Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica [1a ed.] 978-88-470-3990-2;978-88-470-3991-9

In questo libro, con il consueto stile di scrittura semplice ma allo stesso tempo estremamente rigoroso, che ha sempre c

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Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica [1a ed.]
 978-88-470-3990-2;978-88-470-3991-9

Table of contents :
Front Matter ....Pages i-xi
Front Matter ....Pages 1-5
Statica dei fluidi (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 7-29
Dinamica dei fluidi ideali (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 31-60
Dinamica dei fluidi reali (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 61-73
Front Matter ....Pages 75-80
Termometria e calorimetria (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 81-110
Termodinamica (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 111-150
Applicazioni tecniche (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 151-159
Front Matter ....Pages 161-166
Fisica cinetica (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 167-192
Termodinamica statistica (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 193-216
Front Matter ....Pages 217-217
Complementi di meccanica dei fluidi (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 219-245
Complementi di termodinamica (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 247-267
Complementi di fisica statistica (Egidio Landi Degl’Innocenti)....Pages 269-281

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Egidio Landi Degl’Innocenti

Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica Edizione curata da Roberto Livi e Luca Del Zanna

Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica

Egidio Landi Degl’Innocenti

Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica Edizione curata da Roberto Livi e Luca Del Zanna

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Egidio Landi Degl’Innocenti Department of Physics and Astronomy University of Florence Florence, Italy

ISBN 978-88-470-3990-2 ISBN 978-88-470-3991-9 https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9

(eBook)

© Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore e la sua riproduzione è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla stessa. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68. Le riproduzioni per uso non personale e/o oltre il limite del 15% potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’utilizzo di illustrazioni e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione su microfilm o in database, o alla riproduzione in qualsiasi altra forma (stampata o elettronica) rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Questa edizione è pubblicata da Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature con sede legale in Via Decembrio 28, 20137 Milano, Italia

Alla memoria di Egidio

Prefazione

Questo libro è costituito nella sua quasi totalità da quelle che sono state per molti anni le dispense del corso di Fluidi, Termodinamica e Statistica, tenuto dal compianto Prof. Egidio Landi Degl’Innocenti per gli studenti del corso di laurea triennale in Fisica e Astrofisica presso l’Università degli Studi di Firenze. Nell’ultimo decennio abbiamo svolto esercitazioni e moduli di questo corso assieme ad Egidio e dopo il suo pensionamento, purtroppo seguito a breve dalla sua scomparsa, ci siamo accollati l’onere e l’onore di continuare la sua opera di formazione, cercando per quanto possibile di restare fedeli all’impostazione del suo corso e, in particolare, utilizzando ancora le sue dispense come riferimento pressoché unico per le lezioni. L’idea di concepire un corso, da tenersi al secondo anno di studi del percorso triennale, che contenesse tutti e tre i temi contenuti nel suo titolo, è sicuramente ambiziosa. Essa nasce dall’esigenza culturale di fornire agli studenti una visione non settoriale di queste materie, che riguardano tutte la fisica dei sistemi composti da un grande numero di particelle. Da un lato per questi sistemi non è più possibile sfruttare le leggi del moto e della dinamica applicate alle singole particelle, come appreso nel corso di base di meccanica (tipicamente tenuto al primo anno), dovendo invece passare alla meccanica dei mezzi continui e al concetto di “campo” (nel caso dei fluidi). Inoltre, dato l’elevato numero di particelle che compongono i sistemi in esame, l’approccio deterministico va abbandonato in favore di quello probabilistico, e vengono introdotti concetti nuovi, e se vogliamo inaspettati per lo studente, quali l’“irreversibilità” nei processi fisici (nel caso della termodinamica statistica). Lo scopo perseguito da Egidio era dunque proprio quello di una presentazione concettualmente unitaria, indicando anche le connessioni tra ambiti diversi. Ne sono espliciti esempi i richiami alla termodinamica nella parte riguardanti la meccanica dei fluidi, in particolare degli aeriformi, e in quella di fisica statistica. L’altro sforzo compiuto da Egidio è stato quello di fornire argomenti complementari, che possano essere o meno svolti a lezione (a seconda delle ore a disposizione nel corso), molti dei quali sotto forma di “esercizi” che consentano allo studente di affrontare calcoli relativi a concreti problemi di fisica. Questi complementi sono stati ulteriormente estesi in questo libro, riprendendo argomenti che si sono andati ad aggiungere in “itinere`` tramite le esercitazioni svolte nei vari anni nell’ambito del corso stesso. Si vii

viii

Prefazione

può senza dubbio affermare che Egidio abbia raggiunto gli scopi culturali che si era prefissato, visti gli eccellenti risultati formativi ottenuti con un’impostazione così poco tradizionale e culturalmente ambiziosa. In varie occasioni di discussione con Egidio sull’impostazione del corso era emersa anche la sua esigenza di introdurre dei cenni storici, in aggiunta alle numerose note disseminate nel corpo principale delle dispense, che potessero contribuire a rafforzarne l’unità culturale. L’idea era di fornire allo studente una guida storica nella quale poter individuare come i concetti fondamentali contenuti nel corso si fossero formati e definiti grazie all’opera e alla collaborazione di generazioni di scienziati. Purtroppo la scomparsa di Egidio ha bloccato sul nascere questo intento e quindi ci siamo sentiti di dover colmare questa lacuna aggiungendo le tre introduzioni storiche, che corredano le tre parti principali del testo. Di queste ci assumiamo tutta la responsabilità, anche se va detto che nella loro redazione abbiamo cercato di restare fedeli all’impostazione che Egidio ci aveva espresso in varie occasioni. Speriamo di esserci riusciti e soprattutto confidiamo che questo libro contribuisca a mantenere viva la testimonianza della elevata qualità di Egidio come docente, sicuramente non inferiore a quella già ampiamente riconosciuta di scienziato e di ricercatore. Ci auguriamo che questo libro possa essere utilizzato per molti anni dalle future generazioni di studenti del corso di laurea per cui era stato pensato. Le tre parti principali, pur connesse, possono anche essere trattate in un ordine diverso da quello proposto qui (ad esempio la parte di meccanica dei fluidi, dove sono richieste nozioni tipicamente svolte in un corso di Analisi Matematica II, potrebbe essere presentata come ultimo argomento), e ci auguriamo che il testo possa essere adottato anche in altri corsi di laurea, non necessariamente in Fisica, dove anche solo una o due delle tre parti principali (comunque fruibili singolarmente) potrebbero rientrare nel programma di un insegnamento. Infine, vorremmo ringraziare il nostro collega Lapo Casetti per aver contribuitoad una preziosa rilettura della bozza del libro. Firenze, Italy Gennaio 2019

Roberto Livi Luca Del Zanna

Indice

Parte I Elementi di meccanica dei fluidi Introduzione storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

3

1

Statica dei fluidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1 Definizione di fluido . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2 Il principio di Pascal e la legge fondamentale dell’idrostatica . . . . . . 1.3 Distinzione fra liquidi e aeriformi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4 La legge di Stevino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5 L’esperienza di Torricelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.6 Il principio di Archimede e il galleggiamento dei corpi . . . . . . . . . . . 1.7 Fenomeni superficiali e di capillarità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

7 7 11 14 16 18 21 25

2

Dinamica dei fluidi ideali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1 Cinematica dei fluidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2 L’equazione di Eulero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3 Il teorema di Bernoulli e sue semplici applicazioni . . . . . . . . . . . . . . . 2.4 Vorticità, teorema di Kelvin e flusso potenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.5 Le onde di pressione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.6 Le onde di gravità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

31 31 36 37 43 49 56

3

Dinamica dei fluidi reali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1 La viscosità e l’equazione di Navier-Stokes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2 La legge di Poiseuille . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3 Il moto vorticoso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

61 61 66 68

Parte II Elementi di termodinamica Introduzione storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

x

Indice

4

Termometria e calorimetria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 4.1 La misura della temperatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 4.2 Le leggi dei gas e il termometro a gas perfetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 4.3 I gas reali e l’equazione di Van der Waals . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 4.4 Calore e capacità termica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 4.5 La trasmissione del calore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104

5

Termodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 5.1 Il primo principio della termodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 5.2 Illustrazioni del primo principio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116 5.3 Calori specifici e trasformazioni adiabatiche di un gas perfetto . . . . . 119 5.4 Il secondo principio della termodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 5.5 Le macchine termiche e il teorema di Carnot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 5.6 Il ciclo di Carnot e la definizione termodinamica di temperatura . . . . 129 5.7 La diseguaglianza di Clausius e la definizione di entropia . . . . . . . . . 132 5.8 Illustrazioni del concetto di entropia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 5.9 Altre conseguenze del primo e secondo principio . . . . . . . . . . . . . . . . 140 5.10 Cenni al significato statistico dell’entropia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 5.11 L’entalpia e i potenziali termodinamici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147

6

Applicazioni tecniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 6.1 Le macchine termiche: dal vapore alla combustione interna . . . . . . . 151 6.2 Le macchine frigorifere e le pompe di calore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157

Parte III Elementi di fisica statistica Introduzione storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 7

Fisica cinetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 7.1 La teoria cinetica dei gas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 7.2 La distribuzione Maxwelliana delle velocità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172 7.3 Il cammino libero medio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177 7.4 La distribuzione di Poisson . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 7.5 La distribuzione delle distanze fra particelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181 7.6 Fenomeni di trasporto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 7.7 Random-walk e moto Browniano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187

8

Termodinamica statistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193 8.1 La misura del disordine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193 8.2 Il teorema H . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 8.3 Le leggi generali della termodinamica statistica . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 8.4 Fluttuazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 8.5 Sistemi di particelle indipendenti: il principio di Boltzmann . . . . . . . 205 8.6 L’equipartizione dell’energia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 207 8.7 L’entropia del gas perfetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212

Indice

xi

Parte IV Complementi 9

Complementi di meccanica dei fluidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 9.1 Alcune proprietà geometriche delle superfici chiuse . . . . . . . . . . . . . . 219 9.2 Il gradiente di una funzione scalare e vettoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221 9.3 Il paradosso di Pascal e gli emisferi di Magdeburgo . . . . . . . . . . . . . . 222 9.4 Soluzione di alcuni problemi di idrostatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224 9.5 Stabilità al galleggiamento di una trave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231 9.6 Dimostrazione dei teoremi di Gauss e di Kelvin . . . . . . . . . . . . . . . . . 233 9.7 Flusso potenziale attorno a un ostacolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238 9.8 Relazione di dispersione generale per le onde di gravità . . . . . . . . . . 241 9.9 Flusso viscoso tra due cilindri coassiali rotanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243

10

Complementi di termodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 247 10.1 La dilatazione termica delle sostanze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 247 10.2 La costruzione di Maxwell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 10.3 La diffusione del calore e il teorema di Fourier . . . . . . . . . . . . . . . . . . 250 10.4 L’andamento della temperatura in una sfera cava conduttrice . . . . . . 253 10.5 La temperatura ottimale per il corpo umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 255 10.6 Il gradiente termico nell’atmosfera terrestre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257 10.7 L’esperienza di Rüchardt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 10.8 L’equazione di Clapeyron . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 260 10.9 L’energia interna e l’entropia della radiazione di corpo nero . . . . . . . 262 10.10Interdiffusione di due gas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 264 10.11Soluzione di un’equazione formale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 266

11

Complementi di fisica statistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269 11.1 Il teorema del viriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269 11.2 La teoria cinetica dei gas e l’equazione di Van der Waals . . . . . . . . . . 272 11.3 La statistica dei sistemi termodinamici aperti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274 11.4 Le statistiche quantiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277

Parte I

Elementi di meccanica dei fluidi

Introduzione storica

Lo studio dei fluidi è una delle più antiche tematiche di indagine scientifica nella storia dell’umanità, visto che le prime acquisizioni risalgono addirittura ad Archimede (III secolo a.C.), unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori scienziati della storia. Il grande siracusano, come noto a molti, dette importantissimi contributi praticamente in tutti i domini della scienza della sua epoca: matematica, geometria, meccanica, astronomia, ottica e, appunto, fluidodinamica. Oltre a costruire teorie matematiche si occupò di molti problemi pratici d’ingegneria meccanica e navale, contribuendo in modo determinante allo sviluppo della scienza greca nel periodo ellenistico. In effetti la sua fama di sapiente fu senza paragoni, sia rispetto a chi lo aveva preceduto, sia rispetto a chi, ancora per molti secoli, venne dopo di lui. Tanta conoscenza concentrata in un solo uomo però gli fu anche fatale: quando i romani, dopo un lungo ed estenuante assedio, conquistarono finalmente Siracusa, presumibilmente fu decisa l’eliminazione fisica di un avversario così temibile per le ambizioni espansionistiche di Roma nel Mediterraneo. È storicamente accertato che Archimede espose in una sua opera il principio dell’idrostatica sul galleggiamento dei corpi, che porta il suo nome e che in pratica costituisce il fondamento stesso di tale teoria. Peraltro, la sua affermazione originale era che due porzioni di fluido contigue non possono essere in equilibrio se sottoposte a pressioni diverse. È possibile rendersi conto come da essa discenda il principio nella sua tradizionale formulazione, giunta fino ai giorni nostri. Nel periodo rinascimentale e nei secoli immediatamente successivi la rinascita del sapere in tutte le sue forme portò molti studiosi ad affrontare problemi d’idraulica per il loro interesse applicativo nella progettazione e realizzazione di sistemi di approvvigionamento idrico, di regimentazione delle acque e d’irrigazione. A titolo d’esempio, basti ricordare quanto Leonardo da Vinci si dedicò, nella sua veste di studioso, all’indagine di tali problemi, testimoniata anche da specifiche illustrazioni riportate nel Codice Atlantico. Bisogna però attendere ancora un buon lasso di tempo prima che lo scienziato fiammingo S. Stevin formuli nel 1586 la legge che porta il suo nome e che stabilisce una relazione lineare tra la pressione esercitata al fondo di una colonna di fluido e la densità del fluido medesimo. Si può dire che questo contributo inauguri la rinascita dell’idraulica come disciplina scientifica moderna,

4

Elementi di meccanica dei fluidi

rappresentando un contributo altrettanto rilevante quanto quello di Archimede nel campo della statica dei fluidi. Ci vollero però ancora svariati decenni prima che nel 1644, solo tre anni prima della sua prematura morte, lo scienziato italiano E. Torricelli, grazie ai suoi studi sui fluidi, riuscisse ad inventare il barometro a mercurio, che da allora fu chiamato “tubo di Torricelli". Come noto a molti, Torricelli fu allievo di Galileo Galilei negli ultimi anni vissuti da quest’ultimo nella residenza coatta di Arcetri. Torricelli, prima di condividere la breve collaborazione con Galileo, fu suo grande ammiratore e attento lettore delle sue opere. In tal senso l’interesse di Torricelli per i problemi di fluidodinamica fu molto probabilmente alimentato anche dalla lettura dei tentativi di Galileo di spiegare la teoria delle maree, argomento di grande dibattito in quell’epoca, dopo la riscoperta di testi antichi di fondamentale importanza come quelli dell’astronomo ellenista Seleuco di Seleucia (II sec. a.C.), uno degli antichi sostenitori della teoria eliocentrica, che pare avesse dedotto proprio dai suoi studi sui flussi mareali. Un altro fondamentale principio dell’idraulica è quello dei “vasi comunicanti". È fuori di dubbio che nel suo contenuto pratico tale principio fosse ben noto agli scienziati di epoca ellenistica. In ogni caso una sua formulazione moderna dovette attendere l’opera dello scienziato francese B. Pascal, che la ottenne combinando i risultati dei suoi studi con quello di S. Stevin. La scoperta fondamentale di Pascal fu ottenuta tramite il famoso “esperimento della botte" effettuato nel 1646. Egli mostrò come fosse sufficiente riempire di acqua un tubo verticale alto circa dieci metri per spaccare una botte precedentemente riempita di acqua e sigillata, tranne che nella parte del coperchio messa in comunicazione col tubo. Da questo esperimento Pascal dedusse il principio fisico che un aumento di pressione, esercitato in una qualunque porzione di fluido confinato in un volume, viene trasmesso istantaneamente a ogni punto del contenitore. Da valente matematico qual’era Pascal tradusse e generalizzò questa sua esperienza in un famoso trattato di fluidostatica, dato alle stampe solo nel 1653. L’importanza di tale contributo è anche comprovata dal fatto che l’unità di misura tipica della pressione in fisica sia detta, ancora oggi, pascal. La nascita della moderna fluidoinamica dovette però attendere il XVIII secolo e, in particolare, i contributi di due matematici svizzeri, D. Bernoulli e L. Euler (più noto col nome italianizzato di Eulero). Il contesto storico e culturale in cui si inquadrano tali contributi era quello dell’illuminismo razionalista proprio della cultura continentale europea, cui faceva da contraltare l’empirismo tipico della scienza anglosassone. In tal senso si può affermare che la tradizione scientifica della meccanica newtoniana trovò i suoi principali eredi proprio negli scienziati continentali, che contribuirono ad allargarne gli orizzonti concettuali e applicativi. I lavori di Bernoulli ed Eulero sulla formulazione della meccanica dei mezzi continui (fluidi) sono sicuramente da indicare tra i maggiori successi raggiunti in questo periodo storico, assieme ai contributi sulla formulazione della meccanica basata sui principi variazionali di Maupertuis-Jacobi e di Lagrange. In particolare, l’equazione di Bernoulli può essere interpretata come una generalizzazione del principio di conservazione dell’energia ai fluidi, mentre quella di Eulero sta proprio alla base di una descrizione idrodinamica di un fluido ideale (in assenza cioè di attrito viscoso), dove si

Introduzione storica

5

assume che ad ogni punto dello spazio occupato da un fluido è possibile attribuire una velocità, che ha dunque il significato matematico di un campo vettoriale. L’estensione delle ricerche ai fluidi viscosi dovette poi attendere il XIX secolo, con un primo fondamentale contributo del fisico e fisiologo francese J.L.M. Poiseuille. Questi formulò una legge che mette in relazione viscosità e portanza idraulica in un fluido “reale” (viscoso) in regime stazionario e laminare. Successivamente l’estensione ai fluidi reali dell’equazione di Eulero fu ottenuta grazie ai contributi del francese C.-L. Navier e dell’irlandese G.G. Stokes. Prima di concludere questi brevi cenni storici è opportuno ricordare, almeno in modo sintetico, gli sviluppi successivi della teoria dinamica dei fluidi, che inizialmente riguardarono lo studio del fenomeno della convezione e dell’insorgere delle corrispondenti instabilità, caratterizzate dai cosiddetti numeri di Reynolds e di Prandtl, che fanno riferimento esplicitamente ai fluidi reali. Gli studi sperimentali delle instabilità convettive effettuati da Lord Rayleigh e H. Benard alla fine del XIX secolo hanno fornito ispirazione allo studio dell’insorgere dei moti turbolenti nei fluidi e della turbolenza sviluppata. Non può sfuggire l’importanza concettuale e applicativa (geofisica, meteorologia, aerodinamica, astrofisica, cosmologia, etc.) della turbolenza. A questo difficile problema scientifico si sono dedicati nel XX secolo molti importanti scienziati, tra i quali il meteorologo inglese L.F. Richardson e il matematico russo A.N. Kolmogorov. Nonostante l’impegno e il valore di tutti questi scienziati, non si può nascondere che il problema della costruzione consistente e, soprattutto, convincente di una teoria della turbolenza rimane ancora irrisolto e probabilmente rappresenta ancora oggi, e chissà ancora per quanto, una delle maggiori sfide intellettuali per i fisici e i matematici applicati. A tale proposito è opportuno concludere con un aneddoto storico piuttosto significativo. In un’intervista concessa in tarda età il fisico tedesco W. Heisenberg, noto per il suo "principio di indeterminazione" e insignito del premio Nobel nel 1932 per i suoi contributi alla meccanica quantistica, pare abbia dichiarato: “Quando incontrerò Dio, ho intenzione di chiedergli due cose: perché la relatività? E perché la turbolenza? Credo proprio che Egli avrà una risposta almeno per la prima!"

Capitolo 1

Statica dei fluidi

1.1 Definizione di fluido Per molti scopi di natura pratica, è utile classificare i corpi materiali in solidi e fluidi. Sebbene la distinzione non sia del tutto netta, come sarà chiarito solo in seguito dopo che sarà stato introdotto il concetto di viscosità, possiamo per il momento dare una definizione intuitiva dicendo che un fluido, a differenza di un solido, è una sostanza materiale che è capace di “scorrere” o, come dice la parola stessa, di “fluire”. Questa definizione non è però sufficiente dal punto di vista fisico e necessita di adeguate precisazioni. Consideriamo allora un corpo materiale omogeneo, di natura per il momento imprecisata, e fissiamo l’attenzione su una superficie immaginaria, piana ma di forma qualunque, all’interno del corpo stesso. Pensiamo poi di attribuire un’orientazione alla superficie stessa mediante la scelta arbitraria di una delle due direzioni normali e individuiamo tale direzione col versore u (si veda la Fig. 1.1). Così facendo si ottiene, come si usa dire, una “superficie orientata”. Possiamo adesso distinguere nel corpo due “parti” diverse. La parte A che si trova “a monte” rispetto alla direzione individuata dal versore u e la parte B che si trova “a valle” rispetto alla stessa direzione, e possiamo chiederci quale sia la forza F che la parte A del corpo esercita sulla parte B attraverso la superficie considerata (naturalmente, per il terzo principio della dinamica, la forza che la parte B esercita sulla parte A è −F). Scomponiamo la forza F in due componenti (vettoriali) ponendo F = Fk + F? , con Fk diretta lungo il versore u (oppure, in generale, in direzione opposta) e F? giacente nel piano della superficie. La forza Fk prende il nome di “forza di pressione” oppure “forza di tensione”, mentre la forza F? prende il nome di “forza di taglio”. L’introduzione di questi concetti elementari rende possibile una distinzione di natura fisica fra corpi solidi e corpi fluidi. Un corpo solido è un corpo nel quale si possono presentare, in generale, sia forze di pressione che forze di taglio, mentre un © Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 E. Landi Degl’Innocenti, Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica, https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9_1

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1 Statica dei fluidi

F|| F⊥

F u

A

B Π

Figura 1.1 La forza F, che la parte A del corpo esercita sulla parte B attraverso la superficie piana P , può essere scomposta nei due componenti (vettoriali) Fk e F? . Fk è diretto lungo il versore u, normale alla superficie, mentre F? giace nel piano della superficie

corpo fluido è un corpo per il quale, in situazioni statiche1 , si possono presentare solo forze di pressione. Per di più, tali forze di pressione sono tali da essere sempre dirette lungo la direzione u e non nella direzione opposta, cosa che invece è possibile nel caso dei solidi. L’assenza di forze di taglio precisa, in termini fisici, quello che si intende, più o meno intuitivamente, quando si dice che un fluido è una sostanza che può “scorrere”. In termini più formali, un fluido può essere definito dalle equazioni F? = 0 ,

Fk · u ≥ 0 .

Consideriamo adesso, all’interno di un corpo fluido in quiete, una superficie chiusa, S , di forma arbitraria (vedi Fig. 1.2), e concentriamo la nostra attenzione sul sistema fisico costituito da quella parte del fluido, di volume V , racchiusa da tale superficie. Su tale sistema fisico agiscono due tipi di forze. Le forze di superficie, che abbiamo descritto sopra, e che sono presenti per il fatto che il sistema è a contatto con le altre parti del fluido, e le cosiddette forze di volume, che sono invece presenti per il fatto che il corpo si trova immerso in un campo di forze, quale ad esempio il campo della gravità2 . Andiamo a valutare la risultante delle forze di superficie. Per far questo, dividiamo la superficie S in tanti elementi infinitesimi dS e indichiamo con n il versore che in ogni punto è diretto lungo la normale esterna alla superficie stessa, come illustrato in Fig. 1.2. La forza elementare, dF, che agisce sul sistema fisico attraverso il dS è proporzionale al dS stesso e, per quanto abbiamo visto prima, è diretta in senso 1 Come vedremo, nel caso di fluidi in moto, sono in generale presenti anche forze di taglio dovute a fenomeni di attrito (forze di viscosità). 2 Un altro esempio di campo di forze può essere quello dovuto a un campo elettromagnetico, nel caso che il nostro fluido sia sede di cariche o correnti elettriche.

1.1 Definizione di fluido

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n dS V

Σ

Figura 1.2 La superficie S si trova all’interno di un fluido e ne delimita il volume V . Il versore n è diretto lungo la normale esterna alla superficie stessa

opposto a n. Possiamo quindi porre dF = −P n dS , dove P è una quantità scalare positiva, avente le dimensioni di una forza divisa per una superficie, che è chiamata pressione, e che è implicitamente definita dall’equazione precedente. In generale, la pressione P è funzione del punto, e la risultante delle forze di superficie, che indichiamo con Rsup , risulta dall’integrazione sull’intera superficie chiusa S . Essa è quindi data dall’espressione I

Rsup = −

S

P n dS .

Per valutare le forze di volume (nel caso di forze gravitazionali, al quale ci limitiamo), è utile introdurre il concetto di densità. Se dV è un elemento di volume del nostro corpo, e se dm è l’elemento di massa contenuto in tale volume, la densità r nell’intorno del punto in cui si considera il dV è definita dall’espressione dm , dV

r=

ed è in generale funzione del punto. Attraverso questa definizione, la risultante delle forze di volume che agiscono sul corpo può essere espressa attraverso l’integrale Rvol =

Z

V

r g dV ,

dove g è il vettore accelerazione di gravità che, in generale, può essere anch’esso funzione del punto (si pensi al caso in cui il corpo fluido che si sta considerando

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1 Statica dei fluidi

sia una stella e che la superficie S ne racchiuda una frazione significativa, oppure al caso in cui si abbia un fluido in rotazione per il quale si può definire una gravità “efficace” che tiene conto anche della forza centrifuga). Nel caso particolare in cui g sia costante su tutto il volume V , esso può essere estratto dal simbolo di integrale e si ottiene Z Rvol = g r dV = Mg , V

dove M è la massa totale del fluido contenuto entro la superficie S . Se la parte di fluido racchiusa entro la superficie S è in equilibrio, per i principi della statica deve risultare3 Rsup + Rvol = 0 . (1.1)

Eseguiamo adesso un “esperimento pensato” andando a restringere sempre più le dimensioni della superficie S . Se tali dimensioni sono dell’ordine di `, le forze di superficie scaleranno come `2 , mentre quelle di volume come `3 , dimodoché, in questo processo di restringimento immaginario, si raggiungerà a un certo punto una dimensione critica, `0 , al di sotto della quale le seconde saranno completamente trascurabili rispetto alle prime. Ne consegue che, per una superficie S avente dimensioni ` ⌧ `0 , ma sempre di forma arbitraria, si deve avere, in condizioni di equilibrio I Rsup = −

S

P n dS = 0

(` ⌧ `0 ) .

È facile rendersi conto che, affinché questo integrale sia nullo per una superficie arbitraria, deve necessariamente essere P = costante. Innanzitutto si osserva che, per una proprietà geometrica delle superfici chiuse, dimostrata nella Sez. 9.1, vale sempre la relazione I S

n dS = 0 .

Quindi, se P è costante, allora Rsup = 0. D’altra parte, se P non fosse costante, dovrebbe necessariamente esistere una zona in cui essa varia lungo una qualche direzione, individuata da un versore che chiameremo u. Considerando allora una superficie S costituita da un cilindretto disposto in tale zona e con le generatrici parallele a u, è facile mostrare che si otterrebbe Rsup 6= 0, il che contraddice l’ipotesi di staticità. Ciò che abbiamo dimostrato, ovvero il fatto che P sia costante fintanto che si trascurano le forze di volume, è tutt’altro che banale e implica una proprietà fondamentale dei fluidi secondo la quale la forza che il fluido stesso esercita nell’intorno di un punto assegnato su una superficie piana di area D S è sempre data in modulo dal prodotto P D S, indipendentemente dall’orientazione della superficie e dal punto. Naturalmente, affinché quest’ultima proprietà sia valida, bisogna che le dimensioni della superficie siano molto minori della quantità `0 introdotta precedentemente, il 3

Si noti che il simbolo 0 che compare a secondo membro dell’equazione deve essere inteso come il vettore nullo. Più precisamente esso dovrebbe essere scritto col simbolo 0. Qui e nel seguito preferiamo non utilizzare quest’ultima notazione in quanto è difficile che un’equazione del tipo v = 0 possa generare equivoci sul suo significato.

1.2 Il principio di Pascal e la legge fondamentale dell’idrostatica

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che è sempre vero per superfici infinitesime. Bisogna infine aggiungere che, se P è costante, non solo è nulla la risultante delle forze che agiscono sulla superficie S , ma è nullo anche il momento risultante delle forze stesse, condizione anch’essa necessaria per la staticità. Per tale momento si ha infatti I Msup = − r ⇥ (P n ) dS , S

dove r è il vettore posizione staccato a partire da un’origine arbitraria, assunta come centro di riduzione del momento delle forze. Essendo P costante, si ottiene Msup = −P

I

S

r ⇥ n dS ,

e questo integrale è nullo in base a un’ulteriore proprietà geometrica delle superfici chiuse che è dimostrata nella Sez. 9.1 e secondo la quale risulta I

S

r ⇥ n dS = 0 ,

con S arbitraria e r definito rispetto a un’origine anch’essa arbitraria.

1.2 Il principio di Pascal e la legge fondamentale dell’idrostatica Il risultato che abbiamo ottenuto nel paragrafo precedente può essere riassunto dicendo che in un fluido in equilibrio, e fintanto che è lecito trascurare le forze di volume che agiscono sul fluido stesso, la pressione è costante. Questa affermazione traduce, in termini più moderni, un principio, enunciato dal fisico e matematico francese Blaise Pascal (1623-1662) e portante il suo nome, che può essere enunciato dicendo che “Una pressione, esercitata in un punto qualunque di una sostanza fluida in equilibrio, si trasmette ovunque nella massa del fluido, in tutti i sensi e con uguale intensità”. Il principio di Pascal ha avuto molta importanza nella storia del pensiero scientifico moderno. Esso è anche alla base di notevoli applicazioni tecniche, quali il torchio idraulico illustrato nella Fig. 1.3. Quando si vanno a considerare anche gli effetti delle forze di volume, il risultato ottenuto precedentemente cessa di essere valido e deve essere sostituito da una legge più generale. Per trovarla, ritorniamo all’equazione fondamentale della statica, la quale ci dice che, per una superficie chiusa arbitraria immersa in un fluido in equilibrio deve valere l’Eq. 1.1, per cui si deve avere −

I

S

P n dS +

Z

V

r g dV = 0 .

Applichiamo adesso questa equazione a un parallelepipedo infinitesimo avente uno degli spigoli parallelo alla direzione locale del vettore g. Indichiamo con z la coordinata misurata lungo la direzione di g e supponiamo che il parallelepipedo abbia

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1 Statica dei fluidi

F2

F1

S1

S2

Figura 1.3 Il torchio idraulico viene utilizzato per esercitare notevoli forze di compressione. Applicando la forza F1 su S1 , si ottiene su S2 la forza F2 . I moduli delle due forze sono legati dalla relazione F2 = F1 S2 /S1 e si possono ottenere forze molto elevate giocando sulle dimensioni dei due pistoni. Il torchio idraulico può essere considerato una specie di leva. Applicazioni comuni si trovano nei martinetti idraulici e nel sistema frenante degli autoveicoli. In tempi passati veniva utilizzato anche in stamperia

dimensioni dx, dy e dz, come mostrato in Fig. 1.4. Scomponendo le forze lungo i tre assi, si ottengono le tre equazioni [P(x + dx, y, z) − P(x, y, z)] dy dz = 0 , [P(x, y + dy, z) − P(x, y, z)] dz dx = 0 ,

[P(x, y, z + dz) − P(x, y, z)] dx dy = r g dx dy dz , dalle quali si ottiene, dividendo per il volumetto infinitesimo e introducendo le derivate parziali della funzione P ∂P =0 , ∂x

∂P =0 , ∂y

∂P = rg . ∂z

Introduciamo adesso il “gradiente” di una funzione scalare del punto f = f (r), definendolo come il vettore (si veda anche la Sez. 9.2) —f ⌘

∂f ∂f ∂f xˆ + yˆ + zˆ , ∂x ∂y ∂z

dove abbiamo scelto la notazione col simbolo “nabla" e dove xˆ , yˆ e zˆ sono tre versori diretti, rispettivamente, lungo gli assi x, y, e z di un sistema cartesiano ortogonale. In modo più sintetico, possiamo dunque scrivere la condizione di equilibrio per un fluido in forma differenziale come —P = r g .

(1.2)

1.2 Il principio di Pascal e la legge fondamentale dell’idrostatica

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x F5 y F4

dz

F1 F2 g

F3 z dx dy F6

Figura 1.4 Il sistema cartesiano ortogonale è scelto in modo che l’asse z sia diretto come g

Questa è l’equazione fondamentale dell’idrostatica, che traduce in forma differenziale (valida punto per punto) la condizione di equilibrio in Eq. 1.1. Nel caso che si abbia g = 0, si ottiene —P = 0, ovvero P = costante. In questo limite si ritrova quindi il principio di Pascal, il quale però è più generale, essendo valido anche nel caso in cui siano presenti le forze di volume, pur di restringersi a considerare elementi di fluido aventi dimensioni ⌧ `0 . L’equazione fondamentale dell’idrostatica implica che la pressione in un fluido aumenta spostandosi lungo la direzione del campo di gravità. Intuitivamente questo può essere capito facendo riferimento alla Fig. 1.4. Le forze laterali si compensano a coppie (F1 con F2 e F3 con F4 ) ma, affinché il parallelepipedo sia in equilibrio, la forza F6 deve essere maggiore in modulo della forza F5 così da compensare il peso del fluido contenuto nel parallelepipedo stesso. Infine, bisogna aggiungere che l’equazione fondamentale dell’idrostatica implica anche che il momento totale delle forze (di volume e di superficie) che agiscono su un volume arbitrario V di fluido racchiuso dalla superficie S è nullo, ovvero, se è soddisfatta l’Eq. 1.2, si deve anche avere I Z − r ⇥ (P n ) dS + r ⇥ (r g ) dV = 0 , S

V

dove r è il raggio vettore staccato da un’origine arbitraria (centro di riduzione dei momenti). La dimostrazione che questa equazione discende dall’Eq. 1.2 non è elementare in quanto implica la conoscenza di alcune conseguenze del teorema di Gauss. D’altra parte, se tale equazione non fosse soddisfatta, si arriverebbe all’assurdo che un fluido non potrebbe mai essere in equilibrio!

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1 Statica dei fluidi

1.3 Distinzione fra liquidi e aeriformi Le sostanze fluide vengono spesso distinte in sostanze liquide e sostanze aeriformi. Tradizionalmente, si definisce liquido un corpo che non ha forma propria ma che si adatta alla forma del recipiente in cui è contenuto, occupandone però, in generale, soltanto una frazione. Un aeriforme invece occupa tutto il volume del recipiente che ha a disposizione. C’è da dire, comunque, che queste definizioni sono tutt’altro che rigorose essendo connesse alle proprietà del comportamento dei fluidi nelle condizioni fisiche standard che si riscontrano nell’esperienza comune. Basta tuttavia immaginare delle situazioni un po’ più “esotiche” per rendersi conto che le definizioni date sono piuttosto superficiali e perdono spesso di significato. Se si considera ad esempio una goccia di pioggia, oppure una goccia d’acqua che sta levitando in assenza di gravità all’interno di una navicella spaziale, nessuno dubita che si tratti di un liquido, ma dov’è il recipiente che lo contiene? L’aria che costituisce l’atmosfera terrestre è senza dubbio una sostanza aeriforme, ma è forse vero che essa occupa tutto lo spazio a sua disposizione? E cosa si deve poi intendere in questo caso per “spazio a sua disposizione”? Una distinzione più corretta, dal punto di vista fisico, fra sostanze liquide e sostanze aeriformi può essere data solo in termini del concetto di comprimibilità che può essere facilmente illustrato mediante una descrizione microscopica. In un liquido, le distanze intermolecolari sono dello stesso ordine di grandezza delle dimensioni delle molecole stesse. A tali piccole distanze le molecole si attirano e formano dei legami che però si rompono, a causa dell’agitazione termica, per riformarsi, immediatamente dopo, con altre molecole contigue4 . In un aeriforme, invece, le molecole si trovano, in media, a distanze molto grandi rispetto alle loro dimensioni dimodoché le forze di coesione, pur presenti, sono molto più deboli e non alterano praticamente il moto di agitazione. In altre parole, si può immaginare un liquido come un insieme di molecole che scorrono l’una sull’altra mantenendosi praticamente a contatto, mentre in un aeriforme le molecole si trovano a grandi distanze l’una dall’altra e si muovono liberamente nello spazio subendo al più, di tanto in tanto, delle collisioni con altre molecole o con le pareti dell’eventuale recipiente. Le considerazioni ora svolte permettono di stabilire una differenza fondamentale fra liquidi e aeriformi. Nei primi, così come nei solidi, le molecole si trovano a stretto contatto fra loro. Questo fatto, unito alla quasi assoluta incompenetrabilità delle molecole, fa sì che le densità dei liquidi (e quelle dei solidi) siano relativamente elevate e praticamente indipendenti dalla pressione. Al contrario, le densità degli aeriformi sono notevolmente minori di quelle tipiche dei liquidi e dipendono in maniera significativa dalla pressione. Comprimendo un aeriforme, infatti, non si fa altro che ridurre lo spazio vuoto che separa le molecole fra loro e la densità, rimanendo la massa costante, può essere aumentata considerevolmente. Quanto sopra esposto può essere espresso in maniera quantitativa mediante l’introduzione del concetto di modulo di comprimibilità. Dato un corpo di volume V , 4

In un solido, al contrario, i legami sono stabili e fissi nello spazio. L’effetto dell’agitazione termica è solo quello di fare oscillare ciascuna molecola intorno a una posizione determinata.

1.3 Distinzione fra liquidi e aeriformi

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lo si sottoponga a un piccolo aumento di pressione D P. Per effetto dell’aumento di pressione, il volume del corpo varia di una quantità DV proporzionale sia a V che a D P. Il modulo di comprimibilità (o di compressibilità) del corpo, e, è definito dall’equazione (si noti il segno meno introdotto nell’equazione per fare in modo che e risulti positivo) DV 1 = − DP , V e e, come si vede, ha le dimensioni di una pressione. Esso dipende dalla natura della sostanza di cui è fatto il corpo e, soprattutto per gli aeriformi, dalle modalità con cui viene eseguito l’esperimento dimodoché, per essi, si distingue fra “modulo di comprimibilità isotermo” e “modulo di comprimibilità adiabatico”, a seconda che la variazione di volume avvenga mantenendo il corpo a temperatura costante oppure evitando che esso scambi calore con l’ambiente. Tale distinzione è praticamente inessenziale per i solidi e i liquidi. È anche importante sottolineare che per i solidi il modulo di comprimibilità, e, non deve essere confuso col modulo di elasticità (o modulo di Young), E, che si riferisce all’allungamento relativo di una dimensione del corpo per trazione (o al suo accorciamento relativo per compressione). Quando si allunga un corpo solido lungo una direzione, le sue dimensioni laterali diminuiscono. Ad esempio, se si considera una sbarra a sezione circolare di lunghezza ` e raggio r, e si indicano con D ` e D r le loro variazioni a seguito di un processo di trazione, si ha D r/r = −s D `/`, dove s è il cosiddetto modulo di Poisson. Tenendo conto di questo fatto, si può facilmente dimostrare che, per un solido, il modulo di comprimibilità è legato al modulo di elasticità e al modulo di Poisson dalla relazione e=

E . 3 (1 − 2 s )

Per i liquidi e gli aeriformi, invece, i moduli di elasticità e di Poisson non sono definiti. Tipicamente, i valori di e sono dell’ordine di 109 − 1011 N m−2 per un corpo liquido o solido mentre sono dell’ordine di 105 N m−2 per un aeriforme nelle usuali condizioni di laboratorio. I valori delle densità e del modulo di comprimibilità (adiabatico) di alcune sostanze sono riportati nella Tab. 1.1. Per le sostanze solide sono dati anche i valori di E e di s . Come si vede dalla tabella, il modulo di comprimibilità tipico di un aeriforme è quattro o cinque ordini di grandezza minore di quello tipico di un liquido. Infine, per completezza, accenniamo al fatto che fra le sostanze aeriformi si distingue spesso fra gas e vapori. La distinzione è, in questo caso, puramente terminologica e non fisica. In generale, si parla infatti di vapore solo quando, in determinate situazioni, una stessa sostanza è presente sia nella fase liquida che nella fase aeriforme ed esiste la possibilità, per le molecole della sostanza stessa, di passare da una fase all’altra.

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1 Statica dei fluidi

Tabella 1.1 Valori della densità, r, e del modulo di comprimibilità, e, per varie sostanze solide, liquide e aeriformi alla temperatura di 20◦ C e alla pressione di una atmosfera. Per gli aeriformi, il modulo di comprimibilità riportato è quello adiabatico. Per i solidi sono riportati anche il modulo di elasticità (o modulo di Young), E, e il modulo di Poisson, s Sostanza Acciaio Rame Alluminio Vetro Piombo Cemento Mercurio Acqua Acqua marina Alcool etilico Aria Ossigeno (O2 ) Elio Idrogeno (H2 )

r (kg m−3 ) 7.9 ⇥ 103 9.0 ⇥ 103 2.7 ⇥ 103 2.6 ⇥ 103 11.3 ⇥ 103 2.8 ⇥ 103 13.6 ⇥ 103 0.997 ⇥103 1.025 ⇥103 0.79 ⇥ 103 1.21 1.33 0.17 0.083

E (N m−2 ) 2.0 ⇥ 1011 1.2 ⇥ 1011 6.7 ⇥ 1010 6.5 ⇥ 1010 1.5 ⇥ 1010 3.0 ⇥ 109 – – – – – – – –

s 0.30 0.34 0.33 0.25 0.40 0.20 – – – – – – – –

e (N m−2 ) 1.7 ⇥ 1011 1.3 ⇥ 1011 6.6 ⇥ 1010 4.3 ⇥ 1010 2.5 ⇥ 1010 1.7 ⇥ 109 2.7 ⇥ 1010 2.2 ⇥ 109 2.2 ⇥ 109 9.1 ⇥ 108 1.42 ⇥ 105 1.42 ⇥ 105 1.69 ⇥ 105 1.42 ⇥ 105

1.4 La legge di Stevino Cerchiamo adesso le conseguenze della legge fondamentale dell’idrostatica (1.2) nel caso particolare della gravità terrestre, caso nel quale il vettore accelerazione di gravità, g, può considerarsi costante e diretto verso il basso. Indicando con h l’altezza misurata rispetto a una quota arbitraria (ovvero possiamo scegliere h ⌘ −z se z è l’asse verticale diretta verso il basso in Fig. 1.4), l’andamento con h della pressione di un fluido è regolato dall’equazione dP = −r g . dh Se si ha a che fare con un liquido, anche la densità r può essere considerata in prima approssimazione costante. Risolvendo l’equazione differenziale si ottiene la cosiddetta legge di Stevino5 P = P0 − r g (h − h0 ) ,

(1.3)

dove P0 è la pressione presente all’altezza h0 . In base alla legge di Stevino, la pressione in un liquido varia linearmente con l’altezza diminuendo mano a mano che si procede verso l’alto, in maniera del tutto indipendente dalla forma del recipiente 5

Stevino è la forma italiana del nome del matematico e fisico fiammingo Simon Stevin (1548-1620).

1.4 La legge di Stevino

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nel quale il liquido stesso è contenuto. Questo fatto è alla base del cosiddetto “principio dei vasi comunicanti” e porta a delle conseguenze che possono apparire, in alcuni casi, contrarie al senso comune, come è mostrato nella Sez. 9.3 che illustra il cosiddetto “paradosso di Pascal”. Per trattare il caso più generale degli aeriformi, in cui la densità r non è costante, conviene riscrivere l’equazione fondamentale dell’idrostatica nella forma equivalente rg 1 dP =− , P dh P ovvero, introducendo la quantità H attraverso la definizione H=

P , rg

possiamo scrivere

d 1 ( ln P ) = − . dh H La quantità H, che è in generale funzione di h, ha un significato fisico rilevante. Come è facile verificare, essa ha le dimensioni di una lunghezza e rappresenta la cosiddetta “scala d’altezza”, ovvero la scala sulla quale la pressione cambia in maniera significativa. La pressione in due punti diversi, che differiscano in altezza di una quantità D h molto minore di H, è praticamente la stessa, il che significa che la scala d’altezza coincide, in questo caso, con la quantità più generale, `0 , che abbiamo introdotto parlando del principio di Pascal. Nel caso degli aeriformi nel campo della gravità si può introdurre l’approssimazione di considerare il rapporto fra la pressione e la densità indipendente dall’altezza6 . La scala d’altezza, H, è quindi costante e l’equazione differenziale può essere facilmente risolta per dare P = P0 e−(h−h0 )/H , (1.4) dove P0 è la pressione corrispondente all’altezza h0 . Come si vede, diversamente rispetto al caso dei liquidi, si ha una diminuzione esponenziale della pressione con l’altezza. Salendo di una quota pari a H, la pressione risulta ridotta di un fattore pari a “e” (' 2.71), il cosiddetto numero di Eulero, o di Nepero. È interessante valutare la scala d’altezza per vari fluidi a livello della superficie terrestre, dove la pressione, come vedremo in seguito, vale P0 = 1.013 ⇥ 105 N m−2 e l’accelerazione di gravità vale circa 9.81 m s−2 . Esprimendo la densità in kg m−3 , la scala d’altezza, espressa in m, risulta H [m] =

1.033 ⇥ 104 . r [kg m−3 ]

In un liquido come l’acqua (r = 103 kg m−3 ), la scala d’altezza è dell’ordine di 6 Per un gas perfetto, questo equivale a supporre che la temperatura T non vari con l’altezza. L’equazione di stato si può infatti scrivere come P = (R/Mmol ) r T , con R costante dei gas e Mmol massa molare della sostanza (si veda l’Eq. 4.2).

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1 Statica dei fluidi

10 m, mentre in un aeriforme come l’aria (r ' 1.3 kg m−3 ) la scala d’altezza risulta pari a circa 8 km. Nel primo caso risulta interessante studiare l’aumento della pressione con la profondità nel mare, che è di tipo lineare in quanto si applica la legge di Stevino, Eq. 1.3, dove la profondità è il termine −(h − h0 ) se h0 è l’altezza corrispondente alla superficie del mare. Troviamo che alla profondità di H = 10 m la pressione raddoppia rispetto al valore atmosferico alla superficie, P0 ; a 10 H = 100 m si hanno valori già circa 10 volte maggiori; un batiscafo che si avventuri nei fondali oceanici più profondi, diciamo 1000 H = 10 km, deve essere in grado di supportare una pressione che raggiunge valori di 1000 volte P0 . Nel caso degli aeriformi con P µ r, per cui la scala d’altezza possa essere considerata costante, la diminuzione della pressione (e della densità) risulta molto più rapida, rispetto al valore di H, in quanto segue l’Eq. 1.4. Un alpinista sulle vette dell’Himalaya, h ' H = 8 km, trova una pressione circa tre volte inferiore a P0 ; un pallone sonda stratosferico può arrivare ad altezze ' 5 H = 40 km dove, secondo questo modello approssimato di atmosfera, la pressione risulta già circa 150 volte minore rispetto al valore al suolo.

1.5 L’esperienza di Torricelli L’aria, ovvero la sostanza nella quale viviamo, è sicuramente il gas che ci è più familiare. È quindi del tutto naturale domandarsi quale sia il valore della pressione che l’aria esercita sui corpi con cui è a contatto e, in particolare, anche sui nostri corpi, ovvero quale sia, come si dice in termini più tecnici, il valore della “pressione atmosferica”. A questa domanda seppe rispondere, con una celebre esperienza che porta il suo nome, un allievo di Galileo, Evangelista Torricelli (1608-1647). L’esperienza, illustrata nella Fig. 1.5, consiste nel riempire preliminarmente un robusto tubo di vetro, chiuso a un’estremità, con del mercurio, un liquido di densità particolarmente elevata, e nell’immergerlo poi, dalla parte dell’estremità aperta, entro una bacinella riempita anch’essa di mercurio. Se il tubo è sufficientemente lungo, si osserva che il mercurio, che inizialmente riempiva completamente il tubo, defluisce parzialmente nella bacinella e si assesta, in modo tale che il pelo libero entro il tubo viene a trovarsi a una certa altezza, che indichiamo con D h, al di sopra del pelo libero del mercurio presente nella bacinella. In questa operazione viene a prodursi entro il tubo uno spazio apparentemente vuoto nel quale è tuttavia presente del vapore saturo di mercurio (vuoto Torricelliano). Sottolineiamo, per inciso, che le esperienze di Torricelli erano soprattutto mirate proprio a “creare” il vuoto e discreditare così l’idea filosofica prevalente del tempo secondo la quale la natura avrebbe avuto “orrore del vuoto” (il famoso “horror vacui”). In effetti, la prima macchina pneumatica fu realizzata solo pochi anni dopo (1649) ad opera del fisico tedesco Otto Von Guericke il quale, essendo anche borgomastro della città di Magdeburgo (Germania), ne approfittò per allestire nella piazza principale la celeberrima esperienza degli emisferi

1.5 L’esperienza di Torricelli

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vapor saturo di mercurio (vuoto torricelliano)

∆h = 76 cm

mercurio

Figura 1.5 Illustrazione dell’esperienza di Torricelli

descritta nella Sez. 9.3. Possiamo adesso applicare la legge di Stevino (1.3) per determinare la pressione del mercurio a livello del pelo libero della bacinella, ovvero la pressione atmosferica, che indichiamo con Patm . Se analizziamo l’equilibrio delle forze che agiscono sulla superficie ideale che separa, entro il tubo, il mercurio che si trova al di sopra del pelo libero da quello che si trova al di sotto del pelo libero, e se indichiamo con rm la densità del mercurio, si ottiene Patm = rm g D h + Pvap , dove Pvap è la pressione del vapor saturo di mercurio presente nell’estremità superiore del tubo. In generale questa quantità è molto piccola rispetto al prodotto rm g D h e può quindi essere trascurata nell’equazione precedente. I valori che si determinano sperimentalmente per D h dipendono dall’altitudine del luogo dove si compie l’esperienza e, a parità di altitudine, dalle condizioni meteorologiche7 . A livello del mare, il valore di D h è circa 76 cm. La dipendenza dall’altitudine è ovvia ed è approssimativamente descritta dall’Eq. 1.4. Mano a mano che si sale a partire dal livello del mare la pressione atmosferica diminuisce, semplicemente perché diminuisce la massa della colonna d’aria sovrastante. Il suo valore si dimezza a un’altitudine dell’ordine di 5 km, il che è consistente col valore della scala d’altezza H (circa 8 km) determinato nel paragrafo precedente. La dipendenza dalle condizioni meteorologiche si spiega col fatto che le masse di aria umida con7

Esistono anche altre ragioni che alterano il valore di D h. La densità del mercurio varia infatti con la temperatura e l’accelerazione di gravità varia leggermente da luogo a luogo. In prima approssimazione questi due fenomeni possono essere trascurati. Quando però si desidera una precisione molto elevata se ne può tener conto mediante opportune correzioni che implicano la conoscenza della temperatura al momento della misura e quella della gravità locale.

20

1 Statica dei fluidi

tengono considerevoli quantità di vapor acqueo (H2 O) che, avendo peso molecolare pari a 18, è più leggero dell’aria (peso molecolare medio 28.8)8 . Un abbassamento della pressione atmosferica è quindi indicativo dell’arrivo di masse d’aria cariche d’umidità (perturbazioni). L’esperienza di Torricelli è anche alla base della definizione di un’unità di misura del tutto particolare per la pressione. Accanto alle usuali unità di misura del Sistema Internazionale e del sistema c.g.s., chiamate rispettivamente Pascal (abbreviato “Pa”) e baria 1 Pa = 1 N m−2 , 1 baria = 1 dine cm−2 , è stata introdotta anche l’unità detta Atmosfera standard, abbreviata col simbolo “Atm”, e definita dalla pressione esercitata da una colonna di mercurio alla temperatura di 0◦ C, alta esattamente 76 cm laddove l’accelerazione di gravità è pari al valore standard di 9.80665 m s−2 . Poichè la densità del mercurio a tale temperatura è 13.5951 ⇥ 103 kg m−3 , se ne deduce che 1 Atm = 13.5951 ⇥ 103 ⇥ 9.80665 ⇥ 0.76 Pa = 1.01325 ⇥ 105 Pa . D’altra parte, poiché 1 Pa = 10 barie, si ha anche 1 Atm = 1.01325 ⇥ 106 barie . C’è da dire anche che la pressione è probabilmente la quantità fisica per la quale nella pratica viene utilizzato il maggior numero di unità di misura diverse. Senza menzionare le unità utilizzate nei paesi anglosassoni, accanto alle tre unità di cui sopra vengono utilizzate anche il bar (1 bar = 106 barie), il kg peso su cm2 (o Atmosfera tecnica, abbreviata con “at”), il millimetro di mercurio (abbreviato con “Torr”) e il centimetro di mercurio. I meteorologi utilizzano comunemente il millibar per misurare la pressione atmosferica (1 Atm = 1013.25 millibar), i medici misurano la pressione arteriosa in millimetri di mercurio (in Italia) oppure in centimetri di mercurio (in altri paesi), nelle applicazioni tecniche si preferisce l’Atmosfera tecnica (pari a circa 0.98 bar), etc.. Infine bisogna menzionare il fatto che gli strumenti che servono a misurare la pressione vengono chiamati barometri (quando sono destinati a misurare la pressione atmosferica) oppure manometri (in tutti gli altri casi). Il manometro più semplice dal punto di vista concettuale è costituito da una scatola metallica nella quale è stato praticato il vuoto e che presenta una parete deformabile. La deformazione prodotta dalla pressione su tale parete può essere amplificata mediante un sistema di leve e tradotta nello spostamento di un indice su una scala graduata. Un tale manometro è detto olosterico.

8

A parte alcune specie minori, l’aria è composta per il 79% di Azoto molecolare (N2 , peso molecolare 28) e per il 21% di Ossigeno molecolare (O2 , peso molecolare 32).

1.6 Il principio di Archimede e il galleggiamento dei corpi

21

1.6 Il principio di Archimede e il galleggiamento dei corpi Consideriamo un corpo di forma arbitraria che si trovi immerso, in quiete, in un fluido anch’esso in quiete, come illustrato nella Fig. 1.6. Il fluido esercita sulla superficie S del corpo delle forze di pressione la cui risultante è data da Rsup = −

I

S

P n dS ,

dove abbiamo al solito indicato con n il versore diretto secondo la normale esterna a S e con P la pressione, funzione del punto. Pensiamo adesso, in un esperimento ideale, di sostituire al corpo immerso un altro corpo, avente esattamente la stessa forma ma costituito dello stesso fluido. Questo corpo “immaginario” subisce le stesse forze di pressione del corpo “vero” (le forze di pressione, ovviamente, “non sanno” su quale corpo stanno agendo!) e risulta in equilibrio sotto l’azione della risultante delle forze di superficie, espressa dall’equazione precedente, e della risultante delle proprie forze di volume. Se ne deduce quindi che la risultante delle forze di superficie è uguale e opposta alla risultante delle forze di volume che si esercitano sul corpo “immaginario”. Lo stesso ragionamento può essere ripetuto anche riguardo al momento delle forze e se ne deduce che il momento risultante delle forze di superficie è uguale e opposto al momento risultante delle forze di volume che si esercitano sul corpo “immaginario”. Quando si applicano queste considerazioni al caso particolare in cui le forze di volume siano quelle dovute alla gravità terrestre, si perviene al cosiddetto principio di Archimede9 che si può enunciare dicendo che “Un corpo immerso in un fluido subisce una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del fluido spostato”. Al fine

R sup

g

Σ

Figura 1.6 Illustrazione del principio di Archimede nel campo della gravità terrestre. Le forze di pressione sono più intense a profondità maggiori. La loro risultante, Rsup , equivale a una forza diretta verso l’alto (spinta di Archimede), imperniata nel centro di spinta, ovvero nel centro di massa del fluido spostato 9

Matematico e fisico greco-siracusano (287-212 A.C.)

22

1 Statica dei fluidi

del calcolo del momento delle forze tale spinta può pensarsi imperniata nel centro di massa del fluido spostato. Tale punto viene detto “centro di spinta”. A proposito del principio di Archimede è opportuno osservare due cose. La prima è che, quando applicato a un corpo immerso in un liquido, il principio è valido sia che il corpo sia totalmente immerso nel liquido sia che esso sia solo parzialmente immerso (e quindi galleggi). In effetti, la dimostrazione che abbiamo dato è del tutto generale e nulla vieta di pensare al fluido in cui si trova immerso il corpo come composto di due fasi, una liquida (ad esempio acqua) e una aeriforme (ad esempio aria). L’unico aspetto cui bisogna fare attenzione è che, per un corpo che galleggia, il centro di massa del fluido spostato coincide in pratica col centro di massa del liquido spostato (poiché la densità dell’aeriforme è trascurabile rispetto alla densità del liquido). La seconda osservazione è che nella nostra dimostrazione abbiamo supposto che sia il corpo che il fluido siano entrambi in quiete. Mentre l’ipotesi del fluido in quiete è strettamente necessaria per la validità del principio, quella del movimento del corpo immerso può essere in effetti rilasciata, purché il moto del corpo avvenga con velocità piccola rispetto alla velocità con le quale le variazioni di pressione possono propagarsi nel fluido, ovvero piccola rispetto alla velocità del suono nel fluido stesso10 . Consideriamo un corpo di massa m e volume V , totalmente immerso in un liquido nel campo della gravità terrestre. Se la densità del liquido è r, la spinta di Archimede, FA , è diretta verso l’alto ed è data, in modulo, da FA = r V g . A seconda che tale forza sia maggiore o minore del peso del corpo, mg, il corpo tenderà a salire entro il liquido o a sprofondare nel liquido stesso. La condizione affinché si verifichino i due casi è data, rispettivamente dalle due disuguaglianze rV > m ,

rV < m ,

ovvero, se il corpo ha densità media hrc i = m/V , r > hrc i ,

r < hrc i .

Nel primo caso, il corpo, salendo, può arrivare a raggiungere il pelo libero del liquido, dove trova una posizione di equilibrio assestandosi in modo che il volume immerso, V 0 , sia tale da verificare l’equazione11 r V 0 = m = hrc iV . 10

Come vedremo in seguito, un corpo in movimento entro un fluido è soggetto anche a forze di viscosità oltre che alla spinta di Archimede. 11 In effetti questa equazione è corretta solo se la densità del gas (o dell’eventuale altro fluido) col quale il liquido si trova a contatto è trascurabile rispetto a quella del liquido stesso. Altrimenti, essa dovrebbe essere sostituita dall’equazione più generale

dove rgas è la densità del gas.

rV 0 + rgas (V −V 0 ) = hrc iV ,

1.6 Il principio di Archimede e il galleggiamento dei corpi

23

Il volume immerso è quindi dato da V0 =

hrc i V T1 . L’esperienza mostra che esiste un flusso continuo di calore diretto dal lato 2 verso il lato 1 e che, indicando con dS l’area di un elemento di superficie della parete, la quantità di calore dQ che fluisce nell’intervallo di tempo26 t attraverso tale superficie è data da dQ = k t

T2 − T1 dS , `

dove k è una costante, detta conducibilità termica, che dipende dalla natura della sostanza di cui è costituita la parete. Questa equazione descrive in termini matematici un certo numero di fatti empirici che fanno parte dell’esperienza comune. La conducibilità termica è infatti una quantità che ha un ampio intervallo di variazione fra sostanza e sostanza. Ad esempio, un metallo quale l’argento ha una conducibilità termica di circa 400 W m−1 K−1 , mentre la conducibilità termica del vetro, espressa nelle stesse unità, è 0.8 e quella della fibra di vetro, o del sughero, è 0.04. Come si vede, si possono avere fino a 4 ordini di grandezza di differenza fra sostanza e sostanza e si parla quindi di buoni conduttori di calore e di isolanti termici. Una sottile parete di sughero di 1 mm isola altrettanto bene di un’ipotetica parete di argento spessa 10 m. L’equazione precedente può essere espressa in maniera differenziale facendo riferimento a una superficie infinitesima dS “orientata”, ovvero associata al versore perpendicolare u. In un mezzo avente conducibilità termica k, e nel quale la temperatura sia descritta dalla funzione del punto T (r), il flusso elementare di calore, ovvero la quantità di calore che fluisce nell’unità di tempo attraverso la superficie dS, che indichiamo con dF, definito positivamente quando il calore fluisce nella stessa direzione di u, è espresso dall’equazione dF = −k —T · u dS , detta postulato di Fourier27 , dove il segno meno è dovuto al fatto che il flusso è 26

Per semplicità useremo il simbolo t per indicare il tempo, ma questo non deve essere confuso con la temperatura espressa nella scala Celsius. 27 Il fisico e matematico francese Jean-Baptiste Joseph Fourier (1768-1830) è considerato il padre fondatore dello studio della propagazione del calore e uno dei più grandi fisici-matematici di tutti i tempi.

4.5 La trasmissione del calore

105

diretto in direzione opposta rispetto al gradiente di temperatura28 . Se si considera entro il mezzo un volume V arbitrario, racchiuso dalla superficie S , indicando con n la normale esterna alla superficie stessa, il flusso di quantità di calore che penetra attraverso la superficie S è dato da F=

I

S

k —T · n dS .

D’altra parte, tale flusso di calore provoca una variazione di temperatura del mezzo contenuto entro la superficie S , e si ha Z

r cP

V

∂T dV = F = ∂t

I

S

k —T · n dS ,

dove cP è il calore specifico massico del mezzo29 e r la sua densità (l’elemento di volume ha massa dm = r dV ). L’integrale di superficie può essere trasformato in un integrale di volume per mezzo del teorema di Gauss, analogamente alla procedura seguita in cinematica dei fluidi per ricavare l’equazione di continuità. Si ottiene Z

V

r cP

∂T dV = ∂t

Z

V

— · (k —T ) dV ,

ovvero, essendo il volume V arbitrario r cP

∂T = — · (k —T ) . ∂t

Nel caso infine che il mezzo sia omogeneo e che k possa quindi essere considerato indipendente dal punto, si arriva alla cosiddetta equazione della diffusione del calore ∂T = D —2 T , ∂t

(4.5)

dove —2 è l’operatore Laplaciano e dove D, il coefficiente della diffusione avente le dimensioni di una velocità areolare, è dato da D=

k . r cP

Questa equazione è tipica di tutti i fenomeni diffusivi e presenta la particolarità di essere un’equazione differenziale del primo ordine nel tempo. Come tale essa descrive un fenomeno che non può essere invertito temporalmente perché l’equazione non risulta invariante nello scambio t ! −t. Se si vuole, la stessa cosa può essere 28 L’operatore differenziale di gradiente, —, e quelli a esso associati che useremo in questa sezione sono stati già introdotti per lo studio dei fluidi. 29 Affinchè Il ragionamento che abbiamo sviluppato sia valido è necessario che il mezzo sia statico. Ad esempio, nel caso di un fluido, la velocità deve essere ovunque nulla e quindi la pressione deve essere costante. Questa è la ragione per cui nell’equazione compare il calore specifico massico a pressione costante cP .

106

4 Termometria e calorimetria

espressa dicendo che un film che ritragga un fenomeno regolato dall’equazione della diffusione descriverebbe, se fatto girare “a rovescio”, un fenomeno che non può avvenire in natura. Un’ovvia conseguenza dell’equazione della diffusione è che, in situazioni stazionarie, cioè indipendenti dal tempo, la funzione T (r) in un mezzo omogeneo deve essere tale da soddisfare l’equazione di Laplace30 —2 T = 0 . In particolare, se si considera un caso unidimensionale in cui la temperatura dipende solo dalla coordinata x, la funzione T (x) è di tipo lineare. All’interno di una parete omogenea i cui estremi si trovino a temperature diverse, la temperatura cresce linearmente dall’estremo più freddo a quello più caldo. Le considerazioni che abbiamo ora svolto sulla trasmissione del calore per conduzione si applicano sia ai solidi che ai fluidi. Tuttavia, in questi ultimi, il calore si può trasmettere anche a causa del movimento e del conseguente rimescolamento di porzioni macroscopiche del fluido stesso. A questo fenomeno, che in generale rappresenta un mezzo molto più efficiente (rispetto alla conduzione) di trasmettere il calore, si dà il nome di convezione e si distingue fra convezione naturale e convezione forzata a seconda che il movimento del fluido sia dovuto a variazioni di densità che risultano da differenze di temperatura entro il fluido stesso, oppure che il movimento sia provocato da un agente esterno, quale ad esempio una pompa o un ventilatore. Fenomeni di trasmissione di calore per convezione naturale sono quelli che si verificano nel riscaldamento di una stanza da parte di un radiatore oppure nel riscaldamento di una pentola d’acqua disposta su una fiamma. Bisogna anche dire che la convezione è il meccanismo di trasporto di calore che opera nell’interno della Terra e nelle cosiddette “zone convettive” degli interni stellari31 . Il fenomeno della convezione è molto complesso e dipende in grande misura dal tipo di moto che si sviluppa nel fluido (laminare o turbolento), dalle dimensioni fisiche dell’ambiente in cui il moto ha luogo (che possono andare dalla decina di centimetri, nel caso della pentola, a qualche metro, nel caso della stanza scaldata dal radiatore, a decine di migliaia di km nel caso della Terra e del Sole), da diverse caratteristiche fisiche del fluido stesso (densità, calore specifico, conducibilità termica, viscosità, coefficiente di dilatazione termica) e dal valore della gravità. Per la sua analisi vengono introdotte delle quantità adimensionali, quali il numero di Reyolds e il numero di Prandtl32 , definito dall’equazione Pr =

h cP , k

dove h è la viscosità del fluido, cP il calore specifico massico a pressione costante e 30

La funzione T è dunque una funzione armonica, e valgono le stesse considerazioni effettuate nella Sez. 2.4 (dinamica dei fluidi ideali) per il potenziale di un campo di velocità stazionario, incomprimibile e irrotazionale. 31 Nel Sole, ad esempio, esiste una zona convettiva che è situata poco al di sotto della superficie visibile e che si estende per circa un quarto del raggio solare. I moti convettivi provocano in superficie il cosiddetto fenomeno della granulazione. 32 Dal nome del fisico e matematico tedesco Ludwig Prandtl (1875-1953)

4.5 La trasmissione del calore

107

k la conducibilità termica. Il caso più semplice di convezione è quello in cui si ha una parete calda a contatto con un fluido (ben illustrata dall’esempio del radiatore domestico). L’esperienza mostra che il calore trasmesso dalla parete al fluido nell’intervallo di tempo t è proporzionale a t stesso, all’area della parete, A, e alla differenza fra la temperatura della parete, Tp , e la temperatura del fluido, Tf , la quale può considerarsi costante a causa dei continui processi di rimescolamento. In formule, si ha l’equazione (detta equazione di Newton) Q = ht A (Tp − Tf ) ,

dove h è il cosiddetto “coefficiente di convezione” che, in prima approssimazione, può essere considerato costante. Questa equazione è molto simile a quella che regola la conduzione, con la differenza che il flusso di calore non dipende, in questo caso, dal gradiente di temperatura ma, più semplicemente, dalla differenza di temperatura fra parete e fluido. L’altra differenza fondamentale è dovuta al fatto che la quantità h risulta, in ogni caso, di difficile valutazione perché non dipende solo dalla natura della parete e del fluido ma da molte altre circostanze. In pratica, si fa ricorso a tabelle empiriche o a formule approssimate che collegano il valore di h alle caratteristiche del moto convettivo che viene a stabilirsi (dimensione delle celle di convezione, carattere laminare o turbolento del moto convettivo, etc.). Ad esempio, per una parete verticale in aria alla pressione atmosferica, il coefficiente di convezione espresso in cal s−1 m−2 K−1 è dato dalla formula empirica (le temperature sono espresse in K oppure in ◦ C) h = 0.424 (Tp − Tf )1/4 . Questa formula viene comunemente utilizzata dagli ingegneri per progettare il dimensionamento dei radiatori necessari per riscaldare un determinato ambiente. Resta infine da parlare della terza modalità attraverso la quale è possibile scambiare calore fra corpi, ovvero dell’irraggiamento. Si tratta di un fenomeno di tipo diverso da quelli considerati precedentemente (conduzione e convezione) in quanto tale scambio di calore può avvenire indipendentemente dal fatto che i corpi siano a contatto o che esista un gradiente di temperatura nel mezzo interposto. Anzi, nei casi più tipici, non esiste neppure un mezzo interposto, oppure il mezzo non partecipa in nessun modo allo scambio stesso. Il fatto fondamentale da tener presente è che un corpo che si trovi a una certa temperatura emette nello spazio circostante onde elettromagnetiche33 dando luogo al cosiddetto fenomeno dell’emissione termica. Tali onde, che trasportano energia, si propagano sia nello spazio vuoto che in certi tipi di mezzi materiali (quali ad esempio l’aria) che si possono considerare, in prima approssimazione, “trasparenti” alla radiazione stessa, e possono poi essere assorbite (o riflesse) da un secondo corpo. Poiché le onde elettromagnetiche vengo33

Si ricordi che ciò che chiamiamo “luce” altro non è che radiazione elettromagnetica con lunghezza d’onda compresa fra circa 0.4 e 0.8 µm. Al di fuori di questo intervallo il nostro occhio non è sensibile alla radiazione elettromagnetica. A lunghezze d’onda più brevi di 0.4 µm si parla di radiazione ultravioletta, raggi X e raggi g, mentre per lunghezze d’onda maggiori di 0.8 µm si parla di radiazione infrarossa, microonde e radioonde.

108

4 Termometria e calorimetria

no emesse dal primo corpo a scapito dell’agitazione termica delle particelle che lo compongono e poiché, quando vengono assorbite dal secondo corpo, l’energia che esse trasportano si trasforma di nuovo in agitazione termica, ne segue che esiste uno scambio di calore fra il corpo emettitore e quello assorbente. Esempi tipici di oggetti che emettono termicamente sono il Sole, le lampade a incandescenza, le resistenze delle stufe elettriche, i metalli arroventati, le lave delle eruzioni vulcaniche, le colate degli altiforni, etc.34 . Quando la radiazione elettromagnetica incide su un corpo essa è in parte assorbita e in parte riflessa (o diffusa in tutte le direzioni) e si può indicare con a (0  a  1) il rapporto fra l’energia assorbita e quella incidente, tenendo presente che in pratica il coefficiente a è funzione della lunghezza d’onda, l , della radiazione. Sotto normali condizioni di illuminamento alla luce solare, un corpo che abbia a = 1 a tutte le lunghezze d’onda ci apparirà di colore nero, mentre un corpo che abbia a = 0 a tutte le lunghezze d’onda ci apparirà di colore bianco35 . Il fenomeno dell’emissione termica può essere descritto in termini quantitativi facendo riferimento al caso ideale di un corpo che si trovi all’equilibrio termodinamico alla temperatura T e per il quale si abbia identicamente a(l ) = 1 a qualsiasi l . Un tale corpo viene detto “corpo nero” ed è stato ampiamente studiato sia dal punto di vista sperimentale che dal punto di vista teorico. In termini pratici si realizza un corpo nero praticando una piccola apertura nelle pareti di un forno che viene portato a una temperatura assegnata. Ovviamente, tutta la radiazione che incide sull’apertura del forno viene assorbita, indipendentemente dalla sua lunghezza d’onda, e la condizione a(l ) = 1 è così automaticamente soddisfatta. La radiazione che fuoriesce dall’apertura costituisce la realizzazione più soddisfacente, dal punto di vista sperimentale, della radiazione di corpo nero. Gli studi sperimentali hanno mostrato che l’emissione del corpo nero è una funzione universale della lunghezza d’onda e della temperatura. L’interpretazione teorica dei risultati ha costituito per lungo tempo uno dei problemi fondamentali della fisica, problema che è stato risolto nel 1900 dal fisico tedesco Max Planck (1858-1947) per mezzo dell’introduzione di concetti quantistici. Indicando con dWl l’energia emessa in tutto il semispazio dall’unità di superficie di un corpo nero nell’unità di tempo e nell’intervallo di lunghezza d’onda compreso fra l e l + dl , si ha dWl = f (l , T ) dl , 34 Emissione di onde elettromagnetiche si ha anche nelle fiamme e nei tubi di scarica (detti anche tubi al neon). In questi casi, tuttavia, non si parla di vera e propria emissione termica perché tali oggetti non si trovano in equilibrio termodinamico (la loro temperatura dipende dal termometro col quale si esegue la misura. . .). In verità bisogna dire che anche gli oggetti enumerati precedentemente si trovano solo approssimativamente in equilibrio termodinamico e quindi la loro emissione è detta più propriamente “quasi-termica”. 35 Il colore di un corpo dipende dall’andamento della funzione a(l ) (con l lunghezza d’onda della radiazione elettromagnetica) nell’intervallo compreso fra 0.4 µm (limite violetto dello spettro) e 0.8 µm (limite rosso dello spettro). Al variare della funzione a(l ) sono possibili tutte le tonalità cromatiche. Naturalmente, il colore con cui ci appare un oggetto non ci dice nulla a proposito dell’andamento della funzione al di fuori dell’intervallo suddetto. Ad esempio per la neve si ha a = 0 nel visibile ma a ' 1 nell’infrarosso, per cui la neve ci apparirebbe nera, invece che bianca, se il nostro occhio fosse sensibile solo ai raggi infrarossi!

4.5 La trasmissione del calore

109

dove f (l , T ) è una funzione universale di l e T data da f (l , T ) =

i−1 ⇣ c ⌘ c1 h 2 −1 exp . 5 l lT

In questa equazione, c1 e c2 sono due costanti dette rispettivamente prima e seconda costante della radiazione. Esse sono date, in termini della velocità della luce, c, della costante di Planck, h, e della costante di Boltzmann, kB , dalle espressioni c1 = 2 p h c2 = 3.7412 ⇥ 10−16 J m2 s−1 ,

c2 =

hc = 1.43879 ⇥ 10−2 m K . kB

Se si va poi a considerare, invece di un corpo nero, un corpo qualsiasi che si trovi all’equilibrio termodinamico alla temperatura T , l’equazione che esprime il dWl viene modificata per la semplice introduzione del fattore a(l ) (legge di Kirchhoff) e si ottiene dWl = a(l ) f (l , T ) dl . Integrando l’equazione che definisce f (l , T ) su tutte le lunghezze d’onda36 si ottiene, per l’energia totale emessa in tutto il semispazio dall’unità di superficie del corpo nero nell’unità di tempo (4.6) W = s T4 , dove s è la cosiddetta costante di Stefan-Boltzmann37 che vale s=

2p 5 kB4 p 4 c1 = = 5.6693 ⇥ 10−8 J m−2 s−1 K−4 . 4 15 c2 15 h3 c2

Per un corpo arbitrario invece si ottiene ¯ )s T4 , W = a(T ¯ ) è la media sula lunghezza d’onda della funzione a(l ) pesata sulla dove a(T distribuzione della radiazione emessa, ovvero ¯ )= a(T

R• 0

a(l ) f (l , T ) dl . 0 f (l , T ) dl

R•

Come applicazioni, si veda la Sez. 10.5 per la stima della temperatura ottimale per il corpo umano, mentre qui consideriamo un problema di natura astrofisica. In prima approssimazione la radiazione elettromagnetica emessa dal Sole può essere considerata come la radiazione di un corpo nero avente la temperatura superficiale, T� , pari a circa 5800 K. Usando l’Eq. 4.6, se R� è il raggio solare, l’energia totale emessa 36

L’integrazione si esegue per mezzo del cambiamento di variabile x = c2 /(l T ) e tenendo conto che l’integrale fra 0 e • della funzione x3 [exp(x) − 1]−1 in dx vale p 4 /15. 37 La legge 4.6 per l’emissione di un corpo nero fu determinata sperimentalmente dal fisico austriaco Josef Stefan (1835-1893).

110

4 Termometria e calorimetria

dal Sole per unità di tempo, la cosiddetta luminosità solare, L� , è data da L� = 4 p R2� s T�4 . Consideriamo adesso un pianeta, di raggio Rp , che si trovi alla distanza d dal Sole. L’angolo solido D W sotto cui il pianeta è visto dal Sole è pari a pR2p /d 2 , per cui l’energia che incide sulla superficie del pianeta per unità di tempo è la frazione D W /(4p) della luminosità solare. Di questa energia viene assorbita dal pianeta solo la frazione a¯ � , la media della funzione a(l ) relativa alla superficie del pianeta pesata sulla radiazione solare. La frazione (1 − a¯ � ) (chiamata albedo) viene ridiffusa nello spazio. La potenza assorbita dal pianeta è quindi was = a¯ �

R2p R2� DW L� = a¯ � p s T�4 . 4p d2

Se il pianeta ha temperatura Tp , anch’esso emette radiazione nello spazio, e la potenza emessa è data da wem = 4 p R2p a¯ p s Tp4 , dove a¯ p è la media della stessa funzione a(l ) pesata però sulla radiazione emessa dal pianeta. In situazioni stazionarie le due potenze was e wem devono essere uguali. Da tale uguaglianza si può così ricavare la temperatura del pianeta che risulta ✓ ◆ r a¯ � 1/4 R� Tp = T� . 4 a¯ p d Come si vede, la temperatura del pianeta non dipende dalle sue dimensioni ma solo dai valori di a¯ e dalla distanza dal Sole. Nel caso della Terra, ad esempio, la distanza d dal Sole è circa 1.5 ⇥ 108 km mentre il valore stimato di a¯ � è pari a 0.67. Tenendo conto che R� ' 7 ⇥105 km, e che T� ' 5800 K, assumendo a¯ p = 1 si ottiene TTerra ' 250 K che è una stima teorica ragionevole della temperatura media della Terra38 .

38 In realtà la temperatura media della Terra è 25◦ C (298 K), ovvero quasi 50 K maggiore della stima teorica. Questa differenza è dovuta al fatto che il valore a¯ p = 1 sarebbe corretto se la Terra fosse sprovvista di atmosfera. In effetti, parte della radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre non fluisce liberamente nello spazio ma viene “intrappolata” dall’atmosfera (effetto serra). Il valore corretto per a¯ p è 0.52. È importante notare che una diminuzione relativa dell’1% di a¯ p provocherebbe l’aumento di 0.8 K della temperatura media della Terra.

Capitolo 5

Termodinamica

5.1 Il primo principio della termodinamica Come abbiamo già avuto occasione di menzionare nella Sez. 4.4, le classiche esperienze di calorimetria che si limitavano a considerare lo scambio di quantità di calore fra corpi diversi erano sostanzialmente interpretabili alla luce del concetto di “calorico”, ovvero dell’esistenza di un fluido capace di trasmettersi da un corpo all’altro mediante uno dei tre modi illustrati nel paragrafo precedente. Tuttavia, altri tipi di esperienze, quali quella classica del mulinello di Joule, mettendo in evidenza che il calore può essere generato in maniera per così dire “indipendente” a spese di lavoro meccanico (o di lavoro elettrico), contraddicevano chiaramente la teoria del fluido calorico. Nel contesto storico della metà del XIX secolo, in piena rivoluzione industriale, si aggiungevano ulteriori fatti sperimentali che erano alla base del funzionamento delle cosiddette “macchine termiche”, ovvero di dispositivi meccanici, quali la macchina a vapore, capaci di produrre lavoro meccanico a spese di calore fornito dall’esterno (tipicamente per combustione di carbone o altri combustibili fossili). Era infatti noto, fra l’altro, che la compressione adiabatica (cioè senza scambio di calore) di un gas provoca un innalzamento di temperatura del gas stesso e l’interpretazione di questo fenomeno poteva essere data seguendo due linee di ragionamento diverso. La prima interpretazione (che oggi sappiamo essere errata) si basava sulla teoria del fluido calorico e consisteva nel pensare che nella compressione la quantità di calore contenuta nel gas rimaneva la stessa, cioè si conservava. Il fatto che il gas risultasse più caldo era semplicemente dovuto al fatto che il gas era compresso e che, a causa di questo fatto, diminuisse in qualche modo la sua capacità termica come se il calorico ci si trovasse, per così dire, “un po’ più stretto”. La seconda interpretazione (quella corretta) era che il gas si scaldava per il fatto che nella compressione si compie su di esso un lavoro meccanico. Se la compressione è “quasi statica”, ovvero se procede lentamente attraverso successivi stati di equilibrio, il lavoro compiuto

© Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 E. Landi Degl’Innocenti, Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica, https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9_5

111

112

5 Termodinamica

F

dh

gas

Figura 5.1 In un processo infinitesimo di compressione del gas contenuto nel pistone, il lavoro compiuto sul gas è dato dal prodotto della forza F per lo spostamento dh. D’altra parte la forza F è data dal prodotto P S, dove S è la superficie del pistone. Il lavoro è quindi dato da P S dh è può anche essere scritto come −P dV dove dV è la variazione infinitesima del volume del gas

sul gas può essere valutato mediante l’integrale (si veda la Fig. 5.1) L=−

Z Vf Vi

P dV ,

dove P è la pressione del gas (che aumenta durante il processo di compressione) e dove Vi e Vf sono, rispettivamente, il volume iniziale e il volume finale del gas (Vf < Vi ). Per dirimere la questione, Joule effettuò una serie di esperienze, rimaste famose negli annali della fisica e basate sull’idea delle trasformazioni cicliche, con le quali riuscì a mostrare la correttezza della seconda interpretazione. La più celebre di tali esperienze è quella della cosiddetta “espansione libera”, illustrata nella Fig. 5.2, nella quale si fa espandere liberamente un gas aprendo istantaneamente il rubinetto che separa un recipiente pieno di gas compresso da un altro nel quale è stato praticato il vuoto. Il processo avviene entro un calorimetro di Regnault in modo tale da poter misurare la variazione di temperatura dell’acqua a seguito del processo, e da questa risalire alla variazione di temperatura del gas nell’espansione libera. Il risultato delle esperienze di Joule è che l’espansione libera è un processo nel quale non si ha praticamente alcuna variazione di temperatura. Questo contraddice la prima delle interpretazioni, quella basata sull’ipotesi del calorico, e ne fornisce un’ulteriore controprova. Alla luce delle esperienze di Joule i tempi erano ormai maturi per l’enunciazione del primo principio della termodinamica1 . Esso traduce in una semplice equazio1

L’idea dell’equivalenza tra calore e lavoro era già stata avanzata dal medico e naturalista tedesco Julius

5.1 Il primo principio della termodinamica

113

Rubinetto

Figura 5.2 Illustrazione schematica di un’esperienza di espansione libera. Inizialmente una delle due bombole è piena di gas mentre l’altra è evacuata. L’espansione libera avviene per semplice apertura del rubinetto che connette le due bombole. Un termometro (non disegnato in figura) misura la variazione di temperatura del liquido presente nel calorimetro (generalmente acqua)

ne la legge di conservazione dell’energia la quale, già nota per i sistemi meccanici conservativi, viene generalizzata a inglobare anche i fenomeni termici attraverso l’introduzione del concetto di energia interna. Il primo principio della termodinamica si enuncia dicendo che, in una trasformazione termodinamica, la variazione di energia interna di un sistema fisico, DU, è uguale alla quantità di calore che viene fornita al sistema, Q, diminuita del lavoro che il sistema compie verso l’esterno, L, ovvero DU = Q − L . (5.1) Prima di illustrare questa equazione attraverso degli esempi specifici, è necessario fare un certo numero di osservazioni sul suo significato. Innanzitutto bisogna precisare che quando si applica il primo principio bisogna fare una distinzione netta fra ciò che costituisce il sistema fisico che si sta analizzando (che, ovviamente, può anche essere costituito da due o più sottosistemi diversi) e ciò che invece è estraneo al sistema stesso, l’ambiente esterno, tantoché talvolta, per enfatizzare questo concetto, si dice che si deve distinguere il sistema dall’“Universo esterno”. Una volta “isolato” il sistema, si definisce la sua energia interna come la somma di tutte le energie (meccanica, termica, di legame, chimica, ed eventualmente anche elettrica, magnetica, e di altre forme) che gli competono. Con questa precisazione si comprende come il principio sia in effetti di assoluta generalità, potendo inglobare, ad esempio, anche i fenomeni di natura elettromagnetica. Tuttavia, nel seguito di Mayer (1814-1878) e il principio di conservazione dell’energia dal fisiologo e fisico tedesco Hermann Helmholtz. Il primo principio è quindi ricordato con i tre nomi di Joule, Mayer e Helmholtz.

114

5 Termodinamica

questo volume, terremo in considerazione solo i fenomeni di natura meccanica e termica (con qualche breve cenno ai fenomeni chimici) seguendo un’esposizione di tipo “classico” della termodinamica. Il fatto di aver correttamente isolato il sistema è anche importante per poter precisare cosa si intende per Q e per L. Q è la quantità di calore che fluisce dall’ambiente esterno verso il sistema, mentre L è il lavoro meccanico che il sistema compie sull’ambiente esterno. Naturalmente, se il calore fluisce dal sistema verso l’ambiente esterno, la quantità Q da sostituire nell’Eq. 5.1 sarà di segno negativo, e, analogamente, se è l’ambiente esterno a compiere lavoro sul sistema, la quantità L da sostituire nella stessa equazione sarà di segno negativo e porterà quindi un contributo positivo a DU. A questo proposito è doveroso dire che la formulazione che abbiamo dato del primo principio implica una convenzione sui segni di Q e L che è del tutto arbitraria, sebbene sia quella seguita dalla maggior parte degli autori2 . Ad esempio, seguendo Feynmann, avremmo potuto scrivere il primo principio nella forma DU = Q + L0 , con il che la quantità L0 rappresenterebbe il lavoro compiuto dall’ambiente esterno sul sistema invece del lavoro compiuto dal sistema sull’ambiente esterno. Naturalmente, essendo L0 = −L, le due formulazioni sono identiche. Una seconda osservazione concerne il fatto che il principio si applica alle cosiddette “trasformazioni termodinamiche” dei sistemi fisici ed è quindi necessario specificare cosa si intenda con queste parole. Per trasformazione termodinamica di un sistema fisico si intende una trasformazione che avviene fra due stati, uno iniziale e uno finale, che sono entrambi stati di equilibrio termodinamico, ovvero fra due stati in cui le diverse grandezze fisiche macroscopiche che caratterizzano il sistema stesso (ivi inclusa la temperatura) sono univocamente definite. Se si considera, ad esempio, un gas, esso è caratterizzato dal punto di vista macroscopico dalla pressione, dalla temperatura e dalla composizione chimica e il fatto che queste quantità debbano essere univocamente definite implica, ad esempio, che si debbano escludere tutte quelle situazioni di non equilibrio che possono verificarsi comunemente in pratica. Prendiamo il caso di una reazione chimica di tipo esplosivo che si svolge, per fissare le idee, entro un recipiente a tenuta. Prima di innescare la reazione (ad esempio mediante una scintilla) il gas si trova in uno stato di equilibrio termodinamico. Al momento dell’innesco della reazione e negli istanti immediatamente successivi, invece, si stabilisce una complessa situazione di non equilibrio in cui non è ovviamente possibile parlare in modo univoco di pressione, temperatura e composizione chimica. Quest’ultima, in particolare, sta evolvendo rapidamente da uno stato a un altro proprio perché si sta sviluppando la reazione chimica. Se si attende però che la reazione si sia completata, l’equilibrio meccanico e termico si ristabiliscono e il gas ritorna a trovarsi in uno stato di equilibrio termodinamico (ovviamente diverso da quello iniziale). Un altro esempio che può servire a chiarire le idee è quello in cui si hanno due porzioni di un fluido che si trovano a temperature diverse e che sono separate da una parete adiabatica. Se si sopprime istantaneamente 2 La convenzione è quella che scaturisce naturalmente nello studio delle macchine termiche (si veda oltre), studio che ha avuto importanza fondamentale nello sviluppo della termodinamica.

5.1 Il primo principio della termodinamica

115

la parete, i due fluidi si mescolano dando luogo a un sistema che si trova in una situazione di non-equilibrio e per il quale la temperatura non può essere definita. Solo alla fine del processo di diffusione il sistema ritorna in uno stato di equilibrio termodinamico. Ritornando quindi al significato dell’Eq. 5.1, sebbene nessuno dubiti che la conservazione dell’energia valga anche per stati di non-equilibrio, essa viene generalmente utilizzata valutando il DU solo fra stati di equilibrio termodinamico. Osserviamo ancora che, una volta che ci si limiti a considerare stati di equilibrio termodinamico, l’energia interna risulta una funzione univoca dei parametri termodinamici. Se si considera ad esempio3 una certa massa di gas e si specificano i valori di T e P (o T e V ), oltre che la composizione chimica, è ovvio che l’energia interna debba assumere un valore stabilito. Questo fatto empirico si esprime dicendo che l’energia interna è una “funzione di stato dei parametri termodinamici”. L’ovvia conseguenza è che, se si considerano due diverse trasformazioni termodinamiche, diciamo la trasformazione 1 e la trasformazione 2, che connettono lo stesso stato iniziale A allo stesso stato finale B, si deve avere DU = UB −UA = Q1 − L1 = Q2 − L2 , dove Q1 e L1 sono la quantità di calore e il lavoro scambiati dal sistema con l’ambiente esterno nella trasformazione 1 e Q2 e L2 sono le analoghe quantità scambiate nella trasformazione 2. In particolare, se si considera una trasformazione ciclica nella quale lo stato iniziale del sistema coincide con lo stato finale, si deve avere Q−L = 0 , ovvero il lavoro compiuto dal sistema è uguale alla quantità di calore assorbita dal sistema stesso. Un’ulteriore osservazione riguarda la possibilità di scrivere l’Eq. 5.1 in forma differenziale. Ovviamente, poiché tale equazione è del tutto generale, essa vale anche per trasformazioni infinitesime, ovvero per trasformazioni nelle quali l’energia interna varia di una quantità molto piccola a causa di scambi altrettanto piccoli di calore e di lavoro con l’ambiente esterno. Per tali trasformazioni si ha quindi dU = dQ − dL .

(5.2)

È tuttavia importante sottolineare la differenza che esiste fra le quantità infinitesime che compaiono in questa equazione. Infatti, l’energia interna è una funzione di stato e il dU è un vero e proprio differenziale che può essere scritto, qualora si considerino 3 L’esempio del gas è quello più utilizzato per illustrare i concetti della termodinamica perché i suoi stati fisici di equilibrio dipendono in pratica dai due soli parametri T e V (oppure T e P, oltre che dalla composizione chimica). Non bisogna però dimenticare che il concetto di energia interna è estremamente generale e che, quando si considerino altri sistemi fisici, è spesso necessario introdurre ulteriori parametri per caratterizzarne gli stati. Ad esempio, nel caso di un liquido per il quale siano importanti i fenomeni di tensione superficiale bisogna specificare anche la superficie, nel caso di un equilibrio liquido-vapore bisogna specificare il rapporto di massa fra le due fasi, nel caso si considerino sistemi in moto bisogna specificare anche la velocità del centro di massa, etc.

116

5 Termodinamica

ad esempio T e V come parametri termodinamici indipendenti, nella forma ✓ ◆ ◆ ✓ ∂U ∂U dU = dT + dV , ∂T V ∂V T dove dT e dV sono, rispettivamente, le variazioni infinitesime di T e di V che subisce il sistema nella trasformazione. Al contrario, delle espressioni analoghe non valgono né per il dQ, né per il dL perché tali quantità non sono delle funzioni di stato. Talvolta, per sottolineare questo fatto, si preferisce scrivere l’Eq. 5.2 nella forma dU = d/Q − d/L ,

indicando, col simbolo d/, una quantità che è infinitesima, ma non è un differenziale esatto. Questa notazione non appare particolarmente utile e non sarà da noi utilizzata nel seguito. Un’osservazione finale riguarda poi i casi particolari dell’Eq. 5.1 che si verificano quando si considerano solo trasformazioni di tipo meccanico oppure solo trasformazioni di tipo termico. Se si suppone che non esistano scambi di calore fra il sistema e l’ambiente esterno, si ha infatti DU = −L . Se si considera il fatto che −L rappresenta, consistentemente con le nostre convenzioni, il lavoro compiuto sul sistema, questa non è altro che la generalizzazione dell’equazione nota in meccanica come “teorema delle forze vive” (o “teorema dell’energia cinetica”). D’altra parte, se si suppone che sul sistema non venga compiuto alcun lavoro meccanico, l’Eq. 5.1 risulta DU = Q , la quale mostra che per questo tipo di trasformazioni la quantità di calore coincide, a meno di un’inessenziale costante additiva, con l’energia interna. È per questo tipo di trasformazioni (e solo per queste) che l’ipotesi del “fluido calorico” è in effetti corretta.

5.2 Illustrazioni del primo principio Passiamo adesso a illustrare il primo principio per alcune tipiche trasformazioni termodinamiche. a) Urto anelastico Come esempio tipico di urto anelastico, si consideri un proiettile che si muove con velocità v e che si arresta nell’urto contro un sacchetto di sabbia. Se si considera come sistema termodinamico l’insieme del proiettile e del sacchetto di sabbia, la “trasformazione termodinamica” costituita dall’urto avviene praticamente senza

5.2 Illustrazioni del primo principio

117

scambio di calore o di lavoro con l’ambiente esterno, e si deve quindi avere DU = 0. D’altra parte, quella parte di energia interna del sistema costituita dall’energia cinetica del proiettile viene perduta nell’urto e deve quindi ritrovarsi come energia interna del sacchetto di sabbia (e del proiettile). Si deve quindi avere un innalzamento di temperatura di entrambi gli oggetti che, una volta raggiunto l’equilibrio può essere valutato con l’equazione 1 m v2 , DT = 2 C dove m è la massa del proiettile e C la capacità termica complessiva del sacchetto di sabbia e del proiettile. b) Reazione chimica esotermica Si consideri una reazione chimica esotermica che avviene entro un recipiente a tenuta, detto “bomba calorimetrica”4 , immerso in un calorimetro. Di nuovo, il sistema costituito dai reagenti, dal recipiente e dal calorimetro è un sistema isolato sia meccanicamente che termicamente, e si ha DU = 0. Se si aspetta un lasso di tempo sufficiente dal momento dell’innesco (che si può effettuare, ad esempio, mediante una scintilla, la cui energia è del tutto trascurabile rispetto alle altre energie in gioco) si raggiunge l’equilibrio termico fra la bomba e il liquido calorimetrico e si constata un aumento di temperatura, D T , del sistema. Da tale aumento si può risalire alla quantità di calore che si è prodotta nella reazione chimica, ovvero al cosiddetto calore di reazione, Qreaz , che è dato, in prima approssimazione, dall’espressione Qreaz = C D T , dove C è la capacità termica del liquido contenuto nel calorimetro. La trasformazione termodinamica comporta in questo caso una trasformazione di energia chimica in energia termica. c) Cambiamento di stato Un recipiente contenente una sostanza solida viene posto in contatto diatermico con una sorgente di calore5 avente temperatura uguale a quella del punto di fusione della sostanza stessa. Il recipiente è chiuso ed è isolato termicamente dall’ambiente esterno. Mano a mano che la sorgente fornisce calore il solido fonde e si trasforma completamente in liquido quando è stata somministrata la quantità di calore Q. Applicando il primo principio al sistema costituito dalla sostanza e dal recipiente, e osservando che la temperatura del recipiente stesso non è cambiata, e che non è 4

Una bomba vera e propria differisce da una bomba calorimetrica soltanto nel sistema di innesco e nel fatto che le pareti sono più sottili, dimodoché possano spezzarsi per effetto dell’aumento della pressione. No comment. . . 5 Quando in termodinamica si parla di sorgenti di calore aventi temperatura assegnata si fa riferimento a un concetto ideale, assumendo che la sorgente sia in grado di fornire (o di sottrarre) al corpo con cui è in contatto una quantità di calore grande a piacere senza alterare la propria temperatura. La realizzazione pratica di una sorgente di calore è un bagno termostatico avente capacità termica molto grande (al limite infinita). Perché avvenga effettivamente il passaggio di calore dalla sorgente al sistema fisico con cui è a contatto (attraverso una parete diatermica) bisogna inoltre pensare che esista una piccolissima differenza di temperatura (idealmente infinitesima) fra il sistema e la sorgente. A seconda che tale differenza sia positiva o negativa il calore può fluire in un senso o nell’altro.

118

5 Termodinamica

stato compiuto lavoro meccanico, si ottiene DU = Q , dove DU è la variazione di energia interna della sostanza. Questo tipo di trasformazione permette di determinare il calore latente della sostanza stessa. Se la massa della sostanza contenuta nel recipiente è m, il calore latente di fusione per unità di massa della sostanza, `, è dato da `=

Q . m

In questo caso la trasformazione termodinamica consiste nella trasformazione di energia termica della sorgente in energia interna della sostanza. In effetti, volendo vedere la cosa dal punto di vista microscopico, l’energia termica è stata in grado di spezzare i forti legami molecolari presenti nella fase solida e di trasformarli in legami più deboli tipici della fase liquida. Sono proprio tali legami che fanno sì che l’energia interna nella fase solida sia inferiore (a parità di massa) dell’energia interna nella fase liquida. d) Espansione isoterma di un gas perfetto Si consideri una massa assegnata di gas perfetto contenuto in un cilindro munito di pistone posto in contatto termico con una sorgente alla temperatura T . La sorgente fornisce al gas la quantità di calore Q e il gas si espande, passando dal volume Vi al valore Vf . Se non sono presenti forze di attrito fra cilindro e pistone, e se si suppone che l’espansione avvenga lentamente6 in modo che il gas evolva attraverso stati intermedi di equilibrio, il lavoro meccanico L che il gas compie sull’ambiente esterno (con la convenzione di segno implicita nell’Eq. 5.1) è dato da7 L=

Z Vf Vi

P dV ,

e ricordando l’equazione dei gas perfetti, L=

Z Vf N RT Vi

V

dV .

Poiché la temperatura è costante, l’integrale può essere facilmente valutato per dare ✓ ◆ Vf . (5.3) L = N R T ln Vi 6

“Lentamente” significa che le velocità in gioco devono essere piccole rispetto alla velocità del suono. Si noti che nel piano P −V il lavoro è rappresentato geometricamente dall’area della superficie di forma trapezoidale delimitata dalla curva che rappresenta la trasformazione, dalle due rette verticali V = Vi e V = Vf , e dal tratto dell’asse delle ascisse compreso fra Vi e Vf . Si noti anche che questa proprietà geometrica è del tutto generale valendo per trasformazioni arbitrarie (purché il gas evolva fra stati di equilibrio) e non solo per le isoterme. Una conseguenza di questo fatto è che il lavoro compiuto in un ciclo di trasformazioni di questo tipo è rappresentato geometricamente dall’area contenuta entro il ciclo stesso. Il lavoro è positivo se il ciclo è percorso in senso orario e negativo se è percorso in senso antiorario. 7

5.3 Calori specifici e trasformazioni adiabatiche di un gas perfetto

119

Applichiamo adesso il primo principio 5.1 al sistema costituito dal gas contenuto nel pistone. Se si osserva tuttavia che il gas è rimasto alla stessa temperatura e si assume che l’energia interna di un gas perfetto dipenda solo dalla temperatura8 , la variazione di energia interna è nulla e si ottiene L=Q . In questa trasformazione termodinamica, l’energia termica della sorgente è stata quindi completamente trasformata in lavoro, il quale, a sua volta, può essere trasformato a piacimento in energia cinetica (per far muovere ruote, leve, ingranaggi), energia gravitazionale (per sollevare pesi), etc.. La produzione di lavoro mediante espansione di un gas a spese del calore fornito da una sorgente è il meccanismo fisico di base per il funzionamento delle macchine termiche.

5.3 Calori specifici e trasformazioni adiabatiche di un gas perfetto Come abbiamo già menzionato nel paragrafo precedente, l’energia interna di un gas perfetto dipende unicamente dalla temperatura e non anche dal volume (o dalla pressione). Questo fatto ha delle conseguenze notevoli che è opportuno mettere in evidenza anche perché il comportamento dei gas reali, se sufficientemente lontani dalle condizioni critiche (si veda la Sez. 4.3), non differisce molto da quello dei gas perfetti. Consideriamo allora una trasformazione infinitesima di una certa quantità di gas perfetto, ovvero il nostro sistema fisico, partendo da valori specifici di pressione, volume e temperatura. Supponiamo, per fissare le idee, che il gas si trovi contenuto entro un cilindro munito di pistone e che esso si trovi in contatto con una sorgente alla temperatura T che può fornire o assorbire calore. In generale, per una trasformazione infinitesima arbitraria, si ha dU = dQ − P dV , e poiché l’energia interna dipende solo da T , si può anche scrivere dU dT = dQ − P dV . dT Consideriamo prima una trasformazione a volume costante, ovvero, come si dice in termodinamica, una trasformazione “isocora”, e ricordiamo la definizione della capacità termica a volume costante, CV . In questo caso possiamo scrivere dU dT = dQ = CV dT . dT 8 La validità dell’affermazione risulta dalle esperienze di espansione libera di Joule. Una prova teorica basata sulla teoria cinetica dei gas, sebbene limitata ai gas perfetti monoatomici, è contenuta nell’Eq. 7.2.

120

5 Termodinamica

L’uguaglianza tra il primo e l’ultimo membro di tale equazione permette di identificare la capacità termica a volume costante con la derivata dell’energia interna rispetto alla temperatura, ovvero

CV =

dU . dT

Alla luce di questo fatto, il primo principio per trasformazioni infinitesime può essere posto nella forma generale

CV dT = dQ − P dV . Per una trasformazione arbitraria, che identifichiamo col simbolo ⇤, il dQ è dato per definizione da C⇤ dT e dall’equazione precedente si trova (C⇤ − CV ) dT = P dV , ovvero, dividendo per dT

C⇤ − CV = P



∂V ∂T



.



In particolare, per una trasformazione a pressione costante, o “isobara”, si ottiene ◆ ✓ ∂V CP − CV = P . ∂T P La derivata parziale può essere facilmente valutata tenendo conto dell’equazione di stato dei gas perfetti e si ottiene il risultato

CP − CV = N R .

(5.4)

In particolare, quando si consideri una sola mole di gas (N = 1) CP −CV = R , dove CP e CV sono i calori specifici molari del gas perfetto a pressione e a volume costante, rispettivamente. Abbiamo quindi ottenuto il risultato che il calore specifico a pressione costante è maggiore del calore specifico a volume costante. La cosa risulta ovvia quando si consideri il fatto che in una trasformazione a volume costante la quantità di calore fornita dalla sorgente si trasforma unicamente in energia interna del gas mentre in una trasformazione a pressione costante in parte essa si trasforma in energia interna e in parte contribuisce a fornire lavoro sull’ambiente esterno. Osserviamo anche che l’equazione che abbiamo ottenuto è tipica della termodinamica. Essa fornisce una relazione fra quantità diverse (in questo caso CP e CV ) che, a priori, potrebbero apparire scorrelate. D’altra parte, se attraverso dei ragionamenti termodinamici abbiamo potuto determinare la differenza fra CP e CV , la termodinamica non ci dice

5.3 Calori specifici e trasformazioni adiabatiche di un gas perfetto

121

Tabella 5.1 Valori dei calori specifici molari dei gas perfetti e del loro rapporto Gas perfetto monoatomico biatomico poliatomico

CV R

CP R

3 2 5 2

5 2 7 2

3

4

g=

CP CV

5 3 7 5 4 3

nulla sui valori effettivi di queste quantità, per ottenere i quali è necessario ricorrere a esperimenti oppure a modelli teorici (teoria cinetica dei gas). Nella Sez. 7.1, ad esempio, vedremo che per un gas perfetto monoatomico l’energia di ogni particella è µ 32 T , da cui segue che CV = 32 R. L’equazione precedente ci assicura quindi che, per lo stesso gas, CP = 52 R. Per mezzo di esperimenti calorimetrici oggi sappiamo che i calori specifici molari dei gas perfetti (ovvero dei gas reali in condizioni di estrema rarefazione) sono ben rappresentati dai valori riportati nella Tab. 5.1. L’interpretazione fisica del fatto che un gas biatomico presenti un calore specifico molare a volume costante pari a 52 R (invece che 32 R) va ricercata nei “gradi di libertà interni” che presentano le molecole del gas e nel fatto che ad ogni grado di libertà compete, come è possibile provare per mezzo della teoria statistica (principio di equipartizione dell’energia, si veda la Sez. 8.6), un contributo a CV pari a 12 R. Mentre infatti in un gas monoatomico l’energia delle particelle è solo energia cinetica di traslazione, in un gas biatomico i due atomi costituenti la molecola possono ruotare l’uno intorno all’altro e questo comporta che la molecola possiede anche energia di rotazione. I possibili assi di rotazione sono però solo due, in quanto la rotazione intorno all’asse interatomico non è “efficace”, avendo la molecola momento d’inerzia praticamente nullo rispetto a tale asse. Ne segue che la molecola biatomica possiede 5 gradi di libertà (invece di 3) e questo porta al valore CV = 52 R. Analogamente, le molecole di un gas poliatomico (con esclusione delle molecole collineari) presentano 6 gradi di libertà e si ottiene CV = 3R. Consideriamo adesso una trasformazione adiabatica infinitesima di un gas perfetto. In tale trasformazione non si ha scambio di calore con l’ambiente, per cui CV dT = −P dV .

Sostituendo in luogo di P la sua espressione ricavata dall’equazione di stato dei gas perfetti e separando le variabili si ottiene dT N R dV =− . T CV V

La frazione che compare a secondo membro può essere espressa in forma diversa sfruttando l’Eq. 5.4 e introducendo il rapporto g fra calori specifici a pressione e a

122

5 Termodinamica

Figura 5.3 La curva a tratto continuo è un’adiabatica mentre la linea punteggiata è un’isoterma. Le due curve si intersecano nel punto avente volume V0 e pressione P0 . L’adiabatica è ottenuta assumendo per g il valore 1.667 (gas perfetto monoatomico)

volume costante g= Si ottiene

CV = e dunque

CP CP = . CV CV

1 NR , g −1

CP =

g NR , g −1

dT dV = −(g − 1) . T V Per un gas perfetto g è costante e l’equazione differenziale può essere facilmente risolta per dare ln T + (g − 1) lnV = costante . Prendendo gli esponenziali si ottiene la cosiddetta equazione di Poisson9 T V g−1 = costante ,

che può anche essere espressa in forma alternativa utilizzando l’equazione di stato dei gas perfetti ed eliminando il volume oppure la temperatura. Nel secondo caso si ottiene l’equazione equivalente PV g = costante ,

(5.5) g

che costituisce la forma più usata, in cui la costante può essere espressa come P0V0 , normalizzando ad uno stato di equilibrio noto. Confrontando l’Eq. 5.5 con l’equazione di Boyle e Mariotte (PV = costante) e 9

Dal nome del matematico e fisico francese Denis Poisson (1781-1840).

5.3 Calori specifici e trasformazioni adiabatiche di un gas perfetto

123

osservando che g > 1, si vede che nel piano di Clapeyron le curve che descrivono le trasformazioni adiabatiche10 sono più ripide delle isoterme, come illustrato nella Fig. 5.3. Applicazioni importanti delle equazioni che regolano le trasformazioni adiabatiche dei gas perfetti si trovano in meccanica dei fluidi. Ad esempio, come illustrato nella Sez. 2.5, le onde di pressione (sonore) in un fluido sono trattabili supponendo rapide trasformazioni dei volumetti elementari, in cui la conduzione termica non abbia tempo di intervenire e quindi adiabatiche in prima approssimazione11 . Un’altra applicazione è quella relativa al gradiente termico che si stabilisce nell’atmosfera terrestre per effetto dei moti convettivi dell’aria. A tale argomento è dedicata la Sez. 10.6. Inoltre, anticipiamo qui che il coefficiente adiabatico g può essere determinato sperimentalmente in modo abbastanza semplice, si veda la Sez. 10.7 per l’illustrazione dell’esperienza di Rüchardt12 . Illustriamo adesso il calcolo per il lavoro compiuto da un gas che si espande da un volume iniziale, V0 , ad uno finale, V , seguendo una curva adiabatica nel piano di Clapeyron piuttosto che una isoterma. Sfruttando l’Eq. 5.5, il lavoro si calcola come "✓ ◆ # Z V Z V /V0 P0V0 V 1−g −g P dV = P0V0 x dx = −1 , L= 1−g V0 V0 1 dove abbiamo posto x = V /V0 e le quantità V0 , P0 e T0 si riferiscono all’equilibrio iniziale. Ricordando che g > 1 e utilizzando la temperatura iniziale, il risultato si può esprimere come " ✓ ◆−(g−1) # V N R T0 1− . L= g −1 V0 Questa quantità di lavoro è sicuramente minore di quella corrispondente nel caso isotermo, se supponiamo che le curve si intersechino nello stesso punto (V0 , P0 ), come illustrato in Fig. 5.3. Ricordando l’Eq. 5.3, tale lavoro vale ✓ ◆ V L = N R T0 ln . V0 Essendo la pressione nel caso adiabatico sempre minore di quella corrispondente 10 Più precisamente si dovrebbe dire trasformazioni adiabatiche quasi statiche. Anche l’espansione libera è un’adiabatica, ma per essa T = costante. 11 Usando l’Eq. 5.5 come equazione di stato per un fluido soggetto a onde di pressione, il modulo di comprimibilità e, definito in Sez. 1.3, si scrive come ✓ ◆ dP dP = −V = gP , e = −V dV dV adiab.

dove V è un volume arbitrario di fluido soggetto a variazione dV indotta da una variazione di pressione d P. Il modulo di comprimibilità permettepdi ricavare p la velocità del suono per le onde di pressione (si veda la Sez. 2.5), che risulta data da cs = e/r = gP/r. 12 Eduard Rüchardt (1888-1962), fisico tedesco.

124

5 Termodinamica

al caso isotermo, per ogni V > V0 , anche l’area sottesa (il lavoro eseguito) risulterà dunque minore. Concludiamo questa sezione ricavando l’espressione per l’energia interna U di un gas perfetto. Dal fatto che la capacità termica a volume costante CV = dU/dT non dipende dalla temperatura, si ottiene la relazione di pura proporzionalità U = U(T ) = CV T , in cui abbiamo supposto che U = 0 allo zero assoluto T = 0 (l’inserimento di una costante additiva sarebbe comunque superfluo). Ricordando l’espressione di CV ricavata in precedenza e l’equazione di stato dei gas perfetti, possiamo anche scrivere 1 1 U= PV . N RT = g −1 g −1

5.4 Il secondo principio della termodinamica Il primo principio della termodinamica altro non è se non il principio di conservazione dell’energia. Qualora si tenga conto di tutte le forme di energia e si sommino fra loro, l’energia totale così ottenuta si conserva in un sistema isolato. Si possono avere scambi di energia fra sistema e sistema oppure, entro un unico sistema, scambi di energia fra una forma e l’altra ma, in ogni caso, l’energia totale resta la stessa. Volendo vedere le cose da un punto di vista diverso, ma strettamente equivalente, il primo principio asserisce che è impossibile costruire un “perpetuum mobile”, ovvero una “macchina” che possa, attraverso meccanismi più o meno complicati, muoversi in eterno senza apporto di energia esterna. Ogni movimento comporta infatti un seppur minimo attrito e a lungo andare il movimento inesorabilmente si arresta. Probabilmente, la prova più convincente della correttezza del primo principio risiede proprio nella manifesta impossibilità di riuscire a ottenere il moto perpetuo malgrado gli innumerevoli tentativi perpetrati nel corso dei secoli. Esiste tuttavia un altro tipo di perpetuum mobile, di tipo più sottile, che potrebbe essere compatibile col primo principio. Si potrebbe pensare, ad esempio, di sottrarre calore ai corpi che ci circondano, come all’acqua del mare, alla crosta terrestre, all’aria, e di trasformare tale calore in lavoro. Questo non contraddirebbe il principio di conservazione dell’energia e, approfittando del fatto che tali corpi sarebbero rapidamente riforniti in energia da parte del Sole, avremmo così a disposizione una fonte praticamente inesauribile di lavoro meccanico. Un’ipotetica macchina che lavorasse secondo un tale schema sarebbe del tutto equivalente a un perpetuum mobile ed è appunto chiamata perpetuum mobile di seconda specie. Sfortunatamente, anche il perpetuum mobile di seconda specie non è realizzabile. In effetti, fra tutte le trasformazioni termodinamiche che si possono immaginare e che soddisfano al primo principio della termodinamica, ne esistono molte che non possono prodursi in natura. È proprio il secondo principio della termodinamica a sancire in maniera netta quali siano possibili e quali no.

5.5 Le macchine termiche e il teorema di Carnot

125

Esistono molte formulazioni possibili del secondo principio, tutte fra loro equivalenti. Le due formulazioni più importanti dal punto di visto storico sono quella di Lord Kelvin, resa più rigorosa in seguito da Planck, e quella di Clausius13 . La prima (detta anche postulato di Kelvin-Planck) stabilisce che “È impossibile costruire una macchina termica lavorante in ciclo che produca lavoro meccanico a spese di un’unica sorgente di calore”. La seconda, detta postulato di Clausius, asserisce che “È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia il passaggio di calore da un corpo a una data temperatura a un altro corpo a temperatura più alta”. La dimostrazione dell’equivalenza delle due formulazioni è semplice in un caso ma più difficile nell’altro. Supponiamo che il postulato di Kelvin-Planck non sia vero. Allora è possibile costruire una macchina che lavora in ciclo il cui unico risultato è la produzione di lavoro a spese di un’unica sorgente. Potremmo quindi utilizzare tale lavoro meccanico per fornire calore (ad esempio mediante un mulinello di Joule) a una sorgente che si trovasse a temperatura più alta di quella che fa funzionare la macchina e il postulato di Clausius sarebbe così contraddetto. Si è quindi ottenuto che se non è vero il postulato di Kelvin-Planck non è vero neppure quello di Clausius, il che significa, a rigor di logica, che il postulato di Clausius implica quello di Kelvin-Planck. Per poter dimostrare il viceversa, ovvero che il postulato di KelvinPlanck implica quello di Clausius, è necessario compiere un’analisi dettagliata delle macchine termiche e delle loro proprietà.

5.5 Le macchine termiche e il teorema di Carnot Come asserito dal secondo principio della termodinamica, è impossibile costruire una macchina termica lavorante in ciclo che funzioni col calore fornito da una sola sorgente. Andiamo allora a esaminare la possibilità di costruirne una che lavori con due sorgenti a temperatura diversa che contraddistinguiamo con gli indici “a” e “b” che stanno per “alta temperatura” e “bassa temperatura”. Indichiamo con Qa e Qb le quantità di calore scambiate dal sistema con le due sorgenti, il segno di tali quantità essendo definito con la solita convenzione adottata nell’Eq. 5.1 (positivo se il sistema assorbe calore dalla sorgente, negativo se il sistema cede calore alla sorgente). In ogni ciclo (DU = 0), il lavoro meccanico compiuto dalla macchina, L, è dato da L = Qa + Qb , e affinché la macchina possa definirsi tale deve essere L > 0. Possiamo adesso provare che l’unica possibilità di funzionamento della macchina è quella in cui Qb < 0, ovvero quella in cui la macchina assorbe calore dalla sorgente ad alta temperatura e cede calore a quella a bassa temperatura. Per provarlo ragioniamo per assurdo, supponendo che sia Qb > 0 e pensando di associare alla macchina un “dispositivo supplementare” che faccia transitare (cosa 13 Le due formulazioni sono quasi contemporanee e sono dovute al fisico inglese Lord Kelvin (William Thomson, 1824-1907) e al fisico tedesco Rudolf Clausius (1822-1888).

126

5 Termodinamica

del tutto lecita) la quantità di calore Qb dalla sorgente ad alta temperatura a quella a bassa temperatura (vedi schema in Fig. 5.4). Se si fa un bilancio energetico della nuova macchina (la vecchia, più il dispositivo supplementare D), si vede che essa compie sempre il lavoro meccanico L ma adesso la sorgente a temperatura più bassa ha “recuperato” la quantità di calore che aveva ceduto al gas, dimodoché la nuova macchina funziona con un’unica sorgente, il che è assurdo perché contraddice il secondo principio. L’assurdo proviene dal fatto che abbiamo supposto Qb > 0 e questo prova che si deve avere necessariamente Qb < 014 . Nel seguito, indicheremo col simbolo Q il valore assoluto della quantità di calore. Per la macchina termica che funziona con due sorgenti si ha allora Qa = Qa ,

Qb = −|Qb | = −Qb ,

e il lavoro meccanico fornito dalla macchina risulta L = Qa − Qb . Si definisce “rendimento” di una macchina termica, e si indica tradizionalmente col simbolo h, il rapporto fra il lavoro prodotto dalla macchina e il calore che le viene fornito, ovvero, in questo caso h=

Qa − Qb Qb L = = 1− . Qa Qa Qa

Come si vede il rendimento è minore di 1, il che significa che una parte del calore fornito dalla sorgente ad alta temperatura va perduto, ovvero non viene trasformato

$ !"

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#

!#

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!$

!# !

Figura 5.4 Schema di funzionamento di una macchina M, che si ipotizza, per assurdo, poter produrre lavoro meccanico L, prendendo calore da due sorgenti a temperatura diversa; l’aggiunta alla macchina M del dispositivo D, che è in grado di trasferire la quantità di calore Qb dalla sorgente a temperatura piú alta Ta a quella a temperatura più bassa Tb , contraddirebbe il II principio della termodinamica, perché alla fine di un ciclo la macchina M + D produrrebbe il lavoro L scambiando calore con un’unica sorgente, quella a temperatura Ta 14

Si noti che il ragionamento svolto non è “simmetrico” perché, se Qb è negativo, il “dispositivo supplementare” dovrebbe trasferire calore dalla sorgente “b” a quella “a”, il che è di nuovo proibito dal secondo principio.

5.5 Le macchine termiche e il teorema di Carnot

127

in lavoro. Ovviamente l’energia si conserva (il primo principio vale sempre!), ma la quantità di calore Qb che viene “restituita” dalla macchina alla sorgente a bassa temperatura si è, per così dire, “degradata” e non è più disponibile per far funzionare la macchina. Il risultato che abbiamo ottenuto può essere utilizzato per provare che dal postulato di Kelvin-Planck discende il postulato di Clausius. Supponiamo infatti che il postulato di Clausius non sia vero. Allora è possibile trasferire la quantità di calore Qb , che la macchina termica cede alla sorgente a bassa temperatura, da tale sorgente a quella ad alta temperatura (vedi schema in Fig. 5.5). Così facendo si ottiene una macchina termica che produce lavoro a spese di un’unica sorgente, e questo contraddice il postulato di Kelvin-Planck. Possiamo adesso studiare in tutta generalità come dipenda il rendimento di una macchina termica dalla temperatura delle due sorgenti che la fanno funzionare e come sia possibile ottimizzarlo. È ovvio che un tale problema è importante non solo dal punto di vista conoscitivo ma, soprattutto, dal punto di vista economico. Non a caso esso fu affrontato agli inizi dell’800, al momento in cui le macchine termiche uscivano dai laboratori per essere utilizzate in maniera sempre più massiccia nelle attività industriali. Se si riesce a migliorare il rendimento di una macchina termica si riduce, a parità di lavoro, la quantità di combustibile necessario per farla funzionare e se ne ottengono ovvi vantaggi economici. Questi studi sui rendimenti delle macchine termiche sono indissolubilmente legati al nome del fisico francese Sadi Carnot (1796-1832), autore del famoso lavoro intitolato Réflexions sur la puissance motrice du feu..., già citato nell’introduzione storica e pubblicato nel 1824. Le “riflessioni” di Carnot sono oggi condensate in un teorema, detto appunto teorema di Carnot, che si enuncia dicendo che “Tutte le macchine termiche reversibili che lavorano in ciclo fra due assegnate sorgenti di calore hanno lo stesso rendimento. Tale rendimento è maggiore o uguale a quello di qualsiasi altra macchina che lavora in ciclo fra le due stesse sorgenti.” Come si vede, il teorema di Carnot introduce nel lessico della termodinamica un ulteriore concetto, quello di macchina reversibile,

L Ta

Qa

M

Qb

Tb

Qb Figura 5.5 Schema di funzionamento di una macchina M che produce il lavoro L, prendendo il calore Qa dalla sorgente a temperatura più alta Ta e cedendo il calore Qb alla sorgente a temperatura più bassa Tb . Nel caso in cui fosse possibile trasferire calore senza alcuna spesa da una sorgente a temperatura più bassa a una a temperatura più alta (negazione della formulazione di Clausius del II principio) allora la macchina produrrebbe lavoro a spese di un’unica sorgente, negando così la formulazione di Kelvin-Planck del II principio

128

5 Termodinamica

sul quale è necessario aprire una parentesi. Abbiamo già notato che fra le infinite possibilità che ci sono offerte dalla natura, esistono alcune trasformazioni termodinamiche, dette “quasi statiche”, che avvengono in maniera continua facendo passare il sistema attraverso stati di equilibrio termodinamico che differiscono fra loro per quantità infinitesime dei parametri termodinamici. Ad esempio, se si fa espandere lentamente un gas contenuto entro pareti adiabatiche, si osserva che, mano a mano che l’espansione procede, la sua pressione diminuisce gradualmente, così come la temperatura. Una tale trasformazione può, in linea di principio, essere invertita mediante una lenta compressione in modo tale che il gas ritorni, per così dire, sui suoi passi. Da questo esempio si potrebbe pensare che ogni trasformazione quasi statica sia anche reversibile, ma questo non è affatto vero. Affinché il sistema possa effettivamente ripercorrere in senso inverso la successione di stati percorsa nella trasformazione originaria è anche necessario supporre che non esistano processi dissipativi, sia di tipo meccanico che di tipo termico, che agiscono durante la trasformazione. I primi sono tipicamente dovuti agli attriti, cosicché, nell’esempio visto sopra, è necessario supporre che non esista frizione fra il pistone e il cilindro perché l’espansione quasi-statica sia anche reversibile. I secondi sono tipicamente gli scambi di calore fra corpi a temperatura diversa e questi vanno esclusi se si vuole che una trasformazione sia reversibile. I soli scambi di calore ammissibili in una trasformazione reversibile sono quelli che avvengono fra due corpi le cui temperature differiscono di quantità infinitesime. Se il primo corpo è appena un po’ più caldo del secondo corpo, il calore fluisce in una direzione, se è appena un po’ più freddo fluisce nella direzione opposta15 . Ovviamente questa “inversione” non può avvenire se la differenza di temperatura fra i due corpi è finita. Da quanto detto si conclude che le trasformazioni reversibili sono un “sottoinsieme proprio” delle trasformazioni quasi statiche, precisamente sono quelle trasformazioni quasi statiche nelle quali non si verificano processi dissipativi. Notiamo anche che una trasformazione che non sia reversibile viene detta “irreversibile” e che l’insieme delle trasformazioni irreversibili comprende non solo le trasformazioni quasi statiche nelle quali si verificano processi dissipativi ma anche tutte le trasformazioni di tipo “impulsivo”. Nelle illustrazioni del primo principio abbiamo visto vari esempi di quest’ultimo tipo di trasformazioni, quali l’espansione libera, la bomba calorimetrica, etc.. Ritornando al nostro problema del rendimento delle macchine termiche, supponiamo di avere due macchine termiche lavoranti in ciclo che funzionano scambiando calore con due sorgenti assegnate. La prima macchina, che supponiamo reversibile16 , assorbe la quantità di calore Qa dalla sorgente ad alta temperatura e cede la quantità di calore Qb alla sorgente a bassa temperatura fornendo così il lavoro meccanico positivo L = Qa − Qb . Analogamente, la seconda macchina assorbe la 15 Qualcosa di analogo avviene per il movimento del pistone dell’esempio considerato. Se non c’è attrito fra il pistone e il cilindro, basta che la pressione interna sia un po’ maggiore di quella esterna perché il pistone si sposti in una direzione e che sia un po’ minore di quella esterna perché si sposti nella direzione opposta. Se c’è attrito, la differenza di pressione deve invece essere maggiore di un valore finito perché si abbia movimento. Questo fatto provoca l’irreversibilità. 16 Ovviamente una macchina reversibile è una macchina nella quale il sistema fisico su cui opera subisce una serie di trasformazioni termodinamiche tutte reversibili.

5.6 Il ciclo di Carnot e la definizione termodinamica di temperatura

129

quantità di calore Q0a dalla sorgente ad alta temperatura e cede la quantità di calore Q0b alla sorgente a bassa temperatura fornendo così il lavoro meccanico positivo L0 = Q0a − Q0b . Poiché le due macchine lavorano in ciclo, possiamo senz’altro supporre che le due quantità Qb e Q0b siano uguali. Se questo non fosse, basterebbe aggiustare il numero dei cicli percorsi da una delle due macchine (oppure da entrambe) per poter ottenere l’uguaglianza con la precisione che si desidera. Sfruttiamo l’ipotesi della reversibilità della prima macchina facendola “girare” a rovescio. Così facendo essa si comporta da “macchina frigorifera”. Assorbe la quantità di calore Qb dalla sorgente a bassa temperatura e cede la quantità di calore Qa alla sorgente ad alta temperatura producendo il lavoro −L (il che significa che bisogna compiere lavoro su di essa per farla funzionare). Consideriamo adesso la “macchina composita” fatta dalla prima macchina che gira a rovescio e dalla seconda macchina. Essa fornisce il lavoro L0 −L a spese di un’unica sorgente, quella ad alta temperatura e, per il secondo principio, tale lavoro non può essere positivo. Si ottiene quindi L0 − L = Q0a − Qa  0 . Infine, se si tiene conto che questo risultato è stato ottenuto con l’artificio di uguagliare le quantità di calore scambiate con la sorgente a bassa temperatura mediante l’“aggiustamento del numero dei cicli”, e che in tale processo i rapporti Qa /Qb e Q0a /Q0b non cambiano, si ottiene la diseguaglianza generale

Q0a Qa  . Q0b Qb Ricordando allora la definizione di rendimento si ottiene h = 1−

Q0 Qb ≥ h 0 = 1 − b0 . Qa Qa

Questa diseguaglianza prova il teorema di Carnot perché asserisce che il rendimento di una macchina termica reversibile è maggiore o uguale di quello di una qualsiasi altra macchina (reversibile o no) che lavora fra le medesime sorgenti. Naturalmente, se anche la seconda macchina è reversibile, il ragionamento può essere ripetuto scambiando la prima macchina con la seconda e si ottiene un’uguaglianza invece che una diseguaglianza.

5.6 Il ciclo di Carnot e la definizione termodinamica di temperatura Finora abbiamo studiato le proprietà delle macchine termiche (a due sorgenti) in assoluta generalità. Adesso andiamo a considerare un’applicazione pratica, anche se idealizzata, di una macchina termica. Consideriamo una certa quantità di gas perfetto che si trovi racchiuso entro un cilindro munito di un pistone. Supponiamo che

130

5 Termodinamica

non siano presenti attriti meccanici fra cilindro e pistone ed eseguiamo su questo sistema il seguente ciclo di trasformazioni, illustrato nel diagramma di Clapeyron della Fig. 5.6. Il gas si trova inizialmente alla temperatura Ta occupando il volume V1 alla pressione P1 (punto 1 in figura). Il sistema viene messo in contatto diatermico con una sorgente di temperatura Ta e viene lasciato espandere in maniera isoterma fino a raggiungere il volume V2 alla pressione P2 (punto 2). In questa trasformazione il gas assorbe dalla sorgente la quantità di calore Qa . Successivamente si sopprime il contatto diatermico con la sorgente e si fa espandere ancora il gas, questa volta in maniera adiabatica, fino a raggiungere il volume V3 alla pressione P3 (punto 3). Espandendosi adiabaticamente il gas si raffredda e raggiunge la temperatura Tb . Si ritorna a mettere in contatto diatermico il gas con una nuova sorgente, quest’ultima a temperatura Tb , e lo si comprime in maniera isoterma fino a raggiungere il volume V4 alla pressione P4 (punto 4). In questa trasformazione il gas cede alla nuova sorgente la quantità di calore Qb . Infine, si sopprime il contatto diatermico con la sorgente e si comprime il gas adiabaticamente fino a ritornare alle condizioni iniziali. Poiché il gas è perfetto, le quantità di calore Qa e Qb possono essere calcolate facilmente. Infatti, nelle due trasformazioni isoterme il gas perfetto non cambia di temperatura e la quantità di calore scambiata con le sorgenti uguaglia il lavoro (si ricordi che l’energia interna di un gas perfetto, dipendendo solo dalla temperatura, non varia in una trasformazione isoterma). Tenendo conto delle convenzioni che abbiamo adottato, si ha, ricordando l’Eq. 5.3, ✓ ◆ ✓ ◆ V2 V3 , , Qa = N R Ta ln Qb = N R Tb ln V1 V4

P 1

2

4

3

V Figura 5.6 Il ciclo di Carnot, qui illustrato per il caso di un gas perfetto, è costituito da una serie di quattro trasformazioni termodinamiche che connettono, in successione, i punti 1, 2, 3, e 4 (linee a tratto pieno). Le trasformazioni 1 ! 2 e 3 ! 4 sono due rami di isoterme (linee punteggiate) di temperatura Ta e Tb , rispettivamente, mentre le trasformazioni 2 ! 3 e 4 ! 1 sono due rami di adiabatiche (linee tratteggiate)

5.6 Il ciclo di Carnot e la definizione termodinamica di temperatura

dalla quale si ottiene

Qb Tb ln(V3 /V4 ) . = Qa Ta ln(V2 /V1 )

131

(14)

D’altra parte, tenendo conto delle equazioni per le trasformazioni adiabatiche, si ha g−1

Ta V1

g−1

= Tb V4

,

g−1

Ta V2

g−1

= Tb V3

,

dalle quali si ottiene, dividendo membro a membro e elevando entrambi i membri alla potenza −1/(g − 1), V2 V3 = . V1 V4 Sostituendo questo risultato, si ottiene allora

Qb Tb = , Qa Ta la quale permette di esprimere il valore massimo del rendimento di una macchina termica che lavora fra due sorgenti a temperature Ta e Tb nella forma hmax = 1 −

Tb . Ta

(5.6)

Il teorema di Carnot permette di dare una nuova definizione di temperatura la quale risulta totalmente indipendente dalla sostanza termometrica utilizzata. Nell’excursus storico che abbiamo seguito in questo volume, siamo passati da una definizione del tutto soggettiva basata sulle sensazioni di caldo e freddo a una definizione empirica basata sulle proprietà di dilatazione dei corpi (in particolare dei liquidi quali il mercurio), e, infine, a una definizione basata sulle proprietà del gas perfetto. Adesso possiamo fare a meno anche di quest’ultima sostanza termometrica (il gas perfetto), definendo la temperatura assoluta termodinamica facendo riferimento alle proprietà delle macchine termiche. Fissata una sorgente che si trovi a una temperatura di riferimento arbitraria (ad esempio la temperatura del punto triplo dell’acqua), indichiamo la sua temperatura termodinamica con Q0 . La temperatura termodinamica di una qualsiasi altra sorgente è allora definita andando a considerare una macchina termica reversibile che lavori in ciclo fra tale sorgente e la sorgente di riferimento. Nel caso che la sorgente sia più calda della sorgente di riferimento, la sua temperatura termodinamica, Q , è definita da Q = Q0

Q , Q0

dove Q è la quantità di calore fornita alla macchina dalla sorgente e Q0 è la quantità di calore ceduta dalla macchina alla sorgente di riferimento. Viceversa, nel caso di una sorgente più fredda di quella di riferimento, la temperatura termodinamica è definita dalla stessa equazione ma Q è la quantità di calore ceduta dalla macchina alla sorgente e Q0 è la quantità di calore fornita alla macchina dalla sorgente di rife-

132

5 Termodinamica

rimento. Date queste definizioni, il rendimento di una macchina termica reversibile che lavori fra due sorgenti aventi temperatura termodinamica Qa e Qb è dato da h = 1−

Qb , Qa

e il risultato ottenuto per il ciclo di Carnot di un gas perfetto ci assicura che fra le temperature termodinamiche e quelle del gas perfetto deve sussistere la relazione Tb Qb = . Qa Ta In generale questa relazione è soddisfatta ponendo Q = k T con k costante arbitraria (eventualmente anche dimensionale, col che la temperatura termodinamica avrebbe un’unità di misura diversa dalla temperatura del gas perfetto). Fortunatamente è stato deciso di assumere k = 1, cosa che si realizza ponendo nella definizione della temperatura termodinamica Q0 = 273.16 K (facendo riferimento al punto triplo dell’acqua), dimodoché le due temperature coincidono17 . D’ora in avanti non utilizzeremo ulteriormente il simbolo Q intendendo col simbolo T sia la temperatura termodinamica che quella del gas perfetto.

5.7 La diseguaglianza di Clausius e la definizione di entropia Come abbiamo visto, per una macchina termica reversibile che lavora fra le due sorgenti a temperatura Ta e Tb , le quantità di calore scambiate dalla macchina sono tali da soddisfare la relazione Qa Qb = . Ta Tb Se invece la macchina non è necessariamente reversibile, il teorema di Carnot in Eq. 5.6 ci assicura che deve sussistere la diseguaglianza 1− che implica

Tb Qb  1− , Qa Ta

Qa Qb  . Ta Tb

Ricordiamo adesso che col simbolo Q abbiamo indicato i valori assoluti delle quantità di calore scambiate e, se ritorniamo alla convenzione adottata in precedenza (le quantità di calore devono essere prese col segno positivo se il sistema assorbe ca17

È importante sottolineare che alcuni autori non adottano questa convenzione e preferiscono dare una definizione diversa di temperatura termodinamica. Ad esempio, nei famosi testi di Landau & Lifschitz la temperatura termodinamica è definita dalla relazione Q = kB T , dove kB è la costante di Boltzmann (1.3806 ⇥ 10−23 J K−1 ) ed è quindi misurata direttamente in unità di energia.

5.7 La diseguaglianza di Clausius e la definizione di entropia

-Q1

T1

MR1

Q1

M

Q2

133

Q01 -Q2

T2

MR2

Qn

Q02

To

Q0n

-Qn

Tn

MRn

Figura 5.7 Schema di funzionamento di una macchina non reversibile M che lavora in ciclo, scambiando le quantità di calore Qi ciascuna con una delle N sorgenti a temperatura Ti . Ad ognuna di queste sorgenti a temperatura Ti viene restituita la quantità di calore −Qi dalla macchina reversibile MRi , che lavora in ciclo scambiando la quantità di calore Q0i con un’unica sorgente a temperatura T0

lore dall’ambiente e col segno negativo se il sistema cede calore all’ambiente), la diseguaglianza precedente può essere posta nella forma Qa Qb + 0 . Ta Tb Questa diseguaglianza può essere generalizzata nella seguente maniera. Si consideri un sistema che compie una trasformazione ciclica arbitraria scambiando calore con N sorgenti che si trovano alle temperature T1 , T2 , . . ., TN . Siano Q1 , Q2 , . . ., QN le rispettive quantità di calore scambiate col sistema e definite con la solita convenzione. Si può allora mostrare che vale il cosiddetto teorema di Clausius, ovvero N

Qi

 Ti

i=1

0 ,

(5.7)

il segno di uguaglianza essendo valido per tutte e sole le trasformazioni cicliche reversibili. Per eseguire la dimostrazione si considera, accanto al nostro sistema, l’insieme di N macchine termiche reversibili, la i-esima delle quali lavora fra la sorgente a temperatura Ti e una sorgente di riferimento alla temperatura fissa, ma del resto arbitraria, T0 (vedi schema in figura 5.7). Dal punto di vista concettuale possiamo sempre fare in modo (eventualmente cambiando il numero di cicli o facendo lavora-

134

5 Termodinamica

re la macchina in senso inverso) che la macchina i-esima scambi con la sorgente di temperatura Ti esattamente la stessa quantità di calore, ma di segno contrario, rispetto a quella che la stessa sorgente scambia col sistema. Ad esempio, se Qi nell’Eq. 5.7 è positivo, il che significa che il sistema assorbe calore dalla sorgente i-esima, allora facciamo in modo che la macchina termica i-esima ceda la stessa quantità di calore alla sorgente stessa. La quantità di calore scambiata dalla macchina i-esima con la (i) sorgente i-esima è quindi −Qi , e quella con la sorgente di riferimento, Q0 , è data da Qi (i) . Q0 = T0 Ti Se adesso facciamo un bilancio energetico del sistema complessivo, costituito dal sistema originario e dalle N macchine termiche, vediamo che esso scambia calore soltanto con la sorgente di riferimento a temperatura T0 , dalla quale assorbe la quantità di calore Qtot data da N

N

Qi . i=1 Ti

Qtot = Â Q0 = T0 Â (i)

i=1

D’altra parte, se la quantità Qtot fosse positiva ne conseguirebbe che il “sistema complessivo” compie sull’ambiente esterno un lavoro uguale a Qtot a spese del calore sottratto a una singola sorgente. Ma questo è in contraddizione col postulato di Kelvin-Planck, per cui deve essere Qtot  0, ovvero N

Qi

 Ti

i=1

0 .

Se poi il ciclo compiuto dal sistema originario è un ciclo reversibile, il ragionamento può essere ripetuto invertendo tale ciclo e tutti i cicli delle N macchine termiche “supplementari” e si ottiene allora N

Qi

 Ti

i=1

≥0 .

Quindi, per un ciclo reversibile si ha N

Qi

 Ti

=0 ,

i=1

e il teorema di Clausius è così provato. Un’ovvia generalizzazione del teorema di Clausius si ottiene considerando un ciclo nel quale, invece di scambiare calore con un numero finito di sorgenti, il sistema scambia quantità infinitesime di calore con una distribuzione continua di sorgenti. In questo caso il teorema di Clausius si scrive, in generale, nella forma I

dQ 0 , T

5.7 La diseguaglianza di Clausius e la definizione di entropia

e, nel caso di trasformazioni reversibili ◆ I ✓ dQ =0 , T rev

135

(5.8)

dove dQ è la quantità di calore infinitesima scambiata dal sistema con una singola sorgente della distribuzione e T è la temperatura di tale sorgente. L’Equazione 5.8 esprime una proprietà molto importante delle trasformazioni termodinamiche e permette di definire per gli stati di equilibrio dei sistemi termodinamici un’altra funzione di stato, oltre l’energia interna. Tale funzione di stato prende il nome di entropia18 ed è così definita: si consideri uno stato di equilibrio termodinamico, O, del nostro sistema. L’entropia di un qualsiasi altro stato di equilibrio termodinamico del sistema, P, è definita dall’integrale ◆ Z P✓ dQ SP = , T rev O con l’integrale da calcolarsi lungo una trasformazione reversibile. Naturalmente, affinché questa definizione sia corretta, ovvero affinché l’entropia sia una vera e propria funzione di stato, è necessario che l’integrale che la definisce non dipenda dal cammino di integrazione. Ma questo è assicurato dall’Eq. 5.8 perché, se si avesse, lungo due cammini di integrazione diversi, C1 e C2 , entrambi reversibili ◆ ◆ Z P✓ Z P✓ dQ dQ 6= , T C1 T C2 O O allora risulterebbe che l’integrale del dQ/T eseguito sul cammino chiuso composto dal cammino C1 e dall’inverso del cammino C2 risulterebbe diverso da 0, in contraddizione col teorema di Clausius. Dalla definizione data conseguono tre proprietà importanti dell’entropia. La prima proprietà consiste nel fatto che l’entropia è definita a meno di una costante additiva arbitraria, che riflette l’arbitrarietà della scelta dello stato termodinamico, O, introdotto nella definizione. Scegliendo un nuovo stato di riferimento, O’, si ottiene una nuova definizione di entropia, S0 , ma poiché si ha sempre, qualsiasi sia lo stato P arbitrario ◆ ◆ ◆ Z P✓ Z O✓ Z P✓ dQ dQ dQ = + , T rev T rev T rev O0 O0 O ne segue che

dove C è una costante data da

SP0 = SP + C ,

C= 18

◆ Z O✓ dQ O0

T

.

rev

Il nome “entropia” è un grecismo (parola di etimologia greca ma di origine moderna) che è stato introdotto nel lessico della fisica da Clausius. Più o meno letteralmente, entropia significa “ritorno”. Tradizionalmente l’entropia è indicata col simbolo S.

136

5 Termodinamica

Questa indeterminazione nella definizione dell’entropia non ha, in molti casi, alcuna importanza perché ciò che interessa è generalmente la differenza di entropia fra stati diversi. Esistono tuttavia dei casi in cui il valore esplicito dell’entropia risulta essenziale per la deduzione di un certo numero di conseguenze e si ricorre allora al cosiddetto “terzo principio della termodinamica” (o teorema di Nernst19 ) che enunciamo senza darne la dimostrazione. Il teorema di Nernst afferma che l’entropia di un qualsiasi sistema termodinamico allo zero assoluto è nulla (o può essere assunta nulla commettendo un errore trascurabile). La seconda proprietà dell’entropia si ottiene andando a considerare una trasformazione reversibile che ha luogo fra gli stati termodinamici A e B. Per essa si ha, dalla definizione di entropia ◆ ◆ Z B✓ Z A✓ dQ dQ SB − SA = − , T rev T rev O O ovvero, tenendo conto che la trasformazione termodinamica fra O e B è arbitraria (purché reversibile) e può quindi essere scomposta nella trasformazione fra O e A seguita dalla trasformazione fra A e B, si ottiene ◆ Z B✓ dQ SB − SA = , T rev A e passando al limite per trasformazioni infinitesime ✓ ◆ dQ . dS = T rev Questa equazione stabilisce che il rapporto dQ/T , valutato lungo una trasformazione reversibile, è il differenziale di una funzione di stato, e quindi un differenziale esatto. Quest’ultima affermazione, che è d’altra parte già contenuta nell’Eq. 5.8, viene spesso chiamata la “formulazione analitica del secondo principio della termodinamica” ma è del tutto equivalente ai postulati di Kelvin-Planck e di Clausius. Una terza importante proprietà si ottiene andando a considerare due trasformazioni che avvengono fra gli stati A e B, la prima reversibile e la seconda arbitraria. Aggiungendo alla seconda trasformazione la prima percorsa in senso inverso, si ottiene un ciclo chiuso, per cui si ha, per il teorema di Clausius ◆ Z B Z B✓ dQ dQ 0 , − T rev A T A dalla quale si ottiene SB − SA ≥ 19

Z B dQ A

T

.

(5.9)

Dal nome del fisico e chimico tedesco Walther Nernst (1864-1941). Per approfondimenti si veda l’ultimo capitolo del libro “Termodinamica” di E. Fermi, Bollati-Boringhieri.

5.8 Illustrazioni del concetto di entropia

137

In particolare, per una trasformazione adiabatica (ovvero senza scambio di calore con l’ambiente) si ottiene, essendo dQ = 0 S B ≥ SA . Questa proprietà è molto importante in quanto implica che per una trasformazione qualsiasi che si verifichi in un sistema isolato, che è necessariamente una trasformazione adiabatica, l’entropia dello stato finale non può mai essere inferiore a quella dello stato iniziale. In altre parole, l’entropia di un sistema isolato è destinata a crescere e se si vuole che essa diminuisca dobbiamo necessariamente mettere in interazione il sistema con l’ambiente esterno. Poiché l’Universo è il sistema isolato per antonomasia, questa stessa proprietà viene spesso enunciata in maniera enfatica dicendo che “l’entropia dell’Universo aumenta”. Come vedremo in seguito, l’entropia di un sistema si può associare al disordine contenuto nel sistema stesso. Il secondo principio, da questo punto di vista, viene a stabilire una legge ben nota anche all’uomo della strada: in un sistema isolato, ovvero lasciato a se stesso, il disordine è destinato ad aumentare o, al meglio, a rimanere costante. In ogni caso, non può diminuire.

5.8 Illustrazioni del concetto di entropia In questo paragrafo andiamo a illustrare il concetto di entropia mediante alcuni esempi particolarmente significativi. Alcuni di essi sono gli stessi di quelli già trattati nella Sez. 5.2 per illustrare il primo principio della termodinamica. Un altro esempio, relativo all’interdiffusione di due gas, è sviluppato nella Sez. 10.10. a) Urto anelastico proiettile-sacchetto di sabbia Si tratta ovviamente di un processo irreversibile e deve quindi portare a un aumento di entropia del sistema. Per calcolare tale aumento bisogna però “escogitare” una trasformazione che conduca agli stessi risultati fisici (arresto del proiettile e aumento di temperatura del sistema) ma che sia anche reversibile. La variazione di entropia del sistema può essere infatti valutata quantitativamente per mezzo di un integrale del dQ/T solo se la trasformazione è reversibile. Innanzitutto, l’arresto del proiettile può essere realizzato, almeno concettualmente, facendo comprimere una molla oppure sollevando un peso. Questo processo ideale non comporta alcuno scambio di calore e non altera quindi l’entropia del sistema. Inoltre bisogna innalzare la temperatura del proiettile e del sacchetto di sabbia della quantità D T . Per questo è necessario fornire al sistema la quantità di calore Q data da Q = C DT , dove C è la capacità termica complessiva del sacchetto di sabbia e del proiettile. Ricordando il paragrafo b) della Sez. 5.2 e i simboli ivi utilizzati, e supponendo

138

5 Termodinamica

che la variazione di temperatura sia piccola (D T ⌧ T ) la variazione di entropia del sistema a seguito dell’urto anelastico è quindi data da DS =

Q mv2 = , T 2T

dove T è la temperatura dell’ambiente in cui si verifica il processo. Come abbiamo anticipato, si ha una variazione positiva dell’entropia, il che prova che il processo è irreversibile. b) Cambiamento di stato Una tipica esperienza in cui si ha un cambiamento di stato (come ad esempio la fusione di una sostanza solida) può sempre essere realizzata, almeno concettualmente, in maniera reversibile, mettendo il sistema a contatto con una sorgente di calore avente temperatura uguale alla temperatura di fusione della sostanza, Tf , facendo fluire lentamente il calore dalla sorgente alla sostanza solida e provocando così la fusione. Se m è la massa della sostanza e se ` è il calore latente massico della sostanza stessa, la variazione di entropia nel processo di fusione è data da DS =

m` . Tf

Essendo D S positivo, ne consegue che la stessa massa di sostanza ha entropia maggiore nella fase liquida che in quella solida. In questo esempio compare chiaramente un aspetto tipico dell’entropia che collega questa quantità al “disordine” presente nel sistema. Nel processo di fusione si spezzano i legami molecolari presenti nel solido e si ottiene una fase, quella liquida, in cui il moto delle molecole è più disordinato. Naturalmente, essendo il processo reversibile, si può anche pensare che esso avvenga in senso inverso e la variazione di entropia è, in questo caso, esattamente uguale e contraria a quella che avevamo calcolato precedentemente DS = −

m` , Tf

il che significa che nella solidificazione della sostanza l’entropia diminuisce. c) Espansione libera È indubbio che l’esperienza dell’espansione libera schematizzata nella Fig. 5.2 costituisca un tipico processo irreversibile in quanto non si può pensare che, una volta che il gas si sia espanso in modo da occupare il volume delle due bombole esso possa spontaneamente “ritornare indietro” lasciando la seconda bombola vuota. Per valutare l’aumento di entropia, riferiamoci al caso semplice di un gas perfetto e indichiamo con T la temperatura (iniziale e finale) del gas. Al solito, dobbiamo escogitare una trasformazione che conduca allo stesso risutato fisico (espansione del gas dal volume Vi al volume Vf ) ma che sia anche reversibile. Per questo, possiamo

5.8 Illustrazioni del concetto di entropia

139

pensare di mettere il gas in contatto diatermico con una sorgente alla temperatura T e di fargli compiere una lenta espansione isoterma dal volume iniziale, Vi , al volume finale Vf . In questa trasformazione il gas compie sull’ambiente esterno il lavoro ✓ ◆ Vf L = N R T ln Vi e assorbe quindi dalla sorgente la stessa quantità di calore. La variazione di entropia è quindi data da ✓ ◆ L Vf . D S = = N R ln T Vi

Essendo Vf > Vi , la variazione di entropia è positiva, il che prova l’irreversibilità dell’espansione libera. d) Miscela di due masse dello stesso liquido a temperature diverse

Si consideri l’esperienza in cui una massa m1 di un liquido alla temperatura T1 , venga miscelata, entro un calorimetro delle mescolanze, con una massa m2 dello stesso liquido alla temperatura T2 (con T2 ≥ T1 ). Se il calore specifico del liquido è costante nell’intervallo (T1 , T2 ), il sistema raggiunge l’equilibrio alla temperatura Teq data da m1 T1 + m2 T2 Teq = . m1 + m2 Anche in questo caso si ha a che fare con un tipico processo irreversibile e vogliamo valutare l’aumento di entropia del sistema. Per questo dobbiamo pensare di mettere a contatto la massa di liquido m1 con una serie di sorgenti di temperatura crescente, da T1 a Teq , in modo da avere uno scambio di calore reversibile fra tali sorgenti e il liquiido. Analogamente dobbiamo agire sulla massa m2 con tante sorgenti di temperatura decrescente da T2 a Teq . Se indichiamo con c il calore specifico massico (a pressione costante) del liquido, e supponiamo che esso sia costante, la variazione di entropia del sistema è data da D S = c m1

Z Teq dT T1

T

− c m2

Z T2 dT Teq

T

,

ovvero, risolvendo gli integrali  ✓ ◆ ✓ ◆� Teq T2 − m2 ln . D S = c m1 ln T1 Teq Non è difficile mostrare che questa quantità è sempre positiva20 , da cui segue che la trasformazione è irreversibile. 20

Infatti, le quantità di calore scambiate dalle due masse con le sorgenti devono essere uguali in valore assoluto ma quella che porta il contributo positivo (relativa alla massa m1 ) viene regolarmente divisa per una temperatura più bassa nel calcolo del dQ/T .

140

5 Termodinamica

5.9 Altre conseguenze del primo e secondo principio Un’importante conseguenza del primo e del secondo principio della termodinamica riguarda i sistemi, quali ad esempio i fluidi, che possono essere descritti dalle due sole variabili indipendenti T e V . Consideriamo una trasformazione infinitesima che comporti una variazione arbitraria, dT e dV , di tali variabili. Per il primo principio della termodinamica si ha ✓ ◆ ◆ ✓ ∂U ∂U dU = dT + dV = dQ − P dV . ∂T V ∂V T Per una prima considerazione trattiamo il caso delle trasformazioni isocore, per cui dV = 0. Ricordando che sotto tale ipotesi l’incremento di calore si esprime tramite la capacità termica a volume costante, ovvero dQ = CV dT , e dividendo per T , troviamo che essa si scrive come ◆ ✓ ∂U CV = , ∂T V e nel caso particolare del gas perfetto, in cui U = U(T ), ritroviamo il risultato CV = dU/dT . Una seconda conseguenza si ottiene ricavando il dQ e dividendo per T , per cui ✓ ◆ ✓ ◆ � 1 1 ∂U ∂U dQ dT + + P dV . = T T ∂T V T ∂V T

Se adesso supponiamo che la trasformazione infinitesima sia reversibile, la quantità dQ/T è uguale a dS, ovvero è un differenziale esatto della funzione S = S(T,V ). Si deve quindi avere che la derivata parziale rispetto a V del coefficiente del dT sia uguale alla derivata parziale rispetto a T del coefficiente del dV (criterio di Schwartz). Sviluppando i calcoli e semplificando (le derivate seconde miste di U(T,V ) coincidono per lo stesso criterio) si ottiene un’equazione molto importante per le sue applicazioni che viene talvolta detta “equazione dell’energia interna” ✓ ◆ ◆ ✓ ∂U ∂P =T −P . (5.10) ∂V T ∂T V Sfruttando questo risultato si deduce un’ulteriore equazione, anch’essa molto utile nelle applicazioni, detta “equazione del T dS”. Si ha infatti, per una trasformazione reversibile ◆ ✓ ∂U T dS = dQ = dU + P dV = CV dT + dV + P dV , ∂V T e, usando nuovamente l’Eq. 5.10, si ottiene T dS = CV dT + T



∂P ∂T



V

dV .

(5.11)

5.9 Altre conseguenze del primo e secondo principio

141

Immediate conseguenze di tale equazione sono due importanti relazioni fra quantità termodinamiche, dette relazioni di Maxwell: ✓ ◆ ✓ ◆ ◆ ✓ ∂S CV ∂S ∂P , = = , ∂T V T ∂V T ∂T V e la relazione generale che fornisce la differenza tra capacità termiche a pressione e a volume costante. Per ricavarla, scriviamo l’equazione del T dS nel caso di una trasformazione isobara ◆ ✓ ∂P T dS = CP dT = CV dT + T dV , ∂T V ovvero, esprimendo il dV tramite la variazione della temperatura, dT , e dividendo l’equazione scritta sopra per tale quantità, si ottiene ◆ ✓ ◆ ✓ ∂P ∂V CP − CV = T . ∂T V ∂T P Iniziamo con l’applicare le equazioni dell’energia interna e del T dS al gas perfetto. Essendo ◆ ✓ NR ∂P =P , =T T ∂T V V

dall’Eq. 5.10 si ottiene



∂U ∂V



=0 , T

il che conferma i risultati sperimentali di Joule sull’espansione libera21 . Inoltre, abbiamo anche ✓ ◆ NR ∂V , = ∂T P P per cui ritroviamo facilmente il risultato già noto

CP − CV = N R . Dall’equazione del T dS si ha poi dS =

21

CV NR dT + dV , T V

Quella che abbiamo dato potrebbe sembrare una vera e propria dimostrazione che l’energia interna di un gas perfetto non dipende dal volume. In effetti, bisogna considerare che questo risultato è dovuto al fatto che abbiamo immedesimato la temperatura termodinamica (la quantità che divide il dQ per farlo diventare un differenziale esatto) con la temperatura del gas perfetto (quella che compare nell’equazione di stato) e che la dimostrazione che le due temperature coincidono è proprio imperniata sull’indipendenza dell’energia interna del gas perfetto dal volume.

142

5 Termodinamica

e integrando l’equazione (con CV = costante) si ottiene, a meno di una costante additiva, l’espressione dell’entropia del gas perfetto S = CV ln T + N R lnV + costante . In alternativa, sfruttando le relazioni 4.1 e 5.4, possiamo anche scrivere S = CV ln(T V g−1 ) + costante = CV ln(PV g ) + costante ,

(5.12)

dove g = CP /CV è l’indice adiabatico e la costante è diversa nelle due espressioni. Notiamo che, a causa dell’Eq. 5.5, in una trasformazione adiabatica reversibile di un gas perfetto l’entropia si conserva, come del resto era lecito aspettarsi dato che non avvengono scambi di calore. Le stesse equazioni possono essere applicate per trovare le proprietà di un gas di Van der Waals. Riferendoci per semplicità a una sola mole di gas, ricordando l’Eq. 4.3 si ha ✓ ◆ ∂P R , = ∂T V V −b

per cui, dall’equazione dell’energia, si ottiene ✓ ◆ ∂U a = . ∂V T V 2

Questa equazione mostra come l’energia interna di un gas di Van der Waals aumenti all’aumentare del volume lungo un’isoterma. In un’espansione libera quindi, poiché l’energia interna deve rimanere costante, la temperatura del gas diminuisce. Per una espansione libera infinitesima, essendo dU = 0, si ha infatti 0= e si ottiene

a dV +CV dT , V2

dT = −

a dV . CV V 2

La diminuzione della temperatura è dovuta, in ultima analisi, alla presenza di forze attrattive fra le molecole. Aumentando il volume, le molecole si allontanano in media fra loro e, in tale processo, vengono rallentate dalle forze di attrazione reciproche che si hanno fra le molecole stesse. Applicando poi l’Eq. 5.11 e supponendo che il calore specifico sia costante, si ottiene con facili passaggi l’espressione dell’entropia di una mole di gas di Van der Waals: S = CV ln T + R ln(V − b) + costante . Procediamo adesso con il calcolo di CP −CV (differenza tra le capacità molari). Per la forma in cui è scritta l’equazione di stato di un gas reale, la variazione di volume rispetto a quella della temperatura, a pressione costante, si ricava più facilmente

5.9 Altre conseguenze del primo e secondo principio

143

dalla quantità inversa, ovvero calcolando CP −CV =

RT V −b

✓

∂T ∂V

◆ �−1

.

P

Dalla relazione

a ⌘ 1⇣ P + 2 (V − b) , R V troviamo dunque, dopo facili passaggi e sfruttando ancora l’equazione di stato ✓ � ◆  ∂T 2 a (V − b)2 T , 1− = ∂V P V − b RT V3 T=

e quindi si ottiene la relazione cercata:  �−1 2 a (V − b)2 . CP −CV = R 1 − RT V3 Notiamo che in generale la differenza delle capacità termiche risulta maggiore nel caso di un gas reale rispetto a un gas perfetto, e che per a e b piccoli si ricava correttamente il limite ideale CP −CV = R. Un’ulteriore applicazione dell’equazione del T dS riguarda il cambiamento di stato fra fase liquida e fase di vapore e permette di stabilire una connessione fra il calore latente di vaporizzazione e la variazione con la temperatura della tensione di vapor saturo. Consideriamo una mole di un fluido che subisce un’espansione isoterma lungo il segmento RQ della Fig. 4.4. Poiché la temperatura è costante, l’Eq. 5.11 lungo questa trasformazione risulta ◆ ✓ ∂P dV . T dS = T ∂T V Osserviamo adesso che, nel caso che stiamo considerando, la pressione P nient’altro è se non la tensione di vapor saturo. Indicando tale quantità con Ps e osservando che essa è funzione solo di T , e non di V , l’equazione del T dS può essere integrata per dare dPs DQ = T (Vv −V` ) , dT dove D Q è la quantità di calore fornita al fluido per portarlo dalla fase liquida a quella di vapore e dove V` e Vv sono i valori dei volumi molari del liquido e del vapore, rispettivamente. Considerando inoltre che la quantità di calore D Q è data da `Mmol , dove ` è il calore latente massico e Mmol è la massa molare del fluido, si ottiene dPs ` Mmol = . (5.13) dT T (Vv −V` ) Questa equazione prende il nome di equazione di Clapeyron. Essa è conseguenza del primo e del secondo principio della termodinamica e può anche essere dedotta

144

5 Termodinamica

mediante la determinazione del rendimento di un ciclo termodinamico infinitesimo, come descritto nella Sez. 10.8. In tale sezione è anche mostrato come l’Eq. 5.13 possa essere utilizzata per determinare la variazione della temperatura di ebollizione dell’acqua con la quota. Nella Sez. 10.9 è sviluppata un’ultima applicazione dell’equazione dell’energia che riguarda la determinazione dell’espressione dell’energia interna del sistema costituito dalla radiazione elettromagnetica all’equilibrio termodinamico.

5.10 Cenni al significato statistico dell’entropia Mentre il concetto di energia interna di un sistema è del tutto generale e può, in linea di principio, essere definito anche per sistemi che alla scala microscopica contengono un numero molto piccolo di particelle, la stessa cosa non è vera per l’entropia. Questo è già evidente dal fatto che l’entropia è definita attraverso due quantità, il calore e la temperatura, che perdono significato alla scala microscopica. La quantità di calore è infatti una maniera macroscopica di definire (e misurare) degli scambi di energia che avvengono fra sistemi diversi e che sarebbe del tutto impensabile andare a descrivere in maniera microscopica. La temperatura poi, essendo collegata all’energia media, diventerebbe una quantità fluttuante, e quindi non univocamente definita, nel caso si considerasse un sistema contenente poche particelle. Premesse queste considerazioni, ci possiamo chiedere quale sia il significato dell’entropia di un sistema alla scala microscopica e a quali proprietà essa sia collegata. Quello che è noto dal secondo principio è che l’aumento di entropia è tipico delle trasformazioni irreversibili. D’altra parte, in una trasformazione irreversibile, si ha sempre il passaggio fra un sistema che presenta un certo grado di ordine a un sistema che è invece più disordinato, come ad esempio la fusione di una sostanza, la miscela fra due quantità di uno stesso fluido a temperature diverse, la diffusione di un gas in un altro gas, l’espansione libera, etc.. Risulta quindi abbastanza intuitivo che l’entropia di un sistema sia collegata al “disordine” presente nel sistema stesso e si pone quindi il problema di arrivare a definire in maniera quantitativa cosa si debba intendere con tale parola. La prima persona che ebbe chiare queste considerazioni e che riuscì a porle su basi quantitative fu il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906)22 il quale introdusse il concetto di “probabilità termodinamica”, tradizionalmente indicata col simbolo W . La probabilità termodinamica di uno stato macroscopico è il “numero di modi” in cui tale stato può realizzarsi, intendendo per modo una qualsiasi configurazione microscopica diversa (per velocità, posizione, etc. di ogni singola particella) compatibile con lo stato del sistema. La probabilità termodinamica conserva, secondo Boltzmann, la proprietà fondamentale della probabilità “matematica”, ovvero, se si indica con p1 la probabilità che si verifichi l’evento 1 e con p2 la probabilità che 22

Sfortunatamente le idee di Boltzmann non furono ben accolte dalla comunità scientifica del suo tempo ma furono piuttosto considerate alla stregua di una sorta di “stravaganze”. Il mancato riconoscimento delle proprie idee fu sicuramente una delle ragioni che spinsero Boltzmann al suicidio.

5.10 Cenni al significato statistico dell’entropia

145

si verifichi l’evento indipendente 2, allora la probabilità congiunta che si verifichino sia l’evento 1 che l’evento 2 è pari al prodotto p1 p2 . Ammesso questo postulato per la probabilità termodinamica, e supposto che l’entropia S sia una funzione solo di W , ovvero S = f (W ) , si deduce facilmente la forma della funzione f . Siano infatti A e B due sistemi termodinamici indipendenti, e siano SA e SB le rispettive entropie. Se si considera il sistema complessivo fatto della somma di A e B, l’entropia è uguale alla somma delle singole entropie, mentre per la probabilità termodinamica del sistema complessivo, W(A+B) , si deve avere W(A+B) = WAWB , dove WA e WB sono le probabilità termodinamiche dei sistemi separati. La funzione f deve quindi soddisfare la relazione funzionale f (WAWB ) = f (WA ) + f (WB ) , che, come è mostrato nella Sez. 10.11, implica il risultato f (W ) = k lnW , dove k è una costante arbitraria. Analizziamo, da questo punto di vista, l’esperienza dell’espansione libera di un gas perfetto. Supponiamo che il gas sia costituito di N particelle e che si espanda liberamente passando dal volume iniziale Vi al volume finale Vf . Ciò che dobbiamo fare è contare il numero di modi possibili in cui si può realizzare il nostro sistema in funzione del volume V . Per far questo, introduciamo un volumetto v0 che rappresenta una sorta di celletta elementare dello spazio e conveniamo di considerare diversi due modi quando le particelle occupano cellette diverse. Se si ha una sola particella che occupa il volume V il numero di modi possibili è pari al numero di cellette, ovvero W (1) =

V . v0

Se poi si hanno due particelle, e se si ammette che il fatto che una particella occupi una celletta non influisca sulla probabilità che la seconda particella occupi la stessa celletta oppure un’altra, il numero di modi possibili si ottiene semplicemente moltiplicando il numero di modi a disposizione della particella 1 per il numero di modi a disposizione della particella 2. Si ottiene quindi W

(2)

=



V v0

◆2

.

Generalizzando questo risultato, si ottiene, per il nostro caso di un sistema costituito

146

5 Termodinamica

di N particelle contenute nel volume V W= ovvero



V v0

◆N

,

lnW = N lnV − N ln v0 .

Applicando l’ipotesi di Boltzmann, si può adesso calcolare la variazione di entropia relativamente alla trasformazione “espansione libera”, per cui si ottiene ✓ ◆ Vf S(Vf ) − S(Vi ) = k N ln . Vi Se confrontiamo questa espressione con quella che si ottiene a partire della formula generale che abbiamo ottenuto per l’entropia del gas perfetto, Eq. 5.12, e ricordando che la temperatura T non varia durante l’espansione, si vede che le due espressioni coincidono purché si abbia kN = N R .

Abbiamo quindi trovato che l’entropia di un sistema si esprime attraverso l’equazione S = k lnW , (5.14)

che verrà ritrovata nella Sez. 8.3 quando si tratteranno le basi della termodinamica statistica. Per il significato preciso delle costanti k e N e il loro valore numerico si rimanda alla Sez. 7.1, dove verrà introdotta la teoria cinetica del gas perfetto. Come si vede, il risultato che abbiamo ottenuto è indipendente dal volume della celletta elementare, il che conforta l’ipotesi di Boltzmann e la rende del tutto plausibile. Bisogna anche dire che, assumendo il punto di vista microscopico, le trasformazioni irreversibili non risultano essere del tutto impossibili ma probabili a livelli infinitesimi, ovvero impossibili in pratica. Nel caso che abbiamo considerato dell’espansione libera del gas perfetto, nulla vieta che, per una fluttuazione statistica, tutte le N particelle possano venire a trovarsi entro il volume Vi di partenza. A questo punto, basterebbe isolare il volume stesso (attraverso la chiusura del rubinetto della Fig. 5.2) per realizzare una trasformazione irreversibile. Soltanto che la probabilità che tale evento si verifichi è assolutamente irrisoria quando il numero di particelle è dell’ordine di N ⇠ 1023 , che anticipiamo essere una stima del numero di particelle contenute in una mole di gas perfetto. Infatti, assumendo ad esempio Vf = 2Vi , la probabilità di ritrovare per fluttuazione statistica tutte le N particelle nel volume iniziale è uguale a (1/2)N , e questo numero è tanto piccolo da rendere impossibile una tale eventualità23 . 23

Tale numero è circa uguale a 1 diviso per un numero formato da 1023 cifre. Anche immaginando di scrivere questo numero al ritmo “ultrarapido” di mille cifre al secondo (per esempio con una stampante laser) sarebbero necessari circa 3 ⇥ 1012 anni (200 volte l’età dell’Universo) per scriverlo per esteso. Analogamente, immaginando di scrivere lo stesso numero su un nastro di carta in caratteri del corpo di 1 mm, il nastro risulterebbe lungo 104 anni-luce, una distanza pari a circa un decimo del diametro della nostra galassia.

5.11 L’entalpia e i potenziali termodinamici

147

Le considerazioni svolte sull’espansione libera risultano particolarmente semplici poiché abbiamo introdotto il concetto di “celletta elementare” soltanto relativamente alla posizione delle particelle e, inoltre, tutte le possibili cellette a disposizione delle particelle del gas sono equivalenti, e quindi equiprobabili dal punto di vista del loro “riempimento” da parte delle particelle. In generale però, per sviluppare nella sua completezza quest’approccio probabilistico alla termodinamica, è necessario introdurre il concetto di celletta anche nello spazio delle velocità (o degli impulsi) e bisogna inoltre tener conto che alle diverse cellette compete in generale un’energia diversa, dimodoché il loro riempimento comincia a dipendere dall’energia che il sistema ha a disposizione, e quindi dalla temperatura. Intuitivamente, accenniamo in questa sede solamente al fatto che il volume che hanno a disposizione le particelle di un gas perfetto nello spazio delle velocità è proporzionale alla temperatura T . Per mezzo di un ragionamento simile a quello sviluppato precedentemente si trova che l’entropia del gas perfetto è proporzionale al logaritmo della temperatura, come verrà illustrato in maniera più approfondita nella Sez. 8.7.

5.11 L’entalpia e i potenziali termodinamici Accanto all’energia interna e all’entropia vengono definite in termodinamica altre grandezze fisiche che risultano particolarmente utili in varie applicazioni. Tali grandezze sono delle funzioni di stato e assumono un valore ben definito per ogni particolare stato termodinamico. Un esempio è costituito dalla funzione entalpia, generalmente indicata col simbolo H, che è definita per un fluido dalla relazione H = U + PV ,

(5.15)

con U energia interna, P pressione e V volume del fluido considerato. La proprietà più importante di questa funzione di stato si ottiene differenziando l’equazione che la definisce. Per una trasformazione infinitesima si ha dH = dU + P dV +V dP , ed esprimendo il dU attraverso il primo principio della termodinamica dU = dQ − P dV , si ottiene

dH = dQ +V dP .

Questa espressione presenta una certa simmetria con quella precedente e può essere formalmente ottenuta da quella mediante le trasformazioni U !H ,

V !P ,

P ! −V .

148

5 Termodinamica

L’equazione per l’entalpia ha ampie applicazioni in termodinamica. Ad esempio, se si ha una trasformazione che avviene senza variazione di pressione, come ad esempio una tipica misura calorimetrica, si ottiene, per integrazione DH = Q , ovvero il calore assorbito uguaglia la variazione di entalpia. Lo stesso tipo di considerazioni ci porta a poter scrivere la capacità termica a pressione costante con l’equazione ◆ ✓ ∂H CP = , ∂T P

simmetrica rispetto a quella che definisce la capacità termica a volume costante. Di particolare importanza in un certo numero di applicazioni sono anche i cosiddetti potenziali termodinamici di Helmholtz e di Gibbs24 . Il potenziale termodinamico di Helmholtz, talvolta anche chiamato “energia libera” e tradizionalmente indicato con il simbolo F, è definito dall’equazione F =U −T S . Come si vede, si tratta di una sorta di combinazione lineare dell’energia e dell’entropia e la sua proprietà fondamentale si ottiene andando a considerare una trasformazione in cui il sistema termodinamico scambia calore con una sola sorgente alla temperatura T . Ricordando l’Eq. 5.9 e il primo principio della termodinamica 5.2 si ha, per una trasformazione fra gli stati iniziale e finale, A e B SB − SA ≥

Q UB −UA + L = , T T

dove L è il lavoro compiuto dal sistema sull’ambiente esterno. Con facili passaggi si ottiene L  (UA − T SA ) − (UB − T SB ) , ovvero

L  FA − FB .

(5.16)

Questo risultato si può condensare nell’affermazione che il lavoro compiuto da un sistema che scambia calore con un’unica sorgente è sempre minore o uguale della diminuzione di energia libera. Esso trova molteplici applicazioni soprattutto nei fenomeni in cui il sistema scambia calore solo con l’aria ambiente. Se la trasformazione è sufficientemente lenta essa può anche considerarsi isoterma e l’equazione precedente può essere applicata almeno in prima approssimazione. In particolare, per una trasformazione che avvenga a volume costante (e sempre scambiando calore con un’unica sorgente), essendo L = 0 si ottiene FB  FA . 24 Dai nomi del fisico tedesco Hermann Ludwig Von Helmholtz (1821-1894) e del fisico statunitense Willard Gibbs (1839-1903).

5.11 L’entalpia e i potenziali termodinamici

149

Questa proprietà si esprime dicendo che nelle trasformazioni a volume costante in cui si scambia calore con un’unica sorgente il potenziale termodinamico di Helmholtz diminuisce e, se la trasformazione è reversibile, esso si conserva. Un’ulteriore proprietà dell’energia libera si ottiene considerando una trasformazione infinitesima reversibile. Differenziando la definizione di F e sfruttando il primo principio della termodinamica (nella forma dU = T dS − P dV ) si ha, con facili passaggi dF = −S dT − P dV , la quale permette di ottenere, a partire da F, sia la pressione che l’entropia del sistema attraverso le equazioni ✓ ◆ ◆ ✓ ∂F ∂F S=− , P=− . ∂T V ∂V T Da queste, si può ricavare l’energia interna mediante l’equazione ◆ ✓ ∂F U = F −T , ∂T V e la capacità termica a volume costante mediante l’altra equazione ◆ ✓ ✓ 2 ◆ ∂U ∂ F CV = = −T . ∂T V ∂T2 V Se ne può quindi concludere che la conoscenza dell’energia libera in funzione della temperatura e del volume, ovvero la conoscenza della funzione F(T,V ) determina completamente il comportamento termodinamico del fluido. È facile mostrare che per un gas perfetto (con CV = cost.) si ha F = CV (T − T ln T ) − N R T lnV + costante . Analoghe considerazioni possono essere svolte per il potenziale termodinamico di Gibbs, usualmente indicato con la lettera G e definito dall’equazione G = U − T S + PV , che può anche essere posta nelle forme alternative G = H − T S = F + PV . Per il potenziale di Gibbs valgono proprietà analoghe a quelle del potenziale di Helmholtz, con la differenza che la pressione prende, per così dire, il posto del volume. Se si considera ad esempio una trasformazione in cui il sistema scambia calore con un’unica sorgente alla temperatura T e si suppone inoltre che la trasformazione avvenga a pressione costante, si può sostituire il lavoro L nell’Eq. 5.16 con la quantità P(VB −VA ), ovvero PBVB − PAVA , dato che la pressione non cambia. Tale equazione

150

5 Termodinamica

può quindi essere posta nella forma FB + PB VB  FA + PA VA , ovvero

GB  GA .

Questa proprietà si esprime dicendo che nelle trasformazioni a pressione costante in cui si scambia calore con un’unica sorgente (tipicamente nelle trasformazioni che avvengono in aria libera) il potenziale termodinamico di Gibbs diminuisce e, se la trasformazione è reversibile, esso si conserva. Le altre proprietà sono simili a quelle ottenute per l’energia libera. Mediante una trasformazione infinitesima si può infatti mostrare che valgono le proprietà ◆ ◆ ✓ ✓ ∂G ∂G S=− , V= . ∂T P ∂P T Da queste, si può ricavare l’energia interna mediante l’equazione ◆ ◆ ✓ ✓ ∂G ∂G −P , U = G−T ∂T P ∂P T e la capacità termica a pressione costante mediante l’altra equazione ◆ ◆ ✓ ✓ ✓ 2 ◆ ∂U ∂V ∂ G CP = +P = −T . ∂T P ∂T P ∂T2 P Sempre in analogia alla proprietà vista sopra per il potenziale di Helmholtz, il potenziale termodinamico di Gibbs, una volta espresso in funzione di T e P, determina completamente il comportamento termodinamico del fluido.

Capitolo 6

Applicazioni tecniche

6.1 Le macchine termiche: dal vapore alla combustione interna Dal punto di vista storico, il problema pratico della realizzazione di macchine termiche di elevato rendimento ha contribuito in maniera significativa allo sviluppo della termodinamica. Parallelamente, le conoscenze teoriche di termodinamica così acquisite hanno portato, nel corso del tempo, alla costruzione di macchine termiche sempre più sofisticate. Di questi argomenti si interessa una branca della termodinamica che prende il nome di “termotecnica”. Senza addentrarci a fondo in questi argomenti, accenneremo nel seguito solo ad alcuni esempi di macchine che hanno contribuito in modo fondamentale allo sviluppo della società industriale e che sono entrate a far parte della nostra vita quotidiana. Le prime macchine termiche a essere utilizzate per scopi pratici sono state le macchine a vapore. Nei tratti più essenziali, una macchina a vapore è costituita da una caldaia nella quale, mediante la combustione di combustibili fossili (tipicamente carbone), si fa bollire l’acqua e si porta il vapor acqueo a una temperatura elevata (dell’ordine di 150◦ C o più). Per mezzo di un sistema di tubi e di valvole, il vapore viene introdotto in un cilindro, nel quale può scorrere uno stantuffo con moto oscillatorio, e fuoriesce poi dal cilindro stesso per andare a raccogliersi in un ambiente diverso, detto “condensatore”, dal quale può infine rientrare nella caldaia (si veda la Fig. 6.1). Per scopi pratici, è di fondamentale importanza determinare il rendimento di una macchina termica. Tuttavia, il calcolo del rendimento di una macchina a vapore è piuttosto complesso e dipende in parte dai dettagli del suo funzionamento (sostanzialmente dalla fase del ciclo in cui vengono aperte le valvole del cilindro e dal sistema, generalmente una pompa, che viene utilizzato per far rientrare il vapore dal condensatore alla caldaia). Esso può essere stimato osservando che il ciclo compiuto dalla sostanza termodinamica (acqua e vapor acqueo) in una tipica macchina a vapore è ben rappresentato, dal punto di vista teorico, dal cosiddetto ciclo Rankine1 , illustrato nella Fig. 6.2. 1

Dal nome dell’ingegnere scozzese William Rankine (1820-1872).

© Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 E. Landi Degl’Innocenti, Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica, https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9_6

151

152

6 Applicazioni tecniche

Valvole di ingresso del vapore dalla caldaia

Valvole di uscita del vapore verso il condensatore Figura 6.1 llustrazione schematica del meccanismo di distribuzione del vapore nel cilindro della macchina a vapore. Le valvole di ingresso si chiudono alternativamente in controfase tra loro e in controfase con le valvole di uscita

Riferendoci all’unità di massa, consideriamo la prima trasformazione (tratto A!B in figura). In questa trasformazione l’acqua a bassa pressione che si è raccolta nel condensatore viene compressa adiabaticamente e spinta in caldaia. Durante questa trasformazione la temperatura dell’acqua varia di pochissimo rimanendo praticamente uguale alla temperatura che aveva nel condensatore, Tb . La seconda trasformazione (B!C) avviene in caldaia. Prima l’acqua è scaldata dalla temperatura Tb alla temperatura della caldaia, Ta (B!B’); poi passa dalla fase di vapor saturo a quella di vapor secco (B’!C). In questa trasformazione il sistema assorbe dalla

P

B B’

A

C

D

V

Figura 6.2 Illustrazione schematica del ciclo Rankine. La linea tratteggiata racchiude la zona in cui si ha coesistenza fra fase liquida e fase di vapore

6.1 Le macchine termiche: dal vapore alla combustione interna

153

caldaia la quantità di calore Q1 data da

Q1 = cP (Ta − Tb ) + `(Ta ) , dove cP è il calore specifico massico dell’acqua (a pressione costante) ed `(Ta ) è il calore latente di vaporizzazione dell’acqua alla temperatura della caldaia. Nella terza trasformazione (C!D) si ha l’espansione del vapore che viene sfruttata per produrre lavoro meccanico. L’espansione si può considerare adiabatica e il vapore si raffredda, passando alla temperatura Tb e passando dalla fase di vapor secco a una fase in cui presenta, come si dice in termini tecnici, il titolo2 x. Infine, nella quarta trasformazione (D!A), il vapore viene inviato nel condensatore dove condensa completamente per ritornare nella fase liquida alla temperatura Tb . In questa trasformazione viene ceduta al condensatore la quantità di calore Q2 data da

Q2 = x `(Tb ) , dove `(Tb ) è il calore latente di vaporizzazione dell’acqua alla temperatura del condensatore. Applicando il primo principio, poiché il lavoro L è dato da Q1 − Q2 si trova che il rendimento del ciclo Rankine teorico è espresso dall’equazione h Rankine =

Q1 − Q2 L x `(Tb ) . = = 1− Q1 Q1 cP (Ta − Tb ) + `(Ta )

Ovviamente il valore del titolo del vapore nel punto D, che abbiamo indicato con x, non è arbitrario, ma è univocamente fissato dal ciclo stesso. Per trovare tale valore si può applicare il secondo principio della termodinamica osservando che la trasformazione C!D è una trasformazione adiabatica, e quindi isoentropica. La variazione di entropia nell’insieme delle tre trasformazioni D!A!B!C deve essere nulla, il che porta all’equazione −

x `(Tb ) `(Ta ) + cP ln(Ta /Tb ) + =0 , Tb Ta

dalla quale si può ricavare il valore del prodotto x`(Tb ). Sostituendo poi nell’espressione del rendimento si ottiene h Rankine = 1 −

Tb `(Ta ) + cP Ta ln(Ta /Tb ) . Ta `(Ta ) + cP (Ta − Tb )

Consideriamo ad esempio una macchina a vapore che lavori fra le temperature di 20◦ C e 140◦ C. Tenendo conto che il calore di vaporizzazione dell’acqua alla temperatura di 140◦ C è pari a 513 cal g−1 e assumendo per cP il valore di 1 cal g−1 K−1 , si ottiene un rendimento pari al 27%. Nei casi pratici il rendimento è considerevolmente più basso, a causa degli immancabili attriti, delle dispersioni termiche verso 2 Il titolo di un vapore è definito come la frazione di vapore che non è condensata. Ad esempio, facendo riferimento alla Fig. 6.2, nel punto B’ il vapore ha titolo 0, mentre nel punto C ha titolo 1.

154

6 Applicazioni tecniche

l’ambiente, e del fatto che, per ovvie ragioni economiche, è necessario tener conto anche del rendimento della caldaia nel processo di combustione. Per tutte queste ragioni, ad esempio, una tipica locomotiva a vapore del XIX secolo difficilmente poteva raggiungere un rendimento complessivo superiore al 15%. Nel tentativo di aumentare il rendimento delle macchine a vapore, sono stati escogitati nel corso del tempo numerosissimi tipi di motori termici. Quelli che si sono rivelati di maggior successo alla prova dei fatti sono i cosiddetti “motori a combustione interna”. In tali motori, il combustibile viene utilizzato non tanto per portare a temperatura elevata un ambiente, quale una caldaia, mediante un processo di combustione di tipo tradizionale, ma è direttamente utilizzato all’interno del cilindro nel quale ha luogo il movimento del pistone. In un tipico “motore a scoppio” viene inizialmente aspirata nel cilindro, attraverso la valvola di aspirazione, una miscela di aria e combustibile (benzina). Facendo riferimento alla Fig. 6.3 (pannello a), tale trasformazione è rappresentata nel piano P − V dal tratto A!B. Chiusa la valvola di aspirazione, la miscela subisce una rapida compressione che si può considerare adiabatica (tratto B!C) e, una volta raggiunta una conveniente compressione, si fa avvenire l’accensione istantanea della miscela per mezzo di una scintilla elettrica. La combustione della miscela provoca un rapido innalzamento della temperatura e della pressione che avvengono praticamente a volume costante (tratto C!D). In seguito, si lascia espandere il fluido, ridotto ora ai prodotti di combustione, nel cilindro. L’espansione è di nuovo adiabatica (tratto D!E) ed è seguita dall’apertura della valvola di scarico. Questo mette in comunicazione il fluido stesso con l’ambiente esterno e si ha un abbassamento di pressione e di temperatura che può essere considerato avvenire a volume costante (tratto E!B). I prodotti di combustione vengono infine espulsi con il ritorno del pistone alla fase iniziale (tratto B!A)3 . Il ciclo termodinamico che così si compie viene detto ciclo Otto o ciclo Beau de Rochas4 . Il corrispondente diagramma teorico nel piano P −V è rappresentato nella Fig. 6.3, pannello a. Per calcolare il rendimento del ciclo Otto teorico, indichiamo con Q1 la quantità di calore assorbita dal sistema nella trasformazione isocora C!D e con Q2 la quantità di calore ceduta dal sistema all’ambiente nell’altra trasformazione isocora E!B. Poiché le altre due trasformazioni del ciclo sono adiabatiche, per il primo principio della termodinamica il lavoro L compiuto dal sistema è dato da Q1 − Q2 . D’altra parte, nelle due trasformazioni isocore si ha

Q1 = N CV (TD − TC ) ,

3

Q2 = N CV (TE − TB ) ,

Bisogna sottolineare che, in linea di principio, le trasformazioni a volume costante C!D e E!B non sono rappresentabili nel piano P − V in quanto non si tratta di trasformazioni quasi statiche nelle quali si passa attraverso stati intermedi di equilibrio. Nel primo caso l’esplosione della miscela avviene in maniera graduale nel cilindro e non si hanno dei valori di pressione e temperatura univoci. Nel secondo caso, all’apertura della valvola di scarico si stabilisce una situazione complessa con parte del gas caldo che fuoriesce dalla valvola alla velocità del suono. 4 Dai nomi dell’ingegnere tedesco Nikolaus August Otto (1832-1891) e dell’ingegnere francese Alphonse Eugène Beau, detto Beau de Rochas (1815-1893).

6.1 Le macchine termiche: dal vapore alla combustione interna

P

155

P D D

C

b

a

E

C A

E

A

B

V1

V

V2

B

V1

V3

V2

V

Figura 6.3 Illustrazione schematica del ciclo Otto (pannello a) e del ciclo Diesel (pannello b)

dove N è il numero di moli di gas contenute nel sistema e dove abbiamo indicato con TB , TC , etc., le temperature del sistema nei punti del diagramma indicati con le lettere B, C, etc.. Si ottiene quindi, per il rendimento h Otto =

L TE − TB Q2 = 1− = 1− . Q1 Q1 TD − TC

Le varie temperature che compaiono in questa espressione sono però collegate fra loro, in quanto lungo un’adiabatica vale l’equazione di Poisson TV g−1 = costante5 . Se si indica quindi con R il cosiddetto “rapporto di compressione”, definito da

R=

V2 , V1

con V1 e V2 definiti nella Fig. 6.3, si ha TC = TB Rg−1 ,

TD = TE Rg−1 ,

e si ottiene

1 . Rg−1 Nel ciclo Otto, il rendimento dipende quindi solo dal rapporto di compressione. Se si assume il valore tipico R = 10 (che rappresenta il valore estremo al di là del quale la miscela si autoaccende) e se si tien conto che per i gas combusti g ' 4/3, si ottiene h ' 54% che è un valore più elevato di quello della macchina a vapore. Idealmente si potrebbe pensare di aumentare il rendimento del ciclo Otto facendo tendere all’infinito il rapporto di compressione. Questo non è però possibile perché h Otto = 1 −

5

Le considerazioni svolte in questo paragrafo sono approssimate ed è quindi giustificato utilizzare le leggi dei gas perfetti.

156

6 Applicazioni tecniche

provocherebbe l’autocombustione della benzina prima dell’innesco della scintilla. Un motore di concezione diversa che utilizza idrocarburi più pesanti (tipicamente gasolio) invece della benzina è il motore Diesel6 , il cui ciclo teorico è illustrato nella Fig. 6.3, pannello b. In questo motore la combustione non avviene per mezzo di una scintilla. Il carburante viene invece iniettato gradualmente nel cilindro al termine della compressione e si incendia naturalmente a causa dell’alta temperatura. La corrispondente trasformazione termodinamica può essere considerata una isobara (tratto C!D in figura). In parole povere, il ciclo Diesel è del tutto uguale al ciclo Otto con la sola differenza che l’isocora C!D del ciclo Otto è sostituita da un’isobara. Per il calcolo del rendimento del ciclo Diesel possiamo seguire la stessa strada di quella seguita precedentemente per il ciclo Otto. Indichiamo con Q1 la quantità di calore assorbita dal sistema nella trasformazione isobara C!D e con Q2 la quantità di calore ceduta dal sistema all’ambiente nella trasformazione isocora E!B. Poiché le altre due trasformazioni del ciclo sono adiabatiche, per il primo principio della termodinamica si ha ancora che il lavoro L è dato da Q1 − Q2 . Adesso però si ha

Q1 = N CP (TD − TC ) ,

Q2 = N CV (TE − TB ) ,

e si ottiene h Diesel = 1 −

TE − TB . g (TD − TC )

Si tratta adesso di connettere tra loro le varie temperature e si può ad esempio riferirle tutte alla temperatura TB tenendo conto che per le adiabatiche si ha TV g−1 = costante e per l’isobara si ha T /V = costante. Facendo riferimento alla Fig. 6.3 e introducendo, oltre al rapporto di compressione R definito come nel caso del ciclo Otto, anche il cosiddetto “rapporto di combustione”, B , definito da

B=

V3 , V1

si ottiene TC = R

g−1

TB ,

TD = B TC = B R

g−1

TB ,

TE =



B R

◆g−1 TD = B g TB .

Sostituendo queste espressioni, si ottiene per il rendimento del ciclo Diesel h Diesel = 1 −

Bg − 1 1 . g−1 gR B −1

In un tipico motore Diesel si ha R = 22 e B = 2. Si ottiene quindi (sempre assumendo g = 4/3), un rendimento dell’ordine del 59%.

6

Dal nome dell’ingegnere tedesco Rudolf Diesel (1858-1913).

6.2 Le macchine frigorifere e le pompe di calore

157

6.2 Le macchine frigorifere e le pompe di calore Il principio fisico di funzionamento di una macchina frigorifera (o di una pompa di calore) può essere illustrato facendo riferimento a un ciclo di Carnot, quale quello rappresentato nella Fig. 13, però percorso nel senso inverso. Nelle due trasformazioni isoterme, il fluido, percorrendo il ciclo di Carnot inverso, assorbe dalla sorgente a temperatura più bassa, Tb , la quantità di calore Qb , e cede alla sorgente a temperatura più alta, Ta , la quantità di calore Qa . Per il primo principio viene compiuto sull’ambiente un lavoro L dato da L = Qb − Qa . Tale lavoro è negativo per cui, in realtà, è necessario fornire lavoro al sistema per farlo operare in questa maniera. Possiamo pensare all’azione risultante da tale ciclo in due maniere diverse. Se identifichiamo la sorgente a temperatura Tb con l’ambiente dal quale intendiamo sottrarre calore e la sorgente a temperatura Ta con l’ambiente esterno, allora abbiamo a che fare con una macchina frigorifera. Per tale macchina possiamo definire il rendimento7 , z , come il rapporto fra il calore sottratto all’ambiente a temperatura Tb e il lavoro compiuto dalla macchina. Si ottiene allora z=

Qb , Qa − Qb

ovvero, nel caso di un ciclo di Carnot reversibile z=

Tb . Ta − Tb

Alternativamente, possiamo identificare la sorgente a temperatura Tb con l’ambiente esterno e la sorgente a temperatura Ta con l’ambiente che intendiamo riscaldare. In questo caso si dice che si ha a che fare con una pompa di calore e, come è facile mostrare, il corrispondente rendimento risulta, di nuovo nel caso di un ciclo di Carnot reversibile Ta . z0 = Ta − Tb

Come si può notare, i rendimenti teorici delle macchine frigorifere e delle pompe di calore possono raggiungere valori molto elevati. Un esempio tipico è quello del frigorifero domestico per il quale si può assumere Tb = 0◦ C e Ta = 30◦ C. In questo caso si ha z = 9.1. Una pompa di calore può invece lavorare fra una tipica temperatura ambiente invernale, Tb = 5◦ C, e la temperatura dell’interno di un’abitazione, Ta = 20◦ C. Il suo rendimento risulta z 0 = 19.5. Lo schema di funzionamento di una macchina frigorifera (o di una pompa di calore) è illustrato nella Fig. 6.4. Nel circuito chiuso, costituito dal cilindro e dai 7

Per le macchine frigorifere, invece che di rendimento, si parla talvolta di “coefficiente di prestazione”.

158

6 Applicazioni tecniche

Pistone Ambiente frigorifero

Ambiente esterno

Rubinetto Figura 6.4 Illustrazione schematica del principio di funzionamento di una macchina frigorifera

due serpentini, è presente un fluido che deve godere della proprietà fondamentale di rimanere nella fase liquida, o in quella di vapore, anche alle basse temperature che si vogliono raggiungere nell’ambiente frigorifero (l’acqua, ad esempio, non può essere utilizzata perché solidifica a 0◦ C). Nelle prime macchine frigorifere veniva utilizzata l’ammoniaca. In seguito vennero comunemente utilizzati alcuni gas conosciuti col nome commerciale di freon8 , oppure col nome di clorofluorocarburi o CFC9 . Il ciclo compiuto dal fluido refrigerante in una macchina frigorifera (o in una pompa di calore) è un ciclo Rankine simile a quello della macchina a vapore ma percorso in senso inverso. Esso è illustrato nella Fig. 6.5. Nella prima trasformazione il fluido, che si trova nella fase di vapor saturo, viene compresso entro il cilindro e inviato nel primo serpentino, quello in contatto con l’ambiente esterno nella Fig. 6.4 (A!B). La trasformazione può essere considerata adiabatica e il fluido passa a una temperatura più elevata (tipicamente la temperatura ambiente). Il fluido viene poi compresso nel serpentino rimanendo a temperatura costante e fornendo calore all’ambiente in contatto termico col serpentino stesso (trasformazione B!C). In questa trasformazione il fluido passa dalla fase di vapor saturo alla fase liquida. Si ha poi una trasformazione irreversibile (C!D, indicata con una linea seghettata) che consiste in un’espansione libera attraverso una valvola e che provoca il raffreddamento del fluido. Infine il fluido si espande ulteriormente nel secondo serpentino mediante una trasformazione a temperatura costante (D!A). Esso si trasforma di nuovo in vapor saturo e sottrae calore all’ambiente in contatto col serpentino. Lo schema di funzionamento qui illustrato è quello tipico dei comuni frigoriferi, dome8

Freon è un marchio registrato della multinazionale Dupont. Si tratta di una famiglia di gas derivati dal metano e dall’etano per sostituzione degli atomi di Idrogeno con atomi di alogeni quali Cloro, Fluoro, e Bromo, come ad esempio il tetrafluorometano avente formula chimica CF4 . Verso la fine degli anni 1970 alcuni studi scientifici, ampiamente confermati in seguito, mostrarono che i clorofluorocarburi erano responsabili della formazione del cosiddetto “buco dell’ozono”. A partire dalla metà degli anni 1980 tali gas sono stati messi al bando (almeno nei paesi industrializzati) e sono stati sostituiti dai cosiddetti idrofluorocarburi (HFC) che sono meno dannosi per l’ambiente. 9

6.2 Le macchine frigorifere e le pompe di calore

159

P

B

C

D

A

V

Figura 6.5 Illustrazione schematica del ciclo Rankine di una macchina frigorifera

stici e industriali, e dei sistemi di aria condizionata. Nelle versioni più moderne di questi ultimi, il movimento del fluido entro il circuito può essere invertito e il sistema può funzionare da refrigerante dell’ambiente domestico in estate e da pompa di calore in inverno.

Parte III

Elementi di fisica statistica

Introduzione storica

Intorno alla metà del XIX secolo, sulla spinta dei successi sperimentali sui fenomeni termici ed elettromagnetici, una parte della comunità scientifica pensò di potersi avvalere di appropriati modelli matematici, spesso corredati da ipotesi teoriche, per comprendere tali fenomeni. Un esempio tipico è la teoria di J.C. Maxwell dell’elettromagnetismo, dove il fisico britannico di fatto realizzò una sorta di modello fluidodinamico del campo elettromagnetico, fondato sulla gran mole di illuminanti esperimenti ideati e realizzati dal non meno famoso scienziato britannico M. Faraday, durante la sua lunga carriera presso la Royal Institution. Per quanto riguarda la teoria del calore, si pensò che fosse possibile ottenerla a partire da un modello cinetico in grado di ricondurre i fenomeni termici al moto degli atomi che costituiscono la materia. Non si trattava di un’idea completamente nuova perché già nel XVII secolo lo scienziato svizzero D. Bernoulli aveva sostenuto questo punto di vista nel suo trattato intitolato Hydrodynamica (1738). Dopo di lui l’idea era stata ripresa dai britannici J. Herapath (1820) e J.J. Waterston (1845), ma ambedue le memorie da questi presentate alla Royal Society non furono pubblicate, a testimonianza del sostanziale scetticismo con cui la comunità scientifica dell’epoca, percorsa da forti influenze empirico-positivistiche, accoglieva quelle che erano considerate improbabili speculazioni teoriche. Il percorso interrotto della teoria cinetica fu ripreso con maggior rigore e, occorre dirlo, con argomenti più convincenti tra il 1856 e il 1857 dagli scienziati tedeschi A. Krönig e R. Clausius, che schematizzarono la dinamica delle particelle di un gas come quella di punti materiali che urtano elasticamente tra loro e con le pareti del volume che li contiene. È evidente come un simile approccio fosse fondato sull’ipotesi della costituzione atomico-molecolare della materia, che, occorre sottolinearlo, era tutt’altro che accettata dalla comunità scientifica dell’epoca. Nella formulazione della teoria cinetica di Krönig-Clausius emerge però un elemento di assoluta novità concettuale, che risiede nella necessità di introdurre inferenze di natura statistica per mettere in relazione il modello cinetico microscopico con le proprietà termodinamiche, cioè macroscopiche, del gas di particelle materiali. Nella prospettiva della teoria di Krönig-Clausius l’inferenza statistica è dovuta al fatto che i moti microscopici di un numero elevato di particelle, ad esempio quello degli atomi in una mole di gas

164

Elementi di fisica statistica

(approssimativamente 1023 ), vanno considerati nel loro insieme e non separatamente, quando si voglia dedurre da questi proprietà macroscopiche. È grazie a questo aspetto statistico reso esplicito nell’approccio di Krönig-Clausius che fu possibile stabilire l’equivalenza tra l’energia cinetica media delle particelle in un gas e la sua temperatura, oltre ad individuare un legame tra equilibrio termodinamico ed equipartizione dell’energia tra i gradi di libertà delle particelle che costituiscono il gas. Insomma, per la prima volta la teoria cinetica riuscì a fornire predizioni quantitative in grado di essere sottoposte al vaglio degli esperimenti. Questo progresso, senza dubbio, contribuì, almeno in parte, a dissipare i pregiudizi e le obiezioni che avevano resi vani tutti i precedenti tentativi di attribuire un fondamento cinetico alla termodinamica. Un ulteriore passo in avanti in questa direzione fu compiuto da J.C. Maxwell in due memorie fondamentali pubblicate nel 1860 e nel 1866. In queste egli si liberò definitivamente dalle remore filosofiche, proprie dei suoi predecessori, nell’usare un modello matematico rigoroso, fondato su ipotesi ad hoc. In questo modo Maxwell determinò una decisa rottura con l’atteggiamento empirista degli scienziati del tempo. Nella due memorie, infatti, egli afferma, con tutta l’autorevolezza che gli derivava dal suo prestigio scientifico, che le ipotesi da lui introdotte per dare un fondamento matematico alla teoria cinetica non andavano giudicate di per sé, ma valutate alla luce della loro capacità di produrre predizioni consistenti con gli esperimenti. Oltre a ricavare in forma esplicita la legge che determina la distribuzione delle velocità della particelle di un gas all’equilibrio in funzione della sua temperatura (distribuzione di Maxwell) egli intraprese anche un tentativo di conciliare l’approccio cinetico con gli aspetti legati all’irreversibilià della termodinamica di un gas, stabiliti dal secondo principio. Questo programma di lavoro venne continuato ed ulteriormente arricchito dall’opera del fisico austriaco L. Boltzmann, che, già in una memoria del 1866, espose il suo programma di voler dimostrare il secondo principio della termodinamica come un vero e proprio “teorema puramente meccanico”. In questo senso Boltzmann si sentiva anche una sorta di continuatore del lavoro dello scienziato tedesco H. von Helmholtz, che, pochi anni prima, aveva fornito un’interpretazione puramente meccanica del primo principio della termodinamica. Le incertezze sulla validità della teoria cinetica erano tali da indurre lo stesso Clausius a pubblicare nel 1871 una sorta di ritrattazione in merito ai fondamenti della sua stessa teoria. Boltzmann, invece, era ormai lanciato nel perseguire il suo programma e di fatto divenne il primo sostenitore della validità della teoria cinetica. In una memoria del 1872 Boltzmann fornì il suo contributo fondamentale, mostrando come in un modello di gas rarefatto (gas ideale) l’irreversibilità del secondo principio della termodinamica possa essere ricondotta, tramite il cosiddetto “teorema H”, alla natura degli urti che avvengono tra le molecole del gas, combinata con la cosiddetta “ipotesi del caos molecolare” (Stosszahlansatz). L’aspetto costruttivo insito nel teorema H di Boltzmann è legato alla possibilità di ricavare da questo l’espressione dell’entropia del gas ideale e quindi di ricavare da questa tutte le proprietà termodinamiche che corrispondono essenzialmente a quelle di un gas reale in condizioni di alta temperatura e rarefazione. Oggi sappiamo che è proprio l’ipotesi del caos molecolare che consente di far emergere l’irreversibilità termodinamica da urti microscopici di natura reversibile.

Introduzione storica

165

Boltzmann sembrava esserne pienamente conscio, ma ciò nonostante dovette fronteggiare un massiccio attacco teso a screditare la sua teoria, come espressione di un meccanicismo riduzionista, che molti importanti scienziati dell’epoca intendevano estirpare assieme a tutte le teorie atomico-molecolari. In questa opera di demolizione dell’approccio cinetico alla termodinamica il significativo risultato del teorema H di Boltzmann venne interpretato come “paradosso della reversibilità”. Lo scienziato austriaco J. Loschmidt e il giovane matematico tedesco E. Zermelo ebbero il ruolo di impersonare la corrente scientifica che si opponeva alla teoria di Boltzmann. Il primo aveva fondato le sue obiezioni sulla considerazione elementare che non fosse possibile ottenere processi irreversibili macroscopici da leggi meccaniche reversibili (come il moto e gli urti degli atomi nella teoria di Boltzmann), il secondo invece aveva contestato il fatto che il risultato del teorema H sembrava essere in aperta contraddizione con il teorema della ricorrenza di Poincaré: questo affermava che, dato un qualunque sistema dinamico reversibile, questo sarebbe tornato vicino quanto si vuole alla sua condizione iniziale dopo un tempo sufficientemente lungo. Dietro a Loschmidt e Zermelo vi erano però altri influenti scienziati del tempo, tra i quali si distinguevano il chimico tedesco W. Ostwald (sostenitore dell’energetismo, una corrente epistemologica che si opponeva pervicacemente a qualunque interpretazione meccanico-atomica del comportamento della materia), lo scienziato austriaco E. Mach (che si può definire un empirista post-litteram, fortemente condizionato dalla sua impostazione sensoriale alla percezione dei fenomeni naturali) e il matematico francese H. Poincaré, (fondatore di un nuovo approccio alla teoria dei sistemi dinamici, che emergeva dai suoi studi di meccanica celeste). Boltzmann dedicò non pochi sforzi a controbattere gli argomenti dei suoi oppositori e questo stimolò in lui la necessità di trovare nuovi concetti per sostenere le proprie idee. Tra questi merita sicuramente di essere ricordato quello di ergodicità, che, alla luce delle nostre conoscenze attuali, appare come una delle più geniali intuizioni nella storia della scienza. In sostanza Boltzmann comprese che le implicazioni probabilistiche, insite nell’ipotesi del caos molecolare, possono essere fondate sull’idea che le configurazioni microscopiche di un gas ideale all’equilibrio termodinamico possano essere rappresentate tramite un’opportuna misura di probabilità da “spalmare”, per così dire, su uno spazio degli stati dinamici microscopici del gas (il cosiddetto “spazio molecolare”): per fare questo, però, è necessario suddividere questo spazio in “celle elementari”, la cui dimensione è di fatto la rappresentazione della precisione con la quale siamo in grado di attribuire una posizione e una velocità alle molecole del gas:, questa precisione non può essere arbitrariamente piccola, come invece sarebbe necessario per individuare univocamente la singola traiettoria matematica di un punto materiale. Si può dire che questi argomenti e l’ostinazione stessa di Boltzmann riuscirono solo in parte a mitigare l’ostilità di Ostwald e quasi a convincere Poincaré. Per il resto della comunità dell’epoca Boltzmann continuò ad apparire come una sorta di anacronistico sacerdote del meccanicismo. Le vicissitudini personali e familiari del fisico austriaco, sommandosi al suo conclamato insuccesso scientifico, lo portarono a concludere prematuramente la sua vita nel 1905 a Duino, presso Trieste, dove trascorreva un periodo di vacanza. Prima della morte Boltzmann aveva avu-

166

Elementi di fisica statistica

to l’opportunità di interagire e conoscere personalmente, in occasione di un suo avventuroso viaggio dall’Austria fino a Berkeley in California, il fisico americano J.W. Gibbs, che aveva intuito le potenzialità insite nell’approccio di Boltzmann. Si può immaginare il turbamento nell’animo di Boltzmann, costretto in trincea a difendere il suo modello meccanico-termodinamico del gas ideale, quando Gibbs gli comunicò che le sue acquisizioni sul modello del gas ideale si potevano estendere, secondo la teoria da lui elaborata, ad un qualunque sistema termodinamico. Dall’interazione di Gibbs con Boltzmann nacque la teoria degli insiemi statistici di equilibrio, in cui successivamente lo stesso A. Einstein svolse un ruolo di primaria importanza, introducendo il concetto di grande deviazione, come stima della probabilità di configurazioni microscopiche altamente improbabili, cioè praticamente non osservabili, pur se in linea di principio possibili. Nacque così la branca della fisica teorica che oggi conosciamo come Meccanica Statistica di Equilibrio e che si è andata sviluppando fino ai giorni d’oggi con indubbi successi e con una peculiare capacità di aprirsi anche a numerose applicazioni di interesse interdisciplinare, dalla fisica matematica, alla statistica, alla chimica, finanche alla biologia e alle scienze sociali. Come ultima notazione storica val la pena concludere ricordando il fatto piuttosto rilevante che la teoria dei quanti di radiazione introdotta dal fisico tedesco Max Planck per spiegare lo spettro del corpo nero (la pietra angolare alla base della meccanica quantistica) in sostanza è la trasposizione del modello del gas ideale di Boltzmann ad un gas di radiazione elettromagnetica all’equilibrio termodinamico. Un aspetto storicamente interessante in relazione a questi fatti è che Planck era stato allievo di Boltzmann, ma, ciò nonostante, si era schierato apertamente con gli oppositori del suo vecchio maestro, di cui non condivideva l’approccio riduzionista. Quando però Planck cercò di trovare un modo di conciliare i dati sperimentali dello spettro del corpo nero con una spiegazione teorica plausibile, non trovò di meglio che fare uso dei medesimi strumenti “riduzionisti” di Boltzmann, giungendo ad una scoperta che gli valse il premio Nobel per la Fisica. Val la pena sottolineare che la teoria di Planck del corpo nero fornì anche la possibilità di ricavare il valore di quella “incertezza” sugli stati microscopici nello spazio molecolare ipotizzata da Boltzmann, che oggi porta il nome di costante di Planck.

Capitolo 7

Fisica cinetica

7.1 La teoria cinetica dei gas Le leggi generali dei gas perfetti illustrate nella parte di Termodinamica, in particolare nella Sez. 4.2, sono condensate in poche equazioni che riassumono in maniera sintetica i risultati ottenuti per mezzo di numerosissimi esperimenti di laboratorio condotti per più di due secoli. Oggi sappiamo che tali leggi possono essere dedotte mediante un modello relativamente semplice basato sull’ipotesi atomica della materia, un’ipotesi che si fa risalire al filosofo greco Democrito (460-377 A.C.), ma che si è affermata definitivamente negli ambienti scientifici soltanto in tempi relativamente recenti. Da questo punto di vista, è opportuno sottolineare che proprio la teoria cinetica dei gas che svilupperemo in questo paragrafo, elaborata dal fisico tedesco Rudolf Clausius (1822-1888), ha portato un notevole contribuito in tale direzione. In base alla teoria atomica un gas è costituito da un numero elevatissimo di particelle, in prima approssimazione puntiformi, libere di muoversi in tutte le direzioni nello spazio a loro disposizione. Tali particelle non sono a riposo. Al contrario, esse sono dotate, come si dice, di “agitazione termica”, il che significa che esse si muovono continuamente in maniera disordinata urtando fra loro e con le pareti del recipiente. Sono proprio gli innumerevoli urti delle particelle contro le pareti del recipiente a dar luogo alla pressione che viene misurata dai manometri nelle usuali esperienze di laboratorio. Sviluppiamo adesso il modello in maniera quantitativa iniziando con l’introdurre le ipotesi più semplici possibili. Supponiamo che il gas sia contenuto entro una scatola cubica di lato L e introduciamo un sistema di coordinate cartesiano ortogonale, (x, y, z), con gli assi paralleli agli spigoli della scatola. Supponiamo poi che le particelle che compongono il gas abbiano tutte la stessa massa, che indichiamo con m, e supponiamo che esse possano muoversi, alla velocità v, soltanto lungo una delle 3 direzioni individuate dagli assi x, y e z e lungo le 3 direzioni opposte. Se N è il numero totale di particelle contenute nella scatola, si hanno quindi N/6 particelle che si muovono a velocità v lungo la direzione positiva dell’asse x, N/6 particelle © Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 E. Landi Degl’Innocenti, Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica, https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9_7

167

168

7 Fisica cinetica

che si muovono alla stessa velocità lungo la direzione negativa dell’asse x, e così via per le altre quattro direzioni individuate dagli assi y e −y, z e −z. Consideriamo, per fissare le idee, l’urto contro la parete della scatola di una particella che si propaga lungo l’asse x positivo. Prima dell’urto essa si muove con velocità v x, ˆ dove xˆ è il versore relativo all’asse x. Dopo l’urto, che supponiamo elastico, essa rimbalza con velocità opposta, ovvero con velocità −v x. ˆ Nell’urto si ha quindi un trasferimento di impulso dalla particella alla parete, D q, dato da D q = 2 m v xˆ . D’altra parte, nell’intervallo di tempo Dt urtano contro la parete tutte le particelle che hanno velocità diretta lungo l’asse x positivo e che sono contenute nel parallelepipedo avente per base la parete della scatola e per altezza un segmento lungo v Dt. Se N è il numero totale delle particelle contenute nella scatola, il numero di urti nel Dt, D Nurti , è dato da N L2 v Dt . D Nurti = 6 V Il risultato degli urti è che sulla parete si esercita una forza, F data da F=

D Nurti D q , Dt

ovvero, sostituendo le equazioni precedenti F=

m v2 N 2 L ı . 3V

Come si vede, questa forza è diretta come la normale esterna alla parete ed è proporzionale a L2 , l’area della parete stessa. Essa ha quindi tutte le caratteristiche di una forza di pressione dimodoché, per quest’ultima, si ottiene P=

m v2 N F . = 2 L 3V

Ricordiamo adesso una delle ipotesi fondamentali della teoria atomica secondo la quale una mole di una qualsiasi sostanza contiene un numero assegnato di particelle, detto numero di Avogadro e indicato tradizionalmente col simbolo NA . Se la nostra scatola contiene N moli di gas, si ha quindi N = N NA , per cui P=N

m v2 NA . 3V

7.1 La teoria cinetica dei gas

169

Moltiplicando ambo i membri di questa equazione per V si ottiene PV = N

m v2 NA , 3

e indicando con Mmol la cosiddetta massa molare, ovvero il prodotto m NA , PV = N

Mmol v2 . 3

Attraverso il nostro modello abbiamo quindi ottenuto un’equazione che è strutturalmente identica all’equazione di stato dei gas perfetti. In effetti, le due equazioni coincidono pur di porre Mmol v2 = RT . (7.1) 3 Questa equazione prende il nome di “equazione di Clausius-Krönig” e collega la temperatura assoluta del gas al quadrato della velocità delle particelle che lo compongono. Attraverso di essa è possibile trovare la velocità delle particelle del gas anche senza conoscere il numero di Avogadro. Se consideriamo ad esempio l’aria a temperatura ambiente (T ' 290 K), essendo Mmol ' 29 g, e ricordando il valore di R, si ottiene v ' 5.0 ⇥ 102 m s−1 . Effettivamente, al momento in cui veniva alla luce la teoria di Clausius il numero di Avogadro non era ben noto e si preferivano scrivere delle formule, come l’Eq. 7.1, in cui tale numero non compare esplicitamente. Oggi invece il numero di Avogadro è noto addirittura con 7 cifre significative, ovvero NA = 6.022169 ⇥ 1023 , e può essere introdotto direttamente nel formalismo per rendere le equazioni più chiare e più significative dal punto di vista fisico1 . Per questo, si definisce la costante di Boltzmann2 , solitamente indicata col simbolo kB , attraverso la posizione kB =

R = 1.38065 ⇥ 10−23 J K−1 = 1.38065 ⇥ 10−16 erg K−1 . NA

Tale costante è esattamente la stessa già incontrata nell’Eq. 5.14, nell’ambito della discussione sul significato probabilistico dell’entropia di un gas perfetto, pure dovuto a Boltzmann, nella Sez. 5.10. Infatti, quando il numero di particelle nel sistema in esame si esprime tramite il numero di Avogadro, ovvero N = N NA , la costante k = R N /N che entra nell’espressione per l’entropia coincide proprio con kB . Si noti che l’introduzione della costante di Boltzmann permette di far emergere un nuovo e fondamentale significato fisico per la temperatura, un significato che 1

Si noti che il numero di Avogadro è il reciproco dell’unità di massa atomica, ovvero un dodicesimo della massa del nuclide di Carbonio 12, espressa in grammi. A meno dell’un permille si può anche dire che il numero di Avogadro è il reciproco della massa del protone, sempre espressa in grammi. 2 Dal nome del fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906).

170

7 Fisica cinetica

coinvolge il livello microscopico della descrizione del gas. Infatti, l’Eq. 7.1 può essere espressa nella forma m v2 = 3 kB T , oppure, in maniera più significativa, 1 3 m v 2 = kB T . 2 2 Questa equazione mostra che la temperatura, misurata nella scala assoluta, altro non è, a parte una costante, che l’energia cinetica di ciascuna delle innumerevoli particelle che costituiscono il gas. Inoltre, questa stessa equazione permette di scrivere l’equazione di stato dei gas perfetti nella forma P = n kB T , dove n = N/V è la densità numerica di particelle. Introducendo la densità di massa r = m n, possiamo anche scrivere la pressione P in funzione di r e T come P=

kB rT , m

formula utile in fluidodinamica, quando si trattino gas ideali. Se si osserva poi che la densità di energia interna del gas (ovvero l’energia interna per unità di volume), che indichiamo con u, altro non è se non l’energia cinetica delle particelle che lo costituiscono, si ha anche 1 3 u = n m v2 = n kB T , 2 2

(7.2)

per cui si arriva alla seguente relazione che collega la pressione alla densità di energia (due quantità aventi le stesse dimensioni) P=

2 u . 3

Come abbiamo visto, il semplice modello che abbiamo introdotto è capace di rendere conto in modo eccellente dell’equazione di stato dei gas perfetti. Esso è però piuttosto brutale e può essere affinato sotto diversi punti di vista. Innanzitutto abbiamo supposto che il volume contenente il gas fosse una scatola di forma cubica e che le velocità delle particelle, tutte uguali in modulo, potessero essere dirette soltanto lungo gli spigoli della scatola. Ovviamente queste sono delle ipotesi grossolane che possono tuttavia essere evitate per mezzo di alcuni calcoli supplementari relativamente semplici. Se si continua infatti ad assumere che le particelle abbiano tutte la stessa velocità (in modulo), ma si suppone che le direzioni di tali velocità siano uniformemente distribuite in tutto l’angolo solido, la pressione esercitata sull’elemento infinitesimo, dS, della superficie delimitante un volume di forma arbitraria (non necessariamente una scatola), può essere calcolata mediante le considerazioni seguenti.

7.1 La teoria cinetica dei gas

171

dS

z θ φ

y

dΩ x

Figura 7.1 Le particelle la cui velocità è contenuta nell’angolo solido dW hanno componente della velocità lungo la normale esterna al dS data da v cos q

Facendo riferimento alla Fig. 7.1, introduciamo un sistema di riferimento (x, y, z) centrato sulla superficie infinitesima dS e avente l’asse z diretto come la normale interna. La direzione generica da cui provengono le particelle può essere individuata mediante gli angoli polari q e f , con 0  q  p/2 e 0  f < 2p. Se si considerano le particelle la cui direzione è contenuta entro un angolo solido dW centrato intorno alla direzione individuata dagli angoli polari q e f , nell’urto ciascuna di esse cede alla parete un impulso la cui componente lungo l’asse z negativo è data da 2 m v cos q . D’altra parte, nell’intervallo di tempo Dt, il numero di collisioni dovute a tali particelle è dato da D Nurti = dS v Dt cos q

N dW , V 4p

(7.3)

per cui la pressione è data dall’integrale P = 2 m v2

N 1 V 4p

Z 2p 0

df

Z p/2 0

dq cos2 q sin q ,

dove si è utilizzata l’espressione dell’elemento di angolo solido in coordinate polari, dW = sin q dq df . L’integrale su f porta un fattore 2p, mentre l’integrale su q porta un fattore 1/3. Si ottiene quindi P=

m v2 N , 3V

che è lo stesso risultato che avevamo ottenuto mediante le approssimazioni più brutali. L’altra approssimazione che abbiamo utilizzato è stata quella di ipotizzare che tutte le particelle abbiano la stessa velocità in modulo. Molto più realisticamente si può invece assumere che le particelle abbiano una distribuzione del modulo della velocità descritta da una funzione F(v). Questo significa che il numero di particelle

172

7 Fisica cinetica

che hanno velocità in modulo compresa fra v e v + dv, è data da N F(v) dv, dove N è il numero totale di particelle. Ovviamente la funzione di distribuzione deve obbedire alla cosiddetta condizione di normalizzazione, ovvero Z • 0

F(v) dv = 1 .

Ragionando in termini della funzione di distribuzione si ottiene che la pressione è data dall’equazione m hv2 i N , P= 3V dove la quantità hv2 i, la cosiddetta “velocità quadratica media”, è la media di v2 sulla distribuzione, ovvero hv2 i =

Z • 0

v2 F(v) dv .

Come si vede, si ottiene in pratica lo stesso risultato del caso in cui si era assunto che tutte le particelle avessero la stessa velocità, con la differenza che il quadrato di tale velocità deve essere più propriamente sostituito dal suo valor medio sulla distribuzione. Oltre a riprodurre l’equazione di stato dei gas perfetti, il modello atomico è anche in grado di fornire le correzioni da apportare a tale equazione quando si adottino delle schematizzazioni meno drastiche riguardo alle dimensioni delle particelle e alla loro mutua interazione. Alcune considerazioni che portano all’equazione di Van der Waals sono sviluppate nella Sez. 11.2.

7.2 La distribuzione Maxwelliana delle velocità In base all’ipotesi atomica della materia, un gas è costituito da un numero elevatissimo di particelle, aventi dimensioni trascurabili rispetto alle loro distanze tipiche, che si muovono nello spazio vuoto in maniera caotica, urtando fra loro e con le pareti del recipiente entro cui il gas stesso è racchiuso. Seguendo la falsariga di un ragionamento dovuto a Maxwell, ci proponiamo di determinare la cosiddetta “funzione di distribuzione” delle velocità delle particelle partendo da alcune ipotesi del tutto generali. Introduciamo un sistema di riferimento cartesiano ortogonale, (x, y, z), e indichiamo con vx , vy e vz le componenti della velocità v di una particella lungo gli assi coordinati. Fissando l’attenzione su una particolare componente, ad esempio la componente lungo l’asse x, consideriamo l’intervallo di valori (vx , vx + dvx ) e indichiamo con dN (vx ) il numero di particelle la cui componente della velocità è compresa entro tale intervallo. Se il numero totale di particelle è N, la funzione di distribuzione della componente x della velocità delle particelle, f (vx ), è definita dal

7.2 La distribuzione Maxwelliana delle velocità

173

rapporto

dN (vx ) , N e deve ovviamente soddisfare la cosiddetta “condizione di normalizzazione” f (vx ) dvx = Z •

−•

f (vx ) dvx = 1 .

Se si passa a una componente di velocità diversa, ad esempio la componente y, possiamo definire una analoga funzione di distribuzione, g(vy ), la quale, in linea di principio, potrebbe essere diversa dalla funzione f che regola la distribuzione della componente x. L’ipotesi fondamentale che sta alla base del nostro ragionamento è che la funzione g coincida con la funzione f , il che appare del tutto naturale se si pensa che, per un gas racchiuso in un recipiente, tutte le direzioni dello spazio siano equivalenti. A questa ipotesi di isotropia aggiungiamo l’ulteriore ipotesi dell’assenza di correlazioni fra le differenti componenti delle velocità delle particelle, il che significa, ad esempio, che la distribuzione delle componenti vy non dipende3 dal valore di vx . Quando entrambe queste ipotesi sono verificate, si può facilmente stabilire la funzione di distribuzione per i vettori velocità delle nostre particelle. Se d 3 v = dvx dvy dvz rappresenta un volumetto infinitesimo dello spazio delle velocità, il numero di particelle, dN (v ), il cui vettore velocità cade nel volumetto è dato da dN (v ) = N f (vx ) f (vy ) f (vz ) dvx dvy dvz . Per trovare la forma della funzione f , continuiamo a ragionare in base al criterio di isotropia e consideriamo un nuovo sistema di riferimento (x , h, z), ottenuto dal primo mediante una rotazione di un angolo a intorno all’asse z. Le componenti delle velocità delle particelle lungo i nuovi assi, x ed h, sono legate alle componenti lungo i vecchi assi, x e y, dalle relazioni vx = cos a vx + sin a vy ,

vh = − sin a vx + cos a vy .

In base al criterio di isotropia, la funzione di distribuzione delle componenti delle velocità lungo gli assi x ed h sarà ancora la stessa funzione f . Fissiamo adesso l’attenzione su un volumetto infinitesimo arbitrario dello spazio delle velocità. Il numero di particelle contenute in tale volumetto può essere espresso in due forme diverse, a seconda se si ragioni nel primo sistema di riferimento oppure nel secondo. Si ottiene quindi dN (v ) = N f (vx ) f (vy ) f (vz ) dvx dvy dvz = N f (vx ) f (vh ) f (vz ) dvx dvh dvz . 3

Questa ipotesi è tutt’altro che banale ma è ben verificata per un gas ordinario. Un controesempio è fornito da un gas relativistico per il quale la distribuzione di una delle componenti delle velocità dipende dal valore assunto dalle altre due componenti. Questo fatto può essere compreso intuitivamente pensando che il modulo della velocità della particella deve essere sempre minore di c, la velocità della luce. Quindi, se la particella ha componenti delle velocità vx e vy , la componente vz non può essere arbitraria ma il suo modulo deve essere sicuramente minore di (c2 − v2x − v2y )1/2 .

174

7 Fisica cinetica

Tenendo conto delle relazioni esistenti fra le componenti delle velocità nei due sistemi, osservando che dvx dvy = dvx dvh , e semplificando, si ottiene l’uguaglianza f (vx ) f (vy ) = f (cos a vx + sin a vy ) f (− sin a vx + cos a vy ) , che è un’equazione funzionale cui deve soddisfare la funzione f per a arbitrario. In particolare, per a infinitesimo si ottiene, sviluppando sin a e cos a in serie fino al primo ordine f (vx ) f (vy ) = f (vx + a vy ) f (vy − a vx ) , ovvero, mediante uno sviluppo in serie della funzione f

f (vx ) f (vy ) = [ f (vx ) + a vy f 0 (vx )] [ f (vy ) − a vx f 0 (vy )] , dove si è indicato con f 0 la derivata della funzione f rispetto al proprio argomento. Semplificando questa equazione e trascurando termini del secondo ordine in a si ottiene l’equazione funzionale vy f 0 (vx ) f (vy ) = vx f 0 (vy ) f (vx ) , che può anche essere posta nella forma f 0 (vy ) f 0 (vx ) = . vx f (vx ) vy f (vy ) Possiamo adesso osservare che la quantità a primo membro è una funzione di vx , mentre la quantità a secondo membro è una funzione di vy . Affinché l’uguaglianza sia soddisfatta deve quindi valere, necessariamente f 0 (vy ) f 0 (vx ) = =C , vx f (vx ) vy f (vy ) dove C è una costante. L’equazione differenziale per la funzione f può adesso essere integrata. Separando le variabili si ha infatti d ln[ f (vx )] = C vx , dvx e integrando

1 ln[ f (vx )] = C v2x +C0 , 2 dove C0 è una nuova costante. Infine, prendendo gli esponenziali di entrambi i 0 membri e ponendo A = eC , si ottiene 2

f (vx ) = A eCvx /2 . La funzione f risulta quindi essere un esponenziale e, affinché la distribuzione che essa descrive abbia significato, la costante C deve essere negativa (perché altrimenti

7.2 La distribuzione Maxwelliana delle velocità

175

non potrebbe essere verificata la condizione di normalizzazione). Avendo inoltre tale costante le dimensioni del reciproco di una velocità al quadrato, è opportuno porre C = −2/w2 , dove w è una velocità il cui significato fisico sarà chiarito in seguito. Infine, tenendo conto che Z • p 2 e−x dx = p , −•

p la funzione di distribuzione risulta normalizzata se si pone A = 1/( p w). Abbiamo quindi ottenuto il risultato finale per la funzione f (vx ) che risulta della forma f (vx ) = p

2 1 e−(vx /w) . pw

Naturalmente, questo implica che per le altre componenti della velocità si abbia f (vy ) = p

2 1 e−(vy /w) , pw

f (vz ) = p

2 1 e−(vz /w) , pw

dimodoché il numero di particelle aventi il vettore velocità contenuto nel volumetto d 3 v dello spazio delle velocità risulta 2 2 1 dN (v ) = N p e−(v /w ) d3 v . ( p w)3

La distribuzione di velocità che abbiamo ottenuto è nota con il nome di distribuzione Maxwelliana delle velocità. Da essa si può dedurre la distribuzione, F(v), dei moduli delle velocità. Scrivendo infatti l’elemento di volume nella forma 4pv2 dv, si ottiene 2 2 4 v2 F(v) = 4 p v2 f (vx ) f (vy ) f (vz ) = p 3 e−(v /w ) , pw ovvero 2 2 4 v2 F(v) = p 3 e−(v /w ) . (7.4) pw Siamo adesso in grado di dare un significato fisico preciso al parametro w che compare nella distribuzione di Maxwell. Se si va infatti a calcolare il valore di v per cui la funzione F(v) presenta un massimo, si trova, con facili passaggi, che tale valore è proprio dato da w. Questo parametro rappresenta quindi il modulo di velocità più probabile della distribuzione (il vettore velocità più probabile della distribuzione è invece il vettore nullo). Lo stesso parametro può anche essere messo in relazione con la temperatura. Per far questo è opportuno calcolare la velocità media, hvi, e la velocità quadratica media, hv2 i, delle particelle. Si ha hvi =

Z • 0

v F(v) dv ,

hv2 i =

Z • 0

v2 F(v) dv .

176

7 Fisica cinetica

Gli integrali possono essere facilmente valutati mediante il cambiamento di variabili x = v/w e per mezzo di integrazioni per parti. Si ottiene 2 hvi = p w , p

3 hv2 i = w2 . 2

D’altra parte, come sappiamo dalla teoria cinetica, se indichiamo con T la temperatura assoluta del gas si ha hv2 i =

3RT 3 kB T = , m Mmol

dove kB è la costante di Boltzmann, m la massa delle particelle, R la costante dei gas e Mmol la massa molare. Confrontando le espressioni per hv2 i si ottiene w2 = ovvero w= dalla quale si ottiene hvi =

r

8 kB T , pm

2 kB T , m

r

2 kB T , m q

hv2 i

=

r

3 kB T . m

A proposito della distribuzione Maxwelliana delle velocità, è anche interessante valutare il valore medio della velocità relativa fra due particelle. Date due particelle con velocità v1 e v2 , la velocità relativa, vr è ovviamente data da v1 − v2 . Per la velocità relativa quadratica media si ha allora hv2r i = h(v1 − v2 )2 i = hv21 i + hv22 i − 2 hv1 · v2 i . D’altra parte, il terzo fattore che compare al secondo membro è nullo in quanto le particelle si muovono in tutte le direzioni e non esistono correlazioni fra la velocità di una particella e quella dell’altra. Si ottiene quindi hv2r i = 2 hv2 i = 3 w2 = 6

kB T . m

Questo risultato si può anche ottenere mediante un ragionamento alternativo. È infatti possibile dimostrare che la distribuzione delle velocità relative delle particelle è anch’essa una distribuzione Maxwelliana caratterizzata dalla velocità più probap bile 2 w. Questo fatto porta alla conclusione che la distribuzione dei moduli delle velocità relative, F(vr ) è data da r 2 v2r −[v2r /(2 w2 )] F(vr ) = e , p w3

7.3 Il cammino libero medio

177

Figura 7.2 Illustrazione della distribuzione di Maxwell per i moduli delle velocità. I tre tratti verticali corrispondono alla velocità più probabile (a), alla media del modulo delle velocità (b), e alla radice quadrata della media dei quadrati delle velocità (c)

da cui si ottiene, risolvendo un integrale simile a quello valutato precedentemente r 8 w . hvr i = p La distribuzione Maxwelliana dei moduli delle velocità in Eq. 7.4 è illustrata nella Fig. 7.2.

7.3 Il cammino libero medio Secondo l’idea fondamentale della teoria cinetica, un gas è composto da innumerevoli particelle che si muovono nello spazio vuoto in maniera disordinata urtando continuamente fra loro. Possiamo allora chiederci con quale frequenza avvengano tali urti oppure quale distanza percorra in media una particella fra un urto e l’urto successivo. Per rispondere a questa domanda è necessario introdurre preliminarmente il concetto di sezione d’urto. Se si pensa, utilizzando il modello fisico più semplice, che le molecole si comportino negli urti come sferette rigide di raggio r, si può allora stabilire che si verifica un urto fra due particelle ogniqualvolta il centro di una di esse si trova a una distanza  2 r dal centro dell’altra. A ogni particella risulta quindi associata una superficie di forma circolare avente area s = 4p r2 che si muove con la particella stessa e che “spazza” lo spazio circostante come illustrato nella Fig. 7.3. La quantità s è detta

178

7 Fisica cinetica

v ∆t

σ

Figura 7.3 Illustrazione del concetto di sezione d’urto. I punti neri all’interno del cilindretto spazzato dalla sezione d’urto rappresentano i centri delle molecole urtate nell’intervallo di tempo Dt

“sezione d’urto”. Se v è la velocità della particella, nell’intervallo di tempo Dt la sezione d’urto spazza un cilindretto avente per base s e per altezza v Dt. Se pensiamo per semplicità che le altre particelle siano ferme, dato che il volume del cilindretto è s v Dt, il numero di urti che la particella subisce nel Dt, che indichiamo con D Nurti , è dato da D Nurti = n s v Dt , dove n è la densità numerica delle particelle (numero di particelle per unità di volume)4 . Il numero d’urti per unità di tempo è quindi dato da D Nurti = ns v , Dt e il tempo libero medio fra collisione e collisione, t0 , risulta t0 =

1 . ns v

D’altra parte, nel tempo t0 la particella percorre una lunghezza pari a v t0 , e siccome tale lunghezza è proprio il cammino libero medio, `0 , si ha `0 =

1 . ns

Le formule precedenti si riferiscono al caso di una singola particella, mobile con velocità v, che urta con le altre particelle supposte ferme. Esse vanno opportunamente mediate sulla distribuzione Maxwelliana in Eq. 7.4 e generalizzate al caso in cui anche le particelle “bersaglio” siano mobili. Quando si va a calcolare il tempo libero medio fra collisione e collisione, la velocità che bisogna introdurre nell’espressione per t0 è, più propriamente, la velocità relativa media fra particelle, ovvero hvr i, per 4 L’approssimazione delle sferette rigide che abbiamo introdotto precedentemente ci è servita sostanzialmente per fissare le idee. In generale, la sezione d’urto è definita implicitamente dall’equazione precedente.

7.4 La distribuzione di Poisson

179

cui, per il tempo libero mediato sulla distribuzione Maxwelliana, t, si ha t=

1 . n s hvr i

D’altra parte, quando si passa dal tempo libero medio al cammino libero medio bisogna moltiplicare per la velocità media hvi, e siccome si ha (si veda il Par. 7.2) p hvr i = 2 hvi , per il cammino libero mediato sulla distribuzione Maxwelliana si ottiene `= p

1 . 2ns

(7.5)

Se consideriamo ad esempio un gas in condizioni standard (alla temperatura di 0◦ C e alla pressione di 1 Atm), per la densità di particelle si ha n ' 2.7 ⇥ 1025 m−3 e assumendo s ' 4 ⇥ 10−19 m2 , l’Eq. 7.5 fornisce ` ' 6 ⇥ 10−8 m.

7.4 La distribuzione di Poisson Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il moto di una particella, mobile in un ambiente in cui sono presenti altre particelle della stessa specie, è caratterizzato da un tempo libero medio fra una collisione e quella successiva che abbiamo indicato con t. Se consideriamo un intervallo di tempo t finito, in tale intervallo la particella subisce ovviamente un numero medio di urti, hni, dato da hni =

t . t

Quello che vogliamo trovare è la distribuzione del valore di n intorno al suo valore medio. Per trovare tale distribuzione, dividiamo l’intervallo t in N intervalli uguali, dove N è un numero che faremo tendere all’infinito. In ciascun intervallo la particella ha una probabilità pari a t/(tN) di subire una collisione e una probabilità 1 − t/(tN) di non subirla. La probabilità pn di subire n collisioni nell’intervallo t si calcola mediante il prodotto di due quantità. La prima è la probabilità che tali collisioni si verifichino in n intervalli assegnati (e non si verifichino, ovviamente, nei rimanenti N − n intervalli). Essa è data da ⇣ t ⌘n ⇣ t ⌘N−n 1− . tN tN

La seconda quantità è il numero di possibilità che si hanno nello specificare in quali degli N intervalli si sono verificate le n collisioni. Tale numero è dato dal coefficiente

180

7 Fisica cinetica

binomiale, definito dall’equazione ! N! N(N − 1)(N − 2) · · · (N − n + 1) N = = . n! (N − n)! n! n Eseguendo il prodotto si ottiene pn =

N(N − 1)(N − 2) · · · (N − n + 1) ⇣ t ⌘n ⇣ t ⌘N−n . 1− n! tN tN

Adesso facciamo tendere N all’infinito. Questo implica le seguenti sostituzioni N(N − 1)(N − 2) · · · (N − n + 1) −! N n , e si ottiene



1−

⇣ t ⌘N−n t ⌘N −! 1 − , tN tN

1 ⇣ t ⌘n ⇣ t ⌘N . 1− n! t tN D’altra parte, ricordando il limite notevole pn =

si perviene al risultato finale

⇣ z ⌘N = ez , lim 1 + N!• N pn =

1 ⇣ t ⌘n −t/t e , n! t

(7.6)

ed è facile verificare che la somma dei pn vale 1. Infatti •



n=0

n=0

1 ⇣ t ⌘n = e−t/t et/t = 1 . t

 pn = e−t/t  n!

La distribuzione che abbiamo trovato in Eq. 7.6 prende il nome di distribuzione di Poisson. Essa ha numerose applicazioni in fisica e serve per calcolare, ad esempio, la distribuzione del numero di conteggi di un rivelatore in un tempo assegnato, il numero di diseccitazioni di una sostanza radioattiva, etc.. Come semplice applicazione possiamo determinare la distribuzione dei tempi liberi fra collisione e collisione. Se indichiamo con f (t) dt la probabilità che, a partire da un istante assegnato (t = 0), il tempo della prima collisione cada fra t e t + dt, questa probabilità si può calcolare come il prodotto della probabilità, p0 , che fra 0 e t non si sia verificata alcuna collisione per la probabilità che si verifichi una collisione nel dt. Si ottiene dt f (t) dt = e−t/t , t ovvero 1 f (t) = e−t/t . t

7.5 La distribuzione delle distanze fra particelle

181

In maniera del tutto analoga si può determinare la distribuzione g(l ) della distanza, l , percorsa dalla particella fra un punto qualsiasi della sua traiettoria e la prima collisione. Ripetendo ragionamenti analoghi, si trova g(l ) =

1 −l /` e , `

dove ` è il cammino libero medio. È facile verificare, con semplici integrazioni, che si ha Z • Z • l g(l ) dl = ` , hl 2 i = l 2 g(l ) dl = 2 `2 . hl i = 0

0

7.5 La distribuzione delle distanze fra particelle Dato un sistema di N particelle puntiformi, distribuite in maniera casuale entro un recipiente di volume V , possiamo porci il problema di trovare una qualche sorta di “distanza media” tra particella e particella. È ovvio che che se si va a considerare la media aritmetica delle distanze che intercorrono fra una data particella e le altre N − 1 si ottiene un valore che risulta dell’ordine delle dimensioni del recipiente, ovvero qualcosa che non ha molto a che vedere con ciò che ci interessa determinare. L’unica cosa che possiamo dire con semplicità è che ciascuna particella ha a disposizione un volume dato da V /N, ovvero da 1/n (con n densità numerica del gas), e che quindi la distanza fra una particella e quelle che la circondano sarà dell’ordine della lunghezza d data da ✓ ◆1/3 1 d= . n

Ad esempio, per l’aria in condizioni standard (temperatura di 0◦ C e pressione di 1 Atm, la distanza d risulta dell’ordine di 3.3 nm. Un problema posto in maniera corretta è invece il seguente: data una particella, quale è la distanza media alla quale si trova la particella più vicina? Per risolvere questo problema possiamo rifarci alla formula di Poisson in Eq. 7.6 osservando che se v è un qualsiasi volume, di forma arbitraria, contenuto nel volume V del recipiente, la probabilità pk che nel volume v siano contenute k particelle è data da pk =

1 (n v)k e−n v , k!

ovvero, per una sfera di raggio x centrata su una particella pk =

1 k!



4 p n x3 3

◆k

4

3

e− 3 p n x .

Si osservi che in queste formule il prodotto della densità volumetrica delle particelle n (che si suppone essere costante all’equilibrio termodinamico) per il volume v giuo-

182

7 Fisica cinetica

ca lo stesso ruolo del rapporto t/t in Eq. 7.6. Ponendo k = 0 in questa equazione, rinominiamo la probabilità p0 come 4

3

g(x) = e− 3 p n x , espressione che dunque coincide con la probabilità che una sfera di raggio x, centrata intorno a una particella, sia vuota (ovvero non contenga altre particelle). Indichiamo adesso con f (x) dx la probabilità che la particella più vicina alla particella data si trovi alla distanza compresa fra x e x + dx. Tale probabilità si ottiene dal prodotto della probabilità, g(x), che la sfera di raggio x sia vuota, moltiplicata per la probabilità che si trovi una particella nel guscio sferico compreso fra x e x + dx. Di nuovo, traducendo questo ragionamento in formule si ottiene f (x) dx = g(x) 4p n x2 dx , ovvero

4

3

f (x) = 4p n x2 e− 3 p n x .

La distanza media, hxi, alla quale si trova la particella più vicina (a una particella data) si trova valutando l’integrale hxi =

Z • 0

x f (x) dx .

Sostituendo l’espressione per f (x) ed eseguendo il cambiamento di variabile y = 4p n x3 /3 si ottiene ◆ Z ✓ 3 1/3 • 1/3 −y y e dy . hxi = 4p n 0

L’integrale in dy che compare in questa equazione può essere valutato per mezzo dell’espressione generale Z • 0

ya e−y dy = G (a + 1) ,

dove G (x) è la funzione di Eulero che, per argomenti interi, vale (x − 1)!. Sostituendo questo risultato e reintroducendo la distanza d, si ottiene hxi = ed essendo G

�4� 3



3 4p

◆1/3 ✓ ◆ 4 d , G 3

' 0.893, si trova hxi ' 0.554 d = 0.554 n−1/3 .

La stima iniziale hxi ' d, basata sull’ipotesi semplicistica che ogni particella occupi un volumetto d 3 = V /N, era dunque viziata per eccesso di circa un fattore 2.

7.6 Fenomeni di trasporto

183

7.6 Fenomeni di trasporto Riprendiamo il modello microscopico del gas che è alla base della teoria cinetica e supponiamo che una grandezza fisica macroscopica del gas varii linearmente lungo una direzione che assumiamo come asse z di un sistema di coordinate cartesiane e che, per fissare le idee, possiamo assumere coincidente con la verticale. Possiamo pensare, ad esempio, che tale grandezza sia la velocità macroscopica del gas lungo una direzione perpendicolare a z, ad esempio lungo l’asse x, oppure la temperatura del gas. Consideriamo un elemento di superficie D S perpendicolare alla direzione z. L’agitazione termica delle molecole, e la loro mobilità fanno sì che l’elemento di superficie sia continuamente attraversato, in maniera statistica, dalle particelle. Quelle che si muovono verso il basso portano con sé memoria della situazione fisica relativa allo strato di gas che si trova al di sopra del D S e, viceversa, quelle che si muovono verso l’alto portano con sé memoria della situazione fisica relativa allo strato di gas che si trova al di sotto del D S. Questo implica che attraverso il D S si ha un continuo flusso di una grandezza fisica microscopica, che indichiamo con g, associata alle particelle stesse (quantità di moto lungo l’asse x, oppure energia cinetica per i casi sopra esemplificati). Per calcolare il valore D g della grandezza fisica che attraversa il D S in un intervallo di tempo Dt semplifichiamo al massimo il modello microscopico supponendo che: a) le particelle si muovano tutte con modulo di velocità v lungo le sei direzioni individuate dagli assi cartesiani; b) il cammino libero fra collisione e collisione sia sempre uguale a `; c) la grandezza fisica microscopica g posseduta dalla particella al momento di traversare il D S sia quella tipica della quota z in cui ha subito l’ultima collisione. Sotto queste ipotesi il contributo al D g dovuto alle particelle che si muovono nella direzione positiva dell’asse z è dato da5 D g+ =

1 n v g(z − `) D S Dt , 6

dove n è la densità numerica delle particelle e dove il fattore 1/6 proviene dal fatto che solo tale frazione di particelle si muove lungo la direzione positiva dell’asse z. Analogamente, se si considerano le particelle che si muovono lungo la direzione negativa dell’asse z, si ottiene un contributo al D g dato da 1 D g− = − n v g(z + `) D S Dt . 6 Sommando algebricamente i due contributi, e tenendo conto dello sviluppo in serie g(z ± `) = g(z) ± `

5

dg +··· , dz

Definiamo positivo il contributo al D g quando il passaggio avviene nella direzione positiva dell’asse z.

184

7 Fisica cinetica

che è lecito arrestare al primo ordine se la scala su cui varia la quantità fisica è molto maggiore del cammino libero medio, si ottiene 1 dg D g = D g+ + D g− = − n v ` D S Dt . 3 dz

(7.7)

Andiamo adesso a considerare i due esempi cui abbiamo accennato precedentemente. Supponiamo che nel gas sia presente un moto laminare lungo l’asse x descritto dalla funzione wx (z) e consideriamo come grandezza fisica microscopica, g, la componente x della quantità di moto della singola particella, qx = m wx , con m massa della particella. Dall’Eq. 7.7 si ha, dividendo per Dt 1 dqx 1 dwx D qx = − nv` DS = − nv`m DS . Dt 3 dz 3 dz Il primo membro di questa equazione è la quantità di moto (dovuta alle particelle) che attraversa dal basso verso l’alto il D S nel tempo Dt. Esso rappresenta quindi la forza D F che lo strato sottostante il D S esercita sullo stato soprastante. Si ottiene quindi 1 dwx DF = − nv`m DS , 3 dz dalla quale, ricordando la formula elementare che definisce il coefficiente di viscosità del gas, si ottiene l’espressione che lega tale quantità macroscopica, h, alle quantità microscopiche del gas stesso h=

1 nv`m . 3

Supponiamo adesso, invece, che nel gas sia presente un gradiente di temperatura. La grandezza fisica microscopica che bisogna adesso considerare è l’energia totale della particella (energia cinetica di traslazione e di rotazione, sommata all’eventuale energia dovuta a gradi di libertà interni), che indichiamo con upart , e che, ad esempio, per un gas perfetto monoatomico vale 32 kB T , per un gas biatomico 52 kB T , etc.. In generale poniamo upart = cV T , dove abbiamo indicato con cV il calore specifico a volume costante relativo a ciascuna particella (cV = CV /NA , con CV calore specifico molare a volume costante e NA numero di Avogadro). Dall’Eq. 7.7 si ha, dividendo per il prodotto D S Dt D upart dupart 1 1 dT = − nv` = − n v ` cV . D S Dt 3 dz 3 dz Guardando le cose da un punto di vista macroscopico, il primo membro rappresenta la quantità di calore che fluisce attraverso il D S nel Dt. Indicando tale quantità con F l’equazione risulta 1 dT F = − n v ` cV , 3 dz

7.6 Fenomeni di trasporto

185

e ricordando la definizione della conducibilità termica, k, si ottiene k=

1 n v ` cV . 3

Le due espressioni che abbiamo trovato per il coefficiente di viscosità e per la conducibilità termica sono molto simili in quanto contengono entrambe il prodotto 13 n v `. Eliminando tale prodotto si ottiene la relazione h m , = k cV che può anche essere espressa in termini di quantità macroscopiche moltiplicando numeratore e denominatore dell’ultima frazione per il numero di Avogadro. Così facendo si ottiene Mmol h = , k CV con Mmol massa molare e CV calore specifico molare. Questa relazione fra i coefficienti di viscosità e di conducibilità termica è ben verificata (entro un fattore dell’ordine dell’unità) per tutti i gas e anche, sebbene in maniera più approssimata, per i liquidi. È interessante osservare che sia per h che per k vale la proprietà di essere quantità praticamente indipendenti dalla densità numerica delle particelle e di dipendere dalla temperatura come T 1/2 . Questo si può mostrare ricordando l’espressione in Eq. 7.5 per il cammino libero medio in funzione della sezione d’urto s , e l’espressione per la velocità media (che qui va intesa come media dei moduli della velocità) in funzione della temperatura r 8 kB T v= . pm Con queste posizioni si ottiene 2 h= p 3 p

p

kB T m , s

2 cV k= p 3 p s

r

kB T . m

Come si vede, la dipendenza da n scompare sia nel coefficiente di viscosità che in quello di conducibilità termica. Questo è dovuto al fatto che all’aumentare della densità aumenta il numero di particelle che attraversano il D S ma, allo stesso tempo, diminuisce della stessa quantità il cammino libero medio. Poiché l’efficienza dei fenomeni di trasporto dipende dal prodotto della densità per il cammino libero medio, tale efficienza è praticamente indipendente da n. Lo stesso tipo di considerazioni può anche essere svolto per studiare il fenomeno della diffusione. Per fissare le idee, supponiamo di avere una soluzione (o una sospensione) in cui le particelle del soluto hanno densità numerica ns , velocità di agitazione termica vs e cammino libero medio `s . Se la densità di particelle di soluto presenta un gradiente lungo una direzione che immedesimiamo con l’asse z, il flus-

186

7 Fisica cinetica

so di particelle di soluto (ovvero il numero di particelle che attraversa l’elemento di superficie D S nell’intervallo di tempo elementare Dt, diviso per D S e per Dt) è dato da dns 1 Fs = − vs `s . 3 dz Ponendo 1 D = v s `s , 3 l’equazione risulta dns Fs = −D . dz Questa equazione prende il nome di prima equazione di Fick e la quantità D viene chiamata coefficiente della diffusione. Da essa, imponendo la conservazione del numero di particelle di soluto, si ottiene la seconda equazione di Fick, ovvero ∂ 2 ns ∂ ns =D 2 . ∂t ∂z Infatti, consideriamo un cilindretto di base D S compreso fra le quote z e z + D z. Il numero di particelle di soluto che escono dal cilindretto attraverso la superficie superiore nell’intervallo di tempo Dt è dato da ◆ ✓ dns (Fs )z+D z D S Dt = −D D S Dt , dz z+D z mentre il numero che entra nel cilindretto attraverso la superficie inferiore nello stesso intervallo di tempo è dato da ◆ ✓ dns D S Dt . (Fs )z D S Dt = −D dz z La variazione nel Dt del numero di particelle di soluto contenute entro il cilindretto è quindi data da ◆ ◆� ✓ ✓ ⇥ ⇤ dns dns − D Ns = − (Fs )z+D z + (Fs )z D S Dt = D D S Dt , dz z+D z dz z ovvero

∂ 2 ns D z D S Dt . ∂ z2 D’altra parte, tale numero può anche essere scritto nella forma D Ns = D

D Ns =

∂ ns Dt D S D z , ∂t

ed uguagliando le due espressioni si ottiene l’equazione cercata. Essa è generalizzata

7.7 Random-walk e moto Browniano

187

al caso tridimensionale dalla ben nota equazione della diffusione ∂ ns = D —2 ns , ∂t

(7.8)

già incontrata (si veda l’Eq. 4.5) nel caso della diffusione del calore per conduzione termica.

7.7 Random-walk e moto Browniano Si consideri un gas che si trovi all’equilibrio termodinamico a una temperatura assegnata e, all’interno di tale gas, si fissi l’attenzione su una delle particelle (molecole) che lo costituiscono. La molecola, collidendo con le altre molecole del gas, si muove in maniera caotica percorrendo una traiettoria a zig-zag che, in prima approssimazione, può essere pensata come una spezzata composta da una successione di segmenti rettilinei. Il cammino seguito dalla molecola viene chiamato, utilizzando una locuzione derivata dal vocabolario inglese, un random walk, letteralmente un “cammino casuale”. Il random walk gode di alcune interessanti proprietà che andiamo ad analizzare partendo dalla situazione più semplice, ovvero supponendo che: a) fra una collisione e quella successiva la molecola si muova alla velocità v; b) i segmenti rettilinei percorsi dalla molecola fra una collisione e quella successiva, ovvero i liberi cammini della molecola, siano tutti della stessa lunghezza che indichiamo con l ; c) la direzione lungo la quale la molecola si muove dopo la collisione non è in alcun modo correlata alla direzione lungo cui si muoveva prima della collisione. Assunte queste ipotesi semplificatrici, fissiamo l’attenzione su una molecola che, all’istante t = 0, si trovi nell’origine di un sistema di coordinate cartesiano e indichiamo con D il vettore che individua la sua posizione all’istante generico t. Se nel tempo t la molecola ha subito N urti, il vettore D è dato da N

D = Â li , i=1

dove l’i-esimo segmento, l i , ha modulo l e direzione distribuita in maniera aleatoria nell’angolo solido. Consideriamo allora il modulo quadro della distanza della molecola dall’origine. Si ha N

D2 = Â

N

N

N

 l i · l j =   l 2 cos(qi j )

i=1 j=1

,

i=1 j=1

dove qi j è l’angolo compreso fra la direzione del segmento l i e quella del segmento l j . Osservando poi che per l’ipotesi b) l è costante, e sommando prima su j, questa

188

7 Fisica cinetica

espressione può essere posta nella forma 2

D =l

2

N

N

i=1

j=1

!

  cos(qi j )

.

Se i = j il valore di cos(qi j ) vale ovviamente 1. L’equazione precedente può quindi essere riscritta nella forma ! D2 = l2

N

Â

i=1

1 + Â cos(qi j )

.

j6=i

Ricordiamo adesso l’ipotesi c) e ammettiamo che il numero di collisioni, N, sia molto elevato. I valori di cos(qi j ) sono numeri aleatori compresi fra -1 e 1 che possono essere sia positivi che negativi. Se si pensa di fare una media di D 2 su tante possibili realizzazioni diverse del cammino della molecola, la somma su j 6= i si annulla e si ottiene hD 2 i = l 2 N . Il risultato che abbiamo ottenuto può essere generalizzato rilasciando l’ipotesi b) e supponendo che i liberi cammini l siano distribuiti secondo la legge g(l ) =

1 −l /` e , `

dove ` è il cammino libero medio dato dall’Eq. 7.5. Ripetendo lo stesso ragionamento e osservando che hl 2 i = si ottiene l’espressione

Z • 0

l 2 g(l ) dl = 2 `2 ,

hD 2 i = 2 `2 N .

Interpretiamo adesso questa equazione osservando che il prodotto ` N è il cammino totale percorso dalla molecola, ovvero, in altre parole, la lunghezza della “traiettoria rettificata”. Indicando tale quantità col simbolo L, si ha hD 2 i = 2 ` L , e osservando che L = vt si ottiene infine hD 2 i = 2 ` vt , ovvero

q

hD 2 i =

p

2 ` vt .

(7.9)

La distanza della particella dall’origine, ovvero dalla posizione in cui si trovava al tempo t = 0 cresce quindi, in media, come la radice del tempo. Ogni particella

7.7 Random-walk e moto Browniano

189

Figura 7.4 Illustrazione del moto Browniano. Partendo dal punto O, la particella esegue una serie di spostamenti nel piano (x, y). Ogni spostamento ha lunghezza pari a 1 e direzione distribuita in maniera casuale nell’angolo giro. Dopo 100 spostamenti, la particella viene a trovarsi nel punto P

diffonde lentamente fra le altre e si può ragionevolmente stimare quanto tempo impieghi a raggiungere un punto che dista x dall’origine. Per questo, consideriamo il caso particolare dell’aria a temperatura ambiente. La velocità media delle molecole di aria alla temperatura di 20 ◦ C è dell’ordine di 450 m s−1 , mentre il cammino libero medio è dell’ordine di 0.06 µm. Esprimendo x in metri, il tempo t, in ore, è dato da t [h] ' 5 (x [m])2 ,

ovvero un tempo dell’ordine di circa 5 ore6 per arrivare alla distanza di 1 m e dell’ordine di circa 20 giorni per arrivare alla distanza di 10 m. Un’illustrazione del random walk è presentata nella Fig. 7.4.

6

Questi tempi possono apparire eccessivamente lunghi quando si pensa alla rapidità con la quale si percepiscono gli odori (ad esempio quello di fumo) provenienti da oggetti anche relativamente lontani. In effetti, il risultato che abbiamo ottenuto è valido in situazione di assoluta staticità macroscopica dell’aria, ovvero in assenza di vento o di moti turbolenti o convettivi. Sono proprio tali moti, che implicano velocità molto più elevate di quelle tipiche della diffusione, a provocare la rapidità con cui si propagano i segnali olfattivi. In tali casi si parla di “diffusione turbolenta”.

190

7 Fisica cinetica

Le considerazioni sviluppate sopra possono essere applicate anche per spiegare un altro fenomeno conosciuto come “moto Browniano”. Tale fenomeno fu scoperto nel 1828 dal botanico britannico Robert Brown che, nel corso delle sue ricerche sul polline di diverse piante, si accorse, mediante osservazione al microscopio che, una volta disperso in acqua, il polline si divideva in tante minuscole particelle che apparivano muoversi incessantemente percorrendo un cammino irregolare. Poiché il fenomeno si ripeteva con altri tipi di sostanze organiche (sempre disperse in acqua), Brown pensò inizialmente di aver scoperto una sorta di “molecola primitiva” della materia vivente, ma dovette presto ricredersi quando si accorse che lo stesso fenomeno si presentava anche con ogni tipo di sostanze inorganiche, purché le dimensioni delle particelle in sospensione acquosa fossero sufficientemente piccole, ovvero dell’ordine di qualche µm o minori. L’interpretazione corretta del fenomeno fu data nel 1905 da Albert Einstein7 che avanzò l’idea, al momento rivoluzionaria, di applicare la teoria cinetica anche alle particelle presenti in sospensione nell’acqua, malgrado il fatto che tali particelle avessero delle dimensioni molto maggiori (dell’ordine di un fattore 104 o più) rispetto alle molecole d’acqua. In base a tale idea, le particelle in sospensione presentano un’energia cinetica dell’ordine di kB T , e quindi, a temperatura ambiente, assumendo per fissare le idee un raggio di 1 µm e una densità di 1 g cm−3 , presentano una velocità tipica, V , dell’ordine di 0.2 cm s−1 . Per analizzare in dettaglio il moto Browniano, non si può però utilizzare il modello che abbiamo visto precedentemente per il caso del random walk di una molecola di gas. La differenza sta nel fatto che mentre la particella e le molecole del liquido nel quale si trova in sospensione hanno in media la stessa energia cinetica (dell’ordine di kB T ), la quantità di moto è notevolmente diversa. Infatti, dalla relazione 2 2 1 1 2 mv = 2 MV , dove m e v sono, rispettivamente, la massa e la velocità media delle molecole del liquido, mentre M e V sono le corrispondenti quantità relative alla particella, si ottiene r MV M = . mv m

Poiché il rapporto M/m è dell’ordine di 1011 − 1012 , il rapporto fra le quantità di moto risulta compreso fra 105 e 106 . Questa enorme differenza fa sì che siano necessari innumerevoli urti delle molecole contro la particella affinché questa alteri la propria direzione. Le ipotesi che abbiamo introdotto per descrivere il random walk non sono quindi applicabili a causa della “persistenza della velocità” della particella e si deve quindi ricorrere a considerazioni diverse. Una maniera approssimata di trattare il problema è quella di ricordare che una particella (sferica in prima approssimazione) di raggio r che si muova con velocità V entro un fluido avente viscosità h, per quanto visto nella Sez. 3.3 subisce una

7 La nota sul moto Browniano fa parte della famosa “trilogia” di Einstein, ovvero una serie di tre lavori di importanza fondamentale pubblicati tutti nel medesimo anno (1905). Gli altri due lavori riguardano l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico e la teoria della relatività ristretta.

7.7 Random-walk e moto Browniano

191

resistenza al moto (laminare) descritta dalla formula di Stokes F = −6p h r V . La distanza d che deve percorrere la particella affinché essa “dimentichi” la direzione della propria velocità può essere stimata uguagliando il lavoro fatto dalla forza F nel percorrere tale distanza all’energia cinetica media della particella. Se la forza agisse da sola, infatti, una volta percorsa tale distanza la particella si fermerebbe e le collisioni con le molecole del liquido la rimetterebbero in movimento lungo una direzione diversa. Questa stima di ordine di grandezza conduce all’equazione F d = 6p h rV d ' kB T . A questo punto si può ripetere il ragionamento del random walk sviluppato sopra, immedesimando le quantità ` e v che compaiono nell’Eq. 7.9 rispettivamente con d e V , per ottenere l’equazione che esprime, per il moto Browniano, la distanza della particella dal punto in cui essa si trovava all’istante t = 0. Si ottiene q p hD 2 i = 2 d V t , ed esprimendo il prodotto d V per mezzo dell’equazione precedente s q kB T p hD 2 i ' t . 3p h r

Questa è sostanzialmente l’equazione del moto Browniano. Mediante un ragionamento più rigoroso, basato sull’equazione di Fick per la diffusione, Einstein trova la stessa espressione senza il fattore 3 al denominatore del radicale. L’equazione corretta, ottimamente verificata dall’esperienza, è quindi la seguente s q kB T p hD 2 i = t . (7.10) phr L’importanza di questa equazione sta nel fatto che, conoscendo il coefficiente di viscosità del liquido entro cui si svolge il moto Browniano e il raggio delle particelle, dall’osservazione microscopica del moto è possibile risalire al valore della costante di Boltzmann kB , e quindi al numero di Avogadro8 . Come esempio si può considerare il caso di una particella di raggio pari a 1 µm sospesa in acqua alla temperatura ambiente (T = 293 K). Poiché il coefficiente di viscosità dell’acqua in tali condizio8 Al momento in cui Einstein scrisse la sua celebre nota, il valore del numero di Avogadro, che fra l’altro veniva chiamato numero di Loschmidt, era conosciuto in maniera molto approssimata, con un errore dell’ordine del 50%. Le osservazioni microscopiche del moto Browniano permisero quindi una miglior determinazione del numero di Avogadro. In tali osservazioni la quantità che viene effettivamente misurata non è D ma Dx , ovvero la proiezione dello spostamento della particella lungo una direzione perpendicolare all’asse ottico del microscopio. Ovviamente, per ragioni di simmetria, si ha hDx2 i = hDy2 i = hDz2 i = 13 hD 2 i.

192

7 Fisica cinetica

ni è h = 1.00 ⇥ 10−3 N m−2 , l’Eq. 7.10 porta a uno spostamento della particella che è pari a circa 1 µm dopo un secondo, 10 µm dopo un minuto e 70 µm dopo un’ora. Tali spostamenti sono perfettamente osservabili con tecniche microscopiche.

Capitolo 8

Termodinamica statistica

8.1 La misura del disordine Come anticipato in Sez. 5.10 nella parte di Termodinamica, il concetto di entropia e quello a essa associato di irreversibilità non possono prescindere, per coglierne a pieno il significato, da considerazioni di carattere statistico, in quanto applicabili a sistemi fisici forniti da un numero molto elevato di particelle. Alla luce della teoria cinetica dei gas, ci proponiamo in questo capitolo di gettare le basi della cosidetta termodinamica statistica, iniziando dalla definizione probabilistica del concetto di “disordine” e del “teorema H” a esso associato. Sia dato un sistema il quale si possa trovare, a priori, in uno qualsiasi di N stati diversi. Numerando tali stati con l’indice intero i (i = 1, 2, . . . , N), indichiamo con pi la probabilità che il sistema si trovi nello stato i-esimo, con 0  pi  1 e ÂNi=1 pi = 1. Una misura quantitativa del disordine contenuto nel sistema è data dall’espressione N

D = − Â pi ln pi .

(8.1)

i=1

Per renderci conto dell’adeguatezza di questa definizione, cominciamo a osservare che se il nostro sistema si trova sempre in un determinato stato (diciamo lo stato k-esimo), allora tutte le pi sono nulle, eccettuata la pk che vale 1. Osservando poi che lim x ln x = 0 , x!0

si ottiene

D=0 ,

il che significa che il disordine è nullo. Se si suppone invece che tutti gli stati del sistema siano equiprobabili, ovvero che il sistema possa trovarsi indifferentemente

© Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 E. Landi Degl’Innocenti, Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica, https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9_8

193

194

8 Termodinamica statistica

in uno qualsiasi degli stati possibili, allora pi = 1/N e per D si ottiene l’espressione ✓ ◆ 1 1 ln = ln N . N i=1 N N

D=−Â

È facile mostrare che il valore ottenuto in questo caso particolare è il massimo che D può assumere. Per provare questo, ripartiamo dalla definizione generale di D e diamo una variazione arbitraria, d pi , a ciascuna probabilità assicurandoci, comunque, che sia sempre verificata la condizione ÂNi=1 pi = 1, che implica N

 d pi = 0

.

i=1

La variazione di D, d D, è data da N

d D = − Â (1 + ln pi ) d pi , i=1

che, tenendo conto della relazione precedente, risulta N

d D = − Â ln pi d pi . i=1

Se adesso supponiamo che tutte le pi siano uguali, ln pi si fattorizza e la somma si annulla. Si ottiene quindi d D = 0, il che significa che D presenta un estremo quando tutte le pi sono uguali fra loro. Che poi l’estremo sia effettivamente un massimo discende dal fatto che d 1 d2 D =− (1 + ln pi ) = −  0 . dpi pi dp2i Per chiarire questi concetti con un esempio, supponiamo di ordinare su uno scaffale una biblioteca contenente N libri. Il numero possibile di “stati” della nostra biblioteca è uguale a N !, tanti stati quante sono le possibili disposizioni dei libri sullo scaffale. Se pensiamo di ordinare i libri in ordine alfabetico per autore (aggiungendo eventualmente la “regola” di ordinarli per data di pubblicazione, nel caso della presenza di più libri del medesimo autore) la biblioteca è allora ordinata al massimo e se si va a valutare il disordine mediante la formula dell’Eq. 8.1 si ottiene effettivamente D = 0 (la probabilità di trovarla nello stato “dell’ordine alfabetico” è 1 e la probabilità di trovarla in un qualsiasi altro stato è 0). Se invece i libri vengono messi a caso sullo scaffale, allora tutte le possibili disposizioni sono equiprobabili e la formula dell’Eq. 8.1 dà il valore massimo per il disordine, ovvero D = ln (N !). Possono esistere anche casi intermedi di disordine. Ad esempio, si potrebbe pensare di ordinare i libri della biblioteca suddividendoli per argomenti (disponendo nell’ordine prima i libri di fisica, poi i classici della letteratura, poi i romanzi gialli, etc., senza introdurre alcun’altra "regola interna" entro ciascun gruppo). Se ad esempio

8.1 La misura del disordine

195

si hanno tre gruppi, con N1 libri nel primo gruppo, N2 libri nel secondo e N3 libri nel terzo, il numero totale di stati “possibili” è in questo caso pari a N1 ! N2 ! N3 ! e per ciascuno di questi stati si ha una probabilità uguale a 1/(N1 ! N2 ! N3 !), la probabilità dei rimanenti stati essendo 0. La misura del disordine è in questo caso pari a D = ln(N1 ! N2 ! N3 !) , da confrontare col valore del disordine massimo, D0 = ln[ (N1 + N2 + N3 )! ]. Ad esempio, se si ha N1 = 50, N2 = 30, N3 = 20, la misura del disordine risulta pari a circa 265.5, mentre nel caso di non aver stabilito alcuna regola per ordinare i libri, la misura del disordine risulta pari a ln(100!), ovvero circa uguale a 363.7. Naturalmente, la misura del disordine espressa dall’Eq. 8.1 presenta un certo grado di arbitrarietà. Essa potrebbe essere ad esempio moltiplicata per una qualsiasi costante positiva, oppure, più in generale, si potrebbe pensare di misurare il disordine mediante un’espressione del tipo ! N

D = F − Â pi ln pi

,

i=1

dove F è una funzione monotona arbitraria del proprio argomento. Ad esempio, assumendo per F la funzione esponenziale si otterrebbe ✓ ◆pi 1 N D = Pi=1 . pi La misura del disordine data nell’Eq. 8.1, oltre ad essere la più semplice possibile, è anche quella che gode dell’importante proprietà di essere additiva per sistemi indipendenti. Per dimostrarlo, consideriamo due sistemi indipendenti, il sistema 1 e il (1) sistema 2. Se pi è la probabilità che il sistema 1 si trovi nello stato i-esimo (con (2) i = 1, 2, . . . , N1 ) e p j è la probabilità che il sistema 2 si trovi nello stato j-esimo (con j = 1, 2, . . . , N2 ), allora la probabilità pi j che il sistema complessivo si trovi nello “stato composto” (i, j) è data da (1) (2)

pi j = p i p j

.

Per il disordine del sistema complessivo (1 + 2) si ha N1 N2 N1 N2 ⇣ ⌘ (1) (2) (1) (2) . D(1+2) = Â Â pi j ln pi j = Â Â pi p j ln pi p j i=1 j=1

i=1 j=1

Esprimendo il logaritmo del prodotto come somma dei logaritmi e utilizzando la (1) (2) 1 2 pi = 1 e la proprietà ÂNj=1 p j = 1, si ottiene facilmente proprietà ÂNi=1 N1 ⌘ N2 ⌘ ⇣ ⇣ (1) (1) (2) (2) + Â p j ln p j = D1 + D2 . D(1+2) = Â pi ln pi i=1

j=1

196

8 Termodinamica statistica

Se invece si utilizzasse come misura del disordine quella data tramite la produttoria, si otterrebbe, con facili passaggi, D(1+2) = D1 · D2 .

8.2 Il teorema H Nella sezione precedente abbiamo definito il disordine D di un sistema attraverso l’Eq. 8.1, basata sulle probabilità pi , (i = 1, 2, . . . , N) che il sistema si trovi in uno dei suoi N possibili stati (con 0  pi  1 e ÂNi=1 pi = 1). Vediamo adesso come cambia nel tempo il disordine supponendo che il sistema evolva secondo un semplice modello che consiste nel supporre che quando il sistema si trova nello stato i-esimo esso ha una probabilità per unità di tempo, Ri j , di transitare nello stato j-esimo, con Ri j ≥ 0 e con j 6= i. Si suppone inoltre che che le quantità Ri j , i cosiddetti “tassi” (o “rates”) di transizione, che descrivono i processi interni del sistema, siano indipendenti dalle pi , e regolino l’evoluzione del sistema in maniera esaustiva. Sotto queste ipotesi, l’evoluzione nel tempo della probabilità pi è stabilita dall’equazione differenziale dpi = −  Ri j pi +  R ji p j . (8.2) dt j j Naturalmente bisogna sincerarsi che, mano a mano che il sistema evolve, la condizione di normalizzazione sia sempre verificata. Si deve cioè avere d dpi =0 . pi =  dt  i i dt Sostituendo l’Eq. 8.2 si ottiene infatti −  Ri j pi +  R ji p j = 0 , ij

ij

ed è facile verificare, scambiando nella seconda somma l’indice i con l’indice j, che questa equazione è sempre soddisfatta. Andiamo adesso a valutare l’andamento col tempo del disordine. Si ha dD d dpi dpi = − Â pi ln pi = − Â(1 + ln pi ) = − Â ln pi , dt dt i dt dt i i e sostituendo l’Eq. 8.2 si ottiene dD = Â ln pi (Ri j pi − R ji p j ) . dt ij Imponiamo adesso la “condizione di microreversibilità”, che consiste nel supporre che che valga l’uguaglianza Ri j = R ji . Ovviamente questa condizione impone dei limiti stringenti sui processi che avvengono all’interno del sistema. Attraverso questa

8.3 Le leggi generali della termodinamica statistica

condizione si ottiene

197

dD = Â Ri j ln pi (pi − p j ) . dt ij

Se adesso andiamo a isolare il contributo a questa somma che proviene da una coppia di stati a e b, essendo Rab = Rba , si ha  � ⇤ ⇥ dD = Rab ln pa (pa − pb ) + ln pb (pb − pa ) = Rab (pa − pb ) ln(pa /pb ) , dt coppia (ab)

ed è facile rendersi conto del fatto che questa derivata è sempre positiva. Infatti, se pa > pb , sia la parentesi che il logaritmo sono entrambi positivi, mentre se pa < pb sono entrambi negativi. Nel caso poi che sia pa = pb la derivata è nulla. Ricordando che Rab ≥ 0, si arriva quindi alla conclusione  � dD ≥0 , dt coppia (ab) e siccome il ragionamento fatto è valido per qualsiasi altra coppia di stati, si ottiene dD ≥0 , dt

(8.3)

un’equazione che non è invariante rispetto alla sostituzione formale t ! −t e che implica quindi la descrizione di un processo irreversibile. In effetti, la proprietà che abbiamo dimostrato, quando applicata al sistema fisico costituito da un gas di particelle, è la base fisica del cosiddetto “teorema H”, un teorema dovuto a Boltzmann e che ha fatto versare fiumi di inchiostro. Sebbene il sistema evolva solo attraverso processi individualmente reversibili (le collisioni fra particelle e quelle delle particelle contro le pareti), il solo fatto che tali processi esistano implica necessariamente che il disordine del sistema (ovvero l’entropia, come stabiliremo a breve), aumenti nel tempo (o che rimanga costante una volta raggiunto il valore massimo). La cosa che appare a prima vista sorprendente è che un sistema in cui avvengono solo processi reversibili sia, di fatto, intrinsecamente irreversibile. In effetti, non c’è ragione di stupirsi troppo. Basta riflettere sul fatto che, come è ben noto dall’esperienza della vita di tutti i giorni, per diminuire il disordine di un sistema bisogna proprio evitare, una volta compiuta un’operazione, che la stessa operazione possa avvenire in senso inverso, ovvero bisogna evitare che sia Ri j = R ji .

8.3 Le leggi generali della termodinamica statistica Verso la fine del diciannovesimo secolo, due illustrissimi scienziati, l’austriaco Ludwig Boltzmann e lo statunitense Willard Gibbs, lavorando in maniera indipendente, riescono a sintetizzare in poche equazioni di importanza fondamentale le basi sta-

198

8 Termodinamica statistica

tistiche della termodinamica. Senza pretendere di ripercorrere il cammino storico di tali scoperte, ci proponiamo qui di darne una sintesi moderna capace di cogliere l’essenza della fisica senza ricorrere a un formalismo eccessivamente elaborato. Si consideri un sistema fisico di natura arbitraria che si trovi all’equilibrio termodinamico alla temperatura T . Dal punto di vista macroscopico esso sarà descritto da un certo numero di funzioni di stato, tipiche della termodinamica, quali l’energia interna, U, l’entropia, S, l’entalpia, H = U + PV , il potenziale termodinamico di Helmholtz, o energia libera, F = U − T S, il potenziale termodinamico di Gibbs, G = F +PV , etc. La descrizione del sistema dal punto di vista microscopico comporta, invece, la necessità di assegnare un numero elevatissimo di variabili di stato che definiscono completamente la condizione istantanea del sistema fisico. Se si indica genericamente con xn , con n = 1, 2, 3, . . . , N , la n-esima di tali variabili, affinché la condizione istantanea del sistema fisico sia completamente definita è necessario che la derivata temporale della variabile xn sia una funzione nota delle altre xµ , in formule dxn = fn (x1 , x2 , . . . , xN ) , dt dove le fn sono funzioni che dipendono dalla natura del sistema fisico in esame. Se si considera ad esempio il caso di un gas composto da N molecole, le variabili di stato possono essere le coordinate cartesiane (x, y, z), e le componenti della velocità (vx , vy , vz ), di ciascuna molecola del gas, cosicché il numero di variabili di stato risulta N = 6 N. È tuttavia necessario sottolineare che la scelta delle variabili di stato comporta un certo grado di arbitrarietà. Sempre nel caso del gas, nulla vieta, ad esempio, di considerare come variabili di stato, invece delle componenti della velocità, le componenti dell’impulso (px , py , pz ). Per il momento possiamo lasciare indefinita la scelta delle variabili di stato pensando sempre di riferirci, nel caso del gas, a coordinate cartesiane e componenti della velocità. Ritorneremo in seguito su questo argomento anticipando soltanto che il problema della “corretta scelta” delle variabili di stato è stato definitivamente risolto soltanto con l’avvento della meccanica quantistica e che comunque moltissime delle applicazioni della termodinamica statistica sono indipendenti da tale scelta1 . Le variabili di stato xn , con n = 1, 2, . . . , N , definiscono, dal punto di vista matematico, un iperspazio a N dimensioni, detto spazio delle configurazioni o spazio delle fasi2 nel quale si muove, al passare del tempo, il punto rappresentativo del sistema. Se pensiamo di suddividere lo spazio delle configurazioni in tante cellette elementari di “volume” assegnato DG e di numerare ciascuna celletta con l’indice i, a ogni celletta corrisponde una precisa energia, Ei , e possiamo chiederci quale sia, per il nostro sistema fisico all’equilibrio termodinamico alla temperatura T , la probabilità, pi , che il punto rappresentativo del sistema si trovi all’interno della celletta. 1

A questo proposito è opportuno sottolineare che entrambi i “padri fondatori” della termodinamica statistica sono deceduti quando la meccanica quantistica era ancora “in fasce”. Gibbs è morto nel 1903 e Boltzmann nel 1906. 2 Nel seguito ci riferiremo a tale spazio col nome di spazio delle configurazioni, riservando il nome di “spazio delle fasi” a quello in cui le variabili di stato delle particelle sono più propriamente le variabili canoniche (nel senso della Meccanica Analitica). Bisogna però dire che questa distinzione è qui adottata solo per convenienza e non è universalmente riconosciuta.

8.3 Le leggi generali della termodinamica statistica

199

Tale probabilità può essere interpretata in due maniere distinte. La prima è da intendersi come una sorta di media rispetto al tempo, pensando di osservare il sistema per un tempo lunghissimo, T , e di indicare con (Dt)i il tempo che il punto rappresentativo del sistema “trascorre” nella celletta i-esima. La probabilità pi è allora definita dal rapporto (Dt)i . pi = T La seconda, seguendo un modello proposto da Gibbs, è quella di far riferimento a un numero elevatissimo di copie identiche dello stesso sistema fisico, numero che indichiamo con Ncopie , e di contare per quanti di tali sistemi il punto rappresentativo si trovi, a un dato istante, all’interno della celletta i-esima. Se indichiamo tale numero con (D N)i , la probabilità pi è definita da pi =

(D N)i . Ncopie

Per evitare complicazioni, ammetteremo che le due definizioni di pi coincidano, anche se, in linea di principio, potrebbero rappresentare quantità diverse. Questa ipotesi è conosciuta nel lessico della fisica come “ipotesi ergodica”. Su di essa sono stati versati fiumi d’inchiostro che non hanno però portato a risultati fisici di grande significato. Il problema fondamentale è adesso quello di arrivare a esprimere il valore delle probabilità pi . Per far questo osserviamo preliminarmente che, come scaturisce direttamente dalla loro definizione, esse devono soddisfare la cosiddetta “condizione di normalizzazione”, devono cioè essere tali che Âi pi = 1, dove la somma è estesa a tutte le possibili cellette dello spazio delle configurazioni. Introduciamo poi la definizione di entropia che scaturisce naturalmente dalle sue proprietà termodinamiche e dalle considerazioni che abbiamo svolto a proposito del disordine di un sistema arbitrario (si veda la Sez. 8.1 per la proprietà di additività e la Sez. 8.2 per quella di irreversibilità). Ammettiamo quindi che l’entropia del nostro sistema termodinamico sia data dall’espressione S = kB D = −kB Â pi ln pi ,

(8.4)

i

dove D è la misura del disordine adottata nelle sezioni precedenti e kB la costante di Boltzmann. Andiamo adesso ad analizzare le conseguenze di questa definizione supponendo che il nostro sistema termodinamico soddisfi a due tipi diversi di “condizioni al contorno”, ovvero che esso sia isolato (e si parla allora di insieme microcanonico), oppure che scambi calore con una sorgente ideale alla temperatura T (insieme canonico). Esiste effettivamente una terza possibilità, detta dell’insieme gran canonico, nella quale si suppone che il sistema fisico abbia la possibilità di scambiare non solo calore ma anche particelle con una sorgente ideale “generalizzata” alla temperatura T . Questa terza possibilità, ovviamente più complicata, è analizzata in seguito (si veda la Sez. 11.3). Essa fa intervenire in termodinamica un nuovo concetto, quello di

200

8 Termodinamica statistica

“sistema aperto”, ovvero di un sistema contenente un numero variabile di particelle. Analizziamo adesso il comportamento del nostro sistema nel caso dell’insieme microcanonico. Poiché il sistema è isolato l’energia interna, U, si conserva e se ne deduce che tutte le probabilità pi sono nulle a meno che l’energia che compete alla celletta i-esima, Ei , non sia esattamente uguale a U. Inoltre, affinché l’entropia sia massima si deve avere lo stesso valore per ciascuna delle probabilità che competono a tali cellette per cui si può concludere che pi = 0

se Ei 6= U,

pi = cost. se Ei = U .

In questo caso il punto rappresentativo del sistema si muove su una particolare “ipersuperficie” dello spazio delle configurazioni caratterizzata dall’equazione Ei = U. Solo un numero limitato di cellette possono “ospitare” il punto rappresentativo nel suo moto, e se si indica con Nc tale numero, la probabilità che ciascuna di tali cellette sia occupata è data da 1/Nc . Per l’entropia si ottiene quindi S = kB ln Nc , che coincide con l’espressione di Boltzmann in Eq. 5.14, quando si pensi che il numero di cellette Nc altro non è che la probabilità termodinamica, ovvero il numero di microstati compatibili con il sistema fisico macroscopico, numero che viene solitamente indicato col simbolo W . Nel caso dell’insieme canonico si può determinare l’espressione di pi mediante il seguente ragionamento. Assoggettiamo il nostro sistema fisico a una trasformazione termodinamica infinitesima che consiste unicamente3 nello scambio di una quantità di calore infinitesima con la sorgente a temperatura T . A seguito della trasformazione le probabilità pi subiranno delle variazioni infinitesime, che indichiamo con d pi e che devono ovviamente soddisfare la relazione

 d pi = 0

(8.5)

.

i

La risultante variazione dell’entropia si ottiene differenziando l’Eq. 8.4 e usando l’Eq. 8.5, ovvero d S = −kB Â(1 + ln pi ) d pi = −kB Â ln pi d pi . i

i

Se adesso fissiamo l’attenzione sull’energia interna del sistema, essa, per definizione stessa di media, è collegata alle probabilità pi attraverso l’espressione U = Â Ei pi , i

3

La trasformazione termodinamica che consideriamo è a lavoro nullo.

8.3 Le leggi generali della termodinamica statistica

201

e la sua variazione nella trasformazione termodinamica risulta4 dU = Â Ei d pi . i

Ma per il primo principio della termodinamica, se il nostro sistema si trova all’equilibrio termodinamico alla temperatura T , fra le quantità dU e d S deve sussistere la relazione dU = T d S , e per sostituzione si ottiene

Â(Ei + kB T ln pi ) d pi = 0

.

i

Se infine si ricorda l’Eq. 8.5 e si osserva che questa uguaglianza deve essere verificata per una trasformazione termodinamica arbitraria, se ne deduce che la quantità in parentesi deve essere una costante, il che porta all’equazione Ei + kB T ln pi = C , con C costante. Si ottiene quindi ln pi = C − ovvero

Ei , kB T

pi = A e−Ei /kB T ,

dove A (= eC ) è una nuova costante. Introduciamo adesso il parametro b , comunemente utilizzato in termodinamica statistica, definito da b=

1 . kB T

La costante A si determina imponendo la condizione di normalizzazione e viene spesso scritta nella forma 1 A= , Z dove la quantità Z, detta “somma sugli stati”, oppure “funzione di partizione”, è data da Z = Â e−b Ei . i

4

Si noti che le quantità Ei restano costanti nella trasformazione perchè il sistema è meccanicamente isolato dall’ambiente. Se nella trasformazione il sistema compiesse (o subisse) lavoro nell’equazione dovrebbe comparire il termine supplementare Âi (d Ei ) pi .

202

8 Termodinamica statistica

Con l’introduzione di queste nuove grandezze, la probabilità si scrive dunque nella forma 1 pi = e−b Ei , (8.6) Z e tale equazione descrive la cosiddetta distribuzione di Gibbs. L’Eq. 8.6 può, a buon diritto, essere considerata l’equazione fondamentale della termodinamica statistica5 . Dal punto di vista fisico essa asserisce che il punto rappresentativo del sistema si muove attraversando tutte le cellette elementari dello spazio delle configurazioni (e non solo alcune di esse, come nel caso dell’insieme microcanonico) anche se la probabilità che il punto venga a trovarsi in una particolare di esse diminuisce esponenzialmente con l’energia caratteristica della celletta stessa. A causa dell’interazione con la sorgente di calore, l’energia del sistema non è fissa, ma fluttua intorno al suo valore medio. Inoltre, l’entropia non raggiunge il suo massimo assoluto (tale massimo si avrebbe nel caso che tutte le pi fossero uguali fra loro). Si può infatti dimostrare che i valori di pi che abbiamo trovato corrispondono al valore massimo che può assumere l’entropia quando si fissi a un valore assegnato la media dell’energia del sistema. In questo caso, il massimo dell’entropia è quindi un massimo condizionato. A partire dall’Eq. 8.6 è possibile stabilire alcune relazioni generali che connettono le quantità microscopiche con quelle macroscopiche. Sostituendola nell’Eq. 8.4 si ha infatti S = −kB Â A e−b Ei (ln A − b Ei ) , i

e ricordando la proprietà di normalizzazione delle pi , la definizione di Z, e quella dell’energia interna si ottiene S = kB (ln Z + b U) .

(8.7)

Isolando il logaritmo si ha poi ln Z =

S − b U = b (T S −U) , kB

e ricordando la definizione dell’energia libera di Helmholtz ln Z = −b F , ovvero

5

F = −kB T ln Z .

(8.8)

L’importanza dell’equazione deriva anche dal suo carattere di universalità. In effetti essa è valida sia in meccanica classica che in meccanica quantistica. Mentre in meccanica classica, come abbiamo visto, Ei rappresenta l’energia che compete alla i-esima celletta dello spazio delle configurazioni, in meccanica quantistica essa rappresenta l’energia dell’i-esimo autostato dell’Hamiltoniana che descrive il sistema.

8.4 Fluttuazioni

203

Infine si può osservare che l’energia interna U può essere posta nella forma U =−

∂ ln Z , ∂b

e, per mezzo dell’Eq. 8.7, l’entropia risulta ◆ ✓ ◆ ✓ ∂ ln Z ∂ S = kB ln Z − b ln Z = −kB b 2 . ∂b ∂b b Da queste espressioni si comprende come la somma sugli stati svolga un ruolo fondamentale nel collegamento fra termodinamica e statistica. Una volta che si riesca a calcolare la somma sugli stati, o il suo logaritmo, tutte le funzioni termodinamiche possono poi essere ottenute mediante semplici operazioni matematiche.

8.4 Fluttuazioni Sia dato un sistema termodinamico arbitrario che si trovi in equilibrio con un termostato caratterizzato dalla temperatura termodinamica T . Secondo i principi della termodinamica statistica, la probabilità normalizzata a 1, pi , che il sistema si trovi nello stato microscopico i-esimo, di energia Ei , è dunque data dalla distribuzione di Gibbs dell’Eq. 8.6, in cui la cosiddetta “somma sugli stati” Z è estesa a tutti i possibili stati microscopici del sistema termodinamico. In tale situazione, tutte le quantità termodinamiche non sono costanti, ma fluttuano intorno al loro valore medio. Un problema particolarmente interessante è quello di valutare le fluttuazioni dell’energia. Per il valore medio di tale quantità, che indichiamo con hEi e che coincide, per definizione, con l’energia interna U, si ha U = hEi =

Âi Ei e−b Ei . Âi e−b Ei

La fluttuazione media dell’energia, che indichiamo con dU, è data, per definizione, dalla quantità q h[E − hEi]2 i ,

dU =

che può anche scriversi nella forma

dU = D’altra parte si ha

q

hE 2 i =

hE 2 i − hEi2 .

Âi Ei2 e−b Ei , Âi e−b Ei

204

8 Termodinamica statistica

e per semplice derivazione (rispetto a b ) dell’espressione per U si ottiene � �� � � �� � ∂ hEi − Âi Ei2 e−b Ei Âi e−b Ei + Âi Ei e−b Ei Âi Ei e−b Ei = , � �2 ∂b Âi e−b Ei

ovvero

∂ hEi = hEi2 − hE 2 i . ∂b

Si ottiene quindi la formula notevole s dU =

∂ hEi = − ∂b

s



∂U , ∂b

che, ricordando la definizione di b , può anche essere posta nella forma r ∂U . dU = kB T 2 ∂T Osserviamo adesso che, come vedremo a breve, applicando il teorema di equipartizione dell’energia in Sez. 8.6, l’energia interna media di un corpo macroscopico è data da un’espressione del tipo 1 U ' N f kB T , 2 dove N f è il numero di variabili di stato che contribuiscono all’energia del sistema termodinamico. Sostituendo questa espressione si ottiene allora per la fluttuazione relativa s 2 dU = . U Nf Per un sistema termodinamico macroscopico, il numero di gradi di libertà, N f , è dell’ordine di NA , il numero di Avogadro. Ad esempio, se si considera una mole di gas perfetto monoatomico si ha N f = 3 NA . L’ampiezza relativa della fluttuazione risulta allora di una parte su 1012 , una quantità praticamente impossibile da misurare. Per questa ragione non si fa mai distinzione fra l’energia interna macroscopica, U, e il valore fluttuante dell’energia. Se si volesse considerare un sistema in cui le fluttuazioni dell’energia fossero dell’ordine dell’1%, si dovrebbe avere N f ' 2·104 , ovvero un sistema composto di circa 700 atomi. Nel caso di un solido, tale sistema occuperebbe un volumetto microscopico avente dimensioni tipiche dell’ordine di 1 nm.

8.5 Sistemi di particelle indipendenti: il principio di Boltzmann

205

8.5 Sistemi di particelle indipendenti: il principio di Boltzmann Le leggi della statistica che sono state sviluppate nei paragrafi precedenti sono di validità estremamente generale e possono essere applicate a qualsiasi sistema fisico, classico oppure quantistico. In linea di principio, conosciute le caratteristiche fisiche del sistema, ovvero le proprietà fondamentali delle particelle costituenti (natura fisica, masse, momenti di inerzia, spettro energetico di eventuali gradi di libertà interni, potenziali delle forze dovute alla mutua interazione, potenziali dovuti a eventuali forze esterne, etc.) è possibile utilizzare le leggi generali, calcolando ad esempio la somma sugli stati, e quindi risalire a tutte le funzioni termodinamiche e alle proprietà macroscopiche del sistema. Il calcolo è però, in generale molto complesso, e in moltissimi casi addirittura impossibile da eseguire in pratica. Esistono tuttavia dei particolari sistemi fisici per i quali si possono ottenere importanti conseguenze con relativa semplicità. Tali sistemi sono quelli che possono essere schematizzati come costituiti di tanti sotto-sistemi identici e “indipendenti”, dove, per definizione, due sotto-sistemi sono detti indipendenti quando la probabilità di trovare il primo sotto-sistema in uno qualsiasi dei suoi stati fisici non è assolutamente influenzata dallo stato fisico in cui si trova l’altro sotto-sistema. Se si considera come esempio di sistema fisico quello di un gas costituito da N particelle, è ovvio pensare che ciascuna particella sia un sotto-sistema. Ma quali condizioni bisogna imporre per asserire che tali sotto-sistemi siano indipendenti? Se fra le particelle sono presenti forze di coesione, allora la probabilità di trovare la particella a a breve distanza dalla particella b è ovviamente maggiore della probabilità di trovarla a grande distanza, e i sotto-sistemi non sono indipendenti. Analogamente, se le particelle non sono puntiformi ma hanno un loro volume proprio, schematizzandole come sferette rigide di raggio r è impossibile che il centro di una seconda particella si trovi a distanza minore di 2 r dal centro della prima particella, e i sotto-sistemi, di nuovo, non sono indipendenti. Si arriva quindi alla conclusione che l’ipotesi dell’indipendenza può essere verificata solo se il gas è ben descritto dal modello del gas perfetto (particelle puntiformi e non interagenti). A queste restrizioni di natura classica si devono poi aggiungere ulteriori restrizioni, di natura quantistica, di cui parleremo in seguito. Introdotto così il concetto di sistema composto di sotto-sistemi identici e indipendenti, indicando con ei l’energia degli stati del sotto-sistema (che d’ora in poi chiameremo “micro-stati”), possiamo chiederci quale sia la probabilità, p(ei ) che uno qualsiasi dei sotto-sistemi si trovi in un micro-stato di energia ei . A questa domanda si può rispondere mediante il principio generale dedotto precedentemente e mediante considerazioni basate sulle leggi della probabilità. In base a tale principio, si ha infatti che la probabilità che la prima particella occupi il micro-stato di energia e1 , la seconda particella occupi il micro-stato di energia e2 , . . . , la particella N-esima occupi il micro-stato di energia eN , è data da p = A e−b (e1 +e2 +···eN ) ,

206

8 Termodinamica statistica

dove A è una costante. D’altra parte, per l’ipotesi dell’indipendenza dei sottosistemi, si può anche scrivere p = p(e1 ) p(e2 ) · · · p(eN ) ,

per cui, confrontando le due espressioni, si perviene al risultato p(ei ) = a e−b ei ,

dove a è una nuova costante legata ad A dalla relazione a = A1/N e data esplicitamente dall’equazione 1 1 , a= = z Âi e−b ei con la somma z estesa a tutti i possibili micro-stati di un singolo sotto-sistema. L’equazione risultante e−b ei p(ei ) = , (8.9) Âi e−b ei prende il nome di distribuzione di Boltzmann (o principio di Boltzmann). Essa rappresenta una sorta di “miniaturizzazione” del principio generale della termodinamica statistica al caso particolare dei sotto-sistemi indipendenti. Così come la probabilità che all’equilibrio termodinamico alla temperatura T un sistema fisico macroscopico si trovi in uno stato di energia E è proporzionale a exp(−b E), con b = 1/(kB T ), la probabilità che uno qualsiasi dei suoi sotto-sistemi indipendenti si trovi nel micro-stato di energia e è proporzionale a exp(−b e). Dall’Eq. 8.9 scaturiscono numerose conseguenze. Attraverso di essa si può ad esempio ritrovare la distribuzione di Maxwell delle velocità, che noi abbiamo dedotta per altra via nella Sez. 7.2. Il sistema fisico è in questo caso costituito da un gas perfetto contenente N particelle e i sotto-sistemi sono ovviamente le singole particelle. I micro-stati delle particelle (o stati di particella singola) possono essere individuati mediante delle cellette elementari in uno spazio a 6 dimensioni (lo spazio delle configurazioni di particella singola), centrate intorno al punto avente coordinate (x, y, z, vx , vy , vz ) e aventi un volume, DGµ , che può essere pensato come il prodotto di un volumetto dello spazio fisico moltiplicato per un volumetto dello spazio delle velocità. L’energia e che compete a ciascun micro-stato è data dalla sola energia cinetica ed è del tutto indipendente dalla coordinata spaziale, ovvero, per particelle non relativistiche, caso al quale ci restringiamo e = 12 m(v2x + v2y + v2z ) . Indicando con p(x, y, z, vx , vy , vz ) la probabilità che la particella occupi lo stato individuato dalla celletta, per il principio di Boltzmann si ha 1

2

2

2

p(x, y, z, vx , vy , vz ) = a e−b 2 m(vx +vy +vz ) , con a costante. Se ci chiediamo quale sia la probabilità che una particella si trovi entro un volume dello spazio fisico centrato nel punto di coordinate (x, y, z) e avente

8.6 L’equipartizione dell’energia

207

volume dx dy dz e abbia inoltre la componente x della velocità compresa fra vx e vx + dvx , la componente y compresa fra vy e vy + dvy e la componente z compresa fra vz e vz + dvz , tale probabilità, che indichiamo con F(x, y, z, vx , vy , vz ) dx dy dz dvx dvy dvz è data da F(x, y, z, vx , vy , vz ) dx dy dz dvx dvy dvz = = p(x, y, z, vx , vy , vz ) 1

2

2

dx dy dz dvx dvy dvz = DGµ dx dy dz dvx dvy dvz . DGµ

2

= a e−b 2 m(vx +vy +vz )

Indicando con V il volume fisico in cui si muovono le particelle (il recipiente che contiene il gas), quest’ultima espressione può essere posta nella forma dx dy dz −b 1 m(v2x +v2y +v2z ) dvx dvy dvz V ae 2 . V DGµ Il primo fattore a secondo membro rappresenta ovviamente la probabilità che la particella si trovi nel volumetto fisico dx dy dz, mentre il secondo fattore rappresenta la probabilità che la particella abbia velocità compresa nel volumetto dello spazio delle velocità dvx dvy dvz . Scrivendo tale probabilità nella forma f (vx , vy , vz ) dvx dvy dvz , si ottiene la seguente espressione per la distribuzione Maxwelliana delle velocità 1

2

2

2

f (vx , vy , vz ) = a0 e−b 2 m(vx +vy +vz ) , dove a0 è una nuova costante, data da a0 = a

V , DGµ

che può essere determinata imponendo la condizione di normalizzazione. Come si vede, i risultati della Sez. 7.2 si riottengono come caso particolare di una distribuzione molto più generale, ovvero dal principio di Boltzmann.

8.6 L’equipartizione dell’energia Per un sistema fisico composto da sotto-sistemi indipendenti abbiamo trovato che all’equilibrio termodinamico alla temperatura T , la probabilità p(ei ) che uno qualsiasi dei sotto-sistemi si trovi nel micro-stato avente energia ei è dato dal principio di Boltzmann in Eq. 8.9. Esiste la possibilità di trovarne una versione semplificata per una classe particolare di sotto-sistemi indipendenti per i quali l’energia risulta dalla somma delle energie relative a variabili di stato diverse. Tali sotto-sistemi possono

208

8 Termodinamica statistica

essere chiamati “sotto-sistemi separabili” e ne diamo qui di seguito alcuni esempi6 . Riferendoci al solito esempio del gas perfetto, l’energia del singolo sotto-sistema (la particella) è uguale alla somma dell’energia cinetica relativa al moto lungo l’asse x, dell’energia cinetica relativa al moto lungo l’asse y e dell’energia cinetica relativa al moto lungo l’asse z, essendo ovviamente e = 12 m v2 = 12 m v2x + 12 m v2y + 12 m v2z . Le variabili di stato che contribuiscono all’energia sono, in questo caso le tre componenti della velocità, vx , vy e vz . Nel caso di un oscillatore armonico unidimensionale si ha, analogamente e = 12 m v2x + 12 k x2 , e le variabili di stato che contribuiscono all’energia sono la componente della velocità vx e la coordinata x. Per un sotto-sistema additivo, ripetendo un ragionamento simile a quello sviluppato nel paragrafo precedente, si può ottenere una “miniaturizzazione” del principio di Boltzmann per ciascuna variabile di stato che contribuisca all’energia. L’equazione che esprime la probabilità resta la stessa, p(ei ) = a exp(−b ei ), con la differenza che ei è adesso l’energia che compete alla singola variabile di stato, relativamente all’i-esimo micro-stato del proprio spazio. Ci poniamo adesso il problema di determinare quale sia l’energia media, hei, che compete a un sotto-sistema additivo per una singola variabile di stato. Per la definizione stessa di probabilità si ha hei = Â ei p(ei ) = i

1 z

 ei e−b ei = i

Âi ei e−b ei , Âi e−b ei

Facendo riferimento all’ultima espressione, possiamo trasformare la somma sugli stati in un integrale sull’energia. Per far questo introduciamo la densità in energia degli stati indicando con g(e) de il numero di micro-stati aventi energia compresa fra e e e + de. Con l’introduzione di questa funzione si può scrivere R

e e−b e g(e) de hei = R −b e . e g(e) de

Il problema della determinazione dell’energia media si è quindi spostato a quello della determinazione della funzione g(e) che, fra l’altro, può rimanere indefinita a meno di una costante moltiplicativa arbitraria, il valore di tale costante essendo ininfluente nel calcolo del rapporto degli integrali. Vedremo in seguito alcuni esempi espliciti di calcolo della densità in energia degli stati. Si può comunque dimostrare che per i sistemi classici, ovvero non quantistici, la funzione g(e) può, in tutta

6

Non bisogna pensare che questa proprietà di additività sia valida per tutti i sotto-sistemi. Un esempio per il quale essa non è verificata è quello della particella relativistica. In tale caso, infatti, ricordiamo che l’energia è data dall’espressione e = [c2 (p2x + p2y + p2z ) + m2 c4 ]1/2 .

8.6 L’equipartizione dell’energia

209

generalità, essere espressa nella forma g(e) = k e a , con k e a costanti (a ≥ −1). Sostituendo si ottiene

R a+1 −b e e e de , hei = R a −b e

e e

ed osservando che

e−b e = −

de

1 d ⇣ −b e ⌘ e , b de

integrando per parti l’integrale che compare al numeratore si perviene all’espressione a +1 = (a + 1) kB T . hei = b Consideriamo adesso alcuni esempi partendo dal caso più semplice di un sottosistema costituito da una particella di massa m. L’energia che compete alla variabile di stato vx è data semplicemente dall’equazione e = 12 m v2x . Per contare gli stati, introduciamo la solita celletta di larghezza D v nello spazio della velocità. Il numero di stati con velocità compresa fra vx e vx + dvx è dato da dN =

dvx , Dv

per cui il numero di stati con energia compresa fra e e e + de risulta g(e) de =

1 dvx dN de = de . de D v de

D’altra parte si ha d dvx = de de e si ottiene quindi g(e) =

r

1 2e , =p m 2me 1 p

Dv 2m

e −1/2 .

Il valore dell’energia media è quindi hei = 12 kB T . Un altro caso interessante è quello di una particella in rotazione intorno a un asse. Se indichiamo con I il momento di inerzia e con w la velocità angolare, l’energia di

210

8 Termodinamica statistica

rotazione è espressa dall’equazione e = 12 I w 2 . Analogamente a quanto fatto nel caso precedente, per contare gli stati introduciamo una celletta di larghezza D w nello spazio della velocità angolare. Il numero di stati con velocità angolare compresa fra w e w + dw è dato da dN =

dw , Dw

per cui il numero di stati con energia compresa fra e e e + de risulta g(e) de =

1 dw dN de = de . de D w de

D’altra parte si ha dw d = de de

r

e si ottiene quindi

1 2e , =p I 2I e 1 p

e −1/2 , Dw 2I ed il valore dell’energia media è quindi uguale a quello ottenuto nel caso precedente, ovvero hei = 12 kB T . Infine consideriamo anche il caso dell’energia potenziale di un oscillatore armonico unidimensionale. Indicando con k la forza di richiamo elastica, l’energia potenziale è data da e = 12 k x2 , g(e) =

dove x è la distanza della particella dal punto di equilibrio. Di nuovo, per contare gli stati introduciamo una celletta di larghezza D x. Il numero di stati con distanza compresa fra x e x + dx è dato da dN =

dx , Dx

per cui il numero di stati con energia compresa fra e e e + de risulta g(e) de =

dN 1 dx de = de . de D x de

D’altra parte si ha d dx = de de e si ottiene quindi g(e) =

r

1 2e , =p k 2ke 1 p

Dx 2k

e −1/2 .

8.6 L’equipartizione dell’energia

211

Il valore dell’energia media è di nuovo uguale a quello ottenuto nei casi precedenti, e si può osservare che questo “invariante” risulta dal fatto che in tutti e tre i casi considerati si ha una dipendenza quadratica dell’energia e dalla variabile di stato (rispettivamente la velocità, la velocità angolare e la posizione). I risultati che abbiamo ottenuto possono essere condensati in un principio che viene chiamato “principio di equipartizione dell’energia” e che può essere enunciato nella seguente maniera “in un sistema composto di sotto-sistemi indipendenti e separabili, che si trovi all’equilibrio termodinamico alla temperatura T , a ciascuna variabile di stato che contribuisce quadraticamente all’energia del sistema compete un’energia media pari a 12 kB T ”, appunto hei = 12 kB T .

(8.10)

Le applicazioni più dirette del principio di equipartizione dell’energia riguardano l’energia interna di un gas perfetto. Se N è il numero di particelle, l’energia interna nel caso di gas monoatomici, biatomici e poliatomici, indicata rispettivamente con Um , Ub , e Up , è data da Um =

3 N kB T , 2

Ub =

5 N kB T , 2

Up = 3 N kB T .

Nel caso del gas monoatomico, infatti, le variabili di stato sono le tre componenti della velocità, nel caso del gas biatomico sono le tre componenti della velocità e due componenti della velocità angolare (il momento d’inerzia relativo alla terza componente della velocità angolare è nullo), nel caso del gas poliatomico sono le tre componenti della velocità e le tre componenti della velocità angolare. Nel caso dei solidi si ottiene un’espressione uguale a quella del gas perfetto poliatomico, con la differenza che l’energia in gioco, oltre l’energia cinetica, è l’energia elastica delle particelle intorno alla posizione di equilibrio invece dell’energia di rotazione. Le variabili di stato interessate sono le tre componenti della velocità e le tre componenti del raggio vettore che individua la posizione della particella rispetto al punto di equilibrio. Indicando con Us l’energia interna del solido, si ha Us = 3 N kB T . Per il calore specifico molare di un solido, ponendo N = NA , si ottiene la legge di Dulong e Petit CV =

dUs = 3 NA kB = 3 R ' 24.9 J K−1 ' 5.96 cal K−1 . dT

Per concludere bisogna sottolineare che, anche per il caso di sistemi composti di sotto-sistemi indipendenti separabili, il principio di equipartizione dell’energia non ha validità generale ma è assoggettato a importanti limitazioni soprattutto connesse con la meccanica quantistica. La legge di Dulong e Petit, ad esempio, è valida solo per temperature elevate, ovvero per temperature superiori a una temperatura di soglia, detta temperatura di Debye, diversa da solido a solido. Anche in fisica

212

8 Termodinamica statistica

classica, comunque, esistono limitazioni alla sua validità in quei casi in cui l’energia non dipende in maniera quadratica dalla variabile di stato. Se si considera ad esempio l’energia potenziale delle particelle in un campo di gravità, la dipendenza dell’energia dalla variabile di stato (in questo caso la quota) è lineare. Questo porta a una funzione g(e) che non dipende da e. L’esponente a è quindi nullo e il valore dell’energia media associato alla variabile è kB T invece di 12 kB T .

8.7 L’entropia del gas perfetto Ci poniamo il problema di calcolare l’entropia di un gas perfetto monoatomico composto di N particelle che occupano il volume V alla temperatura T . Per far questo teniamo presente il fatto che il nostro sistema termodinamico (il gas perfetto) è composto di N sotto-sistemi indipendenti (le molecole del gas) e che l’entropia è additiva per sotto-sistemi indipendenti. L’entropia del sistema, S, può quindi essere espressa nella forma S =Ns , dove s è il contributo all’entropia proveniente dalla singola particella. Tale contributo si può esprimere nella forma s = −kB Â pi ln pi , i

dove pi = p(ei ) è la probabilità che il sotto-sistema (la particella) si trovi nello stato di particella singola (micro-stato) individuato dall’indice i, data dal principio di Boltzmann in Eq. 8.9, e dove ei è l’energia della particella nel micro-stato i-esimo. Combinando le equazioni precedenti si ottiene S = N kB Â pi (ln z + b ei ) , i

e poiché

 pi = 1 i

l’entropia risulta

,

 pi ei = hei

,

i

S = N kB (ln z + b hei) .

D’altra parte sappiamo che l’energia media per particella, hei, vale 32 kB T , per cui ◆ ✓ 3 . S = N kB ln z + 2 Si tratta adesso di calcolare z, ovvero la somma sugli stati di particella singola. Per questo introduciamo, per individuare gli stati, la solita celletta nello spazio delle configurazioni della particella avente un volume fisico D x3 e un volume nello spazio delle velocità D v3 . La somma sui micro-stati, z, può essere trasformata in un

8.7 L’entropia del gas perfetto

213

integrale doppio, uno sul volume fisico V e l’altro sulle velocità. Il numero di microstati, dN, appartenenti all’elemento di volume (dello spazio delle configurazioni di particella singola) dx dy dz dvx dvy dvz è dato da dN =

dx dy dz dvx dvy dvz . D x3 D v3

Tenendo conto che l’energia della particella non dipende dalla coordinata spaziale, l’integrale sul volume si esegue immediatamente e la somma sugli stati risulta z=

V D x3 D v3

Z •

−•

dvx

Z •

−•

dvy

Z •

−•

1

2

2

2

dvz e− 2 b m(vx +vy +vz ) .

Gli integrali si eseguono mediante semplici cambiamenti di variabile e ricordando che Z • p 2 e−x dx = p . −•

Si ottiene quindi

V z= 3 D x D v3



2p bm

◆3/2

.

Ricordando che b = 1/(kB T ) e sostituendo nell’espressione dell’entropia si ha ✓ ◆ 3 S = N kB lnV + ln T +C , (8.11) 2 dove la costante C è data da C = N kB

( "

1 ln D x3 D v3



2p kB m

◆3/2 #

3 + 2

)

.

Questa espressione che abbiamo trovato per l’entropia del gas perfetto coincide con quella che si ottiene dalle leggi generali della termodinamica, eccettuato per il fatto che quest’ultima non è in grado di fornire il valore della costante C. Malgrado questo successo, si può tuttavia osservare che l’Eq. 8.11 non è corretta. Esiste infatti un’inconsistenza, come si può verificare, ad esempio, riducendo di un fattore 2 il volume V e il numero di particelle N, il che equivale a considerare il sistema fisico ottenuto “dividendo in due” il gas considerato. L’entropia dovrebbe anch’essa diminuire di un fattore 2, ma l’Eq. 8.11 non conduce a questo risultato. Questo è il cosiddetto “paradosso di Gibbs”. Il paradosso deriva dal fatto che per il calcolo dell’entropia abbiamo supposto che le particelle fossero distinguibili, cioè identificabili l’una rispetto all’altra. Il ragionamento che abbiamo svolto implica infatti che lo stato fisico in cui la i-esima particella occupa la celletta a dello spazio delle configurazioni e la j-esima particella occupa la celletta b è diverso dallo stato fisico in cui è la particella j-esima a occupare la celletta a e la particella i-esima a occupare la celletta b. In effetti la meccanica quantistica ha completamente rivoluzionato il modo di pensare classico secondo il

214

8 Termodinamica statistica

quale due particelle, anche se identiche, possono in linea di principio essere seguite con continuità nel loro movimento e possono quindi conservare la propria identità. Al contrario, secondo la meccanica quantistica due particelle devono, in tutto e per tutto, essere considerate indistinguibili dimodoché i due stati di cui abbiamo parlato sopra non possono essere ritenuti due stati diversi, bensì uno stato unico. Poiché il ragionamento può poi essere ripetuto per qualsiasi coppia di particelle, ne consegue che nel computo degli stati fisici abbiamo introdotto un errore. Tale errore può essere corretto dividendo il numero di stati possibili a disposizione delle particelle per N!, il che implica che l’entropia deve essere ridotta di una quantità pari a kB ln(N!). Ricordando la formula di Stirling, secondo la quale ln(N!) = N ln N − N , dall’Eq. 8.11 si ottiene  ✓ ◆ � 3 V + ln T +C0 , S = N kB ln N 2 dove la costante C0 è data da 0

C = C + N kB = N k B

( "

1 ln D x3 D v3



2p kB m

◆3/2 #

5 + 2

)

.

Il paradosso di Gibbs è adesso scomparso, ma l’espressione che abbiamo trovato non è però ancora del tutto soddisfacente. Il problema è che la costante C0 dipende dalla scelta che abbiamo fatto per definire il volume della celletta dello spazio delle configurazioni, scelta che del resto è del tutto arbitraria in meccanica classica e che non influisce sulle proprietà che abbiamo dedotto nei paragrafi precedenti, ad esempio sul calcolo dell’energia media. Anche su questo punto la meccanica quantistica porta alla soluzione del problema imponendo delle “regole” precise per la scelta del volume della celletta. La regola imposta dalla meccanica quantistica, che discende direttamente dal principio di indeterminazione, stabilisce una sorta di protocollo di questo tipo: Innanzitutto è necessario rifarsi non a due variabili di stato arbitrarie, come abbiamo fatto scegliendo come tali la posizione e la velocità della particella, ma a due variabili di stato, q e p, che siano canonicamente coniugate secondo la definizione della meccanica analitica. Se si scelgono quindi come variabili di stato le tre coordinate cartesiane della posizione della particella, x, y, e z, le variabili di stato canonicamente coniugate risultano rispettivamente px , py e pz , le tre componenti del vettore impulso (o quantità di moto) della particella. In secondo luogo, per ciascuna coppia di variabili (q, p), il volume della celletta, D q D p non è arbitrario ma è definito in maniera ineluttabile dal prodotto DqD p = h , dove h (' 6.63 ⇥ 10−34 J s) è la costante fondamentale della meccanica quantistica, ovvero la costante di Planck avente le dimensioni di un’azione. Per adattare i nostri

8.7 L’entropia del gas perfetto

215

calcoli alle “regole sulle cellette” introdotte dalla meccanica quantistica dobbiamo quindi eseguire la seguente sostituzione D x3 D v3 =

D x 3 D p3 −! m3

✓ ◆3 h , m

e si ottiene quindi il risultato finale per l’entropia del gas perfetto (formula di Sackur-Tetrode) �  ✓ ◆ ◆ ✓ 3 5 3 V 2p kB m + ln T + ln , (8.12) + S = N kB ln N 2 2 h2 2 oppure, in forma più compatta "

V S = N kB ln N



2p kB T m h2

◆3/2

5/2

e

#

.

Per comprendere meglio il significato fisico dell’espressione per l’entropia che abbiamo determinato, si può osservare che la quantità che ivi compare, ovvero Nc = V



2p kB T m h2

◆3/2

(8.13)

,

rappresenta il numero di cellette dello spazio delle fasi a disposizione di ciascun atomo del gas perfetto all’equilibrio termodinamico alla temperatura T . Un valore di ordine di grandezza per la stessa quantità potrebbe essere determinato mediante un ragionamento di ordine di grandezza di questo tipo: alla temperatura T un atomo può avere un impulso massimo, pmax , dell’ordine di p2max ' kB T . 2m Il numero di cellette a disposizione dell’atomo si può allora valutare calcolando il volume totale dello spazio delle fasi in cui l’atomo può venirsi a trovare diviso per l’estensione della singola celletta, ovvero per h3 . D’altra parte, tale volume totale risulta dal prodotto del volume fisico, V , per il volume di una sfera dello spazio degli impulsi avente raggio dell’ordine di pmax . Mediante questo ragionamento, ricordando l’espressione per pmax , si ottiene quindi Nc '

4 3p

p3max V 4 ' p h3 3



2 kB T m h2

◆3/2

V ,

che coincide p con l’espressione esatta per semplice moltiplicazione del fattore numerico 3 p/4 ' 1.33. Con l’introduzione della quantità Nc , l’Eq. 8.12 assume la forma più significativa �  ✓ ◆ 5 Nc + . (8.14) S = N kB ln N 2

216

8 Termodinamica statistica

In particolare, per una mole di gas perfetto si ottiene  ✓ ◆ � 5 Nc + S = R ln , NA 2 dove R è la costante dei gas e NA è il numero di Avogadro. Per renderci conto degli ordini di grandezza, calcoliamo l’espressione del rapporto Nc /NA per il caso di un gas perfetto avente peso molecolare µmol in condizioni standard (T = 273.15 K, P = 1 Atm, V = 22.4 ⇥ 10−3 m−3 ). Sostituendo i valori delle costanti si ottiene Nc 3/2 = 3.16 ⇥ 104 µmol . (8.15) NA Come si vede, essendo in ogni caso µmol ≥ 1, ogni molecola di un gas in condizioni standard ha a propria disposizione un numero molto elevato di cellette dello spazio delle fasi.

Parte IV

Complementi

Capitolo 9

Complementi di meccanica dei fluidi

9.1 Alcune proprietà geometriche delle superfici chiuse Consideriamo una superficie chiusa, S , di forma arbitraria, quale quella individuata (nel piano del foglio) dalla linea continua della Fig. 9.1 e sia n il versore che in ogni punto è diretto secondo la normale esterna alla superficie stessa. Sia poi r il vettore posizione staccato a partire da un punto origine arbitrario. Vogliamo dimostrare che, qualsiasi sia la forma geometrica della superficie S , si ha I

S

n dS = 0 ,

δr dS

n

δV

Figura 9.1 Se ogni punto di una superficie si sposta di una quantità d r, l’aumento del volume racchiuso dalla superficie, dV , si può calcolare come la somma algebrica di tanti cilindri elementari aventi per base dS e per altezza d r · n, dove n è il versore normale alla superficie

© Springer-Verlag Italia S.r.l., part of Springer Nature 2019 E. Landi Degl’Innocenti, Elementi di Meccanica dei Fluidi, Termodinamica e Fisica Statistica, https://doi.org/10.1007/978-88-470-3991-9_9

219

220

9 Complementi di meccanica dei fluidi

e che inoltre, qualsiasi sia la forma geometrica della superficie S e qualsiasi sia l’origine del vettore posizione r, si ha I

S

r ⇥ n dS = 0 .

La dimostrazione della prima equazione è banale solo nel caso che la superficie S abbia una forma particolarmente semplice, come nel caso di un parallelepipedo, di una sfera, di un cono, etc.. Per eseguire la dimostrazione nel caso generale, osserviamo preliminarmente che se si modifica la superficie S spostando ciascun punto di essa di un vettore infinitesimo, d r, come illustrato nella Fig. 9.1, il volume racchiuso da S subisce una variazione, dV , data, in valore e segno, da dV =

I

S

d r · n dS .

Consideriamo adesso due casi particolari di questa equazione, illustrati nella Fig. 9.2. Il primo caso è quello che corrisponde a una traslazione infinitesima della superficie di una quantità d a, il secondo caso è quello che corrisponde a una rotazione della superficie stessa di un angolo infinitesimo d a intorno a un asse passante per l’origine e individuato dal versore W . Nei due casi si ha, rispettivamente, (d r )1 = d a , δ V1

(d r )2 = d a W ⇥ r , δ V2

δa

δα

Figura 9.2 Il pannello di sinistra illustra il caso di una traslazione rigida della figura di un vettore infinitesimo d a. Quello di destra illustra il caso di una rotazione rigida di un angolo d a intorno a un asse individuato dal versore W (perpendicolare al piano del foglio). Le variazioni di volume, dV1 e dV2 , sono ovviamente nulle

9.2 Il gradiente di una funzione scalare e vettoriale

221

e i corrispondenti incrementi di volume risultano (dV )1 =

I

S

d a · n dS ,

(dV )2 =

I

S

d a W ⇥ r · n dS .

Osservando che le quantità costanti possono essere estratte dagli integrali e scambiando nel secondo integrale i simboli di prodotto vettoriale e prodotto scalare si ottiene I I (dV )1 = d a · n dS , (dV )2 = d a W · r ⇥ n dS . S

S

D’altra parte, le quantità (dV )1 e (dV )2 sono ovviamente nulle, e poiché i vettori d a e W hanno direzione arbitraria ne consegue la validità dell’assunto.

9.2 Il gradiente di una funzione scalare e vettoriale Data una funzione scalare del punto, f (r), e introdotto un sistema di riferimento cartesiano ortogonale (x, y, z), si definisce “gradiente” di detta funzione, e si indica con grad f o col simbolo — f (la notazione adottata in questo testo), il vettore che ha per componenti (— f )x =

∂f , ∂x

(— f )y =

∂f , ∂y

(— f )z =

∂f . ∂z

Queste tre equazioni possono essere condensate nell’unica (— f )i =

∂f , ∂ xi

(i = 1, 2, 3) ,

intendendo che x1 = x, x2 = y, e x3 = z. Quando si ha a che fare con una funzione vettoriale, v (r), si definisce gradiente di tale funzione, e si indica col simbolo — v, quel tensore a due componenti definito da ∂vj (— v)i j = , (i, j = 1, 2, 3) . ∂ xi Tale tensore è costituito di 9 componenti che possono essere sistemate in una matrice 3 ⇥ 3 della forma 0 1 ∂ vx ∂ vy ∂ vz ∂x ∂x ∂x B ∂ v ∂ vy ∂ v C zC B x @ ∂y ∂y ∂y A. ∂ vx ∂ vy ∂ vz ∂z ∂z ∂z

Si noti che il gradiente di un vettore è un tensore che, in generale, non è simmetrico. Quando si considera il prodotto scalare di tale tensore per un vettore, il risultato dipende dall’ordine dei fattori. Ad esempio, dato un vettore w si possono considerare

222

9 Complementi di meccanica dei fluidi

Figura 9.3 llustrazione schematica del paradosso di Pascal. Il lungo tubo sottile, sigillato alla superficie superiore della botte, viene riempito con una quantità minima di liquido fino a una considerevole altezza. La botte, che non è progettata per sostenere l’aumento di pressione che si viene così a determinare, comincia a perdere nella parte inferiore. Se il tubo è sufficientemente lungo, la botte si sfascia

i due prodotti scalari p = w · — v ⌘ (w · —) v ,

q = —v ·w ,

ovvero, in componenti pi = Â w j j

∂ vi , ∂xj

qi = Â w j j

∂vj . ∂ xi

I due vettori p e q sono, in generale, diversi.

9.3 Il paradosso di Pascal e gli emisferi di Magdeburgo Una delle esperienze di idrostatica che hanno avuto maggior importanza nell’evoluzione del pensiero scientifico moderno è quella che fu realizzata da Blaise Pascal verso il 1650 e che è schematicamente illustrata nella Fig. 9.3. Sulla superficie superiore di una normale botte da vino venne praticato un piccolo foro del diametro dell’ordine del centimetro e, attraverso tale foro, venne inserito dentro la botte un tubo che fu poi sigillato con del mastice in modo che si realizzasse la perfetta tenuta fra botte e tubo. Come riportano le cronache del tempo, partendo con la botte piena e versando del liquido entro il tubo, si constatò, fra lo stupore dei presenti, che la botte cominciava a perdere quando il liquido entro il tubo aveva raggiunto un’altezza dell’ordine di qualche metro, per poi sfasciarsi completamente per un’altezza dell’ordine di 5 m. Pascal riuscì così a provare la validità di un’affermazione che a prima vista appariva (e tutt’ora appare) del tutto paradossale quale: “L’aggiunta di

9.3 Il paradosso di Pascal e gli emisferi di Magdeburgo

alla pariglia di 8 cavalli

223

alla pariglia di 8 cavalli 0.5 m

Figura 9.4 Illustrazione dell’esperienza degli emisferi di Magdeburgo. Per provocare il distacco dei due emisferi, ciascuna pariglia di cavalli deve esercitare una forza di circa 2000 kg peso

una piccola quantità di liquido, dell’ordine di quella che può essere contenuta in una bottiglia, è sufficiente per sfasciare una botte”. Da allora l’esperienza di Pascal viene ricordata con il nome di “Paradosso idrostatico di Pascal” o “Paradosso della botte di Pascal”. L’interpretazione è ovvia ricordando la legge di Stevino. Ad esempio, se il tubo ha un diametro di 2 cm, con un litro di liquido si riempie il tubo fino a un’altezza dell’ordine di 3 m e (nel caso dell’acqua) questo provoca un’aumento di pressione, entro la botte, dell’ordine di 0.3 Atm. Tale aumento è più che sufficiente per provocarne la deformazione (e quindi la fuoriuscita di liquido) e, in alcuni casi, la rottura. Quella degli emisferi di Magdeburgo è un’altra famosa esperienza di fisica, eseguita “coram populo”, che ebbe notevole risonanza negli ambienti scientifici del tempo. Essa fu allestita nel 1657 da Otto Von Guericke (1602-1686), allora borgomastro della città di Magdeburgo, davanti ai membri della Dieta e a un enorme numero di concittadini. Von Guericke era in effetti riuscito, qualche anno prima, a realizzare una macchina (oggi chiamata pompa pneumatica) capace di estrarre l’aria da un recipiente a tenuta in modo da fare il vuoto entro il recipiente stesso. Per la celebre esperienza, Von Guericke utilizzò due emisferi cavi di bronzo del diametro di circa 50 cm. Collegati saldamente i due emisferi fra loro, venne estratta l’aria contenuta all’interno della sfera per mezzo della pompa pneumatica connessa a una valvola presente sulla superficie esterna di uno degli emisferi. Una volta realizzato il vuoto e rimossi i collegamenti esterni, le estremità dei due emisferi vennero connesse attraverso delle funi a due pariglie, composte da otto cavalli ciascuna, che tiravano in senso opposto, come illustrato nella Fig. 9.4. Fra lo stupore generale, gli spettatori assistettero agli enormi sforzi necessari ai sedici cavalli per riuscire a separare i due emisferi. L’interpretazione dell’esperienza è banale. Una volta praticato il vuoto, ciascuno dei due emisferi è spinto verso l’altro dalla forza dovuta alla pressione atmosferica. Tale forza vale pR2 P0 , dove R è il raggio degli emisferi e P0 la pressione atmosferica. Con R = 0.25 m e P0 ' 105 Pa, si ottiene una forza di circa 2 ⇥ 104 N, ovvero circa 2000 kg peso. Bisogna poi considerare il fatto che un cavallo può esercitare in trazione una forza media dell’ordine di 70 kg peso e che tale forza può raggiungere

224

9 Complementi di meccanica dei fluidi

il valore di 400 kg peso solo per brevi periodi di massimo sforzo. Per separare i due emisferi è quindi necessario che, in media, ciascun cavallo eserciti una forza di 250 kg peso, cosa possibile ma di difficile realizzazione perché è necessario riuscire a coordinare gli sforzi dei sedici cavalli. L’esperienza degli emisferi di Magdeburgo è illustrativa delle enormi forze che sono esercitate sulle superfici dei corpi dalla pressione atmosferica. Tali forze passano quasi sempre inosservate perché tipicamente agiscono sia su di un lato che sul lato opposto dei corpi, e quindi si elidono dando risultante nulla. Sulla parete esterna di un edificio, ad esempio, agisce una forza che tende a comprimerlo dell’ordine di 107 − 108 N. Tuttavia, una forza uguale agisce anche sulla parte interna della parete e il risultato è semplicemente uno schiacciamento della parete stessa, del tutto ininfluente per gli ordinari materiali da costruzione. La cosa sarebbe ben diversa se l’edificio fosse a tenuta stagna e se nel suo interno, ipoteticamente, venisse praticato il vuoto.

9.4 Soluzione di alcuni problemi di idrostatica Illustriamo in questa sezione alcune applicazioni della formula fondamentale dell’idrostatica 1.2, che qui riportiamo —P = r g , iniziando dai casi semplici (liquidi incomprimibili, con r costante, e accelerazione di gravità uniforme, per cui vale soluzione di Stevino Eq. 1.3) e proseguendo con varie generalizzazioni (caso dei gas, forze non inerziali, accelerazione di gravità non costante, problemi non monodimensionali o in geometria non cartesiana). Vedremo anche semplici problemi sul galleggiamento dei corpi, per cui ricordiamo che all’equilibrio, dato un fluido a densità costante r in un campo di gravità uniforme, vale l’Eq. 1.5, ovvero hrc i V0 = V , r dove V 0 è il volume immerso del corpo, V quello totale e hrc i la sua densità media, minore di quella del fluido r. a) Calcolo della forza e del momento agenti su una diga Iniziamo con il calcolo della risultante delle forze e dei momenti a cui è sottoposta una diga quando a monte sia presente acqua per un’altezza H. Per ogni altezza h dal suolo, la parete della diga subisce una forza dovuta alla pressione che l’acqua esercita a quella quota, P(h), a causa del peso dell’acqua sovrastante. Trascurando il contributo della pressione atmosferica, che compare in P(h) ma che si compensa con la forza in direzione opposta dal lato della diga a contatto con l’aria, tale forza

9.4 Soluzione di alcuni problemi di idrostatica

225

si calcola tramite la legge di Stevino come P(h) = r g (H − h) ,

dF = P(h) L dh ,

dove L è la lunghezza della diga, r la densità dell’acqua e H − h la profondità. La forza totale si trova mediante l’integrale Ftot =

Z H 0

dF = r g L

Z H 0

(H − h) dh =

1 r g L H2 . 2

Per L dell’ordine del centinaio di metri e H delle decine di metri, queste forze possono tranquillamente superare il miliardo di Newton! Si noti che lo stesso risultato si troverebbe studiando l’andamento con la profondità rispetto al pelo libero dell’acqua, fatto che spiega il profilo parabolico delle pareti delle dighe, le quali devono supportare forze orizzontali che aumentano quadraticamente con la profondità. Infine, il momento risultante delle forze rispetto alla base della diga si calcola come Mtot =

Z H 0

h dF = r g L

Z H 0

(H h − h2 ) dh =

1 h r g L H 3 = Ftot , 6 3

per cui si trova che tale momento equivale all’applicazione di Ftot ad un altezza (braccio della forza) b = H/3. b) Idrostatica e forze non inerziali Una seconda applicazione che illustriamo è lo studio della stratificazione della pressione in un liquido soggetto sia alla gravità (costante) g, sia a forze non inerziali dovute all’accelerazione a del sistema di riferimento, quello in cui il liquido risulta a riposo e che dunque permette l’uso dell’equazione dell’equilibrio idrostatico. In tale sistema, ogni elemento di massa dm = r dV all’interno del liquido subisce dunque un’accelerazione g0 , per cui avremo —P = r g0 ,

g0 = g − a ,

e la stratificazione della pressione del liquido avverrà lungo g0 , invece che g, ovvero le superfici isobare saranno normali a tale direzione modificata dall’accelerazione non inerziale del sistema. Ad esempio questo risultato può essere applicato per il calcolo del posizionamento della superficie libera di un liquido (quella per cui P = P0 , la pressione atmosferica) contenuto in un carrello che si muova orizzontalmente di moto uniformemente accelerato: è facile verificare che l’angolo a rispetto all’orizzontale assunto dalla superficie libera si determina dalla relazione tan a = |a|/g. È interessante notare che se il carrello fosse invece in caduta libera su un piano inclinato di un angolo a rispetto all’orizzontale, il pelo libero dell’acqua in esso contenuta si disporrebbe parallelamente al piano inclinato stesso. Infatti lungo il piano l’accelerazione non inerziale compensa esattamente la componente della gravità in tale direzione, pari in modulo a g sin a, mentre sul fluido agisce un’accelerazione non bilanciata in

226

9 Complementi di meccanica dei fluidi

direzione normale al piano, pari a g cos a e rivolta verso il basso. Analogamente si può calcolare la disposizione del pelo libero di un liquido contenuto in un recipiente di forma cilindrica, posto in rotazione con velocità angolare W costante attorno all’asse del contenitore stesso. L’accelerazione subita da ogni volumetto di liquido è g0 = g + W2 r , in cui il secondo termine è il contributo di accelerazione centrifuga (il sistema è sottoposto a un’accelerazione centripeta a = −W2 r), con r raggio cilindrico. Scomponendo l’equazione fondamentale dell’idrostatica in un sistema di coordinate cartesiane solidali col liquido e con z coincidente con l’asse verticale di rotazione, si ottiene il sistema di equazioni differenziali ∂P = r W2 x , ∂x

∂P = r W2 y , ∂y

∂P = −r g , ∂z

da risolvere per la funzione incognita P(x, y, z). Scegliendo opportunamente l’origine del sistema di riferimento nel punto sull’asse dove passa la superficie del pelo libero, è facile verificare che la soluzione per la pressione in ogni punto del liquido è 1 P = P0 + r W2 (x2 + y2 ) − r g z , 2 con P0 la pressione atmosferica. La pressione aumenta quindi non solopcon la profondità, ma anche quadraticamente con la distanza dall’asse r = |r| = x2 + y2 . In particolare, la superficie libera del liquido si individua come il luogo dei punti dove P = P0 , per cui troviamo W2 2 (x + y2 ) , z= 2g che è la formula di un paraboloide di rotazione con la concavità verso l’alto. Al medesimo risultato saremmo potuti giungere usando direttamente la coordinata radiale r al posto di x e y. Data la simmetria azimutale, proiettando il gradiente in un sistema di coordinate cilindrico si ottiene la coppia di equazioni per l’incognita P(r, z) ∂P = r W2 r , ∂r

∂P = −r g , ∂z

che risolta fornisce la stessa soluzione trovata in precedenza. Si noti che la tecnica del liquido in rotazione (tipicamente mercurio) può essere usata per la costruzione di specchi parabolici fluidi, con focale variabile a seconda della velocità angolare W. c) Sistemi sferici autogravitanti: la pressione nei pianeti e nelle stelle Consideriamo adesso un problema a simmetria sferica, ovvero affrontiamo il calcolo della stratificazione della pressione all’interno di fluidi autogravitanti, in cui la forza di gravità, e quindi il gradiente di pressione, agisca unicamente lungo la direzione

9.4 Soluzione di alcuni problemi di idrostatica

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radiale. Siano R e M il raggio e la massa, rispettivamente, del sistema fluido in esame. L’accelerazione g e l’equazione fondamentale dell’idrostatica si scrivono, per un raggio generico 0  r  R, nella forma g=−

G m(r) rˆ , r2

G m(r) dP = − 2 r(r) , dr r

dove G = 6.67 ⇥ 10−11 N m2 kg−2 è la costante di gravitazione universale. La massa m(r) che compare in queste formule non è quella totale M che costituisce il corpo autogravitante, ma la massa di fluido contenuta entro la sfera di raggio r. Come già dimostrato da Newton stesso, tale quantità è proprio la massa che determina l’accelerazione alla distanza r, esattamente come se essa fosse interamente concentrata nel centro a r = 0. A questo punto dobbiamo distinguere due casi. Se la densità, r(r), si può considerare costante e pari alla densità media, ad esempio nel caso di un corpo solido o liquido come può essere l’interno di un pianeta, allora avremo semplicemente r(r) ⌘ r¯ =

M , (4p/3)R3

m(r) =

⇣ r ⌘3 4p 3 r r¯ = M . 3 R

In questo caso semplice, l’equazione per la pressione diventa dP GM g r¯ = − 3 r¯ r = − r , dr R R

in cui g = G M/R2 è la nota accelerazione di gravità alla superficie del pianeta. Integrando in r si ottiene il risultato finale P(r) = Pc −

g r¯ 2 r , 2R

ovvero la pressione diminuisce quadraticamente con il raggio rispetto al valore Pc = P(0) al suo centro. Tale valore può essere determinato imponendo che P(R) = P0 , ovvero che la pressione risulti quella atmosferica alla superficie esterna r = R. Si trova 1 1 Pc = P0 + g r¯ R ' g r¯ R , 2 2 in cui abbiamo supposto che P0 ⌧ Pc e che sia dunque trascurabile. Nel caso della Terra, raggio e massa sono rispettivamente R = 6.37 ⇥ 106 m e M = 5.97 ⇥ 1024 kg, da cui r¯ = 5.51 ⇥ 103 kg m−3 e g = 9.81 m s−2 . Al centro della Terra si trova il valore ragguardevole di Pc = 1.72 ⇥ 1011 Pa, ovvero poco meno di due milioni di atmosfere! L’ipotesi di fluido incomprimibile con r = r¯ costante è ovviamente un’approssimazione della situazione reale, in quanto le rocce superficiali hanno densità medie inferiori al valore adottato, da cui deduciamo che il valore della densità debba in realtà crescere verso il centro. Questo risulta sicuramente vero quando si considerino sfere autogravitanti gassose, come le stelle, per cui la densità non potrà in nessun

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9 Complementi di meccanica dei fluidi

modo essere considerata costante ma sarà una funzione incognita (decrescente) di r, al pari della pressione. Come risultato, la funzione m(r) non avrà più l’andamento in r3 tipico per un corpo a densità costante e dovrà essere ricavata in altro modo. Scriviamo il contributo alla massa, dm, di una buccia sferica situata tra i raggi r e r + dr, ovvero dm = 4p r2 r(r) dr , dove 4p r2 è la superficie della buccia sferica interna. Le funzioni incognite m(r) e P(r) si ricavano dunque risolvendo il sistema di equazioni differenziali dP G m(r) = − 2 r(r) , dr r

dm = 4p r2 r(r) , dr

a partire da un valore dato per la densità al centro, rc = r(0). Notiamo che tali equazioni possono essere anche combinate in maniera da ottenere un’unica equazione differenziale, questa volta del secondo ordine: ✓ ◆ ✓ ◆ dm 1 d r2 dP d r2 dP = −G ) = −4p G r . dr r dr dr r2 dr r dr Una volta stabilita una relazione “barotropica” P = P (r), la coppia di equazioni del primo ordine o l’equazione del secondo ordine appena ricavata possono essere finalmente risolte. Un modello generalmente usato in astrofisica è quello delle stelle cosidette “politropiche”, ovvero fluidi autogravitanti in cui sussista una relazione tra P e r del tipo P µ r 1+1/n , con n “indice politropico”. Per n ! • si ha il caso di un gas perfetto isotermo, p µ r, mentre per n = 3/2 si ha il caso di un gas monoatomico in condizioni adiabatiche, in quanto P µ r g e l’indice adiabatico risulta proprio g = 1+1/n = 5/3. Per un indice n generico i profili delle soluzioni si ricavano per via numerica integrando le equazioni con r che aumenta da 0 a R, raggio esterno della stella (per cui r(R) = P(R) = 0). Soluzioni con R finito e massa totale M = m(R) finita si possono ottenere solo per n < 5. Per n = 1, ovvero P = kr 2 e k = Pc /rc2 , la soluzione risulta analitica. È facile verificare che l’equazione di secondo grado diventa in questo caso r d2 r 2 dr + + =0 , dr2 r dr a2 p p dove a = k/(2pG) = Pc /(2pGrc2 ) è una scala radiale caratteristica, con soluzione per la densità data da r(r) = rc

sin(r/a) , r/a

0  r  R ⌘ pa .

Tale soluzione fornisce correttamente r(0) = rc e ha un profilo monotòno decrescente fino a r = R, dove la densità e la pressione vanno a zero, come richiesto.

9.4 Soluzione di alcuni problemi di idrostatica

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Anche in assenza di un reale interesse fisico, questa soluzione può essere utilizzata come test analitico per integratori numerici di modelli politropici generali. La soluzione per n = 3 è invece un’ottima approssimazione per la struttura delle “nane bianche”, ovvero stelle collassate molto dense, di massa poco più grande di quella solare e raggio paragonabile a quello terrestre, in cui la pressione non è di tipo termico ma è determinata dall’equazione di stato per un gas degenere di elettroni relativistici, per l’appunto P µ r 4/3 . d) Ghiaccio che si scioglie nell’acqua Un’interessante variante del problema dell’iceberg in mare è la seguente. Illustriamo la situazione in cui un blocco di ghiaccio, che all’equilibrio galleggia in un recipiente riempito con acqua fino ad un’altezza h, comincia a sciogliersi fino a trasformarsi interamente in acqua, diluendosi nel liquido già presente nel recipiente. La domanda che nasce spontanea è: l’altezza h del pelo libero dell’acqua è destinata ad aumentare o a diminuire durante lo scioglimento? Supponiamo che il recipiente abbia forma di parallelepipedo (o di cilindro) con area di base A e siano Va e Vg i volumi occupati dall’acqua e dal ghiaccio, rispettivamente. Se lo scioglimento del ghiaccio avviene lentamente, deve valere ad ogni istante la relazione di equilibrio A h = Va +Vg0 = Va +

rg Vg , ra

dove Vg0 è, al solito, il volume immerso del corpo galleggiante, in quanto il volume totale del recipiente fino all’altezza h è riempito in parte da acqua e in parte dalla porzione immersa di ghiaccio. La variazione di altezza del pelo libero si può scrivere come 1 Dh = (ra DVa + rg DVg ) , A ra per cui questa sarà positiva o negativa a seconda del segno della quantità in parentesi tonda. Notiamo però che la massa che si scioglie di ghiaccio non può che contribuire all’aumento della massa d’acqua, secondo la relazione D ma + D mg = 0

)

ra DVa + rg DVg = 0 ,

con D mg < 0 e D ma > 0, per cui in realtà D h = 0 e l’altezza rimane costante durante tutta la fase di scioglimento. In pratica, i rapporti delle densità che intervengono sia nella formula del galleggiamento del ghiaccio sia nella conservazione della massa, fanno in modo che, a ogni istante, per i volumi sotto il pelo libero valga DVa + DVg0 = 0 , mantenendo comunque costante la frazione tra volume del corpo emerso rispetto al totale (ricordiamo che vale Vg0 /Vg = rg /ra ' 90%). Estrapolando arditamente questo risultato ai problemi connessi al riscaldamento globale in atto, possiamo concludere che lo scioglimento graduale della calotta

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artica negli oceani non provoca un innalzamento del livello degli stessi. Questo sarà determinato piuttosto dallo scioglimento dei ghiacciai ancora presenti sulla terra ferma (Antardide, Groenlandia, catene montuose). e) Moto oscillatorio verticale di un galleggiante Consideriamo la dinamica di un corpo galleggiante di forma cilindrica (ad esempio un sughero in acqua) che venga perturbato a t = 0 rispetto alla sua posizione di equilibrio. Supponendo che la perturbazione e il moto successivo per t > 0 avvengano lungo l’asse z verticale, dovremo risolvere l’equazione della dinamica m a = −m g + FA , dove m è la massa del corpo e FA la spinta di Archimede, diretta verso l’alto. Se L è l’altezza del corpo, A la sua area di base e rc la densità (costante), avremo m = rc A L. Indicando con l < L l’altezza della parte immersa del corpo a t = 0, all’equilibrio iniziale vale l V0 rc = =