Sibilla Aleramo. Notte in un paese straniero 9788855292573, 9788855292580

Attingendo agli archivi privati della scrittrice, René de Ceccatty, romanziere e biografo dei maggiori scrittori italian

191 32 19MB

Italian Pages 416 Year 2021

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Sibilla Aleramo. Notte in un paese straniero
 9788855292573, 9788855292580

Table of contents :
Cover
Title
Copyright

Citation preview

RENÉ DE CECCATTY

Sibilla Aleramo Notte in un paese straniero

Assaggi

Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica

Assaggi | 5

René de Ceccatty

Sibilla Aleramo

Notte in un paese straniero

Traduzione italiana di Anna Maria Mercier Nuova edizione

Titolo originale Nuit en pays étranger, 1992 Prima edizione italiana Sibilla. Vita artistica e amorosa di Sibilla Aleramo, 1992 Traduzione di Anna Maria Maccari © 1992, René de Ceccatty

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Assaggi ISSN: 2612-0283 n. 5 – settembre 2021 ISBN – Edizione cartacea: 9788855292573 ISBN – Ebook: 9788855292580 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Sibilla Aleramo (1917), Mario Nunes Vais (1856-1932)

A Bruna Conti

9

1

L’appuntamento

La donna che si guarda allo specchio è bella, povera e ormai sull’orlo della vecchiaia. Sa che tra pochi giorni la sua vita cambierà. Vicino allo specchio, sul comò, un mazzo di rose inviatele da un ammiratore le fanno coraggio. Ha bisogno di sentirsi forte, non è una novità. Ne ha bisogno, questa volta, perché sa che sta per compiere un gesto da cui dipenderà non soltanto il suo futuro, ma la sua stessa identità. Benché sia ormai quasi caduta in oblio, benché viva in una condizione di anonimato che d’altronde non l’ha mai fatta soffrire, sa che in questo momento il suo nome rischia di riaffiorare sulle labbra di tutti per esser pronunciato con disprezzo. Il colloquio che è riuscita a ottenere poco meno di un mese prima, grazie alla sua insistenza e ai suoi appoggi, avrà comunque un esito, per così dire, definitivo. È abituata a queste azioni irrevocabili. La sua esistenza consiste appunto in una serie di clamorosi colpi di scena, in un susseguirsi di quei piccoli capovolgimenti che poi, quando il coperchio della bara si chiude, assumono l’apparenza della fatalità. È già ai due terzi della sua vita, anche se naturalmente lo ignora. La vecchiaia imminente, preannunciata da una ciocca di capelli bianchi nella chioma dorata, da una tendenza a ingrassare

10

contro la quale non lotta più e da una certa durezza nell’espressione del volto, le riserba una serie di avvenimenti che, se le fossero rivelati, la lascerebbero sconcertata. La sua bellezza ha acquisito una solidità scultorea, come se la sua indipendenza intellettuale e la sua autonomia psicologica – tutti eufemismi per mascherare un’idea più semplice, una realtà più cruda: la solitudine – avessero reclamato questo aspetto imponente come loro corrispettivo fisico. Chiunque può leggere nei suoi tratti e nella sua figura, come sta facendo ora lei davanti allo specchio, un passato e un futuro di donna sola pronta a combattere. La fatalità non esiste, nessun fallimento è ineluttabile. Qualsiasi insuccesso può essere cancellato o superato. Non bastandole più la propria immagine, la donna si guarda intorno. A quest’ora mattutina la sua mansarda è bagnata di luce. All’inizio aveva pensato di stabilirsi qui solo per qualche tempo; invece vi abita da più di due anni e ve ne passerà altri venticinque, abbastanza intensi perché questo diventi il luogo simbolico della sua vita. Il suo unico tesoro è un baule che contiene tutti i suoi manoscritti, editi e inediti. Vicino allo specchio, la foto di un bambino di sette anni, suo figlio: la testa leggermente reclinata a sinistra, sorride tristemente senza schiudere le labbra. Ha capelli lisci e luminosi tagliati a frangia sulla fronte, orecchie a sventola, occhi cadenti dallo sguardo serio. È vestito alla marinara e ha tutta l’aria del bambino abbandonato che di fatto è. C’è qualcosa di incongruo a immaginare che questa donna di cinquantadue anni sia madre di un bambino così piccolo. La foto riproduce l’ultima immagine che lei ha conosciuto del figlio. Sa che è vivo, ma non l’ha più rivisto. Si incontreranno di nuovo quattro anni dopo, ormai estranei l’uno all’altra, «lui più vecchio di lei». Il fatto di averlo abbandonato ha segnato la sua vita e la sua opera. In fondo deve proprio alle pagine che riguardano lo scandalo di questo abbandono la sua fama adesso in declino. La donna ha atteggiamenti esageratamente

11

composti. Cerca di compensare con la nobiltà dello sguardo e il sussiego dei gesti lo stato di confusione mentale in cui si trova. I suoi movimenti non sono febbrili, tradiscono appena una certa agitazione. Adesso si allontana dal comò e va verso la finestra, spostandosi tra i mobili con l’agilità delle persone abituate a vivere in uno spazio angusto e ingombro ma ordinato. Prima di aprire le imposte, accarezza macchinalmente un cartellone teatrale attaccato al fianco dell’armadio. Il suo sguardo non vi si sofferma, perché questo sarebbe per lei un grave segno di malaugurio. Il manifesto reca il nome di un’attrice molto famosa ma la pièce, di cui lei è l’autrice, è stata un fiasco completo e immediato: fischi e risate davanti a lei. Il titolo è stampato a lettere lunghe e strette: Endimione. La carta, vecchia di cinque anni, è tutta ingiallita. Questo insuccesso è per lei ancora troppo importante perché si illuda di poterlo dimenticare. Adesso, affacciata al balcone, guarda la via che si sta svegliando. È una via di artigiani, a Roma. Gli studi, come quello dove abita lei, verranno progressivamente sostituiti da gallerie d’arte. Il quartiere diventerà sempre più borghese ma la sua via, con le sue botteghe di corniciai e di falegnami, conserverà sempre il proprio fascino da bohème, anche se leggermente artificiale e affettato. Comunque lei è povera e questo basta a proteggerla dalla falsità. Dalla sua terrazza non vede la collina del Pincio, alla quale è addossato il suo palazzo, ma al mattino ne respira la presenza vegetale. Inspirando profondamente, viene colta da un istante d’ebbrezza, dovuto anche alla notte d’insonnia. È il 18 gennaio 1929. Roma sta perdendo la sua patina invernale ma conserva ancora quella pellicola di gelo umido che fa scintillare i sampietrini e luccicare l’ocra dei muri. Le prime campane chiamano i fedeli alla messa del mattino. La donna torna nella sua stanza; afferra la sua vecchia pelliccia di volpe e il suo cappello di velluto rosso scuro, con la falda rialzata a sinistra e tesa, a mo’ di visiera, davanti e a destra.

12

Non si mette il cappotto: basterà la stola di pelliccia sulla lana argentea del suo vestito con lo scollo a v, finemente lavorato a maglia. Mentre scende le scale di legno, sente il puzzo di urina dei gabinetti comuni. Lei, così poco portata all’ironia, sorride con un sentimento di amarezza che rimane inconscio, ma non le è nuovo. Ha sempre ritenuto «la sua vita divisa in due fasi, incosciente e cosciente, accorata e trionfante, vittima e vittoriosa». E ha sempre affermato che questi due stadi, nettamente separati tra loro, si sono succeduti in quest’ordine. Credeva che non sarebbe mai più sprofondata nell’incoscienza, dopo averla scongiurata una volta. Questo suo passaggio dal sogno alla realtà è stato contrassegnato simultaneamente dalla redazione e pubblicazione di un libro e dall’addio alla famiglia. Ha scritto a questo proposito: «Ero eloquente soltanto nei sogni: dopo i trentaquattro anni lo sono diventata nella realtà: perché la mia realtà s’è fatta quale la sognavo, di passione, di battaglia, di forza, di resistenza, di superamento». Mentre sente scricchiolare i gradini sotto il cuoio consumato delle sue scarpe, stringendosi contro il ventre la borsetta che contiene qualche foglio vergine e un taccuino per prendere appunti, ha il presentimento di star per affrontare la sua ultima battaglia. Gli amici possono diventare nemici. S’inchina davanti a chi detiene il potere. Sta per tradire se stessa. Non nutre alcun rispetto per l’uomo di fronte al quale andrà ad umiliarsi, che sedici anni più tardi verrà assassinato. Traversa Roma a piedi. Vedendola camminare con passo svelto in piazza di Spagna la si potrebbe credere ancora molto giovane, e il suo passaggio provoca infatti battute volgari. Una fioraia che la conosce la chiama. «Oh, signora Sibilla, non le vuole le mie rose stamani? Dove va così di buon’ora?».

13

Sibilla si ferma senza voltarsi, scruta il cielo limpido, poi abbassa lo sguardo sulla borsa e la apre. Cerca il borsello con la punta delle dita, impacciate dai guanti di trina bianca annerita. Prende le uniche tre monete che le restano e le porge alla fioraia. Senza sorridere, afferra un mazzo di cinque rose rosa. «Non se ne pentirà, signora Sibilla, profumeranno per tutta la settimana». Le vie commerciali si stanno animando e tutti cominciano ad aprire i negozi. Sibilla cammina, più leggera. Ha appena speso i suoi ultimi averi. A ogni falcata, fa oscillare il mazzo di rose. Appoggiare il regime fascista o mantenere le distanze? A ogni passo che fa verso Palazzo Chigi l’avvilimento si fa più vicino. Il suo torpore politico è forse un indice di malafede? Il suo sentimento di assenza, di estraneità a quello che sta succedendo in Italia da diversi mesi è in fondo una forma di compiacenza. Sono sei anni che vuole parlare con Mussolini. Voleva già farlo nel 1923, al suo ritorno da Parigi, per quanto il conte Sforza, allora ambasciatore in Francia, l’avesse messa in guardia. E desidera ancora adesso incontrarlo, nonostante i sospetti gravati su di lei nel 1925, quando il suo ex amante Tito Zaniboni tentò di uccidere Mussolini, e soprattutto nonostante il manifesto di Benedetto Croce. Mentre cammina per via Condotti, Sibilla ha questi tre nomi in testa: Sforza, Zaniboni e Croce. Possibile che i servizi segreti di Mussolini non li abbiano messi in testa anche a lui? Il 1° maggio 1925, cioè meno di quattro anni prima. Sibilla aveva apposto la propria firma alla dichiarazione redatta da Croce in risposta alle affermazioni di Giovanni Gentile, filosofo ufficiale del regime. Croce protesta che «nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro

14

gli altri in sembianti ostili è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia». Nel novembre dello stesso armo, 1925, Sibilla viene arrestata a Firenze a casa del pittore Primo Conti, suo amico. Perché ce l’hanno con lei? Perché ha firmato il manifesto antifascista, del resto piuttosto moderato (la sua ostilità, infatti, non è diretta tanto contro il regime quanto contro le argomentazioni degli intellettuali che lo sostengono) o perché è stata ramante dell’uomo che ha tentato di assassinare Mussolini? La notte passata in prigione le ha ispirato una poesia che più tardi verrà pubblicata: Sovra la notte di gran pioggia e sul mondo, pace m’avvolse, la cella era simile ad una tomba. Gelo, sentor di muffa, oscillante ombra […] Lungi le spiaggie le rose le selve e creatura nessuna in pena per me. Nessuno nella notte ad attendermi lungi. […] Nella cella tutta ombra una nuda certezza allora in me sentii meravigliosamente in me assolta sentii la vita intera.

Ma è un volto ostile che si affaccia adesso alla mente di Sibilla e si oppone alla sua decisione, quello del conte Sforza. Lo ha incontrato nel 1922, quando era ambasciatore a Parigi. Il commento del diplomatico fu laconico ma carico di ironia: «I romagnoli e i lunigiani hanno fama di essere tra i più pazzi della penisola. Staremo a vedere chi è il più pazzo, tra me e Mussolini». Sibilla fu l’ultima invitata ufficiale di Sforza ambasciatore. Lo rivide l’anno seguente, il 1923, e gli scrisse una poesia:

15 … ironica e pallida da un cielo bianco d’inverno la luna mi guarda, è quasi sera, io sono tanto stanca e povera come la più povera…

Mentre avanza tra la folla delle vie commerciali. Sibilla sa cosa pensa Sforza: ha fiducia nel popolo italiano ma non in chi lo governa. Infatti egli ha scritto: «I movimenti che, sotto nomi diversi (bolscevismo, fascismo, nazionalsocialismo…), turbano attualmente la vita dell’Europa, non riusciranno a indebolire le radici della vita morale della nazione italiana. Quando i capi di questi movimenti esclamano: “Tutto per lo Stato, niente contro lo Stato, niente al di fuori dello Stato!”, il popolo crede di udire un messaggio nuovo; in realtà, dietro a queste facili formule filosofiche, si cela ancora una volta la vecchissima e terribile esperienza degli imperatori romani, esperienza che portò l’Italia alla miseria e allo spopolamento prima, alle invasioni straniere poi. […] Gli spiriti più elevati affermano in Italia ciò che le masse intravedono nonostante l’abile propaganda di chi detiene momentaneamente il potere: che il chiassoso estremismo adesso tanto di moda – nazionalista, razzista o bolscevico che sia – è essenzialmente antistorico, per riprendere il termine creato da Croce». La grande concentrazione di poliziotti segnala a Sibilla la prossimità di Palazzo Chigi. Ella si accorge di avere ancora in mano il mazzo di rose e, nello stesso momento, vede venire verso di lei un uomo giovane e sorridente. I loro sguardi si incontrano con franchezza e spontaneità, ma lei continua a fissare lo sconosciuto negli occhi un po’ troppo insistentemente, obbligandolo a rallentare il passo e a smorzare il proprio sorriso per evitare equivoci. Ha un viso da intellettuale energico, senza altra bellezza che quella degli occhi neri e intensi, messi in risalto dall’ombra della

16

barba folta e dei capelli scarmigliati. Sibilla è rimasta immobile, come se avesse improvvisamente dimenticato la propria destinazione, la ragione che la spingeva a percorrere così in fretta le vie di Roma a quell’ora mattutina. Con un gesto brusco e istintivo, porge il mazzo di rose allo sconosciuto, che lo prende imbarazzato. Il suo viso ha un’espressione interrogativa, ma le sue labbra rimangono chiuse. Sibilla, senza sorridere, si porta un dito davanti alla bocca. Solo allora si accorge che l’uomo non è solo. Una giovane donna bionda, irritata, ha posato la mano inguantata sul braccio di lui. Adesso afferra le rose: «Non vedi, è una vecchia che vuole dei soldi. Su, diamole qualcosa!». E la donna si mette a frugare in borsa. Sibilla si allontana, ma ha ancora il tempo di udire un commento: «Quanti matti ci sono in giro!». Sibilla ride, libera e leggera. Improvvisamente il suo volto si rischiara, diventa giovane e trionfante. Invece di ferirla, questo insulto la fa sentire sollevata. Fa per varcare il portone del palazzo, ma una guardia la ferma rispettosamente. Lei estrae dalla borsa una busta e gli mostra la lettera di convocazione. La guardia si mette sull’attenti reprimendo un sorriso, poi le indica una scala e le fa il saluto militare. Nell’atrio in cima alle scale c’è una gran folla accalcata intorno a una scrivania. Dopo un momento di confusione, tutti cedono il passaggio a Sibilla. «Fate passare la signora!». Lei porge la lettera a un’altra guardia, seduta alla scrivania, mal rasata e dall’aspetto trasandato. Questa non legge neppure la lettera e la licenzia dicendo: «Tornate tra dieci giorni». Lei non capisce. La guardia parla ridendo con un poliziotto appoggiato a una colonna. Sibilla si rivolge agli altri e domanda:

17

«Che cosa mi ha detto?». «Ha detto di tornare tra dieci giorni. È sempre la stessa storia. Ci dicono di venire, e poi non ci contano nemmeno, non prendono nota dei nostri nomi…», le risponde una donna piccola e grassottella. Ma Sibilla l’ascolta appena e dice alla guardia: «Leggete la mia lettera, per cortesia!». Soltanto allora il poliziotto appoggiato alla colonna si accorge della bellezza di Sibilla e, forse perché è bello anche lui, e giovane, sembra esserne colpito. Con un brusco movimento del braccio allontana la mano della guardia che voleva attirare la sua attenzione. Si avvicina alla scrivania, prende la lettera tutta sgualcita e la legge attentamente in mezzo al brusio della gente. Guarda Sibilla ed esamina il testo, posando lo sguardo ora sul foglio ora su di lei. Poi gira intorno al tavolo e le si avvicina evitando la folla. «Seguitemi». Si aggiusta il colletto dell’uniforme e trascina Sibilla per un intrico di scale e corridoi vuoti, senza mai voltarsi. Tiene rispettosamente la lettera contro il petto e fa risuonare i propri passi sul pavimento. Si arresta infine davanti a una porta monumentale e, dopo aver dato due colpetti di tosse, bussa energicamente. Sibilla si è fermata qualche passo più indietro. La porta si apre e compare un usciere che legge la convocazione e, congedando la guardia, si scansa per lasciar entrare Sibilla. Prima di obbedire all’invito, lei guarda il giovane che si allontana lanciandole uno sguardo furtivo per poi sparire. Sibilla si trova adesso in una sala d’attesa. Quasi tutte le panche e le poltrone sono occupate da donne o militari graduati. Un uomo piuttosto anziano si alza per cederle il posto e lei accetta. L’usciere, seduto a un tavolo di fronte alla porta, la chiama subito:

18

«Faccio Rina Marta Felicina, nata il 14 agosto 1876 ad Alessandria, da Faccio Ambrogio, ingegnere, deceduto il 12 giugno 1927 e da Cottino Ernesta, deceduta il 1° aprile 1917. Detta Aleramo Sibilla, poetessa…». Ha un attimo di esitazione e ripete: «…poetessa. Il 19 dicembre 1928 ha chiesto un colloquio con Sua Eccellenza». Mentre l’usciere declama ad alta voce questa sfilza di dati, lei si avvicina al tavolo e si pianta impettita davanti a lui. Il chiacchiericcio della gente è cessato all’improvviso. Tutti gli sguardi sono fissi su di lei. Solo il suono sibilante del suo nome, ripetuto da tutti, rompe il silenzio: «SSSibilla!». «Il vostro colloquio è stato fissato per le sedici e quindici», dice l’usciere. «Temo che dobbiate aspettare…». Consulta il suo orologio che estrae dal taschino. «…più di sei ore…». Lei fa capire con un gesto che non ha alcuna importanza e torna a sedersi. L’uomo anziano la guarda esitante e finisce per avvicinarsi a lei. «Scusi se mi permetto… Aleramo… dove ha trovato questo nome ormai indissociabile da quello di Sibilla?». Lei risponde secca, senza neppure guardarlo dato che lui non si è presentato: «Carducci, Giosuè Carducci, Piemonte». «Ah, sì, certo!». Fa l’uomo in tono vago, sforzandosi di ricordare. «Carducci, il premio Nobel…». Lei recita in un soffio appena udibile: Cuneo possente e paziente, e al vago Declivio il dolce Mondovì ridente E l’esultante di castella e vigne Suol d’Aleramo…

19

Il vecchio annuisce e va a sedersi un po’ più là, vicino a un gruppo di donne alle quali dice con acrimonia: «Quel vecchio fossile di Carducci è proprio riuscito a darla a bere a tutte le generazioni!». «E a tutti i regimi!», aggiunge una donna. Un’altra bisbiglia, fissando Sibilla che non se ne accorge nemmeno: «E quella, allora? Dal femminismo al socialismo, dal socialismo al futurismo, dal futurismo al fascismo: che altro le resta da provare?». «Il bolscevismo!», dice un vecchietto. Tutti scoppiano a ridere. Si tratta forse di una prova generale che le viene imposta prima del colloquio? Dovrà giustificare ogni gesto del suo passato? Che cosa rappresenta lei per quel vecchio indiscreto? Un nome letto sui giornali, legato a quelli di D’Annunzio e di Eleonora Duse? Il vago ricordo di un romanzo che ha fatto scandalo? Tutta questa gente che la osserva, ha ancora in mente il titolo di Una donna? E Amo dunque sono, il suo ultimo romanzo uscito poco più di un anno prima, dice loro qualcosa? Sono lontani i tempi in cui Sibilla aveva accesso a tutti i giornali e poteva esprimersi liberamente. Questi ultimi anni, passati nella confusione più totale, l’hanno tagliata fuori dal giro. Ha vissuto nella dipendenza sessuale da un uomo di ventiquattro anni che non l’amava e nella speranza dell’aiuto finanziario di un regime che disprezza. Ha accettato di collaborare a vari giornali di destra, e sono tre anni che aspetta una sovvenzione dal ministro dell’Interno. Di notte piange perché vede, come dice lei stessa, «in lucidi baleni la tragica realtà della sua vita attuale». Nel luglio precedente, un giovane compositore incontrato ad Ascona aveva

20

messo in musica la sua poesia Ironica e pallida la luna mi guarda. Adesso ode, o le sembra di udire, qualche nota di pianoforte attraverso il palazzo. E crede di riconoscere la melodia che il musicista aveva scritto per i suoi versi. D’improvviso rivive la sensazione strana che aveva provato a luglio nella sua stanza d’albergo. Lui era «biondo, delicato, occhi azzurri, fronte shelleyana: aveva vent’anni». Lei lo aveva osservato dalla veranda della propria camera mentre lui «in una luce azzurra suonava Chopin e Scriabin. Suonava con magistero e potenza, prodigo e prodigioso. Il viso gli si trasfigurava, pareva lottasse per strapparsi alla terra, per divenir onda armoniosa». Sibilla si ricorda allora la leggenda della nona melodia, che la scrittrice Ellen Key le aveva raccontata a casa del pittore Nielsen: «Sta in ogni torrente un essere umano che suona il violino meravigliosamente: chi vuol imparare la musica va da lui in segreto: egli insegna otto melodie. Se qualcuno arriva ad imparare anche la nona impazzisce o impazzirà». Sibilla è in attesa, ma di che cosa? Di un riconoscimento? Sì: vorrebbe essere la prima donna italiana ad entrare all’Accademia. E poi, ha bisogno di soldi. Aspetta come ha aspettato tre mesi prima, invano, di esser ricevuta da D’Annunzio. Armata di quale orgoglio e protetta da quale indifferenza aspetta adesso nell’anticamera di Mussolini, in mezzo a tutti quegli sciacalli? Vent’anni dopo, convertitasi al comunismo, scriverà a proposito di questo periodo: «Diedi la mia firma al manifesto di Croce. Fui una notte in carcere, dopo l’attentato compiuto da Zaniboni. Ma non ricordo di aver sentito parlare della morte di Lenin, non ricordo, non ricordo. Oggi questo vuoto della memoria, e, più ancora, questo senso d’esser stata così a lungo estranea, assente, tutta chiusa nelle mie vicende personali, mi sgomenta, mi fa quasi ribrezzo… Come fu possibile?».

21

La sua cecità è legata a una speranza assurda, a un’illusione che dovrà attendere anch’essa vent’anni per dissiparsi: l’illusione che l’arte meriti comunque l’avallo dello Stato, indipendentemente dall’indirizzo ideologico di chi è al potere: come se esistesse una gerarchia di valori in cui l’artista si trovi al di sopra delle lotte politiche. Più tardi subentrerà la rassegnazione: «Potrò mai più illudermi? Io non riceverò mai un riconoscimento ufficiale, nel mio paese. Non si accetterà mai di premiare e festeggiare, in Italia, chi ha scritto Una donna. Chi ha avuto l’esistenza che ho avuta io, per quanto scontata con lagrime e sangue, per quanto documento formidabile di forza, di resistenza, di amore, di fede, e, sì, di purezza interiore. Mai. Forse, dopo morta. Molto tempo dopo la mia morte, forse». Al momento in cui Mussolini sta per riceverla, l’unica certezza che Sibilla si sente dentro è un rifiuto: «Senza nessun mio atto di servilismo». Ma questa sua fierezza inattaccabile è molto più fragile di quanto lei creda. Esattamente un anno dopo, infatti, accetterà di scrivere per la rivista tedesca «Querschnitt», che dedica un numero all’Italia, un articolo estremamente ingenuo sull’«ordine nuovo» del fascismo, che avrebbe riportato «le masse femminili alla loro precisa e sacra funzione di riproduttrici della specie». Qualche anno più tardi, nella sua raccolta di prose poetiche e aforismi Orsa minore, farà addirittura l’elogio di Mussolini. In occasione di una gita nelle paludi pontine, che all’inizio del secolo lei stessa aveva contribuito con alcuni amici a bonificare, occupandosi soprattutto dell’alfabetizzazione dei guitti (i braccianti che vivevano in grotte come animali), Sibilla scopre infatti che la sua opera è stata continuata e portata a termine: «Il terreno è dissodato ed arato, gli acquitrini sono colmati, la boscaglia scomparsa, scomparsi i guitti. A distanze uguali, come cantoniere, le case dei coloni, azzurre case, e tante. […] Aura

22

di redenzione, aura di fede. Se anche questo solo avesse Benito Mussolini compiuto per il proprio e nostro Paese, resterebbe nella Storia quale un taumaturgo gigantesco». Poi Sibilla prosegue esaltando lo spettacolo delle folle assembrate per ascoltare i discorsi del Duce: «Quale prezioso tessuto vitale in questo rifluire periodico di popolo nelle piazze d’Italia per udire la parola di Mussolini, e per gridargli la sillaba d’assenso. Immani somme di forza e di calore queste folle creano così adunate, e il suolo e l’aria ne vengono arricchiti, ogni volta più, veramente l’esistenza della patria acquista, ogni volta, maggior evidenza e maggior valore, mentre in ogni singolo individuo l’umanità sussulta, elementare, profonda, in un magico appagamento d’amore e di fede». Sibilla è in preda a un torpore politico fatto di frustrazioni e amarezze – le stroncature che hanno subito i suoi ultimi libri, il rifiuto ostinato che il direttore del «Corriere della Sera» oppone alle sue proposte, il silenzio di D’Annunzio, il ritiro del passaporto dopo l’arresto, la vaga promessa di una sovvenzione statale che era riuscita a strappare al ministro dell’Interno poco prima dell’attentato di Zaniboni e che non ha avuto seguito. Ci sono incontri che non sono incontri. Un nome si trova di fronte a un altro, ma i due esseri umani non riescono a stabilire un contatto. L’uno cerca lo sguardo dell’altro, crede di sentirne la presenza, ma è la trasparenza che ha il sopravvento. Esistere agli occhi di un’altra persona richiede una lunga preparazione: occorre saper disinnescare pazientemente i dispositivi che costituiscono il molo sociale. Ma per Mussolini, Sibilla non è altro che un insieme di elogi e calunnie, richieste pressanti e accuse: rappresenta soltanto la fama ormai vaga di una poetessa un tempo femminista, poi socialista, poi ancora futurista e adesso confusamente portata da uno slancio oscurantistico verso l’unanimismo.

23

È una donna graziosa ma dalle forme un po’ appesantite; si crede bella, e ha conservato in effetti una certa eleganza altezzosa, ma adesso è povera e avvilita dall’oscurità a cui l’hanno condannata i suoi troppo numerosi voltafaccia politici e letterari, le sue infatuazioni amorose troppo affrettate, la sua spiccata propensione per l’irresponsabilità sentimentale. L’estetismo delle sue poesie, pubblicate più di dieci anni prima e sul punto di essere ristampate, il lirismo del «secondo tomo» della sua autobiografia, Il passaggio, un lirismo nietzschiano e astratto, ben lontano dalla semplicità narrativa e dalla precisione del suo primo libro, l’ingenuità simbolica della sua unica opera teatrale e l’impudicizia entusiasta del suo ultimo romanzo, Amo dunque sono: ecco i tratti ai quali si limita l’immagine che ha in mente Mussolini al momento di riceverla. È una donna esaltata e solitaria, che ha rinunciato alle lotte della propria giovinezza. Probabilmente Mussolini conosce questi suoi due versi, che vengono spesso citati quando si parla di lei: Poemi che non scrissi Ma vissi…

Naturalmente è al corrente della sua passata relazione con Zaniboni, della sua incarcerazione, del ritiro del suo passaporto e della sua firma al manifesto di Croce. Ha letto Il passaggio e ha commentato: «A parte la questione morale, c’è una grande forza lirica». E lui, che cosa rappresenta per lei? Rappresenta la persona che l’ha fatta mettere in prigione: è proprio questa la prima cosa che lei gli ricorda al momento di chiedergli udienza. Ma, soprattutto, è un dittatore – gli ha scritto anche questo: «Perché un poeta accetti nel suo spirito un dittatore bisogna che lo abbia davanti a sé, una volta, per sé soltanto, e lo fissi negli occhi».

24

Quando Sibilla entra finalmente nel suo ufficio, lui la accoglie proprio con questa frase: «Perché un poeta accetti nel suo spirito un dittatore bisogna che lo abbia davanti a sé, una volta, per sé soltanto, e lo fissi negli occhi». Ella muove la testa nella direzione da cui proviene la voce. Vede un’ombra tozza contro il vano di una finestra, un uomo piuttosto basso che le volta le spalle e si gira all’improvviso verso di lei. Così può scorgere il suo viso brutto e ridicolo. Non riesce a reprimere un moto di disgusto, ma gli sorride lo stesso. Lui la squadra senza rispondere al suo sorriso. Sibilla ricorderà di quest’uomo che «non emanava luce, e forse neppure calore. Un’umanità molto terrestre, un’intelligenza realistica, tutta contingente, alimentata e sorretta quotidianamente dal favore della sorte». In seguito parlerà anche del suo «innegabile fascino», ma solo per poter giustificare l’errore in cui era caduta. Adesso lui si siede alla sua scrivania, ancor prima di indicarle una poltrona su cui lei prende posto a sua volta. Lui continua a leggere la lettera di Sibilla. «Ho sempre amato i poeti, li ho letti fin dalla prima giovinezza. Ho letto i vostri libri, Signora, che hanno suscitato la mia ammirazione, e ritengo che voi sareste degna di entrare all’Accademia…». Sibilla accenna ad alzarsi. Lui la trattiene con un gesto e guarda verso la finestra: «… se mai desiderassi ammettervi delle donne. Ma si dà il caso che non sia così. Che cosa volete? Denaro? Vi farò avere subito diecimila lire e poi tre versamenti di trentamila lire ciascuno. Se avete ancora degli amici, è grazie al fatto che, a quanto pare, avete cambiato amicizie. Ormai è meglio stare dalla nostra parte, cioè dalla parte dell’Italia».

25

Appena arrivata nella sua stanza di via Margutta, Sibilla Aleramo si stende sul letto ancora tutta vestita e si mette a piangere. Dipenderà ormai da un potere che odia con tutta se stessa: a cinquantadue anni, dopo aver pubblicato nove libri, lei, amica di Gor’kij e di Rodin, accetta l’appoggio del governo fascista. Sei mesi dopo otterrà un premio di cinquantamila lire per la riedizione delle sue poesie. Si alza dal letto e si avvicina allo specchio come aveva fatto la mattina. Scrive: Guardo i miei occhi cavi d’ombre e i solchi sottili sulle mie tempie. Guardo, e sei tu, mio povero stanco volto così a lungo battuto dal tempo? […] come un’opaca pietra non voglio morire fasciata di tenebra.

Sibilla aderisce all’Associazione Nazionale Fascista Donne Artiste e Laureate nel 1933, anno a partire dal quale, grazie all’intervento della regina Elena, otterrà un sussidio mensile di mille lire che, nel gennaio del 1937, le verrà raddoppiato. All’inizio della guerra, forse spaventata dal ruolo di poetessa ufficiale che un tale favore da parte del regime avrebbe potuto attribuirle, rinnega improvvisamente la propria poesia in nome della vita: «Cresce in me il disprezzo per ciò che è stata tutta la mia “poesia”. Se poeta fossi stata, mi dico, ora dovrei trarre da me un canto fremebondo. Poiché son muta, mentre la terra è tutta un grumo piagato, significa che io mi son sempre illusa credendo di aver Apollo per nume. È vero che son donna, con voce non fatta per la cantica marziale o civile». Del resto Sibilla non ha mai voluto assumere pose da poeta. «Non ero una Madame Bovary, non ero vittima della letteratura, non facevo letteratura». La sua opera è rappresentata essenzialmente dalla sua vita: «Sono andata via via creando me stessa

26

liricamente con quel vivo materiale, in una singolare, quasi demoniaca opera, d’ogni giorno, d’ogni istante». «Ho fatto della mia vita, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia». Slancio verso un’armonia impossibile da realizzare; rispetto di una «legge intima»; «ansia di comunicare con gli altri»; «bisogno d’esser necessaria a un’altra creatura viva per vivere»; «impulso al completo impero di se stessa, alla pratica di quell’armonia di pensieri e di atti così rara nell’uomo»; soprattutto rimpianto di non aver potuto generare «un figlio dell’amore, una creatura che fosse insieme un capolavoro della mia carne, del mio cuore, del mio spirito»: questi sono i motivi dominanti della sua opera e della sua vita. Il 27 settembre 1943 Sibilla rifiuterà di seguire le direttive del ministero della Cultura e di rifugiarsi a Salò, sede della nuova Repubblica Sociale Italiana. Di conseguenza smetterà di ricevere da parte del Governo fascista gli aiuti di cui aveva beneficiato per quindici anni. Il giorno dopo che Mussolini fu linciato, cioè il 29 aprile 1945, Sibilla scriverà, alludendo al Cinque maggio 1821: «Mussolini è stato giustiziato stanotte. Ma nessun poeta scriverà un Ventotto aprile. Nessuno si chiede, oggi: “Fu vera gloria?”». Sibilla si addormenta, sogna, si sveglia, e la mattina scrive il suo sogno sotto forma di poesia: Grandi occhi, radianti, buoni, figlio, avevi stanotte nel mio sogno, nel tuo viso d’uomo che m’è ignoto, figlio, e a me t’accostavi e mi baciavi, tutto era assolto in silenzio e sorriso, un tremore una dolcezza santa ci riunivano come all’alba tua natale dopo che da me staccato a me ti strinsi.

27

Contempla la soffitta in cui si trova, che ha già descritto più volte nei suoi libri: «Il grande vano, con le travi nere in alto e le tegole bianche, ha il suo aspetto tra di cappella rustica e di capanna, cara, cara soffitta, decorata e confortevole e piena di sortilegi sottili, con le tre note dominanti, la turchina, la dorata e la verde, e tanta pace». Si affaccia ancora una volta alla terrazza e osserva, in mezzo ai falegnami e i corniciai, l’uomo dei gatti che sta distribuendo come ogni mattina il suo cartoccio di pane raffermo. «Spesso i suoi sogni erano così, astratti com’è astratta una musica; quasi trascendenti. La riportavano alle origini occulte della vita, le lasciavano un viatico di freschezza e di vigore per il ritorno alla zona umana». Colta di sorpresa dal freddo mattutino, Sibilla richiude la porta-­ finestra e comincia a muoversi qua e là per la stanza, agitata. A quale amico annunciare la promessa che la rassicura adesso sul proprio avvenire? La vacuità della propria vita la sgomenta, ma non ha ancora rinunciato alla felicità. Crede di avere ormai smesso definitivamente di scrivere, perché «nessuna opera d’arte potrebbe racchiudere la sua esistenza». Si precipita verso la libreria, afferra la sua copia di Una donna e comincia a sfogliarla. Poi abbandona il libro sul letto, apre un armadio, strappa alcuni indumenti dalle grucce, si spoglia, si infila un vestito, se lo toglie. Ha i capelli spettinati. Si mette una vestaglia e si siede alla scrivania. «Scrivere come in sogno, non sapendo quasi di scrivere».

29

2

Lo stupro

Una ragazzina dodicenne attraversa la piazza d’armi di un piccolo porto dell’Adriatico. Il paese, in cui l’insegnamento si limita alle scuole elementari, si chiama Porto Civitanova Marche. È l’alba, il sole sorge dal mare e posa sui capelli corti e biondi della fanciulla dolci riflessi dorati. Questa indossa una gonna corta e una strana giacca piena di tasche, destinate a contenere un orologio, una matita, un taccuino. Porta un berretto di lana rossa. Non è più una bambina e non è ancora una donna. «È un individuo affaccendato e compreso dell’importanza della propria missione; si ritiene utile, e la cosa le dà un’illimitata compiacenza». Ha un’età in cui dovrebbe ancora studiare, ma ha smesso a causa delle circostanze. Suo padre, che è appena stato posto a capo di una vetreria di duecento operai, le ha chiesto di fargli da segretaria, dopo essersi accorto che in paese non avrebbe mai trovato un precettore che ne sapesse più di lei. Gli operai, «de’ bei contadini abbronzati che vengono dalla campagna», e le operaie, «delle ragazze che salgono agili sui ponti di costruzione», le sorridono. In poco tempo, diventa lei la loro principale interlocutrice, perché ha con loro rapporti distesi.

30

Suo padre, invece, un chimico poco adatto alla direzione degli uomini, è timido, goffo e irascibile con loro, e cerca di mascherare il proprio imbarazzo dietro a una disciplina di ferro. Appoggiati al banco dei bar già aperti, i disoccupati la guardano passare con sguardo benevolo. «Da una parte ella desta la loro curiosità, dall’altra offende la loro abitudine di veder le fanciulle passar timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi». Siamo nel 1888. La famiglia è arrivata a Porto Civitanova il 17 luglio. Sono in sei. Sibilla è la primogenita. Ha due sorelle – Cora, di nove anni, e Iolanda, di cinque – e un fratello, Aldo, di sette anni. La fabbrica diretta da Ambrogio, il padre di Sibilla, appartiene a Sesto Ciccolini, di Macerata. In famiglia Sibilla riveste il ruolo di madre perché Ernesta, che spesso «reclina il capo come se fosse colpita all’improvviso da una grande stanchezza» e accenna un sorriso che «deforma la sua bella bocca rassegnata», vive in uno stato di prostrazione continua. Ernesta ha un carattere dolce, ma spesso si lascia prendere da imprevedibili accessi d’ira. Poi scoppia a piangere senza motivo e Sibilla crede talvolta di non avere una «vera» madre. Eppure Ernesta prova affetto e ammirazione per questa figlia, che rivela al tempo stesso un’enorme vitalità e una tendenza a quegli «stupori meditativi che costituiscono il secreto valore della sua esistenza». Da suo padre Sibilla eredita un ateismo al quale non rinuncerà mai. Dio e l’inferno non esistono più delle streghe che si trovano nelle favole. L’uomo non è stato creato da una volontà superiore: ciascuno è padrone del proprio destino. Niente può minacciare il desiderio d’indipendenza. Sibilla nutrirà per quest’uomo libero un’«adorazione illimitata». Suo padre è per lei il «primo, grande amore». Ma non sempre le è facile capirne le contraddizioni: pur dichiarandosi ateo, per

31

esempio, quando il Natale si avvicina, non rinuncerebbe mai al rito della preparazione del presepe, al quale dedica lunghe ore. E regala a sua figlia la Vita di Gesù di Renan. Quando diventerà comunista, Sibilla evocherà la figura del padre, affermando che a lui deve «sopra tutto la disciplina della volontà»; e aggiunge a proposito del proprio temperamento: «Io ho la fama di disordinata, volubile, pigra, ma, in realtà, ho molto lavorato e posso dire rettilineamente». I principi positivisti del padre non riescono però a mascherarne la pusillanimità, che assume la forma di un autoritarismo eccessivo nei confronti degli operai: licenziamenti affrettati, sfruttamento di minori, come nel caso della sua stessa figlia. Ma in sua presenza Sibilla si sente «felice: libera, attiva, sana, pura. Senza amiche, senza cattivi esempi di sorta, piena di fede in suo padre, e nel lavoro e nel progresso, piena d’amore per la natura che la circonda, campagna e mare. Passeggiate, nuotate. Letture anche a casaccio, avide e continue». La serenità della sua infanzia si nutre paradossalmente delle angosce della madre e della durezza del padre: «Perché la mia infanzia non conobbe il terrore non ho mai accolto quest’idea d’un insidioso male originario? La notte era per me fin d’allora una immensa pupilla bruna, era la vita che si addensava perché i figli e le figlie della terra la fissassero senza paura, infinite costellazioni di occhi. E se la malvagità non è nelle tenebre, non può essere neppure nei cuori degli uomini. La bimba ch’io era vedeva talvolta intorno a sé soffrire, vedeva le cause semplici o strane di tali sofferenze, col respiro sospeso scrutava le inesplicabili, ma nulla attribuiva mai ad una volontà cattiva, ad una cosciente volontà […]. Mio padre mi parlava. S’egli fosse stato un altro, se anch’egli fosse diversamente cresciuto? […] Io ammiravo la sua tempra, come ammiravo la sua alta statura. Avrebbe potuto, così qual era, significarmi tutto un opposto mondo di teorie, esaltarmi Iddio o il mistero invece che la volontà o la potenza dell’uomo, ed io l’avrei ascoltato ugualmente

32

tesa tutta per capire, per penetrarmi della sua facoltà di fede, e convinta già al timbro e all’accento della voce, come allo stormire d’un grande albero, come allo scorrere d’una pura acqua. Ma s’io non avessi mai conosciuto mio padre?». «Avendo avuto nell’infanzia quella che persisto a credere una fortunata educazione, senza pastoia veruna di sogni e di trascendenza, assolutamente laica, naturalistica, ho potuto mantenermi per tutta la vita in quella posizione dello spirito, libera da qualsiasi crisi – e ritengo che il miracolo d’una conversione non m’attingerà neanche in punto di morte, punto non tanto lontano ormai. […] Mio padre, scienziato e ateo, aveva ereditato da mio nonno, mazziniano, alcuni concetti morali, sincerità, lealtà, onestà, libertà, quelli che oggi si chiamano ideologie ottocentesche. E ad essi uniformava rigidamente la propria esistenza, e dai miei primissimi anni me li trasmise, come una specie di religione, umana religione, unitamente a un senso panteistico e commosso di tutte le cose. Nient’altro, ma in un terreno come il mio, assetato d’assoluto e sensibilissimo, era molto e m’è stato sufficiente. I credenti in una finalità e in una divinità antropomorfica, dicono: “Se anche era molto, non era tutto”. Non era tutto. Ma per il sentimento di mio padre, il tutto era mistero, come per Socrate, come per gli stoici, come per Spinoza. E, senza nominarlo mai, e senza averne timore alcuno, lo venerava nelle manifestazioni della natura. Appassionatamente ché tale era il suo carattere. Dal filo d’erba al fiore, dalla linea di un paesaggio a quella d’un bell’animale vivo, da un’opera d’arte a una scoperta scientifica. Aveva per l’uomo, per il fatto d’esser uomo, l’orgoglio che potrebbe avere della propria specie una quercia – se le piante fossero coscienti. E sentendosi così parte dell’immenso mistero, non provava nessun bisogno di preghiera, neppure un ringraziamento».

33

È una mattina di settembre di due anni dopo, nel 1890. In camicia da notte. Sibilla, che ha adesso quattordici anni, bussa alla porta della camera dei genitori. La socchiude e li vede tutti e due addormentati. Richiude la porta e va a prepararsi. Una volta vestita, mentre sta entrando in cucina, sente alte grida che provengono dalla strada. Non si è ancora fatto giorno e la casa è immersa nell’oscurità: nessuna luce è accesa. Sibilla non ne ha avuto il tempo. Si precipita sul balcone e, abbassando lo sguardo, scorge un gruppo di persone che si agitano intorno a una forma bianca. Alza gli occhi verso la terrazza della camera dei genitori e scorge suo padre, stravolto, coi pantaloni del pigiama, il torso nudo, le mani alle tempie. Capisce subito quel che è successo ma non riesce a capacitarsene. Sua madre si è buttata dal balcone. È uscita da un sonno pochi minuti prima ancora profondo per andare a uccidersi. Sibilla e suo padre si scambiano uno sguardo di ghiaccio e poi s’incontrano muti nel corridoio. Scendono insieme le scale e Ambrogio Faccio allontana le donne vociferanti. «Credevamo che fosse una delle sue figlie… Abbiamo urlato, abbiamo cercato di impedirglielo…». Ambrogio si china sulla moglie che lo fissa con sguardo vuoto, ma è ancora viva. È come inebetita, in preda a un torpore dal quale uscirà soltanto tre giorni dopo. Come per miracolo, si è solamente fratturata il braccio sinistro, con il quale si era protetta istintivamente la testa: un roseto ha attutito la caduta, di una decina di metri. Questo grave episodio rivela la follia insospettata, ma ormai definitiva, di Ernesta Faccio e conferma Sibilla nel ruolo di padrona di casa. È ormai a lei che si rivolgono il padre, il fratello, le sorelle, i domestici. Qualche mese più tardi Ernesta Faccio verrà internata. Nessuno aveva immaginato che lo stato di costante malinconia in cui viveva Ernesta potesse spingerla a tentare il suicidio.

34

Trent’anni dopo, Sibilla scriverà due opere teatrali tuttora inedite in cui l’eroina si uccide prima che si alzi il sipario. A proposito delle cause di questo gesto, uno dei personaggi dice: «Non è escluso che un dei motivi per cui si è uccisa sia stato la ribellione alla necessità di dover ancor una volta guadagnarsi la vita. Non posseder nulla e donare ancora». Sibilla, in effetti, si sentirà a sua volta attratta dalla morte, e alle ragioni economiche e sentimentali si aggiungeranno sempre il ricordo della madre e la tentazione della follia: «L’eredità del male di mia madre, io l’ho debellata da tanto tempo. Io ho voluto non divenir pazza, tutte le volte che la pazzia ho rasentata. Ormai, son certa di non venir riagguantata, per il poco tratto che ancora ho da percorrere. Anche senza fuggire. Ma, quest’ultima volta il superamento, la vittoria hanno finito per distruggere il mio fisico. La mente è intatta, il corpo non regge più. Ogni sera sento in me minor riserva di vita. Minorata, sì. Io, Sibilla». Durante i primi mesi di manicomio Ernesta spedisce alla figlia «fogli su cui, a tutte le ore, di notte tarda, al mattino dopo un breve e agitato sonno o fra una crisi e l’altra nel meriggio ardente, segnava il suo smarrimento, invocava aiuto, aiuto, affermava il suo amore per i suoi figli, e, in certi istanti, con tragica lucidità chiedeva a se stessa se sarebbe riuscita a vincere il destino orrendo, a traversare l’abisso e quale vita sarebbe stata, dopo, la sua, col cuore freddo per l’inumana rinunzia». Il suo tentativo mancato di suicidio resterà a lungo per Sibilla l’immagine della miseria e dell’impotenza irrisoria, prima ancora che quella della follia e della disperazione: «A qualcuno che mi dica: “Vorrei gettarmi dalla finestra”, rispondere: “Mia madre l’ha fatto, da un alto balcone e non s’è spezzata che un polso, e poi è impazzita, e son vent’anni ch’è rinchiusa”».

35

Tuttavia, durante la vecchiaia, soprattutto nei mesi di solitudine che precedono la sua adesione al comunismo, Sibilla vedrà riapparire lo spettro della madre: «Inorridita, cerco di resistere, resistere… Alla notte, la battaglia con me stessa diventa terribile». Del passato di Ernesta, Sibilla conosce solo pochi dettagli: «Doveva esser cresciuta fra le strettezze, poco amata. Cenerentola della casa. A vent’anni, a una festicciuola da ballo, s’era incontrata col babbo. Ella mi mostrava il ritratto del giovinetto imberbe che mio padre era stato allora: fattezze ancora da fanciullo, dolci, regolari…». Abbandonandosi al rimpianto dei primi mesi di matrimonio, Ernesta si rifugia ben presto in un cupo mutismo e scoppia in lacrime alla minima occasione. Agli occhi di Sibilla, adesso, lo «spaventoso fenomeno della pazzia appare la negazione assoluta dell’immortalità e di un mondo sovrasensibile dove la nostra personalità venga accolta e si ritrovi con quelle incontrate e amate quaggiù. La sventura materna convalidò dolorosamente ciò che mio padre m’aveva insegnato, e per tutta la vita». «E tuttavia mi veniva da lei, che mi aveva generata, quella pavida sensibilità tutta femminea, gelosa e quasi morbosa, quell’inclinazione al sogno alla chimera al mito, quel segreto anelito al ritmo, quell’istinto profondo di dedizione, per i quali, fin d’allora, fanciulletta per le vie della vecchia Milano, con la mano nella mano di mio padre, ascoltando ogni parola di lui come un oracolo, io ero un fremente embrione della donna che poi son stata e ancora sono: innamorata d’un’ideale immagine virile; tesa in perpetuo a rendermene degna; capace di disperare se quella vien meno, disperare fino a rasentar pazzia e morte». Pur avendo assunto il governo delle faccende domestiche, Sibilla ha iniziato a scrivere. Ancor prima che succedesse la tragedia, aveva fondato un piccolo settimanale a uso strettamente

36

familiare che usciva ogni giovedì e aveva per titolo «Il Micino Grazioso». Anche le sue sorelle e il suo fratellino erano stati chiamati a collaborare: «Redigevo tutto io, poiché le sorelle e il fratello non potevano che aiutarmi nel lavoro pratico, nella “tiratura delle copie”, nel preparar la carta, nell’incollar le fascette. Per loro era un gioco come un altro, un po’ meno divertente d’un altro. Per me, qualcosa di più». Più tardi, rievocherà questo periodo in un libriccino di versi, Il mio primo amore, dove parla della sua passione per un gatto: «Un gatto pelo grigio e nero, lucentissimo. Occhi fosforescenti, musetto magnetico, movenze adorabili… Ecco il mio primo amore. Avevo circa dodici anni. […] D’oro avevo la treccia, e viso d’aurora». Curiosamente, il ricordo di questa passione innocente per un animale, così comune durante l’infanzia, risveglia in lei l’amara consapevolezza di quanto poi siano stati effimeri tutti i suoi amori successivi: «Quando, divenuta donna, ho preteso che l’amore fosse scambio, fosse fusione d’anime comprensione e via dicendo, ho errato, ho errato. Avrei dovuto sempre accontentarmi di mirar l’apparenza delle creature che la sorte mi faceva incontrare, e non attender nulla da loro, mai; considerarli quali misteriosi idoli, ringraziarli d’esistere per la sola gioia dei miei occhi, se avevano nobili forme, o del mio udito, se avevano dolce voce. […] Certo, felice come in quei due anni di adolescenza, padrona del mio gatto e del mondo, non sono stata mai più». Sibilla pubblica per la prima volta all’età di sedici anni, sull’«Ordine» di Ancona, il 26-27 luglio 1892: si tratta di un articolo mondano non firmato, che si intitola Da Porto Civitanova e fa il resoconto di una festa popolare organizzata dall’Associazione Operaia di Mutuo Soccorso.

37

A partire da questo momento, collabora regolarmente a diversi giornali regionali. Firma con gli pseudonimi di Nira – anagramma di Rina, il suo nome di allora – e Reseda. Ma l’anno 1892, che segna l’inizio della sua carriera letteraria, è decisivo anche da un altro punto di vista. Dall’estate precedente sa di piacere agli uomini. Sulla spiaggia due ragazzi, l’uno malaticcio e non bello, l’altro atletico, le fanno la corte e accendono la sua immaginazione. Appartengono – anche se lei lo ignora ancora – ai due tipi di uomo verso cui si sentirà attratta durante tutta la sua esistenza: il giovane intellettuale ironico e mingherlino, dai lineamenti sgraziati e talvolta decisamente brutti, e il ragazzo sportivo che si avvicina all’ideale della bellezza antica. L’Adriatico, che le aveva offerto questi due vaghi esemplari di un sogno amoroso, resterà legato nella sua mente a una fusione con la natura, a una sensualità senza oggetto preciso e, proprio per questo, senza ostacoli. Una sera d’autunno, Ambrogio non torna a cena. Sostiene che ha da fare in fabbrica. Poco a poco prende l’abitudine di non rientrare a mangiare in famiglia. Per togliersi il dubbio, Sibilla attraversa il porto e va diritta alla fabbrica. Chiede di suo padre ai capireparto che si attardano a chiacchierare tra loro. Questi ridacchiano imbarazzati senza risponderle. Hanno troppo rispetto verso di lei per prenderla in giro apertamente, ma non possono nasconderle di sapere qualcosa che lei ignora. Lei si rifugia su una terrazza adesso immersa nell’oscurità della notte, ma da cui di giorno si vede il mare. Così già si spengono i suoi primi slanci lirici, grazie ai quali poco tempo prima ha scritto pagine che non ha mostrato a nessuno. Se infatti ha pubblicato e pubblicherà durante l’anno seguente diverse cronache mondane su «La Sentinella», «L’Ordine», «La Gazzetta del Popolo», riempie allo stesso tempo quaderni interi di prose poetiche: «Il cielo era d’un azzurro chiaro e splendente. La spiaggia

38

sembrava infuocata sotto ai raggi d’un sol di mezzogiorno ed il mare, placidissimo con le leggere oscillazioni dell’acqua splendente, sembrava un immenso specchio turchino, adagiato sul fondo incantevole del cielo». Adesso questa esaltazione le appare irrisoria: sospetta l’esistenza di una verità ben più cruda, e ha bisogno di sentirsela dire apertamente per poterla credere, per poterla ammettere. «Signorina Rina…». Sibilla ha un sussulto al riconoscere la voce dell’uomo che ha pronunciato queste due parole; il loro suono da cantilena l’ha spesso fatta sorridere: «Si-gno-ri-na Ri-na…». Si volta e vede Ulderico Pierangeli. È un bel ragazzo di venticinque anni: ha i tratti un po’ pesanti, da contadino, ma gli occhi vivi, grandi, neri e ridenti. Lavorano allo stesso tavolo e lei subisce da alcuni mesi la sua corte ironica e risentita, tipica dei giovani esasperati dalla propria verginità. Invece di confessarle i propri sentimenti, Ulderico le riferisce tutti i pettegolezzi che circolano su di lei e di cui Sibilla non si stupisce affatto. Ha moltissimi spasimanti che dicono di volerla rapire. Quando passa per strada le vecchie si fanno il segno di croce perché la sua bellezza ha per loro qualcosa di demoniaco. E poi, la follia di sua madre potrebbe essere un castigo divino. Nelle ultime settimane il gioco di Ulderico si è fatto più insistente. Ha sempre sulle labbra un sorriso di scherno mentre la osserva lavorare. Ora offesa ora lusingata, Sibilla lo redarguisce ricordandogli che lei è la figlia del padrone; ma in fondo la sincerità, l’ingenuità e l’ignoranza di Ulderico le fanno tenerezza. La loro disparità intellettuale è lampante, ma lui possiede agli occhi di lei un potere diverso da quello dell’intelligenza: il potere paradossale che deriva dalla sottomissione alla seduzione. Sibilla legge nel suo sguardo l’effetto che la propria bellezza produce sugli uomini. Non ha ancora mai avuto altro interlo-

39

cutore che suo padre e non si aspetta da questo ragazzo uno scambio alla pari. Lui può rivelarle ben altro. Spesso le capita di criticare aspramente il matrimonio davanti a lui, ripetendo semplicemente i principi del padre: «Il matrimonio è un’istituzione sbagliata». Naturalmente Ambrogio, con questi discorsi, non fa che tradurre la propria situazione personale, conseguente alla follia della moglie. Ma per Sibilla, che ha preso il posto di Ernesta nelle faccende domestiche ed è diventata in un certo senso la madre delle sorelle e del fratellino, il matrimonio non rappresenta nient’altro che una gravosa serie di obblighi. La sua bellezza, finora inutile, ha avuto eco soltanto nelle battute volgari che le son giunte per caso all’orecchio sulla spiaggia, in fabbrica, in piazza o durante le rare gite che le ha concesso suo padre – in Umbria, a Roma, e soprattutto a Torino, dove ha accompagnato sua madre dopo il tentativo di suicidio per cercare di distrarla. La bellezza è un difetto, visto che la espone agli insulti. Ulderico e Sibilla parlano insieme tutto il giorno e si osservano. Come spesso succede agli innamorati, lui si sente esasperato dalla superiorità della donna amata e tenta di capirla unicamente per poterla denigrare. Il suo desiderio inappagato si esprime attraverso il disprezzo. Quando lui e Sibilla ridono insieme, li lega una complicità illusoria che deriva dalla loro giovinezza e dal lavoro in comune. Lui vorrebbe che lei corrispondesse all’idea che si è sempre fatto, che ha sempre accettato della donna: una creatura spontaneamente sottomessa e servile. Ma è della sua indipendenza e della sua intelligenza che si è innamorato. Sa bene di esserle inferiore, ma lotta contro questa certezza. Lei sa che Ulderico le è inferiore, ma è l’unico che la ascolta: come potrebbe fare a meno di lui? Ambrogio non fa niente per nascondere la sua disapprovazione verso questa simpatia. Quando li sorprende a ridere e a chiac-

40

chierare tra loro, si serve della propria autorità per impedirlo; ma questo non fa che rafforzare la solidarietà dei due giovani. Opponendosi ostentatamente alla loro amicizia, la trasforma in amore. Proprio oggi, Ambrogio è entrato nel loro ufficio e ha ordinato a Ulderico di andare a controllare una consegna. Li ha separati brutalmente per metter fine alla loro intimità, che lui crede già molto maggiore di quanto non sia. Ulderico è uscito tutto imbronciato ma senza protestare. Irritata da questa intrusione, Sibilla risponde seccamente a suo padre che le chiede alcuni chiarimenti di carattere amministrativo. L’incidente è chiuso, lei non gli dà molta importanza; è solo contrariata dalla manifestazione di questo potere arbitrario. Ma stasera, sulla terrazza, mentre sente sul collo l’alito di Ulderico che profuma leggermente di vino. Sibilla sa che suo padre ha fatto male a intervenire e che se ne pentirà. «Cerca suo padre, vero?». Lei vorrebbe mentire, ma è troppo tardi. Ha già mostrato la propria inquietudine ai capireparto, che devono averne parlato a Ulderico. «Sì, sono preoccupata. Da diversi giorni non torna a casa per cena. Avevo paura che si stancasse troppo in ufficio». Ulderico scoppia a ridere con asprezza. «Perché ride? Perché avete tutti questa risata idiota stasera?». «Rina…», comincia Ulderico. Ma lei gli lancia una tale occhiata che lui si riprende immediatamente, correggendo l’eccessiva familiarità con cui le si era rivolto. «Signorina Rina… è poi così difficile capire?». Lei gli si avvicina e lo afferra per le spalle. Lui guarda sorridendo le mani di Sibilla sul proprio corpo e vi posa sopra le sue. Lei si libera bruscamente, gli volta le spalle e contempla il mare.

41

«Che cosa?», domanda. «Che cosa c’è da capire?». «Via, Signorina Rina», insiste lui mettendole a sua volta una mano sulla spalla. «Lei, così intelligente… lei che ha letto tutto… I suoi romanzi non le hanno insegnato niente?». Lei toglie con violenza la mano del giovane dalla propria spalla e lo guarda negli occhi. I loro visi sono così vicini che quasi si sfiorano. «Parli chiaro. La smetta con tutti questi enigmi, queste domande, quest’ironia. Non sopporto l’ironia!». Lui le cinge di nuovo la spalla con il braccio destro e, afferrandole il mento con la mano, la costringe a guardare verso la campagna, dove bruciano lontani falò. «Vede quei fuochi laggiù… è la periferia povera di Porto Civitanova… È là che vivono i nostri operai, lo sa, no?». «E allora? Che c’entra questo con mio padre?». «Ma è proprio ingenua come una bambina! Quando un uomo è abbandonato dalla moglie, cerca di consolarsi in qualche altro modo». «La smetta! È una menzogna!». Sibilla si allontana da lui e torna dentro l’ufficio, illuminato da due candele. Lui si siede di fronte a lei, scrive qualcosa su un foglio e glielo porge. Lei non lo vede neppure. Ha la testa tra le mani e gli occhi chiusi. «Legga! Mi ha sempre detto che bisogna cercare di conoscere tutto della realtà. La realtà. La sincerità. La verità, la trasparenza, l’autenticità! Da quando la conosco, non fa che ripetere queste parole. Ebbene, eccole la sua verità! Legga!». Lei prende il foglio e vi legge il nome di una donna che conosce, una donna qualsiasi, operaia, madre e vedova. Poi guarda Ulderico che ha un’espressione trionfante. «E il nome della sua amante. La mantiene già da diversi mesi. Era rimasta l’unica a non saperlo, Rina!».

42

«Non è possibile, è una calunnia!». Sibilla si alza rovesciando la sedia e fa per uscire di nuovo sul balcone. Lui la prende per un braccio. «Se non ci crede, cerchi il suo nome nello schedario!», le dice trascinandola verso un cassetto. «Mi lasci, mi sta facendo male, è impazzito!». «Non lo troverà, il suo nome. Se n’è andata prima dell’estate: si è licenziata, ma lei non se ne è neanche accorta». Allora Sibilla si mette a cercare freneticamente tra le schede degli operai e finisce per constatare che, in effetti, quella della donna è scomparsa. Eppure ricorda benissimo il suo nome; deve ammettere che non ha fatto caso alla sua assenza. «Non si preoccupi, Rina, non dipende affatto dalla sua negligenza. Quella donna se n’è andata mentre lei non c’era, mentre era a Torino con la sua povera mamma. Suo padre ha voluto che ve ne andaste proprio per essere libero di farle lasciare il lavoro, di trovarle una nuova casa…». «Mio padre», scriverà Sibilla in seguito, «l’esemplare raggiante, si trasformava d’un tratto in un oggetto d’orrore: egli che mi aveva cresciuta nel culto della sincerità, della lealtà, egli nascondeva a mia madre, a noi tutti, un lato della sua vita». Sibilla si precipita per le scale e sente la voce di Ulderico che la chiama. Corre piangendo verso l’oscurità. Poi deve fermarsi, esausta, ansimante, con una mano sul petto. Ha voglia di vomitare. L’amore è dunque «una cosa nefasta, degradante, e pur formidabile se ha potuto vincere e avvilire suo padre». Naturalmente, non dirà niente ad Ambrogio e si limiterà a guardarlo con indifferenza o pietà. Adesso conosce e disprezza la causa delle sue continue assenze. Questa sera, quando rientra nella sua casa addormentata, ha ormai acquisito quell’amarezza disincantata che tutti chiamano

43

maturità. Della sessualità conosce soltanto il violento disgusto che le ispirano la falsità di suo padre e la velata dichiarazione d’amore di Ulderico, dettata dal desiderio di vendicarsi e accompagnata dalla delazione. Ormai ogni legame col padre è infranto. Ulderico ha dovuto distruggere l’immagine di Ambrogio per poter imporre se stesso a Sibilla. È stato un gioco pericoloso, ma efficace. Non si è limitato a insinuare dei dubbi ma le ha fatto una vera e propria rivelazione. Questa è la prima manifestazione della violenza che da ora in poi Ulderico eserciterà su di lei. Li unisce adesso una nuova forma di complicità che Sibilla aborrisce, una congiura del silenzio. Distesa sul letto ancora vestita, con la finestra socchiusa, ella pensa con orrore alla convergenza di queste due sensazioni contraddittorie, prepotenti, improvvise: il disgusto suscitato dalla certezza che suo padre desidera una donna, una donna di cui lei ricorda solo vagamente i tratti volgari, comuni, insignificanti – la pelle lattiginosa e molliccia, lo sguardo docile, il sorriso sciocco della vittima – e il turbamento incontrollabile che le provoca, e ormai le provocherà sempre, la presenza di Ulderico. Non prova desiderio per lui: si tratta piuttosto di una sensualità rassegnata, di un insieme di forze disordinate che la risucchiano come un vortice. Sente la chiave che gira nella serratura e si alza a sedere sul letto. Poi si avvicina alla porta della sua camera e si appoggia, tesa e immobile, contro di essa. Una lama di luce riga il pavimento, poi danza come un elfo: suo padre traversa il corridoio con passo felpato, una candela in mano. Va a sdraiarsi vicino alla moglie, tramortita dalla sua dose di belladonna. Stanno là, l’uno accanto all’altra, come due cadaveri gemelli, due morti uniti per l’eternità. Ambrogio ancora impregnato del profumo dolciastro della sua amante sfiorita, Ernesta prigioniera di un coma diverso da quello in cui vive durante il giorno. «Un senso di fine repulsione, venato insieme d’ironia e d’indulgenza, le veniva dal pensiero delle coppie coniugali, dei corpi

44

giacenti l’uno accanto all’altro, tutte le notti, per l’intera notte, per anni ed anni, forse per il resto della vita, dal pensiero (ch’ella immediatamente respingeva per fastidio) di quegli abbracci, come dire? a serie, regolari, obbligatori». Forse la follia a cui sua madre si è abbandonata ormai da mesi non è altro che una reazione isterica di gelosia. Reprime questo sentimento per amore dei figli, quasi fosse possibile evitare di prenderne atto come si evita di far scoppiare uno scandalo: soffocandolo sul nascere. E quando lo scandalo è scongiurato al prezzo della coscienza, l’unica via che rimane è quella della follia: mutismo che nasconde un rancore ossessivo, pianti di nascosto, decisioni incoerenti, alternanza di aggressività acerba e sottomissione subdola e amara. Ecco dunque in cosa consiste la verità, pensa Sibilla, che si è di nuovo sdraiata sul letto nell’oscurità: non esiste una verità nuda, neutra, traduzione limpida e incontestabile di un avvenimento oggettivo. La verità è un’arma da tenere a lungo nascosta per sfoderarla poi al momento giusto. Ulderico non ha neppure bisogno di minacciarla, di proclamare la verità ai quattro venti. Il suo non è un ricatto, ma un’intimidazione più scaltra, più personale: si tratta di una faccenda tra loro due. Sibilla si addormenta disponendosi mentalmente alla lotta. A dire il vero, non si è ancora resa conto della vastità del disastro, dell’effetto che la rivelazione di Ulderico ha prodotto su di lei. Considera suo padre un estraneo abbrutito dal sesso e si rivolge a Ulderico prima come a un complice, poi come a un amico. Del resto suo padre è diventato del tutto indifferente all’intimità ormai manifesta che si sta creando tra loro. Non vuole ammettere che questa sia il risultato immediato della sua scenata. E non può sapere che le altre due conseguenze sono state la delazione di Ulderico e il disprezzo che sua figlia prova adesso per lui.

45

Sibilla ha preso l’abitudine di lasciarsi riaccompagnare a casa da Ulderico la sera. Nessuno ci fa caso: Ambrogio è occupato da altri interessi, Ernesta è pazza, i fratelli troppo piccoli. Sibilla è sola con Ulderico. Si sente «dolce, remissiva. Non gli dice di volergli bene, non lo dice neanche a se stessa, ma c’è un uomo a cui è cara». Si adagia in uno schema sentimentale illusorio e confortevole, quello delle menzogne comode e inconsapevoli. In cos’altro consiste l’amore se non nell’accettare l’abiezione del sesso e nel prepararsi alla lunga noia di due vite parallele? Una sera Ambrogio cena in famiglia, una volta tanto. Lui e Sibilla parlano a monosillabi degli affari della giornata. Quando la tavola è sparecchiata, qualcuno bussa alla porta. La visita era attesa: si tratta di un notaio con cui Ambrogio esce ogni tanto e che gli serve spesso da alibi. Meno attesa era la presenza di Ulderico. Ambrogio non osa sbattergli la porta in faccia perché ha bisogno del notaio, che si dice suo amico. Ulderico è venuto unicamente per vedere Sibilla, come se non gli bastassero più tutte le ore che passano insieme in ufficio. I due uomini cominciano a chiacchierare di un vago progetto di comprare certi terreni. Poi la conversazione scivola sulla questione di alcuni operai che danno segni d’insofferenza verso l’atteggiamento tirannico di Ambrogio e minacciano di ribellarsi. In tutta Italia, in quegli anni, le agitazioni sociali turbano il buon andamento degli affari, «Ma forse la signora Faccio è stanca», dice astutamente il notaio con un sorriso mellifluo. «Si potrebbe andare in riva al fiume a prendere un po’ di fresco e continuare là la nostra conversazione, senza annoiare le signore». Allora la signora Faccio si scuote dal suo torpore. Sembrava assente, ma invece aveva ascoltato tutto e non aspettava che

46

questo momento. Si alza dalla poltrona, si avvicina al notaio e lo afferra per un braccio: «Allora è vero quello che dicono… Abita proprio vicino al fiume!». Il notaio, spaventato, non può fare a meno di lanciare ad Ambrogio uno sguardo di supplica. «Mi scusi, signora… non capisco di chi stia parlando…». «Ha capito perfettamente. Parlo di quella donna, sì, quella da cui mio marito a volte si ferma a dormire…». Ernesta affonda le unghie nella carne grassa e flaccida del notaio, livido dalla paura. Interviene Ambrogio, che la interrompe e la costringe a lasciare la presa. «Mia moglie è matta…». Poi si riprende, e aggiunge in tono paterno: «La deve scusare, sa, dopo la caduta… Ha perso la ragione». Ernesta lascia il braccio del notaio e indietreggia, come inebetita, cercando con lo sguardo Sibilla, che si avventa contro il padre: «Anch’io, papà, avrei perso la ragione al suo posto!». «Zitta!», urla Ambrogio alzando un braccio, senza però avere il coraggio di colpirla. «Vattene!». Lei obbedisce, ma quello che ha detto è bastato a far capire ad Ambrogio di esser stato scoperto. Questi guarda Ulderico. È troppo tardi. Ulderico accenna a seguire Sibilla fuori della stanza, ma poi si ravvede per non esporsi al furore del padre. Anche Ernesta si è ritirata piangendo. Ulderico la prende con la forza, ma è una forza alla quale lei cede progressivamente. A un certo momento lei smette di opporre resistenza. Il fatto avviene nel loro ufficio, quando la fabbrica non è neanche vuota. Lui la bacia; ha un alito da bam-

47

bino, fresco, vegetale, che profuma di latte. Non ha bevuto. Schiude le labbra contro quelle di Sibilla, che restano appena scostate ma finiscono per lasciar passare un filo di saliva tiepida. Lei riceve sulla lingua una carezza umida e timorosa. Ha gli occhi socchiusi. Ulderico li chiude con tanta forza che gli tremano le palpebre. Non osa muovere la lingua. Allora Sibilla apre del tutto la bocca. Le loro lingue oscillano, a destra e a sinistra, senza penetrare la bocca dell’altro, senza sovrapporsi. È una sensazione dolce e delicata, segreta e confortante, come quando si infila una mano sotto il guanciale. Ulderico respira pesantemente, a scatti dolorosi, si fa assente, si allontana ma non abbandona le labbra di lei. La mano destra di Ulderico aderisce alle reni di Sibilla, senza scivolare verso le natiche. Lui la stringe a sé e la immobilizza in una posizione di equilibrio. Stanno in piedi, così, l’uno contro l’altra. Con la mano sinistra Ulderico afferra un lembo del grembiule, un lembo del vestito e un lembo della sottoveste di Sibilla. Lei capisce benissimo quello che sta facendo e quello che farà dopo. È in preda a una specie di amnesia, di indifferenza. Quando sente la mano sinistra di Ulderico che si posa sul suo cespuglio di peli e le scosta le labbra, asseconda i suoi gesti; lui infila subito il pene, che penetra senza difficoltà tra le pareti umide. La vagina freme, si allarga, si contrae, si allarga di nuovo. Il membro penetra a fondo, si ritira, penetra ancora, lacerando l’imene. Lei prova dolore? Sì, ma è un dolore che non somiglia a quello causato da una ferita. È un’altra cosa. Si sente elettrizzata. Ha come un formicolio sulla pelle. Il desiderio che lei suscita in questo ragazzo le provoca un senso di disgusto e di simpatia. Lui si allontana un po’ da lei, si astrae da se stesso. Il pene è uscito. La massa calda di carne lontana e agitata preme contro un lembo di pelle nuda. Lei vorrebbe aiutarlo a entrare di nuovo. Ma non può. Adesso il sangue facilita il va e vieni del sesso di Ulderico. Ormai si tratta semplicemente di una questione meccanica: sfregamento, turgore. Il seme è pronto a fuoriuscire.

48

Le loro bocche si sono separate. Sibilla ha incrociato le mani dietro la schiena, contro il muro. È la nausea che domina. Non prova più stupore né simpatia. Un corpo si dimena freneticamente contro il suo. Ulderico sta mettendo alla prova la resistenza del pudore di Sibilla. Lei non grida. Perché dovrebbe gridare? Di cosa potrebbe lamentarsi? Innegabilmente, sente un bruciore tra le gambe, ma non troppo forte. Ulderico ha chinato la testa e cerca da solo, accanitamente, di raggiungere il piacere. Il corpo di Sibilla si identifica con l’immagine ideale che lui si era inventato durante quelle settimane di corteggiamento e di ricatto. È l’inizio o la fine? Il primo uomo con cui ha fatto l’amore intende il piacere come un incontro di pugilato clandestino. I capelli di Ulderico, che si sono riversati in avanti a causa delle sue rapide contrazioni, carezzano il mento di Sibilla. Quei riccioli infantili le fanno tenerezza. Soltanto i sessi si toccano adesso: il resto non è che un dispositivo ingombrante. Non un gesto superfluo. Ulderico ha allargato le braccia e ha appoggiato le mani al muro, ai due lati del corpo di Sibilla, per tenersi in equilibrio. Probabilmente ha scambiato il sangue per un umore più accogliente. A ogni modo, non si preoccupa minimamente della fanciulla che desidera, anzi ormai non la desidera neanche più, vuole solo spargere il suo seme dentro di lei. Qualcuno cammina a due passi da loro: è un operaio che bussa alla porta dell’ufficio di Ambrogio. Ambrogio risponde imprecando. Era proprio quello che ci voleva: lo sperma schizza sulle pareti rosa. Ulderico cade quasi, ma concede ancora qualche istante di tepore al suo sesso ammosciato. La sensazione che ha provato Sibilla non è andata al di là di un formicolio elettrico; non ha dimenticato il mondo né lo ha concentrato in se stessa. Inarca il busto e fa uscire Ulderico, che emette un gemito pietoso. Si tira su le mutande e si riaggiusta la sottoveste e il vestito. Scorge la propria immagine riflessa sul vetro della libreria. Non reca traccia di quel che è successo, a parte due ciuffi ribelli che

49

lei si accomoda distrattamente. Si siede alla scrivania e apre il registro dei conti. Mentre Ulderico si riveste sospirando, lei si alza, va verso la finestra e la socchiude per paura che l’odore di sperma e di sangue riveli lo stupro. Si siede di nuovo e intinge la penna nel calamaio incassato nel legno del tavolo. Vuole scrivere, scrivere, senza sapere neppure cosa. Ma non vede più niente. Piange. Non vuole piangere, ma il velo che le annebbia la vista non si dissolve. Ulderico, seduto di fronte a lei, non esiste più. All’improvviso il dolore tra le gambe si fa talmente violento che Sibilla si alza di scatto rovesciando la sedia, che non si preoccupa di raddrizzare. Afferra la giacca e si precipita nel corridoio. Passa davanti all’ufficio del padre, che ha la porta spalancata. Ambrogio la chiama: «Rina, dove vai?». «Torno a casa», risponde lei senza fermarsi. «Che hai, Rina? Rina!». Ambrogio esce nel corridoio e guarda la figlia che si allontana col suo portamento elegante. «Sono stanca, papà». Prima di scendere le scale. Sibilla si volta e gli sorride da lontano. Lui crede di capire e le fa un gesto con la mano, come per dirle di andarsene pure. Il desiderio, l’appagamento, la repulsione resteranno per lei un mistero. Ecco com’è cominciato il piacere. Vent’anni più tardi Sibilla si chiederà ancora: «Perché un uomo m’attrae, dieci uomini mi attraggono, e un altro uomo, altri dieci uomini no? Anche nei periodi di maggior esasperazione sessuale, di più lunga e bruciante castità, quando basta un profumo o un ricordo a farmi rabbrividir di voluttà, come può avvenire che un uomo, un maschio bello e

50

forte, non mi turbi affatto, anche se mi sento da esso desiderata? C’è dunque una secreta legge una moralità nei più liberi rapporti fisici? E forse ad essi soltanto dovremmo attenerci?».

51

3

Il matrimonio

Ulderico sta dormendo accanto a lei. Si sono sposati il 21 gennaio 1893. Lei ha smesso di lavorare nella fabbrica che Ulderico spera di poter dirigere un giorno. Hanno rifatto l’amore spesso. Sibilla ha tentato di immedesimarsi nella parte della donna sposata, ha scritto alcune lettere piene di finta gioia e poi si è rassegnata al ruolo di moglie frustrata. A diciassette anni, ha già «un’aria assonnata di bimba vecchia», come dirà lei stessa. «Intanto una specie di torpore m’invadeva. Era come un bisogno d’inazione, di completo abbandono alle cose circostanti». Il pavimento vicino al letto è cosparso di fogli ridotti in mille pezzi: lettere d’amore scritte a Ulderico da un’altra donna, un’ex fidanzata con cui lui era rimasto in corrispondenza fino a poche settimane prima del matrimonio. Sibilla le ha scoperte proprio oggi e gli ha fatto una scenata di gelosia. Ma per lei è solo una questione di orgoglio ferito. Al pianterreno, qualcuno bussa alla porta. Ulderico, che ha preso gli insulti di sua moglie per una prova d’amore, russa sereno e soddisfatto. Crede che Sibilla si libererà della propria frigidità dopo la nascita del figlio che porta. Lei guarda con disgusto le sue labbra socchiuse e tranquille. Lui non sente i

52

colpi che fanno vibrare i muri. Lei si alza e corre a piedi nudi fino all’ingresso. «Aprimi, Rina! Rina, sei in casa?». È la voce di sua madre. Sibilla tira il chiavistello e accoglie tra le braccia Ernesta, con i capelli arruffati e in camicia da notte. Ha traversato così, mezza nuda, tutto il paese. «Perché ti hanno portata via, Rina? Perché te ne sei andata?». Sibilla chiama urlando Ulderico, che esce a cercare Ambrogio nella notte. Ernesta viene riaccompagnata a casa. All’alba, Sibilla perde il bambino. Nel 1912, Sibilla scriverà sul suo taccuino: «Vent’anni fa: il primo anno del mio matrimonio. Non avevo ancora mio figlio. Mia madre era impazzita, andavo a trovarla di quando in quando al manicomio. Ero sola quasi tutto il giorno nelle stanze dai mobili di noce lucidi. Vent’anni fa. Soltanto vent’anni fa, e son più spaventosamente colmi di vita per il mio cuore che venti secoli per il cuore del mondo. Allora no, in quell’anno no, non era una vita. Era un poco come in certe ore adesso, un sopore attento, un’accettazione istintiva dello scorrer irragionato del tempo in sonno, un avanzarsi grave nel sonno verso il risveglio, come ora, in certe ore d’accalmia, verso la morte. C’era anche là una povera griglia a carbon coke, come questa che guardo ardere aureolata di corte fiammelle azzurre. Il carbone veniva dalla fabbrica che mio padre dirigeva, una nostalgia mi prendeva – uguale adesso risorgente dopo vent’anni – delle enormi bocche dei forni». Dal manicomio di Macerata, Ernesta scrive alle figlie, al figlio, al marito. Vorrebbe che la facessero uscire, resterà invece là dentro fino alla morte. La sua follia preannuncia quella di Dino Campana, che Sibilla amerà diversi anni più tardi.

53

«Che ho fatto», scrive Ernesta a Sibilla, «perché mi si debba togliere la stima e l’affetto di tutti!». Il 3 aprile 1895 Sibilla, che non ha ancora compiuto diciannove anni, dà alla luce Walter. Tanti anni dopo, ormai sulla soglia della vecchiaia, ella scriverà: «La sorte della donna tanto meno fortunata di quella dell’uomo ha un privilegio tuttavia che ogni uomo può invidiarle: il privilegio di attingere con la maternità nei momenti che seguono allo strazio del parto l’estasi più alta concessa all’umana natura, estasi superiore a quella dell’amore, anche se perfetto e a quella, credo, che raggiunge il genio negli attimi creativi, uguale soltanto a quella del santo nei suoi rapimenti». Benché indifferente nei confronti del proprio marito, Sibilla «agisce verso gli altri ispirata dalla volontà di mantenere l’illusione intorno alla persona morale di lui, di farlo apparire degno di lei, degno della sua paternità». È un’alba piovosa. Otto giorni più tardi, secondo quanto afferma Sibilla, Walter le sorriderà. Poche settimane dopo lo metterà a balia. Lei, che abbandonerà il figlio e il marito, si chiede: «C’è un tipo materno irreduttibile? L’esclusivismo in amore nella donna ha carattere materno, come nell’uomo ha carattere di dominio. La donna apre le braccia, accoglie sul suo petto la creatura amata e tutto il mondo si concentra in quel punto in quell’essere che può frattanto, nel dolce tepore, sognare». Ancora due anni di questa vita di finto sopore ed ecco che appaiono i primi articoli femministi di Sibilla, firmati Rina Faccio Pierangeli. Ha ventun anni. Un circolo filologico milanese ha rifiutato di ammettere le donne al suo interno: «Egoismo da musulmani e cecità medievale», commenta Sibilla senza

54

poter pubblicare il suo articolo. «L’uomo latino, nell’egoismo e nell’ardore etnico, ha fatto e fa della propria donna una schiava». Scrive anche novelle, rimaste inedite, che hanno come tema vite familiari frustrate e amori infelici, come protagoniste donne ingannate. Mentre era ancora incinta di Walter, Sibilla aveva terminato un racconto che non pubblicherà mai, Morte feconda. La sua protagonista si chiama Nora, come quella di Casa di bambola. La scoperta di questa pièce avrebbe di lì a poco sconvolto Sibilla; ma è probabile che ne avesse sentito parlare fin da allora, dato che era già stata interpretata dalla Duse. D’altronde Nora è quasi un anagramma di Rina. Nel racconto di Sibilla una giovane donna di mondo vede morire un bambino e subito si immagina di esserne la madre. È questa agonia che la convince ad accettare di vivere con l’uomo che ama. In questa esperienza tragica la fanciulla frivola trova il coraggio per affrontare la vita. Il racconto, dal tono edificante e disincantato, ha un carattere premonitorio: benché non abbia neppure partorito, Sibilla intravede già il dramma dei mesi a venire. Inconsciamente, uccide suo figlio ancor prima che nasca. «A poco a poco irresistibilmente ella si vide dinanzi un quadro sommamente funebre e straziante: una culla simile a quella del povero bimbo Didiani, ove giaceva un morente esserino, a cui ella, Nora, aveva dato la vita». Capisce che solo la scomparsa di suo figlio potrà renderle la libertà. Il termine «femminismo» è allora sulla bocca di tutti. Anche Sibilla se ne serve nei propri articoli. Nell’ultimo secolo, a partire da Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, si sono moltiplicati i saggi che tendono a far convergere socialismo e femminismo: l’opera più rappresentativa in questo senso è quella di John Stuart Mill. Da più di vent’anni è uscita in Italia, un

55

anno dopo la sua pubblicazione in Inghilterra, La soggezione delle donne. Cinque anni di matrimonio sono bastati a Sibilla per sviluppare una certa coscienza politica. Tra lei e Ulderico c’è una totale mancanza d’intesa: «Non si va d’accordo in nulla: i nostri gusti, le nostre idee, le nostre aspirazioni fanno tutti a pugni fra loro. E l’amore, l’affetto, invece di formarsi e di divenir sempre più saldi, svaniscono, così, nel soffio gelido e brutale di questo continuo e crescente attrito… Ed è triste, sai, tutto ciò, alla mia età, quando si son sognate splendide visioni affettuose di pace, quando si sente soffocare e morire in noi ogni speranza, ogni slancio… È triste questo vedersi legata ad un uomo che non mi ama e non mi comprende». Oltre a questa incomprensione, lo spettacolo disastroso del matrimonio dei suoi genitori e la follia in cui sua madre ha trovato l’unica via d’uscita hanno contribuito a convincerla che deve cercare soltanto in se stessa le risorse intellettuali e le armi affettive di cui ha bisogno. Sibilla passa poco a poco dall’affettazione dei resoconti mondani e il lirismo lacrimevole dei racconti al tono deciso e provocatorio dei saggi militanti. Legge l’opera del positivista Guglielmo Ferrero, L’Europa giovane, come ricorda in Una donna senza citare direttamente il titolo: «Non piansi, non mi esaltai, non sentii in me nessuna rivoluzione. Quelle pagine rispondevano nella sostanza ad un ordine di idee che in me si svolgeva fin dall’infanzia». Sibilla appunta sul suo taccuino: «Credo fermamente che il femminismo sia una delle leve che rigenereranno il nostro vecchio mondo». Si oppone all’ideale reazionario della donna come angelo del focolare, ruolo al quale del resto lei stessa si trova relegata dopo il matrimonio. Tra il 1897 e il 1900 pubblica una serie di

56

articoli sul femminismo ed entra in polemica con la scrittrice Neera, rimproverandola di dipingere la condizione femminile in maniera troppo caricaturale. In un racconto senza titolo che invia alla rivista «Natura e Arte» e che rimarrà inedito fino alla sua morte, Sibilla fa una vivida descrizione dell’ambiente di lavoro nel quale è cresciuta a partire dall’età di dodici anni: «Nell’immenso salone ottagonale il forno si ergeva, grande e superbo, mandando sprazzi di luce infuocata dalle sue numerose bocche… Gli operai frammisti, con lunghe e pesanti canne di ferro, attingevano da quelle nell’enorme bacino splendente il vetro fuso e fulgido, lo soffiavano, lo modellavano nei massicci stampi di ghisa e in men di due minuti consegnavano ai rispettivi gamins affinché portassero ai forni di ricottura, la bottiglia o il bottiglione o l’enorme damigiana. Un soffio ardente avvolgeva il luogo, togliendo quasi il respiro; e un brusìo sordo si elevava all’altissimo architrave della fabbrica, un sussurro di operai tenuti in freno dalle rigide prescrizioni, un cozzar di ferri e di stampi, un tintinnio lamentoso di rottami di vetri, un andar frettoloso qui e là di aiutanti, di capi, di addetti…». Sibilla entra in contatto con vari intellettuali, ai quali scrive o che scrivono a lei in seguito alle sue prime pubblicazioni. In particolare, il suo breve saggio intitolato Apatia Italica viene notato da un professore italiano di Dresda, che la scambia per un uomo e le consiglia di fare ricerche sul movimento operaio a Milano. Sibilla non ha ancora ventun anni, suo figlio ne ha due. È una notte di giugno. Durante il giorno, Sibilla è stata al manicomio di Macerata. Nei primi tempi Ernesta aveva inutilmente fatto appello ai familiari perché la facessero uscire; da quattro anni si è abbandonata alla follia. Al manicomio, le tre so-

57

relle stanno di fronte alla madre che non le riconosce. Adesso lei è diventata la loro figlia. Tocca le loro «stoffe, i nastri, e le acconciature». È diventata talmente grassa che i suoi tratti un tempo così delicati, su cui si poteva leggere un’anticipazione della bellezza di Sibilla, si perdono nelle pieghe del mento e delle guance. Indossa un grembiule celeste, come una scolaretta. Nella vasta veranda dalle finestre socchiuse, che lasciano entrare l’aria profumata dagli aranci e dai gelsomini del giardino, le tre ragazze potrebbero essere scambiate per dame di carità che fanno visita a un’orfanella. Seduta su una poltrona di vimini con cuscini di trina, Ernesta guarda le sue figlie con un sorriso timido e rispettoso. Il suo viso paffuto la fa sembrare ancora più giovane. Di tanto in tanto distoglie lo sguardo per contemplare il giardino, dove passeggiano altri internati, seguiti a distanza dalle infermiere. Sibilla vorrebbe parlarle ma non ci riesce. Cora e Iolanda piangono. Sibilla no. Ma ciò che le sorelle prendono per durezza è solo il vano desiderio di protegger se stessa. Vano perché quest’ultima immagine di sua madre la perseguiterà sempre, anche quando lei sarà molto più vecchia di Ernesta adesso. Un calesse le riporta a casa attraverso la campagna marchigiana. Cora e Iolanda hanno già ritrovato la spensieratezza dell’adolescenza, ridono persino di tanto in tanto; Sibilla pensa a Walter che forse l’aspetta. Infatti la stava aspettando. Aveva «la dolcezza di mia madre negli occhi». Ulderico non apre bocca. Lascia che sua moglie cambi le fasce al bambino e lo metta a letto. È tardi e la balia ha già dato da mangiare a Walter, che non è voluto andare a letto senza vedere la mamma. Sibilla lo culla a lungo tra le braccia e lui le si stringe al petto, come se presentisse la tragedia. Quando la respirazione di Walter si fa regolare. Sibilla prende la bugia e lascia la stanza. Anche se cerca di non pensarci, la spaventa l’idea di doversi trovare da sola con Ulderico, che la sta aspettando vicino al camino.

58

«La mamma non ci riconosce più», gli dice semplicemente. Lui fa finta di leggere il giornale e non si degna di alzare lo sguardo. «È come tornata bambina», continua Sibilla sedendosi di fronte al marito. «Tocca i nostri vestiti, ha uno sguardo da orfanella. È così sola. Non ha più marito né figli…». «E tu, ce l’hai un marito e un figlio?», chiede Ulderico con voce fredda e ovattata. «Te lo dico io, perché quella poveretta è diventata matta. Ha perso la testa perché il tuo caro paparino, l’uomo che tu ammiri tanto, l’ingegner Ambrogio Faccio, Sant’Ambrogio, il patrono di Porto Civitanova Marche, il celebre filantropo che fa lavorare giorno e notte bambini di dieci anni, si è fatto un’amante. Non mi volevi credere, ma alla fine ti sei dovuta arrendere all’evidenza. Eh, certo, lì per lì ti sei indignata. Ma avevi quindici anni. Adesso che ne sono passati altri sei cominci a pensare che quasi quasi varrebbe la pena di seguire il suo esempio. Ti piacerebbe, eh, che anche Ulderico si ritrovasse a Macerata con la tua mamma? Tutti i cornuti insieme!». Sibilla è rimasta senza parole. «Su, avanti, rispondi!». Insiste Ulderico e estrae dalla tasca della giacca un foglio sgualcito. «Leggi!», urla sbattendoglielo in faccia. Sibilla indietreggia. «Egregio Signore», legge Ulderico con voce tremante. «Il comportamento della signora Rina Faccio Pierangeli è un oltraggio alla dignità femminile e alla rispettabilità delle nostre famiglie. Non contenta di pubblicare fino a Milano articoli che recano offesa all’onore delle madri dei nostri figli, attribuendo loro sentimenti e desideri moralmente contrari al ruolo che esse hanno sempre avuto e al di fuori del quale non meriterebbero

59

neppure di esser chiamate donne, mette in pratica i principi scandalosi che vorrebbe inculcare nelle loro teste mostrandosi in pubblico senza pudore con il signor…». «Basta!», grida Sibilla, strappando di mano la lettera a Ulderico. «Chi ha scritto queste infamie?». Attraverso le lacrime, cerca di decifrare la firma: un notabile del luogo. Adesso Ulderico si è seduto di nuovo e sta singhiozzando con la testa tra le mani. «E pensare che sono stato io a invitarlo a casa nostra! Credevo… credevo che ti avrebbe fatto piacere parlare con lui. Lo so, Rina, lo so che sei più intelligente di me. Lo so che con me ti annoi… Ma per amore di Walter, non mi lasciare!». È penoso vederlo così, tutto scosso da fremiti nervosi. Sibilla gli si avvicina e gli carezza la testa. Lui la guarda, le guance solcate di lacrime. «Dimmi che non è vero!». Lei non riesce ad aprire bocca. A Porto Civitanova lo chiamavano «il forestiero». Sibilla lo aveva conosciuto durante una serata organizzata dal segretario comunale. «Egli diceva d’esser vissuto, sino a tre anni avanti, sempre all’estero un po’ qua un po’ là, per gusto d’avventura». Era sposato, aveva un figlio dell’età di Walter e viveva di rendita. Era un uomo «di trent’anni, di media statura ma di forme atletiche, biondo, con una singolare voce calma e metallica, corretto nei modi ma impenetrabile nello sguardo». Aldo, il fratello di Sibilla, le aveva fatto capire che il forestiero era già stato a letto con la sorella di Ulderico, una donna astiosa e maligna che accusava Sibilla di avere il malocchio. Ma Sibilla è innamorata. Un giorno il forestiero, che se n’è accorto, cerca di baciarla. Questo tentativo provoca in lei il ricordo della violenza con cui l’ha presa Ulderico e viene quindi respinto.

60

«Non mi rispondi!», le dice bruscamente Ulderico. «Che cosa mi nascondi? Che cosa prepari per trascinarmi nel fango?». Poi si mette a camminare avanti e indietro. Sembra tornato del tutto in sé. Parla con estrema freddezza mentre Sibilla lo ascolta atterrita. «Ecco cosa ci resta da fare. Io non posso ammazzarti perché rischierei la galera». Continua intanto a percorrere meccanicamente la stanza, girando intorno a Sibilla che fissa il fuoco col sorriso stampato sulle labbra. «Dovrai avvelenarti da sola. La malattia di tua madre spiegherà tutto. Le tue sorelle confermeranno che stasera quando sei tornata a casa ti trovavi in uno stato di abbattimento profondo. Mi vuoi bene, vero?». Si inginocchia vicino a lei e posa la testa sul suo grembo. Lei gli carezza teneramente i capelli. «Abbiamo fatto male a sposarci, Rina, lo so. Ma ormai è troppo tardi. Io, bisogna che resti libero per occuparmi di Walter». «Walter», ripete Sibilla annuendo e continuando a passare la mano sui capelli di Ulderico. «Anche tuo padre capirà. Non se ne stupirà affatto. Nessuno si stupirà che tu ti sia ammazzata, Rina». Sibilla scrolla leggermente le spalle e si porta la mano destra alla bocca spalancando gli occhi. Ulderico si alza di nuovo in piedi e Sibilla lascia che la mano sinistra le scivoli lungo il fianco. «Aiutami. Dobbiamo rifare il letto in salotto. Dirò che ho dormito sul divano per lasciarti riposare in pace in camera nostra e che tu ne hai approfittato per… Mi crederanno, no?». E le lancia uno sguardo angosciato. Lei annuisce senza guardarlo negli occhi. Ulderico va a prendere le lenzuola e le coperte. Lei va in camera di Walter e sussurra, davanti al suo lettino: «Bimbo mio, bimbo mio… La tua mamma non ti vedrà più…».

61

Lo scorge a fatica, nello spiraglio di luce proveniente dal corridoio attraverso la porta socchiusa. Poi torna in salotto. Ulderico sta rifacendo il letto. Quando la vede, le indica un flacone di laudano che si trova sulla credenza. Senza parlare, Sibilla prende la boccetta e una candela, che accende dal fuoco. Si dirige verso la camera senza che Ulderico si curi di lei. Ormai tutto si svolge nella calma più assoluta. Rimasta sola. Sibilla toglie il tappo e si porta il flacone alle labbra. Ingerisce i due terzi del liquido, finché il suo sapore amaro non le chiude la gola impedendole di deglutire. È sdraiata sul letto, ancora vestita. La fiamma della candela fa danzare sui muri ombre dolci e benevole. Sibilla resta a lungo a occhi aperti. Si sente la testa vuota. Passa un’ora, forse due. Ulderico entra in camera e scopre che Sibilla è ancora sveglia. Si precipita furibondo verso di lei e comincia a scuoterla per le spalle. «Non hai avuto il coraggio, Rina! Vigliacca!». Lei vorrebbe parlare, ma non riesce a schiudere le labbra. Ha la bocca impastata e la sua lingua rimane immobile. Non vede più niente. Sente vagamente Ulderico che le afferra il polso, ma la sua stretta è quasi impercettibile. «Puttana, non ti basta farti scopare nella fabbrica di tuo padre! Ci provi gusto, credi che non me ne sia accorto? E quell’altro, quando ti ha presa? Dove eravate, in municipio? Sulla spiaggia? No, è stato di certo a casa di tuo padre. Tale padre, tale figlia. Con me non ti era bastato, eh? Passi il tempo a scrivere idiozie, ha proprio ragione chi mi ha mandato la lettera. Per te le donne dovrebbero essere tutte troie. Ma guarda che cosa ne faccio, io, di quello che scrivi, imbecille!». Rovista nella scrivania di Sibilla e comincia a strappare ritagli di giornale. «“La Gazzetta del Popolo”… “L’Ordine”… “La Sentinella”… la sentinella di che? Bello il loro ordine, il loro popolo!».

62

Prende i brandelli di giornale e corre in salotto a buttarli nel fuoco. Risale subito in camera e vede il flacone di laudano, non completamente vuoto. «Non l’hai neppure bevuto tutto… Su, bevi, bevi!». Le apre di forza le labbra e le rovescia in bocca il liquido, che cola in parte sui capelli biondi di Sibilla sparsi sul cuscino. Lei ha perso conoscenza. Ulderico si accascia a terra. Poi si rialza e, scuotendo di nuovo sua moglie, capisce finalmente in che stato si trova. Esce dalla stanza e si mette a urlare. Walter si sveglia, la balia accorre. «È successa una disgrazia alla signora», dice Ulderico. «Vado a chiamare il dottore». Il medico è un amico di Sibilla; capirà tutto e manterrà il segreto. Ma, strada facendo, Ulderico cambia idea e va prima a casa della madre e della sorella. Sibilla non muore. Quando si riprende, vede tutto «come attraverso un velo, senza dolore: ha quasi il dubbio d’esser già via, fuori, e di assistere con lo spirito alle ultime contrazioni della sua spoglia». La suocera le mette davanti agli occhi un foglio di carta sul quale Sibilla riesce a leggere con enorme sforzo: «Devi dichiarare che sei stata tu, per evitare che quel disgraziato di tuo marito abbia delle noie con la polizia». Le mettono in mano una penna, ma lei non ha la forza di scrivere. Finalmente arriva il medico, che le sorride affettuosamente, scrollando la testa con aria di rimprovero.

63

4

Il teatro

Una giovane donna impellicciata, le braccia cariche di pacchetti, fa il suo ingresso in un salotto borghese. Addossata al muro, la sagoma imponente di un pianoforte. Dalle finestre si vede cadere la neve. La giovane donna canterella un motivo: è allegra, esuberante e infantile. La seguono una cameriera tutta indaffarata e un uomo che porta un albero di Natale. Attraverso una porticina socchiusa si sente la voce di un uomo che la punzecchia in tono paterno e protesta scherzosamente perché lei lo disturba nel suo lavoro. La conversazione dura a lungo. La si potrebbe prendere per un battibecco amoroso, ma invece si tratta di un dramma. L’uomo usa con la donna un linguaggio talmente affettato e zuccheroso che si potrebbe davvero pensare a un gioco, a una messa in scena. Anche la donna posa. I discorsi dell’uomo sono retorici, pesanti, ampollosi. La donna assume senza volerlo una voce da bambina. Ben presto cominciano a parlare di soldi. E poi dei figli. Il loro dialogo, da cui traspaiono allo stesso tempo una grande tensione e una falsa allegria, l’esasperazione tipica delle coppie sposate e un certo grado di tenerezza, viene interrotto dall’arrivo di una donna che a colpo d’occhio potrebbe sembrare più anziana della prima, ma si presenta come un’amica d’infanzia.

64

Del resto la donna fa di se stessa un ritratto così negativo, così carico di disperazione per la sua vita mancata, che la prima è portata ad assumere un atteggiamento materno verso di lei. In realtà l’amica d’infanzia, che è venuta nella speranza di ottenere un impiego dal marito dell’altra, si rende conto ben presto che la loro felicità è soltanto superficiale. Ma lei non ha il temperamento dell’iniziatrice o di chi può dare lezioni e la prima dovrà scoprire da sola l’errore della sua vita. La conversazione ha raramente un carattere psicologico. Si limita ai dati materiali. È facile però rendersi conto che questa scena si svolge in uno spazio astratto. Benché l’azione abbia luogo con ogni evidenza durante una giornata d’inverno, la luce è di un’intensità incongruente. I limiti geometrici della stanza hanno qualcosa di artificiale. Un mormorio o qualche colpo di tosse turbano di tanto in tanto il silenzio tra una parola e l’altra. Nel suo palco Sibilla, che ha adesso ventitré anni, piange discretamente. La sua emozione non ha fatto che aumentare durante tutto il primo atto. Non si tratta di un’emozione estetica, come ha provato tante altre volte. È un’emozione causata – cosa rara nella psicologia teatrale – dalla verità dei rapporti che uniscono i personaggi e li oppongono tra loro. La pièce si intitola Casa di bambola. È stata rappresentata per la prima volta nel 1879 a Copenaghen e da allora non si fa che parlarne in tutta Europa, soprattutto grazie alla Duse che l’ha interpretata in Italia nel 1891, e poi a Vienna. Alla fine del primo atto il marito di Nora accusa Krogstad, che le ha prestato dei soldi, di «portare nella vita della famiglia germi di infezione e di malattia» e colpisce così insidiosamente sua moglie, pur continuando a chiamarla «lodoletta», «passerotto» e «uccello canterino». La situazione riproduce con precisione inquietante quella a cui Sibilla ha tentato di sfuggire con la morte, senza riuscirvi.

65

Quando cala il sipario sul primo atto. Sibilla non può più parlare. Insieme a lei nel palco c’è una donna prosperosa con i capelli bianchi, grandi occhi neri un po’ cadenti e il naso all’insù. È una filantropa, che Sibilla definisce l’«immagine del genio femminile». Ha fondato una scuola popolare per operaie. Si chiama Alessandrina Ravizza, soprannominata «la santa di Milano». Nata in Russia da padre francese di origine italiana e da madre tedesca, vive a Milano dall’età di diciannove anni. Da più di due anni Sibilla lotta al suo fianco in nome del socialismo, del femminismo, del pacifismo. Sei mesi prima si sono battute per il disarmo. Al suo arrivo a Milano, Sibilla è stata accolta da Alessandrina. Non è più isolata, i suoi articoli sulla «Vita Moderna» e sulla «Vita Internazionale» sono stati notati. Dopo il tentativo di suicidio Ulderico si è tirato indietro impaurito e, mutando inaspettatamente atteggiamento, l’ha incoraggiata a continuare a scrivere: «Scrivi le tue memorie, la storia del tuo errore!». Ma qual è stato il suo errore? Esistere per quella che era? Cominciare a scrivere? E adesso dovrebbe riconoscere questo errore attraverso la scrittura? E cosa dovrebbe scrivere, poi? Un poema per celebrare l’indulgenza ammirevole di suo marito? Una sera lui le porta «un grosso fascicolo di carta bianca» che lei guarda «sentendo il rossore salirle alla fronte». Pochi giorni dopo, mentre Walter si trova con Cora e Iolanda, Sibilla comincia a scrivere. «Chiedevo al dolore se poteva divenire fecondo», ma «le rivolte individuali erano sterili o dannose». Il marito di Cora, un socialista militante, porta Sibilla con sé alle riunioni sindacali, durante le quali lei prende coscienza dei legami che esistono tra il movimento operaio e la lotta per l’emancipazione della donna. Arriva il giorno tanto atteso: nel 1899 un’insegnante milanese, Emilia Mariani, chiede alla giovane provinciale di dirigere il settimanale da lei fondato, «L’Italia Femminile».

66

Negli ultimi due anni, Sibilla non ha mai smesso di battersi contro lo stereotipo della donna come angelo del focolare: a questo scopo, denuncia i pregiudizi dei romanzi italiani scritti da donne, legge l’abbondante letteratura femminista pubblicata in Francia e fa il resoconto delle proprie letture, citando gli slogan dei saggisti ai quali si ispira e con i quali entra in corrispondenza: Jules Bois, Anne Lampérière, Louise Péris. «Le fanciulle crescono per lo più sterili pianticelle, coltivate artificialmente senza pensiero e senza volontà; l’educazione, nel vero alto senso della parola, è deficiente per non dir nulla, e l’ambiente di queste giovani anime che stanno per sbocciare le stringe d’altronde, le soffoca, le atrofizza, le obbliga a cristallizzarsi nei tradizionali andazzi, quando non le getta in una vuota esistenza banale, fatta di piaceri vani e di falsi convenzionalismi. Di fronte a questa giovinezza irrevocabilmente condannata (se un miracolo civile non interviene) sta il ceto operaio, che vede invece le giovani sue schiere entrare con risolutezza simpatica nella vita e nella lotta, aspirare ad un’elevazione intellettuale, inalberare austeramente una dignità novella di essere umano». Sibilla non ha ancora ventitré anni quando scrive queste righe. La proposta di Emilia Mariani coincide con un nuovo litigio tra Ambrogio e suo genero: Ulderico decide di stabilirsi a Milano per dedicarsi al commercio di frutta all’ingrosso. Divenuta moglie di un bottegaio, Sibilla torna dunque nella città dove aveva passato la prima infanzia. A partire dall’ottobre del 1899, tiene nella rivista una rubrica intitolata In salotto, in cui risponde alla posta delle lettrici firmandosi Favilla. Vi affronta problemi politici e sociali: la guerra dei Boeri, l’affare Dreyfus, fingendo di mettere a tacere la propria voce in favore di quella delle lettrici, ma facendola invece sentire con forza e ironia anche maggiori.

67

Adesso Alessandrina Ravizza e Sibilla sono uscite dal palco. Nel corridoio incontrano due uomini, due poeti. «Ecco la protetta di Alessandrina!», dice con voce grave e rauca il più basso dei due. È un nano deforme, i cui occhi scintillano dietro un paio di occhiali ovali. Sibilla lo conosce già. Lo ha incontrato due mesi prima a Torino a casa di un’amica comune, Eugenia Balegno. Si chiama Giovanni Cena e dirige la rivista «La Nuova Antologia». L’altro, Guglielmo Felice Damiani, è un professore di scuola media e ha un anno più di Sibilla. Sia lui che Cena hanno una barba a punta che incornicia loro le labbra. Sibilla li guarda entrambi ma non riesce neppure a sorridere. Le sembra ridicolo fare di Casa di bambola l’oggetto di una conversazione mondana nei corridoi di un teatro. Alessandrina, maestosa, la trascina lontano dai due uomini che formano una coppia strampalata quanto la loro. Sibilla così bella e lei così mostruosa. Fingono di non riconoscere i volti dei due poeti, che abbozzano un sorriso di simpatia. Alessandrina non si sente a suo agio in questa situazione artificiale: è più abituata agli ospizi e ai manicomi. Il suo ambiente naturale è la «Casa del lavoro», che ha fondato lei stessa. Si fa chiamare Sascia, in memoria delle sue origini russe. Ha trent’anni più di Sibilla e non sempre approverà gli sdilinquimenti poetici e sentimentali dell’amica. Verrà il giorno in cui, esasperata dal narcisismo compiaciuto di Sibilla, le dirà, nella sede della sua «Società Umanitaria»: «Avrei voglia di batterti […] ti perdi, perdi i tuoi anni, dietro cose, cose che non valgon la pena, persone che ti fan soffrire e non ti meritano». Stasera, nel corridoio del teatro. Sibilla si sente fiera di essere la testimone privilegiata dell’«opera evangelica» di Sascia. Pensa ai due uomini che lei e Alessandrina hanno evitato. Prova com-

68

passione per Giovanni Cena. La prima volta che l’ha visto, «con la sua statura da gnomo, le spalle curve, il grosso naso camuso, le grosse labbra fra peli ispidi e neri», non ha potuto trattenersi dall’esclamare: «Povero Cena!». Il giorno dopo, al suo ritorno da Torino, aveva incontrato alla stazione di Milano Guglielmo Felice Damiani, che aveva i capelli rossi come tanti suoi futuri amanti: «Ha conosciuto il nostro grande Cena!», aveva detto lui, ammirato. «La invidio. Dopo Pascoli, è il poeta d’oggi che più amo». Ma «devo scappare nella ghiacciaia di Voghera. I miei alunni m’aspettano. Beato questo bel bambino che non sa ancor nulla di scuola», aveva aggiunto carezzando la testa di Walter che Sibilla teneva per mano. Felice aveva detto che sarebbe tornato a Milano per Carnevale, ed è infatti proprio questo il periodo in cui si trovano adesso, quando si incontrano a teatro. Nel momento del suo massimo impegno comunista. Sibilla renderà omaggio ad Alessandrina Ravizza e suggerirà persino a Luchino Visconti di fare un film su di lei. Terrà sempre sulla sua scrivania la foto con dedica di questa vecchia «santa laica» che in Una donna chiamerà «Mamma». «Nessuno come lei sentiva la tragica bellezza della nostra epoca, coi suoi sparsi tentativi sociali, coi suoi presentimenti di rivelazioni scientifiche innovatrici e colla ricerca di nuove idea­ lità oltreumane». Alessandrina aveva ben intuito la propensione di Sibilla agli slanci mistici. Ma l’aveva messa in guardia: «Le donne non sono mai insensibili alle manifestazioni mistiche… Se potessi mostrarti il mio esempio, ti direi che io credo nel mistero, che ho anch’io, come si dice, le finestre aperte sul mistero. Ma non posso stare tutto il giorno alla finestra, e c’è tanto da fare in casa!».

69

La campanella richiama gli spettatori ai loro posti. Durante il secondo atto, Nora si trova in uno stato di grande agitazione. Entra di nuovo in scena l’amica d’infanzia, a cui Nora rivolge dapprima discorsi frivoli, chiedendole di aiutarla a riaggiustare un vestito napoletano con cui, per volere di suo marito, deve danzare la tarantella a un ballo in maschera. Poi il marito, sempre col suo tono faceto e autoritario, rivela a Nora di aver licenziato il suo creditore. Il dottor Rank, che ha nei confronti di Nora esattamente lo stesso ruolo del medico di Porto Civitanova nei confronti di Sibilla, morirà come lui. Quando Nora dice, con finta leggerezza: «Caro, caro dottore, non deve morire e abbandonarci, me e Torvald!», Sibilla scoppia in lacrime. La sconvolgente analogia delle due situazioni le ricorda la morte del suo amico: «Tra le lagrime pensavo che egli m’era stato accanto dal tempo del mio matrimonio: sei anni. Ambedue così diversi dall’ambiente, così soli! Un momento la sua anima s’era tesa verso di me: l’avevo sentito. L’avrei amato? Perché nulla ci aveva spinti l’una nelle braccia dell’altro, aveva unito le nostre due energie che forse nell’intimo non erano estranee? Forse era mancata una parola, un impulso?». La sua emozione è resa ancora più intensa dall’assoluta inconsapevolezza di Nora che, accecata dalla disperazione coniugale (dal terrore che il marito scopra i suoi debiti e i ricatti del suo creditore), si ostina a non voler comprendere che sta parlando con un moribondo. Dopo un nuovo colloquio col suo creditore, Nora danza, accompagnata al piano dal dottor Rank. «Ma carissima Nora», le dice il marito, «balli come se fosse una questione di vita o di morte!». Segue subito l’ultimo atto, senza intervallo. Il medico muore. Nora decide di lasciare il marito e andarsene. Sibilla non ha la forza di applaudire.

70

«Ti dispiace se ti lascio subito, Sascia?», domanda ad Alessandrina Ravizza. Questa ha un momento di esitazione, poi le fa segno di andarsene con un gesto della mano. Sibilla vuole evitare la folla e tornare a casa il più presto possibile. Quando arriva nell’atrio al pian terreno scorge il nano deforme, Cena, e il giovane professore, Damiani, che si salutano, sul punto di separarsi. Solo Damiani si accorge di lei e Sibilla non fa in tempo a oltrepassare la soglia per sfuggirgli. «Signora Pierangeli!», grida lui. Lei non si volta, ma lui è già al suo fianco. «Non le è piaciuto lo spettacolo?». Lei cerca una carrozza con lo sguardo, fingendo di ignorarlo. Ma tutti i calessi allineati sulla piazza son già stati prenotati da spettatori previdenti. La neve comincia a cadere. «Nevica», dice Damiani. «Come quando ci incontrammo alla stazione, ricorda? Aveva suo figlio con sé…». «Walter», dice Sibilla guardando Damiani. «È proprio a causa sua che ho tanta fretta». Durante la giornata il bambino si era mostrato stanco e Ulderico aveva rimproverato a Sibilla di lasciarlo per una ragione così frivola. Durante l’ultima scena della pièce l’emozione di Sibilla era divenuta insopportabile. «Ed io, son forse preparata al compito di educare i bambini?», chiede Nora al marito, «No, non ne sono all’altezza. Prima devo dedicarmi a un compito più urgente. Devo riuscire a educare me stessa. E tu non sei in grado di aiutarmi. È un problema che riguarda soltanto me. È per questo che ti lascio!». «Permette che la accompagni?». Sibilla sussulta e, vedendo Damiani, accetta. Dopo tutto, non è la prima volta che si trovano soli. Sibilla avrebbe tanto biso-

71

gno di confidarsi con lui. Sarà presto costretta ad abbandonare la direzione dell’«Italia Femminile»: ha avuto infatti violenti diverbi con l’amministratore della rivista, che mostra di non apprezzare troppo la sua evoluzione da rotocalco femminile a tribuna femminista. I due camminano sotto la neve. I fiocchi si posano sul cappellino di Sibilla, come a esaltare la sua somiglianza con Nora. Lei tiene lo sguardo fisso davanti a sé. «Lei ha gli occhi di Santa Lucia», le dice Damiani. «Occhi che non vedono». Lei sorride lievemente e, per la prima volta, guarda veramente il suo accompagnatore. Durante tutti i mesi di lavoro al giornale, Sibilla si era illusa di aver suscitato nel giovane che cammina adesso al suo fianco solo un vago sentimento di amicizia impersonale, ma in questo momento si rende conto che questi è semplicemente innamorato di lei. La sua situazione le sembra mediocre e ridicola in confronto al dramma a cui ha assistito a teatro. Nora non lascia il marito e i figli per un altro uomo, per un poetucolo fuori moda ancora nutrito di romanticismo, un piccolo professore pieno di ammirazione per un’immagine di lei che ella stessa si è faticosamente costruita. «Mi sento così piccolo di fronte a te, così perduto!». Si fermano, soli in mezzo alla neve. La chioma rossa di Damiani è cosparsa di fiocchi bianchi. Con un gesto istintivo, Sibilla passa le dita tra quei capelli folti e fiammeggianti, sani e vigorosi. Lui le afferra la mano e posa un bacio sul suo polso pallido. Non possono più parlare. Lei ritira la mano e riprende a camminare. «Non lottare contro te stessa, Rina». Lei cammina spedita davanti a lui, non vuole udire la sua voce. «Qual è la legge a cui obbedisci? Perché tanto ascetismo, Rina?».

72

Lei si ferma di nuovo e lo considera attentamente. Che cosa vede in lei questo ragazzo? Prendono di proposito vie traverse, per arrivare il più tardi possibile ai Bastioni di Porta Volta, dove lei abita con Ulderico e Walter. Sibilla gli parla candidamente, come a un fratello: «Sono rimasta un’adolescente frigida». Felice Damiani ride imbarazzato. «Non adoperi questi termini medici. Non si addicono alla sua bocca di Madonna». Lei alza le spalle: «Sono ancora un’adolescente, perché non ho mai veramente vissuto l’adolescenza. Ho cominciato a lavorare a dodici anni. Non ho ricevuto un’educazione. Ma non rinnego la mia duplice eredità: la violenza di mio padre e la debolezza di mia madre, l’intelligenza e il sentimento. Sono ermafrodita». «Rina, lei somiglia a un personaggio dei romanzi di Neera. Ma forse non le piacciono neppure». «Non è questo il punto. Neera scrive dei bei romanzi sulla frustrazione della donna, scrive il seguito dei libri di Jane Austen: quel che succede dopo il matrimonio, al risveglio dai sogni di quelle fanciulle innamorate e ridicole. Ma Neera è convinta che l’inganno di cui sono vittime le donne sia governato da una sorda fatalità e che il movimento femminista non possa niente contro il torpore delle donne prive di genio. Neera non crede nella forza della cultura e non ha alcuna fiducia nelle donne sprovviste di qualità eccezionali. Diffida di quella che chiama “l’isteria del calamaio”. Dice che in ogni epoca sono esistite donne geniali che dovevano la loro libertà unicamente a se stesse. Io, invece…». «Lei, Rina, è come la Nora di Ibsen». «Sì, ma Nora lascia il marito». «Ebbene, faccia come Nora, lo lasci anche lei!».

73

Sibilla tace. Sa che Felice Damiani ha ragione, ma non vuole ammetterlo davanti a lui. Capisce che, incitandola a questo colpo di scena. Felice vuole soprattutto fare coraggio a se stesso. La casa di Sibilla è ormai in vista. Lei scorge la sagoma di Ulderico sulla soglia. «Adesso vada, la prego», sussurra a Damiani. «Sarebbe troppo lungo spiegare a mio marito…». «Ci rivedremo, spero?». «Sì, mi scriva al giornale. Le risponderò». «Sono appena stato trasferito a Napoli. Mi venga a trovare!». Lei fa un gesto d’impotenza, indicando la figura lontana di Ulderico. «Lasci quel bottegaio, Rina. Lei si merita molto di più». Sibilla affretta il passo, mentre Felice si allontana imboccando una via laterale. Lei avanza verso Ulderico, ma non distingue ancora l’espressione del suo sguardo. È sicura che suo marito ha visto Damiani, eppure man mano che si avvicina si accorge che dal suo viso non traspare la gelosia. È qualcosa di diverso. I suoi tratti rivelano un’angoscia incontrollabile. Prima ancora che lei arrivi alla portata della sua voce, Ulderico comincia a gridare nel buio: «Rina, finalmente! Presto, presto! Perché non hai preso una carrozza?». «Con questa neve, è stato impossibile trovarne una libera. Ma cosa c’è? Perché mi aspettavi fuori?». Lui la afferra per una manica. «Walter sta per morire». Sibilla si libera dalla sua presa, lo spinge violentemente e si precipita in camera del bambino. Fa uscire subito la domestica, esige di esser lasciata sola con Walter ma Ulderico non le

74

obbedisce. Walter la guarda con gli occhi spalancati e sembra non riconoscerla. «Ho chiamato la dottoressa. Dovrebbe arrivare», dice Ulderico. Sibilla si immagina allora suo figlio morto di meningite. Pensa al modo migliore per tentare ancora una volta il suicidio. A un tratto, sente la voce del bambino: «Mamma, che cosa ho? A volte vedo tutto rosso, a volte non ti vedo. Dov’eri andata?». Walter tende un braccio per carezzarle il viso. Lei gli prende la mano, sente che scotta. Ulderico è dall’altra parte del lettino. Finalmente arriva la dottoressa e resta con loro per due ore. Le condizioni di Walter sono meno gravi di quanto si temesse. All’alba, la febbre è calata. La dottoressa se n’è andata, Ulderico dorme in salotto; Sibilla resta ancora accanto al bambino che dorme serenamente. Sul punto di addormentarsi. Sibilla ha davanti agli occhi l’immagine di Felice Damiani, con il «sorriso costante dei timidi, una grazia un poco femminea nell’alta figura e chiari gli occhi». Pensa alla sua «malinconia randagia», all’«oscillazione fra il mondo della sua cultura e quello del suo sentimento». A quest’immagine si sovrappone stranamente quella di Ernesta. Sibilla li vede uniti da una specie di romantica fratellanza. Sa che Felice potrebbe diventare il suo primo amante. Si aspettava che Ulderico le facesse una scenata, invece niente. Non le domanda neppure chi era quell’uomo, che ha sicuramente avuto il tempo di vedere. La vita di Sibilla gli è ormai del tutto indifferente. Perché? Perché si è innamorato a sua volta di un’amica d’infanzia di Sibilla, Ida Bertini, figlia dei re-

75

stauratori delle vetrate del Duomo. Lei e Sibilla avevano fatto le elementari insieme alla scuola Guastalla a Milano e hanno ricominciato a frequentarsi da poco. Sibilla sa che Ulderico ama un’altra. Glielo ha detto la stessa Ida che, tutta presa da un altro amore, non si cura minimamente di questo spasimante ridicolo. Ma Sibilla è turbata all’idea di non esser mai riuscita a suscitare, da parte sua, una tale passione in suo marito, e si domanda amaramente: «Sono io fatta per esser amata?». Si inginocchia davanti al figlio che dorme tranquillo. Perché lei dovrebbe amare Felice? Lui non l’ha baciata, lei non l’ha neppure guardato profondamente negli occhi. Ma è libero, giovane e freme al suono della sua voce. Qualche giorno dopo, Ulderico accetta di succedere ad Ambrogio nella direzione della fabbrica di Porto Civitanova Marche. Tornano così nella cittadina di provincia, con tutto l’orrore della regressione sentimentale, familiare e sociale che questo comporta. In più, sono soli, perché Ambrogio ha deciso di stabilirsi a Roma con la figlia minore e il figlio, Aldo, per coltivare fiori.

77

5

La partenza

Due anni dopo, all’alba, Sibilla è vestita come per un lungo viaggio. Non ha dormito per tutta la notte. Ha riletto un testo che aveva scritto sei mesi prima: «Che ogni essere viva per la maggior sua espansione, non intralciando altrui ma nemmeno ad altrui sottomettendosi, dovrebbe essere la norma unica». Alla fine di febbraio del 1902, Sibilla decide di abbandonare il tetto coniugale. Parte per Roma. «Non era per amore d’un altr’uomo ch’io mi liberavo: ma io amavo un altr’uomo». Negli ultimi due anni ha scritto spesso a Felice Damiani. Nell’ottobre dell’anno precedente è andata a Roma a trovare il padre e, approfittando dell’occasione, si è spinta fino a Napoli per rivedere Felice. C’è un rapporto strano fra loro. Sibilla è convinta di amarlo, ma non può fare a meno di notare che la prima reazione di Felice al suo arrivo è la sorpresa. Il loro amore è cresciuto attraverso le lettere che si sono scambiati tra il febbraio del 1900 e quell’ottobre del 1901. Ma è

78

durante una breve gita a Firenze, nel maggio del 1901, che Sibilla gli ha scritto una specie di dichiarazione d’amore. Sono ancora due sconosciuti l’uno per l’altra. Il primo effetto delle effusioni di Sibilla è quello di suscitare nell’animo di Felice la nostalgia di un’altra donna, che lo aveva abbandonato prima del loro incontro. Quando, a Napoli, fanno l’amore, Sibilla ne ricava la consapevolezza di essersi liberata di Ulderico e di esser riuscita a imporsi a un uomo. Ma niente di più. La prima volta che si baciano, lei sussurra «Perdonami!», senza sapere se si rivolge a lui o a se stessa. In nove anni di matrimonio, si è contentata di sottomettersi al desiderio di Ulderico senza mai conoscere il piacere. Neppure questa volta, nell’autunno del 1901, quando Felice la penetra, lei raggiunge l’orgasmo. Lo stringe contro di sé e lo contempla. I capelli rossi di Felice si mescolano alle sue ciocche bionde. Di fronte alla sua erezione, per la prima volta, non prova ripugnanza per il sesso maschile. È una «dolcezza, una tenerezza infinite» che prova quando il membro di Felice entra nel suo sesso contratto. Felice è troppo esaltato per accorgersi che Sibilla conserverà fino in fondo una lucidità distaccata. Lui le sorride, ma «la voluttà distende sul suo sorriso una gravità mortale, come se le stesse donando la sua vita». Sibilla impara a guardare, ma non a provare piacere: «Ti finsi la felicità che non provavo, o semplicemente tacqui? O avevo sul viso il riflesso dell’ebbrezza tua?». Il desiderio di fare il piacere dell’altro prevale su quello di abbandonarsi al proprio. «Figli dell’Alpe, figli del sogno», dice Sibilla, perché lei è nata in Piemonte; perché Felice, quando si sono conosciuti, lavorava in una cittadina su montagne coperte di neve e le ha spesso

79

descritto le sue scalate e le passeggiate solitarie per sentieri scoscesi. Lei ha bisogno di questa sublimazione elementare, caricaturale dei loro gesti, di questa redenzione attraverso l’immagine pura di un paesaggio aereo e immacolato. Che il suo primo amante sia stato un ragazzo di ventisei anni, in esilio nel golfo malsano di Napoli e in preda alla nostalgia delle montagne innevate, è stato un fatto tanto determinante per la futura vita amorosa di Sibilla, che anche vent’anni più tardi ella conserverà di quel rapporto un intenso ricordo. Scrive infatti nel secondo volume della sua autobiografia: «Eravamo fanciulli candidi. Non si parlò di rifare il destino. C’era sole per i giardini dove camminammo, assorto ciascuno in sé pur tenendoci per mano, prima di lasciarci». Tornando a Porto Civitanova, ha ancora il ricordo dell’odore pepato di Felice, dei suoi baci leggeri e timorosi, della sua pelle bianca e glabra. Sono stati insieme a Caserta e a Castellammare, hanno passeggiato tenendosi per mano. Lei è una donna bionda dal naso piccolo e diritto, la cui linea pura continua una fronte da Minerva; ha una bocca minuta ma piena e sinuosa, il mento leggermente troppo pronunciato, gli occhi grandi, neri, rotondi, non molto incavati sotto arcate sopracciliari ossute e sopracciglia diritte. Sorride poco e porta un cappello con piume di struzzo, mantenendo il busto ben eretto. Indossa spesso una camicetta bianca ricamata e una gonna con ricche pieghe che le scendono fino ai piedi. Di Felice, si notano soprattutto la criniera rossa e la barbetta a punta. Si fanno vedere insieme sulla spiaggia, nelle balere, sul lungomare, alla Villa Comunale, al Teatro San Carlo, nelle pasticcerie. Primo adulterio consumato da Sibilla Aleramo. Sibilla va in camera del bambino, che sta dormendo. Gli ha parlato spesso della sua partenza. Non sarà una sorpresa per lui. Anche Ernesta voleva partire, prima di abbandonarsi alla

80

follia. I familiari hanno ritrovato l’abbozzo di una sua lettera di rottura: «Debbo partire… Qui impazzisco… Lui non mi ama più… Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini… Debbo andarmene, andarmene… Poveri figli miei, forse è meglio per loro!». Ma Ernesta non ha mai finito di scrivere quella lettera e non l’ha consegnata ad Ambrogio. Ha preferito tentare di uccidersi. La partenza di Sibilla non è un suicidio. Questa decisione le è stata ispirata da un moto di disgusto. La seconda volta che lei e Felice hanno fatto l’amore, lui ha raggiunto il piacere troppo presto, ritirandosi da lei. Sibilla ha guardato lo sperma sul proprio ventre. Felice mormorava: «Scusami!». Lei sorrideva e gli carezzava il viso. Non è per Felice che se ne va. Sibilla è già per strada. Le sue dita stringono il manico di una valigetta di cuoio. I primi operai camminano in direzione della fabbrica. Tra un’ora, Ulderico si sveglierà. Non si renderà subito conto che se n’è andata. Forse crederà che sua moglie lo abbia lasciato per il filosofo che si faceva chiamare «Umano»: «l’uomo più singolare incontrato nella mia vita, e che certo ebbe, assieme ad Alessandrina Ravizza che me lo presentò, la più forte influenza sulla formazione spirituale e morale della mia prima giovinezza». Quest’uomo, che Sibilla aveva soprannominato «il Profeta», si chiamava in realtà Eugenio Gaetano Meale, e aveva scritto dei saggi intrisi di misticismo: Patria Lex, La fede eterea. Resterà per Sibilla l’archetipo dell’uomo ispirato, che verrà poi incarnato da molti amanti della sua maturità. «Egli mi parlava del mistero, degli sforzi compiuti dall’umanità per affermare un’origine e un destino ultraterreni». Qualche giorno prima, in effetti, Sibilla gli ha chiesto consiglio. Lui è venuto a Milano. Lei gli ha parlato della propria decisione, ma il filosofo si è rifiutato di esprimere un giudizio in pro-

81

posito. Eppure gli eccessi irrazionalistici di questo esaltato sono ben noti a Sibilla. A Milano aveva ricopiato per lui un opuscolo, il cui stile ampolloso non le era piaciuto. Adesso, mentre lui gli parla di sé, Sibilla si sente «avvolta, veramente, in un’atmosfera frigida che placa, recide anzi ogni impulso di vita particolare, crea visioni bianche nelle quali l’occhio si smarrisce». A Milano, quando Sibilla andava a trovarlo nella sua casa, «la tramvia elettrica mandava il suo ululo, producendole l’impressione del vento notturno in riva al mare in tempesta». Qualcuno aveva parlato a Ulderico di questa amicizia sospetta tra sua moglie e Umano. Sibilla non si era neppure preoccupata di discolparsi. Sibilla sta aspettando il treno lungo il binario, in piedi, la valigetta appoggiata per terra vicino alle sue caviglie. A Roma, sua sorella Iolanda è pronta a ospitarla. L’ultimo regalino di Ulderico è stato la notizia che ha la sifilide: un ricordo di gioventù che è ricomparso soltanto adesso. Come hanno fatto Sibilla e Walter a restarne immuni? Sul treno, Sibilla viene importunata da un vecchio sindacalista che l’ha riconosciuta: si erano visti alle riunioni organizzate dal marito di Cora. Lui tenta di attaccare discorso, ma finisce per accorgersi che la donna ha gli occhi pieni di lacrime e stringe nervosamente una borsa sulle ginocchia. Di tanto in tanto, ne estrae la fotografia di un bambino. Mormora qualche parola incomprensibile, ripone il ritratto, lo tira fuori di nuovo. Il vecchio sindacalista contempla adesso questi gesti meccanici con una sorta di rispetto. Un giovane soldato va a sedersi vicino a lei per farle la corte, ma viene subito redarguito dal vecchio sindacalista. Tra le persone che sono nello scompartimento si crea una specie di solidarietà per proteggere questa giovane donna sola.

83

6

La creatura

Sibilla Aleramo si chiama adesso Sibilla Aleramo. Il patronimico le è stato trovato da Giovanni Cena che, come sappiamo, l’ha preso dal Carducci. La «terra d’Aleramo», piemontese come Sibilla, che è nata ad Alessandria, deve a sua volta questo nome a un giovane scudiero, che l’imperatore Ottone insignì del titolo nobiliare nel decimo secolo. La leggenda vuole che, ancora in fasce, lo scudiero fosse stato abbandonato lungo il cammino dai genitori, tedeschi o borgognoni, che si recavano a Roma in pellegrinaggio. Un bimbo abbandonato per andare alla scoperta di Roma! Cena l’ha strappata al passato dandole anche un nuovo nome, di cui la gente continuerà a ridere fino alla sua morte. Aveva iniziato chiamandola Letizia, Chiara, Vittoria. Poi un giorno, nella pineta Sacchetti, scrisse: «Sibilla». «Nome di mistero, che doveva restarmi, nome del mio destino, fiero ed altero, nome che non ho mai amato ma che ho portato come un dono periglioso. Sibilla, fiorito inconsapevole di sua durata quando un solo ancora m’ascoltava». Ella commenta, con ironia una volta tanto: «Ribattezzata, ripiantata. L’uomo ha un così ingenuo istinto di coltivatore!». Su questo battesimo, questo rito attraverso il quale si è appropriato di lei, Cena scrisse una poesia che pubblicò nella sua raccolta Homo:

84 Io la scopersi e la chiamai Sibilla Come ognun disamò la giovinetta Ed a virili tirannie soggetta Si svolge, quale un fiore da l’argilla Mi disse. Ed io la trassi su la vetta Ove il tumulto uman perspicuo brilla Nello spazio e nel tempo. Ella tranquilla Contempla e dice, e l’Essere la detta. Lo svelto capo e la capigliatura Attorta e tutta la persona bella Vibrano sotto un soffio ignoto e vivo. Ed io, già dubitante, credo e scrivo. Io non son che la sua buona novella Palpita in lei l’umanità futura.

Quest’ultimo verso, Sibilla lo ripeterà spesso, riferendosi a tutte le donne. Ma si avrebbe un’idea sbagliata del loro rapporto se ci si limitasse alla pedanteria di questo sonetto goffo e piatto. Inverno del 1908. Sibilla Aleramo, a Roma da sei anni, è diventata una donna celebre. Vive con uno scrittore umanista e filantropo che l’ha convinta a raccontare la propria vita. Così è nato il suo libro Una donna, pubblicato il 3 novembre del 1906 dall’editore Sten, dopo esser stato rifiutato, tra gli altri, da Treves, che Sibilla aveva incontrato a Milano quando dirigeva «L’Italia Femminile». L’uscita del libro rappresenta un avvenimento letterario considerevole. Stefan Zweig, Gor’kij, il traduttore di Ibsen in tedesco (Ibsen muore nel maggio di quello stesso anno), più tardi Rodin, Valery Larbaud e James Joyce ne apprezzano la portata. Stefan Zweig diceva: «Chi non ha veduto Sibilla Aleramo a Roma in quel primo decennio del Novecento, non ha veduto nulla».

85

Cena e Sibilla partecipano insieme all’azione sociale di due medici, Angelo e Anna Celli, che hanno intrapreso un’opera di bonifica dell’Agro Romano. Dall’estate del 1902, Sibilla e Cena abitano insieme vicino a piazza del Popolo, in via Flaminia 45. Quel giorno, l’11 febbraio 1908, mentre Cena è nel suo studio con il poeta inglese Goad, qualcuno bussa alla porta. Sibilla va ad aprire. È un uomo di circa sessant’anni con un’aria da contadino. Viene da Torino: è il fratello di Ambrogio Faccio. Sibilla lo fa passare in sala da pranzo. L’uomo ha modi volgari e arroganti benché ossequiosi; il suo tono confidenziale la mette in imbarazzo: in fondo tra loro non esiste altro legame che il sangue. Lui esita un attimo prima di entrare nella stanza, tutta polverosa e piena di libri. Sibilla non sa se prova timore o irritazione verso di lui. Si sente la voce sonora dell’inglese e quella rauca di Cena. «Come sta papà?», domanda stancamente Sibilla. «Oh, tuo padre, adesso che siete tutti sistemati…». Sistemati! Non poteva trovare un termine più appropriato: Ernesta in manicomio, Aldo in Colombia. Sibilla resta in silenzio. «Però, niente male qui, eh?», osserva lui con sarcasmo. «A due passi dal centro. Non c’è che dire, hai saputo cavartela. E poi, frequenti il bel mondo, a quanto pare?». Le strizza l’occhio ammiccando verso il salotto da cui giunge la voce di Goad che sta dettando una sua poesia in inglese. «Che lingua è, tedesco?». «Inglese», dice Sibilla. «È un poeta inglese». «Ah, certo! Un poeta!», dice lui ridacchiando. Poi si avvicina a uno scaffale e prende una copia di Una donna. Passa le dita sul taglio del libro e soffia via la polvere. «Non ti piace spolverare, eh, carina? Proprio come tua madre!».

86

E si mette a sfogliare il libro. Sibilla non si è seduta. È rimasta irrigidita, in piedi contro lo stipite della porta. Guarda in direzione dello studio di Cena, nella speranza che venga a salvarla. «“La mia fanciullezza fu libera e gagliarda”», legge lo zio. «Gagliarda, che bella parola! Chissà dove l’hai pescata. Allora, quanto ci hai guadagnato?». «Non lo so». «Via, via, son sicuro che ti sei fatta un bel gruzzoletto. Bisognerà che mi metta a scrivere anch’io. Dopo tutto, ne avrei di cose da dire sulla famiglia!». Aspetta la reazione di sua nipote che resta zitta. Poi scoppia a ridere. «Non ti preoccupare, non ti farò concorrenza». E comincia di nuovo a sfogliare il libro. «Eh, sì… hai parlato proprio di tutto… Ossia, mi hanno detto che non hai raccontato le cose proprio come stanno, ma si capisce, è la libertà dell’artista, come si suol dire… E poi non hai fatto nomi… Hanno avuto paura, sai, laggiù… Hanno tirato un bel sospiro di sollievo quando hanno saputo che avevi ambientato la storia nel sud. Ma sai, nel sud non c’è la stessa mentalità che nelle Marche, non avresti mai potuto scrivere sui giornali». «Hai visto Walter?», domanda Sibilla allo zio, voltandogli le spalle per nascondere la propria collera. «Oh, Ulderico è diventato un orso! Non si fa quasi più vedere in giro. Non viene mai a Torino. Da quando è a capo della fabbrica di tuo padre… Ha fatto un affare, non c’è che dire, un vero affare. Non eravate fatti l’uno per l’altra. In questo, ti posso capire. Sei stata onesta, ma non hai raccontato che quel povero Ulderico voleva battersi a duello quando ha ricevuto quella lettera anonima contro di te. Mi dirai che gli anni sono passati, che è inutile gridare ancora allo scandalo, ma era proprio necessario parlare così della pazzia di tua madre? Non era me-

87

glio che le cose restassero in famiglia? Già, ma adesso noi non siamo più la tua famiglia, eh? E qual è la tua famiglia, allora?», chiede lo zio accennando di nuovo col capo all’ufficio di Cena. Ha chiuso il libro, l’ha posato sul tavolo di fronte al quale si è seduto e ne sta tormentando la copertina. «Adesso che sei diventata famosa, verrai a trovare le tue cugine? Avresti potuto conservare il tuo nome, però! Per lo meno quello della famiglia: quello di tuo padre, il mio. Ti vergogni di noi? E Rina, è un bel nome, no? Il nome di battesimo non va mai rinnegato. Perché Sibilla, poi? Come le sibille della Cappella Sistina? Mi hanno detto di andarle a vedere, ma non ho tempo. Non posso perdere tempo a visitare chiese e musei… E tu, che fai tutta la giornata? Non ti annoi, adesso che il tuo libro l’hai scritto, che non hai più da raccontare la tua vita? Tutte quelle riunioni tra donne, non ti hanno ancora stufato? Tuo marito non le poteva soffrire, poveretto! E tuo padre che ti difendeva! Eh, quello lì, se non ti avesse messo certe idee in testa… E adesso, è sempre perso dietro ai suoi fiori». Sibilla si è girata verso di lui, continuando a tacere. «Insomma, cosa hai fatto negli ultimi sei anni, a parte il libro?». «Le paludi», dice infine Sibilla. Lo zio alza le sopracciglia senza capire. Sibilla prende da uno scaffale riviste, giornali, foto. L’esasperazione, repressa durante quel lungo monologo, le ha dato un’energia inaspettata. Suo zio guarda senza capire quelle foto di uomini sporchi e barbuti, di donne spettinate, di bambini mezzi nudi. «Chi sono, uomini delle caverne?». «Sono guitti», dice Sibilla. «Braccianti. Vivevano così, proprio nelle caverne». «Eh be’, contenti loro! Sei tu che parli tanto di libertà, no?». «Sì, ma loro non erano affatto contenti. Noi li abbiamo aiutati».

88

Presa da un’improvvisa esaltazione. Sibilla si mette a spiegare tutto. Viveva con Cena già da due anni quando, durante una riunione della sezione romana dell’Unione Femminile, udì «un’esile voce ma dal tono duro, come di rampogna, elevarsi e dire cose che nessuna delle socie supponeva e che tutte fecero in cuore vergognare. La voce apparteneva a una giovane donna, dall’aspetto quasi infantile: la dottoressa Anna Celli, moglie di Angelo Celli, il grande scienziato che aveva studiato la malaria sui contadini dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine». Ecco la descrizione che Sibilla fa di Anna Celli: «Diritta nella sua giacchetta nera e nella sua stretta sottana che non rade terra: diritta e snellissima con movimenti bruschi: toque nera con una lunga ala a lato; naso a pallottola: bocca piccolissima freschissima sinuosa: fronte piuttosto bassa: carnagione bianca rosata». «Quando leggo di dure regole monastiche mi si presenta alla memoria la Signora Celli». Anna Celli parlava delle «condizioni incredibili di miseria in cui seguendo il marito, lei aveva visto quei contadini vivere; e dell’assoluta mancanza di assistenza materiale e morale nei loro aggruppamenti di capanne. Proponeva all’Unione Femminile di istituire scuole festive e serali in qualcuna delle località più abbandonate». Pur abitando con Cena a Roma da due anni, Sibilla non aveva mai sentito parlare di quelle campagne preistoriche. «Ebbe la sensazione che la Celli si rivolgesse specialmente a lei». Lì per lì la proposta non sortì alcun effetto, ma poche settimane dopo Anna Celli andò a trovare Sibilla e la portò con sé a visitare Lunghezza, un villaggio vicino a Tivoli. «La sera, di ritorno dall’escursione, raccontai a Giovanni Cena […] quel che i miei occhi avevano nella giornata veduto. Raccontando piangevo. Cena, poeta, era figlio di contadini del basso Po, e la sua infanzia era stata poverissima. La domeni-

89

ca seguente si unì ai Celli e a me in un’altra gita di scoperta nell’Agro». Era un paesaggio quasi vulcanico nel quale si sovrapponevano tre strati di civiltà: quella preistorica, quella latina e quella medievale. C’erano cavalli e pecore sparsi tra i tumuli e le grotte, dalle quali uscivano donne e bambini. Una donna si avvicinò a Sibilla e, palpando il tessuto del suo vestito, le disse: «Come sei bianca!». «Quasi tutte le facce, espressive anche nell’attonimento, eran guaste da croste, gli occhi cisposi, malati. Dai corpiccioli dei bimbi esalava un tanfo di paglia fradicia. […] Abitavano lì nove o dieci mesi all’anno, tornavano al loro paese, inerpicato su qualche punta della Sabina, della Ciociaria o dell’Abruzzo, soltanto da luglio a settembre, quando più infieriva la malaria. […] L’interno delle capanne aveva un diametro di quattro o cinque metri al più e non riceveva luce che dalla porticina. C’era una fiamma, dei tizzoni che ardevano fra quattro pietre, il focolare, nel centro: due tronchi ne sostenevano uno trasversale da cui pendeva il paiuolo. […] Accosto ad una parete il letto formato da quattro assi sostenute a mezzo metro da terra e sopra, sacchi di paglia: accanto, o di fronte, un altro identico. Per sei, otto, anche dieci persone, i nonni, i genitori, i ragazzi». Erano «tribù», «servi della gleba». I loro padroni non venivano mai. Avevano diritti, sempre diritti, mai doveri nei loro confronti. «Passava qualche volta una fuga di cavalieri rosseggianti e di amazzoni in caccia alla volpe, e dileguava lontano». Quelle terre appartenevano per lo più a principi, protetti dallo stato e volutamente ignorati dal parlamento. Angelo Celli aveva chiesto l’aiuto della Croce Rossa e aveva cominciato a installare ambulatori itineranti per la distribuzione gratuita di chinino.

90

Una bambina disse un giorno a Sibilla: «Quando nascemo ce danno l’acqua, ma quando morimo non semo più cristiani». Mentre i Celli tentano di curarli, Sibilla e Cena organizzano la scuola serale, distribuiscono libri, reclutano insegnanti. Dapprima i guitti li accolgono con diffidenza; li chiamano «quelli che vanno a piedi», per distinguerli dai «caporali» che arrivavano a cavallo e armati di fucile. Gli insegnanti sono maestri elementari di Roma che sacrificano di buon cuore le proprie serate e i propri giorni di festa. «Risero e piansero i più vecchi imparando a compitare – questo è il ricordo più sicuro di quella mia lunga opera», scriverà Sibilla quindici anni più tardi: «esso vale ch’io non lamenti la forza e la passione che le diedi. Terree dita tremanti che apprendevano una ormai vana per loro scienza, come una musica soltanto ormai. E quivi era la giustizia: nella realtà e nella tenui­ tà di quella gioia, loro e mia». Da parte sua Cena, sotto lo pseudonimo (collettivo, per tutta la redazione) di Nemi, scrive sulla «Nuova Antologia»: «Era la prima volta in cui si proclamava apertamente il concetto che la scuola deve cercare lo scolaro, poiché il contrario purtroppo ancora non avviene e non può avvenire in molte e estese plaghe d’Italia. […] I lettori immaginino i viaggi serali dei maestri (i quali insegnano pure nelle scuole di città), il ritorno a notte inoltrata, in bicicletta o a piedi, per strade d’inverno impraticabili! Ma la visione del granaio, della stalla, della capanna illuminata, dei contadini ragazzi e adulti, chini sulla fatica sottile della scrittura, intenti a ogni parola del maestro che considerano come un fratello maggiore, di selvaggi diventati timidi, di rozzi gentili e riconoscenti, è sufficiente ricompensa!». Qualche agricoltore appoggia questa iniziativa mettendo a disposizione i granai o le cantine della propria fattoria. Tutto questo avviene vicino a Tivoli, a due passi da Villa Adriana e Villa

91

d’Este. I preti non vedono di buon occhio questa concorrenza alla loro «missione». Alcuni prìncipi scacciano gli insegnanti a colpi di frusta. Un deputato, ex ministro dell’Agricoltura, si rammarica di questo cambiamento: «Se ne andrà tutta la poesia della campagna romana!». Alcune delle foto che Sibilla mostra allo zio sono state scattate a un’esposizione organizzata da artisti e poeti romani in risposta alla battuta di spirito del deputato. C’è estetismo ed estetismo. Gli artisti che si muovono intorno a Sibilla, con l’appoggio del poeta romano più noto del tempo, Cesare Pascarella, vogliono dimostrare che l’estetismo non deve necessariamente obbedire alla retorica dei politici e che si può essere umanisti senza per questo dover rinunciare a essere artisti. Sibilla si sposta in tutta Italia, va fino a Milano, e si comporta come sta facendo adesso con lo zio, che è rimasto allibito: mostra fotografie, accompagnandole con commenti freddi e oggettivi. «Le case scoperchiate che si vedono sono state così ridotte dal fisco, perché i contadini, emigrati o morti per malaria, non pagavan le tasse». «Non crediate che i padroni non abbian mai visto questi abituri: non vi saran forse entrati, ma talvolta vi si son fermati accanto, per i loro ritrovi di caccia». «Le donne vanno a prender l’acqua con le conche in capo, a mezzora dal paese». «Questo allineamento regolare fu imposto dal proprietario dopo che un incendio aveva distrutto quasi tutto il villaggio. Questi incendi sono frequenti. Anche qualche mese fa, quattro uomini nella tenuta di Maccarese arsero vivi perché non si svegliarono in tempo tra le fiamme».

92

«Si dà loro un pezzo di terra da dissodare e seminare, promettendo una paga giornaliera per i lavori della tenuta a conto del padrone, e parte del raccolto assegnato loro personalmente. È il loro arruolatore, detto caporale, che ha l’incarico di distribuire un pezzo del terreno incolto a ogni famiglia. I guitti lo dissodano, vi seminano il granturco, e al raccolto ne danno la metà, due terzi, tre quarti, secondo che il terreno è più o meno buono, al padrone. Il patto non sembra tanto esoso; ma considerato che devono provvedere il seme, affittare dal padrone l’aratro e i buoi per la rompitura, dare una parte del raccolto al caporale e una al guardiano della tenuta, è assai se resta loro la metà di quanto era pattuito. Quando i guitti lavorano per il grano del padrone, ricevono al più £1,25 al giorno gli uomini validi, detti opere, 75 centesimi i poco validi e le donne, detti mezze opere e 35 centesimi i ragazzi, o monelli. Che cosa possono portare al loro villaggio nativo questi poveretti dopo aver lavorato dieci mesi?». «Il più sovente rimangono impegnati per debiti all’anno prossimo. E così la servitù della gleba è ribadita». «È tuo cognato che ti ha riempito la testa di queste storie, eh?», dice lo zio alzandosi in piedi. «Il marito di Cora? Alfredo Capriotti? Il vostro socialismo da esaltati non cambierà certo il mondo. E poi in fondo, che cosa voleva, tuo cognato? Prendere il posto di tuo padre, ecco tutto. E tu, coi tuoi uomini dei boschi, che cosa vuoi, eh? Vuoi far dimenticare questo?», chiede mostrando Una donna. «A proposito di dimenticare! Ho lasciato il mio libro in albergo. È un vero peccato, le tue cugine ci tenevano tanto ad avere una tua dedica…». Senza una parola. Sibilla prende una copia e scrive sulla prima pagina il verso di Cena, modificandolo leggermente: «Palpita in voi l’umanità futura».

93

Tende il libro allo zio, deluso dall’oscurità di questa frase e dalla firma. «Ma come! Hai firmato “Sibilla”! Avrei preferito Rina. Per noi, sei sempre Rina». «Troppo tardi», dice Sibilla accompagnandolo alla porta. «Non è mai troppo tardi. Vedrai che ti riavvicinerai alla famiglia. Tuo figlio, bisognerà pure che tu lo riveda, prima o poi!». Dopo aver lanciato quest’ultima insinuazione velenosa, lo zio sparisce per le scale. Sibilla chiude la porta e vi si appoggia contro. Respira profondamente chiudendo gli occhi un istante. Poi si dirige verso lo studio di Giovanni Cena. «Sibilla!», dice Cena sorridendo. «Chi era?». «Nessuno… Una persona che non ha lasciato traccia… Mi resta soltanto una specie di ronzio in testa…». «Un giornalista?», chiede Goad. «Il fratello di mio padre», risponde Sibilla. Cena aggrotta le sopracciglia; poi capisce e non dice niente. Di quale natura è la relazione tra Sibilla e Giovanni Cena? «Era qualcosa di molto più grave che un matrimonio, per noi. Senza consacrazione religiosa né civile, e senza figli». Nell’estate del 1902, Cena aveva detto: «Sento che è per sempre». Sibilla, per scaramanzia, gli aveva messo una mano sulle labbra. Formano una coppia mostruosa. Ma tra il nano deforme e l’apparizione «rosea, chiara, trasparente» che era Sibilla Aleramo a ventisei anni, per chi li vede e soprattutto per lei, c’è qualcosa di più del semplice rapporto tra maestro e discepolo. Sibilla ha incontrato Cena nello stesso periodo in cui ha conosciuto Felice Damiani. E quando, nel febbraio del 1902, ha lasciato il marito e il figlio, lo ha fatto con la prospettiva di ri-

94

trovare Damiani e non Cena. Ma Felice è un poeta mancato e la sua ampollosità romantica comincia ben presto a esasperare Sibilla. Cena, invece, dirige la «Nuova Antologia». Tra il piccolo professore in esilio a Napoli e l’editore affermato, il cui «cenacolo» è frequentato da poeti e scrittori di tutto il mondo, Sibilla Aleramo ha esitato sei mesi. In questi sei mesi ha tentato, come farà a più riprese e soprattutto una seconda volta con Cena stesso, di stabilire un rapporto a tre. «Prima ancora di diventar amanti», scriverà Sibilla a proposito di Cena trent’anni dopo la loro rottura, «gli ero stata sottomessa, per la seduzione romantica di quel suo aspetto disgraziato sostenuto con nobiltà e semplicità. E grata gli ero stata per il modo silenzioso con cui aveva ascoltato il racconto della mia partenza dalla casa coniugale, senza biasimare né approvare, riconoscendomi libera e consapevole; egli che m’aveva veduto una volta con il mio bambino attaccato alla gonna, così mio, così prezioso alla mia vita squallida». È a Cena che Sibilla deve il proprio «mito», come lei non ha mai smesso di ripetere. Quando Cena scopre che lei lo preferisce a un uomo giovane e bello ne rimane stupito. Nell’estate del 1902 fanno l’amore per la prima volta, nella modesta camera di Cena in via Principe Umberto: lui interpreta il «sorriso magico» di Sibilla come un segno di appagamento sessuale, mentre questa sua «trasfigurazione» traduce soltanto il piacere di fare la gioia di un uomo che ammira. «Che il mio sangue non attingesse il vertice della gioia, il vertice della voluttà io non n’ero consapevole. Mi bastava di poter cancellare fra quelle braccia amorose il ricordo del disgusto atroce del letto maritale, una contentezza verace mi si diffondeva dal cuore alle membra strette con tanta delirante riconoscenza». Sibilla abitava allora dalla sorella Iolanda alla pineta Sacchetti, oltre il Vaticano. Dalla finestra vedeva la cupola di Michelan-

95

gelo. Spesso andava a trovare Cena nella sua stanza vicino alla stazione Termini. Lui le leggeva un romanzo che aveva appena iniziato a scrivere. Un romanzo edificante e intellettualistico che si ispirava alla letteratura russa, Gli Ammonitori, in cui il narratore, un giovane tipografo, si getta sotto le ruote della carrozza reale con in mano il libro stesso che stiamo leggendo. L’emozione violenta che Sibilla provava alla lettura di questo testo contribuì senza dubbio a darle la forza di scrivere a sua volta. Il romanzo di Cena uscirà due anni prima di quello di Sibilla. Ella stessa potrà riconoscersi nel personaggio di Biondina, una giovane operaia che ama un poeta. A questi pomeriggi d’amore nella stanzetta di Cena risale anche l’idea che il dono del proprio corpo ha un valore mistico. Quando Sibilla non scende dalla pineta Sacchetti alla stazione, Cena le manda lunghe lettere e lei comincia il suo libro, seduta davanti a una finestra attraverso la quale vede «una grande distesa di stoppie, divisa da staccionate». Scrive lentamente, mai più di una pagina al giorno. Redige tre differenti versioni, di cui una in terza persona. Quando ne legge le prime pagine a Cena, questi resta colpito dal loro tono sicuro e distaccato, che contrasta con l’ampollosità «gotica» di cui soffrono secondo lui gli articoli di Sibilla. «Una donna. Una donna libera», le aveva detto Cena a Roma quando si erano rivisti. Sibilla lo paragonava dentro di sé a «una pianta che stia svincolandosi da una roccia». È dunque Cena e non Damiani che la sostiene con qualche parola d’incoraggiamento quando lei lotta per riavere suo figlio. Durante i primi sei mesi di libertà, infatti, Sibilla prende un avvocato, Luigi Majno, nella vana speranza di ottenere la custodia di Walter. Ma è lei che ha abbandonato il tetto coniugale e la sua è una battaglia persa in partenza. D’altronde

96

le è impossibile rinnegare la propria scelta e tornare a Porto Civitanova. Nella sua mente la figura del figlio abbandonato si confonde con quella di Felice che si trova a Napoli, lontano da lei. «Lontano il giovine che ho tanto amato soffre. L’amo ancora, l’amo ancora. Il suo amore è quasi un mio figliolo, un fiore nato dal mio desiderio di vita e di verità». Non si tratta soltanto di lontananza fisica. Quando si sono rivisti a Roma, Felice si è spaventato della decisione di Sibilla. Lei gli aveva detto: «Non sei stato tu a determinarmi, rassi­ curati». Tuttavia, Sibilla non osa ancora parlare a Cena dei suoi rapporti con Felice. Cena è per lei soprattutto «una piccola sorella, una trepida incitatrice alla felicità». Nel giugno del 1902, Sibilla ha la certezza che non otterrà mai la custodia di Walter e che la sua relazione con Felice finirà ben presto. Il 25 luglio, scrive a Felice una lettera di rottura, dopo aver cercato senza troppa convinzione di respingere Cena, che le aveva dichiarato il suo amore durante una passeggiata a Tivoli. Il 29 luglio Ambrogio Faccio, che aveva tentato per l’ultima volta di intercedere in favore della figlia, riceve dal genero un netto rifiuto. Sibilla scrive a Cena, con un compiacimento da seduttrice smaliziata: «Io, io sono ancora di colui che mi ama, non soltanto per pietà, com’egli teme, ma perché so che il bene ch’io gli ho fatto e gli farò m’è restituito dalla gioia, dalla dolcezza, dalla tenerezza ch’egli mi prodiga: perché dopo aver tanto sofferto io ho bisogno, ho bisogno di far felice, completamente, una creatura umana, e di compiere il bene che posso, mercé il calore di quella felicità». Poi cambia improvvisamente idea e scrive a Felice: «Sai tu qual è la situazione mia fra voialtri due, oggi? Entrambi mi state di-

97

nanzi, entrambi degni del mio amore: all’uno quest’amore l’ho già prodigato, regalmente, oh questo puoi dirlo, con un oblio di me stessa quale nessun’altra donna forse seppe mai; e quest’uno, ecco, mi mostra oggi che tutto fu vano nella mia dedizione, ch’egli non seppe far sua la forza immensa ch’io gli porgevo, forse perché non la conobbe a tempo… L’altro… l’altro è l’ignoto, che forse il destino ha foggiato per questa forza amorosa ch’è in me e che non può andar perduta…». Comunque, va a letto un’ultima volta con Felice e lo racconta subito a Cena: «Ore supreme furono. Quel fanciullo diventò uomo, e uomo grande. Amandomi, oh amandomi terribilmente, con la coscienza profonda di amare per l’unica volta, di aver fra le braccia una donna superiore al suo stesso sogno, e che nessun’altra quindi potrà mai surrogare, quell’uomo ha chinato il capo dinanzi alla verità della mia anima e della vita umana… Ah, amico, amico mio, in quelle ore io non era più la donna d’alcuno: ero una creatura umana nel cui cuore si adunavan tutto il dolore e tutta la forza del mondo». Spaventato della situazione in cui lo mette Sibilla, Cena, nonostante il suo aspetto mostruoso e il ruolo umiliante a cui lei lo costringe, tenta di invertire il rapporto di forza, rispondendole con parole sferzanti: «Io ho sempre amato di amore, ma mi sono sempre stancato appena ottenuto il ricambio… o anche prima. Non posso dirle affatto se questa volta potrebbe essere diverso: e per questa incertezza non voglio toglierle una certezza. Il Damiani l’ama. Lo ama ella? Noti bene, tutte le donne a cui diedi quanto diedi a lei non se ne liberarono più». Ma il tono cambia progressivamente. Una notte. Sibilla sogna Cena che la supplica di amarlo piangendo: «Ho dunque anche nel sonno la volontà armata per disputare all’avversità le mie conquiste?».

98

E poi Cena le scrive: «Ho il petto gonfio d’un orgoglio immenso: non mi son mai sentito amare così da una persona, contro tutta se stessa». Sibilla commenta: «Orgoglio, strazio, rassegnazione, attesa». Quella passeggiata nei giardini di Tivoli della primavera 1902 riassume tutta la loro storia. Benché lo ignorino ancora, torneranno di nuovo insieme in quei luoghi, nei pressi di Villa Adriana, per scopi sociali e umanitari. «Affanno sconosciuto, fra voci d’acque e d’uccelli e di bimbi, un giorno a Tivoli, tra il fogliame di perla forato su la pianura e sul lontano lampeggìo di Roma, affanno muto, e stupore frattanto per tutti, i sensi, e nel volto dell’uomo che m’è accanto, ombrato di fini rughe, un sorriso ansioso per ciò ch’egli vede negli occhi miei, sgomento e tenerezza indicibili, di cui egli crede e non può penetrare l’essenza, sorrisi e sguardi seguiti come musiche, poi repentino il silenzio, e due mani che si tendono, un lungo momento si stringono». Alle dichiarazioni di Sibilla, Cena risponde: «Anch’io vi amo. Ma non moverò un dito per conquistarvi. Voi verrete». Ma non conserva a lungo questo tono da seduttore irresistibile. Sa che tutto è nelle mani di Sibilla: «No, no, sia come voi deciderete. Voi non potete sbagliare. È la prima volta che mi trovo dinanzi a una donna che è forse più grande di me, e non ne ho umiliazione, ma un senso di dolcezza infinita». Cena la fotografa nuda, avvolta nelle lenzuola come un cadavere nel suo sudario, i capelli sparsi sul cuscino – sono immagini di un erotismo morboso. Talvolta Sibilla gira la testa e mostra soltanto la nuca sommersa dai folti capelli, che le scivolano sulle spalle come i serpenti della Gorgone; talvolta guarda l’obiettivo senza sorridere, la bocca un po’ amara, con una specie di piccola smorfia che le è naturale – la stessa di sua madre, delle sue sorelle, di suo fratello.

99

Alla fine di luglio del 1902, dunque, in quell’afa così propizia all’isteria sessuale e sentimentale, durante la quale si perde il controllo del proprio corpo ed esso acquista un’autonomia di cui approfitta con anarchia e accanimento, Sibilla scrive a Felice. Gli scrive, ma incarica Cena di portargli la lettera, la più lunga che lei abbia scritto fino allora. Il suo stile è del tutto nuovo: non è quello degli articoli femministi né quello di Una donna; lo si ritroverà in un’altra lettera, ancora più lunga, scritta dieci anni dopo e poi pubblicata – anch’essa una lettera di rottura, dal tono raziocinante e colloquiale allo stesso tempo. «D’anima ad anima» (termine che Sibilla preferisce a «cuore»), ma spietata. Come nella seconda lettera di rottura, indirizzata dieci anni più tardi non all’uomo che lascia ma alla donna a cui lo lascia. Sibilla dichiara a Felice che il suo amore sussiste ancora: «È l’estrema azione dettatami da un sentimento che non è morto e per cui ho tanto agito: non può riuscire vana. «Mi ascolti? Ti parlo con voce che l’intima commozione fa tremare, ma ti guardo con occhio limpido. Ci vedi tu una profondità maggiore, acquistata in questo ultimo dolore dell’esistenza? I letti dei moribondi hanno sempre qualche solennità d’una vita: io sono come sulla soglia del mistero perché nulla più attendo e voglio per me…». Sibilla rimprovera a Felice, senza rancore, di non averla amata, di non aver «preso di lei tutto che gli aveva offerto». Si rammarica soprattutto del fatto che lui non le abbia offerto maggiore appoggio quando se n’è andata da Porto Civitanova. «L’edifizio meraviglioso» del loro amore, come lo definiva Felice, è rimasto incompiuto. Sibilla sente che la passione li rende «strumenti passivi, sebbene lucidi, di quel bene e di quel male per cui la loro esistenza si eleva, temporaneamente o stabilmente, sulla comune. La morte e l’amore eliminano la responsabilità

100

dell’uomo in quanto l’una e l’altro non si possono raggiungere tutte le volte che si vuole». Ella pensa ancora una volta al suicidio. Teme che Felice impazzisca, preludio e presentimento della relazione che avrà una quindicina d’anni dopo con un altro poeta, anche lui bello e coi capelli rossi, ma veramente geniale e veramente pazzo: Dino Campana. Felice torna a trovare Sibilla in settembre, due mesi dopo questa lettera. Cena si è ammalato alla fine dell’estate. Quando Felice riparte, lasciandola sola con lui, Cena mormora: «È bello, devi averlo amato più di me». Poi Cena guarisce e Felice scompare dalla vita di Sibilla. Morirà due anni più tardi, ventinovenne, per la puntura d’un insetto. Felice Damiani ignorerà la gloria di Sibilla Aleramo. «Bizzarra femminista, quella che spendeva le sue giornate nel far trovare buona la vita al suo compagno, e non soltanto per l’amore, ma come donna di casa, cucinando alla svelta, servendo essa stessa a tavola se v’era qualche ospite, e come segretaria, correggendo quasi per intero le bozze dei grossi fascicoli quindicinali della “Nuova Antologia”, leggendo e giudicando per lui con acuta rigidità manoscritti e libri, scrivendo sunti e recensioni per una rubrica firmata “Nemi”, tutto un compito anonimo e gratuito assolto serenamente e punteggiato dal sorriso silenzioso che per Cena era una perenne carezza». Ma, se è vero che vive sottomessa a quest’uomo brutto, possessivo e innamorato, Sibilla trova anche il tempo per dedicarsi a queste due opere: raccontare la propria vita e aiutare i bambini poveri del quartiere di Testaccio.

101

Cena le fa togliere dal libro, scritto tra un pasto e l’altro su un angolo del tavolo di soggiorno, tutti i passaggi che riguardano Felice Damiani; lei sembra accettare di buona grazia questa censura, ma in realtà vi si piega con un senso di «peccato». «Il solo forse concreto peccato della mia vita», scriverà nel Passaggio a questo proposito. Appena si sarà liberata dell’influenza di Cena, Sibilla renderà omaggio all’uomo che, pur senza volerlo e senza che lei lo volesse, l’aveva aiutata a emanciparsi. Ciò che Cena aveva imposto a Una donna non era la menzogna, ma una mutilazione della verità: «Ed io lasciai amputar così quella che voleva, che gridava esser opera di verità. Come un altro qualunque dei tagli operati sul manoscritto, come su un qualunque lavoro letterario. Uncinò i margini con parole sue. Dov’era la piccola gagliarda che si chiamava Rina, che da sola dopo tanta tribolata umiliazione aveva un giorno intrepidamente agito e s’era assolta?». Nonostante l’enorme successo di Una donna, Sibilla Aleramo resta la «creatura» di Cena: gli amici di Sibilla sono essenzialmente amici di Cena. Primo fra tutti lo scultore Bistolfi, che le farà il ritratto per la moneta da venti centesimi. «Per quella prodigiosa felicità che gli davo cominciavo a esser nota fra i suoi amici, che andavano affezionandosi a me, ma non per quel ch’io ero in me stessa». A eccezione forse di Giacinta Pezzana, celebre attrice di teatro che le fu presentata da Alessandrina Ravizza e che tentò di fondare, con l’aiuto di Sibilla, un teatro per l’educazione popolare in Trastevere, con attori che recitavano in romanesco. Il tentativo fallirà, ma l’amicizia tra le due donne non verrà mai interrotta. «Mia creatura», diceva Cena a Sibilla. Ma la notte si rannicchiava contro di lei «come un bimbo fra le braccia della madre al buio […], col terrore e il rancore del bimbo scampato all’incubo». I loro amici credevano che lei gli sacrificasse il

102

suo corpo, ma lei sentiva di attingere la propria forza dal sangue stesso che donava. A Roma, Sibilla si trova ben presto sola con Cena: suo padre è partito per Torino, suo fratello è in Colombia, suo figlio ha smesso di scriverle. Ogni appello di Sibilla è rimasto vano. Scrive anche al manicomio di Macerata, ma come unica risposta riceve la notizia del lento declino fisico e psichico della madre. L’avvenimento che eclisserà tutti gli altri è la pubblicazione di Una donna, accompagnata da una polemica che Sibilla avrebbe preferito evitare. La versione francese, che esce nel 1908, sarà l’occasione per l’inizio di un’amicizia che durerà più di quarant’anni tra Sibilla e il suo traduttore, Pierre Paul Plan. Del resto Sibilla, che legge e parla perfettamente il francese, non tarderà a rivolgersi alla Francia, dove verrà accolta con entusiasmo. La giovane donna che comincia a farsi conoscere in ambiente letterario presenta tre particolarità che non si accordano necessariamente con l’immagine dell’autrice di Una donna: è bellissima, lavora tutti i giorni in un dispensario del Testaccio e presiede, con il suo amante, a uno dei principali salotti romani. Cosa resterà a Sibilla di tutti quei mesi passati al Testaccio? Quando farà la conoscenza di Pier Paolo Pasolini, che ambienterà i suoi romanzi romani proprio in quel quartiere, parleranno insieme di questo periodo? Pasolini è «molto cortese e deferente, ma non so quel che pensi di me, voglio dire della mia poesia». Per riassumere quei suoi anni, Sibilla scrive: «Roma. La città dove il mio destino pareva inciso in pochi rudi tratti: dedizione all’opera, devozione all’amico: poi, forse, intorno al capo stanco le braccia del figlio».

103

Il suo amore per Cena non è un sacrificio, ma il desiderio lucido di dissolvere la propria esistenza nella sua. Non conosce il disprezzo («lo sdegno è piuttosto un segno di debolezza che di forza», afferma lei stessa) e cita Amiel: «Concedere la parte più profonda, più misteriosa del proprio essere e della propria personalità per un prezzo inferiore alla reciprocità assoluta, è profanazione». Spesso dubita della propria identità di scrittrice. Non fa che ripetere a Cena: «Non sono artista: la gioia della creazione, di cui tu mi hai parlato, non la conosco». «È sempre questo intimo timore, questa intima difficoltà a metter sulle carte i sentimenti che mi riempiono l’anima… Come artista ne soffro: come donna ne sono felice, vi trovo una prova dell’umanità di quei sentimenti, mi dico ch’io vivo non a parole, ma con l’intraducibile pulsazione del mio cuore e del mio spirito, che ciò ch’io faccio e vedo fare non dà, non ha il preconcetto della riproduzione, il movente d’una compiacenza esteriore sia pur nobile». Durante i primi dieci anni del secolo, Sibilla si costruisce tutta una logica personale della redenzione. L’abbandono del figlio viene riscattato attraverso il fervore missionario delle sue attività al dispensario del Testaccio e nelle scuole dell’Agro Romano. Del resto, Sibilla si ispira a San Francesco: quando va ad Assisi, prima con Cena, più tardi da sola, evoca la figura esemplare del santo a proposito della propria azione umanitaria. Si serve di un’espressione di Francesco, «andando e stando», come titolo per una sua raccolta di aforismi: «Andando e stando, amore. Gioia di dare, gioia di ricevere, senza saper nulla del domani, senza nulla attendere […]. Mistica libertà, sapienza spaziale della mia terra, realtà insolvibile ed universa».

104

Questi anni di impegno sociale avranno poi un’eco durevole alla fine della sua vita: l’adesione al Partito comunista. La redenzione risiede dunque in questo impegno – che avrà sempre un peso nella sua esistenza – ma anche nella condizione femminile in se stessa. Ella scrive sul suo taccuino, a proposito di un’altra forma di tradimento: «Saremo uomini quando non useremo più la parola rimorso». Prima di scrivere Una donna, prima ancora di abbandonare Ulderico e Walter, Sibilla aveva tentato di raccontare la propria vita sotto forma di opera teatrale, in una pièce intitolata Verso la vita, di cui lei stessa ci dà un riassunto: «Elena Favonio era sposa ad un uomo mediocre, geloso e violento, viveva in un semiletargo morale coltivando la mente naturalmente fervida colla lettura e l’osservazione, ignorandosi tuttavia. Incontrò il pittore Gualtiero Darenzi». Non è difficile riconoscere Felice Damiani (che lei chiama spesso Guglielmo) nel personaggio di Gualtiero Darenzi. Nonostante la successiva censura di Cena, bisogna dunque ammettere che nel gennaio del 1902, poco prima di lasciare la propria famiglia, è a Felice che Sibilla attribuisce un ruolo rivelatore. Ma la redenzione suprema le verrà concessa dal suo libro, e dai riconoscimenti che esso riceverà. Ecco il commento di Luigi Pirandello a Una donna (alcuni ritengono, a torto, che il suo romanzo Suo marito contenga la caricatura di Sibilla, mentre è Grazia Deledda che viene presa di mira): «Pochi romanzi moderni io ho letti che racchiudano come questo un dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresentino con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza». E Stefan Zweig osserva: «Il movimento femminile ha trovato qui presto il suo seguito. Il grande, il nuovo, il bello di questo libro è l’assoluta rinuncia ad ogni trastullaggine, ad ogni civetteria amorosa ed erotica. Una tar-

105

diva coscienza di sé ma che è più amore per tutti che amore per se stessa». Tuttavia nessun libro potrà mai risolvere un dramma psicologico o familiare. E poi il successo di Una donna, per quanto durevole (dalla sua prima pubblicazione, il libro non ha mai smesso di esser venduto), non è stato tale da conferire immediatamente a Sibilla Aleramo il ruolo incontestabile di scrittrice. La sua relazione con Cena non è mai stata interamente soddisfacente. Se Il passaggio è l’opera in cui ella si dilunga maggiormente su quello che fu di fatto il suo secondo matrimonio, anche le sue numerose opere inedite (lavori teatrali e romanzi) sono piene di allusioni a questo amore frustrante. Qui l’eroina ha sempre nomi trionfanti, come Chiara Vinci o Alessandra Rovere – omaggio quest’ultimo ad Alessandrina Ravizza, alla quale tenterà anche di consacrare un romanzo intitolato Valeria Vinci. Il 23 dicembre 1906, Sibilla abbandona uno dei suoi tentativi di romanzo dopo le prime quarantaquattro pagine. Il narratore doveva essere suo figlio: già questo dimostra come Una donna, apparso meno di due mesi prima, non le fosse bastato per liberarsi dal rimorso di averlo abbandonato. «Una sera a Venezia su un vapore che traversava la laguna sentii un bambino della mia età vicino a noi, dire al conduttore che lo richiedeva del biglietto: “Io sono con la mia mamma”. Mia madre… partì di casa quand’io avevo sette anni. Non poteva restare, soffocava. Mio padre, forte della legge, mi tenne con sé». Nel corso del 1908, Sibilla traccerà altri due abbozzi di questo stesso romanzo. Il personaggio di Chiara Vinci si trasformerà in quello di Chiara d’Arduino nella Casa nel sole, una pièce scritta tra il 7 luglio e il 7 agosto 1923, e in quello di Francesca Diamante nella pièce omonima del 2 luglio 1924: queste due figure femminili sono entrambe cantanti liriche, come Caris di Rosia, la protagonista del Frustino, che sarà pubblicato nel 1932.

106

Curiosamente, è proprio nel 1932 che Sibilla ritorna in maniera più esplicita sul «tempo di Cena», pur senza nominarlo direttamente. Si è messa in testa infatti di scrivere un soggetto cinematografico dal titolo La grande ereditiera. La protagonista, Eva, eredita una fabbrica di automobili dai genitori, morti in un incidente. La vende e decide di creare, insieme a un’amica musicista, una serie di attività soltanto per donne: librerie, farmacie, laboratori, ristoranti. Fonda persino un «villaggio delle donne», al centro di un’immensa proprietà in cui si coltivano frutta e verdura. Dopo aver incontrato un poeta pazzo che muore di meningite, Eva diventa operaia, regala tutti i suoi averi e va a vivere con il medico del villaggio. Qui diversi episodi della vita di Sibilla si sovrappongono: in particolare la figura di Dino Campana viene a coincidere con quella di Tullio Bozza, l’atleta che le aveva ispirato Endimione. La trama si chiude poi su un ritorno al passato, dato che la protagonista sceglie una vita di dedizione e sacrificio al fianco del medico, modellato evidentemente sulla figura di Cena. Sibilla è ben cosciente della propria mancanza di abilità nella costruzione romanzesca, della propria difficoltà a portare a termine la narrazione: attribuisce questi difetti al carattere peculiare della sua memoria e, in un certo senso, della sua stessa vita sentimentale. Come tutti gli idealisti, Sibilla ha avuto una vita sentimentale ripetitiva. Si rende conto dunque di non possedere una memoria analitica. Da questo deriva il sistema narrativo che ha adottato già a partire da Una donna: i personaggi non hanno nome e sono volutamente ridotti ad archetipi. Nel 1940, giunta all’età di fare un bilancio (benché la sua vita dovesse ancora subire diversi colpi di scena destinati a modificare la sua figura di donna e di scrittrice), definirà così il suo rapporto col tempo e con la scrittura: «Tutto il meccanismo è inspiegabile, l’ha dimostrato sottilmente Proust. Io non mi dolgo del resto, per ciò che mi concerne,

107

di ricordar tanto poco i particolari non soltanto dell’infanzia ma di tutto il corso della vita fino a ieri. Mi contento di poter serbar le linee essenziali, il significato di talune epoche, di taluni incontri – persone, paesi, libri, idee – di taluni atti. Ed è già tal mole, che se vi si aggiungessero le circostanze, vi sarebbe da restarne più che seppellita. Si è sempre lodata la mia “facoltà di sintesi”, fin dai tempi di Una donna. Viceversa, lo scrittore di romanzi pare debba essere analitico, non soltanto dei moti interiori, ma per tutto quanto vede e racconta. Io non ero nata romanziera, lo son stata soltanto occasionalmente». Il riferimento a Proust non è casuale. Già nel 1924 Sibilla aveva scritto su di lui un articolo intitolato Il gentiluomo malato. Aveva anche assistito al suo funerale a Saint-Pierre de Chaillot, benché non lo avesse mai conosciuto personalmente. Aveva tentato più volte di farsi ricevere da lui tramite amici comuni (probabilmente la contessa Anna de Noailles), ma Proust aveva sempre rimandato e poi annullato gli appuntamenti. Sibilla lesse La prigioniera non appena fu pubblicata, come pure le opere di Joyce e Virginia Woolf, dei quali riconobbe immediatamente la genialità. Dell’autore della Ricerca Sibilla scriveva: «Bisogna ripetere: il valore di Marcel Proust non sta principalmente in quella sua perfetta facoltà di pittore di costumi, minuziosa talora come in una tavola fiamminga, e talora vivente ed ampia come in un affresco della nostra Rinascenza: non sta in quella sua straordinaria investigazione di caratteri, per cui l’enorme libro rammenta insieme Saint-Simon e Balzac, e qualche volta li supera; ma sta nel profondo, accorato, e pur sempre lucido sguardo ch’egli getta così spesso sul mistero di cui è fatta ogni nostra ora, nel sonno come nella veglia, nella vertigine del possesso come nell’arcobaleno del ricordo. Tutto il suo interminabile raccontare conduce a zone segrete, ad invisibili sfere ch’egli fa sentire come reali – e forse solo esse sono reali».

108

Al momento in cui aveva ribattezzato Rina Faccio Pierangeli col nome di Sibilla Aleramo, Giovanni Cena aveva scritto un sonetto. Quando Sibilla lo abbandonò ne scrisse un altro, più commovente perché, per esprimere l’assenza della donna che ancora ama, l’autore ripete ossessivamente le rime in -illa senza mai fare il suo nome: Più non dirai. Sonetto, il nome, pieno Di suoni, il nome che carezza e squilla. Il nome che la vita mi sigilla E che suonò in un tuo ritmo sereno. Mentr’io rimpiango, uccisi nel mio seno Canti d’amor non nati, altri le trilla Pallide rime e stempera in argilla Romantica il suo duro viso elleno. Non maledir la mano che m’atterra! Dal fondo della mia sostanza umana Sol rompe il canto della doglia eterna. Così la fiera a la natìa caverna Colpita fugge e il suo rantolo emana Come dal cuore della madre Terra.

Il rivale che «le trilla pallide rime» è Vincenzo Cardarelli. In realtà Sibilla non lascerà Cena per lui, ma per una donna. Questo Cena non poteva prevederlo. Lui conservò fino alla fine nei confronti di Sibilla il suo atteggiamento possessivo, da demiurgo, da Pigmalione, pur essendo convinto della superiorità intellettuale e psicologica di questa donna che era venuta a lui. Come Sibilla scriverà trent’anni più tardi, era lei che si sentiva gelosa di lui e non viceversa: «Non era la gelosia di chi teme d’esser ingannata, ma lo spavento di valer meno di altre donne, e quindi di poter meno di loro farlo felice».

109

7

La campana di vetro

Il 29 dicembre 1908, Sibilla e Cena scendono dal treno alla stazione di Gioia Tauro, uno dei pochi paesi risparmiati dal terremoto che ha devastato la costa occidentale della Calabria. A partire da qui, la linea ferroviaria è distrutta. Di fronte al torrente di fango che ha invaso le strade, i due provano un attimo di smarrimento. Sta ancora piovendo. Dovranno raggiungere Palmi a piedi. La terra trema leggermente, come in preda ad un continuo fremito nervoso di rancore mal sopito. «Nei confronti di chi?», si domanda Sibilla. Cena non risponde. È sconvolto «dalla mancanza di soccorsi e d’organizzazione, da quella immensa miseria abbandonata quasi totalmente a se stessa». La notte in treno è stata spossante. Ma non hanno esitato un attimo a partecipare a questo viaggio di ricognizione improvvisato. Hanno ricevuto una telefonata dal loro amico Gaetano Salvemini, autore di un saggio sulla rivoluzione francese e futuro fondatore del movimento antifascista «Giustizia e Libertà»: ha perso nel terremoto sua moglie e i suoi cinque figli. Maria Salvemini si sentiva così piccola di fronte al marito, a Sibilla e a Cena; si definiva ella stessa «una piccola oca».

110

Questo viaggio tra le macerie della Calabria e della Sicilia è l’ultima missione umanitaria che Sibilla e Cena intraprenderanno insieme. Non è che una vaga eco del loro amore e della loro riconoscenza reciproca. La loro unione è compromessa già da diversi mesi: dalla fine d’aprile del 1908, quando Sibilla ha incontrato a Roma Lina Poletti. Nel Passaggio, al momento di rievocare il proprio amore per Lina Poletti, una studentessa venticinquenne che viene da Ravenna, Sibilla si chiede: «Io ho timore? Non l’ebbi allora». Sibilla l’ha soprannominata «la Favola». È bionda e minuta. Ha modi da uomo; un viso aspro e magro. I suoi occhi «dorati» e penetranti si fissano immediatamente su Sibilla, mentre questa espone la propria testimonianza sulla vita delle donne del Testaccio e dell’Agro Romano durante un congresso dell’Unione Femminile. Il congresso è stato organizzato dalla contessa Eugenia Rasponi, che diversi decenni più tardi diventerà la compagna di Lina. Sibilla, che non ha ancora trentadue anni, ha già alle spalle diverse esperienze personali e professionali. Certo, vive con un uomo che lei venera e che la adora, ma questo rispetto reciproco che dura da sei anni non soddisfa la sua natura passionale. La frustrazione sessuale, unita al rigore ascetico della sua opera umanitaria e aggravata dalla lontananza, poi dal silenzio del figlio, fanno di questa scrittrice celebre e scandalosa un personaggio stranamente immaturo. A dire il vero, la tragedia del terremoto in Calabria non le insegna niente di nuovo. Sono sei anni che vive a contatto con la miseria, e sa che la maggior parte dell’umanità è tenuta in uno stato di abbrutimento e ignoranza. Ciò che traspare dai suoi appunti febbrili, scritti in fretta a lapis su dei blocchetti da bruttacopia in quegli ultimi giorni del 1908, non è tanto il disastro naturale che ha sotto gli occhi, quanto il profondo

111

squilibrio interiore che ha provocato in lei l’incontro con la giovane donna. Anticonformista e ardentemente innamorata di lei, Lina ha spazzato via gli ultimi residui di rispettabilità che restavano a Sibilla. Non che Sibilla avesse mai avuto il minimo rispetto per la struttura familiare o per le convenzioni e i riti borghesi, ma è pur vero che, con Cena, aveva ristabilito una specie di patto matrimoniale. «La borghesia», scrive Sibilla sul suo taccuino, «ha messo la sua ambizione a seguire un codice di buone usanze, dimenticando completamente che anche per la regola della vita non è buono se non ciò che è suggerito spontaneamente dal temperamento e dalla circostanza insieme, caso per caso». L’apparizione di Lina nella sua vita le offre la possibilità di riconciliarsi con la propria giovinezza e, in un certo senso, anche con le altre donne. Questo infatti è il paradosso del femminismo, come Sibilla ha più volte osservato: spesso le donne militanti, invece di incontrarsi tra loro, si trovano integrate in gruppi esclusivamente maschili. In questo senso, un’esperienza simile alla sua è quella di Simone de Beauvoir, che Sibilla leggerà e incontrerà a Roma negli anni Cinquanta. Sibilla si rende conto, accettando l’amore di Lina, di conoscere male la psicologia femminile; ha sempre vissuto circondata di uomini: suo padre, Ulderico, Felice, Cena. Non è con Alessandrina Ravizza che ha vissuto. Nella primavera del 1909, un anno dopo aver incontrato Lina Poletti, Sibilla scrive sul proprio taccuino: «Un’anima sola di donna, in tutta la mia vita, avevo avuto la possibilità di sondare, quella di mia madre. E per la sua tragica debolezza non avevo provato che un tardo intenerimento, una passione desolata e vana. Poi sorelle, amiche, compagne m’eran passate accanto, e i loro barlumi interiori non avevano mai avuto la potenza di conquistarmi intera, sia pure per un solo istante: nessuna m’a-

112

veva dato, neanche un istante, il desiderio imperioso, tremendo, di sciogliere il mistero del suo essere». È curioso che qui Sibilla non accenni neppure ad Alessandrina Ravizza, o all’attrice Giacinta Pezzana, a cui era molto legata durante quegli anni romani; per non parlare di Anna Celli, che ebbe un ruolo tanto determinante sulle sue scelte politiche (ma con quest’ultima avrebbe rotto definitivamente dopo avere lasciato Cena). Il fatto che non parli di loro non significa certo che queste donne fossero uscite dalla sua mente e dalla sua vita, dato che in seguito dedicherà svariate pagine a ciascuna di esse. Questa omissione rivela piuttosto l’effetto che l’improvvisa apparizione di Lina Potetti ha prodotto sulla vita interiore di Sibilla: questa è per lei una novità radicale, capace di cancellare ogni traccia delle sue precedenti amicizie femminili, iniziandola a una forma d’amore che le era fino allora sconosciuta, l’amore tra due creature dello stesso sesso. «Io non avevo mai pensato che un tale desiderio potesse formarsi in una donna per un’altra donna, in un uomo per un altro uomo. Ero così arrivata a trentatré anni». Da quando ha incontrato Lina, Sibilla guarda con altri occhi i rapporti tra uomo e donna, e soprattutto il suo rapporto con Cena. Nel 1910, al momento della rottura definitiva con Cena, Sibilla scrive: «Poi incontrai un’anima grande e divenni una serena adoratrice dello spirito. Tardi ebbi la rivelazione della bellezza e attraverso la fremente gioia dei sensi attinsi la fusione dell’universo. Ora le esperienze sono finite, io non vivo più, conosco soltanto, ed unica espressione del mio essere è la filosofia». Per «filosofia» Sibilla intendeva il compendio astratto delle esperienze personali, la loro analisi intellettuale, il superamento dei casi particolari e della stessa individualità. Giustificava così le peculiarità narrative di Una donna, comuni del resto alla mag-

113

gior parte della sua produzione: «Io non sono una raccontatrice: tutti i casi in cui mi incontro non mi interessano per se stessi, ma per il loro significato filosofico. Posso, in lunghissimi periodi, estrarre dalla mia esperienza un nucleo di vicende che mi sembrano esprimere qualche verità e fonderle e illuminarle allora al calore del mio senso estetico in un’emozione poetica tanto più intensa quanto più lungamente trattenuta. Ma narrare per narrare, vestir di leggiadre forme, giorno per giorno, tutto quanto m’è passato un istante sotto gli occhi, no, non mi tenta». In Lina, Sibilla scopre il riflesso della propria giovinezza, ma soprattutto una forma d’amore impossibile: «V’è l’amore che tramanda la vita, ed è gioia, dolcezza, serenità, forza, riposo… La fusione perfetta, l’incontro felice. E v’è l’amore sterile, angoscia, affanno, tempesta, l’adorazione per un essere nato per gli altri. La comprensione appassionata di una bellezza che accresce la vostra sostanza, sì, ma nulla riceve da voi… In quest’ordine è anche l’amore per una persona dello stesso sesso: e la tragedia vi si complica disperatamente». Sibilla ha nei confronti di Lina una posizione contraddittoria: da una parte in lei riconosce se stessa, dall’altra si trova di fronte a un mistero, a una barriera ancor più scoraggiante di quella incontrata negli altri suoi amori. Dai numerosi aforismi sulla donna che Sibilla scrive in quegli anni traspare proprio la contraddittorietà della sua situazione interiore: «Se c’è una condizione dello spirito insopportabile alla donna, è quella dell’equivoco. La donna è sempre in buona fede». «Qualunque donna che, raggiunta una certa sommità spirituale, ricerchi nel suo passato a chi deve gli elementi della propria ascensione si avvede che furono spiriti maschili quelli a cui attinse esempio e luce».

114

«La donna aspira a partecipare a quelli che fin qui furono privilegi mascolini: perché l’uomo non fa altrettanto per le doti che fin qui furono d’esclusività muliebre?». Il primo sentimento che Sibilla ha provato verso questa «forma umana singolare» che le è venuta incontro, verso questa «forma di giovinezza non peranco conclusa, in cui splende una volontà ignota», è l’invidia nostalgica per un’audacia che lei non ha mai posseduto. Non prova attrazione fisica, perché Lina è una «piccola creatura priva d’armonia». Quando Lina le dichiara il suo amore in un giardino del Gianicolo, come sei anni prima Cena a Tivoli, Sibilla posa un bacio sulle sue labbra, che sente tutte tremanti. Accetta di essere amata e aspira, ancora una volta, a fondersi con un altro essere umano. Non si spingeranno per ora oltre il bacio e le carezze. Sibilla ama Lina per principio. Ama in lei soprattutto l’adorazione che questa prova nei suoi confronti. Non vuole far soffrire, in Lina, la donna che è stata lei stessa: questa è l’unica occasione che le sarà offerta di un amore totalmente reciproco, senza bisogno di seduzione né di rapporti di forza. Prova un rispetto cieco per questo amore che ha suscitato in un’altra donna. La chiama «bimba». Lina le racconta la propria vita. È nata il 27 agosto 1885 a Ravenna, da una famiglia borghese. È la penultima di quattro sorelle. A ventidue anni, la sua esistenza è già quella che sarà: quella di un’intellettuale mistica e militante a un tempo, sul modello stesso di Sibilla. Lina lavora alla Biblioteca Classense e assiste a tutti i dibattiti ai quali partecipa Sibilla. Sarà lei a imporre il proprio amore a Sibilla. «Parlami, parlami!», le diceva. «È la mia disperazione questo tuo silenzio. Stanotte non ho dormito… No, neanche lavorato… Pensato, sì… Come ti avevo vista staccata sullo sfondo, iersera, la tua figura isolata e imperiosa… […] Penso già con

115

terrore a quando ti perderò… Io sono giovane, vedi, e tutto questo che provo è per forza veemente… Ma non t’offendi, di’? Mi permetti d’esser così?». Lina ha nei confronti di Sibilla l’atteggiamento ambiguo che assumono i giovani quando si innamorano di una persona più matura: affettano un candore incontenibile e inerme di fronte alla violenza dei propri sentimenti, di cui sono pienamente consapevoli pur fingendo di contemplarne timidamente l’effetto travolgente. Così possono immaginare, e soprattutto lasciar credere all’altro, di trovarsi nella sua stessa posizione rispetto al fenomeno dell’amore: analizzando la propria passione con un misto di oggettività e finto disappunto, costringono l’altro ad ammetterne l’esistenza. Prendendo l’altro a testimone, lo obbligano a parlare di questo amore come di un fatto esteriore ed evidente, che finisce per imporre le proprie leggi. Si sforzano di sembrare fragili per poter invertire i ruoli, per poter esser loro a sedurre. Sibilla dimostra nei suoi taccuini, nelle lettere e nel capitolo del Passaggio dedicato al suo amore per Lina, di esser stata vittima proprio di questa sottile strategia. La ragazza raggiunse però totalmente il suo scopo soltanto dopo un anno, a Firenze, in casa del direttore dell’Istituto Francese, Luchaire, che resterà poi, per tutti gli anni a venire, il pernio involontario della vita sentimentale di Sibilla. Le conversazioni che oppongono Sibilla a Lina hanno un carattere sorprendente, in una delle prime lettere scritte a Sibilla (in cui la chiama «dolce e fiera Albunea, Sibylla Tiburtina») Lina avanza riserve inaspettate sulle «membrature un po’ slegate e neglette dello stile» di Una donna, ma manifesta apertamente la propria ammirazione per la grandezza della sua figura («la novissima ribelle, santificata dal martirio in vista dell’avvenire») e per la sua bellezza («il vostro volto che ho ammirato tante volte sulle tele quattrocentesche delle Gallerie di Firenze»).

116

Lina si sente risolutamente maschile. Sibilla si dice «toccata invece da ciò che in lei permane d’identico alla mia sostanza». «Non sai», dice Sibilla a Lina, «quanto il tuo amore sia diverso, per quanto tu faccia, dall’amore che gli uomini possono darmi. Com’è leggera la tua carezza! Non mi penetri ma mi accosti – come niuno mai. Ti cedo con franco tremore, hai un piccolo nome che suona come il mio d’una volta». E ancora: «Ci movevamo in una immensa campana di vetro abbagliante, la vicendevole iniziazione ci dava chiari occhi eroici. Imparai, amore, che il tuo mistero non è nella legge che perpetua le speci». «Fammi morire!». Quando Sibilla cammina tra le macerie della Calabria e della Sicilia, tutte queste cose son già state dette, ma verranno scritte soltanto a partire dalla primavera seguente. «Mancava alla mia esperienza questa lucida follia: questa gioia senza causa e senza scopo, questo dolore nato non so come e che non so come morirà. […] Forse tu non esisti: forse sei molto diversa da quello che io vado contemplando ora per ora». Mentre Cena traccia un resoconto distaccato e oggettivo della catastrofe, Sibilla immagina un dialogo poetico tra «una donna» e la «Psiche» del museo di Napoli: «Eravam ebbri di tanta morte, eppur felici del sorriso della terra. Messina ci veniva incontro, con la corona dei suoi colli commossi». Non aveva mai preso in considerazione la possibilità di amare un’altra donna. Alla scoperta dell’omosessualità maschile si era sentita «come dinanzi a un’incomprensibile follia». E non aveva voluto addentrarsi oltre in questo «buio orrore». Lina, invece, si è sempre dichiarata omosessuale. Quando, con quell’autenticità che non le verrà mai a mancare, Sibilla scopre di esserne innamorata, prende questo amore come «un’immensa sciagura». È innamorata «del suo fuoco, della sua voce, della sua grazia, e

117

poi dell’ombra sua, di tutto ciò che di lei si andava disegnando a contorni vaghi e fuggenti nella malia della sua parola, e poi ancora innamorata della sua entità spirituale». Sibilla è profondamente infelice – e durante la settimana che passa in Sicilia con Cena alla fine del 1908 lo sente più che mai – perché ha come l’impressione di trovarsi di fronte al nulla: «Il nulla quotidiano, il nulla per il resto della vita che dovremo ancora vivere, dopo, tra qualche mese». Al momento stesso in cui ammette di amare Lina, Sibilla la rifiuta. Rievoca con un piacere crudele il loro primo bacio, la loro prima notte insieme, ma solo per poterne sottolineare la vanità: «In fondo al nostro [amore] c’è la condanna atroce della sua sterilità». Dopo essersi riviste a Firenze, le due donne si frequenteranno regolarmente nel corso del 1909. Sibilla continua a vivere con Cena al numero 45 di via Flaminia e tornerà del resto con lui a Messina nell’ottobre dello stesso 1909. Quando Lina è a Roma s’incontrano nei giardini di Villa Borghese. Altrimenti Sibilla va a trovarla a Ravenna. «Ti amo», le dice Sibilla: «sarai passata nella mia esistenza come il mistero più abbacinante, come la verità più radiosa forse, trascendente i poveri miti della mia anima. Sei bella. Non posso darti nulla, perché tutto ciò che è in me trovo centuplicato di potenza in te. All’uomo che ho amato ho dato il mio sorriso. A te, donna, vanno le mie lagrime. Possa tu amare la vita anche traverso ad esse, come fossero stelle». In meno di un anno il loro rapporto si deteriora. Lina insulta Sibilla che risponde con lacrime e lettere liriche, e protesta di adorarla pur continuando a vivere con Cena. «Ti voglio vinta, capisci, voglio la tua testa arrovesciata tra le mie mani», le scrive Sibilla nella stessa lettera con cui l’avverte che probabilmente non potrà più venire a trovarla a casa. Alla

118

fine di luglio, Sibilla ripete con Cena una scena identica a quella che aveva recitato al momento di lasciare Felice Damiani. Cena reagisce con crisi di lacrime che Sibilla descrive lungamente a Lina, come aveva fatto con Cena a proposito di Felice. Rifiuta ormai ogni forma di intimità sessuale con lui. Descrive il suo «povero compagno, quest’uomo di valore e di grandezza, che non può, capisci, non può reprimere nella sua carne in fiamma il desiderio del mio possesso, e si distrugge disperato al mio rifiuto». All’inizio di agosto del 1909 Lina è di nuovo a Ravenna. Sibilla le scrive quotidianamente, e si compiace da una parte a rievocare le loro notti d’amore nella stanzetta di Lina e la sua certezza che «la verità ideale è la nostra, la tua, Lina»; dall’altra a descrivere i baci che concede a Cena, il quale la «benedice per l’amore che lei gli porta». Camminando lungo il Tevere subito dopo il tramonto, vede Monte Mario tingersi di viola agli ultimi raggi di sole e si ricorda di una sua passeggiata a Ravenna. Si ricorda «quell’estasi divina che tu sola m’hai fatto conoscere», «la più viva gioia che i miei occhi abbian mai avuta». Con ogni probabilità, sono sempre queste le immagini che ha in mente al momento di scrivere Il passaggio, e anche L’assurdo, un’opera teatrale di cui proibisce la pubblicazione senza però distruggerla, destinandola a un «futuro biografo». In questa pièce dal titolo dannunziano, la figura di Lina compare sotto forma di un personaggio maschile, Arduino – un nome di cui Sibilla si servirà spesso nel suo teatro e nei suoi abbozzi di romanzo abbandonati. Mentre Cena tenta di convincersi che «l’origine infausta di tutto questo è stata la parola amore che quell’altra ha pronunciato colla massima sicurezza, che Sibilla non accettava, che cominciò a discutere, poi ad ammettere suggestionata. L’amore per una

119

donna non toglie nulla all’amore per l’uomo». Sibilla vuole che lui si renda conto dell’«errore in cui hanno vissuto». La scenata più violenta ha luogo l’11 agosto 1909, al numero 45 di via Flaminia. Cena ha in mano un taccuino che porge a Sibilla. Sibilla lo prende impallidendo. Sul taccuino, che le appartiene, aveva copiato alcune lettere scritte a Lina. Cena ha coperto di cancellature, scarabocchi e insulti certe frasi che sono adesso illeggibili. Emerge solo qualche frammento qua e là: «…scenderò… con te… questo mare a cui non ho parlato che di te, di te, giorno e notte…». Sibilla mormora, con gli occhi lucidi di lacrime: «Come hai osato!». Cena sogghigna: «Ah, sei tu che me lo chiedi?». Poi si prende la testa tra le mani e scoppia in singhiozzi. «Non ne posso più, Sibilla». Si alza e dice senza guardarla: «Dobbiamo lasciarci. Tu puoi restare qui. Me ne andrò io, dai Celli, da Salvemini, in un altro posto qualsiasi. Ma come mai sei così cambiata?». «Io non sono cambiata. Sei tu che non hai saputo vedere la donna che ero veramente. Che cosa ho fatto in tutti questi anni? Ho corretto le bozze della “Nuova Antologia”, ho scritto articoli al metro su autori mediocri sotto uno pseudonimo collettivo, ho fatto da mangiare: ecco come ho applicato la lezione del femminismo! E dell’Agro Romano!». Non appena si trova sola, Sibilla scrive a Lina lettere come non ne ha mai scritte a Cena: «Ti dò convegno per sabato mattina alle sette; io sarò ancora coricata, gli occhi chiusi e immobile: voglio da te il primo sa-

120

luto per quel giorno, E io udrò realmente il divino suono delle tue labbra, amata. Poi tu ti chinerai e ci baceremo. A lungo. E la nostra felicità sarà perfetta, un istante. Tu sei più forte di me, tu non hai a soffrire di quel ch’io soffro». Cena le dice che non ha niente contro Lina, ma che soffre nel trovare in Sibilla «questo nuovo sentimento a lui estraneo». Lei dice di amarli tutti e due. Lina accusa Sibilla di doppiezza e dissimulazione. Cena rifiuta di vedere Lina. Lina odia Cena. Sibilla dice che li ama, tutti e due. Dice a Lina: «T’amo come il mio dolore». Dice di voler essere «degna della sua anima». Ripete ancora: «Tu sei il mio dolore, fatalmente e per sempre». Lina domanda se Sibilla potrà seguirla. Sibilla le risponde che non ha mai seguito nessuno in vita sua. «Generare nel bello, ecco l’amore», dice Sibilla. Cena cede, non esige più niente, cerca solo la pace, desidera la pace per Sibilla: «Egli sanziona ora il vincolo mio con te». Alla fine di agosto del 1909, i tre si concedono una tregua. Lina vorrebbe rinunciare. Sibilla glielo proibisce. Alla fine di settembre del 1909, Sibilla è ad Assisi. Ha incontrato da poco un poeta che si chiama Nazareno Cardarelli e si firma Vincenzo. È ancora più giovane di Lina. Ha ventidue anni. Cardarelli intervista Sibilla sulla situazione nell’Agro Romano e pubblica la loro conversazione in una rivista, con il titolo: Germogli di civiltà sulla deserta riva dell’Agro. Per il momento Sibilla non dà alcuna importanza a questo incontro. Lui è un giornalista parlamentare dagli occhi cadenti e distanti tra loro, la bocca molle, il naso troppo lungo che preme sul labbro superiore, carnoso; ha i capelli folti, soffici e neri. Ad Assisi, ancora una volta. Sibilla evoca la figura di San Francesco. «Pur morire sarebbe dolce, stesa sulla nuda terra fra gli olivi d’argento». Invoca «nostra sorella morte».

121

Cena, che si trova con lei, la chiama Chiara. Sibilla supplica Lina di raggiungerli, ma lei rifiuta. Quando sono lontane l’una dall’altra, le due donne comunicano tramite Venere, la stella della sera che loro chiamano Espero: «Espero fiorisce, il sogno nostro eterno». Il 3 novembre 1909, tre anni dopo la pubblicazione di Una donna. Sibilla scrive: «Perché vivo ancora? Perché sento che vivrò?». Si sente sul punto di sprofondare nella follia e contempla la propria immagine riflessa sul vetro di una cornice che contiene un ritratto della madre: «La mia immagine si stacca morbida e appena velata sullo sfondo lucido ove scompare l’immagine ritratta. […] Ho gli occhi più oscuri, le labbra meno rosse, e tutta la faccia mi sembra più grande, con ombre fuggenti e profonde insieme. Ombre? Tutto ciò che v’han riflesso l’amore, la passione, l’arte, la gloria, e la desolata stanchezza di loro…». Durante i lunghi mesi che precedono la rottura tra Lina e Sibilla, continuano tutti e tre a lavorare per l’Agro Romano. Lina raccoglie fondi che consegna a Cena. Nel gennaio del 1910 Cena dice di aver capito, di non sentirsi più spaventato della situazione. Lina parla di «furore selvaggio», di «eroismo dell’illusione», Sibilla di un amore che «in certi momenti supremi si tramutava in fiamma verso il cielo». Nel gennaio del 1910 le due donne smettono di amarsi. In febbraio Lina le confessa di avere una relazione con Eleonora Duse. Ormai le lettere di Sibilla, benché sempre piene d’ardore, sono scritte al passato. Ella parla di «infinita tenerezza», ma poi commenta con lunghi ragionamenti la necessità della loro rottura: «Il mio dovere era di vivere fino alla fine accanto al mio compagno, un dovere altrettanto imperioso era quello di lasciarti

122

libera, libera non solo negli affetti della vita ma anche da rimorsi o semplicemente scrupoli verso di me». Sibilla si appella adesso all’«anima Universa» per difendersi da qualsiasi turbamento dei sensi. Nel marzo del 1910, Sibilla è già arrivata al punto di dichiarare a Lina: «Io ero soltanto prescelta a fingere il tuo sogno». Rifiuta le teorie di Lina sulla conquista e il sacrificio, sul principio attivo e il principio passivo in amore. Le scrive: «Nella sua forma, l’uomo il più contemplativo e passivo dell’universo sarà sempre più uomo della donna più energica e attiva». Sibilla aspira a un’umanità androgina, in cui le donne generino «dei figli armonicamente duplici». Ma «la dualità è fonte di guai». Tuttavia Sibilla desidera non esser fraintesa e scambiata per una libertina: «È in nome di un nostro diritto alla gioia, magari al piacere che parlo». Lina, da parte sua, continua a sostenere la sottomissione del temperamento passivo alla volontà di dominio del temperamento opposto. I principi di Sibilla sono semplici, perché riflettono la ripetitività ossessiva delle sue passate esperienze amorose, il male consiste nel «godere senza amore approfittando dell’abbiezione altrui. Il male è in questo, nell’atto d’amore, compiuto senza amore. E l’omosessualismo non lo rimanda né l’attenua, perché stabilendosi su larghe basi produrrebbe in breve gli stessi fenomeni di sopraffazione fisica economica e morale che oggi sono il privilegio d’un solo sesso e ancora…». Lina attribuisce al loro amore, anche dopo la fine, la funzione di aver rivelato la diversità dei loro ruoli: lei è stata l’agente e Sibilla la vittima, lei l’ha conquistata e Sibilla ha ceduto al suo potere di seduzione. A sostegno di questa teoria, adduce il fatto che Sibilla abbia potuto provare con lei una forma di piacere (ma a questo termine triviale sia Sibilla che Lina preferiranno sempre quello più nobile di «estasi»).

123

Sibilla risponde: «La gioia fisica ha seguito fatalmente ma poteva anche non seguire». Con il proselitismo tipico degli omosessuali, Lina avanza l’idea che il loro rapporto sia stato, per Sibilla come per lei, una vera e propria rivelazione sulle loro tendenze erotiche. Sibilla smentisce categoricamente affermando: «Ad ogni modo anche quella gioia non si rinnoverà mai più, per me, con altre donne». Lina non potrebbe certo dire lo stesso: dopo aver sposato un collega omosessuale della Biblioteca Classense, vivrà infatti per molti anni insieme alla Duse e poi, come abbiamo già detto, insieme alla femminista Eugenia Rasponi. «Io ho avuto fede sempre soltanto in me perché mi sono sentita sempre la sola realtà, in un mondo di vaghe forme. Tutta la vita non è che il riflesso del mio essere. E questo mio essere non ha finalità, non si traccia alcun codice, ma vive, anzi cresce e guarda intorno crescere il mondo delle apparenze. Cresce, e un istinto gli si manifesta; un istinto che si può chiamare d’armonia, e per cui è tratto a creare dell’altra vita e a dominare il mistero. Ecco tutto. Non si tratta di idealità, ma di realtà. Ed è realtà che mi piace e che mi appaga in se stessa. Perché sottrarmela? Io non ho nessun dover di vivere, ma neanche nessun dover di non vivere. Io sono. E così come sono, ripeto, mi piaccio. Amo la realtà mia, che riflette, ripeto, tutta la vita. E per mantenerla non ho necessità di credere in alcuna missione. Io non ho da render conto a nessuno della mia esistenza fuorché a me stessa. […] Io sono la schiava del mio istinto di grandezza. Finch’io vivo, io esalterò la mia realtà per me stessa». A queste dichiarazioni di Sibilla, vitalistiche e intrise di narcisismo allo stesso tempo, si oppone il pessimismo suicida di Lina, che ha smesso di credere nell’amore. Nella fine del loro amore, Sibilla trova la conferma delle proprie illusioni, Lina quella dell’impossibilità di qualsiasi amore.

124

«Io piango lacrime di sangue», dice Sibilla, «ma non maledico la vita. Ho amato, posso morire». Il 26 maggio 1910, Sibilla cade sul pavimento, in preda a una crisi isterica. Cena si precipita per aiutarla: lei si dibatte, gli morde le mani, urla; poi sprofonda in un muto torpore. «Finito. Questa volta, la parola ha un senso così preciso, così pacato perfino, che mi sembra composta di materia insensibile, qualcosa come una cassa di zinco in fondo alla terra». Pochi giorni dopo, Sibilla si rifugia a Courmayeur a casa di un amico, il filosofo Annibale Pastore. Qui scrive L’assurdo e rivede Cardarelli. Dedica questo lavoro incompiuto, di cui non scriverà mai il secondo atto, «a quella che mi ha fatto creder vero questo sogno». Sibilla stessa compare sotto le spoglie di Lorenza, un personaggio che nel corso della redazione cambierà il nome in Valeria. Cena è Pietro e Lina, appunto mascolinizzata, Arduino Bellezza. Di Pietro, Lorenza-Valeria dice: «Pietro è stato troppo infelice da bambino… Quando mi ha incontrata ed amata, la divina infanzia del cuore è incominciata per lui». E di Arduino: «Altre forme più rare d’amore ho avuto il privilegio di conoscere innanzi a questo. Ma questo è l’unico che dia il senso completo della vita, sì. Soltanto ora io sento che potrò morire senza il rimpianto di un bene ignoto». Sibilla passeggia da sola per le montagne e scopre che i contadini, di lingua francese, chiamano i piccoli lembi di prato tra le rocce rêveries, «luoghi di sogno». In occasione del trentaquattresimo compleanno di Sibilla, Lina, che si è sposata da pochi giorni, le scrive sulle Alpi: «Ricorda di tenermiti vicina». E si firma: Tristano Somnians.

125

8

La fiamma bianca

«Quindici giorni fa mi sono sentita realmente accarezzata dalla certezza ch’egli conosca la mia anima come nessuno altro e gliel’ho detto! Ma non così forse nasce l’amore? L’amore che è intuizione balenante sul nubiloso cielo del dubbio? E perché allora gli ho scritto che non l’amo? Avrà egli compreso la necessità d’una riprova perché nell’anima mia il fiore miracoloso sbocci?». Questi appunti inediti risalgono al 17 luglio 1910. Due giorni più tardi Sibilla riceve da Cardarelli una nuova dichiarazione d’amore. Questi teme però che lei sia ancora innamorata di Lina, di cui Sibilla gli ha rivelato l’esistenza ma non il sesso: crede dunque che si tratti di un uomo. «Chi è l’uomo che avete amato in quest’anno, e che vi ha fatto fuggire da noi? Se è degno di voi cercatelo, se non è degno dimenticatelo». Mentre Lina rispedisce a Sibilla le sue lettere senza chiedere indietro le proprie (osservando con perfida ironia: «Non ho mai amato persone tali che possano essere sospettate capaci di fare indegno uso di quelle che la spontaneità del mio intimo animo mi abbia dettate nei vari momenti della vita»), Cardarelli le rivela per allusioni la propria impotenza: «Sorella mia,

126

più che amante, ti amo! […] tu sei una fatalità essenziale della mia vita». Dalle Alpi, Sibilla va a trovare Iolanda, la sorella minore che abita a Riccione. Alla fine di settembre Cardarelli le scrive: «Non ti ho mai desiderato – è vero». Ma le racconta che ha colto di notte tre rami di alloro nel Foro Romano e ne ha coronato i ritratti di Sibilla. Cita Dante: «Io non mori’ e non rimasi vivo». Concepisce fin da ora la loro relazione in termini puramente platonici, e dichiara a Sibilla: «Vi sono delle rinunzie che si accolgono con gioia come una insormontabile fatalità, e che non ci tolgono affatto di sperare e di vivere in altre forme di esaltazione e di giocondità. Tu hai capito che il nostro amore potrà sopravvivere e farci grandi soltanto a patto di questa iniziale rinuncia». Chiama Sibilla «la mia fiamma bianca, la mia purificazione». Sibilla lo raggiunge infine a Roma e vive insieme a lui per un anno, in via Alessandria. Non avranno mai rapporti sessuali, tranne forse, dirà lei più tardi come se la sua memoria non ne conservasse tracce affidabili, «una volta o due, debolmente». Colpito da una specie di paralisi al braccio sinistro quand’era bambino. Cardarelli si rifiuta di mostrarsi nudo davanti a lei soprattutto per nascondere questa atrofia. La sua castità ha in qualche modo un valore cristiano. Lui scrive per l’«Avanti!», lei per «La Tribuna». Sono costretti, per lavoro, a rivedere Cena di tanto in tanto. Lei continua a frequentare i loro vecchi amici comuni, costernati per la fine di questa unione che sembrava dover durare in eterno. Nell’autunno del 1911, Sibilla e Cardarelli lasciano Roma per trasferirsi a Firenze, dove prendono un appartamento al numero 14 del Lungarno delle Grazie. Si inseriscono entrambi nell’ambiente intellettuale della «Voce».

127

Il lungo periodo di castità che segue la burrascosa relazione con Lina è attraversato da crisi isteriche alle quali Sibilla alluderà in un lungo e intricato paragrafo del Passaggio, in cui si esprime in prima, in terza e persino in seconda persona. Molte delle sue relazioni amorose trovano un’eco in questa pagina, di stile vagamente joyciano: «Gli individui non sono che guasti frammenti della volta celestiale». Una sola lunga frase è dedicata a Cardarelli – frase che, per quanto oscura e indiretta, il poeta non le perdonerà mai: «Un giovine una notte le riscalderà col fiato i poveri piedi agghiacciati, col fiato commisto al pianto, ed ella troverà compensato da quell’unico gesto di bontà il lungo incredibile tempo trascorso accanto al giovine stesso, da tutti ritenuto suo amante, che non l’ha mai posseduta, che un misterioso tremore ha arrestato nel desiderio, tremore, malore fosco, lungo incredibile tempo di tortura, piedi che han seguito l’infelice nel suo passo oscillante, in un ugual ritmo di violenza e di disperazione, sui lastrici dove sorgevano bieche ossessioni, attrazioni deformi, immagini di brancicamenti sessuali, curve linee oscure». A parte la passione comune per Ibsen, l’attività letteraria e l’impegno sociale, che cosa univa questo ragazzo di ventidue anni e questa donna di trentatré che si erano incontrati nel 1909? Autodidatta come Sibilla, Vincenzo Cardarelli aveva lasciato il suo paese natale, Cometo Tarquinia, nell’antica Etruria, per andare a Roma. Figlio del gestore della tavola calda della stazione, Cardarelli considera con diffidenza ogni forma di sperimentalismo in poesia: grande ammiratore di Leopardi, auspica un ritorno al classicismo, come traspare dalle sue poesie. Questo idealista che insegue sogni di purezza e innocenza celebra la verginità della giovinezza ancora immune dall’effetto corruttore della società, e rimpiange il paradiso perduto della propria infanzia («terra mia di cui porto / l’immortal febbre nel

128

sangue. / Sempre più persuaso che tu sola / non m’abbia mai tradito / e che il lasciarti fu grande follia»). È evidente che Sibilla, vivendo con un impotente, dimostrava la propria incapacità di rinnegare la relazione con Lina e il proprio rifiuto di tradire Cena. D’altra parte, Cardarelli l’aveva strappata da Roma e l’aveva spinta, se non proprio a scoprire l’intellighenzia fiorentina che era allora il midollo della cultura italiana, almeno a rafforzare i legami che lei stessa aveva stabilito da diversi anni (soprattutto grazie a Luchaire, il direttore dell’Istituto Francese). Sibilla aveva del tutto abbandonato l’attività umanitaria, troppo intimamente legata al suo amore per Cena, poi per Lina. Cardarelli era d’altronde un doppio di Felice Damiani, e anche – ma di questo probabilmente né lui né lei erano coscienti – un doppio del marito che si era scelta Lina e che non aveva alcun rapporto con lei. Il 9 aprile 1944, domenica di Pasqua, in piazza di Spagna. Piove. Sibilla è stata dai suoi amici Signorelli e sta tornando a casa, in via Margutta. Ha rotto con il suo ultimo amante, Franco Matacotta, un poeta di trentun anni. Proprio quella mattina la radio ha annunciato il probabile sbarco degli Alleati a Fiumicino. Improvvisamente Sibilla si trova di fronte quest’uomo col quale non ha più parlato dopo l’uscita del Passaggio nel 1919, e che il 25 febbraio 1925 ha stroncato Endimione deridendo il suo «lirismo sordo e senza musica, sforzato e isterico, di una astrazione cupa e assolutamente priva di movenze, di disinvoltura, dove tutto ha carattere di casualità e di choc nervoso». Le ha rimproverato di voler mettere in scena «avvenimenti di natura privata e impalpabili». È lei a rivolgergli la parola per prima: «Vogliamo salutarci, poiché è Pasqua?». Lui la guarda:

129

«Salutiamoci pure». «Ci si intravede di quando in quando, non è vero?». «Già, ma sarebbe forse meglio non riconoscersi, cara Signora… Il paese è in rovina». «Purtroppo, ma ci si riconosce lo stesso». «Buona Pasqua». «Auguri». Sibilla, che crede di essere sulla soglia della morte, vivrà altri sedici anni. Cardarelli morirà sei mesi prima di lei. Ogni volta che lo rivedrà, lei osserverà sul suo diario che, nonostante sia dieci anni più giovane di lei, ha l’aspetto di un vecchio. Il suo «sorriso sardonico e amaro la irrita». Il 22 novembre 1949 Vincenzo Cardarelli, che dirige allora la «Fiera Letteraria», in occasione dell’ottantesimo compleanno di Gide, chiede a Sibilla di scrivere un articolo in suo omaggio. Sibilla risponde rievocando la primavera del 1912, quando Giovanni Papini la presentò a Gide, in compagnia di Valery Larbaud, alla trattoria «La Buca del Lapi». Sibilla ha letto Les nourritures terrestres, Le retour de l’enfant prodigue e L’immoraliste. Con «quell’audacia improvvisa che è propria talvolta dei giovani timidi», commenta quest’ultimo testo osservando: «Ecco un libro che non è fra quelli che vorrei scrivere». Gide la guarda e risponde: «Anch’io… anche perché ormai l’ho scritto». Valery Larbaud era arrivato a Firenze l’11 aprile 1912. Era andato ad abitare al numero 1 di via Giuseppe Parini, e passava le giornate a consultare le schede della polizia fiorentina alla Biblioteca Marucelliana per un suo lavoro. Gide aveva lasciato Firenze alla metà di aprile, dunque Larbaud deve aver incon-

130

trato Sibilla poco dopo il suo arrivo. Il 9 maggio 1912 scriveva a Marcel Ray dalla «Buca del Lapi»: «Le scrivo dal ristorante in cui io e Gide abbiamo passato piacevoli momenti con gli amici straordinari che abbiamo conosciuto qui. Tra cui una donna bella e misteriosa. Grazie dell’invito per il manifesto della donna futurista. Che vada a farsi fottere». L’allusione riguarda molto probabilmente Sibilla. Quanto all’uscita sulla donna futurista, non manca d’arguzia se si pensa che uno dei prossimi amanti di Sibilla sarà appunto Boccioni. È curioso pensare che Cardarelli abbia chiesto a Sibilla, quarant’anni dopo, di raccontare un incontro al quale lui non aveva partecipato per propria colpa. Nell’aprile del 1912, Cardarelli aveva infatti lasciato Sibilla da diversi mesi. Rimasta sola alla pensione del Lungarno delle Grazie, lei vivacchiava di articoli che avrebbe più tardi raccolto nel volume di Andando e stando. «Sapevo, potevo astrarmi, impormi una lucida disciplina di lavoro, a tratti: per necessità economica, per le venticinque lire che ogni articolo, ogni tre o quattro settimane, mi fruttava e arrotondavano, no, la parola è inesatta oltre che stupida, si aggiungevano alle centosettantacinque lire di rendita mensile con le quali vivevo: centoventicinque del capitale ereditato da uno zio e cinquanta che mi mandava mio padre». Continuava a collaborare a diversi giornali, sui quali aveva iniziato a scrivere subito dopo la rottura con Cena. Descrive le Alpi: «Lo spirito non ama affaticarsi quassù. La contemplazione lo appaga. Tutto ciò che lo circonda è stato creato senza il suo intervento. Perché cercare se la foresta mi appartiene o se io appartengo alla foresta? È lo spirito che comprende la montagna, o è la montagna che assorbe lo spirito?». Scopre Dostoevskij, Renée Vivien, Colette. A proposito di quest’ultima scrive: «Una prosa che è tutta musica. […] Perché non ne parlerei? Ella è una mima da caffè concerto, è

131

vero. E la peggiore delle nomee l’accompagna. Ma avete letto i suoi due ultimi libri?». (Si riferiva a Les vrilles de la vigne e La vagabonde). A proposito di Byron, cita una frase di Kierkegaard che ripeterà spesso sul suo diario: «Il più infelice è il più felice». Cardarelli, che si è trasferito a Settignano, inizia la sua carriera poetica: La speranza è nell’opera. Io sono un cinico a cui rimane per la sua fede questo al di là. Io sono un cinico che ha fede in quel che fa.

Scrivono tutti e due, parallelamente, le loro memorie in prosa poetica: lei Il passaggio, lui Viaggi nel tempo, che verranno pubblicati a un anno d’intervallo. Questa rivalità inasprirà probabilmente il rancore di Cardarelli, ferito per esser stato designato come impotente proprio al momento in cui stava diventando un personaggio pubblico. Per ironia della sorte, la sua poesia più conosciuta sarà una celebrazione del corpo adolescente: La tua bocca è serrata. Non sanno le mani tue bianche il sudore umiliante dei contatti. E penso come il tuo corpo difficoltoso e vago fa disperare l’amore nel cuor dell’uomo!

Ogni tanto annuncia a Sibilla l’intenzione di tornare a Firenze e lei teme che possa farlo davvero. È ormai stanca di questo legame casto e distruttivo che fu per lei «un lungo martirio».

133

9

Il fratello

Prima di incontrare Valery Larbaud, Sibilla ha conosciuto due uomini a Firenze: Scipio Slataper e Giovanni Papini. L’uno è bello, l’altro orribile. Il primo morirà in guerra nel 1915, all’età di ventisette anni. Il secondo morirà cieco a settantacinque anni, nel 1956. Il primo fu per lei un amico, il secondo un amante. Scipio Slataper aveva dodici anni meno di lei. Tra loro si stabilì subito un legame fraterno e, dopo la morte di lui, Sibilla si definì sempre la sua «sorella maggiore». Alla fine di dicembre del 1911 Sibilla, vestita di bianco, il viso nascosto dietro una veletta, si trova al convento di San Marco, nella cella della Trasfigurazione. Cristo ha le braccia spalancate. È vestito di bianco anche lui, in piedi su una roccia che sembra fatta di stoffa bianca essa stessa. È circondato da un ovale di luce che pare emanata dal suo corpo. Ha una ferita sulla mano destra. San Domenico, con la sua stella rubino sopra l’aureola, e la Vergine, si trovano di profilo, rispettivamente sulla destra e sulla sinistra dell’affresco. Il manto della Vergine è color malva e quello di San Domenico è blu. La Vergine e il santo si guardano senza vedere Gesù. Un apostolo si protegge gli occhi

134

dal fulgore abbagliante della luce divina, un altro ha le braccia alzate in segno di meraviglia e prosternazione. Un terzo ha le mani giunte davanti alle labbra, come per contenervi il proprio respiro o esprimere il proprio stupore. Due teste canute e barbute emergono, senza corpo, dalle nuvole. Cristo risorge dalla morte come se uscisse da un uovo. Sibilla aspetta Scipio Slataper, che ha conosciuto qualche giorno prima alla trattoria «Del Paoli», a pranzo. «Aprì, scrollò il gran mantello nero gocciolante di pioggia, liberò la testa bionda dal gran cappello nero. Rise». Ripensa adesso alla risata di quel ragazzo «in cuore più fresco ancora di tutto quel bagnato che portava di fuori». Lui le aveva parlato di Trieste, della bora. Subito dopo il loro primo incontro, Sibilla scrive sul suo taccuino: «Voce velata e profonda, che mi ha ricordato quella di Pastore. Biondo anch’egli. Lineamenti fini e bellissimi, occhi castani, colorito trasparente, che attenua di delicatezza il vigore dell’alta persona. Riso fragoroso di fanciullo, a tratti. Timido e convinto. Credo che ci sia nel suo spirito qualche fresca vena». Slataper ha voluto incontrare Sibilla per proporle di collaborare alla «Voce», di cui è diventato da poco segretario di redazione. È venuto da Trieste per assumere questa funzione; del resto ha già pubblicato lui stesso sulla rivista una ventina di articoli – su Hegel, Ibsen, il futurismo, la letteratura tedesca. Scipio Slataper si è fidanzato in autunno con Gigetta, che diventerà presto sua moglie. Per ora lei è rimasta a Trieste. Lui ha appena terminato il suo primo libro, Il mio Carso, e ha bisogno di una lettrice. La solitudine di Sibilla la rende disponibile. Si sono dati appuntamento in San Marco per iniziare i loro incontri di lettura. Scipio Slataper è il primo bel ragazzo che Sibilla frequenta senza provare il desiderio di andare a letto con lui. Quarant’anni

135

più tardi lei si domanda: «Che cosa sarebbe stato per me Scipio se fosse vissuto? Un amico fedele e severo?». Forse è proprio la sua mancanza di compiacenza che ha conquistato Sibilla. Quando Scipio entra nella cella, Sibilla sta guardando l’affresco. La sua veletta si solleva con un fremito a ogni respiro. «Si nasconde?», domanda lui ridendo. Lei si volta con un sussulto, al riconoscere la risata luminosa del giovane. «Perché dovrei nascondermi?», risponde sollevando la veletta. «Osservavo la Vergine, che non guarda il Cristo. Ha sempre la stessa età, in qualsiasi raffigurazione. È strana, non le pare, questa incapacità di fare invecchiare la Vergine. Qui è più giovane del figlio. La leggenda della vergine Maria come madre non esiste. Dopo la morte è ancora la vergine giovinetta». «Perché mi ha fatto venire qui, Sibilla? Perché potessi paragonare la sua bellezza e la sua giovinezza a quella della Madonna? Venga a vedere il coronamento della Vergine». E la trascina con sé qualche cella più avanti. In effetti Sibilla, vestita di bianco, sembra appartenere all’universo luminoso dell’affresco, in cui domina il candore dei vestiti di Cristo e della Madonna. «Anche lei, Scipio, somiglia un po’ a San Francesco», osserva Sibilla. «La stessa ombra di barba, gli stessi occhi grandi…». «E lo stesso sorriso estatico», aggiunge Scipio Slataper scoppiando a ridere. «È raro», insiste Sibilla, «che un pittore scelga un modello così bello per rappresentare Francesco. Qui non ha affatto un aspetto sofferente. Scoppia di salute, come lei». «Be’, io…», comincia Scipio imbarazzato. «Li guardi, tutti su quella nuvola color di latte, che sembra d’ovatta». Poi passano nella cella del Noli me tangere. «Per restare in tema di somiglianze, la Maddalena ha i suoi stessi capelli, il suo stesso naso, la sua fronte alta…». «Abbiamo solo questo in comune?»

136

Scipio la guarda, improvvisamente spaventato all’idea che Sibilla abbia potuto prendere la sua frase per una perfida allusione ai pettegolezzi che circolano sulla sua vita privata. «Preferisce vedermi come Maria Maddalena che come Madonna, vero?». «Perché non andiamo in un caffè?», taglia corto Scipio. Nel caffè, dove sono arrivati senza parlare, Scipio legge il suo manoscritto: «Vorrei dirvi: sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo…». Ha una voce grave e profonda che contrasta con la sua giovinezza. «Che ne pensa, Sibilla?». «Queste frasi le assomigliano». «No, non lo dica. Già mi hanno dato del moralista, del kantiano». «E chi?». «Papini». «Ah, Papini…». Lei vede il viso sgraziato dello scrittore, i suoi denti sporgenti e le labbra carnose, gli occhi che escono dalle orbite, i capelli crespi. «Ma no, al contrario! Sono pagine di rugiada, parole azzurrate come i suoi occhi; e il disegno dei capitoli ricorda l’andatura del suo passo, e ad ogni strofa par ci stringa la mano, forte, veloce… tutto trasparente d’amore, una lunga finestra d’alabastro bionda nel sole». Lui continua a leggere: «Il sole sul mio corpo sgocciolante! Il caldo sole sulla carne nuda, affondata nell’aspre eriche e timi e mente, fra il ronzio delle api tutt’oro!». Evoca infine la morte della sua prima fidanzata, Anna, nel maggio del 1910: «Avrei dovuto tenermela tutta nelle braccia, e radicarla nella terra. Quando la baciai non seppi prevedere che nel suo cuore poteva essere il pensiero di morte. Io non l’ho capita. Ora non è dolore ma punizione». La lettura del Mio Carso avrà un’influenza determinante sul Passaggio. Sibilla si era lamentata con Cardarelli della propria incapacità di rimettersi a scrivere. Lui le aveva risposto: «Non ti posso lodare per la tua continua frenesia epistolare. E dici che

137

non riesci a scrivere una pagina di romanzo? Ma è naturale, il romanzo tu lo scrivi agli amici e bisognerebbe che un giorno si radunassero tutte le lettere che tu hai sparso per ogni parte del mondo perché tu potessi avere sott’occhio lo sperpero della tua arte, che è poi la tua vita». Quando nel luglio del 1912 si rimette a scrivere, il suo stile ha acquisito una nuova freschezza lirica. Questo grazie a Slataper che, proprio come Cardarelli, probabilmente non fu mai il suo amante. Dunque, quando nell’aprile del 1912 Sibilla venne presentata a Gide, Papini era presente. Questi si era impercettibilmente sostituito a Slataper, che era stato raggiunto dalla sua fidanzata. Slataper aveva rinunciato alla direzione della «Voce», passata nelle mani di Papini. Alla fine dell’inverno, Sibilla si è fatta due amiche: Maria Luchaire, moglie del direttore dell’Istituto Francese, e Dolores Prezzolini. I suoi amici maschi sono tutti sposati o stanno per diventarlo. Papini stesso è sposato da cinque anni con una giovane contadinotta, Giacinta Giovagnoli, incolta e ingenua, che diventerà la prima e forse la più accanita nemica di Sibilla. Sibilla non si distacca volutamente da Scipio Slataper, ma non è abituata a questo genere di rapporti in cui lei non occupi una posizione centrale. Forse aveva bisogno di astrarsi da se stessa, interessandosi al destino d’un altro? Forse, inconsciamente, vedeva in Scipio un doppio di suo figlio? Nel 1912 Walter ha infatti diciassette anni. È già entrato in età matura. Le numerose serate che lei ha passato da sola con Slataper sono state di natura rigorosamente intellettuale e fraterna. Lei non aveva mai concepito fino allora una relazione così intensa se non legata all’esperienza erotica. Aveva ancora questa tappa inevitabile da superare. Con Scipio, è avvenuto qualcosa di nuovo.

139

10

L’isola

Il 19 aprile 1948 Sibilla Aleramo ricevette da Tunisi una lettera che le fece «tremare il cuore». Veniva da un farmacista di cinquantasei anni. Due mesi prima, fedele alla sua concezione atemporale del tempo, lei aveva scritto a un indirizzo vecchio quasi quarant’anni. «Aveva diciannove anni», ricorda Sibilla, «come oggi il suo figliolo. E i due più vividi occhi, verde mare, ch’io abbia mai veduti. C’è in me una di quelle “meravigliate meraviglie” di cui ho trovato io la formula, se contemplo questa realtà, che quel ragazzo cioè rimane pur sempre per me inalterato, com’io rimango immutata nel suo ricordo, malgrado i trentasei anni da allora trascorsi, e malgrado ci si sappia ancor viventi, l’un e l’altra. A patto di non rivederci». Joe è stato per un’estate l’amante di Sibilla. Nell’estate del 1912, a Evisa, in Corsica. Il farmacista di cinquantasei anni non fa alcun riferimento al loro amore, come se, adesso che il tempo lo ha avvicinato alla generazione dei suoi genitori, dovesse per forza condividerne la cecità e l’ipocrisia: «Mi fa molto piacere che lei si ricordi della nostra famiglia e può stare certa che, da parte mia, non ho dimenticato la nostra compagna di escursioni a Evisa».

140

«La nostra famiglia», «la nostra compagna di escursioni», dice lui innocentemente. È diventato il padre – distratto o bugiardo – del ragazzo che era un tempo. Forse soltanto gli scrittori restano fedeli alla propria giovinezza e continuano a essere amici con se stessi? Di che cosa ha paura Joe? Che qualcuno dietro alle sue spalle legga quello che scrive? Non capisce che Sibilla percepirà subito la sua falsità? Ma ci sono persone che riescono a comunicare la verità solamente negandola, come se ogni parola fosse accompagnata dal suo contrario e lo rivelasse, anche se loro lo tacciono perché fa parte delle cose che non si dicono. Lei gli risponde il 22 aprile 1948: «Voi restate il Joe che fu con me tanto caro, mi dimostrò tanta gentilezza d’animo in un momento della mia vita ch’era assai triste e ch’io mi sentivo staccata da tutto». Da Evisa, il 19 luglio 1912, Sibilla scriveva a Giovanni Papini, che aveva conosciuto il 18 gennaio dello stesso anno. L’aveva incontrato tramite una giornalista che stava facendo un’inchiesta sulle donne, Rosalia Jacobsen. A febbraio Sibilla era già innamorata di lui. «Ho un altro quasi innamorato», gli scrive adesso dalla Corsica, «un giovine questo, un ragazzo, bellissimo, venuto da due settimane con la famiglia da Tunisi, nella sua villa moresca accanto alla casetta dove io abito: elegante ma non troppo – il giovane voglio dire; la villa è graziosa per quanto pretenziosa, ed insomma è la sola dimora lussuosa del paese – cavalcatore perfetto, passa sotto le mie finestre e mi guarda, timido e audace insieme. Oggi l’ho incontrato con la sorella, una bella creatura anche lei, e la signorina mi ha fermata, mi ha invitata ad andar a trovarli, ad andar a far escursioni insieme, ecc. ecc. Chissà. Intanto stasera tra la folla il giovinetto continuava a cercare i miei occhi, coi suoi che non sono né neri né verdi, sono dorati, oblunghi, fluttuanti. Occhi d’africano, eh sì».

141

Poi aggiunge: «Ed io scrivo una novella in forma di lettera – una lettera a tua moglie che non l’avrà mai. Guarisco?». Questa novella verrà pubblicata nell’ottobre del 1914 nella «Grande Illustrazione» – una rivista a grande diffusione diretta allora da Sibilla, che dava ampia eco alla voce degli scrittori fiorentini – e poi ripubblicata varie volte con il titolo di Trasfigurazione. Da questo momento, come aveva fatto con Damiani e Cena, con Lina e Cena, con Lina e Cardarelli, Sibilla parla volentieri, liberamente, di Joe a Papini. «Ha un sorriso meraviglioso, continuo, di salute, di forza, di tenerezza limpida». Joe si sta preparando per il baccalauréat, che non è riuscito a superare in giugno, legge Marco Aurelio, Pascal, «gente che non aveva niente da fare». «Preferisce i poeti ed è rimasto, bea­to lui, a Lamartine e a Hugo». Sibilla conclude: «E quanto al flirt… Niente mi cambia, va’: sarò sempre quella che, guardata una volta in fondo negli occhi, disperde ogni senso volgare, perché ho negli occhi soltanto luce d’anima». A proposito di questa avventura amorosa, Sibilla parla di una «mite sonnolenza» e precisa: «Begli occhi del giovine che non ha ancora vent’anni, che non sa il dolore, non sa la passione e gode d’esser sano e forte, e mi guarda, sentendo semplicemente di piacermi e provandone felicità. Così tante vergini dalla semplice anima sono piaciute in un’ora di silenzio stanco a tanti uomini grandi». Più tardi, a Slataper che la rimprovera di questa relazione, risponderà: «Ascolta, Scipio: avevo anch’io, prima di quest’estate, il mio “concetto dell’amore e del dovere” e forse non era molto diverso dal tuo. Ma – e questo è stato l’orrore – mi si è dissolto di fronte alla realtà. […] Io dovevo vivere, e la verità non era la vita. La vita era il sole ancora dolce, era la terra profumata, era il sorriso buono e puro di questo ragazzo, era

142

il pianto in fondo al mio cuore, e insieme la tenerezza amorosa rifiorente in esso dinanzi a tutte queste cose, reali e pure anche divine, ma fuori della vera linea del mio destino. Che dici tu, Scipio? Ch’io mi dovevo piuttosto lasciar morire?». Eppure Joe e Sibilla si vedono raramente da soli, se il 12 agosto lei scrive a Papini: «L’altro giorno ci siamo trovati per la prima volta soli, sulla strada, ed abbiam discorso una mezz’ora. Si è formato alla boxe, lui, alla corsa, alla bicicletta, al nuoto, al cavalcare». Lui le presta dei romanzi di Balzac, lei il suo Zarathustra e, dato che le loro due finestre si guardano, Joe le mostra sorridendo che legge il libro di Nietzsche. «Nessuna anima che non sia inerte», commenta Sibilla, «mi passa invano accanto». Finalmente, il 14 agosto 1912, Sibilla fa una passeggiata da sola con Joe. È il giorno del suo trentaseiesimo compleanno. «Non mi ha detto che mi ama, ma mi ha fatto sentire la sua adorazione, con tanta profonda semplicità che il più sapiente psicologo gli avrebbe invidiata». «Nessuno mai ha, come questa creatura, appagato il desiderio inconscio del mio cuore». Lei interpreta questo amore spontaneo e violento in termini platonici e cita il Fedro: «Forse il miracolo è vicendevole, forse è stata la visione inaudita dell’anima mia che ha fatto fiorire nella sua tanta bellezza». Ma le confidenze inviate a Papini con crudele regolarità non si spingono oltre. Solo Slataper saprà che Sibilla e Joe sono stati amanti. Lei conserverà per tutta la vita diverse minute di lettere, che forse non sono mai state spedite, a un giovane amante che certo non ne avrebbe compreso il linguaggio:

143

«Sei per me come l’erba che la mia fronte vorrebbe toccare, come l’erba verde e dolce che non si trova in questo tuo paese di rupi e di rovi, e che darebbe alla mia fronte refrigerio e riposo». Il 22 agosto, quando ancora non hanno mai fatto l’amore, lei gli scrive: «Come al sole mi offri in silenzio, senza nulla chiedermi, la tua adorazione. Nulla sai di me, fuor che mando luce. Io ti guardo come guardo l’aurora di un ciel lontano, e tu credi ch’io non senta il battito del tuo cuore, ch’io non senta la tua giovine vita forte e violenta. Oh, tu sei un bene che non godrò. Io so tutto quello che potrei avere da te, foss’anche solo per un’ora. […] foss’anche soltanto per un’ora, godrei di darti una felicità che nessun’altra donna mai ti darà uguale». Il 25 agosto, gli scrive una lettera di resa: «Non ti ho respinto, perché sei la vita. (Ma non posso far di più, non posso che abbandonarmi al tuo amore). Volevo fuggire, è vero, mi sembrava di esser troppo debole per sopportare questo nuovo invito del destino, questo dono inatteso e breve, e forse l’ultimo… Sono rimasta, e mi lascio penetrare dall’incanto, mi lascio penetrare di dolcezza». All’inizio di settembre, Sibilla sta scrivendo a Papini quando all’improvviso qualcosa la abbaglia. Strizza gli occhi, si protegge il viso con una mano e a un tratto capisce da dove viene il riflesso di luce: dalla torre della villa dei Luciani, i genitori di Joe. Scopre lo specchio con cui lui gioca ridendo. Lui si nasconde, ma lei vede la sua mano che si muove. Il sole illumina il suo braccio dalla pelle bruna e la parte inferiore del suo viso. Lei vede soltanto le sue labbra che sorridono, i suoi denti. A un certo punto lui si ritira. Poi ricompare a un’altra finestra. Sibil-

144

la, che ha abbandonato la sua lettera e si è affacciata, lo scorge più in alto, al piano superiore. La sua figura si staglia contro il vano di una porta. È rivolto verso la scrivania su cui dovrebbe studiare. A un tratto, chiude bruscamente le persiane, ma prima ha il tempo di guardare con franchezza Sibilla portandosi un dito alle labbra. Lei capisce che ha paura di esser sorpreso dalla sorella, la madre o la zia. Ma pochi minuti dopo lui bussa alla porta. Si precipita verso di lei e la bacia. Lei gli resiste un istante poi si abbandona. Quando Joe si scosta da lei sorridendo, Sibilla gli dice: «Mi baci e non parli: quando stacco le mie labbra dalle tue, come le due parti di un frutto, e riapro gli occhi sui tuoi che nello stesso istante pure si riaprono, ti ritrovo nello sguardo il sorriso per cui ti amo, sempre uguale, raggiante. Mi parli col baciarmi, mi parli col sorridermi». Lui non risponde e la trascina verso un calesse, che parte in direzione del bosco di Evisa. «Non mi hai mai detto, Sibilla, perché sei venuta in Corsica». «Se proprio vuoi saperlo, il mio viaggio è stato determinato da un banale opuscolo di richiamo, con copertina a colori e vignette in nero su carta lucida nell’interno». «Mi prendi in giro, non è questa la ragione». Joe fa un gesto infantile: prende la mano di Sibilla e la posa sulla sua guancia, poi sulle labbra, soffiandovi come per calmare il dolore di una ferita. «Non so niente di te, Sibilla. So che sei una bella italiana che parla il francese alla perfezione, che hai lasciato Firenze a causa di un farabutto di uomo sposato e passi le giornate a scrivere lettere e a riempire quaderni, quando non facciamo l’amore. So che ti piacciono le rose, che vuoi che legga un poeta inglese che non è nel programma d’esame…». «Non è inglese, è americano e si chiama Whitman, Walt Whitman».

145

«Vedi, lo so che conosci molte più cose di me e che siamo una strana coppia. Una vecchia e un monello». Il cavallo si è fermato. Adesso stanno camminando nel bosco. Joe ha passato una mano intorno alla vita di Sibilla e la stringe contro di sé. Quando le infila la lingua nella bocca, lei assapora il gusto vegetale della sua saliva di adolescente. Si stendono sull’erba secca. Quando lui raggiunge l’orgasmo dentro di lei, Sibilla ha gli occhi rivolti ai pini sopra le loro teste; il sole gioca tra gli aghi e Sibilla pensa all’espressione «l’ombra bionda». «Era quasi dolce andare fra le alte colonne dei pini, nell’ombra bionda, andare come se tutta la terra fosse una silenziosa cattedrale verde e bionda, e incontrare di quando in quando lo sguardo di due begli occhi felici». «Siamo uguali», dice lui, «abbiamo la stessa età». Sono sdraiati l’uno accanto all’altra, hanno ammucchiato i vestiti sotto le reni e sotto la nuca. I capelli di Sibilla sono sparsi intorno a lei come un’aureola in mezzo al timo e alle pine. Joe posa una guancia sul ventre di Sibilla e le soffia sull’ombelico. Lei gli accarezza la testa. «Abbiamo tutti e due la stessa età», dice lei. «Io ho la tua età, tu hai la mia. Io sono come una bambina, tu sei all’inizio della giovinezza. Non c’è distanza fra noi, c’è identità di natura. Tu piangerai come me, mi ritroverai dopo aver pianto tanto, come me…». Joe si allontana irritato. Si alza e afferra la sua camicia lunga, i pantaloni. Lei lo vede nudo di spalle, stagliato contro una roccia. Lui si veste nervosamente. Lei resta silenziosa un momento. Joe si è accovacciato con la testa tra le mani e gli occhi rivolti verso il mare. «Non sono degna del regalo che mi fai», gli dice Sibilla. «La tua giovinezza è sacra. La vita non mi aveva mai messo di fronte a un essere così intatto». «Intatto!», ripete lui sogghignando.

146

Poi aggiunge, dopo un attimo di silenzio: «Non è a causa mia che piangi, vero, Sibilla? Dimmi perché sei venuta qui. Perché hai accettato l’amore di un ragazzo della mia età. Un ragazzo che non ha neppure passato il baccalauréat e che di sicuro verrà bocciato anche questa volta, a causa tua». Si volta quasi ridendo, con gli occhi scintillanti. «Ascoltami, Joe. Ti recito alcuni versi. Ma devi promettermi di non interrompermi, di non ridere e di ascoltarmi in silenzio». Lui si sdraia, incrocia le mani sotto la nuca e guarda il cielo. «Ti ascolto, Sibilla, ti ascolto religiosamente». Lei si alza e si dirige verso il bordo di una roccia a picco su una radura. Notte in paese straniero, notte di stelle, notte di vento dolce. Le rupi dentate lambono il cielo e lo fanno più chiaro. Cieli lontani dei paesi dove passai, dei paesi dove amai, cieli fioriti di queste stesse costellazioni, e pur lontani, dov’erano speranze che più non so, disperazioni che più non mi fanno piangere, io vi rivedrò, forse, e penserò allora a queste notti in paese straniero, a queste luci vivide nel vento che volteggia dolce sulle rupi, a questa mia anima che ancora una volta si risolleva, si risolleva avida, penserò a questo ch’è ancora nelle mie vene palpito di giovinezza, ardore forte, volontà più grande d’ogni mio grande pianto,

147 e stupirò allora, o notte di stelle, di vento, di anelito solitario…

«Per te la Corsica è un paese straniero?», domanda Joe. «Allora anche io sono uno straniero? Non serve a niente fare l’amore? Restiamo due estranei, è così?». «Non dire queste cose, Joe. Capirai quando mi avrai lasciata. Vieni». Lo prende per mano e lo porta verso il calesse, attraverso il bosco. «Sai, è la prima volta che scrivo una poesia. È la mia prima poe­ sia. L’ho fatto senza volerlo, senza saperlo. Capisci, ho superato una barriera invisibile. Qui, in Corsica, in questo paese dal nome asprodolce. Sai, ho conosciuto dei poeti. Accanto ad essi non avrei mai osato compier quell’atto di lucido smarrimento ch’è il poetare, non avrei mai potuto, amandoli, sentirmi a loro rapita da un dio più grande dell’amore». Joe non la guarda. Ha gli occhi velati di lacrime, lo sguardo smarrito. La ascolta senza capire. «Per la prima volta», continua lei, «mi sono staccata da tutte le persone che ho amate, mi sono allontanata da loro, in questa libertà aspra, dolorosa ma reale. Dapprima mi è sembrato un sortilegio. È la mia terza vita che comincia». «Che vuol dire la tua terza vita? Quali sono le altre due? Non ti capisco, Sibilla. Mi dici cose che non capisco!». «La mia prima vita, Joe, è stata l’infanzia e l’adolescenza, tra i pigmei, e il mio matrimonio. La seconda è stata una fase di soggezione spirituale: ho vissuto con uomini grandi dai quali ho imparato che potevo avere un ruolo diverso. La mia terza vita è una vita d’indipendenza, d’autonomia». Per lui tutto resta oscuro, ma rinuncia a farle domande precise per il terrore di sembrarle stupido. I termini stessi che usa Sibilla sono per lui inintelligibili: pigmei, soggezione spirituale, autonomia. Sta calando la sera, il calesse avanza lentamente.

148

«Avrei potuto morire», dice lei. «Ho scritto la mia prima pagina di riconoscenza. Ho lasciato un uomo a Livorno. Io lo chiamo Arno, perché i suoi occhi hanno lo stesso colore del fiume. Gli ho scritto tutti i giorni da quando sono arrivata». Joe non risponde. Si occupa delle redini del cavallo, fingendo l’indifferenza. «L’ho amato di un amore assurdo», continua lei. «E lui, ti ha mai scritto in tutto questo tempo?». «Due o tre volte. Mi ha scritto dietro ordine di sua moglie, che l’ha obbligato a lasciarmi. Quando ho ricevuto quella lettera di rottura, sono caduta a terra, sul pavimento. Ho passato tutta la notte così, prostrata. Tu non lo sapevi, Joe. Solo un tiglio separava la tua torre dalla mia finestra. Tu dormivi tranquillamente e io giacevo al suolo». «E la padrona di casa, non se n’è accorta?». «Sì, la mattina mi ha trovata per terra. Mi ha chiesto cosa avevo, se ero malata. Voleva chiamare il vicesindaco». «Chi, quel vecchio bellimbusto che ti fa la corte?». «È un brav’uomo, non fa niente di male. Io ho chiesto alla proprietaria di non dire niente a nessuno. Lei ha capito, è stata zitta. Tu non sai cosa significhi non avere nessuno che ti ama, sentirsi respinti». Di fronte alla crudeltà e all’egoismo inconsapevoli di questa frase, lui sorride irritato. Sa che lei non lo ama. «C’è una parola araba che si usa nel nostro paese», dice lui: «mektoub». «Maktoub?». «No, mektoub». «Che cosa significa?». «Così sia». «Fatalismo».

149

«Se vuoi», risponde lui senza capire bene la parola. «Significa che non si può niente contro il destino. Che lassù tutto è già scritto. Era già scritto che il tuo Arno ti avrebbe lasciata, che mi avresti incontrato, che oggi saremmo andati nel bosco». Vorrebbe aggiungere: «Che io ti ami e che tu non mi ami». Ma non lo fa. Qualche giorno prima le aveva detto: «Se morissi a ottant’anni e mi spaccassero il cuore, vi troverebbero inciso il tuo nome: Sibilla». Aveva ben scandito «Si-bil-la», scrivendolo in aria e ridendo gravemente. Ma si sbagliava: quarant’anni più tardi, Sibilla avrebbe scritto il nome di Joe con tenerezza mentre lui avrebbe finto di non averla mai amata. O forse, chissà, ancora l’amava: gli amanti delusi odiano tanto il ricordo del proprio insuccesso che spesso vorrebbero cancellarne la causa. Sono ormai vicini al paese. I familiari di Joe li vedono arrivare. Sono seduti sotto la pergola e li invitano a unirsi a loro per prendere un aperitivo. Non sono affatto sospettosi: hanno il sorriso gioviale e fluttuante delle famiglie indifferenti – arma ancor più efficace del più aperto disprezzo contro un pericolo che li minacci. Tutt’al più Sibilla è per loro la benaccetta iniziatrice di Joe, destinata a esser subito dimenticata al loro ritorno sull’altra sponda del Mediterraneo. Mentre Joe lega il cavallo, Sibilla gli sussurra all’orecchio: «Vieni stasera in camera mia. Ti parlerò di Arno». Quella sera a cena la padrona di casa di Sibilla ostenta un sorriso compunto: ha visto la sua inquilina partire in calesse con Joe e sa che lo farà entrare dalla porticina che conduce direttamente dal giardino dei Luciani al cortile interno. Fin dalle nove, infatti, Sibilla si mette ad aspettarlo. Si siede vicino alla finestra e scorge del fumo che esce dalle persiane socchiuse della camera di Joe. È Joe che la ama, ma è lei che lo aspetta.

150

Sibilla si sente battere forte il cuore senza poterlo impedire. Perché lui non apre le persiane? Lei attende un suo segnale per scendere ad aprirgli la porta. Ma adesso la luce si spenge. Lui non compare nel giardino. Quella sera Joe non andrà da lei. Lei non gli racconterà la storia di Papini. Non gliela racconterà mai. Giovanni Papini era amico di Giovanni Cena. Scopre il nome di Sibilla Aleramo sulla copertina di Una donna, che Cena gli invia nell’aprile del 1907, insieme al suo romanzo Gli ammonitori. Papini risponde: «Ho ricevuto il libro di Sib. Aler. Chi è costei? Il libro mi sembra scritto con anima e senza troppa civetteria letteraria». Lei lo incontra dunque il 18 gennaio 1912 e appunta sul suo taccuino: «Bizzarro profilo di fanciullo stravolto, chioma ricciuta e irsuta, il busto sottile e vigoroso». «In un certo momento ho sentito quella chioma come una cosa staccata da quella persona vivere con selvaggio rigoglio bella nel suo bagliore di rame». Come Felice Damiani, come Dino Campana e come forse Slataper (che talvolta Sibilla definisce biondo), Papini ha i capelli rossi. Ma è tanto brutto quanto lei è bella. Non c’è dubbio che la sua bruttezza, a cui Sibilla non fa mai allusione né nei taccuini né sul diario, né nel Passaggio né nelle lettere, le richiami alla memoria la mostruosità di Cena, che di Papini ha anche il nome di battesimo. Inoltre, Papini occupa a Firenze una posizione intellettuale simile a quella di Cena a Roma. È nato il 9 ottobre 1881 a Firenze, in una famiglia di artigiani. Suo padre è ateo, come Ambrogio Faccio. Come Sibilla, Papini «dirige» durante l’adolescenza una rivista fatta in casa. Nel 1903 fonda la sua prima vera rivista, il «Leonardo», e nel 1906 pubblica i suoi primi saggi filosofici. Amico di Bergson e di William James, ha conosciuto Gide e Picasso a Parigi. Si è sposato nel 1907 e ha due figlie: Viola, che

151

nel 1912 ha quattro anni, e Gioconda che ne ha due. Collabora regolarmente alla «Nuova Antologia», ma soltanto a partire dal periodo in cui Sibilla rompe con Cena a causa di Lina Poletti. Alla fine del 1908 fonda «La Voce» con Giuseppe Prezzolini e nel 1911 una terza rivista che avrà però vita breve, «L’Anima». Quando Sibilla fa la sua conoscenza, lui sta terminando il suo romanzo Un uomo finito, in cui rivela il suo primo vero amore per una fanciulla che, come Dino Campana, muore in manicomio (a San Salvi, vicino a Firenze). Per quanto questo possa sembrare strano, il suo aspetto atroce non respinge le donne. Malgrado le confidenze di questo «primo libro autobiografico», Papini negherà in seguito di aver mai amato altre donne al di fuori della moglie, Giacinta Giovagnoli, figlia del fattore di Bulciano, presso il quale lui aveva soggiornato con un amico, studente di medicina. Nelle sue poesie e nei suoi numerosi testi autobiografici si abbandonerà spesso all’evocazione di questa rivelazione bucolica, non mancando di sottolineare la stupidità della pastorella per amore della quale si è convertito al cattolicesimo. Ma dopo alcuni tentativi mistici e il progetto di scrivere una vita di Santa Teresa d’Avila, pubblicherà, nel 1911 Le memorie d’Iddio, un libro che lui stesso giudicherà più tardi «satanico». Il verso dell’Ariosto posto all’inizio della prima sezione di Un uomo finito avrebbe dovuto scoraggiare Sibilla, che invece vi si riconobbe: «Visse tutta sua età solo e selvaggio». «Io non sono mai stato bambino», scrive Papini. «Non ho avuto fanciullezza. Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso – né so il perché». «Mi salvò da codesta solitudine senza luce la smania di sapere». «Debbo, forse, ad Erasmo la mia passione per le tesi assurde e i pensieri non comuni e il convincimento profondo che gli uomini son canaglie quando non sono imbecilli».

152

Il 25 febbraio del 1912, poco dopo averlo incontrato, Sibilla scrive sul «Marzocco» un articolo, che non includerà in Andando e stando, sul libro di Papini Parole e sangue. «Come ha potuto presumere di coprire col sogghigno il lamento?», si chiede Sibilla. Il suo amore per Papini nasce tra il 18 gennaio e il 3 febbraio 1912. Il 18 gennaio, Astrid Ahnfelt legge a Papini delle traduzioni di Strindberg, in presenza di Sibilla. Tra il 2 e il 3 febbraio, notte di lacrime perché Papini non è andato a trovarla. Tra il 22 e il 23 marzo, prima lettera d’amore che ci resta di Sibilla a Papini, probabilmente mai inviata. Qui Sibilla paragona Papini all’Arno per la prima volta: «Il mio respiro e il mio pensiero ti sentono, si accordano silenziosamente al tuo fragore, ancora stanotte». Il 17 aprile 1912, Sibilla è ancora una volta sola: «Solitudine, silenzio, immobilità […]. Io sono in questo minuto ciò che fui in tutte assieme quelle ore diverse, quella che fu volta a volta suscitata da uomini diversi, ed ognuno credette, ed io credetti, che tutta la mia essenza si esalasse allora intera». In maggio, prima lettera d’amore di Papini: «Sibilla! Quando il cielo sarà tutto chiuso, sopra e da ogni parte, sì che nessuna preghiera potrà romperlo e salire; quando i fiumi saranno ridotti a grandi strade di fango; quando il sole di primavera non avrà più la forza di strappar le foglie verdi dalle gemme sicure; quando l’uomo sarà perfetto e alla vigilia della morte – anche allora io ti verrò vicino co’ miei occhi fluviali perché fiorisca sulla tua bocca un sorriso». Fine di maggio, lettera di Sibilla: «Siamo soli nella casa deserta, nessuno sa che siamo qui assieme, nessuno verrà a battere alla porta. Una potrebbe unica venire: la morte. Se venisse? Se ci trovasse avvinti, cuore su cuore, labbra su labbra? Abbraccio da tutti ignorato, che stanotte per la prima volta noi vogliamo concordi e in questa volontà chiara santifichiamo

153

davanti alla nostra anima, ma che non possiamo giustificare alle anime degli altri, abbraccio, sei la vita tu, per sfidare così la morte? C’è un dubbio ultimo in noi, e forse pecchiamo soltanto dubitando». Agli inizi di giugno Papini, come tanti altri prima e dopo di lui, esalta la «maschia volontà» di Sibilla, poi rievoca le loro passeggiate per Firenze, i loro baci. Ma Sibilla aveva deciso già da diversi mesi di andare in Corsica. Si amano un’ultima volta nel porto di Livorno. Al suo arrivo in Corsica, lei riceve una cartolina da Papini, che si firma «Arno». Cinque giorni dopo, il tono cambia: «Non ti scrivo lettere d’amore. Non so scriverle. Non voglio scriverle. Mi sembrano inutili e letterarie, così da lontano». «Son malinconico senza dolore». Lui pensa già al momento in cui saranno «soltanto amici» e solo le loro opere conteranno. Due giorni dopo, critica apertamente le effusioni liriche di Sibilla: «Ahimè, io non ho proprio passione per l’epistolografia. Io sono davanti a te come una povera cannella d’acqua potabile col suo filo tirchio e forzato, dinanzi alla cascata di Vizzavona». Le scrive ogni giorno cartoline senza testo, firmate con le sue sole iniziali, G. P. Poi passa dieci giorni al suo paese, e coglie questo pretesto per smettere di scriverle. Da Evisa, Sibilla comincia a mandargli lettere violente e raziocinanti, in cui traspare quel particolare tipo di passione che nasce dalla sicura consapevolezza di esser diventati importuni. «Se tu trovi ch’è inutile scrivere a me lontana, dovresti logicamente ritenere ancor più inutile scrivere per la posterità». Il 30 giugno, Giacinta Papini intercetta una lettera di Sibilla. Vuole leggerla. Papini le assicura che contiene soltanto analisi letterarie, ma la distrugge. Al che la contadinotta cade in preda a una crisi isterica. «Bisogna amarsi in silenzio e parlarsi soltanto come amici», decide allarmato Papini.

154

Luglio. Sibilla ironizza sui suoi rimorsi. Papini risponde: «Riconosco di non esser degno di te, del tuo amore. Ho sbagliato. Avrei dovuto rinunciar prima. Sono stato vile». La risposta di Sibilla a questa lettera di rottura è andata perduta. Siamo ormai a metà luglio. È allora che Sibilla scrive a Giacinta, compone la sua prima poesia e si accorge dell’esistenza di Joe. L’estate sarà segnata da queste tre decisioni: l’amore per Joe, la poesia e la redazione di quello che è forse il suo testo più bello: Trasfigurazione. È questo che avrebbe voluto dire a Joe stasera. Ma Joe ha fatto bene a non venire ad ascoltarla. Per spiegare la sua passione per Papini, Sibilla avrebbe dovuto parlargli di Cena e Joe, non comprendendo questa «soggezione spirituale», ne avrebbe concluso che Sibilla non lo ama. E forse, non andando da lei questa sera, è già arrivato a questa conclusione. Il 10 luglio Sibilla aveva ricevuto un telegramma: «Siate calma e forte». Joe sa che lei riceve frequentemente telegrammi. A Evisa, quando il postino arriva fuori del suo orario abituale, non può passare inosservato. Sibilla ignora che i suoi «fogli vaneggianti d’orrore» non sono mai arrivati a destinazione. Il 14 luglio, dopo diverse notti d’insonnia, i fuochi d’artificio della Festa Nazionale le impediscono ancora una volta di dormire. Sibilla invoca George Sand con i suoi sonni di quaranta ore, e l’attrice Giacinta Pezzana che tra i quaranta e i cinquant’anni ha abbandonato il teatro per un uomo: è felice, ma tutte le sere, all’ora in cui avrebbe dovuto comparire sulla scena, viene invasa dall’angoscia. Il 15 luglio rivela a Papini che il vicesindaco è innamorato di lei. Il 18 luglio dà del voi a Papini, il 19 gli dice che Joe è innamorato di lei e che lei sta scrivendo Trasfigurazione. Papini non le risponde. Sibilla esce sempre più spesso con Joe. Il 22 luglio Papini le manda una lettera di rottura definitiva ordinandole di

155

fargli riavere tutta la sua corrispondenza: «Mi dispiace di darvi questa noia, ma ciò che vi chiedo è necessario per la tranquillità mia e della mia famiglia». Il 23 luglio, confessa di avere scritto dietro ordine della moglie. «Sono debole e infelice. Voi mi siete moralmente molto superiore: lo riconosco. Ma io non ho il coraggio di romper la felicità di questi tre esseri». Il 25 luglio lei gli risponde: «Un’adesione così ardente di due corpi, una tale violenza e una tale dolcezza nel richiamo del sangue, nella mescolanza delle membra e nell’unione delle labbra! Bimbo, povero bimbo stolto, che pensi di sottrarre te e me a questo miracolo!». Gli amici di Firenze la supplicano di tornare con Cena. Lei non risponde ma scrive no in fondo alle loro lettere. Scrive a Papini: «Che cosa fai se non prostituirti, se non mentire, se non mostrare alla vita un cuore morto?». Alla fine di luglio, ricorda a Papini che lei ha avuto il coraggio di abbandonare il marito e il figlio, e tutta Firenze l’ha ammirata. Anche questo avrebbe dovuto, avrebbe voluto dire a Joe. Pretende che Papini abbandoni la sua famiglia come lei, nel febbraio del 1912, ha abbandonato Walter. Vuole che attraverso questo crimine lui la assolva dal proprio. Definisce tutti gli intellettuali fiorentini «naufraghi della vita ideale». «Avete dei figli, avete delle case, avete delle leggi. Io invece?». E aggiunge, sorniona: «Ma vi amo, non vi disprezzo, solo non posso essere come voi». Infine, parla di una «creatura intatta, benedetta ancora tutta dalla sorte, un giovine iddio, perch’io sia a mia volta amata com’io ho amato. Qualcuno che non abbia bisogno d’essere confortato, che abbia bisogno invece di farmi bella la vita colla bellezza del suo amore». Avrebbe detto anche questo a Joe. Che lui la aveva riscattata dall’amore che lei aveva provato per gli altri.

156

Nel mese di agosto scrive sempre più di rado a Papini, perché si abbandona all’amore di un adolescente nascosto «tra gli alti rami d’un tiglio in fiore», e scrive Trasfigurazione. Le sue rare lettere descrivono senza ritegno l’amore tra lei e Joe, senza passione, «con tutto ciò che di chiaro è ancora in me». Il 27 agosto Papini, che non ha ancora ricevuto la sua lettera, si crede il solo a essere amato e le chiede di non scrivergli più. Aprendo la lettera che si aspettava piena di insistenze importune, scopre che Sibilla si consola con un amante di diciannove anni. Mentre Papini insiste con la sua poco convincente retorica filosofica («bisogna assolutamente che i ns. destini siano separati, almeno nel mondo sensibile»), Sibilla gli scrive con il candore crudele e la sincerità poetica propri alla sua nobiltà d’animo. Il giorno dopo, Sibilla va da sola in riva al fiume. Si è alzata molto presto e, come sempre, ha portato con sé il suo taccuino. Sa che Joe la cercherà ma ha smesso di attenderlo. Si sente placata dal rifiuto netto ed evidente che Joe ha opposto al suo desiderio di parlargli di Papini. Nella sua certezza di non essere compresa e nella sua attuale prolissità (nelle lettere, nelle poesie, in Trasfigurazione e persino nell’inizio di ciò che diventerà poi Il passaggio), c’è una vena di follia. Dice di aspirare alla santità. Questa estate del 1912 sarà per lei fino alla morte una fonte inesauribile di reminiscenze. Le frasi che scrive le restano inconsciamente scolpite nella memoria e riaffiorano nel 1948, come osserverà il 27 luglio di quell’anno sul suo diario. Trentasei anni più tardi, quando ha il doppio degli anni di allora, il ricordo di Joe, come lei gli scriverà, è ancora intatto. Adesso Sibilla si è assopita sotto il sole. Dei passi che scricchiolano sui ciottoli la strappano al torpore.

157

«Ah, eri qui!», dice la voce di Joe. Sibilla apre gli occhi. Lui le si è inginocchiato vicino e le accarezza i capelli. «Ti ho cercata nel bosco e poi lungo il fiume». Lei si alza in piedi e gli sorride. Si aggiusta sulle spalle il suo scialle bianco. «Partite domani, vero?», gli chiede. «Sì. Sei contenta di liberarti di me, eh?». Lei non risponde. Guarda il mare. «Che cosa hai fatto ieri sera, Joe?». «Ho letto. Ho letto Nietzsche». Sibilla si sente stringere il cuore di tenerezza, perché sa quanta difficoltà comporti per lui quella lettura. Lo legge per lei. Pensa alla società fiorentina, agli intellettuali della «Voce», a quelli che si definiscono nietzschiani, a come è debole l’eco che le provocazioni di un filosofo possono trovare nello spirito dei professionisti della filosofia; al turbamento che esse possono invece provocare nell’animo di un adolescente innamorato. «Mi hai aspettato?», le chiede Joe. Lei lo guarda tristemente senza rispondergli. Lui le volta bruscamente le spalle, le mani in tasca. Dà un calcio a un sasso. «Sei venuta con me per divertirti!», le dice. Lei gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla, poi gli prende il mento e lo costringe a guardarla. «Tu meriti di esser felice, Joe». «Verrai a trovarmi a Tunisi? Quando lo dimenticherai, quell’altro, che ti fa tanto soffrire?». Lei non risponde. Fruga in borsa per cercare il borsello. Ne estrae una moneta da venti centesimi. «Tieni», dice porgendogliela. «Mi paghi?», ridacchia lui. «Allora non valgo poi tanto».

158

«Guarda, guarda meglio». Lui osserva la moneta. Vede il profilo di una donna dalla fronte bombata, dal naso greco, la bocca decisa ma leggermente cadente. «Ti assomiglia. È per questo che me la dai?». «Sono io», spiega Sibilla. «È il mio profilo». «Vuoi dire che hai posato? Che sei tu il modello?». «Sì». «Ma allora sei molto famosa». «Non è questione di essere famosa. È un simbolo. Un simbolo di autonomia». «Usi sempre parole che non capisco. Sei troppo intelligente per me. Se fossi venuto ieri sera, mi avresti detto cose che non avrei capito. Vieni». E si spoglia per fare il bagno. «Vieni in mare con me per l’ultima volta!». Infila la moneta nella tasca dei pantaloni, che lascia avvoltolati sui ciottoli. Prende Sibilla per la vita e la conduce verso l’acqua. «Mi scriverai tutti i giorni, come all’altro? Io ti risponderò tutti i giorni, tutti i giorni! E quando sarò diventato medico, verrai a vivere con me». Si scrissero infatti regolarmente. Lui le inviò «ingenue e care e dolcissime parole» fino al 1918, quando Sibilla smise di ricevere notizie di Joe Luciani. Credette che fosse morto in guerra. Invece si era sposato e aveva aperto una farmacia. E quindi, solo nel ’48, Sibilla ebbe, facendo come spesso un bilancio della propria vita e ripensando a quella lontana estate in Corsica, l’idea di scrivergli al suo vecchio indirizzo tunisino che non era cambiata. Ricevette con stupore la risposta di

159

colui che non era più da anni “il ragazzo Joe”, ma un padre di famiglia perbene. Dopo questa prima lettera un po’ freddina e rispettosa, lo scambio riprese un tono più fedele al passato e il farmacista ormai sessantenne promise di tornare sul luogo del loro effimero amore col figlio che aveva appunto la sua età quando incontrò Sibilla.

161

11

Il lucido rapimento

Di ritorno a Firenze, Sibilla cercò di rivedere Papini ma lui rifiutò. Lei gli scrisse che lo perdonava, ma alla fine si sentì capace di staccarsi da lui. Gli promise che non avrebbe più cercato di rivederlo e partì per Sorrento, da dove continuò a scrivergli, alternando i rimproveri e le minacce alle suppliche. Nel 1928, Papini reclamò di nuovo le proprie lettere. Questa volta Sibilla ottemperò, ma prese la precauzione di ricopiarle. Nel 1943, Papini aderì alla Repubblica di Salò. Morì nel 1956, cieco e coperto di onori. Il 3 ottobre del 1912, Sibilla gli scrive: «Avrei voluto darti a leggere la novella che ho scritto lassù (una lettera mia a tua moglie, in quei giorni tremendi) e che non pubblicherò per ora. Forse vi avresti trovato la spinta a esser anche con lei, adesso, più franco: adesso che l’hai rassicurata sulla tua volontà di starle vicino, adesso che il sacrificio del mio amore è compiuto […]. Si ha paura di far soffrire, e tutto resta immobile, stagna e imputridisce nelle case stesse dei poeti». Lui risponde: «Non mi piacciono gli strascichi e i ricominciamenti. Voi mi chiedete d’esser assolutamente franco. Se lo fossi dovrei dirvi cose che non vi farebbero piacere».

162

Nel 1944, Sibilla appunterà sul suo diario: «Non m’accade quasi mai più di sognare. Stanotte però mi son destata a mezzo d’una strana impressione: mi trovavo con G. P., uno degli uomini che ho amato più intensamente, sebbene il nostro rapporto amoroso non sia durato che pochissime settimane, tanto tempo fa: uno di quelli per cui ho sofferto più aspramente, avendo egli deluso forse più di ogni altro la mia fede nell’umana possibilità di grandezza». Sull’evoluzione di Papini dà un giudizio spietato: «Ogni manifestazione del suo intelletto (che ebbe inizio splendente) m’ha trovata via via dissidente, quando non sulla riva opposta: dalla sua clamorosa conversione al cattolicesimo alla vergognosa adesione alla repubblica fascista, l’inverno scorso. Con un senso tacito di pena, con una pietà intrisa malgrado tutto di tenerezza, per quel suo debole pavido carattere che gli ha impedito di “divenire quello ch’egli era” secondo quanto avrebbe detto Nietzsche. Ché egli ha tradito, non me, ma se stesso». Papini aveva dichiarato il proprio appoggio a Mussolini nel 1939, nel suo saggio Italia mia: «l’Italia è il miracoloso microcosmo di quel macrocosmo che è la terra». Nel 1942, in qualità di vicepresidente del Congresso Europeo degli Scrittori di Weimar, pronuncia un discorso il cui fondo cattolico non piace ai tedeschi, ma per il quale Mussolini si congratula con lui. L’anno in cui Sibilla ricevette la «visita del suo fantasma», si era ritirato nel monastero della Verna e si fece terziario francescano sotto il nome di Frate Bonaventura. Sibilla riutilizzò la parola «trasfigurazione» nel suo romanzo Il frustino, del 1932: «Trasfigurazione, adorazione, riconoscenza, felicità. Ella estrasse queste parole, vi puntò tutta se stessa, come la giuocatrice che non vede se non quei numeri, cieca per tutto quanto in altro momento le sarebbe d’indizio».

163

La lettera a Giacinta, nella forma in cui fu pubblicata, comincia così: «Sono io, sì. Voglio che parliamo un poco; bisogna che io parli, e che tu mi ascolti». Sibilla le spiega cos’è l’amore. Le dimostra che le lacrime che versa derivano dalla constatazione del suo fallimento e non dalla disperazione di esser stata tradita. Giacinta piange per aver sempre ignorato l’amore. «Guardi nel passato, che di colpo ti si è fatto tanto più lontano. Guardi lontano. Sì, è allora ch’egli t’ha ingannato, che ti ha tradito: quando ti ha detto che lo facevi felice, e non era vero. […] Non disprezzava te, ma se stesso, per quel piacere che il suo corpo godeva e che non gli toccava l’anima, a cui l’anima sua non partecipava». Scrive frasi che terrà poi a mente per tutta la vita, come se fossero state scritte da un’altra persona. «Ci sono sere che il mondo si avvolge nell’ombra cantando di nostalgia e l’anima non sa se ascolta la sera o ascolta se stessa». Al momento di partire per la Corsica Sibilla credeva che sarebbe morta. Aveva steso un testamento, in cui si raccomandava che venissero bruciate certe carte in possesso dei Luchaire, all’Istituto Francese, che Papini si considerasse libero di distruggere o pubblicare tutti i suoi taccuini inediti, che i diritti di Una donna fossero interamente versati a Cena per le scuole dell’Agro Romano e che una cassa di libri fosse consegnata a Cardarelli. Aveva riunito così i tre uomini più importanti nella sua vita fino all’età di trentasei anni. E aveva escluso Lina. Possedeva un piccolo capitale di cui lasciava i tre quarti a suo figlio Walter e un quarto alla sorella Iolanda. In Corsica non morì. Dopo una breve sosta a Firenze, partì dunque per Sorrento. Sorrento fu per lei la città delle crisi. Vi

164

ritornò spesso in seguito: nella maggior parte dei casi, come vedremo, con amanti che avevano smesso di amarla. L’amante che ebbe quell’inverno a Sorrento portava lo stesso nome di Cardarelli, Vincenzo, ma preferiva esser chiamato Franco, come colui che sarà poi l’ultimo amante di Sibilla, col quale appunto tornerà due volte a Sorrento. «Ironia, disperata ironia», commenterà Sibilla più tardi. Quando arriva a Sorrento, ormai rassegnata all’idea che Papini l’ha abbandonata e cosciente di non aver mai amato Cena, Sibilla si stabilisce in una pensioncina, la «Piccola Minerva», con l’intenzione di scrivere ciò che concepiva come il secondo volume della sua autobiografia, che in realtà porterà a termine soltanto nel 1919: Il passaggio. Qui riceve la lettera di un uomo che aveva incontrato una volta a Roma durante l’anno precedente, Vincenzo Gerace, un bibliotecario di Napoli amico di Croce ed Emilio Cecchi. Quest’ultimo ha colto la natura sanguigna di Gerace e lo ha definito un «porco-tigre nascosto a metà». Già la prima volta che si vedono, Sibilla dice a Gerace: «Nessuno m’ha presa intera e dunque devo tradurmi in un libro, per poter poi morire…». Accetta dunque una relazione che lei stessa giudicherà in seguito «una delle più stolide che abbia mai vissute, motivata da una forte sensualità». Lui comincia, per gioco, a coprirle le palme delle mani di baci, poi la bacia sulle labbra. Lei continua a inseguire ciò che aveva cercato in Joe, definisce infatti le due relazioni negli stessi termini. Al momento della loro rottura, che avviene già nel maggio del 1913, Sibilla scrive a Gerace: «Sei stato la vita, a me che dalla vita m’ero staccata». Questa lettera non esprime tanto una volontà di rottura quanto piuttosto la constatazione della fine. Occupa una decina di pagine: Sibilla l’ha iniziata alle otto di mattina e l’ha terminata nel pomeriggio. Il tono è via via lirico e narrativo, comminatorio e

165

rassegnato. All’inizio l’abbattimento di fronte all’assenza d’amore viene posto sotto il segno dell’ascendenza ereditaria della follia: «Anch’io non posso salvarmi. È la sorte di mia madre, è fatale. Da vent’anni ho combattuto per superarla». E la lettera si conclude con la stessa evocazione: «I simboli! Mi giunge, in questo istante, una lettera di una delle mie sorelle che mi dice d’esser stata, dopo molto tempo (io stessa da anni e anni non vado più là…) a trovare nostra madre». L’amore, dice Sibilla, è superiore alla nostra volontà: «Solo l’amore ci trascende […]. Solo l’amore è forza viva fuori del nostro potere». D’altronde, il comportamento di Gerace le ricorda Papini. Gerace la abbandona infatti per una donna che vuole sposare. Sibilla ha già le parole pronte, le ha usate altre volte e le userà ancora spesso con i futuri amanti. «Abbi la tua casa, abbi figli, abbi il tuo mondo d’idee. Ma se tu vuoi che nella vita ci sia Sibilla, bisogna che tu l’ami, […] bisogna che tu faccia dentro di te, o uomo che cerchi la verità, il posto anche a questa nostra verità, mia e tua, che arde più che ogni altra». «Dovrò fuggire, per poi ritornare ancor più consunta, ancor più bruciata? E tutto questo perché? Perché tu possa costruire un castello mentale su una menzogna». Man mano che la loro separazione si fa più ineluttabile, Sibilla analizza con finezza e lucidità sempre maggiori la peculiarità di questo legame mediocre che costituisce al tempo stesso una caricatura delle sue passioni fisiche e delle sue esaltazioni spirituali. «L’anima di Cena era un’anima con doni rari. Altre anime ho amate oltre a quella, altre ho conosciute fuor dell’amore, e tutte il destino ha voluto che avessero qualche segno di grandezza, tutte. […] Tu no. Ti sei immerso nella vita, ma l’umanità in cui ti sei imbattuto era sempre più meschina di te, in essenza e pei fatti che ne risultavano. Tu mettevi la tua potenza fantastica, la

166

tua volontà appassionata, il tuo amore ingenuo, perfino le tue necessità tragiche, dove la realtà era men che mediocre, in vicende con piccole donne e con piccoli uomini». Attirata dalla mediocrità di quest’uomo che denigra se stesso e si compiace del proprio fallimento, Sibilla afferma: «C’è in me la forza per dieci vite ancora». La relazione con quest’uomo arido, ridotta a una specie di monologo di fronte a un muro, lascia tutti gli amici di Sibilla costernati. A luglio, in un ultimo tentativo di riconquistare Gerace, Sibilla si rivolge a Benedetto Croce. Il filosofo le fa la morale, pur negando di averne l’intenzione, come tutti i moralisti: «Anche voi cercate i rimedi negli incidenti e non nella sostanza: anche voi dovreste mutare fondamentalmente il vostro atteggiamento verso la vita. Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio. Non ho mai creduto alle giustificazioni ideali che avete dato di ciò nel vostro libro». Può sembrare incredibile che Sibilla abbia potuto perdonare a Croce questa frase e che non abbia esitato più tardi a firmare il manifesto antifascista, redatto da un uomo che era stato tanto severo con lei. Ma ciò non è poi così sorprendente: Sibilla, con la sua lucidità intransigente, doveva esser pienamente consapevole dello scarso valore di questo legame e della fragilità delle illusioni che si era creata nei confronti di questo poeta mediocre e uomo vile. Tuttavia quando pochi mesi più tardi, in autunno, Croce perderà la moglie, Sibilla ricorderà perfidamente che mentre lui si era illuso di aver costruito con questa donna l’unione reciproca e perfetta, lei «godeva con tutta Napoli alle sue spalle». «Quel povero filosofo […] credeva d’aver asservito la vita alla ragione… E rimproverava garbatamente a me d’esser vittima della letteratura! (Anche il mio libro trovava falso, in questo

167

senso! Questo, sia detto per incidente, prova una volta di più qual critico egli fosse!)». Comunque sia, Sibilla mette le cose in chiaro con una secca replica, in cui si avverte un fermento di femminismo: «Credo non sappiate abbastanza della mia vera vita per pensare ch’io dovrei mutare fondamentalmente il mio atteggiamento verso di essa. Non voglio infliggervi la mia apologia. Ma vi dico: ho trentasette anni, e da trenta sono in colloquio costante con la mia coscienza. Senza la fede tradizionale religiosa, non ho neppur io mai smesso di credere che al termine della vita bisogna essere in grado di render conto di come s’è spesa. Come dovevo spenderla? Voi dite: sacrificandomi. No. Quelle famose “basi” non sono forse amore e lavoro? Io non ne vedo altre, e non le vedo disgiunte. Ciascuno deve dare di se stesso tutto quanto possiede: c’è la madre che si immola, perché così soltanto esprime se stessa, e c’è un’altra che sente d’aver in sé forze che trascendono il compito materno, e, se il mondo non le consente per esercitarle di tener con sé il figlio, è costretta a sacrificare il suo amore materno. Io non ho mai avuto un istante di rimorso per quell’atto che compii, e che voi giudicate errato». C’è da stupirsi invece che Gerace, pur avendo letto Una donna, non avesse capito fin dall’inizio, come del resto non l’aveva capito Papini, che Sibilla non avrebbe mai smesso di lottare accanitamente contro tutto ciò che l’istituzione del matrimonio e la famiglia rappresentavano per lei. Il suo violento attaccamento a quest’uomo non può essere spiegato soltanto con l’attrazione fisica, con l’euforia che dovevano provocare in lei le difficoltà materiali di questo legame (che la costringeva a continui spostamenti tra Sorrento e Napoli), con la certezza di venire disapprovata dai suoi amici fiorentini: Sibilla continua a combattere una battaglia che Papini non le aveva permesso di portare a termine. Ecco perché era logico che chiedesse a Croce di intervenire.

168

Sperava che Croce accettasse di esercitare il proprio ascendente intellettuale su Gerace per impedirgli di sposarsi. Croce naturalmente non si sarebbe mai aspettato di essere interpellato per una faccenda simile. Le risponde che lei sta perdendo tempo e ha ceduto a questa passione eccessiva per «oziosità», parola che Sibilla non può tollerare. Gli ricorda che fin dall’adolescenza non ha mai smesso di lavorare. Croce mantiene la propria posizione e le fa notare con molto buon senso che Gerace ha «un sistema d’idee perfettamente opposto» a quello di Sibilla; è evidente che prima o poi, in nome della libertà e della sincerità, lei vorrà rompere questo legame che già considera come una specie di matrimonio: questa è infatti la conseguenza inevitabile dei principi su cui si basa l’amore passionale. Le lettere che Sibilla scrive a Croce sono probabilmente tra le più belle che abbia mai scritto: vi si avverte una specie di sollievo, il sollievo che l’intelligenza procura a chi si è dibattuto a lungo nella difficoltà, se non nell’impossibilità, di dialogo. «Voi mi chiedete se ho pensato al dissidio intellettuale fra Gerace e me, e io vi dirò che gran parte del mio amore era basato precisamente su tal dissidio, contro ogni logica apparente, ma pei fini profondi della vita. Vi risparmio, caro Croce, una disquisizione sul mio trascendentalismo amoroso. Gerace sa, lui, che cosa io sperava di creare, in passione, sì, coi nostri due spiriti opposti». Gerace era un uomo con la barba, dai lineamenti insignificanti, gli occhi piccoli e a mandorla. Portava un cappello nero e un cappotto lungo fino alle caviglie: somigliava a Landru, era una tipica figura della sensualità maschile di quel tempo. Aveva esattamente la stessa età di Sibilla: una concessione alla normalità che lei non rinnoverà più. Questo amore le ispirò una poesia: Morte, m’hai sentita? Nella notte ti ho invocata,

169 piangendo e fors’anche ridendo per sedurti t’ho chiamata, ultima luce, speranza di due braccia accoglienti, un nome ancora da invocare, morte, madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia… Ed eri lontana. Bianca e bella s’io ti pensavo su altri reclina, s’io t’imaginavo intenta a baciar altri, altri certo non più di me dolenti, oppur creature felici, morte, m’hai sentita s’anche non sei accorsa? Nessuno certo t’implorava quanto me, o cara quanto fu cara la vita, e tu chi sceglievi in vece mia? Ma forse, forse da lontano hai trasalito… E ora non ti chiamo più. Stormi mi ventano dietro la fronte, aliante mondo inespresso del mio pensiero, parole che furono visioni e ch’io ancora non dissi, amore che tutti comprende i minati amori e li risolleva… Verità della mia vita, incompiuta missione che nell’alba mi riappare, ch’era il miracolo, ed io forse l’ho tradita… E forse, o morte, non venuta al mio richiamo delirante mi raggiungerai nel fervore del ripreso canto, troncherai nella mia gola il canto, un giorno chiaro… Ch’io mi rammenti allora, ch’io mi rammenti come eri bella, come eri bella questa notte, morte, su le fronti che invece di me baciavi.

170

Sibilla rivide Gerace a Roma, per la strada. Si era sposato, ma non con la donna per cui l’aveva lasciata. Morì nel 1930. Nel 1941 Sibilla si chiederà: «E Gerace è morto, da quanti anni? E quel mio grande amore morì tanto tempo prima di lui che l’aveva ispirato e poi respinto». E affermerà dieci anni più tardi: «Credo di non esser mai stata tanto infelice e tanto felice insieme, come in quei momenti di “lucido rapimento”».

171

12

La scintilla elettrica

Fine novembre 1913. Una copia della «Voce» è aperta su una scrivania ingombra di fascicoli e ritagli di giornale riguardanti la condizione operaia e l’alfabetizzazione. Vi sono anche diverse riviste femministe e alcune foto, tra cui quella di Sibilla (in una pineta, di fronte all’attrice Giacinta Pezzana). Alla scrivania è seduta una donna molto anziana, che sta scrivendo una lettera su un foglio di carta intestata delle Scuole professionali femminili di Milano. È Alessandrina Ravizza. Ha soltanto sessantotto anni, ma la sua mole enorme e i lunghi anni di lavoro sfibrante la fanno sembrare molto più vecchia. Una giovane donna le si avvicina per sussurrarle qualcosa all’orecchio. Alessandrina si illumina in volto. Si alza e si dirige verso la porta per accogliere Sibilla. Sibilla porta un vestito di velluto turchese e uno stravagante cappellino con piume di struzzo multicolori. Ha sulle spalle un mantello logoro di panno rosso. I suoi guanti di pelle gialla sono anneriti e consumati. È truccata pesantemente. Ha le guance livide dalla troppa cipria: porta una vera e propria maschera. Si getta nelle braccia di Alessandrina mormorando: «Sascia!». «Quanti anni sono che non ci vediamo, fammi pensare…».

172

Alessandrina torna alla scrivania, indicando a Sibilla una poltrona tutta piena di riviste. «Dodici anni», risponde Sibilla, sgomberando la poltrona per sedersi. «Sì, ma sei a Milano da quattro mesi e vieni a trovarmi soltanto adesso!». Sibilla sorride tristemente e abbassa gli occhi. Poi li alza di nuovo e fissa Alessandrina, che non ha smesso di guardarla. «Sei sempre bellissima, piccola mia…». Sibilla distoglie lo sguardo. «Non temere, non ho alcuna intenzione di farti la predica. La tua vita appartiene a te. Sai bene che ci battiamo proprio perché ogni donna sia padrona della sua vita». Alessandrina si avvicina a Sibilla e le posa una mano sulla spalla. «Per chi sei venuta a Milano? Di certo non per me, visto che vieni a trovarmi soltanto adesso!», dice dirigendosi verso la finestra. Sibilla non le risponde subito. «E adesso dove vai?» «Non lo so», risponde Sibilla. «Sei in albergo?». «Sì, sono più di tre anni che vivo in albergo». «Da sola?», chiede Alessandrina continuando a guardare la strada. «Eppure non sei stata tanto da sola negli ultimi tempi. E adesso?». Alessandrina si gira e osserva a sua volta Sibilla. «Sì, sei sola». «Parto per Parigi», dichiara Sibilla. «Perfetto. Ti troverai bene. È proprio la città che fa per te. Ti ha invitato qualcuno?».

173

«Una scrittrice francese, Aurel». «Aurel?», ripete Alessandrina sedendosi di nuovo alla sua scrivania. «Il nome non mi è nuovo. Non hai per caso scritto qualcosa su di lei?». «Sì, sul “Marzocco”», risponde Sibilla togliendosi il mantello e sedendosi sulla poltrona. «La pensierosa». «Ah, ecco, La pensierosa. Ho letto l’articolo. Vedi che leggo ciò che scrivi, Sibilla. È la moglie di un traduttore dall’italiano, se non mi sbaglio… come si chiama…». «Alfred Mortier. Lei, di vero nome, si chiama Marie-Antoinette de Faucamberge». «Mi domando se non mi ha spedito qualche suo romanzo…». Alessandrina si alza e comincia a rovistare tra i mucchi di libri accatastati ai piedi della biblioteca. «No, non ho il coraggio di cercare… ma aspetta… ecco! La semaine d’amour, Aurel. Che titolo! Vediamo un po’…». E si mette a sfogliare il libro per cercare una frase. «“Se esistesse un uomo tanto fatale da impedirmi di pensare agli altri, a questa splendida e deplorevole umanità maschile; se un uomo tale avesse respiro, io potrei respirare soltanto dopo averlo visto morto”. Bah. Una donna al soldo degli uomini. È un’amicizia pericolosa, Sibilla. Ah, ecco una frase che fa per te: “Rifiuto un ruolo nella vostra vita per poterli assumere tutti”. Sì, capisco che tu accetti il suo invito». «Ha scritto un bellissimo saggio sulla coppia, che contiene molte verità. “Una donna mi ha detto: non mi piace niente di lui, eccetto lui”». «È questa la tua definizione dell’amore?». «Diciamo che è una constatazione, una conclusione». «Una conclusione, alla tua età! E adesso, chi è il tuo “lui”?». «Boccioni».

174

Pronunciando questo nome. Sibilla si alza bruscamente e si avvicina a sua volta alla finestra. «Umberto Boccioni? Il pittore?». «Sì». «Ma hai appena scritto un articolo su di lui!». Alessandrina le porge «La Voce». «Sai, quando ho visto che continuavi a collaborare alla “Voce” ho creduto ingenuamente che tu vivessi ancora con Papini, che vi foste riconciliati, che vi foste sbarazzati della sua ochetta». Sibilla alza le spalle con un leggero sorriso. «Vediamo cosa dici di Boccioni: “Bisogna scoprire il ritmo secreto di ogni genuina e necessaria manifestazione di vita e di tempo, e in certo modo legittimare, insignire di una nuova nobiltà estetica le emozioni che ne derivano”». Alessandrina ripiega la rivista e guarda con tenerezza Sibilla, che si è seduta di fronte a lei. «Allora, adesso ti sei convertita al futurismo? E Marinetti, conosci anche lui?». «Si», dice Sibilla. «Gli ho scritto nell’aprile scorso per farmi mandare delle fotografie di quadri di Russolo, Balla e Boccioni». «E Boccioni, quando l’hai conosciuto?». Sibilla aveva conosciuto Umberto Boccioni nel luglio del 1913. Dopo la rottura con Gerace, era stata colpita da un attacco di artrite che l’aveva costretta a sottoporsi a una cura termale (a Casamicciola, in compagnia della sua traduttrice russa, Elena Lazarevskaja), «disciplina» alla quale dovrà sottostare durante tutta la sua esistenza. Poi aveva passato un breve periodo a Roma ed era infine venuta a Milano, dove era stata presentata ai pittori futuristi.

175

Grazie a Scipio Slataper, Sibilla conosceva i manifesti futuristi. Il primo era apparso sulla «Gazzetta dell’Emilia» del 5 febbraio 1909 e successivamente, in francese, su «Le Figaro» del 20 febbraio 1909. Lo stile whitmaniano di questo primo manifesto non poteva che conquistare Sibilla: «1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità». «2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia». «3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». Il nono e il decimo punto dovevano sembrarle però molto meno convincenti: «9. Noi vogliamo glorificare la guerra “sola igiene del mondo”, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna». «10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaristica». A questo manifesto paradossale e incoerente nelle sue provocazioni sarebbe seguito, l’8 marzo 1910, un manifesto dei pittori futuristi: «Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e dell’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita».

176

Sibilla racconta che, al momento di separarsi da Boccioni e da alcuni altri pittori dopo una cena in un ristorante milanese presieduta da Marinetti, ha sentito come una «scintilla elettrica». Passa qualche giorno sul lago di Lugano; da lì scrive a Boccioni che le risponde con una lettera ironica e affettuosa. La prende in giro per la scelta di quel luogo «romantico», ma si dichiara felice di averla conosciuta. In lei è già scattato il meccanismo del sentimento amoroso. Boccioni la incita a partecipare al movimento femminista: «È un peccato che voi non diate all’Italia tutta la forza genuina purissima che scaturisce dal vostro grandissimo ingegno, dalla vostra sensibilità eccezionale, dal fervore infuocato che vi anima quando guardate, quando parlate, quando sorridete. […] Avete passato molto, troppo tempo a comunicare forza e coraggio a esseri mal costrutti, corrosi all’interno e indecisi all’esterno. Costruttori di fumate scaturite da un fuocherello misero o avanzi di incendi altrui». Il 2 settembre 1913, sono già stati a letto insieme. «Vieni quando vuoi! Voglio che mi spieghi le parole scritte a Roma… Cara! come sei pura!». Il 17 settembre Boccioni vuole lasciarla: «Siamo diversi e tutta la piega che tu hai voluto dare alla nostra amicizia, intellettuale se vuoi e sessuale se vuoi – il che è tutt’uno –, mi irrita e mi spinge a sfuggirti. Il carattere catastrofico e letterario che tu dai a questo nostro gaio e intelligentissimo, se vuoi, incontro, mi rende ormai impossibile ravvicinarti». La tratta da «eterna dilettante di complicazioni amorose» e precisa: «Io non posso amare nessuna donna». È a questo punto che Sibilla va a trovare Alessandrina. «E cosa ti stupisce in tutto questo? È sincero con te. Hanno bisogno di scrittori intelligenti e originali come te. Marinetti non

177

basta. Hai scambiato per amore la libertà sessuale, e l’interesse di una persona intelligente nei confronti di un’altra. Avevi già commesso lo stesso errore con Papini, se non sbaglio». «Mi ha detto: “Sei tutta intrisa di umanità, non sei che umana…”. Mi trova lamentosa. Un giorno gli ho chiesto chi fosse il suo migliore amico». «E lui ti ha risposto: “Non lo dico”». «Come fai a saperlo?». «È il “pudore maschile”, come lo chiamano gli uomini tra loro, che ci esclude. In un caso simile di una donna si direbbe che vuol darsi importanza; che non c’è bisogno di fare tante storie, di darsi tutte queste arie di falso mistero. Un uomo invece è discreto e non si abbandona a confidenze inutili. Le donne vengono tacciate di doppiezza per questi sotterfugi; gli uomini ammirati per il loro riserbo e la loro eleganza». «Non capisco», mormora Sibilla abbattuta. «Ciò che accade, o sta al di qua o al di là della mia intelligenza. O è troppo meschino o è troppo grande per me. Perché Boccioni mi rimprovera la mia umanità? Di solito mi si rimprovera al contrario di essere troppo astratta e cerebrale, di nutrire preoccupazioni esclusivamente estetiche». «Ma è un puro e semplice pregiudizio da futurista! Per loro qualsiasi espressione del sentimento è una smanceria». Alessandrina riflette un istante e poi domanda a Sibilla: «Per quanto tempo siete stati amanti?». «Due giorni». «E dopo?». «Dopo deve aver rivisto una vecchia fiamma. Poi c’è il suo lavoro. Io non esistevo più. Crede di essere virile a respingermi così. Invece è un atteggiamento tipicamente femminile, nel senso peggiore del termine». «E cioè?».

178

«Sono le donne che si fanno desiderare per essere amate ancora di più». Alessandrina scoppia a ridere. «Lascialo perdere. Sibilla. Va’ da Aurel. Prendi le distanze». «So che non mi resta nient’altro da fare. Gli scriverò». Alessandrina alza le sopracciglia e scuote la testa. Infatti, una volta a Parigi, dove abita prima per qualche settimana da Alfred Mortier e sua moglie, poi in una pensioncina al numero 45 del boulevard Saint-Michel fino alla primavera del 1914, Sibilla scrive a Boccioni quasi ogni giorno. Scopre Parigi attraverso il salotto di Aurel, che le presenta Apollinaire. Sibilla prova per lui «la più viva repulsione». Ha l’impressione che il poeta si prenda gioco dei futuristi e si serva di loro. Incontra anche Camille Mauclair e Rachilde. Si illude ancora che Boccioni la raggiungerà. Parla a tutti del proprio amore per lui. Aurel le consiglia di considerare l’uomo un «accidente felice». Sibilla scrive subito a Boccioni: «Caro accidente felice». Ma le sue lettere d’amore vengono accolte con una certa insofferenza da parte del pittore, che le risponde: «Non fate la donna cataclisma o ciclone, o epidemia. Siate ragionevole e non infantilmente o letterariamente esaltata». Alla minima critica nei confronti del futurismo Sibilla viene redarguita da Boccioni con tale violenza, che lei risponde con ironica docilità: «Ha ragione Marinetti, ha ragione Papini, hai ragione tu. Tu più di loro, infinitamente più; perché crei mentre essi soltanto parlano. Da lontano o da vicino, sarò con voi, affermerò la mia stima e la mia fede nella vostra azione, vi difenderò con tutta la mia coscienza. Questo per il futurismo. Ma, Boccioni, tu ed io siamo qualcosa al di sopra e al di là del futurismo. […] Ti porto in me e sono in te. Sei il

179

solo che dovevo amare. La sola realtà è che esistiamo io e te. Io e te, soli». L’inverno del 1913-14 riproduce dunque lo schema dell’inverno precedente. Ma se la relazione con Gerace era stata per lei una specie di palestra amorosa, con Boccioni Sibilla tentava di mettere a frutto la lezione tratta dall’esperienza con Papini. Gli slanci di entusiasmo di Sibilla avevano indisposto Papini; Boccioni, al contrario, ne era rimasto ammirato «almeno finché non ne era divenuto l’oggetto» e aveva cercato di indirizzarli verso il futurismo. Per la prima volta, Sibilla vedeva realizzarsi la possibilità di conciliare due tendenze del proprio carattere che erano state spesso in contrasto tra loro: il gusto per la passione amorosa esclusiva e l’idea dell’unione, attraverso l’amore, di due temperamenti creativi. Sibilla si era sentita attratta verso quest’uomo che, pur essendo più giovane di lei, apparteneva alla sua stessa generazione (lui aveva trentun anni e lei trentasette); aveva cercato, attraverso il sesso, di stabilire con lui una relazione unica e duratura. Boccioni invece concepiva il loro rapporto in termini di amicizia intellettuale: l’episodio sessuale non rivestiva per lui un ruolo preponderante e non aveva affatto modificato il suo atteggiamento nei confronti di lei. Sibilla lo trovava bello e forte, anche se in realtà non lo era. Questo calabrese di origini modeste aveva un viso lungo e aguzzo, senza grandi attrattive: «Occhi piccoli e penetranti, carnagione olivastra. La bocca troppo grande incorniciata da due sgradevoli rughe, il naso lungo e sottile, la fronte piatta su cui ricadeva mollemente qualche ciocca di capelli gli conferivano un’aria leggermente torva ed equivoca. A tutto questo si aggiungeva un’espressione di sufficienza, da uomo insensibile». Boccioni credeva nella genialità di Marinetti, di cui invece Sibilla cominciava a dubitare «soprattutto da quando viveva a

180

Parigi, dove il futurismo, nonostante le numerose esposizioni che gli erano dedicate, veniva preso molto meno sul serio. Boccioni era stato definito da Apollinaire un «epigono di Picasso». E di solito Apollinaire sapeva riconoscere un artista di genio. La coppia che non aveva potuto formare con Cena, Cardarelli e Papini, Sibilla si illudeva dunque di poterla costituire con un uomo che l’aveva respinta energicamente e senza riserve fin dalla terza notte d’amore. La presenza di Sibilla a Parigi era stata ampiamente divulgata dal «Figaro», ed ella incontrava ogni giorno decine di personalità letterarie. Charles Péguy la riceve nella sede dei suoi «Cahiers de la Quinzaine». Sibilla rivede Paul Margueritte, che aveva conosciuto con Cena a Roma, e frequenta i fratelli Gourmont. Incarna ormai quel tipo di donna di lettere che Boccioni prende in orrore, e che definisce nel suo francese di fantasia la «femme à écrire». Boccioni non sopporta più le sue lettere «da epistolario, come si dice che i grandi scrivessero ai grandi». Le pose da intellettuale a cui la spingono le sue frequentazioni parigine lo esasperano. Ai resoconti mondani di Sibilla, il pittore risponde scherzosamente che gli basta pensare a lei perché la sua bocca prenda «la famosa piega amara di cui parlano spesso i romanzi popolari». E infatti questa piega fa parte della sua fisionomia. Ma l’ironia è talvolta l’espressione illusoria della lucidità. È una mattina di febbraio. Sibilla, nella sua camera all’ultimo piano che dà sul boulevard Saint-Michel, sta aspettando Aurel. Aurel è proprio una parigina tipica, dall’aria sbarazzina. I suoi capelli corti sono trattenuti da una fascia a fiori, e di veri fiori è ornato lo scollo del suo vestito, che le lascia scoperte le spalle lattee. Il suo viso un po’ da contadinella, con una fossetta

181

in mezzo al mento deciso, è abbondantemente cosparso di cipria. I suoi occhi languidi e intelligenti sono sottolineati con la matita e sovrastati da sopracciglia folte e arcuate che conferiscono al suo sguardo un’espressione volutamente dubbiosa e seducente. Ma questa donna simpatica è sorridente, generosa e disincantata. Suo marito chiama Sibilla «la barbara», e anche Aurel le si rivolge talvolta con questo appellativo, che accentua l’artificialità del loro rapporto. «Allora, barbara», esordisce Aurel entrando nella camera di Sibilla, «che ne dice del mio romanzo tunisino?». Sibilla, a cui questa visita era stata annunciata per telefono dalla portineria, è rimasta seduta alla sua scrivania davanti al balcone, da cui domina con lo sguardo, attraverso i disegni che la brina ha ricamato sul vetro, il museo di Cluny, la cupola della cappella della Sorbona e, più in là, le due torri di Notre-Dame. Adesso si volta verso Aurel e si alza in piedi. «Mia cara», dice Aurel, «dovrebbe truccarsi un po’ di più. È vero che è bella, ma non bisogna esagerare con la barbarie. Ho in borsa tutto l’occorrente. Parleremo mentre mi occupo della sua metamorfosi. La porto da Rodin, Sibilla. Resti seduta». Ma Sibilla non risponde e, all’improvviso, scoppia in lacrime. Con la prontezza delle donne di mondo, Aurel cambia immediatamente tono, come un pittore cambia tavolozza o un cantante registro. Senza drammatizzare, assume un atteggiamento grave pur mantenendo una voce animata. «Bene», dice sedendosi sul letto e togliendosi la stola di pelliccia. «Ancora Boccioni. Non ho più voglia di rimproverarla, Sibilla. Ma che idea, venire a Parigi per piangere questo calabrese!». Aurel sospira e nota sul comodino il proprio romanzo, Les jeux de la flamme: un segnalibro sporge dopo le prime pagine.

182

«Cattiva! Vedo che non è andata molto avanti nella lettura del mio romanzo. Eppure credevo che lo avrebbe trovato interessante, che le avrebbe rammentato Joe…». «L’ho letto, Aurel», si decide finalmente a dire Sibilla, prendendo il libro. Ha letto: «Tunisi vana, che posi poco, ma da lontano sembri posare vicino alla terra nel tuo candore insperato, vana come il volo dei gabbiani sul filo del tuo mare crudelmente azzurro, come stimoli la nostra anima di occidentali col tuo segreto imperturbabile!». Ma si astiene da qualsiasi commento. «Mia cara», dice Aurel, «ci capiamo al volo. È inutile parlare. Abbiamo la stessa anima, siamo sorelle. E dobbiamo la nostra fratellanza al prodigio di aver creato tutte e due, quasi allo stesso tempo, lo stesso mostro: la donna cosciente». Sibilla volta la testa e nasconde un sorriso, all’idea che Boccioni l’ha incoraggiata ad accettare l’invito di Aurel. «Prima di andare da Rodin, dobbiamo mettere le cose in chiaro col nostro amico Boccioni. Lasci fare a me, gli scriverò il fatto suo. Tutta la forza che lei perde a causa sua, potrà ritrovarla in me». «Aurel!», mormora Sibilla in tono di protesta. Aurel fa un gesto autoritario, fendendo l’aria orizzontalmente col palmo della mano. Poi si alza, si siede alla scrivania di Sibilla e intinge la penna nel calamaio. Sibilla si è sdraiata sul letto, gli occhi rivolti al soffitto. Non oppone più resistenza. «Le leggo via via quello che scrivo: “Caro artista, l’arte e la vita non si sciupano che con l’ostinazione dell’uomo. Quando avrete sessant’anni, cioè quando avrete aperto gli occhi, quando la vostra opera d’artista sarà compiuta, anche se avrete avuto gloria d’artista, allora, tremerete di pietà per voi stesso, per aver lasciato perdere la gloria d’amare Sibilla Aleramo”. Non c’è male come inizio, no? Ha trent’anni. Crede che il mondo sia ai suoi piedi. Non sa che l’uomo vive del presente e la don-

183

na d’eternità. È verso la realizzazione dell’amore che la donna scrive, è verso l’uomo. Perché non c’è nessuna donna che la senta, non c’è nessun uomo che l’ascolti. È la sua ricerca che attira il pubblico. Cerchiamo qualche formula che possa scuoterlo, colpirlo, ridurlo alla resa. “Quando un artista ha la fortuna d’essere amato da tale prodigio, una vera donna, se vuole che la sua arte in lui si compia, deve seguirla ciecamente per scorgerla in se stesso”». «La prego, Aurel, rinunci a questa idea. Già le mie lettere lo infastidiscono». Le due donne sono adesso in un taxi diretto a Meudon, dove abita Rodin. Rodin ha letto Una donna su consiglio di Aurel. Ha detto di esser rimasto ammirato per la «forte sensazione di vita che l’autrice ha saputo esprimere». E ha deciso di conoscerla. Sibilla ha in borsa alcune lettere e telegrammi di Boccioni, che non può fare a meno di leggere ad Aurel. Questa resta in silenzio senza più il coraggio di guardarla, rassegnata ormai ad accettare questa specie di follia a cui Sibilla si abbandona con tanto compiacimento: «Ascolti, Aurel, quello che mi scriveva appena cinque mesi fa: “Vorrei vederti domani martedì… desidero la tua voce e i tuoi occhi… ma voglio cominciare a lavorare… allora divengo intrattabile e poco divertente… vieni quando vuoi!”. Vieni quando vuoi, mi diceva!». Sibilla sente le prime lacrime scorrerle sulle guance e smette di parlare per non scoppiare in singhiozzi. Il taxi esce da Parigi costeggiando la riva sinistra della Senna. Le due donne restano a lungo in silenzio. «Ho scritto una poesia», mormora infine Sibilla. «Una poesia su Boccioni?», domanda Aurel. «E lui lo sa? L’ha letta?».

184

«No, non l’ha letta. Non la leggerà mai». «Lei la conosce a memoria?». «Vuole sentirla? Ne recito qualche verso»: Senza lagrime su me stessa ho pianto come su una morta. […] Andavo incontro a quel solo che pensavo ancor vivo sotto il cielo al solo che potesse vedermi e fermarmi e riconoscendomi morta dirmi ho vissuto.

«Pubblicherà questi versi, vero, Sibilla? Oh, come può amare un uomo che non la capisce?». Il taxi è entrato nel piccolo parco che circonda l’atelier di Rodio, dalle pareti a vetrate. «Conosce il mio motto», dice Aurel prima di scendere dalla macchina: «“Sono scampata all’amore, dunque sono”». «No, Aurel!», protesta Sibilla trattenendola per la mano. «Amo dunque sono»! «Sa, Sibilla, noi chiediamo all’uomo quello che gli daremmo, non quello che gli diamo». Il vecchio Rodin è nell’ingresso; porta un ampio grembiule cosparso di macchie multicolori. «È re Lear!», sussurra Sibilla. «Ah, ecco la nostra bella innamorata!», dice Rodin, stringendo Sibilla contro di sé. Sibilla si ritrae, leggermente irritata e intimidita, mentre Rodin bacia la mano ad Aurel. Poi Rodin fa loro strada tra le sue

185

statue, sulle quali cadono gli ultimi raggi del breve pomeriggio d’inverno. «Il vostro traduttore, Pierre Paul Plan, mi ha detto tutto sul vostro amico pittore. Sappiamo tutto. Il futurismo morirà, mia cara, le mie sculture no!». Indica loro un giovane nudo che ha approfittato del loro arrivo per sedersi sul fusto di una colonna. Questi sorride alle due donne senza vergogna, senza nascondere il proprio sesso. Ha i baffi, ma il petto e il resto del suo corpo piuttosto pesante, carnoso ma non muscoloso, sono glabri. «È italiano. È un vostro compatriota, caro Poeta». «Che cosa fa a Parigi?», gli chiede Sibilla in italiano. «Sono autista di tram». «E posa per Rodin». «L’ho visto al volante», spiega lo scultore, «e ho capito subito quel che avrei potuto ricavare da questo pezzo d’uomo. Su, in posa!». L’autista si alza in piedi, divarica le gambe e si mette di profilo, con le mani sui fianchi. «Questo bel corpo assorbe la luce», dice Rodin armandosi dello scalpello e colpendo la pietra, che lascia già affiorare le forme del modello. «Come capite la luce!», osserva Aurel estasiata, sedendosi a pochi passi dallo scultore. «La luce, Aurel, non vuole esser compresa ma decorare. Guardate questo corpo nudo vestito dal sole attraverso i vetri». «Che grande spirito!», esclama Aurel lanciando uno sguardo incantato verso Sibilla, che guarda il giardino pensosa. «Lo spirito!», protesta Rodin. «Non subissatemi di simili elogi. Lo spirito è stato la rovina della Francia. Lo spirito non è l’intelligenza. È un dettaglio ingrandito».

186

Nel silenzio, si odono soltanto i colpi di scalpello. «È sempre quel pittore della malora che vi rattrista, signora Aleramo? Mi hanno detto che volevate morire. Mi hanno detto che scrivevate poesie in cui dicevate di voler morire. Guardate la vita, invece! La vita è questo corpo splendido, ma anche, e soprattutto, ciò che diventa nella pietra. La pietra può essere la pulsazione della vita, come l’uccello è la pulsazione della notte». Sibilla non risponde. Continua a guardare il giardino, rigoglioso nonostante l’inverno. «Non bestemmiate con imprecazioni decadenti. Portate dovunque la vostra suprema giovinezza e i vostri pensieri… È la vostra parte… Preferite le mie piante alle mie sculture, guardate la mia dulcamara. È la più bella perché il suo nome riassume l’essenza femminile». Sibilla Aleramo rivide Boccioni nell’aprile del 1914. Era venuto a Parigi per preparare la sua esposizione alla Galerie de la Boétie, prevista per l’inizio dell’estate. Sibilla lo presentò a D’Annunzio nell’atrio della sua pensioncina del boulevard Saint-Michel, che lei trovava sordida e balzachiana, perché le rammentava il Père Goriot. «Vedrai che non verrà», le aveva detto Boccioni. Invece D’Annunzio «giunse, elegantissimo, con il suo sorriso di folletto shakespeariano», e li invitò in un ristorante rinomato. D’Annunzio rimproverò Boccioni di non fare abbastanza attenzione alle uova che mangiava, «preparate in maniera specialissima, una delle novantatré che si hanno in Francia di cuocere le uova». Boccioni, che era partito con l’intenzione di prendersi gioco del vecchio poeta, ascoltava invece beato D’Annunzio raccontare

187

come il sole si fosse immobilizzato «in una sospensione cosmica» quando un giovane aviatore aveva trovato la morte in un incidente aereo al Bourget. Sibilla parlava poco e osservava questi due poli opposti della cultura italiana, destinati a esser sorpassati entrambi, ciascuno a suo modo, dopo esser stati uniti dal fascismo. Certo Boccioni morirà troppo presto. Ma Marinetti, che già nel 1911 aveva esaltato le guerre coloniali, aderirà «a dispetto delle sue precedenti simpatie anarchiche» al fascismo come D’Annunzio. Boccioni, che insieme ai suoi amici si era divertito a sbeffeggiare D’Annunzio, adesso, nell’arco di un pranzo mondano, ne era rimasto soggiogato. D’Annunzio dimostrava che l’avanguardia non riusciva a metterlo in imbarazzo e che anzi lui la capiva. Soltanto, si limitava a considerarla con sufficienza. Le divergenze d’idee svaniscono come le bollicine di champagne in cui annegano le vecchie ostilità. Arriva sempre un momento in cui le preoccupazioni mondane prendono il sopravvento sull’ardore ideologico. Un giorno, infatti, questi due uomini si sarebbero trovati di nuovo uniti in occasione di qualche polverosa commemorazione ufficiale, uniti, sì, da una stessa benevolenza commossa, in un’atmosfera altrettanto serena che durante questo pranzo presieduto discretamente dall’amica dell’uno e amante respinta dell’altro. Entrambi un giorno sarebbero entrati a far parte del patrimonio culturale nazionale. Boccioni, nonostante il desiderio di sfuggire all’insistenza amorosa della sua ex amante, non ha saputo resistere alla tentazione di incontrare il Vate d’Italia. L’arte della conversazione frivola, in cui eccelle D’Annunzio, evita a tutti e tre l’imbarazzo di dover affrontare direttamente gli argomenti che potrebbero provocare dissapori. D’Annunzio è al corrente dell’amore ormai infelice che Sibilla nutre per Boccioni. Questo non lo stupisce perché sa che, se ogni rottura obbedisce a una logica inarrestabile, la nascita della passione ri-

188

sulta spesso incomprensibile a chi la osserva. La cordialità con cui si rivolge a Boccioni è una forma di disprezzo, ma soltanto Sibilla se ne accorge, perché Boccioni è ormai in estatica adorazione del nemico dei futuristi. Boccioni non è andato ad alloggiare nella stessa pensione di Sibilla. Per lui la rottura definitiva è già avvenuta. Sibilla è ormai unicamente un’intermediaria mondana che gli permette di vedere da vicino un dinosauro. Non ha fatto commenti sulle esagerazioni della lettera di Aurel. Si affida alla pigrizia delle poste italiane per lasciare il dubbio che la lettera sia andata perduta, ma non è così. L’ha letta, ne ha riso e l’ha dimenticata. Sibilla non aspettò l’inaugurazione della mostra di Boccioni per andarsene da Parigi. Era stufa della vita mondana, sulla quale gettava ormai uno sguardo lucido. Citava La mort du loup di Vigny: … ne jamais entrer dans le pacte des villes Que l’homme a fait avec les animaux serviles. …non entrare mai nel patto delle città che l’uomo ha stipulato con gli animali servili.

E commentava: «Non sono dupe di me stessa. Se la mondanità può essere talora una medicina, nessun’altra mi dà poi tanto disgusto, un arrière-goût tanto amaro». Prima di lasciare Parigi, comunque, Sibilla fece un ultimo incontro mondano. Andò infatti a far visita a una personalità inaspettata: Isabelle Rimbaud, che aveva pubblicato sulla «Revue Blanche» il resoconto della morte del fratello. In questo testo, ristampato poi nel 1922 sotto il titolo di Reliques, Isabelle aveva scritto una frase che è rimasta celebre: «Così si seppe che laggiù, a Harar, Arthur aveva appreso la sua possibilità di avere successo letterario in Francia, ma che si era rallegrato di non aver continuato l’opera della sua adolescenza, perché “era male”». E si dimenticava spesso, citando Isabelle, di precisare che ella aveva messo que-

189

ste ultime parole tra virgolette e che non esprimeva dunque un giudizio personale, come invece si riterrà a torto. Il ritratto che Sibilla fa nel 1914 di questa donna di cinquantaquattro anni, invecchiata prima del tempo, corrisponde a quello tracciato qualche anno prima dal marito, Paterne Berrichon. Sibilla la definisce infatti come un’«umile figuretta di donna vestita di nero, così simile nello sguardo celeste, nell’ovale dolce e fermo del volto, nella fronte rotonda e pura, ai ritratti rimasti del sedicenne che scrisse Le bateau ivre». Sibilla vide anche Paterne, la cui «barba bianca e le trepide mani s’accordano a meraviglia con lo pseudonimo ch’egli si scelse in gioventù». I coniugi vivevano nella periferia di Parigi, in un appartamento tappezzato di «fotografie ingiallite, lettere dalla calligrafia “commerciale” mandate alla famiglia da laggiù, calligrafia tutt’altra da quella dei pochi manoscritti salvati». Isabelle ha mostrato a Sibilla un taccuinetto di appunti presi da Arthur prima della sua amputazione, mentre veniva trasportato da Marsiglia a Parigi e da Parigi a Marsiglia. E Sibilla si è chiesta: «Che cosa è rimasto in Africa di Rimbaud? Un figlio? Dei poemi?… Che cosa s’è perduto di Rimbaud nel continente nero?». Umberto Boccioni morì a trentatré anni, contrariamente alle previsioni di Aurel. Morì il 17 agosto 1916, tre giorni dopo il quarantesimo compleanno di Sibilla. Sperava di cadere in battaglia e aveva insistito per esser mandato al fronte. Aveva considerato la guerra come «l’igiene del mondo» e scopriva invece, come dice in una lettera, «insetti + noia + eroismo oscuro». Nel corso di semplici manovre nella periferia di Verona, Boccioni viene disarcionato dal suo cavallo e calpestato a morte. Slataper era morto il 3 dicembre dell’anno prima, durante uno scontro a cui aveva partecipato come volontario. Ma Sibilla vi-

190

veva allora una nuova passione che non la lasciava molto libera di piangere un ex amante e un amico fedele.

191

13

Il quartetto

All’inizio di agosto del 1941 Sibilla, in serie difficoltà economiche, tentò di vendere un ritratto che Michele Cascella le aveva fatto a Ischia ventisette anni prima. Un amico rifiutò di comprarglielo ma, come al Monte di pietà (di cui del resto Sibilla era allora un’assidua cliente), le prestò dei soldi impegnandosi a restituirle il quadro. A dire il vero, Sibilla non ci teneva più molto. L’anno seguente, Sibilla rivide Cascella a Portofino. Nel 1914 questo pittore di ventiquattro anni, dai tratti quasi femminili nonostante la sua forza, l’aveva «guarita, in parte, dalla nostalgia per Umberto Boccioni». Era un pittore, era giovane. La adorava e faceva affreschi in cui il nome di Aleramo, che lui riteneva glorioso, compariva assodato a canne d’organo. «Abruzzese della montagna, mistico e panteista, pieno di grazia, e così felice in quei pochi mesi in cui m’illusi d’amarlo!». Il 19 settembre 1942 Michele Cascella, di passaggio a Roma, invita Sibilla a cena, poi al cinema. Non si dicono «una sola parola intima», osserva con amarezza Sibilla, in preda a una «tristezza sottile, che non giunge a liberarsi in pianto», a una

192

«inesprimibile malinconia» di fronte a «quell’abisso che s’è formato fra noi da tanti anni». Il 1° novembre 1957, giorno dei morti, Sibilla guarda insieme a Michele Cascella una foto del 1914 in cui lei si trova tra lui e Clemente Rebora a Milano. Poche ore dopo, una telefonata di Elio Fiore le annuncia la morte di Rebora. Quando la foto era stata scattata i tre si erano appena conosciuti. Sibilla si sarebbe divisa tra Rebora e Cascella, prima di lasciare entrambi per un terzo uomo, come avrebbe raccontato in seguito nel suo romanzo Il frustino. Da quell’anno a venire, infatti, compreso tra la primavera del 1914 e quella del 1915, Sibilla ricaverà un romanzo che scriverà tra il 1929 e il 1932. «Come mai vi impiegai tanto tempo?», si chiederà. Tanto tempo a scriverlo e tanto tempo a decidere di scriverlo. E soprattutto perché scelse di descrivere proprio questo amore, abbandonando all’oblio altre passioni forse più intense? Il 29 agosto 1914 Sibilla si trova nel foro di Pompei. Alle due del pomeriggio appunta sul suo taccuino: «Michele dipinge. Un guardiano, seduto sui gradini, legge da solo ad alta voce, gestendo ampio, il giornale coi resoconti delle disfatte francesi. Sulle lastre di marmo corrono formiche. Cielo grave d’acqua. Vesuvio turchino con enorme pennacchio sfumante. Farfalline bianche. Neppure un visitatore. Pino di smeraldo sopra le arcate rossiccie». Sibilla ha incontrato Michele a casa del padre, Basilio Cascella, anche lui pittore, e direttore della «Grande Illustrazione». Preferì il figlio al padre, che non protestò contro questa infatuazione improvvisa. Fu però Sibilla a pagare il viaggio di Michele da Milano a Ischia, dove lei stava facendo una seconda

193

cura termale. Perché lui potesse raggiungerla, gli mandò infatti un vaglia telegrafico. Questo è per Sibilla un periodo favorevole, sereno e fecondo. Dopo una lunga vacanza in compagnia di Michele, ella assume la direzione della «Grande Illustrazione», col completo assenso di Cascella padre. Oltre a Trasfigurazione, vi pubblica diverse sue liriche ispiratele da Michele e illustrate da lui stesso. Michele crea per Sibilla un fregio goffo e ingenuo che rappresenta un organo circondato di mughetti, e lei lo fa stampare sulla propria carta da lettere. Ma tanta serenità non durerà a lungo: Sibilla conoscerà infatti Giovanni Boine, con il quale è in corrispondenza da qualche mese. Lo incontrerà l’8 febbraio del 1915 sulla Riviera Ligure, dove è andata a trovare il padre. Dell’amore di Sibilla per il giovane pittore restano dunque alcune poesie e un romanzo. Le poesie scritte a Napoli, Ischia e Capri verranno poste da Sibilla all’inizio della sua raccolta Selva d’amore. Le prime due parole del libro sono «ritrovata adolescenza». Ella chiama Michele «o fiore o colore o ardore». Posa nuda per lui e scrive: Nuda nel sole per te che dipingi sto immobile, il seno soltanto ritmando la vita gagliarda nel cuore. Come un cielo soave d’aurora […] Sei tu che mi divinizzi o la mia divinità è che ti crea, artista, arte, spirito?

E ancora: Fra il mio seno e il petto forte che amo sta una rosa sola.

194 Oh sole, la rosa vuol morire, e noi vogliam la sua agonia tutta con nostra gioia consacrare.

Sibilla scrive a Michele: «C’è il tuo genio nel tuo sorriso». Sembra difficile poter conciliare due immagini tanto contraddittorie di questa stessa donna, che durante l’inverno parigino piangeva Boccioni, e adesso si stringe nuda contro un uomo appena uscito dall’adolescenza, schiacciando tra il petto suo e quello dell’amante una rosa di cui vuole «consacrare l’agonia». Michele Cascella ha appena tre anni più di Walter Pierangeli. È nato nel 1892, anno in cui Sibilla fu violata da Ulderico Pierangeli. Michele Cascella è l’eco di Joe e l’anticipazione di Campana. È inoltre il primo artista che, a differenza di Boccioni, si innamori di lei. È il primo spirito contemplativo. Sibilla scopre con lui la contemplazione della natura e la divinizzazione dei sensi. Nel febbraio del 1915 Sibilla si trova dunque a Sanremo dal padre, che si è stabilito qui a causa del clima favorevole alla coltivazione dei fiori. Da molto tempo ormai «cioè da quando aveva trovato in Giovanni Cena una figura che potesse sostituirlo», Sibilla si è allontanata da quest’uomo, pur mantenendo regolarmente i contatti con lui attraverso le sue due sorelle. Già più di dieci anni prima era rimasta colpita dal decadimento fisico del padre: «Gli mancano due denti dinanzi, parlando fischia, quasi stride, e il mento sembra divenuto più aguzzo, e tutta la persona leggermente raggrinzita, spoglia dell’indefinibile impronta di nobiltà che un tempo me lo faceva ammirare sopra ogni altro».

195

Non resta alcuna traccia dei pochi giorni in cui Sibilla, malata, fu assistita dal padre. Non c’è dubbio comunque che si fosse rifugiata da Ambrogio per fuggire Michele Cascella. Di cosa avranno parlato? Degli amori di Sibilla, ormai così numerosi? O piuttosto di sua madre, a cui restano ormai solo due anni di vita. Della guerra, a cui Ambrogio è troppo vecchio per partecipare. Forse di Walter. E probabilmente di soldi. Ma parlano ancora la stessa lingua? Lui che l’ha formata e le ha dato, certo senza volerlo, la forza di liberarsi da un ruolo in cui non si era mai riconosciuta; lui che le ha dato questa forza tanto col proprio esempio d’infedeltà coniugale quanto collo spirito d’indipendenza, ha perso senza dubbio agli occhi della figlia l’autorità morale per cui lei lo ammirava, e l’autorità familiare e professionale per cui lo disprezzava. È un peccato che Sibilla non abbia analizzato, in un periodo tanto lirico della sua vita, l’impulso che l’ha spinta verso suo padre. Questo avrebbe potuto spiegare la sua rottura con Cascella, «migrante arcangelo» che lei vide «colpito piegarsi, accettar la sorte, accettar di sparire». Giovanni Boine, che si trova adesso a Porto Maurizio, è in corrispondenza epistolare con Sibilla da un anno, in qualità di collaboratore della «Grande Illustrazione». È un uomo pieno di sé, che ha già ironizzato sull’ammirazione che suscita nelle donne. Scriveva infatti nel febbraio del 1912, quando Sibilla era intimamente legata al gruppo della «Voce» e stava vivendo il suo amore per Papini: «Purtroppo piaccio alle donne. Brutto segno. Sibilla Aleramo è addirittura fuori di sé dal piacere». Coi suoi capelli ondulati divisi da una scriminatura in cima alla testa, i suoi baffi compiaciuti e gli occhi neri e dolci, quest’uomo malaticcio dai lineamenti regolari e comuni non avrebbe dovuto sedurre Sibilla grazie al proprio aspetto fisico. I tratti più marcati e infantili del biondo Cascella corrisponde-

196

vano meglio a ciò che lei si aspettava da un uomo. Ma Boine restituiva Sibilla a se stessa, perché apparteneva all’ambiente letterario che l’aveva accolta quando era fuggita da Roma. Boine aveva undici anni meno di lei. Figlio di un ferroviere come Salvatore Quasimodo, aveva avuto la tubercolosi e, proprio in seguito a una ricaduta, era venuto a curarsi a Porto Maurizio, dopo un soggiorno alla stazione climatica di Davos. Discepolo di Bergson, di cui aveva seguito i corsi al Collège de France, e di Blondel, Boine lavora alla biblioteca comunale e collabora ai giornali locali. Il suo profilo riproduce insomma a un livello superiore quello di Gerace. Ma agli occhi di Sibilla lui è soprattutto un amico di Papini e di Emilio Cecchi. Quando Giovanni Boine e Sibilla diventano amanti, lui ha rotto con Eva Kuhn, la moglie del suo amico Amendola. È entrato in polemica con Croce sul naturalismo e ha criticato violentemente la politica letteraria della «Voce». Ha inoltre un’amante, ma Sibilla lo ignora. L’unica cosa che lei si preoccupa di sapere è che Giovanni Boine le sembra intelligente, giovane e bello. Che sia malato, lo ignora ugualmente. Sanremo. Sibilla vede suo padre nel giardino a picco sul mare: sta sarchiando. Poi pota il roseto per l’estate, pianta i bulbi dei gladioli, strappa, ai piedi dei peri in fiore, le erbacce che tentano di sommergere la punta delle foglie folte dei crochi e dei tulipani, la lunga lama dei giacinti. Non la sente arrivare. Si sono parlati poco. Osservando la schiena curva di quest’uomo, che non è ancora entrato nella vecchiaia ma ha già la vita dietro le spalle, Sibilla si stupisce che egli abbia potuto contare tanto per lei in passato, mentre adesso è soltanto un vago punto d’appoggio. Certo, non appena si è sentita malata, si è rivolta a lui. Ma a quale immagine di lui si è rivolta? All’Ambrogio Faccio della sua giovinezza, all’uomo con il quale è andata a Roma a quindici anni e che ha scaricato su di lei re-

197

sponsabilità dal peso quasi insostenibile per un’adolescente? All’uomo che ha approvato, se non incoraggiato, le nozze della figlia con il proprio impiegato, divenuto suo successore grazie a questo matrimonio infamante? All’uomo che forse ha spinto sua moglie alla follia? All’uomo che ha accolto senza alcun commento il processo che in Una donna Sibilla aveva intentato all’educazione da lui ricevuta? All’uomo del quale lei ha fatto un ritratto quasi parziale a forza d’amore e di rispetto? O a un estraneo? No, suo padre non sarà mai un estraneo per lei. Fino adesso Sibilla ha considerato vano ogni tentativo di conversazione, di spiegazione. Ambrogio ha accolto sua figlia con naturalezza. Ha sempre manifestato scarso interesse per la vita sentimentale e intellettuale di Sibilla. Ha fatto il possibile per aiutarla quando lei ha tentato di riprendersi Walter. Ma da allora… Sa che Cena è stato il suo doppio? E che Cascella è stato il doppio di Walter? No, lui non sa queste cose, pur così chiare agli occhi degli amici di Sibilla e forse persino agli occhi di lei. Finalmente, quando sente i suoi passi scricchiolare sulla terra smossa, Ambrogio si volta. «Ah, cara», le dice, «ti sei riposata? Stai meglio?». «Sì, grazie, papà», gli risponde Sibilla accovacciandosi vicino a lui. «Attenta al tuo bel vestito bianco», protesta Ambrogio alzandosi in piedi e prendendola per un braccio perché si alzi anche lei. «Le rose saranno belle, quest’anno?». «Sì, belle». «E la neve dell’altra notte?». «Ha umidificato il terreno, niente di più. Guarda», aggiunge il padre, indicando un’aiuola violetta screziata di pagliuzze dorate come il setaccio di un cercatore d’oro alla luce del sole. «Guarda i miei giaggioli».

198

«È un incanto», mormora lei. «Sì, un incanto», ripete Ambrogio, carezzandole la guancia con un gesto affettuoso che lei potrebbe scambiare per un segno di disprezzo. «Ti son sempre piaciute, Rina cara, le parole liriche. Ti ricordi le poesie che scrivevi da bambina?». «Da bambina non ho mai scritto poesie. La mia prima poesia, l’ho scritta in Corsica tre anni fa. Non si devono cambiare i fatti». «Ma ti assicuro», insiste Ambrogio come se, in virtù dell’età, avesse maggior dimestichezza della figlia col passato. «Scrivevi poesie». «No, papà». «Poesie!», ripete lui con ostinazione, ma debolmente. Lei rinuncia a contraddirlo. Si avviano insieme, lentamente, verso casa. «Non continui a curare il roseto?», chiede Sibilla. «Per stamani basta. Mi sono alzato alle cinque, sai». «Anch’io». «Sì, lo so», dice Ambrogio appoggiandosi al braccio della figlia. «Ho visto la luce accesa alla tua finestra». Lei fa una piccola smorfia, irritata all’idea di venire spiata. «Stavo scrivendo», gli dice come per giustificarsi. «Certo, stavi scrivendo. Da quando hai lasciato la vetreria, non hai fatto che scrivere. Mia figlia scrive, e io coltivo fiori». «È la stessa cosa». Lui la guarda sorridendo senza rispondere. Poi, dopo una pausa di silenzio, le dice: «Sei stata gentile a venirmi a trovare». Glielo dice come glielo aveva detto Alessandrina Ravizza. A Milano, Sibilla era andata per vedere Boccioni; a Sanremo è Boine

199

che vuole incontrare, che vuole avere. La frase di Ambrogio è davvero tanto candida? Lei non risponde niente. «E quel ragazzo?», domanda lui. Ha usato la parola «ragazzo», a sottolineare crudelmente la differenza d’età che la separa da Cascella. Con la scelta di questo termine, le dimostra di esser cosciente che lei non è più una bambina, ma una donna matura e sventata. Non le muove altro rimprovero che questa parola, «ragazzo». «Quale ragazzo?», chiede Sibilla, come se non avesse capito a chi allude suo padre; come se non fosse evidente che si riferisce a Michele. «Michele Cascella!». Ambrogio articola il nome accuratamente, come per esprimere attraverso la precisione delle sillabe il rispetto inquieto che prova verso i sentimenti della figlia. «Lo sai, papà, è rimasto a Milano». «È finita?». Sibilla non risponde. Mentre salgono le scale della terrazza, lui la guarda abbassare lo sguardo. «Sì, è finita», dice lui. «Erano belle le sue illustrazioni per le tue poesie. E adesso, hai un amico qui, vero?». Sono arrivati sulla terrazza. Lei volta le spalle ad Ambrogio e, con le mani appoggiate alla balaustra, guarda, oltre il frutteto del padre, i campi di giaggioli, i roseti irti di tutori, i pergolati ancora nudi, il mare. «È quel giornalista della “Riviera Ligure” di cui parlavi ieri sera, vero? Hai ricevuto una sua lettera ieri. È lui, no? Quando un uomo scrive una lettera così lunga… Ma nel vostro ambiente scrivete sempre lettere lunghe». Lei non rileva a voce alta l’espressione «nel vostro ambiente». Ma suo padre ha ragione: ormai non appartengono più allo stesso ambiente, loro due.

200

Era scesa in giardino per dire questo a suo padre, ma lui si è dimostrato più pronto e intelligente di quanto lei si aspettasse. Sibilla accetta questo dato di fatto, adesso che è stato enunciato dal diretto interessato: non è venuta a Sanremo per vedere suo padre, ma per diventare l’amante di Giovanni Boine. Boine è un amico di Clemente Rebora, che è a sua volta amico di Cascella. Innamorato di Sibilla, Rebora è stato delicatamente respinto. Come ha accennato Ambrogio, Boine tiene sulla «Riviera Ligure» una rubrica di segnalazioni librarie, Plausi e botte, nota per le sue stroncature più che per gli elogi di convenienza e redatta comunque con la massima libertà di tono. Boine recensisce però con ditirambica esaltazione i Frammenti lirici di Rebora e ha la debolezza di presentare sulla rivista il suo proprio libro, Il peccato: «l’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti; […] di esprimere una complessità, una compresenza di cose diverse nella brevità dell’attimo […]. Ma son tentativi; restan tentativi». Sibilla ha letto Il peccato, in cui lo scrittore ha raccontato «quella sua vita di contemplazione meditativa e appassionata, tutta franta, singhiozzante, col segno duro d’una individualità prepotente e contrastante, violenta e tragica». Qui Boine rivelava di esser stato innamorato di una giovane carmelitana, Suor Maria. Chissà che proprio tale episodio del passato di questo giovanotto bizzarro (che si definiva «alto, barbuto, pallido, con qualcosa sempre di corrucciato negli occhi e un parlare a scatti») non abbia suscitato l’interesse di Sibilla nei suoi riguardi? La giovane suora era francese, un’ex attrice che, quando il suo teatro era stato distrutto da un incendio, aveva consacrato la propria vita a Dio che gliel’aveva salvata. Ma furono più probabilmente il lungo articolo dedicato a Clemente Rebora e la libertà di tono delle sue stroncature a conquistare Sibilla.

201

Boine aveva scritto anche su Papini e sugli altri vociani. Aveva stroncato una protetta della romanziera Neera. Di Ada Negri, figura di primo piano nella vita letteraria di allora, aveva osato scrivere: «Fa spesso le poesie come gli studenti di liceo che scrivon bene il componimento». (Del resto anche Sibilla, alla fine della sua vita, parlerà con disprezzo della poetessa, che pure l’aveva aiutata ai tempi del suo primo soggiorno milanese). Inoltre Boine criticava l’altro colosso della letteratura femminile, Amalia Guglielminetti, per l’affettazione poetica delle sue confessioni erotiche: «Tranne qualche ragazza in fregola o qualche critico che le somigli è impossibile che uno ritorni su questa roba come si torna sulla poesia sincera». Le critiche di Boine contengono una certa dose di puritanesimo maschile, e Sibilla avrebbe dovuto capire dal loro umorismo malevolo che potevano esser dirette anche a lei: «L’averci descritta con aria tragica una sua notturna porcheria fatta in carrozza non vuol dir niente». Senza dubbio, Sibilla non fece caso a questi commenti acidi e pudibondi, e l’amicizia riconoscente che Rebora professava per il suo incensatore dovette orientarla un po’ troppo favorevolmente verso questo giovanotto alto, pallido e malato, dai grandi occhi scuri: «Voragini cupe, immense iridi nere, con una forza disperata». Sibilla saluta suo padre e scende al centro di Porto Maurizio in calesse. Ha appuntamento con Boine, che non ha ancora mai visto. Lui si è descritto semplicemente in questi termini: «Sono molto alto». Sibilla scorge dunque, seduto fuori del caffè convenuto, questo giovanottone dalle «immense iridi nere». Lei non ha detto niente di sé; Boine sa solamente che lei è la direttrice della «Grande Illustrazione». Quando uno scrittore riceve le attenzioni di un altro, ne è talmente lusingato da dimenticare l’opera del confratello. Se Boine ha letto Papini, e

202

Cardarelli, ignora Aleramo. Per lui Sibilla non è altro che un’editrice e, come scopre adesso, una bella donna. Sa che un tempo ha pubblicato anche lei perché gli è stato detto, ma dopo aver ricevuto una lettera con la sua firma non si è dato la pena di procurarsi Una donna. Non ha letto neppure Trasfigurazione. Forse imbarazzato a farsi vedere in pubblico con una donna tanto attraente, dopo un breve scambio di convenevoli Boine la trascina a casa sua. Parlando delle «due o tre cose che ha nel cassetto», lo scrittore assume il tono di autorità adolescenziale che hanno gli intellettuali fino ai trent’anni, con voce esageratamente grave e sguardo ora insistente ora sfuggente, che tradisce la consapevolezza compiaciuta di suscitare uno spiccato interesse nella sua interlocutrice. Senza scadere nella fatuità, Boine si abbandona a un compiacimento tenero e disinvolto. «Sibilla Aleramo», dice Boine. «Lo si direbbe uno pseudonimo. Ma non importa. È bello. È vostra madre che vi ha dato questo nome profetico?». «No», dice Sibilla sedendosi sulla sedia che le indica Boine, vicina al letto, nella sua camera di Porto Maurizio. «È stato mio padre». È soltanto una mezza bugia. «Vi trovate bene a Porto Maurizio?», gli chiede lei. «No». Boine sorride guardandola quasi con sarcasmo. A Sibilla son sempre piaciuti gli sguardi ironici posati su di lei. Lui aggiunge: «Oggi sto benissimo perché vi ho conosciuta. E poi abito qui da tanto tempo!». Mostra con gesto ampio il grande disordine della sua scrivania, su cui sono ammucchiate le novità letterarie inviategli dalla «Riviera Ligure».

203

«Conoscete Rebora da molto tempo?», domanda a Sibilla. «Caro Rebora!», mormora lei con un accento di tenerezza sufficiente a provare che non sono amanti. «Da qualche mese. Ma ho l’impressione di conoscerlo da sempre». Sibilla e Boine si guardano all’improvviso con una complicità da bambini. «Da qui non si sente il rumore del mare?», chiede Sibilla stupita. Lui scuote la testa, una ciocca nera gli danza sulla fronte. «Oggi no, perché il mare è calmo». «Perché non avete scelto una casa più in alto, da dove lo si potesse vedere? Tutti questi fiori, queste piante che invadono il giardino…». «Posso sempre andare sul molo, e questo mi basta». Sibilla cerca di accordare al viso di Boine le immagini nate nella sua mente dalle pagine liriche che ha letto nel Peccato o negli articoli scritti da lui. Vede il suo «nobile volto», i suoi «zigomi accesi e salienti», la sua «bocca sensitiva». Lui abbassa spesso la testa in un moto di timidezza orgogliosa, di imbarazzo da seduttore involontario. Lei vorrebbe vedere il suo mento deciso, ma solo la fronte spaziosa è immersa nella luce. Adesso Boine leva gli occhi verso di lei: «Come fate ad essere così intelligente?». Lei non risponde. «Perché non usciamo?», propone Boine. Sibilla si avvia con un fruscio cristallino di crespo di seta. Il suo vestito verde e ampio solleva un profumo di rosa e di gelsomino. Salgono in calesse verso il Calvario su cui si erge il convento delle carmelitane. «È tutto finito?», chiede Sibilla alludendo all’amore infelice di Boine per la giovane suora.

204

«Tutto finito. Adesso c’è un’altra donna. Una donna mediocre, che mi ama ma che io non amo. E voi?». «Lo sapete, Boine. Non fate finta di ignorarlo. Ve lo ha detto Rebora. Ho vissuto con Cascella, il pittore». «È molto giovane, vero?». «Sì, molto giovane». «E bello, credo?». «È innamorato: l’amore conferisce una bellezza particolare». «Soprattutto quando ci si crede amati. Perché voi non lo amate più». «Che cosa vi autorizza a dare questo giudizio?». E Sibilla brandisce un frustino che teneva nascosto tra le pieghe del vestito. «E questo cos’è?». Il frustino di cuoio schiocca in aria e fa scartare il cavallo. «Un regalo di Rebora». «Di Rebora!», esclama Boine stupito. «Rebora è un moralista, un rigorista, non lo sapevate? Eppure lo conoscete alla perfezione. Me lo ha regalato un giorno in cui parlavamo di Nietzsche e di Novalis». «E a quale uso è destinato, questo frustino?». «Alla mia fustigazione». «Come, vi fustigate?». «Moralmente, non vi allarmate! Rebora detesta il mio sentimentalismo e spera che questo frustino riesca a scuotermi». Sibilla ha un’aria sognante. Restano entrambi in silenzio. All’improvviso lei dice: «Cascella non è un uomo, è un bambino immaturo. È così strano il contrasto tra il suo corpo atletico da gigante e la sua psicologia infantile».

205

«Anche voi siete una fanciulla di sedici anni». «A sedici anni non ero una fanciulla. Non sono mai stata veramente fanciulla. E, in ogni caso, a sedici anni non lo ero più». «Allora, la vostra infanzia la state vivendo adesso». Boine la osserva. Il vento che le passa sulle tempie solleva leggermente i suoi capelli biondi, mentre il calesse procede veloce lungo la strada panoramica da cui si scorge il mare attraverso i rami di pino, ancora più blu dietro il velo degli aghi intrecciati. Boine guarda il mare nella posa compiaciuta di chi si sente ammirato. «Come vi lasciate ammirare, Boine!», gli dice Sibilla. Lui si riprende e arrossisce lievemente. «Gli uomini godono della propria bellezza più delle donne. Il loro desiderio nasce sempre dalla coscienza di esser desiderati». «E le donne?». «Oh, le donne…». E lo guarda in silenzio. I due si rivedono varie volte. Una sera cenano persino insieme a casa di Ambrogio. Sibilla sa che suo padre non farà commenti su questa sua nuova passione. Ambrogio è diventato un misantropo, e Boine lo ammira per questo. Ambrogio sa che sua figlia si mette sempre in situazioni amorose che la fanno soffrire. «Perché?». Scuote la testa e rinuncia ad avere una risposta. Dopo cena, Boine dice a Sibilla: «Tuo padre è un uomo meraviglioso, Sibilla. Come fai tu ad esistere soltanto per te stessa, dai l’impressione di essere una creazione autonoma, senza radici, senza frutti… Non hai mai avuto figli, vero?».

206

«Perché?», chiede lei impallidendo. «Avevo un figlio. L’ho perso quando aveva sei anni. In pochi giorni, di difterite». Dice questa bugia per esorcizzare. Pochi giorni dopo, Boine annuncia: «È la guerra». Sibilla crede che si tratti dell’entrata in guerra dell’Italia. Pensa a Slataper, a Boccioni, a tutti i suoi amici «che non sanno amare, non sanno aspirare all’infinita unità del mondo spirituale». Ma Boine parla di tutt’altra cosa: della sua guerra con Cascella, al quale ha scritto: «Tu sei una luce lucente, ma io sono un uomo che ha saputo soffrire. O ti par poco esser un uomo?». Due giorni dopo, Cascella scrive a Sibilla, alludendo al romanzo di Boine: «Lasciamo i “peccati” a chi spettano». Boine a Sibilla: «Ti sei data per essere femmina viva sino alle viscere. E non si può». Allusione a Walter. Il 4 marzo, dopo aver letto Trasfigurazione, Boine vuole già rompere. Il 5, si rammarica di aver insultato «Michele occhi di luce». Ormai Boine è pronto a indossare un abito che gli va a pennello: quello depositato da Papini al guardaroba privato dei mariti infedeli e pentiti, di cui Sibilla è guardarobiera. Il 9 marzo Boine canta le lodi di Maria Gorlero, come Papini aveva cantato quelle di Giacinta. Evidentemente Sibilla non se ne stupisce: non a caso gli aveva dato a leggere Trasfigurazione. «Quella “novella” m’ha così ferito!», scrive Boine. «Come una bruttura scoperta. Si ama con più voracità, e si è pietosi con più dedizione». Nei suoi appunti, Boine segnala: «Ho rotto con la Aleramo proprio come chi riesce a scampare da un pericolo grosso, l’affogamento in mare o la prigione». Sibilla aspettò più di vent’anni prima di raccontare, nel suo romanzo Il frustino, le circostanze della loro rottura.

207

Sibilla ha raggiunto Boine a Genova, in un sordido alberguccio vicino alla stazione dove avevano già dormito insieme. Come l’ultima volta, non hanno avuto il coraggio di prendere una camera sola. Secondo un rituale convenuto tra loro, lui va a bussare alla porta dell’amante. Lei non risponde. Lui entra e si siede sul bordo del letto su cui lei è stesa. La contempla, posa un bacio sui suoi capelli, poi sul suo seno. Qualcuno bussa alla porta. «È un telegramma di mia madre», stabilisce lui prima di andare ad aprire. La madre di Boine, con la quale lui vive, ha cominciato a far la corte a Sibilla ma in realtà la disprezza, e la tollera unicamente perché ha allontanato suo figlio da Maria; perché Sibilla porta il cappello e ha un’aria da signora per bene, con cui suo figlio può farsi vedere per strada. Non sa che è sposata, ma la disprezza perché va a letto con lui. In una lettera Boine ha avvertito Sibilla di tutto questo. Ma non è sua madre, che pure sarebbe stata capace di inseguirlo fino a Genova. Sibilla non ha pensato neanche un momento che potesse trattarsi di suo padre, Ambrogio. Questi è al corrente della sua relazione con Boine, ne è rimasto deluso ma palesa il proprio dispetto unicamente col mutismo. «Mi chiamano», dice Boine. «Tu resta qui. Non capisco come si sia permessa. Non ti preoccupare. Devo vederla. Ma torno subito. Mettiti a letto». Boine pronuncia queste frasi brevi con rapidità convulsiva. Sibilla, paralizzata, non ha il tempo di dire niente. Boine è già scomparso. Lei resta seduta sul bordo del letto, nel silenzio della notte, a occhi aperti. La luce vacillante dell’abat-jour illumina la tappezzeria strappata, il pavimento di ceramica, il tappetino che Boine ha increspato nella precipitazione. In lontananza, dal fondo del corridoio del suo stesso piano, Sibilla sente arrivare dei gemiti, dei singhiozzi. All’improvviso, un urlo di donna, un grido acuto. Per le scale e nei corridoi

208

comincia a arrivare gente, qualcuno protesta, una porta sbatte. Sibilla è sempre seduta nella penombra. Stringe tra le dita contratte le pieghe della camicia da notte. Le grida si interrompono e ricominciano i singhiozzi. Poi si placano anch’essi. Sibilla aspetta che il tempo passi: un’ora, due. Boine ricompare, lo sguardo stravolto. «Si è calmata. Sta dormendo. Non posso lasciarla sola stanotte. Ha la febbre. Capisci, vero Sibilla? Domattina la riaccompagnerò a Porto Maurizio. Una volta a casa sua, riuscirò a convincerla. Se non ti telegrafo prima, aspettami a Sanremo». A Sibilla non viene neppure in mente di provare a trattenerlo. Atterrita per il suo aspetto da moribondo, lascia che lui la stringa a sé. È quando si trova di nuovo sola nella notte che comincia a provare pietà per se stessa. Avrebbe agito allo stesso modo se Cascella fosse venuto a perseguitarla? No, Michele non avrebbe mai accettato di dividerla con un altro. Adesso Boine è sdraiato vicino al corpo di Maria, che gli è così familiare. Di certo, dopo la crisi isterica, lei ha voluto fare l’amore. E senza dubbio lui l’ha accontentata. Per Sibilla il silenzio è ancora più terribile. Senza provare gelosia, constata che la sua solitudine è insopportabile, così, a pochi metri da quella coppia invisibile. Non conosce il volto di Maria. Immagina Boine che si accoppia a un corpo senza testa. Di quella donna lei non conosce che il grido. La stanza ha una sola finestra, che dà su una corte angusta da cui provengono odori acri. Sibilla attende per tutto il giorno con la pazienza dei prigionieri. Sente all’inizio del petto un dolore costante, come un grumo di sangue che le salga dalla gola alle labbra. Quando cala la notte, esce dalla camera e prende un taxi per la stazione.

209

Il piccolo treno che va a Sanremo, pieno di gente semplice, costeggia la spiaggia. Sibilla si sente osservata con un’ammirazione quasi religiosa. Sa che tutti la credono «straniera». Quando il treno la lascia a Sanremo, le stelle punteggiano il cielo sul mare, dove scintillano le lampare dei pescatori. Sibilla sale su un calesse che la porta a casa, i pini e i gelsomini respirano. Suo padre le dice semplicemente, con un sorriso triste: «Un telegramma di Boine per te. L’ho aperto. Mi sono stupito. Credevo che foste insieme». È seduto in cucina, davanti a un piatto di pasta che si è preparato da solo. Spinge il telegramma verso sua figlia, che non risponde. «C’è anche una lettera di Cascella». Lei coglie nella sua voce un rimprovero inespresso. Si siede di fronte a lui senza togliersi cappotto e cappello, abbandonando il bagaglio ai propri piedi. Il telegramma dice: «Arriverò domani. Tuo. Boine». La lettera: «Forse la bambina tornerà. […] Ora che m’ha fatto conoscere il dolore, forse la bambina verrà a respirarlo, come una rosa bianca, su di me». Questo tono sdolcinato le fa fare una smorfia. Infatti Boine tornò. Aveva conservato sul viso l’espressione angosciata che aveva assunto a Genova, in quella pensione orrenda al secondo piano di un palazzo scalcinato cui si arrivava attraverso una strada pedonale fatta di lunghi gradini. Strinse Sibilla a sé. Lei non gli chiese niente. Parlarono di Tunisi, dove volevano fuggire. «L’Africa», per lui. Per lei, la nostalgia di un amore puro, «senza peccato», per riprendere la velenosa allusione di Cascella. Boine si era informato, al porto, degli orari e le tariffe dei traghetti.

210

«Potremmo partire sabato. In questi quattro giorni avrò il tempo di rimettermi», disse lui. «E la tua roba?», chiese Sibilla. «I tuoi libri?». Della propria roba, Sibilla non ne parlava nemmeno. Del resto le sue cose si trovavano, come sempre, sparpagliate tra Firenze, Milano, Roma e Sanremo: dalle sorelle, dal padre, dai Luchaire. Non parlava neppure del suo lavoro alla «Grande Illustrazione». Era pronta a dimenticare tutto, ad abbandonare tutto, forse perché in fondo non credeva a questa partenza. La scenata isterica era già avvenuta, e Boine aveva rivelato quale delle due donne lo teneva in pugno. Boine è preoccupato del silenzio di Sibilla, che non pronuncia il nome di Maria. Si stupisce che lei non gli faccia domande, che abbia cancellato le grida della notte di Genova. Sibilla vuole che lui sia il solo ad avere davanti agli occhi il viso di quella donna isterica, imbruttito dalle lacrime e dagli urli, la bocca contorta dal dolore. Lascia a lui questa visione, questo rimorso: tutto ciò non la riguarda. Dormono insieme nella camera di Sibilla, in casa di Ambrogio. Boine vorrebbe farle l’amore, ma non ci riesce. Lei non si lascia andare: pensa a Boccioni, a Cascella. Non chiude occhio per tutta la notte. Lui ha la febbre e sprofonda in un sonno pesante. L’indomani mattina Sibilla gli mostra la lettera che ha ricevuto da Cascella. Boine dice: «È bella». Lei si siede alla scrivania e si mette a scrivere. «Gli rispondi?», chiede lui. Lei non dice niente. Annuisce col capo. Lui aspetta e si avvicina a lei, tendendole la mano. Lei gli porge il foglio su cui sono scritti alcuni versi:

211 Anche quest’ore […] quest’ore che vivo di strazio son più generose ancora dell’altre gridanti felicità.

Nel far soffrire Michele ha la sensazione di commettere uno spreco enorme. Pensa che «solo chi fu ferito sa che cosa vuol dire ferire». Boine ridacchia tra sé e sé rendendole la poesia. «Perché ridi?». «Perché questi versi non mi piacciono. Ma mandaglieli lo stesso». Boine torna a letto e chiude gli occhi. «Povero Boine», dice Sibilla a voce alta. «Non voglio la tua compassione», risponde lui. «Hai la febbre, dormi». Sibilla esce dalla stanza e scende a passeggiare nel cimitero che domina il mare. Vi sono roseti, capinere nei cipressi e bottoni d’oro su cui si soffermano i raggi dell’alba. Il vento marino spande il profumo degli aranci. Quando lei torna, Boine non ha più la febbre, è di nuovo sorridente. All’improvviso si mettono a parlare e continuano a lungo, seduti tutti e due all’ombra sulla terrazza. Vedono Ambrogio in giardino. «Ami molto tuo padre, vero?». «Adesso è così lontano da me. Chissà se ci rivedremo». Lo osservano mentre vanga il terreno per piantare delle talee. «Gli devi molto?». «Certo. Devo a lui la disciplina della volontà. Mi hanno attribuito una reputazione di donna disordinata, pigra, incostante, ma in realtà ho lavorato molto. Amavo molto mio padre.

212

È stato il mio primo amore. È lui che mi ha insegnato che la vita non ha una destinazione, che quel che conta è il cammino. È una frase di Lao Tse. Mi ha insegnato che bisogna fare della vita un’opera d’arte. Niente ci è dato. Bisogna sempre creare se stessi. Nel mio caso, Boine, non si tratta di vanità né di amor di gloria. No. Di umiltà. Niente ci è dato. Niente ci spetta di diritto». Ma l’indomani Boine riceveva ancora una lettera di Maria, indirizzata a casa di Ambrogio. Rinunciano al viaggio a Tunisi. Lui torna a Porto Maurizio. Lei resta in clausura nella sua camera di Sanremo. Suo padre, vedendola tanto abbattuta, le dice porgendole una lettera di Boine, una di Cascella e una di Rebora: «Non capisco come tu possa illuderti di riuscire a modificare il carattere di un uomo, a cambiarne il destino». Lei nota il suo sguardo sbalordito, la strana timidezza che tempera il suo accento sprezzante. «Lavora, Rina, lavora», mormora Ambrogio andandosene. Sibilla sente la sua voce che si allontana per le scale: «Non c’è nient’altro che conti. Scrivi la notte, scrivi tutte le notti». Lei si ricorda del consiglio quasi identico che le aveva dato Rodin quando era tornata a trovarlo, dopo la prima visita in compagnia di Aurel: «Dacci la tua opera mentre sei nella tempesta, le chiare architetture del tuo spirito amoroso, le ondate calde del tuo sangue. Compi il tuo poema. […] Non devi piangere, tu, è peccato mortale». E lo scultore le aveva posato le mani sui fianchi da sotto il mantello, come per modellarli.

213

«Piccola, vorrei esser giovine! Hai tanto bisogno di gioia, povera cara. Vorrei esser più giovine». Lei aveva riso per non cedere al torpore che la stava invadendo. La lettera di Boine parlava di una scenata tra sua madre e Maria Gorlero. Poi vennero le lettere di Maria Gorlero, quelle di Rebora. Tutto si faceva sempre più lontano. Boine morì in piena guerra, di tubercolosi, il 6 dicembre 1917. Sibilla gli aveva dato una sua fotografia di quand’era bambina, dopo che avevano parlato di Ambrogio osservandolo lavorare in giardino. La foto di questa fanciulla «troppo seria», «dagli occhi troppo profondi» secondo Boine, le fu restituita nel 1949. Era stata salvata dal fuoco in cui certe suore volevano gettarla insieme alle lettere di Sibilla a Boine. Il frustino uscì nel 1932 e non venne mai ristampato. «Chi lo scoprirà, quando io sarò morta?», si chiedeva Sibilla sul suo diario nel 1950. «Qual posto avrà nella mia “opera omnia” (non rido, non rido)?». Sibilla lo rilesse nel 1950, nel 1957 e nel 1958 senza mai rinnegarlo, anzi riabilitandolo ai propri occhi. Il romanzo segue la realtà molto da vicino, eccetto il fatto che Sibilla sposta la scena dalla Riviera ligure a Capri, e confonde volutamente Boccioni con un altro uomo che l’avrebbe fatta soffrire, ma più di dieci anni dopo il suo amore per Boine: lo spogliarellista, il gigolò mistico Giulio Parise. Le vere lettere sono citate integralmente, senza altro intervento da parte dell’autrice che la sostituzione dei nomi. Il romanzo si chiude sulla visione di Cuma, unica allusione al nome d’arte della sua autrice. Le ultime parole che Boine le aveva scritto erano: «Sera, dolce sera mia».

214

Dopo la loro rottura, rifugiatasi ad Assisi, Sibilla scrisse questi versi: Son tanto brava lungo il giorno Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad aver orgoglio, quasi fossi un uomo. Ma, al primo brivido di viola in cielo Ogni diurno sostegno dispare. Tu mi sospiri lontano: «Sera, sera dolce e mia!». Sembrami d’aver fra le mani la stanchezza di tutta la terra. Non son più che sguardo, sguardo perduto, e vano.

215

14

Le due cose d’oro

Nel novembre del 1917, due mesi prima di essere internato nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, vicino a Firenze, dove morirà di setticemia quattordici anni dopo, il 1° marzo 1932, Dino Campana cercava un appoggio qualsiasi contro Sibilla Aleramo. Lo trovò in Giacinta Papini, alla quale scriveva: «Sappia Signora che sui ventini di nichel c’è il ritratto (capelli fronte e tempie) di una certa signora più fredda tremendamente e materialmente gelida del metallo stesso. Questa signora scaldata al fuoco dell’incesto, della lussuria sfrenata e dell’assassinio sadico dei fanciulli e dei malati è quella che il mio amico De Robertis giustamente incolpò della degradazione poetica di Cardarelli Cecchi e Cena in un articolo sulla Voce del 1915. Questa carogna è piombata su me come la collera di Dio e mi ha lasciato distrutto dall’orrore per più di un anno, e ora dopo essersi divertita della mia agonia per tanto tempo mi circuisce e sta per ricadermi addosso e mettermi ancora nel suo letto dove accanto all’assassina io mi alzerò con orrore a un tratto nella notte». Sibilla aveva scritto per la prima volta a Campana il 22 luglio 1916. Si trovava dai Luchaire, nella campagna toscana. Vissero insieme dall’agosto del 1916 al gennaio del 1917, separando-

216

si e ritrovandosi continuamente. Nel settembre del 1917, due mesi prima di scrivere questa lettera piena di delirante rancore, Campana era stato arrestato e rilasciato grazie a Sibilla, che lo aveva abbandonato ormai da nove mesi. «Morirò senza aver raccontato, risuscitato, il nostro amore?», si chiederà Sibilla alla fine della sua esistenza. Nel 1958 pubblicherà comunque la loro corrispondenza. Sibilla stava per compiere quarant’anni e Dino Campana trentuno. Erano nati quasi lo stesso giorno: lei il 14 agosto, lui il 20. Non compreso dal padre, un maestro elementare che fin dall’adolescenza l’ha fatto torturare dagli psichiatri, Dino ha già conosciuto manicomio e prigione: nel 1906 a Imola, nel 1909 a Firenze dopo un viaggio in America latina, nel 1910 a Tournai, in Belgio. Alla fine del 1913 quando era studente di chimica, aveva dato ad Ardengo Soffici e a Papini, allora direttori di «Lacerba», il manoscritto dei Canti orfici, che il primo perse durante un trasloco. Campana li riscrisse interamente e li pubblicò nel 1914. Quando Sibilla gli scrive, Dino è di nuovo a casa del padre. Lei non ignora le sue condizioni mentali. Boine conosceva Campana almeno dal 1913. Infatti, nel fascicolo delle lettere da lui scritte a Sibilla se ne trova per caso una indirizzata a Campana in quell’anno. Nell’agosto 1915 Boine ha dedicato una delle sue recensioni sulla «Riviera Ligure» ai Canti orfici. Lui e Sibilla devono aver necessariamente parlato del giovane poeta pazzo. Benché Sibilla e Boine si fossero separati già da diversi mesi, non è possibile che lei non fosse al corrente già da prima dell’interesse che Boine nutriva per Campana. Del resto tutta l’intellighenzia fiorentina conosceva già da diversi anni questa figura originale di poeta, alto e con la barba rossa. Giuseppe De Robertis è il primo ad aver scritto su Campana, sulla «Voce», di cui è il direttore, nel dicembre del 1914. Non

217

è dunque un caso che Campana faccia il nome di De Robertis nella lettera a Giacinta Papini. In effetti il critico aveva stroncato le poesie di Sibilla apparse sulla «Nuova Illustrazione», definendole «lirica chic». Sibilla gli aveva risposto subito animosamente, su quel tono altero di orgoglio ferito di cui solo lei possedeva il segreto e che di solito annientava l’avversario grazie alla sua nobiltà. Fu infatti così anche per De Robertis, che le rispose pietosamente: «Stringiamoci la mano e facciamo pace in tempi di tanta guerra», precisando però: «Io ho antipatia per questa poesia che pare abbia superato chi sa quanto ben di Dio, ed è rimasta ancora a un sensualismo chiuso a cui si vuol dare significato di alta moralità». Sibilla lo invitò a cena. Non si può dire d’altronde che De Robertis avesse capito subito l’importanza di Campana, del quale si contentava di lodare le «semplici armonie», in contrasto con il decadentismo allora imperante, ancora sotto l’influenza carducciana. Da parte sua Boine, a cui Campana dedicherà il suo poema in prosa Arabesco-Olimpia, evocazione di un soggiorno a Berna, dell’Olimpia di Manet e della capanna di Cézanne («Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù?»), Boine dunque parla subito di follia e di psichiatria, di «poesia allucinata», «atmosfera d’ansia», «disperazioni d’irrealtà», «perdizione» e «disradicamento». Durante tutto il periodo che Campana passerà in manicomio, verrà sempre più consolidata la tesi di un Rimbaud italiano. È chiaro che questa affinità, accentuata dai viaggi di Campana (l’America latina invece dell’Abissinia), dai suoi rapporti conflittuali con la famiglia e dalla sua somiglianza fisica con Verlaine (occhi piccoli e distanti tra loro, volto pallido e schiacciato, barba e capelli ispidi e rossi), aveva già un certo peso quando Sibilla si innamorò di lui.

218

È dunque durante l’inverno del 1913-1914, mentre Sibilla si trova a Parigi, ancora presa da Boccioni, che Campana si rivolge a Giovanni Papini. I due si incontrano dall’editore Vallecchi che pubblica la rivista «Lacerba», fondata nel 1913. Grazie all’appoggio dei futuristi, soprattutto Marinetti e Boccioni, la rivista avrà un’influenza considerevole. Il titolo, trovato da Soffici, si riferisce a una poesia scritta da Cecco d’Ascoli contro Dante: L’acerba, la vendicativa, ma anche la giovane, la verde, l’immatura. Apollinaire, Max Jacob, Mallarmé, Lautréamont vi saranno tradotti. Picasso fornirà dei disegni. Ecco come Papini descrive Campana: «Un uomo giovane, di una venticinquina d’anni, tarchiato, con capelli e barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color roseo, illuminata da un paio d’occhi celesti, che sprimevano a un tempo sincerità e timidezza. […] Privo di un qualsiasi soprabito che lo riparasse dal gran freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava a un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simile a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pecorai di mezzo secolo fa, i piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe ercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d’un tessuto incredibilmente leggero, giallastro, a fiorellini azzurri e rosei». Quando Soffici e Papini gli chiedono cosa vuole, Campana risponde «con voce esile e lamentevole» che desidera il loro parere sulle proprie poesie. Dice il suo nome e quello del paese da dove viene, Marradi. Poi porge a Papini un vecchio taccuino per i conti pieno di «brani di canzoni, note di viaggio e antiche operazioni aritmetiche cancellate». Papini e Soffici lo leggono qualche giorno dopo e decidono di prendere Campana come collaboratore. Ma il tempo passa. Campana è introvabile. Poi ricompare e si lega al gruppo di intellettuali che frequentano le «Giubbe rosse».

219

Nella primavera del 1914, scrive a Soffici per riavere il suo manoscritto. Soffici si accorge costernato di averlo perso. Campana è convinto che sia stata la polizia a farlo sparire. E risponde a Soffici in francese: «Sale nègre, je viendrai à Florence avec un bâton pour vous casser la tête. Écrivez-moi si votre lâcheté vous permet de me donner un rendez-vous pour ça. Merde macaroni»1. Scrive anche a Papini per avvertirlo che andrà a Firenze con un «acuminato coltello». Ma, nel frattempo, avrebbe riscritto i Canti orfici a memoria, dettandoli al segretario comunale di Marradi. Ne prepara poi la pubblicazione a proprie spese, presso l’editore Ravagli di Marradi. Il libro è pronto alla fine di luglio del 1914. In ottobre Campana annuncia a Soffici il suo ritorno a Firenze in una lettera cortese, mondana e distaccata: «Egregio Soffici, sono veramente contento che il mio libro abbia svegliato la simpatia di un’anima moderna come la sua. Questo mi basta assolutamente e mi incoraggia davanti a me stesso per aver saputo conservare la mia personalità spirituale attraverso le miserie e tutte le brutalità». Nell’inverno del 1914-15, Campana vende il suo libro ai tavoli dei caffè di Firenze. Considera con lo sguardo i propri clienti e, se non li ritiene degni di capirle, strappa le pagine che giudica troppo elevate per la loro lettura. Papini gli propone allora di collaborare a «Lacerba», ma lui rifiuta: «Con tutta la stima che ho verso di loro mi sembra che Lacerba non abbia alcuna intenzione di assumere un carattere letterario: è dunque un inutile disturbo che loro si prendono quello di restare in certo modo legati a un ignoto e compromettente poetucolo della mia specie».

1.  «Sporco negro, verrò a Firenze con un bastone per rompervi la testa. Scrivetemi se la vostra vigliaccheria vi permette di darmi un appuntamento per questo. Italiano di merda».

220

Compromettente perché è sorvegliato dalla polizia. Irritato dal patriottismo e la xenofobia dominanti, ha infatti messo come sottotitolo dei Canti orfici: Die Tragödie des letzten Germanen in Italien (“La tragedia dell’ultimo germano in Italia”) e ha dedicato il suo libro a «Guglielmo II imperatore dei germani». Papini non gli perdonerà mai questo rifiuto. Forse, del resto, già non gli aveva perdonato di aver messo in rilievo l’indifferenza sua e di Soffici. Essi avevano infatti commesso la più grave negligenza che si possa immaginare nei confronti di un poeta: avevano perso il suo manoscritto. Papini scriverà nel 1948, in Passato remoto: «Dino Campana resterà, credo, nella storia della nostra poesia del Novecento ma, passate le smanie della moda, in un cantuccio assai più appartato di quello che vorrebbero assegnargli gli aficionados dei nostri giorni». Profezia piena di acredine e naturalmente sbagliata, che può far sorridere se si pensa alla relativa oscurità che avvolge oggi le opere di Papini rispetto al costante successo di quella di Campana, ripubblicata da Vallecchi nel 1928, poi dallo stesso editore nel 1941, 1952, 1960, 1962, 1966, 1972, 1973, 1985, 1990, o da altri editori in ristampe anastatiche e in numerose edizioni tascabili (Bompiani, Einaudi, Raffaelli, ecc.); per non parlare delle pubblicazioni di inediti, dei quaderni, delle lettere e dei numerosi saggi e biografie che gli sono stati dedicati. Nel maggio del 1906, quando Campana ha ventun anni, dietro consiglio del commissario di polizia di Firenze che lo ha trovato «alquanto squilibrato di mente», il padre lo porta per la prima volta da uno psichiatra, secondo il quale Dino presenta una «forma psichica a base di esaltazione». Dopo non esser riu­ scito a superare un esame di chimica all’università di Bologna, Campana ha fatto una fuga in Svizzera e in Francia, ed è stato arrestato a Genova. Fa un’altra fuga in agosto. Viene arrestato in Francia, rimpatriato e internato di nuovo: la sentenza è

221

«demenza precoce». Gli vengono tolti i diritti civili. Inevitabilmente ormai farà soggiorni intermittenti in manicomio, ma verrà regolarmente dimesso. Dopo aver tentato di dipingere per qualche anno, si imbarca a Genova per l’Argentina nel settembre del 1907. Nell’aprile del 1909 è di ritorno e viene internato a Firenze per quindici giorni. Nel febbraio del 1910, durante un viaggio in Belgio, viene rinchiuso nell’«Asile des Hommes Aliénés» di Tournai, «essendo affetto da una malattia caratterizzata dai sintomi seguenti: degenerazione mentale, carattere squilibrato, tendenza alla pigrizia, al caffè, all’alcolismo»; in giugno viene rimpatriato. Suo padre tenta di farlo internare nel manicomio di Imola, ma il direttore rifiuta, non trovando alcun segno vero e proprio di alienazione mentale. Dopo aver ripreso gli studi di chimica a Bologna, pubblica sul «Papiro», un giornaletto studentesco, la sua prima poesia, Montagna, prima versione di quella che diventerà poi, nei Canti orfici, La chimera: Tu tra le rocce il tuo pallido Viso traente al sorriso Da lontananze ignote: Tu ne la china eburnea Fronte fulgente o giovane Suora della Gioconda.

Soffici, Papini, Marinetti e lo stesso Boccioni avevano organizzato per il 25 novembre 1913, prima dunque della pubblicazione dei Canti orfici, un’esposizione futurista nella libreria di Ferrante Gonnelli, al numero 48 di via Cavour. Campana rivela con la sua schiettezza l’atteggiamento infantile e piccolo-borghese delle loro provocazioni affettate. (Per esempio, «Lacerba» aveva pubblicato un supplemento intitolato «Almanacco purgativo», che aveva come motto la frase di Rabelais: «Mieux est de ris que de larmes escripre» e si proponeva di far piazza pulita degli innumerevoli pregiudizi, luoghi comuni e idee

222

preconcette che, con la loro serietà e il loro convenzionalismo, opprimevano e mortificavano lo spirito come erbacce e parassiti; Soffici aveva battezzato uno dei suoi quadri Tarantella dei pederasti). Di fronte a questo poeta anarchico, le loro facezie da studentelli non reggono. I futuristi tentano dunque di ignorarlo, come un vagabondo importuno. Dopo l’uscita dei Canti orfici Campana fugge dalla polizia in Sardegna, torna a Torino, riparte per la Svizzera. Nel maggio del 1915, quando l’Italia entra in guerra, tenta di arruolarsi come volontario, ma viene riformato e rimandato a Marradi. Nel giugno del 1916, Dino sfida a duello il direttore del «Telegrafo», un quotidiano di Livorno. Tutto è cominciato alla fine di maggio, quando passeggiando per il cantiere navale, nell’atmosfera d’isteria antitedesca in cui vive l’Italia (i muri delle città sono tappezzati di manifesti che mettono in guardia la popolazione contro «lo straniero»). Campana ha chiesto un’informazione a due passanti. Il suo aspetto eccentrico le ha spaventate. Si sono rivolte alla polizia che, sospettandolo di diserzione, lo ha arrestato. Lo zio Francesco, procuratore a Pisa, è costretto a spiegare che Dino è stato riformato per turbe psichiche e nefrite. Il giorno dopo, un trafiletto evoca l’incidente definendo ironicamente Campana «poeta germanico». Campana, che nel frattempo è tornato a Lastra a Signa dal padre, manda una lettera piena d’ingiurie al direttore del «Telegrafo», autore dell’articolo, invitandolo a battersi. Il direttore trova due testimoni. Campana sceglie da parte sua un amico scultore e un pittore giapponese, Takeda. Ma lo scultore si tira indietro all’ultimo momento e il duello non ha luogo. Durante il mese di luglio, Campana incontra una giovane russa di nome Anna, soprannominata la «Nino»: una stravagante georgiana, affittacamere, attrice e ballerina, spesso ubriaca,

223

che frequenta le «Giubbe rosse». Dino abita allora al Barco, vicino a Rifredo. Il 3 agosto 1916, quando riceve la visita di Sibilla, si trova dunque nelle montagne del Mugello, vicino a Firenze. L’uomo che Sibilla amerà è dunque stato diverse volte in manicomio e in prigione. È entrato in conflitto con quelli che erano stati gli amici di Sibilla: Soffici, Papini, Cecchi e persino Prezzolini. Quest’ultimo, scandalizzato dal disordine della vita sentimentale di Sibilla, l’ha appena definita (a sua insaputa, naturalmente) «lavatoio sessuale della letteratura italiana». Lei si è legata infatti, alla fine del 1915, a Fernando Agnoletti, uno scrittore della sua età conosciuto attraverso la «Grande Illustrazione». Agnoletti ha letto l’inizio del Passaggio e ne è rimasto sedotto a tal punto che, nonostante avesse una moglie, un’amante inglese e tre figli, è andato a vivere con lei in una pensioncina scandinava di Borgo de’ Tintori, a Firenze. Agnoletti le ispira una poesia, Il mio sangue: Il mio sangue, ho sentito il mio sangue cantare, un’ora – e il tuo gli rispondeva…

Sibilla lavora qualche mese come traduttrice all’Istituto Francese di Firenze. Non appena Agnoletti è stato chiamato alle armi, lei si è legata a un poeta di sedici anni, Raffaello Franchi, che proverà per lei, prima di affermarsi egli stesso in campo critico e letterario, un amore durevole. Lui è follemente innamorato. Lei si sente «commossa del suo fervore, del suo candore, della sua devozione». Franchi aveva pubblicato una raccolta di poesie, Ruscellante. Si innamorò di Sibilla che, senza sapere bene perché, accettò il suo amore pur senza corrisponderlo. Vivono insieme fino al maggio del 1916, a Firenze, poi a Milano, dove Sibilla continua il suo lavoro di traduttrice per l’Isti-

224

tuto Francese. È uno dei rari periodi della sua vita in cui riceve uno stipendio fisso e deve andare in ufficio tutte le mattine. Ha come collega Massimo Bontempelli, che rivedrà durante la seconda guerra mondiale. Raffaello Franchi l’aiuterà soprattutto quando, in seguito all’attentato di Zaniboni, Sibilla avrà delle noie col regime fascista; potrà farlo grazie al prestigio di «Solaria», di cui lui è il padre spirituale. La rivista, che nascerà nel 1926 a Firenze e avrà un ruolo analogo a quello della «Nouvelle Revue Française» a Parigi, ospiterà testi di Proust, Joyce, Thomas Mann. In compenso, nel 1930, Franchi ironizzerà sulle prose di Sibilla, Gioie d’occasione, osservando che il posto della donna è vicino al focolare e da lei non ci si deve aspettare nient’altro che un «gorgheggiar casalingo». Quando Campana riceve la prima lettera di Sibilla, allora ospite dei Luchaire nella campagna toscana, assume un atteggiamento di diffidenza. Avverte subito Cecchi: «Sibilla mi scrisse: cosa vuole? Risposi evasivamente». Come risulta dalla risposta di Campana, Sibilla gli parlava nella sua lettera (che è andata perduta) di Whitman e di San Francesco (era appena tornata, infatti, da un nuovo soggiorno ad Assisi). Campana le dice: «Finita la guerra non esisterò più ammesso che esista ancora». Poi le scrive nel suo francese strampalato: «Aimeriez vous de vivre un peu sous la tente? Je vous remercie de vos bontés. Je vous renverrai vos belles articles! Ce qui m’a le plus touché a été le souvenir de votre enfance. Comme je vous aime quand vous écrivez cela! Je vous baise les deux mains. Votre Cloche»2.

2.  «Vi piacerebbe vivere un po’ sotto la tenda? Vi ringrazio della vostra gentilezza. Vi rispedirò i vostri begli articoli! Ciò che mi ha più toccato è il ricordo della vostra infanzia. Quanto vi amo quando scrivete quelle cose! Vi bacio le due mani. Vostro Campana».

225

A questo invito Sibilla risponde: «Non sono più giovane, lo sapevate? Però ancora buona camminatrice». Il 30 luglio 1916 Campana le scrive: «Vous me reconnaîtrez à ma tête rousse et à une lettre à la main que j’aurai. […] Ma bonne Sibille, je ne saurais jamais vous être agréable à Marradi. C’est un pays où j’ai trop souffert et quelque peu de mon sang est resté collé aux rochers de là-haut»3. Sibilla risponde: «Forse resterò anche la sera – siamo poeti notturni, le stelle ci propizieranno l’avvenire». Sibilla lascia dunque Borgo San Lorenzo, dove abita presso i Luchaire, e lo raggiunge a Rifredo di Mugello. Probabilmente a Sibilla era capitata tra le mani la copia dei Canti orfici di Raffaello Franchi, e così ne era venuta a conoscenza. Infatti Campana aveva venduto il suo libro al giovane poeta al caffè delle «Giubbe rosse» e dopo, secondo le Memorie di Franchi, si era lanciato in una diatriba contro Machiavelli e Rimbaud, «traviatori dei giovani», e naturalmente contro Papini e Soffici. Dino e Sibilla si incontrano dunque la mattina del 3 agosto 1916 al Barco, lungo la strada. Sibilla è arrivata con l’automobile della posta. Si è alzata molto presto, alla villa La Topaia. Maria Luchaire, che la conosce dall’inverno del 1911-12 e ha assistito in meno di cinque anni alla sua lunga sequela di amori – Cardarelli, Papini, Joe, Gerace, Boccioni, Agnoletti, Franchi – è spaventata, come tutta Firenze, per questa sua nuova passione, e considera Campana un povero vagabondo malato di mente. Con i suoi amici francesi, ha tentato un gioco di

3.  «Mi riconoscerete dai capelli rossi e da una lettera che avrò in mano. […] Mia buona Sibilla, non potrei mai piacervi a Marradi. È un paese in cui ho troppo sofferto e un po’ del mio sangue è rimasto appiccicato alle rocce di lassù».

226

parole sul suo nome: quando Campana (che si firma egli stesso «Cloche», francesizzando il proprio nome) viene a Firenze, non dorme forse «à la cloche», al ricovero dei senzatetto? Ma Sibilla, col suo tono altezzoso e la sua aria patetica, non vuol sentire ragioni. Legge a voce alta nel salotto dei Luchaire la poesia che Campana ha scritto in francese, o che forse ha preso in prestito a un poeta sconosciuto: Tombé dans l’enfer Grouillant d’êtres humains O Russe tu m’apparus Soudain, célestial…

«Célestial?», mormora Maria in tono dubitativo. «Sì, non si dice célestial in francese?». Disarmata dall’espressione d’angoscia comparsa sul volto di Sibilla, Maria batte in ritirata: «Dopo tutto, può darsi… sono così ignorante». «Soudain, célestial», riprende Sibilla, Parmi de la clameur Du grouillement brutal D’une lâche humanité Se pourrissante d’elle-même.4

«Se pourrissante»! protesta Luchaire. «Va be’, una licenza poe­ tica!». «Non avete il diritto di prendervi gioco di lui!», esclama Sibilla adirata. «Il suo cuore è musico, e le parole sono i suoi strumenti!». «Peccato però che non li sappia suonare!», sussurra Luchaire alla moglie. 4.  Caduto nell’inferno / Brulicante di esseri umani / O Russo mi apparisti / All’improvviso, celestiale / In mezzo al clamore / Del brulichio brutale / Di una vile umanità / Che si putrefà da sola.

227

Sibilla, che non ha sentito, lascia il salotto e sale in camera sua. «Sibilla!», la chiama Maria, «Sibilla, non se la prenda». E la segue per le scale. Dal pianerottolo del primo piano Sibilla risponde: «Siete tutti uguali. Vi piacciono solo i poeti da salotto. È un poeta selvaggio, lui. Selvaggio! A voi i poeti piacciono solo da lontano». «E a lei un po’ troppo da vicino», conclude tra sé Luchaire sorridendo. Sibilla non ha dormito per tutta la notte ed è partita da sola all’alba. Unica passeggera dell’automobile postale, recita, come se stesse sgranando un rosario, poesie di Campana che conosce a memoria: Ne la nave Che si scuote, Con le navi Che percuote Di un’aurora Sulla prora Splende un occhio Incandescente: (Il mio passo Solitario Beve l’ombra Per il Quai) Ne la luce Uniforme Da le navi A la città Solo il passo Che a la notte Solitario Si percuote Per la notte Dalle navi

228 Solitario Ripercuote: Così vasta Così ambigua Per la notte Così pura!

«Cosa fa, prega?», le chiede l’autista, seduto vicino a lei. Il frastuono assordante del motore copre la voce dell’uomo. Si sente solo il soffio ritmato della filastrocca salmodiata da Sibilla. Sul ciglio della strada, Sibilla scorge la figura di Dino Campana. Fa già molto caldo. Lui è seduto su una pietra miliare all’entrata del paese. Tiene tra le mani una lettera. Porta una vecchia camicia ingiallita aperta sul petto e un paio di pantaloni polverosi. Ha le scarpe sciolte e scalcagnate. I capelli ispidi e una folta barba. I suoi piccoli occhi azzurri, a mandorla e distanti tra loro, si illuminano quando vedono Sibilla che scende nella nuvola di polvere sollevata dal vento leggero d’agosto. Campana la osserva senza sorriderle; poi, continuando a fissarla, va a consegnare la sua lettera all’autista che sta scaricando dalla macchina una valigetta di pelle appartenente a Sibilla. Lei lo ringrazia, cercando qualche moneta in una borsetta di velluto ornata di perle multicolori. «Al suo servizio, Signora», risponde l’autista prendendo il denaro. Poi le sussurra: «Allora, era lui il dio che stava pregando?». Ma Sibilla non ha sentito. Solleva la sua valigia con tutt’e due le mani e si dirige verso Dino Campana, mentre la vettura della posta riparte. Sibilla aspetta palesemente che Campana le prenda il bagaglio, ma lui non ci pensa nemmeno. Continua a guardarla con un misto di diffidenza e meraviglia. Lei è vestita di bianco, porta un cappello di paglia ornato di trina e un

229

paio di stivaletti ricoperti di seta, scomodi per la stradina sassosa che scende verso una casupola tra i campi. «Questo non è un luogo adatto a voi», dice Campana. Sibilla sorride senza rispondere. Lui procede spedito davanti a lei, senza curarsi delle sue difficoltà a camminare per il sentiero  sotto il sole cocente, nella polvere, tutta carica di bagagli. «Chi è la gente da cui abitate? Francesi? Mi piaceva la Francia. Ma la polizia francese non mi piace. È in combutta con quella italiana. Preferisco la polizia tedesca». Campana scoppia a ridere e spia l’effetto prodotto su Sibila da questa provocazione. La vecchia casupola di pastori in cui abita si erge ai piedi di un boschetto di pini e domina il villaggio, al di là del quale si stagliano alte colline. Campana entra prima di lei senza guardarla e dice: «Avete fatto bene a non mandarmi la vostra fotografia». Sibilla, interdetta di fronte all’estrema povertà dell’arredamento rudimentale (un pagliericcio, uno sgabello, un tavolo e una sedia davanti a una finestra da cui si vede la campagna dolcemente ondulata nella luce lattea del mattino), non risponde. «Siete troppo bella per me. Me lo avevano detto, ma non lo avevo creduto. Ah, pauvre Cloche! Vous êtes trop belle!». Sibilla si è seduta sul piccolo sgabello vicino alla testa del letto. Posando la sua valigetta già tutta polverosa, nota alcune rose in un bicchiere di vetro spesso posato per terra. Si scioglie il cappello e scopre la sua chioma bionda. Qualche ciocca le cade sulle spalle. Dino la guarda di nuovo. «Siete veramente molto bella». E ride nervosamente, maneggiando una penna e un astuccio che si trovano davanti a lui.

230

«Non siete come la Russa». Sibilla lo osserva di spalle, senza che lui se ne accorga. È rimasta sbigottita di fronte alla singolarità di Dino Campana e la decisione che ha preso di venire a trovarlo al Barco le mette adesso l’angoscia. «Non mi dà pace, la Russa, ed io sono tanto stupido da cedere, da andare a trovarla. D’altronde, ognuno ha gli ammiratori che può. Ah, ah!». Si alza, sempre voltando le spalle a Sibilla. «Sarebbe capace di venire a bussare alla porta. Ci ha forse spiati. Povera idiota!». E si volta verso Sibilla che è sempre seduta con le mani giunte e gli occhi abbassati. «Voi, invece, siete una bambina». Sibilla alza gli occhi verso di lui. Ha in effetti uno sguardo candido e scintillante. «Avete occhi da bambina», dice Campana avvicinandosi a lei. «Capelli da bambina. Carnagione da bambina. È per questo che avete compreso le mie poesie, non è vero?». All’improvviso assume una voce dolce e serena. Si siede per terra vicino a lei e le prende delicatamente le mani. «Le vostre lettere mi hanno fatto tanto piacere, Sibilla». Senza una parola, Sibilla estrae dalla valigetta di pelle una fotografia che porge a Campana. «Chi è questa fanciulla?», domanda lui. Guarda alternativamente il ritratto della scolaretta col grembiule e Sibilla: «Siete voi? È Sibilla? È la vostra sola fotografia?». «Leggerai Una donna», risponde infine Sibilla. «Così capirai». «Ah, sì, il vostro libro», mormora Campana. «Scusatemi, ma non potevo andare a Firenze. Non ho altro che nemici nelle cit-

231

tà. Soprattutto a Firenze. Basta ormai che faccia due passi per strada. Mi credono tedesco. Mi credono una spia dei tedeschi. Mi arrestano, poi mi rilasciano». Si alza tutto agitato, stringendo la foto in pugno. Esce dalla porta, che era rimasta socchiusa, e continua a parlare al di là della soglia, quasi urlando. «Dicono che sono pazzo. Sibilla, dicono che sono pazzo!». Poi torna nella stanza. «Ditemi che è falso. È falso, non credete? I pazzi sono gli altri. Dov’è tutta la loro ragione, in questa guerra assurda che stanno facendo?». «Campana, ho già protestato contro la guerra, cinque anni fa. Contro la guerra con la Turchia. La guerra non è una creazione della donna. La guerra viene decisa sempre contro la volontà delle donne. Il giornalismo patriottico definisce questo momento “l’ora virile”. Ma quest’ora virile, come dicono grottescamente, è semplicemente un’ora in cui tutti credono di poter fondare il bene sul male, l’eroismo sulla viltà, la speranza sulla sciagura. C’è in ognuno di noi, Campana, un odio istintivo, celato, misterioso per la nostra pace, un odio che ci porta a soffrire e a far soffrire. La donna tenta di appagare quest’odio nella vita personale, l’uomo nel mondo. La visione della guerra non esalta mai una donna. Ma esalta la maggior parte degli uomini, anche i disertori. È questa, Campana, la follia che si maschera dietro la loro “ragione”». Lui l’ha ascoltata, muto e immobile sulla soglia. «Sibilla, ho letto quello che avete scritto sulla “Grande Illustrazione” a proposito della guerra». «Ah, lo avete letto!». «Il titolo era ironico». «Ironico? Lavorando lana? Può darsi, se lo dite voi. Ma non ho molto senso dell’ironia».

232

«Il vostro articolo non era ironico, ma il titolo sì. Chi è il ragazzo di sedici anni di cui parlate alla fine?». Sibilla si alza portandosi una mano alla bocca e guardando di lato. Esce dalla casa e fa qualche passo nel bosco, seguita da Campana. «Chi è quel ragazzo. Sibilla? È dunque vero quel che mi hanno detto, che amate un ragazzo di sedici anni, un poeta? Dunque è lui il vostro Rimbaud, e non io!». Sibilla si volta di scatto e fissa Campana con grande determinazione. «È un bambino, Campana. In questo momento soffre. Io ho accettato di farlo soffrire. L’ho abbandonato per voi». «È dunque vero, quello che dicono. Che amate gli uomini per abbandonarli». «Campana, ti proibisco di ascoltare quel che la gente dice di me. Quel bambino aveva bisogno di scoprire la vita. Per lui è stato come un terremoto, un naufragio. Bisogna soccorrere i naufraghi. Io gli ero vicina, ho sentito la sua voce. Potevi averla sentita tu. E allora anche tu, come me, l’avresti aiutato». «Io sono il naufrago», mormora Campana. Lei gli prende le mani, poi lo stringe contro di sé. «Siamo tutti naufraghi, Campana». «Tu non puoi saperlo». Lei lo sente singhiozzare contro il suo petto. Gli carezza la nuca. Lui si allontana leggermente da lei e le copre il viso di baci. Lei chiude gli occhi; le tremano le labbra. Lui la conduce nella casetta. Si stendono sul pagliericcio. Lei apre la camicia di Campana e posa la guancia sul suo ventre. Lui le passa una mano tra i capelli e li scioglie. «Prima un bambino, poi un pazzo», le dice. «Prendi quello che la guerra ti lascia…».

233

Lei alza gli occhi verso di lui. Vede il suo petto coperto di una leggera peluria rossa. Solo i suoi occhi azzurri scintillano in una foresta infuocata. «Sei venuta a trovare la bestia nella sua tana, eh?». La perplessità in cui la relazione di Sibilla con Campana lascia tutta Firenze è evidentemente legata ai numerosi scandali provocati dal poeta. È stato soprannominato «l’uomo dei boschi». Lasciando la villa dei Luchaire per venire al Barco, in questo paesino degli Appennini toscani, Sibilla ha ritrovato un fratello. Il 5 agosto 1916, due giorni dopo essersi incontrati, Campana le dedica un esemplare del suo libro: «Con cuore fraterno». Che cosa è avvenuto fra loro in quei due giorni? E che cosa avverrà più tardi? Si separano il 6 agosto. Sibilla gli scrive subito: «I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo». Gli lascia una sciarpa azzurra, che «ti aiuta a portare i tuoi sogni». E in questa prima lettera dopo l’amore, Sibilla scrive ancora: «Tremo per te, ma di me son sicura». Hanno sicuramente parlato del loro compleanno, perché Sibilla precisa: «Verrò il 19, dovunque. Il 14 resterò qui». Il 19 è la vigilia del trentunesimo compleanno di Dino. Il 14, la data del quarantesimo compleanno di Sibilla. Hanno parlato della follia e dell’infanzia di Sibilla. Adesso Campana ha letto Una donna e conosce l’importanza che riveste nella vita di lei il terrore della follia. Lei è al corrente, da parte sua, della reputazione di Campana. Lui le rivela che anche un suo zio era pazzo. Da dove le deriva questo sentimento fraterno nei confronti di Campana? Prima di tutto, naturalmente, dalla lettura dei Canti orfici e dalla loro evocazione della figura di San Francesco. Sibilla ha infatti passato ad Assisi alcuni mesi d’angoscia dopo la

234

rottura con Cascella e Boine, prima dell’incontro con Franchi. Campana scrive a proposito del proprio pellegrinaggio alla Verna: «Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano». I Canti orfici contengono anche un poema in prosa di cui Sibilla si ricorderà al momento dell’affare Zaniboni: «Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cime, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca». La prosa di Campana possiede d’altronde il lirismo sensuale delle pagine a cui lei lavora da sei anni per Il passaggio. Sibilla scrive per Campana: Chiudo il tuo libro, snodo le mie treccie, o cuor selvaggio, musico cuore… con la tua vita intera sei nei tuoi canti come un addio a me. Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo, liberi singhiozzando, senza mai vederci, né mai saperci, con notturni occhi.

A questa poesia scritta al Barco succede immediatamente un’altra, Fauno: Lontane dal mondo, quercie, rade nel sole d’agosto, acque fra sassi,

235 lontane dal tempo, e tu dorato ridi, tu alla bianca mia spalla tu alla verginea sua musica gioia dagli occhi ridi.

Parlano della follia, dell’infanzia. Hanno la timidezza di casti amanti fatti l’uno per l’altra senza essersi mai incontrati. Lui la chiama Rina. Sopprime il nome di Sibilla. Lei accetta questo nuovo battesimo e nelle lettere si firma «Rinetta». Non faranno più l’amore. Non vale a niente che tutti la mettano in guardia. Dopo i primi tre giorni e le prime tre notti d’amore passate con la sua «bella belva bionda» sull’«altipiano deserto», Sibilla crede di aver trovato il primo uomo degno del suo amore e degno di amarla. Non appena si son separati la prima volta, il 7 agosto, lei gli scrive dalla villa dei Luchaire a Borgo San Lorenzo: «T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente», «stasera mi sembra che mai io mi sia sentita davanti all’amore una così piccola cosa oscura». L’indomani scrive la poesia intitolata Fauno. Culla l’idea di partire con lui. Ordina immediatamente Una donna per lui a Torino. Lontana da lui, si sente nei suoi confronti una petite bourgeoise. L’8 agosto afferma di aver lasciato Raffaello: «Ne ho fatto un uomo». Il 9 agosto Sibilla scrive a Campana: «Bruceremo». Il 17 agosto, Campana le scrive: «Come amo la povertà delle cose quassù che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza». Si incontrano di nuovo verso la fine d’agosto e poi all’inizio di settembre. Nel 1929, quando Campana è ancora vivo, Sibilla scriverà sul suo diario dopo l’incontro con un ragazzo che gli assomiglia:

236

«Tutta la sera m’è ondeggiata alla memoria l’immagine di lui, della sua pazzia, e quell’altipiano deserto, in quelle prime poche notti estive del nostro amore che son rimaste le più pervase d’infinito ch’io abbia vissuto». Il 19 settembre Dino Campana, che è restato tra le montagne mentre lei è tornata a Firenze, le dà del voi. Le chiede di procurargli delle traduzioni. Lei gli risponde: «Ti amo, Dino, mio Dino, nome d’argento, ti aspetto, sentimi». Tre giorni dopo, Dino le confessa di canticchiare come un ritornello il primo verso del sonetto di Cena dedicato al battesimo di Rina in Sibilla: «Io la scopersi e la chiamai Sibilla». Il 3 ottobre Campana le scrive una cartolina da Pisa in cui le dà di nuovo del voi. Lo stesso giorno, Sibilla scrive a Emilio Cecchi per confidargli la propria disperazione di fronte alla follia di Campana. «Bisogna che senta altri cuori oltre al mio che lo voglion vivo». Il 14 ottobre lo raggiunge a Pisa. Fa una cura contro l’artrite ai Bagni di Casciana. Dopo averle scritto «perdonami, perdonami o abbandonami […] Rinetta rinetta aspetta il tuo amore che soffre addio», Campana le dà della troia in una cartolina a Boine che lei intercetta. Sibilla prende del veronal per dormire. Alla fine di ottobre del 1916 scrive a Campana: «La tua amica, la tua bambina, il tuo amore». Lui le risponde: «Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa saprebbe baciare il tuo corpo di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa. Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla – e senti la mia infinita desolazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia. […] L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora».

237

Lei gli scrive: «Dobbiamo vincere. Un male di quindici anni, tu mi hai detto… Sì, e anche per me. Sono quindici anni che son partita da mio figlio». Per la prima volta, paragona la follia di Dino all’abbandono di Walter. Si rivedono a novembre a casa della svedese Astrid Ahnfelt. Sibilla ottiene un passaporto per Campana. All’inizio di dicembre, lui le scrive: «Io non esisto mio amore». Il 12 dicembre, dopo averla supplicata di tornare da Astrid, la lascia per lettera. Lei torna da lui e partono insieme per Marradi. Poi si separano di nuovo. Lei va a Firenze, lui a Livorno da dove le scrive: «Le mie lettere sono fatte per essere bruciate». All’inizio di gennaio del 1917, la madre di Dino scrive a Sibilla suggerendole di sposarlo. Alla fine del mese, Sibilla prende un appuntamento con uno psichiatra che Cecchi le aveva consigliato per Campana. La madre di Dino scrive di nuovo a Sibilla per darle sue notizie: Dino si trova in Piemonte, a Rubiana. L’8 marzo 1917 Campana scrive a Sibilla una breve lettera di rottura definitiva, che smentisce già il giorno dopo. In aprile Sibilla gli scrive una poesia. Gli dice: «Quando tu mi chiami Rina, è Dio in te che mi vuol bene, che mi sorride. Vicino o lontano?». Molto tempo dopo, quando le lettere verranno pubblicate da Niccolò Gallo, Sibilla si stupirà rileggendole che lei, così atea, vi avesse più volte invocato Dio: «O forse, inconsapevolmente, dicevo Dio intendendo Apollo, intendendo la Poesia?… Nel mistero della poesia io mai prima m’ero imbattuta (in modo così abbacinante) in una creatura viva, tragicamente viva… E il mio amore, il mio amore così grande, assoluto, si riconosceva impotente. […] Se Dio esisteva, l’avrebbe salvato».

238

A Rubiana, nella Val di Susa, l’aria di montagna giova a Dino, che progetta di fondare un giornale, «Il Diario della Nuova Italia». Si consola dell’assenza di Sibilla con una fanciulla del luogo, grassottella, «cogli occhi conscii tristi e tranquilli», Felicità. Vive a Villa Irma, con le trentacinque lire che sua madre gli manda ogni due settimane. Insiste perché Sibilla lo raggiunga a Rubiana. Lei risponde: «Non vengo, mio povero amore. Perché non posso e perché non voglio. […] Meglio soltanto ricordare, sentendo la morte venire». Da Rubiana Dino la invoca ancora, promettendo che «non succederà più nulla». Alla fine di aprile del 1917, dopo aver ricevuto una poesia da Sibilla, («…sera che avvicini la primavera, / sento che sorrido, / intenerita…»), Campana tenterà di rivederla a Firenze. Ma è il mese in cui muore, al manicomio di Macerata, Ernesta Faccio, la madre di Sibilla. Sibilla si trova dunque circondata dalla follia: quella di sua madre e quella del suo amante lontano. Quella che era sempre stata una minaccia allarmante si è concretizzata nella morte e nella fine di un amore. Suo padre le scrive il 5 aprile. Ernesta è morta il primo del mese. Sibilla dovette ricevere la lettera il 7 o l’8. Non aveva più notizie di sua madre da mesi. Dino scrive a Sibilla: «Parlo di te come di una santa che si cerca in ginocchio. […] Mandami una goccia del tuo sangue posso guarire». Da Milano, dove si è rifugiata in maggio, Sibilla gli scrive: «Ti ho sognato – mi eri coricato accanto – mi son svegliata che dicevi: “perdonami”. […] Allora vuol dire che lo sai finalmente che ti ho amato? Lo sai che cosa orribile è stata la tua cecità? Quei tuoi occhi che chiudevi, ed eran fatti per il sole. Per me e per te. Oh Dino, Dino, e ora è troppo tardi».

239

Nel luglio del 1917, Sibilla scrive: «Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses5 […]. Un anno di fedeltà mia per il ricordo di quei mattini al Barco ch’eravamo due cose d’oro». Dino torna a Rubiana. Lei va a stare non lontano da lui, a Cà di Janzo, in provincia di Novara, dai suoi amici Tallone, per scrivere Il passaggio. Immagina allora che un giorno forse potranno vivere insieme. Nell’agosto del 1917, Dino torna a Marradi. Il giorno prima del quarantunesimo compleanno di Sibilla le manda due telegrammi scritti in un inglese scorretto: «Your forever». E il giorno dopo le scrive: «Siete per me l’unica divinità sulla terra vi amo come un idolo senz’occhi». Lei non gli risponde più. Resta muta fino all’11 settembre del 1917, quando Campana viene arrestato a Milano in seguito ai discorsi che fa sulla guerra, sempre gli stessi: «Sono io la causa della guerra. La guerra finirà quando finirà il mio amore per Sibilla Aleramo». Sibilla si precipita alla prigione di Novara, fa intervenire un avvocato che ha conosciuto tramite Cecchi e Rebora, Enrico Gonzales. Firenze si impietosisce, decide di aiutare il poeta a uscire di prigione, Dino e Sibilla si rivedono «tra le sbarre del suo carcere». Lui scoppia in singhiozzi, lei si irrigidisce. Campana viene liberato e rimandato a Marradi. Da lì le scrive: «Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato». Già nell’ottobre del 1916 Sibilla aveva scritto a Emilio Cecchi: «C[ampana] mi ama: con la passione di un fanciullo, d’un selvaggio, e, ahimè, d’un pazzo. Ed è una cosa divina e sacra. La vivo. Ne ho ancora la forza. Credo che son io anzi la più forte, 5.  «Madre dei ricordi, amante tra le amanti».

240

malgrado tutto – ché, se anch’io son pazza, lo son lucidamente e voi lo sapete». Come Benedetto Croce a proposito di Gerace, Cecchi è in realtà profondamente perplesso. Appunta sul suo taccuino: «I suoi amori sono successive, spasmodiche, confuse obiezioni al suo io d’ieri. Per l’educazione romantica, il residuo ibseniano, ecc., dà a questi amori la dimensione del definitivo […]. La sua missione falsa il suo tipo, giustifica solamente in un modo ambiguo e antiquato la sua eroticità. Allora, perché non si decide ad accettare di essere sola, come un uomo silenzioso, chiuso, pronto agli incontri? Sola come una puttana intellettuale; […] Vergine e silenziosa come la Regina Elisabetta». Questa gretta riprovazione deriva anche dal dispetto: tutti gli intellettuali fiorentini si sentivano affascinati dal mito di Campana, che avevano tentato di ridurre a un fenomeno di eccentricità provinciale e di follia ereditaria. Scoprendo che Sibilla Aleramo (soprannominata da alcuni con l’anagramma di Amorale) è l’unica ad aderire alla follia del poeta fino a sacrificargli la sua ragione e la sua vita sociale, seguendolo nei suoi rifugi tra le montagne, comprendono i limiti del loro proprio sentimento poetico, che si manifesta esclusivamente attraverso resoconti magniloquenti, didattici e impacciati, o pubblicazioni pretenziose. Stampando i Canti orfici a proprie spese e rifiutando il loro aiuto troppo tardivo, Campana ha mostrato tutto il disprezzo che prova per questa casta di letterati. Andando a letto con lui, Sibilla compie un gesto di cui loro non saranno mai capaci: alla follia poetica loro riservano una poltrona in un angolo del loro salotto borghese, una colonna nei loro elzeviri. Non importa se lei imita «lucidamente» il modello della coppia VerlaineRimbaud. Non importa neppure il fatto che stia ripetendo diversi modelli della sua vita passata, le coppie che ha tentato di formare con altri poeti: Damiani, Cardarelli, Gerace e, più recentemente, Franchi. Sibilla si era sempre scontrata coi valori

241

borghesi e le ambizioni sociali dei propri amanti. Adesso crede di poter condividere con Campana il suo nichilismo nietzschiano, la sua misantropia radicale. La moglie di Cecchi, che sarà una delle amiche più fedeli di Sibilla, presta manforte all’invettiva del marito contro di lei: «Tu hai finito per scoraggiarmi. […] Mi pare che non deve mai esserci stata in te una comprensione viva e ampia di questi uomini di ingegno che ti son stati amanti, se no non ne avresti potuto fare un mazzo così di tutti, pêle-mêle, credendo ugualmente in un Cardarelli o in un Franchi, in un Campana o in un Gerace, in un Papini o in un Cascella. Ecco la mia ripulsa, il mio bisogno, vedendoti imbarcata senza tragedia definitiva, in queste sbadataggini, di dire basta». Campana, da parte sua, non tiene nascosto il suo giudizio su coloro che si pretendono suoi protettori e gli appaiono semplicemente degli ipocriti: definisce Soffici «un paysan qui aurait lu Baudelaire»6 e Papini un «ciarlatano di piazza della poesia»; i vociani, «voci + ani». Dei futuristi di «Lacerba» dice che «vogliono far sorgere un’arte nuova per forza di pottate». E li tratta da «parvenus», da «ladruncoli». Nell’autunno del 1917, verso il mese di ottobre, Dino Campana entra nella Birreria Pilsen, a Firenze, e comincia a urlare. Le sue grida fanno indietreggiare la calca degli avventori che non capiscono subito chi sia, di che cosa si tratti. Dopo qualche istante, qualcuno comincia a riconoscerlo e mormora: «È il poeta pazzo di Marradi…». «Il poeta che è stato rifiutato da Papini…». «Ma credevo che fosse con la puttana da salotto, come si chiama… Quella che ha un nome impossibile…». «Pizia, o Saffo…».

6.  «Un contadino che abbia letto Baudelaire».

242

«Sibilla!», sbraita qualcuno da un altro tavolo. «Sibilla Aleramo». «Sì!», grida Campana. «Sibilla Aleramo. Signore e signori della compagnia», continua saltando su un tavolo tra le proteste indignate e le risa dei consumatori. «È proprio di questa puttana che sono venuto a parlarvi. La puttana delle lettere, la puttana di Firenze. Quella che è venuta a succhiarci il midollo a tutti». «Il midollo o qualche altra cosa?», domanda un cliente. «Fatelo stare zitto!», urla un vecchio. «Poe-si-a, poe-si-a», si comincia a scandire. «Dai, matto, cantaci una canzone!». «Siamo in guerra», dichiara Campana. «E la causa della guerra, ve la dico io…». In un angolo della birreria, Primo Conti sta facendo uno schizzo di Campana: tutto scarmigliato, con le braccia incrociate, la camicia sbrindellata e i pantaloni sudici. Una donna dall’accento straniero è seduta accanto al pittore. «Eh, che tragedia!», sospira questa. «Lo conosce?», le chiede Conti. «E chi non lo conosce a Firenze? Del resto ho anch’io la mia parte di responsabilità». «Credevo che i testimoni principali fossero i Cecchi». «I principali, ma non i soli! Io ho prestato a Sibilla la mia casa di Settignano». «E lui l’ha demolita?». «Proprio così», dice la straniera. «Ma i danni materiali non sono la cosa più grave. Bisogna tentare in tutti i modi di allontanare Sibilla da questo pazzo». «Mi sembra che lui abbia già un atteggiamento abbastanza distaccato nei suoi confronti», dice Primo Conti facendo un altro schizzo.

243

«Non si illuda. Lo ascolti». Dino Campana si è messo infatti a recitare poesie che ha scritto per Sibilla: Vi amai nella città dove per sole Strade si posa il passo illanguidito Dove una pace tenera che piove A sera il cuor non sazio e non pentito Volge a un’ambigua primavera in viole Lontane sopra il cielo impallidito.

«Bravo, bravo!», Esclama qualcuno tra gli applausi. «E adesso, una canzone!». Lui continua infervorato: Fabbricare fabbricare fabbricare Preferisco il rumore del mare Che dice fabbricare fare e disfare Fare e disfare è tutto un lavorare Ecco quello che so fare.

«… Perché credete che siamo in guerra? La causa, è Sibilla Aleramo!». «Non si può farlo stare zitto?», mormora la straniera. Poi si volta verso Primo Conti: «Lei è Primo Conti, vero? L’ho riconosciuta. Io sono Astrid Ahnfelt». «Ci siamo visti da Papini, credo?». «Sì, da Papini. E probabilmente anche dai Cecchi». «È lei che ha tradotto Cena in svedese, no?». «Eh sì, povero Cena. È morto da poco, lo sa, completamente dimenticato da Sibilla». «Già, sembra che recentemente li stia sotterrando tutti». «È vero», dice Astrid. «Prima Slataper, poi quest’estate Boccioni…».

244

«Vedrà che anche Campana farà la stessa fine». «No, questa volta è Sibilla piuttosto che rischia la vita. Lui è di una violenza sfrenata con lei. Non l’ha vista con l’occhio pesto?». «Come, la picchia davvero fino a questo punto?», si stupisce Conti reprimendo un sorriso. «È pazzo, caro mio. E la pazzia si esprime prima di tutto attraverso la violenza fisica. E adesso, dove è finito?». Campana è infatti sceso dal tavolo ed è scomparso tra la folla. «Finalmente!», sospira Conti. «Com’è patetico tutto questo». «È proprio quello che volevano loro: in piena guerra, una relazione travolgente, spettacolare. E la mia villa ne è stata il teatro». «Uno dei teatri», rettifica Conti. «Vede bene che un altro teatro sono le birrerie. E adesso, dov’è Sibilla?». Dopo aver passato qualche giorno insieme da Astrid Ahnfelt, a Villa Linda, vicino a Settignano, Sibilla e Campana si erano dunque separati alla fine di gennaio del 1917. Appena sei mesi di vita comune, frequentemente interrotta da violente scenate di cui furono testimoni i Cecchi, la contessa Castiglioni, i Luchaire, Astrid Ahnfelt, insomma più o meno tutta Firenze. Mentre Campana continua a far scandalo nei caffè di Firenze, che raggiunge a piedi dalla campagna quasi ogni giorno, Sibilla è restata a Varese dai suoi amici Tallone. Si trasferisce poi a Santa Margherita Ligure, presso l’avvocato che ha fatto uscire Dino di prigione, Enrico Gonzales. Qui Sibilla dà gli ultimi ritocchi al Passaggio, che ritiene il suo capolavoro. Stranamente, le morti consecutive della madre, di Boine e di Cena le infondono nuova forza, dandole un senso di rigenerazione.

245

Sibilla applica al Passaggio la stessa regola utilizzata per la redazione di Una donna: sopprime nella maggior parte dei casi i nomi propri, certa che la sua esperienza sentimentale, come quella della sua infanzia, tenda ad avere un valore universale. Ma la aspetta un’amara disillusione. Nel frattempo infatti Sibilla Aleramo è diventata un personaggio pubblico, e le sue avventure amorose divertono i salotti mondani, prima di stancarli. Sibilla associa brani di lettere a frammenti di diario, che ricopia cercando di confondere le tracce, mescolando varie storie d’amore, riducendole alla trama, all’essenziale, stravolgendo i dati cronologici e tentando allo stesso tempo di costruire un’immagine coerente dei vent’anni trascorsi dal momento in cui ha lasciato Porto Civitanova. Giustifica lapidariamente la molteplicità dei suoi amori: «Uomini e donne sono sul mio cammino perch’io li ami. Li amo, li sento vivere, la loro vita si aggiunge alla mia. Che cosa io sarei senza questi incontri, senza le strade che ho percorso? Tutto m’attendeva, e nell’ora esatta». Evoca ancora una volta, una sola, la figura di Dino Campana: «Uscii un giorno da un carcere, dove tra le sbarre un viso sciagurato m’invocava, sovrano viso che mi chiedeva perdono, caro ahi caro viso ritrovato e per sempre riperduto». Mentre Sibilla viveva questo amore così violento e sterile, nasceva, l’11 ottobre 1916, Franco Matacotta, che sarà poi il suo ultimo amante: figlio di quel figlio che già fu per lei Dino Campana. Figlio riconoscente che pubblicherà nel 1941 il Taccuino di Campana e che nel 1957, quando Sibilla autorizzerà la pubblicazione della sua corrispondenza col poeta, ricorderà la frase «le mie lettere sono fatte per essere bruciate», condannando la mancanza di pudore della sua antica amante. «Che disgusto, una volta ancora, per l’atto di Franco, dettato da avidità di rinomanza e anche di denaro!», commentava Sibilla nel 1959. Aveva allora ottantatré anni. Sarebbe morta due mesi dopo.

247

15

L’atleta che dorme

Sorda agli appelli disperati di Campana, che resterà ormai prigioniero del manicomio di Castel Pulci fino alla morte, Sibilla sceglie liberamente la castità, pur non facendo che lamentarsene nelle lettere e nelle poesie, e finisce di collazionare i suoi taccuini e le minute delle sue lettere per costruire l’opera poe­ tica definitiva attraverso la quale crede di poter raggiungere la maturità artistica. Il mio Carso di Slataper e i Canti orfici di Campana sono i suoi modelli di prosa poetica a chiave, oscura e lirica. L’influenza di Nietzsche e di Whitman è evidente, e le verrà rimproverata. Il suo amico Emilio Cecchi farà parte di un’orda di critici che si accaniranno a ridicolizzarla. Probabilmente indispettito dalla sua figura di musa ispirata e ispiratrice, questi le fece pagare caro il fatto di essersi innamorato di lei. Proprio come lei aveva lasciato che gli psichiatri si impadronissero di Campana e della sua follia, trovata da lei episodicamente poetica, gli intellettuali fiorentini abbandonano Sibilla Aleramo, dimenticando la sua passata attività letteraria e sociale di scrittrice e direttrice di una rivista: le sue stravaganze sessuali, i suoi spasimi sentimentali non trovano più posto negli interessi di un’intellighenzia che,

248

appena uscita da una dura guerra, considera con distacco gli eccessi novatori dell’arte. Il futurismo ha assunto una veste istituzionale. Sibilla Aleramo avrebbe potuto integrarsi a sua volta in questa società comoda e conformista, accettando la propria età. Sibilla ha infatti quarantadue anni. I suoi capelli sono diventati bianchi e sbiaditi. Il suo corpo si è appesantito. Ma, come osserva la sua amica-nemica Leonetta Cecchi, «dalla civetteria di un aspetto di negletta semplicità proletaria, ella è passata a quello, altrettanto legittimo, ma assai differente, di una sorvegliata eleganza mondana». Ha ormai una ciocca bianca in mezzo alla fronte e i suoi capelli, tinti con l’henné, sono cosparsi di pagliuzze d’oro. Prima dell’uscita del Passaggio, e probabilmente prima ancora di terminarne la stesura, Sibilla incontra il 21 marzo 1918 a Roma, dove è tornata per fuggire da Campana internato da poco, un uomo giovanissimo, Giovanni Merlo, che fa il servizio militare ad Albano. È un amico di Clemente Rebora. Sibilla era stufa, come spiegherà poi, di frequentare letterati e artisti. Aveva bisogno di un uomo ignorante, bello, in forma smagliante. Lui le parlava di sport e di moda. Lei ha già avuto numerose relazioni con uomini molto giovani: Joe, Raffaello. Merlo lo ignora, ma egli stesso non è che il preludio di un’altra passione. Ci sono echi che precedono i propri modelli. Sibilla scrive nel Passaggio: «Torsi d’atleti armoniosi, vive forme sante come immortali bronzi. Intende taluno che accarezzo – per un’ora, per mille, per un innumerato tempo quale nei sogni – intende ch’io reco in quell’atto lo stesso illuminato cuore delle mie più solitarie contemplazioni? Vi sono spiagge dove nessuno prima di me s’è soffermato ad alzare un suo inno: […] Adamo, Adamo, bacio solare».

249

Durante la vecchiaia Sibilla assocerà nel ricordo l’amore per Merlo (quarto Giovanni della sua vita dopo Cena, Papini e Boine) alla propria incoscienza politica. Infatti la rivoluzione del 1917, che diventerà poi la principale preoccupazione dei suoi ultimi quindici anni, l’aveva lasciata sul momento assolutamente indifferente. «Merlo col suo giovine corpo d’atleta, con la sua pazzia allegra, così remota da quella di Campana, col suo amore elementare, mi teneva in un vortice di vita per me nuovissimo, entro il quale mi dibattevo, fra compiacente e vergognosa». Il 20 febbraio 1929 Sibilla compra «Il Messaggero» a un’edicola di via del Tritone e legge, per strada, un articolo sulle sue poesie, appena pubblicate da Mondadori. Ha fatto il giro di alcune librerie per assicurarsi che la raccolta sia effettivamente in vendita dappertutto. In una di esse ha persino incontrato Valentino Bompiani. L’editore diceva allora di lei: «Aveva intorno al capo tra i capelli d’oro, a medusa, una corona di celebri amori letterari; non più giovane ma sempre splendida, si sedeva come se svenisse, sfogliava i libri con dita da arpista, dava del voi, mi chiamava per nome. Quando salutava, dimenticava la mano come un guanto. Portava la sua bellezza di Valchiria e il suo talento come un diadema che nella ruggine del tempo continuava a luccicare». Sibilla riceve adesso da qualche settimana la sovvenzione del governo fascista. Ha appena imboccato la via dei Due Macelli quando viene fermata da un ometto calvo e panciuto che le si pianta davanti con aria inebetita dallo stupore. Lei cerca di aggirarlo irritata. «Sibilla!», esclama l’uomo accennando ad allargare le braccia per non farla passare. Lei si guarda intorno allarmata, pronta a chiedere aiuto a un passante. La strada è affollata a quell’ora. Finalmente lei si de-

250

cide a considerare lo scocciatore strizzando gli occhi, e pare riconoscerlo. «Mia cara», dice lui afferrandola per un braccio, «non sei affatto cambiata. Si vede il tuo nome dappertutto. Sul “Piccolo Corriere”, sul “Messaggero”, nelle vetrine. Sai che il tuo libro occupa il posto d’onore in via Veneto. Complimenti, bambina mia!». Lei fa una smorfia tentando di liberarsi dalla sua stretta. «Vedo che l’amore mantiene giovani», continua l’uomo. «Le tue poesie hanno l’aria di essere niente male, ho sfogliato il volume. Insomma, la poesia non è mai stata la mia passione, lo sai. Né dieci anni fa, né adesso. Ma è stato un bel colpo, il tuo. Stanno lanciando la tua raccolta come un romanzo di grido. Alla tua età, hai di che esserne fiera. Beh, voglio dirti una cosa. Sono invecchiato, è vero. Non eravamo fatti l’uno per l’altra. Ma vedi, adesso non formeremmo più una coppia tanto male assortita, io e te. Hai sempre la tua aria da ragazzina, nonostante questa ciocca bianca. Ora ti lascio, mia cara. Ma dobbiamo sentirci. Un mio amico mi ha dato il tuo numero. Allora, a quanto pare hai comprato un magnifico attico in via Margutta. Ci avrei giurato. Non c’era altro indirizzo possibile per una poetessa. Ma lasciatelo dire, cocca mia, hai fatto male a rifiutare la casa a Capri che volevo regalarti. Trentacinquemila lire, ti ricordi? E adesso ne vale cinquecentosettantamila. È la somma che mi hanno offerto. Cinquecentosettantamila: in dieci anni il prezzo è aumentato di più di dieci volte. Ecco cos’è la proprietà, sotto il fascismo! A proposito, sembra che con te siano generosi. Meglio così, meglio così! Non potevano mica serbarti rancore per tutto il resto della tua vita per la faccenda di Zaniboni. È stato un errore di gioventù, come si suol dire. Insomma, sei ancora bella, l’essenziale è questo. E adesso, chi è il tuo lui? Ho cercato di informarmi a destra e a sinistra. Ma sei ben protetta. Che hai qualcuno, ne sono sicuro. Sibilla la solitaria non è mai sola. Adesso ti devo pro-

251

prio lasciare, ma ti telefono, lo prometto. Di nuovo, complimenti!». Non appena l’uomo la lascia libera. Sibilla fugge e si precipita nella libreria Maglione; il proprietario la riconosce immediatamente e la accoglie con un sorriso ossequioso, avvicinandole una poltrona. Era Giovanni Merlo. Nel 1918 faceva il servizio militare ad Albano e Sibilla si era stabilita a Genzano per potergli stare vicino. Lui la raggiunge tutte le sere. Durante il giorno Sibilla redige il capitolo del Passaggio «Le notti», dedicato a Dino Campana. L’anno precedente e l’anno seguente all’uscita del Passaggio (che l’autrice fu sul punto di intitolare Sola, su consiglio di Agnoletti, e che terminò a Capri nell’autunno del 1918) rappresentano probabilmente il periodo in cui Sibilla fu più famosa, e più mondana. Tutta Roma venne a sapere del suo amore per il giovane militare. Non appena Merlo poté tornare alla vita civile, i due presero alloggio all’hotel Hassler a Trinità dei Monti, uno degli alberghi più lussuosi di Roma – fatto spiegabile unicamente con la ricchezza del giovane. Il ritorno a Roma, che sarà ormai la città di Sibilla, segna l’inizio di una nuova fase della sua vita. La capitale, legata un tempo al nome e alla personalità di Giovanni Cena (morto allora da poco) e alla loro attività umanitaria nell’Agro Romano, ha adesso per lei essenzialmente la funzione di suscitare la sua meraviglia poetica: Il miracolo della tua luce, Roma, oggi rivedo ed il tuo cielo sovrano, la beatitudine tersa dello spazio d’oro. Io torno a te come la più stanca pellegrina.

Sibilla è cosciente – e probabilmente non è la sola – che questo ritorno, in compagnia di un uomo giovane che lei non ama e

252

le cui uniche qualità sono la sua giovinezza e il suo amore per lei, al momento in cui lei ha lasciato Campana e desidera rifarsi una vita sessuale, costituisce un affronto alla memoria di Cena. Merlo rendeva positiva la follia di Campana. I due proseguono questa esistenza lussuosa attraverso l’Italia, dove Merlo si dà al commercio di residuati di guerra, e a Capri. «Non andare mai a Capri se temi lo sbalzo nell’irreale», scriverà Sibilla in un breve articolo dedicato al suo soggiorno in quest’isola. «Bisogna laggiù saper accettare i giorni come chi si nutre di carità, sospendendo ogni orgoglioso travaglio dello spirito». Su questo tema scriverà anche una poesia: Più irreale appari, isola, più ancora, Capri sognata, ch’è marzo.

Merlo era dunque il preludio di un altro amore, quello che unì Sibilla al campione olimpico di scherma, Tullio Bozza. Un giorno vidi il nudo atleta nel suo sonno. Rugiada al mio sguardo quell’arco perfetto dell’omero che il respiro felice solleva…

L’uscita del Passaggio fu disastrosa; il libro lasciò costernati tutti gli «amici» di Sibilla, che lo trovarono indecente e ridicolo. Le sue confidenze sessuali e il suo lirismo sembrarono contrastare con il pudore vibrante di Una donna. Sibilla, che si era messa all’inizio in uno stato di grande agitazione e aveva tentato di far entrare in gioco le sue numerose amicizie, è costretta ad ammettere che la lotta è impossibile. La delusione è aggravata dall’atteggiamento di Merlo, che non crede nel talento di Sibilla e le ripete continuamente che qualsiasi attività intellettuale è una perdita di tempo.

253

È allora che Sibilla decide, per spirito di contraddizione e per dimostrare che il suo universo non si riduce ai capricci erotici e ai voli lirici, di scrivere un romanzo su Alessandrina Ravizza – senza andare oltre il primo capitolo. Adesso Sibilla è cosciente delle critiche suscitate dal suo modo di vivere. Naturalmente dà di sé un’immagine in parte voluta, che si è costruita pazientemente. Ma l’insuccesso del Passaggio le ha fatto sentire il proprio isolamento dal mondo letterario, che accetta malvolentieri la mescolanza dei generi come la mescolanza delle vite. «Donna e poeta. Duplice sortilegio», scrive nel suo romanzo inedito del 1923. «Dicevano di lei uomini e donne per accusarla ch’era sensuale. La leggenda di Valeria d’Arduino! Cogli anni s’era formata, stupefacente, leggenda di bellezza fatale, leggenda d’egoismo, di crudeltà, di che altro?». Nel Passaggio aveva scritto: «Maggior clemenza le verrà da sguardi di prostitute, in selve umane lontane, che saluteranno taciturni in lei il sorriso di mestizia e di grazia di sua madre giovine». Quando incontra Tullio Bozza, il 30 dicembre 1919, Sibilla vive ancora con Giovanni Merlo: «Ella non era più giovine», scrive nel suo terzo romanzo inedito, «ma come quelle donne di cui si dice che son peggio che belle, Valeria era peggio che giovane. Con l’espressione ardente del suo viso, patetica e segreta insieme, e quei suoi occhi che parlavano di tutti i doni della terra – poi si riflettevano di colpo, divenivano stelle d’un cielo lontano, insostenibili raggi». Le prime pagine di questo romanzo evocano il «lucido smarrimento ch’è il poetare», e l’atto liberatorio che rappresentò per lei in Corsica la creazione della prima poesia, affrancamento dalla «soggezione spirituale» in cui l’avevano tenuta uno dopo

254

l’altro tre poeti (Damiani, Cena, Cardarelli). Benché qui Sibilla si riferisca agli anni precedenti la composizione di Notte in pae­ se straniero, è chiaro che, scrivendo nel 1924, ella ha in mente anche altri poeti verso i quali ha nutrito più tardi un’ammirazione sterile e paralizzante, che si tratti di temperamenti mediocri come nel caso di Gerace, o geniali come nel caso di Campana. E se parla tanto diffusamente della Corsica, probabilmente è anche perché Tullio Bozza, come Raffaello Franchi e Giovanni Merlo prima di lui, risveglia in lei il ricordo di Joe. «Il primo sguardo», se ci si attiene a Tanto amata e tanto sola, romanzo inedito di eccezionale precisione rispetto al Passaggio, «venne scambiato in un ufficio telegrafico a Napoli, un’antivigilia di San Silvestro, piovosa e fredda. Valeria, giunta due ore innanzi da Roma, stava mandando un dispaccio d’augurio ad un uomo che fortemente le piaceva ma non aveva mai baciato». Quest’idea fissa del bacio impossibile acquisterà un carattere addirittura ossessivo qualche anno più tardi, nei confronti di uno degli amanti che più la farà soffrire e al quale lei consacrerà il suo romanzo Amo dunque sono: Giulio Parise, rievocato anche per interpolazione nel Frustino, dove la sua figura si confonde con quella di Boccioni. Ci si può dunque chiedere se la data indicata sul manoscritto, «1° gennaio 1924», non si riferisca all’inizio della stesura piuttosto che alla fine, di modo che Sibilla lo avrebbe redatto in parte dopo aver conosciuto Parise. Questa interferenza è tanto più plausibile in quanto all’inizio del manoscritto Tullio è chiamato col suo vero nome, e più avanti Giulio. Poi Sibilla cambia idea una seconda volta e adotta il nome di Silvio. Tullio Bozza è l’unico uomo che sia morto mentre Sibilla lo amava ancora, l’unico che non l’avesse abbandonata o che lei non avesse lasciato di sua iniziativa. È qui che va ricercata la

255

ragione dello splendore di cui lei volle ornare questo amore, ispirandosene per la sua opera teatrale Endimione. Credette allora a una vittoria della letteratura sulla morte, della libertà sul proprio destino spirituale e familiare – libertà di cui tuttavia doveva scorgere i limiti nei fischi che accolsero la pièce a Torino e a Roma. Nell’ufficio telegrafico, una folla isterica si accalca agli sportelli. Sibilla, che potrebbe sembrare sola, tenta di avanzare verso uno di essi, dietro il quale un impiegato sbracato sbadiglia chiacchierando con un collega. Tutti i postini ignorano la ressa. Di tanto in tanto rivolgono uno sguardo stanco verso la folla schiamazzante: le sorridono, poi la guardano con sguardo torvo, infine si mettono a ridere tra loro. Sibilla è riuscita a farsi posto contro una piccola mensola su cui sono ammucchiati dei moduli. Ne prende uno tra due dita inguantate di trina. È vestita elegantemente, con un mantello impermeabile dal collo di visone. Redige nervosamente un telegramma. In mezzo alla folla, un giovane la sta osservando da alcuni minuti. Ha un viso fragile e vigoroso allo stesso tempo – naso un po’ troppo pronunciato, teneri occhi neri e grosse labbra ironiche e sensuali. Mentre lei si agita tra gli altri clienti che la urtano gridando, lui sorride e tenta di attirare la sua attenzione. Finalmente lei lo nota. Nonostante la pioggia, è vestito di bianco e porta un cappello di feltro greggio. Non appena sa di esser visto, il giovane porta un dito alla falda, sorridendo. Sibilla sorride a sua volta, inclinando il capo. Questo genere di omaggi non le è nuovo. Lui le indica lo sportello davanti al quale si trova. Si sporge verso l’impiegato, richiamandolo all’ordine con fare autoritario. Fa cenno a Sibilla di avvicinarsi. Lei accetta senza smettere di guardarlo e di sorridere, poi porge il telegramma all’impiegato che lo prende mugugnando. Lo sconosciuto sussurra qualcosa

256

all’orecchio di Sibilla, che scoppia a ridere. La sua risata è talmente penetrante che per un momento nell’ufficio postale cade il silenzio. Lei dà una banconota all’impiegato, che le rende il resto insieme a una ricevuta. L’uomo esce insieme a lei. «E lei?», si stupisce Sibilla. «Aveva qualcosa da fare alla posta…». «Oh, cose che possono aspettare», risponde lui. Lei lo guarda fisso. È un adolescente, pensa fra sé. Un bell’adolescente nostalgico. Ha trent’anni, ma lei gliene dà poco più di venti. Ammira la sua eleganza e la sua aria sdegnosa. «Allora, ce ne hai messo del tempo!». Sibilla aggrotta le sopracciglia udendo la voce di Giovanni Merlo. È seduto in macchina, sotto la pioggia. Sibilla guarda lo sconosciuto e indica con lo sguardo il proprio amante, assumendo un’espressione d’impotenza. «Forza, sali, che aspetti! Mica posso stare a giro tutto il giorno a aspettare i comodi della nonna!». Getta un’occhiata verso di lei e scorge l’uomo vestito di bianco. Si illumina in volto e apre subito la portiera. «Tullio! Questa poi! Tullio Bozza!». L’uomo lo riconosce a sua volta e tenta invano di conservare un’espressione di cordialità impersonale. Infatti, subito Merlo lo abbraccia. «Chi si sarebbe immaginato di incontrarti qui! Pensa un po’, Sibilla… Tullio Bozza! Il grande Tullio! Il campione di scherma!». Tullio ride imbarazzato. Merio fa le presentazioni. «Sibilla Aleramo, la celebre poetessa, ha!», dice in tono di scherno. «Sali dietro, Tullio, accanto a lei. Sono contento di vederti, accidenti, dove stai andando?».

257

«Vado ad allenarmi al campo sportivo di Agnano». «Ti accompagniamo noi, Tullio. Allora, raccontaci tutto». Sibilla si è seduta accanto a Tullio sul sedile posteriore, muta. Merlo guida, tutto eccitato. «Qui a Napoli ci stavamo annoiando a morte. Tanto valeva restare a Capri per le feste. O addirittura a Roma. Ma pensa un po’ che fortuna averti incontrato! Quanto tempo era che non ci vedevamo? Era il nostro allenatore quando facevo il militare. Un maestro, Sibilla, un maestro!». Sibilla si contenta di sorridere cortesemente. «Lei è Sibilla Aleramo, l’autrice di Una donna?». Tullio si protende verso Sibilla fin quasi a sfiorarla. «Lo ha letto? È ancora possibile trovarlo in libreria?». «Via, cocca, smettila con queste civetterie!», protesta Merlo dal sedile anteriore. «Glielo hanno ristampato da qualche mese. E non ti dico quanto ci gode, la signorina!». «Sono cose ormai così lontane…». «La libertà è eterna», mormora Bozza afferrando la mano di Sibilla sotto il tessuto del suo mantello. Sibilla non lascia trasparire il proprio turbamento e non ritira la mano. Nella palestra di Agnano, Tullio Bozza fa qualche mossa di scherma davanti a Sibilla e a Merlo. Finiscono la serata al Bal Tabarin. Il giorno dopo, Merlo deve ripartire per Roma. Decidono di passare la notte in bianco, tutti e tre insieme. Una ballerina viene a sedersi al loro tavolo e bevono tutti e quattro champagne. «Eh, no!», dice la ragazza. «Una donna sola per due bei fusti come voi, non è giusto!».

258

Gli uomini ridono. Sotto il tavolo Tullio ha insinuato una gamba tra le ginocchia di Sibilla. Approfittando del fatto che Merlo è ubriaco, le passa una mano sulle cosce. Lei è «lontanissima, su una grigia spiaggia fra cardi azzurri, poi presso un fontanile della campagna romana e ciuffi di ginestre nel sole, più bionde dello champagne di Merlo e del porta-sigarette d’oro di Tullio; è bambina decenne a mano di suo padre per una strada alpestre, stanca e felice; ode una voce maschia e calda dirle: “Piccola e brava!”». Il giorno dopo, di prima mattina, Tullio e Sibilla accompagnano alla stazione Merlo, che li saluta dal finestrino del proprio scompartimento, allegro, senza la minima diffidenza. Naturalmente Tullio segue Sibilla nella sua camera d’albergo. E all’improvviso decidono di andare insieme a Frascati. Vi passano la notte. L’indomani, Tullio la lascia per andare a Vienna, dove partecipa a un torneo. Sibilla resta a Frascati. Ripensando a questo amore, trent’anni più tardi, Sibilla scrive: «Quella prima notte rimase – e rimane – nel mio ricordo come un prodigioso sogno trasportato nella vita: prodigio, sogno, incanto, creazione misteriosa. Nessuna altra notte della mia vita può starle a raffronto». «Endimione è stato il vertice per me dell’amore, nel senso di “rapimento”». Tullio Bozza la sottrae a Merlo, dice Sibilla, come Lina Poletti aveva fatto con Cena. Da Vienna Tullio Bozza, dopo aver dichiarato in una cartolina che si sta consolando con le fanciulle viennesi, manda a Sibilla un telegramma per annunciarle il proprio ritorno, e si firma misteriosamente Endimione. Ne darà una spiegazione al suo arrivo. Quando vanno a letto insieme per la seconda volta, dopo Vienna, a Frascati.

259

Durante l’assenza di Bozza, Merlo ha telefonato all’albergo di Napoli e ha capito dalla partenza di Sibilla che la separazione è ormai consumata. Sibilla ancora non sa che resterà legata a questo bel giovane, che rappresenta per lei molto più di Merlo, molto meno di Campana, fino alla sua morte. Campana è ancora vivo e non lo è più. Lei potrebbe essere definita la vedova di Campana. Tullio Bozza è un ricco sportivo che si crede dotato di un animo lirico. Il telegramma diceva: «Le braccia della Vostra atmosfera mi stringono ed attraggono intensamente. Aspettami. Endimione». Il soprannome gli è stato dato, come spiega finalmente lui, dalla sua ultima amica, che adesso è partita per gli Stati Uniti. Lui la ama ancora? E lei, lo ama ancora? Sibilla ed Endimione firmano un patto tacito e invisibile. Lei rispetterà il suo passato conservandogli questo soprannome, mentre lui la chiamerà come tutti Sibilla. A differenza di quanto era successo con tutti gli altri uomini che aveva amato, Sibilla non prova «nei suoi riguardi l’ansia di trasformarlo a sua imagine». Ella entra a poco a poco nell’universo segreto di questo atleta che, malato di cuore, sa di essere condannato. Ma tutto questo – il suo soprannome, la sua malattia, l’esistenza di una donna che lui ancora ama – Sibilla viene a saperlo gradualmente, nel corso di conversazioni difficili, di una difficoltà che non aveva mai conosciuto con gli altri. Tra loro infatti non c’è – e sarebbe troppo tardi per lei che ha quarantaquattro anni, troppo brutale per lui che è così delicato e ancora innamorato di un’altra – non c’è l’immediatezza della semplice attrazione fisica, ma neppure l’affinità di due spiriti fraterni. C’è solo il mito, al quale Sibilla, col suo temperamento al tempo stesso ossessivo e magniloquente, conferisce proporzioni irragionevoli. Ella condenserà le loro conversazioni in due lunghi dialoghi della sua pièce Endimione.

260

Sono insieme a Sorrento, a Ravello. «Canto» e «pianto»: queste due parole che ha fatto spesso rimare tra loro, con le quali ha chiuso poesie e romanzi, le ripeterà in continuazione per rievocare il suo amore così violento, così totale per il primo uomo al quale dedica diversi anni della propria esistenza, seguendolo nelle sue gare, nei suoi allenamenti, nei suoi tornei, a Venezia, a Londra, a Ostenda. Desidera anche, per la prima volta, strappare se stessa al disastro della sua vita italiana. Questi sono per Sibilla Aleramo gli ultimi giorni vissuti nel lusso. Non condurrà mai più un’esistenza ricca, e neppure agiata. Il 1920 è l’anno in cui, come ha detto Merlo, viene ristampato Una donna, e anche Il passaggio, vengono pubblicate le sue poesie, Momenti, e le sue prose critiche, Andando e stando. L’editore Bemporad decide infatti di pubblicare tutte le opere di Sibilla e di impiegarla come lettrice di manoscritti. A dire il vero, l’interesse che Bemporad prova per lei non è puramente letterario. Lui non lo nasconde, ma la ripugnanza fisica che Sibilla prova nei suoi confronti è troppo violenta perché lei possa diventare la sua amante. Firmerà un contratto con lui a Napoli nella primavera del 1920, dopo aver chiarito ogni malinteso. Sibilla vede dunque riuniti tutti i diversi aspetti della sua creazione letteraria, e soprattutto ha il piacere di vedersi finalmente riconosciuto il merito di poeta. Può vivere da poeta, fare della sua vita una poesia. Aveva bisogno di un compagno pronto a rispondere alla sua «leggenda» con un’altra leggenda, al mito di Sibilla con il mito di Endimione. A Frascati, a Ravello, a Sorrento, Sibilla scopre dunque Tullio Bozza addormentato dopo una notte d’amore. Posa l’orecchio sul suo petto nudo, sa che il suo cuore è malato. Ama i corpi giovani, robusti, aitanti, soltanto se li sente fragili, minacciati,

261

mortali. Capisce che un uomo giovane che viene a lei va verso la morte, perché la morte miete sempre altri corpi prima del nostro e perché la morte è bella. Ama il corpo addormentato di Tullio Bozza perché, vegliandolo, sa di interpretare il ruolo che lui vuole assegnarle. Tullio Bozza addormentato tra le sue braccia è il suo figlio morto. Il profumo che lui le porta da Vienna, insieme a un orologio d’oro, si chiama «Il fanciullo mago». «Sempre ti batte forte il cuore», mormora lei. «Non l’hai stancato troppo in viaggio?». Il giovane dorme e non la sente. Lei lo contempla a lungo e «la sua bellezza, nella stessa luce della prima notte, le appare adesso più umana, ma anche più tremenda». Sibilla vede un filo di saliva brillare come rugiada alla commessura destra delle sue labbra e vi posa un bacio. È inginocchiata vicino a lui. Tullio ha il busto più stretto di quanto ci si potrebbe aspettare, ma perfettamente glabro. Le sue sopracciglia chiare sopra alle palpebre sono come feltro su seta. I corti peli dorati della sua barba, pagliuzze che indugiano dopo un’alba di festa. Le ciglia dei suoi occhi chiusi, erba distratta. Lui apre gli occhi e le sorride. «Fai male a guardarmi mentre dormo. Sono così insignificante». «Sei bello quando dormi, ancora più bello quando sei sveglio». «Come una bambola, vero?». Tira su il lenzuolo e si mette a sedere sul letto. «Su, non fare quella faccia. Non imparerai mai a prendere le cose per scherzo». Lei prende il viso di Tullio tra le mani. «Cos’hai dietro a questo viso dorato? Fai sempre finta di non sapere che vivo solo per te». Lui si alza e si infila i vestiti guardando il mare.

262

«Non credo di esserti necessario». «Come sai farti amare. Riesci a farmi vivere nella speranza che tu mi ami. Non ho alcuna certezza». «Neppure io ne ho», risponde lui irritato, passandosi dell’acqua sul viso. «E la certezza che ti deriva da me non conta? Stai ancora aspettando l’altra? Dunque non è cambiato niente da quando ci siamo incontrati?». «È il tuo amore a farmi capire fino a che punto amo ancora quella donna. È vedendo quanto mi ami. Ma ti giuro che non voglio vendicarmi su di te della sofferenza che questo fantasma continua a infliggermi. Sibilla, non voglio rappresentare per te l’espiazione del male che hai fatto ad altri in passato». «Se ho fatto del male, è stato senza averne colpa». «Sono malato, Sibilla. Malato e ancora legato a una donna che mi ha abbandonato lasciandomi credere che sarebbe tornata da me». «Perché mi imponi questa specie di adulterio con un’ombra invisibile?». «Mi disprezzi?». «Ti voglio bene come sei, allucinato e contraddittorio, singolare e banale, così assente e così presente!». Ella gli volta le spalle e sistema un mazzo di rose vicino alla finestra. Il suo corpo traspare attraverso i vestiti. Tullio le fa una fotografia. Lei gli dice: «Voglio bene al tuo viso, alla tua voce che inconsapevole dice cose crudeli. Voglio bene all’ora che passa mentre sei qui». Lui si avvicina per baciarla, ma lei si ritrae. «Non ti giudico, ti sento. Ti sento come una cosa preziosa nella luce della vita, una cosa che non posseggo, su cui non ho poteri. Amore, prego che tu sia felice».

263

«Lo vorresti tanto da desiderare che lei tornasse da me?». «Non dirmi niente. La aspettiamo insieme. E se tu la ami ancora…». Sibilla piange. Lui le carezza le guance. «Non sono neppure un uomo, Sibilla. Sono il tuo bambino. Sono quello che tu vuoi». Lei non risponde. Lui si alza, si allontana, indossa una giacca, sembra sul punto di uscire, guarda ancora una volta il mare. «È vero che desiderasti morire dopo la nostra prima notte d’amore?». «È vero. Perché me lo chiedi?». «Perché…». Tullio non termina la frase. Gli stessi personaggi, ma vestiti con più stravaganza: o meglio, lei in déshabillé stravagante – vestito a più strati di gale multicolori, uno scollo che lascia nuda una spalla e quasi scoperto un seno, e sopra una specie di mantello di raso color canarino che lei agita a ogni gesto; lui quasi completamente nudo, a parte un paio di pantaloni di seta rosa stretti in vita con una fascia a nappe rosse. Lei somiglia a Sibilla, ma porta una parrucca bionda i cui boccoli guizzano incessantemente. Lui somiglia a Tullio, ma ha il viso completamente depilato e le sopracciglia ridisegnate in mezzo alla fronte. Entrambi hanno il viso coperto di cipria. Lei ha occhi immensi sottolineati a matita nera. Sulle sue proprie labbra è stata dipinta una bocca minuscola. C’è una grande finestra aperta, da cui si scorge una distesa fiorita e il mare. Si odono gli schiamazzi dei bagnanti e le grida dei gabbiani, il frangersi intermittente delle onde, e talvolta la sirena di una nave. Mentre l’uomo e la donna stanno parlando, un fremito improvviso del mare e del cielo rivelano che mare e cielo

264

sono dipinti su una tela, che una corrente d’aria dietro le quinte ha fatto vibrare. Le occhiate che sfuggono all’uomo in direzione del pubblico tradiscono l’inquietudine dell’attore. L’attrice, sensibilmente più vecchia di Sibilla, recita con enfasi e, a poco a poco, con dolorosa ironia. Evidentemente dalla sala giungono fino alle orecchie degli attori colpi di tosse imbarazzati, mormorii, risate. La disattenzione generale fa presagire il fiasco. In sala, Sibilla è raggiante. I suoi occhi scintillano di gioia e d’emozione. Sorride costantemente e talvolta le tremano le labbra: quando recita le battute insieme agli attori. È seduta tra Aurel, di cui tiene la mano destra mentre questa le lancia sguardi inquieti coi suoi vivaci occhietti neri, e Valery Larbaud, arrivato a Parigi due giorni prima. Quest’ultimo segue la pièce con autentico interesse. Endimione: Ah! Ora sei tu la bimba! Cara, cara. Guardami con i tuoi occhi innamorati! Mia Regina! Vedi, sono felice. Cogli sul mio viso la luce di questa sera. Io sono ora quegli che tu hai voluto, sono la creatura tua, non più terrena… Diana (piangendo, mentre due lacrime tracciano un solco nero sul cerone delle sue guance): È vero? È vero? Come sei bello. Endimione: Due perle sulle tue guance. Lasciale cadere a terra. Il mare te ne porterà delle altre. Ricordi il primo giorno, quella collana di perle con cui giocavi? E mi dicesti, cara voce che aveva un murmure così sereno, mi dicesti che povera era la storia mia… Volesti arricchirmi. Quanto mi hai dato? Io prendevo, prendevo… In sala il traduttore, Pierre Paul Plan, un vecchio signore distinto e antiquato, col volto tagliato da un paio di baffi all’Aramis, trasale udendo un commento beffardo proveniente dal primo piano, vicino al suo posto: «Ha dovuto sudare, la vecchia, per farsi il frocetto!». Segue una risatina di donna, forzata e soffocata a fatica. Un brusio di protesta copre le battute che seguono.

265

Diana: Questa tremenda dolcezza ch’è nelle tue parole, mi prostra, m’annienta… Endimione: Tu ch’eri così grande nella sofferenza! Sappi accogliere intero il gaudio sopraggiunto, non ti sottrarre. Amore! […] Lo sapevi d’avermi così penetrata l’anima. In mezzo al pubblico, un’altra voce: «Penetrata che?». Sibilla non la sente. Ha gli occhi inchiodati sugli attori. Diana si è spostata verso la terrazza guardando la tela che rappresenta il mare. I proiettori hanno modificato l’illuminazione. Adesso siamo al crepuscolo. I macchinisti producono il rumore del vento e del mare. Endimione è disteso ai piedi di Diana. Endimione: Diana, è vero che tu, alta contemplatrice delle sorti umane, tu, che fervente riconosci anche nella sventura un’occulta forza armoniosa, è vero che desiderasti morire quella notte nostra lontana? Diana: È vero, ma perché me lo chiedi? Endimione: Diana, anch’io penso ora che sarebbe stata una grazia del cielo morire dopo il nostro incontro, nell’alba perfetta del nostro amore… Diana: Ma anche la vita che poi patimmo fu un dono? Uno spettatore sbadiglia fin quasi a slogarsi la mascella, provocando nuove risate. Endimione: Diana, e se il mio destino fosse di scomparire dalla tua zona di luce in quest’altra ora benedetta? Il pubblico, distratto, è diviso, benché la sala del Théâtre de l’Œuvre sia piuttosto piccola, in una parte che finge un certo interesse e un’altra che ridacchia e fa commenti. Endimione (carezzando i capelli di Diana, chinata su di lui): Capelli morbidi e cari! Se fossimo nel bosco, li scioglieresti e ci copriremmo con essi… Sorridi, amata!

266

Diana (alzandosi in piedi e lanciando verso il pubblico irrequieto uno sguardo angosciato): Riposa, mio Amore! (Esce di scena con passo solenne, come stesse eseguendo una danza rituale). Endimione: Ti sia risparmiata la mia agonia… Ch’io ti rimanga negli occhi come mi scorgesti la prima sera. (Avanza verso il parapetto della terrazza e si getta nel vuoto). Il sipario si chiude. La sala, allibita, resta un momento in silenzio. Valery Larbaud grida: «Brava!». Il pubblico, quasi per scherzo, si lascia trascinare e urla di entusiasmo nella completa oscurità. «Ce l’ha fatta, mia cara!», sussurra Aurel all’orecchio di Sibilla. «Crede davvero? I parigini sono così capricciosi». «Hanno adorato Il passaggio, adoreranno anche Endimione. Vanno pazzi per il lirismo poetico», aggiunge Alfred Mortier sporgendosi sopra alla moglie. I proiettori si sono riaccesi sulla scena, si è riaperto il sipario. I due attori si tengono per mano, a testa bassa. Il pubblico li acclama. L’attrice, Denise Réal, e l’attore, Allain Dhurtal, alzano il capo e, accorgendosi di venire applauditi e non fischiati come si aspettavano, sorridono come bambini. Adesso l’uomo sembra essersi liberato della sua maschera di cipria e ha assunto di nuovo la sua vera età, che è del resto la stessa del modello, Tullio Bozza. Il piacere che gli procura l’apparenza del trionfo lo ringiovanisce. Il resto della compagnia li raggiunge sulla scena. Allain Dhurtal tende la mano verso il pubblico cercando Sibilla. Aurel, con l’aiuto di Larbaud, la costringe ad alzarsi. Sibilla sale suo malgrado sul palcoscenico. Bacia Denise Réal e Allain Dhurtal e saluta con loro timidamente, senza sorridere. Quando, per la sesta volta, il sipario si chiude. Sibilla accom-

267

pagna gli attori dietro le quinte. Pierre Paul Plan li sta aspettando nel corridoio. «E adesso, in Italia!», dice il traduttore allegramente. «Sarà dura, molto dura», risponde Sibilla. «Perché?». «Qui, si può sempre camuffare un fiasco da successo. In Italia no». «Perché dice questo?», domanda Plan. «Oh», fa Sibilla alzando le spalle. «Vuole che le ripeta quel che m’ha detto la Duse?». Viene interrotta da Aurel e Valery Larbaud, che si precipitano verso di lei. Plan aspetta sempre le parole della Duse mentre Aurel bacia calorosamente Sibilla. «Cara, ha sconfitto la morte! Ha strappato Tullio alla morte. Strano destino per uno sportivo. Ha cominciato la sua carriera in una sala d’armi e ha raggiunto l’apoteosi a teatro. Non ha capito che cosa significasse essere amato da un’artista, dalla più grande!». «Ma certo che l’ha capito», interviene Larbaud prendendo Sibilla sottobraccio. «Mi dica, amica mia, perché non ci dà qualche pagina di Endimione per la nostra “Revue Européenne”? Jaloux, che era in sala, è rimasto entusiasta. E non ho dubbi sull’adesione di André Germain». «Chi è?». «Il terzo membro del triumvirato». «Perfetto, perfetto», dice Sibilla con un sorriso materno. Dal suo sguardo traspare la certezza che quella traduzione non verrà mai pubblicata in Francia. «E in Italia?», chiede Larbaud. «Quando verrà rappresentato?». «Stavo appunto dicendo al signor Plan ciò che mi ha scritto la Duse in proposito».

268

«L’interpreterà la Duse!», esclama Aurel «Ne ero sicura, Alfred», aggiunge voltandosi verso il marito. «La Duse interpreta Sibilla. È proprio un ruolo che fa per lei. È il suo ruolo. Il ruolo del suo ritorno sulla scena». «Ahimè, non credo», replica Sibilla. Mi ha detto: «Voi siete Poeta e vi faranno soffrire. Temo per voi la brutalità della ribalta». «È lei che ha paura», taglia corto Aurel. «Ma se la Duse ha paura, troveremo chi non ne abbia. Perché non chiede aiuto a Mussolini? Ci sono risorse in un uomo come quello. Se fossi in lei, andrei a chiedergli un lavoro, e un teatro. I francesi adorano Mussolini, non è vero?». Aurel si volta verso le persone che li circondano. Tutti tacciono, imbarazzati. «E gli intellettuali italiani, che pensano di lui?», domanda ancora. Un uomo molto alto e molto elegante si stacca dalla folla e dice: «Pensano che cadrà. E che noi gli daremo una mano a farlo. Posso congratularmi con l’autrice?». Sibilla lo riconosce e gli tende la mano per farsela baciare. Ciò che ha detto quell’uomo è estremamente importante. Lei lo sa. Lo sente. Nel 1922, su un treno diretto da Salsomaggiore ad Assisi, Sibilla ha parlato con alcune camicie nere reduci dall’esperienza di una spedizione punitiva, nella quale diversi comunisti avevano trovato la morte. Ha pubblicato su questo incontro un testo ambiguo, che avrà la prudenza di non mantenere nella ristampa di Gioie d’occasione del 1954, ma che figura nella versione del 1930. «Parlavano con uguale lucidità e veemenza di fede, ripetevano la parola “redenzione”, la parola “missione” senza enfasi e senza albagia, tipicamente rappresentativi di migliaia e migliaia d’una collettività nuova, risoluta e formidabile, scaturita come per miracolo nel giro di qualche semestre da ogni più romito angolo di provincia, ci-

269

vica realtà. Nuova su ceppo antico. […] Potevano nella loro violenta energia anche ingannarsi, anche errare malamente, crudamente eccedere, potevano i loro intenti, se ben vittoriosi ora, esser destinati ad infrangersi contro fatalità altrettanto profonde dello spirito e della storia, in un domani più o meno lontano. Non a me donna, estranea ad ogni corrente politica, tocca giudicare e prevedere. […] E il più meraviglioso era il pensare che li avevan così suscitati gli stessi lor avversari, la forza massiccia e percorsa d’idealità dei loro avversari, l’esempio dell’appassionata solidarietà risoluta, oprante, data dai socialisti negli ultimi trent’anni. Figli d’Italia gli uni e gli altri». «Eccellenza, è venuto!». Il conte Sforza, ex ambasciatore italiano a Parigi, trattiene la mano di Sibilla nella propria, dopo averla baciata. «La sua mano è crudelmente condannata a scrivere», mormora il conte. «Ma è anche fatta per lunghe carezze». Senza lasciarle il tempo di rispondere, Pierre Paul Plan dice a Sibilla: «In sala c’era la contessa Anna de Noailles. Come pure Anatole France». «E Thibaudet?», chiede Sibilla. «E Crémieux?». «C’erano tutti, Sibilla. Anche Romain Rolland. Anche Valéry». «Anche Paul Valéry». «Sì, sarà a cena con noi. Le parlerà in italiano. È una cosa che adora». La folla è adesso troppo numerosa intorno a Sibilla, che cerca Sforza con lo sguardo. Un gruppo di giornalisti italiani la assalgono. «Venite al mio albergo del quai Voltaire», dice loro Sibilla. «C’erano Barrès, Henri de Régnier, Charles Maurras. C’erano tutti, Sibilla, tutti…».

270

«Anna!», esclama Sibilla vedendosi venire incontro una bambola di porcellana vestita di stoffa a fiori, che tintinna come un lampadario. «Lei è una “figlia del fuoco”», dice la contessa. Si porta due dita alle labbra, come per significare che le manca la voce per la troppa emozione o per la stanchezza, o ancora che qualsiasi parola è inutile nell’estasi. Prosegue la sua pantomima toccandosi il petto, gesto ambiguo anche questo, che può alludere alle palpitazioni dell’ammirazione estetica come pure al malessere fisico. La contessa di Noailles passa in effetti quasi tutto il suo tempo a letto ed è appunto al suo capezzale che aveva ricevuto a casa per la prima volta Sibilla. Adesso conclude con un gesto più intelligibile, formando con la mano vicina all’orecchio la cornetta del telefono. Poi scappa, lasciando le effusioni all’indomani. Lugné-Poe, il direttore del teatro, si avvicina a sua volta, con gli occhi scintillanti di contentezza. Dice con voce squillante qualcosa che pure viene coperto dal baccano. Sibilla si volta verso Aurel mentre il direttore sparisce gesticolando. «Che ha detto?». «Ha detto: “Un’ardente grazia anima la sua opera”». «E perché me lo dice adesso?». «Perché sa che ormai il gioco è fatto, ha tutta la stampa dalla sua parte, mia cara». «E questo cosa significa?». «Che ha una grande ammirazione per lei. Venga», continua Aurel trascinando Sibilla verso una porta nascosta, l’uscita di servizio. «E Mortier?», si preoccupa Sibilla. «Ci troverà al ristorante». «E gli altri?».

271

«Si faccia desiderare. Le telefoneranno in albergo. Le faranno la corte. Lei li ha conquistati. Non si lasci conquistare da loro con altrettanta facilità». «Crede che si tratti di una conquista, Aurel? Non si rende conto di ciò che significa per me questa pièce?». «Io sì, lo so. Ma loro non lo sanno, e non lo sapranno mai. Bisogna provocarli. Anzi, potremmo fare di più. Prendiamo un taxi e facciamo un giro». Aurel chiama un taxi che subito si ferma. «Al bois de Boulogne!». «Ma cosa ci andiamo a fare, Aurel! È impazzita!». «Tanto per prender tempo, ecco tutto. Non faccia quell’espressione spaventata. Sibilla, si ricorda il povero Rodin? Come sarebbe stato felice di questo trionfo!». «Non è un trionfo». «Vedrà la stampa domani. Non ha niente da temere. Scriverò anch’io un articolo. Perché ha scelto il teatro per raccontare il suo amore?». «Volevo vedermi sulla scena, volevo vedere me stessa. Volevo dare un’altra vita a Tullio». «È rimasta contenta di Dhurtal?». «No. Tullio era molto più bello, più fragile e più forte. Aveva una specie di spavalderia di fronte alla morte, capisce?». Dopo un momento di silenzio, Aurel domanda: «Quando è morto?». «Nel febbraio dell’anno scorso». «Per quanto tempo avevate vissuto insieme?». «Diciotto mesi». «Perché non è venuta a farmelo conoscere quando siete passati da Parigi?».

272

«All’andata lui non era con me. Stavo andando a raggiungerlo a Londra. Lui mi aspettava all’Hôtel Piccadilly, dove siamo rimasti una settimana. Poi siamo andati a Ostenda via mare. Siamo tornati a Parigi passando per Bruges e Bruxelles. Ci siamo fermati ancora una settimana a Parigi, all’Hôtel Continental. Ma abbiamo visto soltanto Plan, che aveva terminato la traduzione del Passaggio. Non che volessimo mantenere il segreto, ma avevamo talmente fretta. Sempre fretta. Sapevamo che era una questione di mesi, di settimane… Dovevamo ritrovarci a Londra. Venivamo da Venezia, Tullio aveva partecipato alle eliminatorie per le Olimpiadi di Anversa, a Venezia». Aurel afferra la mano di Sibilla e vi posa un bacio. «Ma perché non ha raccontato questo nella pièce? La sala d’armi! D’Annunzio l’ha saputo?». «Ho inviato la pièce a Gabriele: è dedicata a lui». «È vero, come sono sciocca! Allora, a Venezia?». «A Venezia stavo già scrivendo Endimione». «Mentre lui le era accanto?». «Sì e no. Lui si allenava con la squadra. Io restavo alla Pensione della Salute, di fronte alla Giudecca. Quanti ricordi. Ero già stata a Venezia con mio marito e mio figlio nel… Mio Dio, che orrore, nel 1898! Pochi mesi dopo aver tentato di uccidermi. E poi con Cena. Povero Giovanni! Eravamo andati a Chioggia. Lui mi aveva fatto delle fotografie. Mi faceva fotografie dappertutto». Sibilla tace. Il taxi è arrivato al bois de Boulogne. L’autista si volta: «E adesso, Signorine?». «A Bagatelle!», ordina Aurel. «A quest’ora?», chiede il tassista stupito. «Faccia come le dico! Poi torneremo a Pigalle».

273

Sibilla non ha ascoltato, sogna ancora ripensando al proprio viaggio in aereo con Tullio Bozza. «Sono arrivata a Parigi nel settembre del 1920. Plan mi stava aspettando. Dopo Venezia, avevo aspettato tre settimane a Courmayeur il mio passaporto. Invano. Tullio sarebbe andato da solo a Anversa per le Olimpiadi. Io dovevo aspettarlo a Bruges. Ho aspettato tanto per il passaporto, che Tullio mi ha telegrafato la sua vittoria da Londra. Dunque è là che ci siamo rivisti. Ho fatto il viaggio in aereo con Marta Palmer, la grande sarta». «Che meraviglia! Raggiungere Endimione attraverso l’aria insieme alla regina della nostra eleganza. Si ricorda il nome dell’apparecchio?». «Era un Farman. Con enormi lettere dipinte sulla carlinga. G.E.A.B. Lo si direbbe il nome di uno spiritello shakespeariano». «Proprio quello che ci voleva. Un personaggio del Sogno di una notte di mezza estate». «Era proprio d’agosto, in effetti. Ho conservato il ricordo di una placidità sorridente sul campo d’aviazione. I piloti, immersi in una luce dorata, creavano un universo allegorico». «Quanti eravate a bordo?». «Soltanto tre. Noi due e un’altra donna. Il nostro caro Plan ci ha accompagnate fino al campo». «Sono sicura che questo volo le ha ispirato dei versi». «È vero: “Fiero leggero transito senza sgomento / veramente come nel sogno avvenne / o come nel vento della poesia”. Ero in quel momento una creatura d’aria, che un niente avrebbe potuto soffiare via. Una cosa di grazia tenue, diffusa, ma infinita». «Perché non ha inserito questa scena nella pièce?».

274

«Perché quel giorno, non so se l’ho veramente vissuto. Di tutto ciò che ho scritto, son certa. Son certa di questo amore per Tullio fino alla morte. Ma del decollo al Bourget, l’atterraggio a Croydon, non sono sicura. Gli eventi più belli non sono che immagini evanescenti». «E di questo evento teatrale, ne è sicura?». «Le dirò, Aurel. L’emozione più forte l’ho provata dietro le quinte, durante la prova generale. Ho tremato d’orrore e di spavento nel rendermi conto all’improvviso che avevo fatto della voce di Tullio e della mia due strumenti al servizio di decine d’anime sospese in ascolto. Non sarebbe stato meglio rinunciare? Non facevo che chiedermelo. Poi mi son detta che Lugné-Poe aveva allestito Casa di bambola. È strano quello che ho provato dietro le quinte. Una parentesi della coscienza. Mi son sentita come un’invitata imprevista, indesiderata. Un invisibile angelo custode di me stessa, del mio passato. Ho resuscitato Endimione, capisce? E gli spettatori erano come le ombre che Ulisse incontra negli inferi. Endimione, quel morto a cui io avevo reso la vita, era tra gli spettatori, vivi, come l’unico vivo in mezzo a defunti, capisce? Il teatro ha questa forza: fare di un morto l’unico essere vivente. E noi siamo tutti nell’ombra, come spettri sull’altra sponda dell’Acheronte! Ho preso coscienza del potere della poesia: la realizzazione scenica di un fantasma. È una tirannia invisibile, sacra, che esercitiamo sulla folla silenziosa». Mentre parlava, e poi durante tutta la serata al ristorante, dove la attendevano gli attori, Lugné-Poe, Larbaud, Marta Palmer, la giornalista Yvonne Lenoir che doveva intervistarla per «Les Nouvelles Littéraires», Sibilla nutriva ancora l’illusione di aver raggiunto il proprio obiettivo, con la sua pièce. Al Théâtre de l’Œuvre gli «operai», come gli attori definivano se stessi, potevano recitare la pièce soltanto due giorni, perché avevano già preso impegni per altri spettacoli. Probabilmente

275

l’autentico successo critico ottenuto in Francia dal Passaggio e la profonda amicizia che la legava a Aurel, Larbaud, Anna de Noailles, Camille Mauclair, Edmond Jaloux fecero credere a Sibilla che, se la pièce era stata acclamata a Parigi, anche in Italia Il passaggio e Endimione avrebbero finito per essere accettati. «Ampio poema della vita interiore» (Camille Mauclair). «Sensibilità esasperata, franchezza straziante, delicata audacia» (Henri de Régnier). «Una vera magnificenza» (Paul Souday su «Le Temps»). «Lirismo trasfigurante, realismo mistico» (Benjamin Crémieux). Le formule con le quali venne incensata la traduzione del Passaggio lasciavano presagire per Endimione un’accoglienza altrettanto lusinghiera. Ma ciò che Sibilla aveva presentito si realizzò ineluttabilmente. La pièce risultò difficile da allestire in Italia. Sibilla aveva passato gli ultimi mesi della vita di Tullio Bozza nella più grande confusione. Il 20 settembre 1921, dopo aver peregrinato insieme a lui di albergo in albergo attraverso tutta l’Italia e aver litigato col proprio datore di lavoro, l’editore Bemporad, che non si rassegnava all’idea di esser stato respinto, Sibilla vide per l’ultima volta il suo amante cosciente. Poi a Roma si separarono. Quando lei tornò a Napoli, nel novembre del 1921, Tullio era nelle mani della famiglia: le fu dunque impossibile assisterlo nell’agonia. Comunque le fu permesso, durante le ultime ore, di rivederlo. Nel frattempo un altro uomo si era innamorato di lei: Lauro De Bosis, amico di Joyce e pilota. Sibilla non aveva lasciato trasparire niente di questa passione che aveva provocato senza volerlo. Nel suo romanzo inedito si dilungherà, con tutta la precisione che avrebbe desiderato Aurel, sulla sensualità del suo amore per Tullio Bozza, per questa statua addormentata: «Restava giorni interi a pensare a un atteggiamento del corpo amato o a

276

quei lisci capelli di viola che gli si scomponevan in lunghi viticci sugli occhi quando annodato a lei sussultava di piacere […]. Silvio passava sull’orizzonte della vita come passano certe donne che fanno sanguinare l’anima dei poeti e che son bellissime d’aspetto. Ma nulla o assai poco intendono dei vasti deliri che suscitano. Incolpevoli dunque e forse irreali». Sempre nuovi registi, attori e attrici rifiutano la pièce da più di un anno. Da quando Tullio è morto, Sibilla attraversa un periodo economicamente difficile, come attesta il vano tentativo di realizzare l’adattamento cinematografico di Una donna. Per il cinema prova un’attrazione cui ha ceduto del resto la stessa Duse, interpretando Cenere di Grazia Deledda, la grande rivale di Sibilla. La scrittrice sarda, eclissando ahimè la fama della nostra a Parigi, otterrà il premio Nobel nel 1926 (premio che Sibilla, senza crederci troppo, tenterà di ottenere negli anni Cinquanta). «Arte o non arte?», si chiede Sibilla. «V’hanno possibilità estetiche laddove la meccanicità interviene? Non posso non sentire un umano impietosimento per tanto pallore che s’agita, per quest’affannarsi d’ombre verso la corposità. Qualche mossa più incisa sembra affermare disperatamente, anche in quell’eterna condanna al limbo, una vita, uno spirito». Ma questa «condanna al limbo» l’opera di Sibilla non la conoscerà. La pièce, pubblicata in Italia, viene stroncata ancor prima di essere allestita. «Tutti gli estetismi di cattivo gusto, commisti alle scipitaggini e alle false perversità di certe basse estetiche straniere fuor di moda […] si rivelano appieno nel loro massimo orrore», scrive Ardengo Soffici con rabbia, lasciando intendere che la fama di cui gode Sibilla a Parigi non è tenuta in grande considerazione a Firenze. Sicuramente Soffici non ha ancora perdonato a Sibilla il suo amore per Campana, che ave-

277

va denunciato con involontario scalpore il disinteresse, o meglio l’esagerata diffidenza con cui i letterati dell’élite fiorentina avevano accolto l’apparizione di un poeta che non apparteneva al loro ambiente. Ma, forte del successo di Endimione a Parigi, durante l’estate successiva Sibilla scrive, ai Bagni di Lucca, un’altra pièce, La casa nel sole (prima versione di ciò che diventerà poi, un anno dopo, Francesca Diamante). Vi lavora per un mese, dal 7 luglio al 7 agosto 1923. L’azione si svolge «in un’isola mediterranea rupestre», cioè in Corsica. Poco tempo prima (nel 1922) era stata ristampata Trasfigurazione, con un frontespizio di Primo Conti; Sibilla avrebbe desiderato una vasta diffusione di questa novella, ma il suo editore si era contentato di un’edizione di lusso con una tiratura di mille esemplari. Lei ha aggiunto a lapis, sulla prima pagina del manoscritto: «Ambientarlo su una montagna vicina a Milano». Ha dunque intenzione di mescolare varie storie d’amore, confondendo volontariamente tra loro Cardarelli, Papini, Bozza. Come il personaggio principale del Frustino, Chiara d’Arduino è una cantante lirica. Ma la pièce comincia dopo la morte della «protagonista», che è un doppio di Sibilla. L’opera consiste in un commento sull’esistenza dell’autrice, in un giudizio collettivo sul suo modo di vivere. La donna si è uccisa. «Viveva sola, non le si conoscevan più avventure né passioni già da qualche anno. Era dunque ancora più vicina al cuore del mondo, al cuore delle cose. Non è escluso che un dei motivi per cui si è uccisa sia stato la ribellione alla necessità di dover ancora una volta guadagnarsi la vita… Non posseder più nulla e donare ancora». Sibilla è entrata in una fase che si rivelerà definitiva. Ormai il suo bisogno di denaro si fa cronico: la scrittrice si troverà sempre nell’indigenza e vivrà alla giornata. Il periodo di prosperi-

278

tà che ha appena conosciuto era legato alla ricchezza dei suoi ultimi due amanti, Merlo e Bozza, e all’aiuto del suo editore, Bemporad. Nell’estate dell’anno dopo, ella scrive dunque Francesca Diamante. Endimione non è ancora stato rappresentato in Italia, Sibilla sottotitola la nuova pièce «mistero drammatico», poi «mistero ingenuo», dandole come altro titolo possibile La voce di là. Come Chiara d’Arduino, Francesca Diamante si è uccisa all’inizio della pièce. Suo figlio Valerio, come la somiglianza dei nomi sottolinea, può esser considerato un doppio di Walter Pierangeli, che Sibilla non ha ancora rivisto. «La morte non esiste!», dice Valerio. «Esiste l’anima. Gli anni e gli errori, i delitti e i patimenti, tutto forse è necessario alla nostra povera essenza umana perché essa giunga ad intendere la propria immortalità. L’anima di mia madre ha agito su di me, sempre. Era forza, era fede, ora oscura or trasparente e mi sussurrava, come ad uno nel sonno: “Attendi, verrà l’alba”. Nel sonno ho avuto perfino qualche sua carezza – e forse lo stesso è accaduto a lei. Non credi che avrà sentito qualche volta le mie braccia attorno al capo stanco, la notte? Come altrimenti avrebbe resistito?». Anche se messo apparentemente in secondo piano dall’ossessione di allestire Endimione e dal lutto per la morte di Tullio Bozza, un avvenimento aveva segnato l’inverno 1922-23: l’incontro col conte Sforza, che aveva fatto una furtiva apparizione al Théâtre de l’Œuvre la sera della prima. Proprio uno dei giorni precedenti la sua partenza per Parigi, nel 1922, Sibilla aveva visto dalla finestra della sua camera dell’hotel Eliseo un gruppo di fascisti che picchiavano col manganello uno sconosciuto e continuavano ad accanirsi su di lui anche quando questo giaceva a terra coperto di sangue. Sibilla era subito andata a trovare Giovanni Amendola, allora ministro

279

degli Esteri, che lei conosceva da dieci anni, e gli aveva chiesto una lettera di presentazione per l’ambasciatore italiano in Francia, Sforza. Amendola accettò, lasciandole capire che né lui né Sforza sarebbero restati in carica a lungo, data la loro presa di posizione nei confronti del fascismo. Quando incontrò Sforza, Sibilla provò per lui un «desiderio romantico». Fu questo sentimento a determinare la sua diffidenza verso il fascismo. «L’uomo più simile a me», dice di lui Sibilla, «nel tessuto fisico e nella tempra morale. Alto, bellissimo, sdegnoso della sorte. Se l’avessi incontrato in uno dei giardini della sua e mia adolescenza, tutta la vita si sarebbe poi svolta per lui e per me come una nuziale festa. Per questa certezza che ci colse al primo sguardo scambiato in un giorno della nostra ardente maturità, l’amicizia amorosa che ne nacque è stata poi governata sempre dalla più lucida saviezza: da vicino, da lontano, in rari brevi ritrovi e in lunghi apparenti oblii, in qualche lettera, in qualche dolce scherzevole carezza. Più intensa e forte l’esaltazione in me, più creativa, con zone di purissimo pianto; ma il Principe sempre m’ha trovata sorridente, signora perfetta». Ha conosciuto il «Principe», come lo ha soprannominato lei, in rue de Varenne, nelle sale dell’ambasciata italiana. Lui ha appena dato le dimissioni. «C’era un’aria tragica di sgombero, nelle sale». C’era già stata la marcia su Roma. Ma già nel 1923 Sibilla si mette in contatto con Corrado Pavolini, fratello del futuro ministro della Cultura popolare di Mussolini, e progetta con lui di fondare un giornale culturale. Quando Sibilla viene imprigionata, Pavolini si contenta di osservare: «Ho saputo in via privata dell’infortunio politico toccato alla poetessa bionda: non so se compiangerla o dire “ben le sta”…». Comunque Sibilla non perde i contatti con Sforza, e il loro legame si farà più saldo durante e dopo la seconda guerra mon-

280

diale, al momento in cui il «tempo lontano, quando l’elemento fisico agiva fra noi e dava all’attrazione un che d’inquieto» non è che una zona incosciente di ricordi. Alla fine del 1923 e durante tutto il 1924 Sibilla tenta con ogni mezzo di far rappresentare Endimione in Italia. Finalmente, grazie a Corrado Pavolini, incontra Tatiana Pavlova, un’attrice russa stabilitasi in Italia. Questa accetta di interpretare la parte femminile, dopo aver ascoltato la lettura del testo fatta dal giovanissimo attore Renato Cialente in presenza di Sibilla. Nel 1924 Renato Cialente aveva ventisette anni. Il 6 giugno 1924 Endimione viene accolto, al Teatro Carignano di Torino, con fischi e risate. Quando Sibilla va a salutare il pubblico, che le risponde con beffardi schiamazzi, viene raggiunta sulla scena dalla scrittrice e poetessa Annie Vivanti, che ha allora cinquantasette anni, e dal ventiquattrenne Piero Gobetti. Quest’ultimo pubblica il 12 luglio 1924, un mese dopo la «caduta» di Endimione, l’unico articolo di fondo che sia mai stato dedicato a Sibilla Aleramo, «profetessa senza Dio». Il pezzo, di una giustezza assoluta, mette in rilievo le debolezze e la genialità della scrittrice, ormai destinata a occupare una posizione definitivamente marginale nella letteratura italiana. Il momento in cui Sibilla saluta il pubblico in mezzo alle risa di coloro che si erano dichiarati suoi amici segna l’inizio di una nuova fase, ancor più solitaria delle precedenti. «Il senso morale è in lei così dominante», scrive Gobetti, «che le uccide la fantasia». Ma, dopo aver analizzato diffusamente il mito romantico nella sua opera, egli loda l’«inesauribile coraggio che noi amiamo in Sibilla, l’ostinata ribelle al culto della legge così utile a chi è potente, fanatica del culto per l’energia umana». Gobetti è il primo a presagire l’adesione di Sibilla al comunismo: essa avverrà soltanto per influenza di Franco Matacotta, il suo ultimo e giovane amante, dopo la dura prova della seconda guerra mondiale, ma si stava già preparando fin

281

dal pieno periodo fascista, quando Sibilla sembra sul punto di cedere alla seduzione del potere. Poco tempo dopo, ella diventa l’effimera amante di Zaniboni, deputato socialista. Lo ha incontrato alla fine del 1924. La loro relazione è di breve durata, perché lui è troppo preso dall’impegno politico. Zaniboni complotta contro Mussolini e progetta di abbatterlo il 4 novembre 1925, mentre il Duce arringa la folla dall’alto del balcone di Palazzo Chigi, appostandosi a una finestra dell’hotel Dragoni. Ma viene tradito, denunciato e arrestato. Il Partito socialista unitario del quale faceva parte viene immediatamente sciolto. Il tentativo di attentato ha conseguenze disastrose sulla libertà d’associazione e di stampa. Nel novembre del 1925 Sibilla si trova dunque a casa di Primo Conti, che conosce da tre anni. Lui ha già illustrato la copertina della sua novella Trasfigurazione. Adesso le sta facendo un ritratto. Per questo Sibilla posa nel suo studio del corso Regina Piena, con vista sull’Arno, al primo piano sopra il teatro Politeama. Lei sta leggendo delle poesie inglesi, non nella lingua originale che lei non imparerà mai ma nella traduzione di Fernando Agnoletti, con il quale ha avuto una breve relazione dieci anni prima. Indossa un accappatoio arancione. Parla dei suoi amanti passati senza fare nomi. Come dice «l’Arte», così dice «l’Amore». Quando gli agenti suonano alla porta. Sibilla è in bagno. Viene obbligata a uscire immediatamente e a salire, senza neppure cambiarsi, sulla camionetta della polizia. Lei non capisce cosa stia succedendo, ma non protesta. Questa è la versione di Primo Conti. Quella di Sibilla è diversa: la perquisizione sarebbe avvenuta la sera, ma invano. Sibilla aveva ormai rotto con Zaniboni da circa un anno. I Conti, che la ospitavano, si sarebbero impauriti e la avrebbero cacciata di casa su due piedi. Lei si sarebbe recata allora all’hotel

282

Elvezia e la mattina dopo avrebbe messo al corrente della vicenda il suo amico Agnoletti. Dietro suo consiglio, si sarebbe apprestata a partire la sera stessa, ma alle ventitré sarebbe stata arrestata e condotta al commissariato, sottoposta a un interrogatorio e incarcerata nella prigione di Santa Verdiana in attesa che il suo baule, lasciato in deposito all’hotel Eliseo di Roma, venisse perquisito. Si possono immaginare gli effetti di questo incidente che, oltre all’incarcerazione e a una lunga serie di noie con il governo fascista, comportò per Sibilla la fine della carriera giornalistica e le ispirò tre poesie: Miele, Ebbrezza e Vele d’oro. Su la mia bocca da la bocca d’uno mai prima d’oggi veduto, un bacio un bacio violento oggi è caduto…

E Sibilla firma, come è già stato detto, il manifesto di Croce. Fu, scriverà lei più tardi, una specie di omaggio sentimentale a Sforza. Conosce anche Gabriele Mucchi, che la introdurrà nel Partito comunista italiano dopo la guerra. Ma il 22 febbraio 1925, alla vigilia della ripresa romana di Endimione al Teatro Valle, la sua vita cambia bruscamente orientamento con l’incontro di Julius Evola.

283

16

Il gigolò nudo

I tre anni che seguono saranno segnati da questa amicizia che, secondo un tipico percorso del comportamento di Sibilla, sfocerà in passione, ma per un altro. In questo caso per un giovane gigolò, Giulio Parise, amico e discepolo di Evola. Julius Evola, «pensatore di destra» e mistico amico del fascismo, ha scritto, un po’ sulla scia di Otto Weininger, diversi saggi sul rapporto tra sessualità e metafisica, sul valore simbolico dell’androginia, sulla funzione sacra del rapporto sessuale. In altre parole, ha fornito ai temi presenti da anni nell’opera e nella vita di Sibilla la loro teoria, appoggiandosi a testi religiosi appartenenti ai culti più vari. Il suo aggettivo preferito, «trascendente», è fra quelli che anche Sibilla predilige per definire il suo rapporto con l’attimo, la seduzione, il piacere. Per esempio, a proposito del suo lavoro teatrale, ella si chiede: «C’è dunque veramente in esso tutto il lato trascendente della mia essenza?». Trascendenza, trasfigurazione, trasmutazione: sono questi i concetti favoriti di Sibilla. Evola fonda la rivista «Ur», poi «Krur», poi ancora «Atenor», coinvolgendo due suoi discepoli, Arturo Reghini e Giulio Parise.

284

Sibilla vede episodicamente Evola per tutto il 1925 e il 1926. Gli dedica una poesia: Purpurea bellezza in cielo stasera fra strisce d’oro e vene d’azzurro, bellezza, come un lampeggiante sguardo a’ miei pensieri di morte, così potesse tramontar la stanchezza per tutta la mia vana passione, strisce d’oro, sangue, speranza d’azzurro, vana anche sei tu, bellezza ma purpurea, ma dolce.

Nel giugno del 1926 conosce Giulio, al quale nel suo romanzo Amo dunque sono, pubblicato l’anno successivo, darà il nome di Luciano. In questo romanzo scritto in meno di un mese e mezzo, che consiste in una specie di diario formato da lettere, secondo il procedimento già adottato in Trasfigurazione, Sibilla racconta il suo amore per questo strano personaggio, questo gigolò mistico che rifiuta qualsiasi contatto carnale con lei e fugge la sua passione rifugiandosi in un monastero su un’isola. Dunque Sibilla incontra Evola prima di Parise. Evola è allora l’amante della marchesa Picardi, una depravata donna di mondo che attira Sibilla nella sua cerchia e la convince ad assistere allo strip-tease del giovane Giulio nel suo salotto. Ecco la genesi del loro incontro. Di Evola, ella scrive nel suo romanzo: «Bisogna riconoscere che il mostro moderno ch’egli è porta perfettamente la maschera del fantoccio mondano». «Disumano qual è, gelido architetto di teorie funambolesche, vanitoso, vizioso, perverso, si è trovato dinanzi a me come a cosa tutta viva, tutta schietta, mentre aveva fantasticato chissà quale avventura necrofila. E questa cosa tutta viva tutta schietta l’ha turbato, l’ha commos-

285

so, segretamente. Forse è stato per ciò, per aver colto gl’involontari, quasi impercettibili segni del suo stupore e del suo intimo tremore, ch’io mi sono appassionata per lui. Nulla aveva per piacermi, tutto per ripugnarmi. Cinismo, artificiosità, compostezza gelida… Ma sotto quel congegno meccanico e snobistico ancora c’erano possibilità sentimentali. Ancora il poeta e l’artista ch’egli credeva aver per sempre soffocato potevano riaffiorare… Così m’illusi». Ha incontrato quest’uomo, da lei soprannominato «Il Mago» e ribattezzato Bruno Tellegra nel suo romanzo, a casa dell’amica Olga Signorelli, il 22 febbraio 1925. Si erano già visti di sfuggita a Courmayeur nel 1923. Lui era allora in compagnia della marchesa Picardi, la Piera Vasco del romanzo: «Io ricordavo la coppia singolare: lei, piccola, esile, elegante, con un’aria fatale d’ido­lo; lui, alto, compassato, con due perle brune nello smalto dell’orbite». Il 22 febbraio 1925, a casa di Olga Signorelli a Roma, lui «s’era inchinato, con uno strano tremore visibile in tutto il volto; poi, sedutosi accanto, m’aveva rivolte alcune domande, con la voce un po’ strascicata, un po’ assente. La sua mano destra, sul ginocchio accanto al mio, lunga, sottile, col filo d’oro al polso e le unghie lucidissime, si contraeva quasi impercettibilmente in espressione fra estatica e rapace. Io avevo detto a me stessa: “Costui mi vuole”. Avevo soggiunto: “Perché no?”». L’indomani, 23 febbraio 1925, era dunque il giorno della ripresa romana di Endimione. Sibilla era rimasta fra le quinte, come per la prova generale al Théâtre de l’Œuvre. Aveva visto, «in scorcio, la confusione di tutti i personaggi; il volto di Cialente in preda al trac classico, e quello della Pavlova, che fin dall’inizio s’era deliberatamente dimostrata irresponsabile, giungendo nelle controscene a sottolineare con canaglieschi guizzi di sorriso le facezie della sala». Ma, invece di ribellarsi, Sibilla «giustifica il pubblico, e, in parte, gli stessi attori. Assiste, non alla rappresentazione, ma alla caricatura della sua opera».

286

Poi Sibilla era tornata a casa da sola, pronta, sotto l’impulso del disastro, ad accettare Evola. Ignorava ancora che tra il pubblico si trovava Giulio Parise. Ella aspettava «con il fervore ogni giorno crescente di chi è abituato a creare dal nulla, a veder dalla pagina bianca sorgere armonie». Sibilla comincia a frequentare la marchesa Picardi che, cinica e perversa, è affascinata dal suo candore sensuale. Nei confronti di Sibilla Aleramo la marchesa Picardi gioca il ruolo della marchesa di Merteuil, ed Evola quello di Valmont. Ma Sibilla non riesce ad assumere quello della presidentessa di Tourvel. Del resto non è Les Liaisons dangereuses ma La Princesse de Clèves che, nelle difficoltà economiche in cui si trova, ella si appresta a tradurre. Aveva però progettato di tradurre il romanzo di Laclos nel luglio del 1923, su proposta di Bemporad e, non avendolo mai letto, aveva chiesto un parere a Larbaud. La Picardi finisce per prendere le parti di Sibilla, e le ingiunge di piantare Evola. Ma questo la precede. Le dice: «È finito. Voglio così». La Picardi trascina Sibilla sulla Riviera e tenta di sedurla. Va nella sua stanza seminuda, la ossessiona «con la sua pelle, con i suoi gesti di gatta, con racconti lascivi». Sibilla torna a Roma, rivede Evola. Ottiene «ancora una, due notti. Miseria». Evola si rinchiude in casa sua, o dalla Picardi. Si drogano con l’etere. Sibilla rivede la Picardi, che le dice: «Vuoi venir da me giovedì sera? Ti farò trovar soltanto il bel Giulio… Vuoi che lo faccia spogliare, che egli ti mostri il suo nudo? Vedrai, è perfetto. Egli si sveste con molta disinvoltura, non v’annette importanza. Se ti piacerà, te lo donerò. Un dono regale. Vuoi?».

287

Quel giovedì di giugno del 1925 Sibilla va dalla Picardi. Giulio Parise, che ha ventiquattro anni, ha accettato di spogliarsi davanti a lei. Ma mentre la marchesa è intenta a creare una luce soffusa, Parise si rivolge a Sibilla e le rivela di aver assistito alla rappresentazione di Endimione al Teatro Valle. «A quel massacro?», chiede Sibilla. «Non era possibile che il lavoro si salvasse, recitato in quel modo… Peccato. Una cosa bella, piena di un palpito sottile e vasto…». Sibilla lo guarda. Lui non era più «il bel ragazzo, disposto sardonicamente a qualunque fantasia viziosa che gli richiedesse la loro ospite… Era, d’improvviso, un’anima affine alla sua. Né mentiva, lei lo sentì». Sibilla si volta verso la Picardi, bambola meccanica a cui sia appena stata data la carica. Con gesto risoluto, riaccende ella stessa le luci. «La commedia è finita», dice Sibilla. Invece è appena cominciata. Ciò che Evola definirà una «griserie» (ebbrezza) e Sibilla il suo «sogno più profondo» resterà in germe per un anno e sboccerà nell’estate del 1926, quando, per onorare un contratto con Mondadori, Sibilla ha l’idea di tenere un diario per poi proporlo, cambiando i nomi, come romanzo. A dire il vero questo progetto, da parte sua, non stupì nessuno. Una ventina d’anni più tardi, prima della ristampa, Sibilla rileggerà Amo dunque sono insieme a Franco Matacotta, che le consiglierà alcuni tagli: «Tira grandi sbarre su brani che trova “indegni” o troppo “ridicoli”. Non dico che non abbia ragione, ma la sua critica mi deprime, mi riconduce al mio vecchio terrore di essere vissuta invano, di non lasciare alcun segno…».

288

Per più di un mese, Giulio Parise la lascia dunque sola a Roma e si ritira a meditare in una «torre in mezzo al mare». La avverte: «C’è anche l’eventualità ch’io non ritorni…». Cosa racconta lei nel frattempo? Ancora una volta, la storia della sua solitudine e del suo desiderio. La loro unione non si è realizzata fino in fondo. Giulio le si è rifiutato. Le concede soltanto di baciarlo. Un giorno si è coricato nudo davanti a lei e, avvolto in un lenzuolo, le ha permesso di carezzarlo attraverso il tessuto. Lei si vendica con la crudezza delle sue confessioni: parla del proprio periodo mestruale. «Nessuna poetessa ancora, in un superamento eroico, ha analizzato ed espresso questa condizione animale e sacra, queste pause durante le quali la vita dello spirito sta sospesa in un alone torbido…». Confessa anche che si masturba. «Casta, da mesi e mesi, nell’attesa dell’ora che stringerai come in una morsa le mie membra fra le tue, ho potuto stamane, senza timore, abbandonarmi qualche istante al piacer di me stessa, e poi rialzarmi, con senso di refrigerio profondo. Più vicina a te ora mi sento, ancor più tua, assoggettata dalla mia volontà alla tua maschia impronta». Sibilla va a Salsomaggiore per la sua cura annuale, poi a Frascati, infine torna a Roma e si stabilisce in via Margutta al numero 42. «Da tanti anni sono assuefatta a vivere in stanze d’affitto», osserva Sibilla, «or qui or là, or in albergo or in pensione, fra mobili di carattere sempre uguale, neutro, di vere “cose”, che credo esser diventata incapace di più concepire l’idea della “proprietà”». Crede che Giulio Parise sia sempre nella sua torre. In realtà è tornato a Roma e la evita. Lei lo rintraccia. Vorrebbe andare con lui a Firenze, nella casa dei Cecchi. Ma Emilio rifiuta: «Sapere voi fra i miei libri, i miei fogli, in queste stanze; con le visite dei teosofi, etc. No, Sibilla. Siamo troppo diversi! Una casa è come la penna stilografica. Non si può prestare».

289

Il romanzo esce l’anno seguente, 1927. Nel frattempo, Sibilla fa i primi tentativi di riavvicinamento al governo fascista, che non le ha ancora perdonato l’affare Zaniboni. Il libro viene accolto all’inizio con disprezzo, biasimo o incomprensione dagli amici di Sibilla (tra i quali Cecchi), ma, con grande sorpresa di tutti, appare sul «Corriere della Sera», a cui Sibilla tenta di collaborare da due anni, un articolo estremamente lungo e convincente di Pietro Pancrazi su Amo dunque sono. Palesemente sconcertato da questa scrittrice inclassificabile e dal suo temperamento che nessun pregiudizio viene a paralizzare, il critico vince le proprie reticenze e, pur protestando contro il carattere disuguale del libro, l’esibizionismo dell’autrice e l’ambiente equivoco ed esoterico in cui la trascina il suo amore per questo «strano tipo», è costretto ad ammettere che ci sono passi in cui solo la donna appare, «rare pieghe d’ombra in pagine di sole e piombo». L’estrema precisione delle sue osservazioni critiche rivela una lettura appassionata, anche se un po’ perplessa, di questo romanzo pieno di «sentimentale disordine». Come Sibilla ha scritto diverse volte, l’amicizia con Gor’kij (che ha incontrato ai tempi di Cena, nel dicembre del 1907, poi a Capri prima della guerra, nel novembre del 1912, infine a Sorrento nel marzo del 1928) è stata per lei determinante. Di lui ha fatto un ritratto in Gioie d’occasione. Quando si sono visti l’ultima volta, lui aveva preso in affitto una villa di fronte alla «Piccola Minerva», la pensione dove un tempo Sibilla aveva alloggiato. Gor’kij parla un po’ d’italiano. Lei gli ha fatto avere una copia di Amo dunque sono, in cui il suo nome è citato tra quelli delle grandi figure che hanno segnato la personalità dell’autrice: insieme a Rodin, la Duse, D’Annunzio. Ma Sibilla aveva scritto «forse Gor’kij», e rimpiange adesso di aver messo quel «forse».

290

Ella varca il cancello del Settecento. Lui le viene incontro sul viale di aranci. «Ah, è lei», le dice. «La avrei subito riconosciuta. Non è affatto cambiata». «Eppure sono passati sedici anni», risponde lei stringendogli la mano. «Già. Avevo letto Una donna in russo». Ha gli occhi di un blu intenso, che brillano con «una sapienza infinita, come in certe pupille di bimbo». «Era una specie di gigante», scriverà Sibilla nel Mondo è adolescente. «La fronte non era molto alta, e le ampie rughe la facevano più corta, quando le sopracciglia si aggrottavano: i capelli rossicci vi si piantavano diritti e folti. Il naso dalle pinne rialzate e gli zigomi sporgenti avevano qualcosa del mongolico, ma il carattere dell’indimenticabile maschera stava piuttosto nel mento largo e nella bocca dalla espressione salda, però non mai dura. […] Un sorriso tenero, buono, limpido se pur con una vena di malinconia ben dominata». Salgono alcuni scalini ed entrano nel salotto, ornato con carta di diversi colori: «Ho appena finito sessant’anni. E nello stesso tempo è il trentacinquesimo anniversario della mia attività letteraria. Una bambinata, non trova? E poi, da noi la Pasqua è una festa importante!». Sibilla, che credeva di esser ricevuta da sola, rimane un po’ sorpresa per la numerosa assemblea che l’accoglie, intorno a un samovar d’argento. «Vede», dice Gor’kij indicando il samovar, il caviale, le sigarette. «Mi festeggiano come un giovanotto». «Avete fatto venire tutto da Mosca?». «È naturale», dice Gor’kij ridendo. Le presenta il figlio, la nuora, una nipotina, una coppia di pittori.

291

Sibilla si toglie il cappello. Con candore brutale, Gor’kij le dice: «Però, è un po’ cambiata!». Istintivamente, Sibilla sfiora la sua ciocca bianca. «Adesso ha più carattere, più forza. Dica, baronessa», chiede rivolgendosi alla baronessa Budberg, sua segretaria. «Chi le ricorda questo profilo?». E le indica Sibilla. «Caterina». «Ecco, infatti!». Tutti mormorano, ridono, approvano. Sibilla resta interdetta, senza capire subito di quale Caterina si tratti. «Dovrebbe esser fiera di questa somiglianza imperiale», dice Gor’kij trascinandola verso il suo studio. «Lei somiglia a Nietzsche». «Anche lui è venuto a Sorrento». Si siede alla scrivania, su cui troneggia una foto di Puškin. «Mi diceva al telefono che andrà a Parigi in giugno. Quali sono le ultime novità, ne è al corrente?». «Io spero di incontrarvi James Joyce». «È uscito il suo Ulisse? È veramente rivoluzionario come si dice in giro?». «Dipende da ciò che si intende per rivoluzione». Lui la ferma con un gesto della mano: «Non parliamo di politica». «Non sono stata io a pronunciare la parola per prima», gli fa osservare lei. «Sono riconoscente al fascismo di lasciarmi in pace. Ma voglio rientrare». «Quando?».

292

«Forse tra qualche mese. È solo laggiù che posso finire questi». E lascia cadere la mano su due volumi. «Sono i primi tomi», precisa. Si intitolano Quaranta anni. Sibilla prende uno dei libri, ne ammira la rilegatura. «Ne è contento?». «No. Tra cinque o sei anni forse potrò scrivere qualcosa che mi soddisfi». «Quale dei suoi libri preferisce?». «La creazione dell’uomo, un libro che ho scritto quando ero ancora molto giovane». Carezza il viso di Sibilla. «Giovane come lei. E il suo? Una donna, senz’altro. O l’ultimo? L’ultimo è spesso il prediletto». «No, è Il passaggio». «Me ne hanno parlato. Quando è uscito? Due o tre anni fa?». «No, quasi dieci anni fa». «Allora ero tornato laggiù». «E adesso, che cosa farà, “laggiù”?». Lui guarda attraverso la vetrata il terreno terrazzato che declina verso il mare. Mormora: «Dolce». Sibilla si volta verso di lui senza capire. «Dolce, il paesaggio». Lei annuisce e insiste: «E laggiù?». «Tempestoso», dice Gor’kij sorridendo. «Non le piace la tempesta?». «Cos’è per lei la felicità?», gli domanda Sibilla a sua volta. «Perché non scendiamo a fare una passeggiata, Sibilla? Resta con noi, vero? Andiamo sugli scogli».

293

Quando sono in riva al mare, Gor’kij risponde: «È sapere che l’ultimo libro che ho scritto piace a qualcuno. È ricevere tutti i giorni una lettera da uno sconosciuto che mi ringrazia». «Crede di esser compreso?». «Sono un autodidatta come lei, Sibilla, lo sa. Credo al potere dei libri. Da dieci anni i contadini russi bruciano le biblioteche, distruggono i pianoforti a colpi di scure. Per loro sono simboli, niente di più. Forme senza contenuto. Per loro gli strumenti della cultura non hanno alcun valore. Il libro resterà sempre il grande problema della rivoluzione. Sa quanto tempo è rimasto in piedi il mio quotidiano, “Novaja Žisn”?». «Quanto?». «Sedici mesi. Anche lei aveva diretto una rivista, mi pare?». «Mi è sopravvissuta», risponde Sibilla sorridendo. «Era una rivista d’élite, a Firenze. Il problema non era lo stesso». «La situazione che mi sono trovato a dover affrontare io era insostenibile: mi ero illuso che, parallelamente all’educazione politica del popolo, si potesse organizzare la sua educazione estetica. Ma evidentemente le due sono in conflitto tra loro. L’una avviene a scapito dell’altra. Non si trattava soltanto di liberare il popolo dal giogo della religione, dal senso d’impotenza e di vanità che gli era stato inculcato». «Ma dov’è, secondo lei, la contraddizione?». «Via, Sibilla, lo sa benissimo. Perché lei è passata da Una donna a Amo dunque sono e alla poesia? Perché il realismo non era quello che lei cercava: sapeva che non è attraverso la triste, squallida riproduzione fotografica della realtà sociale che si può accedere alla coscienza, ma con altri mezzi». «Attraverso la sua trasfigurazione». «La chiami pure così, se vuole. Ma non mi piace questo termine religioso».

294

Sibilla ride. «Ogni cosa esiste per essere raccontata», risponde Gor’kij. «Ma questo non significa che l’artista possa aspirare a esser realista e affermare di conoscere la vita quotidiana, nei suoi aspetti più sordidi, meglio dell’operaio. Non basta offrire uno specchio: lo specchio rimanda un riflesso inutile, noioso, che mette in fuga chi già conosce se stesso. Shakespeare ed Eschilo valgono molto di più del realismo socialista». «Queste sono le sue opinioni personali». «Sì, so quel che dicono alle mie spalle, Sibilla. Ma le masse vogliono esser toccate da ciò che c’è di più nobile nell’animo umano e non hanno voglia di trovarsi ancora davanti allo squallore della vita quotidiana. L’artista non deve sottomettersi né ai dettami del contadino con la sua assurda ostilità verso ogni forma di cultura né a quelli dell’intellighenzia, che crede di poter manovrare il popolo proponendogli un’immagine semplicistica e limitata del suo destino. Dobbiamo trovare la nostra via tra questi due abissi». Sibilla cammina al suo fianco guardando in basso, muta e assorta. Gor’kij la osserva. «Quello che dico la rende pensierosa?». «No», risponde vivacemente Sibilla, prendendo il braccio di Gor’kij. «Ma a volte tutto ciò che ho scritto mi sembra inutile». Si ferma a guardare il mare, gli schizzi della schiuma che si frange contro gli scogli ai loro piedi in una miriade di soli lattei. «È qui che Ibsen ha scritto Casa di bambola, vero?». «Vedrà», le annuncia Gor’kij senza rispondere alla sua domanda, «ci sarà una grande festa stasera. Balletti russi alla maniera di Gor’kij. Abbiamo una balalaica e mio figlio danzerà. Sono sicuro che nemmeno a Parigi riuscirà a vedere uno spettacolo così bello».

295

«A Parigi», risponde Sibilla ridendo, «spero di rivedere Paul Valéry. Sembra che abbia perso completamente la testa per Ida Rubinstein. Si dice che Ravel abbia composto un balletto per lei». «Non sarà la stessa cosa, Sibilla. Noi danziamo per ridere, non per piangere! Al diavolo Massine, Diaghilev e Ida Rubinstein!». Gor’kij passa un braccio intorno alle spalle di Sibilla e la stringe a sé. «Si ricorda. Sibilla, le nostre passeggiate a Roma? Al Foro, a Monte Mario, a Campo de’ Fiori, per le vie di artigiani? Via dei Cappellari, dei Giubbonari, del Pellegrino?». «Lei diceva che il popolo italiano ha una “dignità individualistica”». «Ah, sì? Dicevo questo? È vero, infatti», riconosce lui ridendo. «Non rimpiange il suo soprannome adesso, Gor’kij l’Amaro?». «Perché? Oh, guardi!». In un prato, al di là di una staccionata di legno, scorgono un vitellino appena nato. Gor’kij gli parla in russo, canticchiando. «Crede che la capisca?», gli chiede Sibilla. «Capirà il russo?». «Certo che mi capisce», risponde Gor’kij. Gli si avvicina continuando a parlargli, poi torna verso Sibilla. «Sono felice di rivederla, Sibilla. Si ricorderà di me, vero? E poi scriverà un grande libro come Una donna, il grande libro della maturità?». Due mesi dopo, il 12 giugno, moriva Ambrogio Faccio. Pierre Paul Plan sta aspettando Sibilla al Café de Cluny, il 3 luglio 1928 a mezzogiorno. Ha davanti a sé il manoscritto di Francesca Diamante. Conosce Sibilla da vent’anni. Da quando ha tradotto Una donna nutre per lei una vera e propria vene-

296

razione. Non sarà lui tuttavia a tradurre il suo prossimo libro, Gioie d’occasione, ma Yvonne Lenoir, la cui intervista a Sibilla è appena uscita su «Les Nouvelles Littéraires». «Plan», dice Sibilla sedendosi all’improvviso di fronte a lui. Plan, un signore ormai anziano, sussulta. «Le ho fatto paura? Allora, mi dica tutto sulla mia pièce. Non faccia quell’espressione abbattuta. Non le piace Francesca Diamante? Non è una poi catastrofe. Non abbia paura, non mi sono messa in testa di farla rappresentare». «È un’opera che merita di esser letta, ma non è ancora il momento». «Certo, sarà il momento dopo che io sarò morta. Benissimo. Come L’assurdo. Scriverò sulla prima pagina: “Per il mio futuro biografo”. Anzi, lo faccio subito. Una matita, Plan». Si sporge verso di lui, prende la penna stilografica che lui le tende e scrive. «Non è come Cecchi, lei». «Perché, cosa ha fatto Cecchi?». «Non presta né la sua penna né la sua casa». «Sibilla, lei ha pianto!». «Io?». Sibilla non aggiunge altro, infila il manoscritto in una grande borsa e si alza. «Perché non andiamo ai giardini del Lussemburgo, Plan?». Sta già attraversando il boulevard Saint-Germain. «Chi è che la fa soffrire, questa volta?», le chiede Plan. Sibilla tace. «Che ne dice dei miei capelli?». Si toglie bruscamente il cappello e scopre la sua chioma fiammeggiante in mezzo alla quale spicca la grande ciocca bianca.

297

«È henné. Mi ha convinta Aurel. Sul boulevard Haussmann. Ormai non ho alternative: o questo, o una testa da vecchia. Mio figlio è in età di esser padre già da un pezzo. E della mia camicetta, che ne dice? Schiaparelli! Mi ha fatto un prezzo di favore». «Schiaparelli», ripete Plan, istupidito. «Sì, Schiaparelli. Non faccia quell’espressione sbigottita. Non sono diventata scema, anche se sono vanitosa. Tutti si rendono conto lo stesso che la poetessa italiana non ha una lira. Come dice il nostro amico Gabriele, me ne frego!». Plan ride. «Ride? Benissimo! Oggi ha l’aria un po’ meno infelice del solito». Si trovano adesso davanti al Théâtre de l’Odéon. «Vuole che andiamo a trovare Adrienne Monnier?», le chiede Plan. «No, l’ho già vista. È una persona squisita. Ha letto Il passaggio. Mi ha detto che parlo perfettamente francese. Tutto va per il meglio. È stata Ludmila Savitzky a presentarmela». Si fermano un momento davanti al teatro. «Dunque», dice Sibilla, «Francesca Diamante non verrà rappresentata qui. Decisamente non sono fatta per il teatro. Ma lei che dice, Plan, sarò fatta per la letteratura? E per l’amore?». «Perché è venuta a Parigi, Sibilla? Per fuggire da chi, da che cosa?». «Io non fuggo mai, mio caro. Per il momento, si figuri, ho bisogno di soldi. Sto cercando di vendere i miei manoscritti, le lettere della Duse, di Barrès. Le lettere firmate. Mi aiuterà a convincere i mercanti d’autografi?». «Sì, Sibilla». Sono arrivati ai giardini.

298

«Che ha fatto, Sibilla?». «Da quando sono a Parigi? Sono andata alle svendite. Inutile. Orribili. Molyneux. Orribile. Sono stata a teatro. Hedda Gabler al Français. Pessimo. Le pèlerin di Vildrac. Lo tradurrò. Stupendo. Un’idiozia di Guitry all’Edouard VII. Ma ho riso, era piena di brio, recitata alla perfezione. Più il testo è stupido, migliori sono gli attori. Sono andata al cinema. Chopin. Dei film cubisti allo Studio 28. Sono andata al Bal Bullier». «Come quindici anni fa. Con Boccioni. C’eravamo andati tutti e tre insieme, ricorda?». «Può darsi», risponde Sibilla elusivamente. «Ho rivisto Prezzolini a Montrouge. Per poco non vi ho incontrato Papini, pensi un po’. Ho offerto i miei servigi al direttore del “Figaro”. Mi ha fatto aspettare due ore senza ricevermi, mi ha ricevuta due giorni dopo e mi ha detto di inviargli i miei articoli: poi, si vedrà. Che eleganza, non le pare? E poi, abbiamo fatto follie, io e la Schiaparelli. La Nuit des Quat’z’Arts. Siamo andate a Montparnasse, alla Rotonde, poi alla Salle Wagram. Gli studenti erano quasi completamente nudi, solo coperti da un po’ di vernice colorata. Ma avevano dei corpi orribili. Mi ha scritto Montherlant». «Vede, allora!», esclama Plan eccitato. «Che cosa devo vedere?». «L’aveva detto che un giorno Montherlant sarebbe entrato nella sua vita». «Io ho detto questo? Ebbene, per il momento non vi entrerà. È in Spagna. Ho scritto a Giraudoux». «E perché diavolo?». «Mi piace il suo Siegfried. L’ho visto alla Comédie des ChampsElysées. Sono stata al ricevimento di Emile Mâle all’Académie Française».

299

All’improvviso Sibilla tace, si siede vicino alla fontana dei Medici, sprofonda in uno stato di prostrazione. Plan le prende la mano. «Mi dica che ha, Sibilla. Cosa c’è che non va?». «C’è che sono sola. Vedo mille persone tutti i giorni. Sono sola da morire, capisce? Tutti mi adorano. C’è una coppia di vecchietti che sta traducendo Amo dunque sono per presentarlo a Calmann-Lévy. Tutti mi vogliono vedere. Persino un tassista ha tentato di trattenermi. E sono sola». «Sola da chi?». Un po’ sorpresa da questa formula. Sibilla lo guarda sorridendo. «È vero, lei non ha letto Amo dunque sono. Sono sola da Giulio Parise. Guardi». Estrae dalla borsa una cartolina. Plan legge senza comprendere: «Di passaggio. Ho provveduto alla consegna della chiave e alla spedizione di quanto poteva interessare. Spero di tornare a Roma verso la metà di ottobre, se le cose andranno bene. Un saluto a madame De Nolva. Cordialmente G. P.». Gli occhi di Sibilla luccicano di lacrime. Plan ha un’aria smarrita. La osserva nella luce di serra diffusa dagli alti ippocastani che circondano la fontana e riflessa dall’acqua opaca color smeraldo su cui galleggiano pigramente fiori di loto socchiusi. Un bambino ha gettato la palla nell’acqua e piange. La madre si agita, finge di provare a recuperarla, emette un sospiro tea­ trale. Sibilla si distrae un momento, dimentica Plan e la cartolina, che lui sta continuando a leggere, meditabondo. Un guardiano si toglie calze e scarpe ridendo, si rimbocca i pantaloni ed entra nell’acqua, senza smettere di ridere. Il bambino urla e salta di gioia. La madre cerca una moneta in borsa. Quando il guardiano rende la palla al bambino, questo accenna una riverenza. La madre dà la moneta al guardiano, che si

300

porta un dito alla visiera del berretto e dà una lieve pacca sulla spalla del bambino, che si sottrae timidamente. «È la parola “cordialmente”»? domanda Plan. Come strappata a un sogno. Sibilla si volta verso di lui senza aver distinto quello che ha detto. «Mi spieghi», continua Plan. «Che cosa c’è da spiegare?», chiede Sibilla alzandosi. «Sono arrivata a Parigi il 9 giugno. Da allora ho scritto a Giulio Parise quasi tutti i giorni. Gli ho inviato telegrammi. Ecco la sua risposta. Significa che lascia il mio appartamento. Non lo vedrò più». «Da quanto tempo vivevate insieme?». «Vivere insieme, non esageriamo! Eravamo insieme da due anni. Capisce adesso: me ne frego di Valéry, di Vildrac, di Camille Mauclair, di Romaine Brooks, della duchessa de La Rochefoucauld, di Natalie Clifford Barney, di Rachilde. Lo sa, Plan?». «Sì, Sibilla?». «Ho le mestruazioni. Sto per avere cinquantadue anni. Credevo che mi fossero finite. Una settimana fa, invece, mi sono tornate». Il vecchio si chiude in un cupo mutismo. Sibilla non si cura di questa reazione. «Sono una donna piena di vita, ancora fatta per vivere!». «Lei è sempre molto giovane e graziosa, Sibilla». «Un giovanotto mi fa la corte. È timido, un po’ ridicolo. Si chiama Dondi. Sa cosa mi ha detto Daniel Halévy?». «Ha incontrato proprio tutti, a Parigi!». «Ha detto che mi trova avvincente, inquietante, pericolosa: anche per me stessa». «Lei è soprattutto in contraddizione con se stessa, Sibilla. È refrattaria alla società e guardi come passa le sue giornate a Pari-

301

gi. Frequentando salotti agonizzanti. Rachilde! Natalie Clifford Barney! E non sta più all’Hôtel du quai Voltaire, ma nel diciassettesimo arrondissement. Boulevard Berthier! Che idea!». Si siedono su una panchina vicino al Museo del Lussemburgo. Fa un caldo soffocante. «È una buona idea, mi fanno male i piedi. Perché non mi accompagna da Joyce?». «Quando?». «Il sette, tra quattro giorni». «Credo di non esser libero». «Invece potrebbe venire benissimo, ma non ne ha voglia. Mi trova frivola con tutti questi impegni mondani, vero?». «Non la giudico, Sibilla, non l’ho mai giudicata». «Sì, sono cose che si dicono. Ho un’idea: andiamo a “Fermé la Nuit”, sul quai de l’Horloge. Con un po’ di fortuna riusciremo a vedere Carco. È vero che è stato l’amante di Katherine Mansfield? Mi hanno detto che Perversità racconta la storia del loro amore». Il 7 luglio 1928, alle sei del pomeriggio, Sibilla suona il campanello di James Joyce. Plan non l’ha accompagnata. Le apre la porta un uomo «magro, alto, occhiali, baffetti biondogrigi, ispidi, labbro inferiore prominente». Porta una giacca di tela bianca, pantofole di pelle rossa. Ha l’aria agitata, stanca, «surmenée». «Non è per un’intervista?». «Non è per un’intervista». «Perfetto. Non ne concedo mai. Sono esausto. Che cosa vuole sapere?». «Niente di particolare. Sono un’amica di Ludmila Savitzky». «Sì, certo, Ludmila Savitzky. Benissimo».

302

«Ho letto Dedalus». «Lei legge in inglese?». «No, l’ho letto in francese. E Larbaud mi ha parlato dell’Ulisse». «Larbaud. Le ha mostrato il manoscritto della sua traduzione? Ci ho messo sette anni a scrivere Ulisse. E sono su un altro romanzo da sei. Lei scrive?». «Sì». «Allora lo sa. Ci mette anche lei tanto tempo?». «Uno dei miei libri è costato anche a me sette anni». Appare una ragazzina, che vede Sibilla e subito scompare. «Mia figlia. Lei vive a Roma?». «Sì, in via Margutta, ai piedi del Pincio». «Che meraviglia! In un atelier?». Joyce chiama sua moglie: «La signora Aleramo abita a Roma». «Ciò che mi manca di più», dice Nora, «sono le rosticcerie. E quelle polpette di riso, ti ricordi?». «I supplì», dice Sibilla. «Anch’io ne vado matta. Me li porto sempre a casa». «In un cartoccio», dice Joyce. «Conosce Bontempelli?». «Sì». «E Lauro De Bosis?». «Anche lui». «Insomma, abbiamo gli stessi amici. Dunque, Larbaud». «Sì». «Sa che l’Ulisse non è mai stato pubblicato nel mio paese? Proprio così. Qui sarà pronto fra tre mesi». «E il suo nuovo romanzo?». «È molto difficile. È scritto in varie lingue. Si svolge in una sola notte, dal tramonto all’alba».

303

«Ci vuole un linguaggio diverso per la notte», dice Sibilla. «Sì, ci vuole anche un movimento, un tempo diverso. Vico, Giambattista Vico, capisce? La spirale. L’eterno ritorno. Cerca anche lei questi movimenti segreti dell’anima?». «Sì», risponde Sibilla. «La palpitazione, il momento in cui si crede di superare se stessi, di trascendersi e staccarsi dall’io. Il momento in cui ci sentiamo altri rispetto a noi stessi. L’illuminazione». La conversazione langue. Davanti al riserbo di questo scrittore così difficile nei confronti degli altri, Sibilla non osa parlare di Virginia Woolf. «Cosa ne pensa della scomparsa di Lowenstein?», le chiede Joyce. «Come?». «Il miliardario. A bordo del suo aereo. Meraviglioso, non le pare? Impostare tutta la vita su dei valori che poi lo avrebbero divorato. Arricchirsi soltanto per potersi permettere, un giorno, l’aereo personale che l’ha scagliato nel vuoto, nel nulla. Una sorda logica guidava i suoi passi e lui la ignorava. È qualcosa di più sottile della fatalità, perché anche ciò che noi chiamiamo libertà gioca la sua parte. Di quante minuscole libertà è fatto il destino?». «O ciò che noi chiamiamo destino», precisa Sibilla. Di nuovo la conversazione ristagna. Benché la stanza sia immersa nella penombra, e tutte le tende siano tirate, Joyce si protegge gli occhi con una mano. Poi dice: «Tutto è talmente lento. Il lavoro, le correzioni. Lei scrive poe­ sie, vero?». «Gliele spedirò». «Quando avrà letto Gente di Dublino, mi scriva. Mi dica quello che pensa dei Morti. Forse le piacerà, I morti. Ha intenzione di stabilirsi a Parigi?».

304

«No, me ne vado tra una settimana». «Torna a Roma?». «No, vado a Locarno». «Allora è anche lei, come me, un’esiliata». «In un certo senso. Sono sola dovunque vada». Sibilla si alza. «Ci lascia già?». «Mi scusi, stasera vado a teatro». «A vedere che cosa?». «Vient de paraître alla Michodière». «Si diverte, a Parigi!», le dice Joyce, aprendole la porta. «Sì, mi diverto». «Non dimentichi di mandarmi le sue poesie». Al suo ritorno in Italia, Sibilla Aleramo si umiliò due volte: per incontrare D’Annunzio, che non la ricevette, e per sollecitare i favori di Mussolini, che come abbiamo visto esaudì le sue richieste. D’Annunzio lo aveva già fatto con altre prima di lei. Invece di accoglierla al Vittoriale, la fece alloggiare all’hotel Fasano. E la sera scendeva senza che Sibilla avesse mai ricevuto il messaggio con cui il poeta avrebbe dovuto mandarla a chiamare. Una notte, verso le undici, Sibilla credette che lui volesse riceverla, ma si sbagliava. Si erano incontrati per la prima volta all’inizio di dicembre del 1913 a Saint-Cloud, dove D’Annunzio si trovava per la rappresentazione dello Chèvrefeuille. «Conobbi di lui, prima ancor del viso, il riso: che udii un istante prima ch’egli sollevasse la portiera e m’apparisse, in quel suo appartamento dell’Avenue Kléber, tutto pregno di aromi d’oriente. Rideva, delizioso modo di annunciarsi, sommesso, come un preludio di cordialità e di

305

grazia; e le prime parole, che non rammento, furono illuminate così di gaiezza, semplici e care come fra amici antichi». Per cinque mesi, si erano frequentati a intermittenza. Una sera d’aprile, l’indomani di un ballo all’Opéra, D’Annunzio pose una maschera sul viso di Sibilla, che se la tolse e rifiutò di recitare con lui. Lui le fece pagare caro questo gesto sdegnoso. Per lei D’Annunzio non era che uno straordinario confidente a cui raccontava via via ogni suo nuovo amore infelice. Lui la chiamava «attenta sorella», «sirocchia». Sibilla lo rivedrà raramente, gli manderà Il passaggio ottenendo però da lui soltanto una risposta formale. Lui la ignora. Lei non avrebbe mai immaginato che i loro rapporti potessero un giorno assumere una forma diversa dall’ammirazione reciproca; non avrebbe mai immaginato di doversi trovare ad attendere un favore da parte sua, che oltre a tutto lui non le avrebbe mai concesso. Nell’agosto del 1922, dopo tre anni di silenzio, avendo saputo che D’Annunzio è caduto accidentalmente dal suo balcone al Vittoriale, Sibilla gli scrive per annunciargli il prossimo invio di Endimione, che conta di dedicargli: «Stasera m’è soave pensare che vi manderò fra qualche tempo questo Endimione. Voi siete stasera nella vostra casa sul lago: siete malato. Ancor ieri l’angoscia ci stringeva a tutti il cuore; nessuno può dire se nel segreto del vostro spirito voi sappiate d’aver rasentato la morte. Un silenzio doloroso e prodigioso vi isola dai vicini come dai lontani, vi isola e vi solleva. Io lo sento più grande di questo stesso che avvolge la vallata d’Assisi, dove quietamente nel cielo d’agosto affondano stelle e stelle, e ad ognuna che riga il firmamento s’avventa il mio voto per voi, Gabriele. Tornerete a parlarci. La voce sarà ancora più magica e ancora più cara. Sempre essa ebbe in sé un rintocco che ce la significava venuta assai da lungi, da contatti con musiche misteriose. Ci darà ora il brivido di sfere ove la vita è soltanto un divino alito?

306

Sussurri dei mondi ove errammo larve, delle immobili plaghe che ci avranno esausti, degli spazi dove disciolti sono quelli che non invano amammo. Questo piccolo poema che vi manderò, Gabriele, è pervaso da un’ansia di tenerezza umana e insieme da sommessi preludi d’oltretomba: aspira a comporre in armonia i mesti inganni del sonno e della veglia ed è velato pianto e lunare canto d’anime che furono baciate dal sole. «Sperai di farlo ascoltare nei nostri teatri: non ho rinunciato; ma, qualunque sia per essere la sorte sua, oso stasera dedicarne il volume a voi. Che lo riceverete quando sarete tornato al pieno fervore della vostra vittoriosa esistenza, e tornato vi sarà sulle labbra il sorriso smagliante ch’è imagine del vostro genio. Leggerete, per quella bontà che altre volte fu così profonda verso di me, e così limpidamente fraterna ch’io n’ebbi la vita più forte, per sempre». «Come allora e come stasera, con umile tremore vi dirò: grazie». L’8 giugno 1923 Sibilla manda a D’Annunzio la prima copia stampata di Endimione. Ma questo omaggio, come del resto le lettere di sollecitazione e i telegrammi spediti da Parigi all’epoca della rappresentazione della pièce, non riceve alcuna risposta. La dedica a D’Annunzio, che naturalmente i fascisti avevano notato, viene ricordata ironicamente al momento in cui Sibilla firma il manifesto di Croce: «Poiché ella scrive bei drammi come l’Endimione, speriamo che segua l’esempio di Benelli e dia presto alle scene una tragedia antifascista. Almeno i critici dell’opposizione saranno costretti una buona volta a dirne bene». Insidiosa allusione al fiasco romano. Se Sibilla aveva tanto insistito per riallacciare i rapporti con D’Annunzio, era perché sperava a quel tempo che la Duse si lasciasse convincere, dopo un lungo periodo di ritiro, a tornare sulle scene recitando Endimione. Eleonora Duse gli preferì La

307

donna del mare di Ibsen. Lei e Sibilla si vedevano regolarmente dal 1920, senza mai fare allusione a Lina. La Duse si crogiolava in una malinconia rassegnata e lirica, da cui Sibilla non poteva che restare affascinata: «Non c’è nessun muro esteriore che possa impedire l’andare – a nessuno di noi. Il muro d’aria che divide la vita dalla vita, non è con affanno… (è così grande!) che devo riconoscerlo, ma quasi direi con amore. Di che mi lagno in fondo? Perché questa puerile ansietà? Non devo che obbedire, obbedire, alla sorte, al tempo, alla bella legge che… nostro malgrado, compone e dissolve. In armonia, in armonia domando morire». Nel giugno del 1922 la Duse, dopo aver tentato di eludere l’insistenza di Sibilla, le risponde francamente: «Nessuno di noi può dire e vedere il vero – io, meno degli altri. Ma, far dire ciò che voi dite, e come lo dite, in un Teatro, fra elementi così disparati, senza iniziazione alcuna? Cara, pensateci ancora. Pubblicare il Lavoro vostro, sì, sì, certo, perché la Poesia non è morta, ma… in un Teatro! Non rischiate così parte di voi così luminosa. Perdonatemi. Io non so scrivere, io non so niente, né arte né vita, ma vi amo per voi, per la luce che è in voi». La lettera non scoraggia affatto Sibilla, che propone alla Duse Le pèlerin di Charles Vildrac, da lei tradotto. La Duse, che è rimasta scottata dalle difficoltà incontrate nell’interpretazione di Così sia, rifiuta ancora una volta. L’attrice muore a Pittsburg durante una tournée, il 21 aprile 1924, senza aver assistito alla prima di Endimione a Torino, il 6 giugno 1924, e all’unica ripresa, altrettanto burrascosa, il 23 febbraio 1925 a Roma. La Duse lascia a Sibilla la foto di un agnello, che la aiuti a lottare contro «gatti, gattini e tigri» di questo mondo. Sibilla ha assistito a una rappresentazione della Figlia di Iorio al Vittoriale, ma non vi ha incontrato l’autore. Recentemente l’ha visto soltanto una volta, di sfuggita: nel 1927 alla Scala, in

308

occasione della Leggenda di San Giuseppe diretta da Richard Strauss. D’Annunzio è circondato di «marsine e uniformi», lui «così piccolo, curvo, più simile a una vecchietta che a un comandante». Un’amica comune gli si avvicina e gli ricorda il nome di Sibilla, per paura che lui non l’avesse riconosciuta, dopo dieci anni. Lui bacia la mano di Sibilla. E, accorgendosi del suo sgomento nel trovarlo tanto cambiato, le sussurra guardandola: «Povero Gabriele». Nell’autunno del 1928, Sibilla tenta dunque di rivedere D’Annunzio. Cerca di incontrarlo dinante il periodo che passa a casa dell’amica polacca Olga Resnevic-Signorelli, anch’essa amica della Duse e futura biografa dell’attrice. D’Annunzio, al quale Sibilla aveva scritto anche da Parigi prima di rientrare, la invita ad andarlo a trovare, ma inventa mille pretesti per non riceverla. «Attendo cari ordini», gli fa sapere Sibilla da Milano il 25 settembre, data fissata da D’Annunzio per il loro appuntamento. Dall’albergo in cui alloggia a spese del poeta, a pochi chilometri dal Vittoriale, Sibilla gli scrive tutti i giorni. Lui non risponde, perché non apre le sue lettere, ma si confida con lei, noncurante della sua attesa. Le rivela, senza temere «di esser dispregiato nel confessare la verità a uno spirito così alto e lucente», che vive da quindici giorni «nel mito di Pygmalion e in quel di Endymion». Un’allusione al dramma di Sibilla? Niente affatto. Si riferisce a una sua giovane amante che viene dalla Cornovaglia. Sibilla, esacerbata, si accontenta di ricordargli: «Io anche vissi il mito di Endimione, in altro tempo, come saprete!». Questa amicizia fraterna, ma umiliante per Sibilla, verrà mantenuta da D’Annunzio, sempre con lo stesso carattere distante e scherzoso, prepotente e discontinuo, fino alla sua morte, il 1° marzo 1938.

309

Dopo il concerto alla Scala, non si rivedranno più. D’Annunzio le invia messaggi parsimoniosi, ora lirici («la vostra prosa è bella come la vostra anima») ora pieni di sconforto («voi sola potrete comprendere il mio scoraggiamento»). Quando lei gli manda un telegramma per chiedergli del denaro, lui risponde subito con un vaglia. Lei vorrebbe presentargli i suoi successivi amanti. Ma la porta resta chiusa: la messa in scena viene ripetuta sempre secondo lo stesso copione. «Ebbi la rivelazione solitaria di quel che sia uno stile», scriverà Sibilla nel suo omaggio a D’Annunzio pubblicato nel gennaio del 1929, ricordando con amarezza che l’ambiente letterario nel quale lei si era formata all’inizio del secolo, ai tempi in cui scriveva Una donna, tendeva a ridicolizzare D’Annunzio: «Non comprendevo, ancora non comprendo, che la diversità di temperamento possa indurre a negare una realtà geniale. Ma non osavo dirlo». Arturo Onofri muore il giorno di Natale del 1928, tra il momento in cui Sibilla ha scritto a Mussolini e quello in cui lui la riceve. Sibilla era in contatto con il poeta dai tempi della «Voce». Lo aveva incontrato però soltanto due volte. Quattro anni prima, davanti a un albero di Natale, e poi pochi mesi più tardi, «tra la folla che usciva da una conferenza in via Gregoriana». Fu colpita dal suo sguardo diretto e azzurro, sorridente, che «la inondava di lucentezza». «È nato in quel giorno, con quel riso delle sue pupille azzurre, in un silenzio più ricco e più soave di tutta la sua poesia e di tutta la poesia del mondo». Lui le aveva scritto per convincerla a entrare nei ranghi del fascismo. Invece di impietosirsi per la sorte di Sibilla o di indignarsi, Onofri l’aveva messa in guardia in questi termini: «La politica oggi la fa, e la deve fare esclusivamente il Governo; e noi dobbiamo obbedire. È un nuovo compito che ci si offre, ma in piena armonia con la nostra volontà spirituale, se essa s’è già accesa. […] Voi non siete “popolo” – lo so – ma, politicamente

310

parlando, si impone all’anima vostra di accogliere e riconoscere liberamente (per forza vostra) la necessità di questa disciplina». Arturo Onofri, che morirà a quarantaquattro anni, aveva tentato, come altri prima di lui, di trascinare Sibilla all’interno di un circolo esoterico, di teosofia. Lui non prendeva molto sul serio l’«anima d’infanzia imperitura» della nostra. Questo impiegato della Croce Rossa, grande ammiratore di Wagner, resterà nel ricordo di Sibilla, al fianco della Duse e di Maksim Gor’kij, ma soprattutto di Dino Campana. Dallo spiritualismo alla vigliaccheria, percorso frequente e fin troppo frequentato, che adesso Sibilla non disdegna: Ogni notte, nel sogno, mi riporti. Anima originaria, a quel momento Sublime in cui dal regno dei tuoi morti Io discesi nel mio concepimento.

In omaggio ad Arturo Onofri, Sibilla scriverà: «Prodigio costante, egli incarnava, nel virile volto consunto ed appassionato, pietre e nuvole, ricreava le infanzie e i secoli, le architetture vegetali e le infernali e le divine, e non un soffio gli sfuggiva della vita occulta delle cose, nello spazio e nel tempo, tutto gli si trasmutava in idea, in simbolo, in verità sfolgorante e alata». Curiosamente, dopo la guerra, Fabrizio Onofri, figlio di Arturo, sarà proprio tra quelli che convinceranno Sibilla a iscriversi al Partito comunista. Nel febbraio del 1929, Mondadori ristampa una scelta di liriche dell’Aleramo, con il semplice titolo di Poesie. Questa le spedì agli amici parigini, tra cui Maurice Barrès, che lasciò la sua copia alla Biblioteca Nazionale, dove sono stato il primo a tagliarne le pagine. Sibilla riunisce le prose di circostanza, i ritratti, gli omaggi, in Gioie d’occasione. Spedisce il volume a Larbaud che le risponde: «Ho ricevuto il suo libro così gradevole in cui ho ritrovato e riletto con piacere (benché ne fossi un po’ confuso) il suo

311

studio molto acuto e alquanto elogiativo sulle mie opere. Sa quanto mi siano preziose, da parte sua, queste dimostrazioni di stima letteraria. Per me rappresentano soprattutto un incoraggiamento, e gliene sono riconoscente». Di fatto. Sibilla aveva scritto nel suo ritratto di Larbaud: «Tutta l’arte del Larbaud è una delicata e sorprendente operazione magica per cui gli elementi materiali si trasformano in valori spirituali». Sibilla aveva rivisto Larbaud poco prima della rappresentazione di Endimione nel 1923, dopo una conferenza dello scrittore su Ramon Gomez de la Serna al Théâtre du Vieux Colombier. Quando Sibilla gli andò incontro per fargli le congratulazioni e ringraziarlo di averle inviato il suo Barnabooth («Quanta fresca e profonda virtù di magia! Quale deliziosa sapienza di scrittore e quale dolente bontà sotto il sorriso! E poi c’è l’Italia, così lucente e viva che tutta la mia nostalgia s’è sentita accarezzare ed acuire…»), lui le ricordò che si erano incontrati alla «Buca dei Lapi», a Firenze, nel 1912, insieme a Gide. Sibilla se ne era dimenticata. Si ricordava soltanto di un giovane scrittore un po’ taciturno. Larbaud le rivelò che il giorno dopo il loro incontro aveva subito comprato Una donna. Le confessò che si era accorto di aver sbagliato l’ortografia di omaggio, scrivendolo alla francese, con due m. «Caro Valery Larbaud! Ora sto per dargli un altro dispiacere. Ad un anno di distanza, m’è giunto l’altro giorno un suo nuovo libro, dove ancora è scritto ommaggio. Però, si rassicuri: nel volume ogni frase, ogni parola ch’egli vi ha intercalato d’italiano è irreprensibile, come già in Barnabooth». Quando Sibilla gli aveva mandato la sua raccolta di poesie, Momenti, lui le aveva cortesemente risposto: «Non conoscevo Momenti, e ho provato un grande piacere leggendoli; da molto tempo non avevo letto versi italiani moderni tanto belli, e vorrei che fosse possibile tradurli, ma perdono tanto i versi in lingua straniera una volta tradotti». Lei gli aveva allora scritto dai Bagni di Lucca: «Ho riletto le sue Poesie e il Giornale [di

312

Barnabooth, che vorrebbe tradurre], e ho letto, in un vecchio fascicolo ritrovato a Roma prima di partire, le squisite pagine di Amants, heureux amants… In tutto ciò che Lei ha scritto c’è una grazia così persuasiva, un sorriso così delicato e sapiente, che non si può non subirne il fascino benefico. E quando ho avuto la sua ultima lettera, nella quale mi parla con simpatia dei miei piccoli versi, pensi la gioia che n’ho provata. Sono poche le persone a cui quei versi son piaciuti. Epperò mi son ancor più care». Essendosi persa la lettera di Larbaud su Amo dunque sono, Sibilla credette che il suo romanzo non fosse piaciuto allo scrittore francese, ma si trattava semplicemente di un malinteso. La tappa fondamentale della loro amicizia fu la prefazione che Larbaud scrisse nel 1933 per la traduzione francese di Gioie d’occasione. Questa apparirà, prima che all’inizio del volume, sulle «Nouvelles Littéraires» del 1933. Naturalmente l’omaggio che Sibilla aveva tributato a Larbaud nell’edizione italiana viene tolto dalla versione francese. Il testo di Larbaud è tanto privo di tatto da dichiarare che nella figura di donna incarnata da Sibilla Aleramo si avverte «un che della corrente intellettuale che ha prodotto il Risorgimento e forse persino una specie di prefascismo». Nonostante ciò, Sibilla lo ringrazia calorosamente: «Come dirvi la mia commossa gratitudine? Con tanta sobria delicatezza voi avete detto le cose essenziali su la mia opera, e con tanta lucida simpatia e penetrazione, appoggiate dalla vostra alta autorità, che io sono veramente confusa, per questa ricompensa insperata e profonda (che mi giunge, fra l’altro, in un periodo per me molto triste)». «Trovo che la Francia sia in ritardo con lei», le aveva scritto l’amico. Attraverso Larbaud, Parigi rese a Sibilla il suo omaggio, che venne accolto in Italia con scetticismo e diffidenza.

313

Sibilla sarebbe tornata a Parigi una sola volta: il 20 aprile 1949, per il congresso dei Partigiani della pace. Vi incontrerà Eluard e andrà con lui allo studio di Picasso, dal «volto forte e furbo, simpatico». Quando scrisse Il frustino Sibilla non poté fare a meno di confondere il primo e il quarto soggiorno parigino, sostituendo l’assenza di Boccioni con quella di Giulio Parise. Giulio Parise lasciò passare dei mesi prima di rompere definitivamente con Sibilla.

315

17

Il disegnatore tecnico

1933. Campana è morto da un anno. Sibilla è iscritta all’Associazione Fascista Donne Artiste e Laureate. Grazie all’intervento della regina Elena, riceve un aumento dal Governo. Collabora ad alcune riviste, mette radici nella sua mansarda – «una cosa molto, molto zingaresca», aveva scritto a Valery Larbaud. Sibilla invecchia, ingrassa, imbruttisce, si adagia nella mondanità, la frivolezza, il lirismo fuori moda. Il 3 febbraio 1933 riceve al numero 42 di via Margutta un giovane giornalista, Enrico Emanuelli, che ha pubblicato a Novara cinque anni prima, appena diciannovenne, Memolo ovvero vita, morte e miracoli di un uomo. Il libro racconta la vita di un uomo che, prematuramente invecchiato, tenta di essere libero ma non ci riesce. Enrico Emanuelli scrive su diversi quotidiani. Pubblicherà una biografia romanzata di Ippolito Pindemonte e un volume di racconti, Storie crudeli. Ma soprattutto, è appena uscito un suo testo sperimentale, Radiografia di una notte. È Giacomo Antonini (critico teatrale che dal 1928 Sibilla va a trovare regolarmente ad Ascona) che in marzo permette loro di amarsi tre giorni in segreto. Lei gli parla di Proust. Emanuelli le parla di Freud e Adler. Lei gli parla di Gide, che lui tradur-

316

rà qualche anno più tardi. Tradurrà anche Benjamin Constant, Raymond Radiguet, Julien Green, Voltaire, Stendhal. Sarà un grande reporter, in Africa, Cina, Russia, India. Un doppio di Moravia in scala ridotta: oltre a tutto, il suo Memolo ha diversi punti in comune con Gli indifferenti. Moravia ha soltanto due anni più di lui. Ventitré anni e cinquantasei anni: «Un ragazzo che non meritava ch’io soffrissi per lui come soffersi e a cui non ripenso mai, sebbene abbia scritto, allora, varie deliranti poesiole (una sola di esse, forse, da salvare se mai perverrò a ordinare la scelta delle mie liriche: quella intitolata Tu, poesia?)». Tra i versi che le ispira Emanuelli: Oscilla, nel vento, nel vuoto spazio, giunco e non uomo, ed io che m’illusi, or dannato lo vedo, nel vento, in eterno, non mio né d’altre, né di sé mai, negarsi all’ombra e poi al sole, giunco e non uomo…

Tre anni più tardi, quando si sono già separati da un pezzo, Emanuelli le scrive: «Leggo le tue poesie – alcune – ed il cuore mi batte: non so se d’amore, di rimorso o di rancore. […] Ma non è inutile tutto ciò?». Ritrovando questa lettera nel 1942, Sibilla si mostra, una volta tanto, ironica nel suo diario: «L’“eroe” si è poi ammogliato, ho saputo, e ora scrive articoli e libri. Anch’essi “inutili”?». Il ricordo della loro relazione è evidentemente scomparso dalla memoria di Sibilla: le è rimasta soltanto l’amarezza di esser

317

stata disprezzata come poeta. Eppure tra lei ed Emanuelli dovevano esserci profonde affinità intellettuali: nel suo primo romanzo, pubblicato appunto alla stessa età in cui Moravia aveva pubblicato Gli indifferenti, il giovane criticava violentemente la struttura familiare e le convenzioni sociali. Ma doveva esser stato soprattutto Radiografia di una notte, costruito secondo la tecnica futurista del collage, a conquistare Sibilla. «Abolire l’intreccio, rendere cronologicamente fatti diversi, apparentemente slegati, e che diano solo una versione finale dello stato temporaneo di persone e di cose». Emanuelli è cosciente del proprio debito verso Joyce e Virginia Woolf. La loro influenza, particolarmente evidente nelle digressioni e riflessioni dell’autore, riscatta forse agli occhi di Sibilla il disinganno e il cinismo di Enrico – disposizioni d’animo che lei, paradossalmente, ha sempre suscitato o risvegliato nei suoi amanti. Cosa c’è di più lontano dalla sensibilità di Sibilla di queste affermazioni: «Entrambi volevano essere sinceri; per questo il loro discorso avrà un tono retorico e convenzionale. La verità è cosparsa di luoghi comuni, di frasi fatte; è triste e monotona come una pianura senza un filo di verde. Solo il giardino della bugia è ricco di sorprese e di emozioni»? Sibilla può riconoscersi soltanto nell’analisi che Emanuelli fa dell’interazione tra il mondo della coscienza e quello della realtà esteriore: «Quello che è fuori di noi non è nostro, e quello che è in noi non lo conosciamo: solo le reazioni di ciò che è fuori, con ciò che è dentro, formano la vita. Tutto il resto – fare lo scrittore o l’attore cinematografico, il boia o lo stagnino, il corridore od il salumiere – non è che un impiego d’attività materiale per procurarci il pane ed il vino, ma non è la vita». Il forte impulso distruttivo di Sibilla, diretto tanto contro le fragili impalcature della vita sociale quanto contro le prepotenti leggi della convenzione – impulso che ha spesso rischiato di schiacciarla prima che lei vi si abbandonasse, pur senza troppa convinzione, fino all’incontro con Franco Matacotta – trova

318

innegabilmente riscontro in questo giovane dall’intelligenza vibrante, che scrive: «La civiltà non fa altro che sostituire ai nostri istinti, atti e parole ragionate, meditate, volute ad ogni costo, imposte da noi a noi stessi. Con tutto ciò, molte volte, un uomo che s’abbassa al proprio istinto è migliore di uno che abbia imparato bene la lezione della civiltà». Il 12 febbraio, nove giorni dopo essersi conosciuti, Emanuelli le scrive: «Se mia madre mi ha dato la vita materiale, sento che tu me ne hai data, me ne darai un’altra. La più bella». L’indelicatezza – vista la differenza d’età – di questa allusione alla maternità non viene rilevata da Sibilla. Il 22 febbraio, diciannove giorni dopo il loro incontro, Emanuelli le scrive da Milano: «I cretini ci guarderanno con occhi stupiti. E noi nel loro stupore ci sentiremo tanto, tanto felici». Il 16 maggio, tre mesi e due giorni dopo il loro incontro, Sibilla gli scrive da Milano: «Ripartirò. Non ti cercherò. Ti lascerò “tranquillo”». Il 27 maggio, Emanuelli: «Oggi voglio, voglio essere solo, in solitudine e sentirmi libero». Il 29 giugno, ancora Emanuelli: «Sibilla ricordami, ma lascia che io continui nella mia strada». E parte per la Russia. Grazie alla prefazione di Valery Larbaud, Sibilla ottiene il premio Latinité per la traduzione francese di Gioie d’occasione. Salvatore Quasimodo le invia una lettera di congratulazioni. Nell’estate del 1933 Sibilla conosce Fausta Cialente, sorella di Renato che aveva interpretato Endimione in Italia. La giovane scrittrice invita Sibilla ad andare con lei e il marito, il compositore Enrico Terni, in Egitto. Sibilla rifiuta.

319

Il 16 dicembre 1933 Sibilla scrive a Emanuelli: «Stamane mi ha telefonato da Ancona la moglie di mio figlio. […] Non so che cosa proverò. Nell’attesa ho solo un senso di freddo, penoso». Era inevitabile: da Ascona ad Ancona. Da un amante ventiquattrenne che la tratta come una madre, a suo figlio che ha già trentotto anni. In previsione dell’incontro, nonostante le difficoltà economiche, Sibilla compra per cinquemila lire una pelliccia di topo muschiato che pagherà a rate in tre anni. Il 20 dicembre 1933 rivede dunque il figlio, Walter Pierangeli, padre di due bambini. Sibilla sente «l’impossibilità di qualsiasi scambio verace: incomunicabili, nonostante il sangue, nonostante l’uguale bontà della natura arcana». Viene presentata ai nipotini come la «zia Fanny». Il 1934 è l’anno fascista di Sibilla. Scrive le poesie di Sì alla terra, pubblicate in dicembre da Mondadori. All’uscita del libro Quasimodo le telefona. La maggior parte delle liriche della raccolta Sì alla terra furono scritte sotto l’influenza dell’amore per Emanuelli, benché non sempre ispirate direttamente da lui. In seguito Sibilla non le tenne in grande considerazione, anche se le inserì nella scelta di poesie che pubblicò alla fine della sua vita, Selva d’amore. E se fossi tu, poesia, a farmi vincere? Dove non valse il pianto, dove non valse l’umile attesa. […] Egli altro non è Che un fanciullo stolto, un povero, malato fanciullo, puoi tu raggiungerlo? […] è un povero fanciullo, ma è l’amore.

320

Enrico rappresentava per lei l’amore nel momento stesso in cui Dino Campana moriva in manicomio, a mezzanotte meno un quarto del 1° marzo 1932. Sibilla aveva scritto: Stanno per colpirti, già ti senti battuta, già tutta strazio, e nell’istante istesso, una voce, la vita, come in un soffio, ma solenne, ti promette: «Meglio così. Meglio, vedrai!».

Può sembrare curioso che proprio questi versi abbiano attirato l’attenzione di Salvatore Quasimodo. Nel dicembre del 1934, Quasimodo ha trentatré anni. È nato il 20 agosto 1901. Sibilla è nata il 14 agosto e Dino Campana, anche lui, il 20. La prima raccolta di poesie di Quasimodo, Acque e terre, è uscita nel 1930, poco dopo la ristampa delle poesie di Sibilla presso Mondadori. Lui fa ancora il geometra. Nel 1932 appare la sua seconda raccolta, Oboe sommerso. Lui e Sibilla hanno in comune un ricordo, benché lo ignorino ancora: quello del terremoto in Calabria e a Messina. Quasimodo aveva sette anni. Suo padre era capostazione in Sicilia. Lui divenne disegnatore tecnico del genio civile. Sibilla comincia a scrivergli già dal maggio del 1931. Lui le risponde subito: «Il vostro consenso alla mia poesia mi giunge in un momento ch’io chiamo “d’amor lirico”, ed è dono da colmare vuoti e silenzi in cui mi sono come inginocchiato da anni». E la ricambia lodando Notte in paese straniero «per la raggiunta purezza, per l’unità musicale; una lirica che sola basta a farvi alta fra le poetesse italiane».

321

Nel gennaio del 1933 lei gli invia la ristampa del Passaggio, e lo esorta a scriverne sui giornali, con l’insistenza che le è solita in simili casi: «Potreste dire qualcosa d’essenziale, da poeta – e fareste una cosa buona, oltre che bella». Nel 1934 Sibilla è una scrittrice riconosciuta, sovvenzionata dallo Stato. Le sue poesie e i suoi romanzi sono stati ristampati dalla più grande casa editrice, Mondadori. Ed ecco che le viene incontro un poeta formatosi nell’ambiente di «Solaria», la rivista che, in fatto di prestigio, ha preso il posto occupato prima della guerra dalla «Voce». Questo poeta – bruttissimo, è vero, con quei capelli radi e crespi che coprono in un lungo ciuffo orizzontale la sua calvizie, evidenziandola orribilmente invece di nasconderla e dandogli l’aspetto di un cavolfiore, gli occhi piccoli già soffocati da pieghe stratificate di carne flaccida, le labbra lunghe e sottili sotto un paio di baffetti spelacchiati – questo poeta sarebbe diventato uno dei maggiori esponenti dell’ermetismo e avrebbe vinto nel 1959 il premio Nobel, primo italiano dopo la caduta del fascismo, da quando cioè il premio era stato assegnato a Pirandello, più di vent’anni prima. Quasimodo aveva bisogno di essere amato da una scrittrice la cui vita fosse all’altezza della sua opera: per lui, geometra spesso lasciato in disparte a causa delle sue attività antifasciste, la letteratura rappresenta un sogno antisociale, poiché non è di letteratura che vive. Quest’ometto mingherlino, invecchiato prima del tempo, forma con la donna florida che è ormai diventata Sibilla una coppia tipica dell’Italia di quegli anni: sembrano due normalissimi coniugi di mezza età, che si siano tanto amati in gioventù. In confronto a loro Emanuelli, coi suoi capelli neri impomatati, il collo forte e i pantaloni da golf, strabocca di giovinezza e vitalità. Quando Quasimodo si presenta a Sibilla, è sposato con Bice Donetti, che lui descrive come «la donna emiliana da me amata nel tempo triste della giovinezza […] quella che non si dolse mai dell’uomo che qui rimane, odiato, coi suoi versi».

322

Negli ultimi tempi ha vissuto a Reggio Calabria, poi a Imperia, Cagliari, Milano, ed è appena stato trasferito a Sondrio. Ma prima di recarvisi, va a trovare Sibilla a Roma. Il 14 febbraio 1935 le scrive da Milano: «È rimasto in me il tuo “sapore” di donna; tu sai quello che voglio dire. Ti rivedo bianchissima, il bel corpo disteso nella stanza in penombra. Ed anche le spalle regali rivedo dal taglio dell’abito serale». Sta scrivendo le poesie che verranno pubblicate l’anno seguente nella raccolta Erato e Apòllion: Nasco al tuo lume naufrago, sera d’acque limpide. Di serene foglie arde l’aria consolata […] Destami dai morti: ognuno ha preso la sua terra e la sua donna. […] Sono un uomo solo, un solo inferno.

Il 27 febbraio Quasimodo arriva dunque a Sondrio, ai piedi delle Alpi, vicino alla frontiera svizzera. Da qui scrive a Sibilla: «Vorrei il tuo cuore qui con me. Non ho che tristezza e desiderio di morte: senza letteratura». Nelle lettere si firma Virgilio. È questo il nome che, dopo decenni, Sibilla utilizzerà nel diario riferendosi a lui, per non nuocere a un poeta ormai tanto celebre. Scrivendo a Sibilla, Quasimodo riutilizza le trovate delle sue poesie: «L’aria è come consolata, l’erba sui prati buca la neve». Le dice: «La tua bellezza ha bisogno di amore per restare intatta», infelice allusione all’età di Sibilla, già presente del resto

323

nella dedica di una delle sue due raccolte: «Sì alla giovinezza» (in risposta a Sì alla terra). Quasimodo si dispone a un periodo di lontananza poetica: lui a Sondrio («Certe notti ritrovo veramente tutte le mie membra, e la giusta armonia delle tue s’innesta ad esse con alto, soa­vissimo delirio»), lei «nel cuore della Patria» («Che la luce del Campidoglio giunga sul tuo capo, amor mio!»). Ma Sibilla annuncia il suo arrivo. Lei gli parla delle sue poesie, degli altri poeti. Lui cita una delle poesie che Sibilla aveva scritto su Campana: «Fino a quando “foglie cadranno sui nostri corpi ignudi”?». È dunque lui, e non lei, a rievocare il fantasma di Campana, morto ormai da tre anni, ma ispiratore del loro amore. Quasimodo infatti può ricordare Papini per la bruttezza da intellettuale, e molti altri amanti di Sibilla per la situazione familiare complessa e meschina in cui si trova (oltre a tutto da un’ex amante ha avuto una figlia, Orietta, che rivedrà soltanto di nascosto, in una chiesa); ma è soprattutto il primo vero poeta che Sibilla ama dopo Campana. Sibilla raggiunge Quasimodo in una zona vicina al Piemonte dove lei è nata e dove Campana aveva creduto per qualche mese di poter riacquistare la salute e la ragione. Verso il 20 marzo 1935 Sibilla si stabilisce dunque a Lecco, all’albergo Croce di Malta, in riva al lago. Quasimodo va da lei in segreto un giorno – o meglio una notte – su due. Sibilla si rende conto che il poeta vuole servirsi di lei per ottenere un sussidio dal Governo. Dopo che si sono rivisti a Lecco, le lettere di lui non parlano che di premi letterari, sovvenzioni, colloqui con ministri. Trattano anche apertamente di sua moglie, delle sue preoccupazioni familiari e professionali. Le poe­ sie che lui le fa leggere non hanno Sibilla per oggetto.

324

Quasimodo le promette però di portarla sulle rive dell’Anapo, il fiume di Siracusa, sul quale ha scritto una poesia: Alle sponde odo l’acqua colomba, Anapo mio; nella memoria geme al suo cordoglio uno stormire altissimo.

«Risaliremo l’Anapo azzurrissimo», le dice, «ti battezzerò in quell’acqua dea delle Muse». Quasimodo legge Una donna soltanto il 15 aprile 1935. E come unico commento le scrive: «Ora che ti conosco m’interessa di più il documento umano». Verso la metà di aprile Sibilla si rompe un braccio. Quasimodo legge Amo dunque sono e il 26 aprile le scrive: «Non soffro leggendo Amo; ma sono come umiliato. Come tardi entro nella tua vita! Tu hai la voce dolce ancora per l’amato, sei capace, forse, di più sovrani abbandoni. Ricordo il tuo pianto della notte di Lecco: che cosa volevi di più donarmi in quell’ora? So. Certo aspettavi il miracolo, tu Sibilla, della trasfigurazione. Hai pregato e tremato per la tua carne. La Dea era con noi. Udivo in te correre il suo giovane sangue. Batteva fertile per ogni minuta costellazione di cellule. Tu eri come sempre, adolescente e mitica. Io sono l’ultimo che prende gioia dal tuo grembo. Non vorrei essere stato il primo, poiché tanto male ti venne da esso. Ma come posso sognare di essere l’ultimo che vide Sibilla nuda giacersi per amore». Il 1° maggio 1935, cinque giorni dopo: «Il tuo libro mi ha lasciato col cuore grosso. Ho sentito la tua voce il tuo respiro. Ma io ti amo. M’illudo. Penso che sia un libro, soltanto un libro e non un diario intimo».

325

Lui le fa leggere Orlando di Virginia Woolf, della quale Sibilla aveva scritto nel 1931: «Una voce rispondente ad un’altra voce. Che una donna abbia potuto dare una tale definizione della poe­sia, ecco una cosa consolante». Il 21 maggio Quasimodo le scrive a proposito di Endimione: «Quel linguaggio di dei avrebbe avuto bisogno di una atmosfera ancora più mitica. Il tempo non doveva aver movimento in stagioni terrene». In estate vanno insieme a Salsomaggiore, per la cura di Sibilla. L’11 settembre lui si reca per lavoro nella città natale di Felice Damiani e ricopia la targa commemorativa che vi è stata posta in suo onore trent’anni prima. «Ho sentito la presenza d’un poe­ta che non conosco ma che tu mi farai conoscere». Il 12, rilegge Il frustino. «Sei scoperta, anzi nuda in tutti i tuoi scritti». Quasimodo risuscita insomma uno dopo l’altro tutti i precedenti amanti di Sibilla, inchiodandola così al suo passato. Legge senza entusiasmo La principessa di Clèves, che lei aveva tradotto due anni prima e sta per essere pubblicato, insieme a una sua lunga prefazione: «C’è nella esposizione di tutta la vicenda, nell’analisi del lungo conflitto che si svolge nell’animo di questa pavida principessina così tenace nel negarsi, c’è tale mirabile vigore logico, tale giustezza e evidenza psicologica, e tale ardente seppur rattenuto senso di consapevolezza e di pietà per la sorte umana, che persuadono dello straordinario successo ottenuto dal libro al suo apparire e dipoi fino ad oggi, come solo le opere del genio raccolgono, qualunque ideologia vogliano sostenere». Sibilla osserva inoltre che l’infanzia è assente da questo libro e la parola Dio non vi si trova mai scritta. È il periodo della guerra d’Abissinia. Enrico Emanuelli scrive a Sibilla. Lei lo dice a Quasimodo che commenta: «La commedia del sentimento, ahimè, la solita frana nell’ora grigia!».

326

Da Roma Sibilla raggiunge Quasimodo a Milano. Un violento mal di reni la costringe a tornare a Roma all’inizio di novembre. Si tratta di una pielite, un’infiammazione renale. Durante il periodo passato insieme alla fine di ottobre del 1935, Quasimodo ha fatto a Sibilla delle «feroci rivelazioni». A proposito di che cosa? Probabilmente di una doppia vita sentimentale. La lettera di Quasimodo del 25 novembre lascia supporre che a Milano siano successe violente scenate: «Tu mi hai scritta una frase che già verbalmente mi aveva impressionato per la crudezza (forse sarebbe meglio dire crudeltà) e per la volgarità». Le allusioni risultano oscure: «Penso solo che per amore di te ho vinto perfino certe misteriose riluttanze della carne. Livigno non fu che una tappa verso l’abbandono completo. Che avresti voluto ancora da me? O soave ingenuità degli anni alti simile a quella degli anni della pubertà!». Che cosa rappresenta Livigno? Un ultimo incontro? Un ultimo luogo d’amore? A cosa si è abbandonato Quasimodo? A quali perversioni amorose? Le scenate dell’ultima settimana d’ottobre devono aver avuto cause ancora più complesse. Lei aveva infatti portato con sé una lettera ricevuta a Roma alla vigilia della partenza. Sibilla, seduta davanti allo specchio annerito di un tavolino da toilette tutto mangiato dalle tarme, si sta spazzolando i capelli. Osserva l’immagine riflessa di Quasimodo, in canottiera, seduto sul letto sfatto: si sta accomodando meticolosamente il ciuffo che dovrebbe aver la funzione di nascondere la calvizie. Dalle persiane socchiuse filtra un raggio di sole che illumina la valigia di Sibilla; nel disordine dei suoi vestiti, Quasimodo scorge una busta. Senza esitare, s’impadronisce della lettera e ne esamina il timbro postale: viene da Fermo.

327

«Ah, una lettera dalle Marche», dice estraendo già il foglio dalla busta. «È di tuo figlio?». «No», risponde Sibilla senza smettere di spazzolarsi i capelli folti e dorati. «Di uno sconosciuto». «Appassionante!», dice Quasimodo stirandosi. Poi lascia cadere la lettera sul letto e vi si sdraia. Ha dato una rapida occhiata alla foto che l’accompagna: un giovane di profilo. Naso diritto da statua, fronte bombata e già un po’ stempiata, bocca piccola e carnosa da putto, occhioni neri e tristi. «A Sibilla Aleramo prima poetessa d’Italia», scandisce ironicamente Quasimodo. «Un ammiratore!». Lei si volta, si alza, gli toglie di mano la fotografia. Porta una vestaglia di seta rossa. Ha una mano sulle reni. «È bello. Sembra un dio greco. Ermes, magari». Quasimodo si alza di scatto, prende Sibilla per la vita e la costringe a sedersi accanto a lui. «Non ha neppure vent’anni. È fortunato. Deve scrivere versi orribili». E ridacchia. Lei alza le spalle. Si toglie la vestaglia e si infila il suo tailleur bianco. «Mi chiede se può mandarmi le sue poesie». «E intanto ti manda la sua foto, che puttanella! Eh, se t’avessi incontrato alla sua età, adesso non ci troveremmo in queste condizioni!». Sibilla si è di nuovo seduta di fronte allo specchio. Si pettina tenendo le forcine tra le labbra. «In quali condizioni?», gli domanda. «Di certo non le migliori», dice Quasimodo mettendosi la camicia. «Io non avrei preso la sifilide e…». «Cosa!», esclama freddamente Sibilla.

328

«Non vorrai mica scandalizzarti! Hai fatto anche tu la tua vita!». Al suo ritorno a Roma, Sibilla rispose al ragazzo di Fermo. Ricoverata alla clinica Quisisana grazie all’intervento della regina Elena, Sibilla venne curata e tentò di convincere i fratelli di Quasimodo a intercedere presso di lui perché venisse a trovarla. Lui fece orecchie da mercante. Nel frattempo lo sconosciuto di Fermo telefonò alla clinica, scrisse, aspettò pazientemente di venir ricevuto. Quasimodo continuò a scrivere a Sibilla fino al 21 gennaio 1936 (dovevano incontrarsi il giorno dopo, ma all’ultimo momento lui annullò l’appuntamento). Il tono delle sue lettere è ancora amoroso, ma distaccato allo stesso tempo, soprattutto a partire dal 10 dicembre, quando egli la disillude riguardo a un’allusione al loro amore che lei aveva creduto di trovare in una poesia. Sibilla rivide spesso Quasimodo dopo la guerra: divenuti entrambi scrittori ufficiali del PCI, si incontravano ai congressi. Nel gennaio del 1955, lui le scrisse affettuosamente per farle gli auguri. Lei ne rimase sbalordita. Gli rispose con un biglietto d’auguri, accettando, all’età di quasi ottant’anni, gli «assurdi omaggi» di quell’uomo che lei aveva «tentato, stoltamente, di sottrarre ad una sorte torbida». Quasimodo scrisse forse per lei la poesia Delphica: Nell’aria dei cedri lunari, al segno d’oro udimmo il leone. Presagio fu l’ululo terreno. Svelata è la vena di corolla sulla tempia che declina al sommo e la tua voce orfica e marina.

329

18

L’errore

Lo sconosciuto di Fermo si chiamava Franco Matacotta. Un giorno bussa alla porta. Sibilla è tornata da Capri, dove era andata a riposarsi dopo la degenza all’ospedale. Porta una vestaglia rossa sopra una tunica viola. È il 28 febbraio del 1936. È ancora giorno. Sulla terrazza, un vaso di mandarini. Sibilla sorride al ragazzo, vestito con cura e intimorito, che ha appena il coraggio di alzare gli occhi su di lei. Sibilla gli tende la mano che lui stringe vigorosamente. Lei profuma di lavanda. Entrando nella mansarda, lui ha l’impressione di trovarsi in un bosco. «Sono Sibilla Aleramo», dice lei. Lui si guarda intorno: i ritratti, le foto, i libri, i bauli, le rose, le piante, il letto. «La camera di Sibilla Aleramo», dice, un po’ impacciato. «Proprio come l’immaginavo». Si toglie il cappotto. Dal suo corpo emana un odore forte, ma non sgradevole; un odore da studente che non può lavarsi tutti i giorni. Sibilla prende il suo cappotto liso e lo butta sul letto. «E io, sono come mi immaginava?».

330

«L’avevo già vista», risponde lui vivacemente con una punta d’irritazione, arrossendo. «Alla fiera del libro». «Sì, è vero», risponde lei imbarazzata. Lui era trasparente. Lo è ancora un po’ adesso. Per lei esiste soltanto il brutto viso di Quasimodo, con la sua espressione acida. L’ardente giovinezza di Matacotta è per lei quasi vana. «Mi hanno parlato tanto male di lei… ma anche tanto bene», aggiunge Franco sedendosi impacciato su una poltrona di vimini vicina alla finestra. Trovandosi in controluce, adesso il giovane vede perfettamente Sibilla e la divora con gli occhi, mentre questa distingue soltanto il contorno della sua testa. «Al bene non ci credo più…», mormora lei. «Mi racconti invece quel che si dice di male sul mio conto». «Oh, ma è un male lusinghiero», precisa lui. La sua voce incrinata riesce appena a traversare il silenzio. Spalanca gli occhi: enormi, scintillanti, sembrano quelli di un matto. Sguardo nero e fisso da bambino che non batte le ciglia. «Si dice che lei sia una donna fatale». «Gli uomini sono fatali alle donne, e non viceversa». Sibilla prende due mandarini da un cestino e glieli lancia ridendo. «Ha fame, gli uomini hanno sempre fame. Mangi. Mi parli ancora». Lui sbuccia uno dei frutti. «Ne conserverò la scorza. La scorza del nostro primo incontro». «Allora, perché voleva vedermi, signor Franco Matacotta?». «Perché le sue liriche possiedono la mia giovinezza». «Giovinezza? Quanti anni ha?». «Sono nato l’11 ottobre 1916».

331

Lei non risponde, chiude gli occhi e sorride. Lui dice: «Pensavo in futuro di fare la tesi su di lei e su Campana…». «Davvero? Io e Campana ci siamo conosciuti nell’anno in cui lei è nato». Sibilla si alza, cerca nella libreria la sua copia dei Canti orfici, con la dedica di Campana, e gliela tende. Lui legge arrossendo: «“Con cuore fraterno a Sibilla Aleramo. 5 agosto 1916”. Posso portarlo a casa per rileggerlo?». Solleva leggermente la testa, voltandola verso il sole che muore. Sibilla osserva allora i suoi tratti scultorei. È una maschera, pensa, la tesa maschera della giovinezza, la perfezione dell’aderenza della pelle ai muscoli, della carne alle ossa. Lo sguardo di gemme e porcellana in un involucro rosa e nero di seta polposa smaltato dalle lacrime; l’avorio immacolato dei denti fitti e rotondi, il disegno simmetrico e vellutato delle labbra, il pallore ombrato delle guance: ogni dettaglio contribuisce armoniosamente a creare quel misurato trionfo che rappresenta, per ogni uomo, il proprio viso di vent’anni. La sua bellezza non è mai stata e mai sarà superata: ciascuno vi trova la realizzazione della sua apparenza. Come tutti gli uomini, Franco è cosciente della propria bellezza. A vent’anni Sibilla sapeva di piacere, ma fino ad allora la bellezza era stata la sua rovina. È sulla sua bellezza che si sono fondati tutti gli equivoci: Ulderico, Damiani, Cena. La rivelazione della bellezza maschile le è stata fatta più tardi, inutilmente, da Scipio Slataper. Poi da Joe. C’è stato Endimione. Infine Giulio Parise. «Ha letto le mie poesie?», le chiede infine Matacotta. «Certo che le ho lette. Lei si sta preparando una vita di sofferenza. Lo sa, vero? E i poeti non vanno d’accordo tra loro». «Perché dice questo? A causa di Campana?». «No, non a causa di Campana».

332

«Lei non va d’accordo con i suoi amici poeti?». «Non ho amici poeti. Non ne ho mai avuti. Sa cosa dice Cocteau?». «Chi?». «Jean Cocteau. Un poeta francese. Dovrà leggere anche i poe­ ti francesi. Anna de Noailles, perché no? Insomma, Cocteau dice che “ogni poeta è postumo. Per questo gli è difficilissimo vivere. La sua poesia lo detesta, vuol sbarazzarsi di lui e vivere sola, a suo modo. Se egli si pone in primo piano, è abbandonato dalle sue voci”. Lei è d’accordo?». «Non so». «Ebbene, ecco cosa ne penso io, signor Matacotta: bisogna prima vivere, poi poetare». Sibilla prende il plico delle poesie. «Lei ha talento. Ma deve vivere. Vivere!». «E Rimbaud?». «Rimbaud fuggiva la sua famiglia. Rimbaud era l’amante di Verlaine. Mi parli di sé». «Cos’altro c’è da sapere oltre alle mie poesie? Solo nelle poesie riusciamo ad esprimere interamente ciò che siamo». «È vero», dice Sibilla. «Ma c’è chi nega la poesia. Vi son dei morti, vi son dei dormienti e delle larve che non s’accorgono del suo passaggio». «Miei versi», inizia a declamare Matacotta, mia nobiltà, voi soli, di tutto quanto, somme immense, alla vita donai, voi soli restate, piccoli in piccolo volume,

333 lucenti, tutto s’è fatto gemmeo, le lagrime i sorrisi i notturni aneliti, il vento e le rose, il pensiero degli umani squallori, e i volti degli amori, oh miei versi, mia nobiltà, voi soli restate, lucenti…

Sibilla si avvicina a Franco e gli prende le mani. «La conosce a memoria!». «Sì, come molte altre. Le sue poesie sono molto importanti per me». «Da dove viene, chi è lei, Franco Matacotta?». Qualche settimana dopo, si rinchiudono per tre giorni in quella che lui chiama la «tana» di Sibilla, lei la sua «cattedrale». Ma la sera di questo primo incontro Sibilla non si è innamorata di Franco. È ancora ossessionata dall’amore per Quasimodo. A poco a poco, ella accetta l’idea che questo giovanissimo poeta succeda a un uomo che le appare adesso meschino e abietto. L’estrema purezza della gioventù, l’insistenza insolente di cui Sibilla si arroga il diritto, la metamorfosi sottile della timidezza in audacia, la coscienza di esser poeta, acquistata finalmente grazie allo sguardo di questo ammiratore pazzo e ribelle; forse la possibilità, offertale dal destino, di una muta riconciliazione con le Marche, che un mattino di febbraio del 1902 lei aveva abbandonato per sempre: tutte attrattive alle quali Sibilla non sa resistere. Lui la considera una sacerdotessa. Lei vede in lui il simbolo della propria perennità poetica.

334

Benché iscritto all’università a Roma, Franco la accompagna nelle sue consuete peregrinazioni attraverso l’Italia, con punti d’approdo ormai fissi: Sorrento, Capri, Salsomaggiore, Courmayeur. Nei salotti, si fa l’abitudine a questa coppia singolare: Sibilla, che ha sessant’anni, non cerca di nascondere la sua età. Adesso i suoi capelli sarebbero completamente bianchi. La pinguedine ha quasi cancellato la finezza dei suoi tratti. La nobiltà del portamento è minacciata dall’abbondanza delle sue forme. Da parte sua Franco, di bassa statura, capelli radi e lineamenti marcati, quando non viene trasfigurato dall’esaltazione amorosa di Sibilla non è poi di una bellezza avvincente. È un piccolo maschio latino dall’aria soddisfatta di piacere. Benché Sibilla sia convinta che la vita non abbia niente da insegnarci (scrive nel suo taccuino, pubblicato nel 1938 con il titolo di Orsa minore: «Imparare dalla vita! E ce lo ripetiamo ad ogni svolta, e ogni volta ci crediamo! Mentre in realtà nessun insegnamento vale, e nulla si ripete identico, e non c’è che una cosa uguale nel tempo, il nostro sguardo quando dalla vita si solleva verso il fondo cielo, in un suadimento d’oblio»), non può che assumere nei confronti di Franco un ruolo di guida. Il rapporto che c’è tra loro è tipico delle coppie in cui esiste una grossa differenza d’età: il partner più anziano tenta invano d’impartire al più giovane la propria lezione, meravigliandolo ed esasperandolo costantemente. Finché un bel giorno quest’ultimo, a forza di aver ascoltato i consigli numerosi ma disordinati dell’altro, sovverte la gerarchia degli anni e diventa lui il maestro. Sibilla riposa infatti sulla giovinezza del suo amante, riconosce in lui l’eco del proprio candore. Franco rappresenta naturalmente la risurrezione di Joe, di Campana, di Tullio Bozza e del figlio Walter, ridotto a un fantasma che lei non ha mai rivisto – quando Sibilla e Walter si sono incontrati era troppo tardi: quello non era già più suo fi-

335

glio. Franco riassume tutte queste figure e rispecchia persino l’immagine di Sibilla da giovane. Adesso il tempo si è fermato. Per Sibilla non ci sono più lotte da portare avanti, né conquiste da intraprendere. L’11 ottobre 1936 – sono già sette mesi che i due vivono insieme – Sibilla scrive una poesia per il compleanno di Franco: Odore dei tuoi vent’anni che su te respiro ben desta e l’aurora t’è intorno, sei tu stesso aurora, nell’istante lume vasto dilaga, saluto di vento marino e d’alti prati anche, lume di sogni lume di presentimenti […] oh tempo ch’io non vedrò opere tue grandi e battaglie e corone che non potrò io più darti…

La poesia rimarrà inedita in questa forma, ma verrà modificata da Sibilla e pubblicata nel 1947 nella sezione Imminente sera della raccolta Selva d’amore: Così a me t’inginocchi buono su te l’odore dei tuoi vent’anni, l’anima ove ti miri, in salvo recata da mia remota giovinezza, t’assicura che né il peso del tempo né ardua sorte mai ad alterare varranno questa che in te amo intima grazia…

Incoraggiato da Sibilla, Franco continua a scrivere poesie che verranno pubblicate da Malaparte nel 1942, in piena guerra, sotto il titolo di Poemetti. La sua poesia si ispira essenzialmente alla natura:

336 L’acqua è morta. Ed alla terra, che vermigli e biondi Movimenti di frutta trascolora Torna l’idea dei firmamenti e un dio La riconduce agli alberi celesti.

Poesia romantica e quasi ermetica, in cui si avverte l’influenza di Foscolo e di Leopardi e ben poco invece quella del secco lirismo di Sibilla. All’insaputa di Franco e Sibilla, i temi e lo stile dei Poemetti e, più ancora, della raccolta successiva, Fisarmonica rossa, si accostano a quelli di René Char: Il cuore è un secco cortice di pino Donde l’ultima resina distilla. Fossili dissepolti, le parole. Vili gazzelle divenimmo, e talpe Cieche alla luce. […] Deserta notte, un raggio ti disarmi.

Purtroppo a poco a poco la sua poesia si orienterà verso il neo­ realismo e i suoi rigidi dettami. Si parlano nella penombra di una tettoia fatta di canne di bambù. Le api, che vengono dal mare, ronzano. Ciascuno dei due ha davanti a sé un bicchiere di vino appena iniziato; in mezzo al tavolino pistacchi tostati in un piccolo recipiente di ceramica azzurra. Lei ha la testa appoggiata alla mano di lui. Sul suo braccio pallido scorrono lacrime di sudore. Di tanto in tanto, lei si fa vento con un opuscolo: una piccola guida archeologica della Grecia. Lui, accasciato sul metallo del tavolo, monologa senza guardarla. Ha le braccia scostate dal corpo e all’altezza delle ascelle si vede la macchia scura del sudore abbondante. Ha la camicia appiccicata alla schiena. I suoi capelli crespi, umidicci, luccicano. Anche se è caldo non siamo in alta stagione. Aprile 1937.

337

Si conoscono da un anno. Sono a Nauplia, sul mare, non lontano da Micene ed Epidauro, nel Peloponneso. Lei è stata invitata dal governo greco, il 12 marzo. È grazie al ministro Maximos, conosciuto a Salsomaggiore nell’ottobre del 1933, che ha ricevuto questo invito. Franco l’ha accompagnata come sempre. Attraversano insieme tutta la Grecia: vanno a Megara, Patrasso, Olimpia, Tebe, Delfi. Il 12 aprile, in presenza della regina, Sibilla tiene una conferenza all’Istituto di Cultura Italiana di Atene. Franco le parla della sua infanzia: «Mia nonna era pazza, Sibilla, come tua madre. È rimasta chiusa in manicomio per venticinque anni. Era pazza furiosa, con la camicia di forza. E poi è tornata a casa. La rivedo moribonda, col cranio giallo sull’ottomana scarlatta. Era scappata dal manicomio, ed era venuta a casa». «Era la madre di tua madre?». «No, credevo di avertelo detto. Sibilla». «Che cosa?». «La mamma era una bastarda. Una sera mi portò a vedere la casa dove era cresciuta. Non ha mai conosciuto sua madre. Né suo padre. Lui era un gran signore che l’aveva abbandonata. È allora che mi sono reso conto della mia solitudine. Ero solo davanti alle cose e davanti a me stesso. Avevo l’impressione che mia madre fosse un fuoco che ardeva dentro di me, consumandomi. Io divenivo mia madre. Non era soltanto per il disagio perenne di quei suoi occhi che eternamente mi scrutavano e mi davano il senso d’essere in schiavitù, ancora e sempre in fasce. Mia madre! Essa lo era stata quando un minuscolo grumo di sangue attendeva nel suo grembo d’esser chiamato alla luce. Allora, essa m’aveva posseduto, io ero stato tutt’uno colle sue viscere. Lei diceva: “Figlio!”. E c’erano giorni che non potevo soffrire il suono di questa parola. Ma perché, perché ci sono i nomi? Perché non fare come mio padre, che invece di nomi-

338

nare le cose, le indicava con un mugolio cupo della voce, un colpo di spalla?». «Parlami degli uomini», gli dice Sibilla. «Di quali? Di quelli della mia famiglia?». «Sì, per prima cosa di loro». «C’era mio nonno. Il padre di mio padre». «Che cosa faceva?». «Il fabbro. Io lo guardavo affascinato lavorare alla fucina. Terminato il lavoro, il nonno si riposava seduto sulla scaletta dell’uscio. Nodoso, grinzuto, ma con la mascella potente, gli occhi lustri e aggressivi confitti dentro una spirale fittissima di rughe. Al solo vedermi, un sorriso limpido, fatto di minuti brividi bianchi gli si accendeva sul volto. Istintivamente gli cadevo fra le braccia. E non ero più io, non più le mie mani, il mio volto. Ma una gran sciarpa di calore intorno a me, sempre più stretta e soffocante: e il peso della sua fronte sopra la mia, come un martello. Non mi carezzava: mi piegava, smussava, plasmava. Fiore, foglia, testuggine e grifo, questo io ero per lui: un essere cangiante. Il mio corpo diveniva inverosimilmente morbido, come un velluto sul quale affondassero, procurandomi strazio talvolta, impronte d’innumerevoli pollici. Divenivo metallo in fusione». «Quali altri uomini ci sono stati, nella tua fanciullezza?». «C’è stato Claudio, un compagno che amavo. Lo amavo come amico: un sentimento che tu non conosci. L’amicizia, questo lutto dei sensi, contro il quale ogni atomo del corpo sembra giurare di vendicarsi. Claudio era inconsapevole, stranamente passivo. Aveva perso il padre. E si lasciava avviluppare in quella calda e persuasiva educazione esclusivamente materna, invece di scoprirsi da se medesimo. L’uomo deve divincolarsi dalle catene del sangue, rompere l’incantesimo. Non è così?». Sibilla non risponde.

339

Si alza e scende qualche scalino verso la spiaggia, tenendosi con una mano il cappello di paglia sollevato dal vento. Franco fa cenno a una cameriera. Vuole il conto. Paga. Accende una sigaretta, apre il suo taccuino, legge distrattamente, lo richiude. Sibilla sale di nuovo i gradini. «E poi c’era Titta», dice Franco. «Una donna?». Lui ride: «No, un ragazzo. Ha voluto a tutti i costi fare l’amore con me. Mi ha detto che bisognava che imparassi. Che mi avrebbe insegnato lui come si fa. Si è messo carponi davanti a me e ha allargato le gambe. Mi ha detto: “Entra. È come se tu entrassi nella vita”. Credeva di iniziarmi». «E allora?». «L’ho lasciato. Non mi iniziava a niente. Poi c’è stata Felicità». «Ma pensa!», esclama Sibilla. «Cosa c’è?», le chiede Franco guardandola in controluce (Sibilla è rimasta in piedi, in cima ai gradini). «Niente», risponde lei. «Su, parla, perché hai detto “ma pensa”?». «Felicità era il nome di un’amante di Campana. Una contadina di Rubiana. Una piemontese. Quando l’ho lasciato, è andato a letto con lei». «Scusami», le dice Franco. «Di cosa? Hai visto, si sta già facendo buio. Domani andremo a Epidauro, vero? E hai avuto altre donne?». «Si, Gianna. Una donna sposata. Facevamo l’amore sulla spiaggia. Avevo esattamente la stessa impressione di quando tentai di salvare un bambino che stava affogando». «E sei riuscito a salvarlo?».

340

«No». I due escono e si dirigono verso il centro, dove si trova il loro alberghetto. «Bisogna che tu scriva queste cose, Franco». «Mi sono sempre piaciuti i baci, Sibilla. Quand’ero piccolo, provavo un godimento ineffabile a succhiare il bordo del mio colletto di lana inzuppato di pioggia. Aveva un gusto salso, di animale, di capra, di velli strani, pullulanti di vita. Masticavo la terra più nera, più grassa. Ne sapeva di lombrichi e di carne, di radici amare e di passi. Calda, d’inverno, come un sapore d’ascelle. Strappavo coi denti la scorza degli alberi per succhiarne la linfa. Leccavo le pietre». Sibilla gli si avvicina e gli sfiora le labbra. Si baciano così, per la strada, ai piedi della fortezza di Nauplia. La mattina dopo se ne vanno, nonostante le proteste dell’albergatore che avrebbe voluto trattenerli per la Pasqua ortodossa. Adesso sono a Epidauro. È il tramonto. I turisti sono tutti scomparsi. Sibilla, seduta su un gradino in mezzo all’anfiteatro, ascolta Franco che, prima per dimostrare l’eccellenza dell’acustica, poi per dare una specie di solennità alla loro presenza, recita L’infinito di Leopardi: Sempre caro mi fu quest’ermo colle E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura…

A Olimpia, Sibilla lo paragona a Ermes. A Delfi, ultima tappa del viaggio, salgono in cima all’altura su cui si trovano le rovine, fino allo stadio deserto. Sibilla si sie-

341

de su una delle pietre che restano di una tribuna ormai immaginaria. Scrive a lapis su un taccuino. Ha un sorriso estatico. Chiude gli occhi e respira profondamente. Appoggia le mani dietro di sé e piega il busto all’indietro. Riapre gli occhi e scorge un’aquila. Dice: «Giove!». Poi aggiunge: «Franco, è soltanto una felice coincidenza che qui il paesaggio abbia sempre questa luce sublime?… È qui che hanno avuto origine i sogni, i miti… Franco? Franco?». Si volta e non lo vede. Urla, in preda a un’angoscia improvvisa: «Franco!». «Ehi!», risponde la sua voce. Sibilla lo vede che corre attraverso lo stadio. «Franco! Ma sei impazzito!». Ella sembra esitare tra lo spavento e l’ilarità. Alla fine scoppia a ridere. Franco è completamente nudo. Ha ammucchiato da una parte il suo completo bianco, la camicia, la cravatta, le mutande e la canottiera. «Se ti vedono! Torna subito qui!». «Siamo soli, Sibilla, soli!». E corre verso di lei, in diagonale, attraverso lo stadio. «Un dono degli dei», mormora Sibilla. «Che cosa dici?», domanda lui trafelato, stringendola tra le braccia e baciandola sul collo. «Che sei un dono degli dei». «Non fa mica tanto caldo, a quest’ora!». E si riveste in fretta. «Posso leggerti una cosa?», gli chiede lei.

342

«Leggi, leggi!». Pur sempre su te grandi volano, Delfo, l’aquile di Giove, e pur anche colombe, dolci, in questi di primavera odorosi mattini. […] Ancor sciolto non è il mistero del mondo, Delfo, e sempre l’aquile grandi e le colombe più vivo fanno il tuo fervente cielo.

«E Apollo?», chiede Franco. «Non dici niente di Apollo, del tempio di Apollo?». «Eschilo dice che il tempio di Apollo fu costruito dal dio stesso con cera e ali di api. Credevo che Delfo fosse un’invenzione di Omero, di Saffo, di Sofocle. E invece è il contrario, capisci? Il contrario. È Delfo che ha inventato la letteratura greca. Non avevo mai sentito niente di tanto forte, salvo ad Assisi e a Evisa. Qui». Prende la mano di Franco e la posa sul suo ventre. «È come un figlio che porto in grembo». Appena tornano in Italia, Franco si mette al lavoro. Sibilla riceve adesso un sussidio mensile che le permette una vita un po’ più confortevole: il suo assegno è stato portato da mille a duemila lire. Franco prepara i suoi esami universitari, che Sibilla gli risente, e il pomeriggio scrive quello che poi diventerà La lepre bianca. Il titolo si riferisce a un aneddoto giapponese contenuto nel Kojiki, opera mitologica dell’VIII secolo che tratta della fondazione del Giappone. Questa fu tradotta in italiano soltanto nel 1938: il titolo del libro di Matacotta è dunque successivo all’inizio della stesura. L’aneddoto parla di una lepre a cui gli

343

dei consigliano, per recuperare il pelo strappatole da un mostro, di tuffarsi nel mare, poi in un fiume, e rotolarsi infine nel polline. Prove simboliche della nudità dell’uomo. Questa lettura non deve sorprenderci: Sibilla leggeva anche i diari di corte dell’antico Giappone e il teatro nō: «Ecco sto leggendo un delizioso libriccino ove son raccolti brani di “diari” di alcune dame di corte dell’Antico Giappone. Pagine precisamente scritte intorno al Mille, ma che potrebbero esser datate da oggi, per molti lati. Non solo per il fatto che quelle damine hanno uno stile modernissimo, d’una scioltezza e finezza sorprendenti, ma per i caratteri loro e delle persone che tratteggiano così simili a quelli nei quali ogni giorno ci imbattiamo». Il 5 ottobre 1944, a Fermo, legge un nō, La donna di Eguchi, e ne appunta il ritornello: «Non attaccare il tuo cuore all’asilo d’un istante». Il 29 marzo 1941 Sibilla scrive sul suo diario: «Eravamo liberi come nessuno. Sdegnavamo il giudizio altrui, non sentivamo il bisogno di compagni, isola in un’isola. Qualche libro di poeta, qualche fiore di prato. Orizzonte aperto. E l’arco che andava dalla mia alla sua età era un miracolo di saggezza e di bellezza, e ci bastava saperlo noi. Nessuno era più ricco. Nessuno dovevamo invidiare. Nascosti, avremmo dovuto star nascosti, come nel primo tempo». A Capri, alloggiano a Villa Falconara, messa a loro disposizione da Emirico Vismara; nella «casetta di Psiche»; nella casa prestata loro da Giovanni Merlo, con cui Sibilla è rimasta in buoni rapporti; nella Casa Pompeiana. «Franco dormiva nella propria stanza, io andavo a sollevare la zanzariera, il corpo dell’adolescente aveva nella notte respinto ogni indumento, posava dorato e perfetto. Gli toccavo i riccioli, lui si stirava, e gli occhi si aprivano, sorridenti. Il sorriso era in

344

lui, aveva dormito con lui. E lui si ridestava con la stessa fresca spontaneità del mare». Nell’estate del 1938, fanno un breve soggiorno a Courmayeur. Franco è tentato di abbandonare Sibilla per una giovane tedesca con la quale è entrato in corrispondenza. Ma rinuncia a quest’idea che fa inutilmente soffrire Sibilla. Sibilla pubblica dunque Orsa minore, raccolta di aforismi e aneddoti; ma a parte qualche poesia, in tutti i mesi trascorsi finora con Franco non ha scritto molto. Il 23 novembre 1938, ella inizia una specie di compendio autobiografico composto di rapidi appunti. Ne vieta la pubblicazione in una nota preliminare, riservando queste precisazioni, che sviluppano talvolta ampiamente certi temi o avvenimenti, al suo futuro biografo. Ne termina la stesura il 14 febbraio 1939. Il 3 novembre 1940, di nuovo a Capri, in una torre di Villa Falconara, inizia finalmente quello che verrà poi considerato il suo secondo capolavoro dopo Una donna: il diario. Non a caso ha scelto il 3 novembre come data iniziale: si tratta infatti del trentaquattresimo anniversario dell’uscita di Una donna, ricorrenza che lei ha sempre festeggiato come quella di una nascita. Sibilla è allora in preda a un grande scoraggiamento. Il cielo di Napoli è illuminato dagli aerei inglesi. La notte lei si stringe a Franco. Ha l’impressione che la sua opera poetica sia inutile e che verrà dimenticata, perché non è adatta a quel mondo di cui lei crede di viver la fine. Viene a sapere che la sua grande rivale e nemica, Ada Negri, ha ottenuto l’onore al quale lei aveva tanto aspirato e per il quale dodici anni prima era andata a umiliarsi davanti a Mussolini: è stata nominata prima accademica d’Italia. Ada Negri, di sei anni più anziana di Sibilla, ha avuto, si può dire, una carriera parallela alla sua. Poetessa e umanista, si è battuta per i poveri

345

fin dalla fine dell’Ottocento e ha consacrato buona parte della sua vita all’azione sociale. Le sue poesie, semplici e liriche, trovano numerosi lettori. Più castigate di quelle di Sibilla, esaltano valori estetici e morali sereni e scontati. A Milano, quando Sibilla era ancora agli esordi, Ada Negri l’aveva incoraggiata. All’uscita di Una donna, dunque, Sibilla le aveva inviato una copia senza precisare che ne era l’autrice, approfittando del fatto che la Negri la conosceva soltanto come Rina Faccio. «Il vostro dolce viso è indimenticabile», le rispose Ada Negri. E a proposito del romanzo: «Voi conoscete Sibilla Aleramo, Signora. Ditele che io l’ho seguita passo passo, con pietà fraterna nella sua Via Crucis». Nel 1913, quando dirige la «Grande Illustrazione», Sibilla le chiede qualche poesia per la sua rivista. Ma nel 1919 la pubblicazione del Passaggio causa la loro rottura. Ada Negri, scandalizzata dalle confidenze erotiche di Sibilla, le scrive: «Molta bellezza c’è: l’amore non c’è. Tanti amori hai conosciuto. Non sai l’Amore. Nulla noi siamo, se non ci diamo completamente. O triste fra tutte le donne!… O sorella innamorata dell’amore, e priva dell’Amore!». Poi cerca di rimediare con una seconda lettera, ma ormai è troppo tardi. Non si potrà più pronunciare il suo nome in presenza di Sibilla. Il 15 novembre 1940 Sibilla scrive con amarezza: «Quasi certamente rimarrò sempre non accetta al gran pubblico borghese, detestata dal clero, una rivoluzionaria della quale è meglio tacere, anche se Mussolini ha disposto per me una specie di pensione onde non muoia di fame». Sibilla e Franco leggono insieme Lucrezio, Petrarca, Hölderlin, Keats, Faulkner e piano piano, mentre Franco rimaneggia La lepre bianca, Sibilla fa, giorno dopo giorno, il bilancio della propria opera e della propria vita. Ha l’impressione di aver sacrificato la sua poesia all’amore e forse «il suo cuore di madre alla sua fatalità di poeta».

346

È una sera di novembre del 1940. Nella torre di Villa Falconara, Sibilla sta ricopiando una poesia che ha appena terminato. La legge e scoppia in singhiozzi. Strappa il foglio. Franco, che era immerso in una lettura davanti alla finestra che dà sulla baia, si precipita verso di lei: «Ma che fai, Sibilla?». «Non vale niente!». «Ma sei pazza! È la tua poesia che resterà. Se sopravvivrai, lo dovrai forse a una quindicina di liriche!». «Non mi parlare di sopravvivenza. Quelle liriche le ho già scritte. Non c’è più niente, niente! Un aborto! Vedi quello che son capace di fare alla mia età? Un aborto spontaneo! Non c’è più ritmo né struttura; vocaboli piatti, prosaici, gelidi. Sembra scritto da Ada Negri». «Smetti di mortificarti così tutto il giorno, dalla mattina alla sera! È spossante. Guarda». Franco fruga nel cassetto della scrivania e ne estrae una lettera. La legge a voce alta: «L’ansia di Sibilla per comunicare con gli altri e trasmettere il suo fuoco, il suo desiderio d’amore, il suo stato ancora di larva insomma, è già mito nell’atto di vivere perché si trasforma eternamente in poesia». «È un’entusiasta», commenta lei. «Elsa. Elsa Morante». Qualche giorno dopo, Franco torna a casa con un mazzo di rose. Accende la radio. Si sentono le note di un foxtrot. I due si mettono a ballare freneticamente a quel ritmo indiavolato. Il 31 dicembre 1940 ascoltano alla radio la seconda e la settima sinfonia di Beethoven. Brindano alla pace. In quel momento anche Pasolini, allora studente a Bologna, sta ascoltando lo stesso programma. Scrive infatti all’amico Franco Farolfi: «Un

347

avvenimento per me d’importanza eccezionale: Beethoven. Ho sentito in questi ultimi giorni alla radio la quarta; la sesta; la settima; l’ottava sinfonia. Le ho ascoltate quasi del tutto attentamente, provando un piacere e una consolazione grandissima: sensazioni che provavo davanti a un’opera d’arte teatrale, o lirica, o pittorica ecc. le ho finalmente provate anche davanti alla musica. […] non più cerco nella musica la musica oggettiva, descrittiva, ma la musica vivente per se stessa: spettacolo non di figure o caratteri umani, né di bellezze della natura, ma spettacolo vivente per la contrapposizione di sentimenti puramente musicali». Franco Matacotta scriverà a Pasolini nell’agosto del 1941, cioè diciotto mesi dopo; probabilmente per proporre uno dei suoi Poemetti alla rivista «Eredi», di cui il giovane poeta, ancor più giovane di Matacotta stesso, si occupa insieme ad altri. Franco desiderava forse entrare a far parte del loro gruppo? L’anno seguente Pasolini, a sua volta, invia a Sibilla la sua prima raccolta, Poesie a Casarsa. La prima lettera di Sibilla al poeta che ci sia rimasta risale però all’agosto del 1949: «Io sapevo già che lei è un poeta, mi pare di averglielo scritto o fatto sapere – non ricordo bene, dopo aver letto le Poesie a Casarsa. Stamane ho anche sentito il compagno, in lei (anche se non “iscritto”) e ne ho provato intensa commozione. Come vorrei conoscere il friulano per poter direttamente senza ricorrere alla traduzione gustare il ritmo, il canto delle sue parole, oltre al senso! (In italiano, non compone mai?). Questa mia lettera è soltanto un saluto, ma lo gradisca per la sua sincerità. Volevo anche, tempo fa, mandarne uno a Don Naldini per Seris par un frut, che pure mi colpì». Il 31 dicembre 1951, dieci anni dopo la notte di San Silvestro passata a Capri, Sibilla incontra finalmente Pasolini da Einaudi: è arrivato a Roma da poco. È in compagnia di Giorgio Bassani, che l’ha introdotto nell’ambiente della radio e dell’editoria.

348

Emilio Cecchi, al quale Sibilla ha inviato La lepre bianca, risponde evasivamente: è meglio aspettare qualche mese, rivedere il testo. Sibilla e Franco sono entrambi abbattuti. Il 5 gennaio 1941, Sibilla prende una moneta da venti centesimi col suo profilo ritratto da Bistolfi. Fa testa o croce. La sorte vuole che lascino Capri. Lei telefona alla proprietaria. A tavola (mangiano un’insalata di patate, cipolle e fagioli), Franco le dice: «Noi siamo null’altro che il risultato del funzionamento delle nostre glandole; le mie non essendo foggiate per la felicità, io felice non sono mai stato». Lei scoppia in lacrime. «Non piangere», le dice lui. «Non fare come tua madre». Lei non risponde, non dice ciò che pensa, e che più tardi scriverà: «Ho come sospeso […] il mio individuale accrescimento, la mia autocreazione […]. Una donna di sessant’anni, un ragazzo di venti. Il ragazzo l’assale, ogni giorno, ogni ora; impetuoso, irruente, esclusivo. Ne fa bottino. La guarda, la respira. L’interroga, la fa parlare […], ecco che ella di questo ragazzo fa il proprio discepolo e quasi il proprio figliuolo, lei che il figlio della propria carne ha dovuto lasciar crescere lontano…». Cinque giorni dopo, Sibilla gli porge un libro di poesie di Hölderlin, sul quale ha scritto una dedica: «A Franco, ultima mia fede». «Che cosa intendi per “fede”?». Lei non risponde. Dopo la rottura, lo definirà «il mio ultimo enorme errore». Il 22 gennaio Sibilla scrive una poesia e la fa leggere a Franco, che non fa alcun commento. Lei spedisce la poesia a Mondadori:

349 Stupore supremo, se talora in cuore stanchezza del vivere mi tenta, […] poter improvvisa nel pianto ancora dal tuo incanto tacitamente esser toccata, Terra.

Il 5 febbraio Sibilla dice a Franco: «Io partirò per Roma, tu per Fermo. Non posso più sostenere costantemente la tua vita. Più nulla mi resta. Debbo tornar sola, morir sola, faccia a me stessa». E scoppia a piangere. Lui le dice: «Perché soffri se hai deciso?». Il 1° marzo, si mettono in uno stato di grande agitazione. Leggendo il giornale, a Capri, è sembrato loro di capire che Franco dovesse presentarsi all’ufficio leva. La sera una telefonata dal Distretto fuga questo timore. Loro restano immobili nella stanza, seduti sulle valigie. Il 4 marzo, mentre si alza, Franco canta sorridendo e guarda Sibilla che si sta svegliando. L’8 marzo se ne vanno da Capri. Restano insieme ancora una settimana, a Roma, in via Margutta. Il 14 marzo, notte di lacrime, passata in bianco. La mattina del 15 marzo Franco parte per Fermo dalla stazione Termini. Sibilla riprende la sua vita mondana. Scrive a Franco ogni giorno. Ma solo dopo una settimana gli manda un telegramma. Olga Signorelli, come ha già fatto spesso con altri amanti di Sibilla, scrive a Franco. Alba de Cèspedes le offre la sua villa a Forte dei Marmi (dove abitava, per una parte dell’anno, Valery Larbaud).

350

Il 5 aprile Sibilla viene a sapere che Virginia Woolf si è suicida­ ta. È tentata di imitarla. Di tanto in tanto telefona a Franco a Fermo. Lui le risponde male. Si è iscritto alla Scuola Ufficiali e spera di esser chiamato. Dà qualche lezione privata. Che Sibilla lavori e lo lasci in pace. A casa di amici, Sibilla rivede Moravia ed Elsa Morante, giovani sposi che aveva conosciuto a Capri e ai quali Franco aveva detto: «Sibilla è la creatura più tragica che esista». Spinta dal bisogno di soldi, ella vende a peso una parte dei suoi libri, che finiranno al macero: raccolte di poesie, testi con dedica dell’autore. Iugoslavia e Grecia hanno capitolato. La croce uncinata sventola sull’Acropoli. Finalmente Franco la raggiunge e passa quindici giorni con lei. «La poesia come un’entità presente fra noi». Lui decide di intitolare le sue liriche Canti a Sibilla. Poi però non ne farà niente. Il 22 giugno 1941 l’Italia dichiara guerra alla Russia al fianco della Germania. Una settimana più tardi, Sibilla consegna ad Alessandro Pavolini una lettera in cui chiede dei soldi. Franco viene chiamato alle armi. Parte per la Sardegna. «Questo fanciullo non generato dalle mie viscere m’ha fatto madre del suo spirito», afferma Sibilla. «Ma la natura noi abbiano forzata e trascesa», ribatte Franco. Tuttavia il 9 agosto 1941, quando Sibilla va in Sardegna per raggiungerlo, in aereo («Pensavo alla guerra, a quanti di quei nobili ippogrifi, come quello che mi portava, vengono distrutti atrocemente»), lui l’accoglie come sua madre. La sera della domenica 10 agosto 1941, Sibilla è sola. Apre la finestra di un’umilissima pensione, a Sanluri. Guarda il cielo

351

e vede l’Orsa maggiore. Si ricorda allora che è la notte di San Lorenzo. Ha viaggiato tutto il sabato: da Cagliari a Sassari, da Sassari a Sanluri; a causa di un disguido postale, credeva che Franco si trovasse a Sassari, ma, dopo aver consultato i registri militari, un graduato l’ha mandata a Sanluri. Franco la vede subito alla stazione e le dice in fretta: «Vieni, Sibilla, svelta!». Afferra i suoi bagagli e si fa strada con violenza tra la folla di soldati. Lei stenta a seguirlo. «Franco, aspetta!». Lo perde di vista, poi lo scorge di nuovo. Arrivano davanti alla pensione: tre camere al primo piano di un bar. Quando vede Sibilla, il proprietario le dice: «Ah, ecco la Signora Matacotta! Le posso assicurare che suo figlio era davvero impaziente di vederla. Ha voluto che pulissimo la stanza, che mettessimo delle rose. Si vede che vuole bene alla mamma!». Sibilla non risponde. Guarda Franco. «Vieni, mamma», dice lui. «Ho la chiave». Lei lo segue senza fare commenti. Dopo aver chiuso la porta della camera, piccola, con due letti stretti e una finestrella che dà sul cortile interno. Franco tenta di spiegarsi: «Come volevi che…». Lei lo interrompe posandogli una mano sulle labbra. Poi si sdraia sul letto. «Sai che è morto il figlio di Mussolini?», le chiede lui. «Nemesi», risponde Sibilla. «Piano piano spariranno tutti». «Com’è andato il viaggio?». Lei si alza in piedi.

352

«Hai scritto?», chiede a Franco. Poi apre la valigia, ne toglie il suo quaderno e tre ritratti che porta sempre con sé in viaggio: Ibsen, Nietzsche, Whitman. «Io non ho scritto molto», continua Sibilla. «Mi farai leggere?», la supplica lui. Lei lo osserva, nella sua triste uniforme grigioverde da allievo ufficiale. «Come sei infagottato, amore mio!». Lui alza le spalle e le si siede accanto. «Vuoi leggere quello che ho scritto io?». Ed estrae timidamente dalla tasca un taccuino. Lei comincia subito a leggerlo. Lui si allontana, ma non osa prendere il quaderno di Sibilla. Va ad aprire la finestra. Si sentono voci di soldati che cantano, un gatto che miagola, un bambino che piange e, lontano, le ultime cicale del tramonto. Fa un gran caldo. C’è un odore di mosto, di fogna, d’acqua sporca, di bucato. Una donna ride in una camera vicina. Le tubature gorgogliano. «Vuoi mangiare qualcosa?», le chiede lui. Lei scuote il capo senza smettere di leggere. Franco resta seduto davanti alla finestra, le mani appoggiate su un tavolo nudo. Un lume a petrolio sul comodino illumina debolmente la stanza; la penombra nasconde le macchie appiccicose sui muri, le lenzuola grigie. A poco a poco, i rumori si diradano. Resta soltanto il soffio leggero del vento che fa schioccare un telo di plastica sopra una moto e oscillare una lampada accesa nel cortile. Franco sente dei singhiozzi e si volta. Si avvicina a Sibilla, si siede per terra e le posa la testa sul grembo. «Scriverai un grande libro», le dice, «come Campana, Leopardi, Dante».

353

Hanno passato insieme una notte e un giorno intero. Franco se n’è andato a mezzanotte dopo averle fatto giurare che andrà a parlare col maggiore per convincerlo a dargli il congedo. Sibilla manterrà la parola. Il giorno dopo infatti va a parlare con il comandante, il quale la informa che Franco è stato «consegnato» per aver asserito che la poetessa Sibilla Aleramo era sua madre. Il padrone dell’albergo ha capito tutto e l’ha denunciata come spia. «Spia!», esclama Sibilla stupita. Poi sorride sarcasticamente, pensando alle persecuzioni subite da Campana. Ma convince il comandante a liberare Franco. Franco piange tra le sue braccia. Sibilla riesce ad averla vinta. Franco viene mandato all’ospedale di Cagliari. Si rivedono qui il 14 agosto, giorno del sessantacinquesimo compleanno di lei. Sibilla prende alloggio all’albergo Scala di Ferro, regala i suoi libri, con dedica, al comandante e al direttore dell’ospedale. Deve aspettare due settimane, perché prima non c’è posto in aereo. Torna a Roma da sola. Franco, ottenuto finalmente un permesso dopo una lunga attesa per le formalità, rientra a Fermo. Poi riprendono la loro vita: Sorrento, Capri, incontri mondani. Malaparte pubblica i Poemetti. Sibilla scrive sul diario che, se Franco lo desiderasse, sarebbe pronta a separarsi da lui. Franco legge ogni giorno ciò che lei scrive. Aggiunge a mo’ di commento: «Mi sono sottomesso alla felicità come ad un martirio. Per sempre». Franco corregge le bozze dei Poemetti, si reca ancora una volta in Sardegna per qualche giorno e torna con un nuovo permesso. Il 4 dicembre 1941 muore l’altra rivale di Sibilla, Amalia Guglielminetti, sua nemica per aver riso di fronte al fiasco di Endimione. Come unico necrologio, Sibilla appunta sul diario:

354

«Chissà se morendo ha avuto coscienza di non lasciar nulla di valido, o se si è illusa che qualche verso almeno le sopravvive?». L’8 dicembre il Giappone entra in guerra. L’11 dicembre l’Italia dichiara guerra agli Stati Uniti. Il 12 dicembre, Sibilla accetta di partecipare a un ricevimento ufficiale in onore di alcune scrittrici tedesche. Scrive sul diario: «Umiliazione, vergogna silenziosa». Il libro di Franco esce all’inizio di gennaio del 1942, benché fosse già stampato da diverse settimane. Franco torna in Sardegna. Durante tutti questi mesi, Sibilla si trova in uno stato di abbattimento profondo, da cui la pubblicazione delle poesie di Franco non riesce a scuoterla. Si insinua in lei un tenace senso di colpa per le passate esperienze erotiche. È convinta del proprio fallimento letterario e vede con orrore la sua vita sentimentale concludersi con un legame insoddisfacente. Il 27 marzo 1942 viene a sapere del suicidio di Stefan Zweig e di sua moglie. Il 20 aprile, della morte di Annie Vivanti. Consegna a Mondadori («Montedoro», come diceva D’Annunzio) il manoscritto di Andando e stando in versione accresciuta. Verrà pubblicato in novembre nella prestigiosa collana dello “Specchio”. Dopo un soggiorno a Portofino, Sibilla tenta ancora una volta di ottenere da Alessandro Pavolini, ministro della Cultura, un aumento della pensione, che naturalmente le viene rifiutato. Sempre più spesso lontana da Franco, abbandona Roma per Ariccia, poi per Firenze («Via, via i ricordi»). Nel giugno del 1943, Mondadori decide di ristampare Una donna. Il 13 luglio 1943 gli Alleati sbarcano in Sicilia. Il 25 luglio 1943 Mussolini viene sostituito da Badoglio e fatto arrestare dal re dopo un’udienza: «Povera cara Italia», scrive

355

Sibilla. «Stamane l’abbiam veduta a una svolta, come si dice, della sua storia. Ancora una. Ha potuto scrollarsi di dosso l’oppressione fascista, che pareva invincibile: così inattesamente, quasi senza crederci». Nonostante il cambio di governo, in agosto Sibilla riceve ancora la pensione. Ma già da settembre essa viene soppressa. Il 21 settembre Mussolini viene liberato dai tedeschi. Franco si nasconde nella soffitta di via Margutta. Il 16 ottobre duemilanovantun ebrei vengono fatti prigionieri nel ghetto di Roma e deportati. Il 30 ottobre Franco fugge a Fermo, di notte, con un amico. «Arrivederci, Sibilla!», grida nei fari della macchina; lei è affacciata alla finestra. «Sono sola. Non ho neppur più la forza di piangere», scrive Sibilla sul diario. Roma è irriconoscibile: carri armati tedeschi, bandiere, camion, saccheggi, incendi. Senza soldi. Sibilla vende altri libri rari. Qualche amico le viene in aiuto. Ella scivola insensibilmente dalla passione alla depressione, come tante volte le è capitato con altri amanti: «Tutto mi interessa, e nulla. Appena mi ritrovo con me soltanto, nel gran silenzio della stanza, sia notte o giorno, l’angoscia mi riagguanta, paurosa…». Nel dicembre del 1943, sotto una pioggia torrenziale, Sibilla Aleramo percorre a passo spedito la via della Vite, non lontana da casa sua. Stringe al petto un pacchetto e un ritaglio di giornale, sul quale ogni tanto verifica un indirizzo. Arriva davanti a un palazzo «sinistrato». Esita un istante prima di imboccare la scala: il tetto è scoperchiato e sui gradini piove come per strada. Poi sale al terzo piano. Dal pianerottolo si vede l’interno

356

di quasi tutti gli appartamenti, le cui porte sono state spazzate via dall’esplosione. Sibilla bussa a un battente socchiuso. «Sta qui la “calzettaia”»? domanda. Una bambina va verso di lei, urlando: «Mamma! C’è una signora!». Dietro la bimba compare una giovane donna piccola e grassottella, dall’aspetto sano. Stava sbucciando le patate. La stanza è piena di giornali che proteggono i mobili. Qua e là ci sono ancora calcinacci. La calzettaia si guarda intorno imbarazzata. «Che disastro, eh?». «È stato il bombardamento dell’8 dicembre?». «Io e la bambina ci siamo salvate per miracolo. Sapesse che strage negli altri appartamenti! Noi non ci dobbiamo lamentare. Che cosa posso fare per lei, signora? Si sieda». Sibilla le mostra «Il Messaggero». «Ho letto il suo nome in quest’annuncio». «Vuole delle calze? Ha portato la lana?». «Beh, non esattamente», inizia Sibilla. «Vorrei che rifacesse il piede a queste». E toglie dal pacchetto due paia di calze. La donna le esamina. «Ha ragione, sono ancora buone. Devo avere un po’ di lana per aggiustarle. Ha un numero di telefono?». «63.8.14». La donna lo scrive su un pezzo di carta. «E l’indirizzo?». «Via Margutta, 42». «E il nome, per cortesia?». «Aleramo Sibilla». La calzettaia alza gli occhi sbalordita.

357

«Sibilla Aleramo? La scrittrice?». Sibilla sorride: «Sì». D’impulso la calzettaia prende le mani di Sibilla nelle sue e scoppia a ridere fragorosamente. Poi si porta una mano alla bocca, si alza, si guarda intorno sgomenta, si mette di nuovo a ridere. Si precipita verso una libreria coperta dai giornali. Comincia a cercare con frenesia e alla fine prende tre libri, che posa davanti a Sibilla: Una donna, Momenti, Il frustino. «Li ha letti?», domanda Sibilla. «Eccome! Li avrò letti dieci volte. Mio marito non ci crederà… Ah, se potessi chiederle…». «Una dedica?». La donna fa segno di sì col capo, come una bambina. La figlia, muta, le sta attaccata al vestito. «Chi è, mamma? Chi è?». «Zitta, Chiara, zitta. È una signora». «Mi dica il suo nome». La calzettaia glielo dice. «Tutto quello che lei scrive è successo davvero, non è così? E la guerra, scriverà della guerra? Piacerebbe tanto anche a me poter descrivere tutto, tutto…». La donna allarga le braccia, indicando lo spazio intorno a lei. «Mio marito lavorava in vetreria, e allora, sa…». «E adesso?». «In guerra, naturalmente!». Sibilla carezza il viso della bambina. «Chiara. È un bel nome. Siete di Roma?». «No, piemontesi».

358

«Ah!», fa Sibilla. «La prossima volta che vengo, le porterò gli altri libri». «Perché, ce ne sono altri? Sa, con la bambina e il lavoro, a volte è difficile restare aggiornate». «E suo marito mi ha letto?». «A lui non piace leggere. Ma gliene ho parlato io. Gli ho raccontato tutto». «E lui che cosa ha detto?». «Oh, ha detto: “Ma che cos’ha qui dentro, quella donna, per poter scrivere queste cose?”», riferisce la calzettaia indicando la propria testa. «Direi piuttosto qui dentro», dice Sibilla mettendosi una mano sul cuore. «Per questo», osserva arditamente la calzettaia, «siamo tutte uguali». «Ha ragione». «Allora perché alcune donne scrivono, e altre no?». Sibilla guarda Chiara, sorride e non dice niente. Poi: «Non conosce mica qualcuno a cui potrebbe interessare una volpe?». «Una volpe?», domanda Chiara. «Zitta», dice sua madre. «Vuole dire una pelliccia? Mi informerò». Sibilla non riuscì a vendere la sua pelliccia di volpe. Sempre più sola e povera, non ha notizie di Franco, che si trova sempre a Fermo. Piange, lo invoca la notte. Gli parla come se lui le fosse accanto. Sinisgalli, che pure non è molto ricco, le manda dei soldi. Il cielo di Roma è continuamente solcato da aerei. Tutti si aspettano che la città venga rasa al suolo da un momento all’altro.

359

Alla fine di febbraio del 1944, Sibilla riceve due lettere da Franco. Altre due sono andate perdute. Ne arrivano ancora altre; parlano sempre d’amore. Il 19 marzo 1944, Roma viene ferocemente bombardata. La popolazione, fino a quel momento in maggioranza favorevole agli inglesi, si rivolta. All’inizio d’aprile Sibilla comincia a tradurre la corrispondenza di George Sand e Musset. Si entusiasma per questo progetto e pensa a una collana di grandi opere femminili: Julie de Lespinasse, Virginia Woolf (i saggi critici), Bettina Brentano. «Da dove mi viene», si chiede Sibilla, «quest’energia d’ottimismo imbattibile?». Termina la sua traduzione in meno d’un mese. Pensa con emozione ai traduttori che l’hanno fatta conoscere in Francia, in Russia. Di Franco scrive: «Egli riassume tutto quello che in vita ho amato e perduto: i miei genitori, e mio figlio, e gli uomini in cui ho creduto e per i quali ho prodigata la forza e la purezza del mio cuore. È la corona della mia vita, Franco, è la vivente immagine della poesia, di quell’Iddio per cui sempre rinacqui dopo ogni morte. Per incontrar lui ero sopravvissuta». Il 2 giugno, Franco bussa alla sua porta. Il 4 giugno, gli americani entrano a Roma. Sibilla e Franco familiarizzano con un soldato americano di colore, Oliver, e parlano a lungo con lui del razzismo negli Stati Uniti. Franco comincia a tradurre dal russo, con l’aiuto di Olga Signorelli Resnevič: si interessa soprattutto a Esenin. Sibilla riprende i contatti con Sforza, che negli anni a venire le offrirà spesso il suo aiuto.

360

Lo vede l’11 agosto 1944 insieme al figlio, «Sforzino». Mancano tre giorni al suo sessantottesimo compleanno. L’incontro ha luogo al numero 42 di via Margutta, in presenza di quel ragazzo di vent’anni, doppio del padre. Sforza ha adesso settantadue anni e i capelli tutti bianchi, come quelli di Sibilla. Ella riconosce in lui «al di là del suo “charme” fisico […] quel piglio sicuro di fronte al fenomeno vitale, un interiore accordo, una specie di armoniosa felicità». Lui scorge a sua volta il vero volto di lei. Sibilla osserva che «l’essenza vera di un individuo resta pur sempre identica, quando è ad essa che ci interessiamo soprattutto». Qualche giorno dopo questa visita, Sforza le manda due saggi politici di cui uno dedicato «alla cara ombra sul muro di Via Margutta». Alba de Cèspedes pubblica sulla rivista «Mercurio», che ha appena fondato, qualche pagina del diario di Sibilla. A metà settembre del 1944 Sibilla va a Fermo con Franco, che partecipa attivamente alla resistenza al fianco degli inglesi. Va a stare prima dai genitori di Franco e poi da sua nipote Fede, a Lapedona. I due conoscono un periodo di grande felicità; si sentono quasi in stato di grazia, come una buona parte degli italiani. Nelle Marche Sibilla, influenzata anche dall’atteggiamento di Franco, stabilisce contatti spontanei con alcuni comunisti militanti. Li raggiunge a Fermo Giacomo Debenedetti, che insiste per pubblicare il diario di Sibilla nella sua casa editrice. Lei esita a rendere pubblico un testo scritto per sé e per Franco, in un momento della sua vita in cui «non si sentiva il vigore della creazione». Certo questo potrebbe aiutarla a superare le difficoltà economiche di cui non fa che lamentarsi; ma esse sono velate adesso dall’euforia della fine imminente della guerra, di «questo breve intervallo quasi bucolico» e soprattutto di aver ritrovato Franco. Alla fine di ottobre Sibilla torna da sola a Roma.

361

Va a vedere un’opera teatrale di Gor’kij del 1932, Egor Bulyčev, «potente quadro della moribonda società borghese in Russia alla vigilia della Rivoluzione Sovietica. Ma che cosa “sente” il pubblico veramente di fronte a opere come questa, il pubblico in grande maggioranza borghese?». Così nel dicembre del 1944 le torna in mente con amarezza l’ultimo giudizio che Gork’ij aveva dato su di lei, a Capri, nella primavera del 1928: «Scriverà un grande libro, come Una donna, un grande libro della maturità. Ci sono ancora in lei tante cose inespresse!». Il giudizio di Gor’kij non coincideva in fondo con la sentenza emessa nel 1942 dal presidente dell’Accademia per giustificare il proprio rifiuto di ammettervi Sibilla: «Sibilia Aleramo, scrittrice di grande ingegno, ma che non ha saputo sfruttarlo»? L’8 dicembre 1944 Franco scrive a Sibilla che ha deciso di raggiungerla a Roma insieme a un ragazzo del quale si è invaghito, e di cui Sibilla conosce da diverse settimane l’esistenza. Si chiama Pino. Franco incarica Sibilla di trovar loro un appartamento. «Faremo una specie di trinità poetica: madre, figliuolo e spirito santo». Il 22 dicembre la giovane coppia arriva con un cappone e si accampa nella mansarda di Sibilla; mangiano il cappone tutti insieme. Cinicamente, Franco commenta nella sua autobiografia inedita: «Dinanzi all’irreparabile del mio atteggiamento, Bella giocava le sue ultime carte».

363

19

La compagna

Il 2 marzo 1945 Sibilla scrive: «Il mio amore sperava nel miracolo, voleva il miracolo. Ora, sa finalmente che il miracolo non avverrà». Franco, dopo un mese di «trinità» e tre settimane di solitudine (Pino è tornato a Fermo), riparte anche lui per le Marche. «Non sono più la stessa», afferma Sibilla. Alla fine dell’inverno del 1945, Sibilla è seduta vicino alla finestra. Dalla strada le arrivano i rumori degli artigiani che hanno ripreso le loro attività: corniciai, carpentieri. Dietro di lei si trova un uomo elegante, alto e magro, coi capelli bianchi. È il conte Sforza. Hanno parlato insieme tutto il pomeriggio. Sibilla dice: «Lei sta perdendo tempo prezioso. Ha sempre tanto da fare. Mi vergogno di averla trattenuta tanto a lungo». «Il tempo passato con lei non è mai perduto. Anzi, è il lavoro che mi tiene troppo occupato – del resto, non so ancora per quanto tempo». «Ha notato che quando il fascino della giovinezza, della bellezza si spenge, ne sorge un altro, come una specie di serenità…».

364

«Serenità per gli altri, non per noi stessi!». Sibilla si volta di scatto verso Sforza e gli sorride annuendo. Il conte ha quattro anni più di Sibilla e, fino a quando non morirà nel 1952, sarà per lei un amico e l’oggetto della più grande ammirazione politica. Le sue cariche (sarà nominato tra l’altro ministro degli Esteri del primo governo del dopoguerra) non lo allontaneranno mai da Sibilla. Quando era stato costretto ad andarsene dall’Italia, prima della dichiarazione di guerra, le aveva lasciato in ricordo un budda di bronzo. «Non ha mai lavorato tanto come adesso per l’Italia, vero?», gli chiede lei. «L’opera da compiere è immensa, Sibilla. Contribuirà anche lei, con la sua arte». «Oh, la mia arte!», fa lei alzando le spalle. «Deve scrivere sui nuovi giornali, parlare alla radio. C’è bisogno della sua voce, Sibilla. Chi è più indipendente di lei?». «Non si prenda gioco di me! Come potrebbero perdonarmi la pensione del governo fascista?». «Non ha fatto niente per meritarla, non si è piegata al loro sistema di valori. Ho letto il suo articolo, Visita a Littoria. Non c’è niente di male se le è battuto il cuore di fronte allo spettacolo di una redenzione. Il solo problema è che si trattava di una redenzione illusoria. Quanto all’aiuto del governo, non c’era alternativa: o quello, o la morte». «C’è chi ha preferito la morte», dice Sibilla sorridendo. «Ieri, al tramonto, le rondini danzavano sui pini del Pincio». Sforza prende il cappotto e si alza. Anche Sibilla si alza osservando l’amico, che sorride a sua volta. «Perché sorride?». «Per il suo modo di vedere le cose, di ritagliare la realtà in poe­ sie. Quando parla compone senza volerlo poesie giapponesi».

365

«Ormai la sorgente è secca», mormora lei. «Adesso che Franco è partito, cosa mi resta? Talvolta, sa, mi stupisco io stessa dell’indigenza che mi aspetta. Ho perso tutta la mia fede nell’avvenire. Sono spaventosamente sola, Sforza». «Lei ha sempre voluto legare la sua vita a quella di un altro. Adesso dovrebbe avere ambizioni più vaste». «Ambizioni!», ripete ironicamente Sibilla. «Ho scelto un termine inappropriato. Non si tratta di ambizione. Lei ha ridotto troppo spesso i suoi rapporti col mondo al rapporto amoroso, così ha limitato le sue potenzialità». «Mi sta forse consigliando di seguire il suo esempio? Sibilla Politica?». «Perché no?». «Mi sposi. Diventerò presidentessa della Repubblica». «Io non diventerò mai presidente. Il Vaticano e gli inglesi hanno posto il veto. Vogliono un uomo del sud, in grado di accaparrarsi i voti dei monarchici in Calabria e in Sicilia. Non è una battuta, Sibilla. Anche lei deve aver imparato molto durante la guerra». «Ho soprattutto disimparato. Mi sono disfatta dell’amore». «Non è vero. Non riuscirà a convincere nessuno, e tanto meno me. Non deve credere che per entrare in politica occorra uscire da se stessi, Sibilla Aleramo. Talvolta occorre semplicemente allentare certi legami». «A me non è costato un grande sforzo. I legami si sono allentati da soli». «Si riferisce a Franco Matacotta?». «E ad altri prima di lui. Ma sì, adesso sto parlando di Franco Matacotta. Ho dedicato nove anni della mia vita a questo ragazzo di vent’anni». Sforza appoggia una mano sul braccio di Sibilla.

366

«Le sue parole la tradiscono, Sibilla. Non è più un ragazzo di vent’anni. L’uomo che lei lascia adesso, non è più lo stesso di quando lo ha conosciuto». «L’uomo che mi lascia adesso. Niente eufemismi!». «Ci sono altri ragazzi di vent’anni che hanno avuto e hanno ancora bisogno di lei, Sibilla. Non si chiuda nel silenzio. Ripensi a Piero Gobetti, il suo miglior lettore. Ripensi a Lauro De Bosis». «Povero Lauro; non ha fatto in tempo a tradurre Ulisse, come aveva promesso a Joyce! E Endimione. Non tema, non dimenticherò mai Endimione. Ho riletto la pièce qualche giorno fa. E ho pianto come se lo avessi appena perduto. Ma questo, chi può capirlo? Hanno riso quando quelle parole sono state recitate. Hanno riso, Sforza!». «Chi era al potere ieri, adesso non vi è più». «Lei ragiona da uomo politico. Crede forse che, quando Mussolini verrà giustiziato, tutti i vecchi valori crolleranno? Mi crede capace di scrivere un poema sulla fine del fascismo? Si riderebbe di me ancor di più». «C’è una giustizia a questo mondo, Sibilla. Presto la guerra finirà. Do due mesi di tempo a Mussolini e Hitler. Lei recupererà le forze, infonderà nuova forza ai loro nemici». «Come loro nemico non vedo che il comunismo». «E quale comunismo?», domanda Sforza, appoggiato contro la porta a braccia incrociate. «Quello di Gor’kij». «Dell’ultimo Gor’kij?». «Del Gor’kij che ho conosciuto prima del suo ritorno in Russia». «Ha visto poi che fine ha fatto». «L’Italia del dopoguerra non è come la Russia dopo il ’17». Sforza apre la porta, pensieroso. Prima di congedarsi, le chiede:

367

«Ha intenzione di pubblicare il diario che ha scritto durante la guerra, vero?». «Sì, è l’editore, Tuminelli, che ci tiene tanto». «Molto bene, Sibilla». «Ha letto il brano apparso su “Mercurio”?». «Sì. È proprio di quella sincerità che abbiamo bisogno». «Mi dica, Sforza, ha anche lei come tutti paura del comunismo?». «Chi ha paura del comunismo?». «Cecchi, Emilio Cecchi. Sa come mi ha soprannominata?». «No». «Mentecatta. Dice che ho la testa piena di Matacotta. Eppure non mi ha influenzata Franco!». Sibilla si volta verso l’interno della mansarda; disordinata, angusta, bella nei raggi del tramonto. «Che cosa pensa di me, Sforza? Come si spiega che dopo aver tanto lottato e tanto dato, io non abbia niente e sia sola?». «Sono stati proprio i suoi doni ad allontanarla dagli altri, a condannarla all’isolamento. Lei ha sofferto di cose che avrebbero lasciato perfettamente indifferenti le persone comuni. Sa come chiamano il marito le contadine, dalle mie parti? Lo chiamano el me om, il mio uomo. Come potrebbe, lei, concentrare tutto il suo orgoglio in questa formula di possesso?». «Franco non ha più bisogno di me. Sta per pubblicare cinque libri». «Cinque?». «Sì. È ridicolo, grottesco con i tempi che corrono, no? Il suo romanzo, due volumi di poesie e due traduzioni dal russo, Blok e Esenin». «Non ha paura che la pubblicazione del suo diario nuoccia alla reputazione di Matacotta?».

368

«È lui che vuole così. Io non volevo pubblicarlo. Le ripeto: la letteratura mi pare vana. E poi, Dio sa se non mi hanno già abbastanza rimproverato di fare letteratura con la mia vita. Oltre a tutto il diario non verrà neppure stampato integralmente. È una mutilazione inutile e dolorosa». «Arrivederci, Sibilla», dice Sforza avvicinando esitante le labbra alla sua guancia; poi cambia idea e le tende la mano. «Ci rivedremo quando la guerra sarà davvero finita…». «A quale prezzo, Sforza?». «Che cosa?». «La fine della guerra, a quale prezzo?». Nel cortile della Città Universitaria, vicina alle mura di Roma, Sibilla, ancora avvolta nella sua volpe che non è riuscita a vendere, cammina con passo fiero e deciso, quel passo che, come si lamentava lei, la faceva sembrare «straniera» alle persone semplici e alla gente di mondo. Per i primi l’appellativo equivaleva al timido riconoscimento di una nobiltà a cui certo Sibilla non apparteneva per le origini sociali. I secondi interpretavano invece questa caratteristica di Sibilla come un indice di perversione e la chiamavano Messalina. Sibilla vede un operaio che porta un bracciale rosso con falce e martello ricamati in oro. Lo ferma: «Sa dove si tiene il congresso?». L’uomo, di una quarantina d’anni, si volta aggrottando le sopracciglia, come se non avesse capito. Ha le guance arrossate dal freddo. È il 30 dicembre 1945. Sibilla insiste: «Sa dove parlerà Togliatti?». «Per di là, compagna». Sibilla resta un attimo meravigliata a sentirsi chiamare così, «compagna». Dietro all’uomo compare una fanciulla di una quindicina d’anni. «Sbrigati, papà, sta per cominciare».

369

La ragazzina vede allora Sibilla, che si è fermata e sta ancora sorridendo: «Lei è la signora… la signora Sibilla?». Sibilla, stupita, guarda la fanciulla senza riconoscerla. «Lei è Sibilla Aleramo, no?». Sibilla annuisce in silenzio. «Lei non mi può riconoscere. Sono Chiara. Non si ricorda? Una volta la mamma le accomodò delle calze…». Sibilla riflette un momento. «Tu! La bambina di via della Vite!». «Sì, sono io. Allora, vuol diventare anche lei dei nostri, eh?». «Non so. Voglio sapere. Ho ancora tutto da sapere». Ma ecco che all’improvviso la voce di Togliatti risuona, amplificata dagli altoparlanti, per i corridoi della Città Universitaria. «Questo nostro congresso nazionale, quinto in ordine di tempo, si riunisce a quattordici anni di distanza dal precedente. […] Il nostro congresso si riunì infatti nel 1931, e si riunì in terra straniera…». «Messi al bando dalla vita nazionale per venti anni, ci siamo affermati come i figli migliori della nazione italiana, i migliori eredi e continuatori delle sue tradizioni. […] Non vi è villaggio d’Italia dove non possa essere segnato con una croce il posto in cui un comunista ha dato la vita per la libertà del proprio paese…». «Se vogliamo che il fascismo sia distrutto per sempre e che sia distrutta per sempre la possibilità di una rinascita, se vogliamo che nessun regime reazionario di tipo fascista possa mai risorgere, dobbiamo, attraverso la collaborazione di tutte le altre forze sinceramente democratiche, rinnovare l’Italia». «Dobbiamo fare una politica di amicizia verso l’Unione Sovietica per motivi ideologici. In genere le ideologie non vengono

370

prese in considerazione quando si tratta della politica estera. Dobbiamo fare una politica di amicizia verso l’URSS per motivi nazionali e per tener fede a una tradizione di difesa dei nostri interessi». La sera, nella sua soffitta, Sibilla scrive una poesia e una lettera. La poesia dice: … in anticipo mi battezza compagna compagna c’era nel mio viso dunque c’era nella mia voce qualcosa che garantiva a chi anche nulla di me sapeva garantiva del mio sentimento e della mia fede.

La lettera, indirizzata a Togliatti, comincia così: «Chiedo l’iscrizione al partito». «La mia adesione mi vien dettata dalla coscienza di compiere un dovere, e insieme rappresenta per me come il coronamento della mia vita di scrittrice e di donna». Sibilla cita un solo nome, quello di Gor’kij, e precisa la sua concezione del comunismo: «Una luce di poesia». In seguito a questa decisione, Sibilla riceve numerosissime richieste di colloqui, e alcune lettere di ingiurie. Ella rifiuta di fondare un giornale con Franco; in compenso inizia a collaborare regolarmente all’«Unità». Il suo primo articolo consiste nel rimaneggiamento di una sua conferenza del 1909 sulle scuole nell’Agro Romano. Sibilla salta così quarant’anni della sua vita. Ma la coincidenza della sua iscrizione al Partito comunista con la pubblicazione del diario (consacrato quasi esclusivamente al suo amore per Matacotta, poeta le cui opere passano malgrado tutto inosservate) e con la sua interminabile rottura con Franco (il quale continua a abitare da lei quando viene a Roma) dà di Sibilla Aleramo un’immagine piuttosto confusa.

371

«Senza amore: sono vedova del mio amore. Soffro, non perché non sono più amata da nessuno, ma perché non amo più nessuno», scrive Sibilla il 27 marzo 1946. Una nuova forma di mondanità, legata all’ambiente comunista, governa adesso i suoi rapporti sociali: Pavese, Visconti, Natalia Ginzburg, Zavattini, Corrado Alvaro, Moravia naturalmente, e infine i Togliatti. Tra le personalità politiche, i suoi amici più cari sono Concetto Marchesi, Camilla Ravera, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Tutti e tre antifascisti della prima ora, hanno pagato cara la loro integrità. Concetto Marchesi, siciliano, della stessa generazione di Sibilla, è professore universitario di greco e latino. Nel novembre del 1943, quando era rettore dell’Università di Padova, ha dato le dimissioni su istigazione del Partito. Dal 1945, è deputato del PCI all’Assemblea costituente e membro del comitato centrale. Camilla Ravera è una delle grandi figure femminili della resistenza comunista al fascismo. Dopo la dissoluzione del Partito comunista per decreto fascista nel novembre del 1926 e l’arresto di Gramsci, la Ravera entra nella clandestinità. Dopo un soggiorno in Russia, viene arrestata nel 1930 e passa cinque anni in prigione e otto di libertà vigilata. Infine Ranuccio Bianchi Bandinelli, storico e archeologo, appartiene alla generazione successiva. Discepolo di Croce, si iscriverà al Partito solo nel 1944. Sarà direttore dell’Istituto Gramsci. Dopo il referendum del 10 giugno 1946, viene proclamata la Repubblica. Sibilla, sola nella sua soffitta, beve del vino bianco dolce in onore di questo cambiamento radicale della vita politica e della propria vita personale. 1947. Sibilla vuole viaggiare. In Russia. In qualsiasi parte del mondo. Viene ricevuta da Sforza, adesso ministro degli Esteri; il quale però non le promette niente. Il colloquio ha luogo in quello stesso Palazzo Chigi dove lei aveva incontrato Mussolini.

372

Le viene comunicato il numero di copie vendute del suo diario: quattrocentotrenta. Il 7 maggio 1947 Sibilla, nella sua mansarda, sta ricopiando la traduzione della poesia di Eluard Dit de la force d’amour. Qualcuno bussa alla porta. Sibilla, irritata, dopo aver gettato un’occhiata alla sua sveglietta – le undici e un quarto –, va ad aprire. Vede la sagoma appesantita di Franco. «Ciao», dice lui. «Sono stato a Palazzo Chigi». «Ah…», mormora Sibilla tornando alla scrivania e chiudendo il quaderno. «Che cosa facevi?», chiede Franco riaprendolo. «Trovi il tempo di tradurre un poeta francese, ma non di aiutarmi a cercare lavoro. Non ne posso più, sono sfinito!». E si accascia in una poltrona. «Mi versi qualcosa da bere? Sono stufo, se tu sapessi quanto sono stufo! Passare il tempo a bussare alle porte!». Sibilla riempie un bicchiere di vino e glielo porge. Lui lo beve d’un sorso. Lei guarda il grosso ventre di Franco, le rughe profonde sul suo viso, gli occhi spenti. «Sai, ho deciso, mi sposo». Sibilla, che gli sta voltando le spalle per riempirgli di nuovo il bicchiere, chiede con voce fredda: «Con chi?». «Si chiama Rosa Buono». «E che cosa fa?». «Maestra». «Quanti anni ha?». «La mia età! La mia età! La mia età! Son diventato normale, capisci, normale!».

373

Urla Franco scuotendo Sibilla per le spalle. Lei non oppone alcuna resistenza. Lui cade in uno stato di profonda prostrazione. Lei si siede alla scrivania e continua a copiare la poesia di Eluard, piangendo. Poi abbandona il testo e aggiunge: «La cosa enorme (e insieme miserevole) è questa, ch’io metto qui come una pietra sepolcrale: ch’egli non intenda né senta quel che ha perduto perdendo l’amore ch’io nutrivo in cuore per lui da oltre dieci anni». È ridiventata ferma, secca, quasi allegra. Il 29 settembre 1947 Franco Matacotta sposerà Rosa Buono a Capri, per purificare, scrive lui a Sibilla, «il nostro passato da tutte le crudeli scorie degli ultimi tempi». Le annuncia l’avvenimento in maniera enigmatica, citando Shakespeare: Look in thy glass and tell the face thou viewest Now is the time that face should form another.

Si tratta del sonetto III, in cui il poeta invita il proprio destinatario a guardarsi allo specchio, e a rivolgersi a quell’immagine per incitare se stesso alla procreazione: Guardati allo specchio e di’ al volto che vedi che ora è il tempo per quel volto di formarne un altro […] e così, dalle finestre della tua vecchiaia vedrai a dispetto delle rughe, questo tuo tempo dorato.

Shakespeare era già stato il messaggero di Franco presso Sibilla, ma in tempi migliori, anche se difficili. Franco le aveva citato il sonetto LXXIII: «To love that well which thou must leave ere long», «Per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve». Il traduttore francese dei sonetti di Shakespeare, Charles-Marie Garnier, le dedica allora la sua versione in alessandrini.

374

Franco avrà da Rosa Buono due figli, Massimo (nel 1948, il 12 agosto, «nato nel segno del Leone, come avevo desiderato») e Francesco Cino (il 17 febbraio 1956). Nell’ottobre del 1959, imitando Sibilla Aleramo, abbandonerà moglie e figli. L’8 luglio 1960 il figlio maggiore, Massimo, verrà trovato morto sul suo letto, strangolato con una cintura. Dopo la morte di Rosa Buono, il 25 giugno 1963, Franco sposerà Emma Marini. Insegnerà in vari istituti tecnici. Nel 1976 non otterrà per un voto il premio Viareggio e due anni dopo, il 27 aprile 1978, morirà, dopo aver pubblicato undici libri di poesie e un romanzo. Una delle raccolte, pubblicata nel 1949, porta il titolo Ubbidiamo alla terra, che riecheggia quello di Sibilla, Sì alla terra. A parte l’episodio della pubblicazione del Taccuino di Campana (1949), forse sottratto a Sibilla, e quello della polemica da lui provocata all’uscita della corrispondenza Campana-Aleramo, Franco si fece vivo con lei raramente. Matacotta aveva augurato a Sibilla a nome del figlio Massimo, appena nato, di vincere il premio Viareggio – che lei ottenne infatti per la raccolta di poesie scelte Selva d’amore. Ma esso le fu assegnato in termini umilianti. Il vero premio venne diviso tra Elsa Morante (per Menzogna e Sortilegio, che Sibilla giudicò severamente, a differenza dell’Isola di Arturo che invece ammirerà) e Aldo Palazzeschi. Per Sibilla venne creato un premio di consolazione, il premio di poesia della Versilia. Del resto, il suo libro ebbe scarsa diffusione e lei si lamentò di non trovarlo nelle librerie. Sibilla fa il primo viaggio ufficiale per il PCI in Polonia. Parte alla fine di agosto e arriva a Breslavia il 28. Il 29 è a Varsavia. «La gente lavora, passeggia, ci guarda passare e scendere dagli auto con occhi pieni di rispetto e di appassionata speranza». Il 30 agosto, al termine di una lunghissima serata ufficiale, cade per la scale e si rompe una costola. Il giorno dopo visita i resti del ghetto di Varsavia.

375

Il 2 settembre viene condotta ad Auschwitz. Le fa da guida il suo attuale direttore, scampato alla morte per esser stato scelto come professore di matematica dei figli di uno dei capi del campo di sterminio. Sconvolta, Sibilla descrive appena quello che vede e appunta sul diario: «Forse a Roma ordinerò nello spirito tutte le cose vedute e udite, forse anche potrò cantarle chissà… solo così mi sentirei, credo, redenta come creatura umana». Al suo ritorno scriverà infatti Tre ricordi di Polonia. Adesso Sibilla gode in Italia di notevole fama, ma i suoi libri non vengono letti. Tiene una rubrica di posta dei lettori sull’«Unità». La sua profonda amicizia con Togliatti (che è stato sul punto di morire per le ferite riportate in un attentato) e i suoi articoli regolari sui giornali comunisti (che verranno poi raccolti in volume con il titolo Il mondo è adolescente) fanno di Sibilla Aleramo una figura di musa invecchiata, di musa tragica. Il 10 novembre 1948, due giovani si presentano alla sua porta. È una coppia di ragazzi comunisti: Alfio Lambertini, pittore, e Adriano Vitali, un poeta che distrugge i propri versi via via che li scrive. Le hanno telefonato diverse volte. All’inizio lei aveva rifiutato di riceverli: «Perché volete vedermi? Sono vecchia, sono occupata. Sono vecchia e ho da lavorare». Ma poi la loro timidezza e la loro insistenza l’hanno convinta. Essi desiderano «presentarle un piccolo omaggio». Lei non è abituata alle coppie di uomini. Il solo ricordo che ne ha è legato a Franco e Pino, che del resto non formavano veramente una coppia. I due sono belli, forti; hanno visi «freschi e chiari». Adriano, il poeta, ha grandi occhi azzurri, ingenui e scintillanti, mani ruvide da operaio. Alfio è più loquace, più docile e sorridente. Lo

376

sguardo di Adriano possiede la fissità infelice degli osservatori che hanno una vita interiore. Alfio, inquieto e attento, sembra trarre il proprio respiro da quello di Adriano. Guardandoli, Sibilla si sente rasserenata e angosciata allo stesso tempo: è un sentimento nuovo per lei. Due ragazzi di trentacinque anni che vengono a lei appartenendo già l’uno all’altro, come è evidente dalla loro voce, dai loro gesti, dai loro sguardi: uniti dall’amore – è sorprendente. Tra tutti i poeti, perché aver scelto proprio Sibilla? Perché non Umberto Saba, o Sandro Penna? Perché si sono rivolti a questa vecchia signora, un tempo bella, che era stata l’amante di Dino Campana? Questo almeno lo sanno, non possono ignorarlo. A meno che non sappiano assolutamente niente della sua vita, e siano venuti a lei innocenti, fiduciosi, ciechi. Alfio sta già togliendo dal suo involucro il regalo per Sibilla. «Siamo così contenti di poterti fare questo omaggio, compagna». Adriano si è messo a sedere e osserva, muto, i movimenti febbrili del suo amico. Sibilla scopre una doppia cornice con due ovali, di cui uno contiene la sua poesia: Grandi occhi, radianti, buoni figlio, avevi stanotte nel mio sogno, nel tuo viso d’uomo che m’è ignoto…

Nell’altro ovale, una lucerna che rischiara un libro aperto, su «fondo turchino tempestoso». «Perché questa poesia?», chiede Sibilla. «Perché sorride nella disperazione», dice Adriano. «Anche lei scrive?», chiede Sibilla; ma subito si riprende e gli da del tu: «Scrivi?». «Lui scrive e strappa», spiega Alfio. «Quando avete cominciato a leggermi?».

377

«A Ischia, l’estate scorsa». «Leggiamo anche i tuoi articoli sull’“Unità”», aggiunge Adriano. «E il mio diario, lo avete letto?». «Il tuo diario?». «Sì, il mio diario intimo». «No, dov’è stato pubblicato?». Sibilla prende la sua copia e la porge ai due giovani. «Scusate, non posso darvela perché è la sola copia che ho». «Lo compreremo, lo leggeremo». «Forse cambierete idea su di me». «Questo non è possibile», dicono tutti e due insieme. «Per voi la poesia ha dunque tanta importanza?». «E cos’altro importa, se non la poesia?». «Già», dice Sibilla. «Cos’altro importa?». Tornano a trovarla la sera di Natale, e le portano un cestino di frutta. All’inizio di febbraio la invitano nella loro casa di Santa Severa, vicino a Civitavecchia, in riva al mare. Lei vi arriva in corriera. Adriano l’aspetta alla fermata con la sua bicicletta. Camminano insieme lentamente nella pineta, verso la spiaggia. La casa, bassa, è nascosta da una siepe di bambù e sommersa da una folta vegetazione di palme, nespoli e cactus. Alfio ha preparato la tavola in giardino. L’aria è tiepida, fa quasi caldo. Adriano conduce Sibilla al primo piano, da cui si scorge il mare. Alle pareti sono appesi quadri di Alfio. «Sono felice con voi», dice Sibilla. «Avremmo dovuto incontrarci prima. Saremmo stati tutti e tre qui, vicino al mare, al riparo dal mondo. Di tanto in tanto saremmo andati a Parigi insieme, tutti e tre. Alfio, Adriano e Sibilla, che trio!».

378

«Che trio!», approva Adriano ridendo. «E le tue poesie?», gli chiede lei. «Non vuoi farmele leggere?» «Mi fa diventare matto, Sibilla», sospira Alfio. «Non vuole farle leggere a nessuno». «Hai paura dell’insuccesso?», chiede Sibilla. «Sapessi quante umiliazioni hanno fatto di me Sibilla Aleramo! E ora, eccomi tra voi». Prende una mano a ciascuno di loro e li guarda con affetto, ora l’uno ora l’altro. «Sapete, ieri mi è successa una cosa strana. Stavo attraversando Ponte Cesto e improvvisamente mi sono fermata: in quella luce di febbraio, ho ritrovato esattamente la stessa sensazione che provavo nel 1902. Mi sono chiesta perché. Ho dedotto – ma forse è un inganno – che doveva trattarsi, come dire, di un’analogia morale. Non solamente estetica. Non erano soltanto due sensazioni che, come in Proust, negavano il tempo rivelandone l’essenza. Mi trovavo in una situazione morale analoga a quella che avevo vissuto nel 1902. Nel 1902, adesso che avete letto il mio diario lo sapete, m’ero appena liberata dalla schiavitù matrimoniale: ora sono libera per sempre dall’amore, amore per un singolo». «E vivi per un’idea», dice Alfio. «Sì, come a quel tempo; è proprio questa la parola che ricorre. E l’idea assume la forma di quella luce di febbraio, a Roma. Ma questo, chi potrebbe capirlo» «Noi», dice Alfio. «Sì, noi», risponde Sibilla. «Sapete? Dovreste accompagnarmi a Parigi». «Quando ci vai?», chiede Alfio mentre va a prendere lo spumante e il panettone che ha portato Sibilla. «Tra un mese».

379

«Ma vai per conto del partito, Sibilla», fa notare Adriano. «Non siamo amici intimi del compagno Palmiro, noi». «In un certo senso io rappresento una forma di propaganda per loro, è vero», ammette Sibilla. «No, non volevo dir questo. È solo che noi non abbiamo la stessa posizione che hai tu». Alfio stappa la bottiglia e riempie tre coppe. «A Sibilla!». «Agli eterni adolescenti», risponde lei brindando prima con l’uno poi con l’altro. «Il mondo è adolescente!», dice Adriano, e brandisce la raccolta di articoli appena uscita. Alfio taglia tre fette di panettone e si accorge che nella scatola è stato inserito un foglietto. «Che cos’è?», gli domanda Sibilla. «“A Sibilla Aleramo, personalità eminente e rappresentativa del fervore intellettuale della nazione. Da cui speriamo di ricevere un giudizio nella forma più breve e più sintetica possibile, che farà autorità se Lei ci concederà di renderlo pubblico…”». «Non c’è che dire», risponde Sibilla. «Hanno il senso degli affari!». «Chi te lo ha mandato?». «Lo stesso Motta! È un vero complotto per farmi ingrassare!». «Chi vedrai a Parigi?». «Chissà! Eluard, Picasso…». «Sono persone celebri. Non vorrai più saperne di Alfio e Adriano dopo aver incontrato loro». «Non dite sciocchezze. Voi siete i miei amici. Siete voi che mi date forza».

380

«Ma là rivedrai i tuoi vecchi amici francesi». «Oh, il povero Larbaud è paralizzato da dieci anni. Pierre Paul Plan, il mio traduttore, vive a Ginevra. Henri Marchand è morto da tanto tempo. Aurel, forse? Chissà che fine ha fatto dopo la morte di Mortier? Chissà come giudicherà la mia adesione al Partito?». «Sarà strano per te, Sibilla», dice Alfio. «Rivedrai Parigi e allo stesso tempo non la rivedrai. Un congresso, anche del Partito, non è mai un’occasione piacevole per scoprire una città». «Ormai, che cosa mi resta da scoprire?». «Non dire così», protesta Adriano. «Hai tutta la vita davanti a te». «Ho rifatto il mio testamento. Tenevo a dirvelo. Siete i primi a saperlo. Ho diseredato Franco. Lascio tutto a Togliatti e a Ranuccio Bianchi Bandinelli. Cioè al Partito». Alfio e Adriano accolgono la notizia con muto rispetto. «Non fate quella faccia compunta! Ancora non sono morta! Guardate», aggiunge frugando in borsa. «Vi ho portato un regalo che vi divertirà». Tira fuori un oggetto avvolto in un foglio di giornale e lo porge ad Alfio. Adriano si alza e guarda incuriosito sopra la spalla del suo amico che sta aprendo l’involucro. Vi trovano un quadretto. È il goffo ritratto di un giovane con barba e capelli rossi. «Primo indovinello», dice Sibilla. «Chi è?». «Un tuo amico?», chiede Alfio. «È stato più di un amico». «Un tuo amante?». «Sì, un mio amante». «Campana?». «No, ma comincia con la stessa lettera».

381

«Cena?». «Povero Cena! Magari fosse stato così bello!». «Ho trovato», esclama Adriano. «Cascella!». «Bravo! E chi ha fatto il ritratto?». I due amici si guardano imbarazzati. «Non lo indovinereste mai, miei cari. L’ho fatto io. Avete davanti agli occhi un’opera pittorica di Sibilla Aleramo. Ho osato dipingere Cascella davanti a Cascella, sì, io, Sibilla!». I due giovani scoppiano a ridere. Qualche mese dopo, Adriano manda le sue poesie a Sibilla, che gli risponde: «Le tue poesie mi hanno confermato ciò che sapevo: la profonda concordanza dei nostri spiriti, la misteriosa e insieme luminosa somiglianza delle nostre anime, di là da tante diversità di destino. Fedeltà, sì, a questo nostro incontro. Io ti devo più assai di quel che tu debba a me». A tutti parla dell’amicizia che la lega ad Adriano e Alfio come di «un premio inatteso per la sua “ultima sera”». Il 2 settembre 1950, Sibilla è sul treno per Praga, dove è stata invitata per una cura termale. Pensa «con lieve sorriso che all’epoca della sua nonna […] sarebbe stato inconcepibile che una donna di settantaquattro anni intraprendesse da sola questo viaggio verso un paese straniero e lontano e senza nessuna imperiosa necessità familiare». La portano a visitare il cimitero ebreo, un asilo nido. Le fanno leggere La Cecoslovacchia in marcia verso il socialismo. Va a vedere La sposa venduta al teatro di Praga. Visita la pinacoteca. Dal sanatorio di Piest’any scrive a Einaudi a proposito della morte di Pavese, e ne approfitta per proporre all’editore di comprare, in anticipo, i diritti del diario che sta scrivendo (finirà poi per venderli a Feltrinelli).

382

Al suo ritorno, Sibilla tiene una conferenza intitolata Impressioni sulla Cecoslovacchia. «Tutto il denaro che proveniva dallo sfruttamento e dalla speculazione e si accumulava nelle casse dei privati o si sperperava in lussi e in vizi, ora è destinato a meglio compensare i lavoratori e a sempre maggiori provvidenze sociali. Le quali sono semplicemente meravigliose». A partire dal 1950 Sibilla realizza, senza volerlo, il progetto di scrivere la propria autobiografia: le rievocazioni del passato nel suo diario si fanno tanto numerose e precise da prendere il sopravvento sulle descrizioni della vita quotidiana, che ne risulta quasi offuscata. La sua vita quotidiana, del resto, consiste ormai in una serie di pranzi mondani, letture pubbliche, articoli sull’«Unità». Sibilla rimane sconcertata quando sente la propria voce alla radio recitare enfaticamente le sue stesse poesie. Depressa all’idea di dover passare il Natale da sola, si chiede: «Pregiudizio borghese, alla mia età?». Per strada la gente la riconosce; riceve lettere e telefonate di sconosciuti. Ma non gode di quella stima letteraria che sperava di conquistarsi. Vittorini, il cui giudizio critico è allora molto influente, non la cita tra i dieci più grandi scrittori italiani: Sibilla ne resta amaramente sorpresa. Delle sue poesie sono state vendute poco più di trecento copie, nonostante il falso premio Viareggio. Tra i temi delle sue conferenze: l’uomo e la donna possono avere tra loro un rapporto di pura amicizia? Ci si può immaginare la risposta di Sibilla. Le sue letture e le sue conferenze le permettono di viaggiare costantemente attraverso l’Italia, nonostante le sempre maggiori difficoltà di movimento, causate dai violenti reumatismi. Sibilla ne è umiliata ma non perde la sua energia. Legge Simone de Beauvoir, incontra T. S. Eliot e Dos Passos.

383

Un giorno, alla stazione, si fa aiutare da un facchino a issare sul treno i suoi bagagli pieni di libri (sta andando ad Amalfi, dove il partito le paga un soggiorno perché possa scrivere poesie in tutta tranquillità). Il facchino si lamenta della pesantezza delle valigie. «Contengono libri», spiega Sibilla. «Di solito, sono i preti che viaggiano carichi in questo modo». «Sì, ma io non sto dalla parte loro», dice Sibilla. «Lo so, l’ho riconosciuta», risponde il facchino. Sibilla nota con immenso piacere questo segno di una segreta solidarietà popolare, di cui lei rappresenta uno dei centri irradiatori. Un altro giorno, il centralinista di un albergo le dà del tu e la chiama compagna. Adesso le poesie che scrive, e raccoglierà sotto i titoli di Aiutatemi a dire e Luci della mia sera, sono tutte ispirate al comunismo. Nel 1951 scrive Imagini del paese dei soviet, che verrà ristampato sui quotidiani comunisti il giorno della sua morte. Si tratta di un omaggio al padre, nato appunto nel 1851: Sibilla riconosce apertamente il legame tra il suo attuale impegno politico e l’educazione paterna. Padre, che avresti oggi cent’anni […] mi diresti sommesso nel buio della sala persuase parole con fremito commosso, persuase parole su l’avvenire del mondo, su l’umano avvenire che luminoso per tutti si prepara, padre!

Scrive anche la poesia che più la renderà popolare tra i comunisti militanti: Va lontano il nostro sorriso più di quanto mai possiate intendere voi che con livido stupore ci guardate.

384

Nel 1952 viene invitata in Russia, dove verrà curata per la sua artrite. Alloggia alla villa «Bosco d’argento». Al suo arrivo, dopo una prima visita medica, appunta: «Sono felice come quando seppi che questo viaggio finalmente era deciso. Le impressioni le riferirò chissà quando. Per ora non faccio che riceverle in un trepidante silenzio». Rimane delusa dalla Piazza Rossa, che immaginava molto più grande. Va a raccogliersi davanti alle spoglie imbalsamate di Lenin, di cui ammira «la dolce calma, il roseo lume». Può contemplarle solo per pochi secondi, data la calca dei visitatori che vi affluiscono «ogni giorno da anni da anni forse per secoli». Il Soviet le regala una consistente somma di denaro in rubli da spendere sul posto (l’equivalente di mezzo milione di lire). Qualcuno le consiglia di comprarci una pelliccia. Sibilla visita i musei, il paese natale di Gor’kij, la casa di Lenin; assiste a uno spettacolo di balletti polacchi. Si stupisce che le statue di Puškin, Gor’kij e Gogol’ siano frequenti quasi quanto quelle di Lenin e Stalin. Ne conclude che in Russia è «onorata dunque sopra tutto la Poesia». È convinta che «l’URSS viva in una febbre di creazioni collettive che nei paesi capitalistici è inimmaginabile». La maggior parte del suo soggiorno è occupata dalla cura, a una quarantina di chilometri da Mosca. Alla radio di Mosca, Sibilla legge una lettera inviatale da un operaio italiano poco prima della sua partenza. Dopo aver visitato Leningrado e visto a Mosca La dama di picche, si compra un braccialetto d’oro e un ciondolo d’ametista, e torna a Roma. Dal suo viaggio riporta una poesia, Russia alto paese: Terra di Russia […] rossa di gioia come i rubini delle tue miniere, rossa come le stelle a cinque punte sul vecchio Kremlin rossa come i vessilli attorno al mausoleo di Lenin.

385

Nell’agosto del 1952 l’editore Tuminelli la informa che manderà al macero tutte le copie esistenti del suo Diario. Il 20 gennaio 1953 Sibilla decide di rimettersi in contatto con Enrico Emanuelli, che ha appena pubblicato Il pianeta Russia. Sa che Emanuelli non condivide le sue idee politiche e vuole congratularsi con lui per aver fatto comunque un servizio che, pur con qualche riserva, celebra il progresso sodale nell’Unione Sovietica. Sibilla ritiene che il punto di vista di Emanuelli, reazionario ma abbastanza imparziale, farà riflettere «il gran pubblico borghese rimasto alla concezione di un bolscevismo barbaro e schiavo». Il suo ex amante risponde alla sua lettera cortesemente. Il 4 marzo 1953, mentre si trova a Ferrara per un congresso della gioventù comunista, Sibilla riceve la notizia, diffusa da Radio Mosca, che Stalin è stato colpito da un attacco al cervello. Pensa che si tratti di una macabra menzogna messa in giro dai suoi «avversari». Il 5 marzo Sibilla legge Russia alto paese davanti alla gioventù comunista, che grida: «Viva la poetessa del popolo!». Il 6 marzo 1953, alle otto del mattino, scrive sul suo diario: «Stalin è morto!». Solitamente ella usa il punto esclamativo per esprimere l’ironia o l’indignazione. Nel giugno del 1953 viene invitata in Ungheria. Nel corso del 1953 esce la ristampa di Gioie d’occasione, che suscita la simpatia delle femministe (la giovane Maria Antonietta Macciocchi fa un ritratto di Sibilla in Noi donne) e l’antipatia di alcuni comunisti. Feltrinelli, «compagno miliardario di Milano», si interessa all’acquisto dei diritti di pubblicazione postuma del diario. Mondadori offre in omaggio a Sibilla cinquantamila lire. Il 4 novembre 1953 Togliatti e Nilde Jotti vanno a trovarla: «Più di sette anni che attendo questa visita». Restano circa un’ora e

386

mezza, guardano il manoscritto del suo diario, bevono un sorso di liquore «Fiori della Sardegna», la baciano. Alla fine della primavera del 1955 Sibilla lascia la sua soffitta di via Margutta per volontà del Partito, «per ragioni di salute». Le è stato trovato un appartamento in via di Val Cristallina numero 15, in un quartiere triste e lontano dal centro, sul Monte Sacro. Sibilla va a visitarlo con Alfio e Adriano. Constata che una casa in costruzione le impedirà ben presto di veder scorrere l’Aniene. Il 22 luglio 1955 Feltrinelli decide di assegnarle uno stipendio mensile per il suo diario. L’inverno 1955-56 è molto rigido: a Roma nevica. Lei ricorda la sua infanzia a Milano. Il 7 febbraio 1956, muore sua sorella Cora. Sibilla si accorge che non sa più piangere. È un periodo difficile: Feltrinelli rifiuta le sue poesie. Mondadori rifiuta di ristampare Il passaggio, Il frustino, Endimione e Trasfigurazione, tutti esauriti. Sibilla avrebbe voluto riunirli in un volume unico per i suoi ottant’anni. «Altro che giubileo, Sibilla!», scrive sul diario. Riceve frequentemente lettere e telefonate di giovani poeti comunisti. In gennaio, un operaio di vent’anni le telefona «per udire la sua voce». Il 30 marzo 1956 un giovane che scrive versi va a farle visita. Lei ha rifiutato spesso di leggere le esercitazioni degli apprendisti poeti ma, chissà perché, questa volta accetta di incontrare il giovane autore. Lui ha vent’anni, è figlio di un operaio e lavora lui stesso in un cantiere edile. Ha un brevetto industriale ma legge Omero e Petrarca. Lei gli regala Selva d’amore e gli presta Gioie d’occasione, un rituale che ha già compiuto con altri.

387

Lui è un ragazzone dalla forza contadina, occhi teneri, sorriso franco. È altissimo e magro. Incarna il popolo e il suo desiderio di accedere alla cultura. Ha un nome da predestinato alla poesia: Elio Fiore. Parla velocemente, con precipitazione e a voce alta. Ha una risata calda e fragorosa. Non dà alcun segno di timidezza. Sibilla non oppone resistenza alla sua sicurezza da adolescente, ma lo accoglie con il distacco rassegnato che le è ormai abituale da tanti anni. Elio Fiore emana una sensualità più vegetale che animale, di cui è appena cosciente. Sibilla si augura che le sue poesie siano «belle e vivide come la luce del suo sorriso». Elio ha una purezza levigata e religiosa. Gli luccicano gli occhi mentre rievoca la deportazione di duemilanovantuno ebrei dal ghetto di Roma. È successo il 16 ottobre 1943; lui aveva otto anni. Sibilla riflette: dove era lei in quel momento? Con Franco nella sua mansarda. Dell’autunno 1943 le restano soltanto immagini d’orrore: i tedeschi che saccheggiavano Roma, un incendio in via Margutta, Franco che doveva ripartire per Fermo. Era questo il centro della sua esistenza, questo il suo unico dramma. E in quel momento, nel centro stesso di Roma, duemilanovantun ebrei venivano ammucchiati e deportati. Elio scriverà il 16 ottobre 1983: E la notte veglio: odo nel rione Sant’Angelo quando tutto tace, distinti – e sono passati quarant’anni – i passi cadenzati dei nazisti che accerchiano l’eterna fede, il respiro d’Israele.

Fiore riprende come titolo di una sua poesia il verso di Sibilla «Va lontano il nostro sorriso». Inserisce così l’opera e la personalità della poetessa in un cerchio magico di visioni mistiche e politiche, pervase dall’orrore per il nazismo. Il Partito sembra al giovane poeta, come a Sibilla stessa, l’unica alternativa. Quando Fiore fa la sua prima apparizione nella sua vita, Sibilla si trova in un periodo di grande infelicità. Subissata di impe-

388

gni onorifici e incarichi ufficiali di rappresentanza, sta diventando un autore senza opere. Non si riesce a trovare nessuno che voglia scrivere una prefazione per la sua ultima raccolta, e gli altri suoi libri sono tutti esauriti. Il Partito attraversa un momento di crisi, che naturalmente diventerà ancor più grave nel novembre del 1956, quando i russi entreranno a Budapest. Suo figlio si sposa per la quarta volta: Sibilla dice di esserne contenta. Con un sentimento di profonda amarezza, all’inizio di agosto del 1956 Sibilla scrive ad Arnoldo Mondadori una lettera datata 15 agosto, il giorno successivo a quello del suo ottantesimo compleanno: prevede infatti che nessuno organizzerà niente per celebrare i suoi ottant’anni. Ma si sbaglia. L’«Unità» le riserverà la pagina culturale e il Partito le offrirà un assegno di duecentomila lire. La notte del 14 agosto 1956, in via Margutta, un ubriaco, isterico, bussa ripetutamente al numero 42. Accortosi che il portone è aperto, sale al terzo piano e comincia a dare violenti colpi alla porta. Gli apre una giovane donna bionda con gli occhiali, e una crocchietta da intellettuale sciatta e indaffarata. È in camicia da notte. L’uomo rimane inebetito per qualche secondo, poi chiede: «Dov’è Sibilla?». «Chi?», fa la donna. «Chi sta cercando? Che cosa vuole? Sono le due di notte!». Ha un accento straniero. «Sibilla, Sibilla Aleramo! Mi lasci entrare». «La vecchia scrittrice? Non abita più qui da un anno». «Non è vero. Non è possibile. Non avete il diritto di buttar fuori Sibilla!».

389

«Non l’ha buttata fuori nessuno. Era troppo vecchia per salire le scale. E d’inverno faceva troppo freddo per lei». «Ma lei chi è? Non la conosco. Non è nemmeno italiana, lei». «Sono americana. Mi occupo di storia dell’arte». L’uomo scende le scale barcollando, come respinto all’improvviso da un violento colpo. «Storia dell’arte! E si è presa la nostra mansarda! Povera, povera Sibilla!». L’ubriaco continua a ripetere «povera Sibilla» persino per strada. Una coppia lo sente e gli si avvicina. La donna è esile, ha anche lei capelli biondo platino, ma evidentemente tinti e tagliati molto corti. Ha una faccia buffa, da clown femminile: grandi occhi neri spalancati e un sorriso a labbra serrate, con due fossette agli angoli della bocca. L’uomo osserva l’ubriaco e lo riconosce. «Franco… Franco Matacotta…». Franco si è seduto sul marciapiede e si è messo a piangere. «Franco, che cosa fai qui?». Franco alza la testa e fissa l’uomo con sguardo vuoto, senza riconoscerlo. «Sono Nino», dice l’uomo. «Nino?». «Nino Rota». «Ah?». «Non sai che adesso Sibilla abita a Monte Sacro?». «Lascialo stare», dice il piccolo clown. «Non ti sente. Che tristezza!». I due si allontanano. Si sente appena la voce della donna che domanda: «Dunque è lui, il bel Franco?».

390

«Era lui». Più avanti, in fondo alla strada, un altro uomo li sta aspettando. «Che cosa confabulate, voi due? Non mi piacciono questi conciliaboli alle mie spalle. Vieni, Giulietta. Ninuccio, non stare a gingillarti!». Franco strizza gli occhi e sembra accorgersi solo adesso della loro presenza, ma questi non sono ormai che tre figurine nere stagliate contro la luce fumosa di un lampione, e un risuonare di passi sul selciato già lucido per l’umidità dell’alba. Alla fine dell’anno Olivetti regala a Sibilla una macchina per scrivere, in omaggio ai suoi ottant’anni. Lei non ha mai imparato a battere a macchina. Ha sempre scritto a lapis su fogli volanti di piccolo formato, ricopiando poi tutto a inchiostro su altri foglietti, che talvolta incollava o rilegava. Trova normale ricevere questo regalo, che si era proposta già molte volte di chiedere lei stessa. Il Partito organizza serate in suo onore. L’invasione dell’Ungheria non fa vacillare affatto le sue convinzioni. Sibilla trema, ma per il Partito. Teme che i giornali sfruttino senza ritegno gli avvenimenti, come infatti fanno. Alla fine di ottobre Sibilla osserva con tristezza che nel 1953 aveva creduto nel popolo ungherese, «fontana di fede nell’umana potenza e felicità». Ma è convinta che le forze ribelli saranno domate, che la marcia verso il progresso riprenderà e «le fontane di vita zampilleranno amore presso il Danubio». Quando, il 5 novembre, legge sull’«Unità» che i carri armati sovietici hanno soffocato la rivoluzione (con «il minor possibile danno alla popolazione», a quanto lei dice) si sente tranquillizzata. Approva il violento discorso col quale il suo amico Concetto Marchesi accusa «la cagnara reazionaria clericale e fascista che si è scatenata sui fatti di Ungheria».

391

Il 7 novembre Sibilla si reca all’ambasciata russa di Roma, a Villa Abamelec, per il trentanovesimo anniversario della «Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre». Togliatti le sembra un po’ assente e pensieroso. Le forze di polizia proteggono le autorità del Partito e tutto si svolge senza incidenti. Dopo l’invasione dell’Ungheria, Sibilla ha telefonato a Togliatti. Lui si è fatto passare personalmente la telefonata, e le ha parlato con «forza» e «dolcezza» delle «gravissime difficoltà che il Partito attraversa». La «fedeltà» di Sibilla al partito è ancora intatta e assoluta, come testimonia un’intervista apparsa sul settimanale comunista «Il Tempo Illustrato». Se dovesse avere una guida per l’aldilà, come Dante ebbe Virgilio, Sibilla sceglierebbe Concetto Marchesi, il suo principale interlocutore nel Partito. Gli altri compagni ironizzano davanti a lei sulla sua «fede religiosa». A lei importa ben poco: nello stato di depressione cronica in cui si trova, il comunismo è ormai la sua unica certezza. Telefona di nuovo a Togliatti per farsi rincuorare. Muore Concetto Marchesi. Un emissario del Vaticano tenta di confessarlo all’ultimo momento ma viene aspramente respinto. Ancora una volta Sibilla constata che non riesce più a piangere. La morte di Valery Larbaud nel febbraio del 1957 relega definitivamente nel passato la sua vita di scrittrice. Emilio Cecchi, presidente della giuria del premio Marzotto, consiglia comunque a questa signora di ottant’anni di concorrere con Luci della mia sera. Nell’aprile del 1957 Sibilla torna ad Ancona, a casa del figlio. Dal suo giardino scrive a Elio Fiore: «Anche la tristezza di cui mi parli comprendo, anch’io l’ho vissuta e talora ancora mi coglie, ma i poeti sempre la dominano e vincono, volta a volta. Avanti, Fiore! Sono contenta che i miei ottant’anni dian forza alle tue venti primavere».

392

Nonostante i fatti di Ungheria, Sibilla accetta, alla vigilia del suo ottantunesimo compleanno, di tornare in Russia. Non parte più con l’euforia del 1952: prova «una strana sensazione di perplessità». Ma continua a sperare: «Forse ritroverò l’incantesimo quando arriverò lassù?». Va fino a Vienna in treno, e da qui prende l’aereo per Mosca. Durante il soggiorno nella capitale sovietica, non «sta punto bene», come scrive a Adriano: «Piedi gonfi, caviglie irriconoscibili, ogni passo è un martirio». Nella stessa lettera osserva però che «la città è ancor cresciuta magnifica di volontà e d’attività. Ne parleremo a voce nevvero?». Appena arrivata, Sibilla viene condotta in uno stadio per assistere al Festival mondiale della gioventù. Poi va a visitare di nuovo la casa in cui Lenin è morto nel 1924. Torna a raccogliersi al mausoleo del Cremlino davanti alle spoglie di Lenin, e adesso anche a quelle di Stalin, che lei trova «fresco e quasi sorridente». Nonostante la stanchezza, accetta di visitare la Grande Esposizione Permanente dell’Agricoltura e i monumenti di Gor’kij e di Puškin; si reca anche al Circo Equestre di Mosca. Va a fare la sua solita cura a Sosny, da dove scrive a Adriano: «Bevi un dito per i miei ottant’anni e perch’io possa scrivere almeno qualche verso sul valore di questa alta età. […] Stai sano e sereno, qui la fede nel futuro del mondo si respira a grandi sorsi». Mentre è ancora in Russia, il 15 agosto 1957, le giunge la notizia che Italo Calvino, di cui apprezza molto le opere, ha lasciato il Partito. «Peccato, soprattutto per lui», commenta Sibilla. La sua raccolta Russia alto paese viene tradotta in russo e inserita in un volume di traduzioni pubblicato per celebrare il quarantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Alla fine del 1957 vengono pubblicate le Lettere CampanaAleramo.

393

Nel 1958, Elio Fiore comincia il servizio militare, a Bari. Sibilla gli scrive numerose lettere per sostenerlo e aiutarlo a pubblicare le sue poesie. «Spero di non ingannarmi nel credere a un suo destino di poeta», scrive sul suo diario. Sibilla rappresenta per Elio ciò che Sforza le aveva predetto a proposito dei suoi rapporti con i giovani di vent’anni: una presenza disinteressata. «Sono sessanta, nientemeno, gli anni che ci dividono! Eppure quanta freschezza nell’affetto che io gli suscito, e di cui egli ha tanta sete!». «Oh Elio, non sai quanto ti penso e con quanta tenerezza e fiducia». Sibilla si preoccupa delle vicine elezioni e del nuovo trasloco al quale è costretta. Nel giugno del 1958 si stabilisce sul Lungotevere Flaminio, in via Panama numero 88, vicino all’appartamento dove aveva vissuto sette anni con Cena, mezzo secolo prima. La pubblicazione delle lettere di Campana e la sua fedeltà al Partito le valgono lettere d’ingiurie e caricature. Le sue condizioni di salute peggiorano. Viene ricoverata cinque giorni all’ospedale per una serie di analisi. Ma la sua nuova sistemazione, in un appartamento al quarto piano di un edificio lussuoso, con vista sul parco di Villa Savoia, le piace. Continua a viaggiare, nonostante il suo stato di esaurimento: va di nuovo ad Ancona dal figlio, nella campagna senese da Ranuccio Bianchi Bandinelli «suo esecutore testamentario», in Valle d’Aosta e a Venezia. Rilegge continuamente le sue vecchie lettere, i suoi vecchi libri. Sulle Alpi, mentre sta andando a comprare l’«Unità», cade per strada e si sloga una caviglia. Scrive a Elio Fiore, che le ha appena mandato un mazzo di gladioli per il suo ottantaduesimo compleanno: «Ho sofferto fisicamente alla caviglia in modo

394

indicibile, come forse soltanto la notte che partorii mio figlio, sessanta e più anni fa!». A Adriano dice: «Tu non sai che cosa vuol dire “solo”. Non so se t’invidio, caro. Stamane, nel cielo limpidissimo, la catena del Monte Bianco splendeva come cristallo e dopo non so quanti mesi (o anni?) ho sentito mirandola dalla finestra della mia stanza muoversi in me il germe di qualcosa che forse chissà potrebbe un di questi giorni diventar una poesia. Per ora però non ho scritto neppure una parola». Partecipa a congressi e alla giuria di premi letterari in tutta Italia: Prato, Ravello, Napoli. A Napoli, dove si reca per il Congresso Internazionale degli Scrittori nell’ottobre del 1958, rivede Elio Fiore, che vi sta finendo il servizio militare. Dopo il loro incontro, Sibilla gli scrive da Roma: «Non devi aver bisogno degli altri (neanche di me, che presto, spero, non ci sarò più) per superare quegli attacchi di disperazione. […] non bisogna aver bisogno degli altri, ricordati!». Durante il congresso una scrittrice vicino alla quale Sibilla è seduta le chiede il suo nome, e ammette di non averlo mai sentito prima. A partire dal gennaio 1959, Sibilla riceve un vitalizio mensile di sessantamila lire dalla SIAE. Il 1° gennaio 1959, a casa della sorella Iolanda, assiste a una crisi di nervi della nipote e ne rimane scossa per diversi giorni. Scrive a Elio: «Poetare vuol dire amare, d’un amore più grande di quel che si ha per i singoli». In quello stesso giorno, il primo sputnik deve arrivare sulla luna. Sibilla si interessa all’avvenimento. Vorrebbe passare la Pasqua del 1959 dal figlio ad Ancona, ma poi vi rinuncia e rimanda il viaggio alla fine di maggio. Sciati-

395

ca, artrosi, infezione alla bocca, dimagrimento. Va a riposarsi ad Amalfi. Al suo ritorno a Roma, alla fine d’aprile, viene ricoverata nella Clinica Latina. «Ho il capo debole», scrive Sibilla a Elio. In giugno viene di nuovo ricoverata. Si lamenta della propria sordità. Viene curata dal figlio di suo figlio, che è medico, e dal fratello di Adriano, Djalma Vitali. L’infezione alla bocca è probabilmente dovuta alla malnutrizione. Viene operata alla lingua: «Questa lingua illustre», commenta il medico, «dover torturarla così!». Ma già il 15 luglio 1959 Sibilla parte per Venezia, per assistere, alla Fenice, alla prima realizzazione teatrale di Zavattini, suo fedele amico da quando si è iscritta al Partito, Da qui si reca a Pré-Saint-Didier, sulle Alpi, e vi resta un mese. E l’ultima estate che passerà sulle montagne dove suo padre, con lunghe ore di marcia forzata, le aveva insegnato la resistenza – lezione che poi lei ha sempre applicato, con amarezza ma anche con tenacia. Alloggia all’hotel Crammont. È sola e «fa pietà a se stessa». Il 14 agosto riceve un telegramma di Togliatti, uno dell’ambasciata sovietica, un terzo di suo figlio e una lettera di Elio Fiore. Il sindaco organizza un pranzo in suo onore. Durante il pasto, lei perde un dente. Riceve la visita di Sergio Solmi, che ha scritto la prefazione per la sua ultima raccolta. Dalla finestra vede il Monte Bianco. Una sera, scendendo dall’automobile di amici che l’avevano invitata al ristorante, si schiaccia un dito con lo sportello e urla «Non potrò mai più scrivere!». Ma il giorno dopo il gonfiore è diminuito. Scrive a Adriano: «Il mio stato d’esaurimento sapessi come mi umilia e abbatte ogni giorno più!».

396

Dieci giorni dopo scrive due versi: la sua poesia è ridotta, dice lei, a «un balbettio»: …tramonti timidi rosei su la cima del Monte Bianco nevosa…

Va in Versilia per il premio Viareggio, poi a Prato, infine torna a Roma. Nel mese di ottobre ricopia le lettere di Boccioni e pensa intensamente a quell’amore. All’infiammazione della bocca si aggiunge adesso il cattivo funzionamento del fegato: cirrosi epatica. Sibilla morirà tra due mesi. Il mese di novembre è in parte occupato dalla polemica provocata da Franco, che contesta a Sibilla il diritto di pubblicare la sua corrispondenza con Campana. «Che sta avvenendo, povera Sibilla?», si chiede lei scoprendo di non riuscir più a mangiare. Legge Il gattopardo e lo trova «veramente notevole anche se non è proprio Tolstoj». Comincia a inviare lettere sempre più insistenti a Elio, che ha finito il servizio militare. Gli chiede di essere preciso nelle descrizioni della sua vita quotidiana e di scriverle «tutto quello che un’amica desidera sapere anzitutto, mentre tu pensi invece unicamente alla poesia (la quale, se esiste, a suo tempo si manifesta)». Aggiunge alcuni versi tradotti da lei dei Castighi di Victor Hugo: Quelli che vivono son quelli che lottano: Sono quelli di cui un fermo destino Colma l’anima e la fronte, Quelli che dell’alto destino Salgono l’aspra cima, Quelli che marciano pensosi Verso una meta sublime, avendo

397 Dinanzi agli occhi di continuo, Notte e giorno, o qualche santo lavoro O qualche grande amore.

Va in un negozio a comprarsi un vestito di lana. Vedendo la sua immagine in uno specchio, rimane inorridita: «Io, sono io?». Togliatti va a trovarla in via Panama. Le promette la creazione di un Fondo Aleramo. Sibilla si augura di morire presto. Il 19 dicembre 1959, trentun anni dopo la sua lettera a Mussolini, viene ricoverata nella clinica di Villa Speranza, nella pineta Sacchetti, dietro il Vaticano, nello stesso quartiere in cui aveva abitato al suo arrivo a Roma nel 1902. La propria spossatezza la sorprende. Il 26 dicembre scrive: «Ho paura, io Sibilla ho paura, forse la prima volta nei miei ottantatré anni». Elio e i due A, come lei chiama Alfio e Adriano, vanno a trovarla. Passa la domenica 27 dicembre 1959 da sola in clinica, senza ricevere alcuna visita. Il giorno dopo, un amico di Franco Matacotta le rivela che questo ha abbandonato la moglie e i figli. Lo stesso giorno va a trovarla Camilla Ravera. «Ultimi sonni», appunta Sibilla per descrivere la letargia nella quale sprofonda la notte e da cui non vorrebbe più uscire. «Fatico a tener gli occhi aperti». Il 9 gennaio 1960 Walter, avvisato da Adriano, ritiene inutile rivedere sua madre e risponde: «Spero ed auguro con tutto il cuore […] che la natura non prolunghi le sue sofferenze». Abbandona interamente gli ultimi istanti della vita di Sibilla nelle mani di Adriano e Alfio. All’alba del 13 gennaio 1960, accanto al telefono, Adriano trova un biglietto scritto a lapis: «Clinica ha telefonato Sibilla deceduta alle 4».

398

Il giorno stesso, i giornali del mattino riportano la notizia: Quasimodo e Moravia le rendono omaggio. Ogni quotidiano le dedica diverse pagine. Ma alla sua morte fa una concorrenza inattesa la nascita del figlio di Brigitte Bardot. Il giorno dopo, in un autobus che lo sta portando al lavoro, a Borgolombardo vicino a Milano, Elio legge sul «Corriere della Sera» il necrologio di Sibilla: è firmato Eugenio Montale. Ella desiderava esser cremata, se dopo la sua morte fossero rimasti ancora un po’ di soldi.

399

Nota

Ho notato per la prima volta il nome di Sibilla Aleramo in Descrizioni di descrizioni di Pasolini. Parlando della corrispondenza Campana-Aleramo, egli deplora il fatto che «di un poeta come Dino Campana si sia impadronita la destra letteraria». Benché Pasolini non dica niente di Sibilla, che pure aveva conosciuta, questo nome mi ha incuriosito. Dovevo averlo già visto altrove senza ricordarmene. Qualche anno più tardi ho trovato in una grande libreria francese, finita li chissà come, la piccola ristampa di Trasfigurazione degli Editori Riuniti. Estremamente colpito dalla forza di questa requisitoria, l’ho subito tradotta. Ho dato poi la mia traduzione all’attrice catalana Assumpta Serna, la quale, profondamente toccata a sua volta, ha voluto recitare questo monologo. Dietro consiglio di un amico comune, la femminista Elena Gianini Belotti mi ha allora inviato il suo saggio Amore e pregiudizio, dedicato all’amore delle donne per uomini più giovani di loro, che tratta diffusamente della relazione tra Sibilla e Franco. Io l’ho ringraziata e le ho parlato del mio recente interesse per il personaggio di Sibilla Aleramo. Elena Gianini Belotti

400

ha avuto dunque la gentilezza di regalarmi la prima parte del diario di Sibilla. La seconda, l’ho ricevuta da Silvano Nigro. È da questa serie di coincidenze che il mio lavoro ha avuto origine; ed è grazie all’aiuto e alla generosità disinteressata di Bruna Conti, responsabile del Fondo Aleramo all’Istituto Gramsci, che ho potuto portarlo a termine. Ho tentato, anche nelle scene più «romanzesche», di rispettare la cosiddetta «realtà», cioè quello che documenti scritti e fotografie conservano ancora di essa. Mi sarebbe stato impossibile scrivere questo libro senza quello di Bruna Conti e Alba Morino, Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata (Feltrinelli, Milano 1981), una preziosa raccolta di testi e testimonianze sulla scrittrice. Naturalmente mi sono basato sulle opere di Sibilla Aleramo, sui saggi che le sono stati dedicati, su tutti gli inediti ai quali l’Istituto Gramsci mi ha permesso di accedere e sulle opere di coloro che hanno incrociato la vita di questa donna. Bruna Conti ha prodigato il suo tempo per fornirmi tutti i documenti di cui era a conoscenza e per rileggere minuziosamente il mio manoscritto. Ringrazio anche Gabriel Cacho Millet per i consigli su Campana. Le esigenze di costruzione del libro (per la quale ho adottato gli stessi principi che per L’Extrémité du monde e L’or et la poussière) mi hanno spinto ad alcune scelte e omissioni, non molto numerose ma in quantità sufficiente perché ne avverta il lettore a cui interessano i dati oggettivi. I discendenti e gli eredi dei «personaggi» che compaiono in questo libro perdoneranno, spero, le mie libertà di romanziere. Ho talvolta dato per certe situazioni in cui invece il dubbio sussiste. Può darsi che in realtà le cose siano andate diversamente: il mio libro non ha pretese storiche, nonostante le mie ricerche. Tengo comunque a precisare che i dialoghi si ispirano frequentemente a ciò che Sibilla stessa ha scritto nelle lettere, nei taccuini, nei romanzi, nei lavori teatrali e nei diari. Per non rendere troppo faticosa la lettura non ho specificato all’interno del testo la

401

provenienza delle citazioni, e mi sono limitato a segnalarne la presenza mettendole tra virgolette. Ho appuntato tutti i riferimenti sul mio manoscritto, e fornisco più avanti la bibliografia su cui poggia il mio libro, che va letto del resto come romanzo piuttosto che come saggio. Nella traduzione italiana, le citazioni originali sono state ristabilite. Degli amici di Sibilla ho incontrato soltanto Elio Fiore e i due A, Alfio Lambertini e Adriano Vitali. Elio mi ha accolto nel suo appartamento del Portico d’Ottavia e mi ha regalato una fotografia di Sibilla, scattata poco prima della sua morte da Alfio. Sibilla ha in mano una rosa. Nonostante l’età, il profilo magnifico ha conservato la sua dignità senza tempo. Alfio e Adriano mi hanno ricevuto insieme a Bruna Conti nella loro casa di Santa Severa, in riva al mare. Era una giornata infuocata e tempestosa d’agosto, sotto il segno del leone. L’8 luglio 1923, Sibilla aveva scritto a Valery Larbaud: «Costellazione del Leone! Ma che peso, esser di questa razza, quando anche si è donne!». Mi hanno parlato a lungo della loro amica e del Partito che, sebbene per poche settimane, aveva ancora un nome. L’amicizia che Elio, Adriano, Alfio e Bruna mi hanno offerta mi ha dato la prova, se ce ne fosse ancora bisogno, della nobiltà di colei che ci ha riuniti.

403

Opere consultate e citate

1.  Opere pubblicate di Sibilla Aleramo Una donna, STEN, Roma-Torino 1906; Feltrinelli, Milano 1973; con una prefazione di Maria Corti, ivi 1982; nuova edizione, a cura di Anna Folli, postfazione di Emilio Cecchi, “Universale Economica Feltrinelli”, Feltrinelli, Milano 2003. Il passaggio, Treves, Milano 1919; ristampa, Serra e Riva, Milano 1985; a cura di Bruna Conti, Feltrinelli, Milano 2000. Momenti, Bemporad, Firenze 1920. Andando e stando, Bemporad, Firenze 1920; a cura di Rita Guerricchio, Feltrinelli, Milano 1997. Trasfigurazione, Bemporad, Firenze 1922; con una testimonianza di Primo Conti, Editori Riuniti, Roma 1987. Il mio primo amore, con un disegno di Primo Conti e uno scritto di Alfredo Panzioni, Ed. «Terza Pagina», Roma 1924. Endimione, poema drammatico in tre atti, Stock, Roma 1923. Amo dunque sono, Mondadori, Milano 1927; con una introduzione di Gilberto Finzi, ristampato nella tascabile “Oscar” nel 1982.

404

Poesie, Mondadori, Milano 1929. Gioie d’occasione, Mondadori, Milano 1930. Il frustino, Mondadori, Verona 1932. Sì alla terra. Nuove poesie (1928-1934), Mondadori, Milano 1935. La principessa di Clèves, traduzione dal francese, Mondadori, Milano 1935; ristampa 1970. Orsa minore. Note di taccuino, Mondadori, Milano 1938; Orsa minore. Note di taccuino e altre ancora, a cura di Anna Folli, “Le comete”, Feltrinelli, Milano 2002. Dal mio diario (1940-1944), Tuminelli, Roma 1945; poi Un amore insolito, Feltrinelli, Milano 1979. Selva d’amore, Mondadori, Milano 1947; con prefazione di Bruna Conti e introduzione di Claudio Rendina, Newton Compton, Roma 1980. Il mondo è adolescente, Milano-Sera, Milano 1949. Aiutatemi a dire. Nuove poesie (1948-1951), Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1951. Russia alto paese. Prose e poesie, Italia-URSS Editrice, Roma 1953. Luci della mia sera. Poesie (1941-1946), con prefazione di Sergio Solmi, Editori Riuniti, Roma 1956. Diario di una donna. Inediti 1945-1960, Feltrinelli, Milano 1978. La donna e il femminismo. Scritti 1897-1910, a cura di Bruna Conti, Editori Riuniti, Roma 1978. Dialogo con Psiche, Novecento, Palermo 1991. Tutte le poesie, a cura di Silvio Raffo, “Oscar”, Mondadori, Milano 2004. Così a me t’inginocchi, a cura di Anna Folli, “La baracca verde”, Baraldi, Albenga (Svizzera) 2006.

405

Inoltre, numerosi articoli e testi brevi sono stati pubblicati da Sibilla Aleramo nel corso della sua vita su quotidiani e riviste, senza che ella abbia potuto raccoglierli tutti in volume. I principali sono stati riuniti da lei stessa in Gioie d’occasione e Andando e stando; poi, dopo la sua morte, da Bruna Conti in La donna e il femminismo, cit., o citati in Sibilla Aleramo e il suo tempo di Bruna Conti e Alba Morino (vedi più avanti). Tre testi giovanili: Morte feconda (31 agosto 1894), una novella senza titolo (probabilmente del 1898) e Autunno (senza data) sono stati pubblicati in appendice a L’apprendistato letterario di Sibilla Aleramo di Matilde Angelone (vedi più avanti).

2.  Inediti di Sibilla Aleramo Taccuini, 1901-1940. Pensieri staccati, senza data. Cielo mare, 21 febbraio 1894. Corpus domini, maggio 1894. Meriggio, senza data. Verso la vita, dramma in tre atti, 15 gennaio 1902. Chiara Vinci, tentativo di romanzo incompiuto, 23 dicembre 1906. Chiara, romanzo incompiuto, 15 giugno 1908. L’assurdo, abbozzo di un dramma rinnegato, giugno 1910 (primo atto soltanto). Altro abbozzo di Chiara Vinci, 22 ottobre 1910. La musicista, scaletta cinematografica, 1919. Romanzo senza titolo, incompiuto, 1920. Inizio di romanzo senza titolo, 21 giugno 1923. La casa nel sole, dramma, primo atto soltanto, 7 luglio-7 agosto 1923.

406

Tanto amata e tanto sola, romanzo, 1° gennaio 1924. Francesca Diamante ovvero la Voce di là, mistero drammatico in tre atti, 2 luglio 1924. La grande ereditiera, sceneggiatura 1932. Progetto di romanzo (Alessandra Rovere) 1937. Vita di Torquato Tasso, sceneggiatura, 25 agosto 1938. Dati biografici per gli esecutori testamentari (155 fogli dei quali Sibilla Aleramo ha proibito la pubblicazione) 23 novembre 1938-14 febbraio 1939.

3  Corrispondenza Con Dino Campana: Lettere, Vallecchi, Firenze 1958; poi Quel viaggio chiamato amore, Editori Riuniti, Roma 1987. Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, a cura di Bruna Conti, Feltrinelli, Milano 2000. Con Lina Poletti: Lettere d’amore a Lina, Savelli, Roma 1982. Con Salvatore Quasimodo: A Sibilla, Rizzoli, Milano 1983. Lettere d’amore, a cura di Paola Manfredi, prefazione di Bruna Conti, Nicolodi, Rovereto 2001. Con Elio Fiore: Lettere a Elio, Editori Riuniti, Roma 1989. Con Giovanni Papini: Fondo Aleramo, Istituto Gramsci (si tratta di copie redatte da Sibilla prima di rendere le lettere a Papini). Con Valery Larbaud: Biblioteca comunale di Vichy. Con Adriano Vitali e Alfio Lambertini: Fondo Aleramo, Istituto Gramsci.

407

4.  Su Sibilla Aleramo Rita Guerricchio, Storia di Sibilla, Nistri-Lischi, Pisa 1974. Marina Federzoni, Isabella Pezzini e Maria Pia Pozzato, Sibilla Aleramo, La Nuova Italia, Firenze 1980. Bruna Conti e Alba Morino, Sibilla Aleramo e il suo tempo, Feltrinelli, Milano 1981. Aa. Vv., Sibilla Aleramo. Coscienza e scrittura, Feltrinelli, Milano 1986. Matilde Angelone, L’apprendistato letterario di Sibilla Aleramo, Liguori, Napoli 1987. Aa. Vv., Svelamento: Sibilla Aleramo. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano 1988. Pier Luigi Cavalieri, Sibilla Aleramo. Gli anni di Una donna. Porto Civitanova 1888-1902, prefazione di Bruna Conti, “Cattedrale”, Garibaldi, Ancona 2009. Monika Antes, «Amo dunque sono». Sibilla Aleramo, pioniera del femminismo in Italia, “Italianistica nel mondo”, Pagliai, Firenze 2010. Luisella Vèroli, Pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo, “Melusine, Associazione culturale per comunicare saperi ed esperienze delle donne”, La vita felice, Milano 2020. Il saggio di Monika Antes (op. cit.) contiene una bibliografia quasi-completa dei libri di e su Sibilla Aleramo, aggiornata nel 2010. Vari documentari sono stati dedicati a Sibilla Aleramo. E citiamo anche il film sul suo amore con Dino Campana, Un viaggio chiamato amore di Michele Placido, con Laura Morante e Stefano Accorsi, 2002.

408

5.  Intorno a Sibilla Aleramo Olga Signorelli, Eleonora Duse, Casini, Ponzano Magra (La Spezia) 1955. Ardengo Soffici, Opere, vol. VII/2, Fine di un mondo, Vallecchi, Firenze 1968. Emilio Cocchi, Taccuini, Mondadori, Milano 1974. Franco Matacotta, La lepre bianca, Feltrinelli, Milano 1982. Primo Conti, La gola del merlo. Memorie provocate da Gabriel Cacho Millet, Sansoni, Firenze 1983. Sebastiano Vassalli, La notte della cometa, Einaudi, Torino 1984. Gabriel Cacho Millet, Campana fuorilegge, Novecento, Palermo 1985. Elena Gianini Belotti, Amore e pregiudizio, Mondadori, Milano 1988. Lea Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Rizzoli, Milano 1988.

6.  Altre Sarebbe troppo lungo elencare le altre opere alle quali faccio riferimento: poesie, saggi e romanzi dei vari amanti e amici di Sibilla Aleramo – Giovanni Cena, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Giovanni Boine, Scipio Slataper, Carlo Sforza, Benedetto Croce, Emilio Cecchi, Dino Campana, Enrico Emanuelli, Salvatore Quasimodo, Aurel, ecc. Ho dato le indicazioni per ciascuna di esse all’interno del testo, via via che le ho citate.

409

7.  Un’ultima parola C’è una risposta della Duse che attribuirei volentieri a Sibilla Aleramo. Quando le fu chiesto quale paese preferisse, ella rispose: «La traversata».

411

Dello stesso autore in italiano

La stella rubina, tradotto da Anna Maria Maccari, Costa & Nolan, Genova 1992. Le pene di cuore di una gatta francese (con la collaborazione di Alfredo Arias), Marietti, Genova 2000. Pallido oggetto del desiderio, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Fondazione Il Rossetti, Trieste 2002. La parola amore, tradotto da Francesco Bergamasco, Archinto, Milano 2010. Ricordare e dimenticare, conversazioni con Adriana Asti, Portaparole, Roma 2010. Alberto Moravia, tradotto da Sergio Arecco e Anna Girardelli, Bompiani, Milano 2010. Amicizia e passione. Giacomo Leopardi a Napoli, tradotto da Piero Gelli, Archinto, Milano 2014. Elsa Morante. Una vita per la letteratura, tradotto da Sandra Petrignani, Neri Pozza, Vicenza 2020 (Premio Morantiano, Premio Francesco De Sanctis).

412

Contributi Prefazione, in Luchino Visconti, Angelo, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. IX-XXIX. Un’archivista del mistero dell’anima, in Bruna Conti, O&O, Nicolodi, Rovereto 2002, pp. 7-12. Con la polvere dell’harmattan, in Nico Naldini, I confini del paradiso, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004, pp. 5-13. Il cuore di Monique, in Monique Lange, I pescigatto, Cargo, Napoli 2005, pp. 81-88. Madre e figlia e Intervista a Elisabeth Gille, in Elisabeth Gille, Mirador. Irène Némirovsky, mia madre, Fazi, Roma 2011, risp. pp. 7-19 e pp. 349-354. Nota del curatore e Note, in Marguerite Duras, La passione sospesa, intervista con Leopoldina Pallotta della Torre, Archinto, Milano 2013, risp. pp. 9-13 e pp. 147-171. Risvolto di copertina in Gilberto Severini, Quando Chicco si spoglia sorride sempre, Playground, Roma 2020. Dacia, dolce per noi, in Dacia Maraini: scrittura e impegno, a cura di Juan Carlos de Miguel y Canuto, Magdalena Maria Kubas e Eugenio Murrali, «Quaderni del ’900», XX, 2020, pp. 7-13. Raggiungere la realtà, in Luce D’Eramo, Ultima luna, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 5-20.

Indice

1.  L’appuntamento 2.  Lo stupro 3.  Il matrimonio 4.  Il teatro 5.  La partenza 6.  La creatura 7.  La campana di vetro 8.  La fiamma bianca 9.  Il fratello 10.  L’isola 11.  Il lucido rapimento 12.  La scintilla elettrica 13.  Il quartetto 14.  Le due cose d’oro 15.  L’atleta che dorme 16.  Il gigolò nudo 17.  Il disegnatore tecnico 18.  L’errore 19.  La compagna

p. 9 p. 29 p. 51 p. 63 p. 77 p. 83 p. 109 p. 125 p. 133 p. 139 p. 161 p. 171 p. 191 p. 215 p. 247 p. 283 p. 315 p. 329 p. 363

Nota Opere consultate e citate Dello stesso autore in italiano

p. 399 p. 403 p. 411

Assaggi Collana di saggi di Critica Letteraria Diretta da:

Giorgio Ficara e Raffaele Manica

1. Massimo Onofri, Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento. 2. Luca Doninelli, Tre lezioni sul Romanzo. 3. Raffaello Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento. 4. Paolo Febbraro, Poesia allo stato critico. Saggi e interventi. 5. René de Ceccatty, Sibilla Aleramo. Notte in un paese straniero.

Sibilla Aleramo «Ho fatto della mia vita, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia». Sibilla Aleramo

Attingendo agli archivi privati della scrittrice, René de Ceccatty, romanziere e biografo dei maggiori scrittori italiani, ha approfondito la conoscenza di Sibilla Aleramo (nata Rina Faccio, 1876-1960), facendone la protagonista del romanzo di una vita che attraversò il Novecento: da Una donna (1906), la sua precoce autobiografia, ai suoi diari intimi, ritratto unico della vita intellettuale dalla Seconda Guerra Mondiale alla sua morte, è l’autrice di un’opera ricca e complessa, in cui narrativa, saggistica e poesia costruiscono la figura unica di una donna indipendente, ma sempre generosamente impegnata nella vita politica, socialista poi comunista. Di una bellezza stravolgente, Sibilla Aleramo fu un’amante appassionata, ma molto infelice. Dino Campana, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Salvatore Quasimodo e tanti altri hanno condiviso periodi emblematici della sua vita agitata, ma sempre autentica.

René de Ceccatty è nato a Tunisi nel ‘52. Romanziere, drammaturgo, critico, traduttore, editore. Ha tradotto Leopardi, Saba, Moravia, Pasolini, Petrarca, Dante, ecc. e vari autori giapponesi (in collaborazione con Ryôji Nakamura). Ha scritto le biografie di Pasolini, Maria Callas, Moravia, Elsa Morante. Sono stati tradotti in italiano: La stella rubino (Costa e Nolan), La parola amore (Archinto), Alberto Moravia (Bompiani), Amicizia e passione (Archinto), Ricordare e dimenticare (con Adriana Asti) (Porta parole), Elsa Morante, una vita per la letteratura (Neri Pozza). Premio Mondello 2008, Premio Dante-Ravenna 2018, Premio Elsa Morante 2018 e Premio Francesco De Sanctis 2021.

Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica

€ 12,00

Assaggi | 5

ISBN ebook 9788855292580