Economia, religione e morale nell'islam 9788843068067, 8843068067

I principi etici presenti nel Corano e nella tradizione profetica non hanno una specificità "islamica" ma risp

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Ersilia Francesca

Economia, reli�ione e morale nell'islam

Carocci editore

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A Giuditta e Camilla, le mie nipoti ora adolescenti, che da bambine mi hanno insegnato il senso del gioco e della scoperta Ad Alessandro

edizione, maggio 2013 © copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma

1a

Realizzazione editoriale: Progedit Srl, Bari Finito di stampare nel maggio 2013 dalle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN 978-88-430-6806-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione l.

2.

9

Il denaro e il peccato

19

L'avarizia e la parsimonia

26

Il denaro che non dà frutti. Il divieto coranico dell'usura

38

Il problema del prestito a interesse

44

Può il denaro dare frutti? Il credito e i contratti di società

49

I vantaggi economici della solidarietà

57

Il denaro e la salvezza La generosità nel Corano

61

L'istituzionalizzazione della carità: l'elemosina rituale

64

La zakat nel diritto islamico

72

La dimensione morale ed economica della povertà

83

L'ideale della povertà: il sufismo

88

I poveri nelle società islamiche medievali

96

Le fondazioni pie

102

Chi entrerà per primo nel regno dei cieli? Il ricco giusto o il povero giusto?

109

3.

4.

Dall'usuraio al mercante

119

La dimensione etica del lavoro

119

Il lavoro secondo Ibn Khaldun

130

Dall'usuraio al mercante

13 9

Stato e mercato nel pensiero economico islamico medievale

1 47

Economia islamica e sfide globali

157

Economia islamica e radicalismo religioso Il pensiero economico islamico nell'era della globalizzazione

168

Banche e finanza islamiche

174

Il welfare islamico oggi: modelli e prospettive

188

La beneficenza ai tempi di Internet: la e-zakat

199

Conclusioni

205

Note

209

Bibliografia

229

Indice dei nomi

243

Introduzione E quando uno dona dei suoi beni sulla via di Dio è come un granello che fa germinare sette spighe, ognu­ na delle quali contiene cento granelli, così Dio darà il doppio a chi vuole, e Dio è ampio sapiente. Cor II,

261

Mi fa piacere cominciare il libro con una citazione coranica sul valore della carità, aspetto centrale del pensiero islamico economico e non solo. Già san Paolo aveva esaltato il valore morale della carità: (1 Cor 13, 4-7). Mentre Dante si interrogava: (Pg 15, 61-63). Il libro intende raccontare i rapporti esistenti nell'islam tra religione, morale, etica ed economia. Esso nasce da oltre un decennio di studi e ricerche e prende spunto, in parte, dagli argomenti delle lezioni da me tenute nei corsi di Storia dell'economia islamica e Storia contemporanea dell'economia del Medio Oriente e Nord Africa presso l'Università di Napoli "L'Orientale". Sono stati spesso proprio le domande e gli spunti di riflessione posti alla mia attenzione dagli studenti a darmi nuove idee • • per portare avanti questa ricerca. La riflessione su economia e morale occupa un posto considerevole in tutte le grandi religioni, ma quanto i risultati di questa riflessione riesco­ no a influenzare l'organizzazione o la crescita economica? In altre parole: c'è posto per la morale in economia? Questa la domanda da cui si parte per dipanare un discorso sull'eco­ nomia islamica che prescinde dalle realtà statuali, regionali e locali, per privilegiare tematiche valide per ogni musulmano, ovunque egli viva. L'economia islamica si giustifica su basi morali, si tratta di un'econo­ mia della condotta virtuosa. I temi che essa propone alla riflessione si pre-

IO

ECONOMIA, RELIGIONE E MORALE NELL ISLAM

stano, inoltre, a un'analisi diacronica: i divieti coranici di usura e alea sono alla base l'uno della nascita della banca islamica, l'altro del dibattito sulla liceità delle assicurazioni nel mondo islamico, che ha portato anch'esso - seppure in modo minore - alla nascita di sistemi operativi alternativi. L'elemosina rituale (zakat), pilastro di fede dell'islam insieme alla pre­ ghiera, al digiuno e al pellegrinaggio, è stata di recente rivalutata come ele­ mento portante di un "welfare state" islamico. D'altro canto la sua raccolta su base volontaria ha portato al fiorire di organizzazioni caritatevoli, che si occupano di assistenza sociale e sanitaria, dispensano borse di studio a stu­ denti meritevoli e finanziano centri islamici di istruzione e propaganda. Nei CAPP. 1-3 si traccerà la genesi del pensiero economico islamico. Il Corano e la tradizione profetica contengono determinati principi in materia economica. Essi vietano ogni tipo di guadagno smodato, l'usura, raccomandano di consacrare parte del gettito fiscale raccolto al soccorso degli indigenti, al riscatto dei prigionieri e ad altri fini caritatevoli. Si tratta di reciproci aiuti all'interno della comunità a cui ciascuno contri­ buisce in proporzione al proprio reddito. Nei testi dell'islam classico il massimo esempio di giustizia sociale aveva le caratteristiche di uno Stato diretto dai principi rivelati da Dio, in cui i più fortunati donavano parte dei propri beni a beneficio dei più poveri. Da qui il dibattito nelle fonti medievali sulla valenza etica e religiosa della povertà e dell'ascesi, del lavoro e del guadagno. Dalle fonti islamiche medievali emerge un'ossessione per il denaro, verso i modi di procurarselo e, soprattutto, di spenderlo. La ricchezza è una benedizione ma anche un pericolo in quanto inorgoglisce l'uomo e l'allontana da Dio. La povertà, viceversa, pone l'uomo in un atteggiamen­ to giusto di fronte a Dio: simbolicamente è lo stare a mani vuote dinanzi all'Onnipotente sapendo di non avere altro che Lui. Tuttavia l'islam, al contrario del cristianesimo che esordì richiamando i fedeli a vivere una vita di povertà, non invita alla povertà ma a godere, con moderazione, di quanto di buono Dio ha dato. Il denaro, d'altro canto, può aprire le porte del paradiso, così non solo i ricchi si sforzavano in vita di compiere gli atti di carità prescritti dalla religione, ma lasciavano parte delle loro fortune in fondazioni a favore dei poveri a perpetuo beneficio della loro anima. La povertà che non è scelta ma subita va combattuta in quanto po­ tenziale frutto di un'ingiustizia a cui va posto riparo. La società islamica abbraccia l'ideale di giustizia sociale facendosi carico dei più poveri e derelitti attraverso l'istituzionalizzazione di pratiche di beneficenza, in particolare la zakat, l'elemosina legale, e il waqf, la fondazione pia.

INTRODUZIONE

II

Entrambi questi istituti consentono che denaro, beni e servizi cir­ colino all'interno della comunità anche tra i più poveri. Trasgressione gravissima è l'usura, spesso accomunata all'avarizia, intesa come il pre­ tendere più di quanto si è dato, come ingiusta espropriazione dei beni dell'altro, ma anche come ostacolo a una sana circolazione del denaro e dei beni nella comunità. L'usuraio, per l'islam come per la Chiesa ( , Matteo 6,24), è colpevole di un peccato gravissimo: è un ladro che vuole lucrare sull'intervallo che passa tra il momento in cui presta e quello in cui viene rimborsato con l' inte­ resse. Egli commercia dunque il tempo del quale Dio solo è proprietario. Con l'affermazione di patrimoni legati al lavoro e al commercio, la ricchezza assume un valore positivo. Il mercante diventa, nelle opere di filosofi, giuristi e teologi, una figura di riferimento su cui costruire un'e­ tica del lavoro. I rischi a cui i mercanti vanno incontro quando affidano al mare le loro merci e le loro stesse vite li riscattano nell'immaginario collettivo e ne fanno una figura chiave della società islamica. Non c'è una netta distinzione tra mondo dei mercanti e banchieri: entrambe le figure spesso svolgono sia attività commerciali che operazioni di cam­ bio o finanziamento di attività. I campi di azione dei mercanti-banchieri sono molteplici e vedono una forte complementarità tra l'aspetto com­ merciale e quello finanziario. Sono loro che guidano la straordinaria cre­ scita del mondo islamico medievale. Ma proprio mentre si afferma un ceto mercantile, gli ordini sufi propongono un modello di vita basato sulla povertà. E così il dilemma su come giudicare ricchezza e povertà, denaro e abbandono dei beni terreni rimane aperto. I principi etici ricavabili dal Corano e dalla tradizione profetica non hanno una specificità "islamica" ma rispondono a una scala di valori co­ mune a molte religioni; tuttavia è partendo da tali principi che l'eco­ nomia islamica, dal dopoguerra agli anni settanta, ha proposto l'islam come modello alternativo al socialismo e al capitalismo. Nel CAP. 4 si studieranno alcuni aspetti dell'odierno pensiero eco­ nomico islamico. L'economia islamica tende a porsi come una scienza autonoma, con una forma e una metodologia adeguate agli standard di analisi e sintesi di una scienza moderna. L'islam viene proposto come un sistema che racchiude principi economici in grado di influenzare la condotta degli individui e degli Stati. Di fronte alle tesi liberiste per cui la società è composta da individui sovrani tesi alla ricerca del proprio interesse, in concorrenza reciproca, e al filone ideologico del colletti­ vismo, alimentato dalle teorie marxiste, che auspica la realizzazione di

12

ECONOMIA, RELIGIONE E MORALE NELL ISLAM

un sistema socio-economico in cui i mezzi di produzione sono gestiti da forme di proprietà collettiva (cooperativa o statale), l'islam propone una via alternativa che racchiude aspetti di entrambi i sistemi, basata sull'elemento etico intrinseco nella religione islamica. Al centro della concezione islamica è posto l'individuo, in quanto singolo e membro della società: lo Stato, nel delineare i propri obiettivi e il modo di realiz­ zarli, deve tener conto del fattore morale e psicologico, in quanto esso ha un grande impatto sulla vita sociale, sui suoi problemi e sulle relative soluzioni. Alcuni principi già presenti nel pensiero economico islamico medievale, come i divieti di usura e alea, la giustizia sociale, passano al pensiero contemporaneo che - ripartendo dalle stesse fonti - li riadatta alla realtà di oggi. L'ideale della giustizia sociale e il ruolo dello Stato e degli individui nei processi di redistribuzione, in particolare, diventano un leitmotiv in tutto il pensiero contemporaneo, a partire dal pensiero dell'islam radicale. E evidente lo sforzo degli autori di cercare le "lezioni dal passato" per trovare le soluzioni ai problemi dell'oggi. L'economia islamica ha basi dogmatiche: il concetto di luogotenenza dell'uomo sul­ la terra influenza lo sfruttamento delle risorse naturali che non può mai essere unilaterale né ignorare l'interesse delle future generazioni; i con­ cetti di fratellanza e responsabilità portano alla giustizia nelle transazio­ ni economiche, alla reciprocità negli scambi, alla redistribuzione della ricchezza. Le relazioni economiche devono sviluppare la responsabilità sociale, la comprensione umana e l'istituzionalizzazione della shari'a nella condotta di vita. L'uomo non è per natura egoista, il progresso ma­ teriale non è l'obiettivo supremo di uno Stato islamico: suo obiettivo è un concetto più ampio di sviluppo non dettato esclusivamente dalla tendenza a massimizzare i benefici e che tenga conto anche di valori etici quali la giustizia, la moderazione, la cura per gli altri. L'islam, come le altre grandi religioni, si fa portatore oggi di istan­ ze di giustizia, di un impegno a cercare il bene comune, di una critica morale alla vita politica, partendo dal presupposto che l'uomo vada col­ locato al centro dell'agire sociale ed economico. L'autentico sviluppo dell'uomo riguarda la totalità della persona in ogni sua dimensione. Ciò che fa crescere il bene comune è un comportamento ispirato ai principi della reciprocità, della fraternità, della donazione, della disponibilità in­ teriore alle esigenze dell'altro. Sono questi i principi che ci fanno sentire parte di un corpo, legati gli uni agli altri. Anche nella concezione della Chiesa cattolica la riflessione su etica ed economia rimette l'uomo al centro della valutazione del progresso

INTRODUZIONE

13

della società. L'enciclica Caritas in veritate di papa Benedetto XVI ha fatto emergere il legame decisivo che esiste tra economia, etica, politica, filosofia e religione. Un'etica economica che prescinde dall'inviolabilità della dignità della persona umana e dal trascendente valore delle norme naturali rischia di perdere la propria connotazione e di diventare funzio­ nale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Dignità dell'uomo e norme etiche naturali, alla luce di fede e ragione, sono i due pilastri del magistero sociale della Chiesa1 Le grandi religioni monoteiste non sono le sole a interrogarsi su uno sviluppo armonico della società. Robert Skidelsky, erede teorico nonché principale biografo di John Maynard Keynes, ha pubblicato, insieme al figlio Edward, un saggio intitolato How Much Is Enough? Money and the Good Life2. La sua tesi è che in tutte le religioni e in tutte le filosofie etiche la ricchezza è un mezzo per assicurarsi una vita decente, non un fine in sé. L'accumulo di ricchezza oltre un certo limite è irrazionale. Ciononostan­ te le nostre società spingono alla ricerca della ricchezza oltre ogni limite. Per non essere travolti dall'evoluzione economica globale, ci vuole gran­ de senso critico e impegno per cogliere la complessità del reale. Le società, per potersi sviluppare in modo armonico ed essere capaci di futuro, han­ no bisogno di redistribuzione della ricchezza e di reciprocità. In un'etica della solidarietà bisogna far sì che nessuno venga escluso perché anziano, malato, disoccupato, bambino, solo. Tanto meno possono essere escluse le generazioni future. Si tratta di far prevalere al livello delle comunità, degli Stati, delle organizzazioni super-statuali il concetto di empatia che è patrimonio comune di tutte le culture. Confucio ( 551-479 a.C.) riteneva che compito dell'uomo è la tra­ scendenza, che si ottiene lasciandosi alle spalle il proprio io per entrare in un profondo rapporto di compassione con gli altri. > 10 Benché perfetta, la moneta ha un difetto: è muta. L'uomo, dotato invece di parola, può alterarne la funzione e inficiare la correttezza delle transazioni. Compito del potere politico (che è emanazione di Dio come la moneta stessa) sarà quello di ristabilire l'ordine, turbato dall'iniquità del singolo, applicando la legge divina. Basandosi su Aristotele, ma su un Aristotele islamizzato, Ibn Miskawayh scrive: I I . Da questa affermazione Ibn Miskawayh fa derivare l'importanza di una giusta politica monetaria, che garantisca il valore e la stabilità del­ la moneta, per il benessere economico di uno Stato e la prosperità dei commerci. Qualche secolo più tardi lo storico del periodo mamelucco, Taqi al-Din al-Maqrizi (m. 1442), giungerà a un'analoga conclusione pur partendo da un diverso assunto. La società ideale in cui il "mercante ideale" dovrebbe vivere è una so­ cietà fondata sul giusto mezzo. Ma che cos'è il giusto mezzo? Secondo Brisone il "giusto mezzo" ( iqtisad) nel rapporto col denaro è rappresentato da chi lavora quanto basta per mantenere sé stesso e la propria famiglia, per sostenere i parenti, gli amici, i clienti, per fare l'ele­ mosina ai poveri e ai mendicanti. Deve inoltre poter risparmiare qualco­ sa per assicurarsi il futuro in caso di momenti difficili. Chi invece cerca di guadagnare oltre queste necessità si dimostra avido12 Danneggiano dunque la società l'avaro e la sua più malefica personi­ ficazione, l'usuraio. Ancora danneggia la società ideale il "cattivo ricco", •



ECONOMIA, RELIGIONE E MORALE NELL ISLAM

colui che si è arricchito senza lavoro: di questa categoria fanno parte feudatari, cortigiani e tutti coloro che vivono da parassiti 1 3 • Ma nemico della società del "giusto mezzo" è anche l'anacoreta che si rifugia nel deserto per vivere in assoluta povertà. Seguendo la concezione aristo­ telica per cui la felicità sta nel rapporto con gli altri uomini, la scelta volontaria della povertà è considerata da Ibn Miskawayh come contra­ ria all'ordine naturale delle cose. Esiste invece una povertà ineludibile: Ibn Miskawayh ha coscienza della scarsità delle risorse a disposizione e dell'ineluttabilità della lotta per accaparrarsele1 4 • Unica risposta alla povertà e alla violenza che ne deriva è il progresso scientifico ed eco­ nomico che può far aumentare le risorse e quindi ridurre l'ingiustizia all'interno della società. Da qui il ruolo fondamentale dell' intelligen­ za. Le risorse dell'intelletto umano sono le uniche a essere illimitate: compito dei dotti è metterle al servizio della società per migliorarla e renderla più equa.

L'avarizia e la parsimonia Lo smodato attaccamento ai beni terreni, nella varietà di pseudonimi sotto cui si cela - avarizia, avidità, cupidigia, bramosia, taccagneria, spi­ lorceria -, è considerato dalle grandi religioni della terra tra i più gravi vizi dell'essere umano. Come poche altre passioni, il denaro ha la forza di distogliere l'uomo dalla via di Dio; ne assorbe energie, cure, pen­ sieri; lo rende rapace; gli dona la distruttiva illusione di godere di un potere terreno paragonabile all'onnipotenza divina. Non a caso, nella celebre definizione di san Paolo, l'avarizia diviene la matrice di ogni altro peccato: radix omnium malorum avaritia, la radice di tutti i mali è l'avarizia1 5 • La Chiesa pone l'avarizia tra i sette peccati capitali: essa è il macigno che blocca la via che conduce alla povertà vissuta con caritas cristiana, virtù ideale del primo cristianesimo così come del monachesimo me­ dievale, epoca in cui in Europa si fa più accesa la censura contro l'at­ taccamento alle ricchezze1 6 • Anche nell'ebraismo troviamo la costante preoccupazione per il denaro, la ricchezza, il possesso e la loro forza corruttrice. La legge ebraica preclude ai sacerdoti leviti la proprietà di terreni in Israele, perché tale possesso potrebbe corromperne la purezza e distrarli dai doveri religiosi. Difatti la Torah dice: (Dt 18, 1-5)1 7•

IL DENARO E IL PECCATO

27

Ma la condanna dell'avarizia non è ristretta alle religioni semitiche. L'induismo la considera grande distruttrice del merito e della bontà, non­ ché fonte di ogni peccato, mentre il buddismo l'annovera, insieme alla collera e alla stupidità, tra i tre "cattivi sentieri" o tra i "mondi bassi" ( infer­ no, avidità, animalità, collera), ossia quelle condizioni dell'esistenza, rette da attaccamenti e passioni smodate, che causano all'uomo sofferenza1 8 • L'islam, al pari di ebraismo e cristianesimo, ha elaborato l'idea di peccato come deviazione dalla "retta via" indicata dal Signore; attraverso la malvagità delle opere compiute l'uomo si oppone a Dio e si allontana dal suo progetto salvifico. Solo pochi seguono la legge divina: gli uomini sono, per lo più, deboli, avari, litigiosi, infidi, ribelli, ingrati per i doni ricevuti. Ma è proprio nella tensione tra vizio e virtù, tra peccato e azioni meritorie che l'uomo traccia il proprio cammino verso la redenzione. Molto ricca nei temi e nelle immagini è la condanna che l'islam offre dell'avarizia (bukhl) e delle sue cupe sorelle: !'"avidità" (raghba) , la "cupi­ digia" (shuhh, tama; e la "spilorceria" (lu 'm ), a cui contrappone la genero­ sità (karam ), non a caso intrinseca alla virtus (muruwwa) beduina che, di fronte alla dura vita del deserto, considerava sacri i valori di accoglienza e ospitalità1 9 • L'avarizia ha la triste dote di non manifestarsi mai da sola: la metico­ losa concentrazione dell'avaro nel conservare i propri beni si accompa­ gna al desiderio di accrescerne il possesso; egli non è solo taccagno ma anche avido, rapace di denaro, ricchezza e potere. L'avarizia si colora di invidia quando comprende la cupidigia nei confronti della proprietà di un'altra persona, e diviene ingordigia se applicata al consumo smodato di cibo. Sono molte le tradizioni che censurano severamente l'avarizia: Se il figlio di Adamo possedesse due vallate ricolme di beni, ne vorrebbe una ter­ za. Solo la terra della tomba placa i desideri del figlio di Adamo. Iddio concede la sua grazia solo a chi si pente.

e ancora: Si narra da 'A' isha che l ' Inviato di Dio comprò uno schiavo nubiano, gli porse dei datteri e costui ne mangiò una grande quantità. Allora il Profeta disse : > ; quindi lo rimandò indietro. L' Inviato di Dio disse : (Cor I X , 3 4- 3 5 ) .

Il peccato è un'astrazione; per dargli consistenza all'interno del discorso umano è necessario che prenda la forma di un oggetto compiuto. Ecco al­ lora che esso si identifica con gli strumenti attraverso cui è stato commes­ so, così il denaro che l'avaro ha ammucchiato in vita diviene simbolo del peccato stesso e mezzo di espiazione ultraterrena. Nella pena infernale, che replica esasperandole le azioni peccaminose, appare chiaro l'elemen­ to del contrappasso, in virtù del quale l'uomo viene punito in rapporto alla colpa che ha commesso. Il principio del contrappasso - ben noto alla cultura semitica, basti pensare alla legge del taglione, per cui al colpe­ vole si infligge una pena commisurata al danno arrecato alla vittima - è chiaramente esposto in un testo escatologico arabo-andaluso dell'vIII secolo, il Liber Scalae (Il libro della scala) , che ebbe grande risonanza nell' Europa medievale. Il libro racconta del viaggio compiuto nell'aldilà

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ECONOMIA, RELIGIONE E MORALE NELL ISLAM

dal Profeta Muhammad, sotto la guida dell'arcangelo Gabriele, da cui egli già aveva ricevuto la rivelazione, seguendo un itinerario che si snoda lungo una scala, dagli otto cieli del paradiso verso le sette terre dell' in­ ferno. Nell'inferno Muhammad riceve il mandato di raccontare agli uo­ mini ciò che ha visto, affinché possano salvarsi dalla dannazione. Nel capitolo LXXIX , dove Muhammad vede le terribili pene a cui i dannati sono sottoposti, viene esposta chiaramente la legge del contrappasso: E quando Gabriele ebbe concluso la sua relazione io, Maometto, profeta e nunzio di Dio, vidi i peccatori tormentati all'inferno in tanti modi diversi, per cui nel mio cuore sentii una così grande pietà che per l'angoscia cominciai tutto a sudare; e vidi alcuni tra loro ai quali venivano amputate le labbra con forbici infuocate. E allora chiesi a Gabriele chi fossero. E lui mi rispose che erano quelli che semi­ nano parole per mettere discordia fra le genti. Ed altri, a cui era stata amputata la lingua, erano quelli che avevano testimoniato il falso. Ne vidi altri appesi per il membro ad uncini di fuoco, ed erano quelli che nel mondo avevano commesso adulterio. E dopo vidi un grande stuolo di donne, in numero quasi incredibile, e tutte erano appese per la matrice a grandi travi infuocate. E queste pendevano da catene di fuoco, così straordinariamente ardenti che nessuno sarebbe in grado di esprimerlo. E io chiesi a Gabriele chi fossero quelle donne. E lui mi rispose che erano meretrici che non avevano mai abbandonato fornicazione e lussuria. E vidi ancora molti uomini bellissimi d'aspetto e molto ben vestiti. E capii che erano i ricchi tra la mia gente, e tutti bruciavano nel fuoco. E chiesi a Gabriele perché bruciassero così, poiché sapevo bene che facevano molte elemosine ai poveri. E Gabriele mi rispose che pur essendo elemosinieri, erano gonfi di superbia e inflig­ gevano molte ingiustizie alla gente minuta. E così vidi tutti i peccatori, ognuno tormentato con supplizi diversi, a seconda dei suoi particolari peccati 24 •

Nell'inferno Muhammad incontra anche l'usuraio - ossia l'avaro per ec­ cellenza -, condannato a nuotare in un fiume di sangue ribollente come pece. Ogni volta che faticosamente riesce a guadagnare la riva, egli viene accolto da un demone che gli ficca con violenza in gola pietre roventi come braci obbligandolo a inghiottirle e lo costringe poi a ritornare nel fiume di sangue. Il Profeta racconta : > 2 5 •

L'idea della pena come contrappasso, già espressa nel Corano, è ripresa dunque nella tradizione profetica (sunna). Il tormento riservato all'a­ varo, inteso soprattutto come colui che ha accumulato ricchezza rifiu­ tandosi di dare su di essa l'elemosina legale (zakat) dovuta, è fornito dai beni stessi che l'uomo ha in vita ammucchiato. Così i metalli preziosi (oro e argento) diventeranno pietre infuocate spinte nel petto del dannato fino a farle uscire dalle spalle e viceversa, oppure lamine di fuoco con cui gli verranno bruciati fronte, fianchi e dorso; o ancora le ricchezze accumulate (kanz) appariranno all'avaro sotto forma di un orribile drago incaricato del suo tormento. Se un uomo ha ricchezze e rifiuta di darne il dovuto, o ne fa uso illecito, Dio le farà diventare per lui come un drago rognoso dal fiato puzzolente che non potrà passare accanto ad alcuno senza che questi chieda da lui rifugio in Dio. Finché, quando passerà accanto al suo padrone, questi gli dirà : > . Ed esso risponderà : . E Dio gli appenderà allora [la ricchezza] al collo, fino a che non lo farà entrare nella gehenna 26 •

Chi invece sarà stato avaro del proprio bestiame, non pagando su di esso l'elemosina dovuta, dovrà subire il tormento di venire calpestato da in­ finite mandrie di cammelli, ovini o bovini fino al giorno del Giudizio. Se il proprietario di cammelli non paga su di essi la zakat, il dì della Resurrezio­ ne sarà spianata per essi una pianura sabbiosa, ampia quanto più è possibile, ed essi lo calpesteranno, ed ogni qual volta su di lui sarà passato l'ultimo vi ripasse­ rà il primo. E ciò continuerà fino a quando Dio non giudicherà tra i suoi servi in un giorno della durata di cinquantamila anni 27•

L'avarizia è drago che sbrana o masso che il dannato è costretto a ingoia­ re. L' ingordigia di beni sulla terra viene punita con atti che rievocano il mangiare. La metafora del cibo ritorna nella condanna coranica dell'u­ sura: gli usurai per il Corano sono coloro che "hanno consumato" (lett. mangiato) ingiustamente i beni altrui. In un'altra tradizione l'uomo avaro e l'uomo caritatevole posseggo­ no ciascuno una cappa di ferro che li copre solo dal petto alla clavicola.

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Mentre l'uomo caritatevole la vede allungarsi fino a nascondergli i piedi e cancellare le orme che i suoi peccati lasciano, l'avaro vede la cappa rim­ picciolirsi sempre di più, così da lasciarlo privo di protezione di fronte all'ira divina 8 • La condanna nei confronti dell'avarizia si spinge fino a preferire il peccatore generoso al giusto avaro. Si tratta di una censura religiosa e insieme morale: l'avaro va contro il benessere dell'intera società, trat­ tenendo per sé i suoi beni e rifiutando l'elemosina non permette alla ricchezza di circolare e di far sì che il povero sia in grado di essere nuova­ mente produttivo. Egli blocca il circolo virtuoso della ricchezza e dun­ que arreca alla comunità un danno sociale ed economico. Mentre nei testi religiosi l'avaro è sottoposto a una severa condanna, nelle fonti letterarie egli è oggetto di dileggio, se ne mettono in rilievo gli aspetti paradossali, paranoici, maniacali. Come spesso accade l'avari­ zia si rappresenta come un difetto dell'"altro"; in questo caso la dicoto­ mia generosità/ avarizia diviene rappresentativa della dicotomia arabi/ persiani. Quest'ultimi sono spesso accusati, nella tradizione profetica così come nell'aneddotica araba, di essere taccagni, mentre agli arabi continua a riconoscersi la virtù beduina della generosità, che è la virtù per eccellenza del sayyid tribale e del principe musulmano2 9 • Dagli aneddoti traspare un atteggiamento sanzionatorio per la cieca avidità e i fattori ossessivi che caratterizzano l'avaro e che condizionano persino la sua percezione della realtà. Non sfuggono, però, gli elementi grotteschi che questo vizio nasconde: esso diviene oggetto di satira, se ne sottolineano gli aspetti umoristici, spesso ricorrendo all'espediente reto­ rico del paradosso. L'avaro si caratterizza per un attaccamento morboso al cibo, a somme, anche insignificanti, di denaro, deve inventarsi mille espedienti per cacciare l'ospite sgradito. Il tabù arabo del rifiuto dell'o­ spitalità lo costringe a ricorrere ai più fantasiosi stratagemmi per sottrar­ si al suo alter ego, lo scroccone, di cui è costantemente vittima. Come nel caso dell'avaro che, avendo ospiti a cena nel mese del Ramadan, ap­ profitta della loro distrazione quando il muezzin chiama per la preghiera che precede il pasto serale, per far portar via le tavole imbandite3 0 • Anche Giuf'a, il famoso personaggio un po' "sciocco" un po' "fur­ bacchione" della tradizione aneddotica mediterranea, si confronta una volta con un avaro e gli chiede: 2

Perché non mi inviti mai alla tua tavola ? - Perché sei lesto a ingoiare e rapido a masticare : non appena hai finito di mandare giù un boccone, sei già pronto

IL DENARO E IL PECCATO

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per inghiottirne un altro ! - Bene amico mio, per farmi invitare a casa tua devo prometterti di prostrarmi a pregare due volte tra un boccone e l'altro ? 3 1

La tenacia dell'avaro nell'attaccamento all'oggetto va oltre ogni razio­ nalità, facendo emergere l'elemento ossessivo e corrosivo del suo vizio. L'avaro arriva fino a trattenere il vomito o a trattenersi dal defecare per non "perdere" l'oggetto amato. Al-Khatib al-Baghdadi (10 0 2-1071), che dedica un suo libro a descrivere l'avarizia, narra di un avaro che, dopo essersi abbuffato di un succulento stufato a casa del vicino, si sente male. Viene chiamato il medico il quale gli dice che non è nulla, basta vomi­ tare. Al che l'avaro risponde: 3 2 • Il noto letterato al-Jahiz (776-869 ), autore anch'egli di un libro sugli avari, racconta, invece, che 'Amr, figlio di Yazid Asadi, si fece un entero­ clisma con dell'olio. Quando lo stomaco iniziò a contrarsi, temendo di svuotarsi e che l'olio lo potesse "abbandonare", si sedette su una bacinella e disse: 33 • Nella letteratura araba l'avaro è un personaggio ridicolo, dipinto nelle sue patologiche manie e debolezze. Malgrado la dimensione quasi iper­ bolica che raggiunge la sua avidità, e la conseguente censura che l'islam riserva a tutti gli eccessi, nell'aneddotica si stempera la rigida stigmatiz­ zazione del suo comportamento che troviamo nella letteratura religiosa. Egli però, a differenza del suo alter ego, lo scroccone, non suscita simpa­ tie, non assume i tratti dell'antieroe, ma rimane un personaggio infimo e meschino. Viceversa, lo scroccone arabo, ossessionato da un patologico attaccamento al cibo, come l'avaro per il denaro e i beni, è abile e intel­ ligente, a volte raffinato. La letteratura mantiene nei suoi confronti un atteggiamento di sorridente ambivalenza, sottolineandone ora le pecu­ liarità positive relative ali' aspetto intellettivo, ora quelle negative rela­ tive all'aspetto psicologico3 4 • D'altro canto il ricorso ali' escamotage (in arabo hila) per sopravvivere costituisce un top os della letteratura araba. Pensiamo ai due protagonisti, Abu ' 1-Fath l'Alessandrino e Abu Zayd, delle Maqamdt di al-Hamadhani (m. 10 0 8 ) e al-Hariri (m. 1122), per i quali "trucco" e inganno (in genere benevoli e finalizzati al procurarsi cibo o ospitalità a scrocco) sono strategia di vita. Nella cultura mercantile araba del IX secolo, l'avarizia, da tema esclu­ sivamente religioso e oggetto di preoccupazione morale, diviene tema di analisi sociale. Il desiderio di acquisire ricchezza è componente costi­ tuente dello sviluppo urbano e del fiorire dei commerci. Si cessa a poco

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a poco di immaginare l'avarizia come una questione di peccato e danna­ zione e si giunge invece a comprenderla: in questo passaggio sta tutta la differenza del modo in cui la si deve trattare. Per la maggior parte degli arabi il passaggio da un'esistenza spartana a una vita più o meno agia­ ta provoca un repentino cambiamento nel carattere e nelle abitudini. Nascono nuovi gusti e si creano nuovi bisogni. Nell'ambiente urbano, caratterizzato da una sostanziale presenza ebrea e cristiana, si forma una nuova classe "borghese". All'idea beduina della generosità e dell'affi­ darsi alla provvidenza, si sostituisce il concetto di risparmio (iddikhar) . Di fronte alle abitudini sfarzose dell'aristocratico arabo, che lo hanno spesso portato a dissipare le sue fortune, alla vita semplice del beduino, nasce il nuovo borghese, spesso di origine non araba, musulmano neo­ convertito, ebreo o cristiano. Egli organizza razionalmente le sue spese fino al limite dell'avarizia, accumula un capitale che gli serve anche per far fronte ai momenti di magra. Questa classe presenta anche tratti generosi e, al pari della borghesia europea, si fa patrona delle arti. E proprio questa borghesia che dà alla cultura un'impronta razionale ed è questa classe che al-Jahiz ritrae nel suo Kitdb al-Bukhala' (Libro degli avari), in cui egli analizza quest'umana caratteristica attraverso una raccolta di aneddoti; ne risulta un quadro psicologico e insieme sociale che ritrae la società urbana dell'epoca35 • Una società che riconosce il valore della ricchezza e loda la parsimo­ nia (qasd) : La ricchezza è bramata, la si cerca sino in fondo al mare, in cima alle montagne, nell'oscurità delle foreste, la si cerca in luoghi scoscesi così come nelle pianure, in fondo alle vallate così come per le strade, in occidente e in oriente. V 'è chi la cerca con onore, chi con meschinità, chi con lealtà e chi con inganno, chi con devozione e chi con distruzione, chi con onestà e chi con menzogna, chi con turpiloqui chi con lusinghe. V 'è chi non tralascia l'uso di astuzie e sortilegi sino a usare la bestemmia al pari dell' invocazione, l'ottusità al pari della sagacia. In ogni luogo vengono messe trappole e tranelli. Vieni cercato da chi dopo aver ot­ tenuto quel che voleva non ti considererà più, sei invidiato da chi non dormirà prima di essersi dissetato dei tuoi beni. Talvolta il venditore placa i suoi rancori e il ricercato placa i suoi istinti, ma l' avido mai si placa3 6 • Il dirham [ moneta argentea] è il perno attorno a cui gira il mondo. Sappi che è arduo liberarsi e vincere l'eccitamento causato dal dirham, e cautelarsi dall' eb­ brezza della ricchezza, la quale tra l'altro è mutevole. Se il guardiano del dirham lo vuole cautelare ed è lucido di mente e di robusta costituzione allora lo respin-

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gerà nei ranghi e lo legherà saldamente a sé. Tuttavia abbiamo constatato che la sua incapacità a trattenerlo è pari all'agitazione del dirham nella sua mano. [ ... ] Presta attenzione a non spendere un dirham di quel che possiedi, se non dopo esserti accertato che andrà in un luogo migliore. Non fidarti dell'abbondanza perché se togli della sabbia alle dune del deserto e successivamente non la riponi queste scompariranno in breve tempo37• Chiamate avaro chi salvaguarda il proprio denaro dall'errore, proteggendolo con cura per timore della sfortuna, custodendolo al fine d'evitare l'umiliazione. Volete forse biasimarlo e offenderlo ? Al contrario chiamate generoso chi ignora il valore della ricchezza, chi non conosce l'umiliazione della povertà, elargisce doni in abbondanza disprezzando l'errore e non si cura dei propri beni né di se stesso quand'è troppo magnanimo con il prossimo. Volete forse lodarlo ed elogiarlo3 8 ?

Il confine tra avarizia e parsimonia non è netto, viene definito spesso da un punto di vista soggettivo piuttosto che da un dato oggettivo. Rico­ noscendo la mobilità di un tale confine, l'avarizia/parsimonia diviene socialmente accettabile perché è alla base del risparmio, elemento im­ prescindibile di ogni accumulazione di capitale. L'uomo frugale, abitua­ to a soppesare le spese e a evitare gli sprechi, è l'uomo virtuoso. La cul­ tura araba urbana loda le virtù del risparmio e della parsimonia e mostra quali perniciose conseguenze, morali ed economiche, possono avere lo scialacquare, il vivere nel lusso eccessivo, l'indulgere in consumi super­ flui. L'uso prudente dei beni, il risparmio, è invece il metodo più sicuro per aumentare il patrimonio e godere di benessere materiale e conside­ razione sociale. Come tutte le categorie economiche importanti, anche il risparmio ha una fortissima valenza etica e psicologica. Nel pensiero economico islamico medievale, l'uomo virtuoso è l'uomo previdente, che pensa al futuro e sa trattenersi dallo sperperare quanto la natura, la famiglia o il suo duro lavoro gli hanno procurato. La persona economa raccoglie lodi, gode del benessere, non paralizza le proprie facoltà, da ogni situazione trae vantaggio e ne ricava benefi­ cio. Il taccagno invece è afflitto dall'autopunizione, dallo sforzo di dover custodire gelosamente i propri beni, dal doversi esporre al biasimo e al disprezzo e sottostare alla bile che ha la meglio sul suo onore, conceden­ dole infine di decidere della sua vita e della felicità del suo animo3 9 • Anche il mistico e teologo al- Ghaza.11 (10 58-1111), uno tra i più grandi pensatori dell'islam, che nella sua fondamentale opera Ihya 'Ulum al­ Din (Vivificazione delle scienze di fede) dedica spazio anche ali'analisi

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economica, riconosce il rapporto ambivalente dell'uomo con la ricchez­ za. L'uomo è mosso da uno smodato bisogno di possederne sempre di più nel fallace tentativo di mettersi al sicuro dalle avverse fortune, al­ lontanandosi così inesorabilmente dalla salvezza. Al-Ghazali riconosce che il desiderio dell'uomo di accumulare beni sia un modo per placare le ansie per il futuro, ma tale desiderio conduce ali'avidità e al persegui­ mento dei propri fini egoistici e, pertanto, è condannabile. La ricchezza di per sé è un valore neutro: è nel rapporto con essa che bene e male si definiscono. Dunque la ricchezza costituisce una "prova" per l'uomo nel suo cammino verso la redenzione: l'uomo ricco può infatti accumulare la propria ricchezza o sperperarla, strade che conducono entrambe alla perdizione, oppure spenderla con moderazione, unica strada che porta alla salvezza. Il pensiero di al-Ghazali, nel definire il rapporto dell'uomo con il denaro, si basa sulla teoria del "giusto mezzo" che ha radici, come ab­ biamo visto, nel Corano oltre che nella filosofia aristotelica. Il "giusto mezzo" ghazaliano coincide con l'idea di parsimonia e di risparmio; da un punto di vista etico questo comporta un rapporto distaccato con il denaro, in termini economici si traduce in un atteggiamento che privi­ legia i comportamenti produttivi di fronte a ogni tentazione ascetica. Il denaro mette al riparo l'uomo dall'indigenza e dall'umiliazione del dover dipendere da altri, gli serve per soddisfare i propri bisogni e quelli delle persone a suo carico, e per assolvere alcuni doveri religiosi ( il pelle­ grinaggio, l'elemosina). Il progresso economico fa parte dei doveri col­ lettivi (fard al-kifaya) che l'umanità ha nei confronti di Dio: senza pro­ gresso non vi sarebbe prosperità e la civiltà umana perirebbe. Non basta limitarsi a un livello di mera sussistenza poiché, in tal caso, le attività umane deperirebbero e calerebbe il livello di civilizzazione; ne soffrireb­ be anche la fede in quanto la vita mondana è la preparazione per l'aldilà. Solo in un rapporto corretto con i beni, a metà strada tra avarizia e prodigalità, avidità e rassegnazione, l'uomo realizza la salvezza: il povero deve mostrarsi pago del poco che ha ma, al contempo, sforzarsi per non far dipendere dagli altri la propria sussistenza; il ricco deve spendere con moderazione, donare con generosità ma senza stravaganze, ricercare il guadagno onestamente e senza eccessi4 0 • Alcuni secoli dopo al-Ghazali, lo storico maghrebino Ibn Khaldun (1332-140 6) trasferisce dalla sfera individuale e privata a quella pubblica e sociale le caratteristiche positive del risparmio: se una nazione vuole essere ricca e prospera non deve spendere più del reddito nazionale. Un

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corretto bilancio statale è fondamentale per lo sviluppo dell'economia e per il mantenimento della stabilità e dell'ordine. La crescita econo­ mica e la rapida accumulazione di nuove ricchezze danno ai governi la possibilità di ampliare il ventaglio degli interventi fiscali. Nella mi­ sura in cui i governi riescono a realizzare questa opportunità e a non abusarne, l'espansione economica costituisce il fondamento del potere politico e delle sue manifestazioni esterne: sfoggio di lusso e sfarzo. Ma quando le ambizioni dinastiche finiscono col prevalere sulla buona am­ ministrazione e il potere statale degenera in tirannia si arriva al declino della dinastia regnante così come a quello dell'economia. L'aumento sproporzionato delle tasse, allo scopo di far fronte alle spese voluttuarie per soddisfare i capricci di principi corrotti, scoraggia infatti l'attività produttiva. Allorché le entrate statali decrescono, si trovano nuovi e più onerosi metodi di tassazione: confische, espropri, corvée, che lo Stato impone avvalendosi dell'appoggio dell'esercito. Ugualmente dannosa per l'economia è l'introduzione di politiche di monopolio, che alte­ rano il normale meccanismo della concorrenza tra soggetti economici di pari potere. Molti mercanti e produttori che non possono reggere la concorrenza statale escono dal ciclo produttivo, ne consegue una cadu­ ta del gettito fiscale e, in ultima analisi, la crisi della dinastia. Col de­ clino dello Stato e dell'attività economica decadono le arti e i mestieri, la civiltà urbana ne viene distrutta, furti e saccheggi prevalgono: così il ciclo si conclude 4 1 • La formazione della ricchezza, a livello della collettività o del singolo individuo, dipende dall'accumulazione di capitale, la sua origine sta nel risparmio dei parsimoniosi. Nell'analisi khalduniana, risparmio e inve­ stimento produttivo sono strettamente connessi: il risparmio è appun­ to quella parte di reddito che si trasforma in investimento. Se così non accade, se il risparmio rimane congelato, chi ha risparmiato si ritrova con una maggior somma di denaro, ma la mancata spesa significa una mancata produzione di ricchezza futura4 2 • Ibn Khaldun introduce i concetti di guadagno, guadagno per la sus­ sistenza e per la formazione del risparmio, e soprattutto il concetto di lavoro come base per la creazione della ricchezza, idea non del tutto innovativa nel quadro del pensiero economico islamico medievale ma, fino a questo momento, mai esposta con tanta lucidità di giudizio. Il guadagno (kasb), ossia ciò di cui l'uomo entra in possesso grazie al suo lavoro e ai suoi sforzi, è un valore relativo: fornisce all'uomo i mezzi di sussistenza ( maash) e si trasforma in rizq (sussistenza) quando viene

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usato per soddisfare i bisogni e le necessità della vita. Allorché i frutti del lavoro (makasib) superano il mero fabbisogno, si crea un surplus (riyash, riserva) e si forma la ricchezza (mutamawwal) : Ciò che si guadagna [makdsib] costituisce il mezzo di sussistenza, se corri­ sponde alle necessità e ai bisogni dell 'uomo. Costituirà un surplus [riyash] e una ricchezza [mutamawwal] se eccede i suoi bisogni. Quando l'uso di quan­ to si ottiene o si acquisisce va a favore di un particolare essere umano ed egli ne gode i frutti spendendolo per i suoi interessi e i suoi bisogni, si chiama sus­ sistenza [rizq] . [ ... ] Bisogna inoltre sapere che il guadagno [ kasb] nasce dallo sforzo di acquisire beni e dall' intenzione di ottenerli [ ... ] . Il lavoro umano è necessario per qualunque guadagno e accumulazione di ricchezza. Quando la fonte del guadagno è il lavoro dell 'uomo, come nel caso dell 'esercizio di un mestiere, questo è ovvio. Quando la fonte del guadagno sono animali, piante o minerali, non è così ovvio, ma il lavoro dell'uomo è comunque necessario, come si può vedere. Senza il lavoro umano non si otterrà e non ci sarà alcun risultato utile 43 •

Nel passaggio dal profitto-sussistenza al profitto-capitale, dall'econo­ mia di sussistenza a forme di mercantilismo, Ibn Khaldiin colloca lo svi­ luppo economico e la crescita delle nazioni. In questo sviluppo centrale è l'accumulo virtuoso di ricchezza e il suo corretto investimento; così la parsimonia, definitivamente staccata dall'avarizia, diviene un punto saldo dell'etica economica islamica medievale.

Il denaro che non dà frutti. Il divieto coranico dell 'usura Tanto l'Antico (Es 22, 24; Lv 25, 35-37; Dt 23, 20) quanto il Nuovo Testamento (Le 6, 34-35) non mostrano incertezze nel condannare l'u­ sura: essa è un peccato contro la carità, uno sfruttamento ai danni del fratello. In un'economia chiusa, in cui l'uso e la circolazione della moneta re­ stano scarsi, il problema dell'usura è secondario; però, quando nel corso del XI I secolo l'economia monetaria si generalizza, l'Europa cristiana è turbata dal proliferare delle pratiche usuraie. La Chiesa ne è scossa; tra la metà del XII e la metà del X I I I secolo si inaspriscono le condanne dell'usura. La rinascita del valore della povertà nel X I I I secolo rende an­ cora più vivo il sentimento di indegnità dell'usuraio cristiano. L'usura è un furto. Questa identificazione, proposta da sant'Anselmo (1033-1109)

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e ripresa nel XII secolo da Ugo di San Vittore, Pietro il Mangiatore e Pietro Lombardo, sostituisce la tradizionale definizione dell'usura come "profitto vergognoso". Il furto usuraio è peccato contro la giustizia. Lo afferma chiaramente san Tommaso d'Aquino (m. 1274): > (11, 278) 4 6 • Il Corano, dunque, si propone di vietare il mutuo usuraio in cui il debitore inabile a pagare deve accettare interessi esorbitanti pur di avere una dilazione. Si tratta di un comportamento contrario sia alla morale islamica ( difatti gli esegeti l'ascrivono all'epoca preislamica), che invita viceversa alla cooperazione e alla solidarietà tra fratelli, sia agli interessi economici della comunità. L'usura strozza i commerci e le attività artigianali; al contrario la zakat, l'elemosina legale, che nei versetti appare significativamente contrappo­ sta all'usura, non solo rafforza il senso di appartenenza a un'unica comu­ nità, ma crea un circolo virtuoso della ricchezza che va a beneficio di tutti. Il Corano non si limita a proibire l'usura, ma invita anche i fedeli a condurre onestamente i propri traffici:

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date quindi giusta misura e giusto peso, non frodate la gente nelle loro cose e non portate la corruzione sulla terra dopo che Dio la creò pura (v11, 8 5) . E fate piena misura quando misurate, e pesate con bilancia giusta. Questo sarà meglio, e il modo più bello pel conto ( xv11, 3 5 ) 47•

Fino a giungere alla minaccia di pene future per colui che non accolga il precetto divino: Guardatevi dal trasgredire l'equa bilancia ! - Pesate con giustizia, non diminuite il peso ! (Lv, 8-9 ) . Guai ai frodatori sul peso - i quali quando richiedono dagli altri la misura, la pretendono piena ! - E quando pesano o misurano agli altri danno di meno ! Ma non pensano dunque che saranno un dì risuscitati (LXXXI I I , 1 - 3 ) .

Invita anche a non trarre indebito profitto dai beni altrui, in particolare dai beni dei più deboli: E date agli orfani i loro beni e non scambiate il buono col cattivo e non incame­ rate i loro beni ai vostri ché questo è peccato grande (iv, 2) . In verità coloro che consumano iniquamente i beni degli orfani, consumano fuoco nei loro ventri e saranno alimento del fuoco dell' Inferno ( 1v, 1 0 ) 48 •

Nel Corano i giuristi trovano anche elementi per giustificare il divieto dell'alea, ricavabili dai due versetti che accennano al maysir, una sorta di gioco in uso presso gli arabi preislamici per spartirsi i quarti di cammel­ lo. L'animale veniva diviso in dieci parti distribuite a sorte tra i presenti estraendo da un sacco delle frecce con i nomi o i contrassegni dei parte­ cipati. Oppure l'animale macellato veniva diviso in 28 pezzi e si dava un pezzo alla prima freccia estratta, due alla seconda e così via. Al maysir l'e­ segesi dà il senso più generale di gioco d'azzardo e da qui, per estensione, i giuristi applicarono il divieto a tutti i contratti aleatori. Ti domanderanno del vino e del maysir. Rispondi: C 'è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose : ma il peccato è più grande del vantag­ gio (11, 2 1 9 ) . O voi che credete ! In verità il vino, il maysir, le pietre idolatriche, le frecce di­ vinatorie sono sozzure, opere di Satana ; evitatele, a che per avventura possiate

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prosperare. - Perché Satana vuole, col vino e col maysir, gettare inimicizia e odio fra voi, e stornarvi dalla menzione del Santo Nome di Dio e dalla Preghie­ ra. Cesserete dunque ? (v, 9 0- 9 1 ) .

L'affermarsi del divieto di alea valse a rendere illeciti alcuni contratti in uso nell'era preislamica aventi per oggetto i prodotti agricoli, in par­ ticolare si proibì la vendita di un raccolto futuro o non ancora giunto a maturazione. Vennero classificate come aleatorie e pertanto vietate alcune forme di vendita come quella detta mulamasa, in cui l'acqui­ rente si impegnava a comprare una balla di stoffa toccandone solo un lembo, e quindi senza sapere se all'interno avesse difetti, o quella detta munabadha, in cui due persone si scambiavano le stoffe lanciandosele, senza che nessuno dei due le avesse in precedenza esaminate. Soprattut­ to si vietò la vendita dell'animale non ancora nato49 • L'islam, dunque, tende a mettere ordine in una situazione commerciale preislamica che - secondo gli esegeti - presentava molti elementi di in­ certezza, promuovendo il commercio svolto onestamente e cercando di inibire ogni tipo di transazione che non rispecchi le regole di una società ideale retta da principi di giustizia e generosità. In questo quadro va in­ serito anche il divieto di usura, concepito dal Corano come divieto dello sfruttamento del fratello ai danni del fratello. Tuttavia, la condanna coranica del prestito al consumo usuraio vie­ ne recepita dalla giurisprudenza in un'accezione molto più ampia che include una serie di regole che riguardano gli scambi di determinati pro­ dotti. Nel loro sforzo interpretativo i giuristi vanno ben oltre il dettato coranico, avvicinandosi piuttosto alla linea interpretativa affermatasi in ambito ebraico e cristiano. In particolare, gli interessi pecuniari - corri­ sposti per il godimento di un capitale o per il ritardato pagamento di un debito - sono considerati una forma di usura. Nella visione dei giuristi e dei teologi, il denaro è sterile, mentre l'usura vorrebbe fargli generare dei frutti; al fratello che ne chiede bisogna prestarlo gratuitamente per l'a­ more di Dio: gli usurai agiscono dunque contro natura e peccano contro la carità. Erano questi i principi professati anche nell' Europa medievale, erede della filosofia greca e dell'etica ebraica. Per usura i giuristi musulmani intendono non solo l'interesse sul ca­ pitale mutuato che il debitore dà al suo creditore a titolo di compenso, ma anche una differenza di qualità (se vengono restituiti beni migliori di quelli dovuti), i servigi che il debitore è tenuto a prestare al credito-

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re oltre al capitale che già gli deve, lo sconto sul tempo di pagamento, quando il debitore salda il debito prima della scadenza, o viceversa la novazione del credito mediante un premio al creditore (al-mazid li- 'l­ ta 'jil, l'aumento per la concessione di un termine). Nel definire le norme sull'usura i giuristi si concentrano sui contratti commutativi che hanno per oggetto alcune derrate alimentari (grano, orzo, datteri, sale) e i metalli preziosi (oro e argento), beni usati anche come mezzi di scambio e definiti "beni usurai". Per essi si prescrive che lo scambio avvenga contestualmente (yad bi-yad, lett. di mano in mano) e per quantità uguali (mithl bi-mithl) quando si permutano beni della stessa specie (ad esempio, oro in cambio di oro); se invece si scambiano beni diversi (oro in cambio di argento) non si richiede l'uguaglianza nel­ la quantità ma solo la simultaneità dello scambio. Se uno dei due contraenti riceve un vantaggio, rispetto alla quantità o al tempo della consegna, il negozio è nullo perché viziato da usura (ribd) , come recita una notissima tradizione profetica: Oro in cambio di oro, in polvere o in moneta, argento in cambio di argento in polvere o in moneta, grano in cambio di grano, MI SURA C ONTRO MI S URA, DI MANI IN MAN O , orzo in cambio di orzo, misura contro misura, datteri in cambio di datteri misura contro misura, sale in cambio di sale, misura contro misura. Chi aumenta o moltiplica, pratica l'usura 5 0 •

L'usura descritta da questa tradizione viene tecnicamente chiamata ribd al-fadl (ribd dell'eccesso). Alcuni eminenti compagni del Profeta, come 'Abd Allah Ibn 'Abbas, Usa.ma b. Zayd e Zayd b. Arqam, si fecero pro­ motori di una diversa opinione secondo cui l'usura consisteva nella di­ lazione tra le due prestazioni, sostenendo la tesi che non c'era ribd nelle operazioni di cambio che avvenivano contestualmente, e che dunque si poteva scambiare un dirham contro due, o oro in moneta contro una quantità inferiore di polvere d'oro, se ciò avveniva in ipso congressu. Una fonte manoscritta della scuola giuridica eterodossa ibadita tra­ manda la seguente tradizione sull'autorità di Ibn'Abbas: Usa.ma b. Zayd e Zayd b. Arqam avevano acquistato oro e argento, scambiando un ammontare maggiore di polvere d'oro finissima contro uno minore dello stesso metallo. Tra i compagni dell' Inviato di Dio (S) , Anas trovò da ridire con­ tro di loro, allora Usa.ma si recò dal Profeta (S) e lo interrogò in merito. Gli disse il Profeta (S) : > . Rispose : > . Disse il Profeta : >. Il Corano insiste anche sull'idea di diritto (haqq) che i poveri hanno sui beni dei ricchi: la comunità di credenti è formata da coloro ( Cor LXX, 24-25). L'Arabia preislamica aveva un concetto simile: gli ara­ bi pensavano che la proprietà includesse un surplus che doveva essere donato in quanto l'atto del dono era un diritto inerente alla proprietà. Chi riceveva tale surplus rimaneva legato al benefattore come protetto, cliente o alleato. Si trattava in ogni caso di un rapporto ineguale attraver­ so cui si stabilivano relazioni clientelari, più o meno forzate, piuttosto che di un vero e proprio aiuto all'interno della comunità12 • L'idea coranica di circolazione della ricchezza, seppur legata al con­ cetto beduino, appare profondamente innovata: in essa si afferma il principio del mutuo soccorso e dell'obbligo della carità che si impone ai più ricchi. Dai il dovuto al tuo parente, e al bisognoso e al guerriero (Cor xxx, 3 8 ) . Davvero l'uomo fu creato avido / [ ... ] Eccettuati i preganti / nella preghiera loro costanti / che dei loro beni han fissato debita parte / pel povero e ' 1 mendicante (Cor LXX, 1 9 -25) .

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In verità i pii staranno in Giardini tra fonti d'acqua / e prenderanno quel che loro darà il Signore, perché in vita furono benefici. [ ... ] / E nei loro beni v 'era sempre una parte dovuta al mendico e al povero (Cor LI, 1 5- 19 ).

Tramite questi concetti si esplicita la necessità che la ricchezza circo ­ li ali ' interno della comunità. In questi termini si è espresso Christian Décobert in Le mendiant et le combattant, che definisce l 'economia del primo islam "économie aumonière", ossia un 'economia basata sulla costante circolazione delle elemosine ali ' in terno della comunità. Per comprendere questo concetto bisogna partire dal fatto che il primo islam individua due categorie di poveri : coloro che per ragioni di età o di salute mentale o fisica sono assolutamente incapaci di provvede­ re a sé stessi e coloro che, pur essendo in grado di lavorare, si trova­ no - per ragioni diverse - in uno stato di bisogno non avendo mezzi sufficienti per mantenere sé stessi e la propria famiglia. Mentre per la prima categoria di poveri l 'elemosina soddisfa i bisogni primari (cibo, un minimo di vestiario ecc. ) , nel secondo caso deve rimettere il pove­ ro nelle condizioni di tornare ad essere un elemento produttivo della comunità. Essa svolge una funzione che possiamo paragonare, in una certa misura, a quella che oggi svolge il microcredito per i cosiddetti "non-bancabili". Dunque, più che di una vera e propria elemosina si tratta di una forma di credito "a fondo perduto" che crea un circolo virtuoso della ricchezza in quanto consente a chi è uscito fuori dal cir­ colo produttivo di rientrarvi 1 3 • La nascita dell ' islam ebbe come conseguenza la crescita della pover­ tà. Una ragione di ciò risiede nel fatto che la rottura dei legami triba­ li spinse un certo numero di individui al di fuori delle reti protettive dei clan e delle tribù. Altri motivi andrebbero ulteriormente indagati. I "poveri musulmani" rispecchiavano l 'analoga categoria presente nelle società stanziali del Mediterraneo e della Mezzaluna Fertile : assistiamo così ali' ingresso nell' islam di concetti come sadaqa e zakat. Contempora­ neamente i vecchi concetti arabi di distribuzione e redistribuzione subi­ scono una trasformazione che sfocia nelle varie pratiche caritatevoli e in un ' "economia della povertà': caratteristiche dell ' islam fin dalle origini. Parallelamente si afferma l ' importanza del valore sociale ed etico della ricchezza, che dipende dall 'uso che ne viene fatto e dalla capacità del soggetto di garantirne la circolazione. Con la predicazione di Muham­ mad i tratti identificativi del povero subiscono un cambiamento. Gli atti di carità verso i poveri continuano ad avere la funzione di ristabilire

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l 'ordine sociale minacciato, ma all 'ampia categoria dei poveri, di cui fa­ cevano parte una serie di individui incapaci di badare a sé stessi ( come gli stolti, i pazzi, gli handicappati, gli anziani, i disabili, gli orfani) , si aggiunge la figura del "migrante", fondatore della comunità, che si trova in stato di bisogno per aver rotto i precedenti legami tribali ( LIX, 7-9 ) , e si afferma l'equazione tra il combattente e il povero. L'espressionefuqard 'l-muhajirin (emigrati poveri) , che si trova in Cor LIX, 8 ( > , Cor LIX, 8 ) , lascia pensare che donare ai poveri sia sinonimo di donare ai combat­ tenti per la causa di Dio (fi sabil Allah ) 1 4 • L' ideale egalitario rappresentato dalla zakat non esaurisce le tecniche di divisione della ricchezza ali' interno della comunità ; altri metodi con­ sentono - seppur a un diverso livello - la distribuzione dei beni che le rapide conquiste mettono a disposizione della comunità. La conquista di nuove terre e le regole sulla divisione del bottino di guerra creano un 'élite di compagni e combattenti che accumulano ben presto gran­ di ricchezze. Il secondo califfo 'Umar istituzionalizza il nuovo ordine sociale creando un 'aristocrazia islamica che ha nel Diwdn 'Umar, os­ sia nelle pensioni che vengono distribuite, il suo strumento fondativo. Tali emolumenti vengono distribuiti in base al concetto di "precedenza nell' islam" (al-sabiqafi '!-islam), ossia in base ali' anzianità di conversio ­ ne. Così quelli che si erano convertiti all' islam prima della battaglia di Badr ( 6 24) ricevono pensioni più alte di quelli convertiti dopo l 'accor­ do di al-Hudaybiyya ( 628) o dopo la conquista della Mecca nel 6 3 0. La famiglia di Muhammad riceve un trattamento speciale, essendo posta al vertice di questa "aristocrazia islamica". Un sistema analogo viene creato anche nelle province sulla base della partecipazione alle conquiste islamiche. Coloro che avevano partecipato alle prime battaglie (ahl al­ ayydm) ricevono stipendi più alti di coloro che avevano partecipato alla decisiva battaglia contro l' impero sasanide di al-Qadisiyy a ( 6 3 6 o 6 37) o a successive battaglie. Alcuni eventi cruciali nel processo di espansione islamico vengono considerati come tappe significative di adesione ali' i­ slam e possono determinare quindi il diritto a una rendita più o meno alta. Questo sistema, per quanto possa essere giudicato clientelare e as­ sistenzialista, garantiva più o meno a tutti (anche a coloro che avevano aderito all' islam più recentemente) una quota della ricchezza dello Stato islamico. Anche per questo motivo il califfato è rimasto un modello di buon governo nel pensiero islamico 1 5 •

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La zakdt nel diritto islatnico Nell'elaborazione giurisprudenziale, la zakat, l'elemosina rituale, divie­ ne una vera e propria imposta, che il musulmano è tenuto a pagare an­ nualmente a partire da un minimo imponibile, su determinati elementi del patrimonio e del reddito1 6 • Paga la zakat ogni musulmano, uomo o donna, libero, pubere, sano di mente, legittimo proprietario di un nisab (minimo imponibile) di beni tassabili. Lo schiavo è esentato dal pagamento della zakat in quanto privo della capacità di possedere beni, tuttavia secondo gli sciafiiti essa è imponibile allo schiavo mukatab (Io schiavo con contratto di affranca­ mento) che si è in parte riscattato, sempre che i beni acquistati dopo la firma del contratto di affrancamento raggiungano il nisab. Sciafiiti e ha­ nafiti (questi ultimi limitatamente alla zakat al-fitr, l'elemosina che si dà alla fine del mese del digiuno) ritengono il minore e il pazzo soggetti alla zakat, in quanto, essendo questa un tributo sui beni dei ricchi a favore dei poveri, non si richiede per il suo pagamento la piena capacità giuridi­ ca del contribuente. I giuristi che considerano la zakat prioritariamente un articolo di fede presuppongono nel contribuente il possesso di quelle qualità (pubertà, salute mentale) che lo obbligano ali' adempimento dei doveri religiosi. Al tempo del Profeta la zakat veniva prelevata sull'oro e sull'argento, sul bestiame, sui prodotti agricoli e sui tesori trovati sepolti. Secondo al­ cune fonti si pagava anche sulle merci e sul miele, mentre cavalli e schiavi erano considerati beni esenti. Sulla base delle prescrizioni profetiche la giurisprudenza ha basato la teoria secondo cui sono soggetti a zakat i beni in grado di incrementar­ si (al-mal al-nami). Tale capacità può essere tanto potenziale (al-nima' al-taqdiri), come nel caso dell'oro e dell'argento tenuti in serbo, tanto effettiva (al-nima' al-tahqiqi), come nel caso del bestiame, dei capitali finanziari investiti in attività commerciali e così via. Per quanto riguarda il bestiame, è soggetto a zakat quello apparte­ nente a tre specie (cammelli, bovini, ovini), a condizione che il proprie­ tario ne sia rimasto in possesso per un intero anno (haw[), a partire dal momento in cui ha raggiunto il minimo imponibile prescritto, e che si tratti di bestiame tenuto al pascolo. Vengono esclusi gli animali da la­ voro o allevati a foraggio, le femmine da latte, gravide o che allevano i piccoli, le bestie tenute ali' ingrasso per essere macellate o sacrificate.

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Con questa dottrina non concordano i malichiti, i quali ritengono che la zakdt sia dovuta anche per il bestiame allevato a foraggio o sfruttato per il lavoro. La scuola hanafìta, basandosi su un parere del califfo 'Umar b. al-Khattab, ritiene che la zakdt debba pagarsi anche sui cavalli tenuti al pascolo, in base a un'aliquota di 1 dindr o 1 0 dirham per cavallo, se il loro prezzo di mercato raggiunge il valore di s wasq ( 5 carichi di cammello) di derrate alimentari (il nisdb fissato per tali prodotti). L'opinione di ' Umar nasceva da un'interpretazione restrittiva della tradizione profe­ tica riportata da Abii Hurayra: , secondo la quale il Profeta avrebbe voluto far riferimento solo ai cavalli dei combattenti1 7 • La pratica del prelevamento della zakdt sui cavalli, che sopravvisse fino al califfato di 'Ali, era suffragata da un preciso fatto storico. La con­ quista, al tempo di ' Umar, della Siria e della Palestina, regioni in cui i ca­ valli venivano allevati in larga scala, rese la loro tassazione vantaggiosa; viceversa, ai tempi del Profeta, nell' Hijaz l'allevamento dei cavalli era alquanto raro, per cui gli introiti prodotti dalla loro tassazione sarebbero stati irrilevanti. Affinché il bestiame possa essere tassato si richiede il possesso di un numero minimo di capi (nisab ). La prima testimonianza storica dell'e­ sistenza di un minimo imponibile, e delle aliquote dovute a partire da esso, è fornita dalle istruzioni impartite dal Profeta a Mu'adh b. Jabal prima di inviarlo nello Yemen in qualità di esattore della zakat. Da tali e da successive istruzioni, nonché dalla pratica dei primi califfi, la giuri­ sprudenza ha dedotto le seguenti norme per il prelevamento della zakat sul bestiame. Per i cammelli il minimo imponibile è fissato a s capi: da s a 9 capi si preleva una pecora o capra; da 1 0 a 14 se ne prelevano due; da 1 5 a 19, tre; da 2 0 a 2 4 , quattro; da 2 5 a 3 5 si preleva una bint makhad ( cammella di un anno compiuto)1 8 ; da 45 a 60, una hiqqa (cammella di tre anni com­ piuti); da 61 a 75, unajadha'a (cammella di quattro anni compiuti); da 75 a 90, due bint labun (cammella di due anni compiuti). Oltre i 90 capi si preleva una cammella di due anni ogni 4 0 capi o una di tre ogni 5 0. Per i bovini il minimo imponibile è fissato a 30 capi: da 30 a 39 si pre­ leva un vitello (tabi') o meglio una vitella nel suo primo anno di vita; da 4 0 a 59 un vitello (musinn ) o una vitella nel secondo anno di vita. Si procede poi in questo modo: si preleva un tabi'/tabi'a ogni 30 capi e un musinn /musinna ogni 4 0. Per bestiami di 12 0 capi il prelevamento è lasciato alla scelta dell'esattore, che può calcolarlo in base a multipli

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di 40 e prendere 3 vitelli/e di due anni, o a multipli di 3 0 e prelevare 4 vitelli/e di un anno. Per gli ovini il minimo imponibile è fissato a 40 capi: da 40 a 120 si preleva una pecora o capra di non meno di un anno (maschio o femmi­ na); da 121 a 200, due pecore o capre; da 201 a 3 00, tre pecore o capre; oltre i 3 00 capi si prende l' 1% del bestiame. Da un imponibile formato in parte da ovini e in parte da caprini si può prelevare la zakiit il primo anno dagli ovini e il secondo dai caprini; c 'è però chi ritiene che si debba prendere sempre un ovino, anche se il gregge è composto da capre. Per ciascuna specie di bestiame tassabile il proprietario è tenuto a dare capi di qualità media, pur possedendo solo bestiame ottimo o solo bestiame cattivo, a meno che non offra sponta­ neamente capi di qualità superiore o l'esattore non ritenga opportuno prelevare animali che presentino un difetto. I capitali in oro e argento vengono tassati alla fine di un anno di possesso ininterrotto in base a un'aliquota fissa del 2,5 % , a partire da un n isiib di 20 diniir/mithqal d'oro e di 200 dirham ( 140 mithqa[) d'argento. Tale nisiib fu assunto dal Profeta sulla base dell'allora prezzo di mer­ cato di s wasq (carichi di cammello) di derrate alimentari, ossia la prov­ vigione di cibi necessaria a una famiglia per un anno, che costituivano a loro volta il n isiib dei prodotti agricoli. Probabilmente 20 diniir/20 0 dirham rappresentavano anche il valore di mercato del n isiib per il be­ stiame, ma le fonti storiche a nostra disposizione non consentono di sta­ bilirlo con altrettanta certezza. I giuristi tendono a considerare oro e argento due imponibili distinti, eccetto il caso in cui non raggiungano il nisiib singolarmente, ovvero quando solo uno dei due lo raggiunga. In tal caso i malichiti suggerisco­ no di effettuare il cambio secondo il tasso convenzionale di I dinar = 10 dirham, mentre altri giuristi ( tra cui Abu Hanifa, ma la sua opinione non è condivisa dai suoi discepoli Abu Yusuf e al-Shaybani) ammetto­ no la possibilità che il cambio vari a seconda dell'andamento del mer­ cato. Dunque, sarebbe tenuto a pagare la zakat non solo chi possiede 100 dirham e 10 dinar/mithqal, ma anche chi possiede 100 dirham e 9 mithqal che al tasso di cambio corrente equivalgano a 100 dirham. L'oro e l'argento vengono tassati sia se si tratta di numerario (contro­ verso è il caso delle monete false o coniate con metallo a bassa caratura), sia se si tratta di metallo non coniato. Discussa è invece la tassabilità degli oggetti di oreficeria in oro e argento, in quanto incerta la loro iden-

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tificazione come ayn ( oro o argento non coniati) e pertanto soggetti a zakdt o come beni personali e quindi totalmente esenti. Secondo le tra­ dizioni riportate sulla base dell'autorità di giuristi iracheni come'Abd Allah b. Mas' ud (m. 652),'Abd Allah b. Shaddad (m. 701), Jabir b. Zayd (m. intorno al 711), Ibrahim al-Nakha' i (m. 713), la zakdt va prelevata sui gioielli e sugli oggetti di oreficeria. Diversa la situazione nell'Hijaz: nel Muwatta ' Malik riporta una tradizione secondo cui'A:isha, la moglie del Profeta, avrebbe considerato gli oggetti d'oro esenti da zakdt. Tale opinione, a cui aderivano eminenti giuristi hijazeni - quali 'Abd Allah b. ' Umar (m. 693), Jabir b. 'Abd Allah (m. 691 ), Qasim b. Muhammad (m. 726) -, nasceva con tutta probabilità dal fatto che all'epoca, nell' Hij az, erano in uso gioielli di scarso valore. Solo successivamente (forse dopo la morte di'A' isha) cominciò a diffondersi la moda di indossare ornamenti in oro e argento massiccio, considerati anche una forma di investimento dei capitali: di conseguenza tra i giuristi nacque la controversia se consi­ derare tassabili o meno i gioielli. L'esenzione dalla zakat per gli ornamenti preziosi delle donne, in quanto considerati alla stessa stregua degli abiti, e di quegli oggetti di oreficeria ritenuti leciti per gli uomini, viene mantenuta da malichiti, sciafiiti e hanbaliti. Secondo Malik sono esenti anche gli ornamenti rot­ ti, persino se ridotti in frantumi, che però si ha intenzione di far riparare. Nei casi in cui gli oggetti preziosi siano tassabili ( oggetti illeciti maschili o tenuti in serbo come investimento), l'opinione prevalente è quella di riscuotere la zakdt in base al peso. Solo una parte della scuola hanafita (che sottopone tutti gli oggetti d'oro a zakdt) consente di commisurare l'imposta al loro valore, riconoscendo l'apporto della lavorazione arti­ stica al metallo grezzo. All'oro e ali'argento vengono equiparati i capitali commerciali, la cui tassazione venne introdotta al tempo del califfo' Umar. Su di essi si esige un'imposta in denaro pari al 2,5% del loro valore in base alle seguenti condizioni: a) che si tratti di beni leciti per il musulmano; b) che il loro prezzo d'acquisto o il loro valore di stima raggiungano il nisdb fissato per i metalli preziosi; e) che siano stati acquistati e posseduti con l'intenzione (niyya) di ri­ venderli, ovvero di ricavarne prima un utile e poi rivenderli. Verificate le condizioni menzionate, la zakat si preleva in base al va­ lore delle merci, calcolato da un perito alla fine dell'anno di possesso,

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o in base al loro prezzo d'acquisto (sciafiiti). Nel primo caso il com­ puto dell'anno di possesso si fa partire dal momento in cui il valore delle merci raggiunge il minimo imponibile, nel secondo ( che non tie­ ne conto di eventuali oscillazioni dei prezzi nel corso dell'anno) dal momento in cui il commerciante sborsa il denaro: ciò vale anche per le merci acquistate con contratto di salam (vendita con anticipazione del prezzo), oppure date in prestito (qard, mutuum). La decorrenza dell'anno si interrompe se le merci vengono rubate o danneggiate da agenti esterni ( quali un incendio) in modo irreversibile, riducendosi il loro valore al di sotto del nisab. La decorrenza fissata rimane valida se il commerciante rivende le merci, acquistandone altre con il ricavato. Per quanto riguarda la commercializzazione di beni già tassabili per loro natura (bestiame, derrate alimentari), esistono due opinioni: secondo hanafiti e hanbaliti prevale l'imposta dovuta per il commercio, mentre malichiti e sciafiiti ritengono che si debba versare solo la zakat dovuta per la natura del bene. Quando viene costituita una società in accommandita (qirad, mudaraba) per fini commerciali, capitalista e agente sono tenuti en­ trambi al pagamento della zakdt: il primo sul fondo sociale e sulla quota di utili, il secondo solo sulla quota di guadagni. Se capitalista e agente dividono gli utili solo dopo lo scioglimento della società, devono pa­ gare la zakat per gli anni arretrati. Riguardo all'entità degli utili fa fede la dichiarazione dell'agente. Nel caso questi muoia senza aver potuto presentare ali'accomandante il rendiconto dei profitti ottenuti anno per anno, quest'ultimo versa l'imposta per gli anni arretrati basandosi sul guadagno dell'ultimo anno. Il nisdb fissato per i prodotti agricoli è di s wasq ( carichi di cammel­ lo). Benché varie tradizioni confermino l'esistenza di tale nisab, Abu Hanifa, e prima di lui Ibrahim al-Nakha'i e Hammad ibn Ahi Sulayman, ritengono che dai versetti coranici ( I I , 267), e ancora , si deduca la tassabilità dei prodotti agricoli indipendentemente dal raggiungimento di un minimo imponibile. A partire da s wasq, e per qualsiasi ammontare superiore, si paga un'imposta proporzionale determinata in base a un'aliquota del 5% se il terreno è irrigato artificialmente, e del Io% se l'irrigazione è spontanea (proveniente da pioggia, corsi d'acqua naturali e così via). L'incidenza dei costi di irrigazione sul ricavato del raccolto è riconosciuta nella ce­ lebre tradizione profetica: 1 9 • C'è controversia tra i giuristi circa i prodotti su cui effettuare il prele­ vamento, benché tutti concordino nell'escludere quelli deperibili (frutti freschi, verdure ecc.). Corano e sunna non danno sufficienti indicazioni al riguardo: in entrambe le fonti i prodotti tassabili vengono citati con termini generici o con un'enumerazione che i giuristi hanno giudicato semplicemente esemplificativa. Ai tempi del Profeta la zakdt veniva pa­ gata su grano, orzo, uva e datteri essiccati. Da alcune fonti risulta anche che Muhammad avesse fissato una zakdt del 10 % sul miele, mentre se­ condo un'altra opinione, attribuita al califfo' Umar ibn al-Khattab, do­ vevano essere tassati anche i legumi e le olive. I successivi sviluppi della giurisprudenza in merito si possono così riassumere: i malichiti impongono la zakat su venti specie di prodotti, in cui sono inclusi i cereali (frumento, orzo, una varietà di orzo senza gluma detto sult, durra, riso, una varietà di frumento coltivata nell'A ra­ bia meridionale e conosciuta come 'alas ), le leguminose ( fagioli, lentic­ chie, fave, lupini, ceci, piselli di più varietà), alcuni frutti e semi da cui si estrae olio ( olive, sesamo, cartamo, grani di ravanello rosso), datteri e uva essiccati. Per gli sciafiiti la zakat va prelevata su cereali, leguminose e, per i frutti, su datteri e zibibbo. Per i hanbaliti essa è dovuta su cereali, leguminose, spezie, frutti ( datteri, zibibbo, mandorle, pistacchi, noccio­ le), sui semi di alcuni ortaggi (crescione, ravanelli, cartamo), sulle olive, sul cotone e sul miele. Con i hanafiti la zakat si generalizza a tutti i pro­ dotti commestibili non deteriorabili e alle fibre tessili. Al contrario, lo zahirita Ibn Hazm, massimo esponente degli ambienti giuridici più tra­ dizionalisti, restringe il prelevamento della zakdt a soli quattro prodotti: frumento, orzo, datteri e zibibbo, gli unici menzionati nelle tradizioni da lui ritenute autentiche. Nei casi in cui il nisdb è formato da prodotti appartenenti a specie diverse ma considerate fungibili ( ad esempio, frumento e orzo, datteri e uva), la zakdt si preleva proporzionalmente alla quantità di ciascuna specie o, se si tratta di più di due specie, dal prodotto di qualità media. Per i prodotti agricoli non si richiede l'anno di possesso ininterrot­ to, poiché è prevalsa l'opinione secondo cui il nisdb basti ad assicurare che la zakat colpisca il superfluo. Come scadenza della loro tassabilità viene fissato il momento in cui, giunti a maturazione, i prodotti ven­ gono raccolti e immagazzinati. Secondo malichiti, sciafìiti e hanbaliti, per i datteri e l'uva è necessario fare una stima (khars) appena i frutti,

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cominciando a maturare, diventano adatti per la vendita, allo scopo di definirne l'imponibilità e permettere al proprietario di disporne libera­ mente. Sciafìiti e hanbaliti ritengono che il perito debba escludere dal­ la stima la quantità di prodotto che il contribuente consumerà per uso personale fino all'epoca del prelevamento dell'imposta (circa 1 /3 o 1 / 4 del raccolto). Sufyan al-Thawri, Abu Hanifa e altri giuristi sono contrari ali'accertamento dell'imponibile mentre i frutti sono ancora sulle pian­ te, considerando questa una forma di usura (riba) in quanto l'imposta, determinata forfetariamente sui frutti freschi, viene prelevata sui frutti essiccati senza tener conto della perdita di peso. Se il contribuente perde, per furto o calamità naturale, i prodotti ma­ turi, prima che ne sia stata accertata l'imponibilità, la tendenza generale è di limitare il prelevamento dell'imposta alla parte residua, se questa raggiunge il nisab. Quando tale perdita avviene dopo che si è accerta­ ta l'imponibilità dei prodotti, la maggioranza dei giuristi ritiene che il contribuente debba pagare l'imposta anche sulla parte andata distrutta, specialmente se la perdita è da imputarsi a un suo comportamento do­ loso o negligente. Come è stato già detto, condizione essenziale per la tassazione del be­ stiame e dei capitali in oro e argento è l'anno di possesso ininterrotto (haw[) . Questa norma, che ha lo scopo di garantire che solo quanto ec­ cede al fabbisogno del contribuente sia tassato, trova origine nelle parole del Profeta: 2 0 Nella pratica l'applicazione di tale norma ha richiesto la soluzione di non pochi problemi tecnici e ha dato vita a non poche controversie per quanto riguarda il prelevamento della zakdt sui beni acquistati dal contribuente nel corso dell'anno. La questione fu risolta intorno all'inizio del II secolo dell'egira (VI I I secolo d.C.), quando i giu­ risti stabilirono che la zakat sul bestiame andava pagata sull'ammontare complessivo dei capi, computando tanto i nuovi nati, quanto gli anima­ li di cui il proprietario era entrato in possesso nel corso dell'anno per ragioni differenti. Questa pratica, del resto, risaliva ai tempi del califfo ' Umar, il quale aveva ordinato di includere nel calcolo dell'imponibile tutti gli animali del gregge, compresi quelli nati nel corso dell'anno di possesso, pur non accettando gli agnelli come zakat. Molto più arduo fu trovare una soluzione per i capitali in oro e ar­ gento, mancando qualsiasi forma di ufficialità sia nell'accertamento dell'imponibile che nel computo dell'anno di possesso. Su di essi, in •

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quanto considerati un bene occulto (al-mal al-batin ), la zakat veniva erogata direttamente dal proprietario sulla base di un computo indivi­ duale dell'anno di possesso. Il problema di fondo nell'elaborazione giurisprudenziale della teoria dell'anno di possesso risiede nello stabilire se l'incremento sia da consi­ derare o meno un accessorio del capitale e pertanto destinato a seguir­ ne le sorti giuridiche. La questione rimane ancora aperta nella dottrina cristallizzatasi negli insegnamenti delle quattro scuole giuridiche orto­ dosse. Queste classificano l'incremento del capitale in due categorie, definendofo'ida (profitto) l'incremento che si produce nel patrimonio ex novo (dono, eredità ecc.), e non derivante da averi già posseduti, e ribh (guadagno) ciò che si trae dal commercio a cui viene equiparato l'incremento del bestiame dovuto a nuove nascite. L'acquisto a titolo oneroso ( quale può essere il canone di locazione o il dono nuziale) non èfo'ida, ma vi è equiparato al fine del prelevamento della zakat. Mentre il ribh si considera unanimemente accessorio del patrimonio in cui si è prodotto, e quindi tassato in base all'anno di possesso già fissato. Per il profitto (ja'ida) la questione è controversa. Per i hanafìti è possibile tassarlo insieme al capitale; malichiti e sciafìiti invece distinguono: se il profitto si verifica in un patrimonio pari o superiore al nisab, per il quale è già stata fissata la decorrenza dell'anno, non si somma ad esso; al contrario, se si verifica in un patrimonio inferiore al nisab si somma ad esso e, se insieme raggiungono il minimo imponibile, si inizia il calcolo dell'anno di possesso. Alla regola dell'anno di possesso ininterrotto si può derogare nel caso in cui il contribuente, sovvenendo a un grave stato di necessità dei pove­ ri, paghi la sua zakdt in anticipo di uno o due mesi (secondo gli sciafiiti si può anticipare la zakat anche di un anno). Il decorso dell'anno di possesso può essere interrotto da vari fattori, ad esempio a causa della riduzione del patrimonio al di sotto del minimo imponibile per perdita o furto. Un espediente (hila) usato per evadere la zakat consisteva appunto nello scambiare beni tassabili con altri di genere diverso prima dello spirare dell'anno, così da iniziare il computo di una nuova decorrenza. In base a quanto stabilito nel Corano (1x, 60) i frutti della zakat vengo­ no distribuiti alle seguenti otto categorie di beneficiari. 1 . Poveri (fuqara') . 2 . Indigenti (masdkin ).

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I due termini, che il Corano usa come sinonimi, sono passati a de­ signare due classi diverse. Secondo Hasan al-Basri, Abu Hanifa, al­ Shafi 'i e gran parte della scuola malichita, i fuqara' sono coloro che possiedono lo stretto necessario per vivere, i masakin coloro che non hanno nulla. Altri giuristi, tra cui quelli della scuola hanbalita, inver­ tono il significato delle due espressioni, sostenendo che i fuqard' non possiedono nulla, mentre i masakin hanno un reddito, sebbene insuffi­ ciente a coprire le loro spese. Controverso è anche l 'ammontare di beni che l ' individuo deve possedere per essere escluso dagli aventi diritto alla zakat. Alcuni giuristi indicano in 5 0 dirham il capitale minimo che consente di vivere decorosamente per un anno, come sostiene la tra­ dizione : . E Dio replica : > 26 •

Questa storia rappresenta Dio come un potente sovrano, la cui princi­ pale prerogativa è fare ciò che vuole. Ma al di là di questa prima impres­ sione, la storia ci dice che non può esserci piacere senza sofferenza, per­ ché ciascuna esperienza (gioia e dolore) si definisce attraverso il proprio opposto, o meglio il piacere si definisce solo attraverso il suo opposto, la sofferenza. La sofferenza ha un suo valore salvifico nell'infinita sapienza di Dio, semplicemente l'uomo non riesce a scorgere le ragioni del dise­ gno divino. In un'altra tradizione un povero si lamenta con il Profeta dato che il ricco ha un destino migliore non solo in questa, ma anche nell'altra vita, in quanto il ricco può pregare, dare l'elemosina, compiere il pelle­ grinaggio, riscattare gli schiavi, tutti atti graditi a Dio, mentre il pove­ ro può solo pregare. Il Profeta gli risponde insegnandogli una cosa che ha più valore rispetto a : dopo ogni preghiera rituale, il povero deve dire "sia glo­ ria a Dio" per trentatré volte o altre frasi simili fino a cento volte. Ma questa via verso la salvezza è aperta anche al ricco e quando il povero se ne lamenta il Profeta lo scaccia dicendogli che tutto, la ricchezza come la salvezza, dipende comunque solo dalla volontà e dalla misericordia divine27• '

E semplicemente così: alcuni possono servire Dio con la propria persona e i propri beni, mentre altri non possono. Le ragioni sono nel volere divino e restano all'uomo imperscrutabili. Tuttavia, il solo fatto che nascono da un essere superiore, che si può amare e pregare, anche se non comprendere, aiuta ad accettare l'apparente ingiustizia. La domanda sul perché Dio, che è generoso e magnanimo, ha favorito alcuni e sfavorito altri rimane dunque senza una definitiva risposta. Le ineguaglianze sociali non hanno generato in seno all'islam medievale un grande dibattito. Dal x secolo in poi esse vengono giustificate con un argomen-

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to standard che è più o meno lo stesso usato per spiegare la necessità di un governo, ossia che gli individui devono essere differenti per formare una comunità in cui bisogni e apporti di ciascuno si integrino. Il sovrano è l'elemento che garantisce ordine a un mondo altrimenti destinato al caos perché dominato dalla lotta come principio naturale. Così il verset­ to coranico XLIII, 3 2, , viene ge­ neralmente usato per giustificare la divisione del lavoro e la necessità che gli uomini cooperino gli uni con gli altri per il bene comune, facendosi reciprocamente "servi" gli uni degli altri, poiché ciascuno può soddisfare con le proprie capacità e attività i bisogni che altri non potrebbero sod­ disfare da soli28 • Gli uomini sono stati creati differenti, con diverse aspirazioni e abi­ lità, e questa è una prova dell'onniscienza divina, poiché se tutti aves­ sero le stesse aspirazioni o esercitassero uno stesso mestiere il mondo non potrebbe sopravvivere. Questi argomenti spiegano la necessità che gli uomini siano diversi, che svolgano differenti mestieri affinché i bisogni di una società complessa possano essere soddisfatti, ma non spiegano perché i mestieri, in principio tutti ugualmente necessari, ab­ biano differenti remunerazioni. La risposta di al-Raghib al-Isfahani (m. 11 o8/11 o 9) è che senza la povertà o la paura di cadere in essa nessuno lavorerebbe duramente o accetterebbe di svolgere mestieri faticosi o mal remunerati. Se tutti fossero uguali, spiega al-Mawardi (m. 1 0 58), nessuno potrebbe aiutare gli altri: Dio ha reso alcuni deboli e bisogno­ si affinché nei più ricchi si alimentassero i sentimenti di misericordia e fratellanza. Ricchezza e povertà sono parte della volontà divina. Al­ Mawardi usa questi argomenti per spiegare che il benessere e il progres­ so del mondo, così come il mantenimento di un ordine sociale, richie­ dono che non tutti abbiano lo stesso accesso ai beni e alla ricchezza, a prescindere dalle intenzioni e dagli sforzi che ciascuno fa per migliorare il proprio status2 9 • Gli autori musulmani avevano assimilato gli elementi provenienti dalla filosofia greca e dall'etica persiana che concettualizzavano l'esi­ stenza di gerarchie sociali come necessarie; così la disparità di ricchez­ za, lungi dal mettere in dubbio l'idea della giustizia divina, diventa nel loro pensiero un elemento di ordine e progresso, come attestato dalle massime profetiche: , oppure , come sostiene il mistico Fudayl ibn lyad (m. 803), che richiama il versetto co­ ranico: ( Cor LVII, 23). Rida e tawakkul sono complementari in quanto il mistico non può mostrarsi grato del molto o poco che possiede senza un totale abbando­ no a Dio. Rinuncia al mondo non significa dichiarare lecito l'illecito, né buttare via il denaro: significa avere fiducia in Dio più che in sé stessi, significa comportarsi allo stesso modo di fronte alle disgrazie come di fronte alla fortuna. Povertà e rinunce sono dunque solo la manifestazio­ ne esterna di un atteggiamento che è in primo luogo interiore. Ascesi, nelle parole di 'Abd Allah ibn al-Mubarak (m. 808), è 6 9 •

Al-Ghazali considera il lavoro come una preparazione per l'aldilà ; l 'abbandono di ogni attività e il rifugio in una vita ascetica significano sottrarsi alla lotta quotidiana per vivere che è il vero cammino verso la

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salvezza. In particolare, al-Ghazali paragona l'onesto mercante al com­ battente della guerra santa: il mercato è il suo campo di battaglia dove egli combatte contro le tentazioni dell'egoismo, della disonestà, dell'a­ varizia e della cupidigia. Egli è invitato a considerare i clienti come "fra­ telli" e ad astenersi dall'imbrogliarli7 0 • Con un ragionamento intriso di logica aristotelica, al-Ghazali consi­ dera il benessere (maslaha) dell'intera comunità (contrapposto al con­ cetto di corruzione e deterioramento, mafasid) un dovere pubblico (fa rd al-kifaya) a cui il gruppo sociale, in quanto soggetto collettivo, è tenuto a rispondere. Tale benessere si basa sul rispetto della religione (din ), della ragione ( 'aql) - che nel pensiero islamico sono due concetti coinciden­ ti non contrapposti - e della spiritualità (nafi) , sulla salvaguardia della continuità della specie ( nasi, lett. discendenza) e della proprietà (mal) . Il benessere della comunità comporta il soddisfacimento di bisogni pri­ mari e secondari, ma anche l'ottenimento di beni superflui o di lusso. L'attività umana è dunque un mezzo imprescindibile per il bene comune e per il progresso della comunità, e al-Ghazali ha ben chiaro come que­ sta non possa fermarsi al livello della mera sussistenza per garantire la sopravvivenza dell'uomo. Rivolgendosi alla coscienza del singolo al-Ghazali enfatizza l'idea del giusto mezzo nel rapporto con i beni, in particolare egli prende posi­ zione contro l'accumulo spropositato di ricchezze: esso conduce all'i­ pocrisia e al peccato e porta l'essere umano a dimenticare Dio. Egli cita numerose tradizioni profetiche a sostegno della sua tesi; in una di que­ ste il Profeta dice: . Egli diceva : (xxvi, 1 1 1 ) , che fareb ­ be riferimento proprio ai tessitori e proverebbe, secondo Ibn Hajj , che se essi sono dei miserabili agli occhi dei miscredenti, fanno invece parte degli eletti agli occhi di Dio 9 • Nell ' islam medievale concezioni sociali e dottrine economiche si in­ fluenzano a vicenda. La natura conservatrice delle dottrine economiche ha la sua esatta controparte nella dottrina delle dicotomie sociali. La so­ cietà islamica medievale è fortemente sperequata : le masse sfruttate di contadini, piccoli artigiani e salariati sono pronte a rispondere a ogni appello rivoluzionario. Numerose sono le rivolte popolari che scoppia­ no nelle campagne così come nelle città in risposta alla crisi delle struttu­ re sociali ed economiche. Movimenti popolari o religiosi (sufi, 'ayyarun,

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fityan, hanbaliti, karmati, ibaditi) danno voce all'antagonismo sociale e guidano sommosse. La nisba ( ossia la parte del nome che indica la pro­ fessione o il luogo di provenienza geografica) dei partecipanti alle rivolte popolari e a molte rivolte religiose a sfondo sociale rivela la loro appar­ tenenza ai ceti più bassi (piccoli artigiani e mestieri manuali). Nel x e XI secolo il vessillo delle professioni manuali viene tenuto dai hanbaliti; la scuola si diffonde nei quartieri popolari e nell'ambiente rurale e si fa portavoce del malcontento sociale e dei tentativi di riforma economica. Abii Bakr al-Khallal non solo scrive un pamphlet contro la morale sufi che invita ad abbandonare il lavoro, ma anche un trattato contro il lusso adottato dalle corti califfali e dagli esponenti militari turcomanni1 0 Un'analoga rete di solidarietà sociale - sebbene molto elitaria -, che diventa un trampolino per incidere nella vita religiosa, politica ed economica della società islamica medievale, viene intessuta in ambiente sciita-ismailita dai "Fratelli della purità" (Ikhwan al-Safa' ), ai quali è at­ tribuita la più ricca e complessa delle enciclopedie musulmane, scritta a Basra intorno al x secolo, in forma di una serie di epistole e considerata la summa del sapere islamico medievalel l . L'ottava epistola della sezione propedeutica dell'opera è dedicata ai mestieri manuali, essa segue le epistole sui numeri, la geometria, l'astro­ nomia, la geografia, la musica, la scienza delle proporzioni (aritmetiche, geometriche e musicali) e le professioni intellettuali. L'epistola descrive le arti pratiche e i mestieri in termini ontologici e metafisici: l'artigiano terreno, nel suo sforzo di trarre manufatti dalla materia grezza, è spec­ chio dell'Artigiano Celeste, nelle sue varie emanazioni fino ad arrivare al Creatore. Questa rappresentazione, che risente delle dottrine neoplato­ niche che i Fratelli della purità fecero proprie, avvicina l 'artigiano uma­ no a Dio attraverso tre ulteriori passaggi, ossia l'artigiano naturale, l' ar­ tigiano animico e l'artigiano intellettuale. La differenza sta nel numero via via decrescente di cose, movimenti e direzioni necessari al processo creativo: così, mentre l'artigiano umano ha bisogno di sei cose (materia, spazio, tempo, utensile, strumento e movimento) oltre a sé stesso per creare, l'artigiano intellettuale ha bisogno solo dell' Intelletto Primo e il Creatore non ha bisogno di nulla poiché tutto si origina da lui. •

Sappi, dunque, o fratello pio e misericordioso - che Dio aiuti te e noi con un Suo spirito - che le arti umane sono di due specie : teoretiche e pratiche [ ... ] . L'arte pratica è l'estrinsecazione, da parte dell'artigiano consapevole, della forma che è nella sua mente, e il suo trasporla nella materia. E il manufatto è

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un insieme costituito sia dalla materia che dalla forma, il cui principio si deve all' influsso dell'Anima Universale su di esse unitamente alla forza del sostegno dell' Intelletto Universale per ordine di Dio, alta è la Sua lode. [ ... ] E sappi, o fratello mio, che ogni artigiano umano ha bisogno, perché la sua opera sia completa, di sei cose diverse, ed egli è la settima ; e di sette movimenti e di sette direzioni. Le sei cose diverse sono la materia, lo spazio, il tempo e l'utensile, lo strumento e il movimento, e la settima è se stesso. E ogni artigiano naturale ha bisogno di quattro di esse, e cioè la materia, lo spazio, il tempo e il movi­ mento; ogni artigiano animico ha bisogno di due di esse, cioè la materia e il movimento e basta ; e ogni artigiano intellettuale ha bisogno di un'unica forma soltanto, ed è l' Intelletto Primo che è un influsso da parte del Principiatore dei principiati Vero, dal nulla alla cosa. Il Creatore poi - alta è la Sua lode - non ha bisogno di alcuna di esse, poiché sono tutte inventate e principiate da Lui, cioè la materia, la forma, lo spazio, il tempo, il movimento, lo strumento e gli utensili tutti 1 2 •

E da queste somiglianze tra l 'artigiano umano e gli Artefici soprannatu­ rali deriva la predilezione di Dio per lui : E sappi, o fratello mio, che l'abilità in ogni arte è la capacità di imitare l'Artefice Sapiente che è il Creatore - alta è la Sua lode - e si dice che Dio Altissimo ama l'artigiano ingegnoso e abile 1 3 •

Nella classificazione dei mestieri, offerta dai Fratelli della purità, questi vengono prima descritti in base al loro rapporto con i quattro elementi ( aria, acqua, terra e fuoco ) e con i mondi animale, vegetale e minerale. Legati ali ' acqua ci sono i marinai e i portatori d'acqua ; legati alla terra i minatori, coloro che scavano pozzi e canali ; legati al fuoco ci sono i portatori di torce e coloro che estraggono la nafta ; legati ali ' acqua e alla terra ci sono i vasai ; legati ai minerali ci sono i fabbri, gli orafi, i ramai ; legati al mondo vegetale ci sono i carpentieri, i tessitori, i fabbricanti di carta ; legati al mondo animale ci sono i cacciatori, i pastori, i cuochi, i conciatori, i calzolai, ma anche medici e barbieri che si occupano del corpo umano. I mestieri sono poi classificati in base alla complessità e propedeuticità : esistono così i mestieri primari ( in primo luogo l'agricoltura ) e i mestieri secondari, che hanno bisogno di materie prodotte attraverso altri mestie­ ri, come l 'arte del cucito, del candeggio, del rammendo e del ricamo, con­ sequenziali alla cardatura, filatura e tessitura. Ci sono arti che producono beni di lusso e pregiati, come nel caso dei filatori di seta e dei fabbricanti di broccati, arti che trattano materie prime preziose, come orafi e profu-

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mieri, arti che necessitano di una particolare perizia per essere esercitate, come l'astronomia. Tuttavia la nobiltà di un'arte e di un mestiere risiede soprattutto nella loro utilità sociale: così lo spazzino che tiene pulito il mercato è considerato più nobile del fabbricante di profumi, benché sia più povero, in quanto svolge un lavoro di maggiore utilità sociale. Fine dei mestieri è creare ricchezza e sviluppo. Di fronte alla scarsità delle risorse gli uomini sono in competizione: i ricchi perché cercano di preservare e aumentare le loro ricchezze e i poveri perché cercano di conquistarle. Lo stato di bisogno in cui l'uomo per natura si trova diven­ ta così lo stimolo per lavorare e acquisire i beni che possano soddisfarlo. I Fratelli della purità, pur facendosi paladini dei mestieri manuali e dei più umili, non considerano di per sé la ricchezza e lo sforzo di acquisirla come elementi negativi: viceversa li considerano vitali per lo sviluppo delle società umane 1 4 • Più volte, inoltre, i Fratelli della purità ribadiscono l'importanza del1'apprendistato: E sappi, o fratello mio, che ogni artigiano umano ha certamente un maestro da cui apprendere la sua arte o la sua scienza, e quel maestro l' ha appresa da un altro maestro prima di lui e così fino ad arrivare a uno la cui scienza non deriva da alcun essere umano 1 5 •

Secondo alcuni studiosi, i Fratelli della purità avrebbero fatto parte della propaganda (da'wa) fatimida con un'organizzazione gerarchica che an­ dava dall ' imam (il grado più alto) al semplice membro (mu 'min) , fino all'aspirante membro. L'organizzazione aveva un sistema di iniziazione e di apprendistato che garantiva la segretezza e il passaggio delle cono­ scenze all'interno del gruppo. Questo sistema funzionava anche all'in­ terno delle professioni, delle organizzazioni giovanili e degli ordini sufi, dove si replicava in qualche misura lo stesso tipo di organizzazione1 6 • La struttura stessa dell'organizzazione ismailita nonché le tesi dei Fratelli della purità sui mestieri e il loro accento sull'importanza dell'ap­ prendistato e della trasmissione della conoscenza da maestro ad appren­ dista hanno portato alcuni studiosi (Massignon e Lewis, in particolare) a far risalire già alla loro epoca l'esistenza delle corporazioni nel mondo islamico1 7• La questione ha sollevato non poche polemiche: la presenza di corpo­ razioni nel mondo islamico è attestata con certezza solo nel XVII secolo tramite l'opera di Evliya çelebi. Probabilmente esse furono introdotte

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nel mondo arabo dopo la conquista ottomana nel 151 6-1 7 come parte del sistema di organizzazione sociale e di governo ottomano1 8 • Per le epo­ che precedenti le fonti danno notizie discordanti. Goitein, ad esempio, non trova traccia di gilde nei documenti della Geniza ( X-XIII secolo), né essi attestano l'esistenza di particolari regole di apprendistato e di reclutamento che farebbero pensare a una qualche forma di organizza­ zione delle professioni. La supervisione e il controllo della qualità del lavoro degli artigiani erano nelle mani dello Stato attraverso il muhtasib. I trattati di hisba di questo periodo raccomandano di nominare uno spe­ ciale supervisore solo per alcune professioni che richiedono particolari specializzazioni e competenze. Nei documenti della Geniza, la figura dell' 'arif, sovrintendente, appare molto raramente e senza indicare quale sia il gruppo di cui è responsabile. Solo nel XIII secolo in un documento è menzionato un 'arifal-naqqadin, il sovrintendente dei cambiavalute. Anche i meccanismi di protezione della produzione locale da nuovi arrivati o concorrenti esterni venivano esercitati dalla comunità ebraica locale, dalle autorità ebraiche centrali, dalla polizia, dai notabili. Siamo dunque ben lontani dalle ferree regole di controllo esistenti in Europa tra le corporazioni1 9 • Secondo Ira M. Lapidus, le cosiddette corporazioni di medici, chi­ rurghi e oculisti erano così chiamate per l'esistenza di un sovrintendente (ra 'is) nominato dallo Stato per controllare lo standard di insegnamen­ to, pratica e disciplina nelle professioni. Non esiste alcuna prova che questi funzionari si facessero portavoce di una solidarietà di gruppo. Neppure i mercanti erano organizzati in corporazioni. Nel XIV secolo i mercanti Karimi, che in Egitto detenevano il monopolio del commer­ cio delle spezie con l'India, avevano un ra 'is al-tujjar (comandante dei mercanti) con compiti di controllo e supervisione: questo però veniva nominato dal sultano e faceva da tramite tra i mercanti e lo Stato per quanto riguardava gli aspetti fiscali, diplomatici e monetari. Un'altra fi­ gura che appare nelle fonti è il notabile (a'gn, pl. a'yan), ossia il portavoce di una particolare categoria, responsabile di trattare con il sultano il pa­ gamento delle tasse. In un episodio del 1487, l'ispettore del mercato del Cairo riunisce i notabili dei mercanti per discutere l'imposizione di una tassa di 4 0. 0 0 0 dinar, di cui essi concordano di pagarne 12 . 0 0 0. Niente - secondo Lapidus - prova che il termine faccia riferimento ad altro che ai mercanti più ricchi e prominenti della città. Tuttavia, nonostante la mancanza di corporazioni, troviamo esempi di fratellanze religiose basate sull'appartenenza a determinati mestieri

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che riescono ad agire in nome e nell'interesse dei membri. Questo è il caso della confraternita dei lavoratori della seta di Damasco: le fonti re­ gistrano l'esistenza di ta'ifa (gruppi) di haririyya (mercanti o tessitori di seta), e di shaykh o difaqir degli haririyya. Le fonti registrano anche un episodio risalente al 1492 in cui essi si raccolgono nella moschea de­ gli Omayyadi di Damasco per protestare contro l'imposizione di una nuova tassa sulla seta. Benché non sia chiaro come l'episodio si sia con­ cluso, esso prova il legame dei sufi con i mestieri. Pur facendo i dovuti distinguo tra le corporazioni/ gilde europee e le organizzazioni profes­ sionali del medioevo islamico, le nuove ricerche storiografiche tendono a mettere in luce l'esistenza di forme di autonomia e di organizzazioni con strutture che, a volte, interferivano o coincidevano con quelle delle futuwwa (le organizzazioni giovanili) e degli ordini monastici20 I ma­ nuali difutuwwa del XI I I secolo mostrano un'organizzazione dei mem­ bri, un sistema di apprendistato, una serie di rituali e il riferimento a un maestro rintracciabili successivamente nelle corporazioni dei mestieri. Questi prestiti sono chiari già nelle lettere dei Fratelli della purità. In questo senso la tesi di Massignon, anche se esagerata, può essere almeno parzialmente accettata21 •



Il x e X I secolo vedono l'ascesa di una " borghesia" mercantile nel mon­ do arabo: la classe diviene via via più influente anche se non riesce mai a divenire un corpo politico (come avviene invece per la borghesia eu­ ropea). L'x1 secolo porta nuovi argomenti al dibattito teoretico sul la­ voro in seno all'islam: una morale più pragmatica, che sostiene l'idea secondo cui il commercio non necessita di alcuna etica e il suo fine ulti­ mo è il profitto, è proposta da un testo scritto in epoca fatimida da Abii '1-Fadl Ja' far al-Dimashqi, Kitab al-ishara ila mahasin al-tijara ( Libro delle istruzioni sui lati positivi del commercio, XI-XII secolo)22 Il com­ mercio e il guadagno che ne deriva sono messi al primo posto, seguono le professioni nobili (medicina), mentre le occupazioni manuali e tutte le attività minori sono all'ultimo posto della scala gerarchica. Intorno al XIV secolo il dibattito sul lavoro assume una nuova dimen­ sione, come dimostrano le opere di T aj al-Din al-Subki (1327-1370 ca.) e di Abu '1-Hasan'Ali al-Khuza' i, quest'ultima scritta a Fez o T lemcen nel 13862 3 • Entrambe contengono una lista di lavori e mestieri con le istruzioni per un'appropriata condotta. Diversamente dalle gerarchie dei mestieri proposte nei testi del x e X I secolo, entrambi gli autori pon­ gono al primo posto i burocrati al servizio delle élite al governo, mentre •

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le occupazioni manuali sono all'ultimo posto. Entrambe le tipologie di lavoro rispecchiano la posizione che le élite religiose ( 'ulamd') avevano raggiunto, specialmente nell'Egitto e nella Siria mamelucca, ponendosi al servizio delle classi al potere come scribi, segretari, consiglieri e così via, e beneficiando dei vantaggi che provenivano dalle nuove strutture politiche ed economiche. Lo stesso al-Sub.la era stato giudice (qadi) , imam e giureconsulto (mufti) , professore in una madrasa e predicatore nelle moschee del Cairo e di Damasco. L'inserimento degli 'ulama' nel­ la compagine dell'amministrazione statale ne modifica lo status sociale e li equipara alla classe militare, con cui essi si alleano anche grazie a una politica di matrimoni. Il risultato è un sempre maggior distacco dell'éli­ te religiosa dal popolo, specialmente dagli strati più bassi rappresentati dai lavoratori e dagli artigiani, su cui in precedenza avevano esercita­ to grande influenza. Il loro posto viene preso dai sufi che accusano gli 'u lama' di corruzione e di essersi allontanati dai veri principi del Corano. La risposta degli 'ulama' possiamo trovarla nei testi di al-Sub.la e al-Khuza'i che legittimano la loro condotta sulla base della tradizione profetica, mentre il nuovo ruolo dei sufi come leader politici e spirituali di artigiani, lavoratori e piccoli mestieri, evidente nei movimenti popo­ lari, si concretizza nella comparsa di ordini mistici legati a particolari categorie di mestieri. Gli 'u lama' sono chiaramente espressione delle élite dominanti. Sia­ mo di fronte a due opposte tendenze: da un lato l'islam ortodosso rap­ presentato dagli 'ulama', che quindi difendono lo status quo, la legalità e temono le forme di organizzazione che possano limitare il potere dello Stato, così come si oppongono a ogni forma di autonomia; dall'altro l'islam popolare, rappresentato dai sufi, un islam che spesso accetta riti e credenze non del tutto compatibili con l'ortodossia, che si allea con gli strati più bassi della popolazione - lavoratori e artigiani, spesso vessati da inique tassazioni - e si fa portavoce dei loro interessi. Durante il XIV e xv secolo l'ostilità tra 'u lama' e sufi diviene più pro­ nunciata e si focalizza su questioni legate all'organizzazione del lavoro. Da un lato i sufi denunciano gli 'u lamd' per essersi messi al servizio del­ lo Stato, mentre questi ultimi osteggiano lo sviluppo di organizzazioni professionali di artigiani e lavoratori legate al movimento mistico2 4 • Il periodo mamelucco rappresenta una fase di prosperità per religio­ si e giuristi. Il sufi 'Abd al-Wahhab ibn Ahmad al-Sha'rani (1493-1 565), noto e rispettato per la sua pietà, si fa paladino dei mestieri manuali e dei ceti popolari. Egli si oppone ali' atteggiamento degli 'u lama ', e in

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modo particolare dei giuristi (fuqaha') , che giudica legato alla lettera ma non allo spirito della legge divina, criticandone soprattutto l'avver­ sione per le classi popolari. Se da un lato i dervisci approfittano dell' in­ genuità di contadini e lavoratori per sfruttarli e corromperne i costumi, dall'altro gli 'u lama' non fanno nulla per insegnare al popolo il vero islam, semplicemente se ne distaccano tacciando di miscredenza tutte le forme di religiosità popolare. L'atteggiamento di al-Sha' rani verso il potere ottomano è di diffidenza: esso viene accettato come un dato di fatto contro cui non ci si può opporre e si riconosce l'autorità del sultano ma, d'altro canto, egli vieta di accettare doni (anche se non ri­ chiesti) dal sultano o dagli alti ufficiali dell'esercito perché considerati degli oppressori. Soprattutto egli critica il loro comportamento verso i più umili e i contadini, continuamente vessati con tasse eccessive e corvée. Viceversa al-Sha' rani simpatizza con loro e sottolinea la neces­ sità che ricevano un'istruzione religiosa, unica possibilità di riscatto sociale e di riparo dalle nefaste influenze dei dervisci che propagavano un falso islam2 5 • La posizione degli 'u lama' e un ruolo di controllo dello Stato sui me­ stieri sono difesi da Ibn Taymiyya nel suo trattato sulla hisba, dove egli riconosce ali' imam la prerogativa di poter costringere artigiani e conta­ dini al lavoro se questo è necessario nell'interesse della comunità 6 • Secondo Maya Shatzmiller, il dibattito tra 'u lama' e sufi è legato pro­ prio alla comparsa nel XIV-XV secolo delle prime forme di organizzazio­ ne professionale. L'avversione degli 'ulama' verso di esse è dovuta al loro legame con le tariqa, gli ordini sufi, tanto nell'organizzazione quanto nella condotta sociale. Sembra dunque avere peso la tesi secondo cui l'organizzazione degli ordini sufi permeò il mondo del lavoro prestan­ dogli l'organizzazione corporativa. Parimenti i trattati delle futuwwa, dove l'idea del kasb, l'onesto guadagno, è centrale, servivano come testi da cerimonia ai lavoratori, organizzati in strutture che ricordavano gli ordini sufi27• 2

Il lavoro secon d o Ibn Khaldiin Nel discorso dell'islam medievale sull'etica del lavoro spicca, per com­ plessità e lucidità di giudizio, la figura del famoso storico maghrebino Ibn Khaldun (1332-140 6). Nella Muqaddima (Introduzione) alla sua monumentale storia universale, Kitab al- 'ibar (Libro degli esempi), egli

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propone un'analisi dello sviluppo economico che abbraccia ogni que­ stione di teoria e di politica economica, in una visione di insieme che dà il senso drammatico dello sviluppo e della dinamica delle forze contrap­ poste: tutto è contrasto dialettico e da questa dialettica deriva il cam­ biamento. La sua lezione è di ricercare e cogliere il senso del movimento di una società. In particolare, il ciclo di sviluppo economico e declino di una nazione, prospettato da Ibn Khaldun, porta a una riflessione va­ lida per tutti i tempi: nel corso della storia non esiste sviluppo che sia durevole nel tempo. Lo sviluppo racchiude in sé i germi del declino. Allorché l'economia naturale, caratterizzata dalla mera soddisfazione dei bisogni primari dell'uomo, si sviluppa in un'economia complessa, la sua coerenza interna vacilla. Si mette in moto un circolo vizioso di disfunzioni che porta fatalmente alla crisi. La tesi di Ibn Khaldun è che non esiste uno "sviluppo sostenibile" per la società umana, ma tutto è retto da un'irrefutabile legge di ciclicità, in cui le fasi di ascesa e declino • s1 susseguono. Per questa sua visione di insieme molti studiosi hanno visto in Ibn Khaldun un precursore della scienza economica moderna28 • Oggetto della scienza di Ibn Khaldun sono le forme della civiltà, or­ ganizzate in una scala gerarchica che non presuppone un giudizio sul loro valore bensì sulla loro complessità. Ciascun grado di civiltà è, infatti, necessario per l'esistenza di quello successivo: dall'uomo isolato alla ci­ viltà beduina (al- 'u mrdn al-badawi) , fino alla civiltà urbana (al- 'u mrdn al-hadari) , che rappresenta il centro della speculazione khalduniana. Quest'ultima costituisce l'evoluzione e, al contempo, la degenerazione della civiltà beduina: i suoi valori, spirito di corpo ( 'asabiyya ), solidarie­ tà e forza si stemperano negli agi della civiltà urbana, parallelamente al passaggio da un'economia di sussistenza a una via via più articolata. Il sistema economico è determinante per definire il grado di civiltà: nella civiltà beduina la scarsità della popolazione e le dure condizioni ambien­ tali non consentono di produrre oltre lo stretto necessario per vivere. Viceversa, la civiltà urbana è una civiltà dell'abbondanza; l'aumento de­ mografico favorisce i consumi e, grazie alla divisione del lavoro, la pro­ duttività supera di gran lunga la soglia della sussistenza. Nel pensiero di Ibn Khaldun, tra i fattori che contribuiscono a de­ terminare le differenti forme della vita associata e a condizionare lo sviluppo, l'economia svolge un ruolo fondamentale. Fulcro delle tesi economiche khalduniane è il capitolo v dedicato alla formazione della ricchezza, ma spunti di analisi economica, riguardo al rapporto città-

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campagna, alla tassazione, all'andamento dei prezzi e così via, si trovano sparsi in tutta l'opera. Ibn Khaldiin ingloba nel concetto di sviluppo i cambiamenti delle strutture economiche e sociali. La vita associata produce le forme più complesse dell'attività umana all'interno delle città. Nello stadio rozzo della società, in cui non esiste divisione del lavoro e raramente si com­ piono scambi, ognuno cerca di provvedere con la propria attività ai bi­ sogni che gli si presentano. Ma una volta che la divisione del lavoro è stata completamente introdotta, il prodotto del lavoro di ciascun uomo non può provvedere che a una piccolissima parte dei suoi diversi biso­ gni. Alla loro stragrande maggioranza provvede il prodotto del lavoro di altri uomini che egli acquista con il prodotto del suo lavoro o con il prezzo del prodotto del suo lavoro. La divisione del lavoro moltiplica per mille la produttività e così facendo rende possibile lo sviluppo eco­ nomico, ossia l'arricchimento, l'incivilimento, l'avanzamento di tutta la società. Data una particolare situazione del suolo, del clima e dell'esten­ sione di una determinata nazione, l'abbondanza e la scarsità delle sue risorse dipendono dall'abilità con cui si esercita il lavoro. Nelle nazioni civili e floride il prodotto complessivo del lavoro sociale è così grande che, benché una certa quantità di gente non lavori affatto, tutti gli in­ dividui ne risultano abbondantemente provvisti. Tuttavia la prosperità della nazione dipende dall'equilibrio tra individui occupati in un lavoro utile e quelli improduttivi, ossia il sovrano, l'esercito e i funzionari civili e militari che gli sono sottoposti. La divisione del lavoro, che permette più produzione e più efficienza, si accompagna a una crescente specializzazione produttiva e alla conse­ guente fioritura nella civiltà urbana delle arti e dei mestieri. Il progresso della produzione induce nuovi godimenti, nuovi bisogni e nuovi lussi, la cui soddisfazione diventa una necessità. Si ha così una profonda rottura con quella parte della tradizione islamica che proponeva un modello di vita piuttosto spartano. Ai fini economici, un certo grado di sperpero, la spesa in merci e consumi superflui non sono più un male, anzi diventano un elemento necessario per il corretto e continuo sviluppo del processo economico. Così il godimento e il lusso vanno rivalutati anche dal punto di vista morale. Questa differenza riflette una mutata fiducia nel futuro e nella stabilità dell'economia, e più in generale della società. Per Ibn Khaldiin il miglioramento delle condizioni di vita provoca un aumento dei bisogni:

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In una grande città il lusso aumenta [ ... ] i bisogni aumentano a causa del lusso. A causa della domanda, gli articoli di lusso diventano abituali, e in seguito ne­ cessari29.

In questo senso il lusso (tarai) acquista una valenza positiva benché rap­ presenti, comunque, il principio della corruzione fisica e morale degli • • uom1n1. Per Ibn Khaldun la ricchezza risulta dal valore creato dal lavoro e ad esso commisurato; il valore dei beni si determina mediante la quantità di lavoro spesa nella loro produzione, ossia il lavoro si rappresenta nelle merci come dispendio di forza-lavoro. Se ciò da cui l'uomo trae beneficio e profitto ha per origine' un mestiere, allora il beneficio che si ricava rappresenta il valore del suo lavoro. E questo che si intende con "guadagno", visto che nel guadagno, che non significa nulla di per sé, non c'è altro' che il lavoro. In qualche mestiere, però, al lavoro si aggiungono altri fattori. E il caso, ad esempio, del carpentiere o del tessitore : per quest'ultimo si deve tener conto del valore del filo, per il primo di quello del legno che adope­ ra. Per questo, siccome il lavoro concretamente realizzato è più consistente di quello visibile, la somma da pagare è superiore al valore del lavoro visibile. Se poi qualcosa non è il prodotto di un mestiere, il prezzo deve includere il beneficio e il guadagno che corrispondono al lavoro che è stato necessario per ottenerla, poiché non c'è guadagno senza lavoro 3 0 •

Ma identiche quantità di lavoro hanno sempre lo stesso valore? La ri­ sposta è no: i mestieri non sono tutti uguali, gli interessi di ciascuno non sono necessariamente coincidenti con l'interesse generale e il profitto va inteso in termini assolutamente antagonistici. Questo è particolarmente vero per il commercio: Il commercio è un metodo naturale di ottenere un guadagno. Tuttavia, la mag­ gior parte delle sue pratiche e dei suoi metodi sono espedienti per ottenere un profitto dalla differenza tra i prezzi di acquisto e di vendita 3 1 •

Oltre al commercio, gli altri modi di formazione della ricchezza che Ibn Khaldun classifica come "naturali" sono l'esercizio dell'agricoltura e dei • • mest1er1: L'agricoltura è propedeutica, per la sua stessa natura, rispetto agli altri modi di guadagnarsi da vivere, in quanto si tratta di un'attività semplice e intrinseca­ mente naturale. Non richiede alcuna speculazione o conoscenza teorica. [ ... ] I

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mestieri sono secondari e successivi ali' agricoltura. Essi sono compositi e scien­ tifici. Ad essi si applica il ragionamento e la speculazione. Per questo, solitamen­ te, i mestieri esistono solo tra le popolazioni sedentarie3 2 •

Modi primitivi, ossia legati a forme sociali poco evolute, di procacciarsi da vivere sono la caccia e la pesca; metodi "innaturali" sono, invece, quelli legati alla casualità, come il ritrovamento di tesori, o al potere. E il caso dello Stato, che grazie alla potestà di imperio sui cittadini riscuote le tasse, e di chi trae vantaggio dal far parte dell'entourage dei governanti o dall'avere nei loro confronti un atteggiamento ossequioso e servile. Nel giudizio di Ibn Khaldiin, l'apparato statale, non svolgendo un lavoro produttivo, ha un ruolo essenzialmente parassitario. Al suo interno la categoria meno privilegiata, e l'unica che generalmente non riesce a godere dei vantaggi economici legati al rango, è costituita dai funzionari religiosi (qadi, mufti, muezzin): questo perché l'utilità delle loro mansioni all'interno del con­ sorzio umano è percepita come tale solo da un numero ristretto di indivi­ dui e, in secondo luogo, perché l'orgoglio e l'amor proprio impediscono loro ogni forma di servilismo verso il potere. Analisi cinica questa di Ibn Khaldiin, che mostra il suo approccio "laico" allo studio dei fenomeni so­ ciali, ma riflette anche le alterne fortune della sua storia personale al servi­ zio dei sultani hafsidi di Fes e di quelli mamelucchi del Cairo. La civiltà urbana è caratterizzata dal moltiplicarsi delle arti e dei me­ stieri. Ibn Khaldun decide di occuparsi solo di quelli che classifica come necessari (agricoltura, architettura, carpenteria, filatura e cucito) o no­ bili (ostetricia, medicina, scrittura, produzione di libri, canto). Il com­ mercio, benché non elencato tra i mestieri necessari allo sviluppo della civiltà urbana, viene esaminato in questa stessa sezione. D'altro canto, in più punti della Muq addima Ibn Khaldun ha già sottolineato lo stret­ to rapporto esistente tra mercato e città. Quest'ultima deve garantirne il corretto funzionamento (controllo dei prezzi, della correttezza degli scambi, dell'igiene) attraverso il muhtasib, che esercita la hisba, mansio­ ne complessa legata al controllo dell'ordine pubblico, che Ibn Khaldiin enumera tra le funzioni religiose e amministrative dello Stato. Subito dopo il commercio viene l'artigianato, seguito dall'agricoltu­ ra e, a distanza, dai lavori salariati a cui è attribuito uno status sociale in­ feriore. L'approccio di Ibn Khaldiin al lavoro, pur dando precedenza alle arti e ai mestieri nobili, non rispecchia del tutto la posizione dominante: più che in una scala gerarchica i mestieri sono classificati a seconda della loro funzione nella civiltà urbana.

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L'agricoltura è il primo dei mestieri, in quanto si tratta di , praticato anche nelle forme più ele­ mentari di civilizzazione, che non presuppone speculazione scientifica o tecnologie avanzate. Nella civiltà urbana, la coltivazione della terra, che esige molto lavoro per fornire spesso prodotti mediocri e uno scarso reddito, è lasciata agli strati più umili della popolazione. Ciononostante Ibn Khaldiin riconosce il ruolo fondamentale dell'a­ gricoltura nella crescita della civiltà e il suo giudizio poggia su un preci­ so dato storico. Va, infatti, ricordato il ruolo preponderante del settore agricolo nelle economie preindustriali: non solo esso occupa la maggio­ ranza della forza lavoro, ma il valore della produzione agricola è assai superiore a quello della produzione industriale. Industrie e mestieri di­ pendono dal settore primario, la produzione di manufatti si caratterizza per essere legata all'agricoltura: il tessile, che è il comparto dominante della produzione industriale nel medioevo islamico, utilizza materie pri­ me di origine agricola, come le fibre tessili ( lana, canapa, lino, seta) e i coloranti vegetali. Esso fornisce il gruppo di prodotti più richiesti dal commercio locale e internazionale, dai tessuti ordinari a quelli pregiati, le seterie, i broccati d'oro e d'argento. L'industria del legname e delle costruzioni viene al secondo posto. Inoltre, buona parte del reddito dei ceti dominanti proviene dalle rendite fondiarie: fitti, canoni, imposte, corvée di cui beneficiano proprietari terrieri, "feudatari", signori, Stato centrale. Questa subalternità dell'agricoltura al potere viene sottolinea­ ta da Ibn Khaldun: Coloro che vi si dedicano sono caratterizzati dall'umiltà [ ... ]. Una delle ragioni dipende, forse, dal sottostare al pagamento di imposte con la conseguente sot­ tomissione al dominio e al controllo altrui. Chi paga le imposte è umile e po­ vero, perché qualcuno che detiene una forza superiore lo può privare di quanto gli appartiene33 •

A differenza dell'agricoltura, gli altri mestieri e le arti oggetto della speculazione khalduniana sono un fenomeno essenzialmente urbano. E nelle città che si trovano artigiani, architetti, medici, personale di servizio, scrivani, commercianti, uomini di legge, ed è nelle città che si realizzano la specializzazione del lavoro e il progresso delle tecniche. Questo è un patrimonio che si trasmette di generazione in generazione, da maestro ad allievo grazie all'apprendimento teorico e all'osservazione diretta. Una volta acquisite determinate capacità e competenze, esse diventano

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per l'artigiano un habitus ( malaka) di cui non si spoglierà mai più. Le arti e i mestieri sono frutto dell'intelligenza umana, un sapere che si tra­ smette e si perfeziona nel corso delle generazioni: Un'abitudine è una qualità radicata acquisita compiendo un'azione e ripeten­ dola più volte finché non si sia fissata fermamente. [ ... ] Un sarto, ad esempio, che ha acquisito e conosce bene l'abitudine del cucito e ha quest ' abitudine fermamente radicata nel suo animo, non sarà in grado successivamente di do­ minare l'abitudine della carpenteria o della costruzione, a meno che la prima abitudine non sia ancora fermamente radicata ed impressa34 •

L'architettura è, tra le arti maggiori, quella più legata al fatto urbano e alla domanda della committenza pubblica. Tra l'opera d'arte o di architettura e il potere esiste un chiaro nesso: il messaggio che essa veicola o la retorica che tradisce. La retorica della munificenza architettonica è fondamental­ mente a disposizione di qualsiasi regnante di modo tale che l'architettura diventa una delle espressioni del potere. Tuttavia il committente, anche se può esercitare un notevole influsso su contenuto e forma dell'opera d'arte, non è mai del tutto libero nelle sue scelte giacché spesso deve sot­ tomettersi alle tendenze e alle mode artistiche di un'epoca o di un centro artistico. Stili e tecniche di costruzione, inoltre, sono determinati dal cli­ ma e dalla maggiore o minore floridezza economica della città. Il lega­ me tra architettura e civiltà è percepito con chiarezza da Ibn Khaldun: ali'apogeo della civiltà urbana, l'architettura fiorisce. Nelle città vengo­ no costruiti non solo edifici sempre più superbi, ma anche una serie di infrastrutture, come acquedotti per garantire l'approvvigionamento di acqua potabile e per l'irrigazione degli orti e dei campi fuori dalle mura cittadine, e reti fognarie per il deflusso delle acque reflue. Il progressivo sviluppo dell'architettura è legato al potere dell'autorità pubblica e alla presenza di maestranze in grado di raggiungere livelli tecnici adeguati. Se nella fase iniziale di una dinastia esistono nel paese solo maestranze che usano sistemi più poveri e tecnicamente arretrati, si faranno venire dall'estero maestranze abili nell'opera muraria. La figura dell'architetto è dotata di caratteri professionali e di un iter formativo ben definiti. L'architettura è una scienza, basata su di un am­ pio studio di saperi collegati, come il disegno, la geometria, la matema­ tica, la fisica. In qualità di detentore di questo sapere pluridisciplinare l'architetto è in grado di rendere operative sul cantiere le sue conoscenze teoriche.

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Al pari dell'architettura, l'arte della carpenteria è fondamentale per lo sviluppo urbano. L'uso primitivo del legno nelle civiltà beduine (fab­ bricazione di archi e altre armi, di basti, lettighe e altri utensili) diventa una complessa tecnica nelle civiltà urbane attraverso cui si riescono a produrre manufatti in legno via via più raffinati. La carpenteria è inoltre fondamentale per la cantieristica navale, in questo caso l'abilità tecnica della lavorazione del legno deve associarsi a conoscenze di ingegneria. Filatura e cucito sono tra i mestieri più antichi al mondo poiché ri­ spondono a un bisogno primario dell'uomo: quello di coprirsi per ri­ pararsi dal freddo. Solo gli abitanti dei climi caldi, come le popolazioni dell'Africa nera, non hanno questo bisogno. La differenza tra civiltà be­ duina e urbana sta nella diversa complessità dei due mestieri: nella prima ci si limita alla filatura di lana o cotone con cui si producono stoffe che vengono usate per coprirsi; il cucito è invece tipico della civiltà urbana dove al bisogno primario di coprirsi si accompagna l'esigenza di abbi­ gliarsi in maniera più o meno elegante. Nella civiltà urbana della mode­ stia dell'abbigliamento beduino rimane traccia solo negli abiti indossati dal pellegrino: un semplice panno senza cuciture con cui egli testimonia il suo ritorno a Dio e il distacco dai desideri mondani. L'ostetricia è l'unica attività femminile a cui Ibn Khaldun riconosce lo statuto di professione. Si tratta di un'arte necessaria alla specie umana in qualsiasi civiltà. Senza di essa gli uomini non potrebbero venire al mon­ do. L'ostetrica, che deve essere una donna - poiché solo una donna può vedere le parti intime di un'altra donna -, è depositaria di un importante sapere medico e psicologico. Deve essere in grado di assistere la partorien­ te, facilitandole il travaglio e tutte le fasi del parto, consapevole del dolore non solo fisico ma anche psicologico che il distacco dal feto provoca alla madre. Per quanto riguarda il neonato, deve massaggiarlo per far sì che eventuali slogature provocate dal parto si ricompongano e le ossa tornino nella loro giusta posizione, deve pulirlo delicatamente con oli e polveri astringenti, liberare le cavità nasali e orali da muchi e fluidi. La posizione che Ibn Khaldun dà all'arte ostetrica testimonia il suo umanesimo: l'uomo, centro dell'universo, è al centro della sua specu­ lazione storica e filosofica. L'elemento soprannaturale è ammesso solo nelle nascite miracolose dei profeti ( Gesù e Muhammad), ma non ri­ guarda la generalità degli uomini e delle donne. Dunque, l'alto merito dell'ostetricia sta nel garantire la continuità della specie umana. A differenza dell'ostetricia, la medicina è un'arte necessaria solo nella civiltà urbana: il suo compito è quello di preservare la salute e curare

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le malattie. Ibn Khaldun individua nell'opulenza della vita cittadina la causa della malattia: l'organismo non riesce a digerire il cibo in eccesso, per cui esso si accumula nel corpo e subisce un processo di putrefazione che danneggia gli organi interni - in particolare stomaco, fegato e appa­ rato circolatorio -, il che provoca l'insorgere della febbre quale sintomo di uno stato fisico alterato. A volte la putrefazione avviene in un partico­ lare organo, che dunque si ammala. L'incidenza delle malattie è maggio­ re nelle aree urbane dove maggiore è l'abbondanza di cibo e la cucina più elaborata e indigesta. Inoltre l'aria della città è resa putrida dagli effluvi degli scarti, e questo incide negativamente sulla salute. La vita insana delle città accresce il bisogno dei suoi abitanti dell'arte medica, viceversa la civiltà beduina non ne necessita: essa garantisce un tenore di vita più sano, cibo in quantità minore e preparato in modi più semplici, aria più salubre, movimento. Nella trattazione delle arti e dei mestieri non sfugge a Ibn Khaldiin il senso del bello che accompagna lo sviluppo della civiltà urbana. La ri­ nascita urbana indica una svolta importante per la storia delle arti, dove le figure di artigiani, artisti e committenti assumono nuovi significati sociali e culturali. Il mecenatismo dei sovrani, la moltiplicazione delle biblioteche, lo sviluppo della cultura letteraria favoriscono condizio­ ni più agevoli per la trasformazione degli artigiani in soggetti dotati di una più vasta consapevolezza culturale. Emblematica è la scrittura che segna il passaggio da una trasmissione orale del sapere a una scritta, ossia il passaggio dalla civiltà beduina a quella urbana. Nel grado più alto di sviluppo urbano, cresce il ruolo di scrivani e segretari nella vita delle corti: non solo calligrafi, ma uomini di vasta cultura, in grado di dominare le sottigliezze stilistiche della lingua nel redigere ogni sorta di documenti. La trasmissione scritta del sapere si accompagna a un'adeguata pro­ duzione libraria, supportata da alcune scoperte tecnologiche, come la diffusione della produzione della carta, e dal miglioramento delle tec­ niche di ricopiatura e rilegatura. La decadenza della civiltà comporta la crisi del libro, sia nei contenuti (minore perfezione della scrittura, errori di sintassi e grammatica) sia nella qualità dei materiali che lo compongo­ no e nelle tecniche di fabbricazione. La civiltà urbana è la civiltà del bello, dell'armonia, dei piaceri intel­ lettuali: le arti del canto e della musica vi trovano perfetta collocazione, in quanto massima espressione della raffinatezza e del lusso.

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Dall 'usuraio al n1ercante Com'è ben noto, forme di "capitalismo mercantile" erano presenti già nell'Arabia preislamica, dove la classe dominante era costituita essen­ zialmente da mercanti, a differenza dei due imperi confinanti (l'impero bizantino e l'impero sasanide) dove essa era rappresentata soprattutto dai latifondisti. La Mecca preislamica conosceva pratiche e istituzioni che favorivano l'accumulazione di capitale e la classe mercantile mecca­ na, non avendo alle spalle un solido capitale fondiario, doveva svilup­ pare istituzioni che le garantissero di difendere il proprio capitale com­ merciale e di accumularne altro. In questo contesto nasce e si sviluppa l' islam. La sua vittoria avvantaggia la classe mercantile: in quanto parte dell'élite dominante i mercanti beneficiarono anche dell'acquisizione di terre che divennero un'ulteriore fonte di guadagno. La creazione di un vasto impero con gli Omayyadi e soprattutto con gli Abbasidi in­ crementa ulteriormente il commercio creando nuove rotte e amplian­ do quelle preesistenti; l'accumulazione di capitale cresce su larga scala facendo dei primi secoli del califfato abbaside (v111-x1) l' "età d'oro" dell' islam3 5 • La mentalità mercantile è, dunque, propria dell'islam. Prototipo del mercante arabo è Sindibad il marinaio, celeberrimo personaggio delle Mille e una notte: egli è il viaggiatore per eccellenza nella cultura islami­ ca come Ulisse lo è nella cultura europea. Ma mentre Ulisse viaggia per tornare in patria, Sindibad è spinto da una vera e propria febbre per il commercio. Si imbarca per la prima volta povero - dopo aver dilapidato le fortune del padre, anch'egli mercante, a causa di una vita dissoluta -, con un lotto di mercanzie modeste e 3 . 0 0 0 monete d'argento, e ritorna a Baghdad più ricco di prima, carico di merci e beni di grande valore. Il suo viaggio non è stato facile, ha corso mille pericoli e ha rischiato più volte la vita ma ora con le fortune accumulate Sindibad compra servi, schiavi, case, immobili e prende a condurre > . Eppure non è soddisfatto, presto lo assale la smania di viaggiare e commerciare: Ma il mio istinto sentì il bisogno di viaggiare e vedere altre cose e provai un ardente desiderio di commerciare, di guadagnare e di trarne utili.

Così lascia la casa, la famiglia, le comodità, la sicurezza, e si imbarca di nuovo con il suo carico di merci. Sindibad compirà ben sette viaggi, tutti

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lunghissimi, perigliosi, ricchi di avventura e alla fine coronati dal succes­ so. Nei momenti di sconforto per le molte difficoltà e pericoli da affron­ tare, Sindibad si pente e dice a sé stesso: O Sindibad il Marinaio, tu non ti ravvedi mai ; ogni volta patisci fatiche e sop­ porti disavventure ma non ti penti di viaggiare per mare : anche se ti prende il pentimento mentisci. Perciò tu meriti i patimenti che incontri e tutto quello che ti succede.

Sindibad sa che causa di tutti i suoi mali è la sua sete di guadagno: Tutto ciò mi era destinato da Dio altissimo per farmi desistere dalla cupidigia, poiché quello che stavo sopportando era da essa causato : di denaro ne avevo già molto. Divenni ragionevole e mi dissi : in questo viaggio faccio sincero atto di contrizione dinanzi a Dio Altissimo circa il viaggiare, e mai più finché sarò in vita mi verrà né in mente né in bocca la parola " viaggio" 3 6 •

Dio è clemente verso Sindibad e lo fa tornare sano e salvo anche da questo viaggio. Ma nonostante il giuramento, la passione di Sindibad è irrefrenabile e presto una forza più pressante delle sofferenze patite lo spingerà a riprendere il mare: la passione per il commercio e il guadagno. Questa figura è il simbolo del mercante musulmano che viaggia per terre lontane affrontandone tutti i pericoli, simbolo anche di una men­ talità che apprezza il commercio e il guadagno tratto dallo sforzo e dal rischio. Sindibad rivendica la libertà del mercante nei confronti del po­ tere, ai governanti spetta il compito di assicurare la pace sociale entro cui il mercante può liberamente muoversi; è un manifesto sotto forma di racconto, una dichiarazione dei diritti del mercante, l'affermazione del mercato come motore della società37• L'elevato profitto che il mercante trae soprattutto commerciando con merci rare è il giusto compenso per i rischi a cui espone la sua vita: burrasche del mare, impraticabilità delle rotte di terra, predoni, malat­ tie. Il pericolo costituisce un aspetto imprescindibile dell'attività del mercante e la coscienza del rischio e della minaccia non lo abbandona mai. I pericoli non vengono solo dalle forze della natura o da furfanti e delinquenti, esistono anche le perturbazioni del mercato, i concorrenti più o meno infidi, le molte persone con le quali il mercante entra in rap­ porti di vario genere. Per questo le lettere che i mercanti si scambiano, così come gli ammaestramenti di mercanti-scrittori, abbondano di av­ vertimenti nei confronti delle controparti: al mercante si raccomanda

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di essere costantemente all'erta, di tenersi informato sull'andamento dei prezzi, di conoscere quali sono le merci che rendono meglio e dove si fanno affari più vantaggiosi. Come già ho avuto modo di far notare, i mercanti cairoti (x1-x111 secc.) studiati da Goitein intrattengono una vasta corrispondenza in cui si scambiano informazioni sui prezzi, sui fu­ turi acquirenti, sui movimenti delle navi e delle carovane, su possibili affari lucrosi3 8 • La strada percorsa dal ceto mercantile nel mondo islamico riflette le modificazioni che in quel periodo si produssero nell'economia, nella struttura sociale e nella cultura. Il mercante diventa una figura di primo piano, portatore di nuovi valori. Sorsero anche guide pratiche dell'atti­ vità commerciale, nelle quali si elencavano le merci, le misure, i pesi, si indicavano i corsi delle monete e i dazi doganali, si davano descrizioni delle vie commerciali e delle merci. Uno dei primi manuali di tal genere è il Kitab al-tabassur bi 'l-tijdra (ix secolo, Libro del ben ponderare nel commercio) attribuito ad al-Jahiz3 9 • Un'analoga opera fu scritta da Abii '1-Fadl Ja'far al-DimashqI, il già citato Kitab al-ishara ila mahdsin al­ tijdra. Partendo dalla considerazione che il denaro è il motore dell'uni­ verso e che la ricchezza ha un indispensabile valore economico e sociale, l'autore dà consigli pratici su come riconoscere le monete vere da quelle false, su come conservare e imballare le merci, sui prezzi, su come rico­ noscere le merci più redditizie. Ai mercanti, classificati in tre categorie : il mercante all'ingrosso, l'accaparratore, il mercante-viaggiatore, l'autore dà ammaestramenti su come comportarsi con i concorrenti, con i pos­ sibili truffatori sempre in agguato, su come conservare e incrementare il patrimonio. Il denaro bisogna saperlo guadagnare ma è ancora più im­ portante saperlo spendere in modo giusto, assennato, tenendolo al sicu­ ro da tutte le possibili insidie in cui si può incappare. Nell'ultima parte dell'opera, una lettera in cui un mercante dà ammaestramenti al proprio figlio su come salvaguardare il capitale, l'autore sintetizza il comporta­ mento che deve tenere il mercante accorto: Proteggere le radici rende fecondi i rami. Quelli che perdono il loro capitale sono sempre coloro che dedicano tutte le proprie cure alla ricerca del guadagno. Di so­ lito i capitali sono portati alla rovina dall'ambizione e dal trastullarsi con ingan­ nevoli desideri e speranze, cosicché ci si fida di imbroglioni, si dà credito senza assicurarsi del ceto del debitore o aver richiesto un pegno, ci si lascia ingannare da ipocriti e truffatori, si dà fiducia a parole e vanterie senza prove. Un uomo

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saggio deve armarsi di parsimonia, dominare l'ambizione, in famiglia e nelle spe­ se limitarsi a quanto è necessario e assolutamente indispensabile per mantenere il proprio benessere, in tal modo la sua avidità si modera, la sua ambizione e la sua eccessiva tensione si temperano. [ ... ] Una cattiva spedizione della merce è comunque preferibile al fatto che coloro, che da contratto devono consegnarla, siano dei bancarottieri, persone in difficoltà economiche o astuti truffatori. Il truffatore cerca di convincerti a maggiorare il guadagno, per potersene egli stesso appropriare. Ti riempie di frottole dietro cui tu invano cerchi un fatto concreto e come ricompensa per i suoi bei discorsi ti lascia correre, ti prende in giro con promesse, e poiché per lui il giuramento è cosa facile e la vergogna gli è estranea, tu devi cercare protezione e riparo per non perdere la tua reputazione presso la gente, cosa che nel commercio sarebbe il peggiore dei guai40 •

Il pensiero economico medievale esce dai confini tracciati dall'econo­ mia naturale e pone il mercante su un gradino superiore rispetto all'a­ gricoltore e all'artigiano. I ricchi mercanti rappresentano nelle città islamiche una classe sociale potente e rispettata, vicina al potere, eppure senza acquisire mai la capacità di gestirlo o condizionarlo. Come sostie­ ne Goitein, la classe mercantile comincia a svilupparsi durante i primi centocinquanta anni dell'era islamica, emerge verso la fine del IX seco­ lo, diviene socialmente dominante nel X e un potente corpo economico nell'x1, senza tuttavia divenire mai un corpo organizzato e senza riuscire mai a ottenere come classe un potere politico, benché molti suoi membri occupassero anche posizioni di prestigio nell'apparato statale 4 1 • I comportamenti dei mercanti sono considerati un modo corretto (o almeno parzialmente corretto) di usare il denaro. Commerciare vuol dire mettere in circolazione le monete e il denaro (e più in generale la ricchezza); così, al pari della carità e dell'elemosina, il mercanteggiare garantisce una circolazione virtuosa dei beni all'interno della comuni­ tà. A differenza dell'usuraio si riconosce al mercante una buona fede e un'utilità sociale che mancano al primo. Mentre l'usuraio è dannoso al vivere comune, il mercante viene considerato - soprattutto a partire dal IX secolo - come il costruttore del benessere della comunità. Il mercante rende possibile lo spostamento concettuale del denaro da sterile moneta che non può dare frutti, a capitale produttivo a servizio del benessere di tutti. I mestieri e le professioni (dunque il lavoro di produzione) offrono le risorse necessarie per attivare il capitale dei mercanti, a cui spetta il compito di mettere in circolazione la ricchezza prodotta dalle attività. Il denaro diventa così la linfa della società: questo grazie al valore rico­ nosciuto al mercato e al suo ruolo nello sviluppo economico e sociale.

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Una società che non tollera il prestito a interesse esalta invece il mer­ cante, sia quando commercia direttamente sia quando diviene un finan­ ziatore di imprese commerciali attraverso lo strumento della commen­ da, o cambiavalute e banchiere. Il pensiero economico islamico loda la sua intelligenza nell'anticipare il valore futuro di una merce, la sua capa­ cità di investire in imprese vantaggiose. I comportamenti del mercante, la sua attitudine razionale verso i beni sono considerati come un modo fondamentalmente corretto di usare il denaro. Tuttavia l'atteggiamen­ to della società verso il mercante è estremamente contraddittorio. La predicazione degli ordini sufi mette i ricchi dinanzi a un acuto dilemma morale. Il regno dei cieli è destinato a coloro che hanno ripudiato i beni terreni e l'avidità è uno dei peccati mortali più gravi. I predicatori non si stancano di lanciare fulmini sulle teste dei cupidi e dei ricchi. Come trae il suo profitto il mercante? Acquistando la merce a un prezzo e rivendendola a uno più alto. Lucro e inganno sono costantemente in agguato e molte tradizioni profetiche ribadiscono che il mestiere del mercante non è grato a Dio, con parole che riecheggiano l'evangelico > . D'altro canto il mercante operoso è paragonabile a un combattente: come quest'ultimo egli abbandona la sua casa e la sicurezza domestica per conseguire il massimo "profitto", il mercato è il suo campo di battaglia dove egli compie il suo perso­ nale jihad contro avidità, inganno, cupidigia, sete di denaro. Queste due opposte visioni si sintetizzano nell'opera di al-Ghazali. Questi rap­ presenta la fallibilità morale e l'ambiguità del mercante, il suo costante oscillare come figura sociale tra avidità egoistica e utilità pubblica. Non siamo di fronte a un'avversione dell'autore verso il guadagno e il com­ mercio, viceversa egli considera il mercato come parte di un "ordine naturale" delle cose: solo attraverso lo "scambio" l'uomo soddisfa i suoi bisogni, il mercante costituisce l'anello di congiunzione tra i produtto­ ri ( agricoltori e artigiani) e tra produttori e consumatori. Si realizza così una società complessa in cui l'accumulazione di ricchezza è essenziale per un ulteriore sviluppo e in cui il mercato stesso - attraverso la leg­ ge della domanda e dell'offerta - definisce il "giusto prezzo". Sebbene egli enfatizzi l'importanza della cooperazione e della collaborazione, è conscio che i soggetti presenti nel "mercato" siano in competizione per massimizzare guadagni e profitti. La competizione non è di per sé un elemento negativo, anzi è la molla per ogni ulteriore progresso econo­ mico, a meno che non conduca alla gelosia e al disprezzo verso gli altri.

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Esistono tre tipi di competizione tra gli individui: una obbligatoria nel compiere i doveri religiosi per l'ottenimento della salvezza, una deside­ rabile per acquisire i beni necessari, e una permessa per acquisire beni superflui e di lusso4 2 • Elemento fondamentale che ha permesso all'uomo di uscire da una semplice economia del baratto è la moneta, che definisce il valore dei beni, quantifica i bisogni degli individui e rende agevoli gli scambi. Il contatto con il denaro rimane comunque ambiguo e fonte di peccato: non solo usura e lucrum smodato sono condannati, ma anche l'accumu­ lo di denaro va contro la legge poiché tesaurizza e riconosce valore a un bene che di per sé non ne ha, a meno che non svolga la sua funzione "na­ turale': ovvero circolare di mano in mano, facilitare gli scambi e definire i prezzi delle merci. Al-Ghazali riconosce la centralità del commercio nell'economia del mondo islamico ( ) e detta le regole di comportamento del "buon mercante": divieto di speculare sull'andamento dei prezzi delle derrate alimentari; non usa­ re monete false; non contraffare pesi e misure; non nascondere i difetti delle merci; accordare credito e agevolazioni nei pagamenti soprattutto a chi versa in situazioni di bisogno. L'autore è consapevole di come que­ ste norme - pur nella loro ovvietà e semplicità - traccino una condotta che può cozzare contro le regole del mercato. Può un mercante subire una perdita piuttosto che vendere una merce difettata? Può essere ge­ neroso verso un debitore in difficoltà se i suoi creditori esigono da lui pagamenti? La sua risposta è sì, poiché il mercante deve concepire la pro­ pria attività come un "dovere sociale': consapevole del fatto che 43 • Una visione diametralmente opposta a quella di al- Ghazali è offerta da Ibn Khaldiin . Questi considera il mercantilismo il sistema ideale, e la pro ­ fessione del mercante il trionfo dello spirito del capitalismo ; abbandona l ' idea che il successo economico sia una prova della grazia divina e che un comportamento eticamente ineccepibile sia alla base dell 'esercizio della professione del mercante (come, invece, prospettava al- Ghazali) , per passare a una visione più pragmatica. Come già al-Dimashqi, descri­ ve realisticamente incognite e benefici del commercio. Esso implica ogni sorta di rischi : naufragi e pirateria se si viaggia via mare, guerre e rapine se si procede via terra. I prezzi possono crollare all ' improvviso per la dif­ fusione di false notizie da parte di speculatori mossi dall ' intento di farli salire o scendere, per la saturazione di un mercato a seguito dell 'arrivo di carichi inattesi o per l ' improvviso crollo della domanda. A tutto questo vanno poi aggiunti i rischi del credito. Così spiega Ibn Khaldun : Il commercio è la ricerca di un guadagno attraverso l'accrescimento del ca­ pitale iniziale, comprando merci a basso prezzo e vendendole a prezzo mag­ giorato, che si tratti di schiavi, cereali, animali, o tessuti. Ciò che si ottiene in più si chiama "profitto" [ribh] . Per tentare di ottenere tale profitto si possono immagazzinare le merci e aspettare che il corso del mercato ne faccia fluttuare il prezzo verso l'alto, il che procurerà un largo profitto. Oppure, il mercante

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può trasportare la sua mercanzia in un altro paese dove ci sia maggior richiesta che nel suo ; anche questo procura un grande profitto. [ . . . ] Il profitto costitu­ isce il guadagno del mercante. Quando i prezzi di qualsiasi bene, vettovaglie, stoffe o altre mercanzie in cui si sia investito del capitale, rimangono bassi, il mercante non può trarre profitto dalle fluttuazioni di mercato ; se tale situa­ zione si protrae per lungo tempo, il suo profitto e il suo guadagno cessano. Il commercio rispetto a quel particolare tipo di merci crolla, e il mercante non ne trae altro che guai. Non ci saranno transazioni e i mercanti perderanno il loro capitale 44 •

Per le difficoltà proprie di questo mestiere, nessuno può improvvisarsi mercante. Ibn Khaldun ci fornisce un quadro preciso del tipo di cogni­ zioni e delle doti di carattere indispensabili per il successo nella carriera commerciale. Il mercante deve possedere una buona dose di coraggio ed essere preparato a correre rischi. Deve avere modi garbati e accomodanti e saper adoperare la massima cautela negli affari, al contempo deve saper difendersi e, se il caso lo richiede, anche ricorrere a qualche imbroglio: Il mercante si occupa di comprare, vendere, guadagnare denaro e trarre profitto. Questo richiede astuzia, capacità dialettiche, intelligenza, liti costanti e grande tenacia. [ ... ] Se un mercante costantemente si comporta con astuzia, questa di­ venta una qualità dominante del suo carattere. L'astuzia è una qualità lontana dalla virtù che contraddistingue re e nobili. Se poi il mercante fa sue le quali­ tà che, nei mercanti di basso rango, dipendono dall'astuzia, quali la litigiosità, l'imbroglio, la frode, così come la tendenza a commettere spergiuro nel sostenere o rifiutare affermazioni relative ai prezzi, il suo carattere sarà dei peggiori. E proprio per salvaguardare il proprio carattere che i capi politici devono evitare la pratica del commercio. Alcuni mercanti riescono a non far influenzare il pro­ prio carattere da queste caratteristiche e riescono ad evitarle, poiché essi hanno animi nobili e generosi, ma sono rari a questo mondo4 5 •

Queste eccezioni di cui Ibn Khaldun parla sono i grandi mercanti, a cui ricchezza e rango consentono di affrontare gli affari con atteggiamento più distaccato. Si tratta, in particolare, di coloro che sono dediti al com­ mercio internazionale, che ruota intorno alle merci di lusso, spezie, oro, seterie, schiavi. Esso rappresenta un settore dinamico, con grandi rischi ma anche con grandi profitti che attirano notevoli investimenti. La visione khalduniana è, dunque, più disincantata di quella di al­ Ghazali: massimizzare i profitti è vitale per il mercante e per la soprav­ vivenza del "mercato" stesso; stretto dalla dura logica del guadagno, il mercante ricorrerà a ogni mezzo pur di scongiurare le perdite: speculerà

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sui prezzi, sarà spergiuro e ricorrerà all'inganno. Per questo motivo è opportuno che i capi politici - che devono possedere alte doti morali si tengano lontani dal commercio. Eppure, nonostante le difficoltà e le mille insidie morali, nell'ottica di Ibn Khaldun la società mercantile è la grande molla dello sviluppo in quanto consente la realizzazione della di­ visione del lavoro: ricomponendo mediante lo scambio il lavoro diviso, essa permette a ciascuno di usufruire della produttività conseguita dagli altri, promuovendo l'incessante aumento della ricchezza. Lo scambio è la realizzazione della natura umana, e la società mercantile è la forma perfetta del rapporto sociale.

Stato e mercato nel pensiero economico islamico me d ievale I pensatori musulmani medievali partono dall'assunto della necessità dell'esistenza di un'organizzazione sociale in quanto l'uomo è, per na­ tura, un essere politico. L'esigenza di soddisfare i propri bisogni primari lo porta necessariamente a vivere con gli altri, da qui la nascita di organi­ smi sociali via via più complessi, che gli permettono, nei primi stadi, di soddisfare il bisogno di cibo e protezione, poi di cooperare con gli altri per difendersi dai pericoli. Gli autori tracciano una teoria dello Stato, riconoscono l'importanza politica dell'economia ed enfatizzano l' inter­ dipendenza tra politica ed economia. Nella teoria politica khalduniana, lo Stato influenza e favorisce lo sviluppo di istituzioni economiche, è uno dei principali soggetti eco­ nomici, in quanto maggior acquirente di beni e maggior monopolista. Lo sviluppo delle scienze, e di conseguenza anche delle arti e dei mestie­ ri, e il diffondersi dei beni di lusso dipendono dalla protezione e dalle politiche messe in atto dallo Stato. La sua ascesa coincide con una fase di prosperità economica, mentre il suo declino con una fase di crisi. La natura e il grado di sviluppo economico di una nazione dipendono dal carattere e dalla durata dello Stato. Questo dà l'input iniziale allo svilup­ po economico favorendo la crescita urbana, crea domanda per beni di lusso e servizi (manodopera specializzata) attraverso la spesa per i lavori pubblici 4 6 • Il capitolo intitolato La riduzione delle spese implica una riduzione delle entrate della Muqaddima si apre affermando che: > . Ma è nel 1 9 6 6, durante la terza conferenza annuale dell ' Islamic Research Academy tenutasi presso l 'università religiosa del Cairo, al-Azhar, che per la prima volta si utilizza il termine "economia islamica" per descrivere la teoria economica che si riferisce ali' applica­ zione dei principi dell ' islam. L' islam viene proposto come un sistema che racchiude principi economici in grado di influenzare la condotta degli individui e degli Stati. I principi etici ricavabili da Corano e sunna non hanno una specificità "islamica" ma rispondono a una scala di valori comune a molte religioni : tuttavia, è partendo da tali principi che l 'e­ conomia islamica dal dopoguerra agli anni settanta ha proposto l ' islam come modello alternativo al marxismo e al capitalismo. Di fronte alle tesi liberiste per cui la società è composta da individui sovrani tesi alla ricerca del proprio interesse, in concorrenza reciproca, e al filone ideo­ logico del collettivismo, alimentato dalle teorie marxiste, che auspica la realizzazione di un sistema socio -economico in cui i mezzi di produzio ­ ne siano gestiti da forme di proprietà collettiva ( cooperativa o statale ) , l ' islam propone una via alternativa che racchiude elementi di entrambi i sistemi, basata sui valori etici intrinseci alla religione islamica. Una delle prime teorizzazioni dell' islam come "terza via" fu propo ­ sta da Sayyid Abu ' 1-'A la' al-Mawdudi ( 1 9 0 3- 1 9 7 9 ) , fondatore, nell'ago ­ sto del 1 941, del gruppo a!Jamd'a al-Islamiyya ( partito islamico ) , la cui azione politica portò nel 1 947 alla creazione dello Stato musulmano del Pakistan dove, nella visione di al-Mawdudi, solo la legge islamica avreb ­ be dovuto disciplinare la vita del popolo e l 'attività dello Stato. Nel suo scritto The Economie Problem oJMan and Its Islamic Solution ( lezione tenuta all ' Università islamica di Aligarh il 20 ottobre 1 94 1 ) , al-Mawdudi prende le distanze tanto dal socialismo, di cui critica il materialismo sto ­ rico, quanto dal liberismo che promuove una morale individualista ed

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egoista, entrambi accusati di degradare l'uomo ad "animale economico", mosso dal desiderio di soddisfare i propri bisogni. Viceversa, nella concezione islamica, l'individuo non può essere staccato dal contesto sociale: nel determinare il proprio comportamen­ to economico, egli è spinto dal desiderio di raggiungere i propri obiet­ tivi così come da considerazioni di carattere morale, etico e religioso. Lo Stato islamico deve tenerne conto nel proporre adeguate strategie di sviluppo. Il programma economico tracciato da al-Mawdiidi si basa su alcune riforme tese a introdurre i principi islamici nei programmi di politica economica, in particolare il divieto dell'interesse bancario e la messa al bando delle banche convenzionali, considerate mezzi di sfrut­ tamento neocoloniale, nonché l'introduzione della zakat e del sistema ereditario islamico come misure redistributive. Per il resto, egli teorizza politiche statali a metà strada tra l'interventismo (lotta al latifondo e redistribuzione delle terre, politiche statali di sfruttamento delle risorse) e il laissez-faire, con la conseguente difesa della proprietà privata e del ruolo delle piccole imprese 6 • La visione di un''economia ' morale" proposta dall'islam radicale, vi­ cina al significato che il termine assume nel pensiero teologico dell'Eu­ ropa moderna, è legata al concetto che solo una società veramente islamica può svilupparsi e crescere economicamente in maniera equa e compatibile con i principi della shari'a, realizzando alcuni obiettivi chia­ ve: indipendenza politica ed economica, sviluppo e giustizia sociale7• Riforme economiche e riforme politiche sono dunque elementi inse­ parabili di uno stesso discorso. Questo dato emerge chiaramente dall'at­ tività e dagli scritti dei Fratelli Musulmani, organizzazione fondata nel 1928 in Egitto da Hasan al-Banna', il cui manifesto economico propone­ va una serie di misure, incluse poi in buona parte nel programma di Nas­ ser. Ideologo dei Fratelli Musulmani fu Sayyid Qutb (190 6-1966), il cui testo, al-:A.dala al-ijtima'iyya fl 'I-islam (La giustizia sociale nell'islam), apparso per la prima volta nel 1949, rappresenta una delle pietre miliari dell'economia islamica. Egli traccia un modello economico i cui punti chiave sono: il rispetto della proprietà privata; il divieto di concentrazio­ ni monopolistiche e la lotta al latifondo; il divieto degli interessi banca­ ri; la garanzia di un salario minimo per i lavoratori; una riforma fìscale che rivaluti il ruolo redistributivo della zakat8 • La nascita dei Fratelli Musulmani coincide con un grave momento di crisi economica internazionale, iniziata in Egitto già nel 1926 con la caduta dei prezzi agricoli. Le conseguenze della crisi furono gravi soprat-

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tutto per la piccola borghesia, che vide ridursi i propri sbocchi occupa­ zionali, ma anche per le masse contadine sempre più proletarizzate. I Fra­ telli Musulmani cercarono una soluzione islamica alla crisi e iniziarono a realizzare una rete di assistenza sociale. Per breve tempo furono anche alleati dei movimenti nazionalisti con i quali condividevano gli obiettivi di indipendenza nazionale e distacco dal sistema coloniale. Furono però messi fuori legge quando posero l'obiettivo, seppur in maniera non del tutto chiara e definita, della costruzione di uno Stato islamico. Il netto interesse dei Fratelli Musulmani per i problemi del mondo del lavoro li portò ad essere uno dei principali, se non il principale, por­ tavoce dei bisogni e delle aspettative del vasto e non coordinato corpo della classe lavoratrice egiziana, soprattutto nel distretto tessile di Ma­ halla al-Kubrà, che nel 1954 il governo descriveva come l'area della 9 • Essi si batterono per una riforma del diritto del lavoro che garantisse gli operai nei casi di vec­ chiaia, malattia e infortuni, e crearono una serie di società cooperative per dimostrare la praticabilità di armoniose relazioni tra lavoratori e di­ rigenti all'interno di una struttura islamica. Nacquero così nel 1947 la Società di filatura e tessitura dei Fratelli Musulmani, in cui i lavoratori erano tutti azionisti; la Società per lavori commerciali e di ingegneria, e la Società di opere commerciali. Nel 1938 venne fondata una Società per le transazioni islamiche (sharikat al-muamalat al-islamiyya) che doveva raccogliere capitali nel rispetto dei principi islamici, da investire nelle attività economiche dei Fratelli Musulmani. Rimase in vita fino al 1948. In agricoltura i Fratelli Musulmani proposero un vasto piano di ristrut­ turazione per limitare il latifondo, migliorare la gestione delle risorse e la produttività. Già prima della riforma agraria di Nasser teorizzavano una riorganizzazione della proprietà fondiaria, con la creazione di proprietà medio-piccole, la distribuzione ai coltivatori dei terreni incolti dello Sta­ to e la creazione di cooperative agricole. L'obiettivo della giustizia sociale è centrale nel pensiero economico dei movimenti radicali islamici. Per Baqir al-Sadr (1935-1980 ), sciita irache­ no - autore di un altro testo chiave del pensiero economico islamico contemporaneo, Iqtisaduna (La nostra economia), scritto tra il 1960 e il 1961 -, la giustizia sociale, basata su solidarietà ed equilibrio sociale, è uno dei principi fondanti dell'islam1 0 Le argomentazioni usate da Baqir al-Sadr, seppur influenzate dalle moderne tesi economiche, in modo particolare dai principi del socialismo, tendono a porsi all'interno di un •

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discorso "islamico': per cui egli fa spesso uso di citazioni coraniche, di tradizioni profetiche e di fonti giuridiche islamiche sciite. Baqir al-Sadr parte dall'assunto che tutti i pensieri economici concordano sull'esi­ stenza di un "problema" rispetto al quale trovare una soluzione. Secondo il capitalismo il problema è dato dalla scarsità delle risorse e dalla com­ petizione che quindi si scatena tra gli esseri umani; secondo i marxisti il problema sta nell'incongruenza che esiste tra le forme di produzione e la distribuzione. Viceversa, se si raggiunge un equilibrio tra produzione e distribuzione, si ottiene la stabilità del sistema economico. Secondo la visione islamica, Dio ha creato un mondo dotato di risorse sufficienti per tutta l'umanità: sono solo l'ingiustizia e l'ingratitudine a causare problemi economici nella vita delle persone. L'ingiustizia umana in campo economico è data dalla cattiva distribuzione dei beni, mentre la mancanza di gratitudine dell'uomo sta nel suo rifiuto di sfruttare le ri­ sorse naturali e/o nel loro cattivo utilizzo. In entrambi gli ambiti l'islam ha trovato delle soluzioni dettando regole per la distribuzione e la pro­ duzione, che si riassumono in tre fondamentali punti: rispetto della pro­ prietà privata, creazione di un sistema fiscale redistributivo ( incentrato soprattutto sulla zakat) e applicazione di un sistema legislativo islamico. La responsabilità dello Stato islamico nell'economia si esplica, in par­ ticolare, garantendo la sicurezza sociale, assicurando a tutti i cittadini la possibilità di lavorare e fornendo assistenza ai cittadini inabili al lavoro. Il principio della responsabilità sociale è alla base del principio della si­ curezza sociale, che è un obbligo collettivo e quindi fa parte dei doveri dello Stato. Esso è legato al principio islamico della fratellanza all' inter­ no della comunità e si esplica, in primo luogo, applicando i principi della shari'a. Altra espressione della solidarietà sociale è il diritto di tutti ad avere sufficienti mezzi di sussistenza: è quindi compito dello Stato occu­ parsi dei poveri e dei bisognosi. In particolare, lo Stato deve provvedere ad alcuni bisogni primari dei cittadini: cibo, vestiario, abitazione. Lo Stato islamico deve, da una parte, garantire l'applicazione dei principi della legge islamica, in particolare la proibizione dell'usura e la lotta al latifondo e alle concentrazioni monopolistiche, dall'altra colma­ re le lacune della legge islamica. Per soddisfare questo compito lo Stato deve creare un settore pubblico - formato dalle risorse pubbliche e dalle proprietà statali - che faccia da barriera contro i monopoli e garantisca i mezzi per dare assistenza e sicurezza sociale. L'autore parte dall'assunto che le differenze di classe e di disponibi­ lità economica tra gli individui siano un dato di fatto legato all'ordine

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naturale delle cose: tentare di abolirle attraverso la legislazione o alte­ rando il naturale processo delle relazioni sociali è impossibile. La giusti­ zia sociale nell'islam non corrisponde a un'uguaglianza di reddito ma a un'uguaglianza di tenore di vita. Questo significa che la ricchezza deve circolare tra i membri della comunità in modo tale da consentire a tutti un analogo standard di vita, che avrà livelli diversi ma senza replicare le contraddizioni esistenti in una società capitalista. Compito dello Stato islamico è raggiungere questo obiettivo combattendo ogni forma di stra­ vaganza e lusso eccessivi, e facendo in modo che chi ha un basso tenore di vita riesca ad averne uno più alto: si arriverà così a eliminare le diffe­ renze stridenti che, invece, esistono nelle società capitalisten . L'islam radicale è un movimento di rivolta contro il dominio culturale occidentale; in una certa misura continua a portare avanti gli ideali di indipendenza sostenuti dai movimenti nazionali, ponendo tuttavia una maggiore enfasi sull'indipendenza culturale (da qui il costante e neces­ sario richiamo all'islam) considerata necessaria per combattere la dipen­ denza politica ed economica. Su un altro livello l'islam radicale è una reazione ai drammatici effetti sociali delle riforme economiche. Gli isla­ misti cercano di affermare gli ideali morali e di coesione sociale, propo­ nendo una visione dell'islam come insieme di norme e pratiche che può favorire un armonico sviluppo economico. La crescita dell'appoggio popolare ai movimenti islamisti è frutto del loro crescente attivismo e del fatto che essi sono visti come l'unica vera forza in grado di opporsi ai deleteri effetti sociali delle riforme economiche e della crescente forbice tra ricchi e poveri. Tuttavia i movimenti islamisti non si possono consi­ derare movimenti di diseredati ma rappresentano piuttosto l'alternativa offerta da gruppi religiosi legati alle classi medie colte. Organizzazioni a sfondo religioso sono spesso le forme principali di capitale umano e sociale nel mondo islamico. Oggi i Fratelli Musulmani sono attivi in Egitto e in Giordania attraverso un capillare associazionismo a sfondo culturale e sociale; in altri paesi esistono organizzazioni analoghe, come il movimento al-:A.dl wa 'l-Ihsan (Giustizia e Sviluppo) in Marocco, o il partito al-Nahda (Rinascita) in Tunisia12 Negli ultimi decenni il pensiero economico dei Fratelli Musulmani è diventato meno radicale e ha accettato molti punti del pensiero liberista. Yusuf Kamal, professore di economia presso le università di al-Mansura e di Umm al-Qura alla Mecca, ha dettato negli anni ottanta le linee di politica economica seguite dai Fratelli Musulmani1 3 • Le sue posizioni •

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non sono dissimili da quelle già espresse in passato da altri pensatori isla­ mici ( Qutb, Mawdudi, Sadr) e le sue teorie sono ispirate a un moderato liberismo che prevede interventi dello Stato nella gestione delle risor­ se e nella sicurezza sociale. In particolare, propone l'introduzione della zakdt come elemento di redistribuzione. In risposta ai più recenti problemi economici dell'Egitto rispetto alle misure di politica economica proposte dal Fondo monetario ( tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni ecc.), Yusuf Kamal auspica un nuovo si­ stema economico mondiale che assicuri una migliore allocazione delle risorse, un'equa distribuzione e una situazione politica stabile. Il sistema dovrebbe essere congegnato in modo tale da ridurre al minimo le inter­ ferenze politiche nella sfera economica. L'islam considera la creazione di un'economia forte un dovere collettivo, cominciando dall'individuo e coinvolgendo lo Stato solo quando l'individuo non può fare da solo. L'iniziativa e la responsabilità del processo produttivo devono essere de­ volute a livello locale per alleviare i compiti dello Stato e la pressione sulle grandi città. In tutto questo l'islam rispetta gli esseri umani, la loro libertà e sicurezza; difende la proprietà privata e proibisce le nazionaliz• • • zaz1on1 se non strettamente necessarie. Sul piano delle proposte concrete dei movimenti islamisti, il persi­ stente appello al ritorno alla sharia rimane spesso a livello teorico. Il ri­ chiamo alla riapplicazione della zakdt viene fatto ribadendo la necessità che lo Stato applichi anche altre imposte e che le sue aliquote vengano aggiornate: rimane il suo valore simbolico religioso, ma nei fatti essa è profondamente mutata. Altro tratto distintivo delle proposte economi­ che dei Fratelli Musulmani è il divieto del ribd e le istituzioni finanziarie interest-Jree, queste ultime oggetto di varie polemiche. Negli anni settanta-ottanta si diffusero, infatti, in Egitto le Islamic Money Management Companies ( IMMC), legate al mercato nero di va­ luta straniera. Assicurando un tasso di cambio più favorevole di quello ufficiale, tenuto artificialmente alto dal governo, le compagnie conqui­ starono facilmente un'ampia fetta del mercato delle rimesse degli emi­ grati egiziani all'estero. Offrivano un'intermediazione finanziaria basata su contratti islamici e "dividendi" fino al 24-25% su base annua, pari al­ meno al doppio di quanto offerto dalle banche convenzionali. L'euforia che ne derivò portò a una loro rapida crescita. Per dimostrare la propria "islamicità" le compagnie si legarono a note personalità religiose e ad alcuni predicatori come il famoso Mitwalli al-Sha' rawi. Anche se i loro legami con i gruppi islamisti si limitavano a questi interventi di facciata,

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c'erano alcune eccezioni, come nel caso del gruppo al-Sharif, legato alle attività dei Fratelli Musulmani. Il governo egiziano guardava alle com­ pagnie con ovvia preoccupazione e alla fine, anche a seguito di vari crack finanziari, il parlamento emanò il 7 giugno 1988 la legge n. 146 sugli in­ vestimenti (Qdnitn talaqqi al-amwdl li-istithmdrihi, Law on Reception of Funds for Investment), che pose le compagnie sotto un più severo controllo statale e portando alla chiusura di molte di esse. Gli islamisti avevano sempre negato un diretto collegamento tra le compagnie di investimento islamiche e le organizzazioni politiche isla­ miste. D'altro canto, essi avevano anche difeso le compagnie dalla tem­ pesta che si era abbattuta su di loro pur prendendo le distanze da certe pratiche, e consideravano la legge un disastro per le ripercussioni nega­ tive che avrebbe avuto sull'economia nazionale, portando alla chiusura di molte compagnie (anche serie) che non erano in grado di soddisfare i severi requisiti previsti dalla nuova normativa1 4 •

Il pensiero economico islamico nell 'era d ella globalizzazione A partire dagli inizi degli anni settanta si assiste a una trasformazione nell'ambito degli studi: gli economisti islamici escono dalla genericità ideologica per trovare soluzioni più articolate, in uno sforzo di riflessio­ ne sulla natura, i metodi, gli scopi dell'economia islamica, volto a forni­ re solide basi teoretico-analitiche alla disciplina. Dalla metà degli anni ottanta si nota negli scritti una crescente adesione alla realtà. Questo sviluppo è legato all'applicazione pratica dei principi economici islamici in particolare nel settore bancario, grazie alla nascita delle banche isla­ miche intorno ai primi anni settanta; quasi contemporaneamente anche la politica fiscale e quella di sicurezza sociale si aprono all'introduzione di istituti islamici. Come abbiamo già visto, per la dottrina economica islamica Stato e mercato sono due meccanismi istituzionali che concorrono a determi­ nare il funzionamento di una società e ne riassumono le principali ca­ ratteristiche. Stato significa bene comune ricercato attraverso la solida­ rietà che si costruisce su un sistema etico improntato ai valori islamici; mercato significa bisogni individuali, meritocrazia, competizione. Sul singolo si sposta tutta l'attenzione degli autori più recenti, che han-

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no come idea centrale l'uomo, creatura di Dio, destinata a realizzare il progetto divino sulla terra 1 5 • Sul singolo incombe la responsabilità dell'aderenza all'islam, ma benessere spirituale e benessere materiale non possono considerarsi separatamente: per adempiere correttamen­ te agli obblighi verso Dio e svolgere il suo ruolo di vicario di Dio in terra, l'uomo deve godere di un rispettabile standard di vita, di cui deve farsi garante lo Stato1 6 • Si tratta in sostanza di un welfare state rivisitato, una concezione di Stato lontana da quella elaborata negli anni sessanta e settanta in cui il potere centrale aveva un protagonismo • maggiore. Il ruolo dello Stato è quello di garantire l'esistenza di un sostrato isla­ mico basato sui parametri della fede nell'unicità di Dio, della giustizia, della responsabilità dell'individuo, senza il quale un sistema economico islamico non può realizzarsi1 7• Per favorire il decollo di tutti i settori del sistema economico, lo Stato deve intervenire su tre livelli. 1 . Definire obiettivi, mezzi e progetti di sviluppo. 2 . Favorire l'eliminazione degli ostacoli alla crescita economica attra­ verso una serie di riforme, in particolare la riforma agraria e la regola­ mentazione dei rapporti con i capitali stranieri. 3. Promuovere la creazione del capitale sociale e industriale, scorag­ giando le concentrazioni monopolistiche e favorendo la piccola e me­ dia impresa1 8 • Gli obiettivi di sviluppo non sono realizzabili senza tener conto del fattore umano, la cui tutela è garantita nell'ambito dello Stato socia­ le, capace di affrontare allo stesso tempo il versante delle prestazioni e quello del finanziamento in base a criteri di efficacia e di equità. Gli in­ terventi di welfare devono essere modulati in base a criteri di urgenza sociale: lotta alla povertà, famiglia, formazione e inserimento lavorativo. L'importanza della solidarietà sociale nella concezione islamica deriva anche dal principio secondo cui l'uomo, in quanto rappresentante di Dio sulla terra, altro non è che l'affidatario delle risorse terrestri: queste appartengono in ultima istanza a Dio e sono un bene collettivo di cui tutti (le generazioni presenti e quelle future) hanno il diritto di godere. Da qui la logica del rifiuto della competizione "cannibalistica" proposta - secondo l'ottica islamica - dal neoliberismo e la sua sostituzione con una "competizione cooperativa". Gli economisti islamici contemporanei ravvisano nella razionalità mercantile proposta dal capitalismo interna­ zionale e dalla spinta alla globalizzazione una nuova forma di imperia­ lismo, un impulso alla crescita che non ha per finalità i bisogni sociali

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o individuali ma diventa fine a sé stesso; l'umanità appare sempre più dominata da questa razionalità mercantile che privilegia le funzioni eco­ nomiche e appare retta dai valori di efficienza e redditività. In questa ideologia la ragion d'essere di una cultura economica e politica è di con­ quistare, come individui e come nazioni, spazi vitali. Gli strumenti per meglio conquistare questi spazi sono il denaro, il successo, la competiti­ vità e l'individualismo. Esiste una visione per la quale il fine giustifica i mezzi e individui e risorse naturali non sono che pedine nello scacchiere internazionale. Viceversa, secondo Umar Chapra, tra i più noti economisti islamici dei nostri tempi, i paesi islamici hanno bisogno di un differente sistema economico capace di garantire il benessere economico e soddisfare in­ sieme l'esigenza di fratellanza e giustizia. Il sistema dovrebbe essere in grado non solo di rimuovere le disuguaglianze, ma anche di assicurare una giusta riallocazione delle risorse in modo tale che siano assicurate sia l'efficienza che la giustizia. Dovrebbe essere in grado di motivare i sog­ getti ad attenersi ai suoi principi e ad agire non solo nel proprio interesse ma anche in quello della collettività. Tale riposizionamento del sistema economico è possibile solo attraverso riforme di politica economica e sociale tali che nessun individuo o gruppo possa trarre un ingiustificato vantaggio violando i principi base del sistema. Per creare un equilibrio tra scarsità di risorse e bisogni è necessario focalizzarsi sugli stessi esseri umani piuttosto che sul mercato e sullo Stato. Gli esseri umani non pos­ sono diventare destinatari e mezzi di un sistema economico a meno che esso non sia basato su una visione d'insieme ( una Weltanschauung) che restituisca loro un posto centrale. Socialismo e capitalismo non danno importanza all'essere umano e non incorporano i principi di fratellan­ za, giustizia socio-economica e rispetto delle risorse naturali. L'islam ha una Weltanschauung e una strategia armoniche con i suoi principi religiosi (maqasid al-shari'a) , che sono in grado di fornire una guida per una soluzione giusta e attuabile dei problemi che i paesi islamici si tro­ vano ad affrontare, partendo dal presupposto che ci sia la volontà poli­ tica di adottare gli insegnamenti islamici e implementare delle riforme coerenti con tali principi. Dato che le economie di molti paesi islamici sono ancora in via di sviluppo, non dovrebbe essere difficile - sostiene l 'autore - adottare un nuovo progetto e riorientare i sistemi economici e finanziari1 9 • Lo sviluppo non è, dunque, un fatto meramente economico; fede ed etica hanno un ruolo fondamentale nella crescita di una regione. Alcuni

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autori, tra cui 'Adil Husayn e 'Abd al-Hamid al-Ghazali, sottolineano come il successo delle "T igri asiatiche" dipenda anche dal confuciane­ simo. Il modello di sviluppo adottato dal Sud-est asiatico, e in modo particolare dalla Corea, diventa un riferimento per gli islamisti negli anni ottanta. Le T igri asiatiche sono ammirate per aver saputo propor­ re un proprio modello di sviluppo, guidato da uno Stato forte e non sottoposto a ingerenze esterne. I paesi islamici si trovano in una posi­ zione arretrata poiché hanno imitato il modello socialista o il modello liberista di sviluppo: in questo sforzo di adeguamento a un modello di importazione occidentale si sono allontanati dai veri sentimenti della popolazione e dalla propria eredità culturale. Fede, solidarietà e una forte morale possono fare da volano per lo sviluppo economico poiché creano unità e spirito di sacrificio20 Per gli economisti islamici il discor­ so religioso si integra con quello economico, tenuto conto che etica e morale sono elementi fondamentali della realtà sociale ed economica. Il risveglio dell'islam richiede un fondamentale processo di decostru­ zione e ricostruzione che comporta l'islamizzazione del pensiero e della conoscenza (quello che l'economista Masudul A. Choudhury chiama "processo sciuratico"); una collaborazione inter-istituzionale e scientifi­ ca attraverso lo sviluppo e l'applicazione di un'epistemologia coranica; la realizzazione di una teoria e pratica dell'economia politica islamica che deve conseguire dall'applicazione della metodologia derivante dal processo sciuratico, in base al quale devono essere ricostruite tutte le isti­ tuzioni islamiche, incluse quelle finanziarie21 Il pensiero economico islamico contemporaneo pone come assoluta l'opposizione tra comunità musulmana e non musulmana. L'applicazio­ ne dei principi proposti contrasta con la realtà economica transnaziona­ le in cui i paesi islamici, nella maggioranza dei casi, sono inseriti. Detto questo, possiamo concludere che gli economisti islamici sono contrari alla globalizzazione? La risposta è complessa. Essi si oppongono a tutti quegli aspetti della globalizzazione che comportano forme di neoimpe­ rialismo, di omologazione culturale e di sfruttamento ai danni dei paesi in via di sviluppo. Tuttavia riconoscono che i processi di globalizzazione non possono essere fermati e che di per sé sono neutri, infatti anche se aumentano la competizione tra culture e civiltà, tale competizione può essere positiva, soprattutto se si applicano i principi dell'economia isla­ mica. L'islam è, infatti, un progetto onnicomprensivo. Secondo Choudhury è necessario realizzare un movimento di glo­ balizzazione ummatico ( ossia basato sul concetto islamico di comunità, •



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umma) , con il preciso intento di promuovere e mettere in pratica un pro­ cesso ummatico di cambiamento. Nella formazione di tale ordine, in cui sono sottesi i principi della partecipazione e del bene comune, la com­ prensione metodologica e l'applicazione della sharta devono avere un ruolo chiave nel processo di globalizzazione e di sviluppo delle istituzioni finanziarie islamiche. La prassi di un'evoluzione creativa attraverso l' in­ terazione e l'integrazione nella metodologia dell'unità della conoscenza (tawhid) forma un linguaggio unico per tutti i sistemi socio-scientifici, nonostante la diversità dei problemi che emergono. La globalizzazione ummatica si propone come alternativa alla globalizzazione capitalista. Secondo l'autore la globalizzazione, in quanto regime neomercanti­ lista portato avanti in un contesto eurocentrico, è parte della filosofia, dell'individualismo metodologico e del comportamento istituzionale dell'Occidente. Essa non può essere implementata al di fuori del mondo occidentale. A questo punto l'autore si chiede quale possa essere la pro­ spettiva islamica della globalizzazione. Il processo di globalizzazione, in questo contesto filosofico, implica la convergenza di un infinito ciclo di discorsi tra agenti diversi per una migliore comprensione e realizzazio­ ne della sharia, mentre l'assioma del tawhid ( unità) resta il fondamento immutabile di tali dinamiche. Dal punto di vista islamico, l'idea di glo­ balizzazione si basa sull'universalità della legge religiosa e sull'assioma dell'unità di Dio. Gli aspetti istituzionali della globalizzazione, da una prospettiva islamica, si concretizzano attraverso la shurd (consultazione), che tende a influenzare non solo il comportamento politico ma anche quello economico verso una maggiore responsabilità collettiva. Attra­ verso regole elaborate in base ai principi della shura. sarà possibile attuare una trasformazione dei principali comportamenti e attività dell'ordine socio-economico. L'applicazione di un processo shuratico alla globaliz­ zazione presuppone meccanismi up-down e down-up di consultazione a livello sia micro che macroeconomico. Un tale schema cooperativo si oppone al modello occidentale basato su uno schema competitivo. Sul­ la scorta di tali principi, il raggiungimento del benessere sociale è uno sviluppo collettivo autosufficiente, complementare alla crescita di una diversità ummatica. Una volta stabiliti all'interno della umma (comuni­ tà), questi principi si estenderanno naturalmente a tutto il mondo: que­ sto risulterà dall'interazione tra istituzioni islamiche (l'autore prospetta un'Islamic World Trade Organization) e occidentali. Come si può realizzare una globalizzazione islamica? Bisogna partire da due cambiamenti strutturali: in primo luogo adottare un processo

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shuratico che coinvolga tutti gli aspetti della società, all'interno del quale realizzare un modo di pensiero shuratico, così come un'organizzazione e un'azione shuratica all' interno di grandi organismi internazionali isla­ mici, come l'Organizzazione della cooperazione islamica e la Banca isla­ mica per lo sviluppo. Qualora questo non fosse possibile, bisognerebbe creare istituzioni alternative in grado di sviluppare una globalizzazione islamica all'interno di un radicale cambiamento democratico. Secondo l 'autore, senza questo cambiamento in senso islamico i paesi dell'area islamica rimarranno sempre sottomessi ai modelli proposti dall'Occi­ dente. Una coscienza politica dell'importanza di questo cambiamento è essenziale per uscire dalla sfera di influenza occidentale. L'autentico significato e modus operandi islamico della globalizzazione si formaliz­ za nella cornice di un processo shuratico di cambiamento e sviluppo: la condizione affinché ciò avvenga è la creazione di un epistema del tawhid nell'ordine socio-scientifico. Questa evoluzione della conoscenza pre­ suppone l'evoluzione in senso democratico dei paesi islamici e delle loro istituzioni in virtù del processo shuratico. Pensiero, comportamento, metodi, istituzioni e dinamiche socio-scientifiche, nella cornice del pro­ cesso shuratico, possono influenzare in maniera sostanziale il mercato, e i concetti di privatizzazione e globalizzazione assumere quindi un au­ tentico significato islamico. La solidarietà islamica globale può quindi estendersi prima a livello della comunità per poi aprirsi al resto del mon­ do. Ma allo stato attuale, il mondo islamico è in grado di realizzare un processo di globalizzazione islamico? Secondo l 'autore, il fatto che non esistano tracce di una "globalizzazione islamica della umma" è dovuto tanto al modello di globalizzazione eurocentrico adottato dagli stessi Stati dell'area islamica, che è per sua natura competitivo e individuali­ stico, quanto al fatto che quasi tutti i governi attualmente in carica nei paesi islamici non hanno una legittimazione islamica2.2. . L'islam ha una proposta di globalizzazione orientata a un umanesi­ mo planetario, in quanto rifiuta di considerarla come una conseguenza necessaria delle logiche di mercato. Si tratta invece di una scelta, o di una convergenza di scelte diverse, e non di meccanismi deterministici. Governare la globalizzazione, evitare che da tale processo possa derivare un aumento delle disuguaglianze e della povertà diviene un problema di fondamentale importanza, al quale ricollegare la possibilità di un recu­ pero delle economie deboli e l'avvio di una fase di sviluppo dei sistemi internazionali che consenta il conseguimento degli obiettivi sociali at­ traverso una più equa ripartizione delle risorse.

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L'intento è quello di promuovere innovazioni in grado di ridurre le asimmetrie, di eliminare condizioni di vita a volte inaccettabili, avvian­ do trasformazioni che rendano tutti gli uomini del pianeta partecipi delle risorse e delle potenzialità di cui esso dispone. Il richiamo all'etica diviene il principio universale dell'azione: essa assume la peculiare va­ lenza di parametro fondamentale per regolare in modo nuovo i rapporti economici. Non solo, l'etica si propone anche come guida per scelte ade­ guate sotto il profilo della razionalità e per l'individuazione di modelli idonei a risolvere problemi sociali ed economici.

Banche e finanza islatniche A fronte dei processi di globalizzazione, percepiti come ingombranti forme di neocolonialismo, la finanza islamica propone un proprio mo­ dello di crescita finanziaria in cui economia di mercato ed etica islamica trovano una sintesi. Siamo di fronte a un primo esempio concreto di via islamica allo sviluppo. Tuttavia la legittimità "islamica" di tale istitu­ zione viene spesso contestata all'interno degli stessi movimenti islami­ sti con l'argomento che le banche islamiche sono mezzi per investire i "petrodollari" piuttosto che motori di uno sviluppo islamico. Viceversa, intellettuali laici le vedono come un tentativo di insabbiare le ingiusti­ zie sociali presenti nel mondo islamico approfittando dell'ingenuità dei musulmani più devoti2 3 • Modello di crescita islamica o semplice opera­ zione di facciata? Cosa sono veramente le banche islamiche? Partiamo da un'altra domanda: usura e interesse bancario sono davvero inscindi­ bili nella visione islamica? La discussione sulla liceità degli interessi bancari prende forza in Egitto verso la fine del 180 0 quando, di fronte al diffondersi di banche e capitali stranieri che fanno da supporto allo sfruttamento coloniale del paese (nel 1898 viene fondata la National Bank of Egypt), la nascita di un sistema bancario nazionale viene considerata dalla borghesia locale come un primo passo verso l'autonomia. Si fa così strada l'esigenza di distinguere tra usura e interessi banca­ ri. Nel dibattito si individuano quattro vie per legittimare gli interessi dal punto di vista islamico: si invoca il principio della necessità cogente (darura) che permette comportamenti altrimenti vietati; si considera usura solo il raddoppio del capitale; si considera lecito percepire inte­ ressi su capitali utilizzati in investimenti produttivi; si tenta di classifi-

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care l'usura come un atto semplicemente riprovevole (makruh) e non vietato (hardm ). Nella discussione su usura e interessi bancari intervie­ ne la celebre rivista "al-Manar" ("Il Faro"), fondata al Cairo nel 1898 da Rashid Rida (m. 1935), allievo del modernista e riformatore Muhammad 'Abduh (m. 190 5). L'esegesi dei versetti relativi all'usura proposta da "al­ Manar" sottolinea come il Corano faccia riferimento a una particolare pratica in uso nel periodo preislamico, consistente nella novazione del credito in cambio del raddoppio del capitale prestato, pertanto la locu­ zione coranica al-riba ( usura) non deve essere intesa come "incremento" sul capitale in senso generale2 4 • Nel 1901 le poste egiziane aprono le prime casse di risparmio (sunduq al-tawfir) , che distribuiscono un interesse del 2,5% sui depositi, ma circa un terzo dei risparmiatori rifiuta di percepire interessi sui propri conti per motivi religiosi. Viene così formata una commissione, presieduta da Muhammad 'Abduh, per trovare una soluzione. La rivista "al-Manar" conserva parte dei colloqui intercorsi tra il direttore generale delle po­ ste e lo stesso 'Abduh. Questi afferma che i contratti di deposito stipu­ lati dalle poste non rientrano nella categoria dei contratti usurai, ma vanno classificati piuttosto come contratti di mudaraba (commenda): in essi, infatti, non si parla di un interesse definito in percentuale, ma di un profitto. 'Abduh distingue tra "usura" e "partecipazione agli uti­ li", stabilendo che l'interesse bancario è lecito in quanto si tratta di un "dividendo": il depositante contribuisce con il suo denaro alle attività dell'istituzione finanziaria, corre i rischi di eventuali insuccessi ed è, pertanto, legittimato a beneficiare di una quota dei profitti prodotti2 5 • Questa interpretazione emerge anche dalla procura che i risparmiatori firmano al momento del deposito in cui autorizzano 26 • Sulla scorta del parere espresso da Muhammad 'Abduh, Rashid Rida emette nel 1904 una nuovafatwa rimasta una pietra miliare nel cammi­ no verso la distinzione tra usura e interessi bancari: Sappiamo che Dio nel Suo Libro non ha vietato che il riba al-nasi'a, ossia l'e­ sigere un surplus in cambio di una novazione del credito ; esso ha come conse­ guenza l'aumento indiscriminato del capitale prestato, la distruzione dei foco­ lari domestici, la scomparsa della clemenza e dell'aiuto reciproco tra le genti. Usura [riba] è il denaro che si prende in contropartita per la novazione del ere-

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dito. [ ... ] Non rientra in questa definizione quanto si somma al capitale sotto forma di profitto in seguito alla sottoscrizione di un contratto di deposito.

Nell'esprimere la propria opinione legale Rashid Rida si basa sui se­ guenti punti: l'usura effettiva (ribd haqiqi) consiste nel raddoppio del capitale in cambio della novazione del credito; il Corano fa riferimento all'usura come al-ribd, dove l'utilizzo dell'articolo determinativo (al) sta a significare che si tratta di una forma specifica, ossia dell'usura praticata in epoca preislamica. Per questa categoria di usura Dio minaccia pesanti pene ultraterrene, simili a quelle riservate a coloro che hanno commesso peccati gravi. L'interesse bancario, viceversa, non arreca alcun danno al prossimo, dunque non può essere identificato con l'usura vietata dal Co­ rano. La fondazione delle casse di risparmio egiziane, sottolinea Rashid Rida, è un beneficio (maslaha) per gli egiziani che possono così liberarsi dal giogo finanziario europeo, e i contratti di deposito si devono clas­ sificare come contratti di società (shirka) piuttosto che come contratti usurai27• La discussione sulla liceità degli interessi bancari continua per tut­ to il Novecento. Secondo il noto giurista dell'Azhar, Mahmiid Shaltiit (18 9 3-1963), è vietata solo l'usura che consiste nel raddoppio del capi­ tale, mentre un ragionevole interesse percepito sui conti bancari è da ritenersi lecito. Egli ribadisce che il Corano ha vietato l'usura che porta al raddoppio del debito; l'interesse bancario, pertanto, non rientra nel divieto coranico. Inoltre, depositare il proprio denaro presso le casse di risparmio egiziane comporta una serie di vantaggi sociali: non solo il risparmiatore investe il proprio capitale in modo razionale mettendo­ lo al riparo dalle perdite, ma l'utilizzo di tale capitale in investimenti produttivi porta benefici sia alle poste che all'intera nazione. Nel 19 57 egli emette unafatwd in cui critica la posizione dei giuristi che conside­ rano illegale anche un basso tasso di interesse equiparandolo all'usura, ribadendo che i progressi economici hanno richiesto l'uso di forme con­ trattuali prima sconosciute che sono legali nella misura in cui i precetti coranici di lecito e illecito vengono rispettati. L'interesse bancario, egli scrive, non è paragonabile all'interesse sul credito, considerato usura e proibito dalla legge; esso è un incoraggiamento al risparmio e alla coo­ perazione, comportamenti entrambi approvati dalla shari'a 28 • Di nuovo, nel 19 8 9, un altro shaykh dell'Azhar, Muhammad Tantawi, ripropone la discussione sulla liceità dell'interesse bancario. In quell' an­ no, la Banca nazionale egiziana aveva emesso dei titoli di fondi di inve-

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stimento (shahaddt al-istithmdr) che nell'arco di un decennio avrebbe­ ro fruttato consistenti interessi. Si trattava di un tentativo di rendere attraenti gli investimenti nel settore pubblico. Tali titoli suscitarono le critiche di esponenti delle banche islamiche. Tantawi, in aperta oppo­ sizione con il sistema bancario islamico, che considerava un'iniziativa di pura facciata, emise una fatwd a sostegno dei titoli di Stato, argo­ mentando che essi venivano emessi a fronte di operazioni condotte a vantaggio di tutti i cittadini al fine di finanziare piani di sviluppo na­ zionali e rafforzare la propensione al risparmio. Entrambi questi scopi rispecchiano il principio islamico che invita a promuovere comporta­ menti virtuosi utili per l'intera comunità e a reprimere i comportamenti dannosi, pertanto gli interessi riscossi sui titoli pubblici statali devono essere considerati leciti in base ai dettami della shari'a. Essi vanno classi­ ficati come utili ( 'awa'id) , poiché rappresentano sia la quota di profitto spettante a ciascun risparmiatore sia un incentivo alla mobilizzazione del capitale come strumento di solidarietà e di cooperazione sociale2 9 • Nonostante la solidità giuridica degli argomenti portati da giuristi e teologi a sostegno della liceità degli interessi bancari nel corso del No­ vecento, il dibattito non può considerarsi concluso e l'opinione secon­ do cui gli interessi bancari rappresenterebbero, comunque, una forma di usura continua a trovare sostenitori. In unafatwd emessa nel 1979, lo shaykh dell'Azhar, Jad al-Haqq, ribadisce l'illegalità degli interessi ban­ cari: solo nel caso in cui essi non vengano fissati, i contratti bancari sono legittimi. La nascita del sistema bancario islamico si colloca, dunque, nell'ambi­ to di un dibattito religioso rimasto aperto, a differenza di quanto invece avviene sul piano giuridico dove la questione della liceità degli interessi (di mora e bancari) è stata positivamente risolta nei codici di diritto civile e commerciale dei paesi arabi. Partendo dal precetto islamico per cui non può esserci guadagno senza condivisione del rischio, il sistema bancario islamico si propone di eliminare il ricorso ali' interesse come forma di remunerazione del capitale, sostituendolo con forme contrattuali parte­ cipative3 0. Sebbene si tratti di un'istanza prettamente religiosa, i motivi che portano alla nascita del sistema bancario islamico non prescindo­ no da considerazioni di natura economica: in particolare l'esigenza, da parte dell'Arabia Saudita e degli altri paesi arabi produttori, di trovare una nuova fonte di investimento per le rendite petrolifere moltiplicatesi dopo il boom nel 1973 del prezzo del petrolio. L'attività bancaria islami­ ca, cominciata su scala ridotta nei primi anni sessanta in Egitto e Malay-

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sia, conosce infatti una decisa accelerazione negli anni settanta, grazie al sostegno e alle iniziative di alcuni Stati islamici. Nel dicembre del 1973 ventisette Stati islamici firmano a Gedda un accordo per la creazione di un istituto finanziario intergovernativo con il compito specifico di pro­ muovere lo sviluppo usando strumenti finanziari islamici. L'anno succes­ sivo nasce la Banca islamica per lo sviluppo (Islamic Development Bank, IDB), con l'obiettivo di promuovere lo sviluppo socio-economico nei paesi membri dell'Organizzazione della conferenza islamica (l'attuale Organizzazione della cooperazione islamica) e in tutti i paesi dove vivo­ no minoranze musulmane. Principali sottoscrittori del capitale dell'IDB sono Arabia Saudita, Libia, Iran, Nigeria, Qatar, Egitto, Turchia, Emira­ ti Arabi e Kuwait. Oggi la mission dell'IDB appare soprattutto orientata verso la cooperazione allo sviluppo nei paesi islamici più poveri, pur man­ tenendo al contempo grande attenzione per la promozione del commer­ cio e dell'integrazione economica tra i 56 Stati membri3 1 • Negli anni settanta nascono le principali banche islamiche private: nel 1973 la Philippine Amana Bank, nel 1975 la Dubai Islamic Bank, nel 1977 la Faysal Islamic Bank of Egypt, nel 1977 la Kuwait Finance House. Negli anni ottanta comincia la trasformazione di molte banche islami­ che in holding finanziarie: nel 1981 viene costituito alle Bahamas il Dar al-Mal al-Islami Trust, con capitale di maggioranza della famiglia reale saudita; nel 1982 nasce a Gedda il gruppo al-Baraka e nel 1981-82 il grup­ po al-Rajhi, con capitale dell'omonima famiglia saudita. Attualmente si stimano oltre 30 0 banche commerciali ( tra islamiche e convenzionali con sportelli islamici) e oltre 120 banche d'investimento presenti in quasi 50 paesi con un ammontare di asset che supera gli 80 0 miliardi di dollari. Secondo un recente report dell'agenzia internaziona­ le di rating Standard & Poor's, l'asset delle banche islamiche è cresciuto del 28,6% tra il 20 08 e il 20 09, passando da 639 miliardi a 822 miliardi di dollari: questa stupefacente crescita, in un periodo di crisi della finanza internazionale, sta ponendo sempre più la finanza islamica, che rimane comunque un fenomeno di nicchia, alla ribalta della scena economica e sta attirando l'attenzione degli investitori anche non islamici3 2 • L'evoluzione del sistema bancario islamico non è stata omogenea in tutti i paesi né la creazione di istituti finanziari islamici è stata sempre favorevolmente accolta. Mentre i paesi del Golfo, soprattutto Bahrain e Dubai, sono diventati importanti centri, anche ojf-shore, per la finanza islamica, in Egitto e Turchia la sua nascita ha suscitato riserve in quan­ to sponsorizzata soprattutto da movimenti e partiti di matrice islamica.

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In Arabia Saudita, il paese che più di altri ha promosso la nascita del­ la finanza islamica, la creazione di un sistema bancario islamico è stata avversata proprio dalla principale autorità monetaria del paese, la Saudi Arabian Monetary Agency (sAMA), in base a una paradossale logica per cui, permettendo la creazione di un istituto bancario islamico, si sarebbe ammesso che in realtà nel paese, dove gli interessi bancari sono formal­ mente vietati, operava un sistema di banche convenzionali camuffate. Le prime banche islamiche con capitale saudita ( il gruppo Faysal, il grup­ po al-Baraka) potevano operare solo all'estero; solo nel 1988 la SAMA ha accordato alla banca islamica della famiglia al-Rajhi, che ne aveva fatto richiesta fin dal 1983, il permesso di operare nel paese. Oggi esistono nel paese varie banche islamiche, mentre le banche convenzionali hanno pro­ gressivamente lanciato sul mercato fondi compatibili con l'islam che, già nel 2 0 0 1, hanno raccolto il 43% degli investimenti totali in fondi comuni. I governi di Pakistan, Iran e Sudan hanno provato con interventi dall'alto a islamizzare completamente il sistema bancario del paese, con risultati non del tutto soddisfacenti. In Pakistan il processo di isla­ mizzazione del sistema bancario inizia nel 1979, dopo il colpo di Stato (1977) che portò al potere il generale Zia ul-Haq, con l'eliminazione di ogni transazione basata sull'interesse nelle operazioni dell' House Building Finance Corporation e del National lnvestment Trust e nei fondi a capitale variabile dell'Investment Corporation of Pakistan. La più complessa conversione delle attività delle banche commerciali ha avuto inizio due anni dopo, nel 1981, con l'offerta presso tutte le filiali delle cinque banche commerciali nazionali di conti e depositi basati sul sistema islamico. Fino al 1985 i risparmiatori potevano ancora scegliere se mantenere i propri risparmi in depositi fruttiferi o in depositi basati sulla partecipazione ai profitti e alle perdite (pro.fit-loss sharing, PLS ) . A partire dal luglio di quell'anno nessuna banca pakistana è autorizzata a effettuare operazioni basate sull'interesse, fanno eccezione i depositi in valuta estera che continuano a generare interessi. In Iran l'islamizzazione del sistema bancario prende avvio nel 1983 con la "legge sulle operazioni bancarie non usuraie" che imponeva alle banche convenzionali di convertire i depositi, entro un anno dall'appro­ vazione, in attività non basate sull'interesse, ed entro tre anni tutte le altre operazioni. L'abolizione dell'interesse è stata però solo parziale in quanto esso rimane nelle transazioni bancarie con l'estero. Si è sviluppa­ to, inoltre, un settore bancario informale che fa largo ricorso ai tassi di interesse. In Sudan il processo di islamizzazione dell'intero sistema han-

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cario è stato discontinuo e disomogeneo a causa della difficile situazione politica del paese. Un primo tentativo, attuato nel 1984 con l'emanazio­ ne di un decreto presidenziale che imponeva alle banche commerciali di convertire tutte le proprie attività basate sull'interesse in operazioni compatibili con i principi islamici, si è interrotto solo un anno dopo. La legge è stata ripristinata nel 1990, mentre nel 1992 è stata emanata una disposizione più ampia che prevede l'islamizzazione dell'intero sistema bancario del paese, compresa la parte pubblica. Oggi tutte le banche su­ danesi utilizzano modalità di finanziamento islamiche. La strada adottata da Pakistan, Iran e Sudan non ha portato ai risul­ tati sperati: il sistema bancario islamico ha avuto scarse ricadute positi­ ve sull'economia nazionale, senza considerare che le riforme sono state solo parziali sia a causa dell'instabilità politica (Sudan) sia per le molte deroghe concesse al sistema convenzionale (Iran e Pakistan), che di fatto non è stato intaccato (in Pakistan 1'8o % dei depositi è in valuta stranie­ ra e pertanto può generare interessi) o continua a operare nel settore informale. Più positivi sono i risultati nei paesi che hanno adottato si­ stemi misti, in cui convivono banche islamiche e banche convenzionali. Esempio significativo è la Malaysia, dove la legislazione e la regolamen­ tazione delle banche islamiche vanno di pari passo con quelle relative al sistema convenzionale. La base per la creazione delle banche islamiche è l'Islamic Banking Act (IBA) del 7 aprile 1983. L'IBA conferisce alla banca centrale (Bank Negara Malaysia, BNM) un potere di regolamentazione e vigilanza analogo a quello esercitato sulle altre banche autorizzate. Nel 1983 entra in vigore il Government Investment Act che autorizza il governo della Malaysia all'emissione di Government lnvestment Cer­ tificate (GI C), titoli basati sulla legge islamica. La prima banca islamica è la Bank Islam Malaysia Berhad (BIMB) fondata il 1 ° luglio 1983. Nel 1999 inizia la sua attività la seconda banca islamica, la Bank Muamalat Malaysia Berhad (BMMB). Il 4 marzo 1993 la BNM lancia un programma noto come "Programma bancario senza interesse" che mira alla crea­ zione di un sistema bancario islamico che operi in parallelo con quello convenzionale. Attualmente più di 20 banche e società di investimento offrono sul mercato servizi bancari islamici. Il sistema bancario islamico della Malaysia è stato uno strumento di crescita economica e innova­ zione finanziaria e ha contribuito a fare del paese un importante centro finanziario internazionale. La strategia usata dal governo malese - dia­ metralmente opposta a quella delle riforme calate dall'alto di Pakistan, Iran e Sudan - si è basata sulla graduale diffusione del sistema bancario

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islamico, permettendo a risparmiatori e investitori di apprezzarne i van­ taggi in un contesto di libera concorrenza con le banche convenzionali, che spesso hanno optato per l'apertura di sportelli islamici in modo da attrarre la clientela musulmana33 • Da alcuni decenni, anche in Europa si assiste alla presenza sempre più attiva e significativa di banche islamiche e "sportelli islamici" aperti presso banche convenzionali e dedicati alla clientela islamica. In parti­ colare, Londra è divenuta il più grande centro internazionale per la fi­ nanza islamica al di fuori del mondo islamico: alle banche islamiche, soprattutto asiatiche e dei paesi del Golfo, vengono offerti una serie di servizi di gestione di tesoreria, e molti importanti fondi islamici vengo­ no promossi e gestiti proprio nella piazza di Londra. Inoltre, da qualche decennio, grandi banche convenzionali, tra cui l'H SBC, si sono specia­ lizzate nell'offerta di prodotti dedicati alla clientela islamica. Tra questi ha avuto particolare successo il piano manzi! (lett. focolare domestico, casa) per l'acquisto della casa, introdotto per la prima volta nel 1997. Si tratta di un'alternativa islamica al mutuo per l'acquisto di un immobile in cui la banca finanzia il cliente non erogando un prestito ma acquistan­ do per suo conto l'immobile e mettendoglielo a disposizione attraverso gli strumenti della murabaha e dell' ijara. In base allo schema manzi! murabaha il cliente sceglie l'immobile e si accorda sul prezzo, quindi si rivolge alla banca per il finanziamento. La banca, una volta eseguita una valutazione indipendente dell'immobile e accertata l'affidabilità finan­ ziaria del cliente, acquista l'immobile e lo rivende al cliente con un rica­ rico che tenga conto anche delle spese amministrative e di un margine di profitto. Il cliente paga il prezzo di acquisto attraverso rate mensili fisse per un periodo massimo di 1 s anni. Il piano manzi! ijara, introdotto nel 1999, ha avuto maggior successo del primo grazie alla sua flessibilità. Secondo questo schema, l'immo­ bile viene acquistato dalla banca che si impegna a rivenderlo al cliente allo stesso prezzo entro 25 anni. Il cliente/locatario paga alla banca una rata mensile calcolata tenendo conto di tre elementi: il rimborso della somma che la banca ha versato per l'acquisto dell'immobile; il canone d'affitto che rappresenta l'utile della banca, calcolato di anno in anno per garantire alla banca un equo profitto e corretto al ribasso per tener conto delle rate già pagate dal cliente; la somma che serve a coprire il costo dell'assicurazione che la banca paga sull'immobile. Con il passare del tempo le rate mensili dovrebbero aumentare o diminuire a seconda dei primi rimborsi che il cliente decide di effettuare; il cliente può anche

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decidere in qualsiasi momento di acquistare l'immobile versando alla banca l'intera somma. Un importante passo per lo sviluppo della finanza islamica è stata la creazione di alcune istituzioni internazionali, come il mercato finanzia­ rio islamico che permette lo scambio di titoli presenti nelle principali piazze borsistiche internazionali a condizione che rispettino i parametri imposti dalla shari'a 3 4 • La sua creazione si è avuta grazie all'opera della Labuan Offshore Financial Service Authority, della Bahrain Monetary Agency, della Bank of Sudan, della Bank of Indonesia e dell'IDB. L'ac­ cordo, firmato il 13 novembre 2 0 0 1, è divenuto operativo nel 2 0 02 in Bahrain. Da un punto di vista contabile, la mancanza di standard comu­ ni, dovuta al diverso modo con cui le istituzioni finanziarie trattano gli strumenti islamici nei diversi sistemi giuridici, ha creato problemi di tra­ sparenza e affidabilità internazionale alla finanza islamica. L'Accounting and Auditing Organization far Islamic Financial lnstitutions (AAOIFI), che opera dal 27 marzo 1991 con sede nel Bahrain, ha fatto grossi passi avanti nell'adattamento degli istituti finanziari islamici agli standard in­ ternazionali, consentendo in tal modo un confronto tra le differenti isti­ tuzioni finanziarie islamiche. L'AAOIFI stila rendiconti sulle loro attività a cui possono accedere azionisti, depositanti, investitori e organi di con­ trollo; nel 1993 ha introdotto degli standard per le istituzioni finanziarie islamiche e il numero di quelle che li utilizzano è in continua crescita. La banca islamica, come qualsiasi altra banca, ha come obiettivo la mobilizzazione del risparmio a favore degli investimenti. E organizzata come una società per azioni il cui capitale iniziale viene fornito dagli azionisti. Le funzioni delle banche e degli altri intermediari islamici sono molto simili a quelle delle controparti convenzionali. Gli economisti islamici hanno dimostrato che esistono modalità e strumenti alternativi al tasso d'interesse ( sia passivo che attivo) con cui svolgere tali funzioni. La con­ formità all'islam delle operazioni poste in essere dalla banca islamica è garantita da un organo denominato Consiglio di controllo sciaraitico, la cui principale funzione è la valutazione dell'attività economica della banca in riferimento alla coerenza con i principi e le regole della legge islamica. Per quanto riguarda la raccolta del risparmio, la banca islamica opera con modalità non dissimili da quelle della banca convenzionale. I depositi a vista (conti correnti e depositi di risparmio) non partecipano ai rischi dell'attività bancaria, pertanto essi non fruttano alcun guada­ gno, ma sono garantiti. Ai titolari dei conti correnti viene garantita la

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restituzione del capitale versato ma essi non hanno diritto a una remu­ nerazione, tuttavia le banche hanno facoltà di fornire incentivi ai cor­ rentisti attraverso l'assegnazione di premi in denaro o benefìt di altra natura, la riduzione o l'esonero dalle spese bancarie o dalle commissioni, il conferimento di priorità nella fruizione dei servizi bancari. I titolari di un deposito di investimento vincolato hanno diritto a una remunerazione variabile in funzione della redditività degli investimen­ ti della banca. Le banche possono anche mobilizzare il risparmio per progetti di investimento specifici. Il tasso di rendimento viene calcolato alla fine del progetto. La banca richiede esclusivamente il pagamento di una commissione amministrativa per la sua funzione di intermedia­ zione. Una caratteristica importante delle banche islamiche è quella di fornire anche mutui a zero interesse (qard hasan) in modo da agevolare la componente più bisognosa della popolazione. Dal punto di vista della gestione del capitale attivo, per concedere crediti ai clienti la banca islamica utilizza un certo numero di prodotti finanziari che non prevedono la corresponsione di interessi. Il capitale investito assume la forma di compartecipazione ai profitti e alle perdite (pro.fit-loss sharing, P L S ) derivanti da attività imprenditoriali o finanzia­ rie, tramite contratti societari. I principali contratti sono la mudaraba (partnership passiva) e la musharaka (partnership attiva). La muddraba, simile al contratto in uso nel medioevo, viene stipulata tra la banca che fornisce il capitale e un agente-manager (l'imprenditore che ha richiesto un finanziamento). Gli utili vengono ripartiti tra le parti secondo quote fissate al momento della firma del contratto. L'eventuale perdita finanziaria ricade per intero sul capitalista, mentre l'agente corre il rischio di svolgere la sua attività senza alcun compenso. A meno di violazioni del contratto o inadempienze l'agente non garantisce la resti­ tuzione del capitale affidatogli né la produzione di utili. La mudaraba è anche utilizzata dagli istituti di credito islamici in funzione di raccolta del capitale: i risparmiatori svolgono il ruolo di for­ nitori di capitale e la banca di agente. I fondi di investimento islamici possono essere generali o limitati a particolari progetti. A differenza della mudaraba, la musharaka prevede la compartecipa­ zione nella gestione e nell'apporto di capitale, nonché nella ripartizio­ ne degli utili e delle perdite. Gli utili vengono ripartiti tra i contraenti nella proporzione stabilita dal contratto, mentre la compartecipazione alle perdite avviene in base alla quota di capitale posseduta. Spesso la musharaka prende la forma di una partnership decrescente in cui la han-

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ca vende progressivamente al cliente la sua quota a un prezzo concordato e in tempi prestabiliti. Il credito alle imprese su base partecipativa costituisce una sostanzia­ le alternativa al mutuo a interesse, in cui al rimborso del capitale si ag­ giunge il pagamento degli interessi, di ammontare non predeterminato e svincolato dall'esito dell'impresa in cui il capitale è stato investito. Vi­ ceversa, nel sistema islamico, il debito dell'imprenditore verso la banca è costituito da una somma variabile a seconda dei risultati dell'impresa. Pertanto, l'imprenditore è maggiormente motivato a portare a compi­ mento positivamente il progetto, poiché dal profitto finale dipendono i benefici finanziari che egli trae dall'operazione. E fondamentale, inoltre, la capacità del cliente di convincere la banca della validità del progetto per cui chiede il finanziamento. Dunque, a essere centrale non è - come nei sistemi convenzionali - la posizione finanziaria del cliente, e quindi la sua capacità di tener fede al debito, ma la fattibilità e remuneratività del progetto che egli sottopone alla banca. Gli economisti islamici insistono sull'importanza socio-economica dei metodi basati sulla compartecipazione ai profitti e alle perdite, tutta­ via il loro utilizzo da parte delle banche islamiche rimane ancora piutto­ sto limitato a causa dei rischi connessi e dei costi di gestione dei progetti. Più consistente è la quota dei metodi non partecipativi. Le modalità di finanziamento non partecipativo si basano su contratti di vendita o di locazione di beni reali e servizi. In questo caso il tasso di remunerazione è fissato in anticipo e viene inglobato nel prezzo d'acqui­ sto o nel canone di locazione; in tal modo il finanziamento risulta meno rischioso rispetto a una partecipazione azionaria o a un finanziamento in modalità PLS. Il fatto che il tasso di remunerazione sia predeterminato può far apparire queste forme contrattuali simili al prestito a interesse. Gli economisti islamici insistono sulle differenze: in primo luogo, essi so­ stengono che i contratti non partecipativi messi in atto dalle banche isla­ miche non comportano l'erogazione di prestiti, ma si basano su transa­ zioni che hanno per oggetto beni reali o servizi; in secondo luogo, fanno notare che viene stabilito un prezzo del bene o servizio erogato e non un tasso di interesse. Una volta fissato, il prezzo non può essere modificato nel caso di ritardi nel pagamento dovuti a circostanze impreviste. Que­ sto, da una parte tutela l'interesse dei clienti, ma dall'altra può creare pro­ blemi di liquidità alla banca nel caso di deliberati ritardi nei pagamenti. Le banche islamiche si avvalgono di alcune tipologie di contratto di vendita come forme di finanziamento, in particolare del bay' mu 'ajjal

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(vendita rateale) e del bay ' al-murabaha (vendita a premio fisso o mark­ up ). Il cliente ordina a un istituto di credito islamico l'acquisto per suo conto di un certo bene, con la promessa di riacquistare dalla banca tale bene a un prezzo maggiorato che comprende un margine di profitto sta­ bilito (ricarico) per la banca. La transazione prevede un ordine, accom­ pagnato da una promessa d'acquisto e due contratti di vendita: il primo viene concluso tra la banca islamica e il fornitore del bene; il secondo tra la banca e il cliente che le ha dato l'ordine. Il leasing, sia operativo ( ijara) che finanziario ( ijdra wa iqtina') , vie­ ne ampiamente adottato dalle banche islamiche. Il contratto assume la forma di un ordine con cui il cliente chiede alla banca di comprare un'attrezzatura, impegnandosi allo stesso tempo a prenderla in locazio­ ne dalla banca stessa dopo l'acquisto. Nel leasing finanziario le rate di locazione vengono calcolate in modo da includere il recupero del costo del bene, oltre ai margini di profitto desiderati. In questo caso il contrat­ to di locazione deve prevedere il trasferimento del bene al locatario. Tale trasferimento avviene tramite un nuovo contratto, stipulato dopo la fine del precedente, con il quale il bene viene donato al locatario o venduto a un prezzo nominale. L' istisna' (contratto di fabbricazione) è un contratto attraverso il quale una delle parti ordina all'altra di fabbricare e fornire un bene con data di consegna e prezzo stabiliti. Nella forma utilizzata dalle banche islamiche (al-istisnd' al-tamwili, finanziamento tramite istisna; l' istisna' è costituito da due differenti contratti: nel primo, stipulato tra il cliente e la banca, questa si impegna a consegnare il prodotto in questione a una certa data, mentre il cliente si impegna al pagamento rateale del relativo prezzo; con il secondo contratto, la banca subappalta a un contractor la fabbricazione del bene. La banca effettuerà il pagamento prima o duran­ te il processo di lavorazione, mentre il contractor si impegna a consegnare il bene finito alla banca, o direttamente al cliente, alla data stabilita che corrisponde a quella del primo contratto di istisna: Il salam è un contratto di vendita in cui il pagamento viene antici­ pato rispetto alla consegna del bene o servizio che avviene a una data futura e determinata. Le banche islamiche utilizzano questa tecnica di finanziamento stipulando due distinti contratti di salam o un contratto di salam collegato a uno di vendita a rate. La banca acquista una merce pagandola anticipatamente a un fornitore e fissando la consegna in base alle esigenze del cliente. Successivamente la banca stipula con il cliente un nuovo contratto di salam o, come avviene più frequentemente, un

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contratto di vendita rateale in cui la data di consegna del bene al cliente sarà successiva a quella in cui la banca riceverà la merce. La finanza islamica ha elaborato soluzioni innovative per inserirsi in un contesto originariamente creato per la finanza convenzionale propo­ nendo a volte contratti alternativi al ricorso all'interesse come forma di remunerazione del capitale, a volte creando una "controparte" islami­ ca di alcuni strumenti della finanza convenzionale, mostrando così la sua capacità di innovazione e ibridazione insieme. Rappresentativi di questa tendenza sono i sukuk, bond o obbligazioni islamiche, gli ultimi nati della finanza islamica3 5 • Il termine arabo è il plurale di saqq, nota di pagamento, strumento già in uso, come abbiamo visto, nel medioevo islamico per evitare il trasferimento di contanti nel commercio inter­ nazionale. Fondi sukuk in moneta locale sono stati emessi, per la prima volta, in Malaysia alla metà degli anni novanta; nel 2 0 0 1 nel Bahrain sono apparsi i primi sukuk (sukuk al-ijara) in dollari con un'emissione di 10 0 milioni a cinque anni. Da allora, moltissimi paesi, soprattutto del Golfo e del Sud-est asiatico (Malaysia, Pakistan, Brunei), hanno emesso sukuk; il loro esempio è stato seguito anche da istituti (come la Banca Mondiale) e Stati occidentali: nel 2 0 0 4 il Land tedesco dell'Alta Sasso­ nia ha emesso sukuk al-ijara ( quotati nella borsa del Lussemburgo) per 10 0 milioni di euro e una durata di s anni. I fondi sono serviti per una riqualificazione di immobili di proprietà del ministero delle Finanze. I sukuk non sono del tutto assimilabili ai titoli obbligazionari, a dif­ ferenza di questi devono incorporare una porzione di diritto su un bene materiale sottostante (underlying asset) che ne garantisce la stabilità. La valutazione del tasso di compatibilità dei sukuk con la shari'a passa at­ traverso un'accurata analisi della transazione che incorporano, in base alla quale viene definita la loro negoziabilità sul mercato secondario o la limitazione al mercato primario. Il controllo è affidato all'AAOIFI, che fino a questo momento ha autorizzato 14 tipologie di sukuk, su cui ha anche emanato di recente un documento che ne definisce i requisiti (Shari'a Standars Concerning Sukuk )3 6 • L'emissione dei sukuk è un'operazione di cartolarizzazione. Viene creato un veicolo (specialpurpose vehicle, SPV ) , con una propria soggetti­ vità giuridica, che riceve dal soggetto che ha bisogno del finanziamento (originator) il bene (asset) su cui emetterà i sukuk che verranno sotto­ scritti dagli investitori. Nella struttura più semplice, e più utilizzata, di sukuk, l' originator vende alla SPV un bene che riceverà indietro in leasing (ijara) , pagando un canone, legato all'andamento del bene, che rappre-

ECONOMIA ISLAMICA E SFIDE GLOBALI

senta la remunerazione degli investitori. L' originator avrà la gestione del bene e userà i fondi raccolti per finanziare progetti (soprattutto infra­ strutturali o di riqualificazione di aree urbane) conformi alla shari'a. Ad esempio, lo Stato del Qatar ha finanziato la creazione di una città ospe­ daliera a Doha attraverso l'emissione di un sukuk al-ijara nel 2 0 0 3 , con scadenza nel 2 0 10, per un valore di 7 0 0 milioni di dollari. Alla scadenza del sukuk la proprietà dell'asset ritorna ali' originator e gli investitori ri­ cevono il rimborso del capitale in base alle condizioni prestabilite. I sukuk sono regolati da un contratto di muddraba tra cliente e in­ termediario (sPv). Questi agisce da muddrib (agente) occupandosi della corretta amministrazione del portafoglio titoli e della gestione degli asset sottostanti. Le principali tipologie di sukuk sono i sukuk al-ijdra, i sukuk al-murabaha, i sukuk misti e i sukuk al-mushdraka. Nel primo caso si trat­ ta di titoli a rendimento fisso o variabile, commerciabili su tutti i mercati finanziari, legati alla redditività degli asset sottostanti che possono essere beni immobili (terreni) o mobili (navi, aerei ecc.). I sukuk al-murabaha sono uno strumento sempre più diffuso anche perché circa il 7 0 % del volume d'affari della finanza islamica è legato a transazioni basate sul contratto murabaha. Come abbiamo già visto, si tratta di un contratto di vendita differito, in cui una delle parti è titolare di un diritto di credito che l'autorizza alla riscossione di una somma maggiorata a una determi­ nata scadenza. Per questo i sukuk al-murdbaha - a differenza dei sukuk al­ ijdra - non possono essere negoziati sui mercati secondari. I sukuk misti (basati su contratti di ijdra, istisna' e murabaha) permettono una mag­ giore mobilizzazione di fondi; per ridurre i rischi di volatilità dei titoli i Consigli di controllo sciaraitico richiedono che almeno il 51 % del valore del titolo sia rappresentato da beni tangibili. I sukuk al-musharaka (equity funds, fondi di investimento azionari) sono basati sulla conversione in titoli del patrimonio di una società commerciale; sono sempre più uti­ lizzati per finanziare progetti che assorbono elevata liquidità; nel caso in cui l'attività societaria sia in fase embrionale o debba essere ancora avvia­ ta, la commerciabilità dei titoli sul mercato secondario è subordinata alla trasformazione di una percentuale minima di liquidità in beni tangibili. Durante un summit dedicato alla finanza islamica, tenutosi nel feb­ braio del 2 0 0 8 in Bahrain, il governatore della banca centrale Rasheed Al Maraj ha dichiarato ai giornalisti della Reuters: