, come vede fare a lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua situazione [ibidem, 83 ] .

2 Il termine «mimicry>> è stato finora reso con imitazione nei testi italiani contenenti una esposizione deUa teoria di Hoffman [Aibiero e Matricardi 2006; Berti e Bombi 1988; 2005; Bonino, Lo Coco e Tani 1998] ; nel presente caso ciò non è stato possibile, perché Hoffman ha introdotto una distinzione tra mimicry e imitation [NdC] .

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Nell'opera citata, Lipps definisce l'empatia come una ri­ sposta innata, involontaria e isomorfa alle emozioni espresse da un'altra persona. Un'attenta lettura chiarisce che Lipps individua nel processo due stadi distinti che operano in rapida successione [Hoffman 1 978] . Dapprima, e in modo automatico, le variazioni dell'esp ressione facciale, della voce e della pastura dell'osservatore riproducono, in sincronia, le più lievi variazioni nell'espressione dei sentimenti da parte di un 'altra persona, ciò che Lipps chiamava mimesi motoria oggettiva (objective motor mimicry) . Dopo di che, i cambiamenti della muscolatura facciale, vocale e posturale dell'osservatore suscitano una retroazione afferente che causa nell'osservatore sentimenti che coincidono con quelli della vittima. Per evitare confusioni, conveniamo di chiamare il primo stadio imitazione (imitation), il secondo stadio retroazione (feedback) , e mimesi (mimicry) l' intero processo. La mimesi è stata a lungo trascurata dagli psicologi, proba­ bilmente perché ha l'aria di una spiegazione di tipo istintuale. Vale però la pena di occuparsene, giacché, intuitivamente, sembra racchiudere l'essenza stessa dell 'empatia: osserviamo l'espressione di un sentimento da parte di un'altra persona, la imitiamo in modo automatico, dopo di che il controllo passa al cervello e noi sentiamo quel che l'altro sente. Nonostante la sua importanza, la mimesi non è facile da documentare empi­ ricamente, e reclama perciò più attenzione delle altre forme di attivazione empatica. Tuttavia, a dispetto dello scarso interesse per la mimesi, negli anni recenti sono state condotte molte ricerche sull'imitazione e sulla retroazione, anche se quasi tutte hanno studiato i due processi separatamente. l . Imitazione. Bavelas e colleghi [ 1 987] hanno condotto una rassegna delle ricerche sull'esistenza dell 'imitazione o della mimesi, e hanno trovato che le persone imitano espressioni di vario genere: dolore, riso, sorriso, benevolenza, imbarazzo, afflizione, disgusto, titubanza nel parlare, sforzo per raggiun­ gere qualcosa, e così via, in un'ampia varietà di situazioni. Gli psicologi dello sviluppo hanno osservato che i bambini poco dopo la nascita cercano di imitare le espressioni facciali degli altri: tirano fuori la lingua, storcono le labbra, spalancano la bocca [Meltzoff 1 988; Reissland 1 988] . A dieci settimane di età, essi imitano almeno i tratti essenziali delle espressioni facciali di felicità e rabbia della madre [Haviland e Lelwica 1987 ] . E 62

i volti dei bambini di 9 mesi già rispecchiano le espressioni di felicità o di tristezza delle madri [Termine e lzard 1988 ] . Ma non sono solo i bambini che imitano le espressioni fac­ ciali emotive delle madri: anche le madri imitano le espressioni facciali dei figli, spesso senza esserne consapevoli [O'Toole e Dubin 1 968 ] . Di fatto, gli adulti sembrano avere una tendenza naturale a riprodurre le espressioni facciali dei bambini (e di altri adulti) senza rendersene conto. Nella maggior parte delle ricerche vengono impiegate regi­ strazioni elettromiografiche (EMG), che permettono di misurare i movimenti della cute e dei tessuti connettivi della faccia (pieghe, linee, rughe; movimenti delle sopracciglia e della bocca) dovuti a contrazioni dei muscoli facciali indotte dalle emozioni ma in modo tanto lieve (debole o passeggero) da non produrre espres­ sioni facciali osservabili. Dimberg [ 1 990] ha misurato l'attività EMG facciale di studenti universitari svedesi che osservavano fotografie di persone il cui viso era atteggiato a espressioni di felicità o di rabbia, e ha constatato che se le espressioni facciali erano di felicità i soggetti mostravano una maggiore attività del muscolo zigomatico maggiore; quando invece le espressioni fac­ ciali erano di rabbia veniva registrato un incremento dell'attività del muscolo corrugatore del sopracciglio. In uno studio EMG sull'empatia [Mathews, Hoffman e Cohen 1 99 1 ] , l'espressione facciale dei soggetti - studenti universitari - era registrata di nascosto su video mentre essi osservavano un filmato di due minuti, nel quale una ragazza raccontava un evento felice (una cena con il fidanzato e i ge­ nitori) e un evento triste (l'annuncio da parte dei genitori di voler divorziare). Nella parte felice, l'espressione facciale, la voce e i gesti della ragazza trasmettevano un sentimento di viva gioia; nella parte triste, invece, espressione facciale, voce e gesti esprimevano una profonda tristezza. Quando i soggetti osser­ vavano la parte felice, i videonastri mostravano un incremento dell'attività EMG dei muscoli zigomatici e una diminuzione di quella dei muscoli sopracciliari; l'inverso accadeva quando osservavano la parte triste. In una successiva analisi dei dati, dei giudici qualificati, che ignoravano quali parti del filmato fossero state osservate dai soggetti, stimarono che le facce dei soggetti erano più felici quando osservavano la parte felice e più tristi quando osservavano quella triste. Risultati analoghi sono stati 63

ottenuti in uno studio di Hatfield, Cacioppo e Rapson [ 1 992 ] , nel quale i giudici consideravano felici o tristi le espressioni facciali dei soggetti (studenti universitari) secondo che l'uomo di cui osservavano un'intervista filmata della durata di tre minuti raccontasse un evento felice o triste (una festa di compleanno o il funerale del nonno cui aveva partecipato a 6 anni) . Anche se la maggior parte delle ricerche hanno riguardato l'espressione facciale, sono state osservate persone che inten­ sificavano il movimento delle labbra e battevano le palpebre più spesso quando osservavano qualcuno che balbettava o ammiccava [Berger e Hadley 1 975 ; Berna! e Berger 1 976] . Più importante è la tendenza a imitare alcuni aspetti del modo di parlare di un'altra persona: velocità, tono, ritmo, pause, durata dell'emissione [Buder 1 99 1 ] . Siccome il modo di parlare è correlato con le emozioni - quelle gioiose con un ritmo rapido, grandi variazioni di altezza e piccole variazioni di ampiezza [Scherer 1 982 ] -, la mimesi vocale è una possibilità concreta. Essa è importante perché può manifestarsi precocemente forse già nei neonati, come vedremo - e perché, a differenza dell'espressione del volto, il modo di parlare è ben poco con­ trollabile, cosa che rende più difficile l'inganno. Vi sono dunque prove inoppugnabili che mostrano che ten­ diamo a imitare automaticamente l'espressione delle emozioni delle persone intorno a noi: l'espressione facciale, l'espressione vocale e, probabilmente, anche la postura. Ciò suscita un inter­ rogativo: l'attivazione per imitazione dell'espressione facciale e vocale di una persona provoca una retroazione afferente che, subito dopo, influenza l'esperienza emozionale soggettiva? 2. Retroazione. Charles Darwin fu il primo a formulare l'ipotesi della retroazione: «Chi si lascia andare a gesti violenti fa aumentare la sua collera; chi non controlla i segni della paura si sentirà ancora più terrorizzato» [Darwin 1 862/ 1 965 ; trad. it. 1 982, 4 1 9] . William James [ 1 893 ] andò oltre e sostenne che la retroazione fosse la chiave dell'intera esperienza emozionale. È grazie alle risposte muscolari nonché ghiandolari e viscerali che veniamo a sapere ciò che sentiamo. Si cita spesso l'affermazione di J ames che «ci sentiamo tristi perché piangiamo, ci adiriamo perché meniamo le mani, abbiamo paura perché tremiamo». Questa ipotesi fu avanzata un secolo fa, ma solo recentemente è stata messa alla prova. 64

Nel primo studio rigoroso sulla retroazione [Laird 1974 ] , lo sperimentatore informava i soggetti, tutti adulti, di essere inte­ ressato a studiare l'attività dei muscoli facciali. Nel laboratorio di Laird troneggiava un apparato che doveva far credere ai soggetti che di lì a poco sarebbero state condotte complesse registrazioni multicanale dell'attività dei muscoli facciali. Ai soggetti - tra le sopracciglia, alla commessura labiale e alle estremità della mandibola - furono applicati elettrodi a coppa in argento. Poi fu chiesto loro di contrarre determinati muscoli, in modo che, senza rendersene conto, assumessero espressioni emozionali (sorriso o faccia accigliata). Per ottenere un'espressione acci­ gliata, lo sperimentatore toccava leggermente i soggetti tra le sopracciglia con un elettrodo e chiedeva loro di volgere verso il basso entrambe le sopracciglia mantenendole in quella posizione («Abbassi tutte e due le sopracciglia . . . bene, adesso resti così») , e poi d i contrarre i muscoli agli angoli della mandibola («Stringa i denti»). Per ottenere un'espressione allegra, ai soggetti veniva chiesto di contrarre i muscoli delle commessure labiali («Tiri gli angoli della bocca all'indietro e verso l'alto») . Laird constatò che i soggetti nella condizione «faccia accigliata» si sentivano più arrabbiati, e quelli nella condizione «faccia sorridente» più allegri. Ai soggetti furono poi mostrate delle vignette, e quando «sorridevano» essi le giudicavano più divertenti che non quan­ do erano «accigliati». In uno studio successivo, i soggetti nella condizione «faccia sorridente» ricordavano meglio gli eventi lieti loro occorsi che non quelli tristi, mentre i soggetti nella condizione «faccia accigliata» ricordavano meglio gli eventi tristi [Laird et al. 1 982 ] . Il commento di uno dei soggetti del primo studio getta qualche luce sul processo: Quando strinsi i denti e abbassai le sopracciglia, provai a non ar­ rabbiarmi, ma la verità è che viene naturale. Non ero di cattivo umore, ma i miei pensieri erano attratti da cose che mi facevano arrabbiare - il che è abbastanza stupido, suppongo. Sapevo che stavo facendo un esperimento e che non avevo nessun motivo per sentirmi così, ma la verità è che avevo perduto il controllo [Laird 1974, 480] .

Sono state escogitate anche altre tecniche non meno inge­ gnose per far sorridere i soggetti senza che se ne rendessero conto. In un esperimento, ai soggetti veniva chiesto di riem­ pire dei moduli di valutazione tenendo una penna tra i denti 65

anteriori, il che addolcisce i muscoli facciali in un sorriso. A questi soggetti furono poi presentate delle vignette umoristiche; essi le trovavano più divertenti dei soggetti ai quali era stato chiesto di reggere la penna tra le labbra, cosa che li costrin­ geva ad assumere un'espressione accigliata [Strack, Martin e Stepper 1 988] . In un altro caso, lo sperimentatore voleva fare in modo che i soggetti corrugassero le sopracciglia senza chie­ dere loro esplicitamente di muovere i muscoli facciali. Sulla fronte dei soggetti (in corrispondenza dell'angolo interno di ciascun occhio) venivano fissati due tees da golf, dopo di che ai soggetti veniva chiesto di muovere simultaneamente i tees, ciò che conferiva loro un'espressione triste. La conseguenza è che essi si sentivano tristi: quando osservavano fotografie di bambini affamati e altre scene del genere si sentivano più tristi dei soggetti di controllo che osservavano le medesime scene senza tees sulla fronte. Almeno una dozzina di altri studi hanno ottenuto risultati simili: i soggetti provano le emozioni concordanti con le loro espressioni facciali e hanno difficoltà a provare le emozioni discordanti con quegli atteggiamenti. Sono stati impiegati anche altri metodi, come quello di chiedere ai soggetti di accentuare o dissimulare le proprie reazioni emo­ zionali, quali che fossero. Questi studi, come quelli descritti sopra e altri ancora, sono stati sintetizzati in alcune rassegne; la conclusione è che le espressioni facciali delle persone tendono a influenzare le loro esperienze emozionali [Adelman e Zajonc 1 989; Hatfield, Cacioppo e Rapson 1 992 ] . Nonostante tutto, non mi è affatto chiaro se i soggetti si sentissero arrabbiati o felici perché i cambiamenti prodotti nell'espressione facciale attivavano vie neurali afferenti che provocavano l'una o l'altra emozione. C'è una spiegazione alternativa: che essi percepissero i mutamenti di espressione facciale per via cinestetica e li associassero con esperienze di rabbia o di felicità («Quando sono arrabbiato, stringo i denti e aggrotto le sopracciglia») . Se quest'ultima spiegazione è quella corretta, non si può dire che le ricerche confermino l'ipotesi della retroazione afferente, ma piuttosto una forma di retroazione più debole, basata sull'autopercezione e sull'inferenza cognitiva. La questione è critica, poiché se la retroazione afferente esiste e opera fin dalla prima infanzia, la mimesi diventa un meccani­ smo fondamentale, giacché permette ai bambini di rispondere 66

empaticamente a un sentimento altrui prima ancora di averlo sperimentato direttamente, e potrebbe spiegare anche il pianto reattivo del neonato (cap. III ) . Se invece non v'è retroazione se non attraverso l'autopercezione e l'inferenza cognitiva - cosa che richiede un 'esperienza precedente del sentimento in que­ stione - allora l'empatia nella prima infanzia è possibile solo attraverso il condizionamento e l'associazione diretta. Laird [ 1984] sostiene che sono possibili entrambi i tipi di retroazione: «Vi è chi è allegro perché sorride, arrabbiato perché corruga le ciglia e triste perché fa il broncio; altri definiscono la propria esperienza emozionale in termini di aspettative situazionali». Laird presenta anche varie prove a sostegno di questa tesi [Laird 1 984; Laird et al. 1 994 ] . Questa spiegazione in termini di un duplice processo implica ovviamente, che la retroazione afferente esiste anche se non tutti la usano. A favore della forma forte dell'ipotesi della retroazione af­ ferente può essere addotto il seguente argomento. Gli psicologi hanno a lungo supposto che le connessioni tra le espressioni facciali e le emozioni fossero determinate culturalmente. Questa idea è stata dimostrata infondata da un importante studio di Ekman, Sorenson e Friesen [ 1969] , nel quale i membri di una tribù della Nuova Guinea priva di lingua scritta identificavano una serie di espressioni facciali emozionali non diversamente dai soggetti del Giappone, del Brasile e degli Stati Uniti. Questo risultato ha aperto una nuova linea di ricerca, e da allora si sono accumulate prove a sostegno dell'esistenza di emozioni innate, ciascuna associata a specifiche espressioni facciali. Queste emozioni ed espressioni innate sono la base sulla quale operano la cultura e la socializzazione per determinare le differenze nei sentimenti soggettivi e nell'espressione delle emozioni [Ekman et al. 1 987 ] . Di particolare importanza per i nostri scopi, è che le prove indicano che le connessioni tra emozioni ed espressioni facciali sono universali e fondate sull'integrazione neurale. Ciò avvalora l'ipotesi della retroazione afferente, la cui esistenza, peraltro, non esclude quella di una retroazione basata sull' autopercezione e sull'inferenza cognitiva, che può anzi spiegare. Può essere vero che ci sentiamo arrabbiati perché l'esperienza passata ci insegna che l a rabbia «viene naturale» data l'espressione facciale assunta per posa, ma la rabbia può venir naturale, anzitutto, a 67

causa della retroazione afferente. Ciò può anche spiegare, in parte, perché la retroazione basata sull'autopercezione e sull'in­ ferenza cognitiva possa agire così rapidamente ed essere così immediata e involontaria come appare. Infine, l'osservazione di Laird che alcune persone ricorrono alla retroazione afferente e altre all'inferenza cognitiva può essere spiegata in relazione al tipo di socializzazione, che può rendere alcuni più sensibili agli stimoli situazionali e altri alle sensazioni interne. Che io sappia, nessuno ha dimostrato in modo conclusivo una retroazione afferente derivante dall'imitazione. Per farlo occorrerebbe indagare i cambiamenti prodotti dall'imitazione nell'espressione facciale in un contesto realistico, e valutarne gli effetti sui sentimenti dei soggetti. Un'impresa ardua, ma che Bush e colleghi [ 1 989] potrebbero essere riusciti a realizzare. I soggetti erano studenti universitari ai quali era chiesto di assistere ad alcune esibizioni comiche in differenti condizioni e di valutare quanto fossero divertenti. Un gruppo era stato invitato a «rilassarsi e godersi» le esibizioni, e le esibizioni cui assisteva erano intercalate a immagini delle facce sorridenti del pubblico in studio; i suoi membri imitarono le facce del pubblico e trovarono i numeri comici più divertenti rispetto a un gruppo che aveva ricevuto le stesse istruzioni ma non vedeva il pubblico. Ciò può far pensare che i sorrisi fatti dai soggetti a imitazione del pubblico provocassero una retroazione afferente che faceva sì che essi si sentissero più allegri e giudicassero le esibizioni più divertenti. Un'interpretazione più parsimoniosa è che la retroazione non fosse necessaria: le facce sorridenti del pubblico facevano sì che i soggetti sorridessero e insieme pensassero che le esibizioni fossero più divertenti. Lo studio di Barr e colleghi, tuttavia, tenendo conto di questa interpre­ tazione, comprendeva un gruppo i cui membri, pur vedendo le facce sorridenti del pubblico, dovevano evitare ogni movimento corporeo o facciale. Il risultato fu che questo gruppo non trovò divertenti i numeri comici. In altri termini, due gruppi videro le facce sorridenti, ma solo il gruppo che imitò il pubblico fu più divertito dalle esibizioni - presumibilmente, a causa della retroazione afferente. Ciò nonostante, resta forse un problema. Solo il gruppo imitatore si comportò in modo spontaneo; l'altro gruppo non lo fece e, per seguire le istruzioni e non ridere, può aver evitato di 68

guardare il pubblico o cercato di pensare a cose poco divertenti. Se questo è vero, è possibile che se i soggetti avessero badato al pubblico avrebbero giudicato più divertenti le esibizioni anche senza imitare le facce sorridenti, e questo escluderebbe una spiegazione fondata sulla retroazione afferente. Ma questa è pura speculazione, e sembra ragionevole concludere che gli autori siano nel giusto; il gruppo osservò il pubblico (seguendo le istruzioni) e trovò poco divertenti le esibizioni per l'assenza di una retroazione afferente. Sembra altrettanto ragionevole concludere che le prove dell'universalità delle emozioni, insieme con le prove dell'imi­ tazione e della retroazione, confermino la sequenza imitazione­ retroazione e il meccanismo della mimesi descritto da Lipps. Ciò significa che la mimesi è probabilmente un processo di attivazione dell'empatia, «cablato» (hard-wired) a livello neurale, i cui due stadi, l'imitazione e la retroazione, sono diretti da comandi del sistema nervoso centrale. Ciò è importante per due ragioni. In primo luogo, come abbiamo osservato, una mimesi «cablata» a livello neurale è un meccanismo ad azione rapida che permet­ te al bambino, fin dalla più tenera età, di provare empatia e sentire ciò che un altro sente senza avere sperimentato prima quell'emozione. Dico «ad azione rapida» seguendo l'argomento di Davis [ 1 985] secondo cui la mimesi è troppo complessa e agisce troppo rapidamente perché possa avvenire a livello conscio. Davis osserva che anche il fulmineo Muhammad Ali impiegava 1 90 millisecondi per notare una luce e altri 40 millisecondi per tirare in risposta un pugno, mentre le registrazioni filmate di conversazioni tra studenti universitari rivelano che essi sincro­ nizzano i loro movimenti vocali e corporei con quelli altrui in 20 millisecondi o meno. Una seconda ragione dell'importanza della «cablatura» della mimesi è che di conseguenza la mimesi, oltre che involontaria e rapida, è l'unico meccanismo di attivazione empatica capace di garantire, almeno negli incontri faccia a faccia, la coincidenza tra il sentimento espresso dall'osservatore e il sentimento espresso dalla vittima. Questa coincidenza di espressioni emotive emerge chia­ ramente nelle ricerche di Bavelas e colleghi [ 1 987 ; 1 988] , dalle quali riceve supporto la loro tesi che la mimesi sia un atto comunicativo che trasmette un messaggio non verbale in modo rapido e chiaro a un 'altra persona. In particolare, essi 69

sostengono che quando siamo impegnati in un atto di mimesi, comunichiamo solidarietà e partecipazione («Ti sono vicino», «Ci somigliamo»). «Esibendo immediatamente una reazione appropriata alla situazione dell'altro - per esempio, un gesto di dolore in risposta al dolore altrui -, I' osservatore trasmette in modo chiaro ed eloquente la sua consapevolezza e la sua partecipazione alla situazione dell'altro» [Bavelas et al. 1 988, 278] . Se Bavelas e colleghi sono nel giusto, è possibile che la mimesi non sia solo un ulteriore meccanismo di attivazione empatica che predispone le persone ad aiutare gli altri, ma anche un modo diretto di dare loro sostegno e conforto. In altri termini, oltre che una motivazione prosociale, l'empatia fondata sulla mimesi può essere anche un atto prosociale. 3 .2. Condizionamento classico Il condizionamento classico è un importante meccanismo di attivazione empatica nei bambini, in particolar modo quelli di età preverbale. I bambini piccoli (come chiunque altro, del resto) possono acquisire per condizionamento un sentimento empatico di sofferenza quando osservano una persona che soffre e al tempo stesso hanno, indipendentemente, un'espe­ rienza personale di sofferenza. Lanzetta e Orr [ 1 986] hanno constatato che se si presenta a un adulto un segnale di pericolo che suscita paura (elettrodi per infliggere scariche elettriche) e, simultaneamente, un'espressione facciale di paura di un altro adulto, le facce impaurite diventano stimoli condizionati capaci di destare paura anche in assenza degli elettrodi. Attraverso un procedimento simile, anche facce liete e suoni neutri possono diventare stimoli condizionati capaci di destare paura, benché meno delle facce impaurite. All'altro estremo, cosa del massi­ mo interesse per il nostro studio, vent'anni di ricerche hanno mostrato che, diversamente da quel che si credeva, il condi­ zionamento è possibile anche nel neonato: ad esempio, si può condizionare il riflesso di suzione di un neonato di un giorno carezzandogli la fronte [Blass, Ganchrow e Steiner 1 984 ] . Questa associazione tra l a sofferenza reale d i una persona e la sofferenza espressa da un'altra persona può essere inevitabile nelle interazioni tra la madre e il figlio o la figlia nel primo 70

anno di vita, come quando la madre, nell'accudire fisicamente l'infante, gli trasmette i suoi sentimenti. Ad esempio, quando la madre è tesa o ansiosa, il suo corpo può irrigidirsi e questa rigidità può trasmettere la sua sofferenza al bambino che tiene in braccio. Così anche il bambino avverte sofferenza, come conseguenza diretta dell'irrigidimento del corpo della madre (stimolo incondizionato) . Le concomitanti espressioni verbali e facciali della madre diventano poi stimoli condizionati, capaci in seguito di suscitare sofferenza nel bambino anche senza contatto fisico. Questo meccanismo può spiegare la definizione di empatia di Sullivan [ 1 940] : una forma di «contagio e comu­ nione di tipo non verbale» tra la madre e il bambino, nonché la scoperta di Escalona [ 1 94 5] che in una casa di reclusione femminile dove le madri stavano con i figli, i bambini erano particolarmente agitati quando le madri attendevano di compa­ rire davanti al comitato per la libertà condizionata. Inoltre, per generalizzazione dello stimolo condizionato, la sofferenza del bambino può essere suscitata dagli indici di sofferenza facciali e verbali di qualunque altra persona, non solo della madre. Questo tipo di condizionamento fisico diretto non si limita agli affetti negativi. Quando una madre tiene il figlio stretto a sé, con sicurezza e amore e con il volto sorridente, il bam­ bino si sente bene e associa il sorriso della madre a questo sentimento. In seguito, il sorriso della madre, agendo come uno stimolo condizionato, può fare sì che il bambino si senta bene. E, di nuovo per generalizzazione dello stimolo, anche il sorriso di altre persone può fare sì che il bambino si senta bene. Per il nostro studio questo è un processo importante, perché può contribuire a produrre il sollievo empatico che proviamo quando la persona che abbiamo aiutato sorride di gratitudine o sollievo. La retroazione afferente, una componente essenziale della mimesi, può svolgere anch'essa un ruolo nel condizionamento, e può produrre, in certa misura, una corrispondenza tra i sen­ timenti dell' osservatore e quelli della vittima. In altri termini, i cambiamenti nell'espressione facciale dell'osservatore che accompagnano la sofferenza empatica provocata per condizio­ namento possono suscitare una retroazione afferente e destare nell'osservatore sentimenti coincidenti con quelli della vittima, e ciò per tre ragioni: a) tutti gli esseri umani sono accomunati 71

da certe esperienze di sofferenza (perdite, danni, privazioni); b) sono strutturalmente simili, sicché è probabile che elaborino in modo simile le informazioni relative alla sofferenza; c) di conseguenza, è probabile che rispondano con sentimenti simili a eventi stressanti simili [Ekman et al. 1987 ] . Il condizionamento può i n effetti essere considerato, come la mimesi, un processo a due stadi: il condizionamento dell'espressione facciale e, di seguito, la retroazione afferente. Vi è tuttavia un'importante differenza: la mimesi garantisce una corrispondenza tra il sentimento della vittima e quello dell'osservatore, poiché è l'unico processo il cui primo stadio (l'imitazione) è una risposta diretta all'espressione facciale della vittima; il condizionamento, invece, può essere una risposta alla situazione della vittima. 3 .3 . Associazione diretta

Una variante del paradigma del condizionamento (già descritta da Humphrey [ 1922 ] ) è l'associazione diretta: i se­ gnali della situazione della vittima ricordano all'osservatore esperienze simili vissute in passato e suscitano in lui emozioni corrispondenti a quella situazione. Abbiamo un'esperienza di sofferenza; osserviamo in seguito qualcuno in una situazione simile; la sua espressione facciale, la voce, la postura o qualun­ que altro stimolo situazionale che ci ricordi quell'esperienza passata possono suscitare in noi un sentimento di sofferenza. Un esempio citato spesso è quello del bambino che ne vede un altro che si ferisce e piange. La vista del sangue, il suono del pianto, o qualunque altro stimolo della vittima o della situazione che ricordino al bambino una sua esperienza dolorosa possono provocare in lui una risposta di sofferenza empatica. Un altro esempio sono le esperienze di separazione del bambino dalla madre - separazioni brevi e quotidiane, separazioni prolungate, fino alla morte della madre, col turbamento che ne segue - che possono facilitare l'empatia per un'altra persona la madre della quale sia ricoverata in ospedale o sia vicina a morte. L'associazione diretta si distingue dal condizionamento per­ ché non presuppone esperienze nelle quali la propria sofferenza sia accompagnata da segnali di sofferenza di altre persone. 72

L'unico requisito è che l 'osservatore abbia provato in passato dolore o afflizione, sentimenti che possono essere ora evocati da segnali di sofferenza della vittima o da segnali situazionali simili a quelle esperienze dolorose. Perciò l'associazione diretta ha una più vasta portata rispetto al condizionamento e fa sì che il bambino possa rispondere empaticamente a un'ampia varietà di esperienze di sofferenza di altre persone. Inoltre, ciò che abbiamo detto sul ruolo della retroazione afferente nel condizionamento può applicarsi anche all'associazione diretta: le variazioni nell'espressione facciale di un osservatore risultanti dall'associazione diretta possono favorire, per retroazione affe­ rente, una certa corrispondenza tra i sentimenti dell'osservatore e quelli della vittima. Ecco un vivido esempio di associazione diretta descritto da uno studente universitario: Mentre scendevo dall ' autobus vidi un uomo cadere e sbattere la testa contro i gradini. Per me fu uno shock. In un lampo, mi tornò in mente la volta in cui ero scivolato sul marciapiede e mi ero fratturato il cranio. Non so cosa mi prese. Pensavo solo ad aiutarlo, dovevo fare qualcosa per lui. Ricordo che gridavo alla gente di chiamare il 9 1 1 . Stetti lì per più di due ore, preoccupato che tutto andasse bene. Mi conosco, so che non mi sarei sentito tranquillo se quell'uomo non si fosse ripreso e non l'avessi lasciato nelle mani di qualcuno in grado di prendersi cura di lui.

Riassumendo, la mimesi, il condizionamento e l'associazione diretta sono, per varie ragioni, importanti meccanismi di atti­ vazione empatica: a) sono automatici, involontari e agiscono molto rapidamente; b) permettono ai bambini nella prima in­ fanzia e in età preverbale, come pure agli adulti, di rispondere empaticamente alla sofferenza altrui; c) fanno sì che il bambino già in tenera età metta in relazione la sofferenza empatica propria con quella di altre persone, ciò che contribuisce alla sua aspettativa di sofferenza quando è esposto alla sofferenza altrui; d) hanno una certa capacità di autorinforzarsi, perché alimentano comportamenti di aiuto che possono produrre sollievo empatico; e) conferiscono una dimensione involontaria alle future esperienze empatiche del bambino. Ci si potrebbe chiedere se il condizionamento e l'associazione diretta, quando sono suscitati dalla situazione piuttosto che dai sentimenti della vittima, siano realmente processi di attivazione 73

empatica. lo credo che lo siano, purché l'osservatore presti atten­ zione alla vittima e i suoi sentimenti rispondano alla situazione della vittima piuttosto che alla propria. In ogni caso, questo è un problema che non si pone negli incontri faccia a faccia, nei quali la mimesi definisce la sofferenza dell'osservatore come chiara­ mente empatica, e il condizionamento e l'associazione possono influenzarne l'intensità. L'empatia suscitata nell'osservatore dalla combinazione di mimesi, condizionamento e associazione è, si badi, una risposta passiva e involontaria, che si basa su stimoli superficiali e richiede il livello più basso di elaborazione cognitiva. Ma è un «pacchetto» di meccanismi di attivazione empatica che può avere profonde implicazioni, precisamente perché mostra che gli esseri umani, per come sono fatti, possono sperimentare, involontariamente e intensamente, emozioni altrui (cioè, che molte volte la sofferenza di una persona non dipende da un 'esperienza dolorosa propria, ma da quella di qualcuno altro) . Tuttavia, si tratta di un «pacchetto» di meccanismi di attivazione empatica limitato, a causa del modestissimo ruolo che vi svolgono il linguaggio e la cognizione. La vittima deve essere presente e gli osservatori possono rispondere empati­ camente solo ad emozioni semplici. Inoltre, i tre meccanismi contribuiscono poco o per nulla allo sviluppo della dimensione metacognitiva dell 'empatia - la consapevolezza che il proprio sentimento di sofferenza è una risposta alla sofferenza di qual­ cun altro. Queste limitazioni sono superate dal linguaggio e dallo sviluppo cognitivo, cruciali per le ultime due forme di attivazione empatica, l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, che passiamo ad analizzare.

3 .4 . Associazione mediata Nella quarta modalità di attivazione empatica - la media­ zione verbale - lo stato di sofferenza emozionale della vittima viene trasmesso attraverso il linguaggio. Per capire quali pro­ cessi sono all'opera nell'associazione mediata, si consideri ciò che accade quando il linguaggio è l'unico modo per sapere qualcosa dello stato affettivo di qualcun altro - ad esempio, quando l'altro non è presente ma ci scrive una lettera per dir­ ci che cosa gli è successo o come si sente. Il linguaggio può 74

suscitare una risposta empatica attraverso le proprietà fisiche delle parole divenute stimoli condizionati (il suono della parola cancro, ad esempio, può fare paura a un bambino, anche se non conosce il significato della parola, perché ne associa il suono a espressioni di paura e di ansia da parte degli adulti). Ma non è questo che rende speciale il linguaggio. Il linguaggio è qualcosa di speciale non per le proprietà fisiche delle parole bensì per i loro significati. I messaggi ver­ bali delle vittime devono essere elaborati e decodificati a livello semantico. Quando ciò avviene, il linguaggio fa da mediatore o da tramite fra i sentimenti del modello e l'esperienza dell' os­ servatore. n messaggio può esprimere i sentimenti del modello («Sono dispiaciuto))), la situazione del modello («Mio figlio è stato appena ricoverato in ospedale))), o tutt'e due le cose. Gli osservatori che decodificano il messaggio della vittima e lo met­ tono in relazione con la propria esperienza possono provare, di conseguenza, affetto empatico. Oppure, una volta decodificato, il messaggio può permettere all'osservatore di evocare imma­ gini della vittima, tanto visive (espressione facciale, pastura) quanto uditive (grida, lamenti), alle quali può poi rispondere empaticamente per associazione diretta o per mimesi. L'attivazione empatica mediata dal linguaggio è interessante per più di una ragione: in primo luogo, il tempo necessario per elaborare semanticamente un messaggio e ricondurlo alla nostra esperienza, benché senza dubbio inferiore al tempo ri­ chiesto dal condizionamento, dall'associazione e dalla mimesi, è molto variabile. L'elaborazione semantica può richiedere molto tempo, ma può anche essere straordinariamente rapida: ci vogliono meno di un secondo per categorizzare le parole di una lista ( quale delle parole che seguono designa un frutto? ) e due o tre secondi per giudicare se u n termine è sinonimo di un altro [Gitomer, Pellegrino e Bisanz 1983 ; Rogers, Kuiper e Kirker 1 977 ] . In secondo luogo, l'elaborazione semantica richiede indubbiamente uno sforzo mentale maggiore rispetto al condizionamento, all'associazione e alla mimesi. In terzo luogo, poiché non è una risposta alla vittima o all a sua situazione, l'elaborazione semantica, attraverso i processi di codifica e di decodifica, crea una distanza psicologica tra l'osservatore e la vittima. In altri termini, la vittima codifica i suoi sentimenti in parole (triste, spaventato), ma le parole sono 75

categorie generali che possono solo approssimare ciò che sente la vittima in quel momento, e le parole sono tutta l'informazione che l 'osservatore ha a disposizione. Quando decodifica il mes­ saggio, l'osservatore procede in senso inverso, dalla categoria generale del sentimento rappresentato dalla parola al proprio sentimento particolare, e agli eventi passati associati a quel sentimento. Il risultato è che i sentimenti dell'osservatore hanno molto in comune con quelli della vittima, grazie al significato normativa e condiviso delle parole della vittima, anche se vi è sempre qualcosa che va perduto, a causa di «errori» di codifica e di decodifica (e del ricordo fallace degli eventi passati). Questi errori possono essere ridotti se le vittime sanno ben tradurre i propri sentimenti in parole e se gli osservatori conoscono a fondo la vittima e i suoi sentimenti in varie situazioni, e, ma­ gari, riescono a immaginare la sua espressione facciale e il suo comportamento nella situazione presente. In generale, ci si può aspettare che la mediazione verbale faccia sì che l 'intensità della risposta empatica dell'osservatore sia minore che non quando la vittima è presente - anche se, come vedremo nel prossimo capitolo, non mancano eccezioni. Nella maggior parte dei casi, spettatore e vittima sono com­ presenti, e l'espressione verbale della sofferenza della vittima è accompagnata da stimoli visivi o uditivi a partire dai quali i processi di condizionamento, associazione o mimesi, rapidi come sono, possono suscitare la risposta empatica dell'osservatore pri­ ma dell'elaborazione semantica del messaggio verbale. Secondo la mia ipotesi, è più probabile che l'elaborazione semantica segua la risposta empatica dell'osservatore, affinandola, benché talvolta possa dare inizio al processo empatico, ad esempio, quando il messaggio verbale precede l'ingresso della vittima sulla scena. Qualunque sia la sequenza, gli stimoli espressivi della vittima, che sono facilmente colti dall'osservatore per condizionamento, associazione e mimesi, possono mantenere «vivo» il processo empatico perché si tratta di stimoli salienti e intensi, capaci di tenere desta l'attenzione dell'osservatore, a differenza dei mes­ saggi verbali, che producono una certa distanza e, in qualche misura, attenuano l'affetto empatico, a causa dei processi di codifica e decodifica implicati nella loro elaborazione. Gli stimoli espressivi della vittima possono anche evitare che gli osservatori si facciano ingann are dalle sue parole,

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quando queste ne dissimulano i sentimenti - come è possibile per la tendenza umana a far trapelare i propri sentimenti nei mutamenti involontari dell'espressione facciale, della pastura e del tono di voce. Si tratta di mutamenti che l'osservatore può cogliere per condizionamento, associazione e mimesi. Ciò indica una seconda funzione comunicativa dell'affetto empatico (vedi Bavelas et al. [ 1 988] ; quanto alla prima, vedi sopra), che è quella di fornire informazioni alla sua componente motivazionale [Hoffman 1 98 1 ] . L'affetto empatico è dunque generato tanto da meccanismi primitivi quanto da meccanismi di mediazione verbale; in genere, l'informazione originata da queste due fonti empatiche è congruente, ma, se non lo è, la discrepanza può produrre una retroazione correttiva che aiuta gli osservatori ad affinare la propria valutazione dello stato della vittima e a produrre una risposta empatica più adeguata. La sofferenza empatica per mediazione verbale è illustrata da uno studio di Batson, Sympson e Hindman [ 1 996] . I soggetti erano adolescenti che leggevano storie nelle quali una persona del loro stesso sesso descriveva un'esperienza penosa della sua vita. Una storia raccontava l'imbarazzo e la vergogna che si provano quando si ha una brutta acne, le continue burle e le osservazioni crudeli di cui si è oggetto, l'odioso spettacolo nel guardarsi allo specchio. La seconda storia descriveva ciò che una persona prova quando viene lasciata dopo una lunga relazione: il senso di tradimento e di rifiuto, il tentativo di riorganizzarsi e di andare avanti, la sfiducia in sé e l'amore che non si spegne. I soggetti dopo avere letto le storie riferirono di aver provato molta sofferenza empatica, una sofferenza che era ancora più grande tra i soggetti di sesso femminile che ricordavano di avere avuto esperienze simili, il che fa pensare a un'associazione per media­ zione verbale. Probabilmente questo tipo di mediazione era ciò che permetteva ai soggetti di immaginarsi al posto della vittima: un meccanismo di attivazione empatica di cui ci occuperemo tra breve, dopo aver presentato un caso piuttosto differente di sofferenza empatica, nel quale la mediazione non è verbale ma cognitiva (di questo esempio sono debitore a uno studente) : Mi è sempre stato detto che quando si h a a che fare con u n malato terminale è meglio non parlare con lui della malattia, ma di cose di tutti i giorni. Circa cinque anni fa mia nonna entrò in coma e (>

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un anno in quello stato. Spesso le parlavo al telefono, dicendole chi ero e raccontandole quello che facevo. Per me fu molto difficile e penoso, perché non mi rispose mai e non potei mai chiederle qualcosa di lei. Le parlavo nella speranza che prima o poi mi rispondesse. Non accadde.

In questo caso la vittima non produceva stimoli espressivi salvo il silenzio, che non aveva alcun significato se non alla luce delle conoscenze dell'osservatore e della sua comprensione della situazione della vittima. 3 .5. Assunzione di ruolo La quinta forma di attivazione empatica chiama in causa un livello superiore di elaborazione cognitiva: mettersi al posto di un altro e immaginare come si sente ( role-taking) . L'idea che se ci mettiamo al posto di un altro possiamo sentire, almeno in parte, ciò che l'altro sente non è nuova: due secoli e mezzo or sono il filosofo britannico David Hume affermò che siccome gli esseri umani sono simili per costituzione e per esperienze di vita, quando le persone immaginano di essere al posto di un altro traducono la sua situazione in immagini mentali che suscitano in loro i medesimi sentimenti [Hume 175 1 1 1 95 7 ] . Adam Smith, negli stessi anni, concordava con Hume sull'im­ portanza dell'empatia, e le sue speculazioni sulla natura del processo empatico prefigurano alcune delle formulazioni odier­ ne. Smith si rese conto che l'empatia può essere una risposta a segnali espressivi diretti dei sentimenti altrui: «Ad esempio, la pena e la gioia chiaramente espresse nello sguardo o nei gesti di qualcuno subito colpiscono lo spettatore con un certo grado di una simile emozione dolorosa o piacevole» [Smith 1759/ 1 976; trad. it. 199 1 , 84] . Smith considerava l'empatia universale e involontaria: «Nemmeno il più gran furfante, il più incallito tragressore delle leggi della società ne è del tutto privo» [Smith 1 759/ 1 976; trad. it. 1 99 1 , 8 1 ] . Pur involontaria, l'empatia è intensificata dai processi cognitivi: Con l 'immaginazione noi ci mettiamo nella sua situazione, ci rappresentiamo mentre proviamo tutti i suoi stessi tormenti, come se entrassimo nel suo corpo, e diventiamo in una certa misura la sua stessa persona e di qui ci formiamo qualche idea delle sue sensazioni e

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proviamo persino qualcosa che, nonostante di grado più debole, non è del tutto diverso da esse [Smith 1759/1976; trad. it. 1991, 82] .

Dopo (e nonostante) questi primi passi, l'assunzione di ruolo come meccanismo di attivazione empatica non fu studiata empiricamente fino alla metà degli anni Sessanta. Le ricerche più significative furono condotte da Stotland [1969] . In uno dei suoi studi, i soggetti dovevano immaginare che cosa avreb­ bero provato e quali sensazioni avrebbero avvertito alle mani se avessero subito il doloroso trattamento col calore cui era sottoposta una persona che potevano osservare attraverso uno specchio unidirezionale. Questi soggetti, come testimoniato dalla sudorazione palmare e dai resoconti personali, mostravano una sofferenza empatica maggiore di quei soggetti che erano stati invitati a osservare attentamente ciò che la vittima faceva, e anche di quei soggetti cui era stato chiesto di immaginare come si sarebbe sentita la vittima durante il trattamento col calore. Il primo risultato indica che, per suscitare empatia, immagi­ narsi al posto della vittima vale più che prestare attenzione ai suoi movimenti espressivi ; il secondo indica che, per suscitare empatia, immaginarsi al posto di un altro vale più che il di­ rigere l'attenzione direttamente sui suoi sentimenti. Stotland constatò anche che i soggetti cui era chiesto di immaginarsi al posto della vittima non mostravano alcun aumento della sudo­ razione palmare fino a 30 secondi dopo che lo sperimentatore aveva annunciato l'inizio del trattamento col calore, un tempo superiore a quello impiegato dai soggetti che dovevano sempli­ cemente osservare la vittima. Il ritardo della reazione empatica poteva essere dovuto alle esigenze cognitive dell'assunzione di ruolo (sommato allo sforzo mentale implicato nel seguire le istruzioni) . Gli studi d i Stotland m i fecero pensare che possono esi­ stere due tipi di assunzione di ruolo, con due effetti alquanto diversi: nel primo tipo, la concezione ordinaria dell'assunzione di ruolo, ci si immagina al posto dell'altra persona; nel secondo tipo, invece, ci si focalizza direttamente ai suoi sentimenti. Ho condotto parecchie interviste nelle quali chiedevo ai soggetti di descrivere situazioni nelle quali avessero risposto empatica­ mente a vittime presenti, vittime che avevano comunicato per iscritto la loro sofferenza, e vittime la cui sofferenza era stata 79

comunicata da una terza persona. Le interviste diedero due frutti: confermarono l'esistenza dei due tipi di assunzione di ruolo, ai quali si aggiunse un terzo tipo, di carattere misto; in secondo luogo, gettarono luce sui processi interattivi cognitivo­ affettivi che possono valere in tutti questi casi. l . Assunzione di ruolo centrata su di sé. Quando osservia­ mo qualcun altro che soffre, possiamo immaginare come ci sentiremmo nella stessa situazione. Se vi riusciamo abbastanza vividamente, possiamo sperimentare, in parte, il medesimo stato affettivo della vittima. E se ci tornano alla mente eventi simili del nostro passato, o se ricordiamo di aver temuto che tali eventi ci capitassero, la risposta empatica di fronte alla vittima può essere rafforzata dali' associazione con il ricordo di quegli eventi reali o temuti, con il suo carico emozionale. 2. Assunzione di ruolo centrata sull'altro. Quando veniamo a sapere di una disgrazia altrui, possiamo rivolgere direttamente la nostra attenzione sulla vittima e immaginare come si sente; ciò può tradursi in un sentimento che coincide in parte con quello della vittima. Questa risposta empatica può essere raf­ forzata dalle informazioni personali che abbiamo sulla vittima (carattere, condizioni di vita, comportamento in condizioni simili) e dalle conoscenze sul modo in cui le persone di regola si sentono in quella situazione. Essa può diventare più intensa se si presta attenzione all'espressione facciale, al tono di voce o alla pastura della vittima, poiché questi stimoli non verbali di sofferenza possono attivare i meccanismi di attivazione em­ patica più elementari (condizionamento, associazione, mimesi). Ciò può accadere anche in assenza della vittima, come quando un osservatore strettamente legato alla vittima immagina il suo aspetto, ne «ode» le grida e risponde empaticamente come se fosse lì presente. Sulla base delle mie interviste, ho proposto una spiegazione dell'osservazione di Stotland secondo la quale l'assunzione di ruolo centrata su di sé produce una sofferenza empatica più intensa dell'assunzione di ruolo centrata sull 'altro: L'immaginare se stessi al posto di qualcun altro riflette processi generati all'interno dell'osservatore [ . . . ] nei quali gli stimoli relativi all'altra persona sono messi in rapporto con stimoli analoghi dell'espe­ rienza passata dell'osservatore. L'immaginarsi al posto di qualcun altro

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produce una risposta empatica perché ha il potere di suscitare un'as­ sociazione con eventi passati nei quali l'osservatore ha effettivamente sperimentato quell'affetto [Hoffman 1 978, 1 80] .

Questo tipo di risposte generate internamente sono meno probabili quando ci rivolgiamo direttamente alla vittima. L'ipotesi che l'assunzione di ruolo centrata su di sé produca un affetto empatico più intenso di quella centrata sull'altro è stata confermata recentemente da uno studio sperimentale di Batson, Early e Salvarani [ 1977]. I soggetti erano studenti universitari che ascoltavano una (falsa) intervista radio di una giovane donna nei guai: poco tempo prima i genitori e una sorella erano deceduti in un incidente stradale, e lei doveva prendersi cura di un fratello e di una sorella più piccoli e al tempo stesso finire l'ultimo anno dell'università. Se non fosse riuscita a terminare gli studi, non sarebbe riuscita a guadagnare abbastanza per mantenere i fratelli e avrebbe dovuto darli in adozione. Ai soggetti di un primo gruppo veniva chiesto di mantenersi freddi e distaccati durante l'ascolto dell'intervista; quelli di un secondo gruppo dovevano immaginare come la giovane donna «si sentiva dopo tutto ciò che le era successo e come era cambiata la sua vita»; i soggetti di un terzo gruppo erano invitati a immaginare come «ti sentiresti se la stessa disgrazia fosse capitata a te e come questa esperienza influenzerebbe la tua vita». n risultato principale fu che entrambe le condizioni di assunzione di ruolo provocarono una sofferenza empatica maggiore che non la condizione di oggettività, e che nella condizione centrata su di sé la sofferenza fu maggiore che non nella condizione centrata sull'altro; in altri termini, i soggetti che avevano immaginato come si sarebbero sentiti al posto della vittima sperimentarono una sofferenza empatica più intensa di quelli che avevano immaginato come si sentisse l a vittima}. La ragione, a mio giudizio, è che immaginare come ci sentiremmo in una certa situazione attiva il nostro sistema di bisogni. 3 Il risultato effettivo fu che sia la condizione centrata su di sé sia quella centrata sull'altro provocarono più sofferenza empatica/simp ateti ca della con· dizione oggettiva; la condizione centrata su di sé provocò però, in aggiunta, un grado elevato di sofferenza empatica relativamente «pura» (quella che Batson et al. [ 1 997] hanno chiamato «sofferenza personale»). I termini sofferenza em· patica/simpatetica e sofferenza empatica pura possono essere meglio compresi alla luce del capitolo seguente, nel quale sono discussi più estesamente.

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L'assunzione di ruolo centrata su di sé non è tuttavia priva di limitazioni. Quando ci mettiamo al posto della vittima e rievochiamo ricordi personali carichi di risonanze affettive, questi ricordi, a volte, possono assumere il controllo della nostra risposta e spostare la nostra attenzione dalla vittima a noi stessi. L'osservatore avverte cioè una sofferenza empatica/ simpatetica («Condivido profondamente il tuo dolore; mi fa molto male vedere come stai»), ma poi comincia a pensare a una sua esperienza passata simile e magari peggiore (assunzione di ruolo centrata su di sé) e comincia ad avvertire una soffe­ renza più personale; il dolore empatico resta, ma la figura della vittima passa in secondo piano. In altri termini, la relazione empatica con la vittima si impadronisce dell'osservatore per poi, ironicamente, spezzarsi, poiché l'affetto empatico entra in profonda risonanza con i bisogni dell'osservatore stesso, il quale sposta la propria attenzione, inizialmente centrata sulla vittima, su di sé. Rimuginando sulle sue dolorose esperienze, l'osservatore si perde in preoccupazioni egoistiche e l'immagine della vittima, che aveva dato avvio al processo di assunzione di ruolo, sfugge all'attenzione e si dissolve, facendo abortire, in modo definitivo o temporaneo, il processo empatico. A questo dissolversi della relazione empatica ho dato il nome di «deriva egoistica» [Hoffman 1978] . La deriva egoistica illustra la fragilità dell'empatia facendo vedere che sebbene gli essen· umani possano provare empatia per l'altro, non sono l'altro. La mia ipotesi è che l'assunzione di ruolo centrata su di sé susciti una sofferenza empatica più intensa perché mette direttamente in relazione lo stato affettivo della vittima con il sistema di bisogni dell'osserva­ tore, ma, per questa stessa relazione, sia vulnerabile alla deriva egoistica. n risultato è che l'assunzione di ruolo centrata su di sé produce una risposta empatica più intensa, ma talvolta meno stabile, dell'assunzione di ruolo centrata sull'altro. Qualunque sia la spiegazione, la risposta affettiva dell'osservatore, sebbene inizialmente suscitata dallo stato affettivo della vittima, non va considerata, a mio giudizio, una forma di empatia, a meno che l'osservatore non rivolga di nuovo l'attenzione sulla vittima. La seguente testimonianza di una studentessa illustra come l'assunzione di ruolo centrata su di sé sia capace di suscitare affetto empatico, ma anche quanto sia vulnerabile alla deriva egoistica: 82

Steel Magnolias (Fiori d'acciaio) è un film drammatico che racconta la vita di una donna, Shelby, e della sua lotta contro il diabete. Shelby ha un marito, Jackson, e un figlio. Una sera Jackson rientra dal lavoro e trova Shelby distesa a terra, incosciente, con il telefono in mano; lì accanto, il figlio di tre anni che piange. Shelby viene portata in ospedale e muore. La madre, M'Lynn, viene consolata dalle amiche. Al funerale di Shelby, sua unica figlia, M'Lynn perde il controllo; non solo è disperata per la tragica scomparsa della figlia, ma soffre anche per suo nipote, destinato a crescere senza la madre. Si chiede perché mai Dio abbia chiamato a sé la sua Shelby: una madre non dovrebbe sopravvivere ai figli. Riuscii a restare calma fino all'ultima scena. Ma quando M'Lynn perse il controllo - la voce, le parole, l'aspetto - rividi l'immagine di mia nonna. Ricordavo quelle stesse azioni . . . quando le aveva compiute mia nonna. Persi la testa. Non pensavo più a Shelby e a M'Lynn, ma a mia nonna. Mi venne in mente come mi ero sentita quando era morta mia zia, che aveva lasciato due figli piccoli. Lo stesso dolore, la stessa angoscia mi invasero di nuovo. Gli amici che erano con me al cinema pensarono che stessi piangendo per il film, ma in realtà quelle lacrime erano per la mia vita.

Il racconto di un' altra studentessa mostra che non è neces­ sario avere avuto in passato un'esperienza simile a quella della vittima: è sufficiente la preoccupazione di averla in futuro. Una mia amica incinta ha scoperto da poco che il figlio che aspet­ tava, il quarto, ha la sindrome di Down. Mi è dispiaciuto moltissimo per lei. Da qualche tempo sto pensando di avere un figlio. Ancora non ne ho, e spesso mi capita di chiedermi come sarebbe la mia vita se avessi un figlio con una grave malformazione. Immagino tutto quello che potrebbe accadere al bambino e a me. Perciò, quando la mia amica mi diede quella notizia, cominciai subito a pensare come sarebbe stato se avessi scoperto di aspettare un bambino con la sindrome di Down. Questi pensieri si impadronirono di me al punto che dimenticai com­ pletamente la mia amica e il suo stato. Ero piena di paura per quello che mi sarebbe potuto accadere in futuro, anziché per quello che stava accadendo in quel momento alla mia amica.

3 . Combinazione. Gli osservatori possono passare dall'as­ sunzione di ruolo «centrata su di sé» a quella «centrata sull'al­ tro>> e viceversa, ovvero sperimentare le due condizioni come processi paralleli e concomitanti. La mia analisi mostra che la loro combinazione può essere estremamente efficace, poiché l'intensità emozionale dell 'assunzione di ruolo centrata su di 83

sé si combina con la più intensa e duratura attenzione verso la vittima che caratterizza l'assunzione di ruolo centrata sull'altro. Di fatto, l'assunzione di ruolo pienamente matura può essere definita come immaginarsi di essere al posto dell'altro ed integrare l'affetto empatico che ne risulta con le informazioni sull' altro di cui si è personalmente in possesso e con le pro­ prie conoscenze generali sul comportamento delle persone in quella situazione. Ciò può avvenire in entrambe le direzioni: l'assunzione di ruolo centrata su di sé può essere al servizio dell 'assun zione di ruolo centrata sull'altro, o l'assunzione di ruolo centrata sull' altro può essere al servizio dell'assunzione di ruolo centrata su di sé. Un'ultima osservazione sull' assunzione di ruolo. Sebbene si possa manifestare spontaneamente negli adulti e nei bambini a partire dai 9 anni [Wilson e Cantar 1985 ] , l 'assunzione di ruolo comporta un carico cognitivo maggiore rispetto agli altri meccanismi di attivazione empatica, cosicché ci si può aspettare che abbia una maggiore componente volontaria. Perciò sembra possibile, ad esempio, sfuggire all'assunzione di ruolo facen­ dosi distrarre da altri pensieri. Questo può essere difficile se la situazione richiede di concentrare l'attenzione sulla vittima o quando i segnali di sofferenza della vittima, per l'azione dei meccanismi di attivazione empatica di base (condizionamento, associazione, mimesi ) , diventano salienti. Ciò può spiegare per­ ché un gruppo di soggetti di Stotland [ 1 969] , cui era richiesto di prestare attenzione alla vittima ma non di mettersi al suo posto, mostravano una sudorazione palmare pari a quella dei soggetti che dovevano solo prestare attenzione alla vittima; per quanto si sforzassero, questi soggetti non potevano sfuggire all'empatia. E può spiegare anche perché la maggior parte di noi, indipendentemente dall'età, trova difficile evitare di pro­ vare empatia quando guarda un film . Troviamo cioè difficile evitare di «sospendere l'incredulità», anche se sappiamo che è tutta una «finzione». L'assunzione di ruolo, in altri termin i, può non essere quel processo volontario che a prima vista appare essere. Un' ipotesi finale sullo sviluppo: l'assunzione di ruolo cen­ trata sull'altro comporta un carico cognitivo superiore (si tratta di considerare gli stati interni dell'altro) ed è perciò acquisita più tardi. 84

4.

Molteplicità delle forme di attivazione dell'empatia

L'esistenza di più forme di attivazione dell'empatia è impor­ tante perché consente agli osservatori di rispondere in modo empatico qualunque sia l'indizio di sofferenza della vittima di cui possono disporre. Indizi quali l'espressione facciale, la voce o la postura della vittima possono essere colti dall 'osservatore per mimesi. Se gli unici segnali sono situazionali, la sofferenza empatica può essere attivata per condizionamento o per associa­ zione diretta. Se la vittima esprime sofferenza in forma verbale o scritta, o una terza persona descrive i suoi guai, l'empatia dell'osservatore può essere suscitata per mediazione verbale o per assunzione di ruolo. Quando le tre modalità elementari - mimesi, associazione e condizionamento - operano assieme, formano un potente «pacchetto» che potrebbe essere alla base dell'attivazione empatica nei bambini in età preverbale. La mimesi può essere particolarmente importante nella prima infanzia, poiché mette in corrispondenza i sentimenti dell'osservatore con quelli della vittima, anche quando l'osservatore non ha avuto esperienze simili. Le tre modalità elementari contribuiscono allo sviluppo dell'empatia anche dopo la prima infanzia, perché fanno sì che il bambino abbia esperienze nelle quali prova sofferenza in concomitanza con la sofferenza di un'altra persona, e abbia poi l'esperienza piacevole del sollievo empatico quando presta aiuto. Infine, il fatto che le tre modalità elementari siano au ­ tomatiche e siano sensibili ad ogni sorta di segnale o indizio di sofferenza permette di spiegare la dimensione involontaria dell'empatia negli adulti, che, tra le altre cose, può ridu rre la tendenza alla «deriva egoistica». In genere, le vittime sono presenti e tutti i meccanismi di attivazione sono all'opera. In questo caso, le varie modalità possono dividersi il lavoro. Alcuni meccanismi di attivazione (mimesi) si prestano meglio a intensificare l' affetto empatico o a mantenere l'attenzione centrata sulla vittima. Altri contri­ buiscono maggiormente ad alimentare la «deriva egoistica» (è il caso dell'assunzione di ruolo focalizzata su di sé). Alcuni meccanismi possono iniziare il processo empatico, dopo di che vengono meno e altri li sostituiscono. La mimesi, ad esempio, può avviare il processo di attivazione, ma poi venir meno per 85

l'affaticamento dei muscoli facciali; la faccia della vttuma, tuttavia, è ugualmente rappresentata a livello cognitivo, e tale rappresentazione può sostenere altri meccanismi di attivazione empatica e mantenerli operanti. Le varie modalità, oltre che dividersi il lavoro, possono interagire reciprocamente: l'affetto empatico suscitato dalle modalità elementari può attivare l'as­ sunzione di ruolo, che può intensificare e dare un significato più ampio all' affetto empatico. Quali meccanismi inizino il processo, se quelli elementari o quelli più cognitivi, è cosa che può dipendere dallo stile personale e dal contesto. In generale, tutte le modalità dovrebbero produrre lo stes­ so affetto empatico (fatta eccezione per i casi considerati nei capp. III e IV), e la ridondanza funzionale dovrebbe assicurare una risposta empatica nella maggior parte degli osservatori. In effetti, benché la sofferenza empatica possa essere, e di solito sia, meno intensa della sofferenza sperimentata dalla vittima, gli effetti congiunti delle diverse modalità di attivazione possono fare in modo che la sofferenza empatica sia più dolorosa di quella della vittima. Ciò può spiegare un fenomeno che affascinò Darwin : «Tuttavia è molto strano che la compassione per le sofferenza degli altri susciti le lacrime più facilmente delle nostre stesse sofferenze; eppure è proprio così» [ 1 862/1 965 ; tra d. i t. 1 982 , 292 ] . La mia ipotesi è che in questi casi l'immaginazione dell'osservatore prenda il volo quando egli si vede al posto della vittima (assunzione di ruolo centrata su di sé), mentre la vittima ha avuto più tempo per accettare la situazione e adat­ tarvisi. Il risultato è che la sofferenza empatica dell'osservatore può essere più intensa di quella sperimentata dalla vittima (e presumibilmente più intensa della sofferenza dell'osservatore se questi si trovasse dawero al posto della vittima) . Ritorneremo su questo più avanti (cap. VIII) . L'esistenza di più forme di attivazione empatica h a a che fare con la mia definizione di empatia, secondo cui essa non richiede necessariamente (benché spesso includa) una stretta corrispondenza tra l ' affetto dell'osservatore e quello della vittima. Da un lato, l'esistenza di più modalità di attivazione assicura un certo grado di corrispondenza tra i sentimenti degli osservatori e quelli delle vittime, anche in culture differenti, per tre ragioni. La prima è che la mimesi, essendo automatica e con un fondamento neurale, garantisce una stretta corrispon86

denza affettiva quando tra l'osservatore e la vittima esiste un contatto diretto, faccia a faccia. La seconda è che anche il condizionamento e l'associazione assicurano un certo grado di corrispondenza, giacché gli esseri umani sono strutturalmente simili ed elaborano le informazioni in modo simile; perciò è probabile che essi reagiscano ad eventi simili con sentimenti simili. D'altra parte, come vedremo, vi sono occasioni nelle quali l'empatia non richiede una corrispondenza e, anzi, può richiedere una certa mancanza di corrispondenza, come quando le condizioni di vita della vittima smentiscono i suoi sentimenti nella situazione immediata. È probabile che in queste situazioni la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo abbiano un ruolo decisivo. Ricapitolando, la sofferenza empatica è una risposta umana multideterminata e per ciò stesso affidabile. Le tre modalità preverbali sono cruciali nell'infanzia, specialmente nelle situa­ zioni di contatto diretto, ma continuano a operare anche dopo, e conferiscono all'empatia un'importante dimensione involon­ taria in tutto l'arco della vita. Esse non solo ci permettono di rispondere a qualunque tipo di indizio sia disponibile, ma ci costringono a farlo (all'istante, automaticamente e senza con­ sapevolezza conscia). Così accade, ad esempio, nell'evitamento empatico: anche se una persona tenta di sfuggire all'empatia astenendosi dal contatto visivo o non prestando ascolto alle parole che descrivono la situazione della vittima, può ugual­ mente provare sofferenza empatica per condizionamento o per associazione. Le due modalità cognitivamente superiori - la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo - possono essere ritardate e anche controllate volontariamente, ma quando l'at ­ tenzione è concentrata sulla vittima, anch'esse possono agire rapidamente e involontariamente, e attivarsi immediatamente alla vista della situazione della vittima. Il contributo di queste due forme di attivazione cognitivamente superiori consiste nell'estendere la portata della capacità empatica e permettere di provare empatia per le persone assenti. Tutto ciò concor­ da perfettamente con le prove presentate sopra sull'efficacia dell 'empatia come motivazione morale prosociale, e con la tesi che l'empatia sia divenuta, per selezione naturale, parte integrante della natura umana [Hoffman 1 98 1 ] . E concorda anche con le prove che l'empatia ha una componente ereditaria: 87

i gemelli monozigoti, come attestano le misure dell'empatia, sono più simili tra loro dei gemelli dizigoti della stessa età [Zahn-Waxler et al. 1 992] . Prima di concludere questo capitolo vorrei porre un in­ terrogativo fondamentale sull'empatia: perché i meccanismi di attivazione empatica funzionano? In altri termini: perché susci­ tano nell'osservatore sentimenti analoghi a quelli della persona osservata? La mia risposta, implicita nell'analisi precedente, è che, a causa della somiglianza strutturale dei sistemi di risposta fisiologica e cognitiva degli individui, eventi simili suscitano sentimenti simili (non però identici, per le ragioni esposte sopra). Ciò nondimeno, il grado di somiglianza strutturale, e perciò la tendenza a provare empatia gli uni per gli altri, sarà maggiore tra individui che condividono la stessa cultura e che vivono in condizioni simili, e specialmente che interagiscono spesso, che non tra individui di culture differenti o che inte­ ragiscono di rado. Ciò è certamente vero del sistema cognitivo ma è vero anche del sistema fisiologico, come hanno mostrato Levenson e Ruef [ 1 997] , i quali hanno osservato un aumento della «sincronia fisiologica» in persone che passavano molto tempo insieme: per esempio, un aumento della covariazione dei valori della frequenza cardiaca di pazienti e terapeuti, o di madri e figli piccoli.

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CAPITOLO TERZO

LO SVILUPPO DELLA SOFFERENZA EMPATICA

Come ho già osservato, la sofferenza empatica sembra essere una risposta piuttosto semplice: soffriamo quando vediamo che qualcuno sta soffrendo. Ma quando si considera la sofferenza empatica in osservatori maturi, la sua complessità emerge im­ mediatamente. In primo luogo, essa include una consapevolezza metacognitiva del fatto che stiamo rispondendo empaticamente: non solo avvertiamo sofferenza, ma siamo consapevoli che tale sentimento è la risposta a una disgrazia che ha colpito un'altra persona e al sentimento di dolore o di afflizione che attribuia­ mo a quella persona. L'osservatore maturo che prova empatia ha già raggiunto lo stadio dello sviluppo nel quale l'individuo acquisisce un senso cognitivo di sé e degli altri come entità fisiche distinte, con stati interni indipendenti, identità personali e una vita non limitata alla situazione immediata, e perciò può distinguere quel che gli accade da quel che accade agli altri. In secondo luogo, gli osservatori maturi sanno come si sentirebbero - e anche, grosso modo, come si sentirebbe la maggior parte delle persone - al posto dell'altro. In terzo luogo, sanno che il comportamento esteriore dell' altro (espressione facciale, pastura, tono di voce) può riflettere ciò che egli sente interiormente, ma sanno anche che queste espressioni esteriori, in qualche misura, possono essere controllate, così che l'altro può dissimulare ciò che sente dentro di sé. Inoltre, è probabile che tutte queste conoscenze che l'osservatore maturo possiede (assieme, eventualmente, ad altre sue possibili informazioni personali sulla vittima) siano rapidamente integrate per spiegare la causa della situazione in cui si trova la vittima. In breve, per sperimentare una sofferenza empatica matura occorre distin­ guere in modo chiaro ciò che accade agli altri e ciò che accade a noi stessi e comprendere come i sentimenti sono espressi e come sono influenzati dagli eventi. 89

Benché gli infanti e i bambini più piccoli non posseggano molte di queste capacità cognitive, essi possono provare em ­ patia grazie ai meccanismi di attivazione elementari (mimesi, condizionamento e associazione) . La differenza tra l'empatia nella prima infanzia (basata su questi meccanismi) e l'empatia matura mostra che lo sviluppo della sofferenza empatica può rispecchiare lo sviluppo sociocognitivo del bambino e special­ mente lo sviluppo di un senso del sé come entità separata e indipendente, di un senso degli altri e di un senso della relazione tra sé e gli altri. Poiché il senso di sé e degli altri va incontro a profondi cambiamenti evolutivi, esso offre un quadro di riferimento per una sequenza di sviluppo dell'empatia. Credo sia utile distinguere quattro grandi stadi nello svi­ luppo del senso di sé e dell'altro: a) differenziazione vaga o confusa tra sé e l'altro; b) consapevolezza di sé e degli altri come entità fisiche distinte; c) consapevolezza di sé e degli altri come soggetti con stati interni indipendenti; d) consapevolezza di sé e degli altri come persone con storia, identità e vita proprie, al di là della situazione immediata. Questi stadi sociocognitivi interagiscono con l'affetto empatico suscitato dai vari mecca­ nismi di attivazione, e si traducono nello schema evolutivo che illustreremo nel resto del capitolo. È il caso di avvertire che i livelli di età associati agli stadi e alle transizioni tra uno stadio e il successivo non sono esatti, e che le differenze individuali possono essere molto grandi.

l.

Il pianto reattivo del neonato

Gli studiosi della prima infanzia (e non solo loro) san­ no bene che quando un bambino piccolo ne sente un altro piangere comincia a piangere a sua volta. Il primo studio controllato su questo tipo di pianto reattivo è stato quello di Simner [ 1 97 1 ] , che lo ha osservato in bambini di due e tre giorni di vita. Simner ha dimostrato anche che la causa del pianto reattivo non è l'intensità del pianto dell'altro bambino, giacché i bambini non cominciano a piangere quando ascol­ tano un grido di pari intensità p rodotto da un sintetizzatore digitale. I risultati di Simner sono stati replicati in bambini di un solo giorno di vita da Sagi e Hoffman [ 1 976] , che hanno 90

osservato anche che il pianto reattivo non è una semplice risposta vocale imitativa priva di una componente affettiva; esso è energico, intenso e indistinguibile dal pianto spontaneo di un bambino realmente afflitto. Martin e Clark [ 1 982] hanno replicato questi risultati e hanno mostrato anche che i bambini non piangono allo stesso modo in risposta al pianto di uno scimpanzé (che, per inciso, gli adulti trovano più sgradevole del pianto dei bambini) o in risposta al suono del proprio pianto. Sembra dunque che nel pianto di un altro bambino vi sia qualcosa di particolarmente sgradevole che provoca nel neonato agitazione e disagio. Perché succede questo? La spiegazione più plausibile è che il pianto reattivo del neonato sia una risposta innata e isomorfa di fronte al pianto di un conspecifico, una risposta adattativa p remiata dalla selezione naturale. Il meccanismo psicologico primario che ne è alla base potrebbe essere una forma di mimesi nella quale il neonato imita automaticamente il pianto di un altro bambino, dopo di che il suono del suo pianto e i cambiamenti che si producono nella configurazione dei suoi muscoli facciali avviano un processo di retroazione che lo mette in agitazione. Ma il pianto reattivo potrebbe essere anche una risposta appresa, basata sul condizionamento. Nel capitolo secondo, ho menzionato il riflesso di suzione nei bambini di un giorno di vita. Sembra che altri comportamenti frequenti nel neonato, come il pianto reattivo, possano essere anch'essi condizionati, forse nel modo seguente: il pianto reattivo può essere una risposta di sofferenza condizionata a uno stimolo (il pianto di un altro bambino) che rassomiglia ad altri stimoli (il pianto del bambino stesso) associati con precedenti esperienze di dolore e disagio - a partire, forse , dalla nascita stessa. Ma vi è anche un'altra possibilità: l'imitazione, che comincia anch 'essa poco dopo la nascita. L'imitazione, tuttavia, non può spiegare da sola il pianto reattivo, che, come abbiamo sottolineato, non è solo un pianto imitato, ma, in generale, una risposta di sofferenza energica e inquieta. La spiegazione psicologica più plausibile, a mio giudizio, è una combinazione dei processi di mimesi e condizionamento, coadiuvati dall'imitazione. Indipendentemente dalla causa, il neonato risponde a un segnale di sofferenza di un'altra persona provando a sua

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volta sofferenza. Il pianto deve perciò essere considerato un precursore primitivo ed elementare della sofferenza empatica - precursore perché, nel rispondere all' «altro», il neonato pro­ babilmente avverte che esso è in relazione con il «Sé», cioè che fa parte della stessa entità psicologica globale cui appartiene il sé. Va sottolineato che il pianto reattivo del neonato, nonostante questa limitazione, può essere alla base di forme di sofferenza empatica più avanzate, creando uno stato nel quale un segnale di sofferenza di un'altra persona (pianto) accompagna l'espe­ rienza di sofferenza del bambino stesso. Questa concomitanza può far sì che anche in futuro il bambino, per condizionamento e associazione, provi sofferenza ogni volta che vede qualcun altro soffrire, cioè che provi sofferenza empatica. Dal punto di vista dello sviluppo, ci si potrebbe aspettare che il pianto reattivo del neonato sia limitato ai primi mesi di vita e che scompaia intorno ai sei mesi, col nascere nel bambino della coscienza di sé e degli altri come esseri distinti. Questa coscienza dovrebbe ostacolare le sue risposte per mi­ mesi automatica e per condizionamento al pianto di un altro bambino, o per lo meno rallentarle. E anche il suo crescente interesse per altri aspetti della realtà e la sua maggiore capacità di regolare le emozioni dovrebbero renderlo meno sensibile al pianto. Questa supposta diminuzione della sensibilità è stata confermata da uno studio di Hay, N ash e Pedersen [ 1 98 1 ] , nel quale erano tenute sotto osservazione dodici coppie di bambini di 6 mesi che interagivano in una stanza dei giochi allestita in laboratorio in presenza delle madri. La scoperta principale fu che quando un bambino era afflitto, l ' altro quasi sempre lo osservava, ma di rado piangeva o era a sua volta afflitto. Vi era però un effetto cumulativo: dopo aver visto più volte un bambino afflitto, anche l'altro bambino si affliggeva . . e comtnCiava a piangere. Il pianto di un bambino di 6 mesi si differenzia dal pianto di un neonato anche per un altro aspetto: non è istantaneo e agitato; a 6 mesi, appena prima di scoppiare in lacrime, il bambino ha uno sguardo triste e increspa le labbra, proprio come i bambini di quell'età quando sono realmente afflitti. È notevole che Darwin [ 1 877], che aveva osservato attentamente le risposte facciali ed emozionali del figlio fin dalla nascita, scriva qualcosa di simile: «A sei mesi e undici giorni dimostrò .

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in modo esplicito comprensione simpatetica per la sua balia che fingeva di piangere» [ibidem, trad. it. 1 982 , 1 08] . La differenza tra il bambino di 6 mesi e il neonato sug­ gerisce che man mano che il processo di differenziazione sé-altro va avanti, il fondamento delle risposte di sofferenza empatica globale si indebolisca. I bambini non rispondono più automaticamente al pianto altrui, perché l'altro bambino sta diventando ormai un vero e proprio «altro», che essi percepi­ scono, almeno vagamente, come un'entità fisicamente distinta da loro. Perché il bambino provi a sua volta sofferenza è ora necessario che i segnali di sofferenza altrui abbiano una durata maggiore. Inoltre, siccome il bambino può essere assorbito dai suoi pensieri, può darsi che per catturare la sua attenzione sia necessario uno stimolo più saliente, ad esempio un pianto prolungato. Infine, la faccia triste e le labbra increspate prima di scoppiare in lacrime, che il bambino mostra anche quando è realmente afflitto, riflettono, con ogni probabilità, l'emergere della sua capacità di controllare le emozioni. 2. Sofferenza empatica egocentrica Alla fine del primo anno, il bambino risponde ancora alla sofferenza di un altro bambino suo coetaneo incupendosi in viso, increspando le labbra e poi scoppiando a piangere, ma adesso può anche mettersi a piagnucolare e a guardare silen­ ziosamente l'altro bambino [Radke- Yarrow e Zahn-Waxler 1 984] . La maggior parte dei bambini, benché alcuni prima di altri, cominciano a reagire meno passivamente alla sofferenza altrui e adottano comportamenti chiaramente diretti a ridurre la propria sofferenza. Tre studiosi hanno descritto il medesimo fenomeno: quando la figlia di una mia studentessa, una bambina di 10 mesi, vide un'amichetta cadere e scoppiare in lacrime, la fissò, si mise a piangere, poi si portò il pollice alla bocca e appoggiò la testa in grembo alla madre, come era abituata a fare quando si faceva male [Hoffman 1975b] . Radke-Yarrow e Zahn-Waxler [ 1 984] hanno descritto molti casi simili, come quello di una bambina di 1 1 mesi: «Quando Sari vedeva qualcuno sofferente per un dolore fisico, si rattristava, increspava le labbra, cominciava a 93

piangere e camminava carponi verso la madre per essere presa in braccio e consolata» [ibidem, 89] . Kaplan [ 1977 , 9 1 ] ha osservato una bambina di 9 mesi che aveva mostrato, in passato, intense reazioni empatiche di fronte alla sofferenza di altri bambini. Di solito in questi casi non distoglieva lo sguardo dalla scena, benché ne fosse evidentemente turbata. Quando un altro bambino cadeva, si faceva male o piangeva, Hope restava a fissarlo, con gli occhi pieni di lacrime. In quei momenti era sopraffatta dall'emozione, e finiva per scoppiare a piangere e a camminare carponi in tutta fretta verso la madre per essere consolata.

La descrizione di Kaplan è molto interessante perché rivela, al tempo stesso, la sofferenza personale della bambina (intensa e fondata sull'empatia), la consapevolezza che a un altro bambino sta accadendo qualcosa di sgradevole, ma anche una certa confusione su chi stia effettivamente soffrendo. La situazione fa soffrire la bambina, la quale cerca conforto così come fa d'abitudine quando soffre. Io credo che questi bambini rispondano nello stesso modo alla sofferenza empatica e a quella reale perché, sebbene stiano sviluppando un senso del sé come entità coerente, continua e distinta dagli altri, davanti a sé hanno ancora molta strada da fare. Essi inoltre rimangono limitati ai meccanismi di attiva­ zione empatica di tipo preverbale (mimesi, condizionamento e associazione) , e la loro condotta fa pensare che non abbiano ancora le idee chiare sulla fonte della loro sofferenza empatica. A volte guardano intensamente la vittima, ciò che riflette un certo grado di differenziazione sé-altro. Altre volte ricorrono alle abilità motorie appena acquisite (camminare carponi) per accostarsi alla madre e dare qualche sollievo alla propria sofferenza empatica. Ma il fatto che per ridurre la propria sofferenza empatica e quella reale essi si comportino allo stesso modo rivela quanto debba essere difficile per loro distinguere la propria sofferenza empatica dalla sofferenza della vittima che l'ha causata e dalla propria sofferenza reale. L'ipotesi più semplice è che questi bambini si comportino allo stesso modo nelle situazioni di sofferenza empatica e di sofferenza reale perché non hanno le idee chiare sulla differenza tra le due situazioni, cioè tra qualcosa che accade ali' altro e qualcosa che accade al sé. 94

A tutta prima, questa spiegazione sembrerebbe contraddire lo studio di Stern [ 1985 ] che mostra che i bambini hanno un «sé nucleare» (core se/f) fin dai 7 mesi d'età. Non credo però che vi sia contraddizione; infatti, secondo Stern, il sé nucleare include la percezione di avere un controllo sulle proprie azioni e di avere sentimenti associati alla propria esperienza. n sé nu­ cleare è un'unità coerente, delimitata fisicamente, in relazione di continuità con il proprio passato. Ciò che tiene insieme il sé nucleare e gli conferisce coerenza e continuità sono le sensazioni cinestetiche che il bambino riceve da muscoli, ossa e articolazioni quando si muove. Queste sensazioni cinestetiche producono un pattern invariante di consapevolezza. n sé nucleare è perciò «un sé esperienziale, basato sulla propriocezione, e non il concetto di sé verbalizzabile, rappresentazionale e riflessivo che emerge attorno alla metà del secondo anno [quando, ad esempio, il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio] » [ibidem, 7 ] . Il pattern invariante d i autoconsapevolezza deriva perciò dalla continuità delle sensazioni cinestetiche dell'infante; ma questo, a mio giudizio, è un fondamento precario per il sé nucleare dell'infante, poiché, a differenza del sé riflessivo, esso non gode dell'influenza stabilizzante della cognizione. Sebbene sia possibile che tale precarietà normalmente non causi problemi, il senso di continuità dell'infante può venir meno ogni volta che egli «condivide» la sofferenza di qualcun altro, come avviene nella sofferenza empatica, poiché le sen­ sazioni corporee cinestetiche sulle quali si basa la continuità del sé si confondono con le sensazioni corporee derivanti dal sentimento di sofferenza empatica dell'infante (provocato da mimesi, condizionamento e associazione) . Di conseguenza, l'infante sperimenta una rottura temporanea dei confini del sé, e un sentimento di confusione sull'origine della sua sofferenza. L'infante ha difficoltà a distinguere tra la sofferenza altrui e quella propria (reale o empatica), e risponde allo stesso modo a entrambe. In ogni caso, poiché la risposta dell'infante alla sofferenza altrui e alla propria è simile, parlerò di sofferenza empatica «egocentrica». Il termine sofferenza empatica egocentrica ha l'aria di un ossimoro e di fatto, in questa fase dello sviluppo, la sofferenza egocentrica ha tratti contraddittori. Da un lato, la ricerca di conforto da parte del bambino attesta la natura 95

egocentrica della sofferenza empatica; dall'altro, il fatto che prima il bambino fosse felice e contento e avrebbe continuato a esserlo se non fosse stato per la disgrazia toccata all'altro - il fatto cioè che la sofferenza empatica dipenda dalla sofferenza reale di un'altra persona - ne dimostra la natura prosocia­ le. Riassumendo, verso la fine del primo anno la sofferenza empatica è una motivazione egocentrica, ma, a differenza di altre motivazioni di questo tipo, è scatenata dalla sofferenza di un'altra persona, e ciò le conferisce qualità prosociali. Non si tratta di una motivazione prosociale compiuta, ma di una forma intermedia, che può a buon diritto essere considerata un precursore della motivazione prosociale.

3.

La sofferenza empatica quasi-egocentrica

Circa un mese o due più tardi, al principio del secondo anno, il pianto empatico del bambino e della bambina, il loro piagnucolare e guardare la vittima diventano meno frequenti ed essi si avvicinano alla vittima per aiutarla. I primi approcci, che includono tentativi di stabilire un contatto fisico ( dare colpetti, toccare) , cedono ben presto il passo ad interventi positivi più differenziati: baci, abbracci, aiuto fisico, richieste d'aiuto ad altre persone, consigli e conforto simpatetico [Radke-Yarrow e Zahn-Waxler 1 984 ] . È evidente che sebbene i bambini si limitino ancora, in gran parte, alle forme di attivazione empa­ tica preverbali, sono adesso meno legati al loro sé cinestetico e soggettivo, e più ancorati, per via cognitiva, alla realtà esterna. Benché ancora manchi loro il senso del proprio corpo come oggetto che è possibile rappresentare fuori del sé soggettivo (fino ai 18-24 mesi, essi sono incapaci di riconoscere la propria immagine allo specchio) , sono però sulla strada per conseguirlo ( quando un oggetto in movimento appare nello specchio alle loro spalle allungano la mano dietro di sé) , e sanno che gli altri sono entità fisiche separate [Baillargeon 1 987 ; Lewis e Brooks-Gunn 1 979] . Possono pertanto rendersi conto che l'altro avverte dolore o sofferenza, e le loro azioni sono chiaramente dirette ad aiutarlo. Tuttavia, queste stesse azioni rivelano un'importante limita­ zione cognitiva: i bambini hanno stati interni ma non si rendono 96

conto che anche gli altri hanno stati interni indipendenti. Essi non sanno che i loro desideri sono in relazione con il mondo circostante, e suppongono che gli altri vedano le cose così come le vedono loro. Sanno che l'altro soffre, ma sono ancora troppo egocentrici per usare tipi di aiuto che non siano quelli da cui loro stessi ricevono conforto. Un bambino di 14 mesi rispose al pianto di un amico guardandolo con tristezza, per poi prenderlo gentilmente per mano e portarlo con sé da sua madre, benché fosse lì presente anche la madre dell'amico [Hoffman 1 978] . Questo comportamento mostra chiaramente che la sofferenza empatica opera come una motivazione prosociale, ma rivela anche la confusione egocentrica del bambino tra i suoi bisogni e quelli del suo amico. Un comportamento simile da parte di una bambina di 15 mesi è stato descritto da una madre del campione longitudinale di Radke-Yarrow e Zahn-Waxler: «Mary notò un bambino in visita che piangeva, e non lo perse d 'occhio. Lo seguì ovunque andasse, e non smise di dargli giocattoli e altri oggetti per lei preziosi, come la sua bottiglia o una collana di perle che le piaceva tanto» [ 1 984, 90] . Riassumendo, in questo stadio i bambini sono consapevoli di essere fisicamente separati dagli altri, e sanno anche quando un'altra persona soffre . Sebbene ancora si limitino, in larga misura, alle modalità preverbali, i bambini sono capaci di una forma embrionale di assunzione di ruolo centrata su di sé, e non confondono più la propria sofferenza empatica con la propria sofferenza reale o con quella della vittima. In questo stadio la sofferenza empatica è senza dubbio una motivazione prosociale: il bambino cerca di dare aiuto, ma le sue azioni sono inefficaci perché non riesce a comprendere gli stati interni degli altri e suppone che ciò che va bene per lui andrà bene anche per gli altri. Questa supposizione è spesso valida (è condivisa anche dagli adulti, che però non si limitano ad essa) , ma quando non lo è le limitazioni cognitive sottostanti diventano palesi.

4 . L a sofferenza empatica veridica I mutamenti principali del senso di sé avvengono verso la metà del secondo anno di vita. Per la prima volta, il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio [Lewis e Brooks-Gunn 97

1 979] . Questo «sé allo specchio» (mirror-self) indica che il bambino sente il proprio corpo come un oggetto che può essere rappresentato in una forma separata dal sé soggettivo cinestetico, e probabilmente come un oggetto che gli altri possono vedere. Verso la fine del secondo anno di vita i bambini cominciano a essere consapevoli che gli altri hanno stati interni (pensieri, sentimenti, desideri) e che tali stati possono, talvolta, differire dai loro. Ciò, naturalmente, fa sì che la risposta empatica dei bambini aderisca più fedelmente ai sentimenti e ai bisogni degli altri nelle diverse situazioni, e che i bambini aiutino gli altri con maggiore efficacia. La transizione dalla sofferenza empa­ tica quasi-egocentrica a quella veridica è illustrata dal caso di David, un bambino di due anni che, per confortare un amico in lacrime che si era fatto male mentre i due si disputavano un giocattolo, gli diede il proprio orsacchiotto di pezza. Siccome il tentativo non ebbe successo, David si fermò un momento, poi corse nella stanza accanto e ritornò con l'orsacchiotto del suo amico, il quale lo strinse tra le braccia e smise di piangere. Il fatto che David porgesse all'amico il proprio orsacchiotto è un esempio tipico di empatia quasi-egocentrica, ma egli si dimostrò capace di usare la retroazione correttiva (l'amico aveva continuato a piangere) . Ciò significa che David era abbastanza sviluppato cognitivamente per chiedersi perché il suo orsac­ chiotto non valeva a calmare il pianto del suo amico, riflettere sul problema, e concludere che il suo amico avrebbe preferito (al pari di David) il proprio orsacchiotto. In altri termini, è possibile che la retroazione correttiva avesse attivato in David l'assunzione del ruolo altrui, forse con l'aiuto del ricordo dell'amico che giocava allegramente con quell'orsacchiotto, e del ricordo dell'orsacchiotto nella stanza accanto. Ciò indica che la transizione dall'empatia quasi-egocentrica a quella veridica può avvenire quando il bambino è cognitivamente preparato a usare le informazioni di retroazione che riceve dopo avere commesso un errore «egocentrico». Col tempo, la retroazione diventa superflua (benché anche gli adulti, a volte, ne abbiano bisogno) . Un episodio simile, che non riguarda la retroazione corret­ tiva ma illustra la capacità di un bambino piccolo di collegare eventi distanziati nel tempo, è quello di Sarah, una bambina 98

di 2 anni e 3 mesi che faceva un viaggio in automobile con la cugina [Blum 1 987 ]. Quest'ultima era triste perché non riu­ sciva a trovare il suo orsacchiotto di pezza. Qualcuno le disse che stava nel bagagliaio, e che l'avrebbe potuto recuperare una volta a casa. Dieci o quindici minuti dopo, ormai in vista della casa, Sarah disse: «Ora potrai prendere il tuo orso». In un'altra occasione, quando aveva 3 anni, Sarah mostrò una ca­ pacità ancora più grande di collegare nel tempo quando diede a un amico il suo berretto di Paperino perché lo tenesse «per sempre», in sostituzione del cappellino dei Boston Celtics che quel bambino aveva perduto qualche giorno prima. Insomma, in questo stadio i bambini non si limitano a provare empatia per le persone che soffrono; possono anche mettersi al posto della vittima e riflettere sui suoi bisogni in quella situazione. L'empatia veridica è importante perché, a differenza degli stadi precedenti, che hanno vita breve e vengono meno nel momento in cui cedono il passo agli stadi successivi, questo stadio racchiude tutti gli elementi dell'empatia matura e conti­ nua a crescere e a svilupparsi per tutta la vita. Nella sua forma compiuta, permette al bambino non solo di esperire il proprio corpo come un oggetto che può essere rappresentato fuori del suo sé soggettivo cinestetico (il sé allo specchio) , ma anche di esperirlo come qualcosa che contiene (ed è guidato da) un sé mentale interno, un «io» che pensa, sente, pianifica e ricorda. Questo «sé riflessivo» include la conoscenza che siamo sepa­ rati dagli altri non solo sul piano fisico, ma anche sul piano dell'esperienza interna, e che la nostra immagine esterna è un aspetto di questa esperienza. Ciò ci permette di capire che lo stesso è vero degli altri: anche per loro l'immagine esterna è l'altra faccia dell'esperienza interna. L'assunzione di ruolo, quella centrata sull'altro non meno di quella centrata su di sé, è ormai alla portata del bambino, il quale sa che gli altri hanno sentimenti e pensieri indipendenti dai propri, e questa cono­ scenza, che non lo abbandonerà più, è la base per continuare, per tutta la vita, a rispondere empaticamente a ogni sorta di sentimento nelle situazioni più diverse. Da principio, i sentimenti cui i bambini possono rispondere empaticarnente sono semplici (come nella storia degli orsacchiot­ ti) , ma poi, comprendendo meglio le cause, le conseguenze e i correlati delle emozioni, essi possono rispondere empaticamente 99

a sentimenti di sofferenza altrui sempre più complessi (come la delusione quando un amico rivela un segreto, o, quando non si riesce a fare qualcosa, la paura di perdere la faccia se si ac­ cetta un aiuto). La rassegna che segue - basata principalmente, salvo indicazione diversa, su Bretherton e colleghi [ 1 986] - dà un'idea dello sviluppo della comprensione delle emozioni e, con essa, della capacità empatica dalla prima infanzia alla fine dell'adolescenza. Seguirò grosso modo l'ordine evolutivo; se vi siano stadi o sottostadi che formano sequenze ordinate è cosa che richiede ulteriori ricerche1• Prima fanciullezza. I bambini di 2-3 anni di età cominciano a comprendere le cause, le conseguenze e i correlati delle emo­ zioni, e si rendono conto che i sentimenti possono influenzare l'espressione facciale di una persona («Katie è triste. Katie non ha la faccia felice») ; che i sentimenti possono scaturire da azioni altrui («Mamma sei triste. Papà ti ha fatto qualcosa?»; «Ti ho fatto star male perché sono stato cattivo con te»; «La nonna si è infuriata [perché] ho sporcato la parete») ; infine, che i sentimenti possono causare azioni altrui («Piango [perché così] la signora mi prende in braccio») . I n età prescolare, i bambini sono i n grado di parlare adeguatamente di emozioni sottili come il sentire l'assenza di un genitore («È triste. Quando suo padre torna a casa sarà contento», detto guardando un'illustrazione raffigurante un ragazzo dall'aspetto triste). Cominciano a capire che lo stesso evento può suscitare sentimenti diversi in persone diverse, e sono in grado di tener conto dei desideri di un'altra persona 1 Quando si parla di sviluppo, sarebbe indispensabile essere chiari circa le età a cui ci si sta riferendo. Spesso nei testi italiani (e soprattutto nelle traduzioni dall'inglese) ciò non avviene, per una strana idiosincrasia nei con­ fronti del termine fanciullezza, che corrisponde a childhood (il periodo che va dai 2·3 anni all' adolescen za). Si preferisce di solito tradurre quest'ultimo con infanzia, corrispondente all'inglese infancy (che indica il primo anno di vita). Infancy viene poi anch'esso tradotto con infanzia, oppure con prima infanzia. Se un brano n on contiene altre indicazioni circa le età dei bambini, l'uso generalizzato di infanzia comporta una perdita di informazioni. Ma a volte succede di peggio: si traduce early childhood 0 ·4 anni) con prima in/anzùJ, e allora le informazioni che si danno non sono lacunose ma del tutto sbagliate. Per questo nella presente traduzione si parla di infanzia e di prima e media fanciullezza. In/ant viene tradotto con in/ante, a meno che l'età non sia già in­ dicata in altro modo, nel qual caso ricorre anche il termine bambino [NdC] .

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quando devono giudicare quali emozioni proverà quella persona in una determinata situazione [Harris et al. 1 989] . Ma sanno anche che le persone possono controllare l'espressione delle proprie emozioni, che le emozioni mostrate non coincidono necessariamente con quelle provate, che una persona può avere un desiderio anche quando non fa nulla per realizzarlo [Astington e Gopnik 1 99 1 ] . Media fanciullezza. A 6 o 7 anni, alcuni bambini cominciano a mostrare una comprensione più sottile delle relazioni tra i propri sentimenti e quelli altrui. Si rendono conto che comu­ nicare i propri sentimenti a un 'altra persona può farla sentire meglio («So come ti senti, Chris. Il primo giorno della scuola materna ho pianto anch 'io» ) . Mostrano una consapevolezza nascente del significato dell'amicizia - ad esempio, che è più facile che un amico perdoni uno sgarbo involontario («Ho provato ad avvicinarmi a Jim per giocare di nuovo con lui, ma lui non vuole stare con me . . . quando un bambino non è davvero amico tuo non sa che tu non volevi fargli male»). Non dovrebbe sorprendere che a questa età, avendo afferra­ to la relazione tra i sentimenti propri e quelli altrui, i bambini comincino a mostrare quella consapevolezza autoriflessiva e metacognitiva della sofferenza empatica che considero neces­ saria per il compiuto sviluppo dell'empatia. In uno studio di Strayer [ 1 993 ] , venivano mostrate a bambini di 5, 7, 8 e 1 3 anni delle scene filmate che presentavano altri bambini in situazioni molto penose (un bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che imparava a salire le scale con un bastone; un bambino separato a forza dalla famiglia). Più tardi, ai soggetti veniva chiesto se avevano provato qualche sentimento guardando le scene e, in caso affermativo, perché avevano provato proprio quel sentimento. La maggior parte dei soggetti di 7 anni o più e alcuni di quelli di 5 anni risposero che si erano sentiti tristi a causa dei sentimenti del bambino del filmato o della situazione in cui si trovava, il che significa che avevano capito che la loro tristezza era stata una risposta empatica a ciò che era successo all'altro bambino. I bambini più piccoli, invece, non sembravano rendersene conto; ciò fa pensare che prima dei 6 o 7 anni i bambini sono capaci di sof­ ferenza empatica veridica - essi sentono ciò che è appropriato alla situazione dell'altro - ma non si rendono conto che il loro 101

sentimento di sofferenza è stato provocato da quella situazione, e non è altro che una risposta empatica. È interessante osservare che questa consapevolezza metaempatica precede di uno o due anni la consapevolezza metalinguistica che le parole sono entità linguistiche e sono indipendenti dagli oggetti e dagli eventi cui si riferiscono [Wetstone 1 977 ] . La ragione può stare nel fatto che la consapevolezza metalinguistica è più astratta e, diver­ samente dall'empatia, è slegata dall'esperienza personale. Un momento, però. Radke-Yarrow, Zahn-Waxler e Chapman [ 1 983 ] menzionano una comunicazione personale di Lois Mur­ phy su un bambino di 4 anni che, dopo essere venuto a sapere della morte della madre di una sua amica, dichiarò solennemente: «Sai, quando Bonnie diventerà grande, la gente le chiederà chi era sua madre, e lei sarà costretta a rispondere che non lo sa. Sai, è una cosa che mi fa venire da piangere». Se prendiamo queste parole alla lettera, dobbiamo concludere che un bambino di 4 anni può essere perfettamente consapevole che l'origine della sua sofferenza sta nella penosa situazione di un'altra persona, il che contraddice i risultati delle altre ricerche. Come spiegare questa discrepanza? Una possibilità è che i bambini piccoli di­ vengano metacognitivamente consapevoli della loro sofferenza empatica prima in condizioni naturali che in laboratorio per via degli evidenti segnali di sofferenza delle vittime, che precedono immediatamente e provocano inequivocabilmente la sofferenza empatica delle vittime stesse. È pure possibile che, in questo caso particolare, si tratti di un bambino precoce, più grande dei suoi 4 anni, e perciò non troppo diverso dai bambini di 5 anni che nella ricerca di Stayer avevano dato risposte avanza­ te. (Ma per un'altra spiegazione della sua sofferenza empatica matacognitiva «precoce» si veda sotto. ) A 8 o 9 anni, i bambini si rendono conto che l o stesso evento può suscitare sentimenti opposti («Era felice perché gli avevano dato il regalo, ma deluso perché non era quello che desiderava») [Fischer, Shaver e Comochan 1990; Gnepp 1989 ] , ma già uno o due anni prima riconoscono diversi sentimenti in gioco se un adulto li invita a considerare la risposta emozionale di una persona a ciascun aspetto della situazione [Peng et al. 1 992 ] . I bambini di 8 o 9 anni hanno anche qualche conoscenza sulle cause e le conseguenze dell'autostima negli altri; ad esempio, sanno che una persona si sente peggio se fallisce per incapacità 102

che per scarso impegno [Weiner et al. 1982 ] . (Ciò può essere vero in particolare nelle società orientate al merito, dove l'abilità è un elemento molto importante dell 'autostima.) Secondo uno studio di Gnepp e Gould [ 1 985 ] , verso i 9 o 10 anni d'età la conoscenza da parte del bambino di un'espe­ rienza recente di un'altra persona può cominciare a influen­ zare la sua consapevolezza dei sentimenti di quella persona in situazioni simili. Ai soggetti - alunni dell'ultimo anno di scuola materna e di terza, quinta e settima classe - venivano raccontate brevi storie (per esempio, un bambino è morso da un criceto e il giorno dopo la maestra lo incarica di dare da mangiare al criceto della classe) . Circa la metà dei bambini di terza e due terzi dei bambini di quinta utilizzavano appropria­ tamente l'esperienza precedente del piccolo protagonista della storia (dicevano che avrebbe avuto paura a dare da mangiare al criceto ) . Ciò, naturalmente, significa anche che la metà degli alunni di terza e un terzo degli alunni di quinta non erano in grado di utilizzare l 'esperienza precedente del bambino anche se era recente, chiaramente significativa e resa saliente dalla maestra subito prima che esprimessero il loro giudizio. Secondo questi risultati, i bambini non cominciano a rendersi conto che i sentimenti di un'altra persona sono influenzati dalle sue esperienze recenti prima dei 9 o 10 anni, un'età che però a me pare troppo avanzata, dato il livello di conoscenza delle emozioni che anche i bambini più piccoli, come abbiamo visto sopra, mostrano di avere. I risultati di uno studio di Pazer, Slackman e Hoffman [ 1 98 1 ] sembrano essere un po' più vicini alla realtà. I soggetti erano bambini che dovevano dire quanto si sarebbero infuriati se qualcuno li avesse danneggiati (per esempio, se avesse ru­ bato il loro gatto) . Ai soggetti del gruppo sperimentale veni­ vano fornite anche informazioni contestuali che attenuavano le responsabilità del colpevole (per esempio, il suo gatto era scappato e i genitori non gliene avrebbero comprato un altro). I soggetti sperimentali di 8 anni o più dichiararono che si sa­ rebbero infuriati meno dei soggetti di controllo, che avevano ricevuto informazioni contestuali di uguale lunghezza ma che non offrivano giustificazioni. I bambini più piccoli non furono affatto influenzati dalle informazioni contestuali. Ciò ci induce ad arretrare a 8 anni l'età alla quale i bambini cominciano a 1 03

tener conto delle esperienze di un'altra persona quando sono chiamati a giudicare i suoi sentimenti in una certa situazione. Ma anche 8 anni sembrano troppi se consideriamo l'aned­ doto di Radke-Yarrow, Zahn-Waxler e Chapman [ 1983 ] sul bambino di 4 anni: se un bambino di questa età può pensare al futuro di qualcun altro, a maggior ragione potrà pensare al suo passato. Per questo motivo, e perché questo caso è stato citato acriticamente come prova del fatto che un bambino di 4 anni possa avere una sofisticazione sociocognitiva maggiore di quanto le ricerche appaiano giustificare - e considerando che non disponiamo di ulteriori dettagli -, credo che l'aneddoto meriti un'analisi più attenta. Una spiegazione è che il bambino si fosse limitato a ripetere qualcosa che gli era capitato di sentire: il futuro della bambina senza la madre è proprio il tipo di cosa di cui gli adulti poteva­ no avere parlato al funerale. D'altro lato, non è probabile che un adulto pensi che il problema principale della bambina, da grande, sarebbe quello di non conoscere sua madre; questa ha tutta l'aria di un'interpretazione del bambino. Probabilmente il bambino non ripeteva alla lettera le parole di qualche adul­ to, e tuttavia, se non fosse stato per la conversazione, la sua attenzione sarebbe stata attratta, come quella di qualunque bambino della sua età, dai segnali di sofferenza evidenti nella situazione immediata. I discorsi degli adulti sul futuro della bambina senza madre potrebbero benissimo aver suscitato nel bambino preoccupazioni relative alla propria madre, ma, in ogni caso, possono spiegare la sua risposta orientata al futuro. Tutto considerato, credo che il modo migliore di interpretare la risposta verbale del bambino è considerarla come una espansio­ ne iniziale, embrionale, suscitata dall'esterno e probabilmente temporanea, della prospettiva temporale di un bambino della sua età - una prefigurazione della prospettiva temporale matura e spontanea che apparirà più tardi. Questa stimolazione esterna non operava negli studi sperimentali descritti in precedenza, e ciò può spiegare perché la «competenza sperimentale» resti indietro rispetto alla «competenza naturale». Quanto all'apparente dimensione metacognitiva della sofferenza empatica del bambino, i discorsi degli adulti sul futuro della bambina potevano averlo condotto a mettere in relazione l'immagine della bambina senza madre e le lacrime 104

e la tristezza empatica di quel momento. Questa sarebbe una forma embrionale, provocata da una stimolazione esterna, di sofferenza empatica metacognitiva. Adolescenza. A 12 o 13 anni, i ragazzi sono in grado di tenere conto della differenza tra quel che una persona sente in una situazione e il sentimento che normalmente in quella situa­ zione ci si aspetta; ad esempio, sanno che coloro che appaiono tristi quando dovrebbero essere allegri (ad esempio, per avere vinto un premio), probabilmente si sentono più tristi degli altri in situazioni nelle quali dovrebbero essere tristi [Rotenberg e Eisenberg 1 997 ] . Non sempre chi h a bisogno di aiuto vuole essere aiutato. Di fatto, credo che le persone, almeno nella nostra società individualistica, siano ambivalenti riguardo al ricevere aiuto, tranne quando sono disperate. Il colore della pelle può influire su questa ambivalenza: in uno studio, l'autostima dei soggetti neri diminuiva quando venivano aiutati da un bianco senza averlo richiesto (cosa che non succedeva quando l'aiuto veniva da un altro nero) [Schneider et al. 1 996] . I bambini sembrano non rendersi conto dell'ambivalenza altrui riguardo all'aiuto, pur essendo ambivalenti quando sono loro a riceverlo: per esempio, è stato osservato che i bambini tra 8 e 10 anni d'età si preoccupano della possibilità di perdere prestigio se un compagno di pari età fa loro da tutor [Depaulo et al. 1989] , ma solo a 1 6 anni o giù di lì cominciano a pensarci due volte prima di offrire aiuto, per evitare di mettere l'altro in una situazione sociale indesiderabile [Midlarsky e Han n ah 1985 ] . Età adulta. Gli adulti sono a volte ambivalenti riguardo all'empatia nei loro confronti (per non parlare dell'aiuto) . Ciò può avvenire dopo una lunga malattia o un periodo di lutto: Quando [la morte di un familiare] accadde fui sconvolta e molto addolorata. Smisi di frequentare l'università per una settimana per ri­ mettermi in sesto. Non chiedevo altro che la mia vita ritornasse com'era prima di quella morte. Quando qualcuno mi chiamava tutto quello che potevo sentire nella sua voce era compassione e pietà. Ma io non volevo sentire parole tristi e nemmeno essere triste. Quello che volevo era continuare a vivere, perché avevo accettato la morte ed ero pronta ad andare avanti. Volevo parlare di altre cose e ridere, ma non potevo perché gli altri intorno a me erano addolorati, e ridere non sembrava esattamente la cosa giusta da fare (studentessa universitaria).

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Una donna rispose a un articolo che avevo scritto sull'em­ patia con queste parole: Dopo un anno intero passato a combattere contro un cancro della mammella in uno stadio avanzato, mi sono fatta un'idea differente di che cosa voglio dall'empatia. Sono profondamente grata per tutte le attenzioni che gli altri mi riservano, ma non voglio pietà; la pietà non è costruttiva. Nel periodo del mio calvario, apprezzavo molto le persone che, senza smettere di interessarsi e di preoccuparsi per la mia spaven­ tosa situazione, riuscivano a restare allegre e ottimiste, a incoraggiarmi a vedere le cose positive, belle, affascinànti - e, perché no, umoristi­ che . . . Nell'esprimere la nostra empatia, dobbiamo accostarci agli altri ricordando la loro ineluttabile mortalità, o dobbiamo piuttosto tenere presente un'altra verità - che, almeno per il momento, siamo vivi?

Secondo queste due persone, se qualcuno sta morendo o ha perduto una persona cara non per questo deve essere sempre triste e sconsolato, mai dimentico della sua malattia o del suo lutto. E quando qualcuno riesce a gettarsi alle spalle la depressione, gli altri dovrebbero celebrare la vita insieme a lui, anche se hanno difficoltà a sbarazzarsi dei loro pensieri tetri. È possibile che esse abbiano ragione, e questo modo di affrontare le tragedie altrui - non dimenticare la situazione dell ' altro eppure condividere con lui o lei tutto ciò che sente in quel momento - può caratterizzare un tipo di empatia meta­ cognitiva e veridica propria solo degli adulti. Ecco due esempi tratti dalla mia esperienza personale. Il primo. Ho conosciuto una coppia che aveva un figlio affetto da paralisi cerebrale. Nei primi anni di vita il bambino non era cosciente del suo problema. I genitori, com'è natura­ le, avvertivano una gran pena quando erano con il figlio, ma riuscivano a sospendere la tristezza e a giocare con lui con straordinario entusiasmo, giungendo persino a dimenticare, per qualche tempo, la sua (e la loro) disgrazia. Secondo esempio. Ho fatto visita a un caro amico e collega, ricoverato in ospedale per un cancro avanzato e diffuso. Mentre parlavamo dei suoi problemi, ebbi l'impressione, probabilmente dalla voce e dall'espressione facciale, che volesse cambiare argo­ mento. Passammo due ore discutendo delle più recenti ricerche sulla prima infanzia (che era il suo campo di specializzazione) e delle loro implicazioni teoriche. Parlava delle ultime scoperte in 106

modo appassionato e animato, e tutti e due ci dimenticammo ben presto della sua malattia. Al momento di salutarci, mi disse che era stato il pomeriggio più piacevole che avesse trascorso da mesi, e aggiunse che era stanco di compassione e buone parole e, più ancora, di dover mettere a proprio agio i visitatori. Questo esempio non solo illustra il tipo di sofferenza empatica adulta di cui stiamo parlando, ma anche un secondo tipo di sofferenza empatica: malgrado l' atrocità della sua condizione, quell'uomo non era tanto chiuso in se stesso da ignorare i sentimenti dei suoi visitatori: egli si sforzava di aiutarli a superare l'imbarazzo, il disagio e la tristezza che immaginava sentissero per lui. Infine, richiamo l'attenzione sull'esperienza degli adulti che svolgono certe professioni, soprattutto le professioni di aiuto, che possono accrescere la complessità della risposta empatica di queste persone. Gli psicoterapeuti, ad esempio, possono rendersi conto che ai fini del trattamento può essere utile evitare di manifestare, almeno temporaneamente, la pena em­ patica che essi provano per un paziente - ad esempio, quando, se lo facessero, il paziente troverebbe più difficile esprimere i sentimenti negativi che magari nutriva per il parente o l'amico scomparso2• In questi casi, la pena empatica del terapeuta può includere l' empatizzazione con l'ambivalenza del paziente verso la persona scomparsa. Tutto ciò dovrebbe dare al lettore almeno una vaga idea del cammino fatto dall'individuo mano a mano che comprende meglio le cause, le conseguenze e i correlati di una serie di emozioni sempre più complesse. È possibile che nuove ricerche colmino le lacune e permettano di delineare un quadro più preciso delle età e degli stadi corrispondenti a ciascun passo avanti nella comprensione delle emozioni. La mia tesi di fondo è che la nostra capacità di provare pienamente empatia per gli altri sia connessa alla capacità di comprendere ciò che sta dietro ai loro sentimenti, e che questa comprensione continui a svilupparsi nell'adolescenza e nell'età adulta. Finora abbiamo limitato l'analisi alle risposte empatiche suscitate dalla situa­ zione immediata dell'altro; resta da considerare la sofferenza empatica dovuta alla condizione di vita dell'altro. 2

L'idea che il terapeuta possa evitare di esprimere il dolore empatico mi

è stata suggerita da Tatiana Friedman.

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5.

La sofferenza empatica al di là della situazione immediata

In un certo momento dello sviluppo, con l'emergere della concezione del sé e degli altri come esseri dotati di continuità, con una storia e un'identità personali, i bambini diventano consapevoli che gli altri avvertono gioia, rabbia, tristezza, paura e disprezzo non solo nella situazione immediata, ma anche in ambiti più ampi. Di conseguenza, pur continuando a provare sofferenza empatica in risposta al dolore o al disagio immediati di un'altra persona, essi possono rispondere con sofferenza empatica anche al tipo di vita di un'altra persona, che immaginano stabilmente triste o sgradevole. Questa rappresentazione mentale della condizione di difficol­ tà in cui si trova un' altra persona - il suo livello quotidiano di sofferenza o di deprivazione, le opportunità a sua disposizione e quelle che le sono negate, le sue prospettive future - può essere al di sotto di ciò che uno considera il livello minimo di benessere (determinato socialmente) . In tal caso, ci si può aspettare che l'osservatore provi sofferenza empatica. Questa sofferenza em­ patica, inoltre, dovrebbe acuirsi se la rappresentazione della vita altrui da parte dell'osservatore gli ricordasse eventi simili del suo passato. L'osservatore può rivivere quegli eventi (assunzione di ruolo centrata su di sé) e/o immaginare la condizione di tristezza permanente della vittima (assunzione di ruolo centrata sull'altro). Di conseguenza, l'osservatore costruirà una rappresentazione mentale dell'infelicità della vittima che genera e insieme si carica di affetto empatico: diven ta, cioè, una cognizione «calda». In questo modo, possiamo rispondere empaticamente a persone la cui vita immaginiamo triste e povera (malati cronici , persone emozionalmente deprivate, persone con problemi economici) e ciò può accadere anche quando la vittima non è presente. D'altro lato, quando la vittima è presente, l'osservatore continua a rispondere come al solito ai segnali di sofferenza provenienti dalla vittima e dalla situazione in cui questa si trova. Ciò solleva una questione: in che modo l'empatia per le condizioni di vita di un'altra persona interagisce con l'empatia per la sua sofferenza immediata? Sembra ragionevole supporre che se i due affetti sono congruenti essi si rafforzino mutua­ mente: se l'altro è triste, la nostra tristezza empatica aumenterà se sappiamo che quella dell'altro non è tristezza passeggera, 108

ma il riflesso di una vita grama; e se già da prima conosciamo e rispondiamo empaticamente alla triste vita dell'altro saremo più sensibili ai suoi segnali immediati di tristezza. A volte però le due fonti di empatia sono in contrasto, e l'osservatore deve fare i conti con questa contraddizione, che può avere diverse cause. È possibile che l'altro non sia tanto triste quanto ci si potrebbe aspettare, perché il problema di cui soffre (poniamo, un male incurabile) gli è stato nascosto, o perché lo nega, o , infine, ne è perfettamente consapevole ma accetta la sua condizione e cerca di godersi la vita che gli resta. Un mio caro amico malato di cancro (non quello di prima) doveva decidere se operarsi o fare radioterapia, ma quando lo andai a trovare voleva solo parlare delle cose di sempre, di sport o di finanza, e con l'entusiasmo di sempre ( insomma, di tutto voleva parlare salvo che della sua malattia ) . Se avessi semplicemente dato corso all'empatia, avrei potuto mettere a repentaglio la sua negazione, perciò andai avanti abbandonandomi a una piacevole conversazione; la sofferenza empatica era rimasta sotto controllo in un angolo della mia mente, ma poi riaffiorò. Il punto è che in queste situazioni gli adulti non rispondono semplicemente all'allegria momentanea dell'altro, come potrebbe fare un bambino. La mia ipotesi è che la maggior parte degli adulti sappiano che il piacere momentaneo di un 'altra persona, come indice del suo benessere, è meno significativo di una vita infelice; essi perciò risponderanno con tristezza empatica, tristezza mista ad allegria, o allegria seguita da tristezza. Ecco due testimonianze di studenti che illustrano la pro­ fonda tristezza degli osservatori a dispetto dell'allegria della vittima in quel momento. Il secondo esempio mostra anche come la risposta empatica all' infelicità della vita altrui possa spingere una persona a scegliere una professione nella quale aiutare il prossimo. La madre di mio cugino mori. Lui era troppo piccolo per capire quello che era successo e alla notizia continuò a giocare. Mi sforzai di sorridere e giocare con lui, ma non smettevo di chiedermi quanto la perdita della madre lo avrebbe influenzato. Mai più dolci abbracci quando cadeva e si sbucciava un ginocchio. Oltretutto il padre era un uomo severo, che imponeva una disciplina ferrea. Tutto quello cui riuscivo a pensare era che la tenerezza della madre non c'era più, e che gli sarebbe mancata. Ma lui non se ne rendeva conto. Credeva che tutto andasse per il meglio.

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Era una splendida giornata e giocavo nel parco con un amico. Mentre scherzavamo e ridevamo, notai la presenza di una bambina di circa 4 anni con una grave forma di sindrome di Down. Si stava divertendo un mondo, rideva. lo invece smisi di farlo. Mi chiedevo quanto dovesse essere orribile vivere con un minorazione simile, e come mi sarei sentita se fossi stata sua madre o se io stessa avessi sofferto di quella malattia. E mi chiedevo come si sarebbe sentita quella bambina quando sarebbe stata più grande e non avrebbe potuto frequentare una scuola normale come le altre bambine del quartiere. Lei ignorava completamente la sua situazione. Si godeva . . . la vita che le era toccata, e qualunque difficoltà le avesse riservato il futuro . . . in qualche modo l'avrebbe affrontata. Eppure, per qualche ragione, questa limpida verità non mi tranquillizzò. Quella bambina non è un caso unico, e spesso reagisco allo stesso modo quando vedo che la vita è stata ingiusta con qualcuno. Per questo ho deciso di diventare insegnante di scuola speciale, per poter aiutare queste persone.

Vi sono altre contraddizioni tra la vita di una persona e il suo comportamento immediato. Qualcuno fa qualcosa che mi danneggia e mi fa arrabbiare; scopro che il suo atto era stato provocato da una brutta esperienza che aveva avuto in passato e sapere questo suscita in me empatia e fa sbollire la mia rabbia. Un altro esempio. Vado sempre al lavoro in treno con alcuni colleghi, e per arrivare alla stazione prendiamo un autobus. Parecchie volte ci siamo infuriati nel vedere autobus che non erano pieni passarci davanti senza fermarsi. Un gior­ no protestammo con uno degli autisti, e scoprimmo che per conservare il posto di lavoro erano costretti a rispettare orari impossibili. Ciò fu sufficiente a suscitare la nostra empatia e a placare la rabbia verso gli autisti (non però verso l'azienda dei trasporti). Lo studio di Pazer, Slackman e Hoffman [ 1 98 1 ] di cui abbiamo parlato sopra dimostra la stessa cosa: le circostanze attenuanti che ci fanno guardare in modo simpatetico chi ha fatto qualcosa di male riducono la rabbia nei suoi confronti. Non intendo dire che ignoriamo i sentimenti della vittima nella situazione, ma che siamo animali pensanti, oltre che senzien­ ti, e non possiamo toglierei del tutto dalla mente le condizioni generali dell'altro. In situazioni del genere, i nostri sentimenti empatici implicano inevitabilmente una miscela di emozioni diverse. Vi sono casi in cui l'empatia oscilla avanti e indietro tra i sentimenti della vittima e le sue condizioni di vita. In generale, la mia ipotesi è che, in un primo tempo, Io stimolo immediato 1 10

proveniente dalla vittima avrà un'influenza affettiva maggiore e la conoscenza delle sue condizioni di vita sarà meno impor­ tante (a meno di non possedere quella conoscenza in anticipo). Col procedere dell'elaborazione cognitiva, tuttavia, l'influenza affettiva dei sentimenti immediati della vittima diminuisce, e può anche diventare irrilevante quando l'osservatore prende in considerazione le condizioni di vita della vittima. La risposta em­ patica ai sentimenti della vittima nella situazione immediata può trasformarsi in risposta empatica alle condizioni di vita; questa trasformazione - una sorta di decentramento affettivo? - comincia presumibilmente quando l'osservatore riconosce la contraddizione tra il comportamento della vittima e le sue condizioni di vita. In altri termini, la mia ipotesi è che l'immagine mentale delle condizioni di vita dell'altro non possa essere ignorata. Essa opera indipendentemente dagli indizi situazionali im­ mediati e dai comportamenti espressivi dell'altra persona, rendendoli a volte irrilevanti. Ne segue che rispondere em­ paticamente all'immagine della vita dell'altro può implicare un certo grado di distanziamento: più che allo stimolo da lui presentato immediatamente, rispondiamo all'immagine mentale che abbiamo dell'altro. Dal punto di vista evolutivo, un'altra conclusione è che una volta messo in atto questo distanziamento, una persona può non rispondere soltanto, come prima, alla stimolazione immediata dell'altro, ma anche prendere in considerazione la vita dell'altro al di là della situazione immediata, o farsi delle domande su di essa. Alla luce di questa analisi, dovrebbe essere chiaro che le informazioni sulle esperienze passate di un'altra persona o su quelle che ci aspettiamo avrà in futuro possono influenzare la nostra sofferenza empatica in due modi: a) rispondiamo empaticamente alle condizioni di vita della vittima; b) rispon­ diamo empaticamente alla sua situazione immediata, e questa sofferenza empatica è influenzata dalle informazioni sulle condizioni di vita dell'altro. Quello che ci interessa qui è il primo caso, che si colloca a un livello di sviluppo più avanzato perché presuppone la capacità di rappresentarsi le condizioni di vita di qualcun altro, e di rispondere empaticamente a questa rappresentazione. Il secondo caso è stato analizzato sopra in relazione alla sofferenza empatica veridica nella fanciullezza e lo ricordiamo qui perché spesso accompagna il primo. 111

Questa discussione mette in evidenza un importante van­ taggio che deriva dall'escludere dalla definizione dell'empatia il requisito che l'affetto dell'osservatore coincida con quello del modello: tale requisito impedirebbe che le contraddizioni tra la situazione immediata e le condizioni di vita fossero significati­ ve per l'empatia. Ciò nonostante, va detto che vi è, in fin dei conti, una sorta di coincidenza: quella tra la risposta affettiva dell'osservatore alla sua rappresentazione delle condizioni di vita della vittima, e la risposta che la vittima probabilmente darebbe a tale rappresentazione. È possibile che la vittima cerchi di difendersi da questa rappresentazione perché non riesce a sopportare la realtà della vita che vi è rappresentata. Di conseguenza, la sofferenza provata dalla vittima può essere minore di quella che l'osservatore prova per lei. A che età il bambino è in grado di rispondere empatica­ mente alla vita di qualcun altro ? A che età il bambino prende coscienza degli altri come esseri dotati di continuità, con una storia e un'identità personali, com 'è necessario perché risponda empaticamente alle condizioni di vita altrui? Questo problema non è stato studiato direttamente, ma le ricerche sull'identità personale forniscono un'indicazione. Secondo lo schema di Erikson , il bambino non ha un senso di sé come essere dota­ to di continuità, con una storia e un'identità proprie, prima dell'adolescenza. Le ricerche sull'identità etnica e di genere [Ruble e Martin 1998] indicano che i bambini statunitensi di origine europea giungono a considerare la loro identità di ge­ nere come qualcosa di stabile, coerente e permanente tra i 5 e i 6 anni (per l'identità etnica accade tra i 6 e i 7 anni) . Perciò sembra ragionevole supporre che sia tra i 5 e gli 8 anni che i bambini diventano consapevoli che gli altri hanno una storia, un 'identità e una vita proprie. Un'altra questione è se a questa età i bambini siano in grado di rispondere empaticamente alle condizioni di vita del prossimo. Da un lato, ci si potrebbe aspettare che l' attenzio­ ne dei bambini si rivolgesse e si fissasse sui principali indizi personali e situazionali della sofferenza di un 'altra persona. A causa della profonda influenza dei processi di condizionamento, associazione e mimesi, la «presa» di questi indizi può essere abbastanza grande da catturare l'attenzione del bambino, nel quale caso la sua risposta empatica sarà basata su di essi e non 1 12

sarà affatto influenzata dalla conoscenza della vita infelice della vittima. Perciò potrebbe volerei del tempo prima che il bam­ bino sia capace di andare oltre gli stimoli salienti e rispondere empaticamente alle condizioni di vita altrui. Ciò concorda con i risultati di Gnepp e Gould [ 1 985 ] , menzionati sopra, secondo cui è possibile che fino ai 9 o l O anni di età i bambini non siano capaci di utilizzare le conoscenze sull' esperienza recente di un altro bambino, benché siano chiaramente rilevanti, per predire i sentimenti di quel bambino in situazioni simili. D'altro lato, dobbiamo considerare la possibilità che la pena empatica del bambino di 4 anni per la perdita sofferta dalla sua amica fosse realmente acuita dalla visione della vita futura della bambina dopo la scomparsa della madre. Benché questa visione potesse essere stata stimolata dai discorsi degli adulti, poteva comunque implicare l' accesso a una prospettiva temporale a lungo termine, per quanto embrionale, in grado di influenzare la sofferenza empatica. Sono chiaramente necessarie altre ricerche su diversi temi: lo sviluppo di una prospettiva temporale a lungo termine, il modo in cui essa è condizionata dal contesto, il modo in cui le conoscenze del bambino sul passato o sul futuro prevedibile di un'altra persona influenzano la sua risposta empatica nel momento presente. La risposta empatica alla sofferenza di un gruppo. È pro­ babile che con lo sviluppo delle sue capacità cognitive, e specialmente della capacità di formare concetti sociali e di classificare in gruppi le persone, il bambino o la bambina giunga a rendersi conto delle condizioni di difficoltà non solo di un individuo ma di tutto un gruppo o una classe di persone; ad esempio, persone cadute in povertà, oppresse politicamente, emarginate socialmente, vittime di guerre, o con ritardo mentale. La combinazione di sofferenza empati­ ca e rappresentazione mentale delle difficoltà di un gruppo sfortunato può sembrare la forma più sviluppata di sofferenza empatica , giacché è difficile pensare che un bambino possa provare empatia per un gruppo prima che possa farlo di fronte alla rappresentazione mentale della vita di un indi­ viduo . Il passaggio dall'empatia per la vita di un individuo all'empatia per il gruppo cui esso appartiene può avvenire in una singola occasione, come quando qualcuno prova empatia per un individuo e poi si rende conto che quell 'individuo fa 1 13

parte di un gruppo o una categoria di persone che soffrono del medesimo problema. Un caso del genere è quello dello studente citato prima, che provava empatia per una bambina con la sindrome di Down come singola persona, ma anche come una persona che non era «un caso unico» ma una delle tante con cui «la vita è stata ingiusta». Immagino che molti di coloro che hanno visto la famosa fotografia del vigile del fuoco che aveva in braccio un bambino ustionato a morte nella strage di Oklahoma City debbano avere provato sofferenza empatica per il bambino e per i suoi genitori, così come per altre vittime fotografate, e immediatamente dopo abbiano generalizzato questo sentimento alle vittime dell'attentato di Oklahoma City come gruppo. (Dovremmo parlare qui di sofferenza empatica per un gruppo suscitata o alimentata dai mezzi di comunicazione?) Un gruppo che suscita un interesse non occasionale è quello formato dalle persone meno favorite economicamente. L'empatia per queste persone potrebbe essere alla base della motivazione ad adottare ideologie politiche dirette a migliorare le loro condizioni di vita [Hoffman 1980; 1 990] . Potrebbe anche essere una motivazione interna all'accettazione di un criterio di distribuzione della ricchezza sociale che venga in soccorso delle persone meno favorite, anche se c'è un prezzo personale da pagare (maggiori imposte) . Questo tema sarà affrontato nel capitolo nono, quando analizzeremo la relazione tra l'empatia e i principi della giustizia distributiva. Se una persona è in grado di provare empatia per le condizioni di vita di un individuo anche quando esse sono in contraddizione con il suo comportamento immediato, do­ vrebbe poter fare lo stesso anche nel caso di un gruppo. La seguente testimonianza di uno studente illustra la possibilità di rispondere empaticamente sia alle condizioni di vita di un gruppo oppresso sia al suo comportamento contraddittorio ma comprensibile: Quando leggo che nei loro riti religiosi gli schiavi d'America era­ no spesso straordinariamente devoti e affatto ottimisti mi rallegro un poco pensando che queste persone facevano qualcosa che dava loro gioia, perfino rapimento mistico; ma poi ricordo che erano oppressi e mi rendo conto che quello era un falso senso di gioia e di speranza,

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un'isola nel mezzo di una vita sgradevole, infelice e ingiusta. Mi rallegro che fossero felici pur vivendo in schiavitù, ma mi rattristo a pensare alla loro vita nel suo complesso, specialmente se considero che quella speranza o gioia religiosa dava loro un falso senso di sicurezza. Era davvero una crudele ironia che la loro gioia nascesse dalla salvezza promessa da una religione che era stata data loro proprio dai padroni da cui speravano di liberarsi.

6.

Trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica

Come già ho sottolineato, la sofferenza empatica dell'os­ servatore include tanto una componente affettiva quanto una componente cognitiva, frutto del suo senso cognitivo dell'altro come distinto da sé. Fin dall'inizio degli anni Sessanta, gli studiosi hanno osservato che quando una persona sperimenta un affetto, è profondamente influenzata dalla cognizione per­ tinente («L'individuo . . . identifica questo stato di eccitazione sulla base delle caratteristiche della situazione e della propria massa appercettiva» [Schachter e Singer 1 962 , 380] ) . Questi autori si proponevano di spiegare in che modo distinguiamo tra diversi affetti (rabbia, gioia, paura) attivati direttamente. Lasciando da parte la spiegazione delle emozioni attivate direttamente - una questione sulla quale non vi è mai stato accordo [Zajonc 1980] -, il senso cognitivo di sé e dell'altro come entità separate e indipendenti è così intrinseco all'affetto suscitato empaticamente, da modificare la qualità dell'esperienza affettiva dell'osservatore. Di conseguenza, quando il bambino si forma un senso di sé come individuo separato dagli altri, la qualità della sua sofferenza empatica non è più la stessa. Una possibilità è che quando il bambino scopre che il dolore o il disagio sono di qualcun altro, si giri semplicemente dall'altra parte e risponda come se il problema non fosse il suo. Alcuni bambini fanno proprio così. Ma le prove disponibili - le ricer­ che che mettono in relazione la sofferenza empatica con l'aiuto (cap. II), l'argomento dell'evoluzione umana [Hoffman 1 98 1 ] , i molti studi e aneddoti citati qui - mostrano che in genere i bambini non si girano dall'altra parte, ma rispondono con lo stesso grado di sofferenza empatica di prima, e, in giunta, sono motivati ad aiutare la vittima. 1 15

Più specificamente, la mia ipotesi è che una volta che i bambini abbiano immagini distinte di sé e degli altri, la loro sofferenza empatica, che è una risposta pa rallela (vale a dire, una riproduzione più o meno esatta del sentimento di sofferen­ za reale o supposto della vittima) , possa trasformarsi, almeno in parte, in un sentimento di preoccupazione ( concern ) per la vittima caratterizzato da una maggiore reciprocità; e la motiva­ zione a trovare conforto per sé si trasformi in una motivazione ad aiutare la vittima. Questa trasformazione evolutiva concorda con il modo in cui i bambini più grandi e gli adulti descrivono i sentimenti suscitati in loro dall'osservazione di una persona sofferente. Essi continuano a rispondere, in parte, in modo egoistico - si sentono loro stessi a disagio e profondamente afflitti - ma provano anche un sentimento di compassione ovvero di sofferenza simpatetica nei confronti della vittima e, insieme, un desiderio consapevole di aiutarla3• Altrimenti detto, il medesimo progresso nella differenzia­ zione sé-altro che fa muovere il bambino dall'empatia «egocen­ trica» a quella «quasi-egocentrica» provoca una trasformazione qualitativa della sofferenza empatica in simpatetica. Da questo momento, la sofferenza empatica del bambino (e poi dell'adul­ to) includerà una componente simpatetica e il bambino vorrà portare aiuto alla vittima perché è dispiaciuto per lei, e non solo per ridurre la propria sofferenza empatica4• L'elemento di sofferenza simpatetica della sofferenza empatica è perciò la prima motivazione genuinamente prosociale del bambino. È difficile mettere alla prova un'ipotesi su un cambiamento evolutivo di tipo qualitativo, ma in questo caso, a suo sostegno, vi sono prove convergenti e circostanziate. In primo luogo, vi sono gli studi (sopra citati) a sostegno della tesi che nel suo sviluppo il bambino passi da uno stadio in cui risponde alla sofferenza altrui ricercando conforto per sé a uno stadio in cui

l La distinzione tra sofferenza empatica e simpatetica rimanda a quella di Scheler [ 1 9 1 3 / 1 954] tra «sentimento vicario>> (vicarious feeling) e (jellow feeling) e alla sua tesi che il primo è condizione necessaria ma non sufficiente per il secondo [ibidem]. 4 È dubbio che i bambini diano aiuto agli altri solo per alleviare la loro sofferenza empatica. Vi sono modi più semplici per raggiungere questo scopo, ad esempio allontanarsi dalla vittima, cosa che però, secondo le ricerche, quasi mai fanno.

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ricerca conforto per la vittima [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1 979; Zahn-Waxler et al. 1992 ] . In secondo luogo, tre studi hanno messo direttamente alla prova questa ipotesi, prevedendo che i progressi nella differenziazione sé-altro pre­ cedano l'evoluzione del bambino dalla sofferenza empatica a quella simpatetica [Bischoff-Kohler 1 99 1 ; Johnson 1 992 ; Zahn­ Waxler, Radke-Yarrow e King 1 979] ; tutti e tre questi studi hanno mostrato che il riconoscimento della propria immagine allo specchio è un predittore della sofferenza simpatetica e del comportamento di aiuto successivi. Più difficile è dimostrare le tappe della transizione dalla sofferenza empatica a quella simpatetica, sebbene vi siano aneddoti che illustrano la prevista combinazione dei due tipi di sofferenza nel secondo anno. Ho già descritto il caso di un bambino che, verso la fine del primo anno d'età, quando era afflitto era solito succhiarsi il pollice di una mano e tirarsi l' orecchio con l'altra. All 'inizio del secondo anno, notando un'espressione di tristezza sul volto del padre, il bambino si rattristò e prese a succhiarsi il pollice, mentre tirava l'orecchio al padre [Hoffman 1 978] . Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King [ 1 979] descrivono tre casi simili: nel suo primo atto prosociale, un bambino alternava i colpetti leggeri alla vittima e a se stesso; un altro consolava la madre che piangeva asciugandole le lacrime e asciugandosi lui stesso gli occhi benché non piangesse; un terzo bambino, dopo aver visto che sua madre aveva battuto il gomito, le massaggiò il gomito, poi massaggiò il suo, disse «ahi ! », e fece una smorfia di dolore. Inoltre, in uno studio di Main, Weston e Wakeling [ 1 979] , un bambino che osservava un adulto vestito da pagliaccio che fingeva di piangere, disse, con aria molto triste, «uomo piange», si fece prendere in braccio dal padre, e di lì si rivolse più volte all'uomo con un'espressione triste, come per consolarlo o distrarlo. Nei bambini piccoli, specie durante il periodo di transi­ zione, solo parte della sofferenza empatica può trasformarsi in simpatetica, come mostra il caso del bambino che si succhiava il pollice e al tempo stesso tirava l 'orecchio al padre. Quando il bambino progredisce ancora nella cognizione sociale e ac­ quisisce un senso degli altri più chiaro, la trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica diventa più completa. Anche nell'età adulta può sopravvivere una componente puramente 1 17

empatica. Questo duplice carattere empatico/simpatetico della sofferenza empatica adulta diventa evidente nel meccanismo combinato di assunzione di ruolo centrato su di sé e sull'altro, descritto nel capitolo secondo. È illustrato anche dai fenomeni della sovrattivazione empatica e della fatica da compassione (compassion /atigue) , che esamineremo nel capitolo ottavo, e dall'osservazione che le infermiere, all'inizio della loro forma­ zione, possono sperimentare un conflitto tra il sentimento di sofferenza simpatetica, che include un vivo desiderio di aiutare i pazienti gravemente malati, e la sofferenza empatica, che può rendere loro difficile persino stare nella stessa stanza con quei pazienti [Stotland et al. 1 979] . Nella misura in cui la sofferenza empatica giunge a trasfor­ marsi in simpatetica, gli ultimi tre stadi della sofferenza empatica (quasi -egoistica, veridica, al di là della situazione immediata) sono anche stadi della sofferenza simpatetica. Invito il lettore a tenerne conto, anche se, per comodità, continuo a usare il termine sofferenza empatica, tranne quando, per evitare con­ fusioni, parlo di sofferenza empatica/simpatetica. Quando una persona ha attraversato, l'uno dopo l ' altro, i cinque stadi di sviluppo della sofferenza empatica, e incontra un'altra persona con difficoltà fisiche, emozionali o economi­ che, è esposta a una varietà di informazioni sulle condizioni della vittima. Esse possono includere stimoli espressivi verbali e non verbali provenienti dalla vittima, stimoli situazionali, e conoscenze personali sulla vita della vittima. Queste informa­ zioni sono elaborate in modi distinti: l'empatia suscitata dagli stimoli non verbali e situazionali è mediata da forme di elabo­ razione largamente involontarie e cognitivamente superficiali (mimesi, condizionamento e associazione) . L'empatia suscitata dai messaggi verbali della vittima o dalle proprie conoscenze sulla vittima richiede un 'elaborazione più complessa , per associazione mediata e assunzione di ruolo. Nella forma più avanzata di quest'ultima, l' osservatore può riprodurre sulla scena mentale le emozioni e le esperienze evocate dalle in­ formazioni precedenti e può considerarle introspettivamente; in tal modo comprende meglio e risponde affettivamen te alle circostanze, ai sentimenti e ai desideri dell'altro, tenendo ferma, al tempo stesso, la coscienza che l'altro è una persona separata da sé. 1 18

Indizi, modi di attivazione e livelli di elaborazione, nella loro varietà, contribuiscono di solito a un medesimo affetto empatico, anche se le contraddizioni non mancano - per esempio, tra indizi espressivi differenti, come l'espressione facciale e il tono di voce, o tra indizi espressivi e situazionali. Più importante è la contraddizione (analizzata sopra) tra la conoscenza delle condizioni di vita dell'altro e la sua condotta immediata; in questo caso, gli indizi espressivi e situazionali dei sentimenti dell'altro possono perdere molta della loro forza emozionale agli occhi dell'osservatore, consapevole che esse riflettono soltanto stati passeggeri. Si immagini un bambino indigente che ride e si diverte, ignaro della sua condizione e delle implicazioni che questa potrebbe avere per la sua vita futura. Un altro bambino lo osserva senza rendersi conto della limitatezza delle sue prospettive, e avverte una schietta gioia empatica. Un osservatore maturo, d'altra parte, non riesce a ignorare facilmente quella limitatezza, poiché si rende conto che essa indica il suo livello di benessere molto meglio della gioia immediata e, di conseguenza, avverte tristezza empatica o gioia mista a tristezza. Il livello più avanzato di sofferenza empatica implica perciò un distanziamento: si tratta, in parte, di una risposta affettiva alla propria immagine mentale della vittima, non solo al suo valore di stimolo immediato. Ciò con­ corda con la mia definizione di empatia, intesa non come una corrispondenza esatta con i sentimenti altrui, ma come una reazione affettiva più adeguata alla situazione dell'altro che non alla propria. 7 . Ampliamento cognitivo del modello dello spettatore Anche se stiamo parlando dell'empatia affettiva, è evidente in ogni suo aspetto il ruolo della cognizione: nelle forme di atti­ vazione empatica di livello superiore come l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, nel ruolo essenziale della differenziazione sé-altro nello sviluppo iniziale dell'empatia, nell'importanza della cognizione sociale per l'empatia veridica e l'empatia al di là della situazione immediata. Qui sottolineo due punti cruciali che pos­ sono finire nascosti tra i dettagli dei meccanismi di attivazione e degli stadi di sviluppo: a) lo sviluppo cognitivo ci permette di 1 19

formare immagini, rappresentare persone ed eventi, immaginare noi stessi al posto di qualcun altro; e b) poiché le persone e gli eventi rappresentati possono suscitare affetto [Fiske 1 982; Hof­ fman 1985 ] , non è necessario che la vittima sia presente perché l'osservatore provi empatia. Pertanto, l'empatia può essere suscitata quando l'osservatore immagina una vittima: quando legge di disgrazie altrui, parla o discute di temi economici o politici, o anche quando formula giudizi à la Kohlberg su dilemmi morali ipotetici. Un ragazzo di 1 3 anni rispose alla domanda: «Perché è male rubare in un negozio?» nel modo seguente: «Perché i suoi proprietari hanno lavorato sodo e hanno tutto il diritto di spendere quel­ lo che guadagnano per la loro famiglia. Non è giusto: loro si sacrificano e fanno piani per il futuro e poi va tutto all'aria perché qualcuno che non ha fatto nulla per guadagnare quei soldi arriva e se li porta via». Questo soggetto, a quanto pare, trasformava una questione morale astratta sul rubare in una questione relativa all'empatia, immaginando una vittima e i suoi stati interni (la motivazione a lavorare sodo, l'aspettativa della ricompensa, i piani per il futuro, la disillusione) . In altre parole, lo sviluppo cognitivo amplia il modello dello spettatore in modo che esso abbracci un'enorme varietà di situazioni, il cui unico limite è l'immaginazione dell' osser­ vatore e non la presenza fisica dell'altro.

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CAPITOLO QUARTO

RABBIA EMPATICA, SIMPATIA, SENTIMENTI DI COLPA E DI INGIUSTIZIA

Riassumiamo ciò che abbiamo detto finora. Ho definito l'empatia come una risposta affettiva più adeguata alla situa­ zione di un altro che non alla propria; ho descritto cinque meccanismi di attivazione empatica, che vanno dal condizio­ namento classico all'assunzione di ruolo; infine, ho delineato le tappe dello sviluppo della sofferenza empatica. Benché la trattazione si sia concentrata soprattutto sull'affetto empatico, ho sottolineato anche la notevole influenza della cognizione sull'attivazione e sullo sviluppo della sofferenza empatica e sulla sua generalizzazione al di là della situazione immediata. In quest'ultimo capitolo sul modello dello spettatore, l'affetto continua ad occupare il centro della scena assieme alla cogni­ zione - in questo caso, all'attribuzione causale. In genere le persone compiono attribuzioni spontanee sulla causa degli eventi [Weiner 1 985 ] , e senza dubbio lo fanno anche quando osservano una persona che soffre. A seconda dell'attribuzione, la sofferenza empatica può ridursi, annullarsi o trasformarsi in altri affetti empatici. Può ridursi o annullarsi quando la vittima è considerata causa del suo male. Gli esseri umani, quando le circostanze sono ambi­ gue, tendono ad attribuire la causa delle azioni delle altre persone (ma non delle proprie azioni) alle loro inclinazioni interne: è questo il cosiddetto «errore fondamentale di at­ tribuzione» U on es e Nisbett 1 97 1 ] . Essi tendono anche a incolpare l a vittima delle sue disgrazie per salvaguardare la «credenza in un mondo giusto» (se non agisco così posso stare tranquillo) [Lerner e Miller 1 978] . Ma alla luce delle prove che m ostrano che gli esseri umani tendono a provare emp atia per gli altri e ad aiutarli quando soffrono (cap. I I ) , sembra chiaro che incolpare la vittima non è incompatibile con l 'empatia. 121

È molto probabile che lo spettatore incolpi la vittima se le informazioni causali sono ambigue o se c'è una base «fattuale» che lo consente (la vittima di uno stupro faceva jogging in una zona pericolosa; una vittima di abusi coniugali continuava a stare con il coniuge violento) . Ecco che cosa scrive una studentessa universitaria: Ho letto o sentito parlare un'infinità di volte di donne violentate o assassinate di mattina presto o di sera in un parco. Normalmente queste donne erano sole. Di fronte a notizie così tremende resto profondamente turbata. Ma poi penso a quante volte ho già sentito la stessa storia, e considero che per una donna è stupido fare jogging in un parco in quelle circostanze. Anche se non so nulla delle vittime, concludo che se è successo qualcosa è colpa loro - della loro stupidità, ostinazione o ignoranza. La mia compassione sfuma.

L' analisi condotta finora suppone che prima sia suscitata la sofferenza empatica e poi vengano le informazioni causa­ li, e che la vittima non sia presente. Ma che succede se le informazioni sono possedute preventivamente e la vittima viene incolpata in anticipo? L' unico studio al riguardo è quello di Stotland [ 1969] , secondo cui la «disposizione» ad evitare l'empatia per una persona che soffre non impedisce ai soggetti di rispondere empaticamente. Ciò suggerisce che la conoscenza preventiva della incolpabilità della vittima possa mitigare la sofferenza empatica degli osservatori non oltre un certo limite, almeno se essi prestano attenzione alla vittima (come i soggetti di Stotland ). Sarebbe interessante sapere se un osservatore che incolpa la vittima può evitare l'empatia distogliendo lo sguardo, tappandosi le orecchie o pensando a qualcosa che lo distragga. Sospetto che sia possibile, e ri­ tornerò su questo punto nel capitolo ottavo. A prescindere dall'esistenza di una base fattuale e dalla possibilità che le informazioni causali seguano o precedano l'attivazione empatica, incolpare la vittima crea una distanza psicologica tra la vittima e lo spettatore e riduce la sofferenza empatica dello spettatore e la sua motivazione a dare aiuto. Secondo Staub [ 1 996] , è molto probabile che questo distan­ ziamento abbia luogo quando l'osservatore si sente impotente, poiché è molto difficile assistere alla sofferenza altrui quando non si può intervenire in alcun modo. 122

Indipendentemente dalla colpa della vittima, la sofferenza empatica dell'osservatore, a seconda della causa della sofferenza della vittima, può trasformarsi in sofferenza simpatetica, in rabbia empatica o in un sentimento di ingiustizia o di colpa (in entrambi i casi a fondamento empatico).

l.

Sofferenza empatica

La sofferenza empatica può trasformarsi in sofferenza simpatetica se il dolore o il disagio della vittima sono chiara­ mente dovuti a cause naturali o sono, per altri versi, fuori del controllo della vittima, come nel caso di un incidente o di una malattia o della scomparsa di una persona cara. Ciò concorda con la classica analisi di Weiner [ 1 982] circa l'influenza delle attribuzioni causali sulle emozioni. La sofferenza empatica può trasformarsi in sofferenza simpatetica anche quando la sofferenza della vittima è saliente e la sua causa misteriosa, come nella trasformazione evolutiva della sofferenza empatica in simpatetica analizzata nel capitolo terzo. Come abbiamo mostrato nel capitolo secondo, la soffe­ renza empatica/simpatetica si produce sistematicamente nello spettatore e lo muove ad alleviare la sofferenza della vittima, e lo spettatore che prova empatia e dà il suo aiuto prende in considerazione le conseguenze finali delle sue azioni per la vittima. Ho osservato anche che quando il prezzo da pagare è alto, è possibile che lo spettatore non dia il suo aiuto, anche se prova empatia. Il mancato aiuto può essere dovuto anche ad altre ragioni derivanti da attribuzioni causali; può darsi, ad esempio, che gli spettatori non diano il loro aiuto se ritengono che la persona non lo meriti. In uno studio di Schmidt e Weiner [ 1 988 ] , ai soggetti ( studenti universitari) era posta la seguente domanda: «Mentre cammini nel campus uno studente che non conosci ti si avvicina e ti chiede di prestargli gli appunti delle lezioni della settimana scorsa. Che fai?». Se si diceva che lo studente aveva un occhio bendato e inforcava occhiali scuri, e aveva bisogno di quegli appunti perché i suoi problemi di vista gli avevano impedito di prenderli da sé, la maggior parte dei soggetti erano simpatetici e accettavano di prestargli i loro appunti. Se però si diceva che lo studente era andato al mare 123

invece che a lezione, la maggior parte degli studenti esprime­ va rabbia nei suoi confronti e negava il proprio aiuto. Alcuni però dichiaravano che anche in questo caso avrebbero aiutato lo studente, il che indica, come abbiamo già osservato, che incolpare la vittima non sempre è incompatibile con la risposta empatica/simpatetica e con l'aiuto («Si sarà pure messo net guai da sé ma ha comunque bisogno di aiuto))). 2. Rabbia empatica Se causa delle disgrazie della vittima è un'altra persona, è possibile che l'attenzione si sposti dalla prima alla seconda. Possiamo provare rabbia verso il colpevole perché proviamo compassione per la vittima, o perché proviamo empatia e ci sentiamo attaccati in forma vicaria, o per entrambe le ragioni. I sentimenti possono oscillare tra la sofferenza empatica/sim­ patetica e l'ira empatica, la quale può sostituire completamente la sofferenza empatica/simpatetica. La rabbia empatica è stata trascurata nella letteratura morale, anche se più di due secoli fa Adam Smith osservò che «È più facile che il furente comportamento di un uomo in collera ci faccia irritare proprio contro di lui, piuttosto che contro i suoi nemici )) [Smith 1759/1 976; trad. it. 199 1 , 85]. Secondo Smith non possiamo identificarci con quest'uomo perché non sappiamo che cosa ha provocato la sua collera, mentre ci identifichiamo con la vittima perché comprendiamo chiaramente la sua situazione. Un secolo dopo, John Stuart Mill [ 186 1/1979] fece luce sulla connessione tra la rabbia empatica e la morale sostenendo che la rabbia empatica, che egli descrive come «il sentimento naturale di rivalsa o di vendetta, che l'intelletto o la simpatia sensibilizza a quelle offese, cioè a dire a quei danni, che ci feriscono attraverso, o in comune, con la società in genere)) [Mill 1 8 6 1 1 1 979; �rad. it. 1 98 1 , 1 07 ] , opera a tutela della giustizia. Pur sottolineando che, in generale, la ragione è alla base della morale, Mill era convinto che l'unico modo per convincere qualcuno ad obbedire a un principio morale non sia un argomento razionale che dimostri che quel principio, a lungo termine, è nel suo interesse, ma il ricorso a «sanzioni)), vale a dire «piaceri personali da conseguire e dolori da evita124

re» [Mill 1 86111979] . La sanzione suprema e intrinsecamente desiderabile è il «sentimento di unità» con il prossimo che poggia in larga parte sull'empatia. Secondo Mill, inoltre, le reazioni al comportamento ingiusto di qualcuno - i giudizi e lo sdegno nei suoi confronti - sono morali perché sono basate sull'empatia verso la vittima. Una società morale ha bisogno di voci che si levino per sostenere la causa della giustizia, cioè per opporsi a coloro che recano offesa agli altri e per punirli prontamente. Se queste voci tacessero, non vi sarebbe argine all'ingiustizia. La rabbia empatica può cambiare bersaglio. Se scopriamo che in precedenza la vittima aveva fatto del male al colpevole, la nostra sofferenza empatica nei suoi confronti può ridursi, e possiamo perfino provare empatia per il colpevole e rabbia empatica per la vittima. E se veniamo a sapere che la vittima - una moglie maltrattata - lo è da lungo tempo e tuttavia con­ tinua a stare con il marito, possiamo supporre che abbia scelto di stare con lui, e perciò sia responsabile dei suoi problemi e sia un po' meno vittima. Ciò potrebbe ridurre la sofferenza empatica verso la moglie e la rabbia empatica verso il marito. Ma se poi scoprissimo che la moglie maltrattata aveva ben poca scelta, perché dipendeva economicamente dal marito il quale non le permetteva di lavorare, o perché il marito minacciava di ucciderla se non fosse stata zitta o lo avesse abbandonato (minacce non di rado messe in atto ! ) , è probabile che di nuovo proveremmo sofferenza empatica nei confronti della moglie e rabbia nei confronti del marito. Spesso i bambini piccoli, quando osservano una lite co­ niugale, non ne colgono le sfumature, e reagiscono con rabbia empatica verso quello che appare essere il colpevole. I bam­ bini più grandi, pure più consapevoli delle sottigliezze della situazione, possono sentirsi confusi e arrabbiati di fronte a una madre che «china il capo» e non «si fa rispettare» dal marito violento. Ecco la testimonianza di una giovane donna passata da una condizione di sofferenza empatica per la madre e rabbia verso il padre, alla rabbia verso la madre. Mio padre è un uomo tutto d'un pezzo. Nella cultura in cui è cresciuto è l'uomo che comanda in casa. Ciò implica che l'opinione di mia madre conta poco o nulla. Questo mi irrita profondamente. Mio

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padre è ingiusto con lei, la disprezza, ripete sempre che quello che lei dice non conta nulla. Provavo una grande rabbia nei confronti di mio padre, e una grande pena nei confronti di mia madre. Oggi sono arrabbiata con mio padre ma ancora di più con mia madre, che non fa nulla per farsi rispettare. Ingoia tutto. Non si difende, non agisce come dovrebbe fare un genitore. Quando si tratta di prendere una decisione, la conclusione è sempre «chiedi a tuo padre». Capisco che è stata educata a fare così, ma io sono cresciuta in questo paese e vedo le cose diversamente. Sono arrabbiata più con lei che con lui, perché lei sa che mio padre si comporta male e tuttavia preferisce restare con lui e mantenere le cose come stanno.

Due tipi di rabbia empatica. I tipi di rabbia empatica sono due. Nel primo, relativamente semplice, la vittima prova rabbia verso chi l'ha maltrattata e l'osservatore coglie quella rabbia attraverso i meccanismi di attivazione empatica, sperimentando rabbia empatica. Nel secondo tipo, più complesso, la vittima si sente triste, offesa o delusa, ma non arrabbiata con chi l'ha maltrattata. L'osservatore risponde empaticamente a questi sen­ timenti ma, avendo assunto il punto di vista della vittima, prova verso il colpevole anche rabbia a base empatica, a dispetto del fatto che la vittima non sia arrabbiata. Nella risposta dell' os­ servatore vi è una duplicità empatica, con una componente di sofferenza empatica verso la vittima e una componente di rabbia a base empatica verso il colpevole. I due tipi di rabbia empatica si fondono quando la vittima si sente triste, offesa, delusa e arrabbiata. Si noti che solo il primo tipo implica una coincidenza affettiva tra l'osservatore e la vittima; tuttavia, in base alla mia definizione di empatia come sentimento appro­ priato alla condizione in cui si trova un'altra persona, benché non necessariamente coincidente con i suoi sentimenti, anche nel secondo caso si può parlare di rabbia empatica. Questo secondo tipo può essere più comune quando (come nel caso degli statunitensi di classe media) la socializzazione inibisce il comportamento aggressivo, poiché anche il sentimento di rabbia soggiacente può essere inibito (un effetto collaterale imprevisto della socializzazione? ) . L'inibizione della rabbia, congiunta con la complessità emozionale della relazione tra la vittima e la persona che l'ha maltrattata, rende più difficile che la prima provi rabbia verso la seconda. Il che non impedisce di sperimentare rabbia empatica se viene maltrattato qualcun

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altro, poiché la persona, come osservatrice, può non rendersi conto della complessità della situazione riducendola a una semplice relazione tra un colpevole e una vittima. In questo caso, la rabbia può manifestarsi come un affetto morale vissuto per conto della vittima. Ho un'amica, Ellen, che è stata mia vicina di casa dalla quarta ele­ mentare in poi. Le nostre famiglie erano legate da amicizia e noi siamo diventate come sorelle. Pur frequentando università diverse, siamo andate entrambe a vivere a New York e continuiamo a essere amiche intime . . . Non mi piace ammetterlo, ma so per certo che è capace di arrabbiarsi al posto mio. Per esempio, recentemente ho litigato con un caro amico, uno con cui non potrei arrabbiarmi per nulla al mondo. Qualcosa era andato storto, e io mi sentivo colpevole. Mi sentivo impotente, avevo l'impressione di avere fallito. Quando Ellen venne a sapere che cosa era successo, dalla sua bocca uscì un torrente di parolacce. Mi disse all'incirca: «Scusa Joan, ma non è colpa tua. Lui è uno &# ! ;@ e se mi capita di incontrarlo un'altra volta . . . ». In qualche modo, vederla arrabbiata mi fece stare meglio e così potei arrabbiarmi a mia volta.

Questo aneddoto mostra che esprimere rabbia empatica può aiutare la vittima a dare libero sfogo alla propria rabbia. Lo può fare fornendo alla vittima una conferma esterna delle sue ragioni e legittimandone in tal modo la rabbia. Questa mi sembra es­ sere una funzione secondaria, di motivazione prosociale, della rabbia empatica: secondaria e sottile, ma ugualmente prosociale. La rabbia empatica può anche aiutare la vittima in modo più diretto è un modo di dirle: «Sto al tuo fianco» [Bavelas et al. 1 987 ] . Sembra ragionevole supporre che a ruoli invertiti la protagonista dell'aneddoto precedente, nonostante la sua difficoltà ad esprimere direttamente la propria rabbia, avrebbe potuto provare rabbia empatica per conto dell'amica. Spesso la rabbia empatica è difficile da distinguere dalla rabbia diretta, poiché può giungere a cancellare la sofferenza empatica che l'ha originata. Cosa più importante, quando la rabbia empatica sfocia in una condotta aggressiva a difesa di una vittima può essere difficile distinguerla dalla rabbia diretta poiché le sue conseguenze comportamentali sono simili: un'ag­ gressione è un'aggressione. Qualche esempio: un bambino di 17 mesi, trovandosi dal dottore, vide che il dottore praticava un 'iniezione al fratello e per tutta risposta lo picchiò. Radke-

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Yarrow e Zahn-Waxler [ 1 984] descrivono un bambino piccolo che colpì la persona che aveva fatto piangere il fratellino, e un altro che accartocciò il giornale che aveva rattristato la madre. Da ultimo, Cummings et al. [ 1 986] descrivono un bambino piccolo che aveva imparato a convogliare così bene l' aggressi­ vità che a 6 anni mostrava più rabbia empatica di qualunque altro bambino della sua età, dal che si può dedurre che stesse semplicemente cercando delle ragioni accettabili per esprimere la propria rabbia 1 • Naturalmente, vi sono casi in cui la base empatica della rabbia è evidente: ciò accade quando è accompagnata da una preoccupazione simpatetica per la vittima. Uno studente universitario ha scritto: «Odio il Dipartimento di Polizia di New York per tutti gli episodi di brutalità di cui è stato ac­ cusato, e compatisco profondamente le sue vittime. Credo di poter capire perché vi siano persone che si ribellano contro la polizia anche se non sono state sue vittime». Il «New York Times» ha pubblicato la cronaca di un comportamento eroico: un malintenzionato aveva spinto una donna facendola cadere sui binari della metropolitana; un testimone, un giovane di 26 anni, inseguì l 'uomo attraverso il «labirinto sotterraneo di scale mobili e corridoi della stazione», e alla fine riuscì ad abbrancarlo con una presa definita «ferrea» dalla polizia, tenendolo fermo fino all' arrivo di due agenti. «Chiamate la polizia, chiamate la polizia, quell'uomo ha appena spinto una donna sotto la metropolitana», gridava il testimone. Disse poi che mai avrebbe potuto permettergli di scappare «perché quella donna poteva essere mia madre, poteva essere un'amica . . . so che quella persona lascerebbe un vuoto nella vita di qualcuno» («New York Times», 5 gennaio 1 995 , B8). Si noti che non usò violenza contro il colpevole; si limitò a bloccarlo. n fondamento empatico della rabbia è evidente anche nell'os­ servazione che i bambini provenienti da famiglie nelle quali le liti coniugali sono frequenti sono spesso agitati, e «rimproverano rabbiosamente l'aggressore e insieme confortano quella che con1 Questo bambino mi ricorda quegli adulti che proclamano la loro supe· riorità morale come scusa per punire il prossimo: una sorta di indignazione virtuosa che va distinta, sebbene ciò possa non essere sempre facile, dalla rabbia empatica.

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siderano la vittima» [Cummings e Davies 1 994] . Una bambina di 20 mesi «mentre i genitori litigavano, faceva la spola da un genitore all'altro dicendo " ciao" . . . non appena la madre rispose con un altro " ciao " , la bambina le si arrampicò addosso, le gettò le braccia al collo, le diede dei colpetti sulle spalle, e, infine, la baciò . . . Quando il padre si avvicinò, la bambina alzò la mano e gli disse "Vattene, vattene "» [ibidem, 1 279] . La situazione della bambina non è quella del mero spettatore, naturalmente, poiché era in gioco il suo stesso benessere, e lei era chiaramente ansiosa ed empatica; ma l'ira empatica appare comunque presente. Infine, i terapeuti possono avvertire rabbia empatica se un paziente gli racconta di avere subito maltrattamenti e abusi. Una terapeuta diede la seguente risposta (non verbalizzata) alla descrizione da parte di una bambina profondamente angosciata, benché non incollerita, degli abusi cui era stata sottoposta da suo padre: «Che schifoso maiale ! Trattare così una bambina innocente ! È terribile che nessuno l'abbia aiutata». La rabbia empatica è una motivazione prosociale? In una lettera al «New York Times» è stata formulata l'ipotesi che la rabbia empatica sia una motivazione prosociale più efficace della sofferenza simpatetica: «Le immagini di bambini affamati in Etiopia stringono il cuore, ma rattristarsi non basta . . . inviamo un assegno, le immagini scompaiono dalla TV, e presto dimen­ tichiamo che milioni di bambini stanno morendo . . . Dovremmo piuttosto scandalizzarci che in un mondo di abbondanza vi sia ancora chi muore di fame. L'indignazione muove all'azio­ ne» («New York Times», febb raio 1 985 , 0 1 ) . E la citazione precedente di John Stuart Mill dice la stessa cosa: la giustizia richiede l'ira empatica. Purtroppo, non vi sono ricerche relative all'influenza dell'ira empatica sull'azione prosociale. Tuttavia, dal momento che la rabbia, quando siamo minacciati, «mobilita le nostre energie e ci permette di difenderci vigorosamente>> [Izard 1977 , 3 3 3 ] , è probabile che anche la rabbia empatica che avvertiamo quando ad essere minacciato è qualcun altro mobiliti le nostre energie e ci permetta di difendere la vittima. Gli esempi precedenti fanno pensare che la rabbia empatica sia effettivamente una motivazione prosociale, e lo stesso suggeriscono questi brani delle interviste fatte da Oliner e Oliner [ 1 988] a tedeschi che avevano aiutato degli ebrei perseguitati dai nazisti: 129

Penso che vi fosse un duplice sentimento, di compassione verso gli ebrei e rabbia verso i tedeschi [ibidem, 1 1 8] . Quando cominciarono a portare via gli ebrei, mi ribellai. Non potevo sopportarlo. Li odiavo con tutte le forze perché portavano via persone innocenti, perfino i bambini piccoli. Se la prendevano con persone innocenti, e io volevo aiutarle [ibidem, 143]. Nessuno avrebbe toccato quei bambini. Avrei ucciso chi ci avesse provato [ibidem] .

Queste citazioni illustrano anche il tipo «duplice» di rabbia empatica. In conclusione, dovrebbe essere chiaro che a volte l'osser­ vatore può avvertire rabbia empatica senza che vi sia un reale colpevole, e altre volte può non avvertirla benché il colpevole vi sia. Quanto alla prima possibilità, se osserviamo delle persone bisognose in un contesto nel quale qualcun altro esibisce lusso e ricchezza, possiamo assumere il punto di vista del gruppo svantaggiato e avvertire sofferenza empatica per quest'ultimo e rabbia empatica per i membri del gruppo più abbiente perché questi ultimi, anche se non volevano far male a nessuno, avevano l' aria di chi vuole ostentare la propria ricchezza. Per quanto riguarda la seconda possibilità, così scrive una studentessa: Lavoravo con una donna che aveva una settantina di anni. Poiché era più anziana delle altre, di solito era più lenta, e spesso il suo capo la sgridava davanti ai pazienti nella sala d'aspetto e la umiliava per un nonnulla. Lei restava in silenzio, ma poi si rifugiava nel bagno e si consumava gli occhi dal piangere. Mi faceva molta pena e spesso cercai di immaginare che cosa avrei provato a stare al suo posto. Sinceramen­ te, penso che sarebbe orribile lavorare in una situazione del genere e odierei essere umiliata di fronte a tanta gente. Spesso provavo pena per lei, pensando a tutto quello che doveva sopportare ogni giorno.

Vi è qui sofferenza empatica/simpatetica in abbondanza, ma la rabbia empatica è assente.

3.

Il senso di colpa dello spettatore per inazione

Un osservatore empatico può vedere che la vittima ha bisogno di aiuto e può pensare che lo meriti, e tuttavia può non prestare aiuto a causa di forti motivazioni egoistiche, ad 130

esempio la paura o il desiderio di non immischiarsi. Oliner e Oliner [ 1 988] , come abbiamo già visto, intervistarono tedeschi che avevano aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti e tedeschi che non lo avevano fatto; di questi ultimi, quelli che erano più empatici riconobbero nella paura la causa prima della loro inerzia. In ogni caso, un osservatore innocente può provare un sentimento di colpa quando vede che, con la sua inerzia, ha permesso che la sofferenza della vittima si producesse o proseguisse. Ciò significa che l ' autobiasimo trasforma la sof­ ferenza empatica dell'osservatore in senso di colpa. Si noti che questo senso di colpa non si deve all'aver provocato sofferenza nella vittima. Del senso di colpa per trasgressione, che si ha quando vi è una colpa che ricade sull'osservatore, parleremo nel capitolo sesto. A questo punto dell'analisi siamo ancora all'interno del modello dello spettatore innocente. Benché, come vedremo, il senso di colpa fondato sull'em­ patia muova ad azioni prosociali come scusarsi, riparare un torto e avere più riguardo per gli altri [Baumeister, St illwell e Heatherton 1 994 ] , poche ricerche hanno studiato speci­ ficamente il senso di colpa per inazione. Tuttavia, vi sono aneddoti a sufficienza per concludere che il senso di colpa per inazione sia reale e agisca come una motivazione morale prosociale: 1'80 per cento dei soggetti di Schwartz [ 1 970] , donatori di midollo osseo, dich iararono che se non lo avessero fatto si sarebbero sentiti colpevoli; e molti dei soggetti di uno studio di Eisenberg-Berg e Neal [ 1 97 9] , cui era stata data l'opportunità di aiutare una persona in difficoltà e l' avevano effettivamente aiutata, spiegarono poi che lo avevano fatto perché altrimenti si sarebbero sentiti infelici. Vi sono altre prove aneddotiche sparse: alcuni attivisti bianchi impegnati nella lotta per i diritti civili negli anni Sessanta dichiararono che se non avessero fatto nulla si sarebbero sentiti colpevoli, perché avrebbero lasciato che la discriminazione a danno dei neri degli stati del Sud proseguisse [Keniston 1 968] ; un te­ desco che aveva salvato degli ebrei dalla persecuzione nazista affermò: «Se non li avessimo aiutati, sarebbero stati uccisi. Non potevo sopportare questa idea. Non avrei mai potuto perdonarmi» [Oliner e Oliner 1 988, 168] ; ed un altro tede­ sco, che pure aveva salvato degli ebrei, disse: «S apevo che li stavano portando via e che non sarebbero più tornati. Non 131

credo che avrei potuto sopportare quella situazione sapendo che avrei potuto fare qualcosa» [ibidem , 168] . Ecco tre altri esempi, più vicini alla vita quotidiana. Una studentessa racconta un episodio avvenuto sulla metropolitana: «La donna continuava a maltrattare il bambino. Sapevo che mi sarei sentita colpevole se non avessi fatto nulla. Così presi le chiavi per farlo divertire. Lui rispose. La madre cambiò atteggiamento, e io mi sentii veramente bene». Un'altra studentessa racconta: Un giorno dell'estate scorsa andai in piscina. Ero appena uscita dall'acqua quando vidi un bambino di circa 3 anni che piangeva tra la gente. Continuava a invocare la mamma. Pensai che si fosse perduto e mi sentii male. Una ridda di immagini mi attraversarono la mente, pensai che se non lo avessi aiutato qualcuno lo avrebbe portato via e gli avrebbe fatto del male. Se non avessi fatto nulla e poi fossi venuta a sapere che era morto sarebbe stato terribile, così mi avvicinai e lo aiutai a ritrovare la madre.

Una studentessa di scuola superiore racconta di una sua compagna sistematicamente rifiutata dagli altri membri della classe: «Mi sarei sentita colpevole se non mi fossi seduta accanto a lei, anche se la prospettiva non era molto allettante». In una delle mie prime ricerche sul senso di colpa [Hoffman 1 970a] , chiedevo ai soggetti di completare una storia nella quale il ben intenzionato protagonista (medesima età e medesimo sesso del soggetto) sta andando in tutta fretta al cinema insieme con un amico e vede un bambino che sembra essersi perduto. Il protagonista propone di aiutare il bambino, ma l'amico lo dissuade. Il giorno dopo viene a sapere che il bambino (che era stato lasciato solo dalla baby-sitter) era poi finito in mez­ zo alla strada ed era stato investito e ucciso. C'era anche una versione per adulti nella quale una persona anziana cercava un oggetto smarrito nella neve. Nei finali di loro invenzione, la maggior parte dei soggetti (bambini di quinta e settima classe e i rispettivi genitori) immaginavano che il protagonista si sentisse profondamente colpevole per non essere intervenuto e aver permesso che la tragedia si compisse. Il senso di colpa per inazione includeva spesso sentimenti di sofferenza empatica per il bambino o per i suoi genitori, e favoriva azioni prosociali come aiutare i genitori (tagliare il prato, sbrigare commissioni) , darsi da fare per aiutare un altro bambino e offrirsi ai geni132

tori come baby-sitter gratis. In genere i bambini più grandi e gli adulti immaginavano che il protagonista si rimproverasse («Come ho potuto essere tanto egoista?») e si ripromettesse per il futuro di cambiare la propria scala di valori e pensare di più agli altri. Il senso di colpa era seguito da atti di riparazione o dalla ristrutturazione della scala di valori, ma vi era anche un'altra prova del suo agire come motivazione: la sua intensità diminuiva dopo un atto riparatore, ma restava invariata se questo mancava, il che ricorda la riduzione della sofferenza empatica dopo l'aiuto (che abbiamo analizzato nel cap. m . Anche quando l'osservatore cerca di dare aiuto, è possibile che si senta colpevole di non avere fatto qualcosa per impedire fin dal principio che l'evento si verificasse, o di avere fallito nei suoi tentativi di aiuto, o di avere esitato prima di passare all'azione. Può sentirsi colpevole di non avere fatto qualcosa per evitare l'evento perché suppone che esso avrebbe potuto essere evitato; in altri termini, elabora un «pensiero controfattuale»: immagina scenari alternativi nei quali una sua azione avrebbe potuto cambiare l'esito finale, dopo di che passa dall ' «avrei potuto» all' «avrei dovuto» e si sente colpevole [Davis et al. 1996; Sanna e Turley 1 996] . L'osservatore che cerca di dare aiuto può sentirsi colpevole se i suoi sforzi sono vani e non riesce a soccorrere la vittima, anche se l'insuccesso è facilmente com­ prensibile e del tutto giustificabile [Batson e Weeks 1 996] . Data questa tendenza dello spettatore a sentirsi colpevole, sembra logico supporre che coloro che esitano prima di dare aiuto possano sentirsi colpevoli, poiché il ritardo fa sì che la vittima continui a soffrire. Posto che ciò sia vero, si può supporre che gli osservatori siano sempre vulnerabili al senso di colpa, salvo che in situazioni di emergenza, quando agiscono immediatamente ed evitano che la vittima abbia un danno. E il senso di colpa che l'osservatore sperimenta per avere esitato ad aiutare, per avere tentato di farlo senza successo o per non avere impedito l'evento fin dal principio, può accrescere la sua motivazione a dare aiuto in casi simili nel futuro. In questo modo, il senso di colpa si autorinforza e contribuisce all'ulteriore «apprendimento» del senso di colpa come motivazione prosociale. Il senso di colpa per inazione implica un grande sforzo cognitivo, giacché non solo richiede che l 'osservatore sia co­ sciente della sofferenza della vittima, ma anche che immagini 133

che cosa avrebbe dovuto fare per aiutarla o per impedire il danno. Perciò ci si può aspettare che il senso di colpa per inazione aumenti con l'età, che è quel che effettivamente indicano alcuni studi. Williams e Bybee [ 1 994] chiedevano a studenti di quinta, ottava e undicesima classe di descrivere dei «casi in cui ti sei sentito male per non avere fatto qualcosa». Mentre solo 1'8 per cento degli studenti di quinta e ottava classe descriveva una o più situazioni nelle quali si era sentito in colpa per non avere aiutato qualcuno, tra gli studenti di undicesima classe la proporzione era del 20 per cento. Questi dati possono però essere fuorvianti: quelli sul completamento di storie che abbiamo citato sopra indicano che la maggior parte degli studenti di quinta possono sentirsi molto colpevoli se gli effetti della loro inazione sono gravi. Ciò accade anche quando potrebbero essere incolpate altre persone (l'amico che aveva dissuaso il protagonista, il guidatore dell'automobile, la baby-sitter irresponsabile, i genitori che l'avevano assunta). Senso di colpa anticipatorio per inazione. Siccome siamo esseri cognitivi, una volta che ci sia accaduto di provare senso di colpa per inazione, abbiamo più probabilità di aspettarci che proveremo senso di colpa la volta successiva. Il senso di colpa anticipatorio dovrebbe perciò accompagnare la sofferenza empatica nella maggior parte delle situazioni dello spettatore, come nel caso dei tedeschi che avevano aiutato degli ebrei («Sapevo che mi sarei sentito colpevole se non avessi fatto qualcosa»; «Non credo che avrei potuto sopportare quella situazione sapendo che avrei potuto fare qualcosa») . Una possibile eccezione è quella delle situazioni d i emergenza nelle quali non v'è tempo per riflettere e per aspettarsi il senso di colpa, come nel caso seguente. Un'autobotte che trasportava benzina si rovesciò e prese fuoco su un'autostrada di Long Island. Il veicolo era avvolto dalle fiamme e l'autista aveva perso i sensi, quando un automobilista di passaggio si fermò e lo estrasse dalla cabina, che avrebbe potuto esplodere da un momento all'altro. Come ebbe a dire più tardi, in quel momento la sua mente era stata attraversata dall'immagine dell'uomo nella cabina in fiamme , e sapeva che se nel camion ci fosse stato lui avrebbe desiderato che qualcuno lo salvasse - non aveva avuto il tempo di pensare ad altro. Se non avesse aiutato il camionista o avesse cercato di farlo senza successo, è possibile che l'automobilista si sarebbe poi 134

sentito colpevole, ma non c'era tempo per riflettere, e il senso di colpa anticipatorio può non essere stato, in questo caso, la motivazione per rischiare la vita. Questi aneddoti non dicono nulla dei casi in cui gli spettatori non si sentono colpevoli per inazione o dei casi in cui essi si difendono dal senso di colpa. Ho menzionato l'ipotesi di Staub che quando qualcuno si rende conto di non poter fare nulla, molte volte finisca con l'incolpare la vittima, come forma di distanziamento e per sfuggire al senso di colpa. Possiamo solo immaginare quanti dei milioni di tedeschi che non aiutarono gli ebrei, di fronte al proprio senso di colpa, se la presero con le vittime o, semplicemente, se ne infischiarono. Senso di colpa e rabbia. Ecco un insolito esempio che sembra combinare il senso di colpa per inazione con la rabbia empatica, e che mostra quanto possa essere difficile distinguere la rabbia empatica dalla rabbia diretta e dal tipo di rabbia giustificata che può occultare quella diretta. Un collega chiese ai suoi studenti di descrivere «una situa­ zione recente nella quale ti sei sentito colpevole per qualcosa che hai fatto o che non hai fatto. Sii il più dettagliato possibile». Uno studente rispose: «Mi sono sentito colpevole per non avere levato prima la voce contro le inutili sofferenze degli animali di laboratorio. I cosiddetti " ricercatori" (psicologi compresi) UCCIDONO OGNI ANNO CENTODIECI MILIONI DI ANIMALI. Però io intendo LOTTARE CON TUTTE LE MIE FORZE PER FERMARE QUESTI ASSASSINI. ANCHE GLI ANIMALI HANNO SENTIMENTI !». Rispondendo alla domanda «Con quale frequenza ti senti in colpa?», lo studente contrassegnò la casella «Molto spesso», e aggiunse «Ogni volta che vedo prove della tortura». Alla domanda «Quali sono state le tue reazioni?», lo studente rispose: «Scrivere lettere al Congresso per caldeggiare l'approvazione della legge congressuale HR 4805 per la modernizzazione della sperimentazione sui primati». Alla domanda «Perché credi di esserti sentito colpevole?», rispose: «AMO GLI ANIMALI». Alla domanda «In quel momento avevi qualche altra idea sul perché ti sentivi colpevole?», la risposta fu: «Sì, immaginavo il mio gatto sconvolto, torturato, reso aggressivo, accecato, privato di cibo e acqua, ed ero ESTREMAMENTE ARRABBIATO». Domanda: «Che penseresti se qualcosa di quello che hai fatto o evitato di fare non avesse avuto effetto?». 135

Risposta: «[CHE] NON [ERA] ABBASTANZA. DEVO FARE DI PIÙ PER FERMARE LA TORTURA. Tuttavia credo che le persone siano fondamentalmente buone (psicologi compresi). Se prendono coscienza della tortura, del dolore e della sofferenza di questi animali, gli ASSASSINI SI FERMERANNO» (maiuscolo nell'originale) . Mi sembra che queste ripetute giustificazioni morali pro­ sociali e ammissioni di colpa da parte di quel soggetto fossero, almeno in parte, scuse per esprimere rabbia. Che ciò sia vero o meno, l'esempio consiglia cautela nell'interpretare le azioni o le parole di qualcuno come rabbia empatica. 4. Sentimento empatico di ingiustizia Oltre che fare attribuzioni causali, le persone cercano anche di stabilire se la vittima abbia meritato la sua sorte. Le inferenze che compiono a questo scopo, che di solito riguardano il carattere o il comportamento della vittima e si basano sulla sua reputa­ zione personale o su stereotipi relativi al suo gruppo etnico o alla sua classe sociale, possono influenzare la risposta empatica dell'osservatore. Se la vittima è considerata cattiva, immorale o pigra, gli osservatori possono concludere che la sua è stata una sorte meritata, e la loro sofferenza empaticalsimpatetica può mitigarsi. Ma se la vittima è considerata fondamentalmente buona, gli osservatori possono concludere che la sua sorte è stata immeritata o ingiusta, e la sofferenza empatica/simpatetica, la rabbia empatica o il senso di colpa possono acuirsi. In questo secondo caso, gli osservatori possono concludere che la vittima ha subito un'ingiustizia («non reciprocità» tra atti e conseguenze). Ciò può trasformare la loro sofferenza empatica in un sentimen­ to empatico di ingiustizia, che comprende una motivazione a raddrizzare il torto. Zillman e Cantar [ 1977] hanno osservato che gli alunni di quinta e sesta classe provavano empatia per le vittime che erano state descritte in termini neutrali o come benevole, ma non per quelle descritte come malevole. Coles [ 1 986] illustra il sentimento di ingiustizia empatica attraverso l'esempio reale di uno studente bianco di 14 anni di uno stato del Sud. Questo ragazzo, un apprezzato sportivo, per alcune settimane aveva boicottato insieme con i suoi amici 136

l'integrazione scolastica degli studenti di colore. Ecco il suo racconto: Mi accorsi di un ragazzo, non uno di quei negri, ma un tipo che sapeva fare buon viso a cattiva sorte, che teneva la testa alta e la schiena dritta, e perfettamente educato. Dissi ai miei genitori: «È davvero ver­ gognoso che una persona come lui debba pagare per i guasti provocati da tutti quei giudici federali». Poi successe qualcosa. Vidi alcune per· sone che lo insultavano. «Sporco negro ! » non smettevano di gridare, e lo spinsero in un angolo. Le cose sembravano mettersi male, molto male. Intervenni e misi fine alla zuffa . . . Tutti mi guardarono come se fossi impazzito . . . Prima [che tutti se ne andassero] mi rivolsi a quel negro . . . Non era mia intenzione . . . le parole mi uscirono di bocca d a sole. l o stesso fui sorpreso nel sentirle: «Scusa» [ibidem, 2 7 -28 ] .

Dopo questo episodio, il ragazzo bianco cominciò a par­ lare con il ragazzo di colore e a difenderlo personalmente pur continuando a condannare l'integrazione razziale. Alla fine gli divenne amico e cominciò a caldeggiare la «fine di tutto il disgustoso affare della segregazione». Quando Coles gli chiese insistentemente di spiegare il suo mutamento, egli lo attribuì al fatto che quell'anno, a scuola, aveva visto «quel ragazzo continuare a comportarsi bene, qualunque cosa gli dicessimo, e nonostante fosse bersaglio di ogni sorta di insulto. Vi fu qualcosa dentro di me che disse basta, e qualcosa cominciò a cambiare, penso» [ibidem, 28] . È evidente che quel ragazzo bianco sperimentò sofferenza empatica, rabbia empatica e senso di colpa. Ma, si direbbe, quel che più lo influenzò fu il contrasto fra la condotta ammirevole del ragazzo nero e il modo in cui veniva trattato (come se pen­ sasse che la vittima fosse una persona eccellente che meritava qualcosa di meglio) . La mia interpretazione è che l'evidente mancanza di reciprocità tra condotta e conseguenze avesse trasformato la sofferenza empatica/simpatetica del ragazzo bianco in un sentimento empatico di ingiustizia2; sentimento, 2 L'opinione di Gibbs al riguardo [1991] è differente dalla mia [Hoffman 1 99 1 ] . A suo giudizio, la discrepanza tra la condotta della vittima e ciò che

gli accade mette gli osservatori a disagio per due ragioni indipendenti: perché l'osservatore prova empatia per la vittima, e perché la discrepanza contraddice la motivazione puramente cognitiva dell'osservatore a favore della reciprocità. Tratteremo più ampiamente l'empatia e la reciprocità nel capitolo nono.

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questo, che ha una speciale importanza perché può mettere in relazione la sofferenza empatica con i principi di giustizia, come vedremo nel capitolo nono.

5.

Mutamenti di attribuzione causale

Nel capitolo secondo abbiamo visto con quanta rapidità agiscano le diverse modalità di attivazione empatica, non solo quelle preverbali (condizionamento, mimesi, associazione), ma anche l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, grazie alla velocità dell'elaborazione cognitiva. La mia ipotesi è che la stessa rapidità caratterizzi le attribuzioni causali e i passaggi da un' attribuzione all ' altra3• Ecco un esempio di una serie di attribuzioni causali che si susseguono l'una all'altra in meno di un minuto; mi è stato raccontato da uno studente che penso di poter definire, a ragion veduta, come una persona insolitamente empatica. C'era stato un incidente, lui era arrivato sul posto subito dopo, e aveva potuto vedere il guidatore di una lussuosa auto sportiva che veniva caricato in barella su un'ambulanza. Ecco il suo racconto: Dapprima pensai che la cosa più probabile era che fosse un ragazzo ricco e viziato che si era messo alla guida sotto l'effetto di droghe o alcol, e non sentii nulla per lui. A questo punto però considerai che forse ero stato ingiusto, che forse stava correndo per un'emergenza, magari per portare qualcuno all'ospedale, e allora provai pena. Ma poi riflettei che questo non lo giustificava, anche in una situazione di emergenza avrebbe dovuto fare più attenzione, e i miei sentimenti si affievolirono. Solo allora mi resi conto che forse quell'uomo stava morendo e di nuovo sentii molta pena per lui.

Questa risposta illustra al tempo stesso la tendenza umana a compiere attribuzioni causali, la rapidità con cui nelle situa­ zioni ambigue si passa da un'attribuzione causale a un'altra, il rapido avvicendarsi dei sentimenti che ne risulta. Essa mostra anche, come alcuni dei miei esempi precedenti, che incolpare 1 I mutamenti di attribuzione causale possono anche protrarsi nel tempo, come nel caso della giovane donna che abbiamo descritto sopra, che gradual­ mente passò dal provare empatia verso la madre e rabbia empatica verso il padre all'incolpare la madre perché non si faceva rispettare.

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la vittima non è incompatibile con la sofferenza empatica/siro­ patetica. E può darsi che i mutamenti nei processi di pensiero di quello studente fossero ancora più complessi , e che lui non ne fosse consapevole perché erano troppo rapidi. Per capire perché una persona empatica come lui avesse per prima cosa incolpato la vittima, gli chiesi qualche dettaglio su che cosa aveva provato non appena era giunto sul luogo dell'incidente. Di colpo si ricordò che la sua risposta immediata era stata «una sensazione di shock molto dolorosa», seguita subito dopo da attribuzioni dispregiative. Credo che la «sovrattivazione empatica» fosse stata ab­ bastanza dolorosa da trasformare la sofferenza empatica in sofferenza personale, e che il disprezzo dell'osservatore per la vittima fosse una difesa cognitiva che riduceva temporaneamente la sua sofferenza personale in modo da rendere la situazione più tollerabile. Ciò gli dava la possibilità di assumere il con­ trollo delle proprie emozioni e gli permetteva di reagire alla cruda realtà della condizione della vittima, che era ancora sotto i suoi occhi, e di provare nuovamente empatia, stavolta senza che vi fosse bisogno di disprezzare la vittima. In altri termini, l'attribuzione dispregiativa era tanto una conseguenza (della sovrattivazione empatica) quanto una causa ( della riduzione dell'empatia) ; o, che è lo stesso, era una difesa temporanea contro la sovrattivazione empatica. Il conflitto tra la sofferenza empatica dolorosamente spiacevole provocata dalla presenza della vittima e la motivazione dell'osservatore ad evitare quella sofferenza poteva avere causato, pertanto, quel rapido susse­ guirsi di attribuzioni causali. È interessante che lo studente, nel suo resoconto iniziale, muovesse da un'attribuzione causale a un'altra e ricordasse l' aumento o il decremento della sofferenza empatica provo­ cato dalle diverse attribuzioni . Non ricordava invece nulla dell'influenza della sofferenza empatica sulle sue attribuzioni, né ricordava, che è lo stesso, che la sovrattivazione empatica potesse averlo indotto a incolpare la vittima. In altre parole, era cosciente dell 'effetto delle attribuzioni sui suoi sentimenti, ma non dell'effetto di questi sulle sue attribuzioni - un bias di superiorità della cognizione che può rispecchiare l'importanza che la nostra società annette alla razionalità.

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TE SECONDA ASGRESSIONE

CAPITOLO QUINTO

SENSO DI COLPA E INTERIORIZZAZIONE MORALE

Passiamo ora dal modello dello spettatore innocente a un modello nel quale l'osservatore danneggia un'altra persona, o pensa che ciò che sta facendo può danneggiarla - cioè compie un atto di trasgressione. Le trasgressioni possono essere pro­ vocate, deliberate, accidentali, effetti secondari di un conflitto, o di violazioni delle legittime aspettative altrui. Il problema morale è se il trasgressore è motivato ad evitare l'atto dannoso o, almeno, si sente colpevole per averlo commesso e agisce poi in modo prosociale, e se si comporta così anche in assenza di osservatori - il tratto distintivo dell'interiorizzazione morale. Questo capitolo, pertanto, ha per oggetto il senso di colpa e l'interiorizzazione morale. Come il modello dello spettatore è il prototipo di incontro morale per ciò che riguarda l'empatia, e specialmente la soffe­ renza empatica, così il modello della trasgressione è il prototipo di incontro morale per ciò che riguarda il senso di colpa su base empatica, e specialmente il senso di colpa per trasgressione su base empatica. Il senso di colpa per trasgressione si distingue dal senso di colpa dello spettatore per inazione e dal «senso di colpa virtuale», di cui parleremo nel capitolo settimo. Il mo­ dello della trasgressione è anche l'incontro morale prototipico dell'interiorizzazione morale. Il senso di colpa su base empatica è la motivazione pro­ sociale più importante nelle trasgressioni che comportano un danno per gli altri, ed è al centro di questo capitolo. Dopo avere introdotto il senso di colpa su base empatica, presenterò le prove della sua esistenza e del suo agire come una motiva­ zione sociale, e analizzerò il suo sviluppo. Riassumerò poi le teorie dell'interiorizzazione morale, e illustrerò l'importanza della socializzazione, e specialmente della disciplina, per il senso di colpa e l'interiorizzazione morale ( ciò che servirà da introduzione al cap. VI). 143

l.

Senso di colpa

La prima spiegazione evolutiva del senso di colpa fu proposta da Freud. Curiosamente, secondo Freud il senso di colpa non è dovuto al fatto di avere danneggiato qualcuno, ma è un ritorno, in larga parte inconscio, alla prima fanciul­ lezza, e nasce dall'angoscia che il bambino prova di fronte alla possibilità di essere punito o di perdere l'amore dei genitori. Quando questa angoscia è suscitata da sentimenti di ostilità, in un primo momento verso i genitori ma poi verso qualunque persona, si trasforma in senso di colpa anche se i sentimenti ostili non sono espressi. Nelle parole di Freud, «una minaccio­ sa infelicità esterna - perdita dell'amore e punizione da parte dell'autorità esterna è stata barattata con una permanente infelicità interna, la tensione che nasce dal senso di colpa». Freud riconosceva il carattere patologico di questo senso di colpa e attribuiva agli esseri umani anche un senso di colpa più collegato alla realtà; né lui né i suoi seguaci elaborarono però una concezione alternativa del senso di colpa e del suo sviluppo [Hoffman 1 970a] . Questo carattere patologico può spiegare la cattiva reputazione del senso di colpa e perché esso sia stato a lungo trascurato dagli psicologi accademici. Verso la fine degli anni Sessanta, ho proposto una teoria del senso di colpa interpersonale più costruttiva e fondata sull'empatia. Il senso di colpa vi è definito come un doloroso sentimento di disistima di sé, accompagnato solitamente da un senso di urgenza, tensione e rammarico, che scaturisce da un sentimento empatico verso una persona sofferente, combinato con la coscienza di essere la causa di quella sofferenza [Hoffman 1 982b; Hoffman e Saltzstein 1967 ] . Per non sentirsi colpevole, una persona può evitare di compiere atti dannosi, o, se ne ha commessi, può risarcire la vittima nella speranza di cancellare il danno e ridurre il sentimento di colpa. (Per un'estensione al dominio clinico della formula empatia-senso di colpa, vedi Friedman [ 1985 ] .) Negli ultimi decenni, un corpo di ricerche piuttosto ampio ha confermato sia la realtà del senso di colpa su base empatica, sia l'ipotesi che esso agisca come una moti­ vazione morale prosociale. -

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1 . 1 . Prove del senso di colpa su base empatica Vi sono vari tipi di prove che dimostrano l'esistenza di un senso di colpa su base empatica - prove fornite da ricerche di tipo narrativo, correlazionale e sperimentale. Prove narrative sono presentate da Tangney e colleghi [ 1 996] , i quali hanno trovato che nel descrivere la loro esperienza del senso di colpa, tanto i bambini quanto gli adulti esprimono spesso sentimenti empatici. Ho notato la stessa cosa alcuni anni fa, in uno studio sul senso di colpa nel quale i soggetti dovevano completare una storia (su questo studio torneremo più avanti). Tangney e colleghi hanno anche riportato significative correlazioni posi­ tive tra test carta e matita dell'empatia e del senso di colpa in studenti universitari, in alunni di quinta classe e nei rispettivi genitori e nonni di ambo i sessi [Tangney 1 99 1 ; Tangney et al. 1 99 1 ] . Prove correlazionali indirette del senso di colpa su base empatica sono evidenti nelle ricerche degli anni Settanta e Ottanta sulla disciplina genitoriale, che mostrano che tanto la sofferenza empatica del bambino quanto il suo senso di colpa sono correlati positivamente con lo stesso tipo di disciplina genitoriale (quella induttiva, di cui parleremo nel cap. 6 ) ; punta nella stessa direzione la recente scoperta dell'esistenza di una correlazione positiva tra l'empatia e il senso di colpa nei bambini i cui genitori ricorrono spesso a induzioni [Krevans e Gibbs 1 996] . Quanto alle prove sperimentali, in uno studio di Okel e Mosher [ 1968] degli studenti universitari maschi erano indotti a insultare un compagno (complice dello sperimentatore) , che si mostrava ferito dagli insulti. I soggetti più empatici riferirono poi di essersi sentiti colpevoli per avere insultato la vittima e aggiunsero che non lo avrebbero fatto se avessero saputo prima quanto la vittima ne avrebbe sofferto. Thompson e Hoffman [ 1 980] narrarono a bambini di prima, terza e quinta classe (con l'aiuto di diapositive) delle storie nelle quali un bambino arrecava danno a un'altra persona. I soggetti nei quali si era stimolata l'empatia chiedendo che cosa avesse provato la vittima ottennero punteggi più elevati dei soggetti di controllo, ai quali non era stato chiesto di pensare alla vittima. Entrambi gli studi mostrano che l'attivazione empatica contribuisce allo sviluppo del senso di colpa per trasgressione. 145

Vi sono anche prove relative allo sviluppo. I primi stadi dello sviluppo della sofferenza empatica nei bambini piccoli (toddlers, di età compresa tra l e 3 anni) quando sono testi­ moni della sofferenza di un'altra persona in ambienti naturali (la casa o il nido d'infanzia) somigliano, sotto diversi aspetti, ai primi stadi dei comportamenti che prefigurano il senso di colpa quando quei bambini causano sofferenza in un'altra persona negli stessi ambienti naturali [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1 979; Zahn-Waxler et al. 1 992 ] . Nel secondo anno, accade più spesso che il bambino, o la bambina, aiuti spontaneamente e lo stesso avviene con gli atti di riparazione: quando causa sofferenza in un'altra persona, il bambino cerca di riparare ed esprime preoccupazione, come se si sentisse colpevole. Per esempio, una bambina di 1 8 mesi urtò accidentalmente la sua baby-sitter e disse: «Scusa, Sally», le accarezzò la fronte e le diede un bacio; e una bambina di 2 anni che era stata rimpro­ verata dalla madre per avere tirato i capelli alla cuginetta, le si avvicinò e disse: «Ti ho fatto male ai capelli, per favore non piangere», scoccandole un bacio. Concludo con le parole di un adulto, raccolte da Finnegan [ 1 994 ] , che, oltre alla stretta relazione tra l'empatia e il senso di colpa, esemplificano le ripercussioni a lungo termine del senso di colpa fondato sull'empatia. Quest'uomo era stato membro della giuria in un processo per rapina. Quando tornò al suo lavoro di giornalista, ripensò ad alcuni dettagli che erano stati trascurati durante il processo. Intervistò approfonditamente e a lungo i testimoni e il condannato, e giunse a dubitare del verdetto di colpevolezza che aveva spedito quell'uomo in carcere per diversi anni. Dichiarò che «moralmente» provava «orrore di fronte all'evidente possibilità che lo avessimo fatto finire in galera per qualcosa che non aveva fatto. La confortevole distanza tra giurato e imputato . . . era stata improvvisamente annullata dalla semplice compassione, e la sofferenza che riferì di provare era terribilmente intensa» [ibidem, 64 -65 ] .

1 .2 . Senso di colpa come motivazione prosociale Vi sono solide prove che il senso di colpa per trasgressione su base empatica muova ad atti prosociali come scusarsi con 146

la vittima e riparare il danno, ma anche aiutare altre persone oltre alla vittima - si veda l'analisi di Baumeister, Stillwell e Heatherton [ 1 994 ] . Sembra inoltre che il senso di colpa favorisca il comportamento prosociale particolarmente nei bambini molto empatici [Krevans e Gibbs 1996] . Inoltre, nelle relazioni strette il senso di colpa su base empatica può indurre a prestare più attenzione all'altro, a cambiare comportamento per adattarsi alle sue necessità e aspettative e, a volte, a confessare, espri­ mendo l'impegno a salvaguardare la relazione e a non ripetere la trasgressione [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1 994 ] . In uno studio d i completamento di storie, a sessanta sog­ getti tra l'età prescolare e la sesta classe venivano presentate storie nelle quali un bambino faceva male a un altro bambino [Chapman et al. 1 987 ] . I soggetti che attribuivano al bambi­ no della storia un senso di colpa («È triste perché lo ha fatto cadere») avevano più probabilità di aiutare gli altri in varie situazioni sperimentali rispetto ai soggetti che non facevano tale attribuzione («È contento che sia caduta», «N on si è fatta veramente male») . Era anche più probabile che esprimessero preoccupazione per lo sperimentatore quando mostrava di essersi fatto male alla schiena, che si mettessero in cerca del biberon di un bambino che piangeva, e che aiutassero lo sperimentatore a liberare un gattino da una gabbia per dargli da mangiare. La correlazione positiva tra l'attribuzione di un senso di colpa al bambino della storia e gli indicatori di aiuto era evidente in tutti i gruppi d 'età. Nel capitolo quarto ho osservato che alcuni dei soggetti più grandi dei miei esperimenti di completamento di storie, quando l'inazione del protagonista conduceva alla morte della vittima, immaginavano finali nei quali il protagonista si impe­ gnava a modificare la propria scala di valori e a preoccuparsi degli altri. Non mancano esempi reali di questa trasformazione personale in risposta a quello che è chiaramente un senso di colpa per trasgressione su base empatica; non saprei trovare esempio migliore del resoconto autobiografico di George Orwell [ 195 8] , negli anni Venti del secolo scorso giovane funzionario della polizia britannica in India: Gli infelici detenuti accoccolati... le facce grigie, sottomesse dei condannati a molti anni, le natiche coperte di cicatrici degli uomini

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flagellati a colpi di bambù, donne e bambini ululanti di dolore quando i loro uomini erano condotti via da un mandato di arresto - cose come queste sono al di là di ogni sopportazione quando uno se ne senta in un modo o nell'altro responsabile [ibidem; trad. it. 1 982 , 1 63 - 1 64 ] . [Quando tornai in patria per una licenza] ero consapevole d i un immenso peso di colpa che dovevo espiare. . . Avevo ridotto ogni cosa alla semplice teoria che gli oppressi hanno sempre ragione e gli oppressori sono sempre nel torto; teoria errata, ma conseguenza naturale dell'essere voi stesso uno degli oppressori. Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all'imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell'uomo sull'uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni . . . Il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di «successo» nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all'anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza [ibidem; trad. it. 1 982, 1 65 - 1 66] .

1 . 3 . Lo sviluppo del senso di colpa

Quando un adulto maturo è consapevole di avere violato valori o principi morali interiorizzati avverte un senso di colpa su base empatica. Il principio qui in gioco - che dovremmo prendere in considerazione il benessere altrui tanto quanto il nostro - è semplice, ma si complica non appena ci rendiamo conto che il benessere dell'altro include non solo il suo benessere fisico ma anche sentimenti e legittime aspettative per ciò che riguarda il comportamento nei suoi confronti (fiducia, lealtà, reciprocità): «Ecco, c'è questa ragazza che mi piace molto. L' altro giorno all'hotel quasi mi sono messo ad amoreggiare con un'altra ragazza . . . Adesso provo una specie di senso di colpa e forse dovrei parlarle» [Tangney e Fischer 1 995 , 120] . Il principio si complica ulteriormente se si considerano le variabili che determinano la gravità della violazione e pertanto l'intensità del senso di colpa del trasgressore. Una delle variabili che determinano l'intensità del senso di colpa è ovviamente la gravità del danno arrecato alla vittima. Altre variabili: se il danno fosse accidentale o intenzionale; se l'atto dannoso fosse controllabile dal trasgressore, dovuto a pressioni esterne, o provocato dalla vittima; se, nel compierlo, il trasgressore avesse una scelta. Arrecare deliberatamente danno ad altri quando si 148

ha un controllo o si può scegliere è una trasgressione più grave che non il farlo accidentalmente, o sotto pressione esterna, o perché si è provocati. Queste variabili dovrebbero determinare l'intensità del senso di colpa maturo, che è il risultato finale del processo di sviluppo. Le ricerche sullo sviluppo indicano una progressio­ ne che va dalla prima fanciullezza, nella quale la gravità delle conseguenze è l'unica variabile che determina l'intensità del senso di colpa, alla media fanciullezza, quando alla gravità delle conseguenze si aggiungono - non meno importanti - la scelta e il grado di controllo, fino ali' età adulta, nella quale la scelta e il grado di controllo sono variabili primarie e il senso di colpa è massimo quando viene violato intenzionalmente il principio astratto di tener conto degli altri [Baumeister, Still­ well e Heatherton 1 994; Graham, Doubleday e Guarino 1 984; Weiner, Graham e Chandler 1 9 82 ] . Tuttavia, non credo che le intenzioni e la scelta siano sempre fattori primari e che la gravità delle conseguenze possa mai perdere tutta la sua influenza, neppure negli adulti. Chi non si sentirebbe colpevole se avesse travolto un bambino con l'auto, anche se in quel momento procedeva con prudenza e ben al di sotto della velocità consentita? Anche nelle situazioni più favorevoli e con tutte le circostanze attenuanti immaginabili, siccome il senso di colpa ha un fondamento empatico, è vero­ simile che, in maggiore o minor misura, sia sempre presente. Prerequisiti evolutivi del senso di colpa maturo. Una persona non si sentirà colpevole in forma matura per avere violato il principio di tener conto degli altri se non dopo avere raggiunto un livello di sviluppo abbastanza avanzato. La persona dovrà interiorizzare il principio e riconoscere i casi in cui si applica. Dovrà rendersi conto di avere violato il principio e comprendere la gravità del danno arrecato, ciò che presuppone, a sua volta, la capacità di riflettere sulle proprie azioni e comprendere i loro effetti presenti e futuri sul benessere altrui. Dovrà essere in grado di riflettere sulle proprie motivazioni e stabilire se la propria azione fosse involontaria oppure frutto di una scelta, una tentazione, una pressione esterna o una provocazione. E, infine, la persona non solo dovrà sentirsi colpevole ma anche essere cosciente di avere commesso un'infrazione e di essere personalmente responsabile del danno arrecato. 149

«Stadi» dello sviluppo del senso di colpa. Il senso di colpa maturo è molto distante dalle prime manifestazioni del senso di colpa e dei comportamenti che lo prefigurano (guilt-like). Queste prime manifestazioni soddisfano i requisiti minimi del senso di colpa su base empatica: la sofferenza empatica e la consapevolezza di avere causato danno a un'altra persona, che implica anche la consapevolezza delle ripercussioni delle proprie azioni sugli altri. In generale, si può supporre che il senso di colpa su base empatica si sviluppi allo stesso modo della sofferenza empatica: il senso di colpa per avere arrecato un danno o un dolore fisico a un'altra persona è seguito prima dal senso di colpa per avere ferito i suoi sentimenti, poi dal senso di colpa per averla danneggiata al di là della situazione immediata [Hoffman 1982b]. Mascolo e Fischer [ 1995] hanno sviluppato e arricchito questo quadro di riferimento alla luce delle ricerche sull'emergere del senso di colpa, sop rattutto quelle di Zahn- Waxler e colleghi, e hanno proposto il seguente schema di sviluppo: l. A partire dagli 8 o 9 mesi, il bambino o la bambina prova sofferenza empatica quando una sua azione intenzionale (una botta) fa piangere qualcuno, benché debba passare ancora un anno prima che tale sofferenza assuma la forma del senso di colpa. Le risposte che prefigurano il senso di colpa per avere causato un danno fisico a un'altra persona («Ho fatto del male a Jason») sono seguite da quelle per aver detto qualcosa di offen ­ sivo (dopo avere detto «Che brutta torre», il bambino si accorge che Jason si è offeso e dice: «Ho fatto del male a Jason, Jason è triste»), e poi da quelle per non avere esaudito una richiesta (dopo avere rifiutato di dare a Jason dei cubi per costruire una torre, il bambino vede che J ason si è offeso e dice: «Ho fatto del male a J a so n, Jason è triste» con tono di voce affl itto). Benché Mascolo e Fischer non ne facciano menzione, è significativo che il numero di atti riparatori prosociali compiuti da bambini che avevano danneggiato un'altra persona aumenti bruscamente tra 18 e 24 mesi d'età [Zahn-Waxler e Robinson 1995]. Ecco un esempio di una mia studentessa: Un giorno facevo da baby-sitter a mia cugina Ginny, una bambina di 21 mesi. Giocavo con lei afferrandola, sollevandola in aria e facendola ricadere delicatamente a terra. Dopo un po' mi stancai e la misi giù.

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Ma Ginny insisteva e fece un salto quando io era ancora china su di lei, e mi diede una testata sul mento. Cominciò a piangere. Mi sentii terribilmente colpevole e le dissi: «Ginny, scusami tanto». Poi mi resi conto che mi ero morsa il labbro, che si era spaccato e sanguinava. Anche Ginny se ne accorse; subito smise di piangere e disse: «Ginny ti ha fatto questo. Ginny ti ha fatto bua». Andai a prendere una salvietta in cucina e lei mi venne dietro; poi, quando mi sedetti, mi accarezzò la gamba e disse: «Ginny chiede scusa».

Evidentemente, il disagio della bambina era soverchiato dalla sua sofferenza empatica e dal senso di colpa. A 24 mesi, il numero di atti riparatori è correlato positi­ vamente sia con l'empatia sia con la capacità del bambino di riconoscersi allo specchio [Zahn-Waxler et al. 1992]. Questa osservazione conferma l'ipotesi che il senso di colpa su base empatica presupponga la capacità di riflettere sulle proprie azioni e susciti atti riparatori . Ma torniamo a Mascolo e Fi­ scher. 2. Verso i 4 o 5 anni, il bambino comincia a rappresentarsi gli altri in forme più elaborate, tenendo conto delle esigenze della reciprocità sociale. Può afferrare così la relazione tra le azioni di un altro bambino e ciò che queste azioni richiedono di fare di rimando; e può sentirsi colpevole se non contraccam­ bia. Mark chiede a un amico se può giocare con i suoi cubi di legno, l'amico acconsente, però poi Mark non lo fa giocare con i suoi cubi di plastica quando quello glieli chiede, e l'amico si mette a piangere. Mark si rende conto che l'amico piange per il suo rifiuto, e si sente colpevole per non aver contraccambiato. (Torneremo sul tema della reciprocità nei capp . IX e X.) 3. Tra 6 e 8 anni, il bambino si sente colpevole quando non adempie a un 'obbligazione: ad esempio, quando non mantiene la promessa di fare visita a un amico malato, che ci resta male. Qui il senso di colpa è reso possibile dall'emergere di una sistema di rappresentazione capace di coordinare i bisogni dell'amico, la promessa fatta, l'inadempimento di questa e l' afflizione dell'amico, e, insieme, di riconoscere che questa afflizione è dovuta al proprio inadempimento della promessa. 4. Tra 10 e 12 anni, il bambino può sentirsi colpevole per avere violato una norma morale astratta e generale sul modo di trattare le altre persone. Può fare generalizzazioni a partire da eventi particolari e trarre conclusioni come: «Non ho mantenuto

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le promesse che ho fatto ai miei amici», e così può imputare a se stesso una mancanza morale e sentirsi colpevole per avere violato la norma generale che prescrive di onorare gli accordi con gli amici. È come se si dicesse: «Ho deluso i miei amici: ho detto loro che avrei fatto una cosa e invece ne ho fatta un'altra». A questa età, il bambino può anche paragonarsi con gli altri e sentirsi colpevole per non avere rispettato le norme morali con lo stesso rigore e la stessa coerenza dei suoi amici. In altre parole, in questa fase il bambino è capace di sperimentare un senso di colpa su base empatica abbastanza maturo. Lo schema di sviluppo di Mascolo e Fischer è un primo, prezioso tentativo di integrare la capacità empatica del bambino con la sua capacità di rappresentare entità personali e sociali sempre più complesse (sentimenti di afflizione, reciprocità, adempimento/inadempimento di obbligazioni, norme astrat­ te) . Al centro di questo schema è l 'influenza dello sviluppo cognitivo sul senso di colpa. La mia teoria dell'influenza della socializzazione è oggetto del capitolo sesto. Ci occupiamo ora dell'interiorizzazione morale.

2.

[;interiorizzazione morale

L'interiorizzazione morale affascina da molto tempo gli psicologi, probabilmente perché sintetizza il dilemma esisten­ ziale umano: come affrontare l' inevitabile conflitto tra i bisogni egoistici e le obbligazioni sociali. A Freud e Durkheim dob­ biamo non solo i concetti di «super-io» e di «rappresentazione collettiva», ma anche l'osservazione (condivisa ampiamente dagli scienziati sociali) che la maggior parte delle persone non vive le norme morali della società come un vincolo esterno, imposto in modo coercitivo, al quale doversi sottomettere. Benché in un primo momento le norme possano essere viste come un rimedio esterno spesso in conflitto con i nostri de­ sideri, alla fine diventano parte integrante del nostro sistema motivazionale interno, soprattutto grazie agli sforzi dei primi agenti della socializzazione, in special modo i genitori , e contri­ buiscono a guidare il nostro comportamento anche in assenza di un'autorità esterna. In altri termini, al controllo da parte di altre persone succede l'autocontrollo, e nella condotta morale 152

l'individuo cerca di conseguire un equilibrio accettabile tra le motivazioni morali e quelle egoistiche, che risiedono entrambe al suo interno. La filosofia e la religione occidentali, come abbiamo già osservato, hanno offerto varie risposte al dilemma esistenziale umano sollevato dal conflitto tra i bisogni egoistici e le obbli­ gazioni sociali, e queste risposte si ripresentano nelle teorie psicologiche contemporanee. Una risposta è a) la dottrina del peccato originale, alle radici della teologia cristiana, secondo la quale l'uomo nasce egoista e può acquisire un senso di obbligo morale solo attraverso esperienze di socializzazione punitiva, che imbriglino gli impulsi egoistici. Questa dottrina corrisponde alla teoria freudiana e ad alcune teorie dell 'apprendimento sociale che sottolineano l'importanza delle punizioni nello sviluppo morale. Diametralmente opposta, e più interessante, è la risposta b), la dottrina della purezza innata, associata ad autori come Rousseau, secondo la quale il bambino è naturalmente buono, cioè sensibile agli altri, ma vulnerabile all'azione corruttrice della società; essa corrisponde, per certi aspetti, alla teoria di Piaget dello sviluppo morale. Non che Piaget considerasse i bambini intrinsecamente puri; egli sosteneva piuttosto che la loro relazione con gli adulti crei un rispetto eteronomo per le regole e l'autorità che interferisce con lo sviluppo morale del bambino. Questa è una forma di corruzione, secondo Piaget, che può essere superata solo dal reciproco «dare e avere» dell'ime­ razione libera, senza supervisione, con i pari; l' interazione con i pari, insieme con le capacità cognitive che si evolvono natu­ ralmente nel bambino, promuove la sua capacità di assumere il punto di vista altrui e, da ultimo, gli permette di distinguere le norme morali dal comportamento sanzionato esternamente. La somiglianza con la dottrina della «purezza innata» sta nel fatto che l'interazione libera e naturale del bambino premorale favorisce lo sviluppo morale, mentre l'interazione con gli adulti (socializzati) lo ostacola. Torneremo su Piaget più avanti. Kant e i suoi eredi, con il loro tentativo di c) dedurre principi di giustizia universali e applicati in modo imparziale, hanno ispirato, in parte, il tentativo di Kohlberg (e di Piaget) di costruire una successione invariante di stadi universali dello sviluppo morale. C'è infine d) la versione britannica dell'uti153

litarismo, rappresentata, tra gli altri, da David Hume e Adam Smith, che consideravano l'empatia un vincolo sociale neces­ sario; essa trova espressione nelle ricerche attuali sull'empatia, la compassione e l'etica del prendersi cura. Forse la descrizione più concisa del contributo dell'interioriz­ zazione morale alla conservazione della società è quella formulata un secolo fa da un sociologo: «La tendenza della società a sod­ disfare le sue necessità nel modo più semplice ed economico si traduce nell'appello alla "buona coscienza" , attraverso la quale l'individuo paga a se stesso il compenso per la sua rettitudine, che altrimenti dovrebbe essergli assicurato attraverso le leggi o i costumi» [Simmel 1 902 , 19] . In altri termini, l'interiorizzazione svolge la funzione di controllo sociale: di far sì che il conformarsi sia di per sé remunerativo quando la società non distribuisce premi per il comportamento retto e castighi per quello deviante. Su questa base, possiamo passare alle teorie dell'interiorizza­ zione morale elaborate dagli psicologi. L'interiorizzazione morale ha significati differenti secondo il quadro teorico di riferimento, e alcuni autori non la menzionano affatto, benché sia implicita nel loro lavoro. Le teorie su ciò che promuove l'interiorizzazione morale nei bambini si riferiscono in genere a una dimensione particolare della morale (comportamentale, affettiva, cognitiva) e si concentrano su un particolare aspetto della socializzazione dei bambini che le altre teorie trascurano. Nelle pagine che seguono aggiorno brevemente il mio esame di queste teorie [Hoffman 1 983 ] , analizzo la mia definizione dell'interiorizzazione morale, e illustro l'importanza dell'intervento e della socializzazione da parte degli adulti. Nel prossimo capitolo presento la mia teoria dell'interiorizzazione morale e dello sviluppo del senso di col­ pa, che assegna un ruolo centrale alla disciplina genitoriale ma comprende anche concetti derivanti dalle teorie dell'interioriz­ zazione morale qui discusse, dalle recenti ricerche sulla memo­ ria e sull'elaborazione delle informazioni, e dalla recentissima letteratura sull'interazione tra affetto e cognizione. 2 . 1 . La teoria psicoanalitica Secondo la tradizionale interpretazione psicoanalitica, il bambino, per risolvere il conflitto tra l'urgenza di esprimere 154

impulsi erotici e ostili e l'angoscia di fronte alla possibilità di perdere l'amore dei genitori se li esprime, rimuove questi impulsi ed evita i comportamenti che incontrano la disappro­ vazione dei genitori. Inoltre, per dominare l'angoscia ed evitare la punizione e per continuare ad avere l'affetto dei genitori, il bambino si identifica con i genitori e fa sue le loro norme e le loro proibizioni; e siccome queste ultime riflettono, in larga misura, le leggi morali della società, il bambino interiorizza anche tali leggi. n bambino fa sua anche la capacità dei genitori di punirlo se viola (o è tentato di violare) una norma morale, rivolgendo a se stesso l'ostilità che originariamente avvertiva verso il genitore. Questa autopunizione viene vissuta nella forma di sentimenti di colpa che il bambino teme per la loro intensità e perché somigliano all'angoscia per la possibilità di essere punito e abbandonato che li ha preceduti. Perciò il bambino cerca di evitare il senso di colpa osservando le norme e le proibizioni interiorizzate ed erigendo meccanismi psicologici (cognitivi) di difesa che impediscono l'affiorare alla coscienza degli impulsi a disobbedire a quelle norme e quelle proibizioni. Questi processi di interiorizzazione morale hanno luogo tra i 5 e i 6 anni di età, e si rafforzano e consolidano durante il resto della fanciullezza, che trascorre relativamente tranquilla. Pertanto l'interiorizzazione morale avviene molto presto, prima che i bambini siano capaci di forme complesse di elaborazione cognitiva delle informazioni. Così le norme morali di una per­ sona diventano parte integrante di un sistema di controllo degli impulsi rigido, essenzialmente inconscio, e sovente inflessibile e tuttavia fragile. Non è facile capire come un sistema di controllo essenzial­ mente inconscio come questo possa essere adattativo e possa dar conto di tutta la complessità del senso di colpa e dell'inte­ riorizzazione morale. Dal punto di vista individuale, come ho già sottolineato a proposito del senso di colpa, questo sistema di controllo - il super-io è un concetto quasi-patologico. Freud lo sapeva e lo sapevano i suoi seguaci, secondo alcuni dei quali [per es., Erikson 1968] questo sistema di controllo interno quasi-patologico sopravvive per tutta la fanciullezza ma si disgrega nell'adolescenza, a causa di cambiamenti ormonali, delle richieste poste dalla società, e delle nuove informazioni sul -

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mondo che contraddicono e creano disillusione nei confronti delle rigide norme interiorizzate. Questa disgregazione minaccia la relazione di dipendenza del bambino dai suoi genitori, che costituisce il fondamento principale del sistema di controllo. A causa di questa minaccia, il bambino deve trovare basi nuove e più mature per la sua posizione morale, o erigere nuove difese cognitive per respingere gli impulsi incontrollabili e mantenere intatto il sistema di controllo primitivo (e la relazione con i genitori). Queste idee appaiono ragionevoli, ma le spiegazioni proposte per dare conto dello sviluppo di una nuova e più ma­ tura posizione morale sono vaghe e poco convincenti [Hoffman 1980]. Che cosa ci dicono al riguardo le ricerche? La teoria freu­ diana afferma che i bambini che si identificano con i genitori e sono angosciati per la possibilità di perdere il loro amore tenderanno maggiormente a sentirsi colpevoli quando danneg­ giano qualcuno, e a mostrare altri segni di interiorizzazione morale. L'ipotesi che l'identificazione con i genitori favorisca la condotta morale è avvalorata dalle correlazioni positive tra questa identificazione e certi comportamenti morali, come aiutare una persona in difficoltà e formulare giudizi morali sugli altri; l'identificazione con i genitori, però, non è correl ata con l'impiego di principi morali per valutare il proprio com­ portamento o con il senso di colpa per aver danneggiato altre persone. Anche l'ipotesi dell'angoscia per la perdita dell ' amore dei genitori riceve un sostegno solo parziale: gli interventi disciplinari dei genitori per modificare il comportamento del bambino negandogli amore lo aiutano a controllare gli impulsi aggressivi, ma non influenzano il suo senso di colpa per avere danneggiato qualcun altro o l'uso di principi morali per valutare il proprio comportamento. In breve, le ricerche danno conferme parziali ma, per i nostri scopi, trascurabili: né l' identificazione con i genitori né l'angoscia per la perdita dell'amore sembrano favorire il senso di colpa o l'interiorizzazione morale. Queste ricerche non sono state opera di studiosi freudiani; da alcuni allievi di Margaret Mahler [ 197 4] provengono però interessanti osservazioni che possono far luce su un precursore iniziale, ovvero una forma embrionale dell'interiorizzazione morale. Parens [1979], ad esempio, ha descritto un bambino di 8 mesi che, sul punto di fare qualcosa che sua madre gli 156

aveva proibito, si girava a guardarla, scuoteva a volte la testa negativamente, e inibiva il comportamento quando era ancora in /ieri. Parens ha interpretato queste chiare e reiterate auto­ proibizioni da parte del bambino come un indizio del fatto che l'interiorizzazione delle proibizioni dei genitori fosse iniziata e che essa «esercitasse una certa influenza, sia pure modesta, sulle azioni del bambino».

2.2. La teoria dell'apprendimento sociale Negli anni Sessanta e Settanta, la teoria dell'apprendimento sociale ha ispirato un'enorme mole di ricerche. I suoi sostenitori generalmente hanno evitato di ricorrere a concetti come quello di interiorizzazione morale, che si riferiscono a stati psicologici interni piuttosto lontani dal comportamento osservabile, ma hanno cercato di spiegare un fenomeno simile: il fatto che il bambino adotti un comportamento morale (definito da norme sociali) o eviti un comportamento indesiderato senza bisogno di un controllo esterno. Al centro dell 'attenzione di questi studiosi non era tanto la teoria più ovvia - premiare la buona condotta fa il bambino buono - quanto il ruolo delle proibizioni e delle punizioni, che potrebbe essere importante, ad esempio, nella forma embrionale di autocontrollo del bambino di 8 mesi osservato da Parens. Secondo una versione più complessa del modello proibizione­ punizione, la reiterata punizione di azioni devianti e indesiderate crea stati di ansia e di dolore associati a quelle azioni - ai loro indici percettivi e cinestetici, e agli indici cognitivi associati alla loro previsione. La persona può evitare questa «ansia da devia­ zione» inibendo l'atto anche quando nessun altro è presente; perciò il suo comportamento sembra frutto dell'interiorizzazione morale anche se in realtà è dovuto alla paura soggettiva della punizione. Quando l'ansia da deviazione, come può accadere, si diffonde e si distacca dalla paura cosciente che qualcuno ci scopra, l 'inibizione degli atti devianti diventa una forma em­ brionale di interiorizzazione: ci comportiamo bene per evitare l'ansia inconscia [Aronfreed 1970; Mowrer 1960]. Si noti come questa concezione somigli all'interpretazione psicoanalitica dell'interiorizzazione morale illustrata sopra. 157

I teorici dell'apprendimento sociale, in particolare Bandura [ 1969], hanno trattato estesamente il contatto del bambino con modelli che agiscono secondo morale o che sono puniti per essersene discostati. L'ipotesi è che il bambino impari ad essere virtuoso osservando modelli che agiscono moralmente e imitandone il comportamento in situazioni simili, anche quando i modelli sono assenti. Quando un bambino osserva un modello che trasgredisce una norma morale ed è punito, si sente punito in forma vicaria o anticipa la punizione che subirà se si comporta male; in entrambi i casi, il bambino cercherà di sfuggire alla sorte del modello evitando la condotta deviante. Per mettere alla prova queste idee sono state condotte molte ricerche, ma, disgraziatamente, esse hanno incontrato vari problemi. Uno è che il criterio dell'interiorizzazione morale era l'obbedienza del bambino a una proibizione arbitraria dello sperimentatore - ad esempio, non giocare con certi giocattoli quando lo sperimentatore usciva dalla stanza. Il «paradigma del giocattolo proibito» non coglie la distinzione tra comporta­ mento interiorizzato moralmente ed esercizio dell'autocontrollo per obbedire a una richiesta arbitraria dell'autorità; il classico studio di Milgram [ 1963] ha chiarito una volta per tutte che l'obbedienza è un criterio morale inaccettabile, perché può condurre a comportamenti fondamentalmente immorali. In ogni caso, i risultati sono stati insoddisfacenti: se un bambino osservava un modello che giocava con giocattoli proibiti e non era punito, era più probabile che giocasse con quei giocattoli quando pensava di non essere visto; inoltre, e più importante, i bambini che avevano visto un modello punito per avere gio­ cato con i giocattoli e quelli che avevano visto un modello che aveva resistito alla tentazione di farlo avevano una probabilità di giocare con i giocattoli quando pensavano di non essere visti uguale a quella dei bambini che non avevano osservato alcun modello1• La conclusione che si ricava da questa ricerca è che il bambino imita i modelli che fanno ciò che egli vorrebbe 1 Questa è la mia interpretazione dei risultati [Hoffman 1970a; 1977]. Ma supponiamo pure che, dopo avere visto un modello punito per avere giocato con i giocattoli, i bambini giochino di meno con quei giocattoli; si può comunque pensare che lo facciano solo perché la punizione del modello ha indicato che anche i soggetti sarebbero puniti se agissero come lui (nel qual caso non vi sarebbe interiorizzazione).

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fare e non sono puniti, forse perché l'assenza di una punizione legittima il comportamento [Hoffman 1 970a ] . Queste ricerche ci dicono poco su ciò che i genitori o altri agenti della socia­ lizzazione possono fare per favorire l'interiorizzazione morale, salvo assicurarsi che i bambini non s ' imbattano in delinquenti o criminali che l' abbiano fatta franca. Un'altra importante teoria dell'interiorizzazione morale in chiave di apprendimento sociale si basa sulla nozione che una persona può agire in un certo modo a fini di autoricompensa [Bandura 1 977 ] . Di conseguenza, se il bambino che agisce moralmente in seguito alla socializzazione sperimenta poi un 'autoricompensa, agirà moralmente anche quando è da solo. Questa definizione dell'interiorizzazione morale è plausibile, ma rende necessario chiarire come si sviluppa il sé che viene ricompensato, e come le azioni morali giungono a ricompensare quel sé con tanta efficacia da rendere superfluo il controllo esterno. Disgraziatamente, non è stata ancora elaborata una teoria soddisfacente dello sviluppo del sé che comprenda anche i meccanismi dell ' autoricompensa.

2 . 3 . La teoria cognitivo-evolutiva I teorici cognitivo-evolutivi, in particolare Piaget [ 1 93 2 ] e soprattutto Kohlberg [ 1 969; 1 984] e i suoi allievi, hanno stu­ diato lo sviluppo della capacità di risolvere i conflitti tra pretese morali contrastanti, e l'uso in questo ambito dei concetti di diritto, dovere e giustizia. Come i teorici dell'apprendimento sociale, così anche questi autori non parlano di interiorizzazione morale, ma per una ragione totalmente diversa: perché essa fa pensare che vi sia qualcosa di esterno al bambino che diventa poi parte della sua struttura morale interna - in altri termi­ ni, che il bambino acquisisca le norme morali passivamente. Secondo gli psicologi cognitivo-evolutivi, invece, il bambino acquisisce attivamente le norme morali costruendole social­ mente; ciò nondimeno, essi utilizzano un concetto implicito di interiorizzazione morale e il risultato finale è un bambino con una morale interiorizzata. Piaget. Secondo Piaget, l'adulto interferisce con l'interio­ rizzazione morale del bambino a causa dell'enorme differenza 159

di potere che esiste tra adulti e bambini. Le norme stabilite dai genitori vengono imposte senza che il bambino ne com­ prenda la giustificazione razionale, e sono rispettate solo a causa dell'autorità dei genitori: «l "genitori medi" sono come i governi poco intelligenti che si limitano ad accumulare delle leggi, nonostante le contraddizioni e la crescente confusione di spirito che risulta da questo accumulo» [Piaget 193 2 ; trad. it. 1972, 156] . Secondo Piaget, la morale eteronoma prodotta dagli adulti può essere superata solo dal «dare e avere» dell'intera­ zione libera, senza supervisione, con i propri pari, insieme con le capacità cognitive che si evolvono naturalmente nei bambini. L'interazione tra pari, senza supervisione, è necessaria perché il bambino sviluppi una morale autonoma (interiorizzata), giacché gli offre il tipo di esperienze sociali e cognitive necessarie a sviluppare norme morali fondate sul mutuo consenso e sulla cooperazione tra uguali. Queste esperienze, il mettersi nei panni di altre persone e il partecipare con loro alle decisioni sulle regole e sul modo di applicarle, hanno ben poco spazio nell'interazione con gli adulti, che hanno il potere di imporre la loro volontà al bambino senza il suo consenso. Kohlberg. Nel modello di Kohlberg, l'individuo progredisce da un livello premorale focalizzato sulle conseguenze (deter­ minate dall'esterno) che le azioni hanno per l'individuo stesso, a un livello morale convenzionale fondato sulle regole e sul benessere del gruppo, fino a un livello morale autonomo, fon­ dato su principi. In questa progressione l'orientamento morale della persona si espande di pari passo con la sua esperienza del mondo e questa espansione è resa possibile dallo sviluppo cognitivo ( cerebrale) . Il processo sottostante, secondo Gibbs [ 1 99 1 ] , è il «decentramento», che si riferisce al passaggio evo­ lutivo da a) un giudizio nel quale l' attenzione del bambino è centrata sulle caratteristiche salienti di una situazione, che di solito sono quelle che corrispondono al suo punto di vista, a b) un giudizio fondato su un 'attenzione più ampia e meglio distribuita, centrata su caratteristiche della situazione che corrispondono al punto di vista di altre persone, fino a c) una coordinazione progressiva di tutti i punti di vista. In questo modo, il bambino passa da una comprensione superficiale (vincolata dall 'esterno) del significato di una norma morale a un' altra comprensione, più profonda e interiore. 160

Secondo Kohlberg, l'elemento catalizzatore di questi pro­ cessi non è tanto l'interazione tra pari, quanto l'esposizione del bambino a informazioni che si trovano in misura ottimale ad un livello morale superiore al suo (ovvero ad un livello più elevato, ma non così tanto da oltrepassare le sue capacità cognitive). Quando è esposto a un livello superiore in misura ottimale, il bambino non cerca semplicemente di imitarlo; piuttosto, dopo avere sperimentato una sorta di disequilibrio cognitivo, si impegna attivamente per risolvere la contraddizione e integrare le nuove informazioni con il suo punto di vista, ed è questa integrazione che fa progredire il bambino . Ciò implica che il bambino abbia una preferenza per il punto di vista più avanzato, forse perché gli appare più comprensivo o comunque superiore al suo. In ogni caso, lo sviluppo procede verso l'alto, non verso il basso; se due bambini in stadi morali differenti si incontrano, quello che si trova in uno stadio morale inferiore progredisce, mentre quello che si trova in uno stadio superiore non regredisce. Questo processo di «costruzione progressiva» dell'orientamento morale, che Turiel [ 1966] ha descritto e inda­ gato per primo e Blasi [ 1983 ] ha approfondito, prosegue finché il bambino non raggiunge il livello più alto che gli è possibile, e si può considerare una forma di interiorizzazione morale. Gli allievi di Kohlberg si sono discostati da questo schema in varie direzioni. La maggioranza degli studiosi ha lasciato ca­ dere la nozione di una sequenza invariante di stadi, ha tracciato una distinzione tra ambiti morali (morale/convenzionale, cura, giustizia ), ha colmato diverse lacune evolutive studiando la morale dei bambini piccoli [per es . , Turiel 1983 ; 1 998; Damon 1977; 1988]2; tuttavia, la teoria di base, per ciò che riguarda l'interiorizzazione, resta simile a quella di Kohlberg: l'interio­ rizzazione morale è un processo mentale attivo che consiste 2 Alcune delle loro idee sono simili a quelle esposte in precedenza da Hoffman e Saltzstein [1967]; si consideri, per esempio, la spiegazione di Sme­ tana [1984] del modo in cui un bambino di due anni apprende la distinzione morale/convenzionale: le madri dei bambini tra 24 e 26 mesi reagiscono a una violazione delle convenzioni sociali facendo riferimento al disordine creato dall'azione del bambino («Guarda che disastro hai fatto»), mentre davanti a una trasgressione morale reagiscono facendo riferimento alle ripercussioni delle azioni del bambino sui diritti e sul benessere altrui, o invitando il bambino a mettersi al posto dell'altro: «Pensa come ti sentiresti se fossi stato picchiato tU>>.

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nell'integrazione di molte e più complete nuove idee morali nel quadro della morale esistente. La ragione della somiglianza con Kohlberg potrebbe essere che questo tipo di processo di costruzione cognitivo è centrale per tutte le teorie cognitive, indipendentemente dal dominio. Alcuni di questi scrittori (in particolare Davidson & Youniss, 1995, e Turiel, 1998) sono tornati a Piaget e hanno fatto eco alle sue opinioni nei riguardi della propria prospettiva sul contributo dell’interazione tra pari allo sviluppo morale. Turiel (1998) riassume questa posizione come segue: la moralità non è imposta ai bambini; non è inquadrata in termini di conflitto tra i bisogni o gli interessi dei bambini e le esigenze della società, e quindi "non è regolata principalmente da emozioni di paura, ansia, vergogna o senso di colpa". Piuttosto, i bambini co-costruiscono e “scoprono” le norme morali, anche quelle degli adulti, nel "dare e avere" delle loro interazioni sociali, cioè nei conflitti, nelle controversie, nelle discussioni e nelle negoziazioni. Il conflitto tra pari stimola i bambini ad avere punti di vista diversi, per produrre idee su come coordinare i bisogni di sé e altri, e di considerare i diritti degli altri in particolare le affermazioni di proprietà e possesso di oggetti. 3 L’attuale teoria morale dello sviluppo cognitivo, quindi, prevede che l'interiorizzazione morale avvenga attraverso una combinazione di Piaget e Kohlberg. Ciò implica assumere attivamente la prospettiva di altre e attivamente integrate nuove idee nel proprio quadro morale esistente, e farlo principalmente nel corso della discussione e della negoziazione con i pari su pretese contrastanti (ad esempio, sui beni). Questa teoria ha un fascino doppiamente intuitivo. In primo luogo, considera i bambini come persone che pensano attivamente attraverso le idee delle persone con cui interagiscono e accettando concetti morali su basi razionali, in linea con l’ideale razionale della società occidentale. In secondo luogo, si adatta bene ai nostri ideali democratici perché evidenzia l'importanza dell'interazione con i propri pari.4 3. Turiel aggiunge la controversa affermazione che questi giudizi morali, pur non innati o parte di una sequenza di stadi invariante, sono "nonlocali", cioè può avere validità universale. 4. La mia argomentazione a favore del contributo positivo dei genitori allo sviluppo morale viene data nel capitolo 6 e per il contributo negativo dei pari non supervisionati, altrove (Hoffman, 1988).

Ma la teoria sembra limitata proprio a causa della sua esagerata concentrazione sui processi razionali e cognitivi. Trascura l'affettività, e mi sembra anche essere vaga riguardo al ruolo del conflitto. Ma, cosa più importante per i miei scopi, la teoria non spiega perché la conoscenza diprospettive altrui acquisite nel contesto di affermazioni contrastanti dovrebbe portare i bambini a prendere sul serio le posizioni degli altri e ad essere disposti a negoziare e compromettere le proprie pretese, piuttosto che utilizzare la conoscenza per manipolare l’altro. Cioè, perché la comprensione della prospettiva altrui dovrebbe servire a fini sociali piuttosto che egoistici? La teoria dello sviluppo cognitivo presuppone che i bambini vengano ad assumere la prospettiva degli altri come parte naturale dello sviluppo cognitivo e dell'interazione sociale. La teoria dà per scontato e ignora un problema centrale della prima interiorizzazione morale: come i bambini guadagnano controllo dei propri desideri egoistici e raggiungono un compromesso accettabile tra loro e le esigenze morali di una situazione. Teoria dell'attribuzione Nel capitolo 4 ho detto che gli esseri umani fanno attribuzioni causali che concretano e trasformano i sentimenti di disagio empatico di una persona. La teoria dell’attribuzione dell’interiorizzazione morale è leggermente diversa. Essa dice che ci si interiorizza quando ci si vede come la fonte della propria azione morale, in contrapposizione al vedere la propria azione come imposta dall'esterno. La prima spiegazione attributiva dell’interiorizzazione morale era che se la pressione esercitata su un bambino fosse stata appena sufficiente per fargli assumere di rispettare una norma morale ma non abbastanza perché il bambino se ne rendesse conto che lui o lei si è conformato sotto pressione, il bambino attribuirà la propria conformità alla propria volontà. Questa teoria è elegantemente semplice, ma ignora la questione del perché i bambini dovrebbero subordinare i desideri e alterare il loro comportamento contro la loro volontà quando non si accorgono di alcuna pressione per farlo. E, come i paradigmi di apprendimento sociale menzionati in precedenza, equipara l’interiorizzazione morale alla conformità.

La teoria attribuzionale proposta da Dienstbier [ 1 978] è più complessa e più vicina ai nostri interessi perché tiene conto dell'affetto. Secondo l' autore, quando un bambino è punito dai genitori si attiverà in lui un'emozione che inizialmente è inde­ terminata e che acquisisce un significato quando il bambino la attribuisce alla punizione ricevuta (se il genitore rende saliente la punizione) o alla propria condotta e alle sue conseguenze dannose (se il genitore dà una spiegazione che rende saliente la condotta del bambino e le sue conseguenze) . In seguito, se il bambino sarà tentato di compiere un atto deviante, avverti­ rà un disagio emozionale, che potrà attribuire alla previsione del castigo o all'atto deviante e ai suoi effetti dannosi. Se il bambino è solo e attribuisce l'emozione alla punizione prevista ( cosa probabile se i genitori hanno reso saliente la punizione) , non h a alcuna ragione per resistere alla tentazione d i compiere l'atto, poiché è improbabile che qualcuno lo scopra e lo pu­ nisca. D'altra parte, se il bambino è solo e attribuisce il suo disagio all'atto deviante e ai suoi effetti ( cosa probabile se è questo ciò che i genitori hanno reso saliente) , potrà resistere alla tentazione. Perciò le spiegazioni che mettono in relazione gli atti devianti del bambino con le loro conseguenze dannose dovrebbero favorire l'interiorizzazione morale. Anche questa teoria è semplice ed elegante, ma, di nuovo, al prezzo di trascurare importanti dettagli . Secondo la teoria, se la punizione è saliente, il bambino attribuisce l'emozione alla punizione stessa; se invece è saliente la spiegazione circa l'atto indesiderato e i suoi effetti, è a questi che è attribuita l'emozione. In altri termini, l'attribuzione del bambino riflette perfettamente l'aspetto della situazione reso saliente dal ge­ nitore, e tutto ciò che fa il bambino è etichettare la risposta emozionale alla punizione del genitore secondo quello che il genitore ha reso saliente. Non si vede però come l 'emozione suscitata nel bambino dalla punizione dei genitori possa restare indeterminata finché il bambino non abbia compiuto un'attri­ buzione appropriata. Un'altra difficoltà sta nel fatto che, una volta di più, l'interiorizzazione è equiparata all'ubbidienza, e il bambino ubbidisce perché è indotto ingannevolmente a credere di avere agito da sé. Questa, come vedremo, può essere una parte dell'interiorizzazione morale, ma solo una parte, e piccola. 1 64

2 .5. Una spiegazione basata sull'elaborazione delle informazioni Alcuni autori spiegano l'interiorizzazione morale sulla base dell'acquisizione o dell'apprendimento da parte del bambino di certe abilità di controllo del comportamento. Kopp [ 1982] propone un processo a tre fasi: una prima fase a controllo esterno, nel quale sono le persone che si prendono cura del bambino che provvedono a ricordargli i comportamenti appro­ priati; una seconda fase di autocontrollo, nella quale il bambino impara a corrispondere alle aspettative della persona che si prende cura di lui anche in assenza di questa; una terza fase di autoregolazione, nella quale il bambino impara a governare il proprio comportamento e a rimandare la gratificazione. Ciò che permette al bambino di raggiungere la fase finale e di agire in modo autonomo e moralmente appropriato, secondo Kopp, è lo sviluppo delle capacità di rappresentazione mentale, rievo­ cazione ed elaborazione di strategie e piani comportamentali. Kopp però non spiega che cosa muova il bambino a compor­ tarsi in modo moralmente appropriato: che cosa lo motivi a rinunciare a ciò che desiderava fare. La rappresentazione, la rievocazione e le relative strategie permettono al bambino di acquisire molte abilità e competenze sociali, tra cui la capacità di escogitare modi per «farla franca». Si tratta però di pre­ condizioni dell'elaborazione delle informazioni che possono essere necessarie per l'interiorizzazione dell'azione morale ma non sono sufficienti, perché non muovono all'azione morale più che all'azione interessata ed egoistica. Anche se nessuna di queste teorie è in grado di dare conto dell'interiorizzazione morale in tutta la sua comples­ sità, esse contengono concetti utili a spiegare questo o quel suo aspetto. Ho incluso alcuni di questi concetti nella mia teoria dell'interiorizzazione morale, che esporrÒ nel prossimo capitolo, non prima però di concludere questo con una defi­ nizione dell' interiorizzazione morale e una breve illustrazione dell'importanza della socializzazione. 3.

Interiorizzazione morale e motivazione

La struttura morale prosociale d i una persona può essere definita come una rete di affetti empatici, rappresen tazioni 165

cogmuve e motivazioni. Essa comprende: principi (si deve aiutare chi soffre; le persone devono essere ricompensate per i loro sforzi ) ; norme comportamentali (dire la verità, mante­ nere le promesse, aiutare gli altri; non mentire, non rubare, non tradire la fiducia che ci è stata accordata; non offendere, non danneggiare, non ingannare gli altri ) ; regole (fare male a qualcuno intenzionalmente e senza alcuna provocazione è peggio che farlo accidentalmente o dopo una provocazione) ; una coscienza («sense») del bene e del male e del trasgredire; le immagini delle nostre azioni che hanno danneggiato o aiu­ tato altre persone; l' autobiasimo e il senso di colpa associati a quelle azioni. Questi elementi sono tenuti assieme più o meno strettamen­ te dai principi morali, dalla coscienza del bene e del male che essi condividono, dagli affetti che li accomunano: la sofferenza empatica, la sofferenza simpatetica, la rabbia empatica e il sentimento di ingiustizia, il senso di colpa fondato sull'em­ patia. Questi affetti compenetrano gli elementi e la totalità della struttura; e gli elementi possono essere aggiunti, omessi, ricategorizzati, e suddivisi secondo l'esperienza (le bugie sono suddivise in «bugie pietose>>, buone, e bugie manipolatrici, cattive). La struttura morale di una persona è interiorizzata quando la persona accetta e si sente obbligata a rispettare i suoi principi organizzativi e a tener conto del prossimo indipendentemente da ricompense o punizioni esterne. Le sanzioni, che erano state alla base della motivazione a tener conto degli altri, hanno perduto forza , e l'individuo sente che quella motivazione scaturisce per forza propria dal suo interno, e ne dimentica del tutto o quasi l' origine. Anche gli agenti socializzatori che avevano inflitto originariamente la sanzione (di solito i genitori) possono essere dimenticati, ma, dimenticati o no, non sono più una variabile significativa della motivazione prosociale della persona. Questa motivazione morale prosociale interiorizzata, quan­ do è attivata negli incontri morali, non è garanzia di condotta morale, per l'azione contraria delle motivazioni egoistiche; essa però ha una qualità interna vincolante e obbligatoria, il che implica, se non altro, un conflitto morale: una persona che desidera accettare l'invito a una festa, m a si sente obbligata 166

a mantenere la promessa di far visita a un amico malato, può prevedere che se va alla festa si sentirà colpevole. Perciò gli atti morali non sono solo l'espressione comportamentale di motivazioni morali, ma anche il tentativo di raggiungere un equilibrio accettabile tra le motivazioni egoistiche e quelle morali. L'interrogativo fondamentale per la psicologia dello svilup­ po è: quali sono le esperienze cruciali per sviluppare questa complessa rete interiorizzata di cognizioni, sentimenti e moti­ vazioni morali? La mia risposta è la socializzazione, soprattutto attraverso gli interventi degli adulti. Ma prima di entrare nei dettagli vorrei argomentare brevemente a favore dell'importanza della socializzazione.

4. L:importanza della socializzazione I processi di attivazione empatica descritti nel capitolo secondo possono fungere benissimo da motivazioni morali prosociali in quasi tutti i bambini quando si trovano a fare da spettatori. Non funzionano altrettanto bene, tuttavia, quando i bambini danneggiano qualcuno o sono in procinto di farlo, poiché le emozioni suscitate in queste situazioni (desiderio di possesso, rabbia, paura) possono impedire loro di vedere il male fatto e possono vincere le loro tendenze empatiche. La differen za tra spettatore e trasgressore è illustrata da alcune osservazioni di Zahn- Waxler e Robinson [ 1 995 ]: nel secondo anno, i bambini che vedono una persona che sta soffrendo mostrano un marcato incremento della sofferenza empatica e simpatetica e molte volte, quando sono la causa di quella sofferenza, cercano di riparare il danno; ma provano anche meno preoccupazione, più aggressività e più piacere di fronte alla sofferenza della vittima quando ne sono stati causa che non quando si limitano ad assistervi. Ciò è logico se pensiamo che di solito l ' azione dannosa del bambino è subordinata a uno scopo strumentale, ad esempio avere un oggetto che desidera, e si può prevedere che se ci riesce si sentirà soddisfatto. In ogni modo, è più probabile che l'intervento di un adulto sia necessario quando il bambino provoca la sofferenza di un'altra persona che non quando assiste alla sua sofferenza.

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Negli incidenti, l'intervento non è necessario quando il bambino è consapevole del danno fatto, avverte sofferenza empatica e senso di colpa, e cerca di riparare il danno di sua iniziativa. Nel capitolo terzo abbiamo visto l'esempio di un bam­ bino che, avendo fatto male a un amico mentre gli contendeva un giocattolo, lo consolò portandogli il suo orsacchiotto dalla stanza accanto. Blum [ 1 987] descrive un altro esempio in cui non sembra esservi necessità di intervento: due bambini, di 22 e 24 mesi e amici intimi, stavano giocando; uno, accidentalmente, fece male all'altro, si mostrò preoccupato, chiese scusa e offrì un giocattolo alla vittima. D'altro lato, l'intervento è necessario quando il bambino non è consapevole del danno provocato (un bambino corre dietro a un compagno di giochi, ne fa cadere accidentalmente un altro, e continua la sua corsa; un altro, giocando con un pennarello, macchia il sofà nuovo e provoca involontariamente il disappunto della madre) , o quando ignora la sofferenza della vittima o se ne infischia (un bambino dà un calcio in faccia alla madre mentre lei gli sta cambiando il pannolino; un altro sbatte un cucchiaio in una padella e imbratta d 'olio la madre; Zahn­ Waxler et al. [ 1 992 ] ) . Qualunque cosa esprimano, esuberanza o il piacere insito nell'agire, è possibile che questi bambini non si rendano conto delle conseguenze dolorose di ciò che fanno a meno che qualcuno non gliele faccia notare. Quando gli adulti danneggiano volontariamente altre persone, lo fanno di solito per autodifesa, perché frainten do­ no le intenzioni altrui, per rappresaglia o per ideologia (nel caso del terrorismo). I bambini hanno ragioni simili (salvo l'ideologia) ma fanno anche brutti scherzi come tirare sassi contro le finestre delle scuole - atti intenzionali che possono far male a qualcuno anche se non era quella l'intenzione. I bambini fanno male agli altri anche per ragioni che hanno a che fare più con i loro bisogni personali che con la delibe­ rata intenzione di arrecare dolore. Una bambina di 5 anni si stizzì perché era stata rimproverata; la sorellina si avvicinò e fece per darle un giocattolo, ma quella disse: «Vattene, non ti voglio», e la sorellina corse via nel soggiorno, sprofondò la testa nel divano e scoppiò in lacrime. Kastenbaum, Farber e Sroufe [ 1 989] h anno osservato «un bambino di 5 anni, con pochi amici, che giocava con una 1 68

maschera africana e ringhiava verso i bambini più vicini. Una bambina, impaurita, si ritrasse. Il bambino mascherato la prese di mira e la tormentò fino a farla scappare via in lacrime». Gli autori osservano che lo stesso livello di comprensione della situazione - sapere che la bamb i n a aveva paura di lui - avrebbe potuto indurre il bambino a togliersi la maschera e tranquillizzarla, come altri bambini della sua età erano stati visti fare. Una spiegazione possibile di questo comportamen­ to, sadismo a parte, è che il bambino fosse così assorbito dal piacere insito nell'agire da non avvertire l'ansia altrui. Il punto è che in situazioni del genere l'intervento di un adulto che sottolinei le conseguenze della condotta del bambino per gli altri può essere costruttivo e forse necessario. I conflitti tra pari sono un problema a parte, a causa della loro frequenza e della loro intensità emozionale. Shantz [ 1987] ha analizzato gli studi sul tema e ha scoperto che nell 'età prescolare la maggior parte dei conflitti riguarda il possesso e l'uso di oggetti, sebbene a volte lo scopo cambi dal possesso di un oggetto all'ag­ gressione e alla rappresaglia (per esempio, un bambino scaccia un altro bambino da un'altalena, ci sale, il primo bambino lo colpisce e lui restituisce il colpo; un altro lascia un giocattolo incustodito, quando torna trova un altro bambino che ci sta giocando, afferra il giocattolo, e i due cominciano a litigare). Le aggressioni fisiche senza provocazione e i casi di in­ terferenza con l' attività in corso di un compagno sono poco meno frequenti dei conflitti per il possesso (un bambino non smetteva di minacciarne un altro dicendogli che gli avrebbe tirato della plastilina [Shantz 1987 ] ) . Secondo Shantz, i con­ flitti sono spesso brevi ma mai banali, giacché tutto lascia pensare che i partecipanti prendano sul serio i loro scopi . . . e se s i pensa agli effetti dolorosi di certi conflitti, come essere esclusi da un gruppo, o rinunciare alla piac"evole sensazione di vincere una gara, o non poter condividere la soddisfazione per aver fatto la pace . . . questo tipo di eventi sembrano molto significativi per i bambini coin­ volti [ibidem, 287].

I conflitti possono essere risolti dai bambini stessi senza l'intervento di un adulto. Il bambino che era andato a prendere l'orsacchiotto voleva tanto risolvere un conflitto per il possesso quanto rispondere a un incidente. Secondo Shantz, i bambini 169

risolvono spesso i conflitti in via amichevole dando ragione delle proprie azioni; i bambini si aspettano ragioni, alle quali sono pronti a rispondere (consapevoli come sono che non si dovrebbe contraddire o contrastare un'altra persona senza una buona ragione) . Ma certi conflitti, come i casi di aggressione per il possesso menzionati sopra, richiedono l'intervento di un adulto5• Ecco un conflitto complesso che richiede un intervento: il bambino A dice che tocca a lui giocare e strappa di mano a B un giocattolo; B, a sua volta, lo strappa di mano ad A. L a lite continua finché A non spinge via B , afferra il giocattolo e scappa. B scoppia a piangere. A non si cura del pianto di B e gioca con il giocattolo. L'intervento è necessario perché non è evidente di chi sia la colpa; i due bambini si accusano l'un l'altro. Inoltre, forti emozioni egoistiche e di rabbia impediscono ai bambini di considerare sia il proprio comportamento sia la sofferenza dell'altro (decentramento), com'è necessario perché ciascun bambino comprenda il punto di vista dell'altro, e si renda conto che non è diverso dal proprio («Si aspetta una spiegazione, non un rifiuto puro e semplice, così come me l'aspetto io»). Ed è necessario anche se si vuole che ciascun bambino provi empatia per l'altro e preveda che l'altro sarà contrariato se non ottiene quello che desidera, e se si vuole che ciascuno accetti la sua parte di colpa e sia disposto a fare ammenda o a venire a un compromesso. Il biasimo è qualcosa cui i bambini (e gli adulti) cercano di sfuggire, poiché è doloroso, produce autodeprecazione e spesso è associato a spiacevoli ricordi di punizioni. Per queste ragioni, nelle situazioni di conflitto perché si mettano in moto i proces­ si che suscitano l'empatia e specialmente il senso di colpa, è necessario intervenire. Non vi sono ricerche che chiariscano se nelle situazioni di conflitto sia effettivamente possibile suscitare l'empatia e il senso di colpa; tuttavia, uno studio di Camras [ 1 977] indica che ciò può avvenire nel caso dell'empatia: un bambino gioca con un criceto, un altro cerca di portarglielo via; il piglio aggressivo del primo bambino può dissuadere il rivale dal tentativo di impossessarsi del criceto; però anche una ' Gli esperti dell'infanzia sanno che i bambini aiutano in caso di incidente, ma in caso di litigio sono soprattutto gli spettatori a farlo.

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faccia triste, che suggerisce tristezza empatica, può svolgere un ruolo importante nei conflitti per il possesso. Ma in quale momento dello sviluppo gli interventi degli adulti cominciano a essere efficaci - non già per conseguire obbedienza immediata, ma per contribuire al senso di colpa e all'interiorizzazione morale ? Perché l'intervento produca nel bambino un sentimento interno di avere sbagliato e di essere colpevole ( piuttosto che un sentimento di paura) sembra ne­ cessario che il bambino abbia acquisito un senso di sé come essere con limiti ben definiti e caratteristiche personali che è possibile valutare. Ciò gli permette di riconoscersi, simultanea­ mente, come obiettivo degli sforzi disciplinari dei genitori e causa della sofferenza altrui, e, pertanto, di sperimentare una forma embrionale di senso di colpa. Come ho già osservato nel capitolo terzo, è nella seconda metà del secondo anno che il bambino comincia ad acquisire un senso riflessivo di sé. Vi è qualche prova che ciò preceda l'apparizione di una risposta emozionale (senso di colpa?) alla trasgressione [Stipek, Gralinski e Kapp 1 990] . Perciò sembrerebbe che i genitori agiscano a tempo debito, giacché solitamente, come vedremo, comincia­ no a sottoporre seriamente a disciplina i figli verso la fine del secondo anno. La disciplina genitoriale è al centro della teoria dello svilup­ po dell'interiorizzazione morale e del senso di colpa alla quale ho cominciato a lavorare anni or sono [Hoffman e Saltzstein 1 967; Hoffman 1 970a; 1 983 ] . La versione attuale della teo­ ria, esposta nel prossimo capitolo, è una spiegazione fondata sull'elaborazione delle informazioni, focalizzata e sistematica, che mette in evidenza le cognizioni e affetti che si producono negli incontri di tipo disciplinare, e suggerisce come essi sia­ no integrati e conservati nella memoria del bambino e come contribuiscano alla motivazione e all'azione morale. -

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CAPITOLO SESTO

DALLA DISCIPLINA ALL'INTERIORIZZAZIONE

Ricapitoliamo. Si ha una situazione di trasgressione quando una persona danneggia qualcuno o è sul punto di farlo. Una trasgressione può essere provocata, deliberata, accidentale, la conseguenza secondaria di un conflitto o la violazione delle aspettative di un'altra persona. Il problema morale è se il tra­ sgressore è motivato ad evitare di danneggiare l'altro o, per lo meno, si sente colpevole per averlo fatto e agisce poi in modo prosociale, e se è così che si comporta anche in assenza di osser­ vatori. Da tempo sostengo che il fondamento del senso di colpa e della interiorizzazione morale prosociale, elementi necessari per contrastare i bisogni egoistici in conflitto e altre situazioni di trasgressione, risiede negli incontri di tipo disciplinare, special­ mente quelli effettuati quando il bambino ha danneggiato una persona. Questi incontri sono scenari (settings) nei quali i genitori cercano di modificare il comportamento di un bambino contro la sua volontà. Essi hanno inizio quando il comportamento del bambino si discosta dai desideri del genitore e hanno termine quando il bambino ubbidisce, il genitore rinuncia o si interpone un evento esterno («Hanno suonato alla porta?»). In uno studio di bambini in età prescolare [Hoffman 1 963 ] , gli incontri disci­ plinari comportavano in media due o tre tentativi (ma uno ben diciassette!) e, come nello studio di Schaffer e Crook [1980] , i bambini ubbidivano nell'SO per cento dei casi e più. Ma perché considerare separatamente la disciplina quando i genitori fanno tante altre cose - accudiscono i figli, esprimono affetto nei loro confronti, passano ore giocandoci, spiegano e interpretano a loro beneficio il mondo circostante, e, soprattutto, sono il loro modello di condotta morale accettabile? Anzitutto, gli incontri di tipo disciplinare sono importanti perché sono fre­ quenti. Benché rari nel primo anno [Moss 1967 ] , essi cominciano ad aver luogo regolarmente al principio del secondo - uno ogni 173

1 1 minuti quando il bambino ha un'età compresa tra 12 e 15 mesi -, e per lo più riguardano la sicurezza e l'esigenza che il bambino stia alla larga da oggetti facili a rompersi. Gli incontri riguardanti il caso in cui un bambino ne danneggia un altro diventano frequenti verso la fine del secondo anno [Parens 1979; Tulkin e Kagan 1972] , anche se, sfortunatamente, non vi sono dati che dicano quanto. In ogni caso, verso la fine del secondo anno, non meno dei due terzi di tutte le interazioni tra genitori e figli consistono in incontri disciplinari volti a modificare il comportamento dei bambini contro la loro volontà [Minton, Kagan e Levine 1 97 1 ] ; e, quasi sempre, i bambini obbediscono docilmente o sono costretti a farlo. Lo stesso è vero dei bambini in età prescolare e fino ai 1 0 anni [Lytton 1 979; Schoggen 1 963 ; Simmons e Schoggen 1 963 ; Wright 1 967 ] . Più in particolare, i bambini tra 2 e 1 0 anni d'età sono soggetti alle sollecitazioni dei genitori a cambiare comportamento in media ogni 6-9 minuti - il che equivale a 50 incontri disciplinari al giorno, ovvero oltre 15 .000 all'anno! Non tutti gli incontri riguardano un danno arrecato ad altri, ma se ciò fosse vero anche solo nella quarta parte dei casi (una stima prudenziale) sarebbe comunque un numero molto grande, soprattutto se si considera che in genere i bambini finiscono con l'ubbidire. Spesso i bambini di età tra 2 e IO anni cercano di negoziare le richieste dei genitori, e a volte i genitori acconsentono a farlo [Kuczynski et al. 1987 ; Schaffer e Crook 1 980] ; il genitore però ha l'ultima parola e decide fino a che punto si può negoziare, come indica l'elevata frequenza del comportamento di ubbidienza. La frequenza non è l'unica ragione della grande importanza della disciplina; un' altra ragione può essere dedotta dal modo in cui si comporta una persona matura, che ha interiorizzato un insieme di norme morali prosociali - il risultato finale del processo -, quando le esigenze morali di una situazione sono in conflitto con i suoi desideri egoistici, cioè in un incontro morale. A interiorizzazione avvenuta, la persona avverte da sé preoccupazione empatica per il prossimo, anche quando i desideri altrui sono in conflitto con i suoi, prevede i danni che le sue azioni possono arrecare ad altre persone, e mette a confronto queste conseguenze dannose con l'importanza che attribuisce alla soddisfazione dei suoi desideri. Dopo di che può 174

astenersi o meno dall' azione dannosa, ma se lascia prevalere l'egoismo e compie quell'azione, si sentirà colpevole del danno fatto. Il punto essenziale è che in ogni caso sperimenterà un conflitto interno. È improbabile che in queste situazioni un bambino piccolo awerta un conflitto interno. Arsenio e Lover [ 1 995] hanno tro­ vato che i bambini di età inferiore a 8 anni cui erano raccontate storie di bambini che rubavano o non rispettavano il proprio turno, pensavano che i bambini delle storie sarebbero stati soddisfatti dei vantaggi conseguiti e incuranti della sofferenza, chiaramente espressa, delle vittime («vessatori soddisfatti»). Questi risultati non dicono che cosa farebbero i bambini in situazioni del genere, ma, posto che essi abbiano una relazione con il comportamento dei bambini stessi, suggeriscono che la socializzazione sia una condizione necessaria dell'interiorizza­ zione morale. Il punto è quali scenari e quali tipi di intervento possono influenzare la capacità del bambino di awertire un conflitto morale interno. Un'owia risposta è che si tratti di quegli scenari di socia­ lizzazione che costringono i bambini ad affrontare lo stesso conflitto, cioè il conflitto fra gli interessi altrui e quelli propri, e di quegli interventi che aiutano i bambini a risolvere il conflitto come lo risolverebbe un adulto ad interiorizzazione avvenuta. Gli scenari che permettono di raggiungere questo scopo - gli incontri disciplinari nei quali un bambino danneggia o è in procinto di danneggiare qualcuno i cui interessi siano in con­ flitto con i suoi - ricorrono spesso nell'ambito domestico, come abbiamo visto. Ma perché gli incontri disciplinari, oltreché per la loro frequenza, dovrebbero essere più importanti di altre cose che i genitori fanno? Ecco la mia risposta: che il danno fatto dal bambino sia accidentale o deliberato, che la vittima sia un genitore o un altro bambino, è solo negli incontri disciplinari che è probabile che i genitori stabiliscano il nesso, necessario per il senso di colpa e per l'interiorizzazione morale, tra le motivazioni egoistiche del bambino, il suo comportamento, e le conseguenze dannose del suo comportamento per gli altri, ed esercitino una pressione sul bambino perché controlli il suo comportamento tenendo conto degli altri. Il comportamento dei genitori all'infuori di questi incontri può aiutare il bambino offrendogli un modello di condotta 175

prosociale che rafforzi la sua inclinazione empatica e ne legit­ timi il comportamento di aiuto nella condizione di spettatore; per esempio, i genitori possono esprimere compassione verso i senzatetto e aiutarli, mettere in relazione i sentimenti o le vicissitudini di un personaggio televisivo con l'esperienza del bambino [Eisenberg et al. 1992 ] , spiegare la propria tristezza [Denham e Grout 1992 ] , e sottolineare le somiglianze tra tutti gli esseri umani. Nell'analizzare la teoria dell 'apprendimento sociale ( cap. V), ho osservato che i modelli prosociali contribui· scano a motivare il bambino a fare ciò che è già predisposto a fare, probabilmente perché se si fornisce un modello di un comportamento lo si legittima . Questo può essere ciò che accade quando i genitori agiscono come modelli prosociali e il bambino è spettatore: data la sua predisposizione empatica, il bambino può riprodurre con naturalezza, in condizioni si­ mili, il comportamento prosociale dei genitori. Tuttavia, come abbiamo visto, non sembra che i modelli prosociali, da soli, riescano a motivare i bambini ad agire contro il proprio inte­ resse personale, com'è necessario nelle situazioni di conflitto e in altre situazioni di trasgressione. I modelli di comportamento prosociale, insomma, possono avere un effetto indiretto: rinforzare la disposizione empatica del bambino - specialmente la componente simpatetica della sofferenza empatica ( cap. III) - e accrescere la ricettività del bambino alle induzioni genitoriali, che suscitano, come ve­ dremo, sofferenza empatica e senso di colpa. E, insieme con l' induzione, i modelli di comportamento prosociale possono rendere il bambino più ricettivo alle richieste di un compagno con cui è in conflitto ( cap. X). Resta da chiarire quale strumento di disciplina possa far leva sull'inclinazione empatica del bambino e faccia in modo che provi sofferenza empatica e si senta colpevole, si renda conto del danno che le sue azioni possono arrecare ad altri e lo metta a confronto con i suoi desideri - come accade ad interiorizzazione morale avvenuta. Lo strumento di disciplina in questione è l'induzione, nella quale i genitori mettono in evidenza il punto di vista dell'altro, sottolineano la sua soffe­ renza, e chiariscono che la causa di questa sofferenza è stata la condotta del bambino. La maggior parte di questo capitolo espone la mia teoria del funzionamento dell'induzione e le 176

prove a suo sostegno; in via preliminare, riassumo brevemente il mio ragionamento e introduco il tema della disciplina. Esposizione sommaria della teoria. L'esperienza da parte del bambino di incontri disciplinari che implicano un danno per gli altri e nei quali i genitori ricorrono all 'induzione influenza il suo comportamento negli incontri morali nei quali, senza alcun intervento esterno, egli sperimenta un conflitto interno tra i suoi desideri e i bisogni altrui. In altre parole, il suo comportamento in questi incontri disciplinari, diversamente da quello in altri scenari di socializzazione, somiglia al com­ portamento adottato in seguito negli incontri morali: mettere un freno ai propri desideri per non danneggiare il prossimo o non sentirsi poi colpevole. La differenza è che negli incontri disciplinari l'intervento è necessario, mentre non lo è in quelli morali. Perché un'induzione sortisca il suo effetto, il suo messaggio deve raggiungere il bambino anche quando è tutto preso dai suoi obiettivi e malgrado il carico emozionale della situazione. Ciò richiede una certa pressione esterna; essa deve essere suffi­ ciente a far sì che il bambino smetta di fare ciò che sta facendo, concentri l'attenzione sull'induzione e la elabori, ma non così forte da suscitare rabbia o paura in eccesso, che potrebbero interferire con l'elaborazione. L'elaborazione e la comprensione del contenuto di un'in­ duzione possono produrre nel bambino una risposta empatica alla sofferenza della vittima, la consapevolezza che causa di tale sofferenza è la sua condotta, e un senso di colpa per trasgres­ sione su base empatica. Col tempo, il bambino sviluppa uno schema o uno script dell'incontro disciplinare, ed è in questa integrazione successiva di scripts e messaggi induttivi che egli costruisce una norma interiorizzata di considerazione per gli altri - una norma caricata affettivamente con la sofferenza em­ patica e il senso di colpa che le induzioni suscitano. Più tardi, negli incontri morali nei quali il bambino nuoce a qualcuno o è sul punto di farlo, questa norma viene attivata internamente (per effetto della sofferenza empatica o del senso di colpa an­ ticipatorio) e diventa la componente motivazionale prosociale del conflitto morale interno dell 'individuo. Le induzioni , non più necessarie, hanno in un certo senso «posto le premesse della propria distruzione» (o, almeno, della 177

propria irrilevanza) . È come se gli incontri disciplinari che implicano induzioni fossero una prova generale degli incontri morali . I processi che mediano il passaggio dagli incontri disciplinari agli incontri morali - d all 'obbedienza all'interio­ rizzazione - sono al centro della mia teoria, e vi ritorneremo dopo un breve excursus sul tema della disciplina.

l.

La disciplina: un'introduzione

La disciplina può essere utilmente definita nei termtm della struttura di potere della relazione genitore-figlio. I ge­ nitori hanno un potere enorme su ogni aspetto della vita dei figli. Controllano la soddisfazione dei loro bisogni materiali e poiché, almeno nei primi anni, sono più forti, possono punire fisicamente i figli. Possono costringerli a fare qualunque cosa o quasi, e il modo in cui i figli vengono trattati, salvo che nei casi di trascuratezza o di crudeltà estreme, è soggetto a poche restrizioni legali (o a nessuna). Secondo alcuni autori, i genitori non hanno poi tutto questo potere [Kuczynski, Marshall e Schell 1 997 ] : diversamente che nelle relazioni di potere tra adulti e bambini non imparentati, «genitori e figli interagiscono in una strettissima relazione di interdipendenza nella quale ognuno può danneggiare ed essere danneggiato dall'altro» [ibidem, 2 7 ] . Sono d'accordo fino a un certo punto: anche se la condotta dei genitori è soggetta a vincoli psicologici e culturali - essi amano i figli e desiderano il loro successo e la loro felicità -, i genitori possono ignorare quei vincoli ogni volta che lo ritengano necessario, come spesso accade. Inoltre, la struttura di potere è squilibrata a favore dei genitori, come dimostrano le osservazioni di Schoggen [ 1 963 ] sulla relazione madre-figlio citate nel mio primo articolo sul potere dei genitori [Hoffman 1 975 a] . Schoggen ha constatato che i genitori tentavano di modificare il comportamento dei figli contro la loro volontà (come era indicato dalla resistenza dei figli e dai loro sentimenti negativi in risposta ai primi tentativi del genitore) quattro o cinque volte più spesso di quanto non facessero i figli nei confronti dei genitori; inoltre, i figli cede­ vano alla pressione dei genitori più dei due terzi delle volte. Si tratta di osservazioni significative, perché non erano guidate 178

da ipotesi a priori e perché concordano in misura considere­ vole con le osservazioni sull'obbedienza del bambino riportate all'inizio di questo capitolo. Come sottolineano Minton, Kagan e Levine [ 1 97 1 ] , «l'evento che suscita la reprimenda della madre è spesso una trasgressione lieve. . . e il modo di reagire della madre è dire al bambino " Smettil a ! " , per poi, a volte, spiegare perché la proibizione è necessaria. Normalmente il bambino obbedisce; in caso contrario, la madre non ignora l'accaduto, ma passa a vie più energiche, di solito coronate da successo»

[ibidem, 1 886] . Appare perciò evidente che i genitori di solito sanno come trattare i figli: sono loro che fanno richieste e che fissano, per così dire, l'ordine del giorno. La resistenza del bambino e i suoi tentativi di negoziazione possono ritardare la conclusione, ma anche questo dipende dalla disponibilità dei genitori a dar retta al bambino quando chiede più tempo o sollecita qualche altra concessione. Tuttavia, lo studio di Schoggen, risalente agli anni Sessanta, era circoscritto a Kansas, Michigan e Massachu­ setts, e limitato a bambini fino a 10 anni di età. Può sembrare ragionevole supporre che la differenza di potere diminuisca quando il bambino cresce, diventa più intelligente e si apre a influenze extrafamiliari, senza contare che i tempi sono cambiati e oggi i genitori hanno (o se non altro usano) meno potere. Ma non vi è nulla che lo provi e, stando alle notizie di crona­ ca, i genitori esercitano ancora molto potere: è cosa comune che i genitori maltrattino fisicamente i figli, benché in misura variabile secondo il genere, il reddito, il grado di istruzione e l'appartenenza etnica 1 • 1 U n articolo del «New York Times>> (29 febbraio 1996) descrive il caso di genitori immigrati dai Caraibi che raccomandavano l ' affermazione di potere (compresa la forza) e criticavano aspramente la permissività dei genitori statunitensi. Molti dei genitori dei miei studenti alla New York University sono immigrati di fresca data che provengono da culture tradi­ zionali e che, con poche eccezioni, affermano con forza il loro potere, di solito con successo, anche quando non sanno parlare inglese e di conse­ guenza dipendono strettamente dai figli. Perciò, almeno in alcune nostre sotto-culture, il fatto che i figli crescano non implica necessariamente che l'affermazione di potere da parte dei genitori diminuisca. Possono esservi meno incontri disciplinari al giorno rispetto a quando i figli erano piccoli, ma la proporzione degli incontri che riaffermano l'autorità del genitori può essere non meno elevata.

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Tutto ciò per dire che i genitori possono scegliere metodi disciplinari che affermano il loro potere in misura più o meno grande (anche per nulla). Parecchio tempo fa ho introdotto l'espressione affermazione di potere (power-assertion) per in­ dicare i metodi disciplinari con i quali i genitori affermano il loro potere [Hoffman 1 960] . I genitori controllano anche il rifornimento emotivo dei figli e possono usare la minaccia del ritiro dell'amore per controllarne la condotta, il che accresce il loro potere. Di conseguenza, una volta che il bambino sia diventato consapevole della struttura di potere, tutti gli atti disciplinari dei genitori tendono ad avere uno «sfondo» di affermazione del potere e di ritiro dell'amore che esercita una certa pressione sul bambino affinché obbedisca; inoltre, gli atti disciplinari dei genitori possono avere aspetti espliciti di affermazione e di ritiro dell'amore che rafforzano quella pressione. Gli atti disciplinari possono includere anche una componente di ragionamento o di induzione, attraverso la quale il genitore spiega al bambino il cambiamento richiesto sottolineando le conseguenze che le sue azioni possono avere per lui stesso o per altri. La disciplina da parte dei genitori è perciò multidimensionale. L'affermazione del potere, il ritiro dell'amore e l'induzione sono «tipi ideali» che di rado si presentano isolatamente, ma in gradi e in com­ binazioni differenti; ciò nondimeno, siccome contribuiscono in forma diversa al senso di colpa e all'interiorizzazione morale, sarà bene analizzarli separatamente. 1 . 1 . Affermazione di potere Come abbiamo osservato sopra, la componente di afferma­ zione di potere della disciplina genitoriale può restare «silenNeanche nell'Occidente più emancipato è così insolito sculacciare i bam· bini: paesi europei quali l'Austria, la Danimarca, la Finlandia, la Norvegia e la Svezia hanno trovato necessario proibire le punizioni corporali; in Gran Bretagna, le «sberle» rifilare ai bambini sono da lungo tempo un tema di discussione tanto pubblico quanto domestico; e negli Stati Uniti, anche se il ricorso alle punizioni fisiche è diminuito negli ultimi trent'anni, un sondaggio Harris condotto nel 1 995 ha rivelato che l'BO per cento dei 1 .250 genitori in tervistati avevano sculacciato almeno una volta i figli [Collins 1995].

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te», dietro le quinte, o , al contrario, può essere esplicita. In quest'ultimo caso, l'affermazione di potere comprende richieste, le minacce di usare la forza fisica o di privare il bambino di beni o di privilegi, e il ricorso effettivo alla forza o alla priva­ zione. Vi sono due tipi di forza fisica, che possono avere effetti alquanto diversi: la forza punitiva (sculacciare, schiaffeggiare) e quella coercitiva (tenere fermo, sollevare, spostare il bambino) . I metodi di affermazione del potere più arbitrari e coercitivi implicano il ricorso alla forza o alla minaccia per modificare il comportamento del bambino, senza restrizioni né spiegazioni. Dal punto di vista del bambino, queste forme di affermazione incondizionata del potere conculcano il suo bisogno di por­ tare a termine ciò che ha iniziato, la sua libertà di azione e, a partire da una certa età, l'aspettativa che ogni richiesta abbia una giustificazione. Esse inoltre suscitano rabbia, desiderio di riconquistare la libertà - la «reattanza» di Brehm [ 1 972] - e paura. Il loro uso frequente crea bambini che obbediscono per paura ma esprimono la loro rabbia e le loro tendenze antagonistiche verso figure meno potenti, come i compagni o le maestre dell'asilo nido; inoltre, offrono ai bambini un modello di come comportarsi quando si vuole modificare il comportamento altrui tutto basato sull'affermazione di potere [Bandura e Walters 1 959; Hoffman 1960] . L'affermazione di potere è meno coercitiva e arbitraria quando è accompagnata da ragioni o «edulcorazioni». Una ragione giustifica le richieste nei termini di qualcosa che non dipende dal genitore. Ecco alcuni esempi tratti dal mio studio sulle madri di bambini in età prescolare (nella maggior parte dei casi ometto la componente di affermazione del potere). Alcune ragioni si richiamano alle condizioni fisiche, tempo­ rali o spaziali della situazione («Se corri troppo forte ti cadrà di mano e lo romperai»; «Non si va a letto con le scarpe, le lenzuola si insudiciano»; «Non giocare con il cibo, poi vuole farlo anche la tua sorellina e non mangia più»); altre ragioni fanno appello al bene del bambino («Non camminare dove c'è fango , poi scivoli e cadi»; «Se tu non sei gentile con lei, lei non sarà gentile con te»). Ultime, ma non meno importanti, sono le ragioni che si riferiscono al bene del genitore o di un'altra persona («Non devi mai colpire qualcuno in faccia! Puoi fargli molto male ! »; «Resterai in camera tua e non uscirai finché non 18 1

avrai imparato a giocare, a fare la brava e a trattare bene la tua sorellina senza farla piangere») . L e «edulcorazioni>> riducono l a dimensione coercitiva dell'affermazione di potere non già attraverso una giustificazione della richiesta, ma concedendo al bambino una gratificazione limitata o una continuazione parziale. Molte volte ragioni ed edulcorazioni sono la risposta del genitore ai tentativi del bambino di negoziare una richiesta incondizionata e basata sull'affermazione di potere. Uno scenario frequente nel mio studio sui bambini in età prescolare era quello in cui i genitori cominciavano con una richiesta incondizionata e basata su un' af­ fermazione di potere: «Smettila ! », «Bevi il tuo latte ! », «Spegni la TV ! », dopo di che rispondevano al tentativo di negoziazione del bambino restando irremovibili ma fornendo una ragione a sostegno della richiesta, o, caso più interessante, addolcendo in qualche modo il colpo (edulcorazione) . Ad esempio, offrivano al bambino un surrogato ( «Ecco, battilo con questo martello non con la bambola» ) , gli concedevano una continuazione parziale («Va bene, puoi guardare fino al prossimo spot e poi a letto») o abbassavano le pretese («D'accordo, puoi berne mezzo bicchiere») . Altri modi per edulcorare la richiesta sono quello di restare irremovibili mostrando al tempo stesso di capire il desiderio del bambino di continuare a fare ciò che stava facendo, e quello di rendere il cambiamento richiesto più attraente per il bambino (ad esempio, di fronte alla resistenza del figlio a spegnere la TV e andare a letto un padre reagì caricandosi il bambino sulle spalle e salendo le scale al grido: «Avanti, marsc' ! »F . Con tutto ciò, a volte è necessaria un' affermazione di pote­ re incondizionata - ad esempio nelle emergenze, quando non c'è tempo da perdere. I genitori possono usare questo tipo di affermazione costruttivamente, specie se vi ricorrono di rado; ad esempio, può essere il modo migliore di controllare un 2 Lo scenario affermazione di potere-edulcorazione era frequente nel caso dei genitori soliti a ricorrere all'induzione. Diverso e meno frequente è lo scenario nel quale i genitori cominciano con un'induzione, resistono al ten­ tativo di negoziazione del bambino e ribadiscono l'induzione; se il bambino continua a resistere, passano a un'affermazione di potere mitigata (pretendere, insistere), dopo di che, se necessario, per ridurre il bambino all'obbedienza giungono alla minaccia o all'uso della forza.

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bambino molto turbolento o che si comporta in modo aper­ tamente antagonistico [Hoffman 1 970a; Zahn-Waxler, Radke­ Yarrow e King 1979] . E, cosa più importante, l ' affermazione di potere incondizionata può essere a volte la cosa migliore, anche per i genitori che ricorrono abitualmente all'induzione, per comunicare chiaramente il grande valore positivo che essi annettono alla considerazione verso gli altri, e l ' intensità dei sentimenti che hanno verso certi atti dannosi («Non devi dare calci in faccia a tua madre n é a chiunque altro, anche se ti sembra divertente») ; e questo anche se è possibile comunicare con ugual forza lo stesso messaggio accompagnandolo con una ragione induttiva («Dammi quel bastone! Ti ho già detto di non giocare con il bastone perché puoi fare male a qualcuno e lo sai benissimo; perciò adesso dammi quel bastone» ) . In ogni caso, se in queste situazioni i genitori non si esprimono con forza (affermando il proprio potere) il bambino può conside­ rare legittimato l'atto dannoso; l'affermazione di potere rende indubitabilmente chiaro al bambino che ciò che egli ha fatto o sta per fare è sbagliato e inaccettabile.

1 . 2 . Ritiro dell'amore Anche un altro atto disciplinare dei genitori, il ritiro del­ l' amore, può essere «silente» o esplicito. Ne sono esempio i casi in cui i genitori esprimono in modo diretto - ma senza affermazione di potere - ira o disapprovazione verso il bam­ bino perché ha compiuto un' azione dannosa o indesiderata. Possono, tra le altre cose, ignorare il bambino, voltargli le spalle, rifiutare di parlargli o di dargli ascolto, dirgli «Non mi piaci», !asciarlo solo o minacciare di abbandonarlo. Ecco alcuni esempi di ritiro dell'amore da parte di genitori di bambini in età prescolare: «Non mi piaci quando parli così»; «Benissimo, se è questo il modo in cui intendi comportarti, non chiedermi più di aiutarti»; «Se non la smetti, la mamma se ne andrà e ti lascerà solo»; «Se continui a frignare non ti darò il bacio della buonanotte». Il ritiro dell' amore fa leva sulla relazione di affetto tra genitore e figlio più di quanto non faccia l' affermazione di potere, ma altrettanto facilmente produce una reazione negativa 183

di ansia: non già rabbia e paura, quanto piuttosto ansia per la possibilità che il genitore non voglia più prendersi cura del figlio. Il ritiro dell'amore comunica anche l'intenso sentimento negativo del genitore verso il comportamento in questione e chiarisce che è un comportamento sbagliato. Il ritiro dell'amore viene usato spesso quando il bambino esprime rabbia verso il genitore [Hoffman 1970a] , il che può spiegare perché esso contribuisca all'inibizione della rabbia nei bambini [Hoffman 1963 ; Hoffman e Saltzstein 1 967 ] . Come nel caso dell'affermazione di potere, gli effetti del ritiro dell'amore sul bambino possono essere attenuati da una spiegazione. Ad esempio, un bambino può interpretare un'espressione di indignazione morale da parte del genitore di fronte al suo comportamento come un puro e semplice rifiuto, cosa che può suscitare grande ansia; però è più difficile che ciò accada se il genitore accompagna il suo accesso emozionale con una spiegazione (comprensibile per il bambino) che chiarisca qual è la condotta che il genitore disapprova. 1 .3 . Induzione Quando un bambino nuoce o è sul punto di nuocere a un'altra persona - un genitore, un fratello, un amico - i geni­ tori possono assumere il punto di vista della vittima e mostrare come questa sia danneggiata dal comportamento del bambino. Come abbiamo già detto, queste sono induzioni. Le prime in­ duzioni sottolineano le conseguenze fisiche dirette e osservabili della condotta del bambino: «Se lo spingi di nuovo, cadrà e piangerà»; «Mi dà fastidio che mi cammini sopra; per favore, lasciami stare distesa in pace»; «Se sei costretto a difenderti va bene, ma non puoi colpire chiunque ti trovi davanti con tutto quello che hai in mano, potresti fargli male sul serio»; «Se butti la neve sul loro vialetto, dovranno spazzarlo daccapo». Più avanti, possono essere sottolineati i sentimenti di sofferenza della vittima; dapprima sentimenti semplici: «È triste perché non lo fai giocare con le tue biglie, come ti rattristeresti tu se lui facesse lo stesso con te»; «Hai fatto male a Mary e l'hai fatta piangere quando l'hai buttata per terra e le hai preso la bambola» (detto con convinzione ed emozione) [Zahn-Waxler, 1 84

Radke-Yarrow e King 1979]; poi sentimenti più sottili: « È dispiaciuto perché era orgoglioso della sua torre e tu gliel'hai distrutta». Gli effetti negativi della condotta del bambino possono essere segnalati indirettamente: «Ha paura del buio, perciò per favore riaccendi la luce»; «Cerca di non fare chiasso, se riesce a dormire un po' più a lungo quando si sveglierà starà meglio». E si può presentare il punto di vista della vittima sottolineando le sue intenzioni o i suoi legittimi desideri, in modo da chiarire quanto il comportamento del bambino sia stato ingiustificato: «Non prendertela con lui; voleva solo aiutarti»; «Non potevi !asciarglielo per qualche minuto in modo che potesse guardarci dentro? Gli piacerebbe moltissimo farlo, e non credo che lo romperebbe»; «Adesso tocca a lui e ha diritto a giocarci, come ci hai giocato tu prima»; «Non lascerò che tu la picchi solo perché lei ti ha fatto male senza volerlo. Devi capire che è stato un incidente. È troppo piccola per sapere quello che fa. Non voleva farti male». Infine, possono essere suggeriti atti di riparazione: «Perché non chiedi scusa a tua sorella e cerchi di farla stare un po' meglio?»; «Avvicinati a lei e dalle una carez­ za, così si sentirà meglio»; «Mi piacerebbe che tu lo aiutassi a ricostruirla» (la torre che il bambino aveva distrutto). Quando ricorrono a un'induzione, i genitori fanno di­ verse cose: in primo luogo, come tutti i tentativi di cambiare il comportamento del bambino, un'induzione comunica la disapprovazione di un'azione del bambino da parte dei geni­ tori, e segnala, implicitamente o esplicitamente, che l'azione è sbagliata e che il bambino ha commesso una trasgressione («Dire cattiverie alle persone non è bello; le fa star male. In questa casa non ci comportiamo così»P. Ma le induzioni hanno 3 Ci si può chiedere perché l'attenzione sia rivolta alle conseguenze ne­ gative delle azioni del bambino; la ragione è che gli atti gentili e premurosi non sono oggetto degli interventi disciplinari dei genitori. Occasionalmente i genitori chiedono ai figli di fare qualche atto di gentilezza del tutto slegato da quel che i figli stavano facendo («Suonano alla porta. Va ad aprire e dì alla zia Berta che sei entusiasta di vederla, la farai felice»; «Ho i piedi stanchi e indolenziti; per favore toglimi le scarpe e fammi un m assaggio, mi rimetterà a nuovo>> ) . Annovero queste richieste tra le induzioni e le considero integrazioni potenzialmente preziose della socializzazione morale prosociale, anche se ho osservato che sono poco frequenti.

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due effetti importanti che le differenziano dagli altri strumenti disciplinari: a) richiamano l' attenzione del bambino sulla sof­ ferenza della vittima e la rendono saliente ai suoi occhi; in tal modo sfruttano l' inclinazione empatica del bambino (stringono con essa un'alleanza) attivando alcuni o tutti i suoi meccanismi di attivazione empatica e producendo sofferenza empatica; b) sottolineano il ruolo del bambino come causa di quella soffe­ ren za. Ciò crea le condizioni per provare un senso di colpa su base empatica, che è un sentimento di profonda disistima di sé per avere danneggiato qualcuno ingiustamente. Mettere in evidenza il ruolo causale del bambino è di importanza capitale, poiché i bambini più piccoli possono provare empatia per la vittima e mettersi a piangere assieme a lei, senza rendersi conto di essere stati loro la causa di quella sofferenza, o possono semplicemente girarsi dall'altra parte e andarsene, evitando così l'empatia e il senso di colpa. Anche i bambini più grandi possono girarsi dall'altra parte e andarsene. Anch'essi possono dimenticare il loro ruolo causale - in litigi e discussioni o quando, invece che rattristarsi e sentirsi male, le vittime delle loro azioni si arrabbiano e cercano di vendicarsi - a causa dell'ambiguità di queste situazioni, che permette loro di proiettare fuori di sé o di razionalizzare la colpa. Per superare questi ostacoli e far leva sull'empatia e sul senso di colpa dei bambini, è necessario che i genitori chiariscano il ruolo delle azioni del bambino nel causare la sofferenza dell'altro. Perché le induzioni riescano in tutto questo, devono essere presentate in una forma che sia alla portata cognitiva e lingui­ stica dei bambini e, specialmente nel caso di quelli piccoli, devono essere chiaramente collegate alla loro esperien za. Il senso comune suggerisce che i genitori normalmente facciano proprio questo, e se ne possono osservare le prove: essi co­ minciano a usare le induzioni più semplici nel terzo anno di vita del bambino, proprio quando le sue capacità linguistiche progrediscono rapidamente; e il rapporto tra le induzioni e le asserzioni di potere aumenta quando i bambini diventano più grandi [Chapman 1 979] . Perché le induzioni siano efficaci è necessario che il bambino non resti passivo, ma smetta di fare quello che stava facendo e presti attenzione al genitore. Deve poi elaborare attivamente il messaggio dell'induzione, deve cioè mettere in relazione le sue azioni con la sofferenza della vittima, 186

in modo che empatia e senso di colpa possano insorgere dentro di lui. Ma il bambino non farà tutto questo, assorbito com'è da quel che sta facendo, dalla motivazione a perseguire i suoi scopi e dall'emotività della situazione, se non vi sarà un certo livello di pressione esterna, che deve essere sufficiente perché il bambino presti attenzione al messaggio dell'induzione e lo elabori, ma non deve giungere a suscitare un eccesso di rabbia, paura o ansia per la possibile perdita dell'amore dei genitori, emozioni che potrebbero perturbare l'elaborazione cognitiva. La spinta a prestare attenzione a un 'induzione e ad ela­ borarla può derivare dalla componente di afferm azione del potere di un intervento combinato «affermazione del potere­ ragione». O, se si ricorre alla sola induzione, può bastare la pressione «di sfon do» dell'affermazione di potere e del ritiro dell 'amore dovuta alla struttura di potere, come abbiamo visto sopra. In ogni caso, l'elaborazione dell'induzione può convin­ cere il bambino che la richiesta del genitore è ragionevole. E se alla fine obbedisce, volontariamente o perché è spinto a farlo, probabilmente avvertirà sofferenza empatica e senso di colpa, e avrà la sensazione di avere agito male - molto più che in qualunque altro scenario di socializzazione. Consideriamo brevemente il livello di pressione ottimale. Pressione ottima/e. Ovviamente, se la pressione è troppo debole il bambino non ha motivo di fermarsi, prestare atten­ zione al messaggio dell'induzione ed elaborarlo. E gli studiosi dell'elaborazione delle inform azioni sanno da tempo che se la pressione è troppo forte l' attenzione si concentrerà sulle caratteristiche fisiche del messaggio verbale, mentre il suo contenuto semantico verrà relativamente trascurato [Kahneman 197 3 ; Mueller 1 979] . Analogamente, si può supporre che un eccesso di affermazione del potere o di ritiro dell'amore dirigerà l'attenzione del bambino sulle conseguenze delle sue azioni per se stesso. D'altro lato, gli interventi disciplinari con una forte componente induttiva indirizzano l'attenzione del bambino verso le conseguenze delle sue azioni per la vittima. Inoltre, l'elemento esplicativo delle induzioni attenua l'arbitrarietà della richiesta del genitore, e siccome indirizza la disapprovazione del genitore sull'atto e sui suoi effetti dannosi piuttosto che sul bambino, rende meno probabile un a reazione di forte ansia, capace di perturbare l'elaborazione cognitiva. Perciò le 1 87

induzioni permettono meglio d i altri strumenti disciplinari di raggiungere un duplice obiettivo: fare in modo che l'attenzio­ ne del bambino si concentri sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze per gli altri, e che la pressione esterna dei genitori resti sullo sfondo. Quando l' afferm azione di potere è necessaria, di che tipo è meglio che sia e qual è il suo livello ottimale? A quanto pare, dipende dalla situazione. Quando il bambino è sem­ plicemente incons apevole del male arrecato, può b astare un intervento misurato: «Non vedi che stai facendo male a Mary? Smetti d i tirarle i capelli». Quando però vi è un con­ flitto molto intenso tra il bambino e un genitore o un amico, può essere necessario che il genitore pren da saldamente il bambino e insista perché presti ascolto ( all'induzion e ) , o lo sposti fisicamentè e lo calmi , o lo spedisca in camera sua in modo che possa tranquillizzarsi ( e il genitore con lui ) . Una volta che s i sia calmato, il bambino sarà p i ù disposto a elaborare l'in duzione e farne tesoro . Le cose possono andare diversamente se i due genitori si affidano a una sorta di divisione del lavoro nella quale uno dei due usa l'affermazione di potere e l'altro l'induzione, come in questo esempio (dovuto a una studentessa) : Mio padre adoperava la cinghia. lo piangevo e mia madre soffriva per me. Veniva nella mia camera e mi spiegava perché ero stata pu­ nita. Ricordo che un giorno ero a casa con mia madre e lei mi disse qualcosa. Le saltai su dicendole di stare zitta. In quel momento non fece e non disse nulla; si limitò ad aspettare che mio padre tornasse a casa. Quando lui rientrò e seppe da mia madre che cosa era successo, andò su tutte le furie. Fui punita e spedita in camera; piangevo e sentivo dolore perché mi aveva preso a cinghiate sul didietro. Così imparai a temerlo, perfino a odiarlo. Più tardi mia madre venne in camera, mi fece sedere accanto a lei, mi fece smettere di piangere e mi spiegò che dicendole di stare zitta le avevo mancato di rispetto. Aggiunse che parlandole in modo tanto villano avevo ferito i suoi sentimen ti. Disse anche che non avrei dovuto mai più rivolgermi a nessuno in quel modo perché era segno di maleducazione e di mancanza di rispetto. Quando mi fece sedere e mi disse che l' avevo ferita, mi resi conto che ciò che avevo fatto era davvero sbagliato. Capii anche che non avrei dovuto farlo più . Non perché altrimenti sarei stata punita, ma perché avrei ferito mia madre, o qualunque altra persona alla quale mi fossi rivolta in quei termini.

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Quando una madre si rimette al giudizio del padre in questo modo, spesso i figli perdono il rispetto per lei, oppure pensano che lei affermi il suo potere attraverso il padre; ciò però non sembra essere successo in questo caso, probabilmen­ te per la natura della relazione madre-figlia. In ogni c aso, il ricorso a un castigo corporale da parte del padre sembra aver creato le condizioni del ricorso all'induzione da parte della madre, come pure della sua evidente efficacia nello sviluppo morale prosociale della figlia. Sembra anche che la madre abbia seguito la «regola» di calmare la figlia prima di passare all'induzione. Due ultime osservazioni sul livello ottimale dell ' affer­ mazione di potere. La prima è che il livello ottimale può essere influenzato dal temperamento del bambino: Kochanska [ 1 995 ] ha osservato che i bambini timorosi richiedono una dose di affermazione di potere relativamente modesta, e si può supporre che i bambini più ostinati ne richiedano una dose relativamente maggiore. La seconda osservazione è che, indipendentemente dalla forz a dell ' affermazione di potere richiesta in certe circostanze, ci si può aspettare che le affer­ mazioni di potere, usate giudiziosamente, possano avere una funzione ausiliaria, e rafforzino la motivazione del bambino a rivolgere l'attenzione alle induzioni. Di qui in avanti, quando parlerò degli effetti positivi delle induzioni, assumerò che la pressione a rivolgere ad esse l'at­ tenzione sia compresa nel campo di variazione ottimale. Espressioni di delusione. Spesso i genitori dicono: «Mi hai deluso», il che sembra comunicare un atto di induzione («Hai tradito le mie attese»; «N on mi vuoi bene» ) , o di ritiro dell 'amore ( «Ti stimo meno di prima»; «Ti amo di meno»), o entrambi. Krevans e Gibbs [ 1 996] hanno trovato che un'espres­ sione di delusione si comporta statisticamente come un atto di induzione e non di ritiro dell'amore; ciò nondimeno essi propon­ gono di considerare le espressioni di delusione separatamente dalle altre induzioni. La mia posizione è differente. Quando la delusione si combina con l ' induzione ( «Le tue parole mi hanno rattristato») o con il ritiro dell'amore («Non posso più fidarmi di te»; «Quando ti comporti così non sei mio figlio») non c'è ambiguità: o una cosa o l'altra . Quando l'espressione di delusione è isolata, bisogna considerare il contesto. Se il 189

contesto non aiuta, l'espressione dovrebbe essere considerata indecifrabile o un caso di induzione o di ritiro dell'amore a seconda della risposta abituale del genitore in situazioni simili. Ho constatato che il contesto di solito favorisce le induzioni: anche quando il genitore esprime disapprovazione, il messaggio fondamentale è che le parole o le azioni del bambino lo hanno addolorato o deluso; ciò può spiegare perché la delusione si comporta statisticamente come un' induzione. Certo è che si comporta come un'induzione nel caso seguente: A 18 o 19 anni, quando vivevo ancora con i miei genitori, andai a una festa e non rientrai a casa fino alle otto o alle nove del mattino seguente. Non avevo telefonato - non mi era neppure passato per la testa di telefonare. Quando misi piede in casa, stanco e mezzo sbronzo, mia madre aveva in serbo per me il senso di colpa più grande dell'universo conosciuto. Partì all'attacco: «Tu non mi vuoi bene, tu mi fai disperare, pensavo che fossi morto». Ma il peggio venne quando mi disse che l 'avevo delusa. Mia madre! Proprio lei che aveva celebrato ogni mio piccolo successo, dalla scuola materna al conseguimento della patente di guida. Il modo in cui mi fece sentire quel giorno lasciò il segno. Certo, dopo molte lacrime e spiegazioni, ci riconciliammo, ma ancora oggi ricordo benissimo la delusione dipinta sulla faccia e il tono della sua voce. Prego Iddio di non farla mai più sentire così. [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1 995 , 267 ]

Non è chiaro se questa madre negasse il suo amore («Poi­ ché non hai considerazione per me ti amo di meno») , tuttavia il messaggio fondamentale è una chiara induzione («Il fatto che non hai considerazione per me mi fa soffrire») . Più che un «Non ti amo» è un «Tu non mi ami»; e così il messaggio sembra essere stato recepito dal figlio, come testimoniano le sue parole sul senso di colpa. Ricapitoliamo. Tutti gli interventi disciplinari sollecitano il bambino a cambiare la sua condotta, ed è esattamente per questa ragione che essi trasmettono un messaggio di disapprovazione delle azioni dannose del bambino. Pertanto, possono suscitare in lui ansia per la disapprovazione dei genitori e spingerlo a com­ portarsi diversamente per riconquistare la loro approvazione. Se la componente di affermazione del potere o di ritiro dell 'amore è marcata, l ' ansia del bambino aumenta, e la sua attenzione si concentra sulle conseguenze che hanno per lui l'obbedienza o il rifiuto. Quando in primo piano è l'induzione, l ' ansia per la 190

disapprovazione è minore; tuttavia, la struttura di potere può essere di per sé sufficiente a far sì che il bambino rivolga la sua attenzione all'induzione e la elabori; ciò rende il bambino consapevole della sofferenza della vittima e del proprio ruolo nel produrla e genera sofferenza empatica e senso di colpa. Perciò i cambiamenti di condotta del bambino prodotti dalle induzioni non sono dovuti all'obbedienza o al conformarsi nel senso di sottomettersi alla ·volontà altrui, ma, almeno in una certa misura, a cambiamenti cognitivi e affettivi che sono frutto dell'elaborazione delle informazioni pertinenti.

2.

Una teoria del ruolo dell'induzione nello svilu p p o morale

Quella che segue è una rassegna dei concetti principali della teoria, form ulati in termini di ricordi di eventi generici o scripts (copioni) relativi ai processi cognitivi e affettivi in gioco negli incontri disciplinari e al modo in cui essi contribuiscono allo sviluppo del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale nei bambini. Ho fatto ricorso al concetto di script per varie ragioni. Come osserva Nelson [ 1 993 ] , gli scripts derivano dall'esperienza e rappresentano lo schema generale di un evento familiare; essi delineano sequenze di interazioni comportamentali e senza spe­ cificare in dettaglio il luogo e il tempo in cui l'evento è occorso. Gli scripts organizzano e governano le azioni dei bambini: un bambino di 3 o 4 anni è in grado di raccontare quel che accade generalmente in un evento familiare come fare merenda alla scuola materna, o andare al mare, allo zoo o da McDonald's [Hudson e Nelson 1 983 ; Nelson 1 98 1 ] . Sembra ragionevole, pertanto, assumere che il bambino formi scripts di sequenze di interazioni disciplinari (incontri disciplinari) nelle quali danneggia altre persone, e che questi scripts divengano più complessi man mano che si ripetono, in un processo di integrazione progressiva di nuove informazioni e nuovi dettagli. Assumo inoltre che gli scripts degli incontri disciplinari, come altri «scripts emozionali» [Lewis 1 989] o, quanto a questo, come qualunque altra rappresentazione -, possano essere caricati con gli affetti che accompagnano l'evento. In questo caso, gli affetti sono la sofferenza empatica, la sofferenza simpatetica e il senso di colpa, che conferiscono allo script le -

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loro proprietà motivazionali. In questo modo, gli scripts di incontri disciplinari nei quali il bambino danneggia o sta per danneggiare altre persone possono diventare le unità affettivo­ cognitivo-comportamentali della sua struttura motivazionale prosociale. Ecco come ciò può accadere.

2 . 1 . Processi affettivi e cognitivi negli incontri disciplinari l . Ricapitolando, un'induzione, come ogni altro intervento disciplinare, comunica la disapprovazione dell'atto dannoso del bambino da parte del genitore. Ciò segnala chiaramente che il bambino ha fatto qualcosa di sbagliato e suscita in lui una certa preoccupazione per l'approvazione del genitore. Ma, a differenza di altri tipi di atti disciplinari, le induzioni hanno due effetti aggiuntivi. In primo luogo, richiamano l'attenzione sulla sofferenza della vittima, e, mettendola in rilievo, incontrano un alleato all'interno del bambino: la sua inclinazione empatica. Le induzioni mettono in moto certi meccanismi di attivazione dell'empatia - la mimesi, se fanno sì che il bambino guardi la vittima; l'assunzione di ruolo, se incoraggiano il bambino a immaginare come si sentirebbe al posto della vittima; l'asso­ ciazione mediata, se chiamano in causa esperienze passate del bambino. In questo modo, le induzioni suscitano sofferenza empatica per il dolore della vittima, i suoi sentimenti feriti e, se è il caso, per il protrarsi della sua sofferenza oltre la situazione immediata. In secondo luogo, le induzioni sono comunicazioni verbali che rendono saliente il ruolo causale del bambino nella sofferenza altrui. Quando il bambino elabora le informazioni in condizioni appropriate (livello di pressione ottimale ) , ne risulta una forma di autobiasimo che converte la sua sofferenza empatica, almeno in parte, in senso di colpa, cioè in senso di colpa per trasgressione (in contrasto con il senso di colpa dello spettatore per inazione) . Insomma, l'elaborazione cognitiva delle induzioni da parte del bambino suscita sofferenza empatica e la converte in senso di colpa. 2. Per ciò che riguarda il modo in cui il bambino forma i suoi primi scripts, Nelson [ 1 993 ] suggerisce che ogni nuova esperienza lo spinga a costruire uno schema della medesima. Sebbene questo schema si conservi in memoria per qualche

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tempo come un ricordo «episodico» [Tulving 1 972] , in seguito a nuove esperienze con eventi dello stesso tipo esso assume sempre di più le caratteristiche di uno script; e, mano a mano che prende la forma di uno script, lo schema integra in sé ogni nuova informazione significativa. Nelle ricerche con bambini in età prescolare su eventi nuovi e ripetuti, è emerso che questo processo di costruzione degli scripts richiede che gli eventi siano sperimentati cinque o più volte [Hudson e Nelson 1 983 ] . lo suggerisco che nei primi incontri disciplinari del bam­ bino in cui viene usata l'induzione accada la stessa cosa. Le condizioni per la formazione degli scripts sono soddisfatte: l'evento si ripete più volte, e le induzioni offrono informazioni e creano le condizioni necessarie per integrare semanticamente tali informazioni in uno script. La mia ipotesi è che la sequenza: trasgressione del bambino, seguita dall'induzione del genitore, seguita dal sentimento di sofferenza empatica del bambino e dal suo senso di colpa, sia rappresentata inizialmente, come nel modello di Nelson, nella forma di un ricordo o di uno schema «episodico». Poi, col susseguirsi degli incontri di­ sciplinari, la sequenza è rappresentata come uno script. Una volta costituitosi uno script dell' incontro disciplinare, in esso sono integrate le informazioni e le caratteristiche significative degli incontri successivi. Uno script completo può includere anche gli atti riparatori suggeriti dal genitore (scuse, con­ forto, abbracci e baci alla vittima) , le risposte positive del genitore e della vittima a questi atti, e il sollievo empatico e la riduzione del senso di colpa che il bambino può speri­ mentare di conseguenza. Queste integrazioni hanno un ruolo importante: offrono al bambino un repertorio di atti riparatori per il futuro e rafforzano il nesso tra gli atti, l'attivazione del senso di colpa e la sua riduzione. Lo script completo è dunque «Trasgressione ---7 Induzione ---7 Sofferenza Empatica e Senso di Colpa ---7 Riparazione», ma poiché al centro del mio discorso è la motivazione, specialmente il senso di colpa fondato sull'empatia, e anche per convenienza, lo chiamere­ mo script Trasgressione ---7 Induzione ---7 Senso di Colpa. Ad esso la sofferenza empatica e il senso di colpa conferiscono proprietà motivazionali ( cap . III). Prima di proseguire, una nota storica: nelle sue linee gene­ rali, la nozione di script m orale fu anticipata molto tempo fa 1 93

da Piaget, quando sostenne che le emozioni non sono sempli­ cemente sperimentate e poi dimenticate, ma sono memorizzate come parte delle rappresentazioni e delle interpretazioni di base degli eventi sociali e morali. «Gli affetti, grazie alla loro rappresentazione, perdurano quando gli oggetti che li hanno suscitati non sono più presenti; questa capacità di serbare il ricordo dei sentimenti rende possibili i sentimenti interperso­ nali e morali, e permette che questi ultimi siano organizzati in scale normative di valori» [Piaget 1954/198 1 , 44] . Nei miei termini, Piaget sostiene che la formazione di uno script evita che la sofferenza empatica e il senso di colpa siano dimenticati subito dopo essere stati sperimentati; i sentimenti sono inclusi in scripts che sono codificati nella memoria e che in seguito è possibile evocare. (Nel cap . IX ci soffermeremo sul ruolo della cognizione per stabilizzare gli affetti empatici. ) 3 . I bambini possono cominciare a formare questi scripts fin dall'inizio del terzo anno, quando i genitori iniziano a ricorrere sul serio alla disciplina e quando, come mostrano le ricerche, le induzioni cominciano a motivare il bambino a tenere conto degli altri [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1979] . Perché un bambino di questa età comprenda le informazioni induttive al punto da sperimentare sofferenza empatica e senso di colpa, le informazioni devono segnalare chiaramente la sofferenza della vittima e mettere in evidenza il ruolo del bambino nel causarla («Tu lo hai spinto, lui è caduto e si è messo a piangere») . Quando il bambino elabora le sue primissime induzioni, la cosa più probabile è che integri la relazione causale tra le sue azioni e la sofferenza della vittima nei semplici scripts causali fisici, non morali, che aveva precedentemente costruito e appli­ cato agli incontri disciplinari. Attraverso questo processo, quei semplici scripts fisici causa-effetto si arricchiscono e assumono una dimensione morale (le mie azioni possono far male ad altri). Inoltre, gli scripts possono essere infusi di sofferenza empatica e di un (embrionale) sentimento di colpa, che conferisce loro le proprietà, anche quelle motivazionali, delle rappresentazioni affettivamente cariche, o cognizioni «calde». Questi possono essere i primi e più semplici scripts Trasgressione � Induzione � Senso di Colpa. Si può immaginare che all'inizio ogni atto dannoso abbia il proprio script: in un primo momento atti semplici, come 194

dare calci o botte, spingere, sputare, tirare i capelli, fare dispetti e insultare, poi comportamenti più complessi come rivelare una confidenza, mancare a una promessa, rientrare tardi e far preoccupare i genitori. Questi scripts continuano ad operare e svilupparsi singolarmente, ma, al tempo stesso, si combinano a formare scripts più generali riguardanti l'inflig­ gere danni fisici ad altri o ferirne i sentimenti o deluderne le speranze; generalizzando ancora, si giunge infine a uno script più astratto e schematico che include qualunque azione che danneggi altri. 4. All'inizio, quando sono attivati nei bambini in situazio­ ni di conflitto, questi scripts non riescono a vincere la forza dell'aspettativa del beneficio egoistico. Col tempo, tuttavia, lo sviluppo cognitivo permette al bambino di «decentrare», cioè di trascendere il richiamo egoistico, di liberarsi dai lacci della prospettiva personale e assumere la prospettiva dell'altro. Tut­ tavia, la capacità cognitiva di decentramento appena acquisita dal bambino non è sufficiente a impedire che il suo punto di vista monopolizzi o quasi la sua attenzione nelle situazioni di conflitto, a meno che non sia costretto a fare diversamente. Ma da dove può scaturire una tale costrizione? La risposta di Piaget - dai pari, quando esprimono i propri desideri - non è confermata dalle ricerche: Hay [ 1984] ha constatato che i bambini in età prescolare spesso risolvono i loro conflitti senza l'intervento degli adulti, ma che di solito l'esito awantaggia coloro che hanno iniziato il conflitto o fanno uso della forza, di minacce o gesti intimidatori. Ciò indica che le prospettive conflittuali dei pari sono una mant/estazione del problema, non la sua soluzione. Una risposta migliore potrebbe

essere che c'è una divisione del lavoro tra il decentramento, il conflitto tra pari e le induzioni dei genitori: il conflitto tra pari obbliga il bambino ad abbandonare la modalità egocentrica e a prestare attenzione agli altri; il decentramento è la qualità strutturale cognitiva che permette al bambino di prestare at­ tenzione a una molteplicità di p retese; e l'empatia e il senso di colpa suscitati dalle induzioni lo motivano a tenere conto delle pretese altrui. In ogni caso, la sofferenza empatica può mitigare il piacere che il bambino può provare agendo a modo suo; in altri termi­ ni, la forza delle motivazioni egoistiche dei bambini può venir 195

attenuata dal conoscere i bisogni altrui e i sentimenti che questi implicano, e può ridursi fino al livello delle loro motivazioni empatiche emergenti e ad esse contrapposte. In altre parole, la forza motivazionale degli scripts morali prosociali del bambino, fino ad allora debole, può uguagliare ormai e a volte superare la forza delle sue motivazioni egoistiche. 5. I primi scripts del bambino possono includere rappre­ sentazioni cinestetiche e immagini visive dei movimenti corpo­ rei implicati nelle sue azioni dannose, così come le immagini visive e i suoni che accompagnano la sofferenza della vittima, nonché i significati che il bambino trae dalle induzioni. lo as­ sumo che questi scripts siano codificati nella memoria e siano attivati nel successivo incontro disciplinare, la cui informazione induttiva viene integrata negli scripts, e così via. In seguito, con il linguaggio, lo sviluppo cognitivo e l'emergere di modi più sofisticati di nuocere agli altri, il contenuto induttivo degli interventi disciplinari dei genitori diventa più complesso: gli scripts diventano meno cinestetico-immaginativi e più semantico­ proposizionali. Essi continuano a modificarsi e a svilupparsi negli anni della fanciullezza integrando progressivamente le informazioni di - letteralmente - migliaia di induzioni4• At­ traverso questo processo, i primi scripts causali, fisici e non morali, si trasformano in scripts complessi, generali, carichi affettivamente, riguardanti le conseguenze delle proprie azioni sugli altri - scripts che includono la dimensione etico-cognitiva propria della norma morale di tener conto degli altri e, al tempo stesso, mantengono gli elementi motivazionali dell'empatia e del senso di colpa.

4 Ho già menzionato gli studi che indicano che un bambino può essere bersaglio di un gran numero di interventi disciplinari l'anno (fino a 1 5 .000) . Non saprei dire quanti di questi siano casi di induzione, ma erano induzioni oltre un terzo degli interventi disciplinari del mio campione di genitori di bambini in età prescolare di classe media. Ci sono anche prove che i genitori di classe media ricorrono al in circa la metà dei casi [Chap­ man e Zahn-Waxler 1 982; Ross et al. 1 990; Smetana 1989; e altri ancora] . Se la metà di questi ultimi casi fossero induzioni, come si può ragionevolmente supporre, allora circa un quarto degli interventi disciplinari potrebbero essere induzioni. Ciò significa che nel caso dei genitori che preferiscono le induzioni non è esagerato parlare di .

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6. Questi scripts morali prosociali non sono acquisiti pas­ sivamente; essi vengono formati attivamente dai bambini in un processo continuo di costruzione, sintesi, organizzazione semantica dell 'informazione induttiva, che i bambini mettono in relazione con le proprie azioni e la condizione della vittima. Nel corso dell'elaborazione delle induzioni - supponendo, una volta di più, che il livello della pressione esterna sia ottimale -, il bambino è padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. E siccome i processi mentali attivi rendono salienti agli occhi del bambino i processi cognitivi e affettivi che hanno luogo al suo interno, il bambino considera i suoi scripts, e perciò la norma morale di tener conto degli altri (sempre implicita e spesso esplicita nelle induzioni) , come una costruzione che è parte del proprio sistema motivazionale interno, benché tragga origine dagli incontri disciplinari, cioè dall'esterno. Di conseguenza, l'intervento dei genitori diventa meno necessario; la componente induttiva comincia a scomparire dallo script e il bambino è motivato a tener conto degli altri anche in assenza dei genitori. A un certo punto, l'intervento del genitore non è più necessario, e lo script Trasgressione � Induzione � Senso di Colpa si trasforma, a tutti gli effetti, in uno script Trasgressione � Senso di Colpa, che può essere attivato dalla consapevolezza del bambino di avere danneggiato un'altra persona. E una volta che lo script è stato attivato, il senso di colpa e la motivazione a riparare che lo accompagnano sono sperimentati dal bambino come qualcosa che proviene dal suo interno5•

5 Assumo che questa att ivazione sia automatica e preconscia. Fuori del contesto degli incontri disciplinari, quando a un bambino viene chiesto di ripensare ai metodi disciplinari dei genitori, può darsi che ricordi più facilmente i casi, relativamente pochi, nei quali i genitori hanno usato l'affermazione di potere per comunicare quanto valore attribuivano alla considerazione per gli altri e la forza dei loro sentimenti al riguardo. In accordo con la teoria della memoria autobiografica di Nelson [ 1 993 ] , avanzerei l'ipotesi che questi casi siano da annoverare tra i «ricordi episodici>> che definiscono il sé autobio­ grafico personale, anche se è possibile che si attivino di rado negli incontri morali (la cosa più probabile è che si aiuti perché si attiva uno script, non perché si ricordano i valori espressi dai genitori). Ma ciò richiede ulteriori indagini.

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7 . A ttivazione anticipatoria degli scripts e del senso di colpa. Il valore degli scripts e del senso di colpa su base empatica come motivazioni morali prosociali sarebbe limitato se gli scripts fossero attivati e il senso di colpa fosse sperimentato solo a cose fatte; sembra ragionevole pensare che, come altre rappresentazioni, gli scripts Trasgressione � Senso di Colpa possano attivarsi in anticipo per effetto di stimoli pertinenti, che, in questo caso, sono i pensieri e le immagini che attraver­ sano la mente del bambino quando considera un'azione che può danneggiare qualcuno. Quando questi pensieri e queste immagini anticipatorie attivano uno script Trasgressione � Senso di Colpa, il senso di colpa associato allo script sarà sperimen­ tato come un «senso di colpa anticipatorio», che agisce come una motivazione a non commettere l'atto dannoso. Il senso di colpa anticipatorio può prevalere, ma, in caso contrario, se il bambino compie l'atto dannoso si sentirà colpevole. Il senso di colpa anticipatorio ha certe precondizioni, sul piano cognitivo e del controllo del comportamento. La persona deve riuscire, anche quando è sotto pressione, a collegare le proprie intenzioni con le azioni e le loro conseguenze prima che si verifichino, a considerare il punto di vista altrui, a control­ lare l'impulso a compiere l'azione. Di conseguenza, sul piano evolutivo, il senso di colpa anticipatorio dovrebbe seguire il senso di colpa per trasgressione. In ogni caso, l'effetto del senso di colpa anticipatorio è che invece di sentirsi colpevole dopo avere danneggiato qualcuno, la persona si sentirà colpevole al solo pensiero di danneggiarlo. Invece di pensare al modo di annullare un atto dannoso, si può, in un certo senso, «disfarlo» in anticipo, semplicemente non facendolo. Sono stati condotti diversi studi sulla capacità del senso di colpa anticipatorio di agire come motivazione contro le trasgressioni. In uno studio di Okel e Mosher [ 1968] , degli stu­ denti universitari maschi erano spinti a insultare un compagno (complice dello sperimentatore), che si mostrava ferito dagli insulti. I soggetti molto empatici riferirono di essersi sentiti colpevoli per ciò che avevano fatto, e aggiunsero che se aves­ sero saputo prima che la vittima si sarebbe sentita tanto male avrebbero agito diversamente. In un altro studio, Malinowski e Smith [ 1 985] chiesero ai soggetti, studenti universitari, se si sarebbero sentiti colpevoli qualora avessero imbrogliato; si 1 98

constatò che coloro che avevano risposto affermativamente di fatto non imbrogliavano in un compito sperimentale. Infine, è stato dimostrato (vedi il cap. IV) che gli spettatori prevedono che se non aiuteranno una persona in difficoltà si sentiranno poi colpevoli; perciò si può supporre che essi prevedano che si sentiranno altrettanto colpevoli al pensiero di avere effetti­ vamente danneggiato qualcuno. 8. Integrazione di nuove esperienze. Una volta che abbia a disposizione gli scripts per tenere conto degli altri e la capacità di sperimentare in anticipo il senso di colpa, il bambino può integrare in questi scripts le sue esperienze sui danni arrecati ad altri fuori degli incontri disciplinari. Queste esperienze possono essere nuove, perché sono legate alla crescita e han­ no luogo tra i pari ma non alla presenza dei genitori. Anche la propria esperienza come vittima in queste nuove situazioni può essere integrata nello script perché aiuta a scoprire come ci si sente nei panni della vittima. In questo modo gli scripts Trasgressione � Senso di Colpa possono crescere e ampliarsi grazie all'integrazione di nuove esperienze estranee agli incontri disciplinari. La teoria riguarda soprattutto gli interventi disciplinari dei genitori, ma anche le interazioni del bambino con gli adulti e i coetanei fuori di casa possono contribuire all'interiorizzazione dei principi morali. Sulla base del primo nucleo motivazionale costituitosi a partire dagli incontri disciplinari, il bambino può far tesoro delle comunicazioni quasi-induttive dei professori e di altri adulti; ed è possibile che l'interazione con altri bambini nella cui famiglia l'induzione è usata frequentemente abbia gli effetti costruttivi ipotizzati da Piaget, specie in caso di supervi­ sione indiretta da parte degli adulti o di addestramento induttivo [Hoffman 1980] . Queste interazioni tra pari possono rafforzare gli effetti positivi delle induzioni dei genitori e possono contri­ buire a estendere l'ambito di applicazione della motivazione a tener conto degli altri (per esempio, mantenere le promesse, non tradire la fiducia, non mettere in imbarazzo gli altri); ambito che si estende ulteriormente a mano a mano che il bambino acquisisce abilità linguistiche e d i assunzione di ruolo più sofisticate, così che le ripercussioni delle sue azioni sugli altri possono essere comprese molto dopo (o previste in anticipo) rispetto ai fatti. E sebbene il linguaggio e l'assunzione di ruolo siano abilità 199

neutre, che è possibile impiegare tanto per manipolare quanto per aiutare gli altri, un bambino motivato a pensare agli altri se ne servirà più spesso a quest'ultimo scopo. In conclusione, quelli che ho descritto sono i fattori ante­ cedenti che possono condurre allo sviluppo di una motivazione morale a tener conto degli altri quando i propri bisogni sono in conflitto con quelli altrui. Esperienze successive di varia natura possono estendere questa motivazione ad altri aspetti della vita, e fornire le abilità e competenze che aiutano la motivazione e si basano su di essa per creare complesse strutture ideative morali (come vedremo nel cap . IX).

3.

Le prove della teoria

Le prove della teoria non sono certo inoppugnabili, ma alcuni dei suoi concetti più importanti hanno trovato conferma, e siccome questi concetti sono parte di una rete strettamente interconnessa, il sostegno che essi ricevono è un sostegno ricevuto dalla teoria nel suo complesso. Le ricerche relative all'influenza della disciplina dei genitori sul senso di colpa e sull'interiorizzazione morale risalgono principalmente agli scorsi anni Sessanta e Settanta [vedi Hoffman 1988 ] , ma sono proseguite fino ai giorni nostri [Brody e Shaffer 1982 ; Crockenberg e Litman 1990; DeVeer 1 99 1 ; Hart et al. 1992; Krevans e Gibbs 1996; Rollins e Thomas 1979] . Queste ricer­ che confermano quasi concordemente (alcuni dati non sono statisticamente significativi, ma non ve ne sono di negativi) la tesi che l 'uso materno dell'induzione (i dati relativi ai padri non sono univoci) crei bambini il cui orientamento morale è caratterizzato da indipendenza dalle sanzioni esterne e da senso di colpa per i danni arrecati ad altre persone. Questi risultati concordano anche con le osservazioni della vita reale, come quelle compiute da Oliner e Oliner [ 1 988] , secondo cui i ge­ nitori dei tedeschi che avevano salvato degli ebrei perseguitati dai nazisti erano persone affettuose, che era più probabile che avessero usato l'induzione e meno l' affermazione di potere. Inoltre, le ricerche mostrano che un orientamento morale fon­ dato sulla paura di essere scoperti e puniti è associato con l'uso frequente dell'affermazione di potere, specialmente della sua 200

affermazione incondizionata. Non sembra esservi una relazione univoca tra l'orientamento morale e il ritiro dell 'amore, benché vi sia qualche prova di una relazione tra il ritiro dell'amore e l'inibizione della rabbia. Le ricerche sono per lo più correlazionali, ma non mancano prove sperimentali dell'influenza dell'induzione sull'interio­ rizzazione morale [Kuczynski 1983 ; Sawin e Parke 1 980] . I soggetti dello studio di Kuczynski erano dei bambini di 9- 1 O anni, divisi in tre gruppi, che dovevano giocare con giocattoli molto attraenti. A un certo punto veniva detto loro che do­ vevano fare un lavoro, e venivano fatti sedere con le spalle ai giocattoli. Tutti venivano invitati a non guardare i giocattoli finché non fossero stati autorizzati da un adulto (una forma blanda di affermazione di potere) . A un gruppo non veniva detto nient'altro (affermazione di potere blanda ma incondizion ata ); a un secondo gruppo veniva detto che se avessero guardato i giocattoli sarebbe stato peggio per loro, perché se non avessero lavorato abbastanza avrebbero dovuto finire il lavoro più tardi e avrebbero avuto meno tempo per giocare - un'affermazione di potere blanda, con una ragione focalizzata sul bambino (bambino scontento e con meno tempo) ; i bambini del terzo gruppo venivano invitati a non guardare e veniva detto loro che se avessero guardato i giocattoli l'adulto sarebbe stato scontento perché, se non avessero lavorato abbastanza, egli avrebbe dovuto fare il lavoro più tardi e avrebbe avuto poco tempo per portarlo a termine - affermazione di potere con induzione ( adulto scontento e con meno tempo) . I risultati furono i seguenti. Quando l'adulto restava nella stanza non c'erano differenze fra le tre manipolazioni: la mag­ gioranza dei soggetti obbediva; quando però l'adulto lasciava la stanza, dicendo che sarebbe stato via più del previsto e perciò avrebbe capito se i bambini non avessero lavorato ininterrot­ tamente, aggiungendo, per buona misura, che non si sarebbe arrabbiato se avessero guardato i giocattoli, era molto più probabile che il gruppo dell'induzione continuasse a lavorare senza guardare i giocattoli rispetto agli altri due gruppi; inol­ tre, le prestazioni di questo gruppo non variavano rispetto alla condizione in cui l'adulto restava nella stanza. Ho descritto in dettaglio questo esperimento perché la mi­ sura dell'interiorizzazione morale prosociale in esso impiegata

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si avvicina molto all'interiorizzazione morale nella vita reale: facciamo qualcosa a beneficio di un altro e a nostre spese senza aspettarci una ricompensa se lo facciamo, o una punizione se non lo facciamo. A tutta prima, la misura può apparire simile al «paradigma del giocattolo proibito» criticato nel capitolo quinto, ma misura indubbiamente meglio l'interiorizzazione mo­ rale perché i soggetti del gruppo dell'induzione resistevano alla tentazione non per se stessi ma per il bene di qualcun altro. Lo studio di Sawin e Parke era simile, salvo che i soggetti erano bambini che frequentavano l'ultimo anno di scuola mater­ na e la seconda elementare, lo sperimentatore era una donna, e le tre manipolazioni erano: a) un'affermazione di potere blanda e incondizionata: «Mentre sono via non dovete toccare i gio­ cattoli»; b) la medesima blanda affermazione di potere con in più l' informazione che l' adulto si sarebbe «molto arrabbiato)) se i bambini avessero toccato i giocattoli (blanda affermazione di potere e ritiro dell'amore) ; c) la medesima affermazione di potere con in più l'informazione che l'adulto si sarebbe «pro­ fondamente rattristatm) se avessero toccato i giocattoli (blanda affermazione di potere e induzione). Come nello studio di Kuczynski, i soggetti che avevano meno probabilità di toccare i giocattoli quando l' adulto era fuori della stanza erano quelli del gruppo dell'induzione, benché ciò valesse solo per i bambini di seconda, più vicini per età ai soggetti di Kuczynski (quelli di scuola materna non mostravano nessun effetto) . Entrambi questi studi sperimentali, soprattutto quello di Kuczynski, confermano il ruolo dell 'induzione nell'interioriz­ zazione, poiché quando ai bambini veniva detto che la loro condotta avrebbe avuto conseguenze spiacevoli per qualcun altro, essi si sentivano più stimolati ad agire in senso proso­ ciale. In tutti e due gli esperimenti le manipolazioni induttive sottolineano i sentimenti ( infelicità, tristezza) dell'altra persona e il modo in cui essa è influenzata dalla condotta del bambino. Perciò i due studi confermano implicitamente l'ipotesi che le induzioni facciano leva sulle capacità empatiche dei bambini, o, che è lo stesso, che l'empatia faccia da mediatrice fra l'indu­ zione e l'interiorizzazione. Questa ipotesi ha trovato ulteriore conferma in un recente studio correlazionale di Krevans e Gibbs [ 1 996] : replicando i risultati ottenuti nelle ricerche preceden ti, essi hanno constatato una co rrelazione positiva tra l'induzione

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e il comportamento prosociale, ma hanno anche raccolto dati sull'empatia, e hanno trovato che l'induzione è in relazione con l'empatia e che, se l'empatia viene controllata, la relazio­ ne tra l'induzione e il comportamento prosociale viene meno, come essi avevano previsto partendo dall'ipotesi del ruolo di mediazione dell'empatia. Oltre ai risultati delle ricerche empiriche, c'è un'altra cosa che rende plausibile la teoria: essa considera gli incontri disci­ plinari nei quali i genitori fanno uso di induzioni, e quel che dice delle risposte affettive e cognitive del bambino in questo tipo di incontri concorda con le risposte affettive e cognitive manifestate negli incontri morali dalle persone che hanno in­ teriorizzato le norme morali. La teoria concorda anche con le recenti scoperte sui processi di memoria a lungo termine del bambino: il suo impiego di scripts, e il fatto che la memoria autobiografica abbia inizio a circa 2 anni di età [Howe e Cou­ rage 1 997 ] , cioè quando i genitori cominciano a sottoporre seriamente a disciplina i bambini. Ciò rende plausibile l'ipotesi che negli incontri disciplinari il bambino astragga sequenze di interazioni - il bambino danneggia qualcuno, dopo di che riceve informazioni induttive dal genitore, dopo di che il bambino, per empatia, si sente colpevole - e le integri progressivamente in scripts cognitivo-affettivi dotati di significato. Riassumendo, vi sono prove correlazionali e sperimentali che confermano che l'induzione contribuisce al senso di colpa e all'interiorizzazione morale e che l'empatia media gli effetti dell'induzione. Le ricerche sulla memoria sono in accordo con gli effetti cumulativi a lungo termine dell'induzione. Per finire, la teoria è ragionevole, giacché le risposte cognitive ed emozionali che la teoria suppone abbiano luogo negli incontri disciplinari nei quali i genitori fanno uso di induzioni sono molto simili a quelle che si osservano a interiorizzazione morale avvenuta. 3 . 1 . Direzione degli effetti Qualche parola sulla direzione degli effetti, un tema su cui tanto si è scritto negli ultimi anni. Nessuno può dubitare seria­ mente che gli effetti siano bidirezionali; i genitori influenzano i 203

figli , e i figli influenzano i genitori. I più sarebbero d'accordo che l'influenza dei genitori è maggiore nei primi anni di vita del bambino, diventa meno importante nel corso della socializzazione del bambino, dopo di che non è più necessaria o lo è solo in «dosi di mantenimento». Ma dire questo è dire ancora poco: la questione è sapere da dove il bambino comincia il percorso evolutivo, fin dove si spinge, e, soprattutto, come ci arriva. Inoltre, data l'importanza dei genitori, ci si può chiedere quali siano i processi che mediano l'influenza del comportamento dei genitori sul bambino, specialmente nei primi anni di vita. L'oggetto della mia teoria è precisamente questo; e, per le ra­ gioni che ho esposto sopra, credo che l'uso dell'induzione da parte dei genitori sia condizione necessaria del senso di colpa e dell 'interiorizzazione morale nel bambino. Ma l'induzione è importante non solo perché è capace di suscitare empatia, ma anche perché può far leva sulla predisposizione empatica che il bambino porta con sé negli incontri disciplinari. Questo è l'assunto alla base dell'ipotesi che l'empatia sia la mediatrice degli effetti dell'induzione e che, di conseguenza, le induzioni funzionino al meglio con i bambini molto empatici, come con­ ferma lo studio di Krevans e Gibbs [ 1996] menzionato sopra. L'ipotesi dell'empatia come mediatrice dell'induzione assume che il bambino sia capace di empatia già prima di essere oggetto di induzioni. Questo sembra un assunto ragionevole, giacché i meccanismi di attivazione dell'empatia (condizionamento, associazione, mimesi) appaiono poco dopo la nascita (cap. II) . Inoltre, le possibili radici evoluzionistiche dell 'empatia e la sua componente ereditaria [Hoffman 198 1 ; Zahn-Waxler et al. 1 992] indicano che già prima dell'uso dell'induzione possono esservi differenze individuali nella predisposizione empatica: le differenze individuali nell'empatia possono produrre differenze individuali nell'uso delle induzioni da parte dei genitori. Se un bambino è molto empatico, il ricorso all 'affermazione di potere può essere meno necessario, come nel caso dei bam­ bini timorosi cui abbiamo accennato in precedenza, anche se per ragioni completamente diverse. I bambini molto empatici possono essere più ricettivi alle induzioni per varie ragioni, ad esempio perché per loro è più facile notare l'avvilimento della vittima, tener conto degli aspetti della situazione menzionati dal genitore, o prendere sul serio l'invito del genitore a mettersi 204

al posto della vittim a. Queste predisposizioni dei figli possono essere scoperte (forse per prova ed errore) dai genitori, che poi usano le induzioni, almeno in parte, perché producono gli effetti desiderati. Se l'empatia ha una componente ereditaria può non trattarsi solo di una questione di prova ed errore, poiché i genitori dei bambini empatici possono essere anch'essi più empatici ed è più facile che ricorrano all'induzione per effetto del proprio orientamento empatico. Se tutto ciò è vero, l'empatia e l'induzione si alimentano l'una con l'altra, ma in forme complesse e interdipendenti. A tutt'oggi queste sono solo congetture. Le prove dell'in­ fluenza del bambino sulla disciplina genitoriale sono tutt'altro che univoche: le ricerche di Grusec e Kuczynski [ 1 980] e Kuczynski, Marshall e Schell [ 1 997] sembrano mostrare che le strategie disciplinari sono determinate «da quel che il bambino ha fatto più che da questo o quell'orientamento educativo siste­ matico da parte della madre»; d 'altro canto, Dowdney e Pickles [ 199 1 ] sono giunti alla conclusione che «lo stile materno sembra costante al variare del contesto, e relativamente impermeabile alla condotta del bambino». Rimando anche alla mia analisi del potere dei genitori e alle prove che indicano che i genitori possono determinare fino a che punto il comportamento del bambino può influire sui loro atti disciplinari (vedi, in questo stesso capitolo il primo p aragrafo). In ogni caso, le forme iniziali dell'empatia sono ben diver­ se da quelle mature, e l'induzione può agevolare il cammino evolutivo dell 'empatia sollecitando il bambino a mettersi nei panni della vittima o facendo luce sui sentimenti di sofferenza meno ovvi della vittima stessa, come la delusione per i risultati conseguiti. Cosa più importante, anche i bambini molto empatici possono essere «assorbiti» emotivamente quando perseguono i propri obiettivi o quando i propri desideri sono in conflitto con quelli altrui. Perciò, come chiunque altro, richiederanno induzioni, e, in realtà, sono quelli che più possono farne tesoro. In altri termini, neanche l 'empatia matura, per sé sola, rende il bambino consapevole dei danni che le sue azioni possono arrecare ad altri né, per sé sola, lo rende morale. Essa, piutto­ sto, fa sì che il bambino sia ricettivo a situazioni che possono renderlo consapevole delle conseguenze delle proprie azioni, contribuendo così al suo sviluppo morale. In questo capitolo

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ho sostenuto che le induzioni sono parte necessaria di tali si­ tuazioni, e ho proposto una teoria sul modo in cui le induzioni fanno leva sull'inclinazione empatica del bambino e favoriscono il suo sviluppo morale. Il senso di colpa è una cosa diversa. È probabile che i ge­ nitori ricorrano all'induzione prima che il bambino sia capace di un vero e proprio senso di colpa. Il senso di colpa ha diversi prerequisiti oltre la consapevolezza della sofferenza altrui: un senso di controllo sulle proprie azioni, la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, la capacità di attribuzione causale e quella di distinguere i risultati intenzionali da quelli accidentali. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di abilità cognitive e di regolazione delle emozioni che possono servire tanto a fini egoistici quanto a fini prosociali. Mano a mano che il bambino acquisisce tali abilità, esse possono essere re­ clutate negli incontri disciplinari e integrate con la sofferenza empatica e l' autobiasimo per produrre quella configurazione prosociale motivazionale-cognitiva che chiamo senso di colpa su base empatica. Questa integrazione avviene più facilmente in risposta alle induzioni che non a qualunque altro metodo di socializzazione noto. Io assumo che l'acquisizione da parte del bambino della capacità di sentirsi colpevole si traduca in una sollecitazione aggiuntiva all'uso dell'induzione da parte dei genitori. Alla fine, secondo la teoria, le induzioni non sono più necessarie, salvo forse nelle situazioni nuove o ambigue. Per saggiare in modo conclusivo queste idee e per deter­ minare una volta per tutte quali relazioni vi siano tra indu­ zione, empatia e senso di colpa sarebbe necessario condurre ricerche longitudinali e usare modelli di equazioni strutturali o altri metodi del genere. Osservazioni e prove dovrebbero iniziare quando i bambini hanno meno di 2 anni, giacché è a questa età che i genitori cominciano a ricorrere all'induzione con una certa frequenza; ciò renderebbe possibile determinare l'influenza dell'induzione sull'empatia e specialmente sul senso di colpa. DeVeer [ 1991] ha utilizzato il LISREL per studiare gli effetti dell'induzione sul senso di colpa a tre livelli di età e su un intervallo di due anni, ma i soggetti di età minore avevano 5 anni. In accordo con gli studi precedenti, c'era una correlazione positiva tra l'induzione e il senso di colpa a tutti e tre i livelli di età (5-6 anni, 7-8 anni, 8- 1 O anni), ma non 206

c'erano le prove di una relazione causale - vale a dire che le correlazioni cross-lagged non erano significative. DeVeer sug­ gerisce, e io concordo con lui, che l' assenza di una relazione causale possa essere dovuta ali' età troppo elevata dei soggetti, cioè che a 5 o 6 anni d'età l'influenza reciproca tra induzione, empatia e senso di colpa possa essere già all'opera, e che ciò possa occultare il contributo iniziale dell'induzione al senso di colpa del bambino. Per accertare un'influenza causale bisogna studiare soggetti di età inferiore. Spero di avere chiarito la mia tesi di fondo. L'influenza del bambino sulla scelta dei metodi disciplinari da parte dei genitori è innegabile, ma ciò non sminuisce l'importanza della disciplina genitoriale per lo sviluppo morale dei bambini. Il riconoscimento della bidirezionalità degli effetti solleva nuove questioni, ma, di per se stesso, non fornisce risposte; è qualcosa che rende più difficile l' accertamento dei processi di influenza genitoriale, ma questa non è una ragione per smettere di stu­ diarli - semmai, per studiarli in nuovi modi.

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ERZA ESSIONE VIRTUALE

CAPITOLO SETTIMO

SENSO DI COLPA RELAZIONALE E ALTRI SENSI DI COLPA VIRTUALI

Una volta che il bambino ha acquisito gli scripts Trasgressio­ ne � Senso di Colpa e la consapevolezza di aver danneggiato qualcuno lo fa sentire in colpa, potrà sentirsi in colpa ogni volta che crede di avere trasgredito, anche quando ciò non è vero. A questo do il nome di senso di colpa virtuale, e al presunto atto nocivo do il nome di trasgressione virtuale. Nelle trasgressioni virtuali, la persona non ha causato sofferenza in altre persone, almeno non di proposito, ma se ne assume comunque la colpa. La nozione di senso di colpa virtuale non è nuova: una delle definizioni del termine guilt nel Webster's Ninth New Collegiate Dictionary [ 1 985 ] è: «senso di colpa, specialmente per violazioni immaginarie» [ibidem, 542 ] . I primi esempi di trasgressione virtuale nel corso dello sviluppo sono stati riportati da Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King [ 1 979] . Dei bambini dai 1 5 ai 20 mesi di età che vedevano la madre triste o in lacrime senza alcuna ragione apparente si rattristavano a loro volta, si avvicinavano alla madre e cerca­ vano di consolarla. Ciò suggerisce che provassero sofferenza empatica (ma forse anche una certa ansia, giacché quella era la loro madre, la fonte della loro sicurezza) . Cosa più importante in questo contesto, circa un terzo di questi bambini sembrava­ no rimproverare se stessi della sofferenza della madre, poiché dicevano cose come: «Mamma, scusami, ho fatto qualcosa di male?», o si percuotevano. Non vi sono prove che si sentissero effettivamente in colpa: forse si limitavano a imitare la condotta di altre persone in situazioni simili. Vi sono però prove che la loro condotta rifletteva almeno una forma elementare di au­ tobiasimo: in valutazioni di laboratorio condotte cinque anni dopo, i bambini che avevano m anifestato questo quasi-senso di colpa producevano più temi di colpa rispetto agli altri bambini [Cummings et al. 1 986] . 211

Sono quattro i fattori che possono aver concorso a far sì che bambini tanto piccoli potessero autorimproverarsi: a) erano tra i bambini più empatici del campione, e pertanto erano particolarmente sensibili ai cambiamenti di umore della madre; b) i loro schemi causali elementari, fondati sulla vici­ nanza temporale e spaziale degli eventi, potevano averli indotti a concludere: «Ero lì vicino, perciò l'ho fatto io»; c) il loro senso di agentività (agency), dell'avere influenza sugli altri, che è potente ma limitato a una confusa consapevolezza dell'essere (o non essere) causa di ciò che accade, li poteva avere indotti a pensare: «Forse sono stato io»; e d) il loro ricordo di casi precedenti nei quali erano stati inequivocabilmente causa della sofferenza della madre poteva aver favorito la conclusione: «Ero stato io altre volte, forse sono stato io anche stavolta». Inoltre, questa combinazione di fattori potrebbe provocare una forma di autobiasimo quando la causa della sofferenza ma­ terna non è evidente: «È triste, io sto vicino a lei; potrei averla rattristata; già l'ho fatto altre volte. Perciò devo essere stato io». In tal caso, questo autobiasimo potrebbe essere il precursore iniziale di un tipo di senso di colpa fondato sull'empatia che ritengo sia intrinseco alle relazioni strette: il «senso di colpa relazionale». Ci volgiamo ora alle forme più mature di questo tipo di sentimento. l.

Senso di colpa re/azionale

Le relazioni strette sono necessarie per una vita emozionale pienamente soddisfacente, ma c'è un prezzo da pagare. I sog­ getti dello studio di Baumeister, Stillwell e Heatherton [ 1 995] erano adulti cui veniva chiesto di descrivere l'ultima volta in cui si erano sentiti colpevoli; la categoria di risposta più nutrita era l'avere trascurato l'altro membro della relazione; un 'altra era il non avere tenuto fede a un impegno interpersonale. Ciò presumibilmente è dovuto al fatto che le relazioni strette offrono innumerevoli opportunità per ferire l'altro: «da sgarbi banali e involontari, commenti frettolosi o appuntamenti dimenticati, a offese più gravi: fiducia tradita, menzogne sfacciate, umilianti infedeltà» [Tangney e Fischer 1995, 134] cioè, innumerevoli opportunità di provare senso di colpa per trasgressione. -

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Ma le relazioni strette offrono anche innumerevoli oppor­ tunità di considerarsi colpevoli anche quando si è innocenti. Il legame tra i membri della relazione è tale che i sentimenti e gli stati d'animo dell'uno dipendono strettamente da quelli dell'altro e dalle sue azioni. Inoltre, cosa più importante, ognu­ no dei due sa che l 'altro o l'altra dipende da lui o da lei allo stesso modo, e di fatto, a causa delle innumerevoli interazioni che si succedono nel tempo, è probabile che ognuno diventi acutamente consapevole dei nuovi e imprevedibili modi in cui può ferire inavvertitamente l'altro. Insomma, ognuno dei membri sviluppa un'intensa sensibilità per le ripercussioni che le sue parole e le sue azioni possono avere sull'altro. Può dunque apparire perfettamente ragionevole che quando l'uno è triste o scontento e non ne è chiara la causa, l ' altro non solo provi sofferenza empatica ma si consideri anche respon­ sabile di quella condizione e si senta in colpa. Se fosse certo della propria innocenza potrebbe anche non sentirsi colpevole, ma ciò presuppone l'esistenza di accurate registrazioni mentali delle interazioni nelle quali si è (o non si è) ferito l'altro, e questa è una forma di contabilità emozionale poco comune nelle relazioni strette. All'incertezza bisogna aggiungere tutti i modi di danneggiare il prossimo - esclusivi delle relazioni strette - che dipendono dagli stati d ' animo e dalle aspettative mutevoli e a volte imprevedibili dell'altro, che è possibile ferire o violare inavvertitamente, come accade quando non si tiene fede a un impegno, non si presta la dovuta attenzione all'altro, o si compiono azioni come quelle elencate sopra da Tangney e Fischer. Perciò, sentirsi colpevoli della sofferenza dell'altro quando non ne è chiara la causa può essere un male endemico delle relazioni strette. Lo chiamo «senso di colpa relazionale» perché la sua causa, più che un atto concreto, è la relazione stessa, e lo annovero tra le trasgressioni virtuali perché non si basa su trasgressioni reali, ma presunte. Il senso di colpa relazionale non agisce necessariamente da solo; spesso il suo effetto è quello di intensificare il senso di colpa per trasgressione quando si è fatto davvero qualcosa a danno dell 'altro. Il caso del ragazzo che era rientrato tardi senza avvertire la madre (vedi il cap. VI) è un esempio del genere. Il figlio si sentiva colpevole di non avere chiamato la madre (colpa per trasgressione), ma l'intensità di quella 2 13

colpa era amplificata dal senso di colpa relazionale per avere «deluso» la madre ( «Prego Iddio di non farla mai più sentire COSÌ)) ) . Ecco due (meno drammatici) esempi di senso d i colpa re­ lazionale. Una studentessa universitaria racconta che un giorno si sentiva «davvero giù. Il mio ragazzo, quasi in lacrime, mi chiese: "Che cosa ti ho fatto ? " e io gli risposi che non mi aveva fatto niente. Lui insistette. Gli ripetei che no, non era colpa sua. Lui ribatté: "Allora perché sei così giù ? " . Risposi che non lo sapevo, ma che non era per colpa sua. Ma lui ripeté: " Devo avere fatto qualcosa")). Un'altra studentessa racconta: «Il mio ragazzo aveva l'a ria preoccupata e capii subito che era per qualcosa che avevo fatto. Gli chiesi che cos'era che non andava, e mi rispose che non lo sapeva. Allora capii che era perché aveva speso troppo per il mio regalo di compleannm). Alcuni aspetti delle relazioni strette dai quali dipende il senso di colpa relazionale sono presenti nelle relazioni tra madre e figlio nei primi due anni di vita, e possono spiegare perché i bambini di cui abbiamo parlato sopra si sentissero colpevoli quando vedevano la madre afflitta senza ragioni apparenti. Il bambino piange e la madre accorre immedia­ tamente; se lui si è ferito o sta male, oppure se fa male alla madre (per esempio, le tira i capelli senza farlo apposta) , lei risponde con espressioni vocali, facciali o corporee di dolore o pena. Il bambino comincia a gattonare, a camminare o a parlare, e la madre esprime tutta la sua gioia. Le risposte della madre ai bisogni e alle azioni del bambino, oltre a in dicare esplicitamente quanto suo figlio sia importante per lei, pos­ sono far sì che il bambino si senta onnipotente nei confronti della madre; di conseguenza, molto prima dello sviluppo di una «teoria della mente)) che gli permetta di in/erire quale sia l'impatto delle sue azioni sugli altri, il bambino, per semplice associazione, può collegare le sue azioni ai cambiamenti im­ mediati nello stato d ' animo della madre. In questo contesto, come accade nelle relazioni fra adulti, è ragionevole che il bambino, specialmente se è empatico, creda che se la madre si rattrista o piange senza una causa evidente sia per qualcosa che lui o lei ha fatto. L'emergere dell' autobiasimo negli infanti può prefigurare l' autobiasimo nelle relazioni tra adulti, ma le differenze dovreb214

bero essere chiare: a differenza della relazione unidimensionale tra una madre e il figlioletto - tra chi accudisce e chi è accudito -, le relazioni fra adulti intercorrono tra pari e sono molto più sfaccettate. L' autobiasimo nelle relazioni fra adulti non è dovuto a uno sviluppo incompleto dei rispettivi schemi causali, ma al fatto di sapere, per esperienza, che vi sono modi impercettibili di farsi del male l'un l'altro che a volte diventano evidenti solo dopo molto tempo, che l'uno può fraintendere parole e azioni dell'altro, che la memoria di incontri passati che potrebbero spiegare la sofferenza dell'altro è limitata. L'autobiasimo nelle

relazioni tra adulti dipende da una complessa rete di interazioni nella quale ognuno sa di essere importante per l'altro, ma non è certo della causa dello stato emozionale dell'altro in un determi­ nato momento. E se uno è afflitto e non ne è chiara la causa, è possibile che l'altro se ne attribuisca la colpa, proprio come fanno gli infanti (anche se per ragioni differenti) . Quando una persona commette un suicidio, è possibile che il compagno o la compagna si senta colpevole («Avrei dovuto capire che era depresso»; «Se solo avessi [o non avessi] . . . »). Ciò si ricollega alla generale tendenza umana, evidente anche nel caso del senso di colpa per inazione (cap. IV) , di imma­ ginare che cosa si sarebbe potuto fare per evitare un evento dannoso, passare dall ' «avrei potuto» all' «avrei dovuto», e sentirsi colpevoli. Dire a posteriori quel che si sarebbe potuto fare è facile, ma, siccome è praticamente impossibile saperlo a priori, in realtà non si è fatto nulla di sbagliato. Tuttavia si può trascurare questa impossibilità, rimproverarsi e sentirsi in colpa. La parte «avrei potuto» molte volte è vera; è il passo che conduce all' «avrei dovuto» che è illogico e sfocia nel senso di colpa; eppure le persone lo compiono continuamente, e perciò questo è un eccellente esempio di trasgressione virtuale. Questo sentimento dell' «avrei dovuto» naturalmente non si limita al suicidio. Nelle relazioni strette, ci si può sentire colpevoli per non avere fatto qualcosa che impedisse all'altro di avere un grave incidente, un infarto o un colpo apoplettico. Ecco un esempio drammatico, che mostra anche quanto sia intenso l'effetto della combinazione tra il senso di colpa rela­ zionale (per non avere prestato abbastanza attenzione all'altra persona) e il senso di colpa per trasgressione (per avere avuto scontri e litigi con lei):

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Quando mia madre morì mi sentii colpevole . . . come se fosse tutta causa mia. Pensavo che se l' avessi seguita più da vicino e l'avessi aiu­ tata, non sarebbe morta . . . Era un'alcolista e io lo sapevo, ma invece di aiutarla e cercare di capirla litigavo con lei. [Morì] per un colpo apoplettico. Anche di questo ho colpa, perché prima che la portassero in ospedale avemmo una discussione . . . [Subito dopo la morte] co­ minciai a pensare e ripensare a tutte le cose che avrei potuto fare per evitarle quella fine . . . Mai mi ero seduta accanto a lei per parlarle . . . Avrei dovuto essere più aperta . . . non pensare ai miei problemi . . . così avrei potuto aiutarla . . . [C'erano tante cose che avrei potuto fare. E c'erano tante cose che feci e non funzionarono. Avrei dovuto insistere.] [Lindsay-Hartz, De Rivera e Mascolo 1995 , 277 ] .

Il senso di colpa relazionale è più intenso in certe relazioni disfunzionali, come quelle descritte da Baumeister, Stillwell e Heatherton [ 1995 ] , nelle quali una persona tende a esagerare la propria sofferenza proprio perché l'altra si senta più col­ pevole. D'altro lato, il senso di colpa relazionale può essere evitato badando scrupolosamente a non ferire l'altro, benché ciò possa togliere spontaneità alla relazione e possa ind urre le persone a nascondere le preoccupazioni per la propria salute (e ad essere troppo sensibili ai sintomi di malattia dell'altro, poiché ognuno suppone che l 'altro faccia la stessa cosa) . Quando proviamo un senso di colpa relazionale il meglio che possiamo fare è esprimerlo, e utilizzare le informazioni correttive fornite dall'altro per capire meglio se gli abbiamo fatto davvero del male. In questi casi, col tempo, la sincerità dovrebbe ridurre questo tipo di senso di colpa, benché non sia priva di controindicazioni - ad esempio, potrebbe rivelare divergenze inconciliabili o verità scomode che potrebbero mettere in pericolo la relazione. Un ultimo punto: il senso di colpa relazionale, come altri tipi di senso di colpa su base empatica, può avere una funzio­ ne prosociale. Rende meno probabile danneggiare, deludere, trascurare o allontanare l'altro, e muove a prestare attenzione, esprimere sentimenti positivi e, in generale, ad agire in modo da rafforzare la relazione. Poiché a volte danneggiamo davve­ ro coloro cui siamo vicini, queste manifestazioni di interesse possono aiutare anche a neutralizzare le conseguenze di quelle azioni dannose alle quali non diamo importanza. Esprimere un senso di colpa relazionale e ricevere dall'altro informazioni 216

correttive è probabilmente tipico di una buona relazione e, col tempo, permette di ridurre il senso di colpa relazionale: ognuno dei due sa che l'altro non intende fargli del male e pensa che anche l'altro senta così.

2 . Senso di colpa per assunzione di responsabilità La responsabilità nei confronti degli altri si sviluppa con gli anni e con la maturazione, ma anche in questo caso c'è spesso da pagare il prezzo del senso di colpa. I genitori si sentono responsabili dei figli, e se uno di questi si ammala e muore si rimproverano e si sentono colpevoli; e sono convinti, contro ogni evidenza, che avrebbero potuto fare qualcosa per prevenire la malattia [Chodoff, Friedman e Hamburg 1964] . Analogamente, vi sono lavori nei quali si è responsabili della vita altrui e se qualcosa va storto il senso di colpa può essere particolarmente intenso. Quella che segue è la testimo­ nianza di un sergente di polizia - uno dei soggetti studiati da Lindsay-Hartz, De Rivera e Mascolo [ 1 995 , 290] che durante un'operazione di polizia aveva visto due suoi agenti cadere colpiti dalle pallottole di un cecchino appostato nelle vicinanze all'insaputa di tutti; il brano illustra i pensieri autorecriminatori che una persona in una posizione di responsabilità può avere quando avviene una disgrazia, anche se quella persona non ha nessuna colpa: -

Ero io che prendevo le decisioni in quella situazione [guidare gli agenti che avanzavano lungo la strada] . . . La responsabilità era mia . . . Lui fu colpito e io no . . . Fui io a guidarlo a quella porta . . . Se fossi stato più lento o più veloce . . . Se avessi scelto il lato destro della strada anziché quello sinistro . . . Ho fatto qualcosa di sbagliato? . . . Avrei po· tuto agire diversamente? . . . Ero io il responsabile . . . Avremmo potuto arrivare alla porta un secondo prima . . .

Ma non è necessario essere in una posizione di responsabilità per provare senso di colpa per assunzione di responsabilità: A Natale la mia migliore amica tornò dall'università. Venne a stare a casa dei miei. Una sera andai a teatro con i miei genitori. Quella sera lei uscì con il suo ex ragazzo e rimase incinta. Da allora ebbe ogni sorta

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di problemi. Sembra assurdo, ma non posso togliermi dalla testa che non avrei dovuto !asciarla sola; se fossi restata con lei non le sarebbe successo niente (studentessa universitaria) .

Una persona può sentirsi i n colpa per responsabilità s e fa accidentalmente male a qualcuno, anche se ha cercato di evitare la disgrazia, la logica assicura che non ha nessuna colpa e i testimoni attribuiscono la colpa alla vittima. Come ho già osser­ vato, una persona può guidare rispettando scrupolosamente il limite di velocità, eppure può sentirsi profondamente colpevole se investe un bambino che, sbucando tra le auto parcheggiate, è corso in mezzo alla strada. In uno dei miei studi sul senso di colpa, i soggetti dovevano completare la storia di un bambino, un alunno di settima classe, che, insieme con un amico, va in slitta lungo un pendio innevato. Un cartello sulla pista dice chiaramente che tutti hanno l'obbligo di risalire il pendio da un lato, non al centro, per non essere investiti delle slitte che scendono, e il bambino avverte l'amico di quell'obbligo. Tut­ tavia, durante una discesa, è costretto a cambiare bruscamente direzione per evitare un tronco; vede l'amico che sta risalendo il pendio nel bel mezzo della pista, proprio davanti a lui; cerca di evitarlo, ma non fa in tempo. L'amico, gravemente ferito, viene trasportato con urgenza all'ospedale. Tutti gli dicono che non è stata colpa sua, ma dell' amico. Per giunta, lui sapeva benissimo di avere avvertito l' amico. Eppure nella maggior parte dei finali della storia il bambino si sente colpevole: «Se gli avessi impedito di risalire il pendio, non sarebbe finito all'ospedale»; «l suoi genitori continuavano a dirgli che non aveva colpa, ma lui era convinto di averla»; «Sapeva che non avrebbe dovuto sentirsi colpevole perché aveva avvisato l'amico, ma si sentiva malissimo»; «Avrei dovuto controllare bene la discesa, se lo avessi fatto avrei visto che lì c'era un tronco». Penso che nel senso di colpa per assunzione di responsa­ bilità accada qualcosa di simile a quel che accade nel senso di colpa per inazione (cap. IV): rispondiamo empaticamente al dolore della vittima, ripercorriamo mentalmente gli eventi, ci rendiamo conto che avremmo potuto agire diversamente e impedire l'incidente, passiamo dall'avrei potuto all'avrei dovuto, ci rimproveriamo e ci sentiamo colpevoli. 218

3 . Senso di colpa evolutivo Se le relazioni strette sono il contesto delle trasgressioni virtuali di cui fanno parte il senso di colpa relazionale e, fino a un certo punto, per assunzione di responsabilità, una società individualista e competitiva come la nostra può fare dello sviluppo e del perseguimento di scopi e interessi personali il contesto per trasgressioni virtuali che implicano un «senso di colpa evolutivo». Così , una persona può convincersi che se lascia la casa dei genitori, ha più successo dei compagni o gode di benefici che altri non hanno, è responsabile di dan­ neggiarli.

3 . 1 . Senso di colpa per la separazione Nelle culture occidentali, separarsi dai genitori è parte inte­ grante della maturazione. Tuttavia, gli psicoterapeuti descrivono spesso pazienti entusiasti all'idea di lasciare la casa paterna per andare all 'università, ma che, ogni volta che ci pensano, provano sofferenza empatica e si sentono in colpa, quasi che, diventando autonomi e conducendo una vita indipendente, spezzassero il cuore ai genitori [M odeli 1 963 ] . In casi estre­ mi, qualunque successo personale o addirittura l'interesse per l'altro sesso possono far sentire in colpa una persona, perché ciò implica che è disposta a separarsi dai genitori. I genitori possono contribuire al senso di colpa per la se­ parazione trasmettendo al figlio messaggi contraddittori: da un lato, gli chiedono di crescere e di perseguire mete ambiziose e si mostrano entusiasti dei suoi successi; d'altro lato, gli co­ municano quanto sia importante per loro, e quanto sarebbero infelici se lui li lasciasse. Il senso di colpa per la separazione ha convinto un mio caro amico a rinunciare a una prestigiosa università per frequentarne una di provincia, una decisione che ha rimpianto per il resto della vita. Il fatto che sua madre gli dicesse che se avesse voluto andarsene non gli avrebbe sbarrato la strada ma certo sarebbe stata infelice non gli fu d'aiuto. E natu ralmente un figlio può rendersi conto dell'ansia dei geni­ tori per la separazione anche quando essi la esprimono meno esplicitamente della madre del mio amico. 2 19

Tu tti i genitori, probabilmente, hanno sentimenti ambiva­ lenti di fronte alla prospettiva che i figli se ne vadano da casa, e perciò tutti i figli, in qualche misura, provano senso di colpa per la separazione. Entro certi limiti, il senso di colpa per la separazione e l'ansia per l' ignoto (e la capacità di farvi fronte) possono far parte del processo di crescita, tanto quanto fare il grande passo e lasciare la casa paterna. Il senso di colpa per la separazione diventa disfunzionale quando impedisce di compiere questo passo. Si può supporre che i figli unici di genitori singoli siano più sensibili degli altri a questo tipo di senso di colpa, poiché, quando se ne vanno, il genitore resta solo.

3 .2 . Senso di colpa per il successo Un bambino di talento dipinge un quadro che attira l'at­ tenzione degli adulti e gli procura lodi e complimenti. I suoi compagni lo guardano avviliti. Quando gli insegnanti comin­ ciano a valutare i bambini confrontando i loro risultati con i risultati degli altri, piuttosto che con i loro risultati precedenti, un bambino di successo si rende ben presto conto che può far sentire gli altri inadeguati. Se un adolescente è il primo della fam iglia o del gruppo dei pari ad andare all'università, può sentirsi in colpa perché teme di menomare l'autostima degli altri: «Tolgo loro valore, se non ai miei occhi, ai loro». Certo, può suscitare negli altri un orgoglio vicario («Uno di noi ce l'ha fatta»), ma questo non è molto probabile nelle società che antepongono la riuscita individuale a quella collettiva. Il «confronto sociale», come Festinger e altri ci hanno insegnato molto tempo fa, è necessario per valutare i risultati in assenza di criteri oggettivi; ma il confronto sociale insegna al bambino che i suoi buoni risultati possono ridurre l'autostima dei suoi compagni; e, se prova empatia per loro, può sentirsi in colpa per il proprio successo. Per crescere mantenendo alta l' autostima è necessario - al­ meno negli Stati Uniti - avere successo, e il successo, dopo la quarta o quinta classe, viene misurato in relazione agli altri; di conseguenza, se abbiamo avuto successo vuoi dire che abbiamo fatto meglio degli altri, cosa che può minare la loro autostima. 220

Questo suggerisce che tutti coloro che hanno successo possano essere vulnerabili al senso di colpa per il successo. La coscienza del successo può avere un gusto dolceamaro, anche se non sembra che il senso di colpa per il successo sia abbastanza forte da interferire con la prestazione. È possibile che le persone più empatiche tra quelle di successo siano sensibili agli effetti della loro riuscita sull'autostima dei pari e si sentano per que­ sto in colpa, senza che ciò impedisca loro di avere successo e di esserne soddisfatti. Non sono stati condotti studi sul senso di colpa per il successo, ma una delle cause della «paura del successo», stando alle ricerche degli scorsi anni Settanta, era che di conseguenza «gli altri si sentiranno dei falliti».

3 . 3 . Senso di colpa per la ricchezza I bambini più grandi e gli adolescenti sono sensibili alle differenze nel tipo di vita prodotte dalla ricchezza, e se sono più ricchi degli altri possono sentirsi in colpa [Hoffman 1 989] . Il senso di colpa dovuto alla ricchezza, o alla classe sociale, è evidente nelle risposte degli attivisti per i diritti civili degli anni Sessanta intervistati da Keniston [ 1 968] . A quanto pare, quando diventarono consapevoli della differenza tra la loro vita privilegiata e l'esistenza precaria di tanti altri, la loro sofferenza empatica nei confronti dei membri svantaggiati della società si trasformò in un «senso di colpa per la ricchezza». Keniston osserva che gli attivisti sociali erano individui molto empatici e simpatetici, che avevano provato uno shock quando avevano capito «dawero» che i benefici di cui godevano non erano condivisi da tutti e si erano resi conto dell'enorme divario tra la loro vita agiata e la miseria nella quale tanti altri vivevano. Questa reazione è esemplificata dalla testimonianza di uno degli intervistati di Keniston, che parla di alcuni bambini messicani poveri conosciuti qualche anno prima: Dove vivevo io c'erano ventilatori e non si vedeva una mosca; loro vivevano in mezzo alle mosche. Io ero chiaramente destinato a essere qualcuno; loro a non essere nessuno . . . Sicché conclusi una specie di patto con quella gente: che quando fossi diventato una persona im­ portante, avrei potuto cambiare parecchie cose. E credo di aver tenuto fede a quel patto per molto tempo [ibidem, 50] .

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Questi giovani attivisti sembravano essere giunti alla conclu­ sione che grazie alla loro posizione di privilegio, e soprattutto alla loro educazione, potevano fare qualcosa per migliorare la vita dei meno fortunati, e che se non avessero fatto nulla si sarebbero resi responsabili della perpetuazione dello stato di cose che tanto lamentavano - un genere di senso di colpa per inazione che serviva da motivazione per il loro impegno prosociale. La forza motivazionale prosociale del senso di colpa per la ricchezza è esemplificata dalla testimonianza sui bambini messicani appena riportata 1 • L e dichiarazioni e l e azioni degli attivisti degli anni Sessanta indicano che il senso di colpa per la ricchezza presuppone due condizioni: a) il contatto con i meno fortunati: quello diretto, che permette di farsi un'idea chiara della loro vita, come accadde in quegli anni ai volontari dei Peace Corps e ai Volunteers in Service to America (Vista), o quello indiretto, reso possibile dai libri, dalla televisione, dai viaggi e dalle scienze sociali; e b) il venir meno di una giustificazione culturale delle enormi discrepanze economiche - un processo iniziato già prima degli anni Sessanta con le prove scientifiche contro la superiorità di questa o quella razza e la diminuita influenza delle religioni che vedono il benessere personale come un segno della grazia divina. Oggi il senso di colpa per la ricchezza sembra essere meno frequente, forse perché le occasioni di contatto diretto 1 Gli attivisti radicali non sono i soli a pensarla così. «Newsweek>> cita la testimonianza di David Hilfiker, un medico che aveva smesso di esercitare nel Minnesota rurale e si era trasferito con la moglie e tre figli nella zona più povera di Washington. Egli era convinto che «noi che fin da bambini abbiamo avuto istruzione e opportunità, il nostro benessere, più che meri tarlo, l' abbiamo ereditato, e certo non lo meritiamo quanto i poveri e gli oppressi» (22 agosto 1994 , 60). Posseggo un ritaglio di giornale (senza indicazione di fonte) nel quale si legge di una cospicua donazione a beneficio della Min· neapolis Association for Retarded Children da parte di Francis Tarkenton, uno dei migliori quarterbacks nella storia della National Football League. Ecco le sue parole: «Lo sport mi ha dato molto sul piano economico. Ma a volte quando incontro persone bisognose e parlo con loro provo un certo imbarazzo. Voglio dire, penso alla mia vita e mi dico: " Vivi bene, sei ricco, le emozioni non ti mancano " . Dopo di che mi vengono in mente tutti quei nobili discorsi sull'importanza di aiutare chi soffre. Tutti cerchiamo di aiutare gli altri, ogni tanto. Ma io penso che una persona debba sempre chiedersi: "Quel che di me condivido con gli altri è abbastanza ? " . . . Considero un privilegio poter dare qualcosa. Vorrei che potesse essere molto di più».

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sono più rare (eccezion fatta per i senzatetto) , il valore culturale del successo materiale e dell'accumulazione della ricchezza è in rialzo, e i programmi di discriminazione positiva (a/firmati­ ve action) sembrano aver inferto un duro colpo alle disparità economiche. Pare perciò che il senso di colpa per la ricchezza , benché dal punto di vista evolutivo sia una forma avanzata del senso di colpa, che si fonda sullo stadio finale dell'empatia (cap. III) , sia con ogni probabilità confinato storicamente a certi tempi e luoghi. Le affermazioni e le azioni degli attivisti sociali mostrano che il senso di colpa per la ricchezza può essere una motivazione più efficace del senso di colpa per trasgressione: se si vuole alleviare la sofferenza umana, un atto di riparazione isolato non basta: occorre un impegno continuo. E, come nel caso del senso di colpa dello spettatore, se la persona non fa nulla continuerà a sentirsi in colpa; se la prenderà con la vittima; provvederà a una ristrutturazione cognitiva per giustificare l'inazione, o per negare o legittimare il proprio privilegio: «Hanno i loro divertimenti e si godono la vita che fanno», «Ho lavorato sodo per ottenere quello che ho» (poco pertinente se la ricchezza è ereditata o frutto di un investimento azzeccato) . Senso di colpa per appartenenza sociale. S e poi l a persona considera responsabile la sua classe sociale, il senso di colpa per la ricchezza può tradursi in un «senso di colpa per apparte­ nenza sociale». Quando fu chiesto a un borsista del Congresso perché mai tanti giovani di classe media «si opponessero a un sistema che aveva dato loro vantaggi e opportunità>>, egli espresse chiaramente sia un senso di colpa per la ricchezza sia un senso di colpa per appartenenza sociale: Si sentono in colpa perché mentre loro godono del tenore di vita più alto, gli indiani d'America patiscono la fame e i ghetti neri sono il regno dei ratti . . E intanto loro mangiano bistecche tutti i giorni. È impossibile vedere tutto questo senza provare indignazione morale; ed essi si rendono conto che la responsabilità grava sulla loro classe [ «New Republic», 28 novembre 1 970, 1 1 ] . .

Il senso di colpa per la ricchezza e per l'appartenenza sociale si acuisce quando una persona pensa che la sofferenza delle vittime vada a suo vantaggio, e che il suo benessere e il suo tenore di vita in realtà dipendano dalle fatiche e dai sacrifici di 223

altre persone. Questo era il caso di alcuni degli attivisti degli anni Sessanta, che pensavano che i loro genitori, alcuni dei quali erano banchieri o dirigenti d 'azienda, sfruttassero il prossimo a proprio vantaggio. Qualche anno prima, George Orwell [ 1 958] aveva espresso il medesimo pensiero: «Ci si convince, almeno nel momento in cui si guardano [dei minatori al lavoro] , che . . . tutti noi dobbiamo realmente la relativa decenza della nostra vita a quei poveri schiavi sotterra, anneriti fino agli occhi, con le gole piene di polvere di carbone, che spingono avanti le loro pale» [ibidem, tra d. i t. 1982 , 3 7 ] . Un'altra dimensione, forse una forma più avanzata del senso di colpa per la ricchezza su base empatica, è quella descritta ancor prima da J ames Agee [ 194 1 ] . Agee, un giornalista e scrittore eccezionalmente empatico, scrive di essersi sentito pro­ fondamente in colpa nel vedere persone «che la miseria riduce in condizioni indecorose e imbarazzanti, e nel sapere che non ti puoi identificare veramente con loro perché puoi tornare alla tua vita di prima non appena lo desideri» [ibidem, 4 1 7 ] . Benché anche gli adulti maturF possano sentirsi in colpa per la propria ricchezza o per la classe sociale d'appartenenza, classifico questo tipo di sentimento come senso di colpa evolu­ tivo perché sembra più frequente fra gli adolescenti e i giovani adulti (o almeno così era negli anni Sessanta) e perché può avere un ruolo importante nello sviluppo morale prosociale, come mostrano gli esempi precedentP. In uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari tedeschi, il senso di colpa per la ricchezza era associato con un'assunzione di responsabilità

2 Una mia collega in viaggio turistico in Spagna fu derubata da un di· pendente dell'albergo e denunciò l' accaduto. Quando venne a sapere che il colpevole era stato licenziato su due piedi si sentì ter rib il m ente in colpa per «avergli fatto perdere il posto di lavoro. Avrei dovuto stare più attenta, non avrei dovuto lasciare il portafogli così in vista». J Ma che ne è stato di loro? Alcuni fecero carriera nel mondo degli affari e della finanza. Altri, secondo un'inchiesta condotta dal «New York Times» verso la metà degli anni Settanta, scelsero di lavorare come insegnanti nei quartieri poveri, assistenti sociali o avvocati dei consumatori, o di occuparsi dei problemi medici e legali della povertà. Ma molti di questi scoprirono ben presto che non potevano cambiare granché lo stato delle cose, e si dedicarono ad attività più remunerative e più gratificanti; costoro si sentivano colpevoli di avere fatto troppo poco per i poveri e di avere voltato loro le spalle [Starr 1974; vedi anche Franz e McClelland 1994].

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per i mali della società e risultò predire il comportamento po­ litico prosociale meglio della sofferenza simpatetica [Montada e Schneider 1 989] .

4.

Senso di colpa del sopravvissuto

Come è noto, le persone che vedono altri morire o essere gravemente feriti mentre loro restano incolumi, spesso si sentono colpevoli di essersi salvate. Questo senso di colpa si compone di emozioni in conflitto: gioia per la soprawivenza, dolore empatico per le vittime. Se a ciò si aggiunge il segreto sollievo perché il peggio è toccato a qualcun altro, il risultato sarà un doloroso senso di colpa. Questo sentimento può essere la risposta del superstite alla domanda: «Perché io, perché mi sono salvato proprio io e non qualcun altro?» . Un individuo può sentirsi in colpa quando soprawive a disastri naturali (terremoti, inonda­ zioni, incendi ) , a catastrofi provocate dall'uomo (Hiroshima, l'Olocausto) , alla morte in battaglia di commilitoni, ad attacchi terroristici, incidenti aerei e automobilistici, al suicidio o alla morte di familiari, a una riduzione di personale (benché in questo caso il senso di colpa per la soprawivenza possa essere temperato dalla paura di essere il prossimo della lista). Meno noto è il senso di colpa che può provare una per­ sona che «sop rawive» a un ambiente sociale sfavorevole. La testimonianza di uno studente afroamericano a Harvard negli anni Settanta combina il senso di colpa per la soprawivenza e quello per la ricchezza ( e per il successo) , e ne illustra la forza motivazionale. Secondo questo studente, lui e quelli come lui avevano dovuto fare i conti con un profondo senso di colpa perché erano lì mentre le loro famiglie lottavano per sopravvivere nei ghetti neri . . . L'unico modo certo per alleviare il senso di colpa era [esigere] il «coinvolgimento» di Harvard, che significava, in concreto, [lottare per] un 'istruzione finalizzata a migliorare la vita di tutti i neri del paese . . . attraverso occupazioni, scioperi e altri tipi di dimostrazioni [Monroe 1 97 3 , 46] .

Sono interessanti, a questo riguardo, le reazioni all'attentato di Oklahoma City da parte di persone che si trovavano a molti chilometri di distanza. Io mi aspettavo compassione, ma non

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necessariamente senso di colpa. Discutendo della strage con i miei studenti alla New York University, uno di loro disse: «Mi sentii in colpa per essermi tanto preoccupato dei miei voti e dell'ammissione alla scuola di specializzazione. E poi i bambini. Non riuscivo a smettere di pensare a tutte quelle madri in attesa di sapere se i figli si fossero salvati». Un altro studente dichia­ rò: «Tutte le mie preoccupazioni si dissolsero, mi sembrarono ridicole e vane. Provavo una grande pena per loro, dovevo fare qualcosa. Per la prima volta in vita mia, feci una donazione alla Croce Rossa. Non era molto, ma dovevo fare qualcosa». Altri studenti dissero che si erano sentiti coinvolti personalmente: «Sarebbe potuto succedere qui, ma, senza alcuna giustt/icabile ragione, è successo a Oklahoma City». Questo si direbbe un esempio di senso di colpa per la sopravvivenza, anche se quelle persone erano molto distanti dal luogo della sciagura. La ragione di questo tipo di senso di colpa non è del tutto chiara. Essa potrebbe risiedere nell'iniquità e mancanza di giustificazione di tale sopravvivenza. «Si potrebbe trattare della percezione inconscia di un equilibrio sociale organico che ci fa sentire che la nostra sopravvivenza è resa possibile dalla morte di altri: se quelli non fossero morti sarebbe toccato a noi, e se noi non fossimo sopravvissuti si sarebbe salvato qualcun altro>> [Lifton 1 968, 56] . Un'altra spiegazione può essere rica­ vata dall'ipotesi che il senso di colpa dell'unico sopravvissuto di una famiglia si debba al fatto che ciascuno di noi possiede «un sistema di contabilità inconscia che misura il " bene" di cui dispone la famiglia, in modo che la quantità di bene che tocca a uno dei suoi membri dipenda dalla sorte degli altri» [Modell 1 984, 76] . Così, se un individuo pensa di avere ricevuto più degli altri membri della sua famiglia, può sentirsi colpevole di avere ricevuto più di quanto gli spettasse e, di conseguenza, di aver preso per sé anche la parte che toccava a qualcun altro. Un siffatto sistema di contabilità inconscia potrebbe estendere il suo ambito di applicazione anche fuori della famiglia. Se così fosse, ciò potrebbe spiegare il senso di colpa per la ricchezza e quello per la sopravvivenza. Potrebbe spiegare, ad esempio, perché gli studenti della New York University si sentissero col­ pevoli della sorte delle vittime dell'attentato di Oklahoma City. E potrebbe spiegare anche i dati riportati da Schmitt, Bauerle e Donke [ 1989] secondo cui vi sono adulti che si sentono in colpa 226

per le disgrazie che colpiscono gli abitanti di altri paesi, sebbene possa corrispondere al vero quanto sostiene Lifton [ 1 968] , ov­ vero che il senso di colpa per la sopravvivenza è più frequente e intenso quando è relativo a familiari, parenti e amici.

5.

Senso di colp a per il privilegio

Il senso di colpa per la ricchezza non che è una forma del senso di colpa per il privilegio, ma non l'unica, come dimo­ stra la testimonianza di un tedesco che aveva aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti: «Non era giusto che fossi libero e al sicuro solo perché ero nato protestante. Questa fu la ragione principale [per cui aiutai gli ebrei] . . . [Ma il mio aiuto] fu di poco conto, perché, rispetto a tutte quelle persone che non meritavano minimamente quella sorte, io ero un privilegiato» [Oliner e Oliner 1 988, 1 66] . Ciò che questa persona sostiene, ciò che accomuna le sue affermazioni al senso di colpa per la ricchezza e per la sopravvivenza, e che può trasformare la sofferenza empatica in un sentimento di colpa, è l'impossibi­ lità di giustificare, e dunque di meritare, il proprio vantaggio rispetto alle vittime; questo privilegio, sia esso la sopravvivenza o il benessere mentre altri soffrono la fame o muoiono, viola i principi di equità, giustizia o reciprocità (vedi l' analisi della reciprocità nel cap . IX) . La persona prova un sentimento empatico di ingiustizia ( cap . IV) che si trasforma in senso di colpa perché essa è beneficiaria di quell'ingiustizia4 •

6.

Gli esseri umani sono macchine p er il senso di colp a?

Tutte le trasgressioni virtuali sono esistenziali nel senso che derivano dai normali aspetti esistenziali della vita: il sostegno reciproco e gli altri vantaggi delle relazioni strette, l 'amore e la dipendenza reciproca della vita familiare, il successo e la realizzazione personale. Inoltre, le trasgressioni virtuali non 4 Ciò non è vero del senso di colpa per il successo; in esso si dà per scontato che il privilegio sia stato ottenuto meritatamente, ma la persona si sente colpevole perché il confronto fa sentire gli altri inadeguati.

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sono del tutto «virtuali»: la maggior parte di esse contiene un germe di verità. In una relazione stretta, è facile che una persona sia causa della sofferenza dell ' altra; quando una persona è investita di una posizione di responsabilità ci si aspetta che preveda gli eventi e agisca con la massima effi­ cacia; è probabile che un genitore non sia felice quando il figlio se ne va da casa; se una persona ha successo, può ben darsi che i suoi pari si sentano inadeguati; data la scarsità di risorse, la ricchezza di una persona può contribuire, anche se indirettamente, all'indigenza di altre. Questi casi, tuttavia, non possono essere annoverati tra le trasgressioni reali, nonostante una certa sovrapposizione, perché il danno non è voluto, né si può dire che sia stato violato un principio morale ( almeno non nel senso occidentale). L'esistenza del senso di colpa virtuale conferma la mia tesi che gli esseri umani siano «macchine per il senso di colpa», il che è un bene, dato che, come abbiamo visto, il senso di colpa funziona da motivazione prosociale. Per finire, un confronto transculturale: sebbene i miei esempi di senso di colpa virtuale riguardino soprattutto gli Stati Uniti, ciò non vuol dire che gli Stati Uniti ne abbiano il monopolio. Ecco due esempi che riguardano il Giappone, un paese che combina modernità e tradizione, ed è stato considerato talvolta una cultura della vergogna più che del senso di colpa. Il primo è un caso - ai miei occhi stupefacente - di senso di colpa empatico per appar­ tenenza sociale. La citazione è tratta dal «New York Times». I fondi stanziati dal governo giapponese per la manutenzione del Tumulo delle Orecchie [Mimizuka] di Kyoto (un mausoleo in ricordo delle centinaia di migliaia di coreani cui i giapponesi mozzarono nasi e orecchie nel 1597, quando il Giappone invase la Corea) sono insuf­ ficienti, e perciò centinaia di volontari giapponesi e coreani tagliano l'erba e tengono pulito il tumulo. «Come giapponese sono addolorato per ciò che abbiamo fatto al popolo coreano, e perciò cerco di fare qualcosa per riparare» ha dichiarato Shiro Shmizu, 85 anni, un volon­ tario che abita vicino al Tumulo delle Orecchie («New York Times», 14 settembre 1997 , A3 ) .

TI secondo è u n caso ben noto d i senso di colpa per l a so­ pravvivenza: quello, studiato da Lifton [ 1 969] , degli scampati alla bomba atomica di Hiroshima. Anche quando erano grave-

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mente menomati e sfigurati, i superstiti si rimproveravano di «essere rimasti egoisticamente vivi», mentre altri erano morti. Non potevano semplicemente concludere dentro di sé che era giusto e logico che fosse toccato a loro, e non ad altri, sopravvivere; erano legati, al contrario, alla percezione inconscia di un equilibrio sociale organico che faceva credere loro di essere sopravvissuti grazie alla morte di altre persone: se quelle non fossero morte sarebbe toccato a loro, e se loro non fossero sopravvissuti si sarebbe salvato qualcun altro [ibidem, 56] .

Lifton sottolinea il ruolo del vantaggio relativo: I superstiti si sentivano colpevoli verso le vittime; i giapponesi comuni verso i sopravvissuti; il resto del mondo verso i giapponesi. Procedendo dal centro dell'esplosione mortale verso l'esterno, ogni gruppo si rappresenta la sofferenza del gruppo più vicino al centro, e la confronta con la sua relativa buona sorte [ibidem, 499 ] .

Lifton osserva poi che molti sopravvissuti provavano un senso di colpa aggiuntivo per non aver potuto aiutare gli altri. Il bisogno di aiutare era in loro fortissimo, e alcuni cercarono di soddisfarlo pregando per l'anima dei defunti: «Subito dopo la catastrofe lessi i testi sacri buddisti senza interruzione per una settimana . . . Nel buddismo si dice che le anime vagano angosciate da un luogo all'altro e che si rasserenano e si ac­ quietano se qualcuno legge loro i testi sacri» [ibidem, 3 75 ] . 7. Quattro processi che suscitano il senso di colpa Al di là dei vari tipi di senso di colpa empatico, ivi com­ presi il senso di colpa per la trasgressione e tutti quelli virtuali, vi sono quattro processi di attivazione del senso di colpa; in essi il senso di colpa è il prodotto della combinazione della sofferenza empatica con l' autobiasimo. l . Attivazione e integrazione della sofferenza empatica con l'auto biasimo in virtù di un intervento esterno. Dei processi che suscitano il senso di colpa questo è quello più importante per lo sviluppo del senso di colpa per trasgressione nei bambini (vedi il cap. VI) . Il fattore chiave è la disciplina induttiva, che suscita 229

s o fferenza empatica e rende il bambino consapevole dei danni che le sue azioni, realizzate o previste, possono arrecare agli altri. Questa consapevolezza trasforma la sofferenza empatica in sentimento di colpa. 2 . Attivazione e integrazione spontanee della sofferenza em patica con l'autobiasimo quando si è danneggiato qualcu­ no. Questo tipo di senso di colpa per trasgressione su base em patica è frutto a) di induzioni che pongono le premesse p erché venga superata la loro necessità e diventano, col tempo, s u perflue (come abbiamo visto nel cap. VI) ; e b) di progressi nello sviluppo cognitivo che fanno sì che il bambino si senta s pontaneamente colpevole dei danni prodotti dalle sue azioni e inazioni, e provi il senso di colpa anticipatorio per le conse­ guenze dannose di azioni soltanto pensate. 3 . Attivazione e integrazione spontanee della sofferenza patica con l' autobiasimo, in conseguenza di interazioni pre­ em denti con figure significative e delle ambiguità della situazione ce immediata. Questa è la modalità di attivazione principale del senso di colpa relazionale, benché vi sia un'enorme differenza di complessità tra il senso di colpa dell'infante verso la madre e il senso di colpa nelle relazioni adulte. 4 . Una volta che il senso di colpa per trasgressione su base patica diventa indipendente dagli incontri disciplinari che lo m e avevano originato e fa ormai parte del repertorio del bambino, esso può aggiungere una nuova componente al senso di colpa p er inazione che il bambino prova quando è spettatore, quella di avere trasgredito. Ciò perché qualunque senso di colpa, ivi compreso il senso di colpa per inazione, può attivare lo script Trasgressione -7 Senso di Colpa, che, tra le altre cose, fa sì che la persona senta di avere trasgredito. Lo stesso può valere per altri tipi di senso di colpa: relazionale, per la separazione, per il successo, per la ricchezza e per la sopravvivenza. Detto altrimenti: il senso di colpa per trasgressione su base empatica può essere il prototipo di tutti i sentimenti di colpa su base em patica, reali o immaginari che siano.

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PARTE QUARTA

L'EMPATIA È SUFFICIENTE?

CAPITOLO OTTAVO

LE LIMITAZIONI DELL'EMPATIA: SOVRATTIVAZIONE E BIAS

Dopo avere illustrato il contributo positivo della motiva­ zione empatica all'azione morale prosociale, passerò ora alle sue limitazioni, sviluppando alcuni temi che ho già esposto in passato [Hoffman 1 984 ; 1 987 ] . Le limitazioni si devono principalmente al fatto che l'empatia dipende dall'intensità e dalla salienza dei segnali di sofferenza e dalla relazione tra la vittima e l'osservatore. La prima limitazione sta nel fatto che, in generale, ci aspettiamo che l' intensità dell'attivazione empa­ tica sia maggiore quanto più intensa e saliente è la sofferenza della vittima; quanto più intensi e salienti sono i segnali di sofferenza, tanto più intensa sarà anche la sofferenza empatica dell'osservatore. Se però questi segnali sono troppo intensi e salienti, la sofferenza empatica dell 'osservatore può diventare così aversiva da trasformarsi in un sentimento di sofferenza personale. È ciò che chiamo «sovrattivazione empatica». La seconda limitazione è la vulnerabilità dell'empatia a due tipi di effetti: il bias di familiarità e il bias di immediatezza. Le ricerche (cap. II) mostrano che la maggior parte delle persone risponde con empatia e presta aiuto a chi manifesta sofferenza, estranei compresi (in quasi tutte le ricerche le vittime erano sconosciute), ma è stato mos trato anche che in genere le persone provano più empatia (hanno una soglia di sofferenza empatica più bassa) se le vittime fanno parte della loro fami­ glia o del loro gruppo primario, o sono amici stretti o hanno bisogni personali e interessi simili ai loro. E, poiché quasi tutti i processi che suscitano empatia (almeno quelli elementari, meno cognitivi) dipendono da indizi situazionali e personali immediati, le persone sono vulnerabili ai bias in favore delle vittime presenti nella situazione immediata. Perciò può darsi che un grido di dolore susciti più sofferenza empatica di una smorfia; il grido di un amico o di un parente più di quello di 233

uno sconosciuto; la sofferenza di una persona presente più di quella di una persona assente. Consideriamo in dettaglio tutte queste limitazioni. l . Sovrattivazione empatica Gli osservatori rispondono in modo empatico alla sofferenza altrui quando sono in una condizione di relativa serenità; se così non fosse, potrebbero essere troppo concentrati sui pro­ pri bisogni per essere aperti e ricettivi ai segnali di sofferenza dell'altro. Se un osservatore è ansioso perché potrebbe fallire o perdere l'approvazione, o se è in una situazione fisicamente molto fastidiosa (ad esempio, un ambiente rumoroso) , la sua tendenza a provare empatia per una persona che sta soffrendo può ridursi [per una rassegna, Hoffman 1 978] . Dal momento che la sofferenza empatica può essere per se stessa intensa e molto aversiva, l'osservatore può, a volte, distogliere l'atten­ zione dalla vittima e rivolgerla alla sofferenza sperimentata personalmente. Questa sovrattivazione empatica può essere definita come un processo involontario che ha luogo quando la sofferenza empatica dell'osservatore diventa così dolorosa e intollerabile da trasformarsi in un vivissimo sentimento di sofferenza personale, che può far uscire del tutto la persona dalla modalità empatica [Hoffman 1 978] . All'estremo opposto, la sofferenza empatica può essere troppo debole per motivare la condotta prosociale. La sofferenza empatica può dunque assumere tutti i valori tra l'eccesso di forza e l'eccesso di de­ bolezza, a seconda della salienza e dell'intensità dei segni di sofferenza. È entro questi estremi che ci si può aspettare che la sofferenza empatica (e presumibilmente quella simpatetica, la rabbia empatica, il senso di colpa e il sentimento empatico di ingiustizia) muova all' azione morale prosociale. La sovrattivazione empatica è un difetto che può parados­ salmente derivare, in parte, dalla più grande forza dell'empatia - le sue molte modalità d'attivazione. Nel capitolo secondo ho illustrato i vantaggi delle diverse modalità (la sensibilità della mimesi alle espressioni facciali delle vittime; la sensibilità del condizionamento e dell'associazione agli indici situazionali), e ho sottolineato che l'esistenza di più modalità è in se stessa van234

taggiosa, perché contribuisce ad assicurare la risposta empatica della vittima indipendentemente dal tipo di indizio disponibile. Lo svantaggio, aggiungo ora, è che, in virtù dell'azione combinata delle diverse modalità di attivazione, la sofferenza della vittima può suscitare in alcuni osservatori una sofferenza empatica così intensa da produrre in loro una sovrattivazione empatica, con tutte le conseguenze negative appena descritte. Ma per produrre una sovrattivazione empatica non è necessario che le diverse modalità operino simultaneamen­ te; in condizioni appropriate, ne può bastare una sola: ciò vale specialmente per l'assunzione di ruolo centrata su di sé. Mediante l'assunzione di ruolo centrata su di sé, qualunque segno di sofferenza può produrre una sovrattivazione empatica nell'osservatore se evoca eventi molto penosi del suo passato e il dolore e l'ansia che li avevano accompagnati: a volte ciò può far sì che la sofferenza empatica dell'osservatore sia più intensa della sofferenza reale della vittima. Questo è un tema poco studiato. Parlando della trasforma­ zione parziale della sofferenza empatica in simpatetica (cap. III), ho menzionato uno dei primi dati in letteratura interpretabili in chiave di sovrattivazione empatica: quello di Stotland e colleghi [ 1 979] , che riferiscono che durante l'addestramento le infermiere sperimentavano un conflitto tra il sentimento di sofferenza siro­ patetica, che include un intenso desiderio di aiutare i pazienti gravemente malati, e la propria sofferenza empatica, che, a volte, rendeva loro difficile persino stare nella stessa stanza con quei pazienti. I soggetti di uno studio di Strayer [ 1 993] erano bambini tra 5 e 13 anni ai quali venivano mostrate scene videoregistra­ te di persone in situazioni molto penose: un bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che impara a salire le scale con un bastone; un altro bambino separato dalla famiglia dalle autorità per l'immigrazione. Strayer trovò che quanto più era intensa la sofferenza della vittima, tanto più lo era la sofferenza dell'osservatore e tanto più questi concentrava la sua attenzione sulla vittima. Ma queste correlazioni venivano meno quando l'intensità della sofferenza empatica dell'osser­ vatore giungeva a superare quella della vittima. A quel punto, l'osservatore spostava l'attenzione dalla vittima a se stesso, secondo il fenomeno della «deriva egoistica» (cap. Il) . In altri termini, la sofferenza empatica dell'osservatore aumentava di 235

pari passo con la sofferenza reale delle vittime finché non la superava, facendo scattare la sovrattivazione empatica. Fatica da compassione. Una sfida che infermieri, assistenti sociali e altri professionisti della salute hanno di fronte, e che si è aggravata negli ultimi anni, nasce dai nuovi trattamenti che prolungano la vita dei malati terminali e danno più tempo per stabilire un legame con i pazienti; a peggiorare la situazione, con la diffusione dell'Aids è molto aumentato il numero di bambini e giovani adulti gravemente malati e vicini a morte. Il risultato è che molti operatori della salute che hanno a che fare quotidianamente con malati terminali di Aids o di cancro, come pure quelli che offrono consulenza e sostegno alle vittime di catastrofi naturali o provocate da uomini, sperimentano uno stato di sovrattivazione empatica frequentemente e per lun­ ghi periodi di tempo. Ciò li espone più che in passato a una condizione cronica, detta traumatizzazione vicaria (vicarious traumatization) o fatica da compassione (compassion /atigue) , alla quale devono fare fronte. Una possibilità è spegnere l'interruttore delle emozioni. «Questo è l'unico modo per minimizzare il dolore ed è un modo allettante», afferma uno specialista nel sostegno al lutto, che ha formato un gruppo di sostegno per operatori della salute [Pederzane 1998] . «Quando sai che puoi fare qualcosa per la tua stessa sofferenza, non hai troppa paura di farti coinvolgere». In una riunione del suo gruppo, un operatore sociale disse che stava vivendo un periodo particolarmente difficile per via di un bambino di 8 anni che era molto vicino a morire. «Non riesco a piangere», disse. «Non dormo. E se non dormo non ho la forza per dare una mano a quel bambino o a chiunque altro conti su di me. Sono arrabbiato. Arrabbiato con la malattia, arrabbiato con Dio. La rabbia è un guaio, e se sei arrabbiato con Dio allora sono guai seri» [ibidem, B2] . Figley [ 1995 ] afferma che gli psicoterapeuti che lavorano con pazienti che hanno subito un trauma spesso trovano molto difficile bilanciare l'oggettività con l'empatia. Quelli che non riescono a farlo in modo accettabile possono diventare tanto insensibili da non riuscire ad essere emotivamente disponibili verso il paziente; o possono essere tanto turbati e sdegnati traumatizzati in forma vicaria - per le descrizioni vivide, a volte particolareggiate, dei patimenti dei loro pazienti, da essere come 236

paralizzati e non riuscire ad aiutarli. Le immagini dei traumi subiti dai pazienti possono perseguitare il terapeuta e talvolta apparirgli dinanzi senza preavviso con la stessa evidenza delle proprie immagini interne. Storia dopo storia, paziente dopo paziente, giorno dopo giorno, l'effetto cumulativo può creare, secondo Figley, una condizione cronica. Figley è stato autore di uno studio nel quale ha intervistato dei veterani della guerra del Vietnam : essi raccontavano le loro esperienze traumatiche e le loro ripercussioni sulle loro relazioni interpersonali una volta fatto ritorno in patria. Figley riferisce che quelle interviste gli lasciarono un segno indelebile e aggiunge che, a volte, lo gettavano in uno stato di assoluta incapacità. Aveva incubi, le esperienze che gli erano state rac­ contate lo ossessionavano. Sentiva rabbia e frustrazione per i traumi sofferti da quegli uomini e quelle donne. Il fatto che Figley riuscisse a far fronte alla fatica da compassione solo impegnandosi in un atto prosociale - fondò un'associazione per lo studio dei veterani di guerra - illustra chiaramente la forza potenziale della sofferenza empatica come motivazione prosociale. Analogamente, i gruppi di sostegno al lutto non servono solo per mitigare la fatica da compassione dei pro­ fessionisti della salute, ma anche per far sì che essi possano impegnarsi di più a beneficio dei pazienti. E anche le infermiere empatiche di Stotland tornarono a occuparsi dei loro p azienti terminali non appena si furono rese conto di poter essere loro d'aiuto. Questi casi illustrano la forza potenziale della sovrattivazione empatica come motivazione morale prosociale. Essi differiscono profondamente dai casi di sovrattivazione empatica menzionati in precedenza, nei quali i soggetti spostavano la propria atten­ zione dalla vittima a se stessi. Come si spiega questa differenza? Credo che Figley fosse empaticamente «impegnato» (committed) verso i suoi veterani del Vietnam, e non potesse girarsi dall' altra parte. Anche le infermiere e gli operatori sanitari di Stotland erano impegnati empaticamente con loro pazienti. Lo stesso ci si può aspettare nel caso dei genitori e dei coniugi. In breve, nelle relazioni in cui l'empatia, l'amore o le esigenze del ruolo fanno sì che una persona si senta obbligata a prestare aiuto, è possibile che la sovrattivazione empatica intensifichi (anziché attenuare) l'impegno ad aiutare la vittima. Ciò suggerisce una 237

risposta affermativa all'interrogativo sollevato da Neuberg e colleghi [ 1 997 ] : l'aiuto cui muove l'empatia è qualcosa di più di un aiuto superficiale? Processi e meccanismi di coping sottostanti. Sappiamo poco dei processi psicologici all'opera nella sovrattivazione empatica - i processi alla base del passaggio dalla sofferenza empatica a quella personale. Le citazioni di Figley suggerisco­ no implicitamente un processo: le vittime descrivono la loro esperienza traumatica attraverso immagini vivide e, a volte, molto dettagliate; l'osservatore empatico immagina l'esperienza traumatica, e ciò provoca in lui sofferenza empatica, proba­ bilmente per associazione mediata e assunzione di ruolo. Le immagini possono essere non meno chiare e vivide di quelle che l'osservatore ha della propria esperienza, anzi, possono essere ancor più vivide, come quando esse provocano incubi in persone che altrimenti non ne avrebbero affatto. Il risultato è che l'osservatore sperimenta una sovrattivazione empatica, e l'effetto cumulativo del frequente ripetersi del processo, se l'osservatore non ha modo di sottrarsi alla situazione, è una sovrattivazione empatica cronica («traumatizzazione vicaria»; Pearlman e Saakvitne [ 1 995 ] ) . Lo studio di Figley rivela un'altra cosa che alcuni osservatori fanno quando non possono sfuggire a una certa situazione: «di­ ventare insensibili», o mettere una distanza psicologica tra loro e la vittima. Il modo con cui raggiungono questo risultato, penso sia quello di ricorrere ad alcune strategie percettive e cognitive capaci di ridurre l'intensità della loro sofferenza personale. Per avere un'idea di come queste strategie potrebbero operare, si consideri uno studio sperimentale condotto alcuni anni fa da Bandura e Rosenthal [ 1 966] . I soggetti erano studenti universi­ tari ai quali veniva somministrata una dose di adrenalina e che poi osservavano una persona che riceveva una scarica elettrica. L'adrenalina incrementa l'attivazione emozionale e perciò do­ vrebbe intensificare la sofferenza empatica degli osservatori . Uno dei soggetti descrisse in modo particolarmente dettagliato ciò che gli passava per la mente mentre osservava la vittima: Dopo le prime tre o quattro scariche, pensai a quanto dolore stesse provando quel tipo. Poi cominciai a pensare ad altre cose per minimizzare il mio disagio. Ricordo che controllavo l'orologio,

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guardavo fuori dalla finestra, esaminavo l'arredamento della stanza. Ricordo che mentre stavo pensando alle lezioni la vittima ricevette una scarica, e che in quell'occasione mi sembrò di non avvertire tanto disagio [ibidem, 60] .

I commenti del soggetto illustrano al tempo stesso la ten­

denza involontaria a provare empatia per chi sta soffrendo, il carattere personalmente aversivo che può avere la sofferenza empatica, e l'uso di strategie cognitive per sopprimere lo sta­ to aversivo o ridurlo a livelli tollerabili. Queste strategie, che possiamo chiamare «difensive» perché il motivo per cui le si usa è quello di diminuire il p roprio disagio, possono essere all'opera quando una persona t rasforma la sofferenza empatica in sofferenza personale, benché spesso, piuttosto che in modo cosciente e deliberato come nel caso del soggetto di Bandura e Rosenthal, possano essere usate inconsciamente. In ogni caso, non si tratta di strategie prosociali a beneficio della vittima (se non quando siano una difesa temporale che permette al terapeuta di continuare a lavorare con efficacia) . «Strategie» a parte, la sovrattivazione empatica può essere ridotta in modo passivo, per abituazione, quando una persona è esposta più e più volte nel tempo alla sofferenza di qualcun altro; ed è possibile che in questo caso la sua sofferenza empa­ tica, per effetto cumulativo, diminuisca fino all 'indifferenza. Differenze individuali. Le differenze di sovrattivazione empatica tra gli individui possono essere dovute a differenze nell'inclinazione empatica, nella capacità di aiuto e nella capacità di regolare le emozioni. l . n contatto con vittime in situazioni estremamente do­ lorose o penose può essere particolarmente stressante per le persone molto empatiche, che perciò saranno più vulnerabili delle altre alla sovrattivazione empatica. Vi sono diversi dati che lo attestano. In uno studio di Kameya [ 1 976] , venivano presentate a bambini di 5 -6 anni alunni di scuola materna delle storie di bambini malati, deprivati, sofferenti o che combinavano queste condizioni. I soggetti impersonavano a turno i bambini della storia, e poi commentavano i loro sentimenti. n risultato fu che la tendenza empatica generale dei soggetti, misurata indipendentemente, era correlata negativamente con uno degli indici di aiuto: i soggetti molto empatici che avevano interpre23 9

tato ruoli di bambini sofferenti aiutavano meno di quelli poco empatici che avevano interpretato gli stessi ruoli. È evidente che la sofferenza empatica che il ruolo interpretato aveva suscitato nei soggetti molto empatici era stata tanto intensa e aversiva da impedire loro di tener fermo l'orientamento ad aiutare il prossimo. Analogamente, stando alle osservazioni di Stotland e colleghi [ 1 979] , erano state le allieve infermiere più empatiche che, quando avevano cominciato a lavorare nei reparti ospedalieri, si erano «logorate» emotivamente e si erano sentite costrette a evitare i pazienti terminali. E infine, secondo Figley [ 19 95 ] , i terapeuti più vulnerabili alla traumatizzazione vicaria sono quelli più empatici e più ricchi di calore umano. 2. Tra le allieve infermiere di Stotland, oltre che un alto grado di empatia, c'era un altro fattore che contribuiva alla sovrattivazione empatica: non si sentivano in grado di aiutare i pazienti terminali. Tuttavia, dopo sei mesi di lavoro, queste allieve infermiere si resero conto che potevano cambiare in meglio la vita dei loro pazienti, e questo bastò perché la sovrattivazione empatica cessasse ed esse smettessero di evitare i malati terminali [Williams 1 989] . Ciò significa che la capacità di aiutare le vittime può ridurre la vulnerabilità alla sovrattivazione empatica. 3 . Anche la capacità di regolare le proprie emozioni e di affrontare la propria ansia in modo costruttivo può ridurre la vulnerabilità alla sovrattivazione empatica. Ci sono alcuni dati che lo confermano: i bambini i cui genitori controllavano l' ansia dei figli insegnando loro strategie di coping erano meno inclini alla sovrattivazione empatica dei bambini i cui genitori non facevano nulla del genere; e i bambini che avevano una soglia di empatia bassa e avevano difficoltà a regolare le proprie emozioni erano, in generale, più inclini alla sovrattivazione empatica e più difficilmente aiutavano gli altri [Eisenberg et al. 1 99 1 ; Fabes et al. 1 994 ] . Ipotesi sulla sovrattivazione empatica. Mettendo assieme tutti i risultati e tutte le osservazioni, si possono ragionevolmente avanzare le seguenti ipotesi. l . Se la sofferenza della vittima aumenta, aumenta anche la sofferenza empatica dell'osservatore e la sua motivazione ad aiutare la vittima. 2 . A un certo punto, quando l'osservatore si avvicina alla sua soglia di tolleranza alla sofferenza ed entra in uno stato 240

di sovrattivazione empatica, può pensare di sottrarsi a questa situazione e, se gli è possibile ( ad esempio, se la vittima è sconosciuta), può andarsene o «disconnettersi» emotivamente, usando, consapevolmente o meno, strategie percettive e cogni­ tive per tenere a distanza la vittima. 3 . Se però una persona ha una relazione con un'altra e si sente obbligata ad aiutarla (per una combinazione di sofferenza empatica, amore e aspettative legate al ruolo), la sovrattivazione empatica può intensificare tanto l'attenzione verso la vittima quanto la motivazione ad aiutarla. La persona non può fare a meno di mantenere il contatto con la vittima, e cerca di raggiun­ gere un equilibrio tra la sofferenza empatica e il distanziamento (distanziamento temporaneo al servizio dell'aiuto? ) . La cosa più probabile è che la persona avverta tanto sofferenza empatica quanto sofferenza simpatetica, a un tempo o in successione (vedi il cap. III). La sovrattivazione empatica è dunque una limitazione nelle situazioni in cui le vittime sono sconosciute allo spettatore, ma può incentivare il comportamento di aiuto nelle relazioni con le persone verso cui lo spettatore si sente impegnato. Se in queste relazioni la persona continua ad aiutare, specialmente se è molto empatica, essa sarà in grado di aiutare la vittima, m a al prezzo di diventare vulnerabile alla traumatizzazione vicaria. Perciò la traumatizzazione vicaria può essere un rischio professionale quando un terapeuta empatico assiste certi pazienti 1• Può es­ sere uno di quei casi in cui una persona empatica si sacrifica realmente per un'altra.

1 . 1 . Altri meccanismi empatici autodistruttivi La sovrattivazione empatica può essere considerata un esempio delle capacità autodistruttive dell'empatia. Nel capitolo secondo ho parlato di un altro meccanismo di autodistruzione: la deriva egoistica, nella quale l'assunzione di ruolo centrata 1 Siccome tutti i pazienti sentono dolore, un terapeuta empatico è sempre vulnerabile alla fatica da compassione. Se a questo si aggiunge l'impegno profuso con i pazienti, può non restare più spazio per la famiglia [Edwards 1995] . Si tratta di un rischio professionale, e perciò il terapeuta deve impa rare a risolvere il p roblema dell'equilibrio tra troppa e troppo poca empatia.

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su di sé può innescare un processo in cui la persona comincia a rimuginare sulle proprie esperienze e preoccupazioni, e ab­ bandona la modalità empatica. La deriva egoistica può essere considerata parte della sovrattivazione empatica che ha inizio dall'assunzione di ruolo centrata su di sé. Si può ipotizzare questa sequenza: ci si immagina al posto della vittima; ciò suscita sofferenza empatica e desta associazioni con eventi do­ lorosi del proprio passato che provocano sofferenza personale; rimuginare su quegli eventi e sperimentare il dolore che ad essi è associato distoglie l'attenzione dalla vittima; a questo punto, la sofferenza personale prende il posto di quella empatica. Un altro meccanismo di autodistruzione, che si applica tan­ to all 'affetto diretto quanto a quello empatico è l'abituazione: se una persona è testimone più e più volte della sofferenza di un'altra, può iniziare, come abbiamo già osservato, un proces­ so di abituazione, il cui effetto cumulativo sarà una riduzione della sofferenza empatica dell'osservatore, al punto da renderlo indifferente al patimento della vittima. Ciò può spiegare la cre­ scente indifferenza di molti abitanti delle città alla sofferenza dei senzatetto. E può spiegare anche un fenomeno meno noto: la diminuzione dell'efficacia della fotografia come strumento di riforma sociale. Per lungo tempo, molte persone hanno compiuto azioni prosociali (offerte in denaro, lunghi viaggi per dare aiuto, ecc.) sotto l'influenza di fotografie che mostravano la sofferenza di altre persone, specialmente bambini poveri, vittime di inondazioni e terremoti, e rifugiati (Ruanda, Bangladesh) . Si direbbe che «sotto il bombardamento di tutte queste immagini i nostri cuori si siano induriti» [Goldberg 1 995 ] .

2 . Il bias di familiarità Gli studiosi dell'evoluzione concordano che gli esseri uma­ ni debbano essersi evoluti in piccoli gruppi, e che, sebbene all 'interno di ciascun gruppo l'altruismo fosse necessario per la sopravvivenza, la scarsità di risorse spesso spingesse quei gruppi l'uno contro l'altro. Nulla di strano perciò che sia più facile rispondere empaticamente e prestare aiuto ai membri del proprio gruppo familiare, razziale o etnico in una parola, l'in-group (gruppo di appartenenza) . E, se consideriamo che i -

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membri dell'in-group di una persona sono più simili tra loro e alla persona stessa e condividono tra loro sentimenti di intimità e di affetto, nessuna sorpresa che sia più facile provare empatia per gli amici che non per gli estranei, e per le persone simili che non per quelle diverse_ Ciò che la famiglia, i membri dell'in-group, gli amici stretti e le persone che si somigliano hanno in comune è la familiarità: sono in stretto contatto personale e hanno esperienze di vita analoghe_ Perciò il termine onnicomprensivo di «bias di fami­ liarità» appare appropriato_ Anzi, è stato mostrato che esiste un bias di familiarità «puro»: le persone esposte ripetutamente a uno stimolo - qualunque stimolo, anche un oggetto inanimato - sviluppano una preferenza nei suoi confronti [Zajonc 1 968; Harrison 1 97 7 ] .

2 _ L Il bias per l'in-group Le prove a favore dell'esistenza di un bias empatico per l' in-group sono sorprendentemente poche, ma esistono_ In uno studio sull'empatia interrazziale nei bambini , Klein [ 1 97 1 ] presentò ai soggetti - tutte bambine - delle diapositive che raffiguravano bambine bianche e nere che mostravano felicità, tristezza e paura in situazioni significative per le culture statu­ nitensi tanto dei bianchi quanto dei neri_ Le bambine risposero verbalmente con più empatia alle diapositive che mostravano bambine della loro stessa razza_ Per ciò che riguarda il senso di colpa per trasgressione, è ben noto che gli autori di crimini violenti si distanziano dalla vittima denigrandola e consideran­ dola, a volte, alla stregua di un essere meno che umano_ Ciò è più facile quando la vittima appartiene a un gruppo chiaramente distinguibile da quello dell' autore del crimine; e una persona si sente meno responsabile se commette un crimine contro un membro di un gruppo diverso dal proprio, che non se com­ mette lo stesso crimine contro un membro del proprio gruppo [Katz, Glass e Cohen 1 973 ; Lifton 1 968; Meindl e Lerner 1 984] . Infine, benché nei superstiti di Hiroshima il senso di colpa per essere sopravvissuti non fosse limitato a familiari, parenti e amici intimi, era più frequente e più intenso in rel azione a queste persone [Lifton 1 968] . 243

2 .2 . Il bias di amicizia Costin e Jones [ 1 992] hanno trovato un bias empatico in favore degli amici in bambini di 4 e 5 anni di età. I soggetti assistevano a otto scene con pupazzi che rappresentavano un bambino in difficoltà (si arrampicava troppo in alto su un albero e temeva di non riuscire più a scendere; mentre giocava sullo scivolo, un altro bambino minacciava di buttarlo giù ). In ogni scena, dietro la testa del pupazzo era attaccata l 'immagine di un amico intimo del soggetto o di un suo co­ noscente, in modo che il soggetto identificasse il pupazzo con quella persona. I bambini espressero più sofferenza empatica verso l' «amico» che non verso il «conoscente». E quando venne chiesto loro: «Immaginate di prendere parte alla storia. Che cosa succederà subito dopo ?», era più probabile che rispondessero che avrebbero aiutato il protagonista quando lo identificavano con l'amico.

2.3 . Il bias di somiglianza Feshbach e Roe [1968] hanno trovato che bambine tra 6 e 7 anni rispondevano verbalmente con più empatia a diapositive di altre bambine in situazioni di felicità, tristezza e paura che non a diapositive di bambini nelle medesime situazioni; questi ultimi, per parte loro, rispondevano con più empatia a diapositive di altri bambini. n risultato mi ha un po' sorpreso; secondo gli stereotipi di ruolo sessuale, infatti, un maschio dovrebbe aiutare più facilmente una femmina che non un altro maschio. In effetti, mi è stato detto che nel mondo delle bande giovanili aiutare un maschio che non appartiene al gruppo è considerato un segno di debolezza, mentre aiutare una femmina è ritenuto accettabile. n membro di una banda ebbe a dire: «Aiuterei senz'altro una vec­ chietta, perché se al suo posto ci fosse mia madre mi piacerebbe vedere quel tipo preso a calci nel sedere». Può darsi che questo stereotipo si limiti ai maschi adolescenti e adulti. In ogni caso, l'osservazione di Feshbach e Roe indica che, a parità di condizioni, si prova più empatia per le persone del proprio sesso. Lo studio di Klein sul bias razziale menzionato sopra può essere considerato uno studio sul bias di somiglianza. Klein ha 244

studiato anche un tipo di somiglianza astratta, a mediazione cognitiva, tra osservatore e modello, relativa non tanto al co­ lore della pelle quanto alle preferenze, agli atteggiamenti e agli interessi comuni. Questo tipo di somiglianza non influenzava le misure dell'empatia dei soggetti, forse perché somiglianze astratte come queste sono fuori della portata dei bambini piccoli. È stato invece possibile influenzare le misure dell'empatia in tre casi simili in cui degli studenti universitari venivano indotti a percepire una somiglianza di personalità [Gruen e Mendelsohn 1 986; Houston 1 990; Krebs 1 975 ] . Descriverò in dettaglio il primo e l'ultimo di questi casi. Nello studio di Krebs, i soggetti venivano sottoposti a un test di personalità e poi veniva detto loro che erano stati accoppiati ad un altro studente sulla base di un'analisi computerizzata delle risposte al test. Alla metà dei soggetti veniva detto che il profilo di personalità dell'altro studente era simile al loro, all'altra metà veniva detto che era differente. I soggetti che credevano che l'altro studente fosse simile a loro avevano risposte fisiologiche più accentuate quando l'altro mostrava di provare piacere o dolore. Inoltre dicevano di identificarsi maggiormente con l'altro e di sentirsi peggio (provare più sofferenza empatica) quando l'altro aspettava di ricevere una scarica elettrica. Nella ricerca di Houston, i soggetti dapprima elencavano dieci tratti di personalità che descrivevano come erano (sé rea­ le) e come avrebbero desiderato essere (sé ideale). Poi, sulla base delle differenze tra la descrizione del sé reale e quella del sé ideale venivano determinati i valori di discrepanza del sé. A questo punto, i soggetti leggevano la trascrizione di una (immaginaria) intervista a un altro studente, il quale parlava della sua incapacità cronica di conoscere gente nuova perché era molto timido, del suo profondo desiderio di cambiare, e di un episodio recente nel quale aveva sofferto moltissimo a causa della sua timidezza. Parlava della sofferenza provata durante questo episodio descrivendo nei dettagli i gesti fatti, la voce (sommessa), le reazioni facciali (occhi bassi) , e aggiungeva che si sentiva molto avvilito a causa della discrepanza tra il suo sé reale (timido ) e il suo sé ideale (competente socialmente) . I soggetti che leggevano l'intervista provavano più sofferenza empatica se il loro punteggio di discrepanza del sé rifletteva un problema di timidezza cronica; e, quando veniva chiesto 245

loro se pensavano che il problema personale dello studente giustificasse la sua ansia, era più probabile che rispondessero di sì. Insomma, era più facile che i soggetti provassero empatia per altre persone se queste erano, come loro, preoccupate per la propria timidezza.

3 . Il bias di immediatezza Si può supporre che l'empatia si orienti naturalmente verso le vittime presenti nella situazione immediata, poiché i processi di attivazione dell'empatia (condizionamento, associazione, mimesi) , che sono automatici, involontari e salienti, rispon­ dono a indizi situazionali e personali che raggiungono la loro massima intensità quando la vittima è più vicina. Questo bias concorda anche con l'ipotesi che la selezione naturale abbia favorito l'empatia verso i familiari e i membri dell'in-group a svantaggio degli estranei, visto che i familiari e i membri dell'in-group hanno più probabilità di essere vicini. Quando suggerii per la prima volta che l'empatia fosse soggetta a un bias di immediatezza [Hoffman 1984; 1 987] si trattava di una mera congettura. Oggi ne abbiamo delle prove, ben illustrate da due esperimenti di Batson e colleghi [ 1995 ] , entrambi condotti con studenti universitari. I soggetti del primo studio dovevano assegnare un compito a due altri studenti, detti «lavoratori». I compiti erano due, uno piacevole e l'altro spiacevole. Ai soggetti veniva detto che «lanciare una moneta è il modo più equo per assegnare i compiti ai lavoratori, ma la decisione finale spetta a voi. Potete assegnare i compiti come preferite. I lavoratori non sapranno come è avvenuta l'assegnazione; ognuno saprà solo quale compito dovrà svolgere. n vostro anonimato è ga­ rantito» [ibidem, 1044] . Prima di assegnare i compiti, il gruppo sperimentale leggeva una «comunicazione personale» da parte di uno dei lavoratori, nella quale egli raccontava un episodio della sua vita recente; questi soggetti erano invitati a «cercare di immaginare come si sente questo studente dopo quello che gli è successo . . . come la sua vita ne è stata influenzata e quali sono i suoi sentimenti» [ibidem] . n risultato principale fu che i due terzi dei soggetti asse­ gnarono il compito piacevole al lavoratore di cui avevano letto 246

il messaggio, e quello spiacevole all'altro. I soggetti dei due gruppi di controllo fecero diversamente. Gli uni avevano letto il messaggio ma erano stati invitati ad «assumere un punto di vista oggettivo e distaccato, e a non lasciarsi suggestionare dai sentimenti dell'autore)); agli altri non era stato dato da leggere alcun messaggio. I soggetti di questi due gruppi assegnarono il compito in modo casuale (lanciando una moneta) . In altri termini, era più probabile che i soggetti rispondessero empa­ ticamente e prestassero aiuto alla «vittima)) che era al centro della loro attenzione, e in questo senso era «presente)), che non alla vittima che era assente o alla quale erano stati invitati a non rispondere in modo empatico. E questo nonostante fosse stato detto loro che la cosa più giusta sarebbe stata assegnare i compiti in modo casuale. Nel secondo esperimento, ai soggetti veniva descritta la situazione di una bambina di 10 anni affetta da una malattia fatale che causava una paralisi progressiva dei muscoli; benché la malattia fosse incurabile, c'era una nuova medicina che poteva migliorare la qualità della vita della bambina; era però una medicina molto costosa e la famiglia non poteva permet­ tersela; perciò la bambina era stata inserita in una lista d'attesa. Subito dopo i soggetti ascoltavano un'intervista registrata della bambina che parlava del suo problema e concludeva che sarebbe stata felicissima se avesse potuto avere quella medicina. I soggetti venivano quindi a sapere che l 'ordine dei bambini nella lista d'attesa era determinato dalla data di presentazione della domanda, da quanto avessero bisogno della cura e dalla loro aspettativa di vita; spesso i bambini stavano in lista per mesi, e alcuni di essi, morivano senza aver ricevuto alcun aiuto. Ai soggetti veniva detto che in cambio della loro collaborazione, se lo desideravano, avrebbero po­ tuto aiutare la bambina dell'intervista, togliendola dalla lista d'attesa e inserendola nel gruppo che avrebbe ricevuto la medicina immediatamente. Ma fu loro ricordato anche che, in questo caso, altri bambini che venivano prima nella lista perché avevano fatto domanda prima di lei, avevano maggior bisogno della cura o una aspettativa di vita minore, avrebbero dovuto aspettare più a lungo. «D'altro canto, se la bambina viene fatta passare avanti, la qualità della vita che le rimane migliorerà moltissimo . . . la bambina e la sua famiglia non sanno 247

nulla di tutto questo, e saranno informati solo se deciderete di spostare la bambina» [Batson et al. 1 995 , 1 047 ] . Come nel primo esperimento, i soggetti del gruppo speri­ mentale erano invitati a «immaginare come si sente la bambina dell'intervista dopo quello che le è successo, e come la sua vita ne è stata influenzata. Cercate di immaginare le conseguenze di tutto quello che ha passato la bambina e come si sente adesso». I soggetti di controllo erano invitati ad «assumere un punto di vista oggettivo e distaccato, e a non lasciarsi suggestionare dai sentimenti della bambina intervistata» [ibidem] . Il risultato fu che tre quarti dei soggetti sperimentali (ma solo la metà dei soggetti di controllo) risposero in modo empatico alla bambina e la inserirono nel gruppo di cura immediata. In altre parole, come nel primo esperimento, era più probabile che i soggetti rispondessero in modo empatico e prestassero aiuto alla vittima cui era rivolta la loro attenzione che non a quelle assenti e a quelle cui erano stati invitati a non rispondere con empatia. E ciò nonostante fosse stato ricordato loro che così facendo altri bambini, in condizioni forse anche peggiori, avrebbero subito un danno. Un terzo studio condotto nel medesimo laboratorio ebbe risultati analoghi. Lo studio si proponeva di mostrare che l'empatia di una persona verso un membro del suo gruppo può avere conseguenze pregiudizievoli per l'insieme del gruppo [Batson et al. 1 995 ] . Ai soggetti - studenti universitari - veniva detto che facevano parte di un gruppo (in realtà fittizio) di quattro persone, dopo di che veniva chiesto loro di scegliere come distribuire i biglietti di una lotteria: darne di più (o di meno) a se stessi, al gruppo nel suo insieme o a un membro in particolare. I soggetti furono inoltre informati che poco tempo prima uno dei membri del loro gruppo aveva vissuto un 'esperienza assai triste e penosa. I soggetti che provavano molta empatia per quella persona le assegnarono più biglietti, riducendo la quantità di biglietti a disposizione del gruppo. Nella vita reale il bias di immediatezza è molto frequente. Vediamo tre esempi. Il primo è tratto da un articolo del «New York Times» nel quale si attribuisce un bias di immediatezza all'allora presidente degli Stati Uniti: «[li Presidente] è disposto a offrire il suo pranzo a un bambino affamato, ma ha difficoltà a rendersi conto che quando ha respinto il programma per i pasti 248

caldi stava togliendo il pranzo a milioni di bambini)) [Sherrill 1 974] . Il secondo esempio è una dichiarazione - attribuita al presidente del comitato dei consiglieri economici del medesimo presidente degli Stati Uniti - sull'importanza di un bilancio in equilibrio per la generazione presente e per quelle future: Naturalmente è possibile vedere le cose in un'altra maniera. Tanto l'Antico quanto il Nuovo Testamento ci sollecitano ad amare il prossimo come noi stessi. E siccome il termine «prossimo)) può essere interpretato in senso temporale oltre che spaziale, si può dire che le generazioni a venire sono il nostro prossimo e che dobbiamo preoccuparci delle generazioni future non meno che di quella presente [Stein 1 994 ] .

Questa dichiarazione non riflette certo u n bias d i imme­ diatezza ma implica chiaramente che esso esiste e che il paese starebbe meglio se non ci fosse - almeno per ciò che riguarda l'equilibrio di bilancio. Il terzo esempio, a proposito del quale potremmo parlare di un bias di immediatezza amplificato dai mezzi di comunicazio­ ne, è più drammatico. Mi sembra che il bias di immediatezza possa contribuire a spiegare, almeno in parte, la tendenza a dimenticare le vittime rimaste a lungo lontano dai riflettori, e a provare empatia per quei colpevoli che sono adesso al centro dell'attenzione e, per qualche ragione, appaiono a loro volta come vittime. Il caso in questione è quello della giovane bam­ binaia britannica che fu processata nel 1 997 negli Stati Uniti. Quando il bambino di 8 mesi che le era stato affidato morì, la maggior parte delle gente provò simpatia per i genitori e riprovazione per la ragazza, che, a quanto sembrava, aveva fatto morire il bambino a forza di scuoterlo. Tuttavia, con il processo e la condanna, la corrente empatica mutò in suo favore: la ragazza si trasformò in vittima e suscitò un diffuso sentimento di sofferenza empatica, specialmente nella madrepatria, a causa, in parte, della severità della senten­ za. Ma il punto che voglio sollevare non è se fosse colpevole o innocente, né l'empatia dei britannici nei suoi confronti. Il punto è che la compassione per questa giovane donna, che aveva attirato l'attenzione generale ed era divenuta, grazie alla televisione, la vittima del giorno, sostituì in larga misura la compassione per il bambino e per i suoi genitori, cioè per 249

coloro che in origine erano stati le vere vittime. ( Molti finirono addirittura con l' «incolpare la vittima»: entrambi i genitori per avere preteso troppo da una ragazza inesperta e perché non avevano voluto assumere, per taccagneria, una bambinaia di professione; la madre perché andava a lavorare invece di stare a casa con i figli2 . )

4.

Implicazioni per la morale empatica

Che cosa si può concludere sulle limitazioni dell'empatia? Le tolgono valore come fondamento motivazionale della con­ dotta morale prosociale? A mio giudizio, no: la sovrattivazione empatica e i bias sono dei problemi, ma probabilmente non di tipo fatale. La sovrattivazione è una limitazione nella situazione dello spettatore ma, come nel caso della fatica da compassione, può intenst/icare l'impegno ad aiutare le persone con cui si ha una relazione, specialmente quando l'aiutarle fa parte del ruolo della persona. Per quanto riguarda il bias di familiarità, le ricerche mo­ strano che gli esseri umani aiutano gli estranei (nella maggior parte delle ricerche le vittime sono sconosciute) ; è una questione di grado. Inoltre, il bias di familiarità può essere sfruttato per aiutare gli sconosciuti, immaginando che appartengano alla propria famiglia. Ciò può accadere spontaneamente, come nel caso dell'eroico giovane (vedi il cap. IV) che inseguì un uomo che aveva spinto una signora sui binari della metropolitana e lo bloccò «perché quella donna poteva essere mia madre, poteva essere un'amica»; o può essere incoraggiato dall'educazione morale (si veda il cap. XIII) . Il bias di familiarità può inoltre venire attenuato quando l'empatia è annessa a principi morali, come vedremo. E se la persona ha principi morali molto forti, ed è mossa soprattutto dalla motivazione empatica, può vincere il bias di familiarità quando si trova di fronte a scelte di vita o di morte, come quei tedeschi che aiutarono gli ebrei durante 2 Il bias di immediatezza amplificato dai mezzi di comunicazione non spiega tutto. Il processo, e in particolare la severità della sentenza, fece emergere vari atteggiamenti radicati in profondità (verso le madri che lavorano, verso gli Stati Uniti da parte dei britannici), che, interagendo con il bias di imme­ diatezza, contribuirono a fare della ragazza una vittima internazionale.

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l' Olocausto; quando venne chiesto loro quanti di quelli che avevano aiutato fossero perfetti sconosciuti, più del 90 per cento dissero che almeno uno lo era. Anche uno è molto, se si considera il rischio. Per quanto riguarda il bias di immediatezza, una sua corre­ zione, almeno nei casi in cui la vittima è una sola, è inclusa nel quarto stadio del mio schema di sviluppo dell'empatia, in cui la persona risponde in modo empatico alla condizione dell'altro al di là della situazione immediata. Il bias di immediatezza può avere un lato potenzialmente positivo. Se da un lato l'incidente della «bambinaia» e lo studio di Batson sulla bambina di 10 anni malata senza speranza mostrano che il bias d i immedia­ tezza può prevalere sui concetti sociali di giustizia o di equità (ritorneremo su questo nel cap. XI) , d 'altro lato l'empatia su­ scitata da una vittima al centro dell'attenzione - specialmente quando l'attenzione è amplificata dai mezzi di comunicazione - può essere anche al servizio di finalità prosociali. Dipende dal contesto. Si consideri l'esempio, introdotto nel capitolo terzo, di attivazione o intensificazione della sofferenza empatica verso un gruppo (le vittime dell'attentato di Oklahoma City) ad opera dei mezzi di comunicazione: la famosa fotografia di un vigile del fuoco con in braccio un bambino morto di pochi mesi, che presumibilmente ha suscitato la sofferenza empatica di milioni di persone nei confronti di quel bambino e dei suoi genitori. Questa sofferenza empatica per una vittima partico­ lare potrebbe benissimo essersi generalizzata e aver attivato o intensificato la sofferenza empatica per le vittime dell'attentato di Oklahoma City come gruppo. E questa, a sua volta, può avere contribuito a far sì che moltissime persone in ogni parte del paese si facessero avanti per aiutare le vittime od offrissero contributi in denaro. Questo esempio solleva alcuni interrogativi: con tutti i suoi difetti, la televisione, mostrando le vittime più da vicino, con­ tribuisce ad accrescere la consapevolezza e l'empatia verso le vittime di tutto il mondo? O vedere e rivedere le vittime crea abituazione e fa diminuire la sofferenza empatica delle persone, al punto da renderle insensibili alla sofferenza altrui? Ed è possibile, come ho suggerito sopra, che raffigurare le persone del proprio gruppo primario come vittime di un altro gruppo istighi all'odio etnico? Può darsi che tutte queste cose siano 25 1

vere e che la frequenza e il contesto dell'apparizione di una persona alla televisione determinino l'effetto netto che questa ha sull' «empatia di massa». Vi è qui bisogno di altre ricerche. Sui bias cui è soggetta l'empatia si può fare un 'altra os­ servazione, di natura alquanto differen te. L'empatia è come l'attenzione: l'attenzione è necessaria per l'apprendimento, ma se stiamo attenti a tutto non impariamo niente: l'apprendimento richiede un'attenzione selettiva. Analogamente, benché l'empatia possa essere il «collante» della società, come io sostengo che sia, se rispondiamo in modo empatico e cerchiamo di prestare aiuto a chiunque stia soffrendo - empatia «promiscua» o «diffusa», nei termini di Shewder3 - l'esito per la società potrebbe essere la paralisi: in caso di conflitti, l'empatia promiscua potrebbe in terferire con la giustizia ( come potrebbero fare anche i bias dell'empatia; ma su questo torneremo più avanti)4• L'empatia promiscua o diffusa è poco probabile, precisa­ mente per i bias e la sovrattivazione cui l'empatia è soggetta. Da questo punto di vista, i bias e la sovrattivazione possono essere il meccanismo estremo di autoregolazione e di autocon­ servazione dell'empatia. In altri termini, ciò che impedisce che l'empatia promiscua diventi un problema per la società sono i bias e la sovrattivazione che la caratterizzano, nonché il potente sistema motivazionale egoistico che è alla loro base. Vi sono poi le responsabilità morali e legali associate alla tutela dei bambini nella nostra società, che, assieme alla genetica e all'evoluzione, fanno sì che per i genitori i figli siano più importanti degli altri bambini. Se le limitazioni dell'empatia non sono fatali, non dovreb­ bero rappresentare un problema troppo grave negli incontri morali che abbiamo considerato sopra - quelli dello spettatore, del trasgressore e del trasgressore virtuale -, che in genere implicano una sola vittima, almeno nelle società piccole ed etnicamente omogenee. Potrebbero però rappresentare un problema quando vi sono più vittime e la persona deve sceComunicazione personale. L'empatia promiscua può creare problemi nel caso delle autorità, dalle quali ci si aspetta una condotta fondata su principi. Un esempio è quello dell'ex presidente Clinton, che una volta fu criticato perché sentiva il dolore di tutti e capiva il punto di vista di tutti. È difficile provare empatia per tutti e proporre una lotta di principio per una causa. 3

4

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gliere quale (o quali) aiutare, o quando il prestare aiuto entra in conflitto con la giustizia (vedi il cap. XI) . I l problema potrebbe essere più grave nelle società multi­ culturali, perché il bias di familiarità, che favorisce l'empatia e le relazioni positive entro i gruppi, potrebbe esacerbare l'avversione e i conflitti tra i gruppi. Questi conflitti possono avere un fondamento reale, come la competizione per risorse scarse (conflitto di classe); e se una persona considera un grup­ po diverso dal proprio alla stregua di un nemico può giungere a provare rabbia empatica e agire violentemente contro quel gruppo. In queste situazioni, perché i gruppi possano coesiste­ re, può essere necessario ridurre l'empatia. Un attivista di mia conoscenza ammise che questa conclusione era ineccepibile e bollò la mia ricerca come «reazionaria». Per quale ragione? Perché ridurre l'empatia significherebbe ridurre l'ostilità dei lavoratori nei confronti dei padroni. Tutto ciò solleva la questione se la morale empatica possa soddisfare il criterio di imparzialità della filosofia morale5• Ma come potrebbe, se i bias empatici sono l 'antitesi dell'imparzia­ lità? La morale empatica può fare al caso dei gruppi omogenei, ma negli incontri che implicano più parti morali, conflitti tra l'aiuto e la giustizia e conflitti intergruppi, è possibile che la morale empatica, almeno la morale empatica da sola, non sia abbastanza. Ho affermato in passato [Hoffman 1 987 ] - e nei prossimi tre capitoli aggiornerò ed estenderò questo ragionamento che le limitazioni dell'empatia si riducono al minimo quando essa viene incorporata in principi morali pertinenti. In breve, accade questo: la dimensione cognitiva di un principio morale, incluse le sue proprietà formali in quanto categoria e la sua interpretazione semantica, aiuta a strutturare e stabilizzare gli affetti empatici, rendendoli meno vulnerabili ai bias . La dimensione cognitiva dovrebbe anche diminuire la dipendenza degli affetti morali dalle variazioni di intensità e salienza degli indizi di sofferenza provenienti dalle vittime, e perciò ridurre la tendenza alla sovrattivazione (e alla sottoattivazione) empatica. E, infine, come negli scripts Trasgressione � Induzione (cap . 5 Per un approfondimento di questo punto, si consideri la mia tesi che anche altri tipi di morale sono soggetti a bias [Hoffman 1 987] .

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VI ) , la dimensione cognitiva dovrebbe facilitare la persistenza degli affetti empatici nella memoria a lungo termine. Questo è ciò che fanno, in generale, le rappresentazioni cognitive: racco­ gliere gli stimoli in ingresso - compresi gli affetti -, strutturarli e stabilizzare le risposte [Fiske 1982; Hoffman 1 985 ; Tulving 1 97 2 ] . La dimensione cognitiva dei principi morali dovrebbe fare lo stesso con gli affetti morali empatici. Perché possa essere incorporata in un principio morale, l'empatia deve essere congruente con quel principio: le sue implicazioni per il comportamento umano devono cioè puntare nella stessa direzione del principio. La questione è se l'empatia sia congruente con i principi morali di base della nostra società: il prendersi cura e la giustizia. lo credo che lo sia, e cercherò di dimostrarlo nei prossimi tre capitoli. In essi indicherò come l'empatia possa essere inclusa in un principio morale, come si avvantaggi di questa inclusione, e che cosa offra al principio (una base motivazionale). Illustrerò inoltre il ruolo dell'empatia negli incontri morali che implicano un conflitto tra più parti morali e nell'opposizione tra empatia e giustizia.

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PARTE QUINTA

EMPATIA E PRINCIPI MORALI

CAPITOLO NONO

EMPATIA E PRINCIPI MORALI: INTERAZIONI E LEGAMI

Benché la morale empatica possa spiegare molti aspetti del comportamento prosociale, una teoria completa richiede anche dei principi morali. Nel capitolo ottavo ho suggerito che i principi morali possano ridurre la sovrattivazione e i bias cui è soggetta l'empatia. Un'altra ragione dell'importanza dei principi morali è che la mia analisi degli incontri morali dello spettatore e del trasgressore è incompleta, perché la loro risposta alle vittime non è fatta solo di empatia e senso di colpa; è anche il riflesso dei loro principi morali. I prin­ cipi morali possono essere attivati dall'empatia e dal senso di colpa con cui sono associati, ma possono trascendere la situazione e possono trasformare la vittima da qualcuno da commiserare in qualcuno eh$! rappresenta una condizione più generale di ingiustizia o di mancanza di considerazione umana. I principi morali possono essere di aiuto anche quan­ do vi sono più vittime e bisogna scegliere chi aiutare, o per scegliere tra cura e giustizia quando queste sono in conflitto (cap. XI) . Questo capitolo introduce il tema dei principi morali e affronta la questione se gli affetti empatici siano congruenti con i principi morali e possano essere incorporati in essi. Viene poi presentato il concetto di reciprocità, che è alla base di molti principi di giustizia. L'empatia e la reciprocità sono ortogonali; vedremo come esse possono combinarsi per creare una forte motivazione alla giustizia. Infine, data la congruenza dell'empatia con i principi morali, avanzo l'ipotesi che l'empatia possa avere un ruolo importante nel giudizio e nel ragionamento morale. I processi di sviluppo che mettono in relazione l'empatia con i principi morali sono descritti nel capitolo decimo.

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l.

Principi morali

I principi morali sono fondati su dottrine filosofiche e reli­ giose che affondano le loro radici nella storia di molte culture. Nelle società di tipo relativamente comunitario, come le società tradizionali, i paesi in via di sviluppo e i moderni kibbutzim israeliani, vi è più interdipendenza nella vita quotidiana, e le aspettative e le relazioni di mutua responsabilità hanno forza vincolante. In queste società, il benessere del gruppo o della collettività è più importante di quello dell'individuo, e i principi morali tendono, più che nel mondo occidentale contempora­ neo, a ruotare attorno alla cura e alla responsabilità verso gli altri. E, in un Occidente che si evolve con grande rapidità, gli awenimenti storici possono modificare le idee morali nell'arco della vita di una persona. Il Vietnam, il movimento delle donne, il Watergate hanno segnato una generazione, sensibilizzando molti ai problemi collegati ai principi di giustizia e di equità (si pensi alla diffusione su larga scala del «senso di colpa per la ricchezza») . Nulla di strano perciò che non v i siano principi morali sui quali l'accordo sia universale. Tuttavia, ve ne sono due di particolare importanza, che nelle società occidentali sono spesso considerati principi morali universali: il prendersi cura e la giustizia 1 • I principi di cura e di giustizia e il loro nesso con l'empatia sono il tema centrale di questo capitolo. l . Prendersi cura. L'utilitarismo afferma che un'azione o una decisione è morale quando massimizza il grado in cui tutte le persone interessate raggiungono i propri scopi. Una versione, forse la più nota [per le altre, vedi Kymlicka 1 990] , fa riferimento alla massimizzazione della felicità o del benessere per tutti («il massimo di bene per il massimo di persone»). Secondo alcuni, nelle situazioni di contatto faccia a faccia, questa forma di uti­ litarismo si traduce nel principio di preoccuparsi del benessere altrui - «prendersi cura» (caring) del prossimo - che include 1 A volte si considerano morali altri principi che hanno poche ripercus­ sioni prosociali (o nessuna). Uno di questi è la prudenza: ognuno dovrebbe fare quel che è meglio per lui a lungo termine (lavorare sodo, differire la gratificazione, investire saggiamente, tenere gli occhi aperti). Un altro è la realizzazione personale: ognuno dovrebbe realizzare il proprio potenziale («Sii tutto quel che puoi essere>>); sprecare le proprie capacità è immorale.

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la preoccupazione per la condizione del prossimo - bisogno di cibo, di una casa, di evitare il dolore, di dignità - e l'aiuto alle persone bisognose o sofferenti. Prendersi cura degli altri è considerato molto importante negli Stati Uniti: il giorno dopo la morte di J ames Stewart (2 luglio 1 997 ) molti osservarono che il pubblico cinematografico lo aveva tanto amato per decenni perché era l'incarnazione della gentilezza e del rispetto. Tutti i giornali che ebbi occasione di leggere pubblicavano un brano di una sua interpretazione: «Tutte le vostre complicate norme non varrebbero un nichelino se dietro non vi fosse un pizzico di semplice, ordinaria genti­ lezza e un po' di considerazione per il prossimo» - il senatore Jefferson Smith che fa ostruzionismo parlamentare in Mr. Smith Goes to Washington (Mister Smith va a Washington) . 2. Giustizia. Il principio di giustizia è più complesso e d è stato analizzato soprattutto da Kant [ 1785/1964] e dai suoi eredi. In generale, si riferisce all'adeguatezza morale di ciò che spetta a una persona, del trattamento che essa riceve da altre persone o da forze non umane. Nella maggior parte dei campi della vita, la giustizia implica un equilibrio tra azioni e risultati; il disequilibrio è ingiusto. E, nel caso di pretese contrastanti e di conflitti di interesse tra individui, la giustizia esige equità. Le questioni di giustizia e di equità includono la distribuzio­ ne dei beni e dei servizi della società (secondo il merito o il bisogno) , i diritti di proprietà dei beni (d'uso, di godimento, di trasferimento), il possesso temporaneo dei beni. La giusti­ zia riguarda anche l'attribuzione dei castighi (in proporzione al delitto). E, infine, la giustizia esige il rispetto dei «diritti» di cui le persone godono in quanto esseri umani. Le persone hanno diritto a certe cose (al cibo, a un alloggio, ad evitare il dolore) e questo diritto trascende le preferenze personali dello spettatore: una cosa sono i «diritti», altra cosa è il «prendersi cura». Alla base di questi principi sostanziali di giustizia vi sono due astrazioni: l'imparzialità - i principi si applicano allo stesso modo a chiunque - e la reciprocità tra azioni e risultati. I difensori di uno dei due principi, «cura» o «giustizia», sostengono che l'altro è importante ma subordinato, special­ mente i kantiani, secondo i quali i giudizi basati sul benessere individuale non sono giudizi di giustizia, a meno che il benessere non venga considerato un «diritto» dell'individuo. D'altro lato, 259

il prendersi cura è personale (non è legittimamente soggetto a controllo sociale), implica decisioni fondate non tanto sulla ragione quanto sugli affetti, è relativo a vittime particolari e pertanto non è universale, e manca delle proprietà formali delle obbligazioni fondate sulla giustizia. Perciò, quando la cura e la giustizia sono in conflitto, la prima è logicamente subordinata alla seconda. Miller e Bersoff [ 1 992 ] non sono però d'accordo, e sottolineano che in India, dove la società si basa non sulla giustizia, ma sul dovere sociale, il prendersi cura è connesso ai «diritti» e soggetto a controllo sociale, e il codice morale assume che le responsabilità verso gli altri siano fondate su principi tanto quanto le obbligazioni di giustizia, e spesso privilegia le prime a scapito delle seconde. Ciò è in accordo con uno studio sperimentale di Deutsch [ 1 985 ] che lo ha portato ad attribuire l' ossessione per il «merito» della nostra società al fatto che il suo obiettivo primario è la produttività economica. Deutsch ha trovato che quando l'obiettivo primario sono le buone relazioni sociali, l' «uguaglianza» è il principio più probabile, e quando lo sono lo sviluppo o il benessere personali il principio è il «bisogno»2• Credo che sia più utile considerare i principi come «tipi ideali» applicabili in grado diverso ad ogni situazione. I principi possono essere compatibili: si può simpatizzare con un conta­ dino che pur lavorando sodo ha perso la fattoria sopraffatto da forze economiche fuori della sua volontà (cura) , e al tempo stesso si può pensare che quel contadino sia stato trattato iniquamente, perché i suoi sforzi non sono stati ricompensati (giustizia ) . Ma i principi possono anche essere incompatibili: ad esempio, se dare la cattedra a un collega per il quale si ha simpatia perché suo figlio è gravemente malato (cura) o ne­ gargliela perché non ha abbastanza pubblicazioni (giustizia) . I conflitti tra il prendersi cura e la giustizia saranno discussi nel capitolo undicesimo. 2 Deutsch mette in discussione anche l'opinione corrente secondo cui la gente è più produttiva quando viene premiato il merito che non quando vengono perseguiti l 'uguaglianza o il bisogno. Egli ha constatato anche che quando le persone sono motivate in trinsecamente e non sono alienate dal lavoro o dall'ambiente sociale che le circonda, gli incentivi basati sull'equità non aumentano il rendimento.

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Da lungo tempo gli psicologi studiano i temi della giustizia e del prendersi cura: la giustizia è al centro della teoria morale cognitiva di Kohlberg, e il prendersi cura è fondamentale per quelli che, come me, studiano l'affetto e la motivazione morale. Qualche anno fa ho sostenuto [Hoffman 1 987] che l'empatia è congruente con il prendersi cura e con la maggior parte dei principi di giustizia, e che si può quindi ragionevolmente supporre che l'empatia possa essere collegata con il prendersi cura e con la maggior parte dei principi di giustizia. L'effetto di questo legame è che i principi si «caricano» di affetto em­ patico, dal che traggono beneficio sia l'empatia sia i principi stessi. Questo capitolo si propone di approfondire l'analisi del legame tra l'empatia e i principi morali e di chiarire il contributo dell'empatia ai ragionamenti e ai giudizi morali. 2. Congruenza dell'empatia con il prendersi cura Come altri principi morali, il principio del prendersi cura non si riferisce a un atto particolare. È un'astrazione, un impe­ rativo morale, un valore fondamentale, un ideale filosofico. Ci dice che dobbiamo sempre avere considerazione per gli altri. Il nesso tra la sofferenza empatica e il prendersi cura è diretto e ovvio. In effetti, il prendersi cura sembra essere un'estensio­ ne naturale della soffe,renza empatica che sperimentiamo in situazioni particolari all'idea generale che dovremmo sempre aiutare le persone in difficoltà: «Siamo i guardiani dei nostri fratelli», «Bisogna aiutare chi soffre>>, «Tratta le altre persone come fini, mai come mezzi», «Tratta gli altri come vorresti che gli altri trattassero te». Un osservatore può sentirsi motivato per empatia ad aiutare una persona che sta soffrendo, ma può anche sentirsi obbligato ad aiutarla perché è una persona che si prende cura degli altri, una persona che abbraccia il principio di cura. L'attivazione di un principio di cura, con l'aggiunta del proprio «Sé» (il tipo di persona che si è o si vuole essere), dovrebbe rafforzare la sofferenza empatica provocata dalla situazione e l'obbligazione a seguire quel principio. L'empatia e i principi di cura sono disposizioni indipendenti ad aiutare il prossimo, che si sosten­ gono mutuamente, e perciò congruenti. 26 1

Il nesso tra l'empatia e il prendersi cura si riflette nel ragionamento morale prosociale che accompagna il compor­ tamento delle persone quando incontrano qualcuno che sta soffrendo. Nella Cap anna dello zio Tom, una donna che aveva sempre vissuto negli agi e non si era mai occupata di politica prova sofferenza empatica nei confronti degli schiavi che, dice, «sono maltrattati e oppressi fin dalla nascita», e questo la induce ad opporsi a una legge recentemente approvata che proibisce di dare cibo, abiti o asilo agli schiavi fuggiaschi. Di­ scutendo con il marito, favorevole alla legge, la donna formula l'equivalente di un principio di cura: «La Bibbia ci insegna a dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi e consolare gli afflitti», e aggiunge che «La gente non scappa quando è felice, ma quando soffre». La sua opposizione a questa legge «vergognosa, infame, abominevole» è tanto veemente che giura di infrangerla alla prima occasione [Kaplan 1 989; Stowe 1 860/ 1 966, 45 ] . Non dissimile è il conflitto morale di Huckleberry Finn tra il sentimento empatico verso lo schiavo Jim, che aiuta a fuggire, e la legge del Missouri e gli insegnamenti della chiesa, a quel tempo assolutamente contraria a qualunque aiuto agli schiavi fuggitivi. In un celebre brano, Huck scrive una lettera nella quale rivela il nascondiglio di Jim, ma dopo un lungo e tormentato esame di coscienza, mosso da sentimenti morali in conflitto (tra la sofferenza simpatetica e il senso di colpa al pensiero di quel che succederebbe a Jim se qualcuno lo sco­ prisse, e l'orribile «peccato» di mantenere segreto il rifugio di Jim ) , Huck strappa la lettera e si dice: «D' accordo, vuol dire che andrò all 'infernm> [Twain 1884/ 1 97 7 , 270] . La dichiarazione di Huck mostra che è disposto a sacrifi­ carsi, e questo testimonia la capacità potenziale dell 'empatia di motivare la condotta prosociale. Tuttavia, per i nostri scopi l'episodio della Cap anna dello zio Tom è più impor­ tante, perché mostra che la sofferenza e la rabbia empatiche insorte in relazione a vittime particolari possono attivare un p rincipio di cura generalizzato che trascende queste vittime. In altri termini, l'empatia per queste vittime è sfociata sia nell 'afferm azione del principio di cura sia nel suo uso come premessa per giudicare moralmente sbagliate le leggi che lo infrangono. 262

3.

Congruenza dell'empatia con la giustizia

Come spero di mostrare, il nesso tra l'empatia e la giustizia è meno ovvio ma altrettanto reale. Ho osservato sopra che la giustizia si riferisce ai criteri impiegati dalla società per assegnare le risorse (giustizia distributiva) e le punizioni (giustizia penale). Al centro del mio interesse è la giustizia distributiva, ma prima esamineremo brevem ente la giustizia penale o sanzionatoria. Sembra probabile che la punizione comminata per un delitto sia influenzata dal grado di empatia verso la vittima e di rabbia empatica verso l'autore di quel delitto, e che la sofferenza e la rabbia empatiche siano influenzate, a loro volta, dall'età, dal sesso e dall'identità etnica delle vittime e dei colpevoli. I mem­ bri di una giuria possono essere sensibili agli appelli empatici dell'imputato, specialmente se gli assomigliano (una donna si identificherà più facilmente con una moglie maltrattata che ha ucciso il marito) . Naturalmente, gli avvocati lo sanno e scelgono come giurati persone che empatizzeranno per i loro clienti. C'è anche la «difesa per compassione» (non è mia la colpa, mi maltrattavano) usata in un caso famoso (e, nel processo di primo grado, con successo) dai fratelli Menendez, accusati di avere ucciso i genitori. Neanche i giudici sono indifferenti agli appelli empatici. «A mio parere è tempo che il capitolo giudiziario di questa straordinaria vicenda giunga a una conclusione compassione­ vole», disse il giudice del caso della «bambinaia>> del 1 997, di cui abbiamo parlato nel capitolo ottavo, capovolgendo il verdetto di colpevolezza della giuria. Egli descrisse empati­ camente la condotta dell 'imputata come «caratterizzata da confusione, inesperienza, frustrazione e rabbia, non però da dolo». Un illustre avvocato penalista commentò che la sen­ tenza era «sorprendentemente mite, a conferma dell'unico tratto prevedibile del giudice Zobel, cioè la sua indulgenza» («New York Times», 1 1 novembre 1 997 , A l ) . Prima della sentenza, la famiglia dell'imputato può rivolgersi alla corte per muovere a compassione il giudice e spesso la compassione dei giudici favorisce l 'imputato, che nel momento della sentenza è al centro dell 'attenzione. Questo fa pensare che i giudici siano vulnerabili al bias di immediatezza dell'empatia, che può trasformare gli accusati in vittime. 263

Ricapitolando, l'empatia può influenzare la giustizia san­ zionatoria. Dal momento che valutare le simpatie personali non è compito né del giudice né dei giurati, i bias dell'empatia possono interferire con la giustizia sanzionatoria. 3 . l . Giustizia distributiva Mentre la giustizia penale mira a una corrispondenza tra il delitto e il castigo, la giustizia distributiva mira a una corri­ spondenza tra la ricompensa e la misura del merito. Vi sono tre principi di giustizia distributiva: l . Merito. La giustizia basata sul merito richiede che le risorse siano assegnate secondo la quantità o la qualità dei beni e dei servizi prodotti da un individuo: cioè, secondo la produttività, l'impegno o la competenza di quell'individuo. La competenza comprende talento, addestramento, conoscenza, abilità; tutte cose che si suppone contribuiscano, nel lungo periodo, alla produttività. Trovano posto qui anche gli inve­ stimenti economici ed educativi finalizzati alla produttività. 2. Bisogno. La giustizia comunitaria o basata sul bisogno richiede che le risorse siano assegnate secondo i bisogni delle persone, indipendentemente dalla loro produttività Oa massima del marxismo: «a ciascuno secondo i suoi bisogni»). Il bisogno può riferirsi alla povertà, allo svantaggio, a danni o torti subiti in passato che esigono riparazione. 3 . Uguaglianza. La giustizia basata sull'uguaglianza assume che ognuno abbia lo stesso valore intrinseco in un senso reli­ gioso o filosofico sufficientemente ampio (secondo Bentham: «ogni individuo vale per uno e nessuno per più di uno»). Perciò ognuno dovrebbe ricevere quanto ricevono gli altri. Nel mondo occidentale contemporaneo, la giustizia distribu­ tiva stabilisce che le risorse debbano essere assegnate in primo luogo secondo il merito; vi è spazio anche per il «bisogno» (benessere sociale) , ma in misura differente secondo il paese. L' «uguaglianza» non è tenuta in gran conto se non quando si deplora il divario tra ricchi e poveri (fanno eccezione i bambini, come vedremo nel cap. X). Intendo dimostrare qui che l'empatia è chiaramente connessa con il «bisogno» e con la versione del merito basata sull' «impegno», mentre lo è in misura minore 264

con le versioni del merito basate sulla «competenza» e sulla «produttività». 3 .2 . Empatia e giustizia distributiva Per contestualizzare la congruenza dell'empatia con la giustizia si può considerare brevemente la reciprocità (che analizzeremo in dettaglio più avanti). La reciprocità è struttu­ ralmente congruente con la giustizia. Essa è alla base di tutti i concetti di giustizia, salvo quello di «uguaglianza»: chi ha più bisogno, lavora o produce di più, dovrebbe ricevere di più; il castigo dovrebbe essere proporzionato al delitto. Se gli esseri umani preferiscono la reciprocità alla non reciprocità (come credo che sia per tutti o quasi) , una persona che lavora sodo e produce tanto quanto un'altra ma viene pagata di meno, si arrabbierà, penserà di essere stata trattata ingiustamente e si sentirà motivata a correggere l'ingiustizia. E, a seconda di quanto è empatica, se vede che qualcun altro è stato trattato ingiustamente, proverà rabbia empatica, avvertirà un sentimento empatico di ingiustizia, e sarà motivata a correggere l'ingiustizia. Perciò, benché l'empatia possa non contribuire strutturalmente alla giustizia, essa può fornire la motivazione a correggere le violazioni della giustizia di cui siano vittime altre persone. In secondo luogo, l'empatia può dare un contributo diretto e sostanziale alla giustizia basata sul «bisogno» e sull'«impegno». Uno spettatore può rispondere in modo empatico a qualcuno che ha bisogno di cibo o di un tetto (vedi i capp. dal II al IV) . Come abbiamo visto sopra, la sua sofferenza empatica può riflettere anche un principio di «cura» («dobbiamo aiu­ tare chi ha bisogno»). Ma se lo spettatore considera il cibo e un asilo come «diritti» universali, la sua sofferenza empatica potrà trasformarsi, in parte, in una risposta di giustizia basata sul bisogno: la vittima merita cibo e asilo. Lo spettatore non solo proverà empatia per la sofferenza personale della vittima, ma la considererà anche vittima di un'ingiustizia, perché i suoi diritti sono stati violati. L'empatia può collegarsi direttamente con la giustizia fondata sull'impegno per le ragioni suggerite da uno dei miei soggetti, un ragazzo di 1 3 anni, chiamato a spiegare perché rubare è 265

sbagliato (cap. II) . Uno sforzo non premiato può connotare gli stati interni della vittima: la sua motivazione a lavorare sodo, le speranze nutrite dall'attesa del premio, la delusione quando il premio non è arrivato. Sono tutti sentimenti ai quali è facile che l' osservatore risponda in modo empatico. Tradizionalmente, la socializzazione insegna agli statunitensi di classe media (e non solo a loro) a differire la gratificazione e a lavorare sodo in vista di una ricompensa maggiore. Essi perciò, se rimandano la gratificazione e lavorano senza risparmio sentono di meritare una ricompensa adeguata e, se vedono qualcuno il cui duro lavoro non è stato ricompensato, possono considerarlo una vittima e provare empatia dinanzi alle sue aspettative deluse. L' empatia non è direttamente collegata con la «produtti­ vità» o con la «competenza», che non dicono molto sugli stati interni di una persona. Vi sono però relazioni indirette: a) se una persona pensa che la produttività e la competenza richie­ dano duro lavoro, un lungo addestramento e molti sacrifici, il nesso empatia-impegno si estenderà alla produttività e alla competenza (sentimento empatico di ingiustizia per una per­ sona che ha un Ph.D. e non riesce a trovare lavoro) ; b) se una persona accetta la tesi, in voga nelle società basate sul merito, secondo cui premiare la produttività e la competenza motiva le persone a produrre di più, il che, a sua volta, avvantaggia tutti, compresi i poveri, potrà allora sostenere la produttività e la competenza su basi empatiche. L'empatia perciò sembra congruente con i principi di giustizia: in forma diretta con il bisogno e, entro certi limiti, l'impegno, e in forma indiretta con la produ ttività e la com­ petenza. Ne consegue che le persone che empatizzano con i senzatetto o con coloro che sono poveri pur lavorando dura­ mente, preferiranno «bisogno» o «impegno» a «produttività» o «competenza». In un studio compiuto nell'allora Repubblica Federale Tedesca con soggetti adulti, Montada, Schmitt e Dalbert [ 1 986] hanno trovato che l'emp atia era correlata positivamente con una preferenza per la giustizia basata sul bisogno, e, negativamente, con una preferenza per la giustizia basata sulla produttività. Lo stesso risultato è emerso in uno studio (non pubblicato) da me condotto negli Stati Uniti; e quando veniva chiesto ai soggetti - studenti universitari - di giustificare le proprie scelte, i soggetti più empatici afferma266

vano più spesso che la distribuzione basata sulla produttività danneggiava le persone svantaggiate. L'empatia sembra dunque far sì che i giovani adulti, anche nelle società basate sul merito, privilegino il bisogno contro la produttività ( almeno quando si tratta di scegliere sulla carta). Lo stesso è vero dei bambini, che antepongono il bisogno e l'uguaglianza alla produttività, e la cui preferenza per il bisogno è rafforzata dall'attivazione empatica (cap. X). Il bisogno, l'uguaglianza, l'impegno e la produttività non sono mutuamente esclusivi. Essi possono presentarsi in com­ binazioni differenti, con un fattore dominante e gli altri a ]imi­ tarne l'azione. Un sistema di giustizia siffatto è stato proposto, in tempi ormai lontani, dal filosofo Rashdall [ 1907 ] , secondo il quale «nella giustizia distributiva, l 'uguaglianza è la regola (moralmente) giusta quando non vi sono ragioni particolari per la disuguaglianza>> [ibidem, 225 ] . Parlando di «ragioni parti­ colari» si riferiva al bisogno, alla produttività e all'impegno. Rawls, come vedremo, sostiene che la norma moralmente giusta è ricompensare la «produttività», ma solo se c'è effettivamente una ricaduta favorevole per tutti, poveri compresi. Ricapitolando, quando una persona considera come dovreb­ bero essere ripartite le risorse della società, può tener conto delle implicazioni dei diversi sistemi distributivi per sé e per gli altri. Se adotta un punto di vista interessato, preferirà i principi che coincidono con la sua condi;;,ione: chi produce molto sceglierà il rendimento, la competenza o l'impegno, chi produce poco sceglierà il bisogno o l 'uguaglianza. D'altra parte, se la persona adotta un punto di vista empatico, terrà conto del benessere altrui: e la scelta tra principi astratti potrà trasformarsi nel problema (nel quale ha parte l'empatia) di immaginare le con­ seguenze di sistemi differenti per i membri meno awantaggiati della società e per quelli che lavorano di più. Pertanto, anche chi produce molto potrà preferire un sistema fondato sul bisogno o sull'uguaglianza, o un sistema che premi l'impegno. In una società basata sul merito, la cosa più probabile è che prevalga l ' inclinazione a favore del proprio interesse, sia pure temperata dall'empatia. Si potrebbe scegliere allora un sistema di distribuzione basato sulla produttività ma regolato in modo da evitare la povertà estrema (bisogno) e le eccessive disparità di ricchezza ( uguaglianza). Questo tipo di merito regolato è al 267

centro dell'influente teoria della giustizia del filosofo John Rawls [ 1 97 1 ] . Rawls argomenta esplicitamente contro l'importanza dell 'empatia o della simpatia per la giustizia distributiva, ma su questo naturalmente, non sono d'accordo. Esaminerò ora la teoria della giustizia di Rawls e la analizzerò come un caso speciale che di fatto, mi sembra, mette in risalto la congruenza dell 'empatia con la giustizia. La teoria della giustizia di Rawls. Rawls propone una distri­ buzione dei beni e dei servizi sulla base del merito (produttività); ma il merito non è sufficiente a giustificare la disuguaglianza della distribuzione, perché le disuguaglianze basate sul merito derivano, in ultima istanza, da vantaggi ereditati o legati alla classe sociale e sono perciò non meritate . Le disuguaglianze basate sul merito sono giustificate in presenza di opportunità eque ed uguali per tutti («equità» significa intervenire a favo­ re di chi è svantaggiato), ma, cosa più importante, solo se la disuguaglianza si traduce in un incremento globale dei beni e dei servizi, distribuiti poi in modo da massimizzare i benefici «per tutti, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società» [Rawls 1 97 1 , 15] . Questa giustificazione della disuguaglianza basata sul merito nei termini di una ricaduta favorevole per tutti - il «principio di differenza» di Rawls è un esempio di giustizia basata sul merito e vincolata dal «biso­ gna>>. Questo è un passaggio cruciale della mia argomentazione sulla connessione tra l'empatia e la teoria di Rawls . La giustizia rawlsiana include anche la libertà: libertà di espressione e di riunione, diritto di voto e alla proprietà privata, libertà dalla tortura, dalla schiavitù e dall'arresto arbitrario. Alla libertà si applica un solo principio di giustizia: l'uguaglianza. Tutti devono godere della massima libertà compatibile con la libertà del prossimo. La disuguaglianza in fatto di libertà non è mai giustificata. Inoltre, la libertà prevale sulla distribuzione e questa non deve mai distruggerla. Il nesso tra l'empatia e la «libertà» è ovvio: proviamo empatia per le persone le cui libertà sono state violate. Abbiamo già visto qualche esempio: i tedeschi che aiutarono gli ebrei perseguitati dai nazisti e le risposte empatiche di Huckleberry Finn e della donna che nella Capanna dello zio Tom si oppone alla legge sugli schiavi fuggiaschi. Rawls afferma la preminenza della libertà, ma la dà per scontata e concentra la sua attenzione sul principio di -

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differenza: la distribuzione delle risorse della società sulla base del merito è accettabile solo se le disuguaglianze economiche che ne derivano apportano il massimo beneficio alle persone meno avvantaggiate della società. Il metodo di Rawls è particolarmente interessante . A so­ stegno del «principio di differenza», egli propone un modello formale ipotetico in cui un gruppo di «individui liberi e razio­ nali impegnati a perseguire i propri interessi» sta facendo un gioco di negoziazione. Essi prendono in considerazione vari principi di giustizia distributiva, ciascuno dei quali rappresenta una delle principali posizioni della filosofia morale. I parteci­ panti devono raggiungere un accordo unanime su quale prin­ cipio adottare come guida per costruire e valutare istituzioni e pratiche sociali che rendano la vita degna di essere vissuta. I partecipanti devono assumere una prospettiva puramente razionale, egoistica e interessata; devono perseguire il proprio interesse ( difendere le proprie libertà, estendere le proprie opportunità) senza tenere conto dell'interesse degli altri. Essi non devono preoccuparsi di favorire o danneggiare gli altri, ma solo di ottenere il massimo profitto per sé e per i propri discendenti. Facendo dell'interesse personale - perseguito in modo razionale - il principio guida, Rawls si propone di escludere l'empatia, la compassione e lo «spettatore benevolo>> proposti da alcune teorie utilitaristiche. Il gioco ipotetico di Rawls è soggetto a due vincoli. Il primo è che preliminarmente tutti" i p artecipanti devono impegnarsi a rispettare per tutta la vita i principi scelti, anche quando essi contrastano con il loro interesse personale. Il secondo vincolo è dato dalla famosa «posizione originaria di uguaglianza» di Rawls: il «velo di ignoranza». I partecipanti non conoscono il loro posto, a quale classe appartengono, qual è il proprio status sociale e quale la propria influenza politica nella società che stanno costruendo. Non conoscono, di se stessi, razza, sesso, religione, talenti e abilità naturali (intelligenza, forza) e neppure quale sia la loro concezione di una buona vita. Perciò non potranno difendere interessi egoistici a vantaggio di particolari categorie di persone. Tutto quel che hanno è la capacità di sentire ciò che è giusto. È in questa situazione (che somiglia allo stato di natura delle teorie del «contratto sociale») che essi sono chiamati a decidere quali principi di giustizia sia meglio adottare. 2 69

Il velo di ignoranza mi interessa perché fa sì che la persona si sforzi di soddisfare i suoi bisogni egoistici senza le informazioni necessarie a farlo. Senza queste informazioni, la persona non può scegliere i principi di giustizia che la awantaggiano nella situazione in cui si trova. Al contrario, al momento di scegliere la persona si sentirà obbligata a tener conto del fatto che nella nuova società potrà occupare qualunque posizione, dalla più alla meno favorevole, e a calcolare quali principi massimizzeranno il suo benessere in qualsiasi posizione si venga a trovare. Rawls assume che, siccome la scelta è vitale e l'esito incerto, l'interesse personale razionale imponga che ognuno cerchi di evitare a se stesso e ai suoi discendenti una vita troppo sgradevole e dura. Ciò può essere fatto solo scegliendo il principio la cui peggiore conseguenza per la persona, i figli, e i figli dei figli, sia migliore della peggiore conseguenza degli altri principi. I principi che emergono logicamente dalla posizione originaria, secondo Rawls, garantirebbero a ognuno un uguale accesso «ai diritti e alle libertà personali» e tollererebbero le disuguaglianze basate sul merito solo se queste «comportassero il massimo beneficio per i membri meno awantaggiati della società» [Rawls 1 97 1 , 75]: si tratta insomma del principio di differenza. Riassumendo, il velo di ignoranza è uno strumento analitico per garantire che i partecipanti, nei loro ragionamenti, non tengano conto delle loro particolari fortune, doti o abilità. Esso li obbliga ad adottare un punto di vista astratto e generale, invece di sostenere una società che premi le doti e le abilità che essi hanno ricevute in sorte. In questo modo, per assicurare la giustizia economica e le libertà fondamentali per sé e per i suoi discendenti a partire dalla posizione originaria, l'individuo finisce col costruire una società giusta che incorpora il principio di differenza (e la preminenza della libertà ) . Rawls sostiene che questi principi sono superiori agli altri precisamente perché sono più compatibili con la posizione originaria. Essi vengono scelti s ulla base dell'interesse personale razionale ma tenendo conto della possibilità di assumere qualunque posizione nella società. Quello prescelto perciò è il principio più razionale e più giusto per chiunque in qualunque posizione. Il punto che mi affascina è che l' analisi di Rawls prende le mosse da un insieme di individui che adottano una prospettiva interessata e razionale e finisce con il costruire una società

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morale che tiene conto del benessere degli altri, specialmente delle persone «meno avvantaggiate». Queste, mi sembra, non sono altro che le persone più vulnerabili - le vittime - della società, ed è qui che interviene l'empatia. La teoria di Rawls è stata criticata, sebbene, mi sembra, non riguardo ai suoi punti fondamenta) P , e la posizione originaria resta ineguagliata come meccanismo formale per generare principi di giustizia che soddisfino i criteri filosofici di imparzialità e di equità autoevidente (sel/-evident /airness). La sua genialità sta nella supposizione che chiunque cerchi seriamente di immaginarsi in ogni posizione della società, perché vuole massimizzare il suo benessere ma non sa quale posizione occuperà, non possa che cercare di costruire una società dalla quale derivi il maggior benessere per tutte le persone, in qualunque posizione, comprese le più vulnerabili. Nella ricerca del maggiore benessere per sé, la persona consi­ dera ogni posizione dalla stessa prospettiva imparziale. Poiché la posizione originaria tiene conto di tutte le prospettive, è il modo migliore per costruire una società giusta. L'imparzialità e l'equità autoevidente, oltre alla sfida rappresentata dalla negazione di un ruolo esplicito per l'empatia, sono le ragioni della grande importanza che attribuisco alla teoria di Rawls.

3 Rawls è stato critic11to perché, supponendo che le istituzioni siano ac· cardi reciproci mutuamente vantaggiosi per contraenti uguali e cooperativi, ignorerebbe il conflitto di classe; e perché, supponendo che i partecipanti competenti siano avversi al rischio e non siano disposti a «scommettere forte», non darebbe una rappresentazione realistica della natura umana [Wellbank, Snook e Mason 1982; Wolff 197 7 ] . Questi e altri critici sembrano trascurare il fatto che le tesi di Rawls non riguardano la struttura sociale, la natura umana o il modo in cui la gente di fatto si comporterebbe nella posizione originaria. Il suo è un dispositivo nel quale la logica della situazione impone necessariamente un principio equo e libero da bias per ripartire le risorse della società. Immagino che un computer potrebbe dare la stessa risposta se fosse programmato per tener conto di tutte le posizioni sociali, calcolare le permutazioni per generazioni di discendenti per ciascuna, posizione, e trovare, tra i vari principi di giustizia, quelli migliori per tutti. E interessante chiedersi se uno «spettatore benevolo» onnisciente, che provasse empatia per gli occupanti di tutte le posizioni sociali e per i loro discendenti, arriverebbe alla stessa risposta. In ogni caso, Rawls [ 1 985] non ritiene che la sua teoria sia universale, ma che stabilisca dei principi di giustizia ad uso della moderna società democratica [ibidem] .

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La giustizia rawlsiana e il comportamento morale. Anche ammettendo l'equità autoevidente del principio di differenza di Rawls, resta una domanda: perché un individuo, special­ mente un forte produttore, dovrebbe attenersi al principio di differenza nella vita reale, nella quale non è vincolato dal velo di ignoranza ed è a conoscenza della sua posizione nella vita? Rawls non affronta direttamente questo interrogativo, ma sembra assumere che l'equità autoevidente del principio sia abbastanza convincente perché la gente vi si attenga. Tuttavia, a me sembra troppo intellettuale, razionale e idea­ listico pensare, come fa Rawls, che un'idea astratta e intuitiva­ mente attraente sia di per se stessa una motivazione sufficiente a trattenere un forte produttore dal perseguire il proprio interesse personale e dall'ignorare i bisogni degli altri. Ci vuole qualcosa di più: una motivazione ad aiutare le persone vulnerabili ab­ bastanza forte da mettere un freno all'interesse personale. Le prove che l'empatia può essere quella motivazione sono state fornite nel capitolo secondo. L'equità autoevidente del principio di differenza, se legata all'empatia, può servire allo scopo; e sono convinto che questo legame esista, perché le persone vulnerabili sono esattamente quelle che il principio di differenza chiama in causa. È per questo che, a mio giudizio, il principio di differenza si adatta perfettamente all'empatia, malgrado l'opinione contraria di Rawls. Espongo ora la mia analisi dell'empatia. L'empatia e il principio di differenza di Rawls. Le ricerche mostrano che le persone rispondono in modo empatico alle vittime (cap. II) . In esse sono compresi gli individui meno avvan­ taggiati della società secondo la definizione rawlsiana - individui che, senza loro colpa, sono privi di beni economici e lavorano molto in cambio di poco. Inoltre, la gente può considerare ingiuste le istituzioni sociali per come trattano queste persone, e può avvertire rabbia empatica; e i benestanti possono sentirsi colpevoli dei benefici che traggono da quelle istituzioni (cap. VII) . Questi affetti empatici potrebbero fornire una motivazione per attenersi nella vita reale al principio di differenza di Rawls - condividendo parte dei propri benefici con i meno avvantag­ giati - indipendentemente dai vincoli del velo di ignoranza. Ciò suggerisce che l'empatia e il velo di ignoranza, in appa­ renza tanto differenti, siano funzionalmente equivalenti per ciò che riguarda la giustizia: ambedue limitano l'interesse personale, 272

benché in contesti differenti. n velo di ignoranza vincola l 'inte­ resse personale quando si costruisce mentalmente una società moralmente equa, guidando il ragionamento basato sull'interesse personale in una direzione che tenga conto di chi è più vulnera­ bile. E quando, nella vita reale, l'interesse egoistico e i bisogni degli individui più vulnerabili sono in conflitto, l'empatia limita l'interesse personale creando una motivazione ad aiutare quegli individui. In altre parole, il velo di ignoranza è necessario per dedurre il principio di differenza, nella sua astrattezza ed equità autoevidente, ma solo l'empatia può creare la forza motivazio­ nale interna per far proprio quel principio e attuarlo attraverso istituzioni (servizi, tributi) - il che, detto per inciso, riduce la necessità di ricorrere a misure coercitive esterne4• I.:empatia nella posizione originaria. Benché la mia argomen­ tazione non lo richieda, è plausibile che l'empatia sia all'opera nella posizione originaria se la si considera non già come un gioco o un esperimento mentale, ma come una situazione nella quale persone reali seguono le istruzioni di Rawls. Una persona reale potrebbe immaginarsi di vivere in varie posizioni nella nuova società. Quando si trova a vivere nella posizione più bassa, le immagini di persone in quella posizione - le vittime della società potranno essere preattivate e venire facilmente in mente, a partire da esperienze passate o da libri o film come Cristo si è fermato a Eboli. Queste immagini possono suscitare sofferenza empatica, che si somma all'interesse personale come motivazione per scegliere il principio di differenza: l'individuo sceglie il principio non solo perché gli offre personalmente dei vantaggi, ma anche perché tratta le persone vulnerabili secondo cura e giustizia5. 4 Le persone abbienti hanno anche altre ragioni per condividere parte della propria ricchezza (offrire incentivi ai meno ricchi perché si sobbarchino quei lavori sgradevoli ma necessari alla società; ridurre la delinquenza; evitare i conflitti di classe), ma su di esse non si può far conto perché alcuni individui abbienti potrebbero accumulare le loro ricchezze e lasciare ad altri l'onere della condivisione. La motivazione empatica è intrinseca; perciò, da sola o in combinazione con altre motivazioni, dovrebbe assicurare un minimo di condivisione da parte della maggioranza dei più abbienti. ' Questo processo, nel quale la p reattivazione di immagini della vittima provoca sofferenza empatica, che, a sua volta, contribuisce a un principio morale, ha molto in comune con il p rocesso, descritto in precedenza, in cui la scelta tra principi astratti viene trasformata in un compito nel q uale ha parte l'empatia immaginando le conseguenze per il prossimo.

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Stando così le cose, il fatto che un partecipante esamini i principi di giustizia e scelga il principio di differenza, provan­ do, al tempo stesso, sofferenza empatica può contribuire allo sviluppo morale prosociale. In altri termini, il riflettere sul principio e insieme avvertire sofferenza empatica può creare un legame tra il principio e la sofferenza empatica, giacché ambedue tendono a tener conto delle vittime della società. Il principio di differenza si carica così di affetto empatico, e, benché generato nella posizione originaria, può agire nella vita reale non solo per la sua equità autoevidente, ma anche per l' affetto empatico cui è associato. Riassumendo, il velo di ignoranza è necessario per derivare il principio di differenza, nella sua astrattezza ed equità autoe­ vidente. Ma l'empatia, per la sua congruenza con i principi di giustizia e per il suo possibile ruolo nella posizione originaria, può creare nelle persone la motivazione interna ad attenersi al principio di differenza. L'empatia può dunque essere utile a Rawls, nonostante sembri il contrario, e nonostante il suo ten­ tativo di farne a meno, poiché mette la sua teoria in relazione con il mondo e con la psicologia - e forse con la biologia, visto che l'empatia può essere frutto della selezione naturale e parte integrante della natura umana [Hoffman 1 98 1 ] . Un esempio. Nella Lettera pastorale dei vescovi sulla dottri­ na sociale cattolica e l'economia degli Stati Uniti [ 1 984; 1 985 ] , si parte d a un' analisi dell'economia statunitense e s i arriva, immaginando gli effetti dell'economia sulle persone pove­ re, a delineare una missione nella quale ha parte l'empatia. La lettera descrive con eloquenti dettagli e tono enfatico la difficile situazione dei poveri («sentimento di disperazione», «vulnerabilità», «attacchi quotidiani alla loro dignità») . Essa conclude che le gravi disuguaglianze non hanno giustificazione morale, soprattutto quando vi sono milioni di persone che non riescono a soddisfare le necessità più elementari, e giudica moralmente inaccettabili i livelli di disoccupazione e povertà di quegli anni. Partendo dall'empatia e dalla compassione per i poveri, la lettera attribuisce la loro sofferenza al sistema di distribuzione dominante. Essa sostiene che il bisogno è un principio di giustizia fondamentale, e vede che esso è violato da un sistema che è insensibile ai bisogni delle persone, crea innumerevoli vittime, e perciò è moralmente sbagliato. 274

La lettera termina appoggiando un criterio di giustizia basato sul merito e temperato dal bisogno. Essa afferm a che la concentrazione dei privilegi nella società contemporanea occidentale dipende più dal modo in cui le istituzioni distribui­ scono il potere e la ricchezza che non da differenze di talento o di voglia di lavorare. E sostiene che il criterio morale fonda­ mentale delle decisioni economiche, politiche e istituzionali è che siano utili a tutti i cittadini, specialmente a quelli poveri. La lettera ricorda da vicino il «principio di differenza» di Rawls e conferma la congruenza dell 'empatia con i principi della giustizia distributiva. In conclusione, l'empatia può essere connessa tanto con la cura e la giustizia distributiva quanto con la giustizia penale, nonché con i diritti umani, giacché negare i diritti delle persone vuoi dire trasforrnarle in vittime. Ciò conferma l'ipotesi ( cap. VIII) che l'empatia possa essere legata ai principi morali, o incorpo­ rata in essi, e possa trarre vantaggio da questo legame perché la dimensione cognitiva del principio (interpretazione semantica, proprietà categoriale) protegge l'empatia dalla sovrattivazione e dai bias. Il principio, per parte sua, può trarre vantaggio dal legame acquisendo la forza motivazionale dell 'affetto empatico. Di seguito espongo alcune ipotesi sui processi di interazione tra affetto e cognizione, dopo di che analizzerò la relazione tra l'empatia e la reciprocità e le sue conseguenze per i ragionamenti e i giudizi morali. I processi di sviluppo che collegano l'empatia con i principi morali sono oggetto del capitolo decimo.

4.

Conseguenze de/ legame tra empatia e principi morali

Vediamo come i principi morali possano stabilizzare l'af­ fetto empatico suscitato dalle situazioni che implicano vittime. Quando una persona incontra qualcuno che sta soffrendo, accadono due cose: la persona prova sofferenza empatica; si attivano in essa principi morali carichi di empatia, con le loro componenti cognitive e affettive. La componente cognitiva del principio aiuta la persona a «decentrarsi)) dalle caratteristiche salienti della situazione della vittima, a valutare le implicazioni a lungo termine delle sue difficoltà, e a rispondere con il livello più appropriato (cioè il più alto) di sofferenza empatica. 275

La mia ipotesi è che l'affetto empatico del principio morale Oa sofferenza empatica suscitata dal principio) aiuti a stabiliz­ zare l'affetto empatico suscitato direttamente dalla vittima (la sofferenza empatica dovuta alla situazione) nel modo seguente. Se la sofferenza empatica suscitata dal principio è più debole della sofferenza empatica suscitata dalla vittima, la sofferenza empatica globale dell'osservatore diminuirà. Se la sofferenza empatica suscitata dal principio è più intensa della sofferenza empatica suscitata dalla vittima, la sofferenza empatica glo­ bale dell'osservatore aumenterà. In altri termini, l'attivazione di un principio morale carico di affetto empatico ha l'effetto stabilizzante di aumentare o diminuire l'intensità dell'affetto empatico dell'osservatore. La risposta empatica dell'osservatore dipenderà così in misura minore dalle variazioni di intensità e di salienza dei segni di sofferenza provenienti dalle vittime, e la sovrattivazione (o la sottoattivazione) empatica sarà meno probabile. Quale vantaggio traggono i principi morali dal legame con l'empatia? La mia ipotesi è che i principi morali astratti, appresi in contesti educativi «freddi» (lezioni, prediche) , manchino di forza motivazionale. L'empatia trasforma i principi morali in cognizioni prosociali «calde» - rappresentazioni cognitive cariche di affetto empatico, e pertanto di forza motivazionale. Come avviene questa trasformazione? La mia ipotesi è che una persona che vive un conflitto morale prenda in considerazione le possibili azioni che ha dinanzi e ne valuti le conseguenze per le altre persone. Ciò evoca immagini di persone danneggiate da quelle azioni; queste immagini suscitano sofferenza empatica e senso di colpa anticipatorio; le immagini e gli affetti empatici attivano i principi morali della persona. La compresenza di empatia e principio crea tra loro un legame che fornisce al principio una carica affettiva. Si ricorderà l'esempio, descritto da Coles, dell' empatia di uno studente bianco di uno stato del Sud nei confronti di un compagno di colore (cap. IV) . Io suggerisco che lo studente si fosse già imbattuto nel principio di giustizia e lo conservasse nella memoria, e che in quella situazione la sua risposta em­ patica a una palese violazione della giustizia e l'ammirevole reazione della vittima avessero attivato il principio, in virtù della congruenza tra empatia e giustizia. La congiunzione tra 276

empatia e violazione del principio ha p rovocato nel ragazzo sentimenti empatici di ingiustizia e un collegamento tra l' af­ fetto empatico e il principio di giustizia che ha conferito forza motivazionale al principio6• Ciò può spiegare perché il ragazzo non si sia fermato all'empatia situazionale, ma sia diventato un sostenitore della posizione di principio secondo cui occorreva mettere «fine a tutto lo sporco affare della segregazione». Ricapitolando, la mia ipotesi è che quando i principi si uniscono con l'affetto empatico acquisiscono una carica affet­ tiva e, insieme, la forza motivazionale dell'affetto. Essi vengono quindi conservati nella memoria come rappresentazioni proso­ ciali cariche affettivamente - cognizioni «calde» - che possono attivarsi di fronte a una violazione del principio. Da questa ipotesi seguono tre semplici predizioni: l'empatia è correlata con l'azione prosociale; l'adesione a un principio morale pro­ sociale è correlata con l'azione prosociale; l'affetto empatico e il principio, uniti tra loro, sono correlati più strettamente con l'azione prosociale che non l'uno o l'altro da soli. Questa mia ipotesi non è stata messa direttamente alla prova, ma, se ammettiamo che il ragionamento morale prosociale orientato al prossimo (ragionare a partire dai bisogni del prossimo o dall'assunzione del punto di vista altrui) sia un'approssimazione o un precursore dei principi di «cura», la ricerca di Eisenberg e collaboratori conferma l'ipotesi a tre livelli di età: età prescolare, fanciullezza e adolescenza [Eisenberg et al. 1 995 ; Miller et al. 1996] . L'empatia, il ragionamento morale prosociale orientato all'altro, e, soprattutto, la congiunzione dei due, correlano positivamente con il comportamento prosociale a tutti e tre i livelli di età. Più interessante dell'effetto additivo dell'empatia e del prin­ cipio morale è l'aspetto dell'elaborazione delle informazioni: la componente empatica e quella cognitiva del principio si attivano simultaneamente o in successione? La mia predizione è che se la 6

Una via alternativa per giungere al sentimento empatico di ingiustizia

è che le esperienze personali nella posizione di vittima (furti, aggressioni

ingiustificate, parole ingiuriose) si compongano a formare un concetto di trattamento ingiusto che viene poi applicato per empatia ad altre vittime. Ciò però sembra improbabile nel caso in questione, visto che il ragazzo era benvoluto da tutti.

277

sofferenza della vittima è saliente, come nell'esempio di Coles, verrà prima l'affetto empatico. Nei contesti che inducono a fo­ calizzarsi sulla dimensione cognitiva (il gioco mentale di Rawls, domande ipotetiche nello stile di Kohlberg ) , la cognizione viene prima e può preattivare le immagini delle vittime, che, a loro volta, suscitano empatia (come forse nel caso dei miei soggetti di settima classe che dovevano spiegare perché è sbagliato rubare; cap. IV) . I principi morali carichi di affetto empatico dovrebbero durare a lungo per due ragioni: le conoscenze categoriali integrate semanticamente (principio) sono conservate nella memoria a lungo termine [Tulving 1972 ] ; e l'affetto (empatia) è un indizio efficace per il recupero dalla memoria [Bower 1 98 1 ] . Questi principi non solo dovrebbero permanere nella memoria, ma anche essere pronti ad attivarsi in nuovi incontri morali, anche quando la situazione non suscita empatia. A tutt 'oggi, le prove di questi processi sono poche e in­ dirette. In uno studio di Arsenio e Ford [ 1 985 ] , dei bambini piccoli provavano sentimenti negativi quando venivano rac­ contate loro storie nelle quali un bambino trattava male un coetaneo; in seguito, l'attivazione sperimentale di un affetto negativo facilitava la rievocazione delle storie. Ciò indica che quando la violazione del prendersi cura è associata con un affetto negativo, viene conservata nella memoria ed è pronta ad attivarsi quando si torna a sperimentare un affetto nega­ tivo. Sembra ragionevole aspettarsi lo stesso per categorie di violazioni come i principi di cura: quando un principio di cura è associato con un affetto empatico, viene conservato in memoria, pronto ad attivarsi quando viene sperimentato un affetto empatico. Alla fine, può non essere più necessario provare l'affetto empatico. Batson e colleghi [ 1 995 ] hanno osservato che quando gli adulti valutano positivamente una persona in difficoltà e la valutazione è associata con un affetto empatico, dare importanza al benessere altrui diventa una disposizione stabile, che permane e muove all'azione prosociale anche se l'affetto empatico viene meno. Ciò dovrebbe essere vero anche dei principi di cura (e, forse, di giustizia) : una volta unito con un affetto empatico, un principio può favorire l'azione prosociale anche in assenza di affetto empatico, in accordo con la mia ipotesi che l 'empatia possa dare una base motivazionale ai principi morali. 278

5.

Reciprocità

La reciprocità chiama in causa la percezione dell'equilibrio e dell' armonia [Feather 1 995 ; Heider 1 958] , che, nella sfera morale, si traduce in equità o giustizia: ricevere ciò che si merita, premi per le buone azioni e castighi per le cattive; proporzione tra il delitto e il castigo ( occhio per occhio); trattare gli altri come vorremmo che gli altri trattassero noi. Damon [ 1 977] suggerisce che gli esseri umani preferiscano naturalmente la reciprocità e che sia questa la ragione per cui i bambini sono ricettivi alle induzioni che evidenziano l'ingiustizia di certe loro azioni . Non vi sono prove che la reciprocità sia una motivazione prosociale, ma, come ho osservato nel capitolo quarto, essa può trasformare la sofferenza empatica, che è una motivazione prosociale, in un sentimento empatico di ingiustizia. Sembra ragionevole pensare che la preferenza per la recipro­ cità sia frutto della selezione naturale. La teoria dell'evoluzione dell'altruismo reciproco (aiutare le persone in pericolo) proposta da Trivers [ 1 97 1 ] , che ha un ruolo importante nel mio argo­ mento a favore dell 'evoluzione dell'empatia [Hoffman 198 1 ] , può essere anche un argomento a favore dell'evoluzione della reciprocità. Quello che sappiamo sulle condizioni di vita dei primi esseri umani suggerisce che la sopravvivenza della specie richiedesse di ricompensare gli individui che ottenevano buoni risultati (nella caccia, ad esempio). Perciò l'esigenza di una cor­ rispon denza tra produttività e ricompensa potrebbe essere parte della natura umana. Le persone si aspettano di vedere premiata la produttività e, se ciò non avviene, pensano che sia ingiusto. In ogni caso, che la reciprocità sia frutto dell'evoluzione o della cultura, gli statunitensi adulti (non i bambini, come vedremo) mostrano di preferirla. Ciò che si fa deve essere . proporzionato a ciò che si ottiene, e le deviazioni, in un senso o nell' altro, possono suscitare sentimenti negativi. Una persona che riceva meno di quanto merita proverà rabbia e risentimento e si sentirà defraudata. Ricevere più di quanto si merita è meno sgradevole, ma una persona che riceva un premio più grande di un'altra che ha fatto altrettanto bene potrà sentirsi in colpa [Austin 1 980; Baumeister, S tillwell e Heatherton 1 994] . Come è stato osservato da Schroeder e colleghi [ 1 995 , 2 1 4 ] , «Se qual­ cuno crede di avere ricevuto più di quello che si meritava, può 279

sentirsi troppo avvantaggiato, e questo può scatenare sentimenti di colpa e l'aspettativa di essere punito».

5 . 1 . Empatia e reciprocità Come interagiscono l'empatia e la reciprocità? Dal pun­ to di vista dello sviluppo, l'empatia fa la sua comparsa nella prima infanzia (capp. II e III), ma è solo tra gli 8 e i 10 anni di età che il bambino dà mostra di reciprocità e comincia ad assegnare le ricompense sulla base del merito. Prima d'allora, le ricompense sono attribuite sulla base dell'interesse persona­ le, dell' «uguaglianza» (condivisione) e del «bisogno» (cap. X); può capitare che un bambino dica «non è giusto», ma lo farà soprattutto quando crede di essere stato defraudato. La ragione per cui l'empatia emerge prima della reciprocità può risiedere nel fatto che le sue modalità di attivazione sono più primitive; nella reciprocità, invece, la cognizione ha un ruolo critico: ad esempio, per cogliere le violazioni della reciprocità, è necessario concentrare l'attenzione sui molteplici aspetti di una situazione. Ciò suggerisce che la ricettività dei bambini piccoli alle induzioni che sottolineano l'iniquità dei loro atti - constatata da Damon ­ dipenda dalla sofferenza empatica e dal senso di colpa (cap. VI) piuttosto che dalla reciprocità. Nei bambini più grandi, d'altra parte, la reciprocità può avere un ruolo importante, ad esempio per organizzare gli affetti empatici in sentimenti di ingiustizia. Per ragioni simili quando una persona, indipendentemente dall'età, si trova nella posizione di spettatore, può avvertire sofferenza empatica prima ancora di riconoscere che l'altro è stato vittima di una violazione della reciprocità. Generalizzando questo punto, ritengo che la motivazione ad aiutare una vittima derivi dall'affetto empatico, affetto che la reciprocità può intensificare, modellare e convertire in una potente motivazione non solo ad aiutare ma anche a correg­ gere l'ingiustizia. In questo modo la preferenza cognitiva per la reciprocità può aggiungere una componente di ingiustizia all'affetto empatico di una persona, e trarre a sua volta forza motivazionale dall'associazione con l' affetto - una forza che non solo è motivazionale ma anche prosociale. La reciprocità può ovviamente essere dotata di una componente motivazionale 280

propria (correggere la mancanza di reciprocità). Ciò non è stato dimostrato ma, anche se lo fosse, resta vero che la reciprocità non è intrinsecamente prosociale: è neutra e abbraccia tanto l'idea non prosociale dell'«occhio per occhio» quanto il principio «chi lavora sodo dovrebbe essere premiato». Se la reciprocità è una motivazione può essere al servizio di molti padroni; è l'associazione con l'empatia che la rende prosociale1. Di conseguenza, il concetto di reciprocità, come i principi di giustizia sostanziali, può arricchirsi di affetto empatico e diventare una cognizione prosociale «calda», dopo di che po­ trà attivarsi ogni volta che osserviamo una situazione di non reciprocità, e anche quando ne veniamo a conoscenza attra­ verso letture o discorsi, e non c'è nessuna vittima presente. Lo sviluppo procede «dal basso verso l'alto» - dall'empatia alla reciprocità -, ma il concetto di reciprocità «caldo», una volta che si sia formato, può attivarsi «dall'alto verso il basso», come i principi di giustizia sostanziali. Empatia, reciprocità e principi morali. L'interpretazione che ho dato della mutata condotta dello studente bianco del Sud descritto da Coles nei confronti del compagno di colore suggerisce che le cose, in generale, potrebbero procedere in quest'ordine: a) vi è una risposta empatica alla sofferenza della vittima; b) l'evidente contrasto tra ciò che la vittima merita (o i suoi diritti, il suo carattere) e il modo in cui è stata trattata - una chiara violazione della reciprocità - trasforma la sofferenza empatica in un sentimento empatico di ingiustizia; c) il sentimento empa­ tico di ingiustizia può preattivare i principi morali pertinenti e caricarli di affetto empatico. Nell'esempio di Coles, il principio è l'uguaglianza dei diritti. Possiamo similmente immaginare di provare empatia per una persona che è stata imbrogliata: il contrasto fra ciò che la persona merita e il modo in cui è stata 7 Se poi la reciprocità avesse proprietà motivazionali intrinseche, sup· pongo che sarebbe il contesto a determinare se entra in azione l'empatia o la reciprocità. Se incontriamo una persona che sta soffrendo p roveremo sofferenza empatica e, se quella è vittima di un'ingiustizia, potrà attivarsi anche la reciprocità, e l'affetto empatico potrà trasformarsi in un sentimento di ingiustizia. Se, d'altra parte, incontriamo qualcuno che ottiene più di quel che merita, si attiverà la reciprocità ma non la sofferenza empatica (salvo che simultaneamente non si immagini una vittima; per esempio, una persona che in questa situazione ha ricevuto meno di quanto meritasse ) .

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trattata fa sì che la nostra sofferenza empatica si trasformi in un sentimento empatico di ingiustizia. Questo, a sua volta, preattiva il principio che le persone meritano di ricevere quello che si sono guadagnate e che imbrogliare non è giusto, caricando di affetto empatico il principio (se non è già dotato di questa carica). Altri principi carichi di empatia (relativi a ingiurie, tradi­ menti, furti, ecc . ) possono essere acquisiti allo stesso modo. Più principi possono accorparsi a formare un principio astratto (ma ancora carico di empatia) contro l'ingiustizia verso una perso­ na. Le esperienze vissute come vittima (di frodi, furti, insulti, tradimenti) possono rafforzare la componente motivazionale del principio: una persona che è stata trattata ingiustamente proverà più facilmente empatia per chi si trova adesso nella stessa condizione. Il risultato di tutto questo è che l'essere spettatore di un trattamento ingiusto suscita sentimenti em­ patici di ingiustizia che attivano i principi morali pertinenti (e suscitano in noi un senso di colpa anticipatorio se abbiamo la tentazione di trattare qualcuno ingiustamente). Reciprocità e bias empatici. Fino a questo punto, l'empatia e la reciprocità sono apparse congruenti. Ma la reciprocità, di­ versamente dall'empatia, dovrebbe essere neutra ed esente da bias: una persona, chiunque essa sia, dovrebbe essere punita per i suoi crimini e remunerata per ciò che produce. Questo è quel che accadrebbe se fosse possibile definire e misurare oggettivamente crimini e prodotti, e associarli appropriatamen­ te a castighi e premi, che è poi l'obiettivo fondamentale delle leggi. Ma, come abbiamo visto, giudici, giurie e tutti coloro che hanno a che fare con la giustizia penale sono vulnerabili ai bias empatici; e lo stesso è vero delle persone che amministrano la giustizia distributiva (datori di lavoro, insegnanti). Ciò nondime­ no, fintantoché le norme di reciprocità appaiono intuitivamente soddisfacenti, condizionano il diritto e i costumi della società, e sono seguite da chi amministra la giustizia, esse possono servire a minimizzare i bias empatici. La reciprocità, insomma, non solo aggiunge un elemento di giustizia all'empatia, ma può anche contribuire a limitare quei bias. In breve, l'empatia conferisce la forza motivazionale prosociale; la reciprocità, normalmente nella forma di un principio di giustizia, la plasma e la controlla. In conclusione, l'empatia è una motivazione prosociale che si oppone a profonde motivazioni egoistiche. Per quanto fragile, 282

essa a volte vince l'egoismo nelle situazioni dello spettatore e del trasgressore (cap. II) . Non è però priva di limiti, e non è in grado da sola di soddisfare le esigenze della giustizia, special­ mente negli incontri in cui questa si contrappone al prendersi cura (cap. Xl) , a causa della sovrattivazione e dei bias cui è soggetta l'empatia. Questi limiti possono essere minimizzati quando l'empatia viene unita alla reciprocità e inclusa in principi morali, facendo sì che in questi incontri l'empatia contrasti più efficacemente l'egoismo. 5.2. Implicazioni per i modelli dello spettatore e del trasgressore Come si può arguire, il modello dello spettatore e quello del trasgressore, per essere completi, devono includere non solo la sofferenza empatica e il senso di colpa, ma anche i principi morali pertinenti. Questi principi possono essere attivati direttamente o preattivati dalla sofferenza empatica e dal senso di colpa. Nei contesti didattici, l'ordine può essere inverso: prima il principio cattura l'attenzione dell'osservatore e poi evoca immagini della vittima che suscitano sofferenza empatica e senso di colpa. 5 . 3 . Empatia e giudizio morale L'ipotesi che l'empatia condizioni il giudizio morale non è nuova; David Hume la propose più di due secoli fa [ 175 1/1957]. L'argomento di Hume era che noi ovviamente approviamo le azioni che accrescono il nostro benessere e condanniamo quelle che possono danneggiarci; perciò, se proviamo empatia per qualcun altro, dovremmo approvare o condannare le azioni che lo aiutano o che lo danneggiano; e, salvo essere oltremodo insensibili, se vediamo che una persona ne fa soffrire delibe­ ratamente un' altra proveremo indignazione (rabbia empatica). Hume sosteneva inoltre che l'empatia costituisce il criterio ultimo per valutare la correttezza dei giudizi morali. Poiché la maggior parte delle persone danno agli eventi risposte empatiche simili, parlano tra loro di questi eventi e rispondono empatica­ mente a ciò che ciascuno dice d elle azioni significative e delle loro conseguenze, l'empatia assicura l'apporto di informazioni 283

condivise necessario agli osservatori imparziali per giungere a un consenso attendibile sui giudizi morali. Questa concezione è stata criticata da Rawls [ 1 97 1 ] , secondo il quale l'empatia manca della sensibilità situazionale necessaria a raggiungere un consenso razionale; come ho osservato, il mo­ dello di Rawls è fatto in modo da escludere l'affetto empatico. Il mio modello dell 'empatia (cap. III) è meno esposto a questa critica, perché l'empatia matura implica l'elaborazione di un complesso di indizi situazionali e di informazioni sulle condizioni di vita dell'altro, che hanno a che fare con le conseguenze e gravità delle diverse azioni per persone diverse. Perciò, almeno nelle società etnicamente omogenee, dovrebbe essere possibile raggiungere un consenso informato e razionale basato sull'em­ patia. Ma c'è una difficoltà: data la vulnerabilità dell 'empatia alla sovrattivazione e ai bias di familiarità e di immediatezza, non vorrei seguire Hume e determinare la validità dei giudizi morali sulla base delle risposte empatiche collettive. Nondimeno, date le qualità motivazionali prosociali dell'em­ patia e la sua congruenza con il prendersi cura e con la maggior parte dei principi di giustizia, l'empatia dovrebbe poter facilitare il giudizio e il ragionamento morale prosociale. Ne sono esempio la donna della Capanna dello zio Tom, che passa dall'empatia per gli schiavi maltrattati all'adesione a un principio di cura, del quale si serve poi come criterio per giudicare moralmente sbagliate le leggi che violano quel principio; la lettera pastorale dei vescovi degli Stati Uniti, che, partendo dall'empatia nei confronti dei poveri giunge a un principio di giustizia che tiene conto del bisogno, e usa questo principio per giudicare moralmente sbagliato il sistema di giustizia distributiva; lo studente di Coles, che dall'empatia per una particolare vittima arriva a ritenere moralmente sbagliata la segregazione razziale, che fino ad allora aveva accettato. Negli studi sul giudizio morale e sulla presa di decisione, il compito dei soggetti è dire come dovrebbe comportarsi una persona in un dilemma morale (e perché proprio così ) , o di identificare un problema morale. La vita reale è un'altra cosa. In alcune p rofessioni (giudici, dirigenti aziendali) è necessario formulare giudizi e prendere decisioni su quali premi e quali punizioni dovrebbero ricevere altre persone, ma gli incontri morali della maggior parte delle persone non cominciano con compiti cognitivi del genere. Di solito vediamo qualcuno che sta

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soffrendo e avvertiamo un conflitto tra il desiderio di aiutarl o l' quello di continuare a fare ciò che stavamo facendo; ci sentiamo indignati quando vediamo una persona trattata ingiustamente (lo studente di Coles) ; scopriamo che le nostre azioni hanno danneggiato qualcuno o possono farlo; siamo tentati di violare le ragionevoli aspettative di un' altra persona (infrangere una promessa o un patto) o avvertiamo una pressione esterna a farlo; sperimentiamo un conflitto tra l'impulso ad aiutare e la legge Oa donna della Capanna dello zio Tom). Mi colpisce il fatto che la maggior parte dei dilemmi morali riguardi vittime (o beneficiari ), reali o potenziali, delle nostre azioni. È ragionevole supporre che il fatto di pensare a che cosa fare in queste situazioni spesso attiverà in noi immagini o pensieri sulle persone beneficiate o danneggiate dalle nostre azioni. E lo stesso può avvenire quando giudichiamo le azioni altrui. Perciò, quando giudichiamo le azioni nostre o altrui e prendiamo decisioni morali può essere attivata l'empatia. E, se la mia argomentazione sul nesso tra l'empatia e i principi morali è giusta, è possibile che questa empatia preattivi i nostri principi morali, che, assieme all'empatia «grezza» suscitata dalla situazione, contribuiranno al processo di ragionamento morale, più o meno come accade negli esempi citati sopra. In breve, la mia tesi è che la maggior parte dei dilemmi morali della vita suscitino empatia perché implicano vittime, visibili o invisibili, presenti o future. A sua volta, l'empatia attiva principi morali e, direttamente o per loro tramite, influenza il giudizio e il ragionamento morale. Ciò può accadere anche nei contesti didattici quando le persone «costruiscono>> una vittima. In un mio studio ho adattato un dilemma morale di Kohlberg: Al scassina un negozio e ruba 500 dollari; Joe raggira un noto benefattore della città raccontandogli di avere bisogno di 5 00 dollari per un 'operazione; entrambi lasciano la città con il denaro in tasca. Chi dei due si è comportato peggio, Al o Joe? E perché proprio lui? [Hoffman 1 970a] . La maggior parte delle risposte degli alunni di quinta e di settima classe e dei loro genitori era basata su una filosofia «legge e ordine», sui dieci comandamenti e sulla probabilità che i m alfattori fossero scoperti. Ma, benché la domanda non facesse menzione di vittime, più di un quarto dei soggetti la trasformarono in una domanda che implicava una vittima, per la quale essi empatizzarono. Ad esempio: il peggiore 285

è stato Joe perché ha abusato della fiducia e della compassione del suo benefattore, perché per colpa sua quell'uomo si è sentito tradito da qualcuno di cui si fidava, ha perduto la fiducia negli altri e la delusione lo ha inasprito, o altre persone che avevano davvero bisogno di aiuto sono rimaste senza; oppure: il peggiore è stato Al perché il proprietario del negozio aveva lavorato sodo per guadagnare quei soldi, risparmiava per la famiglia, erano soldi di cui aveva bisogno. Va sottolineato che se la domanda veniva trasformata da: «Chi si è comportato peggio?» in: «Quale comportamento ti avrebbe fatto sentire peggio, se ne fossi stato l'autore?», la fre­ quenza delle risposte empatiche raddoppiava. Inoltre, anche se la maggior parte delle risposte empatiche implicavano che Joe si fosse comportato peggio, quando ai soggetti veniva chiesto «che genere di persona» fosse il benefattore, i soggetti che avevano risposto empaticamente la criticavano perché era stato sciocco o ingenuo, esattamente come quelli che non avevano risposto empaticamente. In altri termini, provavano empatia per lui ed erano convinti che ingannarlo era stata una cattiva azione, indipendentemente dalle critiche nei suoi confronti. E poiché questi giudizi andavano al di là dell'empatia per una persona generosa, la loro moralità era più convincente. 5.4. Empatia, giustizia distributiva e società Quasi tutte le riforme sociali comportano qualche costo o sacrificio o almeno una riduzione dei privilegi goduti da alcu­ ni affinché vi sia più giustizia per tutti. È meglio che i costi siano accettati e non imposti, benché ciò sia difficile in una società atomizzata in componenti razziali, etniche, di classe e regionali come sembra stia diventando la nostra, nella quale gli interessi degli individui e dei gruppi sono pressanti e le persone sembrano non capire perché dovrebbero preoccuparsi dei guai di collettività che vivono all'altro capo del paese. Molti sembrano rifiutare l'idea di una responsabilità nazionale per il benessere altrui. È per questo che la morale empatica è importante, e per la stessa ragione è importante un'educazione morale empatica che promuova la capacità di valicare le frontiere e trascendere il proprio gruppo (vedi il cap. XIII) . 286

CAPITOLO DECIMO

SVILUPPO DEI PRINCIPI DI GIUSTIZIA FONDATI SULL'EMPATIA

Come abbiamo appena visto, le emozioni empatiche, che cominciano a svilupparsi nella prima infanzia e continuano a farlo per la fanciullezza e oltre (vedi i capp. dal II al VI) , sono chiaramente congruenti con il «prendersi cura» e con la giustizia fondata sul «bisogno». Il «bisogno», oltre che essere congruente, può essere connesso all'empatia dalle induzioni cui i genitori ricorrono quando un bambino deride una persona che mendica o vive per la strada («Non c'è niente da ridere, non può farci nulla, non ha un posto dove vivere») . Ma prima di avventurarci in ipotesi sul contributo della socializzazione alle relazioni dell'empatia con l' «impegno» e con la «produtti­ vità», che, come abbiamo visto nel capitolo nono, sono meno ovvie della relazione dell'empatia con il «bisogno», sarà utile riassumere i risultati delle ricerche sui concetti di giustizia distributiva del bambino, empatia a parte. l.

«Stadi» dello sviluppo della giustizia

Gli studi su quel che i bambini di età diverse considerano giusto, fin dalle ricerche pionieristiche di Damon [ 1977] , hanno raggiunto un accordo abbastanza vasto sui concetti di equità impiegati dal bambino nei suoi ragionamenti sulla giustizia distributiva. In questi studi, di solito, ai bambini viene chiesto di assegnare una ricompensa per lo svolgimento di un compito a destinatari che differiscono per produttività e per altri aspetti. Questi studi hanno messo in evidenza una linea di sviluppo che va dall'assegnazione di ricompense basate sull'interesse personale (e su fattori irrilevanti come l'età) nei bambini in età prescolare; a una chiara p referenza per una ripartizione egualitaria dei premi a 5 o 6 anni; a una crescente enfasi sulla 287

proporzionalità tra ricompense e produttività, da solo o combi­ nata con il bisogno (povertà) tra i bambini più grandi [Damon 1 977; Hook e Cook 1979] . I bambini più grandi possono anche destreggiarsi tra rivendicazioni in conflitto e ideare soluzioni di compromesso nelle quali ciascuna rivendicazione possa trovare, almeno in parte, riconoscimento. Sigelman e Waitzman [ 1 99 1 ] hanno criticato questa gene­ ralizzazione, che, sostengono, può essere dovuta al fatto che le ricerche si erano limitate a situazioni in cui venivano assegnate ricompense per lo svolgimento di un compito, situazioni che è probabile favoriscano una linea di sviluppo che va dall'ugua­ glianza a una distribuzione basata sulla produttività. Per su­ perare questa difficoltà, gli autori hanno studiato le differenze tra le età nelle decisioni in materia di giustizia distributiva di alunni dell'ultimo anno di scuola materna, di quarta e ottava classe, in tre contesti: una situazione di ricompensa del lavoro svolto pensata per attivare una norma di giustizia basata sulla produttività; una situazione di votazione per rendere saliente la norma di «uguaglianza»; e una situazione di beneficenza nella quale ci si aspettava che le decisioni fossero influenzate dal principio di «bisogno»1 • Sigelman e Waitzman ipotizzarono che i bambini, con l'età diventassero sempre più consapevoli non solo delle norme a favore di una corrispondenza tra la ricompensa e il rendimento nei contesti produttivi, ma anche degli ideali democratici di uguaglianza nei contesti politici, e delle norme di responsabilità sociale quando in primo piano è il bisogno. 1 Ai soggetti veniva richiesto di dire come distribuire nel modo più giusto delle risorse fra tre bambini, ospiti di un campeggio, che venivano presentati con una descrizione verbale e un disegno: uno era il più povero di tutti, uno il più vecchio, e uno il più laborioso (quello che faceva più disegni e più oggetti di creta nelle ore previste per queste attività). La distribuzione avveniva in tre diversi contesti, ciascuno volto ad attivare un diverso principio di giustizia. Nello scenario di equità in base alla prestazione, si trattava di distribuire nove dollari ricavati dalla vendita di oggetti di creta costruiti dai tre bambini. Nello scenario di uguaglianza, bisognava distribuire fra i tre bambini nove schede con cui votare quale gioco doveva essere acquistato con dei soldi a disposizione del campeggio. Infine, nello "scenario di beneficienza", volto ad attivare il principio del bisogno, si dovevano distribuire fra i tre bambini 90 dollari che una signora aveva regalato al campeggio perché i bambini potessero comprare le cose di cui avevano maggiormente bisogno [NdC] .

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Queste aspettative sono state confermate dai risultati. I bambini di 5 anni preferivano distribuire le risorse secondo uguaglianza in tutti i contesti e non modificavano la distribuzione in funzione della situazione. Sia i bambini di 9 anni sia quelli di 13 anni variavano invece l'assegnazione secondo il contesto, preferendo una regola di produttività quando dovevano ricom­ pensare un lavoro, una regola di uguaglianza nella situazione di votazione, e una combinazione di uguaglianza e bisogno nella situazione di beneficenza. Gli autori concludono che «il tratto distintivo di un ragionamento maturo sulla giustizia distribu­ tiva non sembra essere tanto l'applicazione di una regola di rendimento anziché di uguaglianza, e nemmeno il tentativo di integrare il merito con il bisogno, quanto piuttosto la capacità di scegliere e applicare il principio di giustizia più adatto alle esigenze della situazione che si ha di fronte» [ibidem, 1369] . Ciò è molto sensato dal punto di vista cognitivo-evolutivo: i bambini più grandi dovrebbero essere in grado di tenere conto del contesto2• Nella vita reale, però, le cose non sono sempre così semplici: non solo i bambini piccoli ma anche gli adulti possono non avere chiaro quale tipo di giustizia si applica a una particolare situazione; e, come vedremo nel capitolo undi­ cesimo, possono sperimentare un conflitto tra tipi di giustizia e anche tra giustizia e cura. La mia proposta di non reificare i principi morali, e considerarli piuttosto «tipi ideali» applicabili in varia misura a tutte le situazioni (cap. IX), sembra tornare utile in questo contesto. È stata studiata anche un'altra variabile contestuale: l'in­ fluenza delle relazioni personali sul modo in cui i bambini ragionano sulla giustizia distributiva [McGillicuddy-DeLisi, Watkins e Vinchur 1 994] . Ai soggetti - alunni dell'ultimo anno di scuola materna, di terza e sesta classe - venivano raccontate due storie su un gruppo di bambini che avevano realizzato oggetti d'artigianato venduti poi in una fiera. I personaggi di una storia, veniva detto, erano amici, quelli dell'altra invece non si conoscevano. In entrambe le storie, un personaggio 2 Ciò concorda anche con la distinzione di Rawls tra giustizia distributiva e libertà: il maggior rendimento può essere premiato se serve a soddisfare i bisogni delle persone meno avvantaggiate; la libertà deve sempre essere ugualmente disponibile per tutti.

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era descritto come il più grande d 'età, un altro come il più produttivo, un terzo come il più povero. I bambini dovevano distribuire 9 dollari ai tre personaggi. Gli alunni di scuola materna non modificavano la distribuzione in funzione della relazione personale (così come gli alunni di pari età di Sigelman e Waitzman non lo facevano in funzione del contesto) . Il risultato più interessante fu che i bambini di sesta classe ( a differenza dei bambini più piccoli) assegnavano più denaro agli sconosciuti produttivi che a quelli bisognosi, più agli amici bisognosi che agli sconosciuti nella stessa condizione, ma la stessa somma agli sconosciuti produttivi e agli amici bisognosi. In altre parole, i bambini più grandi applicavano il criterio di produttività agli sconosciuti, mentre trattavano bene gli amici, sia che fossero produttivi sia che fossero bisognosi. Ciò corrisponde a quel che si osserva negli adulti: Austin [ 1 980] ha constatato che le persone tra loro estranee basavano l' asse­ gnazione delle ricompense sulla produttività, mentre studenti universitari compagni di stanza che svolgevano un compito assieme trascuravano le differenze di produttività e distribui­ vano le ricompense su base egualitaria; Clark e Reis [ 1 988] hanno trovato che adulti tra cui intercorre una relazione stretta basano l'assegnazione sull' uguaglianza o sul bisogno piuttosto che sul rendimento individuale. Sono poche le ricerche che hanno studiato l'influenza dell 'empatia sulla giustizia distributiva nei bambini. Dalla rassegna di Damon [ 1 988] risulta che a quattro anni molti bambini hanno un forte senso dell'obbligo di condividere con gli altri (ma non necessariamente di dover essere generosi con gli altri tanto quanto con se stessi ) . Essi sentono anche che la condivisione è obbligatoria nelle relazioni sociali ed è una questione di giusto o sbagliato. Il ruolo dell'empatia diventa evidente quando a questi bambini viene chiesta la ragione della condivisione: la giustificazione più comune è quella empatica (perché così l'altro bambino è contento; quando non condi­ vido qualcosa con lui, il mio amico si rattrista e gli viene da piangere) . Le ragioni non empatiche più frequenti sono di tipo pragmatico (evitare un litigio) . Secondo Damon, il ragionamento empatico deriva dal pieno sviluppo della capacità di rispondere empaticamente e , inoltre, dalle ragioni (induzioni) che i genitori offrono per 290

giustificare le proprie richieste di condivisione («Se non le dai qualcosa, Ginny si sentirà triste» ) . Egli ha inoltre trovato che alla richiesta di spiegare perché rubare è male, circa l a metà dei bambini tra 4 e 8 anni e circa 1'80 per cento di quelli di 9 anni rispondevano con ragioni empatiche (il danno arrecato alla vittima) e non con la paura del castigo. In uno studio su bambini più grandi che fabbricavano brac­ cialetti in cambio di dolciumi e poi decidevano come distribuire le ricompense, i «grandi produttori» che esprimevano preoccu­ pazione empatica per quelli che avevano fatto meno votavano per dividere le ricompense in parti uguali o secondo il bisogno, e non secondo il rendimento [Damon 1 977 ] . In uno studio di Wender [ 1 986] dei bambini di seconda classe guardavano un filmato su due gemelli che trasportavano libri da una stanza all'altra, e poi dovevano decidere una ricompensa attingendo a una piccola scorta di gomme da masticare. Anche se uno dei gemelli aveva trasportato più libri dell'altro, la maggior parte dei bambini distribuì le gomme in parti uguali, senza tenere conto del rendimento, mentre quelli di un gruppo sperimentale che prima avevano visto un altro filmato che suscitava empatia tenevano in maggior conto il bisogno. La conclusione di questa ricerca è che i bambini statunitensi preferiscono la distribuzione basata sul bisogno e sull' ugua­ glianza e minimizzano l'importanza della produttività. Inoltre, l'attivazione empatica accresce la preferenza per il «bisogno». Lo studio di Damon è particolarmente interessante perché i bambini empatici che producevano di più votavano, di fatto, contro il proprio interesse.

2.

Processi di sviluppo nella giustizia su base empatica

Non vi sono ricerche sui processi di sviluppo che sottendono l'avanzare del bambino dall'interesse personale all'interiorizza­ zione, su base empatica, dei principi di giustizia/equità; vale a dire, i processi di sviluppo che contribuiscono alla confluenza tra l'empatia e la giustizia/equità. La mia tesi è che vi siano almeno cinque processi di questo tipo: a) le esperienze personali come spettatore o vittima; b) la socializzazione in famiglia, soprattutto per mezzo delle induzioni dei genitori; c) la socializzazione fuori 291

della famiglia: nelle interazioni tra pari, a scuola, attraverso i mezzi di comunicazione; d) l'astrazione e l'organizzazione dei principi di giustizia a partire dai processi a)-c) ; e) l'impegno e il possibile ruolo di «eventi scatenanti». 2 . l . L'esperienza personale come spettatore e come vittima Ho già parlato di questo processo nei capitoli quarto e nono. Come spettatore, il bambino può rispondere con empatia alla tristezza di un 'altra persona che non vede ricompensati i suoi sforzi, e la sua sofferenza empatica può interagire con la preferenza naturale per la reciprocità, così da produrre un sen­ timento empatico di ingiustizia. Questo sentimento rafforza la connessione tra l'empatia e il principio dell'«impegno». Questa connessione può essere rafforzata anche da esperienze di es­ sere ingannato che il bambino può avere vissuto sulla propria pelle. In effetti, come abbiamo visto nel capitolo nono, tutte le esperienze del bambino come vittima - di furti, aggressioni ingiustificate, insulti e ingiustizie di ogni genere - possono combinarsi a formare un concetto di trattamento ingiusto che può essere poi applicato, per empatia, ad altre persone trattate ingiustamente. In tal modo, le esperienze vissute da una persona come vittima possono contribuire a formare il suo sentimento empatico di ingiustizia. 2.2. Socializzazione della giustizia nella famiglia Anche se a volte un bambino di 2 anni consola spontanea­ mente un compagno che sta soffrendo offrendogli una caramella o un biscotto, quando è coinvolto in una disputa con un altro bambino per un giocattolo che entrambi vorrebbero tende a fare diversamente. I bambini di 3 e 4 anni si disputano spesso questo o quell'oggetto a casa o all'asilo (Hay [ 1 984] e Shantz [ 1 987] hanno registrato da otto a dieci dispute l'ora) . In que­ ste dispute, i bambini dovrebbero soppesare le rivendicazioni contrapposte e trovare ragioni per determinare il possesso dell'oggetto, ma, come abbiamo visto nel capitolo quinto, se i bambini sono piccoli non sono in grado di farlo. La loro con2 92

dotta egoistica' in relazione agli oggetti desiderati rifletterà la salienza delle loro rivendicazioni e dei loro bisogni, e , a meno che non sia presente un adulto, il loro punto di vista personale assorbirà quasi tutta la loro attenzione. Se un adulto è presen­ te, può intervenire con induzioni che mettano in evidenza il punto di vista e i desideri dell'altro, e incoraggino il bambino a tenerne conto (cap. VI). Smetana [ 1989] ha trovato che gli interventi dei genitori nelle dispute per il possesso sono in sintonia con le preoc­ cupazioni dei bambini e spesso chiamano in causa principi di giustizia. Sembra che il beneficiario immediato di questi interventi sia di solito l'altro bambino: Ross e colleghi [ 1990] hanno osservato madri di bambini tra 20 e 30 mesi di età che giocavano a casa con lo stesso compagno in un arco di tempo di quattro mesi; nei conflitti per l'uso di un giocattolo, le ma­ dri in genere intervenivano, e accadeva nove volte più spesso che prendessero le parti dell'altro bambino e incoraggiassero il figlio a fare a turno o a condividere il giocattolo, il che di solito significava che il figlio doveva cedere al compagno il giocattolo con il quale stava giocando. Ecco alcuni esempi di induzioni a favore della condivisione usate da genitori di bambini di età prescolare durante le inda­ gini da me condotte; in molti casi l'attivazione empatica viene integrata con la condivisione o il fare a turno. «Se prendi tutti i giocattoli per te, lei non ne avrà nessuno e si sentirà triste». «Si metterà a piangere, è solo un bambino piccolo»; «Non sa che cosa fare e vuole giocare con quel giocattolo, !asciaglielo prendere». «Lascia che ci giochi, a casa sua non ha giocattoli come quello e ha molta voglia di giocarci». «Lasciaglielo per qualche minuto, così può guardarci dentro»; «Non credo che lo romperà». «Perché non vai sull'altalena e lasci che Penny giochi con il triciclo, così poi Penny andrà sull'altalena e il triciclo potrai usarlo tu?»; «Fate a turno: così Penny sarà con­ tenta». Le induzioni usate dagli insegnanti di scuola materna sono simili a queste, a parte il fatto che a volte l' «altro» è il gruppo: «Lasciane qualcuno agli altri, non è giusto che gli altri non ne abbiano nessuno». Secondo Ross e colleghi, gli adulti possono avere tanto lo scopo di mantenere l'armonia quanto quello di inculcare il valore della condivisione. Ma qualunque sia la motivazione, le induzioni 293

a favore della condivisione iniziano il bambino sia al principio di «uguaglianza» sia all'idea generale, pertinente a ogni principio di giustizia, che non si può tenere tutto per sé. I genitori inoltre insegnano al bambino che è cosa buona lavorare sodo e fare del proprio meglio, e che le persone meritano di godere dei frutti del proprio lavoro - insomma, il principio di giustizia dell'«impegno». E può accadere che i genitori usino induzioni che uniscono l 'empatia con la vio­ lazione dell' «impegno»: due bambini di 4 anni disputano su chi ha fatto la torre più bella; uno dei due distrugge la torre dell'altro, che scoppia a piangere; la madre del primo interviene e dice: «Bobby piange perché ha faticato molto per costruire la sua torre ed è giusto che abbia la possibilità di giocarci; siccome tu l'hai distrutta adesso lo aiuterai a ricostruirla». Un altro bambino di 4 anni si attribuisce il merito della co­ struzione di una torre; la madre gli dice: «Non è giusto, stai imbrogliando; dici che la torre l' hai fatta tu e che dovremmo darti un dolcetto, ma la maggior parte del lavoro l'ha fatta lui e merita più dolcetti». Come suggeriscono questi esempi, alcuni scripts sulla tra­ sgressione carichi di empatia (vedi il cap. VI) si riferiscono a bambini che agiscono «ingiustamente» (non condividono, non fanno a turno, imbrogliano). La mia tesi è che il bambino integri progressivamente questi scripts in concetti di giustizia/equità sempre più generali e astratti, come «bisogno», «uguaglianza» e «impegno». Ma anche se questi scripts possono essere sempre più astratti, nella maggior parte sono ancora rudimentali. È compito della socializzazione e di altre esperienze extrafamiliari - l'interazione con i pari, l'influenza della scuola e dei mezzi di comunicazione - consolidare i principi di giustizia/equità e metterli in relazione con il sistema motivazionale prosociale dell'individuo.

2 . 3 . Socializzazione della giustizia fuori della famiglia Riassumendo quanto abbiamo detto finora, sono i processi naturali di sviluppo dell'empatia - agevolati dai genitori, che incoraggiano l'empatia e, attraverso la disciplina induttiva, il condividere e il fare a turno - a creare bambini empatici, capaci 294

di tenere conto degli altri, e muniti di rudimentali concetti di giustizia. Questi bambini sono pronti a sviluppare e affinare questi concetti attraverso l' interazione costruttiva con i pari, l' ap­ prendimento scolastico, e l'accesso ai mezzi di comunicazione. Interazione con i pari. Come abbiamo visto nel capitolo quinto, secondo Piaget e altri autori, gli adulti ostacolano l'in­ teriorizzazione morale del bambino perché possono imporgli la loro volontà senza il suo consenso. Tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo sesto, benché i genitori abbiano questo potere non per questo sono obbligati a usarlo. Essi piuttosto usano spesso le induzioni, che mettono in relazione e integrano l'attivazione empatica con la condivisione. In accordo con la mia ipotesi che un principio morale acquisisca proprietà motivazionali se si combina con l'empatia (cap. IX), il nesso tra l'empatia e la condivisione può essere una prima forma rudimentale, dotata di forza motivazionale, del principio di giustizia su base empatica. Questo nesso può far sì che il bambino usi la sua capacità di assumere il punto di vista altrui per prendere seriamente in considerazione le rivendicazioni di un altro bambino ed essere disposto a negoziare con lui, anziché manipolarlo per i propri scopi (cioè, usi questa capacità nelle situazioni di conflitto a fini prosociali piuttosto che, o in aggiunta, a fini egoistici) . Riassumendo, le induzioni aiutano i bambini a controllare i propri desideri e a comprendere e rispondere con una certa dose di empatia alle rivendicazioni altrui. Le induzioni fanno sì che i bambini siano più ricettivi a quel tipo di negoziazioni, compromessi e soluzioni di conflitti che possono aversi solo tra uguali. Le induzioni perciò estendono la capacità empatica del bambino alle relazioni conflittuali. I bambini ora potranno pro­ vare empatia verso qualcun altro anche in caso di conflitto. Infine, credo che Piaget e altri con lui possano essere nel giusto quando parlano dei vantaggi unici dell'interazione tra pari, specialmente per lo sviluppo delle nozioni di giustizia relative al possesso, alla proprietà e, forse in minor misura, al merito. Ma ironicamente, se si considera l'opinione negativa che questi autori hanno dei genitori, che abuserebbero del loro potere sui figli, solo i genitori, cioè quelli non abusivi e che ricorrono alle induzioni possono creare le condizioni perché il bambino possa godere dei vantaggi unici dell'interazione tra pari [Hoffman 1988] . Diversamente, l'interazione con i pari sarebbe sterile. 295

Scuola. Nata in famiglia e proseguita, in parte, nelle in­ terazioni tra pari, la socializzazione a favore dell' «impegno» si intensifica a scuola, a causa dell'importanza del profitto scolastico e della sua valutazione. All'inizio, in molte scuole elementari i voti si basano sul miglioramento personale. I bambini ricevono «stelline» e approvazione da parte degli insegnanti (e dei genitori) e si sentono orgogliosi dei loro miglioramenti. Questa è la prima introduzione sistematica del bambino all'«impegno» - chi lavora sodo merita un premio -, giacché il miglioramento richiede, prima di tutto, impegno. C'è anche il confronto sociale (non a tutti è dato prendere una stellina), ma si tratta di un elemento secondario, poiché i risul­ tati conseguiti dai bambini non sono confrontati direttamente. D'altra parte, il bambino si aspetta di essere ricompensato quando si impegna e migliora, e si sente trattato ingiustamente se i suoi sforzi non sono premiati; ed è probabile che pensi che gli altri abbiano gli stessi sentimenti e che possa avere sentimenti empatici di ingiustizia quando vede che gli sforzi di un amico o di un compagno di classe non hanno il giusto riconoscimento. Quando il bambino frequenta la quarta o quinta classe, la base dell'approvazione dell'adulto spesso si sposta bruscamen­ te dal progresso personale al confronto diretto con i pari. Il bambino è incoraggiato a impegnarsi e a fare meglio dei suoi compagni, e ad aspettarsi una ricompensa quando ci riesce. Se non viene ricompensato (se il genitore gli dice: «Potevi fare di più») si sentirà trattato ingiustamente, e se lo stesso succede a un amico o a un compagno di classe potrà provare un sentimento empatico di ingiustizia. Un bambino empatico che riceve un bel voto e nota il dispiacere degli altri bambini che ne hanno uno più basso, può anche provare senso di colpa per il successo (cap. VII) . Il passaggio dal miglioramento personale al confronto sociale è molto importante dal punto di vista dello sviluppo. Prima di questo momento, la cura per gli altri e il successo riguardano contesti diversi: la cura, quando il bambino vede una persona afflitta; il successo, quando impara a gattonare, a camminare, a parlare o migliora a scuola. Essi sono pertanto compatibili. Ma, a passaggio avvenuto, la cura e il successo possono condividere lo stesso contesto ed entrare in conflitto, 296

come quando due amici confrontano i voti (ciascuno dei due vuole avere voti più alti dell'altro, è dispiaciuto se i suoi sono peggiori e, se sono migliori, può avere sentimenti ambivalen­ tiP. È un conflitto che ricorre per tutta la vita: si compete per le migliori università, per le scuole di specializzazione, per il posto di lavoro. Insomma, i principi di «uguaglianza» e di «bisogno», associati con il prendersi cura fin dai primi anni di vita, vengono in buona parte lasciati alle spalle; il passaggio al confronto sociale aggiunge competitività alla relazione con i pari e prepara il bambino, sul piano cognitivo ed emozionale, alla giustizia basata sul merito che dominerà la sua vita adulta (nel mondo occidentale) , specialmente nell'ambito del lavoro. Ho osservato sopra che nel nostro mondo adulto, che mette l'accento sul «merito», non c'è molto spazio per l'uguaglianza come principio di giustizia distributiva. Non c'è da stupirsi che l'adulto trovi più facile del bambino immaginare situazioni nelle quali non condividerebbe, e dia più importanza al diritto di proprietà, che è in conflitto con la condivisione [Furby 1 97 8] . È stato anche mostrato che i genitori possono asse­ condare gli imbrogli dei figli, se questo serve ad avere buoni voti [Burton 1 97 2 ] . Questi risultati mostrano, tra l'altro, che la socializzazione morale nella scuola può condizionare, per retroazione, gli obiettivi di socializzazione dei genitori. Il fatto che la socializzazione orienti dapprima il bambino alla condivisione ma poi gli insegni a dare valore al merito segnala una discontinuità nella socializzazione alla giustizia: i bambini devono cominciare a disimparare «l'uguaglianza» a favore del «merito». Finché nuovi studi non diano risposte più conclusive, possiamo solo immaginare gli effetti a lungo termine della discontinuità tra l' «uguaglianza», la motivazione a competere, e il senso di colpa per il successo. Mezzi di comunicazione. È probabile che i libri, i giomali l il cinema e la televisione influenzino lo sviluppo dei principi morali, specialmente nell'adolescenza e nell'età adulta. Le vittime di inon} Lo stesso può accadere nello sport. Non ho dimenticato l'emozione dei momenti in cui i giocatori di baseball o di pallacanestro più bravi formavano le squadre e sceglievano i compagni. Un capitano empatico si preoccu p ava sempre di scegliere quei giocatori meno bravi il cui timore di restare fuori era palese, anche se mai espresso in parole.

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dazione, terremoti, uragani, massacri, attentati terroristici e guerre sono spesso presentate in modo simpatetico e, in televisione, in primo piano. La lettura di un documento come la dichiarazione dei vescovi statunitensi menzionata· sopra, nella quale l'analisi astratta della giustizia distributiva è accompagnata da immagini delle vittime, può aggiungere ai principi della giustizia distributiva una componente empatica, fondata sul bisogno, o può consolidare un principio preesistente acquisito nella fanciullezza. Film e libri come Cristo si è fermato a Eboli e I miserabili (che presenta il furto di una pagnotta di pane in un più ampio contesto simpatetico e morale) potrebbero avere lo stesso effetto. Queste narrazioni possono essere importanti fattori di socia­ lizzazione alla giustizia, perché permettono al lettare/spettatore di identificarsi empaticamente con l 'intera vita di qualcun altro (lavoro, speranze, disinganni) e rispondere, quando è il caso, con sentimenti empatici di giustizia. Esse creano un ambiente parti­ colarmente fecondo per quella compresenza di affetto empatico e principi astratti di giustizia, che può trasformare questi ultimi in cognizioni «calde» e conferire loro forza motivazionale pro­ sociale. In questo modo la persona può interiorizzare complessi principi di giustizia senza pressioni esterne (o quasi) , poiché questi principi sono in consonanza con le sue inclinazioni empatiche.

2 .4. Astrazione e organizzazione dei principi di giustizia Grazie allo sviluppo cognitivo e linguistico, il bambino, da solo o parlando con altri, comincia a elaborare ragionamenti morali, alla luce delle interpretazioni, spiegazioni e risposte af­ fettive degli adulti; delle discussioni, dei tentativi di negoziazione e dagli sforzi di compromesso dei pari; assieme alle sue stesse risposte cognitive e affettive agli eventi moralmente rilevanti. Il bambino non costruisce un codice morale da zero, come è stato sostenuto da alcuni psicologi dello sviluppo cognitivo, ma ha comunque un ruolo attivo nel ricostruire e interpretare le norme morali sulla base delle informazioni che ottiene dagli adulti, dai pari, dai mezzi di comunicazione e dalle proprie esperienze. Può esservi una divisione del lavoro, almeno nella prima fanciullezza, tra le induzioni dei genitori che trasmettono regole di equità e hanno la forza dell'autorità, la capacità di

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decentramento cognitivo del bambino e la sua preferenza per la reciprocità, e le interazioni con i pari che mettono l 'accento sull'uguaglianza. Questa divisione del lavoro, implicita nella mia precedente analisi dell'influenza dei pari, può essere così descritta: a) i pari, con le proprie rivendicazioni, obbligano il bambino a rendersi conto che i suoi desideri non sono la sola cosa che conta; b) il decentramento e la reciprocità gli permet­ tono di comprendere le ragioni delle riven dicazioni altrui; c) le induzioni, agendo sulla tendenza naturale del bambino all'em­ patia, lo rendono ricettivo a queste rivendicazioni. I concetti di equità su base empatica che ne discendono sono ulteriormente plasmati dai valori trasmessi da genitori, insegnanti, religioni, mezzi di comunicazione. Grazie a queste esperienze, i bambini acquisiscono familiarità con le forme rudimentali dei principi di cura e di giustizia della nostra società. Questi processi sono relativamente occasionali fino all'ado­ lescenza, quando l'individuo è iniziato più «formalmente» ai principi morali, nel senso che viene a conoscerli come guide della condotta. È in questo momento, se mai ve ne è uno, che il ruolo attivo dell'individuo nella costruzione di un codice morale, visibile in tutta la fanciullezza, diviene primario. La materia prima di questa costruzione continua ad essere costituita dai risultati della socializzazione in famiglia, tra i pari e a scuola, che includono scripts di giustizia/equità carichi di affetto empatico, generati negli incontri disciplinari dalle induzioni relative alla condivisione e all'impegno. Questi scripts sono arricchiti dalle esperienze dirette emotivamente salienti vissute personalmente dall'individuo in qualità di spettatore o vittima e intensificate dai mezzi di comunicazione. L' individuo riflette e ragiona su questi materiali grezzi, e, da solo, o nel corso di discussioni (specialmente con i pari) può analizzarli, interpretarli, confron­ tarli e contrapporli, e, infine, accettarli o rifiutarli, costruendo così il proprio complesso di principi morali generali e, entro certi limiti, astratti, ma carichi affettivamente.

2 . 5 . Impegno

Una volta che una persona abbia interiorizzato una regola di cura o di giustizia e si sia impegnata a seguirla, st sta resa 299

conto di avere scelta e controllo, e si sia assunta la respon­ sabilità delle proprie azioni, ha raggiunto un nuovo livello di sviluppo. Da questo momento, il tenere conto degli altri, evitare di danneggiarli e agire con equità nei loro confronti, non solo riflette il proprio coinvolgimento empatico, ma può anche essere un'espressione di principi interiorizzati, una sorta di affermazione del proprio sé. La persona pensa che tener conto degli altri e agire con giustizia verso d i loro è un suo dovere o una sua responsabilità. E può pensare di non essere il tipo di persona che fa deliberatamente del male agli altri o agisce ingiustamente, e che farebbe fatica a guardarsi alla specchio se danneggiasse gravemente qualcuno. L'impegno a «prendersi cura» degli altri o a trattarli con giustizia può aggiungere una nuova dimensione al senso di colpa anticipatorio. Si prova senso di colpa non solo al pensiero di aver danneggiato qualcuno o di averlo trattato ingiustamente, ma anche per aver violato l'immagine di sé basata su quei principi. La combinazione delle due ragioni può dar luogo a una motivazione prosociale più efficace del semplice senso di colpa su base empatica. Se una persona desidera intensamente una cosa e per averla deve danneggiare o trattare ingiustamente qualcun altro, e se il senso di colpa empatico che sperimenta in anticipo per la propria condotta dannosa o ingiusta non è abbastanza intenso da permetterle di resistere alla tentazione, è possibile che il timore di venire meno all'immagine morale di sé la aiuti a tener duro. Eventi scatenanti e trasformazione morale. Haste e Locke [ 1 983 ] descrivono quelli che hanno chiamato «eventi scatenan­ ti». Sono avvenimenti subitanei e inattesi che creano un'intensa risposta emozionale, la quale può spingere a riconsiderare le proprie scelte di vita e condurre a una nuova prospettiva morale e a un nuovo senso di responsabilità sociale. Gli eventi scate­ nanti includono l'assistere a gravi ingiustizie come quelle che ho descritto sopra: l'attivista sociale che dopo avere conosciuto da vicino la vita dei messicani poveri, sentendosi colpevole per i propri privilegi, decide di dedicare la vita alle persone svan­ taggiate; i tedeschi che, di fronte agli ebrei destinati a morire, decidono di rischiare la vita per salvarli; lo studente bianco di Coles, che comincia a vedere il razzismo sotto una nuova luce a causa del sentimento empatico di ingiustizia provato in una

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certa occasione; George Orwell, che, a stretto contatto con i minatori, si sente in colpa per la sua vita agiata e abbraccia il socialismo e una giustizia distributiva basata sul bisogno e sull'uguaglianza; Huckleberry Finn, e come lui la donna della Capanna dello zio Tom, indotti da vicende personali in cui aveva parte uno schiavo a cambiare idea e a considerare moralmente ripugnanti le leggi che proibivano di aiutare gli schiavi fuggiti­ vi, tanto da infrangerle; e i finali ideati dai soggetti di un mio studio di completamento di storie, nei quali il bambino della storia si riprometteva, mosso dal senso di colpa, di pensare di più agli altri. Le circostanze storiche hanno un ruolo cruciale, ma non tutti diventano eroi morali quando si trovano nelle stesse circostanze [Colby e Damon 1 992 ] . L'avere forti senti­ menti empatici di ingiustizia può essere uno dei requisiti. In ogni caso, è probabile che gli eventi scatenanti che producono trasformazioni morali siano tanto rari quanto importanti.

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CAPITOLO UNDICESIMO

DILEMMI TRA PIÙ PARTI MORALI E TRA CURA E GIUSTIZIA

Negli incontri morali complessi, lo spettatore è chiamato a scegliere quale vittima aiutare. Prenderemo in considera­ zione prima i dilemmi morali nell'ambito del prendersi cura, poi quelli che implicano un conflitto tra la cura e la giustizia. Un terzo tipo di conflitto, quello tra la cura e il dovere o la responsabilità, è di solito una variante dei precedenti. l.

Dilemmi tra più parti morali

Tra i dilemmi nell'ambito del prendersi cura implicanti più parti morali, quelli che vengono più facilmente in mente riguar­ dano le persone che rischiano di affogare o sono intrappolate in un edificio in fiamme; gli spettatori non possono salvarle tutte e devono fare una scelta. Vi sono altri dilemmi di grande visibilità e carattere controverso: un medico deve decidere se praticare un aborto su un'adolescente incinta (dove le parti morali sono l'adolescente incinta, i genitori preoccupati per il suo futuro e, secondo la sua età, il feto); un avvocato deve decidere se difendere un uomo che ritiene colpevole di omicidio (qui le parti morali sono l'imputato, che ha diritto a una difesa legale; la famiglia della vittima; le sue vittime potenziali, se viene rimesso in libertà) . Un altro esempio è il caso ipotetico di Kohlberg nel quale un addetto alla difesa antiaerea deve scegliere se rimanere al suo posto o abbandonarlo per correre in aiuto della famiglia in un quartiere appena bombardato; o il dilemma analogo però reale - dell'infermiera che mentre soccorreva una vittima dell'attentato di Oklahoma City sentì l'esplosione della seconda bomba. Lasciò lì la vittima e corse a casa per aiutare la sua famiglia. Ebbe poi a dire: «Dovevo scegliere tra lei e la mia famiglia». Si sentì terribilmente colpevole per avere abbandonato 303

la vittima, anche se prima di allontanarsi dal luogo dell'attentato aveva aiutato molte altre persone. In alcuni di questi dilemmi tra più parti, l'attore è uno spettatore innocente: un passante cui tocca decidere chi soc­ correre in un edificio in fiamme; un tedesco che deve scegliere quali ebrei salvare dai nazisti. In altri casi, la persona ha un ruolo sociale che la rende responsabile nei confronti di una delle parti: era dovere professionale dell 'infermiera restare con le vittime dell'attentato (e per questo si sentì poi in col­ p a ) ; il ruolo dell'addetto alla difesa antiaerea gli imponeva di non abbandonare il suo posto di osservazione. E vi sono altri dilemmi nei quali il ruolo della persona le impone di aiutare, ma non è chiaro da chi dovrebbe cominciare. Ciò nondimeno, la persona può pensare che il suo dovere la obblighi ad agire in favore di una delle parti: un medico che si sente in dovere d i praticare un aborto oltre i termini su una donna la cui vita può essere in pericolo; un avvocato che si sente in dovere di difendere un uomo accusato di omicidio nonostante le prove della sua colpevolezza e i rischi potenziali per altre persone. Alcuni dilemmi tra più parti non lo sono in modo evidente, giacché una sola delle parti si trova al centro dell'attenzione, ed è necessario fare uno sforzo mentale per rendersi conto che ve ne sono altre. Si pensi a un professore cui venga chiesto di scrivere una lettera di raccomandazione per uno studente b ravo ma non eccellente - che aspira a un importante posto di lavoro. Se il professore è buon amico dello studente e ha altre informazioni su di lui (ad esempio, sa che nella sua famiglia c'è un bambino malato) , potrà esprimere un giudizio molto favorevole senza pensarci due volte. Ma la situazione si com­ plica se il professore empatizza anche con altre parti morali: il collega che è alla ricerca di un candidato particolarmente brillante, o gli altri candidati sconosciuti che hanno anch'essi bisogno di quel posto. I bias di familiarità e di immediatezza, di cui abbiamo parlato nel capitolo ottavo, possono rafforzarsi m utuamente e prevalere, nel qual caso il professore potrebbe tirar diritto e scrivere una lettera senz' altro favorevole 1 • 1

In un 'analisi del mio utilizzo di questo esempio, Vitz [1990] osserva che

è questo tipo di ragionamento narrativo, basato sulla comprensione empatica

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Ma consideriamo un altro e più complesso dilemma, nel quale un professore sta pensando se aiutare uno studente spe­ cializzando a lui caro che ha presentato un progetto di ricerca che implica un inganno nei confronti dei partecipanti [Noddings 1984 ] . Potrebbe provare empatia di fronte all'orgoglio dello studente per un progetto ben congegnato, alla paura dei mesi di lavoro sprecati se il progetto non viene accettato, all'impazienza di cominciare la ricerca. Questa empatia può essere abbastanza intensa da indurre il professore ad appoggiare il progetto. Fin qui nessun dilemma morale. Ne nasce però uno se il professore per principio è contrario agli inganni. Se il principio viene attivato assieme al pensiero che l'inganno pregiudicherebbe gravemente altre persone, magari qualcuno cui egli tiene, il professore potrebbe provare in anticipo sofferenza empatica e senso di colpa, e questi sentimenti potrebbero vincere la sua empatia verso lo studente. Il professore potrebbe non solo respingere la proposta dello studente, ma anche sentirsi motivato a formulare dei criteri per disciplinare il ricorso all'in­ ganno nella ricerca scientifica. D'altra parte, potrebbe provare empatia per le potenziali vittime di questi criteri: i ricercatori che vedrebbero la loro carriera pregiudicata e tutti coloro che, in definitiva, potrebbero trarre beneficio dalla ricerca. A causa di questa molteplicità di sentimenti empatici, il professore potrebbe respingere la proposta dello studente ma rinunciare a formulare norme vincolanti per altre persone. Qualunque sia l'esito, l'esempio mostra che l'iniziale risposta empatica, che è vulnerabile ai bias di familiarità e di immediatezza, può essere attenuata dall'empatia per le vittime o per i beneficiari delle azioni considerate. I dilemmi tra più parti mettono in difficoltà l'attore perché questi non è semplicemente uno spettatore che prova empatia e aiuta la vittima. Può vedersi come un trasgressore, per aver delle persone che saranno influenzate dalle decisioni che prendiamo, che ca­ ratterizza buona parte della nostra vita morale. Vitz sostiene che le immagini e le cognizioni che fanno parte delle narrazioni a ispirazione empatica hanno l 'effetto di generare più empatia, la quale, a sua volta, può attivare altre cognizioni, e così via. Perciò, secondo Vitz, una narrazione morale interna e autocostruita è una sequenza interattiva di empatia e cognizione (e io sono d 'accordo).

3 05

lasciato che le altre parti, prive d'aiuto, continuassero a soffrire (senso di colpa, o senso di colpa anticipatorio per non aver dato aiuto ) . Perciò i dilemmi tra più parti hanno un carattere ibrido: comprendono elementi del modello dello spettatore (capp. dal II al IV) e del modello del trasgressore virtuale (cap. VII) . Tutti i dilemmi tra più parti che abbiamo considerato finora ricadono nell'ambito del «prendersi cura»; sono, cioè, dilemmi in cui la motivazione della persona è l'empatia o un principio di cura legato all 'empatia. Dal punto di vista etico, la questione posta da questi dilemmi è quale soggetto dovrebbe essere aiutato. La questione scientifica è chi sarà aiutato. La risposta della bio­ logia evoluzionistica è semplice: in generale, aiutiamo le persone con cui abbiamo in comune più geni [Hamilton 1 97 1 ] . La risposta della psicologia è più complessa, anche se in definitiva, come vedremo, è possibile che non sia essenzial­ mente diversa dalla precedente. La risposta della psicologia è che quando la parte in causa è una sola, proveremo empatia verso chiunque (o quasi) mostri sofferenza ( cap. Il). Quando vi sono più parti, possiamo provare empatia per ognuna di esse, ma avremo più probabilità di rispondere empaticamente e di dare aiuto a coloro che conosciamo e cui teniamo, a coloro che ci sono simili e condividono i nostri valori, e a coloro che sono presenti e visibili (salvo che la vittima assente non sia un familiare, come negli esempi dell'addetto alla difesa antiaerea di Kohlberg e dell'infermiera di Oklahoma City). In breve, la biologia evoluzionistica asserisce che, se dob­ biamo scegliere, sceglieremo di aiutare gli altri nella misura in cui condividono i nostri geni; la psicologia, che li aiuteremo nella misura in cui ci interessano, ci piacciono e interagiamo con loro, cioè se fanno parte del nostro gruppo primario. Ma è probabile che le persone che appartengono al nostro gruppo primario siano anche quelle con cui condividiamo più geni. Perciò è possibile che i bias dell'empatia siano l'equivalente funzionale, sul piano psicologico, della condivisione dei geni altrui: ambedue inducono la persona ad aiutare il proprio gruppo primario. Questi bias , come l'empatia stessa, possono derivare, alla fin fine, dalla selezione naturale [Hoffman 1 98 1 ] . In ogni caso, mettono in evidenza una limitazione della morale empatica nelle situazioni in cui più parti hanno bisogno di aiuto. 3 06

La risposta della psicologia consiste anche nel fare studi sperimentali. Due degli esperimenti di Batson e colleghi descritti sopra in relazione al bias di immediatezza dell'empatia (cap. VIII) sono pertinenti: quello in cui i soggetti (studenti univer­ sitari) assegnarono un compito piacevole a un «lavoratore» del quale avevano letto un messaggio che descriveva un'esperienza personale molto dolorosa, riservando il compito spiacevole a un secondo lavoratore; e quello in cui l'empatia del soggetto per un membro del suo gruppo lo induceva ad assegnare più risorse (biglietti della lotteria) a quel particolare individuo, riducendo il numero di biglietti a disposizione del gruppo nel suo ms1eme. Un'altra cosa che la psicologia - ma non la biologia evo­ luzionistica - può fare è aiutare a trovare il modo di ridurre i bias dell'empatia. Si tratta di usare le nostre conoscenze, in uno sforzo deliberato e cosciente, per ridurre i bias empatici attraverso l' educazione morale (vedi il cap. XIII). Ricordo anche la mia tesi che sia possibile ridurre i bias empatici includendo l'affetto empatico in principi morali astratti. Vi sono esempi di persone di alti principi, costrette a compiere scelte di vita o di morte, che riuscirono a superare i bias dell'empatia. Si pensi a quei tedeschi che salvarono degli ebrei perseguitati dai nazisti. Anche se per lo più salvarono persone che conoscevano, più del 90 per cento dei tedeschi intervistati da Oliner e Oliner [ 1988] dichiararono che avevano aiutato almeno un ebreo che era per loro un perfetto sconosciuto. È molto, se si pensa ai gravi rischi che correvano. Inoltre, secondo gli Oliner, la prospettiva universalistica delle loro obbligazioni etiche li pose talvolta nella tragica situazione di dover fare una scelta terribile: quale vita salvare. Alcuni si sforzarono di trovare un criterio. Avrebbero dovuto salvare il medico, il giudice o il giovane povero e senza istruzione la cui vita prometteva poco più della sopravvivenza? Dovevano salvare il bambino, l'anziano o il debole? Questo «giocare a fare Dio» con la vita altrui lasciò un segno: la scelta violava in se stessa il principio di responsabilità universale, e il senso di colpa continuò a tormentare alcuni di loro per anni, ridestandosi ogni volta che riflettevano sulle scelte che avevano fatto [Oliner e Oliner 1 988, 1 7 0 ] .

Le considerazioni degli Oliner mostrano che il principio di cura può aiutare le persone a superare i bias dell'empatia, ma 3 07

non senza un costo. Si tratta del tormento di chi è costretto a scegliere tra più persone in pericolo in situazioni estreme, e del profondo senso di colpa che le persone di alti principi che hanno rischiato la vita per gli altri possono provare nei confronti delle vittime cui non hanno prestato aiuto. Essi mostrano anche che l'avere questi principi può «mettere nei guai» una persona: se non li avesse, non sarebbe tanto vulnerabile al senso di colpa, né correrebbe tanti rischi; anzi, eviterebbe fin dal principio di correr rischi (vedi l'analisi dell'impegno nel cap. X) . 2 . Il conflitto tra cura

e

giustizia

Se è vero che il prendersi cura e la giustizia sono tenuti in gran conto nella nostra società e che la socializzazione dei bambini provvede alla loro interiorizzazione, e se sono nel giusto a proposito dei nessi evolutivi tra l'empatia e il pren­ dersi cura e la maggior parte dei principi di giustizia (capp. IX e X), ne segue che gli individui più maturi e che più hanno interiorizzato la morale hanno nel loro sistema motivazionale principi di cura e di giustizia carichi di empatia. Perciò essi dovrebbero essere sensibili tanto alla prospettiva del prendersi cura quanto a quella della giustizia, dovrebbero essere capaci di sperimentare il conflitto tra le due prospettive, e dovrebbero essere vulnerabili alla sofferenza empatica, al senso di colpa anticipatorio e al senso empatico di ingiustizia, a seconda di quale principio seguono e quale ignorano. Un esempio di conflitto tra la cura e la giustizia è quello che sperimentai quando una studentessa riuscì quasi a convincermi che la sua vita «sarebbe stata distrutta» se non le avessi dato un voto migliore. n miò conflitto, naturalmente, era tra la sofferenza empatica (e il senso di colpa anticipatorio) nei confronti della studentessa e il torto che avrei fatto agli altri studenti se le avessi dato un voto migliore di quanto meritasse. Uno studente al quale gli amici chiedono le domande di un esame che egli ha appena sostenuto può sperimentare un conflitto simile2. Due esempi 2 Conflitto che comprenderebbe anche un'ovvia componente egoistica (competitiva) .

308

molto diversi del conflitto tra cura e giustizia sono il dilemma di Kohlberg ispirato ai Miserabili, nel quale un uomo ruba la medicina che può salvare la vita della moglie, e l'esperimento descritto nel capitolo ottavo nel quale i soggetti (studenti uni­ versitari), che provavano sofferenza empatica per una bambina affetta da una malattia fatale, dovevano decidere se farla passare avanti nella lista d'attesa per una nuova cura, a danno però degli altri bambini che a buon diritto la precedevano nella lista. Nella mia analisi dei nessi tra l'empatia e i principi di giustizia distributiva (cap. IX), ho concluso che le versioni della giustizia distributiva basate sulla «produttività» e sulla «competenza» sono più lontane dal «prendersi cura» rispetto a quelle basate sul «bisogno» e sull'«impegno». Perciò è più probabile che la produttività e la competenza entrino in con­ flitto con la cura. Riconsideriamo l'esempio della lettera di raccomandazione, che abbiamo analizzato sopra come un chiaro dilemma nell'ambito della cura: il professore potrebbe provare empatia per tutte le parti morali (studenti, colleghi, candidati ignoti), immaginare la delusione e la sofferenza di ognuno di loro a seconda del tipo di lettera, e forse anche avvertire, nei vari casi, un certo senso di colpa anticipatorio. Perciò potrebbe decidere di scrivere una lettera che minimizzi, nel complesso, la sofferenza empatica o il senso di colpa, oppure potrebbe semplicemente decidere che il suo studente viene al primo posto e agire di conseguenza. Tutte queste considerazioni hanno a che fare con il «prendersi cura». Ma vi sono anche questioni attinenti alla giustizia. Il si­ stema accademico attribuisce grande importanza al merito (produttività e competenza intellettuali), e l'integrità del si­ stema richiede che chi raccomanda qualcuno per un posto di lavoro dica la verità (che è ciò che i colleghi del professore si aspettano da lui). Questo tipo di dilemma fra il prendersi cura e la giustizia si acuisce se il professore dubita che lo studente sia il candidato più qualificato. Se nella sua lettera, in spirito di «giustizia», il professore rivela schiettamente i difetti dello studente, contraddice il «prendersi cura» e può provare un senso di colpa empatico per avere danneggiato lo studente. Se l'empatia per lo studente prevale e il professore scrive una lettera che evidenzia le sue virtù e ne minimizza i difetti, contraddice la «giustizia)) e per questo può sentirsi in colpa. Il professore 309

potrebbe anche pensare agli altri candidati e immaginare che uno di essi fosse suo figlio e che questi fosse più qualificato del suo studente. Ciò potrebbe ridurre il bias empatico per quel particolare studente. Ma sto correndo troppo: insegnare a provare empatia per l' «altro» è un metodo di educazione morale che presenteremo nel capitolo tredicesimo. Problemi simili si presentano quando un professore rac­ comanda un collega per una cattedra, una promozione o un aumento di stipendio, o quando un dirigente d' azienda medita se mantenere al suo posto un impiegato inefficiente per il quale prova compassione o assumere una persona più capace. Un altro esempio: uno stimato professore universitario muore e sua moglie, un' assistente a tempo parziale con valutazioni del suo insegnamento molto al di sotto della media, vorrebbe conservare il posto. Il «prendersi cura» e il «bisogno» sugge­ riscono di non toglierle il lavoro, e questa è la posizione di alcuni professori. Ma altri sostengono che lasciare al suo posto una docente mediocre sarebbe moralmente sbagliato, perché andrebbe contro il miglior interesse degli studenti («cura») o perché l'università dovrebbe assumere i migliori insegnanti disponibili , e ve ne sono molti e più competenti tra cui scegliere («giustizia))). Questo ci riporta al tema dell'applicazione di dif­ ferenti principi di giustizia in contesti differenti (cap. X). Nel sistema accademico, in linea di principio, il merito dovrebbe essere l'unico criterio per decidere su assunzioni, cattedre e promozioni; ma spesso il merito è in conflitto con la cura e con il bisogno, cose che per molti sono difficili da ignorare. Riassumendo, l'empatia contribuisce a creare dilemmi tra più parti morali nell'ambito della cura, a causa dell'inclina­ zione umana a provare empatia per le vittime. Di fronte a più vittime e costretta a fare una scelta, una persona può aiutarne una ma sentirsi colpevole per avere trascurato le altre. I bias dell'empatia svolgono un ruolo in questa scelta, e costituisco­ no, come ho osservato, una delle limitazioni dell'empatia. Si può sostenere che questi bias siano tanto connaturati all'uomo quanto l'empatia stessa, e che il bias in favore del gruppo cui apparteniamo quando dobbiamo decidere chi aiutare non sia poi così negativo [Blum 1 987 ] . Sono d 'accordo, ma questi bias possono diventare dannosi quando una persona si sente costretta ad attaccare qualcuno per difendere il proprio grup3 10

po ( rabbia empatica) . In che modo ridurre questa «violenza a base empatica» generata dalla rabbia empatica è un problema di educazione morale ( che tratteremo nel cap. XIII). L'empatia può contribuire a entrambi i termini del dilemma cura-giustizia, giacché l'empatia è congruente con l'una e con l'altra, anche se è più difficile che contribuisca alla giustizia quando l'obiettivo è la produttività, come accade di solito nella nostra società. Chi dà più importanza alla produttività può pensare che questo sia l' «ovvio» principio da seguire nei dilemmi cura-giustizia, e lo stesso vale per chi dà più impor­ tanza al prendersi cura. Il problema è che nella nostra società sia la cura sia la giustizia sono principi influenti e legittimi, ed entrambi validi. I professori che volevano che l'assistente a tempo parziale cui era morto il marito conservasse il suo posto difendevano appassionatamente la loro tesi e stentavano a cre­ dere che i colleghi fossero tanto insensibili da voler aggiungere dolore al dolore di una vedova. Gli altri professori ribattevano con pari passione e si rifiutavano di credere che i loro colleghi non riuscissero a rendersi conto che l'unico criterio morale significativo fosse la competenza; la cosa immorale, per loro, era lasciare al suo posto l'assistente.

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ARTE SESTA CULTURA

CAPITOLO DODICESIMO

LA QUESTIONE DELL'UNIVERSALITÀ E DELLA CULTURA

Il relativismo culturale è morto con l'Olocausto. Non possiamo più permetterei il lusso di dare per scontato che i valori o i principi guida di ogni cultura soddisfino i criteri della morale e che ognuno sia tanto buono quanto l' altro. Ciò non equivale a dire che vi sia un solo principio capace di soddisfare quei criteri. Ve ne sarà anzi più d'uno: un principio soddisferà meglio i criteri in un contesto, un altro principio lo farà meglio in un altro contesto, e in altri contesti ancora due o più principi morali perfettamente validi potranno entrare in conflitto. Per queste ragioni sono d'accordo con Kohlberg e con chi, come lui, respinge il relativismo e sostiene un prin ­ cipio universale di giustizia. La giustizia soddisfa certamente qualunque criterio morale, benché io tenga in gran conto anche il prendersi cura, che a volte entra in conflitto con la giustizia (cap. Xl) , e abbia un' obiezione verso Kohlberg e i suoi segua­ ci: ciò che essi intendono per giustizia mi è sembrato troppo vago 1 • Quando si guarda al concreto comportamento umano, la giustizia può significare molte cose: può essere sanzionatoria, retributiva, distributiva, meritocratica, egualitaria, e basata sul bisogno. L' empatia sembra essere congruente con tutti o quasi tutti questi principi di giustizia, come pure con il prendersi cura ( cap. IX). Ciò significa che l'empatia può rivendicare la sua universalità come motivazione morale prosociale, almeno nelle società che attribuiscono grande importanza alla cura e alla giustizia.

1 Un'eccezione è Damon [ 1988] , che ha condotto un'approfondita indagine evolutiva sul merito e su altri concetti relativi alla giustizia distributiva (vedi il cap. X).

3 15

l.

Le basi biologiche dell'empatia

Ho proposto alcuni anni fa un altro argomento in favore dell' universalità dell'empatia [Hoffman 1 98 1 ] . Esso fa riferi­ mento alla teoria dell'evoluzione, alle moderne ricerche com­ portamentali che mostrano che la sofferenza empatica suscita comportamenti di aiuto (cap. Il) e alle prove che mostrano che l 'emozione empatica ha una base fisiologica. La base in que­ stione è costituita dal sistema limbico, una struttura cerebrale filogeneticamente antica che è sede dell'esperienza emozionale, e dalle sue intricate connessioni con la neocorteccia prefronta­ le, la parte del cervello più specificamente umana e l'cltima a essersi evoluta [Brothers 1 989; MacLean 1 97 3 ; 1985 ; Panksepp 1 986] . In particolare, il fondamento neurale della sofferenza empatica sembra essere costituito dall 'amigdala e dalle sue connessioni con la corteccia orbita -frontale [Blair 1 999] . La mia conclusione era , e continua a essere, che deve essere stata l'empatia, in quanto predisposizione all'altruismo, piuttosto che l'altruismo stesso, a passare al vaglio della selezione naturale, diventando parte integrante della natura umana [Hoffman 1 98 1 ] . Ne segue che l'empatia è una potenziale motivazione prosociale per tutti gli esseri umani. Un altro supporto alla tesi che l'empatia abbia una base biologica viene fornito dai dati che mostrano che essa ha una componente ereditaria: la correlazione tra i livelli di preoccupazione empatica in risposta alla sofferenza (simtÙata) di un'altra persona era maggiore tra i gemelli identici che tra i gemelli fraterni (osservazioni effettuate in casa e in laboratorio con bambini di 14 e 20 mesi) [Plomin et al. 1 993 ; Zahn -Waxler et al. 1 992 ] . S e si mettono assieme le prove dell'esistenza d i una base biologica dell 'empatia e la sua congruenza con i principi di cura e di giustizia si può ragionevolmente concludere che, benché la proprietà motivazionale prosociale dell 'empatia sia stata stu­ diata solo negli Stati Uniti, l 'empatia debba essere considerata il principale candidato al ruolo di motivazione universale alla base del comportamento morale prosociale di qualunque per­ sona che ne vede un'altra che sta soffrendo. Ma che dire degli altri principi della mia teoria della morale empatica - le cinque modalità di attivazione empatica, l'influenza della disciplina induttiva sul senso di colpa per trasgressione e sull'interioriz-

3 16

zazione morale, e, soprattutto, l'ipotesi che l 'empatia si sviluppi di pari passo con la coscienza dell'altro in quanto distinto da sé? E i processi sottostanti sono universali o sono condizionati da vincoli culturali? In mancanza di ricerche transculturali, vi è un solo modo per rispondere a queste domande: approfon ­ dire e analizzare i principali concetti in gioco per scoprire se è plausibile che almeno qualcuno sia universale. Cominceremo dallo sviluppo dell'empatia e poi passeremo alle modalità di attivazione empatica e al ruolo delle induzioni.

2.

Sviluppo dell'empatia e senso del sé

Alcuni psicologi culturali [per es . , Markus e Kitayama

1 99 1 ; Miller e Bersoff 1 992 ] sostengono che lo sviluppo di un senso del sé come entità separata, distinta e indipendente non è affatto universale, ma è qu alcosa che gli Stati Uniti e le altre società individualistiche occidentali rendono possibile e incoraggiano. Secondo questi autori, gli obiettivi culturali di indipendenza, autosufficienza e realizzazione personale esigono che ognuno veda se stesso come un individuo il cui compor­ tamento è organizzato e reso significativo dal riferimento a un proprio repertorio interno di pensieri, sentimenti e azioni. Di conseguenza, il sé occidentale è più sviluppato rispetto a quello di società non occidentali più «collettivistiche» che si possono trovare in tutto il mondo e che comprendono il Giappone, paesi emergenti quali la Cina, l'India, l'Indonesia e la Corea, e quelle società omogenee nelle quali l'armonia, la tradizione, l'interdipendenza sociale, la cura, la responsabilità verso il benessere altrui e le obbligazioni comunit arie sono più importanti dei diritti individuali. Da questo punto di vista, le nozioni di interdipendenza, armonia e cura all'opera in queste società richiedono che ci sia una interconnessione di fondo tra le persone e il manteni­ mento di questa interdipendenza. Questo obiettivo culturale di interdipendenza crea un senso del sé e dell'altro come entità amalgamate assieme, anziché separate e distinte. L'idea che que­ ste società siano caratterizzate da un «sé amalgamato» (merged) non è suggerita solo dall'obiettivo culturale dell'interdipendenza, ma poggia anche sull'osservazione di pratiche che sembrano

3 17

riflettere un sé individuale meno sviluppato. Tra queste pratiche c'è l'evidente disposizione dei membri degli strati inferiori di queste società a mostrare deferenza verso l'élite, a rispettarne i privilegi e, a volte, a far propri i suoi obiettivi (trarre piacere dal piacere dell'élite) . Se questi autori sono nel giusto, e se la differenziazione sé-altro è una costruzione culturalmente de­ terminata e primariamente occidentale, tutto il mio schema di sviluppo dell'empatia, che si basa sulla sintesi tra l'attivazione empatica e lo sviluppo di un senso del sé separato e distinto, diventa un artefatto culturale dell'Occidente, certamente non universale. Io penso che questi autori abbiano torto, e per varie ragioni. In primo luogo, sembra ovvio e fondamentale che il cervello e le strutture cognitive ad esso associate garantiscano, come minimo, che ogni essere umano sia cosciente delle continue sensazioni cinestetiche provenienti dal suo corpo. Questa inces­ sante consapevolezza cinestetica non solo fornisce all'infante un primo sentimento di separazione tra sé e gli altri [Stern 1 985 e sopra, cap. III] , ma continua, anche dopo la prima infanzia, ad assicurare un certo grado di separazione tra sé e gli altri per tutta la durata della vita di una persona. In secondo luogo, il cervello e lo sviluppo cognitivo garantiscono che gli esseri umani, fin dalla prima fanciullezza, siano consapevoli dei loro pensieri, sentimenti e, ciò che è particolarmente importante in questo contesto, bisogni e desideri. In terzo luogo, il cervello e lo sviluppo cognitivo garantiscono che gli esseri umani pos­ sano rappresentarsi mentalmente e percepire cinesteticamente le proprie azioni. E, in quarto luogo, il cervello e lo sviluppo cognitivo garantiscono alle persone la capacità di rappresen­ tarsi gli altri - permanenza dell'oggetto - e le loro azioni. La scoperta di Ekman che le espressioni facciali rappresentano le stesse emozioni fondamentali in tutte le culture fa pensare che se i bambini statunitensi di tre o quattro anni possono inferire i sentimenti altrui a p artire dall'espressione facciale (cap. III ) , lo stesso possano fare anche i bambini cresciuti nelle culture «collettivistiche». Perciò per un adulto con un cervello normale dovrebbe essere impossibile sentire che il proprio sé sia fuso o amalgamato con quello di altri. (Ciò crea un limite alla sofferenza empatica come motivazione prosociale: possiamo avvertire un'intensa 3 18

sofferenza empatica m a sappiamo di non essere l'altro.) Inoltre, gli individui hanno bisogni e desideri; e i bisogni e i desideri di un individuo si scontrano inevitabilmente con quelli altrui. Benché la cultura possa minimizzare la frequenza dei conflitti (probabilmente più rari nelle culture cooperative che non in quelle competitive) e, in questo modo, possa ridurre il numero di dispute, liti e discussioni, sembra improbabile che possa cancellare ogni conflitto. Ad ogni modo, credo che nulla sia più efficace della partecipazione a discussioni e liti, negoziazioni e dispute per consolidare la consapevolezza di sé - anzi per rendere praticamente impossibile non avere consapevolezza della distinzione tra il sé e l'altro. Perciò l'ipotesi di un universale senso di sé appare più plausibile di quella di un sé collettivo, amalgamato. Così indicano le prove empiriche, per scarse che siano. Gli studi psicologici più pertinenti sono relativi all'identità di genere, che è senza dubbio una dimensione importante del sé: lo sviluppo dell'identità di genere in culture meno individualistiche della nostra (Belize, Kenia, Nepal, Samoa) avviene secondo la stessa sequenza che si osserva nella classe media statunitense (identità, stabilità, costanza) , sebbene possa manifestarsi a età differenti [Munroe, Shimmin e Munroe 1984]2. Altri elementi di prova sono quelli presentati da Turiel [1 998] , che sottolinea, in primo luogo, che i membri delle classi superiori delle società non occidentali, più «collettivisti­ che», hanno una forte coscienza della propria autonomia e dei propri diritti personali e un senso del sé ben sviluppato, come dimostrano tutti gli sforzi che fanno per conservare i propri

2 La sequenza cui il testo si riferisce riguarda la comprensione del genere (ovvero del sesso) ed è costituita da tre livelli. n primo è quello dell'identità ed è caratterizzato dal fatto che i bambini indicano correttamente il loro sesso e quello di altre persone, ma non sanno ancora che il sesso è una caratteristica durevole. Nel livello della stabilità i bambini sanno che il sesso non cambia col passare del tempo. ma credono che esso possa cambiare con l'abbiglia­ mento e le attività: se un bambino si mette le gonne o gioca con le bambole diventa una bambina. Nel livello finale, quello della costanza (consùtency) i bambini comprendono che pettinature, vestiti e azioni non cambiano il sesso di una persona. Nei bambini dei paesi occidentali, il livello dell'identità viene raggiunto verso i tre anni, quello della stabilità verso i quattro, e quello della costanza verso i 5 [NdC] .

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privilegi. Inoltre, e più importante, i membri meno privilegiati di queste società concepiscono anch'essi il sé come qualcosa di autonomo e indipendente; e l'interesse e gli scopi personali hanno importanza nelle loro vite. Tuttavia i membri delle classi e delle caste inferiori hanno una visione realistica di sé, e si rendono conto di far parte di una rete sociale nella quale la loro autonomia e la loro giurisdizione personale dipendono dagli altri e dalle esigenze del proprio ruolo. Una persona, in altri term ini, può essere consapevole della pragmatica del potere (se disobbedisci puoi essere punito) ; può considerare ingiusti i privilegi dell 'élite, e tuttavia adeguarsi ad essi non perché non abbia un senso del sé ma perché la struttura del potere non lascia scelta. Turiel cita un'osservazione di Spi­ ro [ 1 993 ] , basata su una rassegna degli studi antropologici sull' argomento: vi è molta «differenziazione, individuazione e autonomia nel supposto sé non occidentale . . . e dipendenza e interdipendenza nel supposto sé occidentale». E, ancora più esplicitamente, Spiro conclude che «le ideologie culturali e i simboli pubblici non si riflettono necessariamente nella concezione e nell'esperienza che un individuo ha di se stesso e degli altri» [vedi Turiel 1 998, 9 1 6 ] . D a ciò segue che è realmente possibile che v i siano meno esaltazione e celebrazione dell'individuo e più interdipendenza, aiuto ed empatia che non autonomia, e si dia più valore alle obbligazioni comunitarie che non ai diritti individuali nelle società «collettivistiche», che in quelle occidentali. Può darsi però che le differenze non siano così grandi come si pretende. Ad ogni modo, i valori e le pratiche di una cultura possono determinare il contesto nel quale il sé si sviluppa e vive (compe­ tizione, solidarietà), ma questi valori e queste pratiche possono non avere nulla a che fare con il grado di sviluppo del senso del sé. In mancanza di prove del contrario, l 'ipotesi che ognu­ no possegga un senso del sé ( dipendente essenzialmente dal cervello e dallo sviluppo cognitivo, e dagli inevitabili conflitti tra gli individui e i gruppi) è più plausibile dell'ipotesi che lo sviluppo del sé sia problematico e dipendente dalla cultura. Il sé, insomma, è universale. Inoltre, alla luce di quel che sappiamo sullo sviluppo cogni­ tivo (vedi il cap. III) e in mancanza di ricerche transculturali che mostrino il contrario, è plausibile che il sé individuale

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si sviluppi secondo la progressione da me ipotizzata. Esso si sviluppa a partire dalla confusione tra il sé e l'altro nella prima infanzia attraverso tre stadi: dalla consapevolezza di sé e degli altri come entità fisicamente distinte, a un sé che ha stati interni che gli altri non conoscono e proprietà esterne che gli altri conoscono, fino a un sé riflessivo la cui vita va oltre la situazione immediata e sa che ciò è vero anche degli altri - insomma, un sé che sa che anche gli altri, come lui, hanno un sé.

3.

Modalità di attivazione dell'empatia

Parliamo per prima cosa della risposta di agitazione e sof­ ferenza del neonato quando sente un altro bambino che piange - probabilmente una forma rudimentale di sofferenza empatica che può essere considerata senz' altro universale e aculturale, giacché è alla portata di qualunque neonato. Vi sono poi le tre modalità elementari di attivazione dell'empatia - mimesi, sofferenza empatica condizionata, sofferenza empatica per as­ sociazione diretta - che sono anch'esse, con ogni probabilità, universali. Ciò per due ragioni (vedi il cap . II): a) dato che, con ogni probabilità, le due fasi della mimesi (imitazione e retroazione) dipendono dal sistema nervoso centrale, e data la scoperta da parte di Ekman di caratteri universali nella relazio­ ne tra espressioni facciali ed emozioni, si può concludere che chiunque, in qualunque cultura, noti l'espressione facciale di sofferenza di una persona avvertirà sofferenza empatica; e b) è probabile che la sofferenza empatica condizionata e la soffe­ renza empatica per associazione diretta siano universali, giacché anch'esse hanno una base nel sistema nervoso centrale e in quello autonomo. Inoltre, tutti gli esseri umani sono strutturalmente simili, sono il risultato di una comune storia evoluzionistica, e sono accomunati da certe esperienze di sofferenza ( dolore, paura, perdita, separazione) . Le persone di tutto il mondo dovrebbero perciò, a un certo punto del loro sviluppo, essere capaci di provare sofferenza empatica nel vedere un'altra persona che sta soffrendo, in virtù del condizionamento o dell'associazione diretta con le proprie esperienze di sofferenza, inevitabilmente simili a quelle altrui. 321

Perciò la mimesi, il condizionamento, e l'associazione diretta devono essere processi universali di attivazione dell'empatia, sebbene le culture possano variare nella frequenza con cui ope­ rano questi processi, date le probabili differenze culturali nelle occasioni di sperimentare i vari tipi di sofferenza. Può variare con la cultura anche la facilità con cui l' osservatore rivolge la sua attenzione alle vittime di questo o quel tipo di sofferenza, o pensa a qualche altra cosa per distogliere la sua attenzione dalle vittime. Questa possibilità potrebbe interessare in parti­ colar modo la mimesi, dato che la mimesi dipende interamente dall'attenzione che l'osservatore presta alla vittima3• In terzo luogo, anche l'associazione mediata dal linguaggio deve essere un processo di attivazione empatica universale, per le stesse ragioni del condizionamento e dell'associazione diretta, e anche perché tutte le culture, presumibilmente, posseggono il linguaggio. Tuttavia è probabile che le lingue non siano tutte ugualmente efficaci nell'esprimere sentimenti, sentimenti di sofferenza compresi, e perciò ci si può aspettare che la frequenza della sofferenza empatica mediata dal linguag­ gio vari nelle diverse culture. In quarto luogo, l'assunzione di ruolo è un processo di attivazione dell'empatia più esigente dal punto di vista cognitivo. Anche se può essere automatico, come abbiamo visto nel capitolo secondo, è probabile che abbia una rilevante componente volontaria e che perciò possa dipendere dalla cultura. L'assunzione di ruolo centrata su di sé, ad esempio, potrebbe essere una risposta alla sofferenza altrui maggiormente prevalente nelle società individualistiche. Sembra ragionevole concludere che tutte le modalità di atti­ vazione empatica siano universali, cioè che, indipendentemente dalla cultura, ognuna di esse sia capace di suscitare una risposta empatica in qualunque essere umano. Le modalità primitive di attivazione dell'empatia agiranno in modo automatico e invo­ lontario nella maggior parte delle culture. E anche le modalità più gravose dal punto di vista cognitivo, e, in qualche misura, volontarie - l'associazione mediata dal linguaggio e l'assunzione

1 Dato che il bias di familiarità influenza l'empatia (cap. VIII), è più probabile che l 'osservatore si distragga se la vittima non appartiene al suo gruppo primario.

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di ruolo - possono essere universali, pur essendo influenzate dalla cultura. Questa analisi sottolinea quanto sia importante (come abbiamo visto nel cap . II) che vi siano molte e differenti modalità di attivazione empatica. Le persone compiono attribuzioni causali in tutto il mon­ do, anche se gli antropologi hanno constatato da tempo che la causalità ha un significato differente in una società tradizionale e omogenea e in una società occidentale. Ad ogni modo, si può affermare a ragion veduta che nei paesi sviluppati o in via di sviluppo tutte le persone compiono attribuzioni causali, com­ prese quelle relative alla sofferenza altrui, e, inoltre, che queste attribuzioni causali sono più o meno in accordo con la realtà (come negli Stati Uniti) . Ciò significa che quando la causa della sofferenza della vittima è fuori del controllo della vittima stessa (malattie, incidenti), l'osservatore proverà sofferenza empatica, e proverà rabbia empatica se la causa è un 'altra persona. Si può inoltre supporre che l'osservatore, quando è lui la causa, proverà qualcosa di simile al senso di colpa, anche se l'universalità del senso di colpa è una questione dibattuta da lungo tempo. La mia tesi generale è che le attribuzioni causali, come altre capacità cognitive, abbiano un fondamento nel cervello e pertanto siano accessibili alle persone di tutte le culture, benché non tutte le culture le utilizzino appieno o nello stesso modo. Questo è un tema che richiede certamente ulteriori indagini.

4.

Induzione, senso dz" colpa e intenòrz"zzazione morale

Passiamo ora al modello della trasgressione - al ruolo dell'induzione nella socializzazione del senso di colpa per trasgressione su base empatica, e al funzionamento del senso di colpa come motivazione morale prosociale. Sono, anche questi, concetti universali? Ci troviamo qui su un terreno più scivoloso. Non v'è dubbio che in tutto il mondo a volte i genitori intervengano per modificare il comportamento dei figli contro la loro volontà , ma la maggior parte delle ricerche che dimostrano il ruolo dell'induzione nel senso di colpa per trasgressione e nell'interiorizzazione morale sono state condotte con statunitensi bianchi di classe media. Le loro conclusioni sono applicabili anche ad altre popolazioni? 323

È ovvio che la frequenza con cui i genitori usano l'indu­

zione e l'affermazione del potere o anche la frequenza degli incontri disciplinari non può essere generalizzata. Le ricerche hanno documentato da tempo che l'affermazione del potere è più frequente e l'induzione ( al pari di altri ragionamenti) meno frequente nei gruppi socioeconomici inferiori. In uno dei primi studi correlazionali che comprendeva un campione di persone (bianche) di classe media e un altro di classe inferiore, Hoffman e Saltzstein [1967] hanno osservato che nel secondo, a differenza del primo, il ricorso all'induzione da parte della madre non era correlato con il senso di colpa e con l'interiorizzazione morale del bambino. Essi spiegarono questo risultato con l'azione congiunta di vari fattori: le madri di classe inferiore ricorrevano meno (in misura statisticamente molto significativa) alle induzioni; un maggior numero di madri di classe inferiore lavorava a tempo pieno fuori casa (negli anni Sessanta, erano poche le madri di classe media che lo facevano); le famiglie di classe inferiore erano più grandi (spesso comprendevano tre generazioni) e dovevano vivere in uno spazio più piccolo, e questo significa che il bambino interagiva con molte altre persone oltre che con la madre. Di conseguenza, nella classe inferiore il processo di socializzazione era più diffuso (ripartito tra più persone) , e perciò la disciplina materna poteva essere una variabile meno cruciale nel processo di interiorizzazione morale del bambino. Fattori simili possono essere alla base dei risultati di uno stu­ dio di Deater-Deckard e colleghi [ 1 996] , nel quale la disciplina basata sull'affermazione del potere era correlata con ! '«esterio­ rizzazione di problemi di comportamento» tra gli statunitensi di origine europea ma non tra quelli di origine africana. Questa correlazione tra affermazione di potere ed esteriorizzazione non corrisponde perfettamente alla correlazione tra induzione e interiorizzazione, ma è ciò che più le si avvicina, dato che tra gli afro-americani non sono state studiate né l'induzione né l'interiorizzazione morale. Pertanto, non possiamo ancora dire se l'induzione contribuisca all'interiorizzazione morale tra gli statunitensi di classe media di origine africana, come sembra fare tra quelli di origine europea . La mia ipotesi è che questo contributo vi sia, ovvero, i processi che, secondo la mia ipotesi, mettono in relazione l 'induzione con il senso di colpa per trasgressione e l'interiorizzazione morale continuano ad

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apparire plausibili; e non solo a me, ma a tutti coloro che gli hanno esaminati e, nel complesso, confermati, sia pure limita­ tamente a campioni di statunitensi d'origine europea di classe media (vedi il cap . VI) . In mancanza di studi transculturali e senza ipotesi alternative che godano di un supporto empirico altrettanto ampio, si può ragionevolmente concludere, finché nuove ricerche non dimostrino il contrario, che l'induzione e l 'affermazione del potere contribuiscono (la prima posi­ tivamente, la seconda negativamente) al senso di colpa per trasgressione, all'interiorizzazione morale e al comportamento prosociale - almeno nelle società fondate sulla famiglia nucleare nelle quali gli incontri disciplinari sono frequenti, l'affermazione di potere e l'induzione sono usate spesso, e il senso di colpa e l'in teriorizzazione morale sono concetti significativi. Ho incluso l'ultimo requisito perché il senso di colpa per trasgressione e l 'interiorizzazione morale possono avere poco senso in società piccole, tradizionali e omogenee, nelle quali gli individui per tutta la vita sono sotto la costante sorveglianza di modelli di ruolo e di altre autorità, o in alcune delle società non occidentali «collettivistiche», grandi ed etnicamente ete­ rogenee descritte sopra. In questo tipo di società, quando un individuo mette in atto comportamenti devianti, è probabile che i suoi genitori o altre figure influenti lo scoprano e lo pu­ niscano attraverso metodi di affermazione del potere o di ritiro dell'amore. In queste società, le induzioni possono essere rare e l'interiorizzazione morale relativamente poco importante. D'altra parte, nelle democrazie liberali, dove non c'è «un poliziotto in ogni angolo», e soprattutto nelle classi medie istruite, l'induzio­ ne, il senso di colpa e l'interiorizzazione morale sono concetti significativi, come spiega bene George Simmel nel brano citato nel capitolo quinto. Se questi concetti siano generalizzabili al di fuori della classe media della società occidentale, e fino a che punto, è un tema che richiede ulteriori indagini.

5. Conclusioni Ricapitolando, sembrano esservi più ragioni per credere che la morale empatica sia un iversale che non il con trario. Nelle culture ispirate al principio di cura e alla maggior parte di

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quelli di giustizia, ci si può aspettare che la morale empatica promuova il comportamento prosociale e scoraggi l 'aggressività. La morale empatica, tuttavia, non agisce nel vuoto: un 'educa­ zione basata sull ' affermazione del potere può soffocarla, una cultura che anteponga la competizione all 'aiuto può indebolirla, e non mancano motivazioni egoistiche individ uali abbastanza forti da contrastarla e sop raffarla. Ciò non contraddice la tesi che, in virtù dell'evoluzione, l 'empatia sia parte integrante della natura umana. Le differenze individuali in altre motivazioni a base biologica sembrano essere distribuite secondo la classica forma a campana , e lo stesso può essere vero dell 'empatia. L'empatia, potenzialmen te, è presente in ogni essere umano, ma può essere ridotta dall'irritabilità, dalla paura e da altre variabili temperamentali, e da tendenze depressive e autistiche che interferiscono con la mimesi, l' assunzione di ruolo e altri processi di attivazione dell 'empatia. La combinazione di fattori temperamentali con certe esperienze di vita, come l'indiffe­ renza da parte dei genitori, e un eccesso di affermazione del potere, può p rodurre individui incapaci di provare empatia ( psicopatici ? ) . L a moralità empatica è soggetta anche a distorsioni sistemati­ che (bias) in favore di amici, parenti e persone che ci somigliano. A causa di questi bias, la morale empatica può produrre un certo grado di ingiustizia, anche se, come sostengono alcuni filosofi [Blum 1 980] , la cosa è comprensibile e può essere considerata un problema minore. Problema comprensibile e minore - sono d 'accordo - se si considera il comportamento in larga misura prosociale che la morale empatica promuove nelle comunità piccole e omogenee, con frequenti interazioni faccia a faccia. Ma il problema può diventare grave nelle società eterogenee e multiculturali, specialmente quelle caratterizzate da rivalità tra gruppi etnici, nelle quali la morale empatica, a causa della tendenza dell'empatia a favorire il proprio gruppo p rimario, può alimentare l 'ostilità ( rabbia empatica) e a volte anche la violenza tra gruppi. La morale empatica, pur essendo universale come moti­ vazione morale prosociale, è dunque fragile (l'Olocausto è pur avvenuto) . Tuttavia, come ho suggerito nel capitolo nono, all'orizzonte non v'è nulla di meglio di una morale empatica legata alla reciprocità e a certi principi di giustizia che la guidino

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e la stabilizzino. Non v'è ragione di credere che l'unione della morale empatica con la reciprocità e la giustizia sia universale; al contrario, per conseguirla saranno necessarie - non ne du­ bito - risolutezza, inventiva e ricerca culturale. Il prossimo capitolo esamina i metodi di socializzazione per educare i bambini alla morale empatica e per ridurre la violenza tra i delinquenti maschi. Suggerisco anche vari modi per attenuare i bias empatici e per rafforzare la motivazione a vivere in armonia con le persone che non appartengono al gruppo primario - cioè per promuovere il comportamento prosociale al di là delle barriere etniche e culturali in genere. Alcuni di questi metodi possono forse essere adattati per ela­ borare programmi di educazione morale volti a legare la morale empatica con la reciprocità e la giustizia.

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TE SETTIMA TERVENTO

C APITOLO TREDICESJMO

IMPLICAZIONI PER LA SOCIALIZZAZIONE E L' EDUCAZIONE MORALE

Il ragionamento che ho sviluppato nel capitolo dodicesi­ mo mostra che l'empatia, con tutti i suoi limiti, è la base più probabile di una morale prosociale universale. Un aspetto importante della morale empatica è che lo sviluppo cognitivo (differenziazione sé-altro, mediazione linguistica, assunzione di ruolo, attribuzione causale) trasforma la semplice sofferenza empatica in motivazioni sempre più sofisticate a considerare il benessere delle altre persone, tenendo conto tanto delle loro condizioni di vita quanto dei loro sentimenti immediati (cap. III ) . Questi aspetti cognitivi dell'empatia sono connessi al cervello e perciò disponibili alla gente di tutte le culture, benché non tutte le culture li utilizzino appieno o nello stesso modo. La facilità con cui la cognizione può influire sull'empatia è importante anche per un'altra ragione: conferisce un ruolo potenzialmente importante alla socializzazione e all'educazione morale, che possono contrastare le limitazioni della morale empatica ed esaltare le sue capacità.

l.

Socializzazione della morale empatica

Nel capitolo sesto abbiamo visto come la sofferenza empa­ tica e il senso di colpa su base empatica, attraverso le induzioni dei genitori, creino degli scripts carichi affettivamente che mettono in relazione le azioni dannose di un bambino con la sofferenza empatica e il senso di colpa su base empatica, e come questi scripts divengano funzionalmente autonomi e indipendenti dalle induzioni che li hanno generati. L' induzio­ ne sembra essere l' intervento disciplinare d' elezione di molti statunitensi istruiti di classe media, anche se in un sondaggio di Harris, condotto nel 1 995 , 1'80 per cento dei 1 .250 adulti 33 1

intervistati dichiarava di avere picchiato i figli (vedi il cap. VI, nota 1 ) . Purtroppo, il sondaggio non chiedeva ai genitori con quale frequenza picchiassero i figli, né che cosa intendessero per picchiare, e nemmeno dava informazioni sulla classe socia­ le d 'appartenenza; comunque ciò dovrebbe far abbandonare l'idea che i genitori statunitensi sappiano che picchiare i figli è male e non abbiano più bisogno di consigli in materia di disciplina. I genitori che non usano l'induzione per ignoranza, impa­ zienza o per altre ragioni possono imparare (grazie ai programmi di educazione per genitori) come inibire, in molte situazioni, le proprie tendenze all'affermazione del potere e al ritiro dell'amo­ re, per conseguire i benefici a lungo termine dell'induzione. Altri suggerimenti per la socializzazione e l'educazione morale possono essere tratti dai primi quattro capitoli del libro. l . Io mi aspetto che una persona abbia più probabilità di rispondere empaticamente a un'emozione altrui se l'ha sperimentata direttamente, poiché ciò può facilitare il funzio­ namento di almeno tre meccanismi di attivazione empatica: l'associazione diretta, l' associazione mediata e l'assunzione di ruolo (la mimesi, dal punto di vista teorico, non richiede l'esperienza diretta di quell'emozione) . Da ciò segue che un tipo di socializzazione che permetta al bambino di sperimen­ tare una varietà di emozioni anziché proteggerlo da esse ( a mo' d i fiore d i serra) aumenterà l a probabilità che il bambino risponda empaticamente a emozioni diverse, cioè amplierà il suo registro empatico. Una possibile eccezione è che le emozioni associate a un'esperienza fortemente traumatica possono essere così do­ lorose da produrre una sovrattivazione empatica e far sì che l'attenzione si sposti dalla vittima alla persona stessa, o motivare la persona a ritrarsi dalla situazione. Ciò può essere messo in relazione con i risultati di una mia ricerca (non pubblicata) , secondo i quali gli studenti universitari che ottengono punteggi più elevati nell'inventario di Beck per la depressione mostrano più empatia verso una persona triste di quelli che ottengono punteggi inferiori, benché le persone depresse in senso clinico si preoccupino piuttosto di se stesse e siano poco empatiche. 2. Alla luce degli studi menzionati nel capitolo sesto, io mi aspetto che dare molto affetto al bambino possa aiutarlo 332

a sentirsi soddisfatto di sé, il che, a sua volta, dovrebbe con­ tribuire a renderlo sensibile ai bisogni degli altri e ad evitare che diventi un bambino chiuso in se stesso e affettivamente povero. lo mi aspetto anche che offrire al bambino un mo­ dello che agisca in modo prosociale lo aiuti a comportarsi nello stesso modo. Soprattutto quando il bambino è piccolo, è importante che il modello prosociale manifesti apertamente, ogni tanto, i suoi sentimenti empatici e simpatetici, e dica a che cosa attribuisce la sofferenza della vittima, ad esempio, quando si incontra un senzatetto. Questo può contribuire a far sì che il bambino risponda empaticamente anziché fare delle attribuzioni controempatiche, come quella di dare la colpa alla vittima. 3 . Gli apporti fondamentali dell'induzione allo sviluppo morale prosociale sono illustrati nel capitolo sesto. Non li rias­ sumerò qui; vorrei piuttosto sottolineare un'altra conseguenza della natura largamente involontaria dell'empatia: quando l'at­ tenzione è rivolta alla vittima, la sofferenza empatica dovrebbe essere una risposta automatica. E siccome l'attenzione, entro certi limiti, è sotto il controllo della volontà, le esperienze di socializzazione che orientano l'attenzione del bambino verso gli stati interni delle altre persone dovrebbero favorire lo sviluppo dell'empatia. Perciò, se un bambino ne danneggia un altro, gli interventi disciplinari che richiamano l'attenzione del bambino sul dolore o sulla sofferenza della vittima o lo incoraggiano a immaginarsi al posto della vittima ( induzioni) dovrebbero aiu­ tarlo a prendere coscienza dei sentimenti altrui ed accrescere il suo potenziale empatico. 4. Non c'è bisogno di spiegare ai genitori che le induzioni sono efficaci solo quando il bambino smette di fare ciò che sta facendo e concentra l'attenzione sull'induzione. I genitori sanno, o scoprono rapidamente, che spesso è utile esercitare un certo grado di pressione (affermazione del potere), che deve essere sufficiente a far sì che il bambino concentri l'attenzione sull'induzione e la elabori, ma non deve giungere a suscitare un eccesso di rabbia o di paura, che potrebbe interferire con l'elaborazione. Spesso il livello appropriato di affermazione del potere non richiede nulla più che tener fermo il bambino, guardarlo e insistere perché ascolti, ma a volte può essere necessario agire in modo più energico. 333

5 . La combinazione di induzioni frequenti, saltuarie af­ fermazioni di potere, un atteggiamento di cura e sostegno, e l'offerta di un modello prosociale può essere efficace anche nel contesto dell'educazione prescolare e primaria, sempre che gli incontri disciplinari non siano troppo frequenti e troppo costosi emotivamente. Spesso un insegnante può avere la tentazione di affermare il proprio potere in modo da ottenere obbedienza immediata: l'induzione può sembrargli un lusso che non si può permettere. Tuttavia, siccome in un'aula scola­ stica il «pubblico» è costituito da molti bambini, l'insegnante può trarre grande vantaggio da un'induzione presentata nel modo appropriato e al momento giusto, e adeguata al livello di sviluppo dei bambini («effetto ripple» - un effetto espansivo analogo all'allargarsi di un'onda sulla superficie di uno stagno). I bambini sono spettatori che compiono attribuzioni causali e possono sperimentare gli affetti empatici che tipicamente sono suscitati negli spettatori (capp. II e III). Le occasioni nelle quali un insegnante disciplina un bambino che ne tormenta un altro possono essere una preziosa esperienza di socializzazione per l'intera classe, e un uso appropriato dell'induzione da parte dell'insegnante può assicurare che lo siano effettivamente. 6. I bambini dedicano una grande quantità di tempo al gioco di finzione. Gli adulti possono introdurre in questi giochi degli scenari di assunzione di ruolo grazie ai quali il bambino possa sperimentare, in forma vicaria, alcune delle emozioni di cui la sua vita è priva, incluse, nel caso di certi bambini troppo protetti, risposte empatiche alla sofferenza altrui. Ciò potrebbe contribuire alla responsività empatica dei bambini verso le vittime non solo in modo diretto, ma anche in modo indiretto, ampliando il loro registro empatico. 7. Bisogna prestare speciale attenzione al fatto che le at­ tribuzioni di responsabilità dell'osservatore possono essere al servizio del suo interesse personale; in particolare, l'osservatore può dare la colpa alla vittima e, in questo modo, interferire con l'empatia. La colpevolizzazione della vittima è ormai un luogo comune; è qualcosa di cui tutti siamo consapevoli, ma è una consapevolezza astratta, e spesso incolpiamo la vittima senza neanche rendercene conto [Staub 1 996] . La colpevoliz­ zazione della vittima è qualcosa che non va mai fatto passare sotto silenzio. 3 34

2.

Il ruolo dell'empatia nel trattamento dei delinquenti

Gibbs [ 1 996] e Gibbs e colleghi [ 1 996] utilizzano alcune delle idee illustrate sopra come una componente importante di un programma per il trattamento dei delinquenti minorili maschi con comportamento aggressivo. Il programma è centrato sull 'empatia e sull'equità, che Gibbs considera il fondamento per un' educazione morale universale. Ecco una delle situazioni utilizzate da Gibbs. Gary è nella cucina del suo appartamento. Ha fatto un torto alla sua ragazza, e lei è molto arrabbiata. In­ veisce contro Gary, lo prende per la spalla, lo spinge. I pensieri si affollano nella testa di Gary. Ma sono pensieri sbagliati, e lui non fa nulla per correggerli . Va su tutte le furie. Insulta la ragazza. Lì vicino c'è un affilato coltello da cucina. Gary lo afferra e accoltella la ragazza, ferendola gravemente. Gibbs chiedeva agli adolescenti: «Che cosa credete che passasse per la testa di Gary?>>. Le risposte più frequenti erano di questo tenore: «Chi crede di essere quella? Nessuno mi può colpire. Qui sono io che porto i pantaloni, io faccio quello che mi pare. Come si permette di toccarmi?». Pensieri del genere sono autocentrati e non rivelano né empatia verso la ragazza né equità ( Gary può fare quello che vuole ma la ragazza no ). Essi esemplificano una limitazione generale dei minori antisociali maschi: sembrano essersi «arrestati al livello della soddisfazione dei loro bisogni, senza curarsi delle conseguenze per gli altri» [Carducci 1 980, 1 57 ] . Lungo la stessa linea, Samenow [ 1 984 ] , un criminologo, cita le parole d i un delinquente quattordicenne: «Sono nato con l'idea di fare quello che mi pare. Ho sempre pensato che regole e regolamentazioni non facessero per me» [ibidem, 1 60] . Gibbs, Samenow e altri autori sostengono che anche i delinquenti più incalliti mostrano, d i tanto in tanto, genuini sentimenti empatici verso gli altri, sia pure fuggevoli o superfi­ ciali. Vediamo ad esempio in che modo un diciassettenne parla di una sua recente impresa ladresca: «Se avessi cominciato a sentirmi a disagio, mi sarei detto: " Peggio per lui. Avrebbe dovuto sp rangare la casa e attivare l'allarme"» [Samenow 1 984 , 1 15 ] . È come se questo delinquente dicesse: «Se avessi provato un senso di colpa empatico per aver fatto soffrire una persona innocente, avrei neutralizzato l'empatia dando alla vittima la 335

colpa della sua sofferenza». Ciò concorda con la dichiarazione di un giudice del tribunale dei minori della contea di Orange (California) sulla pericolosità delle armi e l'immaturità dei gio­ vani: «Tirano il grilletto senza pensare alle conseguenze. Solo quando arrivano in tribunale e vedono le lacrime dei familiari della vittima . . . si rendono conto del male che hanno fatto» («New York Times», 1 1 gennaio 1 993 , A20) . E ciò concorda anche con i risultati di una mia ricerca, secondo i quali gli alunni di settima classe con un orientamento morale esterno (rubare è male se ti prendono), quando devono completare una storia nella quale il protagonista nuoce a qualcun altro, rispondono spesso con il senso di colpa, ma è un senso di colpa momenta­ neo subito seguito dall'attribuzione della colpa a qualcun altro o da altri modi di ridurre il senso di colpa [Hoffman 1 970a] . Un'altra distorsione cognitiva utilizzata dai delinquenti è la minimizzazione del grado di sofferenza della vittima. Essi inoltre usano l'assunto autointeressato (sel/-serving) secondo cui il fatto di essere stati trattati male in passato dà loro il diritto di trattare allo stesso modo il prossimo. Questa è una forma invertita di reciprocità che, come l'occhio per occhio, esem­ plifica la mia tesi (cap. IX) che la reciprocità sia un concetto cognitivo che, secondo il contesto e la motivazione, può essere al servizio di scopi antisociali non meno che prosociali. Uno degli obiettivi chiave di Gibbs è offrire ai suoi soggetti delinquenti una «dose concentrata» di occasioni per assumere il ruolo e il punto di vista altrui, in modo da stimolare sia il prendersi cura sia la giustizia. La dose è concentrata affinché i delinquenti possano riguadagnare il terreno perduto in pas­ sato. A questo scopo, Gibbs li fa partecipare a discussioni su problemi o dilemmi sociomorali à la Kohlberg, formulati in modo da toccare da vicino la loro vita, che servono da stimoli per esperienze di assunzione di ruolo. I partecipanti devono giustificare le proprie decisioni di fronte alle obiezioni dei leader del gruppo e dei compagni in uno stadio di sviluppo più avanzato. Gibbs descrive un metodo raccomandato da Vorrath e Brendtro [ 1 985] , il metodo del «mettere di fronte» (con/ronting) , che, come l'induzione, dirige l'attenzione del partecipante sui danni che le sue azioni arrecano ad altre persone, e in questo modo suscita e rafforza le sue risposte empatiche. Questo è 336

considerato necessario per contrastare l'egoismo dei delinquenti e attraversare la barriera delle loro distorsioni cognitive. Il metodo del «mettere di fronte» obbliga inoltre l'individuo antisociale a indossare i panni dell'altro e a prendere coscienza della catena di danni che deriva dalle sue azioni, comprese le conseguenze per le vittime assenti o indirette. lo suggerisco che questo essere messo di fronte includa anche le condizioni di vita dell'altro al di là della situazione immediata (cap. III) , che invece i delinquenti sembrano avere la tendenza ad ignorare. Gibbs propone anche di adottare, ove possibile, i meto­ di di Goldstein e Glick [ 1 987 ] , che offrono ai partecipanti l'opportunità di fare pratica nell'assunzione del ruolo altrui in concrete situazioni sociali (esprimere una lamentela, prepa­ rarsi a una conversazione importante, reagire all'ira, affrontare un'accusa, rispondere ai sentimenti altrui, aiutare) , per ridurre il comportamento aggressivo dei partecipanti. L'espressione di una lamentela, ad esempio, viene suddivisa in sei passi, uno dei quali è «mostrare di comprendere i sentimenti dell'altro». Uno dei passi dell'affrontare un'accusa è «pensa perché quella persona può averti accusato». Sono molto colpito dalla varietà di questi metodi. Essi sono molto lontani dalle forme tradizionali di affermazione del potere e sembrano promettenti. Una cosa però sembra manca­ re. Non vi sono analisi teoriche in grado di spiegare perché i procedimenti che sembrano produrre gli effetti desiderati nel «trattamento» dovrebbero potersi trasferire nella vita reale e influenzare il comportamento quotidiano degli individui. Credo che una spiegazione siffatta potrebbe prendere le mosse dalla mia analisi degli effetti a lungo termine dell'induzione (cap. VI). Vi sono, ad esempio, scripts Trasgressione � Senso di Colpa acquisiti dai partecipanti nelle sessioni di trattamento che possono attivarsi e motivare il comportamento prosociale nella vita reale? Se un delinquente interpreta lo script di Gary e della fidanzata descritto sopra, o quello di uno stupro, e, grazie al metodo del «mettere di fronte» o all'induzione da parte dei compagni e dei leader del gruppo, si sente colpevole, forse per la p rima volta nella vita, egli potrebbe formare uno script Trasgressione � Senso di Colpa. Uno script siffatto, una volta formatosi, si attiverà quando, nella vita reale, il delinquente sarà tentato di agire in modi che potrebbero 337

danneggiare altre persone? E, se si attiva nella vita reale, lo !icript sarà abbastanza potente da modificare la condotta di quella persona? Infine, se la risposta a queste domande è positiva, resta ancora un interrogativo: quale sostegno deve fornire l ' ambiente affinché i cambiamenti costruttivi nella condotta del delinquente durino nel tempo? 3 . Ridurre La sovrattivazione e i bias empatici La sovrattivazione e i bias cui l'empatia è soggetta possono attenuarsi nel corso normale dello sviluppo, quando l'empatia si lega ai principi morali: i principi possono dare struttura e stabilità agli affetti empatici (cap. IX) . Tuttavia, è probabile che i normali processi di sviluppo non siano sufficienti, e accorrano perciò interventi attivi di genitori ed educatori morali, come il sottolineare ciò che varie culture hanno in comune, l'aiutare il bambino a vedere oltre la situazione immediata, il manifestare empatia in più direzioni (molteplicità empatica) . Comunanze transculturali. L'empatia ha origine nell'ambito delle relazioni affettive con i genitori e si estende poi alla famiglia estesa e agli amici. Uno dei compiti principali dell'educazione morale è vincere il bias di familiarità ed estendere l'empatia ad altri gruppi, in modo che il bambino diventi più consapevole degli effetti delle sue azioni su persone evidentemente diverse da lui . Per contrastare il bias di familiarità, gli educatori morali devono prima identificarlo e poi spiegarlo come una risposta normale e che aveva una funzione all'inizio dell'evoluzione umana, ma che non è adatta alla vita nelle società multiculturali contemporanee, che richiedono, come la nostra, una grande dose di imparzialità e un concetto del proprio gruppo che comprenda l'umanità intera. Per creare questo senso di unità con gli altri, è possibile che l'educatore morale debba mettere in evidenza le comu­ nanze emotive che ci sono tra gruppi, nonostante le differenze sociali, culturali e fisiche. Di queste comunanze fanno parte paure, ansie e obiettivi esistenziali simili, e risposte emozionali simili di fronte ad elogi, critiche e ingiustizie, come pure a crisi esistenziali e ad esperienze universali come l'attaccamento, la separazione, la perdita e l'invecchiamento. 338

Creare questo senso di unità con gli altri può non essere così difficile come sembra. Analizzando i bias cui è soggetta l'empatia (cap. VIII) , ho presentato una rassegna degli studi che dimo­ strano che le persone rispondono con empatia e danno aiuto a coloro con cui credono di condividere preferenze, atteggiamenti, interessi, obiettivi esistenziali e preoccupazioni costanti. Sembra evidente che questo bias di somiglianza può essere rivolto contro se stesso e posto al servizio della creazione di un sentimento panumano di unità per quanto riguarda le risposte emotive ai più importanti eventi della vita che ho appena menzionato. Ciò può essere fatto sottolineando le risposte emotive comuni a tutti e le differenze superficiali che le mascherano. A questo scopo, i mezzi di comunicazione visivi possono essere particolarmente preziosi: date le prove dell'universalità dell'espressione facciale delle emozioni di base, lo spettatore può riprodurre le espressioni facciali di attori appartenenti ad altre culture, e, per retroazione, può sperimentare le emozioni in varie situazioni (specialmente se si trova a guardarli in volto) . Anche i film sono un modo eccellente d i presentare situazioni di vita più ampie, capaci di favorire l'identificazione empatica con la vita altrui. Il vedere che i membri di altre culture hanno pre­ occupazioni simili alle nostre e rispondono affettivamente come noi ai più importanti eventi esistenziali mentre stiamo seduti tra il pubblico e proviamo le stesse emozioni dovrebbe contribuire al senso di unità e all'empatia tra culture differenti 1 • Secondo Brewer [ 1993 ] , sottolineare le somiglianze tra culture diverse può non funzionare perché la gente vuole identificarsi con un gruppo distinto, per qualche aspetto, dagli altri; di conseguenza, potrebbe respingere l'idea che tutti siano uguali. Credo però che questo non dovrebbe essere un pro­ blema: le somiglianze delle risposte emotive alla separazione, alla perdita, all'invecchiamento e alla morte lasciano spazio per 1 Mi riferisco soprattutto alle emozioni fondamentali. Non intendo mini­ mizzare la difficoltà di rispondere empaticamente ad emozioni complicate e caratteristiche di una situazione specifica. Si consideri quanto sia difficile per uno statunitense di classe media p rovare empatia per una donna messicana o colombiana povera che si rallegra di avere dato suo figlio in adozione a una coppia statunitense. Per comprendere, almeno in parte, la miscela di speranza e tristezza di una madre che si trova in una situazione del genere, ci si deve immergere nella sua cultura e far proprie le sue speranze per il figlio.

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molte differenze in altri ambiti. Ognuno può avere i propri «caratteri distintivi ottimali>> e, al tempo stesso, riconoscere che vi sono certe situazioni ed emozioni umane condivise da tutti i gruppi. In altre parole, dovrebbe essere possibile identificarsi empaticamente sia con il proprio sottogruppo sia con l'umanità intera, cosa che renderebbe possibile la coesione all'interno dei sottogruppi e la coesistenza tra sottogruppi diversi. In breve, non è necessario che le comunanze debbano di­ struggere l'integrità del gruppo a cui si appartiene. Inoltre, le persone potrebbero essere ben disposte verso l'idea che vi sia un obiettivo sovraordinato più ampio - la sopravvivenza della specie umana - per raggiungere il quale può essere utile la di­ versità ed è necessaria l'empatia tra gruppi diversi, una sorta di «empatia universale». Non vi sono prove dirette del contributo degli scopi sovraordinati all'attivazione dell'empatia intergruppi o universale, ma le prove (risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta) che gli scopi sovraordinati possono ridurre l'ostilità intergruppi, assieme alla dimostrazione sperimentale che la cooperazione favorisce l'empatia [Lanzetta e Englis 1989] , indicano che questi scopi possono realmente contribuire all'empatia intergruppi. Ci sono anche delle prove che l'identificazione con un gruppo sovraordinato può promuovere la coesione e la coesistenza tra sottogruppi, anche quando le persone si identificano con il proprio sottogruppo [Huo et al. 1 996] . Ciò non significa che l'empatia universale sia sufficiente a unire un società democratica minacciata da conflitti razziali, etnici, religiosi e di classe. Ciò di cui una società eterogenea ha bisogno per non disfarsi sono buone leggi, cioè leggi giuste e imparziali e, pertanto, accettabili per tutti. Le leggi fondate sulla giustizia sono pensate in modo da eliminare ogni tipo di parzialità, bias empatico compreso. Ma l'empatia universale di cui sto parlando è differente proprio perché largamente priva di bias. Di fatto, potrebbe dare un importante contributo in questo senso motivando le persone a obbedire alle leggi giuste e promuovendo istituzioni che le incorporino (vedi, nel cap. IX, par. 3 .2 , L'empatia e il principio di dzf/erenza di Rawls). Guardare oltre la situazione. Per ciò che riguarda il bias, l'educatore morale può insegnare al bambino una semplice regola pratica, di guardare al di là della situazione immediata e porsi domande del tipo: in che modo le mie azioni influenzano 340

questa persona non solo ora, ma anche in futuro? Esse possono influenzare qualcun altro, presente o assente? Se il bambino imparasse a porsi domande come queste, almeno di tanto in tanto, questo potrebbe accrescere la sua consapevolezza che le sue azioni possono avere vittime e beneficiari che non sono presenti, e quindi anche accrescere la sua capacità di provare empatia nei loro confronti. In uno studio di completamento di storie, ho usato una storia il cui protagonista è un alunno di settima classe che in una gita scolastica vince, imbrogliando, una gara di nuoto subacqueo: vira prima di essere giunto a metà percorso, ma, siccome l'acqua è torbida e agitata, nessuno se ne accorge. Il ragazzo viene premiato e gli amici e i compagni di classe si congratulano con lui. Ai soggetti veniva chiesto di completare la storia con le idee e i sentimenti del protagonista e con gli eventi successivi. La maggior parte dei finali riflettevano un bias di immediatezza e ruotavano attorno al dilemma del protagonista (si sente colpevole e confessa, butta via il premio, perde la gara dell'anno dopo, da quel momento vive felice e contento, e così via). Alcuni finali mostravano preoccupazione per il vero vinci­ tore, quello «assente» (penso al ragazzo che avrebbe meritato di vincere; non è giusto; Art si avvicinò al vero vincitore e gli diede il premio dicendo: prendilo, te lo sei meritato). Quando i soggetti venivano invitati a completare la storia con le idee e i sentimenti del protagonista della storia o di qualcun altro e con gli eventi successivi, un maggior numero di finali indicava una preoccupazione per la «vittima» assente, e un numero ancora maggiore quando i soggetti venivano invitati a pensare ad altre persone influenzate dall'imbroglio e a tenerne conto nel finale. Si potrebbe condurre uno studio che utilizzasse tutte queste istruzioni, e farlo seguire da una discussione del perché solo pochi soggetti pensassero al vero vincitore quando non erano stati invitati a farlo. Questa discussione potrebbe introdurre efficacemente il tema del bias di immediatezza. Gli esperimenti di Batson descritti nel capitolo ottavo potrebbero essere discussi in modo simile. Empatizzazione multipla. Per accrescere la forza motivazio­ nale dell'empatia verso le vittime assenti, si potrebbe invitare il bambino a immaginare ciò che sentirebbe al loro posto. Per rafforzare l'empatia verso gli estranei o i membri di un 341

altro gruppo etnico, si potrebbero mostrare al bambino scene di membri di quel gruppo in una situazione emotivamente significativa, e gli si potrebbe chiedere di immaginare come si sentirebbe nella stessa situazione. Ma, cosa ancora più importante, il bambino potrebbe essere invitato a immaginare come si sentirebbe una perso­ na a lui vicina e molto cara al posto della vittima assente o dell'estraneo. È questo un modo per volgere i bias di familiarità e di immediatezza contro se stessi, e metterli al servizio dello sviluppo motivazionale prosociale. Il bias di familiarità rende più difficile l'empatia verso uno sconosciuto; per contrastare questa tendenza, nulla di meglio che trasformare lo sconosciuto in una persona che ci è vicina. Si ricorderà (capp. IV e VIII) l'eroico camionista che era intervenuto in aiuto di un'anziana donna aggredita da un delinquente «perché quella donna poteva essere mia madre>>. Sono convinto che addestrando sistema­ ticamente il bambino all'arte della empatizzazione multipla si potrebbero ridurre gli effetti di familiarità e di immediatezza cui l'empatia è soggetta. È il caso di ripetere quanto ho già detto sopra: non vi è nulla di intrinsecamente sbagliato in un bias a favore della famiglia o degli amici. È naturale provare empatia verso coloro con i quali siamo cresciuti e abbiamo condiviso esperienze importanti e che conosciamo da molto tempo; non occorre che la logica sostituisca il sentimento e la preferenza personale nelle rela­ zioni strette. Il bias empatico in favore dell'in-group è normale e accettabile purché ci consenta di aiutare anche gli estranei. Le ricerche mostrano che questo è quel che accade: almeno negli Stati Uniti, lo spettatore tende ad aiutare gli sconosciuti, anche se meno della famiglia e degli amici (capp. II e VIII). Ciò che propongo è usare il bias empatico non come seme della sua distruzione ma della sua moderazione, come un modo per accorciare la distanza tra l'empatia verso i familiari e l' em­ patia verso gli estranei. Un altro obiettivo, più importante, è ridurre la tendenza che alcune persone hanno di attribuire preferibilmente agli estranei la responsabilità della propria sofferenza e, obiettivo ancor più importante, ridurre l'uso di stereotipi, l'ostilità e l'odio dichiarato verso gli altri gruppi che le tradizionali rivalità etniche e altre fonti simili possono alimentare. Insomma, l 'addestramento all'empatia verso una 342

molteplicità di vittime (qualcosa che non viene naturale) può trarre vantaggio, piuttosto che essere danneggiato, dalla natu­ rale inclinazione umana a provare più empatia per i familiari che per gli estranei. L'addestramento può ridurre la tendenza a incolpare le vittime che non sono presenti e contrastare gli altri effetti negativi dei bias dell'empatd. Tutto ciò natural­ mente sarà sempre più importante visto che la nostra società sta diventando sempre più multiculturale. E non solo la nostra. lgnatieff [ 1999] sostiene che l'empatia («la capacità umana di immaginare la sofferenza e la degradazio­ ne di qualcun altro come se fossimo noi a patirle))) costituisce la base di un' «etica laica» universale (un'etica che esige che i diritti umani fondamentali siano affermati ovunque). E, secondo lgnatieff, affinché questa etica laica su base empatica funzioni adeguatamente, ogni paese deve poter contare sui «meccanismi autocorrettivi della libertà di stampa e del pluralismo politico)). A ciò aggiungerei leggi e istituzioni che facciano in modo che le persone interagiscano in maniera civile, e una socializzazione morale che, come ho suggerito sopra, favorisca l'empatia verso l' «altro)) e associ l'empatia ai principi di cura e di giustizia. Suona bene: la capacità umana di provare empatia, ali­ mentata dalla socializzazione morale empatica in un quadro di libertà di stampa, pluralismo politico e buone leggi. Questa combinazione può funzionare? La cosa è opinabile, ma occorre almeno provarci: è in gioco la sopravvivenza umana. È su questa nota che vorrei terminare il libro.

2 È stato mostrato che se l'osservatore prova empatia per qualcuno, l' «er­ rore fondamentale di attribuzione>> viene meno [Regan e Totten 1975] . La persona che p rova empatia attribuisce il comportamento dell'altro a fattori situazionali piuttosto che al suo carattere, proprio come l'osservatore tende a fare quando spiega la propria condotta. Perciò l'empatia dovrebbe ridurre la tendenza a incolpare la vittima.

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