ECONOMIA NAZIONALE E MERCATO MONDIALE la fase transnazionale dell’imperialismo

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ECONOMIA NAZIONALE E MERCATO MONDIALE la fase transnazionale dell’imperialismo

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Gianfranco Pala _________________________________________________________________ ECONOMIA NAZIONALE E MERCATO MONDIALE la fase transnazionale dell’imperialismo _________________________________________________________________

Laboratorio politico, Napoli 1995

Me-ti raccomandava un’estrema cautela nell’uso del concetto di popolo. Egli riteneva lecito parlare di un popolo in opposizione ad altri popoli o nella locuzione i popoli stessi (in opposizione ai loro governi). Per l’uso comune proponeva invece il termine popolazione, perché non ha quel che di artificialmente unitario simulato dalla parola popolo. Questa viene infatti spesso usata là dove si intende e si può intendere propriamente solo nazione, ciò che significa una popolazione con una particolare forma statale. Gli interessi di una siffatta nazione non sono però sempre gli interessi del popolo. [Bertolt Brecht, Me-ti: il libro delle svolte - Popolo]

I. IL TRIANGOLO CIRCOLARE ovvero, lo Stato della Cosa

Blob: la Cosa più orribile che abbia mai visto La Cosa che sovrastà e sovrasta - indubbiamente oramai sull’universo mondo, fragile globo di cristallo - è, si sa, il Capitale: che bensì “cosa” non è, ma piuttosto “rapporto sociale”. Così si usava dire tra marxisti in tempi meno bui epperò politicamente e culturalmente più validi, giacché più contrastati e meno omologati. Il suo stato, considerato come condizione critica irrisolta, e il suo Stato, inteso invece in quanto rappresentazione politica e istituzionale - entrambi - impediscono a chicchessia non solo di prefigurare, ma anche appena di figurare, una qualsivoglia tendenza certa e stabile nella dinamica della futura divisione internazionale del lavoro. È arduo, cioè, prevedere quale sarà quel che si suol dire lo “stato delle cose” - ovverosia lo “Stato della Cosa” se, per l’avvio, si accetti provvisoriamente di prendere le mosse da ciò che è il Capitale in quanto totalità: unità sì, tuttavia ideale in quanto realmente contraddittoria nella sua molteplicità. Già, perché lo Stato del moderno Capitale non può più essere quello che pretenda di racchiudere questo nella sofferenza di una pelle nazionale. Ma non può neppure essere, istituzionalmente, uno Stato transnazionale che appaia adeguato al respiro universalistico, ancorché asfittico, del grande capitale monopolistico finanziario dei prodromi del XXI secolo: non può esserlo per difetto di categoria teoretica, ancor prima che pratica. Ossia, nessuno può pensare di dire: “ancora non lo è, ma poi potrà esserlo e lo sarà”. Dappoiché è nella natura immanente del Capitale stesso - per la sua totalità contraddittoria quale si palesa sul mercato mondiale unificato - che quella sua “unità” di classe, concettuale ed empirica, non possa giammai trasporsi in “unicità” di figure e forme di esistenza. Ci si soffermi appena un attimo a soppesare opportunamente il carattere virtuale dell’unicità dell’unità capitalistica, a partire dall’osservazione delle contraddizioni del conflitto di classe. Esse, oggi più che mai, si palesano attraverso la visibilità della dis-uguaglianza del rapporto di capitale, in quanto antagonistico. L’uguaglianza dello scambio salariale, non lo si dimentichi, si fonda proprio sul comando e sulla disposizione della altrui volontà, nell’uso della capacità di lavoro e pluslavoro altrui. E proprio dietro la manifestazione di tale uguaglianza formale si cela quel carattere duplice del rapporto di capitale, peculiare della riduzione a merce della forza-lavoro, che rappresenta il segno epocale che distingue in maniera esclusiva il modo capitalistico della produzione sociale. Ora, è precisamente questa forma dell’antitesi sociale che connota il Capitale, nella sua unità e in quanto tale, in contrapposizione al lavoro salariato. Ed essa verrebbe meno, lasciando il posto ad altre forme di relazione, immediatamente e formalmente dispotiche, qualora cessasse la

competizione tra i molteplici capitali particolari, ossia propriamente quella molteplicità medesima. Nessuno può negare che entrambe quelle condizioni costitutive sussistano ancora oggi. Anzi, esse crescono per estensione e forza su loro stesse. Certo, il problema che si pone agli osservatori - soprattutto a quelli antagonisti - è di non cadere nella confusione e nell’indistinzione che caratterizza i più, a causa delle forme mutate, e più contraddittorie, attraverso cui si rappresenta “lo stato della cosa”: sia dal lato delle modalità di lavoro, sia da quello del mercato mondiale di concorrenza tra monopoli transnazionali. E questo è ciò che conferma la capacità del capitale di imporre al lavoro sociale la dipendenza reale nella doppiezza di uguaglianza, libertà e in-dipendenza giuridico formale, e a se stesso in quanto altro da sé la “libera” concorrenza. Dunque, alla luce di queste categorie semplici, epperò molto difficili in quanto semplici, l’ultimo quarto di secolo della storia contemporanea riceve una lettura, in un divenire del processo dialettico non conchiuso, che altrimenti assai probabilmente non si riuscirebbe a dargli. L’avvio si può datare alla seconda metà degli anni sessanta, con l’eccesso di sovraproduzione americana. [È istruttivo notare che la crisi da sovraproduzione è riconosciuta dai tecnici aziendalisti ma non dagli “economisti illuminati” (come li chiamava Marx), blasonati o premi Nobel; per fortuna, di recente, almeno Sweezy si è ricreduto sulle cause e le origini della crisi mondiale, autocriticando la favola che tutti si sono andati raccontando sugli shocks petroliferi]. Ma una svolta significativa si maturò tra il 1974 e il 1976. Fu allora che l’imperialismo multinazionale, per bocca del suo massimo portavoce, Henry Kissinger, disegnò esplicitamente ciò che solo la “sinistra” non riuscì a capire, e forse neppure a leggere attraverso i documenti ufficiali scritti nero su bianco: il piano trilaterale di spartizione del mercato mondiale in base al Nuovo Ordine economico. Fu proprio su quella base che il capitale imperialistico transnazionale riuscì a eliminare senza pietà la capacità di lotta e l’identità stessa dei proletari. E al successo della controffensiva della borghesia mondiale è da attribuire un significato tanto più drammatico se si rammenta che all’epoca ancora risuonava l’eco di parole uscite stoltamente dalle bocche di cospicui dirigenti riformisti. Valga a esempio quanto suggerito dal “consiliori” di Berlinguer, per la sua relazione al congresso del fu Pci nel 1976. Secondo tale avventata opinione “la ricostituzione dell’esercito industriale di riserva oggi cessa di essere la via principale per superare la crisi”: a dispetto di cotanta sicumera, il tasso di disoccupazione a due cifre rimane ancora una realtà, fino ai quaranta milioni di senza lavoro nell’area Ocse, a cui si aggiunge la precarietà di lavoro di salario e di pensione per quasi tutti gli altri. Che tuttavia neppure tale controffensiva sia bastata è stato confermato dagli ultimi strascichi che si ebbero con i “fuochi” del 1989 per la conquista dell’Europa centro-orientale, quando ormai il proletariato mondiale, compreso quello dell’area del realsocialismo, era in rotta totale. Ma i tre attori principali del mercato mondiale capitalistico - gli stessi, o quasi, già indicati da Hobson e Lenin poco meno di un secolo fa: gli Usa, il Giappone e la Germania - dopo aver cancellato anche la pallida ombra dello spettro che si aggirava ancora per l’Europa, avevano bisogno di stringere i tempi per dettare le regole dello

scontro. Il regolamento di conti perciò veniva spostato sempre più chiaramente all’interno della tripolarità imperialistica. Tuttavia, il significato di “interno” - in un mercato mondiale capitalistico unificato - non è di tipo geo-politico, come può apparire alla superficie delle mode globalizzanti e sistemiche [una cui critica sarà precisata più avanti], ma pertinente alle categorie storico-economiche. In effetti, fin dall’inizio dell’ultima crisi dell’era americana, appunto un quarto di secolo fa, lo scontro interimperialistico - per la sua stessa definizione transnazionale - non poteva limitarsi al confronto diretto tra i tre poli dominanti. Il loro raggio d’azione attraversa dunque l’intero mercato mondiale, provocando sempre più spesso situazioni di collisione indiretta. Gli è che i signori del pianeta non possono (ancora) permettersi che una eventuale collisione diretta travalichi la dimensione economica, commerciale, ambientale, ecc., assumendo caratteri militari non mediati. È così che la loro falsa concordia e collaborazione reciproca mira con urgenza a tradursi in reale accordo sulle nuove forme di comando sul lavoro. Ma con la peculiarità dell’epoca contemporanea questo comando lo si offre con un’immagine di solidarietà neocorporativa tra le classi sociali, all’interno di ciascun paese e nel mondo intero. Tuttavia, le cose non stanno realmente così come appaiono, nel mercato mondiale dell’imperialismo transnazionale. Esso, sotto il segno del declino Usa, è pesantemente attraversato dalle “classiche” contraddizioni del capitale: in questa fase, si è detto, più quelle interne alla classe dominante che non quelle tra le classi, che delle prime hanno la possibilità, spesso perduta, di diventare momento di amplificazione, rovesciandosi ulteriormente su quelle come loro detonatore. Ma la sinistra, anche quella di classe, esita a cogliere simili occasioni destate precisamente da quelle contraddizioni del capitale che l’ideologia borghese nega, nasconde o lascia fraintendere. Infatti, il grande - e anche il solo - successo del capitale mondiale negli ultimi quindici anni è consistito proprio nella rammentata capacità di spezzare provvisoriamente la forza della classe antagonistica, sconfiggendola ovunque, e annullandone coscienza e identità. Ma codesto, appunto, è per ora l’unico vero successo del capitale nella fase della sua più prolungata e profonda crisi di questo secolo - e forse della sua intera storia moderna. L’occhio dentro il triangolo L’attuale forma tripolare del potere imperialistico - con le sue ricorrenti espressioni di conflittualità (non solo) economica tra capitali, stati, nazioni - indica tuttavia la misura in cui quei tentativi di risoluzione non si siano compiuti. Si è accennato come codesta “tripolarità” sia stata a lungo ignorata - soprattutto dall’intellighentsia, di destra o di sinistra poco importa, che preferiva trincerarsi dietro la meschina reiterazione della tesi dello scontro politico militare tra le due superpotenze, americana e russa. Nondimeno, codesta forma di aggiustamento del potere imperialistico fu chiaramente annunciata dalla grande borghesia multinazionale come l’evento di grande momento degli anni settanta, quale segno tangibile di quella conflittualità. Tale forma - di fase - dello schieramento

internazionale fa sì che i disagi economici e sociali, e la conflittualità corrispondente, possano prendere corpo e manifestarsi negli elementi deboli entro la totalità del mercato mondiale: rappresentandosi, per così dire, in scontri “per interposta persona”. I casi estremi, allora, sfociano in conflitti armati circoscritti, cosiddetti di debole intensità. Esemplare, da decenni, è lo snodo del golfo persico, tra confine exsovietico, medioriente e questione israelo-palestinese, con capovolgimenti di fronte e di alleanze, attraverso Egitto, Siria, Giordania, e ancora prima la “guerra delle città” Iran-Irak, poi Irak-Kuwait, sempre palestinesi e kurdi, ancora Irak-Iran, e così via, fino al “cerchio del Caucaso”. Il rimescolamento delle alleanze e degli schieramenti è continuo, con il solo fine di rendere più “debole” non già il conflitto ma l’avversario di turno. I contendenti in campo (i subalterni, soprattutto) appaiono solo come simulacri dei veri protagonisti dello scontro: laddove chi dice Baghdad vuole solo che Bonn o Tokyo intendano, e dove quindi gli “alleati” ufficiali sono sovente i nemici veri. E qualora un confronto diretto non sia reputato opportuno e conveniente, l’esperimento “libanese” può essere riproposto come soluzione di transizione: di ciò si tratta nella replica jugoslava di quell’esperimento. Nell’attesa di tempi più consoni per la ripresa del ciclo di accumulazione del capitale su scala mondiale, i simulacri offerti da razze, etnìe, nazionalità, religioni, sono pezzi di ideologia bell’e pronti per scatenare conflittualità sanguinose in nome delle diverse appartenenze fideistiche e integralistiche. Dai Balcani al Caucaso alle regioni centronordorientali dell’Europa, per non dir delle metropoli Usa, è tutto un fiorire di simili provocazioni. D’altronde, già vent’anni fa - come si preciserà meglio più avanti - si sarebbe potuta prestare maggiore attenzione al dispotismo militaristico della strategia kissingeriana che postulava la necessità di quei conflitti interni di “debole intensità”. Si sarebbe vista tempestivamente la tendenza verso la lacerazione sociale interna e il dissolvimento dei vecchi stati nazionali deboli, sempre più sottoposti a controllo stringente da parte dell’imperialismo transnazionale. E, assieme a codesta tendenza alla disgregazione delle vecchie formazioni nazionali, il ritorno pretestuoso e falsificatorio, in chiave post-moderna (o sur-moderna, come amerebbero forse ora dire i più à la page), a conflitti mascherati come sub-nazionali, regionali ed etnicoreligiosi. Se quegli eventi oggi accadono quotidianamente, non si trattava ieri o ier l’altro di una “profezia”: il nostro povero globo è di cristallo solo per la sua fragilità. Bastava un’attenta lettura critica della realtà annunciata. Stupirsi oggi di ciò, e indignarsene, è curioso e preoccupante. Ciò che unifica provvisoriamente il disegno contraddittorio del nuovo ordine mondiale, perciò, è ancora solo la capacità di provvedere a una continua e crescente intercambiabilità degli schieramenti che si confrontano. In una sorta di “torneo”, i cavalieri mandati in campo dai loro prìncipi sono chiamati a scontrarsi a turno l’un contro l’altro armati, senza che ciò precostituisca alleanze fisse e definitive. Che ogni volta vinca il “migliore”, in un gioco al massacro senza fine: i capitalisti dei monopoli finanziari transnazionali - nuovi allibratori delle guerre locali e civili - accettano scommesse! Qui l’hobbesiano tutti contro tutti, però, trova una sorta di “regolazione” sovranazionale, con arbitri (Onu, Nato, Csce) e revisori di conti (Fmi, Bm, Omc ex

Gatt), dove i cavalieri in guerra devono attendere pazientemente e diligentemente il loro turno per scendere in lizza: cosicché possano ricevere l’occasionale sostegno, a rotazione, da parte dei mandanti (diversi e uguali a un tempo), secondo le ferree leggi dell’economia mondiale del mercato dei capitali. Il vero, l’autentico tutti contro tutti, è ancora una volta riservato, dai potenti della terra, al massacro e alla “guerra tra poveri” sull’intero pianeta. Si è infatti già anticipato - a livello teoretico “semplice” - che il reale grande problema attuale dell’imperialismo transnazionale consiste proprio nel non riuscire a stringersi in un polo unico. Né, verosimilmente, potrà mai esserne capace, in quanto capitale. La contraddizione intrinseca al capitale stesso è proprio questa: non poter ridurre all’uno il molteplice. Di qui procedono tutti i suoi tentativi di risoluzione delle proprie contraddizioni, per porre via via nuovi fondamenti al suo stesso modo di produzione. Al nuovo ordine mondiale del lavoro è dunque affidato il compito di rovesciare le contraddizioni interimperialistiche sui proletari di tutti il mondo, coartando il loro stesso consenso. In ciò rientrano le ricordate tendenze concilianti e consociative, che si risolvono nel corporativismo vecchio e nuovo; fino a una possibile fuga, in prospettiva lunga, al di là dello stesso modo capitalistico della produzione sociale, verso una nuova forma classista di società dispotica e autocratica. L’attuale fase della tripolarità, tuttavia, nella misura in cui il nuovo ordine mondiale del lavoro si consolidi, è già capace di costruire e mostrare interconnessioni reali tra segmenti e comparti del capitale finanziario industriale attraverso i tre poli stessi. Nell’attuale forma di scomposizione e articolazione del ciclo di produzione e lavoro su scala mondiale, si osservi che ben più della metà dei cosiddetti beni intermedi e semilavorati dell’industria manifatturiera delle tre principali aree imperialistiche del mondo ha ormai, reciprocamente, una provenienza d’origine, diretta o indiretta, esterna. Il “triangolo” mondiale è percorso trasversalmente da flussi di capitale - denaro, elementi produttivi e merci - i cui interessi particolari e locali torcono e rompono i lati del triangolo medesimo. Così, i suoi stessi angoli si smussano e tendono piuttosto a inscriversi in un cerchio. Nella misura in cui il grande capitale monopolistico finanziario transnazionale addivenga, attraverso il nuovo ordine mondiale del lavoro, a siffatta forma di mediazione delle proprie contraddizioni interne, una nuova fase di ripresa dell’accumulazione su vasta scala e di “stabilità” capitalistica non è impossibile. Del resto, la stabilità politica economica è il presupposto sociale per l’accumulazione di capitale; tant’è vero che la borghesia la richiede (l’impone o l’accètta) sotto forma di “governabilità” senza badare troppo per il sottile al “colore” dichiarato del governo. Purché sia “stabile” qualsiasi governo capace di esercitare controllo sociale sulle masse proletarie va bene, da Pinochet a Marcos, da Jaruszelski a Deng Tsiao-ping, qualsiasi dispotismo è sostenuto, ma soltanto finché si mostri in grado di garantire la “pace sociale”, ossia la pax capitalistica [per questo motivo la grande borghesia internazionale considerava un Craxi più “affidabile” di un Berlusconi, inadempiente proprio sotto questo riguardo]. Nelle forme in cui si è maturato lo sviluppo della crisi - tra le diverse manifestazioni di supposta risoluzione della contraddizione, dopo quest’ultimo quarto di secolo - si sono perciò venute prospettando due tendenze, contrapposte ma entrambe necessarie.

L’una centripeta, tendenzialmente unificante nella prospettiva sovranazionale del capitale mondiale; l’altra centrifuga, ma all’interno della prima, strutturalmente articolata nel contesto concorrenziale dei capitali particolari.

Il cerchio intorno al triangolo La costruzione del nuovo ordine mondiale corporativo si va consolidando, includendovi ora anche l’area dell’ex-realsocialismo, che se oggettivamente è quasi sempre stata parte integrante del mercato mondiale, tuttavia per troppo tempo lo è stata in forma anomala e ridotta. Da un lato, dunque, la tendenza perseguita mira a un processo considerato come universale; la sua effettuazione, però, non può che verificarsi attraverso àmbiti locali e nazionali, attraverso grandi riforme istituzionali (nel migliore dei casi) o guerre regionali (nel peggiore). D’altro lato, non si estingue tuttora la conflittualità tra i molti capitali sul mercato mondiale; è una conflittualità per molti versi ancora latente, se pur crescente, e ancora abbastanza lontana, come si è detto, da una risoluzione che possa essere significativa di una qualche stabilità. Tale contraddizione tra universalità e conflittualità dei capitali finanziari transnazionali non può che essere mediata - se del caso, anche con la forza - da quella tra stati nazionali. Ecco allora che codesta contraddizione, immanente alla conflittualità interimperialistica tra i “tre poli”, si mostra parimenti, al contrario, nella ripresa di un incessante incrocio dei cosiddetti Ide [investimenti diretti all’estero] da parte dei principali capitali transnazionali; e tale processo avviene non solo e non tanto verso le differenti aree dominate, quanto e più in direzione delle basi di provenienza degli altri capitali concorrenti. Il nuovo ordine mondiale, proprio attraverso la sua forma storica strategica di nuovo corporativismo, tenta perciò una sintesi nell’unificazione del mercato mondiale. Sintesi che - in mancanza dell’impossibile soppressione della molteplicità capitalistica - provi almeno a surrogare, regolandola e impedendola realmente, l’internazionalizzazione del proletariato a esclusivo vantaggio dell’internazionalizzazione del capitale. Questo è l’ultimo vulnerabile tentativo di accordo tra i capitali in lotta, per rinviare ulteriormente il loro scontro tra “fratelli nemici”. Si tratta ancora di un processo aperto, che si è svolto a tappe: proprio a partire da quella lunga ultima crisi irrisolta avviatasi in Usa alla metà degli anni ‘60 che, non per caso tra le altre conseguenze, causò anche il rinvio dell’unificazione europea. E di nuovo non fu un caso che la controffensiva imperialistica della metà degli anni ‘70 fosse, sul piano politico, in prevalenza ancora americana. Si è rammentato che Kissinger riformulò per la prima volta nel secondo dopoguerra la parola d’ordine corporativa del Neue Ordnung mondiale. Ma, in termini economici produttivi, tale disegno già consolidava la ristrutturazione di stile “giapponese” del processo lavorativo. La redistribuzione di rapina monetaria degli anni ‘80: a questo in realtà si riducono i fasti del reaganismo! A cominciare dall’esportazione del credito che creò il problema del debito estero, si è passati a quella “esportazione interna” di capitale - per dirla con Grossmann - che è stata la speculazione monetaria e borsistica. Ciò, ovviamente, non pose le condizioni per

risolvere la contraddizione: cosicché, da ultima, all’avvio degli anni ‘90, fu tentata la soluzione finale della guerra fredda e dell’anomalia realsocialista. Si osservi che i “fatti” di questa storia venticinquennale della crisi irrisolta indicano chiaramente anche le categorie della crisi, da cui emergono gli elementi di conflittualità tra i tre poli imperialistici: sovraproduzione, caduta del tasso di profitto, concorrenza, segnarono gli anni ‘60; arresto dell’accumulazione, riproduzione dell’esercito di riserva, in tutte le sue forme, soprattutto stagnante (e non solo della disoccupazione in senso keynesiano), precedettero la ristrutturazione della seconda grande rivoluzione industriale, a partire dagli anni ‘70; centralizzazione finanziaria ed espropriazione dei capitali e dei redditi dispersi (del cosiddetto risparmio) caratterizzarono il monetarismo degli anni ‘80; spartizione e allargamento del mercato mondiale, infine, furono la conseguenza che si protrae nelle forme della guerra economica, a segnare l’avvio degli anni ‘90. Le contraddizioni tra Giappone, Europa e Usa si estendono alle rispettive aree di influenza, asiatica, europea e americana, attraverso un’estenuante ricerca di mediazioni per non vanificare i ricordati interessi incrociati dei grandi gruppi transnazionali. Qui rientra il contenzioso mediorientale, la contraddizione “islamica”, la “carta cinese” giocata per truccare la partita col Giappone (in tutta l’area asiatica del Pacifico), la normalizzazione dell’America latina, la “fiera dell’est” dai Balcani al Caucaso, la riconquista dell’Africa. C’è forse ancora chi pensa che sia per fortuita coincidenza che gli investimenti giapponesi abbiano preso le distanze dal medioriente verso nuovi sbocchi in Africa centrale e che subito le armate yankees siano sbarcate in Somalia, e si sia cercato di fomentare disordini in diversi paesi africani, dalla Liberia al Ruanda, all’Algeria? Nel frattempo l’Onu predica investimenti diretti nel terzo mondo, anche come antidoto contro i “rischi” delle migrazioni verso i paesi imperialisti. Ma tutto ciò non basta a esorcizzare l’effetto boomerang che gli improvvidi capitalisti hanno attirato su loro stessi. Solo per cercare di sopravvivere qualche anno di più, hanno demolito le fonti di produzione (e, provvisoriamente, anche gli sbocchi di mercato) dei paesi dominati. In contrasto con le teorie nazionalborghesi di derivazione “terzomondista”, l’analisi marxista indica come, con un apparente paradosso, l’imperialismo abbia semmai mancato di sfruttare capitalisticamente i paesi dominati. La colpa storica maggiore del capitale, infatti, è di aver saccheggiato e depredato - come giacimenti di materie prime e manodopera - quelle aree del mondo, senza imprimere loro un reale sviluppo industriale. Laddove esso ha operato effettivamente - l’Inghilterra negli Stati Uniti il secolo scorso, gli stessi Usa in Giappone nel secondo dopoguerra, ecc. - il modo di produzione capitalistico ha trasformato realmente la potenza dei paesi destinatari degli investimenti diretti. Oggi, dunque, a chi ha distrutto anche la propria base produttiva, come gli Usa, non resta che passare alle minacce a mano armata. Ma se New York piange, Berlino e Tokyo non ridono. Forti perdite di produzione per mesi consecutivi per le loro principali industrie, disavanzi interni crescenti dell’ordine di decine di migliaia di miliardi di lire, sia in Germania sia in Giappone, testimoniano di questo stato di grave e perdurante conflittualità. La battaglia scatenata dalla Germania riunificata sui mercati valutari è lo specchio deformante di codeste circostanze complessive. E se la

guerra economica non riceve (ancora) la forma di una corrispondente risposta a mano armata, è perché quegli altri due contendenti devono finire di assestare le forze in campo rispetto alla potenza bellica Usa: se non per “combattere”, quanto meno per ricreare quella forma di “deterrente” contro il monopolio militare yankee che per quasi quarant’anni era stato assicurato dall’Urss che fu. Su queste basi, il processo continuo di conflittualità irrisolta genera il protezionismo delle legislazioni antimonopolio e commerciali, in chiave di difesa dei capitali provenienti dalla propria base nazionale. Le contraddizioni interimperialistiche si presentano, così, mediate dalle contraddizioni tra stati nazionali. Quando i bollettini di borsa lamentano il precario stato di salute dell’economia, ciò vuol solo dire che mancano ancora le condizioni per il riassetto generale dell’accumulazione mondiale. Ovvero, per meglio dire, quando i padroni sollevano in codice il falso problema della mancanza di “risparmio”, facendo intendere che il denaro si sperda per altre vie, nei “buchi neri” dei bilanci statali, significa in chiaro che i tempi e i modi per la ripresa della produzione di plusvalore risultano ancora inadeguati. In effetti, dal quadro per più versi contraddittorio, che si muove intorno alla declinante e perciò oggi più feroce pax amerikana, emerge con lampante evidenza quale sia l’unico collante economico, sociale e politico a disposizione temporanea dell’imperialismo transnazionale. Parafrasando e generalizzando il motto di successo del capitale giapponese – “il pieno controllo dell’impresa sul sindacato” - è solo con il pieno controllo neocorporativo sul consenso popolare del proletariato che il disegno del Nuovo Ordine imperialistico mondiale può avere successo. Si può ripartire di qui, restituendo alla questione internazionale lo spessore che le compete e che, oggi per la prima volta nella storia, è legittimato dall’unificazione del mercato mondiale: un’unificazione che è concomitante con il declino dell’“impero americano d’occidente” e con il corrispondente crollo dell’”impero russo d’oriente”, in uno con l’avvicendarsi dell’“impero tedesco di centro” e dell’“impero giapponese d’estremo oriente”. Dopo un giubileo di sviluppo postbellico, sembra quasi impossibile che oggi si abbia già alle spalle un periodo altrettanto lungo di crisi. I vantaggi del piano Marshall, del programma MacArthur e della guerra di Corea, nelle more della guerra fredda, sono stati tutti consumati, assorbiti ed evacuati: nel senso che è stato quel complesso di eventi promossi dagli Usa ad aver dato slancio agli imperialismi rivali, tedesco-europeo e giapponese-asiatico. Negli ultimi 20-25 anni, di contro a un 2-2,5% del ritmo medio annuo di sviluppo in Usa, si è avuto un 2,53% per la Ce e un 4-4,5% per il Giappone. E la crisi che colpisce anche questi ultimi non comporta un vantaggio per l’area americana, che anzi accentua il suo declino. La media mondiale nella lunga fase di crisi è scesa a una media inferiore al 3% (circa la metà del ritmo di grande sviluppo postbellico dei primi 20-25 anni), nonostante il recente apporto dei cosiddetti “paesi di nuova industrializzazione” [nic’s]. Nella definizione della nuova divisione internazionale del lavoro che impone dimensioni crescenti su scala mondiale, in un perdurante processo di fallimenti assorbimenti e fusioni, l’imperialismo Usa ha ceduto dunque molto potere: almeno in senso relativo, nonostante il processo di centralizzazione che ha caratterizzato la fase. In un decennio gli Usa, dai primi tre posti che detenevano nella graduatoria mondiale

delle banche, sono scivolati in dodicesima posizione, lasciando il primato a dieci banche giapponesi. Pur se in misura attenuata, gli Usa hanno dimezzato la propria presenza e peggiorato la graduatoria anche tra le prime venticinque imprese industriali. Il precipitare del dollaro a un terzo circa del precedente livello di contro al marco e allo yen negli ultimi dieci anni - fenomeno del quale le vicende delle altre valute, sterlina, franco e lira soprattutto sono semplici conseguenze - è l’“immagine luminosa e riflessa che abbaglia l’occhio”, direbbe Marx, tipica della forma monetaria delle vicende del capitale. Ma tale immagine rappresenta a dovere il carattere di “conflittualità trasversale”, e in qualche modo guidata, che inviluppa il triangolo delle aree imperialistiche principali nel ferreo cerchio del mercato mondiale unificato. Di qui il sensibile mutamento dello “Stato della Cosa”, ossia le rinnovate, ma non soppresse, funzioni nazionali dello stato del capitale entro questo mercato mondiale ancora magmatico e relativamente fuori controllo. Il sogno liberalsocialista della “superbanca dell’ultraimperialismo”, ovvero lo speculare incubo operaista del “piano del capitale”, si mostrano per ciò che sono: conseguenze di pericolose sbornie teoriche politiche. È più saggio, allora, guardare alla Cosa e al suo Stato per quello che realmente oggi sono e, soprattutto, al loro rapido divenire. Ciò significa guardare alla “trasversalità” dei capitali entro le diverse aree, cosicché la loro conflittualità non appaia solo nella dimensione territoriale nazionale. Assumono perciò rilievo anche le posizioni derivanti da differenti competenze e interessi strategici in ciascuna area, con conseguenti possibili alleanze o scelte comuni tra capitali provenienti da aree diverse. [Un rilievo sul quale è assai probabile che la sinistra di classe arrivi ancora con un buon decennio di ritardo, come sulla ricordata tripolarità dell’inizio della fase di crisi]. È ovvio che un tale attraversamento del triangolo imperialistico, già inscritto nel cerchio mondiale, comporti di necessità una corrispondente scomposizione delle dinamiche politiche nelle funzioni e negli schieramenti degli stati nazionali che prevalentemente stanno dietro ai diversi capitali transnazionali interessati. Una differenza profonda si manifesta nelle forme e nelle fasi del dominio imperialistico, tra l’epoca britannica e quella successiva americana, concretizzatasi dopo le due vittorie belliche del fronte guidato dagli Usa. Essa sta proprio nello slittamento della dimensione e del criterio di riferimento, dalla centralità nazionale alla scala mondiale. Non che l’espansionismo britannico - con le forme aggressive del suo militarismo e della sua pax, così bene analizzate già da Hobson novant’anni fa - non avesse portata internazionale. Ma il processo di produzione si presentava come dominio diretto che abbisognava della mediazione di un controllo statuale, per così dire attivo, con cui il capitale tendeva a coincidere: per allargarsi muovendo dall’interno di un limite territoriale nazionale. Oggi, invece, la produzione di livello mondiale è quella che i tecnici dell’organizzazione industriale chiamano appunto world class manufacturing. Essa si presenta nella forma immediata del capitale transnazionale, svincolato formalmente dai vincoli statuali e integrato su scala planetaria. O meglio: i vincoli sono quelli posti e determinati dal capitale stesso per servirsi spudoratamente dell’apparato finanziario, fiscale e militare dello stato. Di tale apparato esso ha ancora grande necessità, anche nelle sue forme nazionali, ma dopo

che lo abbia reso in tal modo passivo e subordinato direttamente a sé senza bisogno dei vecchi orpelli.

II. PER UNA CRITICA DELLA CONCEZIONE SISTEMICA DEL MONDO

Stato, nazione, classe e modo di produzione L’aforisma brechtiano, posto in apertura a mo’ di “occhiello”, è più esauriente anche in termini scientifici, del socialismo scientifico, si intende - di quanto possa apparire a una prima lettura, gradevole e avvincente. L’introduzione del termine “popolazione” per un uso comune, materialistico e adeguato al divenire del processo storico, evita “quel che di artificialmente unitario simulato dalla parola "popolo"”. Nello stesso tempo fornisce quella base oggettiva, reale pratica, che invece si dilegua allorché si passi a discorrere di nazione. “Nazione” non è propriamente un concetto per carenza di quella semplicità che dovrebbe appartenere a questo - ma piuttosto, e solo se ben formulato, potrebbe far pervenire a un giudizio. Se, nella lezione brechtiana del marxismo, “nazione” sta a significare la determinata forma statale di una popolazione, molti equivoci su quella parola e sul suo rapporto con la categoria “stato” vengono meno. L’affermazione che indica come gli interessi di una siffatta nazione, ovverosia dello stato nazionale, non siano quelli del popolo assume così un significato evidente di per sé, e che richiede solo alcune precisazioni essenziali. Dunque, la forma di stato è posta in divenire, sulla base materiale di una determinata popolazione, conformemente al modo di produzione dominante con il quale tale popolazione riproduce le proprie condizioni di vita. Engels e Marx perciò chiamarono anche modo di vita della società quel processo di riproduzione che dominava entro una determinata forma economico sociale: forma, o formazione, che è gerarchicamente composta di differenti modi di produzione. Dunque, “modo di produzione” è concetto fondamentale della storia umana e categoria portante del marxismo, tale da non rabbassare l’analisi a sterile rappresentazione “economica” della totalità reale. Né, tanto meno, può svilire la base strutturale, su cui di certo si fonda l’intero edificio sociale e politico, a mero “determinismo” o “meccanicismo” o, ancora, “economicismo”, come taluni vorrebbero. Alcuni dei quali, i più, l’intendono per disfarsi artatamente del marxismo; ma altri lo fanno anche con la presunzione di “corroborare” e “approfondire” una, da loro, pretesa insufficiente lettura del marxismo stesso. La configurazione della società, modulata attorno ai concetti di modo di produzione e modo di vita quali categorie del reale concreto, è pertanto significata dalla specificità dei rapporti di proprietà: dunque dalla particolare struttura di classe che li rappresenta, e che la determinata forma statale è preposta a garantire e perpetuare. Il modo di produzione, come categoria portante in generale, e quello capitalistico come sua determinazione storica (per ciò che qui più interessa), è la base materiale ricca di tutti gli elementi necessari per indagare e discorrere sul divenire dialettico della totalità sociale, in ogni suo aspetto e nel suo complesso [la “complessità” non l’hanno inventata i sistemici postmoderni!]. Senza una tale base

materiale di partenza ogni altro discorso sulle questioni dello stato e, ancor più, della nazione rischia di avvitarsi in una incessante sequela di petizioni di principio, o di scatole vuote riempite di volta in volta, secondo le circostanze, con materiale storicamente e socialmente inerte. L’argomentazione secondo cui sarebbe lo stato (moderno) l’elemento determinante della nazione, e non viceversa, può bensì essere empiricamente verosimile, se non proprio vera. Nondimeno essa rimanda alla determinazione dello stato stesso: e di qui ulteriormente, per la definizione di nazione - giusto l’aforisma brechtiano - a quella di popolazione, e poi ancora di produzione, riproduzione, proprietà, classi, ecc. La prima constatazione fattuale che indiscutibilmente discende da ciò è che lo stato nazionale borghese sia tale in quanto politico (essendo la sua componente etnica del tutto subordinata in questo primo contesto). Tuttavia, una simile constatazione è, appunto, nulla più che una “constatazione”. Gli elementi che la caratterizzano sono infatti tutti da definire nei loro fondamenti, ossia nel processo contraddittorio che li ha posti in essere. È di codesto processo contraddittorio che merita dare contezza. La riflessione non può continuare ad aggirarsi in quelle indeterminatezze, e non può che risalire al processo storico che determina e pone le categorie nel senso sopra indicato. [Qui si parte, per tale riflessione, da recenti analisi e dibattiti che hanno quali protagonisti studiosi come Hobsbawn, Balibar, Wallerstein, Gallissot, Gellner, Haupt, e altri - sulla base di alcune considerazioni svolte in diverse sedi da Andrea Catone, di cui si condividono i criteri espositivi dei diversi punti di vista, e per le quali si rinvia alla nota finale]. Prendere l’avvio del ragionamento dall’argomentazione della subalternità di nazione a stato, anziché arrivare a essa, non può voler dire che sia lo stato a definire la nazione - come alcuni vorrebbero - al punto da ritenere che “nazione” al pari di “stato” pertengano solo alla tassonomia sociale della modernità. A meno di rabbassare il significato stesso di “definizione” a una banalità tautologica: dicendo, come di fatto vien detto, che la nazione moderna è ... moderna, perché connessa solo allo stato che la racchiude entro limiti precisi, essendo lo stato stesso un istituto specificamente ... moderno; quindi dicendo che nazione e stato sono termini di riferimento addirittura inesistenti prima della modernità stessa, e perciò stesso inconfrontabili con le omologhe forme antiche appunto in quanto ... diverse! Sembra infatti di poter ravvisare nella concezione proposta da simili autori il vizio strutturalistico e funzionalistico di ricondurre tutto - in questo caso la forma e il carattere stesso della nazione e dello stato - a un sistema predefinito: un sistema che si suppone trovato bell’e pronto e non posto, cioè a una struttura chiusa in sé in forma autodefinitoria e autoreferenziale. Una siffatta struttura sistemica si presenta perciò, anche in questo caso, senza connessione e transizione rispetto alle forme che l’hanno preceduta, e verosimilmente anche rispetto a quelle che la seguiranno. Essa, priva di contraddizioni intrinseche e perciò priva di movimento reale, è senza divenire storico e senza dialettica sociale. Perciò è costretta a simulare quella carenza di movimento con la giustapposizione estrinseca ad altre “strutture” - altri “stati-nazione” - che confliggono con essa. Pertanto, una simile rappresentazione anchilosata del processo reale risulta mutilata della duplicità della forma del processo stesso. Si tratta di una “forma” la cui rilevanza non accidentale è sovente trascurata, e che in ogni sua

determinatezza è materiale-naturale e storico-sociale a un tempo. È ovvia conseguenza di ciò, allora, che senza una tal base le contraddizioni immanenti a qualsiasi organizzazione sociale vengano occultate, e surrogate con opposizioni per incompatibilità, eterogenee ed empiriche, dunque tanto possibili quanto non necessarie. Senza duplicità e contraddittorietà il processo non è più tale, la storia si ferma e non opera, essendo ridotta a mera successione di fatti. La separatezza endogena di strutture giustapposte impedisce qualsivoglia connessione di continuità-discontinuità, qualsiasi salto di qualità e metamorfosi. Le forme storiche sono date e non mutano, semplicemente si avvicendano poiché non c’è, né può esserci, alcuna trasformazione. Non stupisce, pertanto, incontrare simili teorie dello stato e della nazione, dal momento che esse hanno il loro riferimento metodologico e categoriale nelle interpretazioni economiche sottostanti. Ed è quello di cui qui si discute precipuamente. In ciò consiste il risalire al concetto di “modo di produzione” a partire dall’evidenza più politicamente aconcettuale, giacché empirica, di “formazione economica sociale”: cosicché l’una possa riconnettersi all’altro. In effetti, quelle teorie hanno il loro parallelo nell’appiattimento della duplicità del lavoro, della merce, delle macchine, ecc.: anche lì “forma” utile o concreta e “forma” di valore o astratta vengono identificate, senza alcuna mediazione. L’aspetto materiale, proveniente dalla natura, e quello sociale, confluente oggi nel capitale, perdono il loro comune riferimento a una medesima unità contraddittoria. E lo perdono allorché si ponga direttamente la “definizione” del primo livello alla esclusiva mercé del secondo, quello come mera “appendice” di questo, privando il primo della sua stessa identità e il secondo della sua storia, entrambi della loro reciproca contraddittorietà. Che in simili paradigmi interpretativi l’inclusione, sotto l’egida dello stato, della nazione, già divenuta anziché in divenire, sia data per presupposta è alla radice della confusione teorica politica. E tale confusione è allora altrettanto ovvia, a saper ben vedere e per proseguire nel paragone basilare di prima, del voler imputare la mortificante “sparizione” del valore d’uso nel valore di scambio: e non già, come ha da essere, sussunzione dell’uno all’altro entro una medesima totalità contraddittoria che conservi intatta la polarità duplice dei suoi elementi costitutivi. È tale polarità che li rende capaci di muoversi l’un contro l’altro, superandosi dialetticamente entrambi e trasformandosi insieme con la totalità stessa. Un simile processo è impedito nella raffigurazione sistemica dello stato-nazione. Dunque, nel rammentare la tautologia sulla “modernità” dianzi illustrata in relazione al tema in esame, viene anche da stabilire qui una significativa corrispondenza epistemologica. Un’altra balzana idea è sovente prospettata in ambito strutturalistico, secondo la quale si vorrebbe che il “lavoro” sia così definibile solo nella società capitalistica: poiché il lavoro, si dice dopo averlo già presupposto come salariato, è solo quello ... salariato; non è così chiamata “lavoro” alcuna altra attività rivolta alla complessiva produzione sociale. Dal che i medesimi teoristi deducono che l’”economia” sarebbe il principio integratore della società solo nell’epoca moderna capitalistica borghese, attribuendo ad altre epoche storiche la prevalenza del mito, della religione, dell’arbitrio, ecc., senza indicare donde questo mito, religione, arbitrio, provengano.

Il risultato di ciò è che la centralità della produzione venga soppressa nel suo divenire e la categoria di modo di produzione svuotata nel suo operare storico, in quanto ridotta a mera clausola classificatoria di diverse realtà “diacroniche”. Qui si annida un insidioso escamotage delle interpretazioni strutturalistiche, funzionalistiche e sistemiche. Esse, infatti, a differenza di formulazioni meramente ideologiche e non materialistiche, impiegano elementi fondati su un certo materialismo immediato, mutuando così anche “categorie” e “concetti” - epperò resi, per così dire, aconcettuali - del marxismo. Cosicché ciò che appare presente nelle diciture di codeste interpretazioni [come “modo di produzione capitalistico” e via scimmiottando] non funzioni con le proprie specifiche peculiarità, ma costituisca piuttosto un ornamento del discorso.

Nazione come falsificazione delle classi A questo punto, non stupisce neppure che alla ripetuta affermazione, da parte della scuola liberale, di una mancanza di teoria marxista dello stato faccia da doppio la critica strutturalistica di una mancanza di teoria marxista della nazione [pur se nella versione datane da Balibar il discorso è un po’ più articolato]. Allora, il fatto che in Marx non vi sia una riflessione specifica sullo stato nazionale non è, forse, da attribuire a un’incertezza, e perciò da vedere come una lacuna da colmare, quanto piuttosto a una precisa conseguenza dell’analisi di classe. Le differenze di forme organizzative, peraltro poi ampiamente indicate ed empiricamente spiegate, degli stati nazionali sono in prima istanza irrilevanti, nella misura in cui tutti “poggiano sulle basi della moderna società borghese, che è soltanto più o meno sviluppata dal punto di vista capitalistico” [come si legge nella Critica al programma di Gotha]. Un risultato, solo apparentemente paradossale, è ottenuto dalla critica di derivazione strutturalistica, nella sua pretesa di attaccare le posizioni “naturalistiche” di nazione, in nome di una determinazione sociale economica. Si ottiene infatti il risultato di riportare proprio la “nazione” a un ruolo protagonista (magari come “eroe negativo” della sua narrazione), all’interno di un sistema-mondo di “stati-nazione” o di “nazioni-stato”. Quella struttura sistemica è ordinata geopoliticamente tra centro e periferia, nord e sud, ecc., obliterando così proprio quella determinatezza economica sociale che si pretende di indicare come termine di riferimento. Così facendo ne rimane pure occultata la determinazione storica. Ignorandone il superamento dialettico della base materiale naturale - in quanto quest’ultima si estrinsechi, in forme epocali diverse, nel succedersi dei modi di produzione nella storia - svanisce pure la storia come storia delle lotte di classe. In questa disamina degli equivoci possibili sul rapporto tra stato, nazione, classi e modo di produzione, è rivelatrice di una “verità” nascosta la posizione di Wallerstein. Non è un caso che questo autore debba necessariamente giungere a “incartarsi” logicamente. Egli è costretto dai suoi stessi presupposti a dire che, non solo le nazioni, ma perfino le classi sono definite dagli stati. “L’attuale struttura di classe o di gruppi etnici è la conseguenza della creazione degli stati moderni. Gli stati sono le unità politiche base dell’economia-mondo, unità definite e circoscritte dalla loro

collocazione nel sistema interstatale, che ha funzionato come la sovrastruttura politica in evoluzione nell’economia-mondo ... Classi e gruppi erano cioè definiti da chi occupava il centro delle strutture statali (e il centro del sistema-mondo inteso come un tutto)”. Le parole chiave sono state qui appositamente evidenziate per poterne meglio esaminare il sillogismo perduto - con buona pace del vecchio Aristotele. Dunque: dove va la logica? Se gli stati moderni definiscono le classi, da chi sono definiti a loro volta? Sono unità-base dell’economia-mondo, dice Wallerstein: qualcosa di primordiale allora? No, è dato capire, perché sono definite dal sistema interstatale. Con il che Wallerstein ci fa sapere che un sistema interstatale è presupposto a qualunque sistema statale: mistero. E, mistero nel mistero, codesto sistema interstatale è identificato come una sovrastruttura (altra parola incautamente mutuata dal marxismo). Di quale struttura? Ma dell’economia-mondo, ça va de soi! Ecco allora che, in conclusione, si è tornati a mordersi la coda nella sistemica e strutturalistica economia-mondo, affatto priva di concetto e vuota di contenuto, giacché presupposta; in cui peraltro le classi e il modo di produzione che le connette non hanno la possibilità, neppure logica, e forse soprattutto logica, oltre che storica e pratica, di essere definite. Viene da capire, perciò, che quella “definizione” di classi, etnìe, nazioni, ecc., da parte degli stati - ovvero da parte di chi occupa il centro delle strutture [strutture?!] statali - non abbia niente a che vedere con una definizione logica, cioè oggettiva. Sembrerebbe trattarsi solo di un “potere di definizione” meramente soggettivo (di chi occupa lo stato, cioè), che rimanda a remote matrici sociologiche, weberiane e parsonsiane. Giusto a proposito di Wallerstein, James Petras ha osservato che “senza una chiara nozione di interessi antagonistici di classe collocati all’interno di una formazione sociale, vi è la tendenza tra i teorici del sistema-mondo a dissolvere la questione in una serie di imperativi astratti sullo sviluppo, dedotti da un sistema statico di stratificazione globale che assomiglia sempre più ai requisiti funzionali e ai modelli di equilibrio della sociologia parsonsiana”. Si può ora così tornare a una corretta affermazione iniziale, tra quelle meglio puntualizzate nel dibattito in esame, circa l’individuazione dello stato nazionale come stato politico del capitale. Ma è certamente diverso porlo, come fa Marx, quale sviluppo dialettico e storico del potere politico delle classi dominanti entro la trasformazione della base economica in modo di produzione capitalistico: epperò anche con capacità di egemonia e di consenso interno sulla propria frazione di proletariato [capacità che ormai giunge fino al moderno corporativismo]. Insomma, la nazionalità e il nazionalismo possono sicuramente collocarsi in posizione preminente nella fenomenologia del potere capitalistico; ma ciò è tanto più probabile quanto più si sia sviluppata un’egemonia di classe in grado di mistificare il rapporto di capitale determinante. La “questione nazionale” è assurta sovente a questione di massima priorità. Ma essa, per quanto osservato, può essere anche letta come conseguenza di un contenzioso elaborato, se non “inventato”, dal capitale per falsificare e obliterare il conflitto di classe, fino a ricondurlo alle altrimenti inaridite radici etniche o religiose. La questione, che è reale, è nondimeno formulata in maniera avulsa dal modo di

produzione (oggi, capitalistico), rimuovendo così la base economica di riferimento. In questo quadro, rientra la risposta politica che Lenin seppe darne, rispetto ad altre posizioni più emozionalmente libertarie, emerse sporadicamente in campo comunista. Sotto l’urgenza di fatti concreti, di massa, essa si inquadra alla perfezione nella giustezza dell’analisi marxista della dialettica materialistica della storia come storia delle lotte di classe, a cui l’autodeterminazione dei “popoli” rimane subordinata nella sua vaga indeterminatezza. È in quella dialettica che lo stato nazionale borghese viene a formarsi in dipendenza di un mercato nazionale capitalistico. Tuttavia, ma si deve necessariamente dire anche pertanto, ciò accade entro un processo storico che si sia sviluppato su una base precapitalistica già data. Solo così l’intero processo non postula l’inversione di sovrastruttura su struttura. Ove in quest’ultima inoltre, al contrario di quanto avviene presso tutte le prevalenti letture normative positiviste, strutturaliste o empiriste, sia messo l’accento sulla produzione (sul modo di produzione) anziché sul mercato (sul modo di traffico). “Del resto corrisponde all’orizzonte borghese, in cui il concludere affarucci occupa tutta la mente, di non vedere nel carattere del modo di produzione il fondamento del modo di traffico a esso corrispondente, ma viceversa” - commentò già Marx, concludendo l’analisi del ciclo di metamorfosi del capitale. Come è già emerso da ripetuti riferimenti, qui si vuole mostrare, e si mostrerà, la profonda differenza - e, in ultima analisi, l’incompatibilità metodologica - tra la concezione sistemica dell’economia-mondo e l’analisi di classe marxista del mercato mondiale. Nel far ciò si avrà riguardo particolarmente alla questione del rapporto tra nazione e stato che si sta discutendo. Si sono già esposti i punti nodali che irrigidiscono la concezione sistemica del mondo in una interrelazionalità, ordinata territorialmente ma sostanzialmente irrelata per ciò che concerne proprio i rapporti di produzione tra le classi. Di questi ultimi vien fatta cadere la duplicità materiale storica: a ben riflettere, infatti, il materialismo storico non può essere inteso solo, come troppo spesso si suol fare, quale interpretazione della storia a partire dai “fatti” economici, ma anche e soprattutto come lettura dialettica della duplicità immanente di un processo i cui eventi sono sia materiali nella sostanza sia storici nella “forma”. Invece, nel sistema dell’economia-mondo i rapporti di produzione, pur formalmente considerati, sono resi inoperanti a causa della adialetticità e astoricità della struttura chiusa in se stessa. Ecco dunque dove è rintracciabile la chiave di volta dell’intera interpretazione critica marxista della questione. Nell’impostazione marxiana il mercato mondiale rappresenta la totalità di riferimento cui oggettivamente e necessariamente il capitale “brama” nella sua aspirazione a una dimensione “smisurata”, infinita. Per ciò stesso a codesta totalità la contraddizione è immanente, cosicché sorge qui un’antinomia: per l’impossibilità intrinseca che a tale dimensione venga a corrispondere uno “stato mondiale”, foss’anche in un divenire lungo e tormentoso. Codesta antinomia si presenta come differenza specifica del capitale mondiale rispetto al capitale nazionale, nei loro rispettivi rapporti con le corrispondenti forme istituzionali. In effetti, come variamente e sufficientemente ricordato, quello che si chiama “capitale mondiale” esiste realmente come capitale transnazionale, costituito da una

molteplicità di capitali particolari individuali, la cui caratterizzazione è la loro repulsione reciproca. E siffatto carattere costitutivo, consistente nell’impossibile sua “unicità”, è definitorio del capitale stesso, in quanto tale (carattere contraddittorio alimentato dalla sua altra caratteristica di essere rapporto sociale di classe di contro al lavoro salariato). Vi è qui dunque asimmetria tra la dimensione mondiale, che vorrebbe tale unicità nell’infinità, e la situazione che si viene a determinare tra le molteplicità reciprocamente repulsive in termini di “capitale nazionale”: ciò con riguardo specifico alle forme istituzionali di cui tale asimmetria vorrebbe vestirsi.

Sottomissione reale dello stato al capitale Posto che la forma nazionale del capitale è una forma di passaggio, piuttosto primitiva, verso la sua vocazione universale, proprio in tale forma temporalmente e spazialmente circoscritta il capitale è purtuttavia riuscito a trovare una sua provvisoria proiezione nello stato nazionale (nell’epoca concorrenziale e nella prima fase imperialistica). Il “passaggio” può dirsi tanto più riuscito quanto più, transitoriamente, le diverse frazioni di capitale operanti su un mercato nazionale si siano mostrate capaci di mediare i rispettivi interessi particolari individuali. Ed è precisamente questo che avviene attraverso l’istituzione di uno stato a cui è demandata l’organizzazione della forza di classe nella giurisdizione di un mercato nazionale (ovverosia, un mercato locale allargato): ciascuno stato di contro a ciascun altro. Proprio un simile passaggio - ossia una corrispondente mediazione giurisdizionale, istituzionale, tra le frazioni individuali del capitale mondiale transnazionale - non è possibile storicamente. Non lo è concettualmente, appunto, a causa della immanente concorrenzialità tra la pluralità insopprimibile di diversi centri di decisione capitalistici. E non lo è neppure praticamente, almeno finché la storia del modo di produzione capitalistico non fosse tale da assolutizzarsi, “unicizzarsi” empiricamente. Ma per addivenire a una siffatta assolutizzazione, che riguarda appunto un livello empirico dell’osservazione, esso dovrebbe rendere totalmente insignificanti e annullare, in ogni angolo del pianeta, i diversi modi di produzione e di vita ancora residualmente presenti, e finora da esso solo dominati. Certamente questo non è il caso di cui possa prospettarsi, in via meramente empirica, una qualche realizzabilità men che secolare. Cosicché riemerga l’impedimento concettuale secondo cui le contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico stesso abbiano tempo di manifestarsi appieno prima che esso possa riuscire praticamente a pervenire a tale sua assolutizzazione (intesa quale forma d’esistenza dell’impossibile sua unicità). Dunque: lo stato nazionale ha rappresentato la risposta pratica per la mediazione di classe della conflittualità tra gli interessi locali di frazioni di capitali individuali, associati nell’ambito di un mercato particolare di contro agli altri mercati. L’antinomia di cui si diceva poc’anzi emerge proprio perché quel tipo di mediazione tra le frazioni del capitale transnazionale sul mercato mondiale non trova l’omologo in uno “stato mondiale”, ché risulta indefinibile. Sia a causa del diverso àmbito di

riferimento del capitale transnazionale ai limiti spaziali del mercato mondiale (privi, per definizione, di limiti simmetrici posti da altri, come nel caso dei mercati e stati nazionali), sia per la diffusa e funzionale rammentata “residualità” di interessi localistici di vaste frazioni di capitali individuali e di altre forme economiche (di fronte al loro medesimo generale riferimento transnazionale che tutto sussume), il tipo di mediazione giurisdizionale e istituzionale è affatto differente. Cosicché le forme sovrastatuali di quello che sovente viene illustrato come “governo mondiale” - nell’ambito del cosiddetto nuovo ordine mondiale - non possano presentarsi con i caratteri precipui dello “stato” borghese comunemente inteso. Possono al più integrare semplicemente un processo di approssimazione empirica a esso. Le istituzioni sovranazionali, perciò, non sono esse a porre gli stati membri, come vorrebbe la sistematicità strutturale dell’economia-mondo [secondo quanto sostenuto da Balibar e Wallerstein]. Viceversa, sono esse stesse a venir poste come fondamento: cioè, si trovano al fondo del processo contraddittorio di mediazione della conflittualità tra le frazioni del capitale transnazionale che ne stanno alla base. È in questo quadro che la tendenziale disgregazione parziale degli stati nazionali è perfettamente funzionale alla forma dell’imperialismo transnazionale. Le diverse forme istituzionali o amministrative sono subordinate, con diverse gerarchie e rango, alle istituzioni sovranazionali del capitale transnazionale. E perciò non si tratta necessariamente solo di “stati” sovrani ma anche di “macroregioni” organiche all’area di mercato interessata. Altrove, già per spiegare venticinque anni fa la crisi che si stava palesando, si considerò la metamorfosi della fase “classica” degli stati nazionali. Essa poteva essere giudicata “come fase della sottomissione formale di una configurazione storicopratica vecchia alle esigenze rappresentate dallo sviluppo sovranazionale del nuovo imperialismo”. A superamento di quella fase, perciò, si prospettò “l’adeguamento della forma-stato, rispetto alla figura dello stato nazionale sovrano ereditata dall’epoca liberalborghese, per adeguare realmente la sottomissione tra stati e nazioni nella mutata gerarchia conforme al nuovo ordine imperialistico”. Di tale adeguamento si ravvisò una forma “duplice”: “non uno, dunque, ma due modelli di stato per la nuova borghesia finanziaria multinazionale. E se nella prima forma, quella dominante, la tendenza è all’aggregazione sovranazionale di figure e funzioni prima distinte, al fine di organizzare meglio l’apparato di supporto delle forze "interne" (economiche, politiche, militari); nella seconda forma, quella dominata, la tendenza è alla disgregazione delle vecchie formazioni nazionali, verso un ritorno in chiave moderna e subalterna alle autonomie sub-nazionali e regionali, territoriali e etnicoreligiose. La conseguenza di ciò è l’ulteriore lacerazione sociale interna e il dissolvimento di quei vecchi stati nazionali, a favore di un più facile controllo da parte dei super-stati a base imperialistica multinazionale”. Le potenze del capitale imperialistico transnazionale spingono “decisamente verso la disgregazione dei vecchi stati nazionali che ancora esistono incertamente nelle zone oggetto delle reciproche contese interimperialistiche. Attraverso una fitta rete bellica di scontri mascherati - ma non troppo - le superpotenze fingono di assistere preoccupate alla cieca dissoluzione politico-sociale di quelle regioni mondiali, oscuro oggetto del loro desiderio. Fingono: perché - al di là di un reciproco riconoscimento

della finzione - il cinico obiettivo preliminare è giungere a quel risultato di dissolvimento istituzionale, attraverso l’azione diretta dei loro rappresentanti politico-militari privi di scrupoli, protetti dai servizi segreti dei diversi imperialismi, e sostenuti dalle normali-relazioni-economiche. Una volta compiuta tale dissoluzione e parzialmente colpita anche la potenzialità produttiva di queste regioni (in tempi di sovraproduzione, la distruzione di capitale non è mai troppa!), si spinge il ciclone delle contraddizioni interimperialistiche ad attraversare, a turno, altre regioni”. Se parole come queste potevano essere pensate e scritte vent’anni fa, vuol dire che il carattere di classe dell’imperialismo si mostrava già in tutta la sua chiarezza. Bastava volerne saper vedere le contraddizioni specifiche, senza volerle mascherare fenomenologicamente da nord contro sud. Non occorreva aspettare, fisicamente, la disunione della fu-Urss nel dopo-muro, la satellizzazione della “nazione araba” nel dopo-golfo o la tuttora indefinita spartizione dell’area balcanica o dell’Africa subsahariana. Nel loro piccolo, anche i fenomeni del separatismo leghista, come di qualunque altra deriva falsamente “autonomistica” regionale (pure se di “sinistra”!), si inseriscono alla perfezione in questo gioco a incastro [anche se gli apologeti di tali fenomeni non hanno ben compreso il senso imperialistico delle ricordate “macroregioni” funzionali a un mercato transnazionale e non a un qualche Alberto da Giussano!]. Il federalismo odierno, infatti, ha la sua nuova peculiarità nella duplicità simultanea di un accentramento forte accompagnato da un decentramento diffuso. Il “modello” è mutuato dall’organizzazione del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale. Esso, con l’avocazione assolutistica del processo decisionale strategico presso la holding dell’impresa madre, può permettersi la parvenza del decentramento “partecipativo” a unità produttive di dimensioni ridotte, utilizzando anche ideologicamente la logora immagine della cosiddetta “impresarete” [rete “acchiappafarfalle”, in realtà!]. Come holding opera, perciò, pure la formastato contemporanea del medesimo capitale transnazionale, concentrando al massimo grado possibile l’operatività dell’esecutivo. Sotto la rubrica di “governabilità” si contrappone così il decisionismo del governo a uno svuotato ruolo legislativo del parlamento e di ogni altra assemblea elettiva decentrata. Mentre la banca centrale, col “governo della moneta”, funziona in realtà come l’anello di congiunzione superiore degli apparati di governo (centrale e locali) con le istituzioni sovranazionali. Queste ultime, a loro volta, sono l’espressione politica dei cosiddetti “investitori istituzionali”: ovverosia, del grande capitale finanziario transnazionale. Parlando di costoro ci si riferisce a poco più di una manciata (qualche decina, poche centinaia) di esponenti del grande capitale monopolistico finanziario. E sono proprio quelli di cui non si sente parlare quando si ascoltano frasi sui mitici “mercati”: quei “mercati” che vengono ologrammati quotidianamente dai mezzi di comunicazione di massa per smaterializzare e spersonalizzare i detentori del potere agli occhi della popolazione. Dalla “mano invisibile” del mercato smithiano, a quella “visibile” dello stato keynesiano, si è giunti adesso al “guanto virtuale” dei mercati finanziari. Ecco allora che le istituzioni sovranazionali sono chiamate a mediare tra gli interessi reciprocamente conflittuali dei capitalisti transnazionali e tra questi e i non ancora soppressi - e tuttora insopprimibili, per lungo tempo a venire, è da supporre - interessi localistici “nazionali”. Sono queste le esigenze della polarizzazione di classe del

mercato mondiale. Ed è codesta mediazione che agisce entro i tre poli principali, attraverso di essi e nel grande cerchio che li racchiude e ne smussa gli angoli. La dialettica del mercato mondiale non ignora la gerarchia imperialistica transnazionale - in quanto gerarchia di classe - e non è perciò riducibile all’indifferente complessità di un sistema-mondo. Un’eventuale gerarchizzazione, pur non negata dai sostenitori di codesto sistema, può però presso di loro operare solo in termini geopolitici: centro-periferia, nord-sud, primo mondo e terzo mondo (il secondo essendo nel frattempo prematuramente deceduto), ecc.]. È qui che torna a dispiegarsi quell’apparente paradosso di cui si parlava dianzi. Proprio il riferimento a un “sistema” di economia-mondo fa mutuare le medesime determinazioni già funzionali allo stato-nazione, annullandole ma soltanto per risuscitarle a un livello superiore di equilibrio del sistema sovranazionale. Ciò sembra imitare curiosamente la teoria matematica dei “frattali”, non a caso tanto cara ai formalisti sistemici, secondo cui vi è un costante omomorfismo dalla più piccola microstruttura (si potrebbe pensare anche di partire dal singolo individuo?!) alla più grande macrostruttura corrispondente (qui il sistema-mondo); una tale corrispondenza “formalmente formale” risulterebbe dalla composizione “complessa” dei singoli microelementi, attraverso diversi stadi intermedi di aggregazione, aventi tutti le medesime caratteristiche di definizione, equilibrio, squilibrio e opposizione interna. Ma, allusioni formalistiche a parte, il “nuovo” mondialismo incoerentemente ripropone così, di contro a quelle di classe, proprio le valenze statuali nazionali eventualmente come termine “negativo” da battere, ma comunque cui riferirsi. “È una falsa astrazione considerare una nazione, il cui modo di produzione è fondato sul valore, e per di più organizzata capitalisticamente, come un corpo collettivo che lavora unicamente per i bisogni nazionali”. In questa affermazione con cui Marx conclude l’analisi del processo di produzione pensando, per antitesi, al modo di produzione socialistico - si trovano due osservazioni di grande rilievo per il dibattito qui in oggetto. Da un lato, si vede come sia da considerare una falsa astrazione, una pura parvenza, la rappresentazione dell’“economia nazionale” quale “corpo collettivo”: e non è certo un caso che tale parvenza sia quella sempre più frequentemente raffigurata ideologicamente dal capitale del nuovo ordine mondiale nelle forme del moderno stato corporativo o neocorporativo, comunque esso sia mascherato. D’altro lato, si rifletta sulla circostanza per cui - già fin dal secolo scorso, nel pieno fulgore del capitalismo liberale e del suo stato nazionale - secondo la critica marxista l’”economia nazionale” non sussistesse, se non come mera parvenza e falsa astrazione. Quindi, pur entro una predominanza territoriale nazionale statuale, essa già allora costituiva una tendenziale mistificazione di classe. È dunque il fondamento di valore capitalistico, ovverosia di plusvalore, la categorizzazione ancor oggi rivelatrice di una tendenza divenuta universale. Come tale essa è da leggere quale teoria marxista della determinazione empirica di nazione in relazione al modo di produzione capitalistico su scala mondiale.

III. PARAFRASI DA MARX SUL MERCATO MONDIALE

Limiti localistici e universalismo del capitale La critica marxiana rivolta contro la falsità della cosiddetta “economia nazionale” non è da ritenersi tale in contrapposizione immediata al mercato mondiale. Ossia la critica rilevante non è posta in relazione alla diversa limitatezza o estensione spaziale, geopolitica, ma ha da essere letta quale denuncia dell’occultamento della polarizzazione di classe operante entro qualunque ambito territoriale. È in questo senso che si è fatto poc’anzi il paragone formalistico con la teoria dei frattali, in quanto con la concezione sistemica si continua a obliterare proprio quella polarizzazione di classe, pur riconoscendola a parole. Proiettando le valenze occultatrici dello stato-nazione su quelle dell’economia-mondo, quest’ultima sembra diventare, per così dire, un Mondo-nazione (con, al suo interno, un’Europa-nazione, e così via per cerchi concentrici). Ed è in questa categorizzazione che, secondo tale criterio, sarebbe possibile riscontrare la riproduzione di tutte le antinomie, le opposizioni, i dualismi, gli squilibri e le “ingiustizie” ... di questo mondo, in cui il rapporto di classe viene annegato. Su siffatta rappresentazione farebbero bene a riflettere criticamente i tanti “sinistri” nostrani, succubi della mitologia borghese del Sistema Paese (o della Azienda Italia) e fautori di politiche dei “sacrifici” in nome di un qualche vessatorio senso di “responsabilità”, del quale i “cittadini” dovrebbero “farsi carico”, e via corporativizzando. Sarebbe perciò riduttivo interpretare quella che Marx considera (terza) caratteristica fondamentale della produzione capitalistica - la creazione del mercato mondiale - solo o soprattutto in contrapposizione alla dimensione nazionale [le altre due essendo la concentrazione monopolistica della proprietà e la oggettiva socializzazione dell’organizzazione del lavoro]. Ciò che Marx affronta - e che adesso sarà bene riprendere in esame per avviarsi a trarre alcune conclusioni analitiche - è l’estensione mondiale del capitale, come compimento di un processo che lo rende adeguato al suo concetto: ossia come riferimento universale del rapporto di capitale in quanto rapporto di classe [qualità], e non in quanto mera dominanza spaziale [quantità]. Certamente quella qualità può mostrarsi in tutta la sua determinatezza concettuale solo quando la quantità sia compiuta. Ma questo risultato del processo nel suo svolgimento pratico non può essere confuso con il proprio fondamento. Conviene seguire Marx, parafrasandone il testo, fino alla conclusione. Nel mercato mondiale la produzione è posta come totalità, così come ciascuno dei suoi momenti, in cui però nello stesso tempo tutte le contraddizioni si mettono in movimento. Il mercato mondiale allora costituisce a sua volta, insieme, la premessa e il supporto del tutto. Il commercio e il mercato mondiale costituiscono il presupposto storico e aprono, nel secolo XVI, la storia moderna della vita del capitale - iniziando però solo laddove le condizioni necessarie per la sua applicazione si erano

venute creando entro le forme precedenti. Se l’ampliamento improvviso e la creazione di un nuovo mercato “mondiale” - intendendo Marx, con questa locuzione, l’estensione qualitativa del rapporto di capitale al “mondo” conosciuto, senza dare alla parola “mondo” una mera accezione geografica - esercitavano un’influenza decisiva sulla rovina dell’antico modo di produzione e sullo slancio del modo capitalistico, ciò accadeva perché il modo di produzione capitalistico esisteva già. Il mercato mondiale costituisce la base e la meta di questo modo di produzione. D’altro lato, è la necessità immanente del capitalismo di produrre su una scala sempre più ampia che trascina a un’estensione continua del mercato mondiale, cosicché non è lo scambiare in sé, il commercio, che rivoluziona l’industria, ma è l’industria che rivoluziona continuamente il commercio. Fu la centralità di una produzione - che come tale “esisteva già” - (e non di un “traffico” di merci) che impose la progressiva trasformazione delle istituzioni statuali esistenti e la loro sottomissione formale alle esigenze del capitale, in corrispondenza alla parallela forma di sottomissione del lavoro. Il significato del mercato mondiale - come categoria logica di ragionamento - è posto in luce dalle modalità di dominanza che il capitale esercita su tutti gli altri modi di produzione. Di questa circostanza anche i più autorevoli sostenitori della possibilità di “sganciamento” della cosiddetta periferia dal centro imperialistico non si avvedono. Pur se non cadono nelle banalità del sistema-mondo, ipotizzano la perseguibilità della fuoriuscita dall’area della produzione di merci. O forse sarebbe meglio dire dal pianeta delle merci, da questo pianeta ... “ultima stella a destra ...”. In ciò, costoro sono confortati dal semplice riscontro empirico del fatto che in molti angoli della terra - e in alcuni casi anche in relativo aumento, a misura della profondità della crisi mondiale - le relazioni sociali apparenti non sono immediatamente riconoscibili come di tipo capitalistico borghese. Con il che le “nazionalità” periferiche, eventualmente con una loro autonoma rappresentanza statuale, possano confliggere, come “sud del mondo”, con il centro capitalistico imperialistico, “nord del mondo”. Che Marx non conoscesse le congetture di costoro è cronologicamente ovvio. Che si dia, viceversa, l’ignoranza da parte loro dell’analisi marxiana è singolare. Marx avverte, infatti, che è indifferente il carattere del processo di produzione dal quale provengono le merci. Come merci esse operano sul mercato, come merci entrano sia nel ciclo del capitale industriale che nella circolazione del plusvalore in esse contenuto. È dunque il carattere onnilaterale della loro origine, l’esistenza del mercato come mercato mondiale che contrassegna il processo di circolazione del capitale. Ciò che vale per merci straniere vale per denaro straniero, che opera solo come denaro, come moneta mondiale. Le funzioni circolatorie garantite dagli stati nazionali, in questo loro nuovo ruolo subalterno al capitale transnazionale, ne definiscono anche la genesi, in relazione al processo mondiale di produzione capitalistica, e la competenza “nazionale”, senza che occorra fare altre stravaganti ipotesi. L’intromissione monopolistica del capitale finanziario transnazionale tende a convertire possibilmente tutta la produzione in produzione capitalistica di merci, su scala mondiale. Il capitale, per sua natura, abbraccia tutti i modi di produzione.

L’intero modello sociale delle nazioni “arretrate” che sono collegate al mercato mondiale basato sulla produzione capitalistica è perciò determinato dalla divisione internazionale capitalistica del lavoro. E, come già detto, è tale “modello” che definisce anche la loro forma - dominata - di “stato nazionale”, in funzione della quota di mercato loro assegnata. Non è vera, dunque, la tesi contraria, per cui sarebbe lo “stato” indefinito a definire la “nazione”, se non a posteriori e in termini puramente politici. Ma qui prima si tratta di merce, denaro e capitale, e di lavoro salariato. È soltanto il commercio internazionale, lo sviluppo del mercato in mercato mondiale, che provoca lo sviluppo del denaro in denaro mondiale e del lavoro astratto in lavoro sociale. Ricchezza astratta, valore, denaro, quindi lavoro astratto, si sviluppano nella misura in cui il lavoro concreto diventa una totalità di differenti modi di lavoro che abbraccia il mercato mondiale. La produzione capitalistica - che si basa sul valore, ovvero sulla trasformazione del lavoro contenuto nel prodotto in lavoro sociale - è possibile realmente solo sulla base del commercio internazionale e del mercato mondiale. Ciò è a un tempo la precondizione e il risultato della produzione capitalistica. È sufficiente considerare che la produzione complessiva del mercato mondiale sia esercitata capitalisticamente, per comprendere che non è affatto vero che la parte funzionalmente determinata, che ha ogni metamorfosi svolgentesi entro il processo di circolazione di un capitale nazionale, rappresenti nel ciclo di un altro capitale nazionale l’opposta e corrispondente metamorfosi. La funzione dei singoli stati nazionali rispetto all’ordine imperialistico sovranazionale - e dunque la gerarchia tra stato, nazione e classi - trova qui la sua risposta adeguata nei compiti assegnati dal modo di produzione capitalistico. La riflessione marxiana sull’ambiguità della fenomenologia “nazionale”, dal punto di vista della base economica, non ne implica affatto una irrilevanza politica e sociale, ma serve solo a darle il rango appropriato. La critica dei limiti dei riferimenti a tale fenomenologia trova forse la sua migliore sintesi nella forma monetaria del rapporto tra stati nazionali e mercato mondiale. È nella circolazione del denaro, in quanto rappresentante del plusvalore, che la mediazione degli stati nazionale esprime il suo livello più alto: sia entro i limiti del mercato nazionale di competenza, per la conflittualità tra le frazioni di capitale mondiale ivi operante; sia nel generale mercato mondiale, per regolare il contenzioso giurisdizionale del capitale transnazionale, tramite quelli che potrebbero chiamarsi i suoi “stati di riferimento” [mutuando ancora una volta la logica e la terminologia dell’azionariato finanziario]. “Da quando il mercato mondiale è divenuto una realtà operante, una serie di paesi industriali si fanno concorrenza; al capitale che si trova in eccedenza vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si ridistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazione locale viene superata con maggiore facilità. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli e ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazî protezionistici, di cui si circondano tutti quanti i grandi paesi industriali. Ma questi dazî rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale” - così commentava già Engels redigendo, per il III

volume del Capitale, il capitolo sul rapporto tra capitale monetario e capitale effettivo. [Il riferimento a Engels serve qui per mostrare che tanti scopritori di “novità” non hanno poi scoperto molto - ed è questo lo stesso motivo per cui non ci si è qui discostati dalla lezione marxiana].

Moneta nazionale e denaro mondiale La concorrenza interimperialistica si cumula e si manifesta nelle esplosioni monetarie, prima di quelle belliche. Essa fonda dunque la conflittualità tra stati nazionali perché la base nazionale del mercato è la prima a scontrarsi coi proprî limiti, investendo di ciò gli “stati di riferimento” di quei capitali i cui interessi gravitano più su un mercato che su un altro. L’origine del problema sta nel fatto che il mercato si espande più lentamente della produzione. Se l’espansione del mercato tenesse il passo dell’espansione della produzione non ci sarebbero strozzature del mercato, non ci sarebbe sovraproduzione, né crisi, né contraddizioni. Tuttavia, tutto ciò si verifica inevitabilmente giacché il mercato è delimitato in senso geografico, il mercato interno è limitato in confronto a un mercato sia interno che estero, quest’ultimo è limitato in confronto al mercato mondiale, che a sua volta è limitato in ogni momento, sebbene sia in sé capace di espandersi. _ È in questo senso che si è dianzi indicato il carattere categoriale, qualitativo e non meramente quantitativo, del mercato mondiale. La “capacità di espansione” del mercato mondiale stesso, infatti, non incontra limiti assoluti, se non quelli intrinseci al rapporto di capitale medesimo: ossia, limiti di classe e non limiti nazionali o comunque territoriali. Il processo dunque è strutturato per continuare e ripetersi, con tutte le sue contraddizioni immanenti in ogni angolo del mondo, e non separando stati da stati e nazioni da nazioni, centro da periferia, nord da sud, ricchi da poveri, cattivi da buoni. Queste separazioni, di nuovo, evidenziano tutta la loro potenzialità occultatrice della divisione tra capitale e lavoro salariato, ovunque. La ripetizione del processo fa sì che sia anche possibile che le nuove estensioni del mercato siano rapidamente sorpassate dalla produzione, cosicché i mercati più estesi divengano altrettante barriere come lo erano i mercati più ristretti in precedenza. L’impulso al superamento di quelle barriere spinge il capitale mondiale a ristrutturare l’organizzazione del lavoro in maniera sempre più omogenea, ma localizzandone le peculiarità in forma differenziata spazialmente sul mercato mondiale, le cui parti integranti sono i singoli paesi. Il ruolo delle “agenzie nazionali” statuali della grande corporazione mondiale è qui evidentissimo. L’intensità media del lavoro cambia di paese in paese. Queste medie nazionali costituiscono quindi una scala la cui unità di misura è l’unità media del lavoro universale. A confronto del lavoro meno intenso, il lavoro nazionale più intenso produce dunque nello stesso tempo più valore, che si esprime in più denaro. Inoltre, sul mercato mondiale il lavoro nazionale più produttivo vale anche come lavoro più intenso tutte le volte che la nazione più produttiva non sia costretta dalla concorrenza ad abbassare il prezzo di vendita della sua merce. In un paese, anche l’intensità e la produttività nazionali del

lavoro si innalzano al di sopra del livello internazionale nella stessa misura in cui vi è sviluppata la produzione capitalistica. Le differenti quantità di merce dello stesso genere che sono prodotte in differenti paesi nell’identico periodo di lavoro hanno dunque valori internazionali ineguali che si esprimono in prezzi differenti, ossia in somme di denaro differenti a seconda dei valori internazionali. La spiegazione dello scambio e dello sviluppo ineguale, perciò, sta qui, nel diverso uso che il capitale imperialistico transnazionale fa della sua capacità di controllo dei mercati locali - incluso il mercato del lavoro - attraverso la gerarchia costituita dagli stati nazionali dei differenti paesi, e non in una contrapposizione nazionale politica tra stati. È il costante “mettere in soprannumero” gli operai nei paesi della grande industria che promuove movimenti migratori intensi e artificiali, con il conseguente aggravamento della dipendenza dei paesi stranieri dominati. Si crea una nuova divisione internazionale del lavoro in corrispondenza delle localizzazioni principali in cui il sistema di produzione e circolazione del capitale finanziario specializza le diverse regioni. Non sorprenda, quindi, se si riscontra una straordinaria somiglianza tra la crisi attuale e quanto accadde a seguito della rivoluzione del mercato mondiale alla fine del XV sec., quando la distruzione della supremazia commerciale dell’Italia settentrionale spinse gli operai delle città in massa verso le campagne, dove dettero un impulso mai visto alla piccola coltura. La così impropriamente detta “deindustrializzazione” - con tutto il corredo di “postindustrialismo”, “postfordismo”, fine della grande fabbrica, “piccolo è bello”, e via indebolendo ulteriormente il già debole pensiero - ripete quel quadro di crisi. Il problema della dislocazione territoriale internazionale degli investimenti e dell’attività di controllo industriale finanziario impone l’affinamento dell’arte della gestione istituzionale - statuale - delle regioni interessate. I caratteri stessi della produzione e circolazione del plusvalore conferiscono i connotati richiesti alle diverse “economie nazionali”. I mezzi di lavoro fissati localmente, vincolati al luogo, come parte del capitale fisso hanno una funzione propria nell’economia delle nazioni. Essi non possono essere spediti all’estero, non possono circolare come merci sul mercato mondiale. Solo i titoli di proprietà su questo capitale fisso possono cambiare, e solo per il loro tramite esso può essere comprato o venduto, e in questo senso circolare idealmente. Questi titoli di proprietà possono circolare su mercati esteri nella forma di azioni, dando vita alla forma finanziaria del capitale imperialistico attraverso lo sviluppo del sistema creditizio che affretta, a sua volta, la formazione del mercato mondiale con le sue contraddizioni. È da questa forma che trae origine la differenza, e la necessaria connessione, tra il tasso dell’interesse e il tasso del profitto. Ciò che favorisce il consolidamento del tasso d’interesse sta nell’influenza immediata ben più considerevole che il mercato mondiale, indipendentemente dalle condizioni della produzione di un paese, esercita sulla determinazione del tasso d’interesse, comparativamente alla sua influenza sul tasso di profitto. Di qui l’importanza, già rammentata, del sistema delle banche centrali di ciascun paese e il loro coordinamento nei vari organismi sovranazionali [Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, G.7, ecc.]. Ma ciò non va confuso con un presunto potere autonomo o “nazionale” di tali banche; giacché, come

accennato, proprio a motivo della strutturazione del mercato mondiale dei capitali, sono esse a costituire il livello adeguato di gestione “delegata” per mediare le contraddizioni tra il potere monopolistico finanziario e i governi degli stati nazionali [una conferma di ciò sta nella gerarchia imperialistica di codeste banche]. Tanto è radicata tale confusione che quando le grandi tempeste del mercato mondiale scatenano il conflitto di tutti gli elementi della produzione borghese, l’origine della crisi, e i mezzi per fronteggiarla, vengono costantemente ricercati nella sfera più superficiale e astratta di questo processo, la sfera della circolazione monetaria - la “politica monetaria” nazionale. La premessa puramente teorica da cui partono questi “meteorologi economici” - come li chiama Marx - non è altro in realtà se non il dogma monetaristico di sempre, che non vede l’origine materiale e sociale dei problemi monetari. Non comprende la dipendenza nazionale di questi ultimi dalla portata mondiale dei processi reali dell’accumulazione di capitale, e non solo dei fatti monetari internazionali. Tutto ciò occulta i ruoli stessi di stato e nazione di fronte ai rapporti di classe mondiali. Alla tautologia monetaria si dà l’apparenza di un rapporto di causa a effetto. Una volta ammessa la trasformazione della tautologia in un rapporto di causa a effetto, tutto il resto procede facilmente. Confusioni di tal fatta conducono molti a non comprendere il ruolo degli stati nel “governo della moneta” e, a monte di ciò, il ruolo stesso della forma monetaria del capitale, in una situazione in cui ancora i limiti localistici conferiscono rilevanza empirica all’esistenza di monete nazionali di contro a un denaro mondiale. Con la sua uscita dalla sfera interna della circolazione, il denaro si spoglia delle forme locali di scala di misura dei prezzi, moneta, moneta divisionale, e segno di valore. È nelle differenti divise - che il denaro porta quando è moneta, ma che poi torna a svestire sul mercato mondiale - che si fa luce la distinzione tra le sfere interne o nazionali della circolazione delle merci e la loro sfera generale, il mercato mondiale. Il carattere nazionale delle diverse monete non è impresso a esse dall’”autorità” dello stato, in quanto “moneta” di ciascuno stato “nazionale”. Tale carattere è piuttosto conferito dalla limitatezza del mercato interno che costringe lo stato a operare in termini nazionali; così come, all’opposto, gli consente di operare su più vaste zone d’influenza allorché tale limitatezza è spezzata. Il dollaro Usa nel dopoguerra, prima ancora la sterlina inglese, oggi il marco tedesco nella Grande Germania dell’Europa unita o lo yen giapponese nell’Asia del Pacifico, sono esempi storici di codesti allargamenti di zone. Dunque, proprio nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. La loro forma autonoma di valore si presenta qui di fronte a esse, ovviamente, come moneta mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in astratto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto. La moneta mondiale funziona come mezzo generale di pagamento, mezzo generale d’acquisto e come materializzazione assolutamente sociale della ricchezza in genere. Accade nelle crisi che non si tratti più né di compera né di vendita, ma di trasferimento della ricchezza da un paese all’altro, perché tale trasferimento in forma di merci è escluso o dalla congiuntura del mercato delle merci o dallo scopo stesso

che si deve ottenere. A tale punto le relazioni economiche inter-nazionali assumono il carattere puramente monetario, creditizio o speculativo. Poiché il denaro reale è sempre moneta del mercato mondiale, e la moneta di credito si fonda sempre sulla moneta del mercato mondiale, si conferma l’importanza che nel capitalismo contemporaneo è assegnata alle banche di stato. Ciò spiega anche, di conseguenza, perché l’accentramento del potere politico passi attraverso l’affidamento dato a codesti istituti: da Maastricht a Pechino, per non dire ovviamente di Washington, Tokyo o Bonn. Il sistema monetario giustamente proclama come premessa e condizione della produzione capitalistica la produzione per il mercato mondiale. Ma fin dal suo primo sviluppo, la produzione di plusvalore favorì il pretesto della borghesia di presentarla per il suo carattere nazionale, nel nome della “ricchezza della nazione” e delle risorse dello stato. Essa, così facendo, praticamente proclama gli interessi della classe capitalistica e l’arricchimento in generale come fine ultimo dello stato borghese, fondamento della potenza nazionale e della preponderanza nazionale nella società moderna. È facile vedere come funzioni, nella maturità del capitalismo transnazionale, l’omomorfismo, ideologicamente occultatore, tra economia-nazione ed economia-mondo. Mentre dunque il capitale deve tendere, da una parte, ad abbattere ogni ostacolo spaziale allo scambio, e a conquistare tutta la terra come suo mercato, dall’altra esso tende ad annullare lo spazio attraverso il tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento da un luogo all’altro. Quanto più il capitale è sviluppato, quanto più è esteso perciò il mercato su cui circola e che costituisce il tracciato spaziale della sua circolazione, tanto più esso tende contemporaneamente ad estendere maggiormente il mercato e ad annullare maggiormente lo spazio attraverso il tempo. Qui si manifesta la tendenza universale del capitale: l’universalità delle relazioni e quindi il mercato mondiale, come base. Ciò lo distingue da tutti gli altri precedenti stadi della produzione. Unicamente questa tendenza include le condizioni necessarie per “definire” anche il “tracciato spaziale” della forma-stato che le popolazioni si dànno in quanto “nazioni” - per ripetere Brecht. Questa tendenza rappresenta una contraddizione del capitale con se stesso, e dunque del capitale con le sue forme statuali nazionali. Essa implica al medesimo tempo che il capitale stesso sia posto come semplice punto di transizione. L’ostacolo del capitale sta nel fatto che tutto il suo sviluppo procede per antitesi e l’”elaborazione” della ricchezza si presenta come alienazione dello stesso individuo che ne elabora le condizioni. A tali condizioni esso si riferisce non come a quelle della propria ricchezza, bensì della ricchezza altrui e della propria povertà. Tuttavia Marx - ricordando Hegel - avverte come tutte le forme di società finora esistite siano crollate in presenza dello sviluppo della ricchezza. La crisi dello stato e le contraddizioni nazionali non sono altro che il riflesso di questo deperimento del modo di produzione capitalistico. Ma, affinché tale deperimento si manifesti in tutte le sue forme economiche e politiche, è necessario anzitutto che il pieno sviluppo delle forze produttive sia diventato una condizione della produzione. Non che determinate condizioni della produzione - la cui forma generale comprende tutta la ricchezza sociale di cui lo stato è o pretende di essere il principale depositario e responsabile siano poste come limite dello sviluppo delle forze produttive.

Nota Il testo qui pubblicato è stato elaborato tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994. Le sedi originarie in cui sarebbe dovuto apparire sono venute meno con diverse motivazioni. Un’antologia presso l’editore Synergon è svanita; “troppo lungo” è risultato l’intervento previsto per la rivista Giano e “troppo tardi” è giunto alla rivista Marxismo oggi, presso le cui rispettive redazioni le prime stesure di questo lavoro giacciono. Perciò la presente stesura finale, con piccolissimi ritocchi e aggiunte, trova spazio autonomo nella forma di pamphlet. Va da sé come tutto il ricco dibattito pubblicato in quelle sedi rimanga un prezioso punto di riferimento per quanto qui scritto. In particolare, il riferimento alla sistemazione dovuta ad Andrea Catone rimanda a una sua relazione su Nazionalismi e crisi dello stato-nazione pubblicata su Giano, n.16, 1994; sul n.18 di quella rivista, si rinvia all’intervento di Carla Filosa, Stato e nazione come rapporto di capitale, per l’impostazione materialistica che precisa il metodo con cui si concorda nella presente analisi. Le considerazioni aggiuntive su Immanuel Wallerstein si riferiscono a suoi recenti scritti, in particolare all’articolo, Remarx, post-America and the collapse of leninism, in Rethinking marxism, v.5, n.1 (prim.92) e al volume con Arrighi e Hopkins, Anti-sistemic movements, Manifestolibri, Roma 1993 [cfr. in particolare, pp.59,85,113]. Il riferimento a James Petras è Critical perspectives on imperialism and social class in the third world, Monthly review press, New York 1978 [p.37], citato anche da Berch Berberoglu in L’eredità dell’impero, Vangelista, Milano 1995. Le considerazioni sulla “sottomissione reale dello stato al capitale” furono formulate in Un contributo per lo studio della crisi mondiale attuale [per Praxis, 1974 - inedito] e in seguito pubblicate in Gianfranco Pala, L’ultima crisi, Angeli, Milano 1982 [pp.15-16; cfr. inoltre l’intero cap.3, Le forme dello stato nell’epoca del capitale finanziario multinazionale L’adeguamento della sfera della circolazione alla realizzazione del plusvalore con la mediazione dello stato; si può lì trovare anche una sintesi del “piano Kissinger”, una cui stesura quasi integrale è pubblicata in appendice a Capitalismo italiano e rapporti internazionali, D’Anna, Firenze 1982]. Per quanto concerne le citazioni dirette di Marx, nella seconda parte [Per una critica della concezione sistemica del mondo], si trovano nel Capitale, rispettivamente, alla fine del cap.4 del vol.II [le tre figure del processo ciclico] e alla fine del cap.49 del vol.III [per l’analisi del processo di produzione]; i successivi riferimenti marxiani contenuti nella terza parte [Parafrasi da Marx sul mercato mondiale] sono riportati “quasi” testualmente e spesso interpolati, a mo’ di “plagio” [per questi motivi non sono stati virgolettati]: essi sono tratti dal Capitale [C], dai Lineamenti fondamentali [LF] e dalle Teorie sul plusvalore [TP], e si possono trovare nel seguente ordine utilizzato per il “montaggio” - C,III,15.IV; LF,Q.II.3; C,I,4.1; C,III,20; C,II,4; TP,III,f.853a-f.858; C,II,4; C,III,30; TP,II,f.720; C,I,20-13.7-24.1; C,II,8.1; C,III,27-22-34; C,I,3.3c-2c; C,III,33-47.I; LF,Q.V.27.