Lezioni di diritto amministrativo
 9788892113565, 8892113569

Table of contents :
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Occhiello
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Indice
Introduzione
Parte I - Nozioni generali
02 Parte I Capitolo 1 [1-14]
Parte I - Cap. 1 - Le funzioni amministrative
Parte I - Cap. 2 - Il diritto amministrativo
Parte I - Cap. 3 - Profili storici
Parte I - Cap. 4 - Le fonti
Parte II - La pubblica amministrazione
Parte II - Cap. 5 - Il perimetro della pubblica amministrazione
Parte II - Cap. 6 - Il sistema amministrativo
Parte II - Cap. 7 - Amministrazione, politica, società
Parte III - Gli strumenti
Parte III - Cap. 8 - L'organizzazione degli uffici
Parte III - Cap. 9 - Il personale pubblico
Parte III - Cap. 10 - I doveri dei dipendenti pubblici
Parte III - Cap. 11 - I beni pubblici
Parte III - Cap. 12 - La finanza pubblica
Parte IV - I processi
Parte IV - Cap. 13 - L'attività amministrativa
Parte IV - Cap. 14 - Il potere amministrativo
Parte IV - Cap. 15 - Il procedimento amministrativo
Parte IV - Cap. 16 - Il provvedimento amministrativo
Parte IV - Cap. 17 - I tipi di provvedimento
Parte IV - Cap. 18 - I contratti pubblici
Parte V - I rimedi
Parte V - Cap. 19 - La responsabilità dell'amministrazione e dei dipendenti pubblici
Parte V - Cap. 20 - La giustizia amministrativa
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LEZIONI di diritto amministrativo

BERNARDO GIORGIO MATTARELLA

LEZIONI di diritto amministrativo

G. Giappichelli Editore

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http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-1356-5

ISBN/EAN 978-88-9217378-1 (ebook)

Stampa: LegoDigit s.r.l. - Lavis (TN)

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INDICE

pag.

Introduzione

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PARTE I | NOZIONI GENERALI Capitolo 1 | Le funzioni amministrative 1.1. 1.2. 1.3. 1.4.

Pubbliche amministrazioni e funzioni amministrative La tipologia L’ambito I caratteri

3 5 10 12

Capitolo 2 | Il diritto amministrativo 2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Le ragioni del diritto amministrativo La specialità del diritto amministrativo Le tecniche di disciplina delle funzioni amministrative I caratteri del diritto amministrativo

15 18 20 24

Capitolo 3 | Profili storici 3.1. Le amministrazioni degli stati preunitari 3.2. L’unificazione

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pag. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6. 3.7. 3.8. 3.9.

L’età crispina L’età giolittiana Il fascismo L’amministrazione nella Costituzione L’età repubblicana L’età delle riforme amministrative Il XXI secolo

31 32 33 35 37 39 41

Capitolo 4 | Le fonti 4.1. 4.2. 4.3. 4.4. 4.5.

Le fonti del diritto amministrativo Le norme prodotte dalle amministrazioni I princìpi Le norme generali Le norme speciali

45 48 52 54 56

PARTE II | LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Capitolo 5 | Il perimetro della pubblica amministrazione 5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5.

Il problema della delimitazione La pluralità di nozioni La tendenza espansiva La tendenza restrittiva La dimensione della pubblica amministrazione

61 63 65 68 69

Capitolo 6 | Il sistema amministrativo 6.1. 6.2. 6.3. 6.4. 6.5. 6.6. 6.7.

Amministrazioni statali e non statali L’organizzazione amministrativa dello Stato Gli enti territoriali Le altre amministrazioni pubbliche Le società pubbliche Le altre amministrazioni in forma privata Le amministrazioni ultrastatali

73 74 76 77 78 80 81

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Capitolo 7 | Amministrazione, politica, società 7.1. 7.2. 7.3. 7.4. 7.5.

I due padroni dell’amministrazione Politica e amministrazione La “democrazia amministrativa” La trasparenza amministrativa L’amministrazione digitale

85 89 91 92 95

PARTE III | GLI STRUMENTI Capitolo 8 | L’organizzazione degli uffici 8.1. 8.2. 8.3. 8.4. 8.5.

Amministrazioni, uffici, organi I rapporti tra uffici I controlli amministrativi La potestà organizzativa I princìpi costituzionali

99 101 104 105 108

Capitolo 9 | Il personale pubblico 9.1. 9.2. 9.3. 9.4. 9.5. 9.6.

Un’altra categoria imprecisa Rapporto d’ufficio e rapporto di servizio Il personale professionale Il personale onorario L’accesso alle cariche e agli impieghi pubblici e la loro cessazione La disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici

111 113 114 116 117 119

Capitolo 10 | I doveri dei dipendenti pubblici 10.1. La peculiarità dei doveri dei dipendenti pubblici 10.2. La codificazione dell’etica pubblica 10.3. Il rilievo giuridico dei codici di comportamento 10.4. I doveri dei pubblici dipendenti 10.5. I doveri degli altri pubblici funzionari

123 124 126 127 132

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Capitolo 11 | I beni pubblici 11.1. Beni pubblici e beni privati 11.2. Classificazioni 11.3. Il regime giuridico 11.4. Il patrimonio pubblico

135 137 140 142

Capitolo 12 | La finanza pubblica 12.1. Il denaro dell’amministrazione 12.2. I bilanci 12.3. Le entrate tributarie 12.4. Le altre entrate 12.5. L’autonomia finanziaria 12.6. Le spese 12.7. Il procedimento di spesa

145 146 148 150 152 153 154

PARTE IV | I PROCESSI Capitolo 13 | L’attività amministrativa 13.1. La disciplina 13.2. Le forme di svolgimento delle funzioni amministrative 13.3. Atti unilaterali e accordi 13.4. Attività amministrativa, diritto pubblico e diritto privato 13.5. Attività amministrativa e attività privata 13.6. Attività amministrativa, attività legislativa e attività giurisdizionale

159 161 162 163 165 166

Capitolo 14 | Il potere amministrativo 14.1. Le situazioni giuridiche soggettive delle pubbliche amministrazioni 14.2. Il potere amministrativo 14.3. Caratteri del potere amministrativo 14.4. L’interesse legittimo

169 171 173 176

Capitolo 15 | Il procedimento amministrativo 15.1. La procedimentalizzazione dell’attività amministrativa 15.2. Procedimenti amministrativi e altri procedimenti giuridici

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15.3. La disciplina del procedimento 15.4. La legge n. 241 del 1990 15.5. Lo svolgimento del procedimento 15.6. L’obbligo di concludere il procedimento 15.7. L’atto conclusivo del procedimento 15.8. Tipologia dei procedimenti

181 183 185 187 188 189

Capitolo 16 | Il provvedimento amministrativo 16.1. Scelte dell’amministrazione e atti amministrativi 16.2. La discrezionalità amministrativa 16.3. Il provvedimento amministrativo 16.4. La struttura 16.5. L’esternazione 16.6. L’efficacia e l’esecuzione 16.7. Le cause di invalidità 16.8. Gli effetti dell’invalidità

193 194 197 198 200 202 204 207

Capitolo 17 | I tipi di provvedimento 17.1. La tipologia dei provvedimenti 17.2. Gli atti amministrativi generali 17.3. Le concessioni 17.4. Le autorizzazioni 17.5. Gli atti ablatori 17.6. Le sanzioni amministrative 17.7. I provvedimenti di secondo grado 17.8. Gli atti dichiarativi 17.9. Gli atti politici e gli atti di alta amministrazione 17.10. Provvedimenti amministrativi e altri atti

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Capitolo 18 | I contratti pubblici 18.1. I presupposti del contratto 18.2. La tipologia 18.3. La disciplina 18.4. I requisiti delle stazioni appaltanti e dei contraenti 18.5. La scelta del contraente 18.6. La conclusione e l’esecuzione

223 225 227 229 231 233

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pag.

PARTE V | I RIMEDI Capitolo 19 | La responsabilità dell’amministrazione e dei dipendenti pubblici 19.1. Responsabilità dell’amministrazione e responsabilità dei dipendenti 19.2. Obblighi e responsabilità delle amministrazioni 19.3. La responsabilità civile da fatto illecito dell’amministrazione 19.4. La responsabilità da fatto lecito dell’amministrazione 19.5. Doveri e responsabilità dei pubblici funzionari in quanto cittadini 19.6. Le responsabilità patrimoniali proprie dei funzionari pubblici 19.7. Le responsabilità non patrimoniali proprie dei dipendenti pubblici

237 238 240 242 243 244 246

Capitolo 20 | La giustizia amministrativa 20.1. Pubblica amministrazione e giudici 20.2. Il giudice amministrativo 20.3. Il riparto della giurisdizione 20.4. La giurisdizione amministrativa 20.5. Il processo amministrativo 20.6. Gli altri giudici e gli altri processi 20.7. I ricorsi amministrativi

249 251 253 254 255 257 259

Bibliografia

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Indice analitico

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INTRODUZIONE

Questo libro è rivolto all’insegnamento del diritto amministrativo, con particolare riferimento alle esigenze di coloro che non seguono un corso di studi giuridici: iscritti ad altri corsi di studi che contemplano l’insegnamento della materia, funzionari pubblici privi di formazione giuridica, candidati in concorsi pubblici, studiosi e operatori che hanno rapporti frequenti con la pubblica amministrazione. È principalmente a tutti questi soggetti che queste Lezioni sono destinate. Dalla scelta dei destinatari dipendono alcune caratteristiche del libro. Innanzitutto, vi è un particolare sforzo di semplicità dei concetti e del linguaggio, con qualche chiarimento che per il lettore con una formazione giuridica può essere superfluo. Vi sono, poi, pochi riferimenti normativi e pochissimi riferimenti giurisprudenziali. I principali atti normativi e alcuni orientamenti giurisprudenziali sono indicati, ma il lettore è sollevato dall’onere di consultare leggi e sentenze. Mentre, infatti, lo studente di giurisprudenza non può fare a meno di consultare continuamente i testi normativi e di leggere sentenze, per altre categorie di lettori la consultazione è difficile: per essi è sufficiente un’informazione sommaria sui contenuti dei più importanti atti normativi che regolano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Non vi sono riferimenti bibliografici per ciascun capitolo, ma solo un’essenziale bibliografia finale di titoli italiani, in cui – senza pretesa di completezza – sono privilegiati quelli accessibili al lettore non giurista e sono inseriti alcuni testi di taglio non giuridico. Vi sono, invece, frequenti riferimenti al funzionamento concreto delle amministrazioni pubbliche, alle loro caratteristiche reali e dimensionali, alle tendenze attuali del legislatore, dei giudici e dei funzionari pubblici, ai principali problemi e alle più frequenti disfunzioni amministrative. L’obiettivo è

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esporre i problemi giuridici, descrivere il funzionamento reale delle amministrazioni su cui quei problemi si innestano, mostrare le soluzioni adottate dall’ordinamento giuridico, spiegare i princìpi generali, chiarire le logiche alla base dei diversi istituti. Ne consegue, tra l’altro, che, nella trattazione di molti temi, molto spazio è dedicato ai fenomeni e alle questioni generali, che si pongono in tutti i sistemi di diritto amministrativo, un po’ meno all’analisi delle specifiche caratteristiche dell’ordinamento italiano. Alla base di questa scelte vi sono alcune convinzioni dell’autore: che per studiare il diritto amministrativo è necessario capire le peculiari caratteristiche delle pubbliche amministrazioni e della loro attività; che il sistema del diritto amministrativo risulta da diverse componenti, una delle quali è quella normativa; che esso può essere ricostruito e descritto a beneficio del lettore non esperto; che la maggior parte dei problemi del diritto amministrativo si pongono in modo analogo in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali, che le soluzioni sono spesso simili e che vi è una crescente convergenza tra gli ordinamenti. Ciò non toglie che il libro contenga un’analisi squisitamente giuridica e che esso sia concentrato sul diritto amministrativo italiano e aggiornato agli sviluppi legislativi più recenti. L’ordine degli argomenti riflette la struttura dei corsi di diritto amministrativo che l’autore tiene nell’ambito del corso di laurea in giurisprudenza della sua Università. Nella prima parte si muove dall’analisi delle funzioni amministrative, non solo perché è dalle loro particolarità che dipendono le caratteristiche del diritto amministrativo, ma anche per mostrare la concretezza del diritto amministrativo e il suo rilievo per la vita di tutti. Sono poi descritte le caratteristiche essenziali del diritto amministrativo e il suo sviluppo storico, nonché le peculiarità che alcune fonti del diritto presentano in questa materia. Nella seconda parte si tratta della pubblica amministrazione: i suoi confini, le sue dimensioni, la sua articolazione, la sua collocazione costituzionale. La terza parte è dedicata agli strumenti utilizzati dalle amministrazioni per lo svolgimento delle loro funzioni: uffici, personale, beni, finanza. Nella quarta parte sono esaminati i processi attraverso i quali le funzioni sono svolte e, quindi, le diverse forme di attività amministrativa. Una particolare attenzione è dedicata al potere amministrativo, ovvero al regime giuridico delle decisioni delle pubbliche amministrazioni. Infine, la quinta parte affronta sinteticamente i principali rimedi alle disfunzioni, ovvero la responsabilità e la tutela giurisdizionale. Il contenuto delle Lezioni, tuttavia, risente dei destinatari e degli obiettivi del libro. Rispetto ai corsi universitari tenuti dall’autore, i concetti e la prosa sono semplificati e il peso dei vari temi è a volte modificato: alcuni temi di particolare importanza per la pratica amministrativa, come quello del perimetro della pubblica amministrazione e quello dei doveri dei dipendenti

Introduzione

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pubblici, hanno un particolare approfondimento; altri temi che interessano principalmente i giuristi, come la giustizia amministrativa, sono invece trattati molto sinteticamente, per fornire al lettore alcune nozioni essenziali. Ciascun capitolo tratta compiutamente un tema e le dimensioni dei vari capitoli sono simili.

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Lezioni di diritto amministrativo

PARTE I NOZIONI GENERALI

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Lezioni di diritto amministrativo

Le funzioni amministrative

CAPITOLO 1

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LE FUNZIONI AMMINISTRATIVE

SOMMARIO: 1.1. Pubbliche amministrazioni e funzioni amministrative. – 1.2. Tipologia. – 1.3. L’ambito. – 1.4. I caratteri.

1.1. PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E FUNZIONI AMMINISTRATIVE Occorre innanzitutto, nell’affrontare lo studio del diritto amministrativo, interrogarsi sulle ragioni della sua esistenza. Si può assumere, in via di prima approssimazione, che il diritto amministrativo è il diritto volto a regolare l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni e i loro rapporti tra loro e con altri soggetti. Se è così, occorre chiedersi: in primo luogo, perché esistono le pubbliche amministrazioni; in secondo luogo, perché a esse si applica un diritto diverso da quello che regola gli altri soggetti e i rapporti tra essi. La risposta alla prima domanda è che le pubbliche amministrazioni esistono per svolgere attività necessarie o opportune per la collettività. La risposta alla seconda domanda è che queste attività sono diverse da quelle svolte dagli altri soggetti: lo sono per il fine pubblico che perseguono e, spesso, per i poteri che vi rientrano. Di conseguenza, queste attività sono soggette a regole e controlli particolari, che non sono necessari per le attività svolte dagli altri soggetti o che sono diversi da quelli ai quali sono soggette le attività degli altri soggetti. Il diritto amministrativo, dunque, serve a regolare lo svolgimento di determinate attività, nei suoi diversi aspetti: soggetti che le svolgono, risorse impiegate per svolgerle, modalità del loro svolgimento, loro effetti, controlli su di esse. Il complesso di regole, relative a queste attività, costituisce un regime giuridico complessivo, per esprimere il quale si usa l’espressione funzioni amministrative.

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Lezioni di diritto amministrativo

L’uso del termine “funzione” non è casuale: nel linguaggio giuridico – come spesso nel linguaggio comune – questo termine indica un’attività svolta nell’interesse di soggetti diversi da chi la svolge. Sono funzioni, per esempio, le attività svolte dai genitori (nell’interesse dei figli), dai tutori (nell’interesse dei soggetti con limitata capacità), dagli amministratori di una società o di un condominio (nell’interesse dei soci o dei condomini), dai parlamentari (nell’interesse di tutti i cittadini italiani), dai dipendenti di un comune (nell’interesse dei cittadini di quel comune), dai rappresentanti (che compiono atti nell’interesse dei rappresentati). Come mostrano questi esempi, le funzioni possono essere svolte nell’interesse di singoli soggetti, di tutti i soggetti appartenenti a una determinata categoria, o di tutti i cittadini; possono essere attribuite dagli interessati (come i soci di una società, che nominino gli amministratori), da organi pubblici (come un giudice, che nomini il tutore per un soggetto con limitata capacità), o direttamente dalla legge (come nel caso dei genitori, i cui obblighi nei confronti dei figli sono enunciati dal Codice civile). Si può distinguere, a rischio di qualche incertezza o imprecisione nel confine tra le due categorie, tra le funzioni pubbliche e quelle private: le prime spettanti a uffici pubblici, come il Parlamento, i giudici e le pubbliche amministrazioni; le seconde spettanti a uffici privati, come gli amministratori di una società o il tutore di un minore di età. Le funzioni amministrative rientrano ovviamente tra le funzioni pubbliche, insieme alla funzione legislativa (che è propria del Parlamento nazionale e dei consigli regionali) e a quella giurisdizionale (che è propria dei giudici). Ma, come mostrato dall’uso del plurale, le funzioni amministrative sono alquanto diverse da esse. La funzione legislativa e quella giurisdizionale sono attribuite (oltre che disciplinate) in termini generali da norme contenute nella Costituzione stessa, nei regolamenti parlamentari e nei codici; esse, inoltre, si svolgono sempre negli stessi modi (attraverso il procedimento legislativo e i processi giurisdizionali, con le loro limitate varianti). Le funzioni amministrative, invece, sono attribuite da tante norme diverse, contenute in tanti atti normativi, e si svolgono in modi estremamente eterogenei. In altri termini, le funzioni amministrative sono tante e diverse, e ciascuna ha la propria disciplina: vi sono funzioni (e amministrazioni competenti) in materia di scuola, di sanità, di ordine pubblico, di urbanistica, di credito, di commercio e così via. Quanto appena osservato spiega perché la teoria del diritto amministrativo si compone di una “parte generale” e di una “parte speciale”: come nel diritto penale alla teoria generale del reato si aggiunge la teoria dei singoli reati, così nel diritto amministrativo a questioni generali, come quelle relative all’organizazione amministrativa, al pubblico impiego e al procedimento amministrativo, si aggiungono quelle relative ai singoli settori in cui le pub-

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bliche amministrazioni svolgono la loro attività. La parte speciale del diritto amministrativo risulta quindi da discipline di settore, come il diritto scolastico, il diritto sanitario, il diritto urbanistico, il diritto di polizia, il diritto degli enti locali, il diritto dei servizi pubblici, il diritto dell’ambiente e molti altri. È, evidentemente, una materia molto ampia. Proprio per questa ampiezza, ci si limita di regola a studiare la parte generale, che è quella che si trova nei manuali di diritto amministrativo. La parte speciale e, quindi, lo studio delle singole funzioni sono lasciati agli specialisti di ciascun settore. Occorre però tener presente, anche nello studio della parte generale, che il diritto amministrativo serve a disciplinare lo svolgimento delle funzioni, cioè delle attività svolte dalle amministrazioni nell’interesse dei cittadini: se non lo si tiene presente, non ci si rende conto di alcuni caratteri e princìpi fondamentali del diritto amministrativo.

1.2. LA TIPOLOGIA Prima di lasciare da parte le singole funzioni amministrative, cioè la “parte speciale” del diritto amministrativo, per concentrarsi sulle questioni generali, è bene procedere almeno a una rapida classificazione di esse per materia, per evitare che la “parte generale” appaia un insieme di forme a cui non corrisponde una sostanza: la sostanza del diritto amministrativo sono le funzioni delle amministrazioni. Ogni classificazione è arbitraria, e lo è a maggior ragione per le funzioni amministrative, che coprono quasi ogni aspetto della vita dei cittadini. Né vi è una classificazione legislativa consolidata, anche se ci sono alcuni importanti atti normativi che contengono cataloghi di funzioni, al fine di distribuirle tra le diverse amministrazioni (tra i quali il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che ripartisce le competenze legislative e amministrative tra Unione e Stati membri, e il decreto legislativo n. 112 del 1998, che le ripartisce tra Stato, regioni ed enti locali), e c’è una consolidata classificazione a fini statistici, che tuttavia è una classificazione delle spese pubbliche piuttosto che delle funzioni (Classificazione internazionale della spesa pubblica per funzione-Cofog). In base al rapporto che si instaura tra amministrazioni e cittadini e in base ai tipi di attività in cui esse prevalentemente si esplicano, le funzioni vengono spesso distinte nei seguenti gruppi: funzioni di ordine, funzioni del benessere, funzioni attinenti al lavoro, funzioni attinenti alla cultura e all’informazione, governo del territorio, servizi pubblici, disciplina dell’economia. Le funzioni di ordine sono quelle relative all’ordine e alla sicurezza pub-

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blica, alla difesa militare, all’amministrazione della giustizia, alle strutture penitenziarie, all’intelligence, agli affari esteri, nonché ai servizi anagrafici e di stato civile, ai registri immobiliari, alla statistica e al servizio meteorologico. Tra queste vi sono le funzioni più risalenti dello Stato, quelle che sono sempre state svolte dai pubblici poteri, in quanto necessarie per l’ordinata convivenza e per la sicurezza dei rapporti tra i cittadini. Molte di esse sono strettamente legate alla sovranità dello Stato, ragione per la quale esse spettano di regola alle amministrazioni statali, con esclusione di quelle di dimensione inferiore (con qualche eccezione, come lo svolgimento dei servizi anagrafici da parte dei comuni) e di quelle di dimensione superiore (anche qui con qualche eccezione, legata soprattutto alla politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea). In queste materie, le amministrazioni adottano spesso decisioni unilaterali, che si impongono ai destinatari, sacrificando i loro interessi: vi rientrano, tipicamente, atti come gli ordini e le sanzioni. Queste funzioni spesso richiedono l’uso della forza da parte delle pubbliche amministrazioni e la limitazione della libertà dei cittadini: è per questo che il loro svolgimento è circondato da garanzie (per esempio, la necessaria previsione di ciascun provvedimento amministrativo da parte della legge) e controlli (in particolare, da parte dei giudici). Garanzie e controlli sono in parte previsti dalla Costituzione, che nei confronti di queste funzioni assume un atteggiamento di limitazione, a garanzia dei cittadini. Altra caratteristica di queste funzioni è il consistere nell’erogazione di prestazioni indivisibili alla collettività: beni come la sicurezza pubblica e la difesa militare sono, secondo la teoria economica, “beni pubblici puri”, nel senso che non possono essere fruiti che collettivamente da tutti i cittadini. Hanno spesso destinatari determinati, invece, le prestazioni che vengono erogate ai cittadini nell’ambito delle funzioni del benessere: sono quelle attinenti alla sanità e all’igiene pubblica, all’istruzione, alla previdenza e all’assistenza sociale, ai servizi sociali, allo sport, al tempo libero, alla protezione civile. Si tratta di funzioni storicamente più recenti rispetto alle precedenti, ma ormai determinanti in ordine al volume di attività delle pubbliche amministrazioni, dato che assorbono la maggior parte delle loro risorse umane e finanziarie: basti pensare che circa un terzo dei dipendenti pubblici italiani lavora nel settore scolastico, che la previdenza sociale è ampiamente la più grande voce di spesa pubblica e che la maggior parte delle entrate delle regioni serve a coprire le spese del Servizio sanitario. Piuttosto che nell’adozione di decisioni, che si impongono ai cittadini, queste funzioni si esplicano principalmente in prestazioni offerte ai cittadini. Lo svolgimento di queste funzioni risponde al principio di “eguaglianza sostanziale” enunciato dalla Costituzione: favorire il «pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e

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sociale del Paese» rimuovendo «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto l’eguaglianza e la libertà dei cittadini», li impediscono. Riguardo a queste funzioni, la Costituzione assume un atteggiamento di promozione, con vari articoli che ne impongono lo svolgimento. Naturalmente, trattandosi di erogare prestazioni costose, il principale problema che queste funzioni pongono è quello di trovare il giusto equilibrio tra l’aspirazione universalistica (cioè ad assicurare buoni livelli di prestazioni a tutti) e la selettività che è imposta dall’esigenza di contenimento della spesa. Tra le funzioni attinenti al lavoro rientrano quelle relative al mercato del lavoro, all’immigrazione e all’emigrazione, alle professioni, ai rapporti sindacali, alla sicurezza del lavoro e alla formazione professionale. Anche queste funzioni hanno un solido fondamento nella Costituzione, che già nei primi articoli contiene diversi riferimenti al lavoro e al diritto al lavoro, il quale viene tutelato anche da ulteriori articoli, sotto diversi aspetti: l’adeguatezza della retribuzione, l’orario di lavoro, le ferie e il riposo settimanale, il lavoro delle donne e dei minori, la salute dei lavoratori, le relazioni sindacali, lo sciopero. Le funzioni amministrative consistono, innanzitutto, nel controllo sul rispetto della disciplina in materia, per esempio con ispezioni nei luoghi di lavoro e con l’irrogazione di sanzioni per le relative violazioni; in secondo luogo, in interventi sul mercato del lavoro, cioè in attività volte a favorire la creazione di nuovi posti di lavoro e l’incontro di domanda e offerta; in terzo luogo, in interventi di natura previdenziale, per esempio di sostegno al reddito nel caso di perdita del posto di lavoro o rischio di licenziamento. Naturalmente, i diritti e le tutele sono predisposti non solo a favore dei lavoratori del settore privato, ma anche a favore dei dipendenti pubblici: la particolarità delle pubbliche amministrazioni come datori di lavoro, peraltro, determina notevoli differenze nella disciplina dei relativi rapporti di lavoro. Sono tutelati, poi, sia il lavoro autonomo sia quello subordinato: il primo, peraltro, è sempre più spesso trattato dalle norme – soprattutto per effetto del diritto europeo – alla stregua di attività di impresa, con quanto ne consegue in termini di promozione della concorrenza. Attengono alla cultura e all’informazione le funzioni in materia di università, ricerca scientifica, archivi, beni culturali, arte, spettacolo, editoria, informatica. Anche esse trovano fondamento in diversi articoli della Costituzione, che attribuiscono alle istituzioni pubbliche il compito di promuovere lo sviluppo e la diffusione della cultura, cioè garantire le condizioni perché questa possa formarsi. Per queste funzioni si pone un problema particolarmente delicato relativo al ruolo dello Stato, che non deve essere quello di creare cultura, ma di favorire il suo libero sviluppo: è per questo che la Costituzione enuncia anche princìpi come quello della libertà dell’arte e della scienza, nonché del loro insegnamento e dell’autonomia delle istituzioni di

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alta cultura, delle università e delle accademie. Acquistano un particolare rilievo in questa materia, inoltre, princìpi come quello della libertà di manifestazione del pensiero, a cui viene ricondotto anche il diritto di essere informati, con quanto ne consegue in termini di pluralismo (anche nei mezzi di informazione). Fermi questi princìpi, le istituzioni di cultura, di istruzione e di informazione possono essere pubbliche e private. In materia scolastica, in particolare, la Costituzione afferma la libertà dei privati di istituire scuole, ma chiarisce che devono esservi scuole statali per tutti gli ordini e gradi di istruzione. In queste materie, dunque, il ruolo delle pubbliche amministrazioni è sia di diretto svolgimento di attività (di insegnamento, di ricerca, di informazione e simili), sia di vigilanza, perché siano garantite le condizioni di libertà e pluralismo e sia assicurato il corretto svolgimento delle attività indicate. In materia di informatica, negli ultimi anni l’evoluzione tecnologica induce le pubbliche amministrazioni ad assumere un ruolo di promozione e predisposizione di strutture di uso comune, come le reti di trasmissione dei dati, e di prestazione di servizi, come quelli inerenti all’identità digitale e al domicilio digitale. Al governo del territorio ineriscono le funzioni relative all’urbanistica, all’edilizia, alla circolazione stradale, al paesaggio, alla tutela dell’ambiente. Le previsioni costituzionali, in materia, sono meno numerose, ma vi è un’abbondante legislazione che attribuisce alle amministrazioni importanti compiti volti alla conservazione e all’uso equilibrato delle risorse naturali, oltre che alla sicurezza dei cittadini. Alcune di queste discipline risalgono alla prima metà del Novecento: la legislazione urbanistica italiana, in particolare, è stata un modello per molti paesi. Altre discipline, come quella in materia ambientale, si sono sviluppate invece negli ultimi decenni. Queste funzioni si esplicano innanzitutto nell’adozione, da parte delle amministrazioni, di atti normativi o generali, come i regolamenti edilizi e i piani urbanistici: atti rivolti indistintamente a tutti i cittadini, ai quali sono imposte varie prescrizioni. Questi atti danno spesso luogo a fenomeni di pianificazione: l’esempio migliore è quello dei piani urbanistici, che a vari livelli regolano l’uso del territorio ripartendolo in zone, delle quali definiscono le caratteristiche e le linee di sviluppo. Le decisioni delle amministrazioni sono rivolte alla generalità dei cittadini, ma incidono in modo particolare sugli interessi di determinati soggetti, che vivano o operino nelle relative zone: è per questo che, nei procedimenti volti all’adozione dei relativi atti, è ampiamente consentita la partecipazione dei soggetti interessati, ai quali è data la possibilità di far valere i propri interessi e di formulare proposte e osservazioni. I servizi pubblici sono quelli inerenti all’energia elettrica, ai trasporti, alle poste, alle telecomunicazioni, all’acqua. Di regola, essi costituiscono attività private, svolte in forma d’impresa, e non funzioni amministrative: il ruolo dei

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pubblici poteri consiste non nell’erogazione del servizio, ma nell’imposizione di regole e controlli che assicurino il soddisfacimento dei relativi interessi pubblici. Questo è – almeno al livello nazionale – il modello normale, a seguito dell’evoluzione degli ultimi decenni, che ha determinato una profonda modifica del regime giuridico dei servizi pubblici. In precedenza, la gestione dei servizi pubblici era spesso pubblica: i gestori erano pubbliche amministrazioni, parti dell’organizzazione amministrativa statale o di quella comunale, anche se spesso organizzati in forma di azienda. Al livello nazionale, questo modello è stato superato con la liberalizzazione delle relative attività (che possono ora essere svolte da soggetti privati) e con la privatizzazione dei gestori pubblici (cioè con la loro trasformazione da enti pubblici o aziende autonome a società per azioni). Esso, peraltro, è ancora diffuso – ma in via di superamento, nonostante forti resistenze – al livello locale, per i servizi di competenza dei comuni, i quali ne mantengono spesso la gestione in regime di monopolio, attraverso società da essi possedute: in questi casi, la gestione dei servizi si avvicina allo svolgimento di funzioni amministrative. Nel modello della gestione privata, affidata a una pluralità di imprese in regime di concorrenza, le funzioni amministrative consistono essenzialmente nella definizione di regole e nello svolgimento di controlli, volti a garantire l’assetto concorrenziale del mercato e la tutela degli utenti. Infine, l’ultimo gruppo di funzioni attengono a materie alquanto eterogenee, che possono essere ricondotte alla disciplina dell’economia: moneta, agricoltura, caccia, pesca, commercio, artigianato, industria, credito, assicurazioni, intermediazione mobiliare, turismo, tutela della concorrenza, tutela dei consumatori. La Costituzione contiene varie previsioni al riguardo: alcune generali, volte a tutelare la libertà d’impresa, altre relative ai singoli settori dell’economia. Su questa materia più ancora che su altre, peraltro, incide in modo decisivo il diritto europeo, che ha determinato sostanziali modifiche nella “costituzione economica” italiana, ora maggiormente ispirata al principio della concorrenza e alla riduzione dei controlli pubblici. Le funzioni delle pubbliche amministrazioni consistono innanzitutto nel controllo sul corretto svolgimento dell’attività d’impresa, a tutela dell’interesse pubblico (cioè a tutela dei clienti o consumatori, dell’ambiente, della sicurezza pubblica, dell’igiene e così via). Questo controllo può essere preventivo (quando la legge richiede un’autorizzazione amministrativa per lo svolgimento dell’attività in questione) o successivo (con analisi, ispezioni, richieste di documenti). Le amministrazioni, poi, svolgono spesso un ruolo di sostegno e promozione nei confronti delle imprese. Le sovvenzioni, però, ormai sono spesso escluse dal diritto europeo, che vieta gli “aiuti di stato” alle imprese. Il diritto europeo fa anche sì che le imprese dei diversi stati si confrontino in un unico mercato, consentendo per esempio che le

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autorizzazioni rilasciate in uno stato membro producano effetti anche negli altri (“mutuo riconoscimento”).

1.3. L’AMBITO Le pubbliche amministrazioni, dunque, svolgono attività nell’interesse pubblico. Può trattarsi di un interesse condiviso da tutti i cittadini, come quello alla sicurezza o alla tutela dell’ambiente, o di un interesse proprio di singoli gruppi di cittadini, come gli anziani o gli automobilisti. In ogni caso, si tratta di un interesse che l’ordinamento tende a realizzare, predisponendo i mezzi per il suo soddisfacimento: non vi è, quindi, la sostituzione di una figura soggettiva a un’altra nella cura di un interesse della seconda, come avviene spesso nel caso delle funzioni private (si pensi al caso del tutore o del curatore), ma la cura di un interesse ritenuto rilevante per l’intera collettività. Ma quali sono gli interessi pubblici? E, quindi, quali funzioni devono essere svolte dalle amministrazioni? E quali altre attività devono essere lasciate all’iniziativa privata? Per esempio, le pubbliche amministrazioni devono preoccuparsi dell’istruzione dei giovani e della cura dei malati o è meglio che scuole e ospedali siano privati, magari sostenuti da finanziamenti pubblici? I servizi pubblici, come quelli di trasporto, di telecomunicazione o di fornitura di energia o di acqua, devono essere gestiti da amministrazioni pubbliche? E queste ultime possono svolgere attività d’impresa, per esempio il credito o il commercio? Devono gestire direttamente i servizi strumentali, come la pulizia e la vigilanza degli edifici pubblici, o affidarli a operatori privati? L’ambito delle funzioni amministrative varia notevolmente nel tempo: la tutela della salute e del lavoro hanno cominciato a essere considerate interessi pubblici solo nel corso del ventesimo secolo, quando sono state costituite le relative amministrazioni; la tutela dell’ambiente ha cominciato a esserlo, e il relativo Ministero è stato costituito, solo nell’ultima parte dello stesso secolo; la gestione dei servizi pubblici è stata assunta dalle amministrazioni pubbliche per una fase storica, per poi essere nuovamente lasciata ai privati. La valutazione in ordine all’esigenza di tutela di un interesse pubblico, che è alla base della costituzione di una pubblica amministrazione e dell’attribuzione a essa di una funzione, è normalmente operata da un organo politico e trasposta in atti come la Costituzione, gli statuti degli enti territoriali, le leggi, i programmi di governo, gli atti di indirizzo degli organi di vertice delle amministrazioni. Nell’operare questa valutazione, gli organi competenti devono chiedersi non solo se un certo interesse sia meritevole di tutela, ma anche se il modo migliore per tutelarlo richieda il coinvolgimento di una pubblica amministrazione.

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Le funzioni amministrative riflettono una tecnica di cura degli interessi pubblici caratterizzata dallo sdoppiamento della cura dell’interesse in due momenti: il primo è una valutazione della necessità di curare l’interesse, che si riflette nella norma che individua la funzione; il secondo è lo svolgimento della funzione amministrativa stessa. Da questo punto di vista, molte norme di diritto amministrativo si distinguono da quelle di diritto civile o di diritto penale: queste sono – per così dire – autosufficienti, in quanto, una volta emanate, non è fisiologicamente necessaria alcuna ulteriore attività per il soddisfacimento dell’interesse (che è soddisfatto, per esempio, dalla previsione della nullità dei contratti contrari a norme imperative o dalla previsione di una pena per la commissione di reati), salvo ovviamente l’intervento del giudice nell’ipotesi patologica di violazione della norma. Le norme che attribuiscono funzioni amministrative, invece, non possono funzionare da sole, non possono basarsi sul semplice rispetto di esse da parte dei cittadini: per ottenere il risultato di soddisfare l’interesse pubblico (per esempio, per assicurare un uso accettabile del territorio, o per tutelare la salute dei cittadini) non è sufficiente la norma (che preveda i piani urbanistici o istituisca il Servizio sanitario nazionale), ma è necessario lo svolgimento delle proprie funzioni da parte dell’amministrazione (la concreta elaborazione dei piani urbanistici, le autorizzazioni edilizie, la prevenzione e la cura delle malattie). La diversità di tecniche di tutela degli interessi, peraltro, non riflette necessariamente una diversità intrinseca degli interessi tutelati: infatti a volte lo stesso risultato (per esempio, quello di evitare che determinate attività private si svolgano in contrasto con l’interesse pubblico) può essere soddisfatto in modi diversi (nell’esempio, attraverso un regime autorizzatorio, attraverso divieti assistiti da sanzioni penali o amministrative, attraverso la responsabilità civile o in tutti questi modi insieme). La scelta e la combinazione delle diverse tecniche di cura degli interessi pubblici dipende, dunque, non solo dalla natura degli interessi, ma anche da vari altri fattori: l’efficacia delle varie tecniche, le risorse disponibili, la diversa incidenza sulle libertà dei cittadini e così via. Il problema della definizione dei confini delle funzioni amministrative si pone anche in termini di distinzione dalle altre funzioni pubbliche, quella legislativa e quella giurisdizionale. Dal punto di vista formale il problema non si pone, ma dal punto di vista sostanziale la distinzione è spesso molto sfumata. Decisioni amministrative, estremamente concrete in quanto rivolte a risolvere specifiche situazioni, sono spesso prese in forma legislativa, così come alle amministrazioni sono spesso affidati rilevanti poteri normativi. Dal punto di vista formale la differenza è netta, perché gli atti delle pubbliche amministrazioni sono atti amministrativi, soggetti al controllo dei giudici,

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che possono annullarli se li considerano contrari alla legge; le leggi, invece vincolano i giudici. Dal punto di vista sostanziale, però, alcuni atti amministrativi hanno contenuto più generale e più astratto di molte leggi. Similmente, ai giudici sono spesso affidate funzioni amministrative, mentre molti organi amministrativi hanno funzioni di garanzia e applicazione della legge, analoghe a quelle dei giudici (così le autorità indipendenti, i difensori civici, gli organi di fronte ai quali vengono proposti ricorsi amministrativi). Anche qui, dal punto di vista formale vi è una distinzione netta, che dipende in parte dalle scelte della Costituzione. Per reagire alle limitazioni dei diritti perpetrate durante il fascismo, infatti, la Costituzione ha stabilito che contro tutti gli atti amministrativi è sempre ammesso il ricorso al giudice e ha vietato la costituzione di giudici speciali. La conseguenza è che vi è un confine netto tra i giudici e le amministrazioni: i primi giudicano la legittimità degli atti delle seconde; le seconde, indipendentemente dalle funzioni che abbiano, non possono essere giudici e i loro atti sono sempre soggetti al controllo dei giudici. Ciò non toglie che, spesso, le loro funzioni siano analoghe a quelle dei giudici stessi.

1.4. I CARATTERI Un primo carattere delle funzioni amministrative è che, in esse, tutto tende a essere giuridicamente rilevante: gli atti, i loro effetti, i soggetti che li hanno posti in essere, i motivi per cui lo hanno fatto e così via. Non così nel diritto privato: si pensi, per esempio, all’attività compiuta dai genitori nell’esercizio della potestà sui figli, che solo eccezionalmente è soggetta a controlli, o a quella svolta dal rappresentante nell’interesse del rappresentato, riguardo alla quale l’ordinamento tende a disinteressarsi dell’efficace perseguimento dell’interesse in questione. Nel diritto amministrativo, assumono rilievo non solo l’attività amministrativa, ma anche gli altri elementi dell’amministrazione: l’organizzazione, il personale, i beni e la finanza. Anche in questo, le funzioni amministrative si distinguono da quelle private: l’organizzazione e i mezzi con i quali il tutore e l’esecutore testamentario provvedono ai loro compiti, per esempio, sono giuridicamente irrilevanti. Altro carattere delle funzioni amministrative è di avere, in genere, natura permanente. Mentre le funzioni private sono spesso legate a situazioni eccezionali (come l’incapacità del titolare dell’interesse, che viene quindi sostituito) o finalizzate al raggiungimento di uno scopo concreto (come l’esecuzione delle disposizioni testamentarie), quelle amministrative esistono indipendentemente dai concreti episodi di amministrazione: una volta che un interesse è

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qualificato come rilevante per la collettività, e quindi oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, esso viene perseguito dall’amministrazione a ciò preposta fino a quando non intervenga una diversa valutazione. Un ulteriore carattere è dato dal fatto che le funzioni amministrative – a differenza di quelle private, le quali spesso sono assunte volontariamente – trovano sempre il loro fondamento in una norma che richiede all’amministrazione di svolgere la relativa attività. L’individuazione delle funzioni amministrative svolte dalle diverse amministrazioni è quindi un’operazione interpretativa, che può non essere facile. D’altra parte, una simile individuazione è contenuta, sia pure genericamente, già nelle norme che definiscono l’attribuzione e la competenza delle amministrazioni e degli uffici: in queste norme, quindi, le funzioni amministrative trovano la loro base o la loro giustificazione. Da quanto precede derivano due ulteriori caratteristiche delle funzioni amministrative: esse sono soggette a una disciplina analitica e a un insieme di controlli particolarmente penetranti. La disciplina delle funzioni amministrative consiste sia in norme generali, sia in norme relative alle singole funzioni (cap. 4). Le prime si trovano a diversi livelli nella gerarchia delle fonti, o sono state elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, e agiscono in modi diversi. Le seconde sono disperse in migliaia di leggi e regolamenti amministrativi. Per quanto riguarda gli strumenti di controllo sullo svolgimento delle funzioni, quello principale è il sindacato svolto dal giudice amministrativo sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi (cap. 20). Altre particolarità delle funzioni amministrative riguardano le forme dell’attività in cui esse consistono. Innanzitutto, esse si esplicano in una notevole varietà di modi (cap. 13). Anche se si può individuare nel provvedimento amministrativo l’atto “tipico” di svolgimento delle funzioni (cap. 17), a esso vanno aggiunte varie altre forme dell’attività amministrativa, come quella contrattuale (cap. 15) e quella materiale. In ciò, ovviamente, le funzioni amministrative si distinguono da quella legislativa e da quella giurisdizionale, che vengono svolte attraverso pochi atti tipici e i relativi procedimenti.

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CAPITOLO 2 IL DIRITTO AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 2.1. Le ragioni del diritto amministrativo. – 2.2. La specialità del diritto amministrativo. – 2.3. Le tecniche di disciplina delle funzioni amministrative. – 2.4. I caratteri del diritto amministrativo.

2.1. LE RAGIONI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO Nel capitolo precedente si è osservato che le funzioni amministrative trovano fondamento in previsioni normative, che esse sono soggette a regole diverse da quelle dettate per l’attività dei soggetti privati e che queste regole danno luogo a una disciplina complessivamente più analitica e pervasiva di quella a cui è soggetta l’attività dei privati. Questa disciplina costituisce il diritto amministrativo, che è dunque il complesso di regole volte a disciplinare, in vari modi, lo svolgimento delle funzioni amministrative. Occorre ora esaminare i caratteri del diritto amministrativo, cominciando con l’interrogarsi sulle ragioni della sua esistenza. Perché alle pubbliche amministrazioni si applica, almeno in parte, un diritto diverso da quello che si applica agli altri soggetti e ai rapporti tra essi? Perché la Costituzione, le leggi e – come si vedrà in seguito – anche i giudici si sforzano di elaborare norme specifiche per le pubbliche amministrazioni? Perché sono necessarie norme che individuano le funzioni amministrative e le distribuiscono tra le amministrazioni? Perché l’attività amministrativa è soggetta a regole e controlli particolari? Perché esistono i giudici amministrativi? E perché sono necessarie norme organizzative? Non potrebbero le pubbliche amministrazioni organizzarsi come le imprese private? Non potrebbero i loro dipendenti essere soggetti alle leggi sul lavoro privato? Esse

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non potrebbero agire applicando le previsioni del Codice civile? Ed essere soggette ai controlli e ai giudici che l’ordinamento giuridico predispone per i privati? In altri termini: a che cosa serve il diritto amministrativo? Se ne può fare a meno? Questi interrogativi sono spesso stati posti e in certi tempi e luoghi all’ultima domanda si è risposto positivamente. Per esempio, l’esistenza dei giudici amministrativi è spesso contestata e di fatto essi mancano in alcuni paesi (nei quali, peraltro, vi sono sezioni specializzate dei giudici ordinari, giudici speciali o organi amministrativi competenti per risolvere alcune controversie tra amministrazioni e cittadini). Più in generale, si è a volte ritenuto che il diritto amministrativo non fosse necessario e che vi fossero ordinamenti “a diritto amministrativo” (come quelli dell’Europa continentale) e ordinamenti “a diritto comune”, cioè nei quali l’attività delle pubbliche amministrazioni e i suoi rapporti con i privati fossero regolati dal diritto privato (come quelli anglosassoni). Questa tesi dei due modelli di Stato è stata a lungo diffusa anche nella scienza giuridica italiana. In realtà, il diritto amministrativo esiste in tutti gli Stati occidentali, anche se in molti di essi è stato riconosciuto e studiato prima e in altri dopo. Un sistema di norme speciali per le pubbliche amministrazioni è necessario per diverse ragioni. Innanzitutto, perché lo svolgimento delle funzioni amministrative richiede spesso l’esercizio di poteri particolari, sconosciuti al diritto privato. Per esempio, a volte le amministrazioni preposte alla cura della sicurezza pubblica devono usare la forza nei confronti di chi viola la legge, mentre l’uso della forza è normalmente precluso ai privati. Le forze dell’ordine possono anche dover limitare la libertà personale, come nel caso dell’arresto di un criminale o di un disertore o dell’accompagnamento forzato di un testimone. Similmente, per la realizzazione di opere pubbliche può essere necessario espropriare un bene altrui, cosa che non può essere fatta per perseguire un interesse privato. Vi sono molti ulteriori poteri tipici delle pubbliche amministrazioni e preclusi ai privati, come quello di imporre ordini e divieti (come quelli connessi all’attività edilizia o alla circolazione stradale) e quello di effettuare controlli e ispezioni per verificarne il rispetto. In tutte queste ipotesi le pubbliche amministrazioni hanno poteri “esorbitanti” (rispetto al diritto privato), dei quali i privati non possono essere titolari. Il diritto amministrativo serve, in primo luogo, per attribuire questi poteri, quindi per dare alla pubblica amministrazione gli strumenti necessari per lo svolgimento delle sue funzioni. Esso serve, in secondo luogo, per limitare questi poteri, cioè per evitare che l’amministrazione ne abusi: le norme di diritto amministrativo non si limitano ad attribuire i poteri, ma anche a disciplinarne l’esercizio, ponendo regole sostanziali e procedurali sulla formazione delle de-

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cisioni dell’amministrazione e prevedendo controlli. E, come si mostrerà nelle pagine successive, le norme di diritto amministrativo a volte escludono determinati poteri, impedendo alla pubblica amministrazione di prendere determinate decisioni e di porre in essere determinati comportamenti. Dunque, il diritto amministrativo serve sia ad attribuire alle pubbliche amministrazioni particolari poteri nei confronti dei privati, sia a tutelare i privati nei confronti delle amministrazioni, assicurando che i poteri in questione siano esercitati in modo corretto. Da un lato, esso è uno strumento dell’autorità (della pubblica amministrazione), dall’altro è un presidio della libertà (dei privati). Ma il diritto amministrativo non è solo il diritto del rapporto autoritàlibertà. Esso serve anche a disciplinare l’uso delle risorse delle pubbliche amministrazioni. Le funzioni di queste ultime non consistono solo nell’adozione di misure restrittive, ma anche nella prestazione di servizi a favore dei cittadini, che implicano l’uso di risorse umane e finanziarie. Poiché si tratta di funzioni svolte nell’interesse dei cittadini e finanziate con i loro tributi, sono necessari strumenti per far sì che esse siano svolte correttamente. Gran parte del diritto amministrativo serve a disciplinare l’uso di queste risorse: per esempio, a regolare lo svolgimento dell’attività di istruzione nelle scuole e nelle università o delle attività sanitarie negli ospedali, a imporre regole organizzative e di comportamento agli insegnanti e ai medici, a verificarne il rispetto, a individuare coloro che hanno diritto alle relative prestazioni (o l’obbligo di fruirne), a stabilire gli eventuali contributi a loro carico, a prevedere controlli sul rispetto delle norme e sulle prestazioni di medici e insegnanti e altro ancora. In altri termini, la legittimità e la correttezza dell’operato delle amministrazioni devono essere assicurate anche quando esse emanano atti favorevoli ai destinatari e, più in generale, in ogni loro attività, che deve essere sempre volta al perseguimento di interessi pubblici. Queste esigenze di controllo e di tutela danno luogo a un complesso di norme estremamente articolato, a numerose garanzie per i cittadini e a diverse forme di condizionamento sull’attività delle amministrazioni. Anche quando gestiscono risorse pubbliche, peraltro, le amministrazioni pubbliche esercitano poteri e adottano decisioni: decidono se attribuire o meno un certo beneficio a un richiedente, se finanziare una certa iniziativa culturale, a chi affidare l’uso di un bene pubblico, da quale offerente comprare un bene, quale candidato assumere per un impiego pubblico, quale deve essere l’orario di apertura di una biblioteca o di un giardino pubblico, quale l’importo di una pensione di vecchiaia o di un’indennità di accompagnamento per un disabile. Queste decisioni sono molto diverse tra loro e da quelle mediante le quali si adottano misure restrittive nei confronti dei de-

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stinatari, ma tutte hanno in comune il fatto che l’amministrazione esercita un potere, soggetto a regole e controlli particolari. Il diritto amministrativo, dunque, è volto principalmente a disciplinare l’esercizio dei poteri delle amministrazioni, sia nei rapporti con i privati e tra loro, sia nella loro organizzazione interna. Le regole e i controlli, a cui l’ordinamento assoggetta l’esercizio di questi poteri, danno luogo a un regime giuridico, che si sintetizza con l’espressione “potere amministrativo” (cap. 14). Le regole riguardano sia le modalità di formazione delle decisioni (cap. 15), sia il loro contenuto e i loro effetti (cap. 15). I controlli sono sia di tipo amministrativo (cap. 19), sia di tipo giurisdizionale: il giudice amministrativo è il giudice del potere amministrativo (cap. 20). Queste regole e questi controlli sono necessari anche quando le amministrazioni organizzano i propri uffici (cap. 8), gestiscono il proprio personale (cap. 9) e i propri beni (cap. 11), riscuotono o spendono soldi (cap. 12), nonché quando concludono contratti (cap. 18).

2.2. LA SPECIALITÀ DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO Vi è anche un’altra ragione per l’esistenza del diritto amministrativo. Esso è caratterizzato dall’asimmetria. Il diritto privato è normalmente ispirato a una logica paritaria, tende ad assicurare il bilanciamento tra gli interessi dei diversi soggetti: si pensi alla disciplina del contratto, volta a realizzare l’equilibrio tra le prestazioni delle parti e a impedire che una parte si avvantaggi eccessivamente rispetto all’altra. Il diritto amministrativo, invece, tende a far prevalere alcuni interessi (quelli pubblici) su altri: non a preservare un certo assetto di interessi, ma a modificarlo. Ciò vale sia per i provvedimenti favorevoli ai destinatari, sia per quelli a essi sfavorevoli. Dal primo punto di vista, l’esempio dell’espropriazione è eloquente: nessuno può essere costretto a rinunciare a un proprio bene a favore di un altro soggetto privato (salvo il caso del debitore inadempiente), ma chiunque può essere costretto a rinunciarvi a favore della collettività. Dal secondo punto di vista, si pensi alle attività di insegnamento: in un rapporto tra privati, un docente può svolgere la sua attività di insegnamento in cambio di un corrispettivo, e solo a condizione di essere pagato; la disciplina delle funzioni amministrative in materia di istruzione, invece, tende ad assicurare l’insegnamento a tutti, indipendentemente dalla circostanza che possano o vogliano pagare. Similmente, le prestazioni sanitarie e previdenziali sono fornite non a chi le paga, ma a tutti, e gratuitamente, in primo luogo, a chi non è in grado di pagarle.

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Da questo punto di vista, con una certa approssimazione si può dire – usando le categorie aristoteliche – che il diritto privato è ispirato alla giustizia commutativa, in quanto esso tratta tutti i soggetti allo stesso modo e tende ad assicurare il bilanciamento tra ciò che ciascuno dà e ciò che ciascuno riceve, a mantenere l’equilibrio tra le prestazioni; il diritto amministrativo, invece, è ispirato alla giustizia distributiva, in quanto è volto a rimuovere o attenuare le disuguaglianze e persegue determinati interessi, a scapito di altri. Naturalmente, anche nel diritto privato ci sono poteri e ci sono strumenti di garanzia contro il loro abuso e di protezione dei soggetti deboli, così come nel diritto amministrativo ci sono strumenti per limitare la prevalenza di certi interessi e per compensare il sacrificio degli interessi privati. Ma questi meccanismi, spesso simili, si inseriscono in un quadro volto non a mantenere l’equilibrio tra interessi, ma ad alterarlo. Questa diversa logica di fondo, unitamente alle peculiari esigenze di regolazione e controllo descritte nel paragrafo precedente, è alla base della “specialità” del diritto amministrativo, che è nato per differenziazione rispetto al diritto “comune” relativo ai rapporti giuridici di tutti i soggetti dell’ordinamento, cioè rispetto al diritto privato. Il diritto amministrativo risulta proprio dalle norme che contemplano deviazioni rispetto al regime dei rapporti tra privati. La specialità del diritto amministrativo, peraltro, può essere più o meno marcata, e può accentuarsi o attenuarsi nel tempo. Ciò dipende in buona parte dalle scelte del legislatore, che può decidere di rendere la disciplina dell’organizzazione e dell’attività delle pubbliche amministrazioni più o meno distante da quella privatistica. L’esempio più ovvio è quello del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici: esso può essere soggetto a una disciplina completamente diversa da quella del lavoro privato, posta da norme pubblicistiche, o – almeno in parte – a quella stessa disciplina. Nell’ultimo quindicennio, in questa materia si è avuta una netta attenuazione della specialità, in quanto la disciplina del pubblico impiego è stata ampiamente privatizzata (cap. 9). Simili scelte possono aversi anche in altre materie, come gli acquisti e la gestione dei beni pubblici, nelle quali l’ordinamento può fare affidamento, in proporzioni variabili, su contratti e su provvedimenti amministrativi. Va ancora osservato che le pubbliche amministrazioni non sono soggette soltanto al diritto amministrativo, ma anche al diritto privato: esse sono soggetti di diritto per i quali l’ordinamento giuridico detta regole particolari ma che, per tutto quanto non è disciplinato da queste regole, rimangono soggette a quelle applicabili anche ai soggetti privati. Ciò è particolarmente evidente nei contratti: la maggior parte dei contratti delle pubbliche amministrazioni sono soggetti a norme di diritto amministrativo, che riguardano principalmente la scelta del contraente; altri aspetti del contratto, come le modalità

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di adempimento e le conseguenze dell’inadempimento, sono tendenzialmente regolate dal Codice civile; alcuni contratti, poi, sono del tutto sottratti alle norme di diritto amministrativo e pienamente soggetti al Codice civile. Similmente avviene per quei particolari contratti che sono i contratti di lavoro: il diritto amministrativo ne regola solo alcuni aspetti (come l’accesso, che avviene per concorso), mentre gli altri – soprattutto a seguito della privatizzazione, appena menzionata – rimangono regolati dal diritto del lavoro privato. Similmente avviene, ancora, per le società a partecipazione pubblica, dato che le norme diritto amministrativo regolano principalmente la condotta delle amministrazioni azioniste e in misura minore quella delle società stesse, che per il resto rimangono soggette al diritto privato. In molte discipline, come quelle appena menzionate, i princìpi pubblicistici e quelli privatistici sono compresenti, sicché vi è una continua fusione tra essi.

2.3. LE TECNICHE DI DISCIPLINA DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE Vi sono, dunque, forti ragioni per l’esistenza del diritto amministrativo, come diritto volto a disciplinare lo svolgimento delle funzioni amministrative. Occorre ora esaminare il modo in cui questa disciplina opera, cioè le diverse tecniche di governo delle funzioni amministrative, concentrando inizialmente l’attenzione soprattutto sulle previsioni costituzionali. Un primo modo in cui le norme regolano le funzioni amministrative è, come già ricordato, la previsione delle funzioni stesse: ogni volta che vi è una funzione amministrativa, vi è anche, a monte, una norma che, in modo più o meno esplicito, stabilisce che una certa attività deve essere svolta dalla pubblica amministrazione. Norme del genere sono contenute anche nella Costituzione: la quale stabilisce, per esempio, che la Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi, che essa cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, che essa tutela il credito e il risparmio, che alla previdenza e all’assistenza sociale provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato e così via. Similmente, i trattati europei attribuiscono determinate funzioni all’amministrazione europea, come quella di vigilare sul rispetto delle norme in materia di concorrenza e di sanzionare le violazioni. Naturalmente, la legge ordinaria può ben prevedere ulteriori funzioni: per esempio, può prevedere che nelle strutture scolastiche si svolgano attività ulteriori, oltre a quelle di insegnamento, e può farsi carico di interessi dei quali la Costituzione non si fa carico, per esempio istituendo un nuovo Ministero (come quello per l’ambiente) o una nuova amministrazione di altro tipo (come il Garante per la protezione dei dati personali) perché curino quegli

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interessi. Ad alcuni enti, come lo Stato, le regioni e gli enti locali (che definiamo appunto enti “a fini generali”), la Costituzione e le leggi affidano il compito di curare genericamente gli interessi delle relative collettività, individuando le attività di volta in volta necessarie. In ogni caso, la previsione di funzioni amministrative è espressione di una valutazione politica: come si è riferito nel capitolo precedente, la scelta di assumere come pubblico un certo interesse e di tutelarlo attraverso l’attività dell’amministrazione è una scelta politica, che trova esecuzione nell’attività amministrativa. Un secondo modo in cui le norme incidono sulle funzioni amministrative è, all’opposto, la loro esclusione: a volte, per tutelare la libertà di determinati soggetti, le norme vietano che una certa attività sia svolta da una pubblica amministrazione. La Costituzione contiene simili norme di divieto, per esempio: quando stabilisce che per svolgere una riunione in luogo pubblico o in luogo aperto al pubblico non è richiesto preavviso (di conseguenza sarebbe incostituzionale una legge che richiedesse di avvisare un’amministrazione – o, a maggior ragione, di chiedere la sua autorizzazione – prima di svolgere una riunione); quando esclude che la stampa sia soggetta ad autorizzazioni e censure; quando dispone che l’attività sindacale è libera e che ai sindacati non può essere imposto altro obbligo che la registrazione (di conseguenza sarebbe incostituzionale una legge che attribuisse a una pubblica amministrazione la funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori o dei datori di lavoro, o che sottoponesse a controllo pubblico l’attività sindacale); quando sottrae all’amministrazione determinate decisioni, come quella di limitare la libertà personale di qualcuno (che è riservata al giudice) e quella di imporre un nuovo tributo (che è riservata alla legge). Similmente, la legge ordinaria può escludere determinate funzioni, precedentemente svolte dalle amministrazioni: per esempio, quando dispone la liberalizzazione di un’attività commerciale, prima soggetta ad autorizzazione amministrativa. Anche i trattati europei impongono divieti alle amministrazioni nazionali, come quello di concedere alle imprese aiuti che possano falsare la concorrenza. In terzo luogo, le norme disciplinano l’organizzazione delle amministrazioni preposte allo svolgimento delle funzioni. Anche in questo caso, vi sono alcune norme costituzionali, relative a tutte le amministrazioni o ad alcune di esse: tra le prime, per esempio, quella secondo la quale i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione, e quella secondo la quale agli impieghi con le pubbliche amministrazioni si accede per concorso; tra le seconde, quella – relativa alle sole amministrazioni statali – secondo la quale la legge determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri e quella secondo la quale i comuni, le province e le regioni sono enti

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autonomi con propri statuti. A fronte di queste poche previsioni costituzionali, che – come si vede – rinviano ad altre fonti, vi è un gran numero di leggi, statuti, regolamenti e atti di vario genere che contengono norme relative all’organizzazione delle pubbliche amministrazioni e al rapporto di lavoro dei loro dipendenti. In quarto luogo, le norme provvedono a distribuire le funzioni tra le amministrazioni pubbliche. Anche in questo caso, le previsioni fondamentali sono contenute nella Costituzione, che all’art. 118 detta sia regole di riparto tra le diverse pubbliche amministrazioni, sia regole relative al ruolo dei soggetti privati. Dal primo punto di vista, essa enuncia il principio di sussidiarietà, in base al quale le funzioni amministrative sono allocate al livello più vicino possibile al cittadino, cioè all’ente di minor dimensione territoriale che sia in grado di svolgerle: il comune, in subordine la provincia o la città metropolitana, in ulteriore subordine la regione, infine lo Stato (naturalmente, a ciascuno di questi tipi di ente fanno capo altre amministrazioni, come gli enti pubblici nazionali, le università, le scuole, gli ospedali, le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali). Dunque, l’intervento dell’ente di dimensione maggiore è sussidiario rispetto a quello dell’ente di dimensione minore. Accanto al principio di sussidiarietà, l’art. 118 enuncia anche quello di differenziazione, in base al quale a enti dello stesso tipo possono essere attribuite funzioni diverse, in relazione alla loro capacità di svolgerle (si pensi alla differenza tra un comune con milioni di abitanti e uno con poche centinaia di abitanti), nonché quello di adeguatezza, che è strettamente legato ai primi due. Anche dal secondo punto di vista la Costituzione enuncia il principio di sussidiarietà, che esprime questa volta il rapporto tra le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati: essa prevede che sia favorita l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Se ne può trarre un’indicazione nel senso di dosare prudentemente il ruolo delle pubbliche amministrazioni, valutando di volta in volta se esso è necessario o se l’interesse generale può essere soddisfatto con l’azione dei privati, magari incoraggiata e sostenuta dal settore pubblico. Il principio di sussidiarietà, insieme a quelli di proporzionalità e di attribuzione, si ritrova anche nelle disposizioni dei trattati europei che ripartiscono le competenze, non solo amministrative ma anche legislative, tra Stati membri e Unione. Ancora, vi sono norme generali sull’attività delle pubbliche amministrazioni, cioè regole che si applicano allo svolgimento di tutte le funzioni amministrative. Al riguardo, la Costituzione dice poco, stabilendo solo che i pubblici uffici devono essere organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Ma ci sono altre previsioni fondamentali, come quelle della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che enuncia regole come quelle dell’adozione delle decisioni am-

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ministrative entro un termine ragionevole, della partecipazione degli interessati ai procedimenti volti alla loro formazione, della motivazione delle decisioni stesse, del diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda. Ulteriori regole generali sono contenute in leggi ordinarie: in particolare quelle che disciplinano il procedimento amministrativo, le quali contengono norme come quelle appena enunciate, nonché norme ulteriori, come quelle relative al responsabile del procedimento, agli accordi tra amministrazioni e privati, alla conferenza di servizi, ai requisiti e agli effetti degli atti emanati dalle pubbliche amministrazioni (cap. 15). Norme generali molto importanti sono anche quelle che regolano i contratti della pubblica amministrazione, le quali per alcuni aspetti derogano ampiamente alla disciplina dei contratti tra privati (cap. 18). Come riferito nel capitolo precedente, la teoria del diritto amministrativo si compone di una parte generale e di una parte speciale. La prima risulta dalle regole generali, relative a tutte le funzioni amministrative, di cui si è appena detto. La seconda risulta da regole relative a singole funzioni, a singoli poteri, a singoli procedimenti, che danno luogo a un’ulteriore tecnica di governo delle funzioni amministrative. La prima parte della Costituzione contiene molte previsioni di questo genere: in materia di istruzione, per esempio, essa si occupa della libertà di insegnamento, dell’istruzione pubblica, di quella privata, degli esami di Stato, dell’autonomia degli enti di istruzione, dell’obbligo scolastico e delle borse di studio; in materia sanitaria, essa assicura la tutela della salute, garantisce cure gratuite agli indigenti e regola i trattamenti sanitari obbligatori. Naturalmente, in queste materie e per tutte le altre funzioni amministrative, queste poche previsioni costituzionali trovano applicazione e integrazione in un gran numero di leggi, regolamenti e atti normativi di vario genere. Infine, le norme si preoccupano di predisporre rimedi al cattivo funzionamento delle amministrazioni e di regolare le controversie in cui esse siano coinvolte. Di queste esigenze le norme si fanno carico prevedendo varie forme di controllo e di responsabilità delle amministrazioni, individuando i casi in cui gli atti delle amministrazioni vengono privati dei loro effetti, in quanto contrari alla legge, e disciplinando i processi giudiziari, di cui le amministrazioni siano parti. Anche in questo caso, vi sono alcune norme costituzionali, che trovano attuazione e completamento in leggi ordinarie. La Costituzione enuncia il principio fondamentale del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, che non può essere escluso né limitato; istituisce organi di controllo e giurisdizionali, come il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, ne garantisce l’indipendenza e ne definisce le attribuzioni fondamentali; prevede che le controversie tra le amministrazioni e i privati siano risolte – secondo un criterio di riparto al-

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quanto problematico – a volte dai giudici ordinari, che applicano il Codice di procedura civile, a volte da giudici amministrativi, che applicano norme processuali diverse. Le leggi ordinarie dettano norme molto più analitiche che regolano i requisiti di validità e il regime di invalidità degli atti amministrativi, l’organizzazione e il funzionamento degli organi di controllo e di quelli giurisdizionali, il processo amministrativo, le varie forme di responsabilità delle amministrazioni e dei loro dipendenti.

2.4. I CARATTERI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO Le ragioni della diversità delle funzioni amministrative rispetto all’attività dei privati, appena esposte, sono ovviamente sempre esistite: di conseguenza, le funzioni pubbliche sono sempre state diverse da quelle private. Ma il diritto amministrativo si è sviluppato in epoca relativamente recente. Per rendersene conto, è sufficiente considerare che le prime cattedre di diritto amministrativo furono istituite, e i primi manuali pubblicati, in Francia tra il secondo e il terzo decennio del diciannovesimo secolo, ma solo nell’ultimo trentennio dello stesso secolo la disciplina si consolidò, con il riconoscimento dell’esistenza di un insieme di princìpi diversi da quelli propri del diritto privato. Questo riconoscimento è legato, da un lato, all’esistenza di uno Stato unitario e accentrato (condizione che si verificò in quel periodo storico anche in Italia e in Germania) e, dall’altro, all’istituzione di un giudice speciale, capace di individuare questi princìpi e di svilupparne di ulteriori nella risoluzione delle controversie tra amministrazioni e cittadini: il giudice in questione fu il Consiglio di Stato, il quale, nato come organo consultivo, divenne giudice amministrativo in Francia nel 1872 e in Italia nel 1889. L’assunzione di funzioni giurisdizionali, da parte di esso, diede un impulso decisivo alla consapevolezza della specificità del diritto da esso applicato, alla riflessione scientifica su di esso e al relativo insegnamento. Un primo carattere del diritto amministrativo, dunque, è la sua giovane età, evidente se si considera che il diritto privato è il risultato di un’evoluzione millenaria. Un secondo carattere è proprio la sua genesi, che è in parte legislativa e in parte giurisprudenziale. Il ruolo dei giudici, nella formazione del diritto amministrativo, è stato decisivo in quanto essi non hanno soltanto interpretato e specificato le previsioni legislative, ma le hanno anche integrate con regole ulteriori e ne hanno tratto princìpi generali, che costituiscono parte della “ossatura” del diritto amministrativo. Princìpi come quello di parità di trattamento e quello di proporzionalità (cioè di equilibrio tra il fine e lo strumento utilizzato per raggiungerlo) non sono stati mai enunciati dalla

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legge, ma sono stati sempre applicati dai giudici. Similmente, le regole sugli effetti degli atti amministrativi e sulle conseguenze della loro invalidità sono frutto dell’elaborazione giurisprudenziale. A lungo, il legislatore ha dettato solo regole speciali, relative a singole funzioni, mentre le regole generali del diritto amministrativo sono state elaborate dai giudici. Nella maggior parte dei paesi europei, solo in una fase relativamente recente, cioè nell’ultima parte del ventesimo secolo, le leggi hanno cominciato a enunciare regole generali (in particolare, nelle leggi sul procedimento amministrativo), spesso codificando princìpi giurisprudenziali. A queste modalità di formazione si ricollega un terzo carattere del diritto amministrativo, dato dalla sua disorganicità, frammentarietà e instabilità. A differenza di altre discipline giuridiche, che appaiono armoniosamente e stabilmente ordinate intorno ad alcuni princìpi fondamentali e ad alcune disposizioni normative generali, il cui ambito di applicazione è definito con precisione, il diritto amministrativo ha caratteri imprecisi e sfuggenti. Ciò per diverse ragioni: la varietà e multiformità delle funzioni amministrative e delle relative discipline, dalle quali esso risulta; la sua giovane età, che ha imposto alla relativa scienza di colmare il ritardo rispetto ad altre scienze giuridiche; il ruolo svolto dalla giurisprudenza nella sua formazione, che ne ha reso difficile la codificazione; la presenza di un’enorme massa di leggi speciali, a sua volta difficile da governare. L’aspetto relativamente più ordinato di discipline come il diritto privato e il diritto penale deriva anche dalla presenza, per esse, di leggi fondamentali, quali il Codice civile e il Codice penale: sistemi coordinati di norme concepiti in modo unitario e coerente, che, se pure non esauriscono le relative discipline, ne costituiscono il centro ordinatore o il parametro di riferimento, rispetto alle leggi speciali. Il diritto amministrativo, invece, risulta dall’apporto di tanti legislatori diversi (oltre che di tanti giudici) e ha visto finora solo codificazioni molto parziali, relative a pur importanti sue componenti (come il procedimento amministrativo e i contratti della pubblica amministrazione), ma parziali e a loro volta non coordinate tra loro. Questa natura variegata, che inevitabilmente sfugge all’ordine e alla precisione dei concetti, dipende anche da un ultimo carattere tipico del diritto amministrativo, che è la sua ampiezza in termini di diritto positivo, cioè di norme scritte. Delle decine di migliaia di leggi e del numero ancora superiore di regolamenti e atti di vario genere, che compongono il sistema normativo italiano, una quota molto piccola rileva per il diritto privato o per il diritto penale, mentre la grande maggioranza disciplina oggetti propri del diritto amministrativo. Ogni giorno, la Gazzetta ufficiale pubblica atti di vario genere in materia di scuola, università, sanità, trasporti, agricoltura, urbanistica, servizi pubblici, impiego pubblico, finanza pubblica e così via, per discipli-

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nare le funzioni delle amministrazioni competenti in queste materie. Le relative discipline sono in continua evoluzione e la stabilità è spesso un miraggio per gli operatori, costretti a un continuo aggiornamento. Privo di una legge fondamentale, il diritto amministrativo è ricchissimo di leggi speciali, che si succedono e si stratificano velocemente. Questa ampiezza, naturalmente, rende più difficile il suo studio e rende ancora più importante l’opera di ricostruzione del sistema, attraverso l’analisi dei princìpi e delle tendenze generali dell’ordinamento.

CAPITOLO 3 PROFILI STORICI

SOMMARIO: 3.1. Le amministrazioni degli stati preunitari. – 3.2. L’unificazione. – 3.3. L’età crispina. – 3.4. L’età giolittiana. – 3.5. Il fascismo. – 3.6. L’amministrazione nella Costituzione. – 3.7. L’età repubblicana. – 3.8. L’età delle riforme amministrative. – 3.9. Il XXI secolo.

3.1. LE AMMINISTRAZIONI DEGLI STATI PREUNITARI Sull’origine del diritto amministrativo, cioè sul momento a partire dal quale si può affermare che le pubbliche amministrazioni sono state soggette a un sistema coerente di princìpi e regole, vi sono diverse teorie. È certo, comunque, che il luogo di nascita è la Francia, paese nel quale, nel corso del diciannovesimo secolo, sorsero le prime cattedre di diritto amministrativo, il primo giudice amministrativo e la prima generazione di studiosi, destinati a influenzare quelli di paesi come l’Italia e la Germania. Queste condizioni si verificarono in Italia verso la fine del secolo. Questo capitolo è dedicato all’evoluzione storica del diritto amministrativo in Italia, a partire dalle esperienze preunitarie. A seguito dell’unificazione, il Regno di Sardegna estese le proprie scelte organizzative e il proprio diritto ai territori via via annessi. È, dunque, soprattutto a esso che occorre far riferimento per la fase preunitaria. Ma occorre menzionare brevemente anche gli altri stati preunitari, per diverse ragioni: perché lo stato delle loro amministrazioni condizionò lo sviluppo della legislazione e dell’amministrazione unitaria; perché buona parte della classe dirigente del Regno d’Italia aveva acquisito esperienza amministrativa in quegli stati; e perché gli indirizzi in essi sviluppatisi, negli studi sulla pubbli-

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ca amministrazione, non mancarono di influenzare gli sviluppi successivi all’unificazione. Le pubbliche amministrazioni degli stati preunitari erano strutture di dimensioni contenute, costituite per svolgere poche funzioni, prevalentemente “di ordine”: nel 1861 il numero complessivo dei dipendenti civili delle amministrazioni centrali dei vari stati non superava le 60.000 unità, concentrate prevalentemente nelle amministrazioni competenti per le funzioni di polizia, quelle fiscali e quelle connesse alle poste e ai telegrafi. Sotto il profilo organizzativo, le amministrazioni dei vari stati risentivano notevolmente dell’influenza francese. La situazione dei diversi stati era, comunque, molto eterogenea. In alcuni, la modernizzazione amministrativa si era tradotta in nuove regole organizzative e in un embrionale statuto dei funzionari pubblici, nel quale cominciava a imporsi il principio del merito. In altri, come lo Stato pontificio, regole sull’organizzazione e sul personale faticavano ad affermarsi. Sulle istituzioni del futuro Regno d’Italia, naturalmente, erano destinate a esercitare un’influenza particolare quelle del Regno di Sardegna, che furono riformate alla metà del secolo. Giocò un ruolo decisivo la riforma dell’organizzazione operata nel 1853 da Cavour. Essa, da un lato, recepì il principio della responsabilità ministeriale, di derivazione inglese: il ministro era posto a capo dell’amministrazione, della quale rispondeva di fronte al Parlamento. Dall’altro, recepì il modello dell’amministrazione uniforme, compatta e accentrata, di derivazione francese. La macchina amministrativa veniva disegnata con una struttura piramidale, sotto la responsabilità del governo. Il controllo sugli impiegati era operato solo dall’alto, dai vertici politici delle amministrazioni, che ne rispondevano al Parlamento; non vi era alcun controllo da parte dei cittadini. Coerentemente, il principio regolatore dei rapporti interni all’amministrazione era quello di gerarchia, che implicava il potere dell’ufficio sovraordinato di impartire ordini a quello subordinato e di sostituirsi a esso. L’influenza francese si era fatta sentire anche nell’organizzazione degli enti locali, ai quali era stata imposta uniformità nell’organizzazione e nelle funzioni, indipendentemente dalla dimensione e dal contesto geografico ed economico. Ai comuni erano riconosciute varie funzioni, alle province molte di meno. Gli uni e gli altri erano soggetti a penetranti poteri di controllo del Governo, che poteva annullare i loro atti e anche rimuovere i loro organi di governo.

3.2. L’UNIFICAZIONE Funzioni amministrative e apparati pubblici continuarono ad avere ambito e dimensioni limitate anche dopo l’unificazione nazionale. I rapporti tra le

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amministrazioni pubbliche e i cittadini non andavano molto al di là dei controlli di polizia e dell’imposizione fiscale. Il liberismo che ispirava la condotta dei governi è mostrato dalle privatizzazioni di imprese e beni pubblici e dall’assenza di un’amministrazione competente per le attività produttive: solo fino nel 1878 venne istituito il Ministero dell’agricoltura, dell’industria e del commercio. Anche la normazione amministrativa era limitata, sia come ambito materiale – circoscritto alle poche funzioni amministrative – sia in termini quantitativi. E, soprattutto, questa normazione non dava ancora luogo a un autonomo sistema di princìpi e concetti giuridici, distinto da quello del diritto privato. L’organizzazione amministrativa era retta da poche regole di rango legislativo e, in misura maggiore, dal potere di auto-organizzazione delle amministrazioni. Il personale era privo di uno statuto giuridico che ne definisse compiutamente i diritti e i doveri. L’attività amministrativa si andava formalizzando e procedimentalizzando, ma sulla base di prassi interne delle amministrazioni, piuttosto che di norme aventi rilievo esterno. Pesava l’assenza di un giudice amministrativo che elaborasse princìpi e regole per l’azione delle amministrazioni. L’attività delle pubbliche amministrazioni, di conseguenza, non era percepita come diversa da quella dei privati: non si dubitava dell’autonomia privata delle amministrazioni; la proprietà pubblica era assimilata a quella privata; il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici si basava su un contratto, non diversamente da quello dei dipendenti privati; l’espropriazione era descritta come una particolare vendita. D’altra parte, già nel tardo Ottocento, l’esigenza di promuovere lo sviluppo economico e di realizzare l’unificazione nazionale, anche sotto il profilo economico e sociale, determinarono un aumento delle funzioni e una maggiore complessità dell’organizzazione e della normazione amministrativa. Il Governo investì fortemente su alcuni servizi pubblici e ne regolò l’erogazione: quelli di trasporto, con notevoli investimenti nel settore ferroviario, e quelli di comunicazione, con lo sviluppo delle poste e dei telegrafi. Al completamento dell’unificazione nazionale possono essere ricondotte le principali vicende dei decenni successivi al 1861: sia quelle relative alla legislazione, sia quelle relative all’organizzazione amministrativa e al personale. Per quanto riguarda la legislazione amministrativa, dopo l’iniziale estensione della legislazione del Regno di Sardegna a tutto il territorio nazionale, furono ben presto emanate alcune importanti leggi per uniformare la disciplina di determinate materie, come le opere pie, e istituire organi unitari, come la Corte dei conti. Ma il principale momento di unificazione si ebbe nel 1865, quando furono realizzate quelle che sono passate alla storia come “unificazione legislativa” e “unificazione amministra-

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tiva”. La prima, meno importante per il diritto amministrativo, consistette nell’emanazione di un nuovo Codice civile e di un nuovo Codice di commercio. La seconda nell’emanazione di sei importanti leggi in materia amministrativistica: su comuni e province, sulla pubblica sicurezza, sulla sanità, sul Consiglio di Stato, sul contenzioso amministrativo, sulle opere pubbliche. Tra quelle leggi, merita una menzione particolare quella abolitiva del contenzioso amministrativo. Essa optò per il modello inglese dell’unità della giurisdizione e dispose la soppressione degli organi del contenzioso amministrativo, esistenti negli stati preunitari. Tutte le controversie tra amministrazioni e cittadini vennero devolute alla giurisdizione dei tribunali ordinari, ai quali tuttavia – in ossequio al principio della separazione dei poteri – fu negato il potere di annullare o modificare gli atti amministrativi e riconosciuto solo quello di non applicare gli atti stessi nel caso concreto. Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa, compiuta l’unificazione, il modello dell’amministrazione uniforme, compatta e accentrata, già presente nel Regno di Sardegna, fu funzionale non solo al principio della separazione dei poteri, ma anche all’esigenza di consolidamento dell’unità del Regno. L’amministrazione era ordinata in ministeri, nell’ambito dei quali gli uffici, a volte accorpati in direzioni generali, erano coordinati da un segretario generale. La spina dorsale, intorno alla quale era costruito il sistema amministrativo statale, era l’apparato del Ministero dell’interno. Al centro, vi era coincidenza tra la figura del Presidente del Consiglio dei ministri e quella del Ministro dell’interno: coincidenza destinata a durare fino alla metà del XX secolo. In periferia, i prefetti, nominati e revocati liberamente dal Ministro, esercitavano penetranti controlli sui comuni e sulle province, al vertice dei quali sedevano funzionari nominati dal Governo statale. L’autonomia di comuni e province era dunque molto limitata. Anche i dipendenti pubblici furono uno strumento di rafforzamento dell’unità nazionale. Essi costituivano un corpo omogeneo e compatto, rappresentativo della borghesia settentrionale, ma anche separato rispetto a essa. La loro formazione, a differenza che in Francia e in Inghilterra, non avveniva in università prestigiose o in scuole superiori, ma negli uffici. La regola dell’accesso per concorso, peraltro, si affermò prima che in altri paesi europei. Mancava una disciplina completa e ordinata dei diritti e dei doveri dei dipendenti, ma vi erano un forte spirito di corpo, una deontologia non scritta e un controllo reciproco. Tra classe politica e burocrazia vi era una forte osmosi, con frequenti passaggi da cariche politiche a cariche amministrative, tra le quali quella di consigliere di Stato.

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3.3. L’ETÀ CRISPINA Una delle fasi nelle quali si sono concentrate diverse importanti riforme amministrative e l’evoluzione dell’amministrazione e del suo diritto ha visto un’accelerazione è certamente l’età che prende il nome da Francesco Crispi, più volte Presidente del Consiglio tra il 1887 e il 1896. In questo periodo vennero emanate nuove leggi in materia di organizzazione amministrativa centrale, pubblica sicurezza, sanità, enti locali, giustizia amministrativa, istituzioni pubbliche di beneficenza. Le funzioni amministrative si espandevano al di là di quelle “di ordine”, per investire in misura maggiore i lavori pubblici e le attività produttive private. I servizi pubblici subirono un ulteriore sviluppo. La macchina amministrativa si ampliava e il numero dei dipendenti cresceva, raddoppiandosi nel giro di un decennio. La legislazione amministrativa diventava più ricca e complessa e anche meno uniforme. Anche tra le leggi crispine merita una particolare menzione quella in materia di giustizia amministrativa, che istituì la IV sezione del Consiglio di Stato, con funzioni contenziose, la quale si aggiunse alle tre preesistenti sezioni consultive. Con questa legge, l’ordinamento italiano abbandonò la strada dell’unità della giurisdizione, scelta un ventennio prima, e si dotò di un giudice amministrativo con competenze generali. In effetti, la legge faceva di più che ripartire la giurisdizione: costruendo il processo amministrativo come processo di impugnazione e attribuendo al Consiglio di Stato il potere di “annullare” l’atto impugnato, prefigurava il regime di invalidità dell’atto amministrativo, che rimane efficace fino all’eventuale annullamento. L’atto amministrativo si apprestava a diventare uno dei concetti centrali della teoria del diritto amministrativo. Si accentuò la tendenza alla costituzione di nuovi tipi di ufficio all’interno delle amministrazioni: notevole, in particolare, fu la tendenza legislativa a predisporre organi di rappresentanza di alcuni interessi professionali, come i consigli superiori, costituiti presso i ministeri, e gli ordini professionali. Agli enti locali, con la riforma del 1888, fu riconosciuta un’autonomia leggermente più accentuata: fu prevista l’elezione degli organi di vertice di comuni e province, fu allentato il controllo del prefetto e fu costituito un nuovo organo di controllo, la giunta provinciale amministrativa; il controllo del Governo sugli enti locali non si svolse più attraverso la nomina governativa dei loro vertici, ma attraverso il controllo dei loro atti.

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3.4. L’ETÀ GIOLITTIANA Se Francesco Crispi era soprattutto un legislatore, Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio a più riprese nell’arco di un trentennio (ma soprattutto nel primo quindicennio del XX secolo), era un profondo conoscitore delle pubbliche amministrazioni. La sua azione si svolse non solo a livello legislativo, ma anche attraverso l’amministrazione, in particolare quella del Ministero dell’interno, che egli manovrava abilmente, anche per influenzare il corpo elettorale. In questo periodo si ebbe un grande aumento delle funzioni amministrative. L’espansione è illustrata, in primo luogo, dallo sviluppo dei servizi pubblici, per i quali si affermò la gestione pubblica con il modello dell’azienda, destinata ad avere un grande successo. Ma l’aumento delle funzioni amministrative, in particolare di quelle di prestazione, si ebbe anche in altri settori, come quello della protezione sociale. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo la legge era già intervenuta per disciplinare l’assicurazione facoltativa, e poi obbligatoria, per gli operai, ma la gestione era lasciata alle imprese private. Nel 1912, invece, venne costituito un nuovo ente pubblico, l’Istituto nazionale delle assicurazioni, per esercitare il monopolio delle assicurazioni sulla vita: nasceva così una nuova forma di impresa pubblica, quella dell’ente pubblico economico, destinata ad avere grande successo nel corso del XX secolo. L’ampliamento e la diversificazione delle funzioni si rifletteva nelle varie componenti del sistema amministrativo: la normazione, l’organizzazione e il personale. La normazione amministrativa si arricchiva di nuove leggi importanti: leggi e pubbliche amministrazioni cominciarono a occuparsi di materie come la tutela e la sicurezza del lavoro, l’emigrazione, l’edilizia popolare. A livello organizzativo, si accentuò la tendenza a costituire uffici al di fuori dell’organizzazione per ministeri, mentre la struttura dei ministeri diveniva più complessa: aumentava il loro numero e si creavano nuove reti di uffici periferici, come quelli delle amministrazioni delle finanze e dell’istruzione. Per quanto riguarda il personale, le nuove funzioni determinarono una vera esplosione: nel 1915, il numero dei dipendenti pubblici era circa 340.000. La loro estrazione e formazione, prevalentemente giuridica, assicurava ancora una certa omogeneità di mentalità e costumi. Nel 1908, anche sulla spinta del sindacalismo amministrativo, Giolitti favorì l’emanazione della prima legge generale sul pubblico impiego, che definì i diritti e i doveri dei dipendenti. La giurisprudenza delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, interagendo con la scienza giuridica, diede un apporto decisivo all’elaborazione

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dei princìpi del diritto amministrativo e alla stessa individuazione di quest’ultimo come autonoma partizione del diritto. Un diritto amministrativo che le leggi, la giurisprudenza e la scienza giuridica costruivano come un diritto diseguale, basato sulla supremazia della pubblica amministrazione, rispetto alla quale il cittadino era debole e il suo interesse cedevole. Il diritto amministrativo era il diritto del rapporto autorità-libertà ed era fortemente sbilanciato sul versante dell’autorità. La costruzione del diritto amministrativo, peraltro, segnava anche alcune importanti tappe in termini di tutela dei cittadini. Fin dalla sua istituzione, la Quarta sezione del Consiglio di Stato aveva dovuto costruire il processo amministrativo sulla base delle scarne norme legislative e impegnarsi – insieme ai giudici ordinari – nella delimitazione della propria giurisdizione. Essa applicò talora le norme in modo intelligente ma disinvolto, esercitando poteri che il legislatore non aveva inteso attribuirle: come quello di pronunciarsi sul silenzio della pubblica amministrazione, nonostante la legge le avesse attribuito solo quello di annullare atti amministrativi espressi. E, soprattutto, sviluppando una tecnica di controllo sul contenuto degli atti amministrativi sempre più raffinata, sulla base della enigmatica previsione dell’invalidità per “eccesso di potere”: figura che il Consiglio di Stato avrebbe utilizzato, per un secolo, per elaborare regole generali, ovvie ma non scritte, di azione amministrativa, come la parità di trattamento, la logicità, la coerenza tra provvedimenti, la motivazione, la contestazione degli addebiti. In questo modo, per un secolo, il Consiglio di Stato pose regole che solo a partire dal 1990 sarebbero state in parte codificate.

3.5. IL FASCISMO Gli elementi di crisi, già presenti durante l’età giolittiana, si aggravarono ovviamente con la prima guerra mondiale, che vide anche un’accentuazione di alcune delle tendenze registrate negli anni precedenti: intensificazione della legislazione amministrativa, che diventava sempre più dettagliata e disordinata, nascita di nuovi tipi di ufficio, proliferazione degli enti pubblici, crescita del numero dei dipendenti. Nel ventennio fascista, naturalmente, il diritto amministrativo fu più che mai diritto dell’autorità, strumento nelle mani di un governo autoritario e illiberale. Ma molte delle tendenze del sistema amministrativo, in questo periodo, furono la prosecuzione di tendenze già emerse nei decenni precedenti. Fu un ventennio di intensa attività legislativa, volta sia alla disciplina di nuovi settori, sia al riordino di settori già disciplinati negli anni precedenti.

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Tra i servizi pubblici, per esempio, trovarono una disciplina organica il trasporto marittimo, il trasporto aereo, le poste e le telecomunicazioni: settori nei quali si affermava quello che sarebbe stato il modello normale di disciplina per gran parte del secolo, dato dalla riserva originaria, che sottraeva la gestione al mercato, e dall’affidamento del servizio a un soggetto pubblico o, per concessione, a un privato. Anche molte attività che rimasero oggetto di iniziativa economica privata furono soggette a disciplina legislativa e a controllo amministrativo, con l’introduzione di regimi autorizzatori: così, per esempio, il credito, le assicurazioni e il commercio. Furono emanate leggi destinate a durate molto a lungo e spesso di concezione molto innovativa: per esempio, in materia di beni culturali e urbanistica. Altre leggi mostravano maggiormente l’impronta autoritaria del diritto amministrativo fascista, come quella sul pubblico impiego e quella sulla pubblica sicurezza (quest’ultima ancora oggi vigente, ma temperata dalle previsioni costituzionali). Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa, i ministeri aumentarono di numero e di dimensioni. La presenza di Mussolini determinò ovviamente un rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio, Ministro dell’interno. Tuttavia, la riforma dell’ordinamento finanziario, operata nel 1923, pose le ragionerie centrali, costituite presso i vari ministeri, alle dipendenze della Ragioneria generale, costituita presso il Ministero del tesoro, ponendo così le basi per un ruolo centrale di quest’ultimo, che sarebbe emerso in epoca successiva. Le maggiori trasformazioni dell’amministrazione, tuttavia, furono date dalla moltiplicazione delle amministrazioni “parallele”. Già negli anni Venti fu sperimentata una nuova forma di impresa pubblica, in forma di società per azioni. Ma è soprattutto negli anni Trenta che l’intervento dello Stato nell’economia crebbe di intensità e diede vita a un gran numero di imprese pubbliche. A seguito della crisi finanziaria dell’inizio del decennio, il Governo si fece carico delle difficoltà economiche di molte imprese e delle banche, che le avevano finanziate e ne erano creditrici, per acquisire le une e le altre. Le relative quote azionarie furono affidate a un nuovo ente pubblico costituito nel 1933, l’Istituto per la ricostruzione industriale, destinato a durare ben più a lungo di quanto inizialmente previsto e a guidare un complesso sistema di partecipazioni statali. Il fenomeno delle partecipazioni azionarie dello Stato era una forma di ibridazione del diritto amministrativo con il diritto privato. Lo svolgimento di funzioni amministrative avveniva con gli strumenti tipici del Codice civile, i quali però – occasionalmente – venivano piegati alla logica di asimmetria e di privilegio, propria del diritto amministrativo. A livello locale, l’autonomia di comuni e province fu fortemente compressa: i loro vertici furono nuovamente nominati dal Governo statale, le lo-

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ro funzioni furono ridotte, i loro organi non furono più eletti dai cittadini. All’organizzazione amministrativa “classica”, ereditata dallo stato liberale, il fascismo accostò una nuova organizzazione, basata sulla rappresentanza degli interessi professionali, e una nuova burocrazia, di estrazione politica e sindacale. Raccogliendo alcune idee proposte nei decenni precedenti, ma soprattutto al fine di governare o neutralizzare il conflitto industriale, fu costituito l’ordinamento corporativo, che avrebbe dovuto essere uno strumento di confronto e sintesi tra gli interessi delle diverse categorie professionali. Alla base vi erano, peraltro, la negazione della libertà associativa e la pubblicizzazione delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il sistema corporativo determinò, tra l’altro, la pubblicizzazione del diritto del lavoro, che fu sostituito dal “diritto corporativo”, materia spesso studiata e insegnata da amministrativisti. Ma il confronto tra potere pubblico e interessi professionali trovò anche altri canali, destinati a durare ben oltre il periodo fascista: in particolare, la costituzione di enti pubblici derivanti da associazioni professionali, enti “di privilegio”, attraverso i quali veniva esercitato un controllo amministrativo su singoli settori produttivi, ma che erano espressione delle categorie produttive stesse. Il Consiglio di Stato, presieduto a partire dal 1929 dal maggior giurista dell’epoca, Santi Romano, acquistò maggior centralità e prestigio, anche per la funzione consultiva, che esso esercitò non solo in materia amministrativa, ma anche in ordine all’attività legislativa del Governo, dando un decisivo contributo alla legislazione di cui si è detto. Il riparto della giurisdizione con i giudici ordinari era ancora incerto. Già nel 1923, peraltro, per il pubblico impiego era stata inaugurata la tendenza del legislatore ad attribuire al giudice amministrativo, in via esclusiva, le controversie relative a determinate materie.

3.6. L’AMMINISTRAZIONE NELLA COSTITUZIONE Per molti aspetti, la Costituzione repubblicana volle essere e fu una rottura rispetto al periodo fascista. Alla compressione dei diritti individuali si reagì con un catalogo di diritti fondamentali, che è un elenco di limiti alla pubblica amministrazione, di riserve di legge e di riserve di giurisdizione. Alla compressione della tutela degli individui si reagì affermando il principio della tutela giurisdizionale e vietandone la limitazione. Al centralismo si reagì affermando il principio di autonomia, per le future regioni e per gli enti locali, e quello di decentramento, per l’amministrazione statale. All’invadenza pubblica nei confronti delle associazioni professionali si reagì con l’afferma-

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zione della libertà sindacale, che restituì le relazioni industriali all’autonomia privata e al diritto privato. Ai giudici speciali del regime si reagì con una netta distinzione tra amministrazione e giurisdizione e con il divieto di istituire giudici speciali. Tuttavia, molte altre tendenze, che erano iniziate nelle epoche precedenti, poterono continuare a esplicarsi: aumento delle funzioni amministrative e delle dimensioni delle amministrazioni, forte presenza pubblica nell’economia, complicazione e frammentazione organizzativa, permeabilità delle amministrazioni agli interessi organizzati. Tendenze che, in effetti, furono incoraggiate dalle previsioni costituzionali in materia di rapporti etico-sociali e di rapporti economici: gli articoli relativi alla salute, all’istruzione, al lavoro e alla protezione sociale, in particolare, furono la base per lo sviluppo della legislazione e per l’ampliamento delle relative funzioni amministrative, che nella seconda metà del secolo avrebbero richiesto imponenti strutture amministrative e assorbito gran parte della finanza pubblica. Abbandonato l’ordinamento corporativo, l’idea del confronto e della conciliazione tra gli interessi delle categorie produttive sopravvisse nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organo previsto dalla Costituzione ma destinato a una sostanziale irrilevanza nel panorama istituzionale: i rapporti tra amministrazioni e interessi organizzati avrebbero continuato a percorrere altre strade, meno solenni ma molto affollate di organi e meccanismi procedurali. La pubblica amministrazione e il diritto amministrativo non furono al centro delle preoccupazioni dei Costituenti, che si preoccuparono piuttosto dell’assetto costituzionale. La Costituzione, per esempio, dettò norme sulla Presidenza del Consiglio e sui ministeri, ma non sugli enti pubblici. I princìpi di imparzialità e buon andamento furono enunciati con riferimento all’organizzazione degli uffici pubblici, mentre si tacque sull’attività amministrativa. Ciò spiega l’impatto relativamente limitato della Costituzione sui princìpi e concetti generali del diritto amministrativo, che continuarono a essere costruiti in primo luogo dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato. Nel medio e lungo termine, peraltro, i princìpi costituzionali non avrebbero mancato di far sentire i propri effetti: per esempio, a partire dagli anni Cinquanta, la scienza giuridica e, poi, la giurisprudenza esclusero che l’esecuzione forzata degli atti amministrativi fosse una prerogativa generale della pubblica amministrazione, ritenendo che il principio di legalità vietasse l’uso della forza in assenza di un’espressa previsione di legge. Il diritto amministrativo era ancora il diritto del rapporto autorità-libertà, ma la libertà cominciava a recuperare terreno sull’autorità.

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3.7. L’ETÀ REPUBBLICANA La metà del XX secolo fu, per così dire, un giro di boa per quanto riguarda l’assetto costituzionale e anche per quanto riguarda la concezione del diritto amministrativo, che nella seconda metà del secolo si spogliava gradualmente delle sue venature autoritarie e della sua carica di privilegio, per presentarsi innanzitutto come un sistema di garanzie dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. La legislazione amministrativa diventava sempre più intensa, complessa e dettagliata, anche a causa della frequente tendenza del Parlamento ad amministrare per via legislativa e della complementare tendenza della burocrazia a demandare le decisioni al legislatore. Mentre la scienza del diritto privato rilevava la “decodificazione” del proprio oggetto, per via della fuga della legislazione dal Codice civile, nel diritto amministrativo – che non era mai stato codificato – si realizzava un ben più vistoso fenomeno di dispersione e disordine legislativi. Solo poche materie – come quelle, menzionate in precedenza, della pubblica sicurezza e degli enti locali – continuarono a essere disciplinate da norme generali e ordinate: al di fuori di esse, in materie importanti come l’edilizia o i contratti delle pubbliche amministrazioni, diveniva sempre più difficile individuare le norme da applicare al caso concreto. Il diritto amministrativo diventava una materia sempre più esoterica per i non iniziati. Nell’ultimo quarto del secolo, si lamentava spesso l’inflazione legislativa e si invocavano misure di riordino. La crescita delle funzioni e delle strutture proseguì, e con essa la moltiplicazione e l’espansione delle strutture amministrative. Al centro, cessò la coincidenza tra il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’interno. Conseguentemente, la Presidenza del Consiglio divenne una struttura autonoma, destinata a ingrandirsi progressivamente e ad assumere funzioni amministrative proprie, oltre al ruolo di supporto per l’attività di coordinamento del Presidente. I ministeri aumentarono di numero, arrivando a 22: alcuni, come il Ministero delle partecipazioni statali, vennero costituiti per accentuare il controllo politico su settori che si erano sviluppati. Altri, come quello dell’ambiente, riflettevano nuovi interessi pubblici e nuove funzioni amministrative. Le reti periferiche dei ministeri si arricchirono e il ruolo del prefetto si indebolì ulteriormente. Furono creati nuovi tipi di amministrazione e, poi, le prime di quelle che alla fine del secolo sarebbero state definite autorità indipendenti. Ultimo tra i grandi servizi pubblici, il settore dell’energia elettrica fu nazionalizzato nel 1962, con la costituzione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel). Nei servizi pubblici, convivevano i modelli dell’azienda pubblica, dell’ente pubblico e della società in mano pubblica. Nei primi de-

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cenni dopo la guerra, fu proprio il sistema delle partecipazioni statali a crescere e a essere protagonista dell’intervento pubblico nell’economia. Era una delle componenti principali di un’economia “amministrata”, nella quale – come contemplato dalla Costituzione – all’iniziativa economica privata si accostava, con pari dignità, quella pubblica ed entrambe erano “indirizzate e coordinate a fini sociali” (art. 41). A questi indirizzi e controlli si tentò, negli anni Sessanta e Settanta, di dare una sistemazione in un processo di programmazione dell’economia, che si rivelò un fallimento. Ebbero successo, invece, programmi di sviluppo di singoli settori industriali, per i quali fu decisivo il supporto statale. Ripristinata l’elezione dei loro organi, i comuni e le province acquistarono nuova importanza come enti politici e amministrativi. Le regioni, previste dalla Costituzione, furono costituite solo nel 1970, quando vennero eletti i primi consigli regionali. Si pose, allora, il problema delle loro funzioni. Nel 1972, con vari decreti governativi, fu operato un primo trasferimento di funzioni amministrative, la cui insufficienza fu subito evidente. Cinque anni dopo, di conseguenza, fu operato un più ampio trasferimento, con un decreto che operò una sorta di inventario delle funzioni amministrative mantenute dallo Stato e di quelle trasferite alle regioni e agli enti locali. L’aumento delle funzioni amministrative, e in particolare di quelle “del benessere”, determinò un’esplosione dei dipendenti e della spesa pubblica. Dal punto di vista del personale, furono soprattutto l’istruzione e la sanità a determinarla: la prima a partire dal 1962, con l’introduzione dell’obbligo scolastico fino a 14 anni e, quindi, della scuola media obbligatoria; la seconda con la riforma del 1978, che assicurò la gratuità delle cure, nelle strutture sanitarie pubbliche, a tutti i cittadini (e non solo agli indigenti, per i quali la gratuità era imposta dalla Costituzione). Il numero dei dipendenti pubblici arrivò a tre milioni e mezzo. L’impiego pubblico era ormai un fenomeno di massa, per lo più un traguardo poco ambito per le classi colte e agiate (con eccezioni per singole carriere, quali quella diplomatica e quella nella magistratura). Per le classi meno agiate, esso era spesso un rimedio alla disoccupazione. Nel 1957, un nuovo testo unico, ancora una volta elaborato recependo molti orientamenti giurisprudenziali, dettava le coordinate di uno statuto giuridico pubblicistico per i pubblici dipendenti. Dal punto di vista della spesa, oltre alla scuola e alla sanità, anche la previdenza era destinata a pesare in modo crescente non solo sui lavoratori, ma anche sui contribuenti: negli ultimi anni del XX secolo e all’inizio del successivo, sarebbero state necessarie riforme per ridurre la spesa previdenziale. Le forme dell’attività amministrativa risentirono dell’evoluzione descritta. Il diritto amministrativo corrispondeva sempre meno all’immagine che di esso era stata costruita in base alle funzioni di ordine: le pubbliche ammini-

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strazioni erano molto più impegnate nell’offrire servizi ai cittadini che nell’imporre loro obblighi e divieti. L’idea di supremazia della pubblica amministrazione cominciò a essere messa in discussione e l’atto amministrativo, nel quale quella supremazia si concentrava, cominciò a perdere centralità: a favore del procedimento, perché si apprezzava finalmente la formazione graduale e partecipata delle decisioni amministrative; e a favore del contratto, perché si cominciò ad ammettere che le funzioni amministrative potessero essere svolte attraverso attività consensuale.

3.8. L’ETÀ DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE L’ultimo decennio del ventesimo secolo fu un periodo di intense riforme amministrative, che abbracciarono tutti i principali capitoli del diritto amministrativo. L’inizio di questa fase può essere individuato proprio nel 1990, anno nel quale vennero emanate almeno quattro leggi importanti: sulle autonomie locali, sullo sciopero nei servizi pubblici, sul procedimento amministrativo e sulla tutela della concorrenza. La sua fine può essere individuata con la riforma costituzionale del 2001. Persa la connotazione autoritaria, le pubbliche amministrazioni erano ormai considerate strutture di servizio, piuttosto che di comando, nei confronti dei cittadini: al centro delle preoccupazioni e di molte linee di riforma vi era, quindi, la loro efficienza e la qualità dei servizi da esse resi ai cittadini. Attenuata l’idea di specialità, il diritto amministrativo veniva descritto come terreno di incontro tra princìpi e discipline pubblicistiche e privatistiche. Superata la concezione statalistica, il diritto amministrativo risentiva del pluralismo e dell’apertura dell’ordinamento nazionale al diritto sopranazionale. Continuò l’impetuosa produzione legislativa nei diversi settori del diritto amministrativo: prima con leggi del Parlamento e decreti aventi valore di legge del Governo, poi soprattutto con “leggi finanziarie”, di accompagnamento a quella di approvazione del bilancio, che nei primi anni del XXI secolo raggiunsero dimensioni abnormi: leggi elaborate frettolosamente e in modo incrementale, approvate dal Parlamento senza sostanziale discussione, che contenevano migliaia di disposizioni sulle materie più varie, spesso senza una reale connessione con la manovra finanziaria. Si cominciarono a vedere, però, anche i frutti di alcune operazioni di semplificazione e riordino normativo: dapprima con regolamenti di semplificazione di singoli procedimenti amministrativi (metodo introdotto dalla legge n. 537 del 1993); poi con operazioni di codificazione, che condussero all’emanazione di numerosi codici e testi unici (metodo che la legge n. 59 del

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1997 cercò di promuovere). Vennero così riordinati importanti settori di normazione come il pubblico impiego, il credito, l’edilizia, l’espropriazione per pubblica utilità, i beni culturali, le assicurazioni, la tutela dei consumatori, l’ambiente, la sicurezza del lavoro, le spese di giustizia, i contratti pubblici e altri ancora. L’influenza del diritto europeo fu notevole soprattutto in ordine al governo dell’economia, dove si ebbe una netta contrazione del ruolo dello Stato. Alle previsioni della Costituzione, che consentivano di programmare e indirizzare l’attività economica privata, si sovrapponeva un modello di economia di mercato, nel quale al potere pubblico era riconosciuto solo un ruolo di regolazione; alle politiche di incentivo delle imprese, il divieto di aiuti di stato; alla riserva dei servizi pubblici, l’apertura dei mercati; alle imprese pubbliche, il divieto di discriminare tra i diversi operatori. Il sistema delle partecipazioni statali fu smantellato, le grandi imprese pubbliche trasformate in società per azioni e in gran parte privatizzate. A partire dal 1990, vi fu anche una disciplina nazionale della concorrenza, che istituì un’Autorità indipendente per le relative funzioni. La trasformazione di enti e aziende pubbliche in società per azioni e la privatizzazione dei gestori di servizi pubblici diedero luogo a vari problemi relativi al loro regime giuridico. Apparve evidente, più di quanto lo fosse mai stato, che l’ambito delle discipline amministrativistiche e lo stesso perimetro della pubblica amministrazione erano variabili, in ragione delle diverse norme che di volta in volta dovessero essere applicate. In ordine agli assetti istituzionali, la tendenza più importante fu data dal decentramento. Un’importante operazione di decentramento fu operata, a Costituzione vigente, nella seconda metà degli anni Novanta (con la citata legge n. 59 del 1997), producendo un testo normativo paragonabile a quello di un ventennio prima (il già citato decreto legislativo n. 112 del 1998), in quanto contenente un inventario delle funzioni amministrative dello Stato e degli enti territoriali. I suoi princìpi più innovativi furono in buona parte trasposti nella riforma costituzionale del 2001. La redistribuzione delle funzioni amministrative, promessa dal nuovo art. 118 cost., rimase però inattuata. Il decentramento fu occasione di riordino dell’amministrazione statale, che avrebbe dovuto conseguentemente alleggerirsi. Sia la riforma dell’amministrazione centrale, sia quella dell’amministrazione periferica furono effettivamente operate, ma entrambe ebbero una difficile attuazione e successivi ripensamenti. Il numero dei dipendenti pubblici rimaneva sostanzialmente stabile e la loro distribuzione molto squilibrata e sostanzialmente indifferente al decentramento. Le due grandi linee di riforma relative al personale, in questa fase, furono la contrattualizzazione della disciplina del rapporto di lavoro e l’affermazione della distinzione tra le responsabilità dei politici e quelle degli impiegati.

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La riforma legislativa più importante, comunque, fu certamente quella del procedimento amministrativo, operata nel 1990. In ritardo rispetto ad alcuni paesi europei e in anticipo rispetto ad altri, l’ordinamento italiano si dotò di una legge di princìpi, che sviluppava un particolare approccio alla disciplina legislativa del procedimento. Nella consapevolezza dell’eterogeneità dei diversi tipi di procedimento, ai quali la legge sarebbe stata applicata, il legislatore si guardò dal dettare una disciplina delle diverse fasi del procedimento, uniforme per tutti i procedimenti. Enunciò soltanto alcuni princìpi e istituti fondamentali, applicabili a tutti i procedimenti o a categorie di essi, indipendentemente dalla loro struttura. La legge, comunque, impose alle amministrazioni, chiamate a individuare la durata massima e l’ufficio competente per ciascun tipo di procedimento, di operare un censimento dei propri procedimenti e, quindi, di conoscere meglio la propria attività. Alcune previsioni della legge, come la regola della motivazione, recepivano orientamenti giurisprudenziali. Altre, come il termine del procedimento, erano nuove. Alcune ebbero un successo immediato, altre rimasero a lungo in attesa di attuazione. Tra le parti della legge che ebbero maggiore successo, per opera della giurisprudenza amministrativa, vi fu quella relativa al diritto d’accesso ai documenti amministrativi. Questi sviluppi convergevano nel porre al centro dell’attività amministrativa l’idea di servizio, a favore dei cittadini, piuttosto che quella di supremazia dell’amministrazione. Nella stessa logica possono essere lette due ulteriori linee di evoluzione, relative rispettivamente ai controlli amministrativi e alla responsabilità civile della pubblica amministrazione. I primi furono più volte riformati, per superare l’approccio formalistico e introdurre forme di controllo più moderne, che consentissero di valutare il funzionamento complessivo degli uffici e la qualità delle prestazioni rese ai cittadini. In materia di responsabilità civile, la giurisprudenza dei giudici ordinari, anche a causa di stimoli derivanti dalla legislazione europea e da quella nazionale, superò l’orientamento che limitava fortemente la possibilità del privato, che non avesse ottenuto l’atto favorevole che gli era dovuto, di ottenere il risarcimento del danno subìto.

3.9. IL XXI SECOLO Il primo decennio del XXI secolo fu, per il diritto amministrativo, un periodo di stasi o di assestamento, con continue micromodifiche legislative ma poche riforme di ampio respiro. Oltre alla già menzionata riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione, tra i principali interventi

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legislativi si possono ricordare: una revisione della legge sul procedimento amministrativo, con la codificazione di alcuni princìpi giurisprudenziali relativi al regime di invalidità e all’efficacia del provvedimento amministrativo; l’adozione di un unico Codice dei contratti pubblici, che, recependo la corrispondente direttiva europea, sostituì le precedenti discipline, relative ai singoli tipi di contratto; e l’introduzione di una complessa disciplina dei sistemi di valutazione dei rendimenti degli uffici pubblici, che si voleva collegata al trattamento economico del loro personale, soprattutto dirigente. L’atto legislativo più importante del decennio, peraltro, fu il Codice del processo amministrativo. Questo Codice fu importante non solo perché diede una disciplina organica al processo amministrativo, sostituendo la precedente disciplina frammentaria e incompleta, ma anche perché costituì un passo importante per due processi evolutivi della giustizia amministrativa: quello relativo al riparto della giurisdizione, che, a dispetto di disposizioni legislative tanto antiche quanto ambigue e in esito a una tormentata storia di interventi legislativi e sentenze della Corte costituzionale, è giunta a individuare chiaramente nel giudice amministrativo il giudice del potere amministrativo; e quello relativo ai poteri istruttori e decisori del giudice amministrativo, che ha visto un progressivo ampliamento di questi poteri e, in particolare, delle azioni esperibili dinanzi a esso, a beneficio dell’effettività della tutela. Il secondo decennio del XXI secolo ha visto dapprima, in conseguenza della crisi economica, una legislazione volta principalmente al contenimento della spesa delle pubbliche amministrazioni, che ha comportato tra l’altro una preminenza del Ministero dell’economia e delle finanze nel governo delle amministrazioni stesse e una contrazione del numero dei dipendenti pubblici, arrivato a circa tre milioni. A partire dal 2014 si è avuta una ripresa del processo di riforma amministrativa, con un’abbondante legislazione delegata che è intervenuta su numerosi settori. Sono state introdotte modifiche, tra l’altro, alla legge sul procedimento amministrativo, al testo unico del pubblico impiego, al codice dell’amministrazione digitale, alla disciplina della trasparenza amministrativa (con riferimento alla quale è stato introdotto il diritto di accesso di chiunque a tutti i dati e documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, indipendentemente dalla titolarità di un interesse da tutelare), alla disciplina di varie categorie di enti pubblici (le camere di commercio, le aziende sanitarie, gli enti di ricerca). Sono state condotte due importanti operazioni di riordino normativo, con l’adozione del testo unico delle società pubbliche, che ha raccolto un’abbondante legislazione precedentemente disordinata e frammentaria, e del Codice della giustizia contabile, che ha introdotto una disciplina organica del processo dinanzi alla Corte dei conti. Il nuovo processo riformatore è consistito in una sorta di manu-

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tenzione straordinaria del sistema amministrativo, al fine di correggere alcune disfunzioni, di adeguare il funzionamento delle amministrazioni alle nuove tecnologie, di affermare princìpi come quello di trasparenza e quello di buona fede nei rapporti tra amministrazioni e cittadini, di dosare meglio l’autonomia delle singole amministrazioni e di rimuovere alcuni vincoli amministrativi allo svolgimento delle attività private.

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CAPITOLO 4 LE FONTI

SOMMARIO: 4.1. Le fonti del diritto amministrativo. – 4.2. Le norme prodotte dalle amministrazioni. – 4.3. I principi. – 4.4. Le norme generali. – 4.5. Le norme speciali.

4.1. LE FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO Finora si è trattato del diritto amministrativo in generale, per descrivere il modo in cui esso disciplina le funzioni amministrative, per individuarne i principali caratteri e per descriverne l’evoluzione. Occorre ora trattare, in particolare, dei singoli elementi da cui esso risulta, cioè le norme. Occorre, in altri termini, passare dalla “macroanalisi” del diritto amministrativo alla “microanalisi” delle sue componenti. A questo scopo, occorre innanzitutto operare una ricognizione delle norme di diritto amministrativo, classificandole in base alla loro origine. Occorre, in secondo luogo, distinguerle in base alla loro natura e al loro ambito di applicazione ed esaminare distintamente le categorie così individuate. La classificazione in base all’origine viene operata in questo paragrafo e nel prossimo, mentre alle principali categorie di norme, individuate in base al contenuto e all’ambito di applicazione, sono dedicati i due paragrafi successivi. Ci si concentra, dunque, innanzitutto sulle “fonti” del diritto amministrativo, cioè sugli atti o sui fatti dai quali derivano le relative norme, che regolano l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni e lo svolgimento delle loro funzioni. Una prima distinzione è quella tra le norme di autonomia, prodotte dalle stesse amministrazioni, e quelle “eteronome”, cioè imposte loro da altre fonti. Delle prime si dirà nel paragrafo successivo, delle seconde si tratta subito.

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Esse possono essere classificate in base al circuito politico che caratterizza i diversi ordinamenti che le producono. Sia per le une sia per le altre, vale per il diritto amministrativo – come per ogni altra disciplina giuridica – la distinzione tra le fonti scritte e quelle non scritte. Sia per le une sia per le altre, però, in questa materia il panorama è particolarmente ricco, per via della pluralità di tipi di amministrazioni, le quali – come si osserverà tra breve – di regola sono esse stesse produttrici di diritto. L’ordinamento al quale si riconduce gran parte del diritto applicabile alle amministrazioni (e che, fino a non molti decenni fa, tendeva quasi a porsi come produttore tendenzialmente esclusivo di diritto), è quello statale, nel quale il circuito politico è incentrato sul Parlamento, il quale – almeno in teoria – controlla le amministrazioni in due modi: attraverso il Governo, che dovrebbe ricevere indirizzi dal Parlamento (anche se di fatto è spesso il Governo a controllare il Parlamento) e a sua volta indirizza le amministrazioni statali; e attraverso la legge, con la quale il Parlamento pone direttamente vincoli per le amministrazioni. Tra questi due strumenti di controllo vi è una differenza di ambito, perché il primo riguarda principalmente le amministrazioni statali, direttamente controllate dal Governo nazionale, mentre il secondo può riguardare anche le amministrazioni non statali (nei limiti in cui lo Stato, e non le regioni, abbia la potestà legislativa per disciplinare le materie di volta in volta rilevanti). Le norme volte a disciplinare le amministrazioni, dunque, sono innanzitutto quelle legislative, cioè poste dalla legge o da atti aventi valore di legge. È noto che, nell’ordinamento italiano, le leggi possono essere emanate dal Parlamento, così come sono note le ipotesi in cui l’esercizio della funzione legislativa può essere temporaneamente assunto dal Governo (con un decreto-legge) o delegato a esso (per l’emanazione di un decreto legislativo). Si tratta di una materia – quella delle fonti del diritto – che non è propria del diritto amministrativo, ma del diritto costituzionale. In questa sede, va solo osservato che la componente amministrativistica, nell’ambito dell’attività legislativa del Parlamento e del Governo, è preponderante, nel senso che quasi tutti gli atti aventi forza di legge, emanati continuamente, si rivolgono alle pubbliche amministrazioni o demandano a esse attività esecutiva. A un livello territoriale più circoscritto vi è il circuito politico proprio delle regioni, nelle quali si replica il rapporto tra elettori, consigli regionali, giunte regionali e amministrazioni regionali. È noto che, in Italia, anche i consigli regionali – come il Parlamento nazionale – possono approvare leggi: ciò è importante, perché consente alle regioni di disciplinare materie che la Costituzione riserva alla legge. È noto altresì che il riparto delle funzioni legislative tra Stato e regioni è stato modificato, in senso più favorevole alle se-

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conde, con la riforma costituzionale del 2001. Anche questa è materia di diritto costituzionale, ma anche qui è il caso di segnalare, da un lato, che gran parte della produzione legislativa regionale investe materie amministrativistiche; dall’altro, che la riforma del 2001 ha limitato il potere dello Stato di disciplinare le amministrazioni delle regioni e degli enti locali, che per molti aspetti – in particolare quello dell’organizzazione delle proprie amministrazioni – possono autonomamente porre le relative norme. Dunque, Stato e regioni possono emanare atti aventi forza di legge. Naturalmente, essi possono emanare anche atti normativi di livello inferiore, cioè atti che contengono norme subordinate alle leggi: questi atti sono definiti fonti secondarie. Per esempio, il Governo statale e le giunte regionali emanano regolamenti e altri atti normativi di vario genere, e altrettanto fanno organi amministrativi dello Stato e delle regioni. Livelli territoriali ancora più circoscritti sono quelli degli enti locali: essi non hanno potestà legislativa, quindi emanano solo atti di normazione secondaria. Di questi atti normativi, subordinati alla legge, si dirà nel paragrafo successivo: per il momento, è sufficiente osservare che, se essi contrastano con previsioni legislative, sono illegittimi e possono essere annullati o disapplicati dal giudice e – entro certi limiti – dalle stesse amministrazioni. A un livello territoriale più ampio di quello statale, vi è il circuito politico proprio dell’Unione Europea, che in effetti ha un sistema istituzionale complesso, che non è incentrato sul Parlamento europeo, elettivo, nello stesso modo in cui la maggior parte degli ordinamenti statali europei sono incentrati sui rispettivi parlamenti. Anche la materia delle fonti del diritto europeo esula dal diritto amministrativo, ma anche qui occorre fare la consueta osservazione, in ordine all’ampiezza della normazione amministrativa di fonte europea: l’apparato amministrativo dell’Unione Europea è molto ridotto, ma il diritto europeo fa grande affidamento, per la sua attuazione, sulle amministrazioni nazionali (cioè quelle degli Stati membri in senso ampio: amministrazioni dello Stato, delle regioni, dei comuni e degli altri enti e organi pubblici). Di conseguenza, il rapporto tra diritto europeo e pubbliche amministrazioni nazionali si è, per così dire, gradualmente intensificato nel tempo: a tal punto che le amministrazioni nazionali devono, in presenza di un contrasto tra il diritto europeo e quello nazionale, applicare il primo e disapplicare il secondo, anche se prodotto dal Parlamento nazionale. Va poi osservato che il diritto europeo non è solo quello prodotto dagli organi dell’Unione Europea, ma anche quello riconducibile alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha a sua volta elaborato, facendoli derivare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, vari princìpi di condotta delle pubbliche amministrazioni.

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Infine, a un livello ancora più ampio, ma molto meno ordinato e omogeneo, vi è il diritto prodotto da numerosi regimi amministrativi globali, riconducibili a volte a organizzazioni internazionali (cioè costituite dai governi degli Stati), altre volte a organizzazioni di vario altro genere (costituite da singole amministrazioni statali, da associazioni professionali, da soggetti privati o da una combinazione di soggetti di tipi diversi). Il diritto da esse prodotto influenza le funzioni amministrative con un’intensità spesso paragonabile a quella del diritto europeo: per esempio, il potere delle amministrazioni dei singoli stati di regolare il commercio estero è ampiamente limitato non solo dal diritto dell’Unione Europea, ma anche da quello dell’Organizzazione mondiale del commercio. Molte materie sono di fatto disciplinate molto di più da fonti sopranazionali che da fonti nazionali: per esempio, molti prodotti industriali sono intensamente disciplinati dalle regole emanate da un’organizzazione non governativa (l’International Organization for Standardization), le cui norme tecniche sono recepite da molti stati. Similmente, i prodotti alimentari devono spesso essere conformi alle prescrizioni della Codex Alimentarius Commission, che riguardano tra l’altro gli ingredienti, le dimensioni, le modalità di confezionamento e di conservazione. Il discorso relativo alle fonti eteronome non scritte può essere più breve, in quanto esso si riduce essenzialmente alla descrizione del ruolo della giurisprudenza, della quale si è già trattato in precedenza. Come si è osservato in quell’occasione, molti dei princìpi e delle regole fondamentali del diritto amministrativo sono stati elaborati dai giudici e, spesso, poi recepiti dalle leggi: da essi, spesso con l’ausilio degli studiosi (la “dottrina” giuridica) è stata quindi costituita l’ossatura di princìpi, che regge i diversi settori del diritto amministrativo e sulla quale si innestano le varie discipline speciali. Si può qui aggiungere che, soprattutto nelle materie in cui il legislatore si limita opportunamente a porre norme generali, la giurisprudenza svolge, in materia amministrativistica non diversamente che in altre, un’opera di precisazione e integrazione delle disposizioni normative.

4.2. LE NORME PRODOTTE DALLE AMMINISTRAZIONI Le pubbliche amministrazioni sono non solo destinatarie, ma anche produttrici di norme giuridiche: hanno una certa autonomia normativa. L’ordinamento, infatti, affida spesso poteri normativi alle pubbliche amministrazioni. Dunque, non solo le funzioni amministrative sono ampiamente disciplinate dalle norme (cap. 1), ma lo svolgimento delle funzioni amministrative consiste spesso nell’emanazione di norme.

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Gli atti normativi emanati dalle amministrazioni sono di regola regolamenti amministrativi, cioè provvedimenti amministrativi aventi contenuto normativo, quindi generale e astratto. Questi atti sono soggetti, da un lato, al regime giuridico proprio degli atti amministrativi: sono subordinati alla legge e possono essere impugnati davanti a un giudice, che può annullarli se ravvisa un contrasto con la legge. Dall’altro, ad alcune regole tipiche delle fonti del diritto (come la stessa legge): devono essere pubblicati; la loro ignoranza è inescusabile, cioè non giustifica la loro violazione, quindi conoscerli è un onere di tutti gli interessati; vanno interpretati secondo i princìpi stabiliti dalle disposizioni sulla legge in generale, che precedono il Codice civile; non possono essere derogati da atti puntuali e la loro violazione rende illegittimo, per violazione di legge, l’atto puntuale che contrasti con essi; nel caso di loro violazione o erronea applicazione è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge; vale per essi il principio iura novit curia, quindi in un processo non è necessario produrli dinanzi al giudice. Il procedimento di adozione dei regolamenti varia notevolmente in base alle amministrazioni e alle materie. Per i regolamenti del Governo (sia quelli del Consiglio dei ministri, sia quelli dei singoli ministri), tuttavia, vi è una disciplina generale, contenuta nella legge n. 400 del 1988, che disciplina tra l’altro l’attività normativa del Governo. L’attività delle varie amministrazioni, peraltro, conosce molti altri tipi di atto, di contenuto generale e astratto, variamente denominati: determinazioni, deliberazioni generali, istruzioni, direttive, linee guida, regole di condotta e simili. Anche questi atti, comunque, contengono regole di comportamento che di regola vincolano l’azione delle amministrazioni stesse e di altri soggetti: fissazione di tariffe, regolazione dei flussi migratori, definizione dei requisiti per accedere a determinati benefici, adozione di piani urbanistici o sanitari, circolari interpretative di leggi. Spesso la natura normativa di questi atti è incerta. Incerto, di conseguenza, è il confine tra i regolamenti amministrativi (che sono atti normativi) e gli altri “atti amministrativi generali” (che non lo sono). La distinzione ha spesso impegnato studiosi e giudici, che la operano in base al criterio sostanziale, facendo ricorso a caratteri come l’innovatività, la generalità e l’astrattezza, o in base a quello formale, cioè considerando l’autoqualificazione dell’atto o il procedimento adottato per la sua emanazione. Il secondo criterio è più sicuro, ma si rivela insoddisfacente in presenza di atti dall’evidente contenuto normativo e aventi la forma di normali provvedimenti. L’eterogeneità e l’ambiguità di questi atti è accentuata dalla legislazione recente, che spesso affida ad autorità amministrative il compito di adottare direttive o linee guida di incerta natura in varie materie (come quelle dell’Autorità nazionale anticorruzione – Anac in materia di contratti pubblici e di trasparenza amministrativa).

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Indipendentemente dalla loro natura normativa, questi atti hanno una grande importanza nel funzionamento reale delle pubbliche amministrazioni. Come ben sa chi vi opera, una circolare produce spesso effetti maggiori di una legge. E, soprattutto, spesso le leggi hanno bisogno di circolari per essere applicate e spesso non trovano applicazione, semplicemente perché non sono conosciute dai funzionari pubblici, fino a quando non interviene una circolare informativa ed esplicativa. Le prassi, che così si instaurano, sono a volte di dubbia conformità alle leggi o alle fonti secondarie, ma può essere concretamente difficile correggere le prassi illegittime. Ciò dipende dalla frequente tendenza dei funzionari pubblici a evitare le responsabilità: disattendere una circolare significa assumersi una responsabilità, mentre applicarla significa eseguire una decisione altrui. I poteri normativi delle amministrazioni riguardano oggetti diversi. In primo luogo, quasi tutte le amministrazioni hanno una certa potestà normativa in ordine alla organizzazione dei propri uffici. A volte, questa potestà è riconosciuta dalla Costituzione: è il caso delle regioni e degli enti locali, che la Costituzione qualifica come “enti autonomi con propri statuti”. Altre volte, essa è riconosciuta dalla legge: spesso, per esempio, la legge istitutiva di un ente prevede che esso adotti norme organizzative. In generale, la legge prevede la categoria dei “regolamenti di organizzazione”, con i quali le amministrazioni dettano norme relative all’assetto e al funzionamento dei loro uffici. Si tende a riconoscere a tutte le amministrazioni pubbliche una certa autonomia organizzativa, che implica la capacità di porre norme relative al proprio funzionamento. Le amministrazioni emanano normalmente anche regolamenti relativi all’amministrazione e alla contabilità. Molti organi collegiali (consigli comunali, consigli di amministrazione, consigli di istituto, consigli di facoltà e simili) hanno un regolamento che ne regola la convocazione e lo svolgimento delle sedute. Ulteriori regolamenti e atti normativi riguardano i rapporti di lavoro dei dipendenti: codici di comportamento, norme sulle missioni, disciplina degli orari di ufficio, regolamenti sulla formazione, sulla mobilità, sulle pari opportunità, sulle autorizzazioni per gli incarichi esterni e così via. Per questi oggetti e per molti altri, le leggi pongono alcuni princìpi generali e demandano alle singole amministrazioni l’emanazione di norme di dettaglio. In secondo luogo, le amministrazioni disciplinano in via generale le modalità di svolgimento della propria attività, che normalmente si esplica attraverso procedimenti, cioè sequenze di atti e adempimenti vari. I procedimenti amministrativi sono soggetti ad alcune regole generali, poste dalla legge, che richiedono di essere integrate dalle stesse amministrazioni: per esempio, ciascuna amministrazione deve stabilire, in via generale, l’ufficio responsabile e la durata massima di ciascun tipo di procedimento, nonché le categorie di

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documenti e dati sottratte all’accesso. Le amministrazioni, poi, sono chiamate a disciplinare anche altri aspetti della loro attività e dei loro rapporti con i cittadini: per esempio, le comunicazioni al pubblico, l’uso dei cartellini di riconoscimento da parte del personale, l’accesso alle biblioteche, gli istituti di partecipazione e simili. In terzo luogo, le amministrazioni dettano norme per disciplinare lo svolgimento delle singole funzioni: anche in questo caso, si tratta di applicare e integrare previsioni legislative o regolamenti governativi. Per esempio, le università disciplinano lo svolgimento della didattica, le aziende sanitarie disciplinano il funzionamento degli ambulatori e dei reparti, le forze armate disciplinano il comportamento in servizio dei loro appartenenti, i comuni e i ministeri disciplinano un gran numero di funzioni nelle materie più varie. Spesso determinate amministrazioni hanno il potere di regolare lo svolgimento di funzioni di altre amministrazioni: per esempio, il Ministero dell’istruzione ha molti poteri normativi nei confronti delle scuole; le regioni ne hanno nei confronti delle aziende sanitarie. Infine, nello svolgimento delle loro funzioni le amministrazioni sono spesso chiamate a dettare norme che disciplinano attività di altri soggetti, pubblici o privati. Solo per fare qualche esempio, i comuni, nell’esercizio delle loro competenze in materia edilizia, disciplinano vari aspetti delle relative attività e, nell’esercizio di quelle in materia di igiene e pulizia delle strade, disciplinano il conferimento e lo smaltimento dei rifiuti; lo svolgimento di molte professioni è soggetto a regole emanate da ministeri o enti pubblici; il Ministero dell’economia detta norme, in materia di spesa pubblica, che vincolano altre amministrazioni pubbliche; la Banca d’Italia regola lo svolgimento dell’attività bancaria e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha intensi poteri di regolazione dei mercati delle telecomunicazioni. Dunque, le pubbliche amministrazioni dettano norme non solo per sé stesse, ma anche per soggetti privati. Anche per le fonti autonome, il discorso sulle fonti non scritte è più breve. Può operare anche in diritto amministrativo la consuetudine, cioè la formazione tacita di norme sulla base della ripetizione di certi comportamenti, nella convinzione che si tratti di comportamenti doverosi. Ma essa ha spazi alquanto limitati, per via della pervasività delle fonti scritte. Ben più importante è, nel diritto amministrativo, il ruolo della prassi amministrativa, cioè del modo in cui le amministrazioni applicano le norme e colmano i vuoti lasciati da esse. La prassi non è normalmente considerata una fonte del diritto, ma è indubbiamente di grande importanza in molte amministrazioni. Gli uffici pubblici tendono normalmente ad applicare i precedenti, a volte anche in presenza di novità legislative: ciò dipende da diversi fattori: una giusta preoccupazione per la continuità e l’imparzialità, ma anche la scarsa cono-

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scenza delle norme e della giurisprudenza e la già menzionata tendenza a evitare le responsabilità, che un’innovazione comporta.

4.3. I PRINCÌPI Per quanto riguarda il contenuto e l’ambito di applicazione, si può distinguere tra i princìpi del diritto amministrativo e le discipline di dettaglio. Questa distinzione non corrisponde a quella tra norme scritte e norme non scritte, perché i princìpi sono spesso enunciati da atti normativi, quindi costituiscono diritto scritto, così come le norme di origine giurisprudenziale possono ben essere norme di dettaglio. Vanno in primo luogo menzionati i princìpi enunciati dalla Costituzione con riferimento alla pubblica amministrazione: quelli di imparzialità e buon andamento. Essi hanno varie esplicazioni, inerenti sia all’organizzazione sia all’attività delle pubbliche amministrazioni. La Costituzione li riferisce all’organizzazione (ne derivano regole come quelle sulle incompatibilità dei dipendenti pubblici, sugli obblighi di astensione, sull’uso delle risorse pubbliche), ma la giurisprudenza e, poi, il legislatore ne hanno tratto regole relative anche all’attività: dall’imparzialità deriva il dovere di valutare e ponderare gli interessi rilevanti, dal buon andamento derivano i princìpi di economicità (inerente al rapporto tra risorse e risultati) e di efficacia (inerente al rapporto tra obiettivi e risultati). Un altro principio fondamentale, non espressamente enunciato dalla Costituzione, ma che affiora in alcuni dei suoi articoli, è quello di legalità, inerente al rapporto tra legge e amministrazione. Esso può essere inteso in due modi: nel senso che la pubblica amministrazione può fare solo ciò che la legge la autorizza a fare; e nel senso che la pubblica amministrazione deve sempre rispettare la legge. Nella prima accezione la legge è fondamento dell’attività amministrativa, nella seconda è limite e regola di essa. La prima accezione opera per i provvedimenti restrittivi, quelli con i quali l’amministrazione limita i diritti dei cittadini o impone loro un sacrificio: espropriazioni, imposizione di tributi, sanzioni e simili: per queste forme di attività, il principio di legalità opera in modo più intenso, perché vale la previsione costituzionale secondo la quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. In termini più generali, il principio implica che le amministrazioni devono sempre rispettare le norme, sia nell’emanazione di atti restrittivi sia nell’emanazione di atti favorevoli ai destinatari, e usare le proprie risorse conformemente alle finalità stabilite dalla legge. Ciò è implicito nella previsione costituzionale secondo la quale contro gli atti

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della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale: contro ogni atto dell’amministrazione ci si può sempre rivolgere a un giudice e, poiché i giudici applicano il diritto, ogni difformità dalle norme sarà da essi sanzionata. Accanto a questi princìpi fondamentali della Costituzione italiana, vanno menzionati alcuni princìpi del diritto europeo, a loro volta enunciati al più alto livello. Se, infatti, il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (il Trattato di Roma del 1957) non enunciava princìpi generali di diritto amministrativo – conformemente all’idea, dominante all’epoca, della Comunità come organizzazione operante al livello normativo più che amministrativo – la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (adottata a Nizza nel 2000) enuncia il “diritto a una buona amministrazione”, che si concreta nei princìpi di imparzialità, di adozione delle decisioni in un termine ragionevole, di partecipazione, di accesso e di motivazione delle decisioni. Ulteriori princìpi del diritto amministrativo sono enunciati dalla Costituzione o sono stati elaborati dalla giurisprudenza amministrativa ed europea, a volte sulla base di previsioni normative sparse. Alcuni di essi riguardano l’organizzazione della pubblica amministrazione. Tra questi, in primo luogo, quelli di autonomia e di decentramento: il primo riguarda i rapporti tra Stato ed enti autonomi, il secondo i rapporti tra organi centrali e organi periferici dello Stato. A questi princìpi si collegano quelli, già menzionati (cap. 2), relativi al riparto delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo, come il principio di sussidiarietà. In secondo luogo, il principio del merito, che la Costituzione declina come regola dell’accesso per concorso agli impieghi pubblici, ma che riguarda anche la progressione in carriera degli impiegati. Un altro principio organizzativo, che è stato affermato nel corso dell’ultimo ventennio ma poi è stato spesso smentito dalla legislazione, è quello della distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, cioè della distinzione tra le responsabilità dei politici e quelle dei dirigenti amministrativi. Altri princìpi riguardano l’attività delle amministrazioni. Tra questi, il principio del giusto procedimento (o del contraddittorio) e quello della partecipazione. Il primo riguarda i procedimenti che sfociano in misure restrittive per i destinatari, come quelli ablatori e quelli sanzionatori: prima dell’adozione di simili misure occorre svolgere un’adeguata istruttoria e offrire agli interessati la possibilità di essere ascoltati. Il secondo ha invece portata generale e implica il diritto degli interessati di partecipare ai procedimenti volti all’adozione di decisioni che li riguardano. Ulteriori princìpi, come quello della trasparenza e quello di semplificazione, sono enunciati nelle leggi in materia di procedimento amministrativo (cap. XVI). Ulteriori princìpi riguardano il contenuto delle decisioni delle ammini-

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strazioni e sono stati elaborati dalla giurisprudenza in sede di verifica della legittimità di atti amministrativi. Il principio di ragionevolezza è considerato, come quelli di imparzialità e buon andamento, un principio “assoluto”, perché non può mai cedere di fronte ad altri principi. In termini generici, la ragionevolezza indica la plausibilità e giustificabilità della scelta operata dall’amministrazione, quindi è alla base di varie regole empiriche elaborate dai giudici; in termini specifici, essa viene riferita al bilanciamento di interessi operato dall’amministrazione, che deve tenere conto degli interessi rilevanti e non comportare il loro inutile sacrificio. Il principio di proporzionalità, elaborato soprattutto dalla giurisprudenza amministrativa tedesca, è stato applicato anche in altri ordinamenti ed è ormai familiare alla giurisprudenza italiana: in base a esso, la scelta dell’amministrazione deve essere tale da raggiungere il risultato voluto, ma deve comportare il minore sacrificio possibile per gli interessi rilevanti. La giurisprudenza applica regolarmente, sia pure spesso senza enunciarli, ulteriori princìpi, come quello di buona fede (o del legittimo affidamento), che impone all’amministrazione di tenere conto dell’affidamento generato nei privati dai suoi provvedimenti e comportamenti, e quello di consequenzialità, che le impone di rispettare i criteri di azione che essa stessa si sia data, per esempio attraverso circolari o direttive. Oltre a questi princìpi generali, naturalmente, vi sono princìpi relativi a singole materie, posti dalle leggi di settore: per esempio, in materia di lavori pubblici, quelli di qualità, tempestività, correttezza, libera concorrenza tra gli operatori; in materia di incentivi alle imprese, quelli di origine europea (pubblicità delle risorse, necessità dell’aiuto, compatibilità, addizionalità, controllo); in materia di tutela dell’ambiente, quello di precauzione e quello dello sviluppo sostenibile.

4.4. LE NORME GENERALI Si è osservato nei capitoli precedenti che il diritto amministrativo si compone di una parte generale, risultante da istituti e concetti trasversali, e di una parte speciale, risultante dalle discipline di settore. A questa divisione corrisponde la distinzione tra le norme generali e le norme speciali. Le prime sono le norme comuni a tutte le funzioni amministrative: per esempio, le norme generali sul procedimento amministrativo e quelle sul personale. Le seconde riguardano singole funzioni o singoli settori, per esempio quelle in materia scolastica o sanitaria (comprese quelle relative ai relativi procedimenti e al personale scolastico o sanitario). Le prime sono quelle sulle quali

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si concentrano normalmente i manuali di diritto amministrativo: è sulla base di esse che è stata costruita la teoria del diritto amministrativo. Le seconde sono molto più numerose, ma ovviamente disomogenee e più difficili da ricondurre a sistema. Naturalmente, quella tra norme generali e norme speciali non è una distinzione netta: la natura generale o speciale di una norma dipende dal termine di paragone. La sua generalità o specialità può essere misurata, più che affermata o negata. Per esempio, in materia di procedimento amministrativo, vi sono norme molto generali, relative a tutti i procedimenti di tutte le amministrazioni; vi sono poi norme relative a determinate categorie di procedimento (come quelli sanzionatori o quelli autorizzatori); e vi sono quelle relative a singoli tipi di procedimento (il singolo procedimento volto a sanzionare una certa violazione o a rilasciare l’autorizzazione per lo svolgimento di una certa attività). Va poi ricordato che, come pure si è osservato in precedenza, il diritto amministrativo non è un diritto codificato: non vi è una legge fondamentale e comprensiva, ma una serie di discipline più o meno generali, che non sempre si coordinano bene tra loro. Ciò rende ancora più difficile tracciare un confine netto tra norme generali e norme speciali. Le norme generali sono spesso di derivazione giurisprudenziale, anche se nell’ultimo trentennio sono state emanate alcune importanti leggi, corrispondenti ad alcuni capitoli o concetti fondamentali del diritto amministrativo: l’organizzazione dei ministeri, gli enti locali, le società pubbliche, il pubblico impiego, la finanza, il procedimento e il provvedimento amministrativo, i contratti, i controlli, il processo amministrativo, i servizi pubblici. In effetti, negli ultimi decenni il legislatore ha modificato il proprio rapporto con il diritto amministrativo: alla legislazione frammentaria e occasionale si sono sostituite leggi di principio. Si può dire che la parte generale del diritto amministrativo risulta ormai in gran parte da queste leggi, delle quali si darà conto nei capitoli successivi. Tra le leggi generali, la più importante è probabilmente quella che pone la disciplina generale del procedimento amministrativo, in quanto enuncia le principali norme che regolano tutta l’attività delle pubbliche amministrazioni e i loro rapporti con i cittadini. Inoltre, sul terreno della disciplina generale del procedimento amministrativo si verifica una progressiva convergenza di diversi ordinamenti giuridici, che tendono a darsi discipline simili, in quanto ispirate ad alcuni princìpi fondamentali – in particolare quelli di partecipazione degli interessati, di trasparenza e di motivazione delle decisioni – che costituiscono una sorta di nucleo o base comune universale del diritto amministrativo. Questi princìpi sono enunciati e sviluppati nella legge italiana sul procedimento amministrativo (la legge n. 241 del 1990), e nelle leggi regionali, così come nelle leggi di numerosi altri stati e organismi sopranazionali.

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4.5. LE NORME SPECIALI Le norme relative alle singole funzioni amministrative sono, a loro volta, di generalità e astrattezza variabili. Esse costituiscono la maggior parte della normazione amministrativa e anche della normazione complessiva dell’ordinamento giuridico statale. Esse sono continuamente alimentate da un’attività legislativa alluvionale del Parlamento e – negli ultimi anni – soprattutto del Governo, che tende a concentrarsi in singoli atti normativi di dimensioni abnormi, come le leggi finanziarie o decreti-legge, poi convertiti dal Parlamento, che contengono centinaia di disposizioni nelle materie più varie. Si tratta di atti normativi, spesso redatti in modo affrettato, con tecnica legislativa mediocre e di difficile lettura, che aggravano la confusione del tessuto normativo, già notevole nell’ordinamento italiano. La Costituzione riserva alcune materie alla legge, escludendo fonti subordinate, ma non si preoccupa di evitare l’invadenza della legge nella definizione di norme di dettaglio che sarebbe preferibile lasciare a fonti subordinate. La normazione amministrativa italiana, in effetti, risente in modo particolare dei problemi legati all’inflazione normativa e alla frammentarietà delle discipline speciali: ben più della normazione di altri settori, come il diritto privato e il diritto penale, che – sia pure in un’epoca definita di “decodificazione” – continuano ad avere il loro centro nei rispettivi codici e a risultare da un numero relativamente ristretto di leggi. In Italia ci sono indubbiamente troppi atti normativi, tanto che è incerto anche il loro numero. Negli ultimi anni si è spesso discusso sia del numero, sia del metodo di calcolo. In una relazione al Parlamento del 2008, il Governo ha affermato che gli atti legislativi statali vigenti in Italia ammontavano a 21.691. A questi, ovviamente, vanno aggiunti gli atti di normazione secondaria, oltre alle fonti non statali (come le leggi regionali). L’inflazione normativa determina inevitabilmente anche il disordine normativo, perché rende spesso difficile individuare con certezza la disciplina applicabile a molti oggetti o materie. Le sue cause sono molteplici: tra le altre, l’eccesso di fiducia nella legge come strumento per risolvere i problemi; l’abuso di essa come strumento di propaganda o consenso elettorale; le pressioni dei gruppi di interessi, spesso interni all’apparato statale; il mancato ricorso a strumenti come la valutazione di impatto della regolazione; la tendenza della burocrazia a far adottare le proprie decisioni dal legislatore, per consolidarle e per mettersi al riparo da responsabilità; il circolo vizioso che costringe a intervenire nuovamente con leggi, per modificare quelle precedenti. I suoi effetti sono gravi: la difficoltà di individuare la norma da applicare al caso concreto; la conseguente esigenza di rivolgersi spesso ai professionisti del diritto; l’ar-

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bitrarietà dell’applicazione della legge da parte dei funzionari pubblici; il rischio di corruzione; la difficoltà dello stesso legislatore di svolgere consapevolmente il proprio ruolo e di valutare gli effetti delle proprie decisioni. In effetti, fermo restando che il numero di leggi è certamente eccessivo, il problema principale non è quello del loro numero, ma quello della sovrapposizione tra leggi diverse e del contenuto eterogeneo delle singole leggi: fattori che spesso rendono difficile individuare le norme da applicare al caso concreto. È la conseguenza di un modo di legiferare molto disordinato, che non si basa sulla correzione delle leggi precedenti, ma sulla continua emanazione di nuove leggi, scarsamente coordinate con le vecchie. A ciò si aggiunge che leggi molto lunghe e di contenuto vario, come le leggi finanziarie, complicano continuamente la disciplina di diversi settori, rendendo sempre più difficile l’individuazione delle leggi vigenti. Infine, anche conoscere il diritto vigente è spesso difficile, perché fino a poco tempo fa non esisteva un servizio pubblico e gratuito di pubblicazione delle norme: chi voleva conoscere il testo aggiornato delle leggi, doveva rivolgersi, a pagamento, a editori privati. Un simile servizio oggi esiste (con il sito internet “Normattiva”), ma è ancora incompleto e imperfetto. Ben diversa è la situazione in altri paesi, come gli Stati Uniti d’America e la Francia, dove il complesso delle leggi vigenti è tenuto in buon ordine, in un insieme coordinato di codici e leggi più o meno generali, nel quale è relativamente facile orientarsi, per trovare la norma rilevante per il caso concreto. Per far fronte a questi problemi, occorre sia ridurre il numero di leggi e regolamenti, sia riordinare quelli che rimangono. Negli ultimi venti anni, si è a volte proceduto a operazioni di riordino, riversando le norme, prima contenute in diversi atti normativi, in codici o testi unici: come quelli in materia di beni culturali, enti locali, maternità e paternità, tutela dei dati personali, comunicazioni elettroniche, nautica da diporto, radiotelevisione, assicurazioni private, contratti pubblici, società pubbliche. Ma si è trattato di iniziative episodiche, non inquadrate in un programma generale di riordino della legislazione, che sarebbe necessario. Inoltre, nell’ultimo decennio questo processo ha rallentato, anche se recentemente sono state compiute due importanti operazioni di codificazione, in materia di società pubbliche e di giustizia contabile.

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PARTE II

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

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Il perimetro della pubblica amministrazione

CAPITOLO 5

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IL PERIMETRO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

SOMMARIO: 5.1. Il problema della delimitazione. – 5.2. La pluralità di nozioni. – 5.3. La tendenza espansiva. – 5.4. La tendenza restrittiva. – 5.5. La dimensione della pubblica amministrazione.

5.1. IL PROBLEMA DELLA DELIMITAZIONE Si è osservato nei capitoli precedenti che il diritto amministrativo è il diritto che regola l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni e che la sua esistenza dipende dalla peculiarità dell’attività svolta dalle amministrazioni stesse. Ci si è poi soffermati sull’evoluzione del diritto amministrativo, sulle sue peculiarità e sulle sue componenti. Occorre adesso ritornare alle pubbliche amministrazioni, che – come si è già riferito – costituiscono sia soggetti del diritto amministrativo, in quanto lo producono, sia oggetti di esso, in quanto ne sono disciplinate. Ma quali sono le pubbliche amministrazioni, soggette al diritto amministrativo e protagoniste di esso? Definire il perimetro delle pubbliche amministrazioni significa delimitare l’ambito del diritto amministrativo stesso. Non è difficile distinguere le amministrazioni dalle altre istituzioni pubbliche, semplicemente perché queste sono chiaramente individuabili: gli organi titolari della funzione legislativa, al pari degli altri organi costituzionali, sono identificati dalla Costituzione, la quale pone anche una netta separazione tra giudici e pubbliche amministrazioni. Rispetto a queste istituzioni, dunque, quella delle pubbliche amministrazioni è una categoria residuale. Il problema è, invece, distinguerle dai soggetti privati. Il problema della distinzione tra pubbliche amministrazioni e soggetti

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privati si pone perché il diritto amministrativo è soggettivamente delimitato: riguarda solo le pubbliche amministrazioni (e i soggetti privati, nei limiti in cui abbiano rapporti con le amministrazioni stesse). Un simile problema non si pone, o è di soluzione talmente ovvia da poter essere ignorato, per altre discipline giuridiche: come il diritto privato, che si applica a tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici o privati che siano (similmente avviene per materie pubblicistiche come il diritto tributario); o il diritto penale, che si applica solo alle persone fisiche (salva la disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche, che peraltro esclude le amministrazioni pubbliche). Il diritto amministrativo, invece, è in gran parte un diritto di eccezione, un diritto derogatorio: detta per le amministrazioni princìpi e norme diversi da quelli applicabili agli altri soggetti dell’ordinamento. Stabilire chi rientra nell’ambito di applicazione di questi princìpi e di queste norme è quindi decisivo, ma spesso difficile. La difficoltà nasce dal fatto che mancano regole generali. Come si è osservato nei capitoli precedenti, il diritto amministrativo è una disciplina non codificata, risultante da poche norme generali e tante discipline speciali: i suoi istituti e princìpi fondamentali sono stati elaborati dalla scienza giuridica e dalla giurisprudenza, le quali sono ovviamente poco adatte a porre regole generali, applicabili a tutte le amministrazioni, tanto più a fronte di una legislazione difficile da armonizzare. In assenza di regole generali, si pongono spesso problemi relativi all’ambito di applicazione delle norme di diritto amministrativo. Questi problemi si pongono soprattutto per i soggetti che si collocano al confine tra diritto pubblico e diritto privato e la cui qualificazione come pubbliche amministrazioni è quindi incerta: enti pubblici economici, società partecipate da enti pubblici, privati che erogano servizi pubblici, concessionari di lavori pubblici, fondazioni bancarie, strutture private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, scuole paritarie, ordini professionali, enti sovvenzionati dallo Stato, enti privatizzati e simili. Il regime giuridico dei soggetti rientranti in queste categorie è spesso incerto: alla loro attività contrattuale si applica solo il Codice civile o deve applicarsi il Codice dei contratti pubblici? Nei loro confronti può essere esercitato il diritto di accesso ai documenti amministrativi? Sono soggetti al controllo della Corte dei conti? Possono annullare i propri atti, se illegittimi? E questi atti possono essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo? Il rapporto di lavoro del loro personale è soggetto solo alle norme sul lavoro privato, o anche a quelle pubblicistiche che derogano a esse? I loro funzionari rispondono alla Corte dei conti per i danni provocati al patrimonio dell’ente? E possono essere comandati presso una (altra) pubblica amministrazione? Il problema di distinguere la pubblica amministrazione dal settore privato

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è emerso soprattutto negli ultimi decenni, a causa della complicazione della legislazione amministrativa. In precedenza, la distinzione era abbastanza facile e si poteva ritenere che vi fosse un’unica linea di confine, coincidente con la distinzione civilistica tra persone giuridiche pubbliche e persone giuridiche private. Vari fattori hanno contribuito a complicare il quadro, creando molte aree grigie: l’attribuzione di funzioni pubbliche a soggetti privati; l’evoluzione della disciplina dei servizi pubblici, con il conseguente svolgimento di attività di interesse generale da parte di soggetti privati; il diritto europeo, che prescinde dalle qualificazioni giuridiche date dall’ordinamento nazionale e definisce autonomamente l’ambito di applicazione delle proprie discipline; la privatizzazione del lavoro pubblico; la legislazione in materia di contenimento della spesa, il cui ambito di applicazione è variabile; la tendenza espansiva di altre recenti discipline, come quella in materia di trasparenza.

5.2. LA PLURALITÀ DI NOZIONI Non vi è una regola generale, che consenta di qualificare un soggetto come pubblica amministrazione o di escludere questa qualificazione, e quindi di dare una risposta unitaria a questi problemi e ad altri simili. Vi sono, però, varie norme volte a risolvere singoli problemi: a definire l’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici, del diritto d’accesso ai documenti amministrativi, delle competenze della Corte dei conti e così via. Il fatto è che questi diversi ambiti di applicazione non coincidono. Ciò vuol dire che non esiste un’unica nozione di pubblica amministrazione, ma che ve ne sono tante: uno stesso soggetto può essere una pubblica amministrazione per certi aspetti e non esserlo per altri. Quello di pubblica amministrazione, dunque, non è un concetto unitario, né preciso. Dall’imprecisione di questo concetto deriva quella di vari altri concetti fondamentali del diritto amministrativo, come quelli di ente pubblico e di provvedimento amministrativo: anche queste nozioni, in assenza di una definizione, hanno confini sfumati e varie zone grigie, popolate da figure di ente o di atto che per alcuni aspetti vi rientrano e per altri non vi rientrano. Piuttosto che sforzarsi di rintracciare o ricostruire una nozione unitaria di pubblica amministrazione e di definirne i confini con precisione, occorre dunque prendere atto dell’esistenza di diversi criteri di delimitazione del perimetro delle pubbliche amministrazioni, posti da altrettante norme. Queste ultime provvedono a definire il proprio ambito di applicazione a volte elen-

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cando le amministrazioni, o i tipi di amministrazione, che vi rientrano, altre volte ponendo una definizione. È significativo, peraltro, che la definizione dell’ambito di applicazione manca in due delle più importanti discipline che compongono il diritto amministrativo, quelle che definiscono il regime giuridico applicabile alle decisioni delle pubbliche amministrazioni: la disciplina del procedimento amministrativo (cap. 15) e quella del processo amministrativo (cap. 20). Né la legge sul procedimento amministrativo, né il Codice del processo amministrativo definiscono la pubblica amministrazione, ma nessuno dubita che la prima si applichi ai procedimenti della pubblica amministrazione e che il secondo si applichi alle controversie della pubblica amministrazione. A ben vedere, questa è la conferma della mobilità del confine tra pubblico e privato, perché uno stesso soggetto può essere pubblica amministrazione (e, quindi, esercitare poteri amministrativi attraverso procedimenti e adottare i conseguenti provvedimenti, impugnabili dinanzi al giudice amministrativo) e non esserlo ad altri fini. Non meno significativo è che il Codice del processo amministrativo definisca l’ambito della giurisdizione amministrativa facendo riferimento non alla nozione di pubblica amministrazione, ma a quella di potere amministrativo (cap. 14): qualunque soggetto, nel momento in cui adotta una decisione nello svolgimento di una funzione amministrativa, è una pubblica amministrazione, soggetta alle relative regole. L’individuazione del potere amministrativo, che giustifica la giurisdizione del giudice amministrativo, è oggetto di decenni di giurisprudenza sul riparto della giurisdizione, di cui si tratterà in seguito (cap. 20). Il problema del perimetro della pubblica amministrazione, quindi, non deve essere affrontato ricercando una soluzione univoca, bensì esaminando alcune delle principali definizioni normative. Prima di farlo, è bene ribadire che le pubbliche amministrazioni sono soggette al diritto amministrativo, nella misura in cui questo disciplini l’una o l’altra materia, ma anche al diritto privato in via residuale. In base al diverso ambito di applicazione delle varie discipline amministrativistiche, il rapporto tra norme di diritto amministrativo e norme di diritto privato varia per le diverse categorie di amministrazioni. Ma tutte sono tenute, in assenza di norme derogatorie, al rispetto delle discipline generali, come quelle dettate dal Codice civile (sicché, per esempio, un’amministrazione può ben essere condannata al risarcimento del danno da inadempimento contrattuale) e dalla legge sulla concorrenza (sicché un’amministrazione, per esempio un ordine professionale, può ben essere sanzionata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato se pone in essere condotte anticoncorrenziali).

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5.3. LA TENDENZA ESPANSIVA Molte delle norme che danno una definizione di pubblica amministrazione costituiscono una reazione alla fuga delle amministrazioni dal diritto pubblico: da un lato, molte amministrazioni tendono a uscire dal perimetro della pubblica amministrazione e, quindi, a evitare l’applicazione del diritto amministrativo; dall’altro, le norme inseguono – per così dire – le amministrazioni fuggitive, per imporre loro il rispetto almeno di alcune regole di diritto amministrativo. Di conseguenza, il confine tra diritto privato, inteso come diritto “comune” a tutti i soggetti dell’ordinamento, e diritto amministrativo, derogatorio rispetto al primo, è non solo incerto, ma anche mobile: determinati soggetti sfuggono al diritto amministrativo per ricadere nel diritto privato, ma il diritto amministrativo reagisce spesso ampliando i propri confini, per riassoggettarli almeno in parte. La fuga delle amministrazioni dal diritto pubblico è una vicenda ricorrente da almeno un secolo e dipende da diversi fattori: l’esigenza di sottrarre determinate attività (come quelle di natura industriale) a un regime giuridico ritagliato intorno ad attività di tipo diverso (burocratico); l’esigenza di flessibilità nella gestione; la volontà di sfuggire all’eccessiva complicazione delle procedure amministrative; il timore dei controlli amministrativi; l’intenzione di assumere personale senza concorsi; più recentemente, l’esigenza di sottrarsi alle norme di contenimento della spesa pubblica; e altri ancora. Come si vede, a volte vi sono buone ragioni per sottrarre determinate amministrazioni al diritto pubblico, altre volte le ragioni sono meno edificanti o inconfessabili. La fuga dal diritto pubblico può risolvere qualche problema, ma può crearne altri. Lo dimostra il fenomeno, enormemente diffusosi negli ultimi due decenni, delle società interamente o parzialmente possedute da enti locali. Le società per azioni sono ovviamente figure privatistiche, soggette al diritto privato e non al diritto amministrativo. La costituzione di una società per azioni, per esempio per svolgere una funzione precedentemente svolta da un ufficio di un comune, può assicurare maggiore rapidità nell’adozione e nell’esecuzione delle decisioni, ma può rendere meno trasparente e controllabile la gestione di risorse pubbliche. È per questo che, negli ultimi anni, il legislatore ha spesso imposto a queste società il rispetto di regole proprie della pubblica amministrazione, come quelle relative al reclutamento del personale, all’accesso alle informazioni, all’attività contrattuale o alla responsabilità degli amministratori. In questo modo, il confine tra diritto privato e diritto amministrativo oscilla: il diritto amministrativo sembra espandersi, ma spesso si tratta solo di una parziale riconquista di territori perduti.

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Come si vede, alla fuga dal diritto pubblico l’ordinamento reagisce spesso “inseguendo” singoli tipi di figure soggettive. Altre volte, esso reagisce definendo la pubblica amministrazione in modo da impedire la fuga: ciò avviene quando il criterio di definizione è abbastanza ampio da prescindere dalla forma giuridica che la singola amministrazione abbia assunto. In altri termini, a volte le norme definiscono la pubblica amministrazione, assunta come ambito di applicazione di determinate discipline, in modo da comprendere soggetti che per altri aspetti – e anche per il Codice civile – sono privati. Simili definizioni sono frequenti nel diritto europeo, nonché nel diritto nazionale che recepisce discipline europee. Un primo esempio è dato dalla disciplina dei contratti della pubblica amministrazione. Come è noto, la relativa materia è ampiamente disciplinata dal diritto europeo, che mira ad assicurare parità di accesso ai relativi mercati (dei lavori pubblici, delle forniture e dei servizi forniti alle pubbliche amministrazioni) alle imprese dei diversi stati membri, evitando che ciascuno stato favorisca le imprese aventi sede nel proprio territorio. Per ottenere questo risultato, il diritto europeo impone alle amministrazioni dei diversi stati determinate regole, relative innanzitutto alla scelta dei soggetti ai quali commissionare lavori, forniture e servizi. Questa disciplina, naturalmente, si applica alle pubbliche amministrazioni: ma quali sono le pubbliche amministrazioni alle quali essa si applica? Se ogni stato potesse definirne il perimetro, sarebbe facile eludere il diritto europeo e favorire le imprese nazionali: basterebbe definirlo in modo restrittivo, esonerando da quella disciplina molti soggetti, qualificati come soggetti privati e non come pubbliche amministrazioni (per esempio gli ospedali, le scuole, le università, le società in mano pubblica). Per evitarlo, il diritto europeo definisce l’ambito di applicazione di quella disciplina in modo estensivo e sulla base di caratteri oggettivi, che prescindono dal modo in cui i singoli stati qualificano i propri soggetti. Sono “organismi di diritto pubblico”, tenuti all’applicazione di quella disciplina, tutti i soggetti aventi determinate caratteristiche (il perseguimento di interessi generali, lo svolgimento di attività non imprenditoriali, la personalità giuridica, il finanziamento o il controllo pubblico). Si tratta di una definizione estensiva, volta a ricomprendere anche soggetti che i singoli ordinamenti nazionali possono considerare estranei alla pubblica amministrazione. Poiché ogni definizione è soggetta a interpretazione e può generare incertezze, la definizione è poi completata da un elenco di amministrazioni, che consente di chiarire alcuni casi dubbi. Una simile esigenza di uniformità nell’applicazione delle norme, e di prevenzione della loro elusione, presentano le disposizioni in materia di contenimento dei disavanzi pubblici: anche esse tutelano un interesse dell’intera Unione Europea e sono soggette a possibili tentativi di aggiramento da parte

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dei singoli stati membri, che possono essere tentati di sottrarre determinate amministrazioni (per esempio, determinati enti previdenziali o società in mano pubblica, il cui bilancio presenti un grave passivo) al loro ambito di applicazione. Per evitarlo, il Protocollo sui disavanzi pubblici eccessivi del 1992 dà una definizione di pubblica amministrazione, comprensiva dell’amministrazione statale, regionale o locale e dei fondi di previdenza sociale, ad esclusione delle operazioni commerciali. Come si vede, il diritto europeo impone allo Stato il rispetto di certi equilibri finanziari, ma il rispetto di questi equilibri, da parte dello Stato, dipende dal rispetto complessivo da parte delle diverse amministrazioni, comprese quelle delle regioni e degli enti locali. Più in generale, lo Stato, per tenere sotto controllo la finanza pubblica nel suo complesso, ha bisogno di definire con precisione il perimetro delle amministrazioni, sia per raccogliere le relative informazioni, sia per definire l’ambito di applicazione di norme come quelle che limitano la spesa. A questo scopo, il legislatore ha elaborato nel tempo diverse definizioni, come quella di “settore pubblico”. Negli ultimi anni, per definire il perimetro della pubblica amministrazione, anche a fini contabili, le leggi fanno a volte ricorso ai criteri utilizzati dall’Istituto italiano di statistica (Istat) per elaborare le statistiche relative alle pubbliche amministrazioni. Il perimetro delle amministrazioni, a fini statistici, è definito dall’Istat sulla base di regole a loro volta definite al livello europeo (nell’ambito del Sistema europeo dei conti). In base a esse, rientrano tra le amministrazioni pubbliche: gli organismi pubblici che gestiscono e finanziano un insieme di attività, principalmente consistenti nel fornire alla collettività beni e servizi non destinabili alla vendita; le istituzioni senza scopo di lucro dotate di personalità giuridica che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita, che sono controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni pubbliche; e gli enti di previdenza. La legge prevede anche che l’Istat pubblichi annualmente l’elenco delle amministrazioni pubbliche, redatto in base a queste regole. Un ulteriore criterio di delimitazione del perimetro delle pubbliche amministrazioni, introdotto e spesso usato dal legislatore italiano, è quello contenuto nel testo unico delle disposizioni in materia di pubblico impiego (decreto legislativo n. 165 del 2001). Quest’ultimo definisce il proprio ambito di applicazione stabilendo che per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici na-

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zionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale. Anche a questa disposizione fanno spesso rinvio altre leggi, per definire il proprio ambito di applicazione.

5.4. LA TENDENZA RESTRITTIVA Non sempre le definizioni ed elencazioni delle pubbliche amministrazioni sono estensive e tendono a includere soggetti formalmente privati. A volte vi è un’esigenza opposta, di circoscrivere l’ambito di applicazione di discipline pubblicistiche, evitandone lo sconfinamento su soggetti privati o anche l’applicazione a determinati soggetti pubblici. Vi può essere, in altri termini, l’esigenza di interpretare restrittivamente il concetto di pubblica amministrazione. Anche di questa esigenza il legislatore a volte si fa carico, sia al livello europeo, sia a quello nazionale. Al livello europeo, la piena applicazione del diritto europeo può richiedere di interpretare estensivamente il concetto di pubblica amministrazione (come nel caso dei contratti pubblici, di cui si è riferito nel paragrafo precedente), ma anche di interpretarlo restrittivamente. È quanto avviene con riferimento al principio della libera circolazione dei lavoratori, che consente ai cittadini di ciascuno stato membro di circolare sul territorio degli altri stati membri per lavorare o per cercare lavoro. Esso vieta discriminazioni tra i lavoratori appartenenti a diversi stati membri, ma non si applica agli “impieghi nella pubblica amministrazione”: di conseguenza, nessuno stato membro può riservare determinati impieghi ai propri cittadini, a meno che non si tratti di impieghi con la pubblica amministrazione. Ma quali sono le amministrazioni, che costituiscono l’area di eccezione a questo principio e, quindi, i cui impieghi possono essere riservati a cittadini del relativo stato? La loro individuazione è lasciata all’interpretazione degli Stati membri, della Commissione europea (che controlla gli Stati) e in ultima analisi della Corte di giustizia dell’Unione Europea (che risolve le controversie tra Commissione e Stati). L’interpretazione di “pubblica amministrazione” fornita dalla Commissione e dalla stessa Corte di giustizia – nonché, di riflesso, dalle discipline dei singoli Stati membri – è diventata sempre più restrittiva, sicché gli Stati possono ormai riservare ai propri cittadini solo poche posizioni in settori come l’amministrazione della giustizia, della pubblica sicurezza e delle relazioni diplomatiche. Come si vede, il diritto europeo delimita il perimetro della pubblica amministrazione in senso molto ampio o molto ristretto, secondo la sua conve-

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nienza. Ma a volte anche il diritto nazionale ha l’esigenza di contenere, piuttosto che di estendere, l’ambito di applicazione di discipline pubblicistiche e, quindi, di definire restrittivamente la pubblica amministrazione. Negli ultimi anni, ciò avviene spesso a tutela della potestà legislativa delle regioni: le leggi statali spesso escludono determinati soggetti (come le amministrazioni regionali e, a volte, quelle degli enti locali) dal proprio ambito di applicazione, semplicemente perché lo Stato non ha il potere di disciplinarli e, se lo facesse, violerebbe la Costituzione, che riserva determinate materie alle leggi regionali. Questa preoccupazione è mostrata dall’uso, frequente nella legislazione recente, dell’espressione “pubbliche amministrazioni centrali” (in contrapposizione a quelle “locali”), che comprende i ministeri, compresi i loro uffici periferici (che altre volte vengono distinti da quelli centrali), nonché gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le istituzioni universitarie, gli enti pubblici non economici nazionali, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni - Aran, le agenzie previste dalla disciplina di riforma dei ministeri del 1999. Quando le leggi statali usano questa categoria, vogliono evitare di interferire nell’autonomia degli enti territoriali. La stessa esigenza è a volte sentita dai giudici, che spesso interpretano a loro volta restrittivamente le norme che fanno riferimento alla pubblica amministrazione. La Corte costituzionale, in particolare, per le stesse esigenze di salvaguardia dell’autonomia regionale, a volte interpreta in questo modo le leggi statali che definiscono il proprio ambito di applicazione facendo riferimento alla pubblica amministrazione: per evitare di dichiarare l’illegittimità costituzionale di queste leggi, la Corte afferma che il legislatore statale ha usato l’espressione “pubblica amministrazione” nel senso di “amministrazione statale”. Anche questa è una dimostrazione dell’elasticità dei confini del diritto amministrativo e dei suoi concetti.

5.5. LA DIMENSIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE In base a quanto precede, il sistema amministrativo italiano può essere descritto come un insieme di poligoni sovrapposti, ma aventi forma ed estensione diverse. Vi è un’area coperta da tutti i poligoni, che costituisce il “nucleo duro” della pubblica amministrazione, quello che vi rientra indipendentemente dal criterio che si adotti: nessuno dubita che il Ministero dell’interno sia una pubblica amministrazione e che gli agenti di polizia siano

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pubblici dipendenti a tutti gli effetti. Ma vi sono anche molte aree coperte solo da uno o da alcuni di quei poligoni e non da altri, che corrisponde a soggetti che stanno nella zona grigia tra diritto amministrativo e diritto “comune”. Come osservato in precedenza, non c’è una nozione unica di pubblica amministrazione, né confini certi. Nonostante tutto ciò e nonostante l’incertezza che ne consegue, occorre pur dare conto della realtà delle pubbliche amministrazioni, nella sua concretezza. Sui diversi tipi di amministrazione e sulla loro classificazione ci si soffermerà nel capitolo successivo. In questa sede, è sufficiente fornire un quadro complessivo e alcuni dati essenziali. Il sistema amministrativo italiano può essere descritto come un sistema solare, al cui centro c’è l’amministrazione centrale dello Stato. È bene chiarire subito che questo sistema solare si trova all’interno di un sistema più ampio, che è quello dell’Unione Europea, che peraltro ha un’amministrazione estremamente contenuta e modelli organizzativi relativamente semplici. Ed è bene chiarire anche che la “galassia” europea è a sua volta inserita in uno spazio giuridico globale, nel quale essa agisce spesso come un unico soggetto, che si confronta con altri soggetti (stati o aggregazioni di stati). Occorre chiarire ancora che allo spazio giuridico globale non corrisponde un unico ordinamento giuridico – non c’è un unico governo, né un’unica amministrazione del mondo – ma tanti regimi, a volte collegati tra loro. Dal punto di vista quantitativo (del personale impiegato e del bilancio) tutti questi regimi giuridici sopranazionali hanno dimensioni molto ridotte, ma essi esercitano poteri spesso rilevantissimi. Come quello europeo, sono regimi che si concentrano sulla creazione di regole, la cui attuazione è lasciata ad altri soggetti, innanzitutto le amministrazioni degli stati. Nell’ambito del sistema nazionale, oltre al centro vi è la periferia, che è affollata di singole amministrazioni e di reti o categorie di amministrazioni. Alcune amministrazioni sono più vicine al centro, come gli enti pubblici nazionali e le autorità indipendenti (anche fisicamente, nel senso che, salvo rarissime eccezioni, hanno sede a Roma); altre sono più lontane, come le università, gli enti lirici e le camere di commercio. Alcune categorie di amministrazioni sono collegate al centro: sono gli uffici periferici dello Stato (come le prefetture e gli uffici scolastici) o degli enti pubblici (come le direzioni provinciali di alcuni enti previdenziali); altre sono autonome, come le regioni, le province e i comuni. Alcune, come questi ultimi, rientrano in categorie disciplinate in via generale dalle norme; altre, come gli enti pubblici economici, hanno discipline singolari; altre ancora, come gli enti di ricerca, hanno sia una disciplina generale, sia discipline singolari. In termini quantitativi, ci si può basare sui dati dell’Istat, che hanno il vantaggio di essere precisi, in quanto basati su elenchi, e di essere calcolati

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sulla base di criteri applicati a scopi conoscitivi a livello europeo. In base a essi, le amministrazioni italiane sono poco più di diecimila, ma oltre ottomila di esse appartengono a un’unica categoria, quella dei comuni. Le amministrazioni centrali sono poco meno di duecento: organi costituzionali, ministeri, autorità indipendenti, enti pubblici di vario genere. A essi si aggiungono una trentina di enti previdenziali. Le amministrazioni centrali, dunque, sono poco numerose, ma molto grandi: basti pensare che nel solo Ministero della pubblica istruzione rientrano circa novemila scuole (che hanno autonoma personalità giuridica ma che, dal punto di vista amministrativo, sono strettamente dipendenti dal Ministero) e che da esso dipendono circa un milione di lavoratori. E si pensi alla dimensione del bilancio dei maggiori enti previdenziali. Le amministrazioni locali sono più numerose e di dimensioni più piccole: oltre ai comuni, vi sono venti regioni, un centinaio di province, una novantina di camere di commercio (per le quali è in corso un processo di aggregazione), alcune centinaia di comunità montane e di unioni di comuni, circa trecento aziende sanitarie ed enti ospedalieri, alcune centinaia di enti di vario genere.

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CAPITOLO 6 IL SISTEMA AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 6.1. Amministrazioni statali e non statali. – 6.2. L’organizzazione amministrativa dello Stato. – 6.3. Gli enti territoriali. – 6.4. Le altre amministrazioni pubbliche. – 6.5. Le società pubbliche. – 6.6. Le altre amministrazioni in forma privata. – 6.7. Le amministrazioni ultrastatali.

6.1. AMMINISTRAZIONI STATALI E NON STATALI Nel capitolo precedente sono stati esaminati i confini del sistema amministrativo ed elencate le sue principali componenti. Occorre ora esaminarle analiticamente, concentrando l’attenzione sulle varie figure soggettive, che lo compongono. Come già osservato, il sistema amministrativo si articola su diversi livelli: quello statale; al di sotto di esso, quello regionale e quelli degli enti locali; al di sopra di esso, quello europeo e quelli delle numerose organizzazioni internazionali aventi funzioni amministrative. L’idea è che al centro del sistema vi siano gli stati, da cui dipendono sia i livelli inferiori (per l’autonomia concessa dagli stati), sia quelli superiori (risultanti da organizzazioni volute dagli stati, con accordi internazionali). Per l’osservatore più attento, il quadro è molto meno ordinato e somiglia piuttosto a un cielo stellato o a una galassia, nella quale alcuni astri sono più grandi e luminosi di altri, ma non tutto è ordinato intorno a essi; le stelle minori tendono a rinforzarsi e, in una certa misura, ad assorbire parte della luce di quelle maggiori. L’immagine serve a rendere l’idea del pluralismo del sistema amministrativo e a mostrare che i problemi dell’organizzazione amministrativa si pongono e vengono affrontati in modi diversi, in relazione ai diversi tipi di am-

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ministrazione. Essa, peraltro, non deve indurre a conclusioni esagerate in ordine alla crisi dello Stato, che non sembra poter mettere in discussione, nel prevedibile futuro, l’importanza del diritto statale non solo nell’organizzazione delle amministrazioni statali, ma anche in quella delle organizzazioni infrastatali e sovrastatali. Rimane quindi attuale la distinzione fondamentale tra le amministrazioni statali e quelle non statali. Le prime sono considerate parti di un unico grande ente, che è lo Stato: è a esso, e non alle singole amministrazioni, che è attribuita la personalità giuridica. Le seconde sono o fanno capo a enti pubblici diversi dallo Stato. La distinzione tra organizzazione amministrativa statale e non statale, peraltro, è sempre meno netta, soprattutto per via delle varie forme di raccordo tra diverse amministrazioni. Per esempio, le amministrazioni composte, quali il Servizio sanitario nazionale e il Servizio nazionale della protezione civile, sono espressione dei diversi enti territoriali che costituiscono la Repubblica. Nelle amministrazioni a rete non è chiaramente identificabile un centro: per esempio, quella relativa al settore dell’ambiente, della quale fanno parte un ministero, un’agenzia, amministrazioni e agenzie locali, un’amministrazione europea. Vi sono poi enti di natura ambigua, come le scuole statali, che hanno autonoma personalità giuridica ma sono inserite nell’organizzazione periferica del Ministero dell’istruzione e, quindi, nell’organizzazione amministrativa statale.

6.2. L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA DELLO STATO Le amministrazioni statali sono, innanzitutto, la Presidenza del Consiglio e i ministeri. Essi sono accomunati dal fatto di avere al proprio vertice una figura politica – rispettivamente, il Presidente del Consiglio e i ministri – che, in quanto componenti del Governo, assicurano la trasmissione dell’indirizzo politico all’amministrazione statale. Si tratta di uffici complessi, articolati in altri uffici e organizzati sulla base di previsioni legislative, come richiesto dall’art. 95 cost., che pone una riserva di legge sulla loro organizzazione. La Presidenza del Consiglio (disciplinata principalmente dalla legge n. 400 del 1988 e dal decreto legislativo n. 303 del 1999) ha in primo luogo funzioni di coordinamento delle altre amministrazioni, ma ha anche funzioni di amministrazione attiva in varie materie, come l’editoria e la protezione civile. Essa si articola in numerosi uffici e dipartimenti, a capo dei quali sono posti a volte ulteriori ministri, detti ministri senza portafoglio perché non hanno una propria amministrazione (peraltro, alcuni dipartimenti, come

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quello della funzione pubblica, hanno dimensione paragonabile a quella di un ministero). I ministeri, attualmente tredici, sono costituiti in funzione di gruppi omogenei di interessi pubblici e funzioni amministrative. Essi sono stati costituiti in momenti diversi: alcuni risalgono al diciannovesimo secolo (così quelli dell’interno, degli affari esteri, della difesa, della giustizia e dell’istruzione), altri sono molto più giovani (così quelli della sanità, del turismo, dei beni culturali e dell’ambiente). Alcuni sono stati istituiti e poi soppressi (così quelli della marina mercantile e delle partecipazioni statali), per poi essere a volte ricostituiti (così, più volte, quello dell’agricoltura). Altri sono stati accorpati (così quelli del tesoro, del bilancio e delle finanze, confluiti nel Ministero dell’economia), per poi essere a volte nuovamente divisi (così, più volte, quello dell’istruzione e quello dell’università). L’organizzazione, la denominazione e, come si vede, la stessa esistenza dei singoli ministeri sono soggetti a una certa instabilità, in quanto spesso cambiano al cambiare dei governi. Vi è, comunque, una disciplina generale dei ministeri, contenuta nel decreto legislativo n. 300 del 1999, che definisce anche, a norma dell’art. 95 cost., l’organizzazione e le attribuzioni di ciascuno di essi. All’interno, i ministeri sono articolati in grandi uffici, che sono chiamati direzioni generali (secondo il modello più tradizionale), dipartimenti (secondo un modello più recente) o servizi (in casi particolari). Questi uffici sono a loro volta articolati in uffici più piccoli, a volte chiamati divisioni. Oltre a questi uffici, detti di line, vi sono gli uffici di staff, che svolgono funzioni di diretta collaborazione con i ministri: gabinetto, ufficio legislativo, ufficio stampa e simili. In alcuni ministeri, peraltro, la distinzione tende a sfumare, in quanto gli uffici di staff hanno dimensioni notevoli e svolgono normali funzioni amministrative o vengono duplicati all’interno di quelli di line. Nel modello ottocentesco, di derivazione francese, nei ministeri si concentrava tutta l’amministrazione dello Stato. Il ventesimo secolo ha visto un progressivo superamento di questo modello di amministrazione compatta e ordinata gerarchicamente, con la nascita di varie amministrazioni distinte e autonome dai ministeri. Accanto allo Stato, vi sono altre persone giuridiche pubbliche (cioè altri enti pubblici) e i ministeri, pur non essendo persone giuridiche autonome, hanno una certa capacità giuridica (cap. IX). Ai ministeri si aggiungono le agenzie, figure con funzioni tecnico-operative che si sono diffuse nell’ordinamento italiano negli anni Ottanta e hanno trovato una disciplina generale nel 1999. A esse sono affidate funzioni in varie materie, tra cui la protezione civile e la tutela dell’ambiente e hanno un particolare collegamento con il ministero competente. Un gruppo a parte sono le agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, Agenzia delle dogane e dei monopoli; l’Agenzia del demanio mantiene la denominazione, ma è stata invece

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trasformata in un ente pubblico economico), collegate al Ministero dell’economia. Oltre agli uffici centrali, che con pochissime eccezioni hanno sede a Roma, vi sono gli uffici periferici dello Stato, sparsi sul territorio nazionale. Molte amministrazioni centrali hanno le loro reti di amministrazioni periferiche: per esempio, le prefetture e gli uffici scolastici regionali. Rispetto agli uffici periferici delle altre amministrazioni, le prefetture si distinguono in quanto hanno una competenza generale e funzioni di coordinamento nei confronti degli altri uffici periferici. Nell’ultimo ventennio si è più volte tentato di unificare nelle prefetture-uffici territoriali del Governo quasi tutte le reti periferiche statali, ma i tentativi sono sempre falliti.

6.3. GLI ENTI TERRITORIALI Tra gli enti pubblici, quelli territoriali (regioni ed enti locali) si caratterizzano per l’autonomia politica, che deriva dall’essere rappresentativi di comunità territoriali. Come lo Stato, hanno al loro vertice organi titolari di una funzione di indirizzo politico. Come riferito in precedenza (cap. 1), a norma dell’art. 118 cost., a essi, e in particolare ai comuni, dovrebbero essere attribuite in via prioritaria le funzioni amministrative. Le regioni, naturalmente, hanno in comune con lo Stato anche la potestà legislativa. Tutti gli enti territoriali hanno un’ampia autonomia in ordine alla loro organizzazione amministrativa, che normalmente è modellata su quella ministeriale: si articola in assessorati, al vertice dei quali – come nei ministeri – sono posti organi politici, appunto gli assessori. Tuttavia, la definizione degli organi di governo e delle funzioni fondamentali degli enti locali è materia di potestà legislativa esclusiva dello Stato. La relativa disciplina è sempre stata contenuta in un testo unico: quello attualmente vigente è stato adottato con il decreto legislativo n. 267 del 2000. Negli enti locali vi è un segretario comunale o provinciale, scelto da un albo nazionale, e spesso un direttore generale. Gli enti territoriali si associano spesso in ulteriori figure, per svolgere in modo congiunto o coordinato funzioni di interesse comune, o anche in vista di future aggregazioni: per esempio, i consorzi, le unioni di comuni, le comunità montane. D’altra parte, i comuni più grandi possono suddividere il proprio territorio tra municipi, ai quali decentrare determinati compiti. Il coordinamento tra lo Stato e gli enti territoriali ha sedi istituzionali, che sono la Conferenza Stato-regioni, la Conferenza Stato-città e la Conferenza unificata, che sono spesso chiamate a esprimere pareri sui provvedimenti go-

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vernativi inerenti a materie di interesse degli enti territoriali. Il coinvolgimento di queste conferenze intergovernative è spesso necessario – e richiesto dalla giurisprudenza costituzionale, in applicazione del principio di leale collaborazione tra Stato ed enti territoriali – per lo svolgimento di funzioni amministrative di interesse comune.

6.4. LE ALTRE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE Estranee all’apparato ministeriale e, soprattutto, al principio della responsabilità ministeriale, in quanto sottratte all’indirizzo politico governativo, sono le autorità indipendenti, che si sono ampiamente diffuse nell’ordinamento italiano negli ultimi decenni. Esse sono istituite proprio per svolgere funzioni che richiedono un certo distacco dalla politica, in quanto si tratta di funzioni arbitrali, inerenti al funzionamento dei mercati o alla tutela di alcuni diritti, e devono essere svolte al riparo dagli interessi dei soggetti privati e delle stesse forze politiche. Alcune di esse operano nella regolazione della finanza privata (la Banca d’Italia, la Commissione nazionale per le società e la borsa – Consob e l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni – Ivass), altre nel settore dei servizi pubblici (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, l’Autorità di regolazione dei trasporti), altre ancora in settori ulteriori. Alcune hanno competenze trasversali a diversi settori (l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato e il Garante per la protezione dei dati personali). La maggior parte di esse ha il compito di occuparsi della regolazione di un singolo settore o di settori omogenei (l’energia, il gas, l’acqua; le telecomunicazioni; i trasporti) o di un singolo interesse pubblico (la concorrenza; la tutela dei dati personali), ma vi sono eccezioni, come l’Autorità nazionale anticorruzione – Anac, che ha diversi compiti, relativi principalmente a un settore (i contratti pubblici) e a due interessi solo parzialmente connessi tra loro (la trasparenza e la prevenzione della corruzione). Le autorità indipendenti sono spesso dotate di importanti poteri normativi, oltre che di poteri amministrativi di vario genere e di funzioni di risoluzione di controversie. La loro indipendenza è in realtà variabile, essendo legata ai meccanismi di nomina dei loro componenti (a volte di competenza del Governo, altre volte dei presidenti delle Camere, altre volte ancora vincolata al parere favorevole di maggioranze parlamentari qualificate) e da varie forme di autonomia (organizzativa, finanziaria, contabile e così via). Distinti dall’amministrazione statale sono, poi, ovviamente, i diversi tipi di ente pubblico. Quella degli enti pubblici è una categoria estremamente

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eterogenea: l’unico elemento comune è la personalità giuridica di diritto pubblico, ma anche questo elemento non è sempre facile da individuare: è un aspetto dell’incertezza o pluralità dei confini della pubblica amministrazione (cap. 5). A parte quelli territoriali, gli enti pubblici sono un insieme molto eterogeneo per origine, dimensione e struttura. Tra essi si fanno varie distinzioni. Per esempio, in base alla natura dell’attività svolta si distingue tra enti pubblici economici e non economici: quelli economici svolgono attività d’impresa, ma sono una categoria ormai molto ridotta (tra i principali, l’Agenzia del demanio, la Società italiana autori ed editori – Siae, l’Ente nazionale per il turismo – Enit); la grande maggioranza degli enti pubblici sono non economici. In base alla struttura, si distingue tra gli enti associativi e quelli che hanno struttura di fondazione. Quelli associativi hanno soci e le decisioni più importanti sono prese di regola dall’assemblea. Anche le dimensioni sono variabili: alcuni enti, come quelli previdenziali, hanno un’articolazione molto complessa, molti dipendenti ed enormi bilanci; altri, soprattutto a livello locale, hanno una dimensione minima (si pensi, per esempio, a certi istituti culturali o agli ordini professionali di piccole province).

6.5. LE SOCIETÀ PUBBLICHE Un altro confine che l’evoluzione del sistema amministrativo tende a rendere sfumato è quello tra amministrazione pubblica e soggetti privati. A causa di vari fattori (tra i quali il favor per lo svolgimento di attività di interesse generale da parte dei cittadini, espresso dall’art. 118 cost.), si diffondono sia forme di amministrazione pubblica in forma privata (come le società per azioni in mano pubblica), sia l’attribuzione a privati di funzioni amministrative (come vari poteri di certificazione e la gestione di attività strumentali, quali la manutenzione degli edifici e la gestione del parco auto). Il fenomeno delle amministrazioni pubbliche in forma privata è un aspetto della fuga dal diritto pubblico di cui si è riferito nel capitolo precedente, che dà luogo a forme organizzative ibride, regolate in parte da norme di diritto pubblico e in parte da norme di diritto privato. L’esempio principale è quello delle società in partecipazione pubblica. Nell’ultimo trentennio, esse si sono notevolmente diffuse, anche per via della trasformazione di molti enti e aziende pubblici in società di capitali, che spesso sono rimaste in controllo pubblico e sono diventate la forma più frequente di gestione dei servizi pubblici. Altre società sono state costituite, soprattutto da parte degli enti locali, per la gestione di attività strumentali (la

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manutenzione o la vigilanza degli edifici, i servizi informatici, gli acquisti) e anche per lo svolgimento di funzioni amministrative, per esempio in materia di assistenza o per la realizzazione di opere pubbliche. Questa diffusione è stata consentita dalla giurisprudenza e poi dalla legislazione europee in materia di affidamenti in house, in base alle quali le amministrazioni possono affidare contratti, senza l’espletamento di una gara, alle società (o altri organismi) interamente possedute da esse e che lavorino prevalentemente per esse, purché esercitino sulle stesse società un controllo particolarmente intenso, analogo a quello che esse esercitano sui loro uffici: simili società, infatti, al di là della forma giuridica societaria, sono sostanzialmente inserite nell’organizzazione delle amministrazioni stesse. Non sono mai mancate, poi, le società a controllo pubblico che svolgono attività d’impresa, nei settori più vari. La proliferazione di società controllate o partecipate da pubbliche amministrazioni, spesso fonti di spesa e caratterizzate da gestioni poco trasparenti, ha determinato un certo sfavore del legislatore nei confronti di esse, che ha dato luogo nell’ultimo decennio a un’abbondante legislazione relativa, tra l’altro, alla stessa possibilità di costituirle, al loro ambito di azione, alla scelta del socio privato, ai poteri dell’azionista pubblico, alla composizione degli organi, alla nomina degli amministratori, ai loro compensi, al reclutamento del personale, alla trasparenza amministrativa, all’attività contrattuale e ai controlli. Questa disciplina è stata opportunamente codificata in un testo unico (adottato con il decreto legislativo n. 175 del 216), che ha tra l’altro stabilito che le amministrazioni pubbliche possono acquisire o mantenere partecipazioni societarie solo per ragioni di interesse pubblico, connesse alla gestione di servizi pubblici o attività strumentali o alla realizzazione di opere pubbliche. Come si vede, questa disciplina speciale dà vita a un vero e proprio diritto delle partecipazioni pubbliche, che fa di queste società un tipo distinto da quelle regolate esclusivamente dal Codice civile e dalle norme di diritto privato. È una disciplina che tende a rendere le pubbliche amministrazioni efficienti come normalmente sono gli azionisti privati, introducendo regole e controlli tipicamente amministrativistici, in quanto volti a regolare l’adozione di decisioni di interesse pubblico e l’uso di risorse pubbliche. La specialità di questa disciplina, peraltro, ha intensità variabile (come sempre avviene per il diritto amministrativo: cap. 2). La deviazione dal diritto privato è più forte per le società a controllo pubblico, e ancora di più per quelle in house. È molto meno forte per le società meramente partecipate da pubbliche amministrazioni, per le quali la legge regola il comportamento dell’azionista pubblico, mentre le vicende delle società sono lasciate al diritto privato. È ancora meno forte per le società a partecipazione pubblica quotate, per le quali il controllo operato dal mercato finanziario e le misure di trasparenza

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previste dalla relativa disciplina rendono superflua l’applicazione della disciplina pubblicistica. Alla disciplina speciale ma “generale”, in quanto relativa a tutte le società in partecipazione pubblica” si aggiunge, per alcune società (come Rai, Cassa depositi e prestiti e Invitalia), una disciplina “singolare” in relazione agli specifici compiti che il legislatore attribuisce loro.

6.6. LE ALTRE AMMINISTRAZIONI IN FORMA PRIVATA Ulteriori ipotesi di amministrazioni pubbliche in forma privata sono date dalle varie persone giuridiche private che svolgono funzioni pubbliche, come gli enti previdenziali di alcune categorie di lavoratori (quali gli avvocati, i dottori commercialisti, gli ingegneri e gli architetti), che sono state privatizzate negli anni Novanta. Un’altra ipotesi è quella dei privati che svolgono attività amministrativa, fenomeno a sua volta intensificato negli ultimi decenni, nei quali si è avuta una tendenza all’esternalizzazione sia di funzioni amministrative, sia di servizi strumentali. Dal primo punto di vista, lo svolgimento di funzioni di interesse generale da parte dei privati è sempre stato diffuso: si pensi al ruolo delle associazioni private nel settore dell’assistenza ai poveri, ai malati o agli anziani. Peraltro, in tempi recenti sono state attribuite a privati importanti funzioni di vario genere: per esempio di regolazione, anche con l’attribuzione a essi di poteri normativi, come nel caso del regolamento del mercato mobiliare, elaborato dalla società di gestione della borsa; o di controllo su attività private, come nel caso del sistema di qualificazione delle imprese che vogliano partecipare a contratti pubblici (cap. 18) o del controllo dei gas di scarico degli autoveicoli, entrambi affidati a imprese private. A volte, per le attività in questione gli operatori privati ricevono un finanziamento pubblico, come nel caso dell’assistenza fiscale, fornita dagli istituti di patronato. Dal secondo punto di vista, le amministrazioni hanno in gran parte dismesso alcune attività non consistenti nello svolgimento di funzioni amministrative, ma di natura strumentale rispetto a esse. Molte amministrazioni, infatti, (quando non si affidano a organismi in house, dando luogo a un’esternalizzazione solo formale) preferiscono ormai ricorrere al mercato, cioè a imprese private, per attività come la sicurezza e la pulizia degli edifici, la gestione degli automezzi e il pagamento degli stipendi. Il fenomeno, in realtà, non dà luogo ad amministrazioni in forma privata, ma implica comunque lo svolgimento di attività di interesse pubblico da parte di privati.

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6.7. LE AMMINISTRAZIONI ULTRASTATALI Occorre infine menzionare le amministrazioni di dimensione ultrastatale: quelle europee e quelle degli organismi internazionali e globali. L’apparato amministrativo europeo fa capo principalmente alla Commissione europea: come i governi nazionali, essa è un organo collegiale, ma i suoi componenti hanno responsabilità individuali in ordine alla guida delle strutture amministrative, che sono direzioni generali e uffici equiparati. Vi sono, poi, ulteriori strutture, come la Banca centrale europea e il Mediatore europeo, nonché ulteriori tipi di amministrazione, come le agenzie europee. L’Unione Europea ha una struttura amministrativa molto più leggera degli stati e i suoi uffici sono in gran parte concentrati presso le sedi delle istituzioni europee, soprattutto a Bruxelles: gli uffici decentrati (come gli uffici di rappresentanza presso gli Stati membri) sono pochi e relativamente piccoli. Essa non ha reti di uffici periferici, come quelle degli stati. Ciò dipende principalmente dall’idea originaria, secondo la quale le istituzioni europee hanno compiti normativi e di indirizzo, ma non esecutivi, in quanto l’esecuzione del diritto europeo è affidata alle amministrazioni nazionali. In parte, questa immagine è ancora corrispondente alla realtà, dato che le funzioni amministrative delle istituzioni europee non sono paragonabili, per importanza, a quelle normative. Nel tempo, però, anche la dimensione amministrativa ha notevolmente accresciuto la propria importanza e l’amministrazione europea si è ingrandita: basti pensare che il personale della Commissione è ormai di oltre 40mila unità. Ciò dipende da diversi fattori. In primo luogo, vi sono materie nelle quali il modello non è quello dell’amministrazione indiretta, appena descritto, bensì quello dell’amministrazione diretta, in cui le funzioni sono svolte dall’amministrazione europea. Il settore più importante è quello della tutela della concorrenza nei mercati comunitari, le cui funzioni sono affidate alla Commissione, che può conseguentemente esercitare poteri anche penetranti, come quello di svolgere ispezioni presso le imprese e quello di irrogare pesanti sanzioni pecuniarie. In secondo luogo, vi sono molte materie in cui si è imposto il modello della coamministrazione, nel quale le funzioni amministrative sono svolte congiuntamente dalle amministrazioni europee e da quelle nazionali, con procedimenti che si svolgono in parte presso le une e in parte presso le altre. L’esempio principale è quello dell’agricoltura, in cui il ruolo delle amministrazioni nazionali – per esempio, per l’istruttoria delle domande di finanziamento presentate dalle imprese agricole – è necessario per l’adozione degli atti di competenza di quelle europee. In terzo luogo, in aggiunta agli uffici della Commissione, sono stati costi-

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tuiti nel tempo vari ulteriori uffici, come le già menzionate agenzie: quella dell’ambiente, quella per i medicinali, quella per la sicurezza aerea, quella per la sicurezza alimentare e numerose altre. L’istituzione di un’agenzia europea si inserisce spesso in un modello di disciplina europea, di un certo settore, basato sulla cooperazione tra queste istituzioni e una rete di istituzioni nazionali, che il diritto europeo impone agli stati di costituire o individuare. Le funzioni amministrative sono svolte in modo coordinato dai vari uffici nazionali, sulla base delle norme europee e sotto il coordinamento dell’agenzia europea. Vi sono, poi, amministrazioni aventi una disciplina singolare, come l’Università europea e l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf). Un’ulteriore forma di coordinamento tra amministrazione europea e amministrazioni nazionali è dato dai numerosi comitati composti da funzionari nazionali che, nelle diverse materie e con funzioni variabili, agiscono in sede europea. Essi sono normalmente presieduti da un funzionario della Commissione e composti da un rappresentante dell’amministrazione competente di ciascuno stato membro e hanno compiti a volte regolatori, a volte solo consultivi. Essi sono rilevanti in ordine al rapporto tra istituzioni europee, in quanto costituiscono uno dei modi in cui le norme, emanate dal Consiglio e dal Parlamento, condizionano lo svolgimento delle funzioni da parte della Commissione. E, ovviamente, sono rilevanti soprattutto in ordine al rapporto tra amministrazione europea e amministrazioni nazionali. L’una e le altre beneficiano da questa collaborazione: le seconde ottengono di partecipare ai processi decisionali comunitari, la prima rafforza la legittimazione delle proprie decisioni e promuove l’integrazione amministrativa. Questi modelli di coordinamento tra amministrazioni nazionali e ultranazionali – eventualmente con l’intervento delle istituzioni europee – si diffondono ormai anche al livello globale. Solo per fare qualche esempio, si pensi ai provvedimenti di congelamento dei beni dei soggetti sospettati di terrorismo o accusati di crimini contro l’umanità (i relativi provvedimenti sono adottati dalle Nazioni Unite ed eseguiti dall’Unione Europea e dai singoli stati); alle segnalazioni da parte dell’Interpol di individui ricercati, che possono conseguentemente essere arrestati dalle forze dell’ordine dei singoli stati; alla disciplina bancaria, nella quale le autorità statali di vigilanza (come la Banca d’Italia) eseguono non solo le decisioni europee, ma anche quelle adottate dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, organo informale composto dagli organi di vertice delle stesse autorità statali; alle decisioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) di inserire determinati siti nell’elenco dei beni che costituiscono il patrimonio dell’umanità o nell’elenco dei siti in pericolo, decisioni che possono incidere notevolmente sugli interessi economici degli stati e delle imprese. Gli esempi potrebbero essere molto numerosi e mostrano che del pano-

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rama delle amministrazioni pubbliche fanno parte anche le amministrazioni che governano i regimi regolatori globali, amministrazioni che hanno natura e caratteri molto eterogenei. Alcune sono normali organizzazioni internazionali, come l’Organizzazione delle Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale del commercio. Altre sono semplici associazioni o forme di coordinamento tra autorità nazionali, come l’International Competition Network operante nel settore della tutela della concorrenza. Altre ancora sono associazioni private di imprese o di organizzazioni professionali, come l’International Organization for Standardization (Iso), che emana norme tecniche in tante materie, e il Forest Stewardship Council, che fornisce una certificazione di compatibilità ambientale ai produttori di legname che rispettino determinate regole per la conservazione delle foreste. Altre ancora sono formalmente organizzazioni private di singoli stati, come l’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (Icann), che governa il sistema dei nomi a dominio della rete internet ed è una società senza scopo di lucro, di diritto californiano.

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CAPITOLO 7

AMMINISTRAZIONE, POLITICA, SOCIETÀ

SOMMARIO: 7.1. I due padroni dell’amministrazione. – 7.2. Politica e amministrazione. – 7.3. La “democrazia amministrativa”. – 7.4. La trasparenza amministrativa. – 7.5. L’amministrazione digitale.

7.1. I DUE PADRONI DELL’AMMINISTRAZIONE Le pubbliche amministrazioni esistono per lo svolgimento delle funzioni amministrative, quindi per il perseguimento di interessi pubblici, cioè di tutti i cittadini. Dunque, le pubbliche amministrazioni sono al servizio dei cittadini, lavorano per loro. Eppure, nei normali rapporti con le amministrazioni, i cittadini spesso percepiscono le amministrazioni non come strutture al loro servizio, ma come soggetti che sacrificano i loro interessi o ostacolano la loro attività. La realtà della pubblica amministrazione induce spesso a descrivere i cittadini come “amministrati” o “interessati”, se non (più) come “sudditi”, piuttosto che come “padroni” dell’amministrazione. L’immagine dell’amministrazione come soggetto che impone prestazioni al cittadino, piuttosto che fornirgliene, può dipendere da diversi fattori, compresi i difetti delle leggi (che, per esempio, inducano le amministrazioni a imporre inutili adempimenti ai cittadini) e l’inefficienza delle amministrazioni stesse (che, per esempio, impieghino troppo tempo per autorizzare lo svolgimento di attività private). Vi sono anche ragioni ideologiche e storiche, legate a come le pubbliche amministrazioni e il modo di concepirle si sono evoluti nel tempo: l’idea dell’amministrazione come struttura al servizio dei cittadini è in effetti relativamente recente e legata allo stato liberale e a quello democratico del Novecento; nelle epoche precedenti, le amministrazioni

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erano piuttosto al servizio del sovrano, e poi del potere esecutivo, che non traevano legittimazione dal voto popolare e non rispondevano ai cittadini. In quelle epoche, la descrizione degli individui come sudditi, piuttosto che come padroni dell’amministrazione, era in effetti corretta: ancora all’inizio del Novecento, nel suo famoso e diffusissimo manuale di diritto amministrativo, Vittorio Emanuele Orlando poteva aprire la trattazione dell’attività amministrativa affermando che «Lo Stato innanzi tutto, nell’agire, comanda». L’amministrazione era posta in una posizione di supremazia nei confronti dei cittadini e il diritto amministrativo era uno strumento per regolare l’esercizio del potere delle amministrazioni più che uno strumento per tutelare gli interessi generali. L’idea dei cittadini come padroni dell’amministrazione è ovviamente legata anche alla democrazia e, quindi, a una fase storica successiva. Ma la ragione principale e più ovvia, che ancora oggi può alterare la percezione del ruolo di servizio dell’amministrazione rispetto ai cittadini, è legata al gioco di interessi, che le funzioni amministrative implicano: le amministrazioni sono al servizio degli interessi pubblici, cioè di quelli che un organo politico ha ritenuto meritevoli di tutela; ma questi interessi possono essere in contrasto con altri interessi, pubblici e privati, e richiedere il sacrificio di questi ultimi o, comunque, un contemperamento. Le amministrazioni, come è evidente, adottano spesso decisioni che limitano i diritti di singoli cittadini – per esempio, privandoli di un bene o impedendo lo svolgimento di un’attività da parte di essi – a tutela della generalità dei cittadini (o di singoli cittadini o gruppi di cittadini, ma comunque nel perseguimento di un interesse ritenuto meritevole di tutela). Si può aggiungere che, fino ai primi decenni del Novecento, le funzioni amministrative consistevano più nello svolgimento di attività con cui l’amministrazione può incidere negativamente sugli interessi dei cittadini (come le attività di polizia, le espropriazioni e gli atti di imposizione tributaria), che nello svolgimento di attività con le quali essa può attribuire loro benefici (come le autorizzazioni commerciali, le concessioni di beni pubblici e le sovvenzioni): ciò contribuì all’immagine tradizionale dell’amministrazione, come sovraordinata rispetto ai cittadini, che ha lasciato tracce ancora percepibili. Quell’immagine, naturalmente, è oggi superata: nello stato democratico, nessuno dubita più che le istituzioni pubbliche siano al servizio dei cittadini e non viceversa. Proprio il principio democratico, peraltro, determina un allentamento dei rapporti tra cittadini e amministrazioni, perché fa sì che questi rapporti siano mediati dagli organi politici. Il circuito democratico, infatti, vede l’elezione del Parlamento (o di altri organi rappresentativi) da parte del corpo elettorale, la responsabilità del Governo (o di altri organi esecutivi) nei confronti del Parlamento e il controllo delle amministrazioni da parte

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del Governo. In questo modo, i cittadini controllano le amministrazioni, ma non direttamente, bensì attraverso gli organi politici; le amministrazioni non rispondono direttamente ai cittadini, ma ai loro rappresentanti. In questo schema, il controllo delle amministrazioni è affidato agli organi politici: i quali hanno due strumenti per regolare e indirizzare l’attività amministrativa: da un lato, l’emanazione delle leggi e degli altri atti normativi, che disciplinano l’organizzazione e l’attività delle amministrazioni; dall’altro, l’attività di indirizzo politico, che si traduce nella definizione di obiettivi e programmi per le amministrazioni. Se le amministrazioni rispondono solo agli organi politici e sono controllate solo da essi, e non dai cittadini, possono prodursi diverse conseguenze negative. Le amministrazioni possono perdere di vista le esigenze dei cittadini, che i politici non sempre sono in grado di interpretare appieno. Questo pericolo è particolarmente grave se lo Stato è accentrato e, quindi, il circuito politico si svolge prevalentemente al livello statale; è meno grave se le autonomie sono valorizzate e, quindi, il circuito politico si svolge anche a un livello più vicino ai cittadini. In secondo luogo, le amministrazioni possono essere indotte a compiacere i politici, sacrificando gli interessi dei cittadini, e i politici possono essere tentati di utilizzare le amministrazioni non nell’interesse generale, ma per scopi di parte o in modo clientelare. Questo pericolo è molto grave se gli organi politici hanno molti poteri e le amministrazioni sono poco autonome rispetto a essi (come avviene in presenza di meccanismi di spoils system, di cui si tratterà tra breve), mentre è meno grave se vi è distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa. Il controllo politico, poi, è efficace in ordine all’andamento complessivo delle amministrazioni, ma inevitabilmente lo è di meno per i casi concreti, che interessano i singoli cittadini: per questi, è molto più efficace il controllo puntuale sull’andamento delle amministrazioni, che può essere svolto dai cittadini interessati. E non bisogna dimenticare che le amministrazioni non devono semplicemente perseguire interessi pubblici, ma devono farlo rispettando la legge: da questo punto di vista, gli organi politici sono poco efficienti, mentre i cittadini sono efficaci sentinelle, pronte a ricorrere al giudice nel caso in cui l’amministrazione violi la legge. Più in generale, infine, se l’amministrazione dipende solo dalla politica, su di essa possono ripercuotersi i limiti della rappresentanza politica, come la frequente difficoltà di farsi carico di interessi generali di lunga durata, che coinvolgano le generazioni future e il cui soddisfacimento richieda sacrifici nell’immediato: da questo punto di vista, è bene che le amministrazioni seguano non solo l’indirizzo politico del momento, ma anche gli obiettivi di lunga durata fissati nella Costituzione e nelle leggi generali. Occorre ancora considerare che il modello del circuito democratico, che

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si è descritto, si applica alla maggior parte delle amministrazioni, ma non a tutte: vi sono amministrazioni indipendenti, volutamente sottratte al controllo politico (così le autorità indipendenti, come la Consob e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato), e amministrazioni solo in parte soggette all’indirizzo politico del Governo. Per queste amministrazioni, il controllo politico manca, quindi servono altri strumenti per assicurare l’efficace perseguimento degli interessi loro affidati: il principale strumento è la scelta dei loro componenti e funzionari in base a requisiti di indipendenza e professionalità. Anche la trasparenza dei processi decisionali di queste autorità e il coinvolgimento in essi dei cittadini (e delle imprese) interessati sono meccanismi utili. Per tutte queste ragioni, al controllo politico delle amministrazioni, che implica una mediazione politica tra cittadini e amministrazioni, si aggiunge un rapporto diretto tra gli uni e le altre: le amministrazioni rispondono del loro operato non solo ai politici, ma anche ai cittadini. Questo rapporto diretto, che è particolarmente forte in amministrazioni come quelle degli enti locali, è alla base di istituti e princìpi come la trasparenza amministrativa, la motivazione dei provvedimenti amministrativi e le petizioni. La pubblica amministrazione, dunque, è come il servitore della commedia di Goldoni: ha due padroni, i politici e i cittadini. Nei termini della teoria economica dell’agente e del principale, si può dire che le pubbliche amministrazioni sono agenti che lavorano per due diversi principali. Questa duplicità trova riscontro nella stessa Costituzione, che mette l’amministrazione in relazione sia con gli uni, sia con gli altri. Da un lato, l’art. 95 enuncia il principio della responsabilità ministeriale, in base al quale i ministri sono responsabili degli atti dei loro dicasteri, che implica la loro possibilità di indirizzarli e controllarli. Si può aggiungere che l’obbligo dell’amministrazione di rispettare la legge, implicito nell’art. 113, è un ulteriore punto a favore dei politici, ai quali spetta l’adozione delle leggi. Dall’altro lato, l’art. 98 stabilisce che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della (intera) Nazione, cioè di tutti i cittadini. Vi è un’evidente tensione tra questi due principi: il loro corretto bilanciamento deve fare sì che le amministrazioni perseguano lealmente l’indirizzo dato dagli organi politici, ma rispettino la legge e il principio di imparzialità, a tutela di tutti i cittadini. Dunque, a differenza del servitore di Goldoni, le amministrazioni possono servire correttamente entrambi i padroni. Occorre esaminare distintamente il rapporto tra le amministrazioni e questi due padroni. Per quanto riguarda i politici, il principale problema è quello del bilanciamento tra l’esigenza di controllo politico dell’amministrazione e quella di imparzialità dell’amministrazione. Per quanto riguarda i cittadini, si pongono tre problemi principali: quello di assicurare che i cittadini siano

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informati sull’organizzazione e sul funzionamento delle amministrazioni; quello di consentire loro di partecipare all’adozione delle decisioni amministrative; e, da ultimo, quello di adeguare queste forme di comunicazione alle nuove tecnologie.

7.2. POLITICA E AMMINISTRAZIONE Nonostante tutti i problemi, appena descritti, che possono derivare dal rapporto esclusivo tra organi politici e pubbliche amministrazioni, si tratta ovviamente di un rapporto imprescindibile e necessariamente centrale: solo i primi possono governare in modo complessivo ed equilibrato le seconde, essendo ovviamente impraticabili forme di governo diretto delle amministrazioni da parte dei cittadini. Inoltre, ogni politica pubblica, definita dai rappresentanti eletti dai cittadini, ha bisogno di essere implementata da amministrazioni pubbliche. La mediazione politica tra le amministrazioni, “agenti”, e i loro veri “principali”, cioè i cittadini, è affidata ai “principali intermedi” che sono gli organi politici. Una “presa” politica sulle amministrazioni è dunque necessaria. Il problema è quanto deve essere forte questa presa. A questo problema, nei diversi ordinamenti si danno soluzioni diverse. In Italia, nell’ultimo trentennio si è avuta un’evoluzione che ha indotto ora a limitare il potere dei politici, ora a rafforzarlo. Fino agli anni Ottanta, non vi era distinzione di ruoli tra politici e amministrazioni. A capo di ciascuna amministrazione (in particolare di quelle degli enti territoriali: ministeri, assessorati) vi erano organi politici, che svolgevano non solo un ruolo di indirizzo, ma anche di amministrazione concreta, per esempio emanando provvedimenti amministrativi e concludendo contratti. A Partire dal 1990, prima per gli enti locali e poi per lo Stato, si è imposta invece la distinzione tra la funzione di indirizzo politico e la gestione amministrativa: ai vertici politici delle amministrazioni, come i ministri e gli assessori, spetta il compito di definire strategie, programmi e obiettivi, di adottare le decisioni fondamentali sugli assetti istituzionali e sull’allocazione delle risorse; agli organi burocratici, cioè ai dipendenti pubblici (e in particolare ai dirigenti) spetta il compito di tradurre questi obiettivi e programmi in decisioni concrete e, quindi, per esempio, di adottare i provvedimenti amministrativi e di concludere i contratti. Naturalmente, questo modello si adatta bene alle amministrazioni che hanno un vertice squisitamente politico, meno bene per quelle che hanno un vertice amministrativo, come i vari tipi di enti pubblici e amministrazioni autonome. Per questi, la distinzione tra politica e amministrazione può decli-

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narsi in modi diversi, in base alla peculiare struttura di ciascun ente. Alcuni enti, come le università e gli enti associativi, hanno comunque un vertice rappresentativo, rispetto al quale si pone un problema di distinzione rispetto all’amministrazione, quindi il principio può applicarsi più facilmente. Altri, come gli enti di ricerca e le aziende sanitarie, hanno vertici nominati da autorità politiche esterne a essi, quindi il problema si pone soprattutto in termini di criteri di nomina e di rapporti con le autorità nominanti. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, diverse leggi hanno incrinato il principio di distinzione tra indirizzo politico e gestione, consentendo agli organi politici di condizionare la dirigenza amministrativa, di fatto appropriandosi delle decisioni proprie dei dirigenti. Ciò è avvenuto in diversi modi, che vengono impropriamente sintetizzati con l’espressione spoils system (che, a rigore, è il sistema, vigente in passato negli Stati Uniti, che consentiva alla nuova maggioranza politica di congedare i funzionari amministrativi nominati dalla precedente e insediarne di nuovi). È avvenuto, in particolare, con la possibilità dei titolari di organi politici di revocare gli incarichi amministrativi (incarichi dirigenziali e cariche in varie amministrazioni) conferiti dai precedenti titolari; con meccanismi di decadenza automatica, al cambio della maggioranza politica; con la possibilità di conferire incarichi di durata breve, che espone i nominati al rischio di mancato rinnovo e, quindi, al potere di condizionamento dei nominanti; con la possibilità di conferire incarichi anche a soggetti esterni all’amministrazione, quindi non selezionati attraverso un pubblico concorso. Tutti questi strumenti sono stati usati prima dal legislatore statale, poi – in misura anche più intensa – da molti legislatori regionali. L’uno e gli altri ne hanno sperimentati anche altri, per assoggettare l’amministrazione alla politica. Uno di questi è dato dalle continue riforme dell’uno o dell’altro ente o ufficio, il cui unico scopo è spesso quello di cambiare gli organi di vertice, sgraditi alla maggioranza politica del momento. L’eccessiva tendenza della politica a controllare l’amministrazione, poi, si traduce spesso anche nella fuga dell’amministrazione dalle sue normali regole e strutture, con la costituzione o l’abnorme crescita dimensionale di strutture più facili da controllare e da gestire per i politici, sia all’interno delle amministrazioni (come gli uffici di gabinetto) sia all’esterno di esse (come le società in mano pubblica). Si tratta di tendenze che mettono in crisi i princìpi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione e alterano l’equilibrio tra politica e amministrazione. Esse instaurano legami troppo stretti tra i politici e i dirigenti amministrativi, tra i quali si creano un rapporto di fiducia e una comunanza di interessi, che impediscono il controllo reciproco. Esse favoriscono altresì la corruzione, impedendo il normale funzionamento di regole e controlli. Non a caso, queste tendenze sono state spesso criticate dagli studiosi e a volte

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censurate da decisioni della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità di alcune norme, particolarmente lesive dei princìpi in questione.

7.3. LA “DEMOCRAZIA AMMINISTRATIVA” Il rapporto tra i cittadini e le amministrazioni, loro servitrici, è, dunque, normalmente mediato dagli organi politici. Ma, come accennato, è importante – per integrare e correggere i limiti del circuito politico – che vi siano anche rapporti diretti, che consentano ai cittadini di far sentire la propria voce e verificare il funzionamento delle amministrazioni. Le amministrazioni devono rispondere del loro operato non solo ai politici, ma anche ai cittadini. Questo concetto si è gradualmente affermato nei regimi democratici ed è a volte espresso con l’espressione “democrazia amministrativa”, che è peraltro alquanto ambigua: essa indica ora l’abbandono della concezione della supremazia della pubblica amministrazione; ora il superamento di costruzioni teoriche che descrivevano in chiave unilateralistica vicende sostanzialmente contrattuali (per esempio, l’assunzione di un impiegato descritta come nomina, il contratto avente a oggetto un bene pubblico descritto come concessione amministrativa); ora la presunta tendenza delle amministrazioni a operare più spesso con il contratto e con il diritto privato e meno spesso con il provvedimento amministrativo e con il diritto pubblico; ora strumenti come la partecipazione al procedimento amministrativo e la trasparenza. Quelli che rilevano, in questa sede, sono questi ultimi, cioè gli istituti e i meccanismi attraverso i quali i cittadini possono condizionare e controllare lo svolgimento delle funzioni amministrative. In ordine a questi istituti, vi è una legge fondamentale, che è la legge statale sul procedimento amministrativo, n. 241 del 1990. Essa enuncia – e declina in previsioni puntuali – alcuni princìpi fondamentali in materia di rapporti tra amministrazioni e cittadini, che trovano riscontro in vari altri testi normativi che disciplinano la stessa materia, in Italia e all’estero. Vi sono poi le leggi regionali, spesso elaborate sul modello della legge n. 241 stessa, e i regolamenti di diverse amministrazioni, che disciplinano in via generale le relative procedure. Vi sono altresì le leggi sul procedimento amministrativo di molti altri stati e di organizzazioni internazionali, oltre che documenti come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che enuncia più sinteticamente alcuni dei princìpi in questione: il principio di imparzialità; il diritto di ottenere una decisione da parte dell’amministrazione entro un termine ragionevole; quello dell’interessato di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento amministrativo; quello di

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accedere al fascicolo che lo riguarda; l’obbligo dell’amministrazione di motivare le proprie decisioni. Si può dire, quindi, che la legge n. 241 costituisce, per l’ordinamento giuridico italiano, una dichiarazione dei diritti dei cittadini (e delle organizzazioni private, come le imprese, nonché degli stessi enti pubblici, che abbiano a che fare con altre amministrazioni) nei confronti della pubblica amministrazione: dichiarazione paragonabile a quelle contenute negli analoghi documenti vigenti in altri ordinamenti e in varie organizzazioni internazionali. Molti di questi diritti si esercitano nell’ambito del procedimento amministrativo (cap. 15). Molte delle previsioni della legge, peraltro, hanno un ambito di applicazione limitato, in quanto valgono per i procedimenti volti all’adozione di provvedimenti individuali (come le autorizzazioni e le sanzioni), ma non per quelli volti all’adozione di atti normativi o amministrativi generali. Ciò dimostra che, in termini generali, la partecipazione al procedimento amministrativo è concepita più come una difesa del singolo interessato che come una forma di partecipazione dei cittadini, in quanto tali, alla formazione delle decisioni pubbliche. Non è così in altri ordinamenti, come gli Stati Uniti d’America, nei quali la partecipazione è concepita in primo luogo in questo secondo senso. È un indubbio aspetto di arretratezza della legislazione italiana. Anche in Italia, peraltro, non mancano previsioni che consentono la partecipazione nei procedimenti generali: ciò avviene principalmente in alcune regioni, per via di più moderne leggi regionali, e con riferimento ai procedimenti di alcune autorità indipendenti, alle quali la legge impone di pubblicare progetti preliminari dei propri atti normativi e raccogliere commenti del pubblico su di essi. Inoltre, il Codice dei contratti pubblici del 2016 prevede, per le opere pubbliche di particolare importanza, una procedura di “dibattito pubblico”, analoga a quella già esistente in altri paesi europei, ma il relativo regolamento non è ancora stato adottato.

7.4. LA TRASPARENZA AMMINISTRATIVA Prescinde dallo svolgimento di un procedimento amministrativo la trasparenza amministrativa, fondamentale strumento per assicurare la responsabilità delle amministrazioni nei confronti dei cittadini, che ha avuto un grande sviluppo nella legislazione degli ultimi anni. La trasparenza amministrativa può essere intesa e declinata in diversi modi. Vi sono varie possibilità in ordine: all’oggetto della trasparenza, che può essere costituito dalle informazioni, dai dati o dai documenti che rac-

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chiudano le une e gli altri; alle eccezioni, perché i casi di segreto e di esclusione dell’accesso possono essere più o meno numerosi; ai soggetti titolari del diritto, che può essere riconosciuto a tutti i cittadini o solo a chi vi abbia un particolare interesse; agli obblighi delle amministrazioni, a cui può essere richiesto di informare i cittadini di propria iniziativa, magari con forme di pubblicazione, o solo di rispondere alle richieste di accesso; ai profili organizzativi, che possono contemplare per esempio l’uso di strumenti telematici. Si può dire comunque che in molte esperienze, compresa quella italiana, vi sono due modelli fondamentali: quello, più prudente, dell’accesso individuale dei soli interessati ai documenti che li riguardino; e quello, più deciso, della trasparenza totale di tutte le informazioni in possesso delle amministrazioni, a favore di tutti i cittadini. Molti ordinamenti occidentali hanno inizialmente adottato il primo modello, per poi passare al secondo. Ciò è avvenuto anche nell’ordinamento italiano, dove il primo modello è presente a partire dal 1990: la legge sul procedimento amministrativo consente l’accesso solo a chi, avendo un particolare interesse connesso a un certo documento, ne faccia richiesta. Si tratta di un modello basato sulla concezione della trasparenza come strumento di tutela dell’individuo nei confronti dell’amministrazione, e non come strumento di controllo dei cittadini sull’amministrazione. Esso è coerente con il principio della responsabilità politica e con l’idea che le amministrazioni siano controllate dai loro vertici, meno coerente con l’idea della responsabilità delle amministrazioni nei confronti dei cittadini. Si tratta comunque di un istituto di grande importanza, che ha avuto un notevole successo – anche per opera della giurisprudenza amministrativa, che lo ha tutelato con decisione – e ha trasformato i rapporti tra amministrazioni e privati. In base alla legge n. 241, l’oggetto del diritto di accesso sono i documenti amministrativi, da intendersi in senso ampio, come qualunque supporto materiale sul quale sia impressa un’informazione (quindi anche una fotografia, un disegno, una registrazione, un documento informatico). Ma oggetto del diritto sono solo i documenti esistenti, non le informazioni: si può chiedere all’amministrazione la copia di un documento, ma non le si può chiedere di produrre un nuovo documento sulla base delle informazioni in suo possesso. Può esercitare il diritto di accesso, formulando una richiesta motivata, solo chi abbia un interesse diretto, concreto e attuale, specificamente collegato al particolare documento. Il diritto si esercita semplicemente prendendo visione del documento, o ottenendone una copia. Vi sono limiti al diritto in questione, che derivano dall’esigenza di tutela di interessi privati (come quello alla riservatezza) e pubblici (come quello alla sicurezza o alla difesa nazionale). La trasparenza, come strumento di “democrazia diretta”, è invece quella propria del secondo modello, con il quale le amministrazioni si aprono a tutti i

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cittadini, i quali possono verificare la loro organizzazione, il loro funzionamento e i risultati della loro attività. Si tratta di una concezione tradizionalmente tipica delle amministrazioni scandinave, nelle quali manca l’idea dell’assoggettamento dell’amministrazione alla politica. Questo modello è stato introdotto in Italia in modo graduale e alquanto disordinato. Norme che prevedono forme di trasparenza a favore di tutti i cittadini sono presenti da tempo nelle discipline relative a determinati tipi di amministrazione (in particolare gli enti locali) o in determinate materie (come la tutela dell’ambiente), ma le relative previsioni sono state spesso interpretate in modo restrittivo e di fatto ricondotte al modello precedente. Nel 2009 era stata introdotta qualche previsione volta ad assicurare la “accessibilità totale” delle informazioni relative all’organizzazione e al funzionamento delle amministrazioni, ma con una formulazione talmente vaga da rimanere inattuata. Negli ultimi anni, un gran numero di previsioni legislative ha imposto alle amministrazioni pubbliche di rendere noti, sui propri siti internet, una notevole quantità di dati e informazioni relativi a diversi aspetti della loro organizzazione e del loro funzionamento: dati sul personale, sulle competenze degli uffici, sulla retribuzione e sul curriculum dei dirigenti, sulle consulenze conferite, sulle partecipazioni societarie, sui provvedimenti adottati, sui servizi resi, sulla valutazione degli uffici e su molto altro. La forma di trasparenza implicitamente scelta dal legislatore italiano, quindi, è stata quella della pubblicazione sui siti internet, indipendentemente dalle richieste dei cittadini: è, ovviamente, una forma di trasparenza molto forte, che comporta i costi maggiori, sia in termini organizzativi (si pensi all’esigenza di aggiornare continuamente centinaia di tipi informazioni, particolarmente gravosa per le piccole amministrazioni) sia in termini di tutela della riservatezza (un conto è se una certa informazione riguardante una persona è data a una singola altra persona che la richiede, un altro conto è se quell’informazione è a disposizione di tutti, in qualunque tempo e in qualunque luogo). Queste previsioni sono state poi opportunamente codificate in un testo unico, adottato con il decreto legislativo n. 33 del 2013. Nel 2016, infine, in sede di revisione di questo testo unico, è stato introdotto il principio del diritto di accesso “civico” di chiunque a tutti i dati e informazioni in possesso delle amministrazioni, inclusi quelli che non sono oggetto di pubblicazione obbligatoria (diritto spesso indicato con l’espressione “Foia”, acronimo del nome che in alcuni paesi anglosassoni designa le relative leggi: Freedom of Information Act). È la forma di trasparenza privilegiata in molti ordinamenti occidentali, che non impongono alle amministrazioni di pubblicare molte informazioni, ma le obbligano a fornirle a chi le richieda. Vi sono, naturalmente, eccezioni, ancora una volta dovute all’esigenza di tutela sia di interessi pubblici (come la sicurezza e la difesa nazionale) sia di interessi privati (come la riservatezza).

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La nuova disciplina chiarisce che il nuovo diritto di accesso non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e che la richiesta di accesso non richiede motivazione, quasi a voler rimarcare la differenza con il diritto d’accesso della legge n. 241 del 1990. Quest’ultimo rimane e costituisce, per chi ne è titolare in virtù di uno specifico interesse, un diritto più forte, che supera più facilmente gli interessi contrari: sicché, per esempio, un soggetto che ha partecipato a un concorso pubblico può – in base alla legge n. 241 – accedere alle prove e ai titoli dei vincitori del concorso, mentre difficilmente può farlo – in base al diritto di accesso “civico” – chi non vi abbia partecipato.

7.5. L’AMMINISTRAZIONE DIGITALE Sui rapporti tra amministrazioni e cittadini incide profondamente l’evoluzione tecnologica, in particolare quella basata sulla rete internet. Essa, in effetti, produce anche molti altri effetti sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, non meno di quanto lo faccia per i privati. L’evoluzione tecnologica determina il sorgere di nuove funzioni, come quelle inerenti al mercato delle connessioni e al governo della rete internet (funzione, quest’ultima, che va al di là dei poteri delle autorità dei singoli stati). Impone il ripensamento di funzioni tradizionali, come quelle relative al controllo di alberghi e ristoranti, oggetti ormai anche di un controllo diffuso da parte degli utenti su piattaforme informatiche. Consente nuove e più efficienti modalità di svolgimento di determinate funzioni, a volte con effetti di accentramento, come nel caso dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, destinata ad assorbire quelle dei comuni. Modifica molte attività oggetto di regolazione amministrativa, come i servizi di trasporto automobilistico. La possibilità di inviare molto rapidamente osservazioni e documenti consente, poi, di organizzare in modi diversi i rapporti tra uffici e, quindi, di articolare diversamente i procedimenti, come mostrato dalla nuova disciplina della conferenza di servizi (cap. 15). Non mancano, ovviamente, gli effetti sull’organizzazione del lavoro: l’evoluzione tecnologica fa sorgere nuove figure professionali (come l’addetto all’immissione dei dati nei siti internet o alla sicurezza informatica), determina il superamento di altre (come il dattilografo e il “camminatore” addetto al trasporto di documenti). La disciplina della “amministrazione digitale” enfatizza l’obiettivo di migliorare i rapporti tra amministrazioni e cittadini, fornendo ai secondi nuovi

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e migliori servizi e alleggerendoli da oneri precedentemente previsti (una recente legge parla di “diritti digitali” dei cittadini). Ciò avviene innanzitutto con riferimento alle forme di partecipazione e di trasparenza esaminate nei paragrafi che precedono: la presentazione di istanze e memorie alle amministrazioni avviene ormai normalmente attraverso strumenti elettronici, come la posta elettronica certificata, di cui le amministrazioni devono essere dotate; il diritto di accesso può essere a sua volta esercitato attraverso l’invio dei documenti in formato elettronico; e, come si è osservato, la trasparenza amministrativa prende spesso la forma della pubblicazione sui siti internet. In aggiunta, l’amministrazione digitale implica anche la prestazione di nuovi servizi ai cittadini e nuove modalità di prestazione di servizi tradizionali. Dal primo punto di vista, si pensi all’attribuzione dell’identità digitale (con il Sistema pubblico di identità digitale – Spid) che consente di accedere a diversi siti internet e servizi informatici, di soggetti pubblici e privati, o all’attribuzione di un domicilio digitale (come la posta elettronica certificata), presso il quale ricevere anche le comunicazioni da parte delle amministrazioni. Dal secondo punto di vista, molti procedimenti amministrativi (dall’iscrizione di un figlio a scuola al pagamento di una sanzione) possono svolgersi a distanza, eliminando l’onere del privato di recarsi presso gli uffici dell’amministrazione.

PARTE III GLI STRUMENTI

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CAPITOLO 8

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L’ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI

SOMMARIO: 8.1. Amministrazioni, uffici, organi. – 8.2. I rapporti tra uffici. – 8.3. I controlli amministrativi. – 8.4. La potestà organizzativa. – 8.5. I princìpi costituzionali.

8.1. AMMINISTRAZIONI, UFFICI, ORGANI Come tutte le organizzazioni complesse, le pubbliche amministrazioni sono articolate in uffici, ciascuno avente compiti determinati e una certa dotazione di risorse umane e materiali. Gli uffici sono, dunque, le unità organizzative, più o meno grandi e articolate, delle quali si compone l’organizzazione delle amministrazioni. Poiché le amministrazioni, non diversamente dalle organizzazioni private, hanno bisogno di meccanismi e strumenti non solo per formare i propri atti, ma anche per esprimerli all’esterno, ad alcuni uffici – gli organi – è attribuito il potere di emanare gli atti dell’amministrazione (per esempio, il ministro, il sindaco, il direttore generale, il capo del dipartimento, il preside). L’atto posto in essere dall’organo è, dunque, atto dell’ente: viene imputato all’ente, così come all’ente vengono imputati i suoi effetti. Questa diretta imputazione dell’atto distingue il rapporto organico (cioè il rapporto che lega l’organo all’ente) dal rapporto di rappresentanza, nel quale l’atto viene imputato a chi lo pone in essere (il rappresentante) e solo i suoi effetti vengono imputati al titolare dell’interesse (il rappresentato). Ogni organo ha un titolare (o più di uno, nel caso degli organi collegiali), cioè una persona fisica alla quale è attribuita la responsabilità dell’organo e dei suoi atti. Alcune funzioni (come la manutenzione delle strade, lo svolgimento di ricerche scientifiche, l’attività di insegnamento) non richiedono di regola l’a-

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dozione di atti giuridici con rilevanza esterna, come non la richiedono le attività strumentali, volte a consentire agli organi l’espletamento delle loro funzioni (come quelle di segreteria o di gabinetto). Esse sono svolte da ulteriori uffici, a volte definiti meri uffici. La distinzione tra amministrazioni e organi si ripropone nella distinzione tra la nozione di attribuzione e quella di competenza: la prima è il complesso di funzioni e poteri di un’amministrazione, la seconda la porzione di attribuzione che spetta al singolo organo. La distinzione è rilevante: per esempio, un atto emanato da un’amministrazione carente di attribuzione può essere giuridicamente inesistente e, quindi, non produrre alcun effetto (in quanto emanato in carenza di potere); un atto emanato da un organo incompetente, invece, normalmente è illegittimo ma esistente, quindi produce i suoi effetti fino a quando venga annullato. Come si vede, le regole sull’organizzazione amministrativa hanno spesso un notevole rilievo giuridico, ben maggiore di quello che hanno nel settore privato. La loro violazione ha conseguenze rilevanti sia nei rapporti interni alle amministrazioni, sia in quelli tra amministrazioni e con i privati. Le distinzioni che precedono, chiare in linea teorica, sono a volte difficili nella pratica. Per esempio, è spesso difficile distinguere tra organi e meri uffici; analogamente, la distinzione tra (difetto di) attribuzione e (in)competenza è molto problematica. Si è soliti operare alcune distinzioni tra uffici pubblici. Esse non esauriscono certo la relativa tipologia né illustrano tutte le variabili, ma alcune di esse vanno esaminate, perché ricorrono spesso nel linguaggio giuridico e anche in testi normativi. Si distingue, innanzitutto, tra uffici necessari e non necessari. Senza i primi, alcune funzioni non potrebbero essere svolte, perché le relative funzioni sono loro attribuite dalle norme: per esempio i ministeri. La costituzione dei secondi, invece, è una scelta che la legge lascia all’autorità politica o amministrativa, per lo svolgimento di attività che possono non essere svolte (si pensi a una commissione di studio) o essere svolte da altri uffici (si pensi all’articolazione di un ufficio in più uffici minori). Anche questa distinzione, in effetti, trova i suoi punti critici: per esempio, i ministri senza portafoglio sono normalmente considerati uffici non necessari, eppure alcuni di essi (in particolare, quello della funzione pubblica) sono menzionati dalle norme (quindi è difficile ipotizzare un governo nel quale manchi quel ministro). Diversa è la distinzione tra uffici ordinari e straordinari. I secondi sono costituiti in circostanze eccezionali, per svolgere funzioni temporanee, per un periodo limitato. Esempi di ufficio straordinario sono gli alti commissari, che possono venire costituiti per funzioni come quelle legate alla lotta alla criminalità o alla gestione di un’emergenza.

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Si distingue, poi, tra uffici monocratici e collegiali: i primi aventi un unico titolare (come il presidente di un ente o il preside di una scuola), i secondi una pluralità di titolari (come il consiglio di amministrazione e il collegio dei docenti). La natura collegiale di un organo può dipendere da esigenze diverse, come quella di rappresentare categorie di cittadini o gruppi sociali, quella di coniugare diverse competenze e quella di assicurare una decisione più meditata. Questi organi, detti collegi amministrativi, possono essere perfetti o imperfetti: solo per il funzionamento dei primi (come le commissioni di concorso) è necessario che tutti i componenti siano presenti alla riunione, mentre i secondi (come le commissioni di studio) ammettono assenze alle singole riunioni. Gli uffici complessi sono quelli che risultano da una pluralità di uffici. Essi sono contrapposti a quelli semplici, che sono l’unità organizzativa elementare dell’amministrazione. Naturalmente, la complessità, più che affermata o negata, va misurata: un ministero è un’organizzazione molto complessa, il gabinetto di un assessore normalmente non lo è; ma vi sono molte situazioni intermedie. In relazione alle funzioni svolte, si distingue tra uffici attivi, consultivi e di controllo. La maggior parte degli uffici pubblici, naturalmente, rientra nel primo tipo. Organo consultivo per eccellenza è il Consiglio di Stato, per le sue funzioni non giurisdizionali; altri uffici consultivi sono i consigli superiori, come quello dei lavori pubblici. Organo di controllo per eccellenza è la Corte dei conti; altri uffici di controllo sono quelli ai quali sono affidati i controlli interni alle amministrazioni, come le articolazioni periferiche della Ragioneria generale dello Stato e gli organismi indipendenti di valutazione previsti da una recente legge. Infine, si distingue tra uffici centrali, periferici e locali. Gli uffici centrali e quelli periferici fanno parte dell’organizzazione statale: per esempio, rispettivamente, il Ministero dell’interno e le prefetture (cap. 6). L’amministrazione locale, invece, è quella degli enti dotati di autonomia politica e rappresentativi di una comunità territoriale, come i comuni e le province: sono, quindi, enti diversi dallo Stato. Va ancora osservato che gli uffici delle pubbliche amministrazioni possono adottare modelli organizzativi privatistici. Come si è già osservato (cap. 5), infatti, alcuni enti adottano simili modelli ma sono – almeno per alcuni aspetti – pubbliche amministrazioni e a volte operano come uffici di amministrazioni pubbliche, come nel caso delle società in house.

8.2. I RAPPORTI TRA UFFICI Il gran numero di amministrazioni, la complessità di alcune di esse e la varietà dei sistemi amministrativi fanno sì che tra i diversi uffici e tra le di-

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verse amministrazioni si svolgano continuamente rapporti di vario genere. Secondo una distinzione tradizionale, ma non esaustiva, possono aversi rapporti di subordinazione o di equiordinazione. Nei rapporti di subordinazione, l’ufficio sovraordinato ha poteri di natura e intensità variabile nei confronti di quello subordinato. Le due figure principali sono: la gerarchia, nella quale l’ufficio sovraordinato ha il potere di comando e altri poteri in esso impliciti (come quello di indirizzo, controllo, annullamento e avocazione di atti) nei confronti di quello subordinato; e la direzione, nella quale l’ufficio sovraordinato ha il potere di direttiva, cioè di fissazione di obiettivi, nei confronti di quello subordinato. La gerarchia implica che la competenza del secondo sia interamente contenuta in quella del primo; nella direzione, il secondo ha una propria sfera di competenza, ma deve esercitarla nel quadro degli indirizzi fissati dal primo. Anche questa distinzione è giuridicamente rilevante: in particolare, il ricorso gerarchico è ammesso solo in presenza di un rapporto di gerarchia. Quello gerarchico era il modello normale nell’amministrazione ottocentesca, ma è stato gradualmente abbandonato o attenuato e rimane un principio organizzativo generale solo in poche amministrazioni, come quelle militari. La direzione è ormai un modello molto frequente nelle amministrazioni pubbliche. Altri tipi di rapporto non sono, a rigore, rapporti di subordinazione, ma si inseriscono spesso in simili rapporti: quello di controllo (di cui si tratterà nel paragrafo successivo), che è sempre ricompreso nei rapporti di subordinazione, mentre in quelli di equiordinazione vi è solo se espressamente previsto; e quello di delegazione, in cui un ufficio attribuisce a un altro poteri propri, al fine del perseguimento dell’interesse curato dal primo. Rientra, almeno a volte, tra i rapporti di subordinazione anche il coordinamento, che si ha quando l’ordinamento si preoccupa di armonizzare l’attività di diversi uffici, eventualmente indirizzandola a fini comuni, mantenendo tuttavia l’autonomia di ciascuno di essi. Le tecniche più frequenti di coordinamento sono: l’attribuzione della funzione di coordinamento a un ufficio monocratico (come il Presidente del Consiglio o il prefetto); la costituzione di un organo collegiale (come i comitati interministeriali e la Conferenza Stato-Regioni); strumenti di natura procedimentale (come il concerto e la conferenza di servizi); accordi (come gli accordi di programma); le amministrazioni composte e quelle a rete, già menzionate (cap. 6). I rapporti di equiordinazione sono quelli nei quali non vi è un ufficio sovraordinato. Le figure tipiche sono due. La prima è la parità, caratterizzata dalla identità della situazione e dei poteri di ciascun ufficio: è, per esempio, il rapporto che vi è tra i ministeri e, all’interno di ciascun ministero, tra i dipartimenti o tra le direzioni generali. La seconda è la primazia, nella quale vi è un ufficio che, per certi aspetti, ha gli stessi poteri degli altri, ma ne ha an-

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che ulteriori: è il caso, per esempio, dei presidenti di organi collegiali, che normalmente partecipano alla discussione e alla votazione su un piano di parità con gli altri componenti, ma hanno poteri ulteriori, come quelli di convocazione e di direzione dei lavori. Come si è accennato, la distinzione non è esaustiva. Altri tipi di rapporti tra uffici, per esempio, sono espressi dal concetto di autonomia: anche questo è un concetto relazionale, in quanto si è autonomi da qualcuno. Un ufficio è autonomo se gli è attribuita la possibilità di adottare decisioni relative al modo di perseguire l’interesse pubblico affidatogli. Vi sono diverse forme di autonomia. L’autonomia politica è propria degli enti territoriali, esponenziali di collettività insediate sul relativo territorio, che possono darsi un indirizzo politico diverso da quello del Parlamento e del Governo nazionali. L’autonomia normativa è la capacità di emanare norme giuridiche: può trattarsi di una autonomia statutaria, cioè della potestà di darsi uno statuto, che è propria degli enti territoriali e di molti altri enti e uffici pubblici; o di autonomia regolamentare, che può riguardare la propria organizzazione interna (per esempio, i profili relativi al personale) o rapporti esterni (per esempio, il potere dei comuni di emanare norme in materia edilizia e quello della Banca d’Italia di emanare norme in materia creditizia). L’autonomia organizzativa è la potestà di definire il proprio assetto strutturale e il proprio funzionamento. L’autonomia finanziaria è propria degli uffici che hanno entrate proprie, derivanti dallo svolgimento della loro attività (per esempio, da tributi che essi possono imporre ai privati: in questo caso si parla, in particolare, di autonomia tributaria). L’autonomia contabile è propria degli enti che hanno una contabilità propria, tenuta secondo regole diverse da quelle generalmente applicabili alle amministrazioni pubbliche (cap. 12). L’autonomia ammette comunque che vi siano rapporti e condizionamenti tra i diversi uffici. A volte l’ordinamento si preoccupa di evitare che un certo ufficio o ente possa essere condizionato: in questo caso, si parla di indipendenza, che – peraltro – ammette a sua volta graduazioni e varianti. Indipendenti sono, per esempio, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. Tali sono anche, ma con intensità variabile, le autorità indipendenti (cap. 6). Le diverse forme di autonomia sono alcuni tra gli strumenti utilizzati dall’ordinamento per assicurarne l’indipendenza (altri sono relativi, per esempio, all’accesso alla carica o alla durata in carica). Dunque, l’indipendenza presuppone qualche forma di autonomia, ma non è vero il contrario. Va ancora osservato che le amministrazioni possono concludere accordi per svolgere in modo congiunto o coordinato le proprie funzioni: si pensi agli accordi tra piccoli comuni per gestire congiuntamente un servizio pubblico o a quelli tra le università e le aziende sanitarie per il funzionamento dei policlinici. Vi sono varie norme, più o meno generali, che contemplano

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simili ipotesi, ma la possibilità di simili accordi va riconosciuta in via generale alle amministrazioni. Infine, merita un cenno il problema dello scambio di informazioni tra diverse amministrazioni e delle connessioni informatiche tra esse. Varie norme incoraggiano le amministrazioni a fare uso di strumenti informatici per lo svolgimento delle loro funzioni e chiedono loro di comunicare tra loro, utilizzando sistemi che consentano il coordinamento e lo scambio delle informazioni. Simili meccanismi sono necessari anche in vista dello svolgimento della funzione di informazione dei cittadini e dell’attuazione delle norme che consentono ai cittadini di non presentare alle amministrazioni documenti (come certificati anagrafici o titoli di studio) che siano già in possesso della stessa o di altre amministrazioni.

8.3. I CONTROLLI AMMINISTRATIVI Vi è un nesso tra il concetto di funzione e quello di controllo, in quanto è spesso necessario verificare la correttezza dell’operato dei soggetti che svolgono attività nell’interesse altrui. Rispetto alle altre funzioni, e soprattutto rispetto a quelle private, le funzioni amministrative sono soggette a controlli particolarmente numerosi e intensi. Vi sono diversi tipi di controllo amministrativo. Una fondamentale distinzione è basata sul suo oggetto: i controlli possono avere a oggetto singoli atti o l’attività complessiva (l’attività di un ufficio nel suo complesso, una certa gestione). I controlli sugli atti erano molto frequenti fino all’inizio degli anni Novanta, poi sono stati limitati agli atti di maggiore importanza. I controlli sulla gestione sono stati introdotti in epoca più recente e possono ispirarsi a diverse logiche. Negli ultimi anni le norme hanno cercato di valorizzare i controlli sui rendimenti degli uffici e dei singoli dipendenti, anche al fine di farne derivare conseguenze in termini di retribuzione e carriera dei secondi (in particolare dei dirigenti). In base al parametro, cioè alla regola o metro di giudizio in relazione alla quale il controllo viene svolto, si distingue tra controlli di legittimità e di merito. I primi sono volti a verificare il rispetto di norme giuridiche, i secondi sono condotti in base all’apprezzamento dell’organo di controllo: quest’ultimo, in effetti, può sostituire la propria valutazione, anche discrezionale, a quella dell’organo controllato. I controlli amministrativi sono quasi sempre di legittimità, mentre quelli di merito sono quasi scomparsi. In base al soggetto che li svolge, si distingue tra controlli interni ed esterni. I primi sono svolti da uffici della stessa amministrazione, come l’ufficio di

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ragioneria o quello di controllo interno. I secondi sono svolti da uffici esterni, per esempio organi statali che controllano atti di enti territoriali. L’organo di controllo più importante è ovviamente la Corte dei conti, alla quale il citato art. 100 cost. attribuisce non solo funzioni di controllo preventivo e successivo su atti dello Stato, ma anche la funzione di controllo sugli enti sovvenzionati, cioè che ricevono stabilmente contributi dallo Stato. Al controllo consegue una misura, che dipende dall’oggetto del controllo: se si tratta di un atto, la misura può consistere nella sua approvazione o nel suo annullamento. Se si tratta di un’attività, può consistere in misure favorevoli o sfavorevoli a chi la ha svolta (per esempio, il controllo può rilevare ai fini della retribuzione di risultato). Spesso la misura consiste in una forma di pubblicità, in quanto l’organo di controllo deve riferire a un terzo organo sull’attività dell’organo controllato: per esempio, a norma dell’art. 100 cost., la Corte dei conti riferisce al Parlamento sulla gestione del bilancio da parte del Governo. Vanno ancora menzionati i controlli sugli organi, espressione con la quale si indica il potere di alcuni uffici di adottare determinare misure repressive nei confronti di altri, in presenza di determinati presupposti: l’esempio più ovvio è lo scioglimento di un consiglio comunale da parte del Governo, per gravi violazioni di legge, per gravi motivi di ordine pubblico o per l’impossibilità di funzionare regolarmente. Va infine rilevato che l’attività di controllo richiede a volte lo svolgimento di ispezioni, con esame di luoghi e documenti. Ciò vale sia per i controlli delle pubbliche amministrazioni su attività e soggetti privati (si pensi ai controlli sanitari sui ristoranti, ai controlli sugli adempimenti fiscali e contributivi, alla vigilanza della Banca d’Italia sulle banche), sia per i controlli su altre pubbliche amministrazioni, come quelli operati dalla Ragioneria generale dello Stato.

8.4. LA POTESTÀ ORGANIZZATIVA L’organizzazione degli uffici pubblici è regolata dal diritto solo per alcuni aspetti: per il resto, essa è rimessa al potere di auto-organizzazione che è proprio delle pubbliche amministrazioni, come delle organizzazioni private. Rispetto alle organizzazioni private, le pubbliche amministrazioni hanno comunque una minore autonomia organizzativa, essendo sempre soggette a regole poste da altri soggetti (il legislatore o altre amministrazioni) a tutela dell’imparzialità (si pensi alle modalità di nomina dei vertici di un ente) e del buon andamento (incluso il contenimento delle spese, di cui il legislatore si preoccupa con sempre maggiore attenzione, limitando la tendenza alla spesa delle amministrazioni).

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Le norme fondamentali, al riguardo, si trovano nella Costituzione, che in diversi articoli si preoccupa, in primo luogo, di distribuire la potestà organizzativa tra diversi soggetti (in particolare, ponendo riserve di legge e, quindi, riservando determinate scelte al Parlamento). Il problema della distribuzione della potestà organizzativa si pone in termini diversi per l’amministrazione statale e per quella degli altri enti pubblici. Per lo Stato, il problema è essenzialmente di delimitare la sfera riservata alla legge e quella lasciata al potere delle stesse amministrazioni di organizzarsi; per gli altri enti, è in primo luogo di stabilire il confine tra la potestà spettante su di essi allo Stato e la loro potestà di auto-organizzazione. Per l’uno e per gli altri, peraltro, vale la previsione dell’art. 97 cost., a norma della quale «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari». Dei princìpi di imparzialità e buon andamento si è trattato in precedenza (cap. 4). Qui occorre notare che questa norma pone una riserva di legge sull’organizzazione di tutti i pubblici uffici: per tutte le pubbliche amministrazioni devono esservi previsioni legislative generali (contenute principalmente nel decreto legislativo n. 165 del 2001, che quindi detta la disciplina generale non solo del lavoro pubblico, ma anche dell’organizzazione degli uffici pubblici). Le pubbliche amministrazioni, poi, adottano normalmente regolamenti di organizzazione, che integrano le previsioni legislative. Per quanto riguarda l’amministrazione statale, vi è un’ulteriore riserva di legge, più specifica e di oggetto ben delimitato, posta dall’art. 95 cost.: «La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri». Per il corpo centrale dell’amministrazione statale, costituito dalle strutture direttamente facenti capo al Governo, dunque, la riserva di legge è più precisa. Essa impone che siano atti aventi forza di legge a istituire le amministrazioni: serve un simile atto, per esempio, per istituire o sopprimere un ministero. Sono altresì coperti dalla riserva la definizione della struttura di base delle amministrazioni (per esempio, l’articolazione dei ministeri in dipartimenti o in direzioni generali) e le competenze fondamentali dei loro organi (per esempio, la divisione dei compiti tra ministri e dirigenti). Dunque, a norma dell’art. 97, la legge statale deve enunciare i princìpi in materia di organizzazione di tutte le amministrazioni (statali e non) e, a norma dell’art. 95, per la Presidenza del Consiglio e i ministeri essa deve disciplinare anche quegli altri specifici elementi. Questo è il contenuto minimo della disciplina legislativa, imposto dalla Costituzione: ma, naturalmente, il legislatore può ben disciplinare ulteriori materie e prevedere, a sua volta, ul-

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teriori riserve di legge (lo ha fatto, per esempio, in ordine all’istituzione di nuovi enti pubblici). La potestà di auto-organizzazione delle amministrazioni ha quindi natura residuale. Va ancora riferito che il diritto europeo priva a volte gli Stati membri di parte della propria potestà organizzativa: ciò avviene quando le norme europee, oltre ad attribuire determinate funzioni amministrative alle amministrazioni o uffici nazionali, individuano alcune caratteristiche che devono essere possedute da queste amministrazioni o uffici. Per esempio, il Garante per la protezione dei dati personali è configurato dalla legge come un’autorità indipendente, avente determinati poteri, non solo in virtù di un’autonoma scelta del legislatore nazionale, ma anche in virtù delle previsioni di una direttiva europea. Per le amministrazioni diverse da quelle statali, occorre fare alcune distinzioni, considerando innanzitutto gli enti territoriali. Le regioni, al di là di quanto direttamente disposto dalla Costituzione (che, per esempio, all’art. 121 individua i loro organi fondamentali), hanno piena autonomia organizzativa, che dipende sia dal riconoscimento della potestà statutaria, sia dal fatto che l’organizzazione degli uffici regionali ricade nella potestà legislativa esclusiva residuale delle regioni stesse. Naturalmente, valgono comunque la riserva di legge di cui all’art. 97 cost. (la quale, però, in questo caso rinvia ovviamente a leggi regionali) e gli altri princìpi di cui si riferirà tra breve. Anche gli enti locali hanno una potestà statutaria, che però è delimitata dalla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lett. p), cost.). Inoltre, poiché questi enti non hanno ovviamente potestà legislativa, la riserva di legge dell’art. 97 fa sì che le scelte organizzative fondamentali siano loro sottratte: la disciplina generale è attualmente contenuta in una legge dello Stato. Ai comuni, alle province e alle città metropolitane, poi, l’art. 117, sesto comma, cost. riconosce «potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Gli altri enti pubblici, non territoriali, non hanno una sfera di autonomia costituzionalmente garantita. Non vi sono limiti, di conseguenza, al legislatore (statale o regionale, nei limiti delle rispettive competenze), dalle cui scelte deriva il grado di autonomia organizzativa lasciato ai vari enti. Per gli enti pubblici nazionali vi è la potestà legislativa esclusiva dello Stato. Per gli altri enti, l’imputazione della potestà legislativa dipende dalla materia, secondo i criteri generali. Anche per gli enti non territoriali, l’autonomia organizzativa si esplica principalmente in statuti e regolamenti di organizzazione. Un breve discorso a parte merita l’organizzazione amministrazione euro-

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pea. Il suo corpo centrale, come è noto, è dato dagli uffici della Commissione europea, alla quale – sulla base della scarne previsioni dei trattati – si riconosce ampia autonomia organizzativa. Analoga autonomia è riconosciuta alle altre istituzioni. L’autonomia organizzativa delle altre amministrazioni europee, come le agenzie, invece, dipende ovviamente da quanto disposto dai relativi atti istitutivi.

8.5. I PRINCÌPI COSTITUZIONALI Oltre che di distribuire la potestà organizzativa, la Costituzione si preoccupa anche di porre alcuni princìpi fondamentali, le cui implicazioni vengono poi sviluppate dalla legislazione ordinaria e dalla giurisprudenza. In primo luogo, per le amministrazioni statali, l’art. 95 enuncia il principio della responsabilità ministeriale, che è un’applicazione all’organizzazione amministrativa del principio di democrazia rappresentativa: il Governo è posto al vertice dell’amministrazione e, di conseguenza, può risponderne al Parlamento, che è eletto dai cittadini; il circuito democratico è salvo. Su questo principio si fondano i poteri di indirizzo dei vertici politici delle amministrazioni. Lo stesso schema si ripropone a livello regionale e locale. La responsabilità ministeriale era un principio cardine dell’amministrazione ottocentesca. Essa è stata ovviamente ridimensionata dalla frammentazione amministrativa, dalla valorizzazione delle autonomie e dallo sviluppo di amministrazioni indipendenti. Il modello dell’art. 95 è bilanciato da quello degli artt. 97 e 98 (cap. 7): il primo, proprio con riferimento all’organizzazione dei pubblici uffici, enuncia i già citati princìpi di imparzialità e buon andamento. Il secondo stabilisce, tra l’altro, che «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Il principio di imparzialità, in particolare, costituisce un limite al potere dei politici di controllare le amministrazioni: queste devono sì seguire l’indirizzo politico governativo, ma devono anche curare l’interesse generale, evitando favoritismi. Un ulteriore fondamentale principio di organizzazione è quello del decentramento, enunciato dall’art. 5 cost. e sviluppato dal titolo V della seconda parte della Costituzione. Esso ha avuto un notevole impulso negli anni Novanta e, poi, con la riforma costituzionale del 2001, che ha comportato l’attribuzione di nuove funzioni amministrative agli enti territoriali. Il principio si traduce, tra l’altro, in princìpi relativi alla ripartizione delle funzioni amministrative, come quello di sussidiarietà, enunciato dall’art. 118 cost. L’at-

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tuazione del principio, peraltro, ha sempre incontrato rilevanti ostacoli nelle resistenze dell’amministrazione centrale dello Stato e nella difficoltà di attribuire agli enti territoriali e agli uffici periferici statali il personale in servizio presso di essa. Dal decentramento di distingue l’autogoverno, che si ha quando un ente è titolare, per il proprio ambito territoriale, di tutte le funzioni pubbliche, tranne quelle relative alla difesa e ai rapporti con l’estero: in pratica, vi è la coincidenza tra amministrazione locale e amministrazione periferica. Esso si è avuto nel Regno Unito in una precedente fase storica, ma è ora superato.

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CAPITOLO 9 IL PERSONALE PUBBLICO

SOMMARIO: 9.1. Un’altra categoria imprecisa. – 9.2. Rapporto d’ufficio e rapporto di servizio. – 9.3. Il personale professionale. – 9.4. Il personale onorario. – 9.5. L’accesso alle cariche e agli impieghi pubblici e la loro cessazione. – 9.6. La disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici.

9.1. UN’ALTRA CATEGORIA IMPRECISA In precedenza si è trattato dei padroni dell’amministrazione, cioè di coloro per conto dei quali essa lavora (cap. 7). Occorre ora trattare, all’inverso, di coloro che lavorano per l’amministrazione, quindi delle persone fisiche che operano presso di essa. Occorre, innanzitutto, delimitare l’ambito dell’analisi e, quindi, individuare le diverse categorie di personale che devono essere considerate. Anche l’esame di coloro che lavorano per la pubblica amministrazione pone rilevanti problemi di delimitazione del perimetro da considerare. In primo luogo, come è facile intuire, la difficoltà di definire il perimetro della pubblica amministrazione, in presenza di una pluralità di nozioni di pubblica amministrazione (cap. 5), rende difficile anche delimitare l’ambito dei soggetti che lavorano nel settore pubblico. In secondo luogo, per conto delle pubbliche amministrazioni lavorano molti soggetti che non hanno un rapporto duraturo con esse: professionisti, consulenti, lavoratori a progetto, componenti di commissioni di studio, di esame, di concorso o di gara e simili. In terzo luogo, l’ambito della categoria dei funzionari pubblici è rilevante anche a fini penalistici, dato che il Codice penale contempla specifiche figure di reato, proprie di questi soggetti. A questo scopo, il Codice penale usa e

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definisce la nozione di “pubblico ufficiale” e quella di “incaricato di pubblico servizio”, che peraltro hanno un rilievo esclusivamente penalistico e non coincidono con le qualificazioni proprie del diritto amministrativo. Quello definito dalle norme penalistiche, dunque, è un ulteriore modo di delimitare le pubbliche amministrazioni e i loro dipendenti, che si aggiunge a quelli propri del diritto amministrativo. Anche quella del personale amministrativo, di conseguenza, è una categoria imprecisa: vi rientrano certamente varie categorie di soggetti, come i dipendenti pubblici e i titolari e componenti di alcuni organi politici; possono rientrarvi, in base al criterio di delimitazione o al profilo rilevante, anche altre categorie di soggetti, come i dipendenti a tempo determinato e i componenti di organi collegiali. Per esempio, se si ritiene che una certa società per azioni (che, in ipotesi, sia posseduta da un ente pubblico o svolga funzioni pubbliche) è una pubblica amministrazione, si può ritenere altresì che i suoi amministratori e i suoi dipendenti siano pubblici funzionari o addetti. Da un lato, questi amministratori e dipendenti sono soggetti alle norme del Codice civile e, in generale, a quelle relative alle imprese e al lavoro privato, e non a quelle dettate per gli amministratori e i dipendenti pubblici. Dall’altro lato, non sempre ciò è vero, soprattutto a seguito di norme recenti che hanno esteso a determinati soggetti privati e ai loro dipendenti princìpi e istituti pubblicistici, come l’assunzione per concorso e i limiti alle retribuzioni (cap. 5). Si potrebbe discutere, quindi, sulla qualificazione del dipendente di una società partecipata da un ente locale, assunto a seguito di un concorso pubblico. La soluzione corretta consisterebbe probabilmente non nella pura e semplice inclusione di questi soggetti nella categoria dei funzionari o degli addetti delle pubbliche amministrazioni, ma nell’affermazione della loro parziale soggezione al relativo regime giuridico. In altri termini, ai fini dell’analisi della disciplina del personale pubblico, non è necessario scegliere un criterio preciso di delimitazione. In questa sede, di conseguenza, si fa riferimento essenzialmente a coloro che, in ragione delle funzioni svolte, sono soggetti a uno statuto giuridico pubblicistico, cioè a un insieme di princìpi e norme volte ad assicurare il corretto svolgimento di dette funzioni, diversi da quelli propri delle funzioni e del lavoro privati. Ci si concentra principalmente sulle categorie per le quali questo statuto pubblicistico è più forte, come i dipendenti a tempo indeterminato, ma si fa riferimento anche ad altre categorie, come quelle degli altri lavoratori dipendenti, che sono soggetti a un regime parzialmente pubblicistico.

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9.2. RAPPORTO D’UFFICIO E RAPPORTO DI SERVIZIO Si fa riferimento, quindi, sia al personale legato a un’amministrazione pubblica da un rapporto di ufficio, sia a quello a essa legato da un rapporto di servizio. La prima espressione indica la titolarità di un ufficio e, quindi, di una sfera di competenze. La seconda fa riferimento a un’attività lavorativa, svolta per una retribuzione. I due rapporti spesso coesistono: i presidi e i docenti delle scuole e delle università statali, per esempio, sono di regola dipendenti pubblici, quindi hanno un rapporto di servizio, e hanno proprie competenze, quindi hanno un rapporto di ufficio. Ma vi sono ipotesi in cui vi è solo il rapporto di ufficio: per esempio, i titolari di cariche politiche (come i ministri, i sindaci e gli assessori) non hanno un rapporto di lavoro con l’amministrazione presso la quale operano. E vi sono ipotesi in cui vi è solo il rapporto di servizio, perché vi sono dipendenti che non hanno una propria sfera di competenza (come gli addetti alla segreteria dei ministri, dei sindaci e degli assessori). Sui due concetti appena esplicati si basano alcune distinzioni tra categorie di pubblici funzionari. Una prima distinzione, peraltro incerta e controversa, è tra funzionari e addetti: i primi sono legati all’amministrazione da un rapporto di ufficio (oltre che, eventualmente, da un rapporto di servizio); i secondi hanno solo un rapporto di servizio. In altri termini, i primi hanno responsabilità proprie, in quanto titolari di una pubblica funzione (a volte si parla di “posizioni organizzative”). I secondi svolgono un’attività presso l’amministrazione, ma non hanno una propria responsabilità o competenza. La distinzione, peraltro, risente della difficoltà di identificare l’ambito delle funzioni pubbliche e di distinguerle dalle attività che non costituiscono funzioni. Di conseguenza, di essa non si tiene conto nel prosieguo: si parla genericamente di personale pubblico o di funzionari pubblici, in modo volutamente atecnico e generico. Più importante è la distinzione, speculare alla prima, tra i funzionari professionali e quelli onorari: i primi sono legati all’amministrazione da un rapporto di servizio (oltre che, eventualmente da un rapporto di ufficio), quindi sono lavoratori dipendenti dall’amministrazione; i secondi hanno solo un rapporto di ufficio, quindi operano a vario titolo presso l’amministrazione, ma non hanno un rapporto di impiego con essa. I primi svolgono un’attività lavorativa con una pubblica amministrazione e ne ricevono una retribuzione. I secondi sono titolari di una carica pubblica, di natura politica o amministrativa, per la quale ricevono (a volte) un’indennità.

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9.3. IL PERSONALE PROFESSIONALE Il personale professionale, quindi, è composto innanzitutto da coloro che hanno un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con una pubblica amministrazione: dipendenti dei ministeri, degli enti territoriali, degli enti pubblici e delle autorità indipendenti, personale docente e non docente delle scuole e delle università, medici e personale delle aziende sanitarie, magistrati e avvocati dello Stato, diplomatici, personale di polizia e delle forze armate, dirigenti di ruolo delle varie amministrazioni e così via. Si aggiungono i dipendenti a tempo parziale o a tempo determinato, che hanno pur sempre un rapporto di lavoro con le amministrazioni. Nel complesso, si tratta di oltre tre milioni di persone, la grande maggioranza delle quali hanno un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Alle categorie appena menzionate va aggiunto il personale precario, che nelle amministrazioni italiane è sempre stato abbondante, anche se per ragioni diverse da quelle per le quali esso abbonda anche nel settore privato: le imprese private, infatti, preferiscono i contratti a tempo determinato, i contratti a progetto, le consulenze più o meno sofisticate e varie altre forme di impiego a tempo, essenzialmente perché non vogliono assumere a tempo indeterminato, per via della rigidità della relativa disciplina e, in particolare, per la difficoltà di licenziare (peraltro attenuata dalla recente riforma del mercato del lavoro). Le pubbliche amministrazioni, invece, non hanno questa preoccupazione, ma spesso non possono assumere a tempo indeterminato, perché la legge lo impedisce, per ragioni finanziarie: è il legislatore a farsi carico dell’esigenza del contenimento dei costi, che nel settore privato è sempre ben presente ai datori di lavoro. Il lavoro precario nelle pubbliche amministrazioni, quindi, è spesso un rimedio o un aggiramento non di leggi poste a tutela dei dipendenti, ma di leggi poste a tutela della finanza pubblica. Il ricorso al lavoro precario genera spesso un circolo vizioso: il legislatore limita o vieta le assunzioni; le amministrazioni, non potendo assumere a tempo indeterminato, assumono precari, con forme diverse ma per lo più con una selezione meno accurata di un vero concorso pubblico, sul presupposto della temporaneità del rapporto; i precari spesso riescono a essere stabilizzati con interventi legislativi ad hoc, saturando gli organici delle amministrazioni; questo comporta nuovi blocchi delle assunzioni e nuovi aggiramenti. Questi effetti sono ormai temperati dalla legge, sempre più restrittiva sulla possibilità delle amministrazioni di ricorrere al lavoro a tempo determinato, anche per via della disciplina europea in materia, che impone agli stati di limitare il ricorso a esso e di sanzionare le viola-

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zioni. Anche a causa della disciplina europea, in alcuni settori – in particolare quello scolastico – il fenomeno è stato notevolmente ridotto negli ultimi anni. I blocchi delle assunzioni e i limiti al turnover, cioè al tasso di sostituzione dei dipendenti che cessano dall’impiego, sono una costante nella legislazione degli ultimi anni, che li mantiene per contenere la spesa di personale delle amministrazioni. Essi, unitamente alla dinamica appena descritta, hanno prodotto varie conseguenze negative sul funzionamento delle amministrazioni, quali l’invecchiamento del personale, la sua cattiva distribuzione (alla quale si dovrebbe rimediare con la mobilità, cioè con trasferimenti, che però nel settore pubblico sono molto difficili), la discontinuità nel reclutamento, il ricorso a servizi forniti da soggetti privati a titolo oneroso. Nell’ambito del personale professionale, una categoria a parte è data dalla dirigenza amministrativa, per accedere alla quale è di regola necessario uno specifico concorso. Come nel settore privato, i dirigenti hanno compiti di direzione degli uffici e di adozione delle decisioni più importanti. Peraltro, il numero dei dirigenti amministrativi è soggetto a notevoli variazioni da un’amministrazione all’altra, ma la proporzione di dirigenti, rispetto agli altri dipendenti, è notevolmente più alta che nel settore privato: si può dire che i dirigenti amministrativi corrispondono spesso non solo ai dirigenti, ma anche ai quadri del settore privato. L’accesso ai “ruoli” (cioè agli elenchi) dirigenziali implica uno status particolare e una retribuzione più alta di quella dei funzionari, ma non necessariamente la titolarità di particolari poteri e competenze: per dirigere un ufficio, più o meno ampio, è poi necessario anche il conferimento di un incarico (di regola triennale) da parte dei vertici dell’amministrazione. Per i dirigenti, quindi, può aversi una dissociazione tra il rapporto di servizio (che si costituisce con l’accesso alla dirigenza) e quello di ufficio (che dipende dall’incarico). Simili situazioni di dissociazione, peraltro, sono normalmente di breve durata: possono verificarsi quando il precedente incarico è scaduto e il successivo non è ancora stato conferito. Infatti, anche se la legge non attribuisce ai dirigenti il diritto di avere un incarico, che ciascun dirigente di ruolo abbia un incarico è nell’interesse delle amministrazioni (per evitare di pagare dirigenti a vuoto) e dei dirigenti stessi (dato che una parte rilevante della loro retribuzione è connessa all’incarico). Entro ridotti limiti percentuali, la legge consente di attribuire incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione, cioè non “di ruolo”: soggetti che non hanno superato il concorso per l’accesso alla dirigenza e non svolgono la loro carriera lavorativa nella dirigenza pubblica, ma hanno acquisito competenze ed esperienze in altri contesti (a volte designati con l’espressione gergale “diciannove comma sei”, dalla disposizione del testo unico del lavoro pubblico che prevede questo tipo di incarichi). Per questi soggetti, non può esservi la

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dissociazione menzionata, perché alla scadenza dell’incarico (e, quindi, al venir meno del rapporto d’ufficio), viene meno ogni rapporto con l’amministrazione (quindi si estingue anche il rapporto di servizio). Il principale problema relativo alla dirigenza amministrativa è quello dei suoi rapporti con i vertici politici delle amministrazioni: è il punto più problematico del rapporto tra politica e amministrazione (cap. 7). Su questo rapporto si scarica la tensione tra il principio della responsabilità ministeriale e quello di imparzialità (cap. 8): il primo può indurre a stabilire una gerarchia o, comunque, ad attribuire ai politici forti poteri di condizionamento nei confronti dei dirigenti; il secondo, unitamente al principio del merito, può indurre, al contrario, a prevedere garanzie per i dirigenti nei confronti dei politici. Nella prima metà degli anni Novanta, la seconda logica ha prevalso e si è imposto il principio di separazione tra indirizzo politico e gestione, il primo spettante ai politici e il secondo ai dirigenti: esso comporta, da un lato, che le decisioni amministrative spettano ai dirigenti, dall’altro che i dirigenti devono essere protetti dai condizionamenti dei politici, per evitare che le decisioni spettino loro solo formalmente, ma siano di fatto imposte dai politici. A partire dalla seconda metà dello stesso decennio, invece, la prima logica si è spesso imposta: la distinzione tra indirizzo politico e gestione non è venuta meno, ma il potere dei politici, in sede di scelta dei dirigenti, è stato notevolmente ampliato. La conseguenza è, da un lato, che i dirigenti da preporre ai vari uffici sono spesso scelti sulla base di un rapporto di fiducia con i politici, con sacrificio del principio del merito; dall’altro, che essi sono spesso esposti alla minaccia di revoca o di mancato rinnovo, con sacrificio del principio di imparzialità.

9.4. IL PERSONALE ONORARIO Il personale onorario è composto innanzitutto dai titolari di cariche politiche: membri del Parlamento e del Governo nazionali, dei consigli e delle giunte delle regioni e degli enti locali, nei limiti in cui hanno funzioni amministrative (quindi vi rientrano facilmente ministri e assessori, meno facilmente parlamentari e consiglieri). Si aggiungono i titolari di cariche in enti pubblici di vario genere e in autorità indipendenti, nonché molti altri soggetti che, a vario titolo e per durata variabile, operano presso le amministrazioni pubbliche: consulenti o esperti, membri di organi collegiali consultivi, di commissioni di esame, di concorso o di gara e simili. I funzionari politici (operanti a livello statale, regionale e locale) sono oltre centomila. I titolari di cariche in enti pubblici sono svariate migliaia. A

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questi si deve aggiungere un numero imprecisato, probabilmente intorno al mezzo milione, di persone che, senza essere incardinate (“di ruolo”) nelle amministrazioni, hanno rapporti di vario genere con esse: rapporti che a volte sono simili a quelli dei funzionari onorari, altre volte a impieghi a tempo determinato. La distinzione tra funzionari professionali e onorari è in effetti spesso sfumata nella pratica, perché molti funzionari onorari – come gli amministratori di enti pubblici – hanno un regime per più aspetti simile a quello dei lavoratori dipendenti. In particolare, quando la carica è molto assorbente e richiede un impegno a tempo pieno – si pensi al sindaco di un grande comune o al presidente di un grande ente – l’indennità finisce per essere sostanzialmente una retribuzione, che sostituisce il reddito al quale il funzionario rinuncia per via della carica pubblica. Nonostante ciò, la distinzione è molto importante, perché le discipline applicabili all’una e all’altra categoria sono diverse. Ai funzionari professionali, cioè ai dipendenti pubblici o “pubblici impiegati”, si applica un insieme di norme che derogano in parte alla disciplina del rapporto di lavoro privato e sono raccolte in primo luogo nel testo unico delle leggi sul rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Per i funzionari onorari non vi è una simile disciplina unitaria, ma varie discipline più o meno generali (tra quelle di portata più ampia, quella relativa agli amministratori locali, cioè ai titolari di organi politici negli enti locali) o semplicemente rapporti contrattuali.

9.5.

L’ACCESSO ALLE CARICHE E AGLI IMPIEGHI PUBBLICI E LA LORO CESSAZIONE

Della distinzione tra funzionari onorari e funzionari professionali si deve tener conto anche ai fini della disciplina dell’accesso alle cariche e agli impieghi pubblici. In linea di massima, il rapporto di ufficio può essere costituito in vari modi, mentre il rapporto di servizio si costituisce a seguito di un concorso. Per quanto riguarda i funzionari onorari, i modi di accesso sono molteplici. Per i titolari di cariche politiche rappresentative, ovviamente, vi è normalmente l’elezione. Per gli organi di vertice di enti pubblici, vi sono diverse soluzioni, che dipendono in gran parte dal tipo di ente: negli enti associativi, come gli ordini professionali, essi sono di regola eletti dai soci; per altri enti, essi sono spesso nominati da autorità politiche; i componenti delle autorità indipendenti sono nominati o eletti secondo modalità o con maggioranze tali, da sottrarli alle influenze politiche. Ulteriori cariche onorarie vengono conferite dai vertici politici o amministrativi per una durata determinata, secondo modalità stabilite dalla legge, che variano in rapporto al tipo di incarico.

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Per quanto riguarda i funzionari professionali, invece, vi è un principio fondamentale, stabilito dall’art. 97 cost., a norma del quale agli impieghi con la pubblica amministrazione si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. Ciò vale anche per l’accesso alla dirigenza amministrativa, che implica il superamento di un concorso pubblico e la successiva costituzione di un rapporto di servizio, distinto dal successivo incarico dirigenziale. Quello del concorso è ovviamente un principio posto a tutela sia dei cittadini, ai quali viene assicurata la parità di trattamento nell’accesso a una risorsa scarsa, sia dell’amministrazione, che attraverso il concorso pubblico può reclutare i migliori tra i candidati che aspirino all’impiego. Si tratta della principale applicazione del più generale principio del merito, che dovrebbe disciplinare – come si osserverà tra breve – non solo l’accesso alle cariche e agli impieghi pubblici, ma anche la carriera dei funzionari e la perdita delle cariche e degli impieghi stessi. L’efficacia del concorso, come strumento di selezione del personale, è spesso contestata, soprattutto da parte degli operatori e degli studiosi del settore privato. Essi però, da un lato, dimenticano che il concorso serve anche a garantire la parità di trattamento tra i cittadini, e non solo a reclutare i migliori nell’interesse delle amministrazioni. Dall’altro lato, la critica andrebbe rivolta non al principio, ma al modo in cui i concorsi vengono concretamente disciplinati o svolti: per esempio, i concorsi sono spesso superflui (per certi lavori basterebbe ricorrere a liste di collocamento) o fasulli (con commissioni interne o con bandi ritagliati intorno alle figure dei candidati interni) o condotti con modalità antiquate (che spesso premiano non i migliori, ma quelli che hanno studiato di più) e poco adeguate al profilo del dipendente da selezionare. Più in generale, si ha un vero concorso quando tutti coloro che hanno certi requisiti possono concorrere e il numero dei posti è significativamente inferiore al numero dei concorrenti (di conseguenza, i cd. concorsi interni e riservati non sono concorsi). E, soprattutto, perché il meccanismo funzioni è necessario che i requisiti di accesso, i titoli valutabili e le prove selettive siano adeguati alla figura professionale richiesta. Se ben concepito e ben gestito, un concorso pubblico è un’ottima difesa contro gli abusi, anche se non dà mai l’assoluta garanzia di buoni risultati. A ogni modo, in base alla Costituzione, alla regola del concorso si può derogare solo nei casi previsti dalla legge, e non a discrezione dell’amministrazione che deve assumere. Lo stesso legislatore non è del tutto libero di introdurre deroghe al principio del concorso: nel farlo, deve rispettare il principio di ragionevolezza. Deroghe irragionevoli sono contrarie alla Costituzione e le leggi che le introducono possono essere annullate dalla Corte costituzionale. È ragionevole, per esempio, fare a meno del concorso per reclutare disabili o orfani di vittime della criminalità. Non è ragionevole invece –

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e non può farlo neanche la legge – prevedere l’assunzione senza concorso di persone che prestino già servizio nelle amministrazioni in forza di un incarico conferito intuitu personae, senza alcuna valutazione comparativa. Simili violazioni del principio del merito, condotte con la stabilizzazione di personale precario non meritevole, sono peraltro frequenti, sia nella legislazione statale sia in quella regionale. I problemi del reclutamento del personale non riguardano solo le modalità di selezione, ma anche, a monte, l’individuazione delle figure professionali da reclutare. Spesso si procede ad assunzioni senza un’analisi delle funzioni da svolgere e delle competenze necessarie per svolgerle, magari sulla base di piante organiche adottate da molto tempo e non più adeguate all’evoluzione dell’attività amministrativa. Alcune norme recenti hanno introdotto una maggiore flessibilità, per favorire una più consapevole politica di reclutamento da parte delle amministrazioni pubbliche. Anche in ordine alla cessazione, occorre distinguere tra i funzionari onorari e quelli professionali. Per i primi, la cessazione (del solo rapporto di ufficio) consegue normalmente alla scadenza del mandato, ma in determinate ipotesi può anche aversi la revoca, da parte dell’autorità nominante, o la decadenza, oltre naturalmente alle dimissioni. Per i secondi, la cessazione (del rapporto di servizio) è la normale cessazione del rapporto di lavoro, che normalmente avviene per il raggiungimento del limite di età ma può dipendere anche da altri fattori, come il licenziamento per ragioni disciplinari e le dimissioni.

9.6. LA DISCIPLINA DEI RAPPORTI DI LAVORO DEI DIPENDENTI PUBBLICI La Costituzione non dedica molta attenzione alla disciplina generale della pubblica amministrazione, per la quale detta solo alcuni princìpi fondamentali (cap. 4). Lo stesso può dirsi, in particolare, per i pubblici funzionari. Essa contiene, innanzitutto, alcune disposizioni che ne definiscono i doveri e le responsabilità (capp. 10 e 19). Essa contiene, poi, alcune previsioni relative alle modalità di elezione e ai compiti del personale politico: lo studio di esse è estraneo al diritto amministrativo, rientrando piuttosto nel diritto costituzionale. Non contiene ulteriori previsioni generali relative ai funzionari onorari, per i quali manca anche una disciplina legislativa generale e si applicano le norme relative alle singole amministrazioni. Per il personale professionale, invece, la Costituzione contiene alcune previsioni generali. In primo luogo, essa enuncia il principio fondamentale,

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secondo il quale essi sono al servizio esclusivo della Nazione (cap. 7). Essa enuncia altresì il principio del concorso, di cui si è già riferito e che – come pure si è osservato – è importante anche in quanto è espressivo di un più generale principio del merito, che deve ispirare anche la disciplina e la gestione delle carriere. Ulteriori previsioni costituzionali sono relative all’impossibilità, per i dipendenti pubblici, di conseguire promozioni se non per anzianità, mentre sono membri del Parlamento, e alla possibilità che, per determinate categorie di dipendenti (come i magistrati e i militari), la legge introduca limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici. Al di là di queste poche previsioni costituzionali, la disciplina dei rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti è rimessa alla legge, che li disciplina sia con norme generali, sia con norme speciali. Una disciplina generale esiste sin dal 1908 ed è oggi contenuta nel testo unico delle norme generali in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Questa legge (più precisamente, il decreto legislativo n. 165 del 2001) contiene in effetti anche norme relative all’organizzazione e al funzionamento delle amministrazioni. Per quanto riguarda la disciplina del rapporto di lavoro, esso contiene norme che derogano alla normale disciplina dei rapporti di lavoro privato, che è applicabile al di fuori di queste deroghe. Questa applicabilità, in via residuale, della disciplina del lavoro privato è il risultato della “privatizzazione” o “contrattualizzazione” della disciplina del lavoro pubblico che si è avuta negli anni Novanta. In precedenza, la disciplina era tendenzialmente pubblicistica e interamente unilaterale, cioè dettata da atti legislativi, regolamenti amministrativi e altri atti unilaterali delle amministrazioni. In effetti, nel tempo i sindacati dei dipendenti pubblici erano riusciti a condizionare molti dei contenuti di questi atti e, negli anni Ottanta, anche a ottenere l’introduzione della contrattazione collettiva per definire parte di quei contenuti. Con la privatizzazione sono state introdotte due principali innovazioni: in primo luogo, i contratti collettivi sono immediatamente efficaci e vincolanti per le parti, senza bisogno di essere recepiti in atti unilaterali dell’amministrazione; in secondo luogo, il Codice civile e le leggi relative al lavoro privato sono applicabili, ove la legge non disponga diversamente. La contrattazione collettiva, peraltro, non è libera come nel settore privato, ma soggetta a norme che disciplinano sia i soggetti di essa (che, per quanto riguarda i sindacati dei lavoratori, devono avere una certa rappresentatività), sia le procedure contrattuali. L’attuazione della riforma non è stata molto soddisfacente, sia perché la contrattazione collettiva si è svolta di fatto in modo alquanto difforme da come previsto dalla legge, sia perché i contratti collettivi hanno spesso sconfinato in materie riservate alla legge o alle determinazioni unilaterali dell’amministrazione (ai “poteri del privato datore di lavoro”, che la legge chiede ai

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dirigenti di esercitare). Di conseguenza, una nuova riforma, nel 2009, ha circoscritto l’ambito della contrattazione collettiva, ampliando correlativamente l’ambito delle determinazioni unilaterali e prevedendo meccanismi per evitare gli sconfinamenti. Da ultimo, un limitato intervento legislativo del 2016 ha consentito qualche nuovo spazio alla contrattazione collettiva. Vi sono alcune categorie di personale “in regime di diritto pubblico”, la cui disciplina non è mai stata oggetto di privatizzazione e che, quindi, continuano a essere regolate interamente da leggi e atti unilaterali delle amministrazioni: docenti universitari, magistrati e avvocati dello Stato, militari, diplomatici e personale della carriera prefettizia, personale di polizia, personale delle autorità indipendenti. Questi dipendenti sono tendenzialmente soggetti alla disciplina del citato testo unico ma, principalmente, a discipline speciali, che in qualche caso contemplano anche forme di contrattazione collettiva, sia pure diversa da quella disciplinata in via generale per i dipendenti pubblici.

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CAPITOLO 10

I DOVERI DEI DIPENDENTI PUBBLICI

SOMMARIO: 10.1. La peculiarità dei doveri dei dipendenti pubblici. – 10.2. La codificazione dell’etica pubblica. – 10.3. Il rilievo giuridico dei codici di comportamento. – 10.4. I doveri dei pubblici dipendenti. – 10.5. I doveri degli altri pubblici funzionari.

10.1. LA PECULIARITÀ DEI DOVERI DEI DIPENDENTI PUBBLICI Nel capitolo precedente si è fornito un quadro complessivo delle norme applicabili ai soggetti che lavorano per le pubbliche amministrazioni. Come vi si è osservato, da queste norme risulta una disciplina che per molti aspetti è analoga a quella tipica del lavoro privato, ma che per altri se ne differenzia, rispondendo a princìpi pubblicistici. Uno degli aspetti caratterizzati dalle maggiori differenze è quello dei doveri dei dipendenti, che risultano da un insieme di princìpi e regole, con riferimento ai quali si parla spesso di “etica pubblica”. La peculiarità dei doveri dei pubblici dipendenti – e, più in generale, di tutti coloro che svolgono una funzione pubblica – trova espressione e fondamento nell’art. 54 cost., a norma del quale «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore». Questa previsione, nella sua semplicità e con un linguaggio ormai un po’ fuori moda, è importante, perché distingue i funzionari pubblici, per un verso, dalla generalità dei cittadini e, per un altro verso, dai lavoratori privati. Dal primo punto di vista, tutti i cittadini – recita il primo comma dello stesso articolo – devono rispettare la Costituzione e le leggi. Non è poco ma, per i funzionari pubblici, non è tutto; i funzionari pubblici devono fare qual-

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cosa di più: devono mettere una particolare cura nell’adempimento della funzione loro affidata, devono quasi essere di esempio per gli altri cittadini. Ciò vale per tutti i funzionari pubblici, compresi quelli onorari, come i politici. In questa sede, peraltro, si concentrerà l’attenzione solo sui funzionari professionali, cioè sui dipendenti pubblici, che sono più rilevanti per il diritto amministrativo. Dal secondo punto di vista, la previsione costituzionale fa sì che i doveri dei funzionari pubblici non derivino solo da accordi, come i contratti di lavoro, ma anche da determinazioni unilaterali contenute in atti come le leggi e i codici di comportamento, che danno contenuto all’obbligo di comportarsi con disciplina e onore. Non che i lavoratori privati non debbano comportarsi con disciplina e onore, ma non hanno un obbligo costituzionale di farlo: i loro doveri derivano solo dai loro contratti di lavoro. La peculiarità dei doveri dei dipendenti pubblici dipende anche dal fatto che essi, a differenza di quelli dei lavoratori dipendenti privati, non sempre derivano dall’interesse economico del datore di lavoro. Si pensi all’obbligo di cortesia nei confronti degli utenti o all’obbligo di rispondere celermente ai reclami, rispettando l’ordine cronologico: nel settore privato, essi derivano dall’esigenza di conquistare clienti o utenti (tanto che, quando non vi è effettiva concorrenza, sono le norme o le autorità amministrative a imporre simili obblighi alle imprese). È un’esigenza che le amministrazioni pubbliche normalmente non hanno, operando normalmente in situazione di monopolio: per esse e per i loro dipendenti, simili regole dipendono dai princìpi contenuti nella Costituzione e nelle leggi.

10.2. LA CODIFICAZIONE DELL’ETICA PUBBLICA Fino al 1994, i doveri dei dipendenti pubblici erano alquanto indeterminati, non si traducevano in regole di condotta dettagliate e ordinate. La normativa relativa ai dipendenti pubblici era completa e minuziosa (spesso fin troppo) per gli aspetti ontologici del pubblico impiego (per esempio, in materia di reclutamento, di carriere e di retribuzione), ma inadeguata per quelli deontologici. Poche previsioni di legge esprimevano efficacemente i princìpi a cui deve ispirarsi il comportamento del dipendente: rispetto della Costituzione e delle leggi, prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, obbligo di residenza, doveri di fedeltà, di diligenza e di efficienza, collaborazione con i cittadini, parità di trattamento, rispetto dell’orario di lavoro, segreto d’ufficio, dovere di obbedienza. Esse, peraltro, rimanevano a un livello piuttosto astratto e, soprattutto, erano frammentarie, non esaustive: non si

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curavano, per esempio, del pericolo di conflitto di interessi o dei rapporti tra il dipendente e i terzi interessati. Facevano eccezione solo particolari categorie di personale, per le quali vi erano previsioni più dettagliate: i docenti scolastici e universitari, i magistrati, le forze dell’ordine e le forze armate. Ma per la maggior parte del personale amministrativo mancava un’analitica individuazione degli obblighi e dei divieti che si riconducono ai princìpi costituzionali. L’esperienza quotidiana dimostrava la difficoltà di individuare, sulla base della normativa esistente, i comportamenti leciti e quelli censurabili. Comportamenti generalmente sentiti – in termini morali – come corretti o come scorretti non erano – dal punto di vista giuridico – né chiaramente leciti né chiaramente illeciti: erano avvolti da un’ambiguità che manifestava l’incapacità delle norme giuridiche di offrire risposte ad alcune delle sfide etiche più comuni. A partire dagli anni Novanta, vi è stata una maggiore attenzione al tema, nel quadro dell’attenzione dedicata al più ampio tema della prevenzione della corruzione nel settore pubblico. A seguito di molti studi e proposte, è stata approvata la legge n. 190 del 2012 in materia di prevenzione della corruzione, che ha tra l’altro: introdotto strumenti come i piani per la prevenzione della corruzione; attribuito alcune funzioni all’Autorità nazionale anticorruzione; previsto, all’interno delle amministrazioni, la figura del responsabile per la prevenzione della corruzione; affermato princìpi come quello di rotazione negli incarichi dirigenziali esposti al rischio di corruzione; stabilito alcune nuove forme di trasparenza; dettato nuove previsioni in settori come i contratti pubblici. Per introdurre un insieme completo e coordinato di regole di condotta, peraltro, già nel 1994 era stato emanato il Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che deve essere consegnato a ciascun dipendente all’atto dell’assunzione. A seguito della legge del 2012, esso è stato nuovamente emanato (con il decreto del Presidente della Repubblica n. 62 del 2013), con qualche modifica. Esso ha lo scopo di andare incontro alle buone intenzioni dei dipendenti piuttosto che di reprimere quelle cattive: è un ausilio per chi voglia perseguire correttamente l’interesse pubblico, nel rispetto della legge, e nutra dubbi sulla correttezza dei comportamenti possibili. Poiché i dipendenti pubblici non sono tutti uguali, la legge prevede altresì che le singole amministrazioni, coinvolgendo le organizzazioni sindacali e le associazioni di utenti e consumatori, adottino un proprio codice di comportamento.

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10.3. IL RILIEVO GIURIDICO DEI CODICI DI COMPORTAMENTO In generale, i codici di comportamento possono avere una rilevanza sul piano della responsabilità dei dipendenti o non averla. Essi possono spiegare i loro effetti esclusivamente sul piano della morale collettiva e dell’impegno reciproco, o avere un’ulteriore rilevanza giuridica. La violazione delle norme in essi contenute può atteggiarsi come reato, può obbligare al risarcimento del danno, può esporre a una sanzione disciplinare, può influire sul giudizio di efficienza che dà contenuto alla responsabilità per i risultati, può non essere sanzionata giuridicamente. La scelta operata dalla legge, per quanto riguarda i dipendenti pubblici, è di conferire rilievo alle violazioni dei codici di comportamento principalmente sul piano della responsabilità disciplinare (materia tendenzialmente riservata alla contrattazione collettiva). La legge, infatti, stabilisce che la violazione del codice di comportamento è fonte di responsabilità disciplinare e che le violazioni gravi o reiterate sono causa di licenziamento. Al di là di quest’ultima ipotesi eccezionale, spetta ai contratti collettivi determinare la sanzione disciplinare applicabile a ciascun tipo di violazione. Dunque, la legge distingue nettamente tra la definizione dei doveri, che rimane unilaterale, e quella degli illeciti e delle sanzioni, che è contrattuale. È come se la pubblica amministrazione dicesse al suo dipendente: «possiamo metterci d’accordo su ciò che succede quando tu vieni meno ai tuoi doveri, ma sappi che i tuoi doveri sono questi e che nei casi più gravi sarai comunque licenziato». La definizione delle infrazioni e delle sanzioni disciplinari è demandata alle parti contrattuali, ma queste devono tener conto dell’avvenuta ricognizione dei doveri, rispetto ai quali le infrazioni possono essere considerate tali. Il Codice di comportamento e le sue violazioni, peraltro, possono avere rilievo anche da altri punti di vista. Per esempio, anche se esso non è una norma penale e la sua violazione non costituisce reato, i giudici penali fanno a volte riferimento ai suoi articoli come esemplificazione dei comportamenti ammissibili e di quelli non ammissibili e, quindi, come strumento di interpretazione delle norme incriminatici. Similmente, i giudici civili usano a volte le sue previsioni per valutare la legittimità dell’irrogazione di sanzioni disciplinari, anche in assenza di precisi rinvii da parte dei contratti collettivi. I giudici amministrativi, a loro volta, deducono dalla violazione del Codice l’illegittimità di un provvedimento amministrativo. Lo stesso fa la Corte dei conti per valutare la responsabilità patrimoniale del dipendente nei confronti dell’amministrazione.

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10.4. I DOVERI DEI PUBBLICI DIPENDENTI Dopo aver riferito in termini generali delle regole di comportamento dei dipendenti pubblici e del loro rilievo giuridico, occorre considerare il loro contenuto. Nelle pagine che seguono, esse saranno esaminate considerando i diversi problemi ed esigenze, che esse mirano a risolvere o a soddisfare. Una prima esigenza è quella di assicurare un adeguato impegno, in termini di tempo e di energie, da parte del dipendente pubblico nello svolgimento dei compiti inerenti alla sua funzione. Questa esigenza trova una enunciazione generale nel Codice di comportamento: «Nel rispetto dell’orario di lavoro, il dipendente dedica la giusta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie competenze, si impegna ad adempierle nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini e assume le responsabilità connesse ai propri compiti». L’obiettivo dell’adeguatezza dell’impegno è normalmente perseguito vietando ulteriori attività lavorative e richiedendo la preventiva autorizzazione per le attività occasionali: nel pubblico impiego, la regola è quella dell’esclusività, salvo le ipotesi marginali di impiego a tempo determinato e categorie particolari (come quella dei professori universitari a tempo definito, i quali rinunciano a una quota della propria retribuzione in cambio di una riduzione del carico didattico e della libertà di svolgere un’attività professionale). Naturalmente, non basta dedicare la giusta quantità di tempo ed energie allo svolgimento della propria funzione: occorre anche impiegarli proficuamente, svolgendo la funzione stessa in modo efficiente. Il Codice di comportamento richiede al dipendente innanzitutto di essere realmente al servizio dei cittadini: «il dipendente limita gli adempimenti a carico dei cittadini e delle imprese a quelli indispensabili e applica ogni possibile misura di semplificazione dell’attività amministrativa, agevolando, comunque, lo svolgimento, da parte dei cittadini, delle attività loro consentite, o comunque non contrarie alle norme giuridiche in vigore». Ulteriori previsioni sono più genericamente volte a promuovere l’efficienza: «salvo giustificato motivo, non ritarda né affida ad altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza»; «nel rispetto delle previsioni contrattuali, il dipendente limita le assenze dal luogo di lavoro a quelle strettamente necessarie». Si tratta di previsioni che traducono in norme di comportamento individuale princìpi e regole relativi all’organizzazione e al funzionamento delle amministrazioni. L’imparzialità è evidentemente un principio fondamentale, enunciato dall’art. 97 cost., per i dipendenti pubblici. Nella normale condotta del dipendente, si traduce soprattutto nella parità di trattamento, così enunciata

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dal Codice di comportamento: «il dipendente, nell’adempimento della prestazione lavorativa, assicura la parità di trattamento tra i cittadini che vengono in contatto con l’amministrazione da cui dipende. A tal fine, egli non rifiuta né accorda ad alcuno prestazioni che siano normalmente accordate o rifiutate ad altri. Il dipendente si attiene a corrette modalità di svolgimento dell’attività amministrativa di sua competenza, respingendo in particolare ogni illegittima pressione, ancorché esercitata dai suoi superiori». Le attività ulteriori rispetto allo svolgimento della funzione pubblica, che il dipendente svolga, possono costituire un problema anche se esse non lo impegnano a tal punto da distrarlo dalla funzione stessa. Esse possono, infatti, legarlo professionalmente a soggetti, i cui interessi siano in conflitto con quelli pubblici o, comunque, siano affetti dalla sua attività di rilievo pubblicistico, generando la tentazione di favoritismi e scambi di favori. Ciò, ovviamente, può determinare condizionamenti che compromettono la sua indipendenza nello svolgimento della funzione. L’indipendenza può essere messa in pericolo anche da altri fattori, come la partecipazione ad associazioni operanti nell’ambito di interesse dell’amministrazione e la ricezione di regali o ospitalità da parte di soggetti interessati, con i quali il dipendente abbia rapporti per ragioni d’ufficio. Per ciascuno di questi problemi il Codice di comportamento contiene previsioni. In ordine alla partecipazione ad associazioni, esso impone obblighi di trasparenza, stabilendo che «il dipendente comunica al dirigente dell’ufficio la propria adesione ad associazioni ed organizzazioni, anche a carattere non riservato, i cui interessi siano coinvolti dallo svolgimento dell’attività dell’ufficio, salvo che si tratti di partiti politici o sindacati»; e tutela la libertà di associazione, prevedendo che «il dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associazioni ed organizzazioni, né li induce a farlo promettendo vantaggi di carriera». In ordine alla ricezione di regali, il Codice prevede che il dipendente «non accetta da soggetti diversi dall’amministrazione retribuzioni o altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per lo svolgimento dei propri compiti d’ufficio» e «non accetta incarichi di collaborazione con individui od organizzazioni che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico in decisioni o attività inerenti all’ufficio»; «non chiede, per sé o per altri, né accetta, neanche in occasione di festività, regali o altre utilità salvo quelli d’uso di modico valore, da soggetti che abbiano tratto o comunque possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio»; «non chiede, per sé o per altri, né accetta, regali o altre utilità da un subordinato o da suoi parenti entro il quarto grado. Il dipendente non offre regali o altre utilità ad un sovraordinato o a suoi parenti entro il quarto grado, o conviventi, salvo quelli d’uso di modico valore».

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L’indipendenza del funzionario richiede che egli sia disinteressato, nel senso proprio del termine: che egli non abbia interessi, coinvolti nella propria attività, diversi da quello pubblico, che deve perseguire. Finora si è fatto riferimento a ipotesi in cui il funzionario è esposto all’influenza di interessi altrui. Ma a turbare il corretto svolgimento delle sue funzioni può essere anche un interesse proprio del funzionario: questa è l’ipotesi del conflitto di interessi. In astratto, il conflitto di interessi può essere affrontato in tre modi principali: eliminandolo, neutralizzandolo o rendendolo manifesto. Il primo rimedio implica che l’interessato scelga tra la carica o impiego pubblico e l’interesse privato: è, ovviamente, il rimedio più efficace, ma anche il più gravoso per il soggetto interessato, che deve – per esempio – vendere una partecipazione azionaria o interrompere un’attività professionale, oppure rinunciare alla carica o impiego. Il secondo rimedio consiste nel prevedere obblighi di astensione, assistiti da sanzioni, a carico di chi si trovi in conflitto di interessi: è, evidentemente, una soluzione meno efficace, perché tollera l’esistenza del conflitto, ma ne evita le degenerazioni; è un rimedio che può funzionare in presenza di situazioni occasionali di conflitto di interessi, ma può rivelarsi dannoso quando il conflitto di interessi sia tale da insorgere frequentemente. Il terzo rimedio, quello della trasparenza, è naturalmente il più blando, ma è sempre utile, indipendentemente dal ricorso che si voglia fare ai primi due: la situazione di conflitto di interessi deve essere conosciuta dai titolari dell’interesse minacciato, perché ciò è un deterrente e consente un controllo diffuso nei confronti degli atti volti a trarne un indebito vantaggio. Il Codice di comportamento contiene una disciplina equilibrata del conflitto di interessi, che usa in misura variabile tutti e tre gli approcci descritti. Esso ricorre ampiamente al terzo rimedio: impone ai dipendenti di informare il dirigente del proprio ufficio dei rapporti di collaborazione retribuiti, avuti nel quinquennio precedente; ai dirigenti, in particolare, di comunicare all’amministrazione le partecipazioni azionarie, gli interessi finanziari e le altre situazioni, legate per esempio a rapporti di parentela, che possano porli in conflitto di interessi. Ampio è anche il ricorso al secondo rimedio, quello della neutralizzazione del conflitto di interessi con l’obbligo di astensione, che è previsto per l’ipotesi in cui il dipendente debba partecipare a decisioni o attività che coinvolgano interessi propri, di propri parenti o di soggetti con i quali egli abbia avuto determinati rapporti, nonché quando sussistano gravi ragioni di convenienza, che devono essere valutate dal dirigente dell’ufficio. L’obbligo di astensione del funzionario pubblico in conflitto di interessi, peraltro, è da tempo un principio generale dell’ordinamento giuridico, affermato anche dalla legge sul procedimento amministrativo con riferimento al responsabile del procedimento. Limitato, invece, è il ricorso al più radicale

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rimedio della rimozione del conflitto di interessi, cioè dell’impossibilità di svolgere l’attività che possa generarlo: vi è un divieto di attività collaterali solo se il committente sia un soggetto che abbia, o abbia avuto nei due anni precedenti, un interesse economico in decisioni o attività dell’ufficio. Una serie di problemi ulteriori, inerenti ai rapporti tra dipendenti pubblici e cittadini, riguarda l’uso delle informazioni che riguardano i primi o delle quali essi sono in possesso per ragioni d’ufficio. Norme in materia di trasparenza degli interessi finanziari e di informazioni come i redditi, gli incarichi e il curriculum vitae sono state introdotte, negli ultimi anni, anche per varie categorie di dipendenti pubblici, in particolare per quelli di livello dirigenziale (cap. 7). Peraltro, come già osservato, il Codice di comportamento prevede già obblighi di trasparenza per tutti i dipendenti e, in particolare, per i dirigenti. Nel complesso, i pubblici dipendenti devono accettare un sacrificio per la loro riservatezza, una minore tutela dei loro dati personali. Più in generale, la trasparenza amministrativa ha determinato un progressivo spostamento del confine tra l’area coperta dall’obbligo del segreto d’ufficio e quella coperta dal diritto alla trasparenza, soprattutto a seguito delle recenti previsioni in materia di diritto di accesso civico (cap. 7). Anche questa evoluzione trova un riscontro nel Codice di comportamento, a norma del quale il dipendente «favorisce l’accesso degli stessi alle informazioni a cui abbiano titolo e, nei limiti in cui ciò non sia vietato, fornisce tutte le notizie e informazioni necessarie per valutare le decisioni dell’amministrazione e i comportamenti dei dipendenti». Le informazioni amministrative, peraltro, continuano a dover essere utilizzate solo nell’interesse dei cittadini e non per altri scopi: il Codice ricorda infatti che «il dipendente […] non utilizza a fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni di ufficio». La trasparenza, infine, riguarda non solo i contenuti delle comunicazioni ai cittadini, ma anche i modi di essa: è per questo che, sempre a norma del Codice di comportamento, «nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotta un linguaggio chiaro e comprensibile». Nei rapporti tra i dipendenti pubblici e i cittadini, c’è l’esigenza di fornire ai secondi le informazioni necessarie, ma c’è anche l’esigenza di non distorcere la percezione dell’amministrazione e di non danneggiarne ingiustificatamente l’immagine. Un’ulteriore area di doveri dei funzionari pubblici, di conseguenza, attiene alla cura dell’immagine esterna dell’amministrazione. Questi doveri possono esplicarsi in regole inerenti ai rapporti con i cittadini, ai rapporti con la stampa e anche alla vita privata. La loro violazione può non essere sanzionata, ma può anche essere sanzionata pesantemente, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte dei conti in materia di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione.

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Il Codice di comportamento stabilisce che «il dipendente in diretto rapporto con il pubblico presta adeguata attenzione alle domande di ciascuno e fornisce le spiegazioni che gli siano richieste in ordine al comportamento proprio e di altri dipendenti dell’ufficio. Nella trattazione delle pratiche egli rispetta l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto motivando genericamente con la quantità di lavoro da svolgere o la mancanza di tempo a disposizione». Si tratta, come è evidente, di previsioni volte a promuovere non solo il corretto funzionamento delle amministrazioni, ma anche la percezione di esso. Nella stessa prospettiva può essere valutata la previsione secondo la quale «il dipendente non prende impegni né fa promesse in ordine a decisioni o azioni proprie o altrui inerenti all’ufficio, se ciò possa generare o confermare sfiducia nell’amministrazione o nella sua indipendenza ed imparzialità». L’immagine dell’amministrazione può essere lesa anche dai comportamenti riprovevoli dei pubblici funzionari nella vita privata. Si tratta peraltro, come è facile intuire, di un aspetto particolarmente delicato e difficile da disciplinare, per diverse ragioni: perché regole di condotta nella vita privata determinano pur sempre un’intromissione del datore di lavoro pubblico nell’attività extralavorativa del funzionario; perché simili regole possono essere espressione di un approccio moralistico o paternalistico alla condotta dei funzionari pubblici, che può non essere condiviso; perché valutare la correttezza dei comportamenti privati, e quindi le relative violazioni, è molto più difficile che valutare la correttezza del comportamento in servizio e rischia di tradursi in valutazioni arbitrarie. Occorre però ricordare la specificità dei funzionari pubblici e del loro statuto giuridico, segnalata dall’art. 54 cost. Il bilanciamento tra queste opposte esigenze non è facile. Non a caso, regole di comportamento dettagliate si hanno solo per determinate categorie di dipendenti pubblici, come quelli appartenenti ai corpi militari, i quali sono sottoposti a una disciplina più rigorosa. Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, invece, si limita a porre un divieto di approfittare indebitamente della propria posizione: il dipendente, «nei rapporti privati, in particolare con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, non menziona né fa altrimenti intendere, di propria iniziativa, tale posizione, qualora ciò possa nuocere all’immagine dell’amministrazione». Un ultimo problema, inerente ai rapporti esterni e all’immagine dell’amministrazione, attiene ai rapporti con la stampa. Anche a questo riguardo, ci sono esigenze diverse da contemperare, essendo coinvolti la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa. Il Codice di comportamento è alquanto liberale, stabilendo che, «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’im-

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magine dell’amministrazione. Il dipendente tiene informato il dirigente dell’ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa».

10.5. I DOVERI DEGLI ALTRI PUBBLICI FUNZIONARI Si è fatto finora riferimento solo ai dipendenti pubblici, cioè ai soggetti legati da rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Ma, come si è osservato nel capitolo precedente, quella dei dipendenti pubblici è una categoria imprecisa, oltre che molto eterogenea. Occorre, quindi, fare rapidamente riferimento anche ad altre categorie di funzionari pubblici, che sono pure contemplati dall’art. 54 cost.: esso, infatti, fa generico riferimento ai «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». Occorre considerare: in primo luogo, i funzionari onorari; in secondo luogo, categorie particolari di dipendenti pubblici, come i magistrati; in terzo luogo, i soggetti privati investiti di funzioni pubbliche. Per quanto riguarda i funzionari onorari, alcuni dei problemi finora considerati si pongono in termini molto diversi che per i dipendenti: si pensi, per esempio, alle diverse esigenze che riguardano il rapporto tra i politici e la stampa o il problema della trasparenza dei loro interessi finanziari. Di conseguenza, le regole di comportamento possono essere diverse o mancare del tutto. Altri problemi, peraltro, si pongono in termini simili: per esempio, quello del conflitto di interessi e quello dell’adeguatezza dell’impegno. Inoltre, per questi funzionari vi possono essere problemi ulteriori, come quelli legati alle campagne elettorali. Manca, però, per il personale onorario, una codificazione dei doveri analoga a quella che si ha per i dipendenti pubblici. Per singole categorie di politici (ministri, parlamentari, amministratori locali ecc.), vi sono singole previsioni, ma vi sono anche molte lacune: per esempio, manca una disciplina del conflitto di interessi dei parlamentari. Molto eterogenea e spesso inadeguata è anche la disciplina relativa ad altri funzionari onorari: per esempio, i componenti di alcune autorità indipendenti sono soggetti a incompatibilità molto rigorose, mentre per quelli di altre simili autorità previsioni del genere mancano quasi del tutto. Si è già osservato che la legge contempla regole di comportamento specifiche per determinate amministrazioni o per determinate categorie di dipendenti. La legge stessa detta una disciplina particolare per i magistrati e gli avvocati dello Stato, per i quali essa prevede che siano emanati codici di comportamento specifici, elaborati dalle relative associazioni di categoria. La sottrazione al Codice generale e la previsione di codici specifici dipendono dalla peculiarità di queste categorie di personale, che deriva in primo luogo dal-

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l’indipendenza che la Costituzione garantisce loro. La differenza attiene sia al contenuto delle regole di comportamento, sia alle modalità di definizione di esse. Dal punto di vista del contenuto, per questi soggetti le esigenze di indipendenza e imparzialità sono particolarmente forti: è per questo, per esempio, che la legge è particolarmente prudente in materia di assunzione, da parte di essi, di incarichi extragiudiziari, per i quali prevede forme di pubblicità. La stessa esigenza di indipendenza, in particolare dal potere politico, incide anche sulle modalità di definizione delle regole di etica pubblica. Essa spiega il più intenso coinvolgimento delle associazioni di categoria nella loro elaborazione: esse non sono semplicemente consultate (come i sindacati del pubblico impiego, in sede di emanazione del Codice dei dipendenti pubblici), ma incaricate dell’elaborazione dei rispettivi codici. Infine, vanno considerati i soggetti privati titolari di funzioni pubbliche, che costituiscono un fenomeno sempre più frequente e favorito dall’ordinamento giuridico (cap. V). Tra le categorie di soggetti interessati, si possono menzionare i gestori di servizi pubblici, che spesso adottano codici di comportamento i cui contenuti corrispondono in parte ai codici etici delle imprese private e in parte a quelli delle pubbliche amministrazioni. Nonché gli ordini professionali, enti pubblici associativi che hanno notevoli poteri di regolazione e disciplina nei confronti dei loro associati, i quali sono spesso investiti di funzioni pubbliche. E, ancora, i componenti di organi collegiali amministrativi, come le commissioni di concorso e di gara o gli organi consultivi, ai quali è spesso richiesto di sottoscrivere codici e regole di comportamento stabilite in via generale dalle relative amministrazioni.

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CAPITOLO 11 I BENI PUBBLICI

SOMMARIO: 11.1. Beni pubblici e beni privati. – 11.2. Classificazioni. – 11.3. Il regime giuridico. – 11.4. Il patrimonio pubblico.

11.1. BENI PUBBLICI E BENI PRIVATI Nei capitoli precedenti si è spesso rilevato che nel diritto amministrativo coesistono istituti e princìpi generali, propri anche di altri settori del diritto, e istituti speciali e norme che derogano a quelle generali. Ciò vale anche per i beni. Da un lato, il concetto di bene, proprio del diritto amministrativo, è lo stesso concetto proprio del diritto civile (sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti) e le pubbliche amministrazioni possono godere di diritti reali analogamente ai soggetti privati. In ordine alla possibilità di essere titolari di beni, l’art. 42 cost. pone i soggetti pubblici e privati sullo stesso piano: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati». Anche per il diritto europeo la proprietà pubblica e quella privata hanno pari dignità, come mostrato dalla previsione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, secondo la quale esso lascia «del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri» (art. 345). Dall’altro lato, il diritto amministrativo incide in vari modi su questi diritti, sia dei privati sia delle pubbliche amministrazioni. Il diritto amministrativo incide, innanzitutto, sui beni dei privati. La proprietà privata, infatti, è sì regolata dal Codice civile, ma la legislazione amministrativa può modificare in modo significativo il regime dei beni in proprietà privata, per tutelare l’interesse pubblico. D’altra parte, la stessa Costi-

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tuzione, nel riconoscere la proprietà, stabilisce anche che essa incontra dei limiti, volti ad assicurarne la “funzione sociale” e a renderla accessibile a tutti. I modi di questa incidenza sono vari. In primo luogo, vi sono beni che non possono essere oggetto di proprietà privata, in quanto appartenenti per legge al demanio pubblico: per esempio, il lido del mare, i porti, i fiumi, le opere militari. In secondo luogo, i beni appartenenti a soggetti privati possono essere espropriati per causa di pubblica utilità, come previsto ancora dall’art. 42. In terzo luogo, su di essi possono essere imposti vincoli, come quelli previsti dalla legislazione a tutela dell’ambiente o dei beni culturali, che possono limitarne notevolmente l’uso e, quindi, il valore economico: per esempio, il divieto di edificare su un determinato terreno, posto a tutela di interessi inerenti all’assetto urbanistico e al paesaggio. A volte questi vincoli incidono sulla circolazione dei beni: per esempio prevedendo il diritto di prelazione dello Stato o la necessità di autorizzazioni all’esportazione. Peraltro, la possibilità di espropriare o vincolare beni privati non è illimitata: i limiti alla proprietà privata sono a loro volta limitati. Ciò dipende sia da princìpi generali, come il principio di legalità (cap. 4); sia da previsioni costituzionali specifiche, come quella che ammette l’espropriazione solo nei casi previsti dalla legge per motivi di interesse generale e impone di corrispondere un indennizzo al proprietario espropriato; sia dal diritto europeo, che afferma la libertà di circolazione delle merci, la quale implica limiti alla possibilità degli Stati membri di imporre vincoli ai beni appartenenti a privati. Per quanto riguarda la proprietà pubblica, le pubbliche amministrazioni possono essere proprietarie di beni o, senza esserne proprietarie, possederne o detenerne. Da questo punto di vista, esse non sono diverse dai soggetti privati e sono assoggettate alle stesse norme che il Codice civile stabilisce in materia di beni. Anche i vincoli, di cui si è detto, operano normalmente nei confronti dei proprietari pubblici: per esempio, anche essi sono soggetti di regola alle prescrizioni urbanistiche e anche nei loro confronti operano i diritti di prelazione, come quelli attribuiti allo Stato e agli enti territoriali dalle norme in materia di beni culturali. Vi sono, però, alcune peculiarità nel regime giuridico dei beni delle pubbliche amministrazioni: peculiarità che, ancora una volta, derivano dalla natura delle amministrazioni stesse e della loro attività, che è svolgimento di funzioni pubbliche. Queste peculiarità incidono sull’uso dei beni, sulla loro circolazione e sulla loro tutela. Di esse si dirà nei paragrafi che seguono, con riferimento alle varie categorie di beni pubblici. Preliminarmente va osservato che la stessa distinzione tra beni pubblici e beni privati può essere incerta, in quanto spesso il criterio rilevante – ai fini del regime giuridico dei beni – non è quello della titolarità, ma quello dell’uso. Le

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norme, infatti, a volte assoggettano allo stesso regime beni delle pubbliche amministrazioni e beni di soggetti privati, per esempio quelli concretamente utilizzati dalle amministrazioni. In questa sede, comunque, si farà riferimento ai beni pubblici nel senso di beni appartenenti a pubbliche amministrazioni (nozione, peraltro, a sua volta imprecisa, come già mostrato: cap. 5).

11.2. CLASSIFICAZIONI Il regime giuridico dei beni pubblici dipende in modo rilevante dalla loro utilizzazione. Da questo punto di vista, si possono distinguere tre categorie di beni pubblici. In primo luogo, vi sono i beni destinati alla fruizione da parte dei cittadini: per esempio l’aria, il lido del mare, le foreste, le strade, i beni culturali. Alcuni di questi beni (come il lido del mare) possono appartenere solo a pubbliche amministrazioni, altri (come i beni culturali) possono appartenere anche a privati. In ogni caso, il proprietario non corrisponde all’utilizzatore: proprietari sono lo Stato e altri enti pubblici, utilizzatori tutti i cittadini. Spesso questi beni sono inalienabili, quindi gli enti proprietari non possono disporne con la stessa libertà dei comuni proprietari. Normalmente questi beni sono destinati a essere utilizzati da tutti i cittadini, ma – in base alla loro natura – è possibile che su di essi vengano attribuiti diritti esclusivi a determinati soggetti: per esempio, tratti del lido del mare possono essere attribuiti a chi voglia esercitarvi uno stabilimento balneare, le autostrade possono essere date in gestione a imprese private. A volte l’attribuzione di diritti di uso esclusivi a determinati soggetti è necessaria, in quanto il bene può tollerare un numero limitato di utilizzatori, inferiore rispetto alla domanda. Per esempio, sull’etere può passare un numero limitato di comunicazioni elettroniche (radiofoniche, televisive, telefoniche e simili): di conseguenza, sono i pubblici poteri ad attribuire i diritti di uso sulle varie frequenze. L’uso esclusivo di un certo bene è quindi una risorsa scarsa, che viene assegnato a soggetti privati con un provvedimento di concessione, normalmente a titolo oneroso. Le norme relative alle varie categorie di questi beni sono volte ad assicurarne l’uso corretto e la conservazione, finalità che possono tradursi in limiti alle facoltà ordinariamente spettanti al proprietario: per esempio il divieto di edificare entro una certa distanza dalla costa o dalle autostrade. Le norme ammettono anche la possibilità di uso eccezionale, per esempio l’uso di strade e luoghi pubblici per competizioni sportive e manifestazioni culturali. La seconda categoria di beni è data da beni che le pubbliche amministrazioni utilizzano per lo svolgimento delle loro funzioni: per esempio, gli im-

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mobili che ospitano gli uffici dell’amministrazione, gli arredi, i macchinari, i materiali di consumo, gli automezzi. Anche il denaro rientra normalmente in questa categoria, anche se esso ha ovviamente un regime giuridico particolare, che sarà descritto nel capitolo successivo. Di questi beni le pubbliche amministrazioni sono, oltre che proprietarie, anche utilizzatrici. Il fatto che essi siano utilizzati dalle amministrazioni e non dai cittadini, naturalmente, non fa venir meno la loro destinazione alla cura dell’interesse pubblico, che dipende dalla natura funzionale dell’attività amministrativa: le amministrazioni, in ogni loro attività, devono curare interessi pubblici e, quindi, utilizzare tutti i loro beni per la cura di questi interessi. Ciò è particolarmente evidente per i beni che sono utilizzati per erogare servizi ai cittadini, come gli ospedali, le scuole, gli uffici aperti al pubblico e i relativi arredi e dotazioni. Ma è vero anche per i beni ai quali i cittadini non hanno accesso, come le caserme e gli armamenti o il denaro: anche essi sono utilizzati dalle amministrazioni a beneficio dei cittadini. Il rapporto con l’interesse dei cittadini si allenta ulteriormente, ma non scompare, per i beni rientranti nella terza categoria, data dai beni che le amministrazioni usano non per lo svolgimento di funzioni amministrative, ma per ottenere utilità economiche: per esempio, gli immobili dati in locazione e – negli ormai ristretti limiti in cui esse sono consentite – le partecipazioni azionarie detenute a titolo di investimento. A essi, definiti a volte come beni “di proprietà privata” delle amministrazioni, si applica in linea di massima il normale regime della proprietà definito dal Codice civile. I confini tra le tre categorie di beni pubblici non sono sempre netti. Per esempio, una partecipazione azionaria può essere detenuta allo scopo di assicurare lo svolgimento di un’attività di pubblico interesse o a titolo di investimento: nel primo caso rientra nella seconda categoria, nel secondo rientra nella terza. Similmente, il denaro rientra normalmente nella seconda categoria ma, se un ente pubblico non lo usa, ma lo detiene per godere degli interessi, può rientrare nella terza. Un sito di interesse artistico può essere acquistato per consentirne la fruizione o per lucrare dai biglietti di ingresso: in questo caso, la collocazione nella prima o nella terza categoria può essere incerta. Altrettanto può dirsi per un impianto di produzione di energia, che può essere realizzato per promuovere la produzione industriale, per tutelare l’ambiente (ove si tratti di energia da fonti rinnovabili), per ottenere profitti dalla vendita di energia, o per tutti questi scopi e altri ancora. I confini tra le tre categorie non sono neanche invalicabili: un bene può transitare dall’una all’altra. L’ipotesi più frequente è quella in cui cessi la destinazione del bene allo svolgimento di una funzione pubblica: per esempio, un edificio che cessi di ospitare una caserma o una scuola e venga venduto o dato in locazione a privati.

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Quella che precede non è l’unica distinzione tra beni pubblici. Un’altra distinzione, a volte utilizzata dalla giurisprudenza, è quella tra beni naturali (come il lido del mare e i fiumi) e artificiali (come le strade e gli edifici). Anche questa distinzione non è esente da incertezze: si pensi a un lago o a un bosco artificiali. Essa è rilevante soprattutto ai fini dell’individuazione della proprietà pubblica: per i beni naturali non vi è bisogno di un atto che la dichiari, che può invece essere necessario per quelli artificiali. Un’ulteriore distinzione è quella adottata dal Codice civile. In effetti, come si mostrerà subito, più che di una distinzione si tratta di una classificazione. Essa è ovviamente rilevante, anche perché a essa fanno riferimento anche altre leggi. D’altra parte, la sua importanza è ridimensionata dal fatto che sia le leggi sia la giurisprudenza tendono spesso ad assimilare le diverse categorie di beni pubblici, per le quali il Codice civile stabilisce regimi diversi. Innanzitutto, il Codice civile distingue tra i beni appartenenti allo Stato e agli enti territoriali, da un lato, e quelli appartenenti agli altri enti pubblici. I secondi sono soggetti in linea di massima al regime giuridico proprio dei beni privati. Per i primi, invece, vi sono regole specifiche, che variano in ragione della distinzione tra beni demaniali e beni patrimoniali e, nell’ambito dei secondi, in ragione di quella tra beni patrimoniali disponibili e indisponibili. Questa classificazione, peraltro, non è basata su una chiara distinzione, ma sull’elencazione dei beni rientranti nelle diverse categorie, secondo una distribuzione che non corrisponde a un criterio facilmente identificabile. Semplicemente, alcuni tipi di beni degli enti territoriali, indicati dalle norme, sono demaniali; tutti gli altri sono beni patrimoniali. Il confine non è neanche netto, dato che le foreste fanno parte del patrimonio indisponibile ma costituiscono il demanio forestale. Piuttosto che esporre la distinzione, quindi, occorre limitarsi a esporre i vari tipi di bene che rientrano in queste categorie e il loro regime giuridico, come definito dal Codice civile stesso. Per quanto riguarda i beni demaniali, si distingue tra il demanio necessario e il demanio eventuale. Nel primo rientrano, tra gli altri, il lido del mare, la spiaggia, i porti, i fiumi, i laghi, le opere destinate alla difesa nazionale (si parla, per le prime categorie, di demanio marittimo; per l’ultima, di demanio militare). Questi beni appartengono necessariamente allo Stato o a enti territoriali (a cui leggi recenti hanno aggiunto qualche società a partecipazione pubblica): essi non possono formare oggetto di proprietà privata. Nel secondo rientrano invece beni che possono appartenere a privati ma, se appartengono allo Stato o a enti territoriali, sono soggetti al regime demaniale: tra gli altri, le strade, le autostrade, le ferrovie, gli aeroporti, gli acquedotti, gli immobili d’interesse storico, archeologico e artistico. I beni demaniali non possono essere alienati e il diritto di proprietà dell’ente pubblico su di essi non è soggetto a prescrizione.

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Lo stesso criterio dell’elencazione è adottato dal Codice civile per distinguere tra i beni patrimoniali disponibili e indisponibili. Sono indisponibili, tra l’altro, le foreste, le miniere, le cose d’interesse storico e artistico ritrovate nel sottosuolo, le caserme, gli armamenti, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, i loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio. Sono disponibili tutti gli altri beni. I beni patrimoniali indisponibili non possono essere sottratti alla loro destinazione. Come accennato, la differenza di regime giuridico tra le diverse categorie di beni è attenuata da diversi fattori, che rendono sempre meno rilevante la classificazione del Codice civile. Lo stesso Codice contempla la possibilità del passaggio di un bene dal demanio al patrimonio. Leggi recenti consentono che beni demaniali siano alienati e che ulteriori soggetti, diversi dallo Stato e dagli enti territoriali, siano titolari di beni demaniali. Come si riferirà in un paragrafo successivo, la giurisprudenza applica anche ai beni patrimoniali norme poste dal Codice civile per quelli demaniali. La stessa Costituzione, all’art. 119, sembra prescindere dalla distinzione codicistica, stabilendo soltanto che gli enti territoriali hanno un proprio patrimonio.

11.3. IL REGIME GIURIDICO Il regime giuridico dei beni pubblici, cioè il complesso delle norme a essi applicabili, varia in base ai diversi tipi di bene. Esso dipende sia dalle previsioni del Codice civile, sia da varie altre leggi. Queste norme incidono principalmente sui seguenti aspetti: l’acquisto dei beni da parte delle amministrazioni, la loro gestione, l’uso a cui vengono destinati, la loro tutela. L’acquisto della proprietà di un bene da parte dell’amministrazione può avvenire nelle stesse forme previste per l’acquisto della proprietà da parte dei privati (in particolare con un contratto di compravendita) o in modi peculiari. A volte l’acquisto avviene in base a un fatto, come l’usucapione o il semplice venire in esistenza di un bene rientrante nel demanio necessario. Un’ipotesi particolare è quella dell’acquisto di un diritto di uso pubblico (per esempio, il diritto dei cittadini di passare su una strada), che sorge per la protrazione dell’uso stesso per tempo immemorabile. Altre volte l’acquisto avviene in base a un atto giuridico, come un contratto, un provvedimento di espropriazione o la sentenza che dispone la confisca di un bene. Anche l’estinzione della proprietà pubblica di un bene può derivare da un fatto (come la distruzione del bene) o da un atto (come un contratto). Se l’acquisto o la cessione del bene avviene con un contratto, vale la regola propria di tutti i contratti della pubblica amministrazione: il contraente

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deve essere scelto con una gara. Ciò vale, quindi, sia quando l’amministrazione compra un bene, dovendo bandire una gara per un contratto di fornitura, sia quando lo vende, dovendo bandire un’asta. Naturalmente, peraltro, vi sono eccezioni a questa regola: per quanto riguarda gli acquisti, in particolare, vi sono le eccezioni generali previste dalla disciplina dei contratti pubblici (come i casi in cui la gara vada deserta o per un certo bene vi sia un unico venditore) ed eccezioni derivanti dal tipo di bene (si pensi all’acquisto di opere d’arte o dei diritti su prodotti cinematografici). La gestione dei beni pubblici è soggetta a regole che derivano in parte da princìpi generali, in parte da norme speciali. Queste regole riguardano, per esempio, la tenuta dei registri ed elenchi di beni (per evitare che, come spesso accade, le amministrazioni non conoscano il proprio patrimonio), la loro efficiente utilizzazione (come la determinazione del canone di locazione), la loro riparazione (come gli obblighi dei comuni inerenti alla tenuta delle strade), la loro manutenzione (come i servizi inerenti alla gestione degli edifici). Le attività di gestione possono essere svolte direttamente dalle amministrazioni o essere esternalizzate, per esempio concludendo un contratto con un’impresa per i lavori di riparazione o per i servizi di manutenzione di un edificio. L’uso del bene varia ovviamente in relazione alle varie categorie di beni pubblici che sono state individuate nel paragrafo precedente. Le norme e la giurisprudenza mirano ad assicurare che, se il bene non è utilizzato direttamente dall’amministrazione ed è suscettibile di uso da parte dei terzi, l’amministrazione consenta la fruizione da parte di tutti i soggetti interessati e, se deve operare scelte tra potenziali utilizzatori, osservi la parità di trattamento. A parte l’uso al quale i beni siano destinati, i beni pubblici svolgono comunque anche una funzione di garanzia dei debiti delle amministrazioni. In astratto, infatti, vale anche per le pubbliche amministrazioni il principio del diritto privato, secondo il quale i beni costituiscono garanzia dei debiti, in quanto il debitore risponde dei propri debiti con tutti i propri beni. In concreto, peraltro, premesso che l’insolvenza di un ente pubblico è una vicenda piuttosto rara, vi sono molti ostacoli alla possibilità dei creditori di aggredire i beni pubblici, per via dei vincoli di destinazione imposti su di essi). Per quanto riguarda, infine, la tutela della proprietà delle amministrazioni pubbliche nei confronti delle pretese o delle turbative di terzi, vi è una norma che il Codice civile detta per i beni demaniali, ma che la giurisprudenza tende ad applicare anche a quelli patrimoniali. Essa stabilisce che l’autorità amministrativa può procedere, a tutela dei propri beni, sia in via ordinaria, avvalendosi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, sia in via amministrativa, esercitando poteri amministrativi ulteriori, di cui i privati proprietari non sono dotati. A fronte dell’occupazione abusiva di suolo pub-

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blico, per esempio, l’amministrazione può reagire sia intentando una causa contro l’occupante, sia ordinando lo sgombero dell’area in questione e, eventualmente, eseguendo l’ordine di sgombero con la forza. È un’applicazione del fenomeno dell’autotutela amministrativa, in quanto è un’ipotesi in cui l’amministrazione si tutela da sé, senza bisogno di rivolgersi a un giudice.

11.4. IL PATRIMONIO PUBBLICO Le pubbliche amministrazioni, non diversamente dai privati, sono titolari di beni di vario tipo: mobili e immobili, materiali e immateriali, fruttiferi e non. Il loro patrimonio, non diversamente da quello dei privati, è soggetto a variazioni, derivanti da acquisti e cessioni. Naturalmente, alcuni enti (come lo Stato, gli enti territoriali e i grandi enti previdenziali) hanno patrimoni molto rilevanti, mentre altri enti hanno dotazioni minori o minime. Il patrimonio di molte amministrazioni è gestito in modo spesso insoddisfacente e produce un reddito molto inferiore a quello che ci si potrebbe aspettare. Naturalmente, l’idoneità di molti beni pubblici a produrre reddito è preclusa o limitata dall’uso che ne viene fatto: è chiaro, per esempio, che un terreno adibito a parco pubblico comporta spese e non entrate. Ma anche il rendimento dei beni non destinati allo svolgimento di funzioni è spesso inferiore a quello di mercato. Anche per questa ragione, oltre che per ridurre il debito pubblico, negli ultimi anni sono spesso state operate dismissioni di beni pubblici. La finalità di riduzione del debito è spesso resa esplicita dalla legge, che consente la dismissione solo per tale finalità e vieta di usare i proventi per le spese correnti. Come accennato in precedenza, in queste ipotesi dovrebbe essere bandita un’asta tra i potenziali acquirenti: ciò di regola avviene, ma spesso l’urgenza di incassare il prezzo induce il legislatore a consentire di operare dismissioni senza una procedura competitiva. Un particolare tipo di dismissione è quello della privatizzazione di partecipazioni azionarie: soprattutto negli anni Novanta sono state privatizzate molte società per azioni (spesso risultanti dalla trasformazione di enti pubblici). Ciò è stato fatto non solo per ragioni legate alla finanza pubblica e all’efficienza delle relative imprese, ma anche per effetto del diritto europeo, che ha imposto agli Stati la liberalizzazione dei relativi mercati e proibito loro di accordare aiuti finanziari alle imprese, rendendo spesso le partecipazioni pubbliche inutili rispetto ai fini per cui erano state assunte.

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Un’ulteriore tendenza attuale è quella della cessione di beni statali alle regioni e agli enti locali. Questa cessione a volte implica anche il trasferimento di una fonte di reddito, altre volte – trattandosi di beni destinati alla fruizione gratuita da parte dei cittadini e poco suscettibili di utilizzazione economica – implica piuttosto il trasferimento di oneri finanziari legati alla manutenzione e alla valorizzazione dei beni.

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CAPITOLO 12 LA FINANZA PUBBLICA

SOMMARIO: 12.1. Il denaro dell’amministrazione. – 12.2. I bilanci. – 12.3. Le entrate tributarie. – 12.4. Le altre entrate. – 12.5. L’autonomia finanziaria. – 12.6. Le spese. – 12.7. Il procedimento di spesa.

12.1. IL DENARO DELL’AMMINISTRAZIONE Non diversamente da quanto avviene per l’attività dei soggetti privati, anche per lo svolgimento delle funzioni amministrative il denaro è di gran lunga il tipo di bene più importante, in quanto è necessario per procurare i mezzi (beni, personale, servizi) necessari. I flussi finanziari delle pubbliche amministrazioni sono di grande rilevanza anche in relazione all’economia nazionale nel suo complesso: basta considerare che in Italia, come in alcuni altri paesi, la spesa pubblica assorbe più della metà del prodotto interno lordo e che il valore dei contratti pubblici è superiore al quindici per cento del prodotto interno lordo. Di conseguenza, molte norme regolano il modo in cui il denaro è raccolto, conservato e speso dalle pubbliche amministrazioni. Occorre trattare distintamente delle entrate e delle spese delle amministrazioni, ma occorre preliminarmente trattare del rapporto tra le une e le altre. Va innanzitutto osservato che le pubbliche amministrazioni, a differenza di molte organizzazioni private, non hanno scopo di lucro. Esse esistono non per accumulare denaro, ma per svolgere funzioni a favore dei cittadini, e per svolgerle usano in massima parte denaro pagato dai cittadini stessi, attraverso tributi di vario genere. Di conseguenza, esse tendono – per così dire – al pareggio di bilancio: devono procurarsi il denaro necessario per soddisfare gli interessi pubblici, ma non più di quello. Ciò non vuol dire, naturalmente,

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che esse non debbano preoccuparsi di massimizzare le entrate (per esempio, gestendo i propri beni in modo economicamente efficiente) e di minimizzare le spese (per esempio, operando risparmi). Ma ciò deve avvenire non al fine di accumulare denaro, bensì al fine di ridurre il prelievo fiscale a carico dei cittadini e il ricorso ad altre forme di entrata, come l’indebitamento. Premessa questa tendenziale corrispondenza tra entrate e spese, si può osservare che le prime dipendono in linea di massima dalle seconde: in relazione alle funzioni svolte e alle spese necessarie per farvi fronte, vengono stabilite le entrate (agendo sulle fonti di entrata che presentano una certa elasticità: essenzialmente la pressione fiscale e l’indebitamento). Il calcolo delle risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento delle funzioni delle varie amministrazioni, peraltro, può essere operato in modi diversi. Il criterio più frequente è quello della “spesa storica”, cioè di quanto la singola amministrazione ha speso in passato. Questo criterio, peraltro, può fare sì che sprechi e inefficienze vengano perpetuati. Di conseguenza, si tende a sostituirlo con quello dei “costi standard”, che vengono calcolati sulla base di criteri di efficienza o delle gestioni delle amministrazioni più efficienti. La priorità delle spese rispetto alle entrate, peraltro, non è assoluta. Vi sono limiti, infatti, alla possibilità di raccolta di denaro: al di là di determinati livelli, la pressione fiscale diventa politicamente insostenibile ed economicamente controproducente; il debito pubblico è fonte di ulteriori spese future; l’Unione Europea impone agli Stati membri, e di conseguenza alle loro amministrazioni pubbliche, un certo equilibrio tra entrate e uscite. Vi sono limiti, di conseguenza, alla possibilità di effettuare spese: spesso, quindi, sono le entrate a condizionare le spese, nel senso che l’impossibilità o inopportunità di aumentare le entrate determina riduzioni di spesa. Va ancora osservato che anche quella di custodire il denaro delle amministrazioni è una funzione – detta servizio di tesoreria – soggetta a norme che disciplinano gli obblighi a essa connessi (come quello di rendiconto). Normalmente questa funzione viene affidata a una banca. I soggetti che, a vario titolo, hanno la disponibilità di denaro pubblico, compresi i funzionari che custodiscono i contanti per le piccole spese, sono detti agenti contabili e sono soggetti a un obbligo di rendiconto e a una particolare forma di responsabilità, detta responsabilità contabile.

12.2. I BILANCI Il collegamento tra entrate e spese è ovviamente mostrato dai bilanci delle amministrazioni. Non diversamente dai bilanci delle persone giuridiche

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private, quelli delle amministrazioni pubbliche servono sia a soggetti “esterni”, sia a soggetti “interni”. I primi sono, in particolare, i creditori attuali o potenziali (come i fornitori delle amministrazioni e gli acquirenti dei titoli di debito pubblico), che attraverso il bilancio possono valutare se esse saranno in grado di onorare i propri debiti. I secondi sono coloro ai quali gli amministratori devono rispondere. Nelle organizzazioni private, come un’associazione o una società, essi sono i soci, che devono essere informati del modo in cui sono gestite le risorse che essi hanno investito in essa. Nel caso delle amministrazioni pubbliche, si tratta invece dei loro padroni: i quali, come si è visto in precedenza (cap. 7), sono i vertici politici e, soprattutto, i cittadini. Tuttavia, nel settore pubblico la prima funzione (quella “esterna”) è meno importante e la seconda (quella “interna”) è più importante che nel settore privato. La prima è meno importante, perché le pubbliche amministrazioni non sono soggette a fallimento (anche se per alcune di esse vi sono procedure simili, di applicazione relativamente rara, come il dissesto degli enti locali): spesso pagano i debiti in ritardo, ma è molto difficile che non siano in grado di pagarli. La seconda è più importante, perché per i cittadini gli squilibri della finanza pubblica possono determinare rischi ben più gravi della perdita di un investimento o dell’estinzione di un’associazione: possono determinare un aumento della pressione fiscale o anche la riduzione di servizi pubblici importanti per la loro vita. Il controllo della finanza pubblica da parte dei cittadini è, quindi, importante, ma è anche difficile, poiché il sistema amministrativo è estremamente ampio e complesso. Va ancora osservato che attraverso la gestione delle entrate e delle spese pubbliche viene svolta la funzione di redistribuzione del reddito. Non vi è, infatti, corrispondenza tra il denaro versato dal singolo contribuente (che costituisce la maggior parte delle entrate pubbliche) e i servizi che egli riceve dalle amministrazioni: l’imposizione tributaria segue determinati criteri, con tributi maggiori a carico dei più abbienti; l’effettuazione di spese segue altri criteri, con funzioni che vengono assicurate a tutti in eguale misura (come quelle in materia di sicurezza) e altre che privilegiano i meno abbienti (come quelle in materia assistenziale). Tutto ciò spiega la complessità delle norme sulla finanza pubblica e la diversità tra le norme relative ai bilanci delle organizzazioni private, contenute nel Codice civile, e quelle relative ai bilanci delle amministrazioni pubbliche, contenute in diverse fonti. I bilanci pubblici contengono solo flussi di entrata e di spesa di denaro (e non, per esempio, i beni posseduti); sono di regola sia preventivi sia consuntivi; la loro struttura è stabilita dalla legge. I bilanci preventivi sono redatti in termini sia di competenza (con l’indicazione di crediti e debiti, cioè delle entrate che si prevede di accertare e delle spese

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che si prevede di impegnare) sia in termini di cassa (con l’indicazione degli effettivi flussi finanziari previsti, cioè delle entrate da incassare e delle spese da effettuare). Ogni pubblica amministrazione ha il suo bilancio, ma il bilancio ampiamente più importante è il bilancio dello Stato, per la ragione fondamentale che esso è alla base di quasi tutti gli altri bilanci pubblici, dato che quasi tutte le amministrazioni (le regioni, gli enti locali, le scuole, le università, le aziende sanitarie e così via) ricevono direttamente o indirettamente finanziamenti dallo Stato: molte delle spese dello Stato consistono in trasferimenti ad amministrazioni pubbliche, per le quali i trasferimenti statali costituiscono un’entrata, spesso la principale. Al bilancio dello Stato sono dedicate alcune previsioni costituzionali, contenute nell’art. 81. Questo articolo richiede l’approvazione del bilancio con legge da parte del Parlamento e impone che esso sia un documento riassuntivo delle entrate e delle spese già previste dalle leggi vigenti, che non può prevedere nuovi tributi e nuove spese. Esso, inoltre, richiede che sia assicurato l’equilibrio tra le entrate e le spese e aggiunge che il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico. I bilanci delle pubbliche amministrazioni sono approvati normalmente dalle rispettive autorità di vertice: per lo Stato, come si è accennato, dal Parlamento, la cui funzione originaria è proprio quella di approvare preventivamente il bilancio, autorizzando così la riscossione dei tributi (questa funzione del bilancio, di garanzia dei contribuenti, si è col tempo attenuata, dato che – come stabilito dall’art. 23 cost. – ogni tributo deve comunque essere previsto da una legge). Sulla base dei rispettivi bilanci di previsione, le amministrazioni ricevono il denaro e lo spendono. Il bilancio dello Stato è, quindi, un atto di grande importanza, perché stabilisce quanti soldi potranno essere spesi e come dovranno essere destinati. Nel bilancio, infatti, le spese sono distribuite in capitoli, ognuno corrispondente a un tipo di spesa: non si può – se non previe variazioni di bilancio – destinarli a spese di tipo diverso.

12.3. LE ENTRATE TRIBUTARIE Le entrate delle pubbliche amministrazioni sono in massima parte entrate tributarie, derivanti da diverse forme di tributi che i pubblici poteri impongono ai cittadini: imposte sul reddito, imposta sul valore aggiunto, contributi previdenziali e simili. Ciò non vuol dire che tutte le amministrazioni possano disporre di entrate tributarie: la maggior parte dei tributi, infatti, è riscossa dallo Stato, che poi trasferisce una parte del gettito fiscale alle varie ammini-

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strazioni, per le quali quindi l’entrata non ha natura tributaria ma consiste in trasferimenti dallo Stato. La materia rientra nel diritto amministrativo, dato che si tratta dello svolgimento di funzioni amministrative, ed è ampiamente disciplinata dai princìpi del diritto amministrativo. Essa, peraltro, per la sua importanza e complessità è oggetto di una disciplina a sé stante, il diritto tributario. In questa sede, è sufficiente segnalare alcuni aspetti della disciplina dei tributi, particolarmente significativi per la teoria del diritto amministrativo. Innanzitutto, l’imposizione di tributi deve basarsi su previsioni di legge. Lo prevede, come accennato, l’art. 23 cost., che impone una riserva di legge in materia di “prestazioni imposte”. Questa norma, peraltro, è espressiva di un principio più generale, il principio di legalità (cap. 4). Esso svolge, tra l’altro, una funzione di garanzia dei cittadini nei confronti degli atti delle pubbliche amministrazioni che danneggino i loro interessi: funzione di garanzia che corrisponde a un’esigenza particolarmente forte per gli atti di imposizione tributaria. Una volta che un tributo è previsto dalla legge, sorgono debiti tributari a carico dei cittadini (ma anche delle persone giuridiche private e degli enti pubblici) e corrispondenti crediti a favore delle pubbliche amministrazioni. In astratto, queste obbligazioni potrebbero essere soggette alla disciplina delle obbligazioni private, ma in concreto il loro adempimento è soggetto a una disciplina ampiamente speciale. Questa disciplina speciale serve, da un lato, ad assicurare l’effettiva riscossione dei tributi: l’ordinamento riserva ai crediti tributari dello Stato e degli enti pubblici una tutela molto più forte di quella assicurata ai crediti dei privati, per assicurare lo svolgimento delle funzioni pubbliche. Dall’altro lato, la disciplina in questione serve per garantire i privati una tutela contro i rilevanti poteri che, di conseguenza, sono attribuiti alle pubbliche amministrazioni. Dal primo punto di vista, i debitori (cioè i contribuenti) hanno obblighi particolari (come quello di presentare la dichiarazione dei redditi), a volte assistiti da gravi sanzioni, anche di natura penale; e i creditori (cioè le amministrazioni) hanno poteri particolari e privilegi, come quello di emanare atti unilaterali da cui sorgono debiti d’imposta e quello di ricorrere all’esecuzione forzata, nei confronti del contribuente inadempiente, con modalità semplificate. Dal secondo punto di vista, le amministrazioni sono soggette a norme molto dettagliate e hanno obblighi ulteriori rispetto a quelli normalmente imposti ai creditori, come quello di motivare i propri atti e di comunicare il nome del responsabile del procedimento; e i contribuenti hanno diritti che i debitori normalmente non hanno, come quello di partecipare al procedimento tributario e di formulare “interpelli” all’amministrazione finanziaria (a questi diritti è dedicata la legge n. 212 del 2000, denominata “Statuto dei diritti del contribuente”).

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Le funzioni connesse alla riscossione dei tributi (la riscossione stessa, il controllo delle dichiarazioni dei contribuenti, l’emanazione degli atti di accertamento e di imposizione tributaria, ecc.) sono a loro volta funzioni amministrative, che possono essere svolte direttamente dalle amministrazioni pubbliche o possono essere esternalizzate. Lo Stato le svolge direttamente, attraverso il Ministero delle finanze e altre amministrazioni a esso collegate, in primo luogo l’Agenzia delle entrate, ma si serve anche di società per azioni, sia pubbliche sia private (come le banche). Le amministrazioni più piccole, come i comuni, spesso la esternalizzano, affidandosi a gestori che sono società per azioni a loro volta pubbliche o private, alle quali pagano una percentuale di quanto riscosso. La riscossione implica comunque, di regola, l’intervento di una banca, se non altro per lo svolgimento della funzione di tesoreria. In teoria, gli atti connessi alla riscossione dei tributi sono atti vincolati, dato che essi si basano sul semplice calcolo del debito tributario, sulla base del presupposto (per esempio, del reddito). D’altra parte, la valutazione dei presupposti, il calcolo della base imponibile, l’ammissibilità di una detrazione e simili operazioni sono spesso ampiamente opinabili. Ciò spiega, tra l’altro, l’importanza della motivazione degli atti tributari, che deve indicare il modo in cui l’amministrazione arriva all’imposizione di un certo tributo. La motivazione, peraltro, ha un ruolo ancora più importante nel diritto tributario, dato che essa definisce la pretesa dell’amministrazione, indica il presupposto stesso del debito d’imposta e, quindi, il potere esercitato dall’amministrazione nei confronti del contribuente: tanto che la giurisprudenza tende a considerare nullo (e non semplicemente annullabile) l’atto tributario non motivato. Ciò dimostra che i princìpi del diritto amministrativo si applicano in linea di massima all’amministrazione finanziaria e ai soggetti privati che svolgono attività di riscossione, ma con qualche adattamento, che deriva dalla peculiarità di queste attività. Un altro esempio è dato dalla disciplina della partecipazione al procedimento amministrativo e del diritto d’accesso ai documenti amministrativi: le norme generali in materia non si applicano ai procedimenti tributari, ma se ne applicano altre, non meno garantiste. Altre volte, non solo le norme si applicano, ma la loro violazione è sanzionata più gravemente: per esempio, la mancata indicazione del responsabile del procedimento può rendere nullo l’atto dell’amministrazione.

12.4. LE ALTRE ENTRATE Rispetto alle entrate tributarie, le altre entrate sono di importanza molto minore nel loro complesso. Esse possono però essere importanti per singole

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amministrazioni, che abbiano per esempio rilevanti rendite finanziarie o immobiliari o entrate di altro genere (per esempio, derivanti da contributi previdenziali o da sanzioni pecuniarie che esse possano irrogare). Alcune di queste altre fonti di entrata sono stabili, altre sono eccezionali. Tra le seconde, in particolare, quelle derivanti da privatizzazioni, che in determinati periodi possono essere rilevanti: le alienazioni di imprese pubbliche operate negli anni Novanta, per esempio, hanno permesso una riduzione del debito pubblico; le dismissioni immobiliari di determinati enti, come quelli previdenziali, possono determinare un notevole ricavo. Quando si pongono in essere queste operazioni di privatizzazione, uno dei principali problemi è quello della scelta dell’acquirente: in base al principio generale relativo ai contratti della pubblica amministrazione, la scelta dovrebbe avvenire tramite asta, ma non sempre ciò avviene. In queste ipotesi, l’entrata deriva da un contratto. I contratti da cui derivano entrate per le pubbliche amministrazioni sono detti “attivi”, mentre quelli che comportano spese sono detti “passivi”. I secondi (cap. 18) sono molto più frequenti e importanti dei primi, comportano maggiori problemi giuridici e sono soggetti a una disciplina ampia ed esaustiva. D’altra parte, come dimostrato da quanto appena osservato, anche nei primi si pongono problemi di scelta della controparte privata. Simili problemi possono aversi anche per altre fonti di entrata, come quelle derivanti dalla concessione di beni pubblici, per esempio per lo sfruttamento delle acque pubbliche, del litorale marino o dell’etere. Anche in questi casi, l’amministrazione deve scegliere l’altro contraente (detto “concessionario”) sulla base di criteri oggettivi, che garantiscano la parità di trattamento e l’interesse finanziario dell’amministrazione. Problemi di scelta non si hanno, ovviamente, quando non vi è un uso esclusivo, per esempio per i proventi della gestione dei musei (non vi sono gare per entrarvi e il prezzo del biglietto è fisso). Un’ulteriore fonte di entrata è l’indebitamento, al quale ricorre in primo luogo lo Stato, che – al pari di altri stati – periodicamente mette all’asta titoli di debito pubblico. L’Italia ha un debito pubblico particolarmente alto, che le norme europee richiedono di ridurre. Anche le regioni e gli enti locali ricorrono a volte all’indebitamento, anche se vi sono limiti alla possibilità di farlo: la Costituzione, in particolare, lo consente solo per spese di investimento. Inoltre, i vincoli comunitari, che impongono limiti al debito pubblico, valgono per la finanza pubblica nel suo complesso, comprensiva della finanza regionale e locale e delle gestioni previdenziali.

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12.5. L’AUTONOMIA FINANZIARIA Si è accennato al fatto che le entrate di molte amministrazioni consistono in trasferimenti da parte dello Stato: ciò significa che la loro finanza non è propria, ma derivata. Dal punto di vista delle entrate, l’ordinamento italiano è alquanto accentrato: la quota di entrate riscosse dallo Stato è sensibilmente superiore alla quote di spese da esso gestite. L’autonomia finanziaria è la disponibilità di entrate proprie da parte degli enti pubblici diversi dallo Stato. Può trattarsi di autonomia tributaria, se queste entrate hanno natura tributaria (e non derivino, per esempio, dal patrimonio dell’ente o da sanzioni amministrative che esso possa imporre). Molti enti pubblici hanno una certa autonomia finanziaria, che però copre solo parte delle loro entrate. I rapporti tra centro e autonomie sono spesso all’origine di tensioni e disfunzioni, derivanti dalla dissociazione tra il potere di raccogliere le entrate e il potere di spesa. Da un lato, molte amministrazioni spendono denaro che non hanno riscosso dai cittadini, i quali pagano i propri tributi ad altri enti (principalmente lo Stato): ciò può determinare una certa irresponsabilità delle amministrazioni di spesa. Dall’altro, le leggi dello Stato impongono spesso funzioni (e quindi spese) alle amministrazioni autonome, ma poi, per esigenze di contenimento della spesa, impongono loro anche limiti e riduzioni di spesa, privandole delle risorse necessarie per svolgere quelle stesse funzioni. Anche per queste ragioni, la tendenza degli ultimi decenni è quella di aumentare il grado di corrispondenza tra riscossione delle entrate e gestione delle spese, soprattutto per gli enti territoriali. L’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali è notevolmente aumentata. L’art. 119 cost. contiene previsioni al riguardo, riconoscendo alle une e agli altri autonomia finanziaria di entrata e di spesa e la possibilità di stabilire e applicare tributi ed entrate propri e stabilendo che essi dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. La Costituzione mira anche ad assicurare la corrispondenza tra le spese necessarie per lo svolgimento delle funzioni e le entrate necessarie per farvi fronte, stabilendo che le entrate menzionate devono consentire di finanziare integralmente le funzioni attribuite agli enti territoriali. Le previsioni dell’art. 119, peraltro, sono alquanto vaghe e attuate con una certa prudenza dal legislatore ordinario.

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12.6. LE SPESE La pubblica amministrazione usa i propri fondi per soddisfare interessi pubblici. A volte il nesso tra spesa pubblica e pubblico interesse è diretto, nel senso che lo svolgimento della funzione consiste nell’erogazione di fondi a determinati soggetti: per esempio, con l’erogazione di pensioni, borse di studio o sovvenzioni a imprese. Più spesso, il denaro pubblico è usato per acquisire i beni o servizi necessari per lo svolgimento delle funzioni e per pagare il personale che le svolge. Nel primo caso si parla di finanza funzionale, in quanto direttamente connessa alle funzioni; nel secondo di finanza strumentale, connessa invece ai mezzi con i quali esse sono svolte. Alcune funzioni richiedono poche spese: per esempio, quelle che consistono principalmente nell’emanazione di atti giuridici, come le funzioni di regolazione, di pianificazione e di autorizzazione. Altre funzioni sono invece molto dispendiose, perché richiedono la disponibilità di molto personale (per esempio l’istruzione, la sanità, l’ordine pubblico) o la realizzazione di opere o attività costose (come le opere pubbliche e la ricerca scientifica). Nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, in Italia come in altri paesi, si è avuto un costante aumento della spesa pubblica, in assoluto e in proporzione al prodotto interno lordo, conseguenza dell’ampliamento delle funzioni amministrative e causa della crescita dimensionale delle pubbliche amministrazioni e dell’aumento del loro personale. Le funzioni che determinano la maggior quantità di spese sono quelle in materia di protezione sociale, seguite dalle funzioni di ordine, dalla sanità e da quelle ricreative, culturali e di istruzione. La dinamica recente della spesa pubblica italiana vede un aumento delle spese previdenziali e una riduzione di quelle in materia di cultura e istruzione: ciò dimostra un certo squilibrio tra la forte tutela dei lavoratori e dei pensionati e il limitato investimento nelle generazioni future. Un’altra distinzione, normalmente fatta nei bilanci, è quella tra spese correnti e spese in conto capitale. Le prime sono necessarie per il normale svolgimento delle funzioni e per il funzionamento delle amministrazioni: vi rientrano, in particolare, le spese per il personale, che costituiscono la principale voce di spesa di molte amministrazioni. Le seconde sono quelle destinate a produrre ricchezza per il futuro. La distinzione è rilevante, perché a volte le norme impongono maggiori limiti alle prime che alle seconde. Altre volte, peraltro, l’esigenza di contenimento della spesa induce a ridurre anche le seconde, con risultati positivi nel breve termine ma negativi nel lungo termine. La legislazione degli ultimi anni, per far fronte al disavanzo della finanza pubblica ed evitare o contenere gli aumenti dell’imposizione fiscale, impone

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alle amministrazioni di ridurre le spese. I criteri di riduzione possono essere diversi. Il modo migliore, ma anche più difficile, è quello dell’analisi delle singole voci di spesa (a volte definita spending review), per individuare gli sprechi (ed eliminarli) e le pratiche migliori (ed estenderle a tutte le amministrazioni). Il modo più rozzo, ma anche più semplice e frequente, è quello dei tagli orizzontali, imposti in modo uniforme a tutte le amministrazioni, imponendo loro di ridurre di una certa percentuale le spese di determinati tipi (per esempio quelle di rappresentanza, quelle per missioni, quelle per la formazione del personale) rispetto all’anno precedente. Questo approccio ha il difetto di non distinguere tra le amministrazioni che usano il denaro in modo efficiente e quelle che lo usano in modo inefficiente, con conseguenti riduzione di spese utili e permanenza di sprechi. Il difetto di continuità nelle politiche governative, peraltro, fa sì che il secondo approccio sia molto più frequente del primo.

12.7. IL PROCEDIMENTO DI SPESA Le spese delle amministrazioni possono derivare da atti di tipi diversi. Spesso è la legge a imporre una certa spesa, per esempio attribuendo a un cittadino il diritto a una pensione o a un’impresa il diritto a un contributo. Altre volte è un giudice a condannare l’amministrazione al pagamento di una somma a favore di un privato. Altre volte ancora, la fonte della spesa è un provvedimento amministrativo (che disponga, per esempio, la realizzazione di una mostra o di un restauro) o un contratto “passivo”. Il potere di decidere le spese, e quindi di disporre del denaro delle amministrazioni, spetta di regola ai dirigenti, in quanto responsabili delle risorse (anche finanziarie) assegnate agli uffici. A volte, peraltro, il potere di decidere le spese è delegato ad altri funzionari, i quali possono disporre pagamenti e sono soggetti a un obbligo di rendiconto. Quale che ne sia la fonte e l’autorità che le dispone, le spese delle pubbliche amministrazioni devono essere precedute da due importanti adempimenti. Il primo è l’approvazione del bilancio: poiché ogni amministrazione ha risorse limitate, la loro ripartizione tra le diverse destinazioni (cioè tra i diversi capitoli di spesa) deve essere operata preventivamente dall’organo di vertice, che approva il bilancio (che negli enti che ne sono dotati, come lo Stato e gli enti territoriali, è l’assemblea rappresentativa). Il secondo è il procedimento di spesa, che normalmente è articolato nelle seguenti fasi. La prima è l’impegno, con cui l’amministrazione decide una

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spesa e, quindi, destina una somma (disponibile nel relativo capitolo di bilancio) a una determinata spesa (per esempio, la decisione di acquistare un bene). La seconda è la liquidazione, che consente di precisare l’entità della spesa (che spesso, in sede di impegno, può essere solo prevista) e di individuare il creditore (per esempio, con l’aggiudicazione della gara al migliore offerente). La terza è l’ordinazione, cioè l’ordine di effettuare il pagamento dato dall’amministrazione al soggetto che svolge il servizio di tesoreria (per esempio, il mandato di pagamento inviato alla banca). La quarta, infine, è l’effettivo pagamento, operato dal tesoriere (per esempio, il bonifico bancario o il pagamento in contanti per le piccole spese). Alcuni atti inerenti a questo procedimento sono soggetti a controlli preventivi, operati di regola da uffici interni all’amministrazione (come gli uffici di ragioneria) o, a volte, da uffici esterni (come la Corte dei conti). Il controllo può servire a verificare la legittimità della spesa o della procedura, la disponibilità della somma nel corrispondente capitolo di bilancio (la “capienza”) o entrambe le cose. Tutti questi adempimenti procedurali fanno sì che le pubbliche amministrazioni accumulino spesso ritardi nei propri pagamenti. I ritardi, peraltro, sono spesso dovuti anche a ragioni più sostanziali, come l’assenza di fondi, che per molti enti pubblici deriva spesso dalla riduzione dei trasferimenti statali e dai vincoli imposti dalle leggi (le quali, come si è accennato, limitano l’autonomia finanziaria delle amministrazioni e spesso impongono loro riduzioni di spesa).

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PARTE IV I PROCESSI

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L’attività amministrativa

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CAPITOLO 13 L’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA

SOMMARIO: 13.1. La disciplina. – 13.2. Le forme di svolgimento delle funzioni amministrative. – 13.3. Atti unilaterali e accordi. – 13.4. Attività amministrativa, diritto pubblico e diritto privato. – 13.5. Attività amministrativa e attività privata. – 13.6. Attività amministrativa, attività legislativa e attività giurisdizionale.

13.1. LA DISCIPLINA Come si è più volte osservato nei capitoli precedenti, le pubbliche amministrazioni esistono per svolgere funzioni amministrative. Occorre ora esaminare il modo in cui esse le svolgono, cioè l’attività delle amministrazioni stesse. Questa attività è intensamente regolata dalle norme e soggetta a vari controlli, le une e gli altri volti ad assicurare che essa persegua correttamente gli interessi pubblici. La disciplina dell’attività amministrativa consiste sia in norme generali, sia in norme relative alle singole funzioni. Le prime si trovano a diversi livelli nella gerarchia delle fonti o sono state elaborate dalla giurisprudenza amministrativa. Esse agiscono in modi diversi. Norme generali procedono alla distribuzione – o alla definizione dei criteri di distribuzione – delle funzioni tra i diversi livelli di governo e tra pubblici poteri e cittadini: la norma fondamentale, da questo punto di vista, è ovviamente l’art. 118 cost. (cap. 2). Per quanto riguarda la distribuzione delle funzioni nell’ambito dell’amministrazione statale, l’art. 95 cost. rinvia invece alla legge, che determina tra l’altro il numero e le attribuzioni dei ministeri. Norme generali, in gran parte contenute nella legge n. 241 del 1990, disciplinano in modo uniforme anche l’espletamento dell’attività amministrati-

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va: delineando il procedimento per l’emanazione dei provvedimenti e per la conclusione dei contratti e stabilendo i tempi dell’azione amministrativa; ponendo princìpi ai quali l’amministrazione deve ispirarsi nella formazione delle proprie scelte (come quelli costituzionali di imparzialità e buon andamento); definendo il regime giuridico degli atti dell’amministrazione (come il provvedimento amministrativo); sanzionando in vario modo il cattivo svolgimento, per esempio attraverso l’invalidità degli atti o la responsabilità di chi li ha posti in essere (a ciò provvedono soprattutto le norme sulla giustizia amministrativa, definendo i vizi del provvedimento e i poteri del giudice). Come pure si è osservato in precedenza, molte di queste regole sono state elaborate dalla giurisprudenza amministrativa e poi recepite dal legislatore. Tutte queste norme saranno esaminate nei capitoli successivi. Nei limiti in cui la disciplina generale dell’attività amministrativa è dettata da leggi dello Stato, si pone il problema della sua applicabilità all’attività delle amministrazioni regionali e locali. Questa disciplina, peraltro, consiste in gran parte in princìpi giurisprudenziali, a volte codificati in leggi come la legge sul procedimento amministrativo del 1990, i quali derivano da norme costituzionali e da princìpi del diritto europeo, la cui applicabilità prescinde ovviamente dal livello di governo. Inoltre, la potestà legislativa esclusiva in materia di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, secondo comma, lett. m), cost.) può consentire alla legge dello Stato di stabilire princìpi generali in materia di attività amministrativa, validi per tutte le pubbliche amministrazioni. Le norme relative alle singole funzioni sono, a loro volta, di generalità e astrattezza variabili. Anche esse disciplinano l’attività amministrativa con tecniche diverse: individuando le funzioni e rendendone necessario lo svolgimento (è ciò che fa, per esempio, l’art. 33 cost. per le funzioni in materia di istruzione); attribuendole all’una o all’altra amministrazione e determinando le competenze dei vari uffici; dettando la disciplina dei singoli tipi di procedimento. Riguardo a questa disciplina si può osservare, da un lato, che la normazione amministrativa risente in modo particolare dei problemi legati all’inflazione normativa e alla frammentarietà di molte discipline settoriali (cap. 4). Dall’altro, che negli ultimi decenni il legislatore ha modificato il proprio approccio al diritto amministrativo: alla legislazione frammentaria e occasionale si sono a volte sostituite leggi di principio; dalla produzione normativa all’organizzazione amministrativa, dal pubblico impiego alle autonomie locali, dalla disciplina generale del procedimento amministrativo alla semplificazione delle singole procedure, dai contratti pubblici alle società pubbliche, dal processo amministrativo alla giustizia contabile, il legislatore pone princìpi, stabilisce l’ambito di applicazione delle norme, disciplina il rapporto tra

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le diverse fonti del diritto. Si osserva dunque una tendenza alla codificazione per settori del diritto amministrativo, che peraltro non impedisce la già descritta produzione abbondante e disordinata di norme di dettaglio.

13.2. LE FORME DI SVOLGIMENTO DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE Come i soggetti privati, le pubbliche amministrazioni agiscono in molti modi diversi: istruiscono i bambini, curano i malati, costruiscono edifici, trasportano passeggeri, erogano denaro, autorizzano, espropriano, multano, comprano, vendono e così via. Ci sono cose che le amministrazioni non possono fare (come sposarsi o fare testamento) e ci sono cose che possono fare solo le amministrazioni (come svolgere un’esercitazione militare o gestire una lotteria nazionale), ma la varietà di forme di attività è analoga. Da questo punto di vista, l’attività amministrativa è molto più simile a quella dei privati che a quella di altri poteri pubblici, come l’attività legislativa (che si esprime in pochi tipi di atti, come le leggi e i decreti legislativi) e quella giurisdizionale (che si esprime anche essa in pochi tipi di atti, come le sentenze e le ordinanze). Dal punto di vista strutturale, l’attività delle pubbliche amministrazioni non si distingue da quella di ogni altro soggetto di diritto. Esse pongono in essere sia dichiarazioni di volontà (come i provvedimenti amministrativi e i contratti), di scienza (come i verbali e i certificati) e di giudizio (come i pareri e le valutazioni tecniche), sia operazioni materiali (la demolizione di un fabbricato abusivo, l’arresto di un ladro o di un disertore, le prestazioni sanitarie). Spesso anche i comportamenti negativi dell’amministrazione assumono rilevanza, come nel caso del c.d. silenzio della pubblica amministrazione: anche questo, peraltro, è un fenomeno non esclusivo del diritto amministrativo (anche l’inadempimento del debitore, per esempio, è un comportamento produttivo di effetti giuridici). Gli atti compiuti dalle pubbliche amministrazioni sono oggetto di qualificazioni giuridiche di vario genere: l’ordinamento può considerarli legittimo esercizio di funzioni amministrative, adempimento di obbligazioni, fatti illeciti e cosí via; dal punto di vista strutturale, comunque, non vi sono elementi che distinguano l’attività amministrativa da quella dei soggetti privati. Gli unici tratti unificanti dell’attività amministrativa sono quelli derivanti dalla sua natura funzionale: da essa derivano, per esempio, una disciplina particolarmente intensa, lo svolgersi dell’attività per procedimenti, la natura discrezionale delle decisioni e l’assoggettamento a controlli di vario genere (tutti aspetti che saranno esaminati nei capitoli successivi). Vi sono, innanzitutto, le operazioni materiali, come quelle di cura dei ma-

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lati, di riparazione delle strade o di pulizia degli edifici. Nel diritto amministrativo come negli altri rami del diritto, esse non pongono particolari problemi. Va solo rilevato che lo svolgimento di alcune funzioni amministrative, come quelle in materia di sanità o di istruzione, consiste prevalentemente in attività di tipo materiale. Ovviamente, trattandosi di attività posta in essere nello svolgimento di una funzione amministrativa, essa trova comunque il suo fondamento in una norma. Spesso le operazioni materiali presuppongono una dichiarazione di volontà: è il caso dell’esecuzione forzata amministrativa, che presuppone un provvedimento da eseguire, e delle limitazioni della libertà personale, che presuppongono normalmente un atto di un giudice. Non presentano particolarità, rispetto ad analoghi atti conosciuti dal diritto privato, neanche le dichiarazioni di scienza e di giudizio. Vi rientrano molti atti dichiarativi, come i certificati e le iscrizioni nei pubblici registri, nonché i pareri di organi come il Consiglio di Stato e le commissioni edilizie comunali.

13.3. ATTI UNILATERALI E ACCORDI Maggiore attenzione meritano, invece, alcune dichiarazioni di volontà, nell’ambito delle quali la distinzione principale è quella tra atti unilaterali e accordi. Tra gli accordi, la figura principale è quella dei contratti, ma le pubbliche amministrazioni hanno sempre concluso tra loro e con i privati anche altre forme di accordo, a volte previste dalla legge. Tra gli atti unilaterali, la figura principale è quella dei provvedimenti amministrativi, che sono gli atti con i quali la pubblica amministrazione esercita i poteri amministrativi di cui è titolare, per la cura di interessi pubblici. I provvedimenti amministrativi sono emanati a seguito di procedimenti amministrativi e di regola possono essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo. Tra i provvedimenti amministrativi, meritano particolare attenzione gli atti normativi emanati da pubbliche amministrazioni e gli atti amministrativi generali: i primi sono atti che pongono norme, come i regolamenti; i secondi, come i bandi di concorso e i piani urbanistici, non pongono ma applicano norme, tuttavia sono comunque rivolti alla generalità dei cittadini. I primi sono soggetti alle regole proprie di tutti gli atti normativi: vincolano gli atti non normativi, non possono essere derogati da essi, la loro ignoranza non è scusabile, devono essere pubblicati, contro la violazione delle norme in essi contenute si può ricorrere per cassazione. I secondi sono soggetti a un regime per qualche aspetto simile a quello degli atti normativi: per esempio, a diffe-

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renza degli altri provvedimenti (e come gli atti normativi), non devono essere motivati; la loro violazione, pur non dando luogo a violazione di legge, può dare luogo a eccesso di potere. Il concetto di provvedimento amministrativo, dunque, non è contrapposto a quello di atto normativo, in quanto possono ben aversi provvedimenti amministrativi aventi contenuto normativo: dire che un atto è amministrativo significa affermarne la provenienza da una pubblica amministrazione e la sua soggezione a un certo regime giuridico, che sarà descritto in seguito (cap. 16); affermarne la natura normativa, invece, significa qualificare il suo contenuto. D’altra parte, la stessa distinzione tra atti normativi e atti non normativi può non avere rilevanza giuridica: essa è piuttosto sfumata, per esempio, nel diritto europeo, nel quale manca una netta distinzione tra il potere di porre le norme e quello di eseguirle. Non sono provvedimenti amministrativi, invece, gli atti politici, come gli atti del Governo inerenti alle relazioni diplomatiche o ai rapporti con il Parlamento (come la decisione di presentare un disegno di legge o di porre la questione di fiducia). Sono invece tendenzialmente soggetti al relativo regime giuridico gli atti di alta amministrazione, come la nomina di un alto dirigente amministrativo e lo scioglimento di un consiglio comunale. A proposito degli altri atti unilaterali, diversi dai provvedimenti, si parla spesso di “meri atti amministrativi” o, con riferimento alla loro eventuale collocazione in un procedimento amministrativo, di “atti strumentali” rispetto al provvedimento. Quella degli atti unilaterali non provvedimentali, in effetti, è una categoria eterogenea, nella quale rientrano dichiarazioni di volontà, di conoscenza, di giudizio e così via. Essi non si distinguono dagli analoghi atti posti in essere dai soggetti privati nello svolgimento della loro attività. D’altra parte, la stessa nozione di provvedimento amministrativo è una nozione imprecisa, che non ha confini netti: non si possono operare rigide distinzioni tra provvedimenti e atti strumentali. In atti normalmente esclusi dalla categoria dei provvedimenti possono essere riscontrate alcune, e non altre, componenti del regime del provvedimento: per esempio, la loro emanazione può richiedere un procedimento, può esservi per essi l’obbligo di motivazione, essi sono a volte impugnabili dinanzi al giudice amministrativo e così via.

13.4. ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA, DIRITTO PUBBLICO E DIRITTO PRIVATO Come si è già osservato, gli atti unilaterali emanati dalle pubbliche amministrazioni e gli accordi da esse conclusi non sono strutturalmente diversi dai corrispondenti atti dei soggetti privati, però presentano alcune peculiarità e,

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come si è riferito, sono soggetti a una disciplina particolare. Ciò vale sia per gli atti unilaterali, come i provvedimenti, sia per gli accordi, come i contratti. Sia gli uni sia gli altri sono simili agli atti unilaterali e ai contratti dei soggetti privati e sono soggetti a princìpi e norme in parte comuni, ma sono soggetti anche a norme ulteriori. In altri termini, sia gli atti unilaterali emanati dalle pubbliche amministrazioni sia gli accordi da esse conclusi non sono strutturalmente diversi dai corrispondenti atti posti in essere dai privati, anche se sono soggetti a una disciplina in parte diversa da quella che regola questi ultimi. Le differenze non sono dovute alla natura degli atti né alla natura del soggetto che li pone in essere, ma alla natura funzionale dell’attività amministrativa, che impone di dare rilievo giuridico ad aspetti che nell’attività dei privati non ne hanno. Per quanto riguarda gli accordi, i contratti delle pubbliche amministrazioni sono soggetti alla disciplina del Codice civile, ma questa disciplina subisce varie deroghe e sono applicabili numerose regole speciali, relative sia alla conclusione sia all’esecuzione del contratto, le quali attribuiscono vari privilegi all’amministrazione stessa. Per gli altri accordi, conclusi tra diverse amministrazioni o tra amministrazioni e privati, la deviazione è ancora più evidente: la legge stabilisce che a tali accordi i princìpi del Codice civile si applicano solo “in quanto compatibili” e attribuisce all’amministrazione un potere di recesso unilaterale per sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Per quanto riguarda gli atti unilaterali, i provvedimenti amministrativi hanno indubbiamente un regime giuridico diverso dagli atti unilaterali privati, ma la differenza non va sopravvalutata. Si tratta comunque di atti di esercizio di poteri, cioè dichiarazioni di volontà alle quali le norme ricollegano la produzione di determinati effetti giuridici, anche nei confronti di soggetti diversi da chi le ha emanate. Da questo punto di vista, essi non differiscono dagli atti unilaterali con cui vengono esercitati altri poteri pubblici, come la legge e la sentenza, e neanche da quelli con cui vengono esercitati poteri privati, come l’accettazione di eredità, l’atto di scelta nelle obbligazioni alternative, il recesso contrattuale e la dichiarazione del terzo di voler profittare della stipulazione fatta a suo favore. In definitiva, la distinzione tra atti unilaterali e accordi non coincide con quella tra diritto pubblico e diritto privato. Gli uni e gli altri, se adottati da pubbliche amministrazioni, sono strutturalmente analoghi ai corrispondenti atti dei soggetti privati, ma soggetti a una disciplina parzialmente diversa in virtù della natura funzionale dell’attività amministrativa, che sarà esaminata nei capitoli successivi.

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13.5. ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA E ATTIVITÀ PRIVATA Quanto precede mostra che l’attività amministrativa spesso è diversa da quella privata, ma raramente è radicalmente diversa da essa. Anche altri fattori rendono difficile la distinzione: il fatto che accordi tra amministrazioni e privati vengono spesso recepiti in un provvedimento, che sostituisce il contratto, o doppiati da un provvedimento, che si aggiunge al contratto; la frequente difficoltà di qualificare un determinato potere come potere amministrativo o come potere privato, problema frequente in materia di lavoro pubblico a seguito della privatizzazione; la moltiplicazione, nella legislazione recente, di casi in cui funzioni amministrative sono attribuite a soggetti privati. Si può aggiungere che il confine tra attività amministrativa e attività privata è storicamente mobile. Ciò dipende dal fatto che le funzioni amministrative, come il diritto amministrativo nel suo complesso, hanno estensione variabile. È noto che l’evoluzione delle forme di stato è stata accompagnata dalla tutela di nuovi interessi e dal riconoscimento di nuovi diritti, che hanno inciso sulle dimensioni – e, come si dirà tra breve, sulle forme – dell’attività amministrativa: si pensi, tra gli interessi che vi hanno inciso maggiormente in termini quantitativi, a quelli in materia di istruzione, sanità e previdenza; tra quelli di più recente assunzione, a quelli in materia di tutela dell’ambiente, concorrenza e riservatezza. Altre funzioni amministrative sono storicamente recessive: per esempio, nella fase attuale, quelle consistenti nell’erogazione di servizi pubblici (cap. 2), a seguito della liberalizzazione e all’introduzione della concorrenza in molti di essi (si pensi alla telefonia, all’energia elettrica, al trasporto aereo). Il rapporto tra attività amministrativa e servizi pubblici è molto variabile. Nel regime tradizionale, formatosi nel primo trentennio e gradualmente superato nell’ultimo ventennio del ventesimo secolo, la distinzione tra la prima e i secondi era difficile e il grado di identificazione alto: la prestazione dei servizi pubblici era tendenzialmente attività svolta da pubbliche amministrazioni o comunque riconducibile a un pubblico potere, che si assumeva la responsabilità complessiva del servizio. Il superamento di questo regime e la liberalizzazione dei servizi pubblici ne hanno imposto la distinzione dall’attività amministrativa. Essi rimangono tuttavia attività rilevanti per l’interesse pubblico: all’esigenza di assicurare il corretto funzionamento dei mercati e di tutelare interessi che verrebbero sacrificati da questo funzionamento sono volte le funzioni amministrative nei settori dei servizi pubblici liberalizzati. La mobilità del confine è mostrata anche dall’occasionale individuazione di una terza categoria di servizi pubblici, che si aggiunge a quelle dei servizi economici e dei servizi sociali: quella dei servizi amministrativi (o burocrati-

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ci), erogati in forma amministrativa. Ciò dipende anche dal fatto che la legislazione recente ha a volte disciplinato l’attività amministrativa trattandola come erogazione di prestazioni a favore dei privati e tutelando le aspettative di questi ultimi: per esempio, prevedendo l’individuazione di termini e responsabili dei procedimenti o sanzioni per il ritardo o attribuendo ai cittadini il potere di agire in giudizio per far valere le disfunzioni delle amministrazioni e imporre loro di rimediarvi. Si tratta comunque, ovviamente, di attività amministrativa. Va ancora osservato che l’ambito dell’attività amministrativa incide sulle sue forme. Nello stato liberale, per esempio, le fondamentali funzioni erano quelle relative alla sicurezza e all’ordine pubblico, alla difesa contro l’esterno e alle relazioni internazionali, quindi prevaleva l’attività amministrativa consistente essenzialmente in atti unilaterali. In seguito, l’esigenza di promuovere lo sviluppo economico con grandi opere pubbliche, e quindi di servirsi di grandi imprese private, ha indotto a concludere con queste accordi, variamente qualificati dalla scienza giuridica e dalla giurisprudenza. Nello stato contemporaneo, una notevole parte dell’attività amministrativa non consiste nel compimento di atti giuridici, ma in attività materiale (per esempio, in materia di sanità e istruzione).

13.6.

ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA, ATTIVITÀ LEGISLATIVA E ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

I confini tra attività amministrativa e attività privata sono dunque mobili. Lo sono anche quelli tra attività amministrativa, attività legislativa e attività giurisdizionale. Il principio della separazione dei poteri, infatti, non è mai stato vigente, anche se ha ispirato molte norme e istituti (come il divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario e, di conseguenza, il sistema di giustizia amministrativa). Organi amministrativi hanno sempre avuto funzioni normative e di risoluzione dei conflitti, così come assemblee parlamentari e giudici hanno sempre avuto funzioni amministrative. Per quanto riguarda i confini tra attività legislativa e attività amministrativa (la quale, come si è riferito, può consistere nell’emanazione di atti normativi), poi, occorre considerare che la legge lascia quasi sempre margini di apprezzamento all’amministrazione, ma l’ampiezza di questi margini dipende dalla decisione del legislatore. E, come si è rilevato in precedenza, in materia amministrativa il legislatore usa spesso la legge per prendere decisioni concrete, che sarebbero un contenuto più adatto alla forma del provvedimento amministrativo (cap. 4).

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La rilevata mobilità dei confini, peraltro, incontra limiti, derivanti soprattutto dalle cautele delle quali l’ordinamento circonda l’attività amministrativa, escludendo che certe funzioni o certe decisioni possano essere affidate alle pubbliche amministrazioni. Da un lato, alcune decisioni sono sottratte alle amministrazioni e riservate al legislatore, con la riserva di legge, o al giudice, con la riserva di giurisdizione (non vi è, invece, nella Costituzione, una riserva di regolamento o di atto amministrativo, e questo agevola l’invadenza del legislatore, a cui si è appena accennato). Dall’altro lato, lo svolgimento di alcune attività amministrative è radicalmente escluso dalla Costituzione: per esempio, impedendo che determinati interessi possano essere assunti come pubblici (per esempio, il sostegno a una determinata religione: art. 8 cost.) o escludendo determinate attribuzioni (per esempio, l’autorizzazione alle riunioni: art. 17 cost.). Ulteriori limiti derivano ormai dal diritto europeo, che disciplina lo svolgimento di funzioni amministrative da parte delle amministrazioni nazionali e richiede l’individuazione, da parte delle norme nazionali, degli uffici amministrativi competenti, spingendosi fino a individuare anche i caratteri che questi uffici devono avere (per esempio, l’indipendenza dall’autorità politica, che è richiesta per determinate autorità, come quella competente per la tutela dei dati personali).

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CAPITOLO 14 IL POTERE AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 14.1. Le situazioni giuridiche soggettive delle pubbliche amministrazioni. – 14.2. Il potere amministrativo. – 14.3. Caratteri del potere amministrativo. – 14.4. L’interesse legittimo.

14.1.

LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Le pubbliche amministrazioni, al pari dei soggetti privati, sono titolari di situazioni giuridiche soggettive: di vantaggio, come la proprietà, gli altri diritti reali, i diritti di credito e i poteri; e di svantaggio, come i debiti pecuniari, le altre obbligazioni e le situazioni di soggezione a un potere altrui. Le situazioni soggettive tendono a imputarsi sui soggetti di diritto, cioè su soggetti aventi capacità giuridica. In effetti, la capacità giuridica è proprio l’idoneità a essere titolari di situazioni giuridiche soggettive. Il Codice civile riconosce la capacità giuridica alle persone fisiche e alle persone giuridiche, che possono essere pubbliche o private. L’individuazione delle persone giuridiche pubbliche (cioè degli enti pubblici) spesso non è agevole, perché le leggi che istituiscono le amministrazioni e ne regolano l’organizzazione e il funzionamento non sempre chiariscono se esse sono persone giuridiche a sé stanti o uffici di altre persone giuridiche. Lo Stato e gli enti territoriali sono enti pubblici, anche se in modo peculiare (per quanto riguarda lo Stato, in particolare, i singoli ministeri hanno una certa capacità giuridica). Similmente, lo sono di regola amministrazioni come le scuole, le università, le aziende sanitarie e gli ordini professionali. Sia le situazioni soggettive di vantaggio sia quelle di svantaggio possono derivare dalla disciplina normativa delle funzioni amministrative ovvero dal

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diritto privato. Per quanto riguarda le situazioni di vantaggio, per esempio, dalle leggi che regolano le funzioni derivano i poteri amministrativi, come quello di autorizzare lo svolgimento di un’attività, concedere l’uso di una risorsa pubblica, espropriare un bene privato, irrogare una sanzione. Derivano dal normale regime dei rapporti disciplinati dal diritto privato, invece, i poteri contemplati dal Codice civile, come quello di recedere da un contratto, quello di costituire una servitù e quello di vendere un bene avuto in pegno. Per quanto riguarda le situazioni di svantaggio, dalle leggi che regolano le funzioni derivano quelle che impongono alle amministrazioni obblighi nei confronti dei cittadini, come quello di fornire servizi scolastici o sanitari o di rilasciare un certificato o un documento. Hanno invece natura privatistica obblighi come quello di pagare il prezzo di un bene acquistato o il corrispettivo di un servizio o di risarcire i danni derivanti da una condotta illecita. Come si vede, le pubbliche amministrazioni sono titolari delle stesse situazioni soggettive delle quali sono titolari gli altri soggetti, ma la natura funzionale della loro attività e le connesse esigenze di tutela determinano spesso l’applicabilità di norme particolari ai rapporti giuridici di cui esse sono parti. Ciò dipende dal fatto che l’attività delle pubbliche amministrazioni non è strutturalmente diversa da quella degli altri soggetti giuridici, ma è spesso soggetta a una disciplina particolare. Questa disciplina, da un lato, fa sì che vi siano situazioni soggettive tipiche del diritto amministrativo; dall’altro, incide sulla dinamica delle normali situazioni soggettive, conosciute anche dal diritto privato. Dal primo punto di vista, situazioni soggettive tipiche del diritto amministrativo sono il potere amministrativo e l’interesse legittimo, sui quali ci si soffermerà nei paragrafi successivi. Il potere amministrativo, in effetti, è la situazione soggettiva più tipica del diritto amministrativo: le pubbliche amministrazioni devono continuamente adottare decisioni, che incidono su interessi di altri soggetti, e questi poteri hanno un regime giuridico particolare. Una delle particolarità è data dalla altrettanto tipica situazione soggettiva che fronteggia il potere amministrativo: l’interesse legittimo. Dal secondo punto di vista, le pubbliche amministrazioni possono essere titolari di diritti reali (cioè aventi a oggetto beni), e parti di rapporti obbligatori (cioè di debito e credito), ma gli uni e gli altri possono presentarsi in forme peculiari. A volte le deroghe al regime ordinario del diritto privato determinano maggiori doveri in capo alle amministrazioni: le quali, per esempio, sono obbligate a una particolare trasparenza e, quindi, a rendere pubblici o accessibili documenti e informazioni in loro possesso. Altre volte le deroghe consistono in privilegi attribuiti alle pubbliche amministrazioni stesse. Coesistono norme generali e norme di privilegio, per esempio, nel regime giuridico dei beni pubblici: le amministrazioni possono esercitare e tutelare

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il proprio diritto di proprietà nei modi ordinari, come qualsiasi proprietario, o con poteri ulteriori, derivanti dal regime dei beni pubblici (cap. 11); in particolare, esse possono usare la forza, per mantenere il possesso dei loro beni, in termini più ampi di quanto l’uso della forza sia di regola consentito ai privati. La coesistenza di regole generali e deroghe si ritrova anche nei rapporti obbligatori, come mostrato dalla disciplina dei contratti della pubblica amministrazione (cap. 18). Da un lato, le amministrazioni hanno particolari oneri di imparzialità, che si traducono per esempio nella necessità di scegliere la controparte con procedure competitive. Dall’altro, esse hanno alcuni privilegi: per esempio, possono recedere unilateralmente da un contratto, in termini più ampi di quanto ciò sia consentito nel normale regime dei rapporti tra privati. A parte la peculiarità dell’attività contrattuale, occorre distinguere tra crediti e debiti delle pubbliche amministrazioni. Per quanto riguarda i diritti di credito, le deroghe più vistose riguardano il settore tributario, cioè i debiti che gravano sui contribuenti: le norme che disciplinano la riscossione delle entrate tributarie (spesso applicabili anche a quella delle somme dovute a titolo di sanzione) rendono la riscossione forzata nei confronti del contribuente più agevole della comune esecuzione forzata nei confronti del debitore. Altre deroghe alla disciplina del Codice civile sono dettate da discipline particolari: sono soggetti a regimi particolari di responsabilità, per esempio, gli agenti contabili, cioè i funzionari che hanno maneggio di denaro pubblico, così come i magistrati per i risarcimenti pagati dallo Stato per i danni da essi arrecati a terzi. Al di là di questi settori e discipline, i crediti delle pubbliche amministrazioni non sono soggetti a un regime particolare. Per quanto riguarda i debiti delle pubbliche amministrazioni, piuttosto che privilegi si hanno particolarità nell’adempimento, che normalmente richiede un procedimento particolare, il procedimento di spesa (cap. 12). Non mancano, peraltro, veri e propri privilegi, come la possibilità dell’amministrazione, in determinati casi, di sospendere il pagamento di somme dovute a soggetti nei confronti dei quali un’altra amministrazione dello Stato abbia un credito (si tratta del c.d. fermo amministrativo).

14.2. IL POTERE AMMINISTRATIVO Un’attenzione particolare merita il potere amministrativo, che è una situazione soggettiva propria del diritto amministrativo. Esso è il potere di emanare un atto unilaterale produttivo di effetti giuridici, anche nei confron-

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ti di altri soggetti, attribuito a una pubblica amministrazione per lo svolgimento di una funzione amministrativa. Si tratta, dunque, di una specie di potere: il potere è un genere di situazione soggettiva ben conosciuta in molti altri settori del diritto (si pensi al potere di fare una donazione, di fare testamento, di intentare un processo, di deliberare una legge o una sentenza); il potere amministrativo si distingue per via del suo particolare regime giuridico, che dipende dalla natura funzionale dell’attività amministrativa. Le pubbliche amministrazioni sono titolari di poteri nei confronti dei privati. In molti casi, i poteri di cui esse sono titolari sono soggetti al regime ordinario; per esempio, quelli a esse spettanti in quanto titolari di diritti reali o parti di rapporti obbligatori. D’altra parte, le funzioni amministrative si svolgono in gran parte mediante l’esercizio di poteri: il potere di autorizzare, di vietare, di sanzionare, di espropriare, di concedere e così via. La notevole quantità di poteri e la natura funzionale dell’attività nella quale essi si collocano hanno indotto l’ordinamento giuridico a costruire un particolare regime giuridico per questi poteri, che risulta da varie regole che disciplinano il suo esercizio e tutelano i privati interessati. Vi sono diversi tipi di potere amministrativo, ma – come appena rilevato – vi sono anche alcuni caratteri comuni. Si può, dunque, sia proporre una classificazione, sia individuare le componenti del regime giuridico comune. I poteri amministrativi hanno natura funzionale, nel senso che si inquadrano nello svolgimento di una funzione amministrativa e servono al perseguimento di un interesse generale: l’attribuzione di un potere a un’amministrazione è sempre conseguenza di una valutazione di meritevolezza, da parte dell’ordinamento, di un certo interesse. In base al tipo di interesse perseguito e al suo rapporto con altri interessi coinvolti, si può proporre una distinzione tra tre tipi di potere amministrativo. Un primo gruppo è costituito dai poteri spettanti alle pubbliche amministrazioni come a qualsiasi altro soggetto: per esempio, quelli relativi alla propria organizzazione e quelli relativi all’attività contrattuale. Si tratta, in altri termini, di poteri spettanti a ogni ente, come il potere di costituire un ufficio interno o di scegliere l’altro contraente. Essi, però, sono soggetti al regime del potere amministrativo, cioè alle regole e ai controlli propri di esso, in quanto spettanti a pubbliche amministrazioni. Ciò dipende dal fatto che atti come la nomina di un dirigente e l’acquisto di un bene, se operati da pubbliche amministrazioni, implicano l’uso di risorse pubbliche. Un secondo gruppo di poteri amministrativi riflette una valutazione di prevalenza dell’interesse pubblico su un interesse privato: si pensi alle espropriazioni o alle sanzioni amministrative. Si tratta dei poteri che danno luogo a provvedimenti sfavorevoli per i destinatari, nel senso che il risultato dell’azione amministrativa richiede un sacrificio dell’interesse privato e non

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può essere ottenuto che facendo prevalere la volontà dell’amministrazione su quella del privato stesso. A questi poteri possono essere accostati, per quanto qui interessa, quelli che si esplicano in provvedimenti autorizzatori, in quanto essi esprimono l’esigenza che l’interesse privato (a svolgere una determinata attività) non sia soddisfatto senza che sia adeguatamente tutelato quello pubblico (che può essere leso dallo scorretto svolgimento di quell’attività: si pensi alla patente di guida o al porto d’armi). Infine, le funzioni amministrative si svolgono mediante l’emanazione di atti unilaterali, anche in casi in cui il risultato al quale si tende potrebbe essere raggiunto attraverso un contratto: per esempio, si accorda una concessione di bene pubblico invece di concludere un contratto di concessione, si nomina un funzionario invece di concludere un contratto di lavoro o d’opera. In questi casi, c’è un accordo tra le parti, ma l’ordinamento giuridico si disinteressa di esso e si concentra sull’atto unilaterale dell’amministrazione (per esempio, sulla concessione di un bene o sull’assunzione di un dipendente), che di esso è una componente. Ciò dipende dall’esigenza di consentire un controllo sulla decisione con la quale l’amministrazione aderisce all’accordo. Vi è, quindi, un terzo gruppo di poteri amministrativi, i quali non esprimono un particolare rapporto tra l’interesse pubblico e quello privato, ma l’esigenza di controllare il corretto svolgimento della funzione amministrativa. I contenuti dei diversi poteri amministrativi, cioè gli effetti che il loro esercizio può produrre, sono estremamente vari, come risulterà dall’analisi dei tipi di procedimento e di provvedimento amministrativo (cap. 17). Gli atti con i quali essi vengono esercitati sono comunque soggetti a un regime unitario e sono detti provvedimenti amministrativi: il regime del provvedimento amministrativo dipende in parte dal fatto che esso è atto di esercizio di un potere.

14.3. CARATTERI DEL POTERE AMMINISTRATIVO Venendo ai caratteri comuni dei poteri amministrativi, si può innanzitutto osservare che il potere amministrativo, come ogni potere, ha un ruolo di mediazione tra una norma e l’effetto che essa vuole raggiungere. Quando attribuisce un potere, la norma non definisce l’assetto di interessi regolato, ma affida al suo titolare un ruolo di mediazione tra la norma stessa e l’effetto e, quindi, il compito di definire l’assetto di interessi in questione. In altri termini, un potere esprime una relazione tra il suo titolare e l’ordinamento, in base alla quale il secondo ricollega determinati effetti a un atto del primo:

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questa relazione è posta da una norma. Di conseguenza, come ogni potere, il potere amministrativo è sempre attribuito da una norma. Il problema è dato dal tipo di norma sulla quale il potere deve essere fondato. Nelle materie coperte da riserva di legge, questa norma deve essere contenuta in una legge (statale o regionale) o in un atto avente valore di legge (come un decretolegge o un decreto legislativo). Per esempio, il potere di espropriare un bene o di imporre un tributo non può che essere attribuito da una legge. È uno dei risvolti del principio di legalità (cap. 4), che in questo caso ha una funzione di garanzia dei diritti dei cittadini. In secondo luogo, il potere amministrativo è un potere unilaterale: la modificazione giuridica è prodotta dalla dichiarazione di volontà di una sola parte, cioè l’amministrazione. Si può aggiungere che esso agisce non soltanto nella sfera giuridica del suo titolare (l’amministrazione), ma anche nella sfera giuridica altrui. Si può poi osservare che il potere amministrativo non richiede, per la produzione dell’effetto giuridico, la mediazione di un giudice; l’amministrazione, titolare del potere, può produrre quell’effetto semplicemente con una dichiarazione di volontà (il provvedimento amministrativo), nonostante l’effetto riguardi anche la sfera di interessi di altri soggetti. Da questo punto di vista, il potere amministrativo si distingue da altri poteri, come quello di chiedere l’annullamento di un contratto, che si esercitano attraverso un processo. Da questo carattere del potere deriva un’inversione dell’onere di agire, che è alla base della struttura impugnatoria del processo amministrativo: non essendo la pretesa dell’amministrazione sottoposta a una previa verifica da parte di un giudice, sono i soggetti, nei cui confronti un effetto sfavorevole si è prodotto, a dover ricorrere al giudice per far valere l’eventuale illegittimità del provvedimento. Questa circostanza, unitamente all’ampia diffusione del modello di attività basato sul potere amministrativo, di cui si è detto, fa sí che sulle pubbliche amministrazioni non gravi quasi mai l’onere di iniziare un processo, in quanto di regola esse sono parti resistenti o convenute. Il potere amministrativo è di regola discrezionale, nel senso che esso implica l’esercizio di una valutazione da parte dell’amministrazione. La discrezionalità può essere più o meno ampia e anche quasi assente: in questo caso si hanno atti amministrativi “vincolati” e si può discutere se essi siano effettivamente esercizio di un potere o, piuttosto, adempimento di un obbligo. D’altra parte, come si è osservato in precedenza, l’attività delle amministrazioni è sempre doverosa, in quanto svolgimento di una funzione e cura di un interesse generale. L’ordinamento giuridico, peraltro, regola il modo in cui la decisione dell’amministrazione si forma, imponendo diversi adempimenti, i quali costituiscono il procedimento amministrativo. Anche questa è una conseguenza del

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fatto che il potere amministrativo viene esercitato nel quadro dello svolgimento di una funzione amministrativa: come viene spesso osservato, il procedimento è la forma della funzione amministrativa. Dalla natura funzionale dell’attività amministrativa e dal carattere doveroso del potere amministrativo derivano anche ulteriori caratteri di esso, come l’inalienabilità, l’intrasmissibilità, l’irrinunciabilità e la sottoposizione dei provvedimenti amministrativi a controlli. Tra i controlli ai quali è sottoposto l’esercizio del potere amministrativo, il più importante è quello operato dal giudice amministrativo, la cui giurisdizione, infatti, è definita dalla legge proprio con riferimento alle controversie concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo. In questo come in altri controlli, un ruolo preminente è svolto dagli interessati, cioè da coloro nei confronti dei quali il potere stesso è esercitato: essi, infatti, non si trovano in una situazione di mera soggezione, perché il loro interesse, sul quale l’esercizio del potere incide, è tutelato dall’ordinamento. Ciò è espresso dalla nozione di interesse legittimo, sulla quale ci si soffermerà in un paragrafo successivo. Va sottolineato fin d’ora che, per via del ruolo attribuito agli interessati, carattere del potere amministrativo è il fatto che sulle modalità del suo esercizio possono influire i soggetti nei cui confronti esso viene esercitato. All’obbligo di provvedere e alla tutela degli interessati è connesso l’aspetto temporale dell’esercizio del potere. In primo luogo, i poteri amministrativi vanno esercitati entro termini stabiliti dalle norme. L’obbligo di provvedere, dunque, non riguarda soltanto il “se”, ma anche il “quando” provvedere, e il mancato rispetto del termine determina inadempimento di un obbligo dell’amministrazione. Per quanto riguarda il modo in cui l’ordinamento sanziona questa violazione, a volte le norme stabiliscono che il decorso di un certo termine impedisce l’emanazione di un provvedimento (per lo più di tipo restrittivo, come una sanzione). Al di là di queste ipotesi, e soprattutto nei procedimenti volti all’emanazione di atti favorevoli per gli interessati, dal mancato rispetto del termine deriva soltanto la possibilità dell’eventuale interessato di rivolgersi al giudice amministrativo contro il “silenzio” dell’amministrazione, per indurla a emanare il provvedimento richiesto o per ottenere altre forme di tutela. Infine, carattere del potere amministrativo è la sua permanenza, al di là del singolo atto di esercizio. Il potere amministrativo, dunque, appartiene al genere dei poteri che non si esauriscono con il loro esercizio. A ben vedere, non si tratta di un carattere strutturale del potere amministrativo, ma, ancora una volta, di una conseguenza del suo inserimento in una funzione, la quale permane al di là del singolo episodio di amministrazione. La norma che disciplina la funzione, in altre parole, ricollega il sorgere del potere al verificarsi di

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certi presupposti, determinando il continuo succedersi, in capo all’amministrazione, di poteri di uguale contenuto. E, poiché lo svolgimento della funzione può richiedere di intervenire nuovamente nello stesso rapporto giuridico, l’amministrazione può revocare il provvedimento già emanato. Non mancano, peraltro, le eccezioni, costituite da provvedimenti irrevocabili.

14.4. L’INTERESSE LEGITTIMO Si è già rilevato che l’ordinamento riconosce a determinati soggetti, sui cui interessi incide l’esercizio del potere amministrativo, di influire sul suo esercizio stesso, per esempio partecipando al relativo procedimento. Occorre dunque considerare l’altra parte del rapporto giuridico in cui esso si inserisce, cioè i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento amministrativo produce effetti. La tutela offerta dall’ordinamento agli interessi in questione è espressa dalla nozione di interesse legittimo: si tratta di una situazione giuridica di vantaggio, che consente al suo titolare di incidere sull’esercizio del potere e di reagire contro l’esercizio illegittimo. Nei confronti dell’amministrazione che sia titolare di un potere amministrativo (per esempio, del potere di espropriare un bene per pubblica utilità o di concedere l’uso del suolo pubblico), il privato si trova in una situazione più vantaggiosa di quella nella quale si trova nei confronti di un altro privato che abbia un potere di contenuto analogo (per esempio, quello di espropriare i beni del debitore o di autorizzare l’uso del suolo privato): nel primo caso vi è un interesse legittimo, nel secondo una mera soggezione. Quella di interesse legittimo è una nozione peculiare della scienza giuridica italiana e molto problematica. Sulla natura e sull’oggetto dell’interesse legittimo e sulla sua distinzione dal diritto soggettivo sono state proposte molte teorie. In questa sede, è sufficiente rilevare che esso esprime una tecnica di tutela degli interessi diversa da quella tipica del diritto soggettivo. Da un lato, esso non assicura il soddisfacimento dell’interesse sottostante: il proprietario del bene può partecipare al procedimento di espropriazione, ma non sempre può impedire che il suo bene sia espropriato; l’automobilista può difendersi contro la multa, ma non sempre può evitarla; chi chiede un’autorizzazione, può esporre le proprie ragioni al funzionario competente, ma non può essere sicuro di ottenerla. Dall’altro lato, esso consente di influenzare il comportamento dell’amministrazione, dal quale dipende l’eventuale soddisfacimento dell’interesse sottostante: è, come si è osservato, una possibilità che di regola manca nel diritto privato.

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L’interesse legittimo è, dunque, uno strumento di tutela di un interesse sostanziale, che può ben coesistere con altre forme di tutela. In particolare, esso può coesistere con il diritto soggettivo quando l’interesse, sul quale il potere amministrativo incide, è tutelato come un diritto: un ovvio esempio è quello del provvedimento di espropriazione, che può estinguere il diritto di proprietà in capo al suo titolare, ma sul cui contenuto questi può incidere, facendo valere l’ulteriore protezione che l’ordinamento riserva al suo interesse a godere del bene. L’interesse legittimo può presentarsi in forme diverse, corrispondentemente alla varietà dei poteri amministrativi ai quali esso corrisponde: si distingue, in particolare, tra gli interessi oppositivi (che corrispondono ai poteri restrittivi, come quello di espropriare) e quelli pretensivi (che corrispondono ai poteri ampliativi, come quello di autorizzare). La tutela degli interessi sui quali incide il provvedimento amministrativo avviene sia nel corso del procedimento per la sua emanazione, sia in sede di impugnazione del provvedimento dinanzi al giudice amministrativo. Dal primo punto di vista, va osservato che una delle funzioni fondamentali del procedimento amministrativo è proprio quella di acquisire gli interessi rilevanti ai fini della decisione; dal secondo punto di vista, va considerato che solo chi abbia un interesse protetto dall’ordinamento può far valere l’illegittimità di un provvedimento, impugnandolo dinanzi al giudice amministrativo. La nozione di interesse legittimo è tradizionalmente uno degli argomenti centrali della teoria del diritto amministrativo italiano. Essa deve la sua importanza essenzialmente al fatto che, nell’ordinamento italiano, il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo avviene sulla base della situazione soggettiva fatta valere dall’interessato (cap. 20). Peraltro, la tendenza della legislazione degli ultimi anni a operare spesso il riparto in questione per materie, rendendo quasi residuale il criterio della situazione soggettiva, rende l’argomento sempre meno importante. A ciò contribuiscono ormai, da un lato, il fatto che il diritto europeo ignora la distinzione, tipicamente italiana, tra diritto soggettivo e interesse legittimo; dall’altro, il superamento del risalente indirizzo giurisprudenziale che negava la risarcibilità dell’ingiusta lesione dell’interesse legittimo (cap. 19).

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CAPITOLO 15

IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 15.1. La procedimentalizzazione dell’attività amministrativa. – 15.2. Procedimenti amministrativi e altri procedimenti giuridici. – 15.3. La disciplina del procedimento. – 15.4. La legge n. 241 del 1990. – 15.5. Lo svolgimento del procedimento. – 15.6. L’obbligo di concludere il procedimento. – 15.7. L’atto conclusivo del procedimento. – 15.8. Tipologia dei procedimenti.

15.1. LA PROCEDIMENTALIZZAZIONE DELL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA Il carattere più vistoso dell’attività amministrativa è la procedimentalizzazione: essa è un’attività ordinata in sequenze. Le decisioni delle pubbliche amministrazioni non sono prese in modo istantaneo, ma si formano attraverso procedimenti: un procedimento è necessario per accordare un’autorizzazione edilizia o per irrogare una sanzione pecuniaria e anche per concludere un contratto o per vendere una partecipazione azionaria. La decisione è poi racchiusa in un atto finale (l’autorizzazione, la sanzione, la decisione di concludere il contratto o il contratto stesso), ma il contenuto di quest’atto è in gran parte determinato dagli atti e dai fatti che hanno avuto luogo nel corso del procedimento. La procedimentalizzazione dell’attività amministrativa è dovuta, in primo luogo, al fatto che le pubbliche amministrazioni sono organizzazioni complesse e, come tali, svolgono normalmente la propria attività attraverso diversi uffici e articolano il ruolo di questi uffici definendo in via generale competenze e procedure. Da questo punto di vista, le pubbliche amministrazioni non sono diverse dalle organizzazioni private, come le società, le associazioni e le fondazioni. C’è anche un’altra ragione della procedimentalizzazione, propria delle

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amministrazioni pubbliche. Nel disciplinare l’attività delle amministrazioni, di regola le norme non si limitano ad attribuire loro compiti e poteri, ma ne stabiliscono le modalità di svolgimento e di esercizio. In particolare, esse disciplinano il processo di formazione delle decisioni: individuando gli organi competenti e i presupposti per l’adozione dei provvedimenti, prevedendo l’esperimento di prove o la consultazione di determinati uffici, attribuendo poteri di partecipazione a soggetti pubblici e privati e così via. A differenza di quanto avviene per l’attività dei privati, dunque, il processo di formazione delle decisioni delle pubbliche amministrazioni è giuridicamente rilevante, in quanto regolato da norme di diritto. L’articolazione dell’attività amministrativa in procedimenti, dunque, ha diversi scopi. In primo luogo, serve a dare ordine all’attività amministrativa. In secondo luogo, poiché molte decisioni riguardano diversi interessi pubblici e, quindi, le attribuzioni e le competenze di varie amministrazioni e vari uffici, essa serve a definire il ruolo dei singoli uffici e, quindi, a completare il disegno organizzativo, distribuendo il potere di decisione. Serve, poi, a consentire anche ai soggetti privati di far valere il proprio punto di vista e, quindi, di tutelare il proprio interesse, che dalla decisione dell’amministrazione possa essere leso (come nel caso dell’espropriazione) o soddisfatto (come nel caso dell’autorizzazione). Serve, ancora, a consentire a soggetti pubblici e privati di partecipare all’attività amministrativa in chiave collaborativa, a tutela dell’interesse generale oltre che del proprio interesse specifico. Di conseguenza, serve a mettere a confronto gli interessi coinvolti e a definirne il peso rispettivo. Serve, infine, a individuare le circostanze di fatto rilevanti per la decisione. Il fenomeno della procedimentalizzazione riguarda tendenzialmente tutta l’attività amministrativa: non solo l’emanazione di atti unilaterali, ma anche la conclusione di accordi; non solo le dichiarazioni di volontà, ma anche quelle di scienza e di giudizio; non solo l’attività finale, volta a perseguire gli interessi pubblici indicati dalla legge, ma anche quella strumentale, attraverso la quale le pubbliche amministrazioni organizzano se stesse e soddisfano le esigenze del proprio apparato; anche le operazioni materiali (come la riparazione di una strada e lo svolgimento di una lezione) hanno luogo di regola sulla base di un procedimento, volto se non altro a individuare l’ufficio competente e il momento della loro esecuzione.

15.2. PROCEDIMENTI AMMINISTRATIVI E ALTRI PROCEDIMENTI GIURIDICI Si afferma spesso che il procedimento amministrativo è la forma della funzione amministrativa: come la funzione legislativa si svolge attraverso il

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procedimento legislativo e quella giurisdizionale attraverso il processo, la funzione amministrativa si svolge attraverso procedimenti amministrativi. Da questo punto di vista, la funzione amministrativa è simile a queste altre funzioni pubbliche e si distingue dall’attività dei privati, i quali di regola esercitano in modo istantaneo i loro poteri, anche se questi sono spesso molto simili a quelli delle pubbliche amministrazioni (il privato non ha bisogno di un procedimento per decidere se autorizzare il vicino a transitare sul proprio fondo, se effettuare un atto di liberalità o se espropriare i beni del suo debitore inadempiente). Un altro elemento in comune con il procedimento legislativo e il processo giurisdizionale è che il procedimento si conclude con l’emanazione di un atto, al quale l’ordinamento ricollega determinati effetti giuridici e sul quale si appuntano i controlli, anche giurisdizionali, eventualmente previsti dall’ordinamento: come il vizio di un atto processuale può invalidare la sentenza e quello della legge delega può invalidare il decreto legislativo, così il vizio di un atto strumentale può invalidare il provvedimento. Tuttavia, il procedimento amministrativo si differenzia nettamente da quello legislativo e dal processo giurisdizionale, in primo luogo per via della sua eterogeneità e atipicità: i procedimenti amministrativi hanno strutture estremamente diverse l’una dall’altra. Il procedimento legislativo e il processo si svolgono sempre allo stesso modo, sulla base di pochi modelli e limitate varianti. Di procedimento amministrativo, invece, esistono infiniti modelli, definiti da migliaia di leggi e regolamenti. Esso cambia la sua struttura in ragione del tipo di provvedimento da emanare (rilascio della patente di guida, imposizione di un vincolo su un bene privato di interesse storico o artistico, collocamento in aspettativa obbligatoria della lavoratrice per gravidanza e così via), perché ogni tipo di procedimento ha le sue norme. Esistono, come si noterà tra breve, norme generali, che si applicano a tutti i procedimenti amministrativi o ad ampie categorie di essi. Tuttavia esse non disciplinano compiutamente lo svolgimento del procedimento, ma pongono solo alcune regole comuni o prevedono istituti di applicazione eventuale.

15.3. LA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO La disciplina del procedimento amministrativo consiste in princìpi e regole in parte generali, relativi a tutti i procedimenti, in parte speciali, relativi ad ampie categorie di procedimenti o a singoli tipi. Gli uni e gli altri sono in parte contenuti in disposizioni normative, in parte elaborati dalla giurisprudenza. Come si è riferito nei primi capitoli, il diritto amministrativo è, per varie ragioni, un diritto non codificato: molti dei suoi istituti e princìpi fondamen-

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tali sono stati elaborati non dal legislatore, ma dai giudici. Ciò vale anche per le regole generali sul procedimento. Nel corso del ventesimo secolo, peraltro, in numerosi ordinamenti, sia dell’Europa continentale (come l’Italia), sia del mondo anglosassone (come gli Stati Uniti d’America), sono state introdotte discipline legislative generali del procedimento amministrativo. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di leggi di princìpi, che non disciplinano compiutamente il procedimento ma pongono alcune regole generali, applicabili a tutti i procedimenti, e prevedono alcuni istituti di applicazione eventuale. Solo in pochi ordinamenti (come quello austriaco) vi è una disciplina analitica, che regola compiutamente lo svolgimento del procedimento. In altri (come l’Unione Europea e il Regno Unito), all’opposto, una disciplina legislativa generale è del tutto assente. Vi è, quindi, una notevole eterogeneità nelle discipline legislative del procedimento. Le varie leggi risentono nel contesto in cui sono state adottate e delle caratteristiche dei diversi ordinamenti e delle rispettive culture giuridiche, sicché a volte disciplinano i procedimenti amministrativi alla stregua dei processi giurisdizionali (modello giustiziale, proprio della legge austriaca), altre volte alla stregua dei procedimenti legislativi (modello di rappresentanza degli interessi, proprio della legge statunitense). Sia le regole giurisprudenziali sia le disposizioni normative a volte hanno portata generale (come il principio di proporzionalità e la regola del termine del procedimento), altre volte si applicano a grossi gruppi di procedimenti (come la regola della predeterminazione dei criteri di decisione, relativa ai procedimenti di sovvenzione, e la disciplina legislativa delle sanzioni amministrative), altre volte ancora riguardano singoli tipi di procedimento, previsti dalle norme speciali. In altri termini, la disciplina dei procedimenti amministrativi risulta da princìpi giurisprudenziali e disposizioni normative aventi diverse gradazioni di specialità. Per esempio, lo svolgimento di un concorso pubblico è governato da regole generali di diritto positivo (come quella del termine del procedimento) e giurisprudenziali (come molte di quelle relative al funzionamento degli organi collegiali), da regole relative a tutti i concorsi (come quelle relative alla composizione delle commissioni o alla correzione degli elaborati) e da regole stabilite per il singolo concorso dalle norme di settore e dal bando. Molti di quelli che vengono normalmente definiti “princìpi del procedimento” sono in realtà relativi, più in generale, all’attività amministrativa, se non all’amministrazione nel suo complesso. Ad alcuni di essi si è già fatto riferimento (cap. 4): i princìpi di imparzialità e buon andamento, il giusto procedimento e la partecipazione, la ragionevolezza e la proporzionalità, la buona fede e la trasparenza. Ulteriori princìpi sono i seguenti. Quello di economicità, che riguarda il rapporto tra mezzi e risultati, quindi impone di

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fare buon uso delle risorse a disposizione. Quello di efficacia, che riguarda invece il rapporto tra obiettivi e risultati, quindi è rispettato se l’azione dell’amministrazione è idonea al raggiungimento degli obiettivi prefissati in sede normativa e politica. Quello di efficienza, che è sinonimo di buon andamento ma, in termini più specifici, riguarda il rapporto tra costi e benefici, quindi implica l’effettiva utilità della decisione. Quello di semplificazione, che limita la possibilità di aggiungere fasi al procedimento ed è alla base di istituti come il divieto di aggravamento del procedimento, la conferenza di servizi, gli accordi tra amministrazioni, l’autocertificazione, la dichiarazione di inizio di attività e il silenzio-assenso.

15.4. LA LEGGE N. 241 DEL 1990 Nell’ordinamento italiano, la disciplina legislativa generale del procedimento amministrativo è contenuta nella legge n. 241 del 1990, più volte modificata. Essa contiene varie disposizioni relative a diverse fasi del procedimento; introduce molte garanzie a favore dei cittadini, soprattutto in termini di partecipazione al procedimento; prevede vari istituti di semplificazione; regola il diritto di accesso ai documenti amministrativi; e, dopo la riforma del 2005, contiene anche una disciplina del provvedimento amministrativo (cap. 16). Essa non segue nessuno dei due modelli prima indicati (quello giustiziale e quello della rappresentanza degli interessi), perché non definisce una struttura comune ai diversi procedimenti, ma pone solo alcune regole generali. La legge in questione utilizza la nozione e disciplina il procedimento, ma non ne dà una definizione, quindi pone il problema di individuare i procedimenti: cioè di stabilire che cosa è un procedimento amministrativo, soggetto alle sue previsioni, e che cosa non lo è. Il problema dell’ambito di applicazione va esaminato sia in termini oggettivi, cioè con riferimento ai tipi di procedimento che essa regola, sia in termini soggettivi, cioè con riferimento alle amministrazioni alle quali essa si applica. Dal primo punto di vista, si può dire che la legge si applica sia ai procedimenti volti all’adozione di un provvedimento amministrativo (come un’autorizzazione o un’espropriazione), sia agli altri procedimenti, come quelli contrattuali, quelli organizzativi, quelli finanziari e quelli dichiarativi (cap. 17). Tende ad applicarsi, dunque, tutte le volte che una pubblica amministrazione deve prendere una decisione nello svolgimento di una funzione amministrativa. Va inoltre osservato che la maggior parte delle disposizioni sono dettate per tutti i procedimenti, ma alcune previsioni escludono deter-

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minati tipi (per esempio, quelli volti all’adozione degli atti normativi e amministrativi generali, ai quali non si applicano le norme sulla partecipazione e sulla motivazione) e altre riguardano solo determinati tipi (come quelle sulla dichiarazione di inizio di attività e sul silenzio assenso, che riguardano essenzialmente i procedimenti di autorizzazione). Dal secondo punto di vista, quella della legge 241 è una disciplina nazionale, quindi è ovviamente applicabile alle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali, mentre non è pacifica l’applicabilità delle sue varie disposizioni alle amministrazioni delle regioni e degli enti locali, trattandosi di materia non attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Peraltro, la giurisprudenza tende ad applicarle anche a esse e la stessa Corte costituzionale ha ricondotto alcune previsioni della legge a materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato. Il problema, comunque, è di fatto poco rilevante, dato che la maggior parte delle regioni ha emanato leggi sul procedimento che recepiscono i princìpi della legge statale. Un problema di applicabilità può porsi anche per alcuni enti non territoriali, in ragione delle loro funzioni o della loro posizione nell’ordinamento. Per gli enti pubblici economici, in particolare, la disciplina del procedimento non è applicabile all’attività d’impresa da essi svolta. Per le autorità indipendenti, la legge tende a imporre il rispetto dei princìpi della legge n. 241. La legge non è di regola applicabile all’attività amministrativa svolta dagli organi costituzionali, come le Camere e la Presidenza della Repubblica, o di rilievo costituzionale, come il Consiglio superiore della magistratura. Infine, sull’ambito di applicazione della legge incidono i fenomeni dell’amministrazione pubblica in forma privata: essi fanno sì che alcune delle sue previsioni possano essere applicate a soggetti titolari di funzioni amministrative che, ad altri fini, l’ordinamento considera privati. Alcune previsioni della legge – quella relativa al responsabile e al termine finale del procedimento – impongono alle pubbliche amministrazioni di compilare e tenere aggiornato un “catalogo” dei procedimenti amministrativi di propria competenza. Ciò dipende dal fatto che i due istituti appena menzionati implicano che ciascun tipo di procedimento sia individuato e oggetto di previsioni generali: il termine e l’ufficio responsabile di ciascun tipo di procedimento devono essere determinati in via generale dalle amministrazioni. La legge, quindi, costringe le amministrazioni a operare un censimento dei propri procedimenti amministrativi. Per molte amministrazioni, soprattutto regionali e locali, peraltro, questo censimento non è ancora stato compiuto. La legge n. 241 ha introdotto alcuni istituti originali, non presenti nelle leggi di altri ordinamenti, come il responsabile del procedimento. Essa ha, inoltre, posto una particolare enfasi sul principio di semplificazione, intro-

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ducendo alcuni istituti (come la conferenza di servizi, gli accordi tra amministrazioni, il silenzio-assenso, la segnalazione di inizio di attività) che sono stati spesso utilizzati da successive leggi, sia generali sia di settore. L’obiettivo della semplificazione (dei procedimenti amministrativi e, più in generale, degli oneri amministrativi gravanti sui privati e sulle stesse amministrazioni) è stato perseguito da numerosi interventi legislativi (comprese alcune “leggi di semplificazione”, che hanno operato anche nel senso della delegificazione e della codificazione di settori di normazione) e gli istituti appena menzionati sono spesso utilizzati (per esempio il silenzio-assenso e la dichiarazione di inizio di attività in materia di edilizia e di commercio, la conferenza di servizi in materia di tutela dell’ambiente).

15.5. LO SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO Ogni procedimento amministrativo ha la sua struttura. Alcuni hanno un’articolazione molto complessa, con varie fasi chiaramente identificabili (per esempio, l’elaborazione dei piani urbanistici), altri sono estremamente semplici e si esauriscono sostanzialmente nella fase decisoria, mentre le altre fasi sono ridotte al minimo (per esempio, l’emanazione di direttive o di ordinanze d’urgenza, il rilascio di un certificato o di un documento). Inoltre, le diverse fasi, previste dalle norme, possono essere concentrate in un’unica fase, nella quale i diversi interessi pubblici siano oggetto di valutazione contestuale, da parte dei rappresentanti delle relative amministrazioni, appositamente riuniti. È la conferenza di servizi, che semplifica il procedimento accelerandolo e favorendo il coordinamento tra le amministrazioni e il confronto tra gli interessi coinvolti. La conferenza di servizi è la forma normale di svolgimento della maggior parte dei procedimenti complessi e il suo ambito di applicazione è stato ulteriormente ampliato con la revisione della relativa disciplina, operata nel 2016 e ispirata all’applicazione della tecnologia digitale. Essa si svolge di regola in forma semplificata, attraverso lo scambio di osservazioni e documenti in via informatica, anche non contestuale (in “modalità asincrona”), tra le diverse amministrazioni coinvolte. Solo per i procedimenti più complessi si svolge in forma simultanea, attraverso riunioni fisiche o a distanza. Le riunioni, dunque, sono solo eventuali e non necessariamente fisiche, con un ulteriore effetto di semplificazione. Al di là di questa possibile concentrazione, il procedimento è comunque articolato in fasi. Per comodità espositiva si suole individuare alcune fasi tipiche. La prima fase è ovviamente quella dell’avvio. L’iniziativa procedimentale

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può essere d’ufficio o di parte. Nel primo caso, è la stessa amministrazione procedente a deliberare l’avvio del procedimento, essendosi verificato il presupposto al quale la legge ricollega l’emanazione del provvedimento (per esempio, la commissione di un illecito, una situazione di pericolo, l’esigenza di acquistare un bene o di assumere un impiegato). Delle circostanze di fatto l’amministrazione può venire a conoscenza in vari modi, per esempio attraverso un’attività di vigilanza o a seguito di una denuncia con la quale un fatto o una situazione le vengano segnalati. Nel secondo caso, il procedimento consegue a un’istanza del soggetto interessato, della quale l’amministrazione deve comunque operare una sommaria valutazione, per valutare se avviare il procedimento: non sempre l’istanza dell’interessato fa sorgere l’obbligo di provvedere. L’iniziativa può anche essere di un’altra pubblica amministrazione. L’avvio del procedimento fa sorgere, in capo all’amministrazione procedente, l’obbligo di informarne determinati soggetti: è la comunicazione di avvio del procedimento, che consente la partecipazione degli interessati al procedimento. La fase successiva, nonché di regola la più ampia del procedimento, è quella istruttoria, nella quale si forma la decisione dell’amministrazione, attraverso l’acquisizione degli interessi e dei fatti rilevanti. L’acquisizione dei fatti può richiedere adempimenti come accertamenti tecnici, ispezioni, inchieste, pareri e valutazioni tecniche. In questa fase, dunque, vengono posti in essere numerosi atti strumentali e adempimenti di vario genere dell’amministrazione procedente, di altre amministrazioni e dei privati interessati. A compiere o a sollecitare molti di questi atti e adempimenti è l’ufficio responsabile del procedimento, che deve essere determinato in via generale dall’amministrazione per ogni tipo di procedimento. Nell’ambito dell’ufficio responsabile, per ogni singola pratica viene individuato un funzionario responsabile del procedimento: vi è, per esempio, un ufficio responsabile per l’attribuzione degli indennizzi per gli infortuni sul lavoro e, nel suo ambito, un addetto per l’attribuzione dell’indennizzo a ciascun lavoratore infortunato. È durante la fase istruttoria, infine, che – in esplicazione dei princìpi del contraddittorio e della partecipazione – i soggetti interessati possono intervenire nel procedimento, esercitando il diritto d’accesso o depositando memorie scritte o documenti. Anche in esito a questo intervento, il procedimento può concludersi con un accordo tra amministrazione e interessati, che peraltro deve comunque essere recepito in una determinazione unilaterale dell’amministrazione. Nell’ambito della fase istruttoria, si svolgono normalmente rapporti tra amministrazioni o uffici diversi, che devono intervenire nel procedimento o la fanno in relazione alle proprie competenze. A volte l’intervento di un’amministrazione o ufficio diverso da quello procedente è previsto dalle norme

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(che ne richiedono il concerto, intesa, parere, nulla osta e simili) ma non avviene tempestivamente, dando luogo a un fattore di blocco o di rallentamento del procedimento. La legge n. 241 contiene varie previsioni per rimediare, come il silenzio-assenso tra amministrazioni e la possibilità di chiedere il parere o valutazione tecnica a un’altra amministrazione, oltre a quelli previsti nell’ambito della citata disciplina della conferenza di servizi.

15.6. L’OBBLIGO DI CONCLUDERE IL PROCEDIMENTO La fase successiva è normalmente individuata in quella decisoria. L’emanazione del provvedimento finale è doverosa: in presenza dei presupposti previsti dalle norme, il procedimento deve essere avviato e il provvedimento emanato. A carico dell’amministrazione, quindi, vi sono un obbligo di procedere, cioè di avviare il procedimento, e un obbligo di provvedere, cioè di concluderlo, a patto naturalmente che il provvedimento rientri nella sfera di attribuzione dell’amministrazione stessa. Ciò spiega perché possano esistere provvedimenti “negativi”, come il diniego di un’autorizzazione e la decisione di non irrogare una sanzione. In questi casi, il procedimento si svolge, ma non viene adottata la corrispondente misura positiva: la decisione dell’amministrazione non modifica la realtà giuridica. Ciò dipende da esigenze sia di efficienza dell’amministrazione e di controllo, sia di garanzia dei privati, i quali aspirino a ottenere una misura favorevole (nei procedimenti a iniziativa di parte) o a rimuovere lo stato di incertezza in ordine all’eventuale adozione di una misura sfavorevole (in quelli a iniziativa d’ufficio). Dal punto di vista dei destinatari, il provvedimento espresso è preferibile a quello tacito non solo quando il suo contenuto è favorevole (per esempio, perché l’autorizzazione viene accordata o la sanzione non viene irrogata), ma anche quando esso è sfavorevole, perché contro il provvedimento negativo espresso essi possono esperire i rimedi amministrativi e giurisdizionali. Il rispetto dell’obbligo di provvedere sarebbe difficilmente verificabile, e la sua violazione difficilmente sanzionabile, se non fosse possibile individuare il momento entro il quale il provvedimento deve essere emanato. Per questo la legge stabilisce che, per ogni tipo di procedimento, deve essere stabilito il termine massimo di durata. Fissando i termini dei vari procedimenti, l’amministrazione vincola la propria condotta futura. Nel farlo, essa deve tener conto non solo del tipo di procedimento, ma anche della propria organizzazione: ciò spiega perché lo stesso tipo di procedimento possa avere termini diversi in amministrazioni diverse (delle quali, in ipotesi, l’una abbia

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uffici meglio attrezzati e personale più numeroso). Se l’amministrazione non stabilisce il termine e questo non è stabilito neanche dalle norme che regolano il procedimento, esso è di trenta giorni. La mancata emanazione dell’atto finale costituisce dunque una violazione da parte dell’amministrazione, un inadempimento dell’obbligo di provvedere. Il comportamento inerte dell’amministrazione, in ordine all’emanazione di un atto, è definito silenzio. Può trattarsi del provvedimento o di un atto strumentale: in ogni caso, il risultato è la mancata emanazione del provvedimento e, quindi, la violazione dell’obbligo di provvedere. Le norme e la giurisprudenza si preoccupano in vari modi di rimediare a questo inadempimento: con misure di tipo sostanziale (come il silenzio-assenso) o processuale (come il ricorso contro il silenzio-rifiuto), oltre che con altre (poteri sostitutivi, sanzioni, risarcimenti o indennizzi, semplificazioni procedimentali). Di questi rimedi si tratterà nel capitolo successivo.

15.7. L’ATTO CONCLUSIVO DEL PROCEDIMENTO L’atto conclusivo del procedimento può essere di vario genere: un provvedimento amministrativo (cap. 16), ma anche una dichiarazione di scienza, un atto strumentale o privo di rilevanza esterna, un accordo. L’atto in questione può essere imputabile a un solo soggetto o essere riconducibile a una pluralità di persone, di uffici o di amministrazioni. Come accennato, il procedimento può dare luogo alla conclusione di un accordo, che può anche essere l’atto finale del procedimento: ciò avviene non solo nel caso di accordo sostitutivo con gli interessati, ma anche in numerose ipotesi di accordo tra amministrazioni (cap. 13). Gli accordi con i privati, quando vengono conclusi formalmente (e non si esauriscono nel frequente negoziato informale) sono per lo più volti alla determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento. Sono invece molto rari gli accordi sostitutivi del provvedimento, anche perché la legge richiede per essi una procedura alquanto complessa, con una previa determinazione unilaterale dell’amministrazione, e stabilisce che essi siano motivati (con riferimento, deve ritenersi, sia all’interesse pubblico sia a quello privato). Come riferito in precedenza, a essi si applica, in quanto compatibile, la disciplina del codice civile in materia di contratti. Le pubbliche amministrazioni hanno sempre concluso accordi tra loro: per regolare e coordinare l’esercizio delle rispettive competenze, per realizzare progetti impegnativi, per ottenere economie di scala. È ormai frequente che a questi accordi partecipino anche soggetti privati. La legge n. 241, nel

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prevederli in via generale, dispone anche per essi l’applicabilità della disciplina del codice civile in materia di contratti, in quanto compatibile. Se l’atto finale del procedimento è di un organo collegiale, la sua emanazione richiede un procedimento ad hoc, volto alla formazione della volontà o dell’avviso dell’organo stesso: la giurisprudenza amministrativa ha elaborato una serie di regole sul relativo procedimento, che si aggiungono a quelle poste dalle norme di settore (statuti degli enti pubblici, regolamenti dei singoli organi, norme sui singoli procedimenti) e riguardano principalmente la convocazione dell’organo, la validità dell’adunanza, lo svolgimento dell’adunanza, la deliberazione e l’esternazione di essa. Piuttosto che la volontà o l’opinione di un unico organo, monocratico o collegiale, il provvedimento può esprimere quella di più organi: ciò avviene quando la legge stabilisce che esso sia emanato da più organi congiuntamente (come i decreti interministeriali), da un organo su proposta di un altro organo o amministrazione (per esempio, dal ministro dell’economia e delle finanze su proposta della Banca d’Italia), di concerto o d’intesa con un altro organo o amministrazione (per esempio, da un ministero d’intesa con le regioni interessate), ovvero sia soggetto all’approvazione di un altro organo o amministrazione (per esempio, un atto del comune che debba essere approvato dalla regione), quando sia richiesto un nulla-osta (per esempio, un’autorizzazione che non possa essere accordata senza il nulla-osta della soprintendenza per il patrimonio storico e artistico) o, ancora, in presenza di pareri vincolanti. Va infine osservato che, normalmente, il procedimento non si conclude con l’emanazione dell’atto principale: sono necessari adempimenti ulteriori, come il controllo dell’atto, la sua comunicazione, il pagamento di un tributo, la produzione di un documento, la prestazione di un giuramento. Si parla di fase integrativa dell’efficacia. Il controllo, in particolare, inerisce a questa fase solo se è condizione di efficacia del provvedimento: si parla, in questo caso, di controllo preventivo, che interviene sull’atto già perfetto, cioè completo ed esternato, ma – appunto – non ancora efficace. Quando, invece, il controllo interviene dopo che l’atto ha già prodotto i suoi effetti, si parla di controllo successivo.

15.8. TIPOLOGIA DEI PROCEDIMENTI I procedimenti amministrativi possono essere classificati in vari modi: per materie o funzioni, per amministrazioni procedenti, per parti o destinatari, per grado di complessità e in altri modi ancora. Nessuna classificazione è

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esaustiva, dato che l’ordinamento crea continuamente nuovi tipi di procedimento, ciascun tipo può avere vari sottotipi e i diversi tipi si incrociano tra loro. Piuttosto che proporre una vera tipologia, si può procedere alla descrizione delle principali distinzioni e dei principali tipi. La classificazione più diffusa è quella basata sulla funzione o sugli effetti del provvedimento finale: procedimenti autorizzatori, concessori, ablatori e così via. Indubbiamente, ai diversi tipi di provvedimento possono corrispondere diverse strutture procedimentali: per esempio, nei procedimenti sanzionatori è particolarmente accentuato il profilo del contraddittorio; per quelli concessori è particolarmente importante quello della predeterminazione dei criteri di decisione; in quelli autorizzatori possono essere introdotti elementi di semplificazione che valorizzino la responsabilità del privato, come i già citati istituti del silenzio-assenso e della segnalazione di inizio di attività. Tuttavia, la distinzione rimane basata su caratteri dei provvedimenti e non dei procedimenti, quindi è utile per classificare i primi più che i secondi. Inoltre, essa lascia in ombra i procedimenti che non danno luogo a provvedimenti, ma a contratti, ad atti interni, a operazioni materiali o contabili. Di conseguenza, essa sarà utilizzata in seguito, per esaminare i principali tipi di provvedimento (cap. 17). Un’altra distinzione è quella tra i procedimenti finali, attraverso i quali si svolgono le funzioni amministrative, e i procedimenti strumentali, relativi al funzionamento interno dell’amministrazione. Quelli volti all’emanazione dei principali tipi di provvedimento amministrativo (autorizzazioni, concessioni e simili) sono procedimenti finali. I procedimenti strumentali sono spesso standardizzati, nel senso che possono svolgersi in modo analogo nelle diverse amministrazioni, dato che essi soddisfano esigenze che si pongono in termini analoghi in ciascuna di esse (come quella alla dotazione di personale, all’organizzazione degli uffici, agli acquisti, al controllo sulla spesa). La struttura di quelli finali, ovviamente, dipende invece dalle funzioni delle varie amministrazioni. I procedimenti strumentali hanno a oggetto l’organizzazione amministrativa, il personale o la finanza. Attraverso i procedimenti organizzativi viene esercitata la potestà organizzativa dell’amministrazione: essi servono all’articolazione degli uffici, alla definizione dei rapporti tra essi, alla disciplina del loro funzionamento e così via. I procedimenti di amministrazione del personale sono volti all’emanazione degli atti relativi al rapporto tra l’amministrazione e i dipendenti: assunzioni, promozioni, trasferimenti, irrogazione di sanzioni disciplinari, dimissioni e così via. Attraverso i procedimenti finanziari le amministrazioni spendono il loro denaro: per pagare i propri fornitori, i propri dipendenti, i titolari di borse di studio, i pensionati, i destinatari di sovvenzioni e così via. Si distingue a volte tra procedimenti costitutivi e dichiarativi: i primi sono

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volti alla modificazione della realtà giuridica, quindi danno luogo a dichiarazioni di volontà; i secondi sono volti al suo accertamento, quindi danno luogo a dichiarazioni di scienza. Quelli volti all’emanazione dei principali tipi di provvedimento amministrativo sono procedimenti costitutivi. I procedimenti dichiarativi, invece, si concludono di regola con atti non soggetti, se non in parte, al regime del provvedimento amministrativo: iscrizioni, certificati, verbali, relazioni, notificazioni, avvisi e simili. Alcuni procedimenti sono volti all’emanazione di provvedimenti amministrativi, quindi di atti unilaterali. Altri, a volte definiti procedimenti di concertazione, sono volti alla conclusione di numerosi tipi di accordo: contratti di appalto o concessione, contratti collettivi per la disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici, accordi di programma, convenzioni tra università e ospedali, accordi tra comuni per la gestione congiunta di servizi pubblici, convenzioni tra concedente e concessionario di un servizio pubblico e così via. Va infine osservato che i procedimenti amministrativi nazionali servono spesso allo svolgimento di funzioni amministrative disciplinate dal diritto europeo, secondo il modello dell’«esecuzione indiretta», e possono essere variamente collegati a procedimenti europei o fondersi con essi per formare procedimenti composti, che si svolgono in parte presso amministrazioni nazionali (anche di stati diversi), in parte presso amministrazioni europee. Il procedimento può avere un andamento ascendente (trasmissione della domanda dall’amministrazione nazionale a quella europea), discendente (definizione degli obiettivi o dei criteri a livello europeo e loro attuazione a livello nazionale) o misto (con varie fasi ai due livelli). La disciplina nazionale del procedimento non è ovviamente applicabile alle fasi procedimentali che si svolgono presso l’amministrazione europea. Gli stessi problemi si pongono sempre più spesso, con complicazioni ulteriori, nei rapporti tra le amministrazioni nazionali e quelle internazionali.

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CAPITOLO 16

IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 16.1. Scelte dell’amministrazione e atti amministrativi. – 16.2. La discrezionalità amministrativa. – 16.3. Il provvedimento amministrativo. – 16.4. La struttura. – 16.5. L’esternazione. – 16.6. L’efficacia e l’esecuzione. – 16.7. Le cause di invalidità. – 16.8. Gli effetti dell’invalidità.

16.1. SCELTE DELL’AMMINISTRAZIONE E ATTI AMMINISTRATIVI Si è osservato in precedenza che le norme regolano l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni solo per alcuni aspetti e che, per il resto, essa è rimessa al potere di auto-organizzazione proprio delle amministrazioni stesse, come delle organizzazioni private (cap. 8). Non molto diversamente, l’attività amministrativa è regolata dal diritto solo per alcuni aspetti: per il resto, le norme lasciano alle amministrazioni la possibilità di compiere varie scelte, sul se agire a tutela dell’interesse pubblico e sul come farlo. D’altra parte, si è già osservato che questa attività – non diversamente dall’organizzazione amministrativa – è intensamente regolata dalla legge. Dunque, da un lato, le pubbliche amministrazioni possono compiere varie scelte; dall’altro lato, il modo in cui queste scelte vengono compiute è disciplinato dalle norme. Ciò spiega perché molte scelte dell’amministrazione sono formalizzate e si traducono in atti amministrativi. Naturalmente, non sempre ciò avviene: non avviene, per esempio per le decisioni che i pubblici funzionari e dipendenti compiono nello svolgimento dell’attività materiale (il modo in cui un medico decida di operare un intervento chirurgico o il modo in cui un docente decida di esporre un argomento, le scelte di guida di chi conduce automezzi

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pubblici). Ma avviene molto spesso, soprattutto per consentire il controllo sulle decisioni dell’amministrazione stessa. È per questo che quella degli atti unilaterali è una categoria molto più importante nel diritto amministrativo che nel diritto privato: le decisioni unilaterali dei privati sono formalizzate raramente in atti giuridici (il testamento, la donazione, il recesso da un contratto), mentre quelle delle pubbliche amministrazioni lo sono molto spesso. Naturalmente, non tutti gli atti amministrativi riflettono decisioni dell’amministrazione: molti atti, come pure si è osservato in precedenza (cap. 14), sono vincolati, nel senso che la loro adozione e il loro contenuto sono interamente o quasi interamente imposti dalle norme. Molti atti amministrativi costituiscono adempimento di obblighi derivanti dalla legge (il pagamento di un debito, il rilascio di un certificato). Altri esprimono un giudizio piuttosto che una volontà. Ma molti altri riflettono scelte, che possono avere un rilievo interno o esterno.

16.2. LA DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA L’attività amministrativa, in effetti, contempla continuamente il compimento di scelte tra più soluzioni compatibili con il dato normativo. Per esempio, in presenza di un edificio pericolante occorre: interpretare le norme, se non altro per individuare l’ufficio competente; valutare il rischio di crollo; individuare una misura, per esempio scegliendo tra demolizione e restauro; decidere se concedere un finanziamento per l’eventuale restauro; adottare eventuali misure temporanee, come la chiusura al traffico della strada adiacente; e così via. Si tratta, evidentemente, di scelte molto eterogenee: a volte si tratta di interpretare le norme, operazione spesso non facile; a volte di accertare o apprezzare situazioni di fatto, eventualmente applicando conoscenze specialistiche, le quali possono non condurre a conclusioni certe; a volte di individuare il miglior modo per assicurare il soddisfacimento dell’interesse pubblico o, più esattamente, il bilanciamento dei diversi interessi presi in considerazione dalle norme. In comune c’è il fatto che la decisione adottata è spesso opinabile, essendo difficile o impossibile distinguere la soluzione giusta o migliore da quelle sbagliate o meno buone. Per ciascuno di questi tipi di scelta, si pongono due problemi: quello delle modalità di esercizio della scelta, cioè dei criteri che devono guidare chi la compie; e quello del controllo giurisdizionale su di essa, cioè della possibilità del giudice, di fronte al quale il provvedimento sia impugnato, di sostituire la propria valutazione a quella dell’amministrazione. Per le opzioni interpretative, per esempio, il primo problema si risolve

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applicando le norme contenute nelle preleggi e, per quanto riguarda il secondo, è ovvio che l’interpretazione delle norme spetta al giudice non meno che all’amministrazione. Molto meno semplici sono le soluzioni per quanto riguarda le scelte, per così dire, squisitamente amministrative, cioè relative al miglior modo di curare l’interesse pubblico: se, per esempio, le norme attribuiscono a una pubblica amministrazione la decisione sulla localizzazione di un ospedale, sul tracciato di un’autostrada, sulla chiusura al traffico del centro cittadino o sulla concessione di finanziamenti alle imprese artigiane, come vanno fatte le relative scelte? E a chi spetta l’ultima parola: all’amministrazione stessa o al giudice? È il problema della discrezionalità amministrativa, che ha diversi aspetti: se emanare un certo provvedimento (discrezionalità nell’an), quando emanarlo (nel quando), con quale contenuto (nel quid), come esternarlo e quali elementi accidentali inserirvi (nel quomodo). Naturalmente, non è che questi diversi tipi di valutazione amministrativa siano sempre presenti: la discrezionalità nell’an, per esempio, spesso manca, perché, in presenza dei presupposti di legge, l’emanazione del provvedimento è obbligata (non si può rifiutare il rilascio di un diploma universitario a chi abbia sostenuto tutti gli esami e pagato tutte le tasse; accertato un illecito, non si può fare a meno di irrogare la sanzione). Anche la discrezionalità nel quando è di regola molto limitata per via della previsione di un termine del procedimento, di cui si è riferito nel capitolo precedente. Le altre due forme di discrezionalità hanno intensità molto variabile. Per quanto riguarda il primo dei due problemi indicati, sulla natura della discrezionalità si sono avute diverse teorie, poi si è imposta quella che la descrive come ponderazione dei vari interessi secondari, pubblici e privati, sui quali la scelta dell’amministrazione incide, con un interesse primario, che è quello per il quale all’amministrazione è attribuito il potere amministrativo. Alla base di questa tesi vi è la considerazione che gli interessi pubblici non hanno un’esistenza isolata, nel senso che la loro realizzazione coincide normalmente con la realizzazione o con il sacrificio di altri interessi, pubblici e privati: la costruzione di un ospedale, per esempio, incide non solo sugli interessi relativi alla sanità, ma anche su altri interessi pubblici (come quelli relativi all’assetto urbanistico e alla viabilità, alla finanza, all’occupazione) e privati (come quelli del proprietario dell’area sulla quale l’ospedale viene costruito o dei proprietari confinanti e quelli delle strutture sanitarie private della zona). Se le norme non dispongono diversamente, l’amministrazione, nel compiere la scelta, deve considerare non soltanto l’interesse primario, ma anche gli altri interessi che l’ordinamento considera meritevoli di tutela. Per quanto riguarda il secondo problema – quello del controllo sulla scel-

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ta dell’amministrazione – anche se nel linguaggio comune discrezionalità è sinonimo di libertà, nel diritto amministrativo non è così. La soluzione, sviluppata in Italia come in altri ordinamenti dalla giurisprudenza amministrativa, è il ricorso a regole logiche o di comune esperienza, oggettive e verificabili (come quelle della parità di trattamento, della logicità, della completezza dell’istruttoria, dell’esatta rappresentazione dei fatti). La loro violazione è sintomatica del cattivo svolgimento della funzione, quindi determina l’illegittimità del provvedimento e il suo annullamento. Si tratta di regole non previste dalle norme, ma elaborate nel tempo dalla stessa giurisprudenza, per dare contenuto alla figura dell’eccesso di potere, che è un vizio del provvedimento, del quale si tratterà tra breve. Attraverso il sindacato per eccesso di potere, quindi, il giudice non sostituisce la propria valutazione a quella dell’amministrazione, ma controlla che la seconda si sia formata correttamente. Diverse dalle scelte relative a interessi, almeno concettualmente, sono quelle relative all’applicazione di conoscenze specialistiche: per esempio, stabilire se una sostanza è pericolosa, se un farmaco è sicuro ed efficace, se una miniera è coltivabile, se un edificio è di interesse storico e artistico, se un messaggio pubblicitario è ingannevole, se uno studente è preparato. Si parla, in questi casi, di discrezionalità tecnica, in evidente simmetria con quella amministrativa. Per queste scelte il primo dei due aspetti prima individuati non è problematico, dato che le regole da applicare sono ovviamente quelle di una disciplina specialistica (la chimica, la medicina, la geologia, la storia dell’arte e così via). Lo è, invece, il secondo aspetto: le valutazioni tecniche operate dalla pubblica amministrazione sono sindacabili da parte del giudice, dato che non si tratta dell’apprezzamento di interessi pubblici? O non lo sono, dato che la decisione del giudice (o dell’esperto da lui nominato) non sarebbe meno opinabile di quella dell’amministrazione (che ha i suoi esperti)? Sul punto, gli studiosi sono divisi e la giurisprudenza è alquanto oscillante. Il problema del controllo giurisdizionale è complicato dal fatto che spesso valutazioni amministrative di tipi diversi sono compresenti e intrecciate. Si pensi alle decisioni relative all’immissione in commercio di farmaci o di prodotti alimentari ovvero allo scarico nell’ambiente di rifiuti contenenti organismi geneticamente modificati: spesso è difficile raggiungere certezze scientifiche in ordine alle qualità e ai rischi dei prodotti e delle sostanze in questione e ciò costringe le autorità pubbliche a operare, insieme alle valutazioni tecniche, delicate scelte relative alla tutela degli interessi.

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16.3. IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO Dunque, molti atti dell’amministrazione, ma non tutti, riflettono scelte. In assenza di definizioni normative, bisogna fare riferimento all’uso normale nella giurisprudenza e nella letteratura. Quella degli atti amministrativi è normalmente intesa come una categoria ampia, comprensiva di tutti gli atti unilaterali della pubblica amministrazione (o, più restrittivamente, di quelli soggetti a una disciplina diversa da quella privatistica). La categoria più ristretta è quella dei provvedimenti amministrativi, che sono atti di esercizio di poteri amministrativi, produttivi di effetti giuridici anche nei confronti di soggetti diversi dall’amministrazione emanante. Il provvedimento amministrativo è tradizionalmente considerato l’atto tipico di esplicazione delle funzioni amministrative. In Italia fino al 2005 la relativa disciplina era frammentaria, risultando da varie regole stratificatesi nel tempo, in parte contenute nella Costituzione (art. 113) e nelle leggi (sulla giustizia amministrativa e sul procedimento), in parte elaborate dalla giurisprudenza, spesso in applicazione di princìpi costituzionali o del diritto europeo. Mancava una definizione normativa di provvedimento. A partire dal 2005 vi è una disciplina legislativa generale del provvedimento, che in gran parte recepisce regole elaborate dalla giurisprudenza (Capo IV-bis della legge n. 241 del 1990). Questa disciplina può essere integrata dalla legislazione regionale, la quale, peraltro, difficilmente può intervenire sui caratteri e sulle norme fondamentali, che derivano in buona parte da princìpi costituzionali o europei e sono strettamente connessi a questioni rientranti nella potestà legislativa esclusiva dello Stato. Nonostante la disciplina legislativa, continuano a essere proposte tante diverse definizioni del provvedimento amministrativo. La legge, infatti, non definisce la nozione di provvedimento, ma la presuppone. Essa, quindi, continua a porre il problema di questa nozione, piuttosto che risolverlo. Continua a essere incerta l’inclusione, nella nozione, di atti come i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti dichiarativi, gli atti di controllo, le determinazioni conclusive delle conferenze di servizi, gli atti del commissario ad acta, quelli del concessionario di servizi o lavori pubblici, quelli impugnabili dinanzi a giudici diversi dal giudice amministrativo e così via. In effetti, l’assenza di una definizione legislativa rende arbitraria ogni definizione e la sussistenza di atti, che sono soggetti solo parzialmente al relativo regime giuridico, inducono a ritenere che la nozione continui a essere imprecisa e ad avere confini elastici. Tutto ciò che si può dire è che il legislatore vuole che, di regola, quando la legge attribuisce a una pubblica amministrazione il potere di curare un in-

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teresse pubblico, emanando un atto produttivo di effetti giuridici anche nei confronti di altri soggetti: questo potere sia esercitato attraverso un procedimento, soggetto alla disciplina legislativa posta nel 1990; questo procedimento si concluda con un provvedimento motivato e soggetto alle norme poste nel 2005; e questo provvedimento sia impugnabile dinanzi al giudice amministrativo e soggetto alle altre previsioni in materia di giustizia amministrativa. Da ciò derivano i seguenti caratteri: l’unilateralità, la tipicità, l’emanazione a seguito di un procedimento, la motivazione, la soggezione a controlli amministrativi, la sindacabilità per eccesso di potere, l’impugnabilità dinanzi a un giudice (di regola quello amministrativo), l’immediata produzione di effetti (per cui l’invalidità del provvedimento dà luogo di regola ad annullabilità e non a nullità), la ricorribilità in sede contenziosa, l’annullabilità d’ufficio, la revocabilità, il divieto di annullamento a carico del giudice ordinario e la disapplicabilità da parte di questo giudice. Alcuni di questi caratteri (come l’unilateralità e la tipicità) dipendono semplicemente dal fatto che il provvedimento è atto di esercizio di un potere. Altri (come la sindacabilità per eccesso di potere e la revocabilità) dipendono dal fatto che esso è atto di svolgimento di una funzione. Questi princìpi e questi caratteri, in assenza di previsioni diverse, sono propri degli atti di esercizio di poteri amministrativi. Essi, peraltro, non consentono di delimitare con precisione l’ambito della nozione di provvedimento, sia per l’imprecisione di molti dei concetti utilizzati (a cominciare da quello di pubblica amministrazione), sia perché alcuni atti, normalmente inclusi nella nozione di provvedimento, presentano solo alcuni di questi caratteri. In definitiva, l’importante non è stabilire se un atto è un provvedimento, ma stabilire a quali poteri ed entro quali limiti si applica il regime giuridico, sintetizzato da questa espressione e risultante dalle norme e dai princìpi indicati.

16.4. LA STRUTTURA L’analisi strutturale del provvedimento serve soprattutto a risolvere alcuni casi in cui si pone un problema di esistenza del provvedimento. Spesso, infatti, occorre stabilire se un provvedimento amministrativo esiste, cioè se una certa dichiarazione può essere considerata un efficace esercizio del relativo potere amministrativo. È un problema distinto da quello della validità: un provvedimento può ben essere esistente, cioè riconoscibile come tale, ma invalido, in quanto la fattispecie concreta è difforme dalla previsione normativa, ma non a tal punto da impedire di ricondurla a essa. A volte, però, la

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difformità è talmente grave da rendere la fattispecie concreta non riconoscibile come provvedimento: ciò avviene, appunto, quando manca un requisito essenziale. Occorre, dunque, esaminare alcuni aspetti problematici legati alla struttura dell’atto e, in particolare: al soggetto, ai presupposti, alla volontà e ai motivi, al contenuto. Il soggetto che emana il provvedimento amministrativo è di regola una pubblica amministrazione, ma questa semplice affermazione è in effetti molto problematica: il regime del provvedimento è parzialmente applicabile ad alcuni atti emanati da soggetti privati (come i concessionari). I presupposti del provvedimento sono le circostanze di fatto e le situazioni giuridiche che ne consentono l’emanazione: per esempio, la domanda dell’interessato per il rilascio di un’autorizzazione, la commissione di un illecito e il mancato decorso di un certo termine per l’irrogazione di una sanzione. La sussistenza di un presupposto può ovviamente essere oggetto di apprezzamento discrezionale o di valutazione tecnica. La volontà del contenuto dell’atto è una volontà “procedimentale”, perché si forma progressivamente e, per lo più, risulta dall’apporto di diversi soggetti nel corso del procedimento. Se la volontà manca, non vi è un provvedimento; se, invece, la volontà è viziata, un provvedimento è identificabile. Tuttavia, l’unilateralità del provvedimento e la sua normale forma scritta fanno sì che difficilmente per esso si ponga il problema dell’assenza di volontà. Inoltre, a differenza di quanto avviene per il contratto, i vizi della volontà, in quanto tali, non rilevano in ordine alla validità del provvedimento, se non in quanto si traducano in un suo vizio tipico. Il contenuto del provvedimento può essere il più vario. È, ovviamente, un elemento necessario, in assenza del quale (per esempio, se manca l’indicazione dell’attività autorizzata o del bene espropriato) non vi è alcun provvedimento. L’assenza e l’indeterminabilità del contenuto, in effetti, sono solo ipotesi teoriche, ma la nozione è rilevante per vari altri aspetti: per esempio, per l’identificazione del potere esercitato; per valutare la tempestività di un ricorso giurisdizionale (dato che il termine può decorrere dalla conoscenza del contenuto del provvedimento da parte del ricorrente); per verificare se il provvedimento è affetto da eccesso di potere per disparità di trattamento o per contraddittorietà tra provvedimenti (figure che implicano il confronto tra il contenuto di provvedimenti diversi). Possono aversi provvedimenti con contenuto negativo, come il diniego di un’autorizzazione. Essi sono soggetti allo stesso regime giuridico, anche processuale, del provvedimento positivo: per esempio, devono essere motivati e possono essere annullati dal giudice amministrativo su richiesta di chi aspiri a un provvedimento (positivo) favorevole.

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16.5. L’ESTERNAZIONE Come ogni atto giuridico, il provvedimento deve avere un’esternazione: perché l’atto esista, non basta che vi sia la volontà di emanarlo, ma è necessario che essa venga manifestata. Non vi sono regole generali che impongano una determinata forma di esternazione, quindi si afferma normalmente il principio della libertà delle forme di esternazione. Tuttavia, la forma normale è senz’altro quella scritta, che è di fatto imposta, tra l’altro, dall’obbligo di motivazione. La legge stabilisce che gli atti amministrativi sono di norma predisposti tramite sistemi informativi automatizzati e ammette anche la possibilità che l’emanazione del provvedimento, cioè la formazione del suo contenuto, avvenga mediante sistemi informatici o telematici: è il c.d. atto amministrativo informatico. Una parte necessaria dell’esternazione del provvedimento è la motivazione. La legge precisa che essa deve indicare «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche» del provvedimento. La legge adotta, quindi, una nozione ampia di motivazione, comprensiva anche della motivazione in senso stretto (esternazione dei motivi) e della giustificazione (esternazione dei presupposti, comprese le norme applicate, e dei fatti di legittimazione). In secondo luogo, da essa devono emergere «le risultanze dell’istruttoria»: di quest’ultima la motivazione deve essere una sintesi. La legge, quindi, si preoccupa non solo che – dal punto di vista formale – la motivazione, come parte dell’esternazione del provvedimento, vi sia, ma anche che – dal punto di vista sostanziale – essa corrisponda a quanto emerso nel corso del procedimento e, quindi, che la decisione racchiusa nel provvedimento sia la corretta conclusione del procedimento stesso. In altri termini, essa si preoccupa non solo che i motivi siano espressi, ma anche che essi siano fondati. È naturale, peraltro, che il grado di analiticità e di esaustività della motivazione dipenda dal tipo di provvedimento. La giurisprudenza sulla motivazione oscilla tra una concezione formalista, che la induce a richiedere che la motivazione vi sia, cioè che i motivi siano espressi, e una concezione sostanzialista, che la induce a concentrarsi sui motivi piuttosto che sulla loro espressione. In base al primo approccio, per esempio, essa tende a escludere che i voti riportati dai candidati negli esami e nei concorsi pubblici debbano essere motivati. L’attribuzione del voto da parte della commissione, infatti, pur essendo la vera decisione in ordine alla promozione o alla bocciatura, non è formalmente il provvedimento, ma un atto strumentale: a dover essere motivato, con riferimento ai voti riportati, è il provvedimento finale, per esempio l’approvazione della graduatoria. In base al secondo approccio, la giurisprudenza ammette a volte che la motiva-

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zione, carente al momento dell’emanazione del provvedimento, possa essere integrata successivamente, anche di fronte al giudice dinanzi al quale il provvedimento sia stato impugnato. La legge ammette che la motivazione rinvii a un altro atto dell’amministrazione, dal quale risultino le ragioni della decisione: per esempio, il diniego di permesso di costruire può essere motivato rinviando al parere negativo della commissione edilizia (c.d. motivazione per relationem). In questo caso, tuttavia, l’atto in questione deve essere indicato e reso disponibile, consentendovi l’accesso. Il provvedimento deve anche essere comunicato agli interessati, in forma individuale (notificazione) o collettiva (pubblicazione, alla quale si ricorre se gli interessati sono numerosi o non sono determinabili). D’altra parte, poiché la comunicazione non attiene alla formazione del provvedimento, ma ha a oggetto un provvedimento già perfetto, la violazione dell’obbligo di comunicarlo è sanzionata dall’ordinamento non con l’illegittimità del provvedimento (la cui legittimità va valutata con riferimento al momento della sua emanazione), ma in altri modi: in primo luogo, con il mancato decorso del termine di impugnazione. Non è una forma di esternazione il c.d. silenzio della pubblica amministrazione, cioè il suo comportamento inerte in ordine all’emanazione di un atto. Esso determina mancata emanazione del provvedimento e, quindi, la violazione dell’obbligo di provvedere. Le norme e la giurisprudenza si preoccupano in vari modi di rimediare a questo inadempimento: con misure di tipo sostanziale (come il silenzio-assenso) o processuale (come il ricorso contro il silenzio-rifiuto), oltre che con altre meno rilevanti in questa sede (poteri sostitutivi, sanzioni, risarcimenti o indennizzi, semplificazioni procedimentali). Per i procedimenti a iniziativa d’ufficio, che si concludono con provvedimenti sfavorevoli per il destinatario, il problema di tutela dell’interessato è ovviamente minore, anche perché, in molti casi, i provvedimenti in questione non possono più essere emanati dopo il decorso di un certo termine: per esempio, vi sono termini per la notificazione delle sanzioni amministrative. Il problema si pone, quindi, essenzialmente per i procedimenti a iniziativa di parte, nei quali il silenzio prolunga una situazione di mancato soddisfacimento dell’interesse del privato. Per i procedimenti a istanza di parte, la soluzione più soddisfacente per il richiedente è quella di ricollegare al decorso del termine la produzione degli effetti del provvedimento richiesto: è il silenzio-assenso. Esso, come è facile intuire, è utilizzabile solo per alcuni provvedimenti: quelli il cui contenuto sia facilmente determinabile anche in assenza di una pronuncia dell’autorità competente alla sua adozione. Si tratta, in sostanza, di procedimenti a iniziativa di

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parte, nei quali la discrezionalità dell’amministrazione è assente o molto limitata e il provvedimento amministrativo ha essenzialmente una funzione di controllo in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalle norme per la produzione di un certo effetto giuridico. L’ambito di applicazione del silenzioassenso, dunque, è dato soprattutto dai procedimenti autorizzatori. Più naturale, anche se meno favorevole all’interessato, è la soluzione inversa, quella di desumere dal silenzio la volontà dell’amministrazione di non emanare il provvedimento (positivo) richiesto, equiparandolo al provvedimento negativo. È il silenzio-rifiuto, che si ha quando le norme equiparano esplicitamente il silenzio al provvedimento negativo, stabilendo per esempio che il mancato rilascio di un’autorizzazione entro un certo termine deve intendersi come diniego di autorizzazione o che il mancato accoglimento di un ricorso equivale al suo rigetto: si parla, appunto, nel primo caso di silenziodiniego, nel secondo di silenzio-rigetto, in entrambi di silenzio significativo negativo (contrapposto al silenzio significativo positivo, che è il silenzio-assenso). L’equiparazione è comunque utile per l’interessato, che contro il silenzio potrà rivolgersi al giudice amministrativo. In assenza di norme esplicite, il silenzio dell’amministrazione a fronte di una domanda del privato costituisce inadempimento di un obbligo (si parla, appunto, di silenzio-inadempimento), contro il quale l’interessato può ricorrere al giudice amministrativo. Il giudice potrà accertare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere, cioè di emanare un provvedimento esplicito (che, se negativo, potrà essere impugnato dall’interessato dinanzi allo stesso giudice amministrativo). Se, nonostante l’accertamento del giudice, l’amministrazione rimanga inerte, l’interessato potrà rivolgersi nuovamente al giudice amministrativo avviando un giudizio di ottemperanza (cap. 20), in esito al quale il giudice potrà adottare il provvedimento richiesto, sostituendosi all’amministrazione, o nominare un commissario che lo faccia.

16.6. L’EFFICACIA E L’ESECUZIONE Gli effetti giuridici del provvedimento non sono diversi da quelli di altri atti giuridici: si tratta della costituzione, modifica o estinzione di situazioni giuridiche. Come ogni atto di esercizio di un potere, il provvedimento modifica la realtà giuridica: imponendo obblighi, attribuendo o trasferendo diritti e così via. Come quelli degli altri atti giuridici, gli effetti del provvedimento possono essere i più vari. I singoli tipi di provvedimento si differenziano, appunto, in base ai loro effetti giuridici. Gli effetti del provvedimento costituiscono modificazioni della realtà giu-

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ridica, quindi si producono nei confronti di chiunque: non vi sono “terzi”, come nel contratto. Tuttavia, la maggior parte dei provvedimenti incide solo o prevalentemente sugli interessi di determinati soggetti, che ne sono i principali interessati. Può trattarsi di un unico soggetto o di una pluralità: nella seconda ipotesi, si distingue tra atti generali, collettivi e plurimi. Gli atti generali, come un bando di concorso, sono rivolti a un gruppo non determinato di individui, ma hanno contenuto unitario: di conseguenza, il loro annullamento determina il venire meno dei loro effetti nei confronti di tutti gli interessati. Anche gli atti collettivi, come lo scioglimento di un consiglio comunale, hanno un contenuto unitario, ma gli interessati sono determinati o determinabili: in realtà, vi è un unico destinatario, costituito da una pluralità organizzata di altre figure soggettive, come un corpo collettivo o un organo collegiale; anche in questo caso, l’annullamento elimina gli effetti per tutti gli interessati. Gli atti plurimi, come un provvedimento che irroga una sanzione a diversi soggetti, invece, sono scindibili in tanti provvedimenti quanti sono gli interessati: vi è, in effetti, una pluralità di provvedimenti, aventi contenuto identico e interessati diversi, esternati unitariamente; l’annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo va a beneficio dei soli destinatari che lo abbiano impugnato, mentre esso rimane efficace nei confronti degli altri. Gli effetti del provvedimento sono, naturalmente, limitati nello spazio e nel tempo. Per quanto riguarda lo spazio, l’efficacia di molti provvedimenti trova un limite naturale nei confini dello Stato. A volte, questo limite è dato piuttosto dai confini dell’Unione Europea, a causa di princìpi come le libertà di circolazione e di tecniche di integrazione come il mutuo riconoscimento. L’ambito territoriale di competenza dell’autorità emanante, invece, solo in alcuni casi costituisce un limite all’efficacia del provvedimento. Per quanto riguarda il tempo, occorre considerare sia il momento dell’inizio degli effetti, sia quello della loro cessazione. Il primo coincide, in linea di principio, con quello dell’emanazione del provvedimento, in pratica con l’esternazione, ma alcuni tipi di provvedimento sono naturalmente retroattivi (così gli atti di controllo, di annullamento e di convalida). Al di là di queste ipotesi, la giurisprudenza tende a escludere che il provvedimento possa essere retroattivo, a meno che arrechi un vantaggio all’interessato o si tratti di legittimare una situazione di fatto corrispondente a una imprescindibile necessità pubblica. Il problema della cessazione degli effetti si pone solo per i provvedimenti a effetti durativi, come gli atti normativi, i piani urbanistici e le autorizzazioni commerciali, non per quelli a effetti istantanei, come le espropriazioni e le sovvenzioni. La cessazione può essere automatica, derivando per esempio dal decorso del termine finale, o volontaria, derivando da un atto come la revoca.

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L’esecuzione del provvedimento si distingue dalla sua efficacia in quanto si tratta di un’attività ulteriore, di concretizzazione dell’effetto giuridico o di adeguamento a esso della realtà di fatto. Non tutti i provvedimenti amministrativi richiedono un’esecuzione: non la richiedono, per esempio, i provvedimenti negativi e quelli dichiarativi. La richiedono i provvedimenti dai quali sorgono obblighi, come quello di espulsione e gli atti di imposizione tributaria. Non tutte le attività logicamente conseguenti al provvedimento costituiscono esecuzione di esso: non lo è, per esempio, lo svolgimento dell’attività autorizzata, dato che lo scopo del provvedimento (rendere lecita l’attività autorizzata) è raggiunto con la sua emanazione. L’esecuzione può competere all’amministrazione stessa o ad altri soggetti e può consistere nel compimento di sola attività materiale (come nel caso del provvedimento di occupazione d’urgenza o dell’ordine di demolizione), o anche di atti giuridici (come nel caso del bando di concorso o di gara). Per i provvedimenti che richiedono un’esecuzione può porsi il problema dell’esecuzione forzata, che consiste nell’esecuzione del provvedimento contro la volontà dell’interessato, in presenza di un conflitto. L’esecutorietà è il carattere dei provvedimenti suscettibili di esecuzione forzata: come si è osservato in precedenza (cap. 3), in virtù del principio di legalità essa può aversi se prevista dalla legge.

16.7. LE CAUSE DI INVALIDITÀ Un potere, come si è ricordato in precedenza (cap. 14), è uno strumento di produzione di effetti giuridici. Perché l’ordinamento riconosca gli effetti prodotti dall’atto di esercizio di un potere, è necessario che esso sia conforme alle norme che lo regolano, che sia esercitato correttamente. Di conseguenza il provvedimento amministrativo, come ogni atto di esercizio di un potere, è soggetto a una valutazione di validità, il cui parametro è dato dalle norme che attribuiscono il potere e ne disciplinano l’esercizio. Invalido è il provvedimento affetto da un vizio (cioè da una difformità rispetto al modello delineato da queste norme) al quale l’ordinamento riconosce rilevanza. Occorre dunque considerare le difformità del provvedimento rispetto allo schema normativo (cioè le cause di invalidità) e le loro conseguenze (cioè gli effetti dell’invalidità). Quando l’ordinamento attribuisce un potere a un soggetto, esso ricollega al valido esercizio di quel potere la produzione di determinati effetti giuridici. Naturalmente, questi effetti si producono se il potere è validamente esercitato, cioè se l’atto è conforme alle norme che attribuiscono il potere e ne

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regolano l’esercizio. Ciò pone sempre due problemi: quando un certo atto è un valido esercizio del potere? E che cosa succede se non lo è? Il primo problema è quello dell’individuazione dei vizi rilevanti, cioè delle difformità abbastanza gravi da rendere l’atto invalido. La brutta grafia, le improprietà di linguaggio e la presenza di un errore di battitura, che non lascino dubbi sul contenuto dell’atto, certamente non sono difformità rilevanti; l’esercizio del potere da parte di un soggetto che non ne è titolare (il consiglio comunale che voglia emanare una legge, il cancelliere del tribunale che voglia emettere una sentenza, il vicino di casa che voglia espropriare un appartamento per pubblica utilità) certamente lo è; al di là di questi casi estremi, l’individuazione dei vizi rilevanti può non essere facile. L’invalidità del provvedimento deriva dalla violazione di norme giuridiche: coincide, quindi, con l’illegittimità. Vizi di legittimità, infatti, sono tradizionalmente definiti i tre vizi del provvedimento individuati dalla legge: incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. I vizi di legittimità sono tradizionalmente contrapposti ai c.d. vizi di merito (o di opportunità), derivanti dall’inopportunità, cioè dalla non corrispondenza all’interesse pubblico. Il provvedimento, in altri termini, può essere perfettamente legittimo, perché conforme alle norme, ma inopportuno, perché inutile o dannoso. Il giudizio sull’opportunità del provvedimento, peraltro, è inevitabilmente arbitrario e opinabile: una certa decisione può sembrare giusta a qualcuno e sbagliata a qualcun altro. Ciò spiega perché l’inopportunità del provvedimento amministrativo sia di regola irrilevante. Quindi i vizi di merito non sono veri e propri vizi, perché non vi sono regole la cui violazione possa essere verificata. Ciò non vuol dire che il provvedimento non debba essere opportuno, ma che l’opportunità non è verificabile, se non attraverso regole di metodo e di esperienza come la coerenza, la logicità e la ragionevolezza: simili regole, elaborate dal giudice amministrativo, sono state attratte nel sindacato di legittimità attraverso la figura dell’eccesso di potere. Il giudice amministrativo, infatti, ha gradualmente imposto alle pubbliche amministrazioni il rispetto non solo delle norme scritte, ma anche di princìpi e regole generali, da esso stesso elaborati, tendenti ad assicurare la logicità e la ragionevolezza dell’azione amministrativa e a favorire l’effettiva realizzazione dell’interesse pubblico. Lo ha fatto attraverso il più ambiguo dei tre vizi indicati dalla legge, l’eccesso di potere: dovendo, da un lato, dare contenuto a questa figura e, dall’altro, sforzarsi di assicurare il corretto perseguimento dell’interesse pubblico da parte dei provvedimenti, il giudice ha ricondotto all’eccesso di potere – e, quindi, all’illegittimità – le anomalie non costituenti violazione di norme scritte, ma suscettibili di valutazione oggettiva e non opinabile. In questo modo, la natura funzionale del provvedimento e il vincolo di scopo

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che caratterizza il suo regime giuridico, cioè il dover perseguire l’interesse pubblico, acquistano rilievo giuridico. L’eccesso di potere costituisce uno dei tratti più caratteristici del regime giuridico del provvedimento amministrativo e, in particolare, del suo schema di validità. Si tratta di una conseguenza della natura funzionale dell’attività amministrativa: perché il potere amministrativo venga validamente esercitato, non è sufficiente che tutte le norme che lo riguardano siano rispettate, ma è altresì necessario che le scelte riservate all’amministrazione siano fatte in modo da assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico. La figura dell’eccesso di potere consente di verificare questo secondo aspetto: non si tratta di sindacare le scelte dell’amministrazione o di assicurare che quanto disposto dal provvedimento sia il miglior possibile rimedio alla situazione preesistente, in quanto ciò comporterebbe la sostituzione di una scelta con un’altra (in ciò consiste il controllo di merito); si tratta, piuttosto, di controllare che, nel processo di formazione e di attuazione di quelle scelte, non vi siano circostanze che dimostrino, o inducano a ritenere, che l’interesse pubblico non è stato correttamente perseguito. La genericità della previsione legislativa relativa all’eccesso di potere e l’impossibilità di ricondurre le ipotesi di eccesso di potere a norme scritte hanno indotto la giurisprudenza a operare il sindacato per eccesso di potere attraverso figure sintomatiche corrispondenti a regole il cui rispetto è facilmente verificabile. La circostanza che queste regole siano state elaborate con riferimento a casi in cui esse erano state violate, ha fatto sì che esse venissero enunciate in forma negativa (il-logicità, dis-parità di trattamento, in-giustizia manifesta, difetto di istruttoria e così via). Per gli altri due vizi di legittimità del provvedimento il discorso può essere più breve. All’incompetenza vengono normalmente ricondotti i vizi relativi al soggetto. Vi rientra, in primo luogo, il caso in cui il provvedimento sia stato emanato da un organo diverso da quello competente, nell’ambito della stessa amministrazione: per esempio, dal sindaco invece che dal consiglio comunale, dall’assessore invece che dalla giunta regionale. Nell’espressione violazione di legge, il termine “legge” indica genericamente le norme giuridiche che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo, comprese quelle consuetudinarie. La violazione di legge può derivare dalla violazione di norme procedimentali, dall’assenza dei presupposti necessari per l’adozione del provvedimento o dall’errata valutazione degli stessi, da vizi dell’esternazione, dalla violazione di espliciti divieti contenuti nelle norme e così via.

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16.7. GLI EFFETTI DELL’INVALIDITÀ Il secondo problema menzionato è quello delle conseguenze dei vizi rilevanti, cioè di come l’ordinamento reagisce all’invalidità. Una legge contraria alla Costituzione, una sentenza contraria alla legge, un contratto concluso con dolo sono sicuramente invalidi. Ma che cosa ne consegue? L’invalidità impedisce loro di produrre effetti? La soluzione più naturale, in astratto, è quella di ricondurre la produzione degli effetti solo al valido esercizio del potere: l’atto invalido è qualcosa di diverso da quello (valido) al quale l’ordinamento ricollega detti effetti, quindi non li produce. È lo schema della nullità. Tuttavia, l’ordinamento persegue la corrispondenza tra inefficacia e invalidità con intensità variabile, anche perché essa si scontra con esigenze opposte, legate alla certezza dei rapporti giuridici e alla conservazione dei valori giuridici: esigenze particolarmente forti per gli atti di diritto pubblico. Non a caso, il normale regime di invalidità delle leggi e delle sentenze è quello dell’annullabilità e non quello della nullità: la legge contraria alla Costituzione e la sentenza contraria alla legge producono i loro effetti fino a quando vengano annullate o riformate (diverso è il regime di invalidità del contratto: la nullità è la regola per il caso di violazione di norme, i casi di annullabilità le eccezioni). Il regime di invalidità del provvedimento amministrativo è analogo a quello della legge e della sentenza: l’annullabilità è la regola, la nullità l’eccezione. Da un lato, l’ordinamento tende a mantenere la corrispondenza tra validità ed efficacia e, quindi, a garantire gli effetti giuridici dei soli provvedimenti validi. Per realizzare questo risultato, esso attribuisce a vari organi (tra i quali la stessa amministrazione) il potere di annullare i provvedimenti invalidi. Dall’altro, le esigenze di certezza dei rapporti e conservazione dei valori giuridici fanno sì che, fino al suo annullamento, il provvedimento efficace, anche se illegittimo, debba essere applicato, anche dai soggetti titolari del potere di annullarlo, come l’amministrazione stessa e il giudice. La corrispondenza tra validità ed efficacia, quindi, non è una necessità, ma è una possibilità offerta dall’ordinamento agli interessati, che possono chiedere l’annullamento del provvedimento invalido. L’annullamento – sia quello giurisdizionale, sia quello d’ufficio – opera retroattivamente, facendo venire meno gli effetti del provvedimento, compresi quelli già prodotti. Esso può essere parziale, riguardando solo una parte del contenuto del provvedimento. L’annullamento impone, poi, di eliminare le conseguenze materiali del provvedimento: per esempio, di restituire il bene in seguito all’annullamento dell’occupazione d’urgenza. In seguito al-

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l’annullamento, l’amministrazione rimane titolare del potere amministrativo, che può nuovamente essere esercitato. Per il provvedimento amministrativo invalido, dunque, l’ordinamento opta decisamente per lo schema dell’annullabilità, a differenza di quanto fa per il contratto, per il quale alla violazione di norme imperative corrisponde la nullità. Tuttavia, la regola ammette eccezioni: come per il contratto vi sono ipotesi di annullabilità, così per il provvedimento vi sono ipotesi di nullità. In presenza di un potere amministrativo, possono sorgere incertezze e controversie di due tipi: quelle relative alle modalità del suo esercizio e quelle relative alla sua esistenza. In altri termini, può capitare che un potere sia esercitato violando le norme che lo disciplinano; ma può capitare anche che venga esercitato un potere inesistente (come il potere di condannare a morte o di imporre un credo religioso; o, più realisticamente, di espropriare un bene al di fuori dei casi previsti dalla legge o di fissare d’autorità un prezzo o una tariffa senza che la legge lo preveda). Per le ipotesi del primo tipo, l’ordinamento può scegliere tra lo schema della nullità e quello dell’annullabilità: come si è visto, per il provvedimento e per gli altri atti dei pubblici poteri sceglie di regola il secondo. Ma, per quelle del primo, non può che comminare l’inefficacia degli atti di esercizio di poteri inesistenti: altrimenti potrebbero acquistare efficacia leggi emanate da un consiglio comunale, sentenze pronunciate dal cancelliere di un tribunale, provvedimenti di espropriazione emessi dal sindaco di un comune lontano dal terreno espropriato o anche dal vicino di casa e quant’altro. In altri termini, la regola dell’annullabilità del provvedimento invalido implica che i vizi del provvedimento non impediscano la produzione dei suoi effetti, almeno provvisoriamente: ma ciò trova un limite nelle ipotesi estreme di difformità dalla previsione normativa, che impediscono di ricondurre la fattispecie concreta a un provvedimento. Alcune di queste cause di nullità sono obbligate, in quanto costituiscono ipotesi in cui l’amministrazione non dispone del potere amministrativo o non lo ha concretamente esercitato: è il caso della c.d. carenza di potere. Altre sono ipotesi di cattivo esercizio del potere amministrativo, che tollererebbero la soluzione dell’annullabilità, ma per le quali – a causa della gravità della violazione – l’ordinamento commina eccezionalmente la nullità: per esempio, quando il provvedimento è emanato in violazione o elusione del giudicato (ipotesi nella quale la nullità serve anche a evitare che il soggetto interessato, che presumibilmente ha già ottenuto una sentenza favorevole, debba rivolgersi al giudice una seconda volta). Non è una forma di invalidità, invece, l’irregolarità, che è la condizione del provvedimento caratterizzato da una difformità, rispetto allo schema normativo, il cui rilievo non è tale da viziare il provvedimento. A essa la giurisprudenza fa spesso riferimento proprio per evitare l’annullamento di atti

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la cui anormalità non sia tale da pregiudicare gli interessi tutelati dalle norme. Si tratta di una figura non prevista dalle norme, ma applicata dalla giurisprudenza soprattutto per anomalie relative all’esternazione (difetto dell’intestazione; mancata indicazione della data o del numero di protocollo; errore nella citazione dei testi normativi o nell’indicazione degli atti preparatori; inesatta indicazione dei membri di un organo collegiale o dei loro nomi e così via) o per atti di organi collegiali (per esempio, l’irregolarità nella convocazione o nella fissazione dell’ordine del giorno è sanata dalla partecipazione di tutti i componenti alla riunione e dall’assenza di loro obiezioni sugli argomenti all’ordine del giorno).

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CAPITOLO 17 I TIPI DI PROVVEDIMENTO

SOMMARIO: 17.1. La tipologia dei provvedimenti. – 17.2. Gli atti amministrativi generali. – 17.3. Le concessioni. – 17.4. Le autorizzazioni. – 17.5. Gli atti ablatori. – 17.6. Le sanzioni amministrative. – 17.7. I provvedimenti di secondo grado. – 17.8. Gli atti dichiarativi. – 17.9. Gli atti politici e gli atti di alta amministrazione. – 17.10. Provvedimenti amministrativi e altri atti.

17.1. LA TIPOLOGIA DEI PROVVEDIMENTI Un capitolo importante del diritto amministrativo è tradizionalmente quello relativo alla tipologia dei provvedimenti amministrativi. Occorre innanzitutto tener conto di quanto si è osservato nei capitoli precedenti: i provvedimenti amministrativi costituiscono solo una delle forme nelle quali le pubbliche amministrazioni agiscono, accanto ad altri tipi di atti unilaterali, a vari tipi di atti consensuali e all’attività materiale. Si è anche osservato che non vi è piena coincidenza tra i tipi di procedimento e i tipi di provvedimento, perché molti procedimenti sono volti all’emanazione di atti unilaterali diversi da un provvedimento (come gli atti inerenti alla gestione del personale o ai pagamenti), alla conclusione di accordi o allo svolgimento di attività materiale. L’ambito qui considerato, quindi, è più ristretto di quello descritto in sede di tipologia dei procedimenti. Quella che segue è una tipologia non di tutte le decisioni della pubblica amministrazione, ma solo di quelle soggette al regime giuridico del provvedimento amministrativo, descritto nel capitolo precedente. Si farà riferimento, peraltro, anche ad alcune categorie di atto la cui natura provvedimentale è dubbia. Tra i diversi criteri di classificazione dei provvedimenti amministrativi,

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quello più comune si basa sulla funzione dell’atto in rapporto all’assetto di interessi coinvolti e, quindi, sui suoi effetti giuridici tipici: autorizzazioni, concessioni, atti ablatori e così via. Come pure si è riferito in precedenza, questo criterio è a volte usato anche per classificare i procedimenti amministrativi, dato che gli effetti dell’atto si riflettono sulla struttura del procedimento. L’analisi della tipologia degli atti amministrativi, quindi, consentirà anche di fornire qualche indicazione sulla struttura dei relativi procedimenti.

17.2. GLI ATTI AMMINISTRATIVI GENERALI Gli atti amministrativi generali sono volti alla definizione di prescrizioni generali: hanno destinatari non determinati né determinabili, essendo rivolti a gruppi indeterminati di individui. La loro funzione è di regolare la condotta di uffici pubblici, di soggetti privati o di entrambi. Regolano principalmente la condotta di uffici pubblici, per esempio, gli atti di organizzazione e i regolamenti di attuazione della legge sul procedimento amministrativo in materia di termine e responsabile del procedimento e di diritto d’accesso ai documenti amministrativi. Regolano essenzialmente la condotta di privati gli atti volti alla fissazione di prezzi o tariffe e le c.d. autorizzazioni generali che disciplinano il trattamento dei dati personali o la fornitura di reti o di servizi di comunicazione elettronica. Regolano la condotta di entrambi i piani urbanistici, i bandi e i regolamenti edilizi. Questi atti hanno tendenzialmente lo stesso regime giuridico dei provvedimenti amministrativi individuali, ma con alcune particolarità: non devono essere motivati; ai relativi procedimenti non si applicano di regola le norme generali sulla partecipazione degli interessati; sono spesso previsti controlli preventivi di legittimità; la loro comunicazione consiste normalmente in una pubblicazione. Inoltre, spesso essi non sono autonomamente impugnabili dinanzi al giudice amministrativo, in quanto non ledono immediatamente interessi di privati, e devono essere impugnati unitamente agli atti applicativi (per esempio, il bando di concorso insieme al provvedimento di esclusione dal concorso; ma, se il bando contiene clausole immediatamente lesive dei suoi interessi, per esempio stabilendo requisiti dei quali egli sia sprovvisto, il candidato ha l’onere di impugnarlo immediatamente). Gli atti amministrativi generali che contengono norme giuridiche sono atti normativi: per esempio, gli statuti e i regolamenti degli enti pubblici. Il loro regime giuridico risente del contenuto. Da un lato, si applica la regola di riparto della potestà regolamentare, di cui all’art. 117, sesto comma, cost., che la attribuisce allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, agli enti

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locali in ordine alle funzioni loro attribuite, alle regioni in tutte le altre materie. In secondo luogo, questi atti hanno i caratteri tipici delle fonti del diritto, come la necessità della pubblicazione e l’inescusabilità della loro ignoranza (cap. 4). Questi caratteri, propri degli atti normativi, rendono rilevante la distinzione tra essi e gli altri atti amministrativi generali. La distinzione è spesso difficile per atti di natura incerta, come le istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, i provvedimenti di carattere generale della Consob e le linee guida dell’Anac. Non vi sono criteri certi per stabilire la natura normativa di un atto, se non quello formale, basato sull’eventuale autoqualificazione dell’atto o sul procedimento adottato per la sua emanazione (per esempio, gli atti di normazione secondaria del Governo dovrebbero avere la forma del regolamento, emanato secondo un procedimento previsto dalla legge).

17.3. LE CONCESSIONI Le concessioni sono atti che attribuiscono ai destinatari diritti, di cui l’amministrazione è titolare (come nel caso della concessione di beni pubblici) o che sorgono con la concessione (come nel caso della concessione di lavori pubblici). Con esse le pubbliche amministrazioni dispongono di risorse riservate, cioè sottratte alla disponibilità dei privati: contenuto della concessione, quindi, è un’attribuzione operata dall’amministrazione concedente a favore del concessionario. L’oggetto della concessione può essere un bene pubblico (come un bene demaniale o una somma di denaro), la gestione di un servizio pubblico (come quello idrico o quello radiotelevisivo), la possibilità di realizzare un’opera pubblica (come una strada o un ospedale) e anche un oggetto privo di valore patrimoniale (come nel caso della concessione della cittadinanza o di un’onorificenza). La concessione è una componente di un regime giuridico che comprende anche la riserva originaria, cioè la sottrazione di una determinata risorsa alla disponibilità dei privati (prevista per determinate ipotesi dall’art. 43 cost.): della risorsa riservata la pubblica amministrazione dispone attraverso la concessione. L’ambito naturale del regime concessorio è quello delle risorse scarse, delle quali occorre regolare l’uso: per esempio, le spiagge, le acque pubbliche, l’erogazione di un servizio pubblico in regime di monopolio, il denaro pubblico e, di conseguenza, le opere e le attività finanziate dalle pubbliche amministrazioni. Ma a questo regime si ricorre anche per assoggettare al controllo pubblico attività private che coinvolgono interessi pubblici: ciò avviene per molti

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servizi pubblici e per attività imprenditoriali come l’esercizio di farmacie e la gestione di giochi e scommesse. Questa seconda funzione delle concessioni, peraltro, è oggi recessiva a causa dell’affermarsi del principio della concorrenza, che induce ad assoggettare lo svolgimento delle attività economiche alle leggi del mercato piuttosto che ai poteri di indirizzo di autorità pubbliche. Soprattutto per i servizi pubblici, di conseguenza, il regime concessorio viene sempre spesso abbandonato e sostituito da altri, come quello autorizzatorio. La concessione è un provvedimento amministrativo, ma il rapporto che essa costituisce contempla prestazioni corrispettive e la soddisfazione sia dell’interesse del concessionario (che ottiene la disponibilità del bene riservato o la possibilità di svolgere l’attività riservata, ricavandone un reddito), sia quello del concedente (che riceve un corrispettivo, come il canone per l’uso di un bene pubblico, o ottiene che un’attività di pubblico interesse venga svolta). È per questo che alle concessioni si tende ad attribuire natura contrattuale, che in qualche caso è affermata dalle norme: il diritto europeo e il Codice dei contratti pubblici qualificano come contratti le concessioni di lavori pubblici e quelle di servizi pubblici e le assoggettano alla relativa disciplina. Le concessioni aventi a oggetto somme di denaro sono dette sovvenzioni e sono soggette a norme particolari, sia europee sia nazionali: tra le prime, quelle del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che limitano la possibilità degli Stati membri di concedere aiuti alle imprese; tra le seconde, una norma della legge sul procedimento che impone alle amministrazioni concedenti un obbligo di predeterminazione dei criteri di decisione e delle modalità di erogazione.

17.4. LE AUTORIZZAZIONI Con le autorizzazioni le amministrazioni pubbliche consentono lo svolgimento di attività private, dopo averne accertato la compatibilità con gli interessi pubblici coinvolti. Questa funzione è ben espressa dalla concezione tradizionale, secondo la quale l’autorizzazione rimuove un limite all’esercizio di un diritto: il privato aspira a svolgere una certa attività; la legge assoggetta questa attività a un controllo pubblico; l’amministrazione opera questo controllo, rendendo lecito l’esercizio dell’attività. Il regime autorizzatorio, quindi, implica un controllo pubblico preventivo su un’attività privata, che non può essere svolta liberamente: l’effetto del provvedimento di autorizzazione è favorevole all’interessato, ma il regime

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autorizzatorio implica una limitazione della libertà dei privati. Questa limitazione dipende dall’esigenza di tutela di interessi pubblici, che possono essere lesi dallo svolgimento dell’attività in questione: per esempio, la sicurezza degli individui può essere compromessa dalla guida di autoveicoli o dal possesso di armi; la salute dei consumatori può essere compromessa da determinate attività commerciali. Il controllo pubblico sulle attività private, nel caso delle autorizzazioni, è preventivo, in quanto il suo esito positivo è condizione per lo svolgimento dell’attività. Ma esso può anche essere successivo, come nel caso della dichiarazione (o segnalazione) di inizio di attività, con la quale il privato comunica all’amministrazione che sta per iniziare l’attività, perché l’amministrazione provveda alle verifiche del caso: la verifica della compatibilità dell’attività privata con l’interesse pubblico è affidata, in prima battuta, al privato stesso, tanto che la giurisprudenza ammette a volte l’impugnabilità della dichiarazione del privato dinanzi al giudice amministrativo; altre volte essa la nega, ma ammette il ricorso del controinteressato contro il silenzio mantenuto dall’amministrazione su di essa. La dichiarazione di inizio di attività è disciplinata in via generale dalla legge sul procedimento amministrativo ed è ampiamente utilizzata da discipline di settore, come quella dell’edilizia e quella del commercio. Diverso è il meccanismo del silenzio-assenso, nel quale il potere autorizzatorio rimane, ma si intende esercitato in senso positivo nel caso in cui l’amministrazione non si pronunci entro un certo termine. Anche esso ha una disciplina generale nella legge sul procedimento e previsioni speciali nelle discipline di settore. Molte attività private, soggette o meno ad autorizzazione amministrativa, sono soggette a varie forme di controllo da parte delle pubbliche amministrazioni, in relazione a diversi interessi pubblici (il pagamento dei tributi, la sicurezza del lavoro, la regolarità contributiva, l’igiene e quant’altro). Il controllo può essere non solo successivo, ma anche meramente eventuale, come i controlli della polizia stradale, il controllo delle forze dell’ordine nei locali pubblici e quello dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sulle intese tra imprese. La scelta tra le diverse forme di controllo implica un apprezzamento inerente all’equilibrio tra l’interesse privato allo svolgimento dell’attività e l’interesse pubblico che da essa può essere leso. A volte è la stessa Costituzione a escludere il controllo preventivo sulle attività che costituiscono esplicazione di diritti fondamentali: sarebbe incostituzionale, per esempio, una legge che imponesse un’autorizzazione per riunirsi, per costituire un’associazione o per pubblicare un libro o un articolo; a fronte dell’esercizio di queste attività, quindi, i pubblici poteri possono intervenire solo successiva-

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mente, per sanzionare le violazioni (per esempio, per sciogliere una riunione pericolosa o violenta o per punire la diffamazione a mezzo stampa). A parte i vincoli costituzionali, la tendenza attuale è nel senso di privilegiare l’interesse privato e, quindi, i controlli successivi: ciò dipende, oltre che dalle politiche di liberalizzazione e semplificazione, dal diritto europeo, che spesso considera i regimi autorizzatori strumenti di restrizione dell’accesso ai mercati. Il diritto europeo in molti settori ammette le autorizzazioni solo se richieste da “motivi imperativi di interesse generale” e stabilisce che, in tal caso, esse devono essere accordate sulla base di condizioni non discriminatorie, commisurate all'obiettivo di interesse generale, chiare ed inequivocabili, oggettive, rese pubbliche preventivamente, trasparenti e accessibili: ciò vale, in particolare, per la disciplina dei servizi (recepita con il decreto legislativo n. 59 del 2010), nozione che comprende qualunque attività imprenditoriale o professionale.

17.5. GLI ATTI ABLATORI Con gli atti ablatori l’amministrazione sacrifica l’interesse di un privato, imponendogli un obbligo di fare (come negli ordini), di non fare (come nei divieti) o di dare (come negli atti di imposizione tributaria) o privandolo di un bene (come nell’espropriazione, nella requisizione e nell’imposizione di servitù pubbliche). Essi servono, dunque, a risolvere un conflitto tra interesse pubblico e interesse privato che, a differenza che nelle autorizzazioni, non è meramente potenziale, ma reale e insanabile. L’attribuzione del potere ablatorio all’amministrazione implica una definizione, da parte del legislatore, dell’assetto di interessi, che privilegia quello pubblico. Ma non implica una valutazione negativa dell’interesse privato o un intento punitivo nei confronti del suo titolare: al contrario, le norme (anche costituzionali) si preoccupano in vari modi di tutelarlo, per evitare sacrifici non necessari o sproporzionati. Ciò è dimostrato, per esempio, dalla disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità, che è il più tipico provvedimento ablatorio. L’art. 42 cost. pone tre distinte garanzie per il proprietario: la riserva di legge (la proprietà privata può essere espropriata solo «nei casi preveduti dalla legge»); l’indennizzo («salvo indennizzo»); la sussistenza di un pubblico interesse («per motivi d’interesse generale»). La disciplina dell’espropriazione specifica queste garanzie e pone ulteriori adempimenti e garanzie a favore dell’espropriato. Le garanzie costituzionali sono altresì precisate dalla giurisprudenza costituzionale, che afferma tra l’altro che il valore dell’indennizzo non può essere lontano dal valore di mercato del bene.

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La Costituzione offre anche altre garanzie ai destinatari di atti ablatori, soprattutto attraverso riserve di legge: la più ampia è quella stabilita dall’art. 23, a norma del quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. Anche la giurisprudenza è sempre stata attenta alla tutela dei destinatari di simili provvedimenti, per esempio imponendo il rispetto di princìpi come quelli del giusto procedimento e di proporzionalità o, nel caso di espropriazione, verificando la congruità dell’indennizzo. I poteri ablatori sono spesso soggetti a termini perentori, decorsi i quali essi non possono più essere emanati. I relativi procedimenti sono ovviamente a iniziativa d’ufficio. La loro articolazione riflette le esigenze di garanzia dei privati, per esempio attraverso la loro partecipazione. Le garanzie, peraltro, vengono attenuate in presenza del presupposto dell’urgenza, che consente una semplificazione del procedimento o l’adozione di atti necessitati. A questo sacrificio la giurisprudenza rimedia valutando attentamente la sussistenza del presupposto dell’urgenza e degli altri presupposti di legge, richiedendo il rispetto dei princìpi generali (come quello di proporzionalità, che impone il minimo sacrificio per il privato) e affermando la natura provvisoria e residuale degli atti necessitati.

17.6. LE SANZIONI AMMINISTRATIVE Le sanzioni amministrative servono a punire comportamenti che l’ordinamento considera illeciti e fonti di responsabilità non penale o civile ma, appunto, amministrativa. Esse si caratterizzano, quindi, per essere irrogate da un’autorità amministrativa e non da un’autorità giurisdizionale. Come gli atti ablatori, esse producono effetti restrittivi nei confronti del destinatario, i quali però non dipendono dal contrasto tra il suo interesse e quello pubblico, ma da un intento punitivo nei suoi confronti. Il fine delle sanzioni amministrative, come di quelle penali, è quindi di tutelare il rispetto del diritto, sanzionandone le violazioni. Nell’esercizio dei relativi poteri le amministrazioni assumono un ruolo di tutela del diritto, simile a quello del giudice. Le sanzioni amministrative si distinguono da quelle penali non per la minore gravità (esse possono essere molto pesanti) né per gli interessi protetti (che possono essere molto importanti, come quelli attinenti alla salute e all’ambiente). La differenza fondamentale è che le sanzioni amministrative non possono incidere su diritti fondamentali del privato (come la libertà personale e la libertà di movimento), per le cui restrizioni la Costituzione richiede un provvedimento di un giudice: quando il legislatore

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vuole prevedere sanzioni che incidano su quei diritti (come quelle detentive), deve affidarne l’applicazione al giudice. La previsione di sanzioni amministrative è molto frequente nella legislazione amministrativa, perché sono numerosi le regole e i controlli sul loro rispetto: simili sanzioni sono previste, per esempio, per la violazione delle prescrizioni urbanistiche e delle norme edilizie, del Codice della strada, degli obblighi tributari, della deontologia professionale, della disciplina della concorrenza. Le sanzioni amministrative sono di tipi diversi: le più frequenti sono le sanzioni pecuniarie, che determinano il sorgere di un’obbligazione pecuniaria; le sanzioni interdittive, invece, impediscono l’esercizio di un diritto. Esse hanno sempre natura afflittiva, in quanto colpiscono l’autore dell’illecito: non sono sanzioni amministrative, quindi, le c.d. sanzioni ripristinatorie, che colpiscono invece il suo oggetto (come la demolizione di un edificio abusivo). Una categoria particolare di sanzioni amministrative è quella delle sanzioni disciplinari previste per i pubblici dipendenti. La legge n. 689 del 1981 detta una disciplina generale delle sanzioni amministrative, ponendo princìpi e norme sia sostanziali, sia procedurali. La disciplina sostanziale riflette per più aspetti quella della responsabilità penale. La disciplina del procedimento, che è ovviamente a iniziativa d’ufficio, è ispirata al principio del giusto procedimento, con ampie possibilità di difesa per l’interessato. Vale, naturalmente, l’obbligo di motivazione.

17.7. I PROVVEDIMENTI DI SECONDO GRADO I provvedimenti di secondo grado hanno a oggetto gli effetti giuridici di precedenti provvedimenti, che vengono modificati, rimossi o conservati. Essi possono essere emanati su istanza degli interessati (in particolare, a seguito di un ricorso amministrativo) o su iniziativa della stessa amministrazione. Se il provvedimento di secondo grado è emanato a seguito di un ricorso amministrativo (cap. 20), il procedimento e la competenza a emanarlo sono definiti dalle relative norme. Se, invece, esso è emanato d’ufficio (anche su sollecitazione dell’interessato, per esempio quando non vi sono i presupposti per un ricorso), la sua adozione spetta allo stesso organo che ha emanato il precedente provvedimento, la sua legittimità va valutata alla stregua delle stesse norme e, in base alla regola del contrarius actus, il procedimento è analogo a quello di primo grado. Alcuni provvedimenti di secondo grado determinano la conservazione degli effetti di quelli di primo grado, che può conseguire alla riaffermazione della volontà dell’autorità emanante o all’eliminazione di un vizio. Nella prima ipotesi si ha la conferma, che costituisce un nuovo esercizio

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del potere ed è un provvedimento a sé stante, che può essere autonomamente impugnato: essa si distingue dall’atto confermativo, che è la semplice dichiarazione che il potere è già stato esercitato, normalmente pronunciata in seguito a una richiesta di riesame, e non è impugnabile. Nella seconda ipotesi si ha la convalida, con cui l’amministrazione dichiara l’esistenza del vizio e lo elimina: essa è ammessa dalla legge, purché avvenga entro un termine ragionevole. Ovviamente, può essere convalidato un provvedimento viziato ma esistente, quindi annullabile, non un provvedimento nullo o già annullato. Quando il vizio che si intende eliminare è di incompetenza, la convalida, emanata dall’organo competente, è detta ratifica. Convalida e ratifica producono un effetto di sanatoria, che può anche conseguire ad altri atti o fatti, come il verificarsi successivo di un presupposto del provvedimento. Altri provvedimenti determinano, invece, l’interruzione, l’eliminazione o la modifica degli effetti del provvedimento di primo grado. Essi sono riconducibili al fenomeno dell’autotutela amministrativa, in quando l’amministrazione non ha bisogno di rivolgersi al giudice per modificare quegli effetti (a differenza di quanto avvenga, per esempio, per il contratto, che può essere annullato solo da un giudice). Quando la rimozione dipende dall’invalidità di quel provvedimento, si ha l’annullamento d’ufficio, che è retroattivo. Anche esso è ammesso dalla legge in presenza di due presupposti: l’illegittimità del provvedimento e la sussistenza di un interesse pubblico all’annullamento, che vanno valutati tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Questi due presupposti mostrano la duplice natura di questo atto, che serve sia al ripristino della legalità (come la sentenza di annullamento pronunciata da un giudice), sia al perseguimento dell’interesse pubblico (come ogni provvedimento amministrativo). Anche la giurisprudenza ha sempre escluso che l’annullamento d’ufficio possa essere pronunciato solo sulla base dell’illegittimità del precedente provvedimento, richiedendo anche che vi fosse un interesse pubblico “concreto e attuale” alla rimozione dei suoi effetti. L’annullamento è, dunque, un provvedimento discrezionale, che implica un apprezzamento di interessi: più che a rimediare a un vizio del passato, è volto a disciplinare una situazione presente. Vi è un interesse al ripristino della legalità, ma questo non è l’unico interesse di cui l’amministrazione deve tener conto. Non è così, tuttavia, nel caso di ricorso amministrativo, in esito al quale l’annullamento deve basarsi sull’unico presupposto dell’illegittimità del precedente provvedimento, perché in quella sede l’amministrazione opera a tutela del diritto. Nell’operare la valutazione discrezionale ai fini dell’eventuale annullamento, l’amministrazione deve tener conto di tutti gli interessi coinvolti e, in particolare, di quello dei soggetti privati che abbiano fatto affidamento sugli

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effetti del precedente provvedimento. Ai fini di questa valutazione, assume un rilievo particolare il decorso del tempo: più tempo trascorre dall’adozione del provvedimento, più si indebolisce l’interesse pubblico al ripristino della legalità e più si rafforza l’interesse del privato alla conservazione dei suoi effetti. Di conseguenza, sull’amministrazione grava un onere di tempestività. La legge pone anche un termine massimo di diciotto mesi, decorso il quale il provvedimento non può più essere annullato. La revoca determina, invece, l’interruzione degli effetti del precedente provvedimento per ragioni di merito: essa si distingue dall’annullamento, quindi, sia per il presupposto (l’inopportunità e non l’invalidità) sia per l’effetto (non retroattivo). La legge la ammette «sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto» nonché, salvo che per i provvedimenti favorevoli all’interessato, per «nuova valutazione dell’interesse pubblico originario». In altri termini, l’amministrazione può sempre adeguarsi a un mutamento della situazione, mentre può cambiare idea solo rispetto a provvedimenti restrittivi. Se la revoca comporta un danno per l’interessato, comunque, l’amministrazione deve corrispondergli un indennizzo. La revoca, secondo la legge sul procedimento, «determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti», quindi dovrebbe poter riguardare solo i provvedimenti a efficacia durevole, non quelli a efficacia istantanea. Peraltro, la stessa legge contempla l’ipotesi in cui la revoca di un atto «ad efficacia durevole o istantanea» incida su rapporti negoziali: deve quindi ritenersi che, almeno per questi rapporti, la revoca possa riguardare atti a efficacia istantanea e, quindi, essere retroattiva. Oltre che confermare o rimuovere gli effetti del provvedimento, l’amministrazione può modificarli: in questo caso si ha la riforma, che può essere adottata per ragioni di legittimità o di merito ed è ammessa dalla giurisprudenza purché vi siano i presupposti richiesti per l’annullamento o per la revoca. La riforma, in effetti, consiste spesso nell’annullamento o nella revoca parziale. Infine, la sospensione pone gli effetti del precedente provvedimento in uno stato di quiescenza e ne impedisce l’esecuzione. Essa è ammessa dalla legge per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, purché ne sia indicato il termine.

17.8. GLI ATTI DICHIARATIVI Gli atti dichiarativi servono a produrre certezze giuridiche: iscrizioni, certificati, verbali, relazioni, notificazioni, avvisi e simili. Essi sono dichiarazioni di scienza e non di volontà: di conseguenza, la loro inclusione tra i provve-

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dimenti amministrativi è dubbia, anche perché essi di regola non sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (essendovi altri rimedi, come la querela di falso). I relativi procedimenti, peraltro, sono tendenzialmente soggetti alla disciplina della legge sul procedimento, al potere di autotutela dell’amministrazione e anche a norme processuali, come quelle relative al silenzio dell’amministrazione. Alla base degli atti dichiarativi vi sono, quindi, una situazione di fatto (per esempio, una disabilità o lo svolgimento di una riunione) e il suo accertamento o la sua comunicazione (operati, rispettivamente, dal certificato rilasciato al disabile e dal verbale). A volte è prevalente l’aspetto dell’accertamento (come nelle inchieste e nelle ispezioni), altre volte quello della comunicazione (come nelle pubblicazioni e nelle notificazioni). Negli ultimi decenni, i procedimenti in questione sono stati oggetto di semplificazione, avviata dalle disposizioni di legge in materia di autocertificazione e di acquisizione da parte delle stesse amministrazioni di atti e documenti in possesso di altre amministrazioni.

17.9. GLI ATTI POLITICI E GLI ATTI DI ALTA AMMINISTRAZIONE Gli atti politici sono emanati da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo e, quindi, nell’attuazione dell’indirizzo politico (costituzionale o di maggioranza): per esempio, quelli con cui il governo regola le relazioni internazionali o esercita i poteri conferitigli dai regolamenti parlamentari. Come si è già osservato, non sono atti amministrativi e la legge ne esclude l’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo (cap. 13). La giurisprudenza, peraltro, intende la nozione in modo molto restrittivo e difficilmente esclude l’impugnazione di un atto in quanto atto politico. Sono invece provvedimenti amministrativi gli atti di alta amministrazione, come i provvedimenti di nomina o trasferimento di alti dirigenti amministrativi (quali i prefetti e gli ambasciatori) e il decreto di scioglimento di un consiglio comunale. Essi sono definiti atti di suprema direzione della pubblica amministrazione, di raccordo della funzione di indirizzo politico con quella amministrativa. La giurisprudenza fa riferimento a questa nozione ora per sottolineare l’ampia discrezionalità di alcuni tipi di atto e, quindi, per riconoscere all’amministrazione un margine di apprezzamento insindacabile, ora per negare la natura di atto politico ad atti di altri tipi e, quindi, per ammettere i ricorsi contro di essi.

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17.10. PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI E ALTRI ATTI Vanno infine menzionati alcuni tipi di atto, la cui inclusione tra i provvedimenti amministrativi è perlomeno dubbia, dato che essi difettano di caratteri tipici del provvedimento (come identificati nel capitolo precedente) o non sono soggetti alla relativa disciplina procedimentale e processuale. Tra essi, gli accordi tra amministrazioni o con i privati, che difettano del carattere dell’unilateralità (ma possono essere considerate atti amministrativi le determinazioni di concludere gli accordi, così come quelle che concludono i procedimenti a seguito di conferenze di servizi); gli atti di esercizio di poteri privati da parte delle amministrazioni, compresi quelli relativi al rapporto di impiego del personale; quelli delle amministrazioni degli organi costituzionali o di rilievo costituzionale relativi all’organizzazione e al funzionamento degli organi stessi (per esempio, al personale), che non sono soggetti alla disciplina legislativa del procedimento, né impugnabili dinanzi ad alcun giudice (ma solo dinanzi a organi di giustizia interna); gli atti di controllo della Corte dei conti, dei quali la giurisprudenza esclude l’impugnabilità dinanzi al giudice amministrativo; gli atti esternati oralmente (come un ordine di polizia o quello di un superiore gerarchico), la cui emanazione non richiede normalmente un procedimento e che non sono di per sé impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (l’illegittimità di un ordine verbale non viene fatta valere in sede di impugnazione, ma, per esempio, impugnando il provvedimento sanzionatorio irrogato in seguito al mancato rispetto dell’ordine stesso); le operazioni materiali poste in essere dall’amministrazione, come la disciplina del traffico automobilistico e il respingimento o l’accompagnamento alla frontiera, che sono atti di esecuzione di provvedimenti. Si pone poi il problema dell’ammissibilità di atti amministrativi emanati da soggetti privati, come i concessionari di opere pubbliche e di servizi pubblici o le amministrazioni pubbliche in forma privata. Anche se gli studiosi sono spesso dubbiosi, la giurisprudenza ne ha ammesso l’esistenza, per consentirne l’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo. Anche la legge a volte assoggetta alla giurisdizione amministrativa gli atti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati.

CAPITOLO 18 I CONTRATTI PUBBLICI

SOMMARIO: 18.1. I presupposti del contratto. – 18.2. La tipologia. – 18.3. La disciplina. – 18.4. I requisiti delle stazioni appaltanti e dei contraenti. – 18.5. La scelta del contraente. – 18.6. La conclusione e l’esecuzione.

18.1. I PRESUPPOSTI DEL CONTRATTO Come osservato in precedenti capitoli, le pubbliche amministrazioni sono titolari di situazioni soggettive, non diversamente dai privati, e concludono contratti con cui costituiscono, modificano ed estinguono rapporti giuridici patrimoniali. L’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni implica alcune scelte preliminari da parte delle amministrazioni stesse e del legislatore. La prima è la scelta tra il “fare” e il “comprare”, cioè tra l’uso delle risorse interne e il ricorso al mercato. La prima soluzione implica che le amministrazioni assumano il personale e costituiscano le strutture necessarie per la produzione di determinati beni e servizi. La seconda consente di ridurre il personale e le strutture amministrative, riducendo le incombenze legate alla relativa gestione. Per molti tipi di beni e servizi, la prima soluzione è storicamente recessiva. Le amministrazioni hanno dismesso molte attività produttive (dalla fabbricazione di armi alla produzione di latte) e molte attività strumentali allo svolgimento delle funzioni amministrative (dalla pulizia degli edifici alla gestione degli automezzi). Le relative attività sono normalmente svolte da soggetti privati, dai quali le amministrazioni comprano beni e servizi. Si parla, al riguardo, di esternalizzazione di funzioni amministrative o di servizi strumentali. Si può aggiungere che la legge mostra spesso una preferenza per il

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ricorso al mercato: per i lavori pubblici, per esempio, la regola è quella della gara, mentre l’«amministrazione diretta» è ammessa entro limiti ristretti. La gestione diretta, peraltro, è a volte imposta dalla peculiarità della funzione, per esempio per esigenze di sicurezza o di segretezza. Al problema appena indicato può essere ricondotto il tema degli affidamenti in house, a cui si è già accennato (cap. 6). I loro presupposti sono che l’amministrazione sia l’unico socio o azionista dell’organismo affidatario, che essa eserciti su quell’organismo un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri uffici e che esso lavori esclusivamente o quasi per quell’amministrazione. In presenza di questi presupposti, l’organismo in questione, pur giuridicamente distinto dall’amministrazione stessa (di regola una società di capitali), è di fatto un’articolazione di essa, quindi l’affidamento è una vicenda interna all’amministrazione e non è un vero contratto, sicché è sottratto alle regole sui contratti pubblici (compresa quella che impone la gara). La seconda scelta, di carattere più generale, è quella tra il contratto e l’atto unilaterale. In astratto, le pubbliche amministrazioni possono soddisfare la stessa esigenza, e produrre lo stesso effetto giuridico, con atti di tipo diverso: un bene può essere acquisito comprandolo o espropriandolo; un servizio si può ottenere attribuendo una concessione a un privato o concludendo un contratto con lui. Ciò spiega perché determinati rapporti, sostanzialmente contrattuali, sono stati a volte descritti come basati su atti unilaterali dell’amministrazione: contratti di lavoro descritti come atti di nomina, contratti d’opera descritti come concessioni. Questa tendenza, peraltro, è ormai superata: il legislatore favorisce le soluzioni consensuali e le amministrazioni stesse preferiscono concludere contratti con i privati, piuttosto che imporre loro prestazioni. Un’ulteriore scelta, in parte ma non del tutto coincidente con le prime due, è tra un contratto e un accordo amministrativo. Determinate prestazioni possono essere fornite, in alternativa, da pubbliche amministrazioni o da imprese: si pensi ai servizi di consulenza, analisi e ricerca, che possono essere prestati da professionisti e imprese, ovvero da università ed enti di ricerca. Se l’amministrazione che ha bisogno di simili servizi si rivolge a un’altra amministrazione pubblica, sostenendo i relativi costi, ciò può avvenire perché la relativa attività rientra nelle funzioni della seconda: in questo caso le due amministrazioni potranno concludere un accordo amministrativo. Tuttavia, la seconda amministrazione potrebbe prestare il servizio alla prima a fronte di un corrispettivo, per trarne un profitto (che sarà ovviamente utilizzato per lo svolgimento delle sue funzioni amministrative): in questo caso, essa si comporta in modo paragonabile a un operatore privato e si pone il problema della qualificazione dell’accordo come accordo amministrativo o come contratto. La differenza non è irrilevante, perché nel secondo caso non

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è possibile operare un affidamento diretto, ma è necessario affidare il contratto con una gara. Dal punto di vista procedurale, i contratti delle pubbliche amministrazioni sono normalmente preceduti da alcuni adempimenti. In primo luogo, essi devono essere programmati: ciascuna amministrazione predispone programmi pluriennali, ai quali il singolo contratto deve essere ricondotto. In secondo luogo, ogni contratto è preceduto da un atto formale, che avvia la relativa procedura e che viene normalmente definita “determinazione di contrarre”. È una conseguenza della proceduralizzazione che caratterizza tutta l’attività amministrativa, compresa quella contrattuale (cap. 15): il contratto, non diversamente dal provvedimento amministrativo, è l’atto conclusivo di un procedimento, detto di “evidenza pubblica”. La determinazione di contrarre è un’autonoma decisione, che stabilisce l’oggetto del contratto e fornisce alcune indicazioni sul successivo svolgimento della procedura. Essa è quindi un atto importante, perché costituisce parametro per valutare la successiva attività svolta dall’amministrazione.

18.2. LA TIPOLOGIA Come osservato in precedenza, le amministrazioni concludono sia contratti attivi, con i quali vendono beni e servizi, sia contratti passivi, con i quali ne comprano (cap. 12). I primi erano più importanti in altre epoche storiche, nelle quali le amministrazioni erano proprietarie di ingenti patrimoni e gestivano grandi industrie, con i cui proventi finanziavano molte funzioni pubbliche. Lo sono molto meno ora, dato che le imprese pubbliche sono meno numerose e le funzioni delle amministrazioni sono finanziate essenzialmente con entrate fiscali. Molto più importanti, in termini economici e per i problemi giuridici che pongono, sono i contratti con i quali le amministrazioni si procurano beni e servizi. Vi è però almeno un principio generale che vale per gli uni e per gli altri: a meno che non vi siano esigenze che lo impediscano, l’altro contraente deve essere scelto attraverso un meccanismo competitivo, come un’asta o una gara pubblica. Di alcuni tipi di beni e servizi le pubbliche amministrazioni sono pressoché gli unici acquirenti (si pensi agli armamenti e alle opere pubbliche). In altri casi, è la legge a riservare alla pubblica amministrazione (o a soggetti da essa individuati, come i concessionari) la conclusione di determinati contratti: è quanto avviene, in particolare, in materia di giochi e scommesse, che sono spesso sottratti al mercato, e quindi vietati tra privati, e riservati all’amministrazione o ai concessionari.

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In astratto, le amministrazioni possono concludere gli stessi tipi di contratto che possono concludere i privati: sia quelli tipici (come la compravendita e la locazione), sia quelli innominati (come la sponsorizzazione), sia quelli misti (per esempio, aventi a oggetto lavori e servizi). Vi sono, peraltro, limiti alla loro possibilità di concludere determinati tipi di contratto, per ragioni strutturali (si pensi ai contratti inerenti ai rapporti familiari) o per specifiche previsioni legislative (come quelle che limitano la possibilità delle pubbliche amministrazioni di acquisire partecipazioni societarie). La maggior parte dei contratti passivi conclusi dalla pubblica amministrazione, peraltro, si inquadra in uno dei tipi definiti dalla disciplina europea e da quella nazionale di recepimento. Per quanto riguarda l’oggetto del contratto, la principale distinzione è quella tra i contratti aventi a oggetto lavori, servizi e forniture. I primi hanno a oggetto l’esecuzione di opere indicate dalla stazione appaltante, la progettazione di essi o entrambe le attività. I secondi sono definiti con riferimento a elenchi di attività (quali servizi finanziari, servizi di manutenzione, servizi informatici, servizi di pulizia). Le forniture hanno a oggetto l’acquisto o la locazione di prodotti. In base alla struttura delle rispettive prestazioni, si distingue tra contratti di appalto, di concessione e di partenariato pubblico-privato. Negli appalti vi è uno scambio tra un bene, un servizio o un lavoro e un corrispettivo in denaro. Nelle concessioni, il corrispettivo è costituito in tutto o in parte dalla possibilità di gestire il servizio o l’opera realizzata, ricavandone un profitto. Il partenariato pubblico-privato riguarda non un singolo lavoro, ma un complesso di attività inerenti alla realizzazione e alla gestione di un’opera, a fronte di un corrispettivo consistente nello sfruttamento dell’opera o nella fornitura di un servizio a esso connesso. Ai fini della disciplina applicabile, poi, è rilevante anche la distinzione tra i contratti “sopra soglia” e quelli “sotto soglia”. Le soglie di riferimento, diverse per i diversi tipi di contratto, sono i limiti di valore economico del contratto, individuati dalla disciplina europea (ed eventualmente, se più bassi, da quella nazionale), al di sotto dei quali si applicano discipline semplificate. Una categoria particolare, infine, è quella dei contratti nei “settori speciali”, relativi a importanti servizi pubblici (acqua, elettricità, gas, trasporti, poste). I relativi settori sono normalmente soggetti alla concorrenza e i soggetti che vi operano sono imprese. Tuttavia, vi sono molte imprese pubbliche, controllate da pubbliche amministrazioni: i loro contratti, nei relativi settori, sono soggetti a una disciplina parzialmente diversa da quella alla quale sono soggette le amministrazioni.

I contratti pubblici

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18.3. LA DISCIPLINA La disciplina dei contratti pubblici risulta da una combinazione di norme generali di diritto privato e di norme speciali di diritto amministrativo. Vale per essi quanto osservato in termini generali sul diritto amministrativo: a essi si applicano le norme previste per i contratti tra privati, nella misura in cui non siano derogate da norme speciali, le quali sono contenute principalmente nel decreto legislativo n. 50 del 2016 (il Codice dei contratti pubblici). La disciplina pubblicistica si preoccupa soprattutto di alcuni aspetti dell’attività contrattuale (principalmente la scelta dell’altro contraente), mentre per gli altri aspetti (come l’inadempimento e le sue conseguenze) è tendenzialmente applicabile la disciplina privatistica. La disciplina pubblicistica è in gran parte una disciplina procedurale: ciò non deve stupire, dato che, come si è già rilevato, anche per la conclusione dei contratti le amministrazioni devono agire tramite procedimenti. Alla luce di tutto ciò si comprende la previsione, contenuta nel Codice dei contratti pubblici, secondo la quale, per quanto non previsto nel Codice stesso e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applica la legge n. 241 del 1990, mentre alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile. Il suddetto Codice, dunque, è doppiamente speciale: rispetto alla legge n. 241 per quanto riguarda i procedimenti amministrativi e rispetto al Codice civile per quanto riguarda i contratti. L’una e l’altra si applicano per quanto non disciplinato dal Codice dei contratti pubblici. Le ragioni per le quali l’attività contrattuale delle amministrazioni è soggetta a una disciplina speciale sono diverse. Innanzitutto, l’importanza economica del fenomeno, che nei paesi europei equivale a oltre il quindici per cento del prodotto interno lordo. In secondo luogo, l’esigenza di disciplinare la scelta dell’altro contraente in modo da garantire l’uso efficiente del denaro pubblico e, quindi, la conclusione dei contratti alle condizioni più favorevoli possibili. Ancora, l’obiettivo di garantire la parità di trattamento tra i diversi potenziali contraenti. Infine, poiché l’attività contrattuale è spesso occasione di malcostume, molte norme sono volte a prevenire la corruzione dei pubblici funzionari e la collusione tra le imprese offerenti. La disciplina in materia può avere ulteriori obiettivi, come quello di promuovere le piccole imprese, quello di proteggere i livelli occupazionali e quello di tutelare l’ambiente, favorendo le imprese più meritevoli sotto questo profilo. Questi obiettivi sono sempre stati presenti nella legislazione in materia, che ormai è in gran parte di derivazione sopranazionale: sia globale, dato che

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tra le norme in materia di commercio internazionale vi è un accordo in materia di government procurement; sia europea, dato che successive generazioni di direttive hanno ampiamente regolato l’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni degli Stati membri. La ragione di ciò è data dall’esigenza di aprire i relativi mercati alle imprese stabilite in stati diversi da quelli che bandiscono i contratti, a condizioni di parità tra i diversi stati e le rispettive imprese. Escludere i contratti pubblici dai princìpi della concorrenza e della libera prestazione di servizi, infatti, significherebbe limitare notevolmente l’importanza del mercato comune e consentire agli stati facili strumenti per introdurre misure protezionistiche, a favore delle imprese nazionali. La legislazione in materia, dunque, è in gran parte di derivazione sopranazionale, ma è alquanto più dettagliata di quella sopranazionale. Quella di recepimento è una disciplina essenzialmente statale, essendo molto ridotti i margini di intervento del legislatore regionale e della potestà regolamentare delle varie amministrazioni. Ciò dipende dal fatto che si tratta di materia che ricade in parte in materie che – in base all’art. 117 cost. – rientrano nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, come l’«ordinamento civile» (cioè il diritto privato) e la tutela della concorrenza. La disciplina del Codice dei contratti pubblici è integrata da un notevole numero di linee guida dell’Anac, di incerta natura, alle quali il Codice stesso rimette la definizione di molte discipline di dettaglio. Ciò non toglie che, al di là delle previsioni legislative, le amministrazioni possono intervenire con norme integrative. Tra gli atti più rilevanti in materia vi sono i capitolati d’oneri, emanati dalle amministrazioni per disciplinare nel dettaglio i propri contratti, in generale (capitolati generali), o singoli contratti (capitolati speciali, i quali peraltro hanno natura contrattuale e non normativa). Il Codice dei contratti pubblici si applica alla maggior parte dei contratti delle pubbliche amministrazioni. Vi sono peraltro varie esclusioni, tra le quali: i contratti attivi; i contratti al di sotto delle varie soglie; alcuni contratti in determinati settori, come la difesa o le telecomunicazioni, nonché quelli conclusi all’estero dalle sedi diplomatiche. Anche ai contratti delle pubbliche amministrazioni ai quali non si applica la disciplina nella sua interezza, si applicano peraltro i princìpi fondamentali del Codice: economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica. Ne consegue che, anche per i contratti esclusi, le amministrazioni devono, per esempio, rispettare la parità di trattamento e scegliere ragionevolmente le offerte più convenienti. Per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo, cioè le amministrazioni tenute ad applicare la disciplina in questione nella propria attività contrattuale, occorre ricordare quanto osservato a proposito del perimetro

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variabile della pubblica amministrazione e del fatto che in questa materia, in particolare, la nozione di pubblica amministrazione è definita da norme sopranazionali in base a criteri oggettivi, i quali prescindono dalla natura pubblicistica o privatistica che i singoli enti possono avere nei vari Stati membri (cap. 5). Sono “amministrazioni aggiudicatici”, dunque, molti soggetti che il diritto nazionale considera privati, come società a partecipazione pubblica e concessionari di lavori o servizi e soggetti beneficiari di finanziamenti pubblici. Più in dettaglio, le varie parti del Codice dei contratti pubblici hanno diversi ambiti soggettivi di applicazione, sicché vi sono diverse categorie di stazioni appaltanti, cioè di amministrazioni contraenti, ciascuna oggetto di un’articolata definizione normativa. La disciplina generale si applica alle amministrazioni aggiudicatrici, nell’ambito delle quali la categoria principale è quella degli organismi di diritto pubblico, ovvero persone giuridiche che svolgono attività di interesse generale e non d’impresa e sono controllate o finanziate da altre amministrazioni aggiudicatrici. Le imprese pubbliche sono soggette solo alla già menzionata disciplina dei settori speciali. La disciplina delle concessioni ha un ambito di applicazione più ampio, definito dalla nozione di enti aggiudicatori. Il partenariato pubblico-privato un ambito di applicazione ancora più ampio, definito dalla nozione di soggetti aggiudicatori.

18.4. I REQUISITI DELLE STAZIONI APPALTANTI E DEI CONTRAENTI C’è un interesse pubblico all’idoneità di entrambe le parti contrattuali a concludere e a eseguire il contratto pubblico in modo corretto ed efficiente. La parte pubblica deve essere in grado di individuare le proprie esigenze, programmare l’attività contrattuale, gestire le relative procedure e verificare l’esatta esecuzione del contratto da parte della parte privata. Quest’ultima deve avere le competenze necessarie per predisporre un’offerta adeguata e poi per eseguire la prestazione, deve avere una certa solidità economica perché una crisi d’impresa potrebbe mettere a rischio l’esecuzione del contratto, i suoi amministratori devono essere affidabili. Di conseguenza, il Codice dei contratti pubblici stabilisce requisiti sia per le stazioni appaltanti, sia per gli operatori economici che vogliano concludere contratti con esse. Per le stazioni appaltanti c’è un sistema di qualificazione, che consente di accertare la loro idoneità a gestire le procedure relative a diversi tipi di contratto, classificati in base al valore economico e all’oggetto. I criteri in base ai quali esse possono ottenere la qualificazione ineriscono tra l’altro alle loro strutture, alle competenze dei loro dipendenti e all’esperienza già accumula-

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ta nella gestione di procedure contrattuali. Le amministrazioni prive della relativa qualificazione devono rivolgersi, per la gestione delle loro procedure contrattuali, a centrali di committenza, organismi che hanno proprio la funzione di concludere contratti per conto delle amministrazioni pubbliche. Le centrali di committenza operano a volte come grossisti, acquisendo la disponibilità di beni e servizi in grandi quantità, a cui le varie amministrazioni possono poi attingere; altre volte come rappresentanti, gestendo singole procedure contrattuali per conto delle amministrazioni interessate. La legislazione degli ultimi anni ha fortemente puntato sulla centralizzazione delle procedure di gara presso questi organismi, dotati di una particolare specializzazione e in grado di realizzare notevoli economie di scala. Tra le centrali di committenza, la più importante è la Consip, società interamente partecipata dal Ministero dell’economia, che acquista una grande quantità di beni e servizi e gestisce un notevole numero di procedure di gara per conto delle amministrazioni pubbliche, che possono acquistare i beni e servizi da essa selezionati anche attraverso il sito internet del Mercato elettronico delle pubbliche amministrazioni, gestito dalla stessa Consip. Molte altre previsioni riguardano la parte privata. In effetti, molti dei problemi, che la disciplina dei contratti pubblici mira a risolvere, sono legati alla selezione delle controparti contrattuali, dei fornitori di beni e servizi. Da un lato, le norme stabiliscono requisiti, in assenza dei quali non si può concludere un contratto con una pubblica amministrazione. Dall’altro, esse prevedono meccanismi per scegliere, tra i soggetti in possesso dei requisiti, quello che offre le condizioni contrattuali più vantaggiose per l’interesse pubblico. I contraenti sono normalmente imprese, ma possono essere soggetti privati senza scopo di lucro (come un’associazione) e anche altre amministrazioni pubbliche (come un’università o una sua articolazione). Per quanto riguarda i requisiti dei contraenti, le norme mirano ad assicurare che l’altro contraente abbia adeguate capacità organizzative, tecniche e professionali, per fornire prestazioni adeguate, e anche una certa solidità economica, per evitare i rischi di fallimento e insolvenza. Il controllo sulla sussistenza di questi requisiti è una funzione esternalizzata, che viene svolta da società private soggette al controllo di autorità pubbliche. Determinate imprese, poi, possono essere escluse dai contratti pubblici, per esempio per i loro rapporti con la criminalità organizzata. Le norme ammettono, entro certi limiti, che il contraente possa essere un soggetto collettivo, cioè un raggruppamento di imprese che individualmente non siano in grado di far fronte a una grossa commessa, o una associazione temporanea di imprese, che mettano insieme le loro capacità tecniche per fornire un bene o un servizio particolarmente complesso. La partecipazione di simili soggetti può essere strumentale a una maggiore concorrenza, con-

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sentendo di partecipare alle gare a imprese che individualmente non potrebbero farlo, ma può anche avere l’effetto di restringere la concorrenza, se le imprese si aggregano pur potendo partecipare individualmente, competendo tra loro. Al di là dei requisiti generali, fissati dalle norme, le amministrazioni possono prevedere, per i singoli contratti, requisiti ulteriori, ragionevolmente inerenti allo specifico settore o allo specifico bene o servizio da fornire. Questi requisiti possono consistere anche in una certa esperienza, cioè nell’aver già prestato servizi simili a quello oggetto del contratto. Le amministrazioni, peraltro, a differenza dei privati, non possono dare rilievo al modo in cui i loro precedenti contraenti abbiano adempiuto ai relativi contratti: non possono, cioè, premiare con nuove commesse i fornitori che abbiano ben adempiuto a un precedente contratto. Nonostante la questione sia molto discussa, questo riferimento alla “reputazione” delle imprese è attualmente considerato un’indebita limitazione della concorrenza, che impedirebbe a nuove imprese l’ingresso nel relativo mercato. Infatti il c.d. rating di impresa, connesso a requisiti reputazionali, è previsto dalla legge solo ai fini della qualificazione delle imprese e non come criterio di selezione delle offerte.

18.5. LA SCELTA DEL CONTRAENTE La scelta del contraente, tra quelli dotati dei necessari requisiti, avviene con procedure più o meno complesse. In linea di principio, le amministrazioni devono consentire a tutti i potenziali contraenti di presentare un’offerta, corrispondente all’oggetto del contratto, e scegliere quella migliore, nell’interesse dell’amministrazione e a tutela della parità di trattamento tra i diversi offerenti. Sono eccezioni, quindi, le ipotesi in cui il contraente può essere individuato senza una previa valutazione comparativa. L’«affidamento diretto», cioè senza una gara, può avvenire solo in casi particolari: per esempio, se l’importo del contratto è molto basso e non giustifica una complessa procedura di gara. Una particolare ipotesi di affidamento diretto è l’affidamento in house, di cui si è già riferito. Al di là di queste ipotesi, il contraente è scelto con una procedura competitiva. La disciplina di queste procedure è volta ad assicurare, da un lato, la massima partecipazione da parte di tutti gli interessati e la parità di trattamento tra essi; dall’altro, la rapidità e la semplicità delle procedure. In base al modo in cui queste esigenze sono bilanciate, si hanno diversi tipi di procedura. La procedura che garantisce al massimo l’apertura e la parità di tratta-

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mento è quella designata con l’espressione tradizionale di “asta pubblica” o con la più recente espressione, di origine europea, “procedura aperta”. La procedura è avviata con la pubblicazione di un bando di gara, che contiene la descrizione dell’oggetto del contratto e ulteriori informazioni necessarie per gli eventuali offerenti, come i documenti e i requisiti richiesti, la base d’asta, il metodo di aggiudicazione, cioè di individuazione dell’offerta migliore, e le cause di esclusione. Le offerte presentate vengono poi valutare da una commissione aggiudicatrice, che individua quella migliore. Una procedura che implica un’apertura minore, perché si basa su una previa individuazione delle imprese ritenute adeguate, per contratti che presentino una certa complessità, da parte dell’amministrazione, è quella che nella terminologia europea è detta “procedura ristretta”, corrispondente alle tradizionali procedure dette “licitazione privata” (alla quale l’amministrazione invitava alcune imprese a essa note) e “appalto-concorso” (in cui l’amministrazione invitava a presentare un progetto, in quanto l’oggetto del contratto non era interamente definito). La procedura che garantisce di meno la concorrenza tra le imprese è la “procedura negoziata”, detta “trattativa privata” nella terminologia tradizionale. Essa è quella che assomiglia di più all’attività contrattuale propria dei privati, in quanto l’amministrazione individua un contraente e avvia trattative con esso. Essa è ovviamente quella più esposta ai rischi di corruzione, di conseguenza le norme la ammettono solo in ipotesi particolari, come quelle di urgenza, quella di gara andata deserta e quella in cui un certo bene o prodotto può essere fornito da un unico produttore (si pensi a un grande aeroplano o a un servizio coperto da un brevetto). Inoltre, sono richieste determinate garanzie: a volte la procedura negoziata deve essere preceduta da un bando di gara; devono comunque essere consultate diverse imprese; deve essere redatto un verbale della trattativa. Le norme prevedono meccanismi di esclusione delle offerte “anormalmente basse”, cioè fin troppo vantaggiose per l’amministrazione: pur di vincere la gara e aggiudicarsi il contratto, l’offerente offre di fornire il bene o servizio o di realizzare il lavoro in cambio di un corrispettivo talmente basso, da indurre a dubitare della sua reale possibilità di farlo. Il rischio è che il contraente rischi il fallimento, non adempia nei tempi e nei modi pattuiti o, invocando difficoltà impreviste, chieda una revisione del prezzo. Un rimedio contro questo rischio, utilizzato in altri paesi, è quello di richiedere una polizza assicurativa al contraente. Nel diritto europeo e italiano, invece, si escludono le offerte che superano una certa soglia di anomalia, calcolata in vari modi (per esempio, quelle che superano una certa percentuale di ribasso, o semplicemente quelle che presentano il ribasso maggiore, o variazioni di questi criteri). L’individuazione delle offerte anomale può essere una sempli-

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ce operazione matematica o può essere oggetto di apprezzamento da parte della commissione aggiudicatrice: l’esigenza di prevenire la corruzione indurrebbe ad adottare la prima soluzione, ma per evitare di escludere offerte che sono vantaggiose per l’amministrazione, senza essere rischiose per essa (per esempio, perché una tecnica innovativa consente di operare un particolare risparmio), induce a consentire una certa discrezionalità e a richiedere un contraddittorio con l’impresa interessata prima di escluderla. Una simile tensione tra l’esigenza di vincolare la valutazione delle commissioni aggiudicatici, per prevenire la corruzione, e quella di consentire loro un margine di apprezzamento, per individuare le offerte migliori, si ha in sede di scelta dei criteri di aggiudicazione. La prima esigenza è maggiormente garantita dal metodo del prezzo più basso, che però è applicabile solo se l’oggetto del contratto è relativamente semplice e quindi le diverse offerte si differenziano solo in base al prezzo. La seconda è maggiormente garantita dal metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che consente di tener conto non solo del prezzo offerto, ma anche di altri elementi, come la qualità, le caratteristiche estetiche e funzionali, i consumi, i costi di manutenzione, i tempi di consegna e il servizio successivo. Il diritto europeo e, di conseguenza, quello nazionale adottano come regola quella dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Va anche considerato che i meccanismi automatici, come quello dell’esclusione dell’offerta più bassa e quello dell’aggiudicazione al prezzo più basso o in base al ribasso medio, possono rendere più difficile la corruzione di pubblici funzionari, ma possono rendere più facile la collusione tra diversi offerenti, che possono, per esempio, coordinarsi per incidere sulla “soglia di anomalia” delle offerte. È per questo che il Codice dei contratti pubblici, al fine di impedire agli operatori di operare simili calcoli, prevede diversi complessi metodi per il calcolo dell’anomalia e impone di sorteggiarne uno.

18.6. LA CONCLUSIONE E L’ESECUZIONE Individuato il contraente, il contratto deve essere approvato dall’organo competente, che normalmente è il dirigente dell’ufficio competente per la conclusione il contratto. Esso deve essere poi stipulato, non diversamente da un contratto di diritto privato. A differenza che nel diritto privato, peraltro, esso deve sempre avere forma scritta. Tra l’aggiudicazione e la stipulazione deve trascorrere un termine minimo, che consente all’amministrazione di verificare la regolarità della procedura svolta e il possesso dei requisiti, da parte dell’aggiudicatario, e alle imprese soccombenti di far valere le proprie ra-

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gioni, eventualmente anche proponendo un ricorso giurisdizionale. Anche alla conclusione del contratto, come già accennato, è tendenzialmente applicabile la disciplina privatistica, ma vi sono varie norme che derogano a essa. In primo luogo, all’amministrazione sono attribuiti poteri estranei al regime privatistico dei contratti, come quello di recedere dal contratto, pagando soltanto le opere eseguite e un indennizzo stabilito dalla legge, e quello di disporre la risoluzione del contratto (senza bisogno di rivolgersi al giudice) se vengono meno determinati requisiti dell’altro contraente o in presenza di gravi inadempimenti. Vi sono, inoltre, obblighi e vincoli particolari in capo all’appaltatore. Esso deve, per esempio, depositare una cauzione, non può cedere il contratto e vi sono limiti alla possibilità di subappaltare parte delle prestazioni dovute. D’altra parte, poiché anche l’attività contrattuale è attività amministrativa, svolgimento di una funzione amministrativa, vi sono norme poste a tutela dei contraenti e degli aspiranti tali. Per esempio, le imprese che hanno partecipato alla gara hanno il diritto di accesso ai relativi documenti, come i verbali della commissione aggiudicatrice; e prima di escludere un’offerta o di decidere su una richiesta di variante occorre consentire all’impresa interessata di esporre i propri argomenti. Vi sono anche limiti alla possibilità delle parti di modificare il regolamento contrattuale, con varianti e revisione del prezzo. Ciò al fine di prevenire la corruzione e di evitare che con simili strumenti si aggiri il meccanismo di selezione dell’offerta migliore, garantito dalle procedure di gara. Le norme disciplinano poi le modalità di verifica della conformità delle prestazioni eseguite a quelle pattuite: verifica che, nei contratti di lavori, prende il nome di “collaudo”. Vi è anche una disciplina speciale del contenzioso, sia con riferimento alle forme di transazione e arbitrato, sia con riferimento alle controversie giurisdizionali relative alle procedure di aggiudicazione e ad altre materie, che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo.

PARTE V I RIMEDI

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La responsabilità dell’amministrazione e dei dipendenti pubblici

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LA RESPONSABILITÀ CAPITOLO 19 DELL’AMMINISTRAZIONE E DEI DIPENDENTI PUBBLICI

SOMMARIO: 19.1. Responsabilità dell’amministrazione e responsabilità dei dipendenti. – 19.2. Obblighi e responsabilità delle amministrazioni. – 19.3. La responsabilità civile da fatto illecito dell’amministrazione. – 19.4. La responsabilità da fatto lecito dell’amministrazione. – 19.5. Doveri e responsabilità dei pubblici funzionari in quanto cittadini. – 19.6. Le responsabilità patrimoniali proprie dei funzionari pubblici. – 19.7. Le responsabilità non patrimoniali proprie dei dipendenti pubblici.

19.1.

RESPONSABILITÀ DELL’AMMINISTRAZIONE E RESPONSABILITÀ DEI DIPENDENTI

Nei capitoli precedenti si è trattato, tra l’altro, dei doveri delle amministrazioni e di quelli dei dipendenti. Occorre ora considerare le conseguenze della violazione di quei doveri, cioè la responsabilità delle une e degli altri. Naturalmente, vi sono differenze tra il regime proprio delle amministrazioni, che sono organizzazioni complesse, e quello proprio del dipendenti, che sono persone fisiche. In questo capitolo si farà riferimento sia alle une, sia agli altri. Per le prime, si tratterà dei loro obblighi e della loro responsabilità, che è principalmente una responsabilità civile. Per i secondi, i cui doveri sono già stati descritti (cap. 10), si descriveranno le forme di responsabilità, che sono varie. Nell’esaminare questa materia, comunque, occorre sempre tenere presente la menzionata natura trilaterale del rapporto tra cittadini, amministrazioni e funzionari pubblici, che fa sì che doveri e responsabilità siano sempre funzionali al perseguimento di interessi generali, cioè al benessere dei cittadini. Ciò spiega l’esistenza di un parallelismo tra la responsabilità delle amministrazioni e quella dei funzionari, che trova un riscontro nella Costituzione, la quale pone la regola della “coestensione” della responsabilità civile delle une

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e degli altri: il funzionario pubblico risponde degli atti compiuti in violazione di diritti, cioè è obbligato al risarcimento del danno; la responsabilità civile si estende all’amministrazione, quindi il privato danneggiato può pretendere il risarcimento indifferentemente dal funzionario o dall’amministrazione. Occorre ancora chiarire che l’elasticità dei confini della pubblica amministrazione, che si è più volte rilevata nei capitoli precedenti, si riflette anche sull’ambito di applicazione delle norme in materia di responsabilità. Per quanto riguarda le amministrazioni, per esempio, oltre alle forme di responsabilità previste per le amministrazioni pubbliche vi sono previsioni relative alla responsabilità dei gestori di servizi pubblici, che sono spesso privati. Per quanto riguarda gli individui, la menzionata previsione della Costituzione fa riferimento a tutti i funzionari pubblici, e non solo a coloro che hanno un rapporto di lavoro con l’amministrazione: quindi, non solo i dipendenti, ma anche, per esempio, i politici e i titolari e componenti di cariche in enti pubblici o commissioni.

19.2. OBBLIGHI E RESPONSABILITÀ DELLE AMMINISTRAZIONI Si è osservato in precedenza (cap. 14) che le pubbliche amministrazioni, al pari dei soggetti di diritto privato, sono titolari di situazioni giuridiche soggettive, le quali possono derivare dalla disciplina normativa delle funzioni amministrative ovvero dal diritto privato. Correlativamente alla natura ora pubblicistica, ora privatistica delle situazioni soggettive, anche i meccanismi di tutela e i rimedi alla violazione degli obblighi sono riconducibili a volte al diritto pubblico, a volte al diritto privato. Per esempio, se l’amministrazione non paga il corrispettivo di un bene acquistato, il venditore può intentare contro di essa un processo civile, non diversamente da come farebbe nei confronti di un debitore privato. Ma, se l’amministrazione non rilascia un’autorizzazione richiesta, l’interessato deve rivolgersi al giudice amministrativo. Delle forme di tutela giurisdizionale nei confronti delle pubbliche amministrazioni ci si occuperà in seguito (cap. 20). Per il momento ci si concentra sulla responsabilità che deriva all’amministrazione (oltre che, eventualmente, al dipendente) dalla commissione di un fatto illecito, che produce un danno nei confronti di un terzo. La violazione di un obbligo da parte dell’amministrazione, infatti, può determinare un danno ingiusto nei confronti di un terzo. A volte, questo danno può essere cancellato semplicemente adottando la decisione corretta: per esempio, accordando l’autorizzazione illegittimamente negata o restituendo

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il bene illegittimamente espropriato. Ma ciò può non essere sufficiente, perché si è prodotto un danno non reparabile, nel senso che non si può tornare alla situazione precedente: per esempio, un immobile viene espropriato in un caso non contemplato dalla legge e conseguentemente demolito; a un commerciante viene irrogata ingiustamente la sanzione della chiusura temporanea, con conseguente perdita di affari; un’autorizzazione viene indebitamente negata o rilasciata in ritardo, pregiudicando l’investimento fatto dal richiedente; il conducente di un automezzo appartenente all’amministrazione causa un incidente stradale. In tutti questi casi, il soggetto danneggiato può rivolgersi al giudice per chiedere – oltre all’annullamento dell’atto illegittimo, se ve ne è stato uno – il risarcimento del danno subìto. In ciò consiste la responsabilità civile da fatto illecito della pubblica amministrazione, che dipende dalla norma generale contenuta nel Codice civile e applicabile a ogni soggetto giuridico. La responsabilità civile, nel diritto privato, può avere natura contrattuale (derivando dall’inadempimento di un contratto), precontrattuale (derivando da un comportamento illecito nella fase precedente la conclusione del contratto) o extracontrattuale (derivando da un fatto illecito non collegato a un contratto, come la lesione di una persona o di un bene). Per quanto riguarda le prime due forme di responsabilità, alle pubbliche amministrazioni si applica il normale regime del Codice civile: di conseguenza, non se ne tratterà in questa sede, essendo materia di diritto privato. Si tratterà, invece, della responsabilità extracontrattuale, da fatto illecito: per essa, infatti, vi sono alcune peculiarità proprie del diritto amministrativo. Come si è osservato nel capitolo precedente, le situazioni soggettive tendono a concentrarsi sui soggetti di diritto, cioè su soggetti aventi capacità giuridica. Di conseguenza, tende a concentrarsi sui soggetti di diritto anche l’obbligo di risarcire il danno da fatto illecito. Dunque, la responsabilità si imputa non ai singoli uffici o organi che compongono le varie amministrazioni, ma alle amministrazioni nel loro complesso (lo Stato o i ministeri, le regioni, i comuni, le aziende sanitarie e così via). Va infine osservato che le amministrazioni pubbliche non sono soggette alla disciplina della responsabilità delle persone giuridiche per illeciti amministrativi dipendenti da reato, di cui alla legge n. 231 del 2001: questa disciplina, infatti, non si applica allo Stato, agli enti territoriali e agli enti pubblici. Al riguardo, occorre tuttavia ricordare la pluralità di nozioni di pubblica amministrazione, alcune delle quali comprendono soggetti, come gli enti pubblici economici e le società a controllo pubblico, che sono soggette alla disciplina menzionata.

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19.3.

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LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO DELL’AMMINISTRAZIONE

La responsabilità della pubblica amministrazione da fatto illecito si basa sul fatto che le amministrazioni sono soggetti di diritto come i privati, egualmente soggetti alle previsioni del Codice civile: si tratta della normale responsabilità “aquiliana”, risalente al diritto privato romano. Tuttavia, le differenze tra le prime, che svolgono funzioni ed esercitano poteri amministrativi, e i secondi determinano qualche particolarità nel regime della responsabilità civile. Una prima particolarità riguarda l’individuazione del fatto illecito, cioè della condotta colpevole che può essere fonte di responsabilità civile. Per affermare che vi è stata una condotta colpevole, occorre individuare l’elemento soggettivo, cioè il dolo o – più probabilmente – la colpa. Si tratta, ovviamente, di condizioni psicologiche che possono essere riferite a persone fisiche più che a organizzazioni complesse come le amministrazioni, la cui volontà si forma attraverso procedure complesse, alle quali contribuiscono diversi funzionari. Si tende spesso, quindi, a ricondurre la condotta colpevole all’illegittimità: se viene adottato un atto illegittimo, vi è stata una violazione del diritto da parte dell’amministrazione e questo è sufficiente ad affermare l’elemento soggettivo della colpa. Dunque, l’illegittimità di un provvedimento può integrare uno degli elementi della responsabilità civile, cioè l’elemento soggettivo. Ma ciò non è sufficiente a far sorgere l’obbligazione risarcitoria, essendo necessari anche gli altri elementi: il danno ingiusto e il rapporto di causalità tra condotta colpevole ed evento dannoso. In particolare, l’illegittimità del provvedimento può dipendere da un vizio formale o procedimentale che non ha effettivamente influito sulla decisione dell’amministrazione. Se, per esempio, chi chiede un’autorizzazione non ha tutti i requisiti richiesti dalla legge per ottenerla, l’amministrazione deve comunque negargli l’autorizzazione. E, anche se il provvedimento di diniego è viziato dalla violazione di una norma procedimentale o da un difetto di motivazione, non si può dire che il danno che egli subisce sia dovuto alla condotta colpevole dell’amministrazione: anche se la violazione non vi fosse stata, egli non avrebbe potuto ottenere l’autorizzazione. In un’ipotesi del genere, non vi è alcun danno ingiusto: se danno vi è, esso è voluto dalla legge ed è la conseguenza della prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato. Il richiedente potrà forse ottenere l’annullamento del provvedimento viziato, ma il successivo (legittimo) provvedimento sarà comunque di diniego ed egli non avrà diritto ad alcun risarcimento. Se, invece, vi è effettivamente un danno ingiusto conseguente alla condotta colpevole dell’amministrazione, l’interessato ha il diritto al risarcimento

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del danno: per esempio, colui al quale sia stata illegittimamente negata l’autorizzazione potrà non solo ottenere il provvedimento richiesto, ma anche il risarcimento del danno per il ritardo, che abbia in ipotesi determinato la perdita di un investimento o il deperimento di beni; colui al quale sia stato illegittimamente espropriato e demolito un immobile, avrà diritto a un risarcimento corrispondente al suo valore. Naturalmente, non sempre è facile stabilire se il danno è conseguente all’atto illegittimo. Per esempio, se viene violata una norma sulla partecipazione degli interessati al procedimento e l’amministrazione adotta discrezionalmente una decisione sfavorevole, può essere difficile capire se, ove l’interessato avesse potuto partecipare, la decisione sarebbe stata favorevole. Altro esempio. Se un’impresa viene illegittimamente esclusa da una gara, per stabilire se vi è stato un danno ingiusto occorrerebbe stabilire se, rimanendo in gara, essa la avrebbe vinta: ciò è spesso impossibile, perché la scelta dell’impresa vincitrice dipende da calcoli complessi e da valutazioni discrezionali della commissione aggiudicatrice, che per il giudice è impossibile ricostruire e ripetere. Di conseguenza, in questi casi spesso il risarcimento è calcolato in modo forfetario o equitativo (per esempio, nel caso della gara, una percentuale della base d’asta). In questo modo, la responsabilità della pubblica amministrazione si allontana dal modello “aquiliano”, proprio della responsabilità da fatto illecito, e si avvicina a quello della responsabilità contrattuale, nella quale il risarcimento è dovuto per il semplice fatto della violazione di un obbligo. Ciò viene a volte giustificato osservando che tra la pubblica amministrazione e il privato vi è un rapporto, come vi è tra le parti di un contratto. In ogni caso, anche per quanto riguarda l’individuazione del danno risarcibile, la responsabilità civile delle pubbliche amministrazioni presenta qualche particolarità rispetto al regime del Codice civile. La regola del diritto privato è che ogni danno a un interesse tutelato dall’ordinamento, conseguente a una condotta colpevole altrui, è risarcibile. Nel diritto amministrativo, per varie ragioni (legate alla concezione dell’amministrazione, al riparto della giurisdizione e ai poteri dei vari giudici), vi sono limitazioni, anche se negli ultimi anni esse sono state notevolmente attenuate. La giurisprudenza ha a lungo trattato in modo differenziato gli interessi “oppositivi” (come quello del proprietario di un bene che viene illegalmente espropriato), e quelli “pretensivi” (come quello di chi chiede un’autorizzazione, per esempio per avviare un’attività di impresa, che gli viene illegalmente negata). I giudici ritenevano che nel primo caso il cittadino fosse titolare di un diritto (risarcibile), nel secondo solo di un interesse legittimo (non risarcibile). Si riteneva che gli interessi legittimi (pretensivi) non fossero risarcibili: la pubblica amministrazione poteva danneggiarli senza pagare i danni. Da una ventina di anni (a partire dalla sentenza n. 500 del 1999 delle sezio-

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ni unite della Corte di cassazione) si riconosce invece che anche gli interessi pretensivi sono risarcibili, ma spesso i giudici ragionano in modo diverso da quanto avviene nel diritto privato. Nei rapporti tra privati, i giudici tendono a privilegiare il risarcimento “per equivalente” (cioè il pagamento di una somma di denaro), piuttosto che il risarcimento “in forma specifica” (cioè la ricostituzione della situazione precedente al fatto illecito che ha prodotto il danno). Se il danno è prodotto da una pubblica amministrazione, invece, i giudici tendono a privilegiare il risarcimento in forma specifica, cioè l’eliminazione del fatto dannoso. E, poiché il fatto dannoso è l’atto amministrativo, il risarcimento finisce per coincidere con l’annullamento dell’atto amministrativo. Si ritorna, così, al punto di partenza: il cittadino, che abbia subìto un danno ingiusto, può ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, ma solo raramente ottiene anche la condanna della pubblica amministrazione al pagamento di una somma di denaro. Ciò avviene solo quando è evidente e provato che l’atto amministrativo illegittimo (o la mancata emanazione dell’atto amministrativo dovuto) ha prodotto un danno patrimoniale ulteriore rispetto a quello che l’annullamento dell’atto fa venire meno.

19.4. LA RESPONSABILITÀ DA FATTO LECITO DELL’AMMINISTRAZIONE La responsabilità “aquiliana” consegue solo ad atti illeciti, cioè contrari alla legge, che producano un danno nei confronti di un terzo. Non consegue, invece, ad atti leciti. Anche un atto del tutto legittimo, in effetti, può determinare un danno nei confronti di un terzo: nel diritto amministrativo ciò avviene, per esempio, ogni volta che l’amministrazione nega un’autorizzazione o irroga una sanzione. In questi casi, il danno consegue non alla violazione di un obbligo, ma al legittimo esercizio di un potere. In questi casi, di regola, al danneggiato non è dovuto alcun indennizzo, perché il sacrificio del suo interesse è proprio l’obiettivo che l’ordinamento persegue (come nel caso delle sanzioni) o, comunque, la legge vuole che l’interesse pubblico prevalga su quello privato (come nel caso del legittimo diniego di autorizzazione). Vi sono, però, ipotesi nelle quali l’ordinamento riconosce una riparazione pecuniaria al soggetto, che incolpevolmente subisca un danno per il legittimo esercizio di un potere amministrativo: per esempio, al soggetto al quale venga espropriato un bene per pubblica utilità o al soggetto al quale venga revocata un’autorizzazione, non per sua cattiva condotta ma per ragioni di interesse generale. In questi casi, si ha la c.d. responsabilità da atto lecito, che è un fenomeno alquanto diverso dalla responsabilità da fatto illecito,

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non solo perché non vi è un comportamento colpevole, ma anche perché la riparazione del danno non è integrale: non vi è un risarcimento, ma un indennizzo, di entità minore rispetto al danno. Ciò dipende dal fatto che l’ordinamento vuole comunque assicurare la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, ma vuole attenuare gli effetti di questa prevalenza ed evitare il sacrificio integrale dell’interesse privato. Alcune forme di indennizzo sono previste dalla disciplina del procedimento amministrativo: se la pubblica amministrazione revoca un provvedimento favorevole, deve pagare un indennizzo a chi ne riceva un danno. Altrettanto deve fare la pubblica amministrazione se conclude un accordo sul contenuto di un provvedimento amministrativo e poi recede da esso. Si tratta comunque di un privilegio della pubblica amministrazione, perché l’indennizzo è inferiore al risarcimento del danno subìto.

19.5.

DOVERI E RESPONSABILITÀ DEI PUBBLICI FUNZIONARI IN QUANTO CITTADINI

Si è già osservato (cap. 10) che i dipendenti pubblici, che hanno un rapporto di lavoro con un’amministrazione, hanno diritti e doveri che dipendono da un contratto di lavoro, mentre la disciplina dei diritti e dei doveri dei funzionari onorari si inquadra in rapporti giuridici di tipo diverso; si è osservato altresì che i doveri dei pubblici funzionari derivano anche da alcuni princìpi costituzionali. Occorre ora trattare, anche per essi, delle conseguenze della violazione dei doveri, cioè delle forme di responsabilità. Per le amministrazioni vi è, come si è visto nelle pagine precedenti, un’unica forma di responsabilità, quella civile (ma, come pure si è rilevato, vi sono anche altre forme di rimedio ai loro illeciti, come il ricorso gerarchico e il ricorso al giudice amministrativo per l’annullamento del provvedimento invalido). Per i funzionari, invece, ve ne sono diverse. Si può dire che alcune forme di responsabilità sono proprie dei pubblici funzionari in quanto cittadini, mentre altre sono esclusive di essi: tra le prime, la responsabilità civile e quella penale; tra le seconde, la responsabilità disciplinare, quella erariale, quella dirigenziale e quella contabile. Delle prime si può trattare più rapidamente, proprio perché si tratta di forme di responsabilità ordinarie e, quindi, la loro analisi appartiene, rispettivamente, alla scienza del diritto privato e a quella del diritto penale. Per la responsabilità civile dei pubblici dipendenti nei confronti dei terzi, è sufficiente ricordare il già menzionato principio costituzionale, secondo il quale dei danni compiuti dai pubblici funzionari in violazione di diritti rispondono sia i funzionari stessi, sia le relative amministrazioni. Il soggetto

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danneggiato, quindi, può chiedere il risarcimento sia al funzionario, sia all’amministrazione. Di fatto, la richiesta di risarcimento viene sempre proposta nei confronti dell’amministrazione, che ha certamente il denaro per il risarcimento e nei confronti della quale, quindi, l’azione del danneggiato ha maggiori probabilità di successo. Va però precisato che l’estensione della responsabilità del funzionario all’amministrazione opera solo quando il primo agisce nello svolgimento delle sue funzioni e, quindi, vi sia uno scorretto perseguimento dell’interesse pubblico: in queste ipotesi, è l’amministrazione che agisce (illegalmente) attraverso il proprio funzionario. Quando, invece, il funzionario agisce nell’esclusivo perseguimento di un interesse privato, per esempio lasciandosi corrompere o utilizzando le risorse dell’ufficio a scopi personali, il rapporto d’ufficio con l’amministrazione è interrotto ed egli risponde solo personalmente. Va ancora riferito che, accanto a questa disciplina generale, vi sono discipline speciali, che per lo più limitano la responsabilità di determinate categorie di funzionari. Per esempio, i parlamentari, a norma della Costituzione, non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; per i magistrati, la legge individua con precisione le ipotesi che possono costituire colpa grave e non consente l’azione diretta dei danneggiati nei loro confronti; similmente, per alcuni illeciti commessi dal personale scolastico, come quelli inerenti alla vigilanza sugli alunni, l’azione può essere intentata solo nei confronti dello Stato; per il personale sanitario del Servizio sanitario nazionale vi è un regime di responsabilità che risulta anche dalla disciplina della responsabilità professionale. Per la responsabilità penale, è sufficiente rilevare che i pubblici funzionari sono soggetti non solo alle previsioni relative a tutti i cittadini, ma anche a previsioni specifiche, contenute nella parte del Codice penale relativa ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Il Codice penale fornisce una definizione, più restrittiva, di “pubblico ufficiale” e una, più ampia, di “incaricato di pubblico servizio”: chi rientra in una di esse, e commette uno dei relativi reati, può essere conseguentemente perseguito.

19.6.

LE RESPONSABILITÀ PATRIMONIALI PROPRIE DEI FUNZIONARI PUBBLICI

Per quanto riguarda le forme di responsabilità proprie dei pubblici funzionari, si può distinguere tra le responsabilità patrimoniali e quelle non patrimoniali. Tra le prime rientrano la responsabilità erariale e quella contabile: la prima è propria di tutti i pubblici funzionari (professionali e onorari), la seconda solo di coloro che hanno maneggio di denaro pubblico.

La responsabilità dell’amministrazione e dei dipendenti pubblici

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La responsabilità erariale, o amministrativa, è la responsabilità dei singoli funzionari pubblici per danni prodotti all’amministrazione, a seguito di violazione dei doveri d’ufficio. Essa viene fatta valere dinanzi alla Corte dei conti con un processo giurisdizionale: il pubblico ministero dinanzi alla Corte dei conti intenta il processo, nel quale il convenuto può difendersi e la Corte può condannarlo al risarcimento del danno. Il danno, detto appunto “erariale” in quanto arrecato all’erario pubblico, può essere diretto o indiretto: esempi della prima ipotesi sono quelli del funzionario che danneggia un bene dell’amministrazione, usandolo impropriamente, o che omette di riscuotere tempestivamente un credito dell’amministrazione, determinando la sua estinzione; la seconda ipotesi si ha quando il danno è arrecato a un terzo e l’amministrazione viene condannata al risarcimento. Come nella responsabilità civile, la responsabilità copre il danno emergente, cioè ciò che l’amministrazione ha perso, e il lucro cessante, cioè ciò che l’amministrazione non ha guadagnato in conseguenza del comportamento illecito. La responsabilità, peraltro, è limitata alle ipotesi di dolo e colpa grave, essendo esclusa quella conseguente al danno arrecato con colpa lieve. Può accadere, quindi, che l’amministrazione – che non beneficia di questa limitazione – sia tenuta a risarcire il danno arrecato da un proprio dipendente a un terzo, ma non possa rivalersi nei confronti del proprio dipendente, perché questi ha agito con colpa lieve. Inoltre, la Corte dei conti dispone di un “potere riduttivo”, che le consente di condannare il funzionario a risarcire una somma inferiore al danno arrecato, in considerazione di fattori come la complessità del lavoro, il contesto organizzativo e il curriculum professionale del funzionario stesso. Anche se si tratta di una responsabilità verso l’amministrazione, e non dell’amministrazione verso i cittadini, anche la responsabilità erariale tende a diventare una forma di controllo sull’amministrazione. Per rendersene conto, si può considerare che la Corte dei conti ha condannato: medici del servizio sanitario nazionale per aver prescritto troppi farmaci; incaricati della riscossione dei tributi per negligenza; amministratori locali per spese di viaggio, per la costituzione di società non necessarie o per l’aumento dell’indennità del sindaco; dirigenti per l’attribuzione di premi a tutti i dipendenti, e non solo ai più meritevoli. Come mostrano questi esempi, spesso la Corte interviene, per far valere questa responsabilità, quando mancano altri strumenti di controllo sul buon operato della pubblica amministrazione. Spesso mancano controlli efficaci all’interno dell’amministrazione e la cattiva gestione non è sanzionata neanche dal giudice amministrativo, perché non c’è nessun interessato che proponga un ricorso. Interviene, allora, la Corte dei conti, che si trasforma quasi in giudice della discrezionalità amministrativa.

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Infine, la responsabilità contabile è propria solo degli agenti contabili, come gli agenti della riscossione di tributi e i tesorieri. Essi hanno l’obbligo, alla fine della propria gestione, di rendere il conto della gestione stessa. Se da esso risulta una riduzione del denaro o dei beni loro affidati, si presume la loro responsabilità, ma essi sono ammessi a provare l’assenza di colpa. In assenza di tale prova, essi sono condannati al risarcimento, in quanto non hanno correttamente adempiuto agli obblighi inerenti alla loro gestione.

19.7.

LE RESPONSABILITÀ NON PATRIMONIALI PROPRIE DEI DIPENDENTI PUBBLICI

Infine, vanno considerate due ulteriori forme di responsabilità dei pubblici funzionari, che riguardano essenzialmente coloro che hanno un rapporto di lavoro con l’amministrazione: la responsabilità dirigenziale, che riguarda ovviamente solo i dirigenti; e la responsabilità disciplinare, che riguarda tutti i dipendenti. La responsabilità dirigenziale è quella del dirigente dell’ufficio, che risponde dell’andamento dell’ufficio e del raggiungimento dei risultati assegnati: nel caso in cui i risultati siano insoddisfacenti, al dirigente può non essere rinnovato l’incarico; nei casi più gravi, egli può essere rimosso. Essa ha una natura particolare, perché è connessa alla condotta del dirigente, ma prescinde dalla dimostrazione della sua colpa. Di fatto, essa viene fatta valere molto raramente: è molto più frequente che i vertici delle amministrazioni si liberino dei dirigenti sgraditi sfruttando altre possibilità, come quelle derivanti dalla possibilità di non rinnovare gli incarichi dirigenziali alla scadenza, dalla decadenza degli incarichi di vertice a seguito dell’insediamento di un nuovo governo o dalla ristrutturazione degli uffici. La responsabilità disciplinare è propria dei dipendenti pubblici come dei dipendenti privati, essendo connessa all’esistenza di un rapporto di lavoro. Come nel settore privato, vi sono sanzioni più o meno gravi (licenziamento, sospensione, rimprovero verbale e simili), in relazione alla gravità dell’infrazione. Parzialmente diverse, però, sono la fonte della responsabilità e la sua disciplina. Nei rapporti di lavoro privato, la responsabilità disciplinare si basa sul potere del datore di lavoro di far valere la violazione degli obblighi generali di lealtà e di diligenza, previsti dal Codice civile, o l’inadempimento della prestazione lavorativa nonché – di regola – su previsioni dei contratti collettivi di lavoro, che conseguono ai rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori e alla capacità dei primi di ottenere la previsione di doveri e sanzioni e dei secondi di ottenere garanzie. La disciplina, conseguentemente, è intera-

La responsabilità dell’amministrazione e dei dipendenti pubblici

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mente contrattuale, a parte qualche vaga previsione del Codice civile. Nel settore pubblico, invece, la responsabilità disciplinare si fonda su alcune previsioni generali di legge, che rimettono parte della disciplina ai contratti collettivi. Conseguentemente, la disciplina è in parte legislativa, in parte contrattuale: alcuni illeciti e le relative sanzioni sono definiti direttamente dalla legge, altri dai contratti collettivi. Sono definite dalla legge, in particolare, alcune ipotesi di licenziamento disciplinare, cioè di irrogazione della sanzione massima prevista dall’ordinamento: esso è irrogato, per esempio, nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, cioè ai dipendenti che risultano nel luogo di lavoro ma in effetti non vi si trovano. Nel settore pubblico come in quello privato, l’individuazione della sanzione conseguente all’illecito deve comunque rispettare il principio di proporzionalità: una sanzione eccessiva è quindi illegittima. Tuttavia, una recente innovazione legislativa ha stabilito che, nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, applicando le disposizioni vigenti e tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato. Tutto ciò vale per i profili sostanziali, relativi alla definizione di illeciti e sanzioni disciplinari, e anche per quelli procedurali, relativi al procedimento di irrogazione delle sanzioni (il procedimento disciplinare). Nel settore privato, non vi sono norme legislative e i giudici tendono ad applicare princìpi come quello del contraddittorio e quello di tempestività della contestazione. Per il pubblico impiego, invece, vi è una disciplina legislativa sostanzialmente esaustiva, ispirata a princìpi di garanzia dell’incolpato, al quale è data ampia possibilità di difendersi dinanzi alle autorità competenti per l’irrogazione delle sanzioni. Il grado di dettaglio della disciplina procedurale è tale che le violazioni sono frequenti, per esempio in ordine ai termini e alle comunicazioni dovute al dipendente accusato. Tuttavia, un’altra recente innovazione legislativa ha stabilito che queste violazioni non determinano la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità della sanzione irrogata, purché siano stati rispettati i due princìpi prima indicati, cioè se non sia stato irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare siano state compatibili con il principio di tempestività. In alcune amministrazioni, come quelle operanti nei settori della difesa e dell’ordine pubblico, i procedimenti disciplinari sono alquanto frequenti. In altre, come alcuni ministeri e le università, sono molto rari, tanto che la relativa disciplina è quasi sconosciuta e gli organi disciplinari spesso inesistenti. Questa scomparsa della responsabilità disciplinare da molte amministrazioni è da valutare negativamente, in quanto priva l’amministrazione di una rete di protezione più ampia, di uno strumento che può prevenire comportamenti

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più gravi, come quelli rilevanti sul piano penale: se l’amministrazione interviene tempestivamente a sanzionare i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare, si possono mantenere livelli di comportamento più corretti e prevenire la commissione di quelli penalmente rilevanti. In questo senso, la responsabilità disciplinare costituisce uno strumento di prevenzione della corruzione. È per questo che recenti misure legislative puntano a incoraggiare il ricorso a essa da parte delle amministrazioni.

CAPITOLO 20

LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

S OMMARIO : 20.1. Pubblica amministrazione e giudici. – 20.2. Il giudice amministrativo. – 20.3. Il riparto della giurisdizione. – 20.4. La giurisdizione amministrativa. – 20.5. Il processo amministrativo. – 20.6. Gli altri giudici e gli altri processi. – 20.7. I ricorsi amministrativi.

20.1. PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E GIUDICI Come tutti gli altri soggetti, le pubbliche amministrazioni devono rispettare la legge. Come tutti gli altri soggetti, sono chiamate a rispondere delle loro violazioni e possono essere parti di controversie, che sono decise da giudici, il cui compito è appunto di far rispettare il diritto. Nessun soggetto dell’ordinamento può sottrarsi ai giudici, perché nessuno può violare il diritto. Oggi tutto questo è ovvio, ma non lo è sempre stato. In altri tempi la soggezione dei pubblici poteri al diritto non era scontata né piena, quasi che – poiché erano i pubblici poteri a emanare le leggi – essi fossero esentati dal loro rispetto. O si ammetteva che le amministrazioni dovessero rispettare la legge, ma si riteneva che i giudici – non essendo al di sopra, ma sullo stesso piano di esse – non potessero sindacare i loro atti. Queste concezioni superate spiegano, da un lato, certe enunciazioni costituzionali che potrebbero sembrare ovvie, come quella dell’art. 113 cost., a norma del quale contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale. Spiegano, dall’altro lato, la particolarità di alcuni giudici, che sono nati come organi amministrativi, proprio perché non si ammetteva che i giudici potessero turbare lo svolgimento di funzioni amministrative, ma si ammetteva che potessero farlo altri organi amministrativi.

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Dunque, sull’assetto della giustizia amministrativa, cioè dell’insieme di norme e istituti volti a regolare la tutela dei privati nei confronti della pubblica amministrazione, incide in una certa misura il principio della separazione dei poteri, che induce a limitare i poteri dei giudici nei confronti delle amministrazioni. Esso, peraltro, è bilanciato dai princìpi di legalità e di tutela giurisdizionale, che inducono invece ad attribuire ai giudici il potere di dichiarare le violazioni commesse dalle amministrazioni, di far venire meno gli effetti di queste violazioni e di condannare le amministrazioni stesse ad adempiere ai loro obblighi. Non è un caso che si parli di tutela dei privati nei confronti delle amministrazioni (e non viceversa) e di violazioni commesse dalle amministrazioni (e non dai privati). I privati hanno bisogno di rivolgersi ai giudici, contro le amministrazioni, molto più di quanto le seconde abbiano bisogno di rivolgersi ai giudici contro i primi. Ciò dipende dal fatto che, per assicurare l’efficace soddisfazione degli interessi pubblici, l’ordinamento attribuisce alle amministrazioni molti rilevanti poteri (cap. 14), il cui esercizio può ledere gli interessi dei privati (come nel caso delle espropriazioni e delle sanzioni) o deludere le loro speranze (come nel caso delle concessioni e delle assunzioni). Spesso l’ordinamento consente alle amministrazioni sia di emanare atti produttivi di effetti giuridici, sia di portarli a esecuzione anche con la forza (per esempio, prendendo possesso del bene espropriato). Le amministrazioni, dunque, non hanno di regola bisogno di rivolgersi ai giudici per raggiungere i loro obiettivi, mentre i privati hanno bisogno di farlo per far valere le proprie ragioni nei confronti delle amministrazioni. In altri termini, l’attribuzione di molti poteri alle amministrazioni determina un’inversione dell’onere di agire, che viene posto a carico dei privati. Peraltro, non sempre ciò avviene: quando l’attività dell’amministrazione è soggetta al diritto privato (per esempio, quando essa prende in affitto un appartamento o vende un bene), essa può aver bisogno di rivolgersi a un giudice (per ottenere una riparazione dal padrone di casa, per ottenere il pagamento del prezzo). Tutto ciò potrebbe indurre a ritenere che il sistema della giustizia amministrativa rifletta solo una posizione di vantaggio o di privilegio delle amministrazioni nei confronti dei cittadini. Ma bisogna ricordare che il diritto amministrativo serve non solo ad attribuire poteri all’amministrazione, ma anche a tutelare i privati nei confronti di questi poteri (cap. 2). E che, se l’amministrazione è titolare di molti poteri amministrativi, il regime giuridico di questi poteri e dei relativi atti di esercizio è ispirato al fine di assicurarne un esercizio conforme alla legge e rispettoso dei diritti dei cittadini (capp. 14 e 16). La struttura del processo amministrativo riflette entrambi gli aspetti: serve l’iniziativa del privato per sottoporre un provvedimento amministrati-

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vo al controllo del giudice, ma questa iniziativa determina l’assoggettamento del provvedimento a un controllo attento e severo. Queste peculiarità spiegano, in primo luogo, l’esistenza del giudice amministrativo, cioè di un giudice ad hoc per le controversie – o, più esattamente, per alcune delle controversie – di cui sono parti le amministrazioni. Spiegano, in secondo luogo, la struttura del processo amministrativo, che di regola è quella tipica del processo impugnatorio: vi è un privato che reagisce contro una decisione dell’amministrazione, impugnando un suo provvedimento e chiedendo al giudice amministrativo di annullarlo. Spiegano, in terzo luogo, il modo in cui il giudice amministrativo controlla i provvedimenti delle amministrazioni, spesso sottoponendoli a un controllo molto più penetrante di quello al quale i giudici ordinari sottopongono le decisioni dei privati.

20.2. IL GIUDICE AMMINISTRATIVO L’opportunità che vi sia un giudice amministrativo, peraltro, è sempre stata oggetto di discussione, così come la divisione del lavoro tra esso e il giudice ordinario. In alcuni paesi non vi è una (unica) giurisdizione amministrativa: negli ordinamenti anglosassoni, per esempio, le controversie tra amministrazioni e privati sono decise dagli stessi giudici competenti per le controversie tra privati (anche se non mancano giudici speciali per particolari categorie di controversie, né sezioni speciali nell’ambito dei tribunali ordinari). In questi ordinamenti si ritiene che le pubbliche amministrazioni siano soggetti come gli altri e che le loro controversie non richiedano un giudice ad hoc. In Italia, come in altri paesi dell’Europa continentale, vi è invece una giurisdizione amministrativa, esercitata in primo grado dai tribunali amministrativi regionali e in appello dal Consiglio di Stato, alla quale sono attribuite la maggior parte delle controversie tra pubblica amministrazione e privati. Ciò dipende sia da ragioni storiche (compresa la già rilevata influenza del principio della separazione dei poteri), sia dall’indubbia peculiarità delle pubbliche amministrazioni, della loro attività e dei loro poteri, che richiedono giudici speciali, i quali abbiano una particolare conoscenza dell’amministrazione, una particolare dimestichezza con il diritto che la disciplina e una particolare capacità di valutare la legittimità e la ragionevolezza delle sue decisioni. La distanza tra i due modelli, peraltro, si è notevolmente ridotta con il tempo. Da un lato, come si è osservato, giudici speciali o sezioni speciali dei giudici ordinari, per alcune categorie di controversie tra pubbliche ammini-

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strazioni e cittadini, esistono in tutti i paesi: la vera differenza è che in alcuni ordinamenti (come quelli anglosassoni) ve ne sono di diversi tipi, mentre in altri (come quelli dell’Europa continentale) vi è un unico, grande ordine di giudici amministrativi. Dall’altro, i giudici amministrativi, che in molti ordinamenti sono nati come organi amministrativi piuttosto che come giudici, si sono progressivamente assimilati ai giudici: lo stato giuridico è simile, la struttura del processo amministrativo si è avvicinata a quella del processo civile, i poteri e le tecniche di decisione sono spesso gli stessi. Questo sviluppo è in parte dovuto all’influenza del diritto europeo (che, soprattutto in alcune materie, come i contratti pubblici, si preoccupa dell’effettività della tutela giurisdizionale) e del diritto internazionale (in particolare, dei princìpi di tutela contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo). I giudici amministrativi in Italia sono il Consiglio di Stato e i tribunali amministrativi regionali. Essi sono composti da magistrati amministrativi, selezionati a seguito di difficili concorsi, ai quali possono partecipare soltanto dipendenti pubblici aventi determinate qualifiche (come i magistrati ordinari). Al Consiglio di Stato, peraltro, si può accedere anche per nomina governativa o per anzianità come magistrato di tribunale amministrativo regionale. I magistrati amministrativi sono molto meno numerosi dei giudici ordinari e spesso assumono incarichi ulteriori, come quello di capo di gabinetto o capo ufficio legislativo nei ministeri. La magistratura amministrativa, come quella ordinaria, ha un proprio organo di autogoverno, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Il Consiglio di Stato è, oltre che un giudice, un organo consultivo, che fornisce pareri, spesso obbligatori, al Governo e alle amministrazioni statali. I consiglieri di Stato sono un centinaio, distribuiti in sette sezioni, costituite in tempi diversi. Attualmente, quattro di esse svolgono funzioni giurisdizionali (articolandosi in collegi giudicanti di cinque membri), tre svolgono funzioni consultive. Vi sono poi l’Adunanza generale, composta da tutti i consiglieri di Stato in servizio, che esprime alcuni pareri, e l’Adunanza plenaria, composta da tre componenti per ciascuna sezione giurisdizionale e presieduta dal Presidente del Consiglio di Stato, che si pronuncia in presenza di questioni di particolare importanza, o che possano dare luogo a contrasti giurisprudenziali. Alle sette sezioni vanno poi aggiunte le due, una consultiva e una giurisdizionale, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. I tribunali amministrativi regionali hanno sede nei capoluoghi di regione e possono essere divisi in sezioni e avere sezioni staccate in altre province. Essi si articolano in collegi giudicanti di tre membri. Tra essi, il più importante è quello del Lazio, competente per le controversie di cui siano parte quasi tutte le amministrazioni statali, aventi sede a Roma. I magistrati che li compongono sono circa trecento.

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20.3. IL RIPARTO DELLA GIURISDIZIONE Negli ordinamenti in cui vi è un giudice amministrativo, si pone il problema della divisione del lavoro tra questo giudice e il giudice ordinario, cioè del riparto della giurisdizione. Essa può essere operata in vari modi. I due metodi fondamentali sono: l’introduzione di una clausola generale, cioè un criterio generale che, in linea di massima, corrisponde alla distinzione tra controversie di diritto privato, alle quali si applica il diritto “comune”, e controversie di diritto pubblico, alle quali si applicano norme “speciali” di diritto amministrativo; e la divisione per materie. In Italia, il tradizionale criterio di riparto è il risultato della stratificazione di norme ispirate a logiche diverse e in teoria è incentrato sulla distinzione tra due distinte situazioni giuridiche soggettive, il diritto soggettivo e l’interesse legittimo. In base a questo criterio, per difendere un proprio diritto soggettivo, il privato deve rivolgersi al giudice ordinario; per difendere un interesse legittimo, deve rivolgersi al giudice amministrativo. D’altra parte, la distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo è sempre stata molto incerta, inducendo la giurisprudenza ad adottare di fatto criteri diversi, camuffati sotto quella distinzione. Tra i criteri più diffusi vi è quello basato sulla distinzione tra carenza di potere (ipotesi in cui l’amministrazione agisce senza che alcuna norma le attribuisca il relativo potere) e cattivo esercizio del potere (ipotesi in cui l’amministrazione è titolare del potere, ma lo esercita male): nel primo caso si afferma che vi è un diritto soggettivo e vi è giurisdizione ordinaria, nel secondo si afferma che vi è un interesse legittimo e vi è giurisdizione amministrativa. Attraverso questi criteri, nonostante l’assenza di una clausola generale, la giurisprudenza ha spesso fatto corrispondere la giurisdizione alla disciplina sostanziale, attribuendo al giudice ordinario le controversie da risolvere sulla base del diritto privato e al giudice amministrativo quelle in cui viene in rilievo la peculiarità delle funzioni amministrative e della relativa disciplina. In pratica, vi è sempre stata la tendenza a negare l’esistenza di un diritto, e quindi ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo, in presenza di un potere amministrativo (la distinzione tra carenza di potere e cattivo esercizio del potere, appena menzionata, ne è un esempio). Nell’ultimo quindicennio, questa tendenza è stata esplicitata da un’importante sentenza della Corte costituzionale (la n. 204 del 2004) e poi dal Codice del processo amministrativo, adottato con il decreto legislativo n. 104 del 2010. La sentenza ha stabilito che può aversi giurisdizione del giudice amministrativo in presenza di un interesse legittimo, che vi è un interesse legittimo se vi è un potere amministrativo e che il potere amministrativo è

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quello normalmente esercitato attraverso un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge n. 241 (la quale, in questo modo, assume rilievo ai fini del riparto della giurisdizione). Il Codice del processo amministrativo stabilisce che spettano al giudice amministrativo le controversie (nelle quali si faccia questione di interessi legittimi ed eventualmente di diritti soggettivi), concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo. Queste controversie possono riguardare non soltanto provvedimenti amministrativi, ma anche accordi o comportamenti riconducibili all'esercizio di tale potere (che, come si è rilevato in precedenza, può ben dare luogo ad accordi e a comportamenti, anche negativi). In molte importanti materie, peraltro, il problema del riparto della giurisdizione è risolto dalla legge, che attribuisce la giurisdizione al giudice amministrativo o a quello ordinario, prescindendo dalla situazione giuridica controversa. In base alla materia, per esempio, appartengono alla giurisdizione amministrativa le controversie in materia di diritto d’accesso ai documenti amministrativi, di concessioni di servizi pubblici o di beni pubblici, di procedure di affidamento di contratti pubblici, urbanistica, edilizia ed espropriazione. Appartengono alla giurisdizione ordinaria le controversie in materia di rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, sanzioni amministrative pecuniarie, trattamenti sanitari obbligatori, espulsione di stranieri.

20.4. LA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA Rientrano nella giurisdizione amministrativa, dunque, le controversie aventi a oggetto l’esercizio o il mancato esercizio di un potere amministrativo. Non solo, quindi, i casi in cui viene impugnato un provvedimento amministrativo, ma anche, per esempio, quelli di “silenzio” dell’amministrazione. Inoltre, il giudice non ha solo il potere di stabilire se il potere amministrativo è stato esercitato in modo legittimo o illegittimo (e, nel primo caso, annullare l’atto), ma anche poteri ulteriori, come quello di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno. Ciò si esprime spesso osservando che oggetto del processo amministrativo è il rapporto giuridico tra le parti, e non il singolo atto, che ne costituisce un episodio. La giurisdizione amministrativa è normalmente una giurisdizione di legittimità: il giudice verifica se l’amministrazione ha esercitato il suo potere in modo conforme al diritto. Come fanno normalmente i giudici, dunque, esso applica il diritto. È una forma di giurisdizione di legittimità anche la giurisdizione esclusiva, espressione con la quale si indicano le ipotesi in cui il giudice amministrativo è competente per materia, indipendentemente dalla situazio-

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ne giuridica soggettiva controversa: sono affidate alla giurisdizione esclusiva le controversie in molte importanti materie, quali gli accordi amministrativi, la nullità del procedimento amministrativo, il diritto di accesso ai documenti, i contratti pubblici, l’urbanistica, l’edilizia, l’espropriazione per pubblica utilità, molti provvedimenti di autorità indipendenti. Vi sono, però, ipotesi in cui il giudice amministrativo ha una cognizione estesa al merito: in questi casi, esso può sostituirsi all’amministrazione, anche adottando il provvedimento di competenza di essa. In queste ipotesi, quindi, il giudice non si limita ad applicare il diritto, ma svolge una funzione amministrativa, che può implicare valutazioni discrezionali. La principale ipotesi di giurisdizione di merito è il giudizio di ottemperanza, che serve a costringere l’amministrazione a eseguire una sentenza: a conclusione di esso, il giudice amministrativo può ordinare l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento o la stessa emanazione di esso, in luogo dell’amministrazione. A parte il giudizio di ottemperanza, che è una sorta di processo di esecuzione, il processo amministrativo è normalmente un processo di cognizione. Dinanzi al giudice amministrativo possono essere proposte azioni di cognizione di tutti e tre i tipi: costitutive, cioè volte a produrre effetti giuridici; dichiarative, cioè volte ad accertare situazioni giuridiche; e di condanna, cioè volte a imporre un obbligo. L’azione costitutiva è quella più tradizionale e consiste essenzialmente nell’azione di annullamento: il ricorrente chiede al giudice di annullare un provvedimento amministrativo, rimuovendone gli effetti giuridici. L’azione dichiarativa è volta ad accertare, per esempio, l’obbligo dell’amministrazione di provvedere (e quindi l’illegittimità del suo silenzio) o la nullità di un atto dell’amministrazione. L’azione di condanna è volta principalmente a ottenere la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno derivante da un suo fatto illecito.

20.5. IL PROCESSO AMMINISTRATIVO Il processo che si svolge dinanzi al Consiglio di Stato e ai tribunali amministrativi regionali è il processo amministrativo. Esso ha alcune parti necessarie, a cui possono aggiungersi ulteriori soggetti che, avendovi interesse, decidano di intervenire nel processo. L’atto introduttivo del processo è il ricorso, di conseguenza la parte che prende l’iniziativa del processo è detta ricorrente. Può rivolgersi al giudice amministrativo chi vi abbia interesse, cioè chi è titolare di una situazione giuridica, protetta dall’ordinamento, che riceverebbe un beneficio dall’accoglimento della do-

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manda. L’interesse può anche essere di una pluralità di persone o un interesse diffuso (come quello alla tutela dell’ambiente), purché a proporre il ricorso sia un organismo adeguatamente rappresentativo. Solo in casi particolari il ricorso può essere presentato da un individuo a tutela di un interesse generale (c.d. azioni popolari). Il ricorso deve essere proposto entro sessanta giorni, che – nel caso di impugnazione di un provvedimento – decorrono dal momento in cui esso è stato comunicato al ricorrente o, comunque, questi ne abbia avuto conoscenza. Il ricorso deve essere notificato all’amministrazione, il cui esercizio (o mancato esercizio) del potere è contestato (di solito, quella che ha emanato l’atto impugnato): essa è detta resistente. Può essere anche un soggetto (ad altri fini) privato, dato che la giurisdizione amministrativa si estende a tutti i soggetti che esercitino poteri amministrativi e debbano rispettare i princìpi del procedimento amministrativo. Il ricorso deve essere notificato, prima di depositarlo presso il giudice, anche agli eventuali controinteressati, cioè ai soggetti che hanno un interesse contrario, in quanto subirebbero un pregiudizio dall’accoglimento della domanda: anche essi sono parti necessarie del giudizio. In effetti, perché il ricorso sia ammissibile è sufficiente notificarlo ad almeno un controinteressato: se ve ne sono altri, il giudice ordinerà l’integrazione del contraddittorio, cioè le notifiche aggiuntive. I controinteressati, naturalmente, non sono obbligati a costituirsi, cioè a partecipare al processo. Oltre a proporre argomenti per dimostrare l’infondatezza degli argomenti della controparte, essi possono, in conseguenza del ricorso, proporre ulteriori domande, per esempio, per affermare la carenza di interesse del ricorrente o per impugnare il provvedimento per altri motivi (si pensi al vincitore di un concorso che, a fronte di un ricorso del secondo classificato, ritenga a sua volta di meritare una valutazione più alta): in questo caso, presentano un ricorso incidentale. Altri soggetti interessati possono intervenire nel processo. Il ricorrente, che tema che dall’esecuzione del provvedimento impugnato possa derivargli un danno grave e irreparabile, può chiedere al giudice di emanare una misura cautelare, cioè una decisione provvisoria che anticipa gli effetti dell’eventuale accoglimento del ricorso. Il giudice, se ravvisa un effettivo pericolo e ritiene che il ricorso possa essere accolto, può accordarla. La più frequente misura cautelare è la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato. Ma possono aversi anche altri tipi di misure, in relazione alla particolarità della domanda: per esempio, il pagamento di una cauzione o l’ammissione con riserva a un concorso, dal quale il ricorrente lamenti di essere stato illegittimamente escluso. La misura cautelare è normalmente chiesta al collegio giudicante, che decide entro poche settimane, ma vi sono procedure accelerate, con ricorso al solo presidente, in presenza di una particolare urgenza.

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Il processo si svolge poi su impulso delle parti. Esse possono presentare ulteriori atti, come memorie e documenti. Il ricorrente principale e quello incidentale possono anche introdurre, con motivi aggiunti, nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte o nuove domande, purché connesse a quelle già proposte. Il processo si svolge normalmente sulla base di documenti scritti, ma possono essere ammessi altri mezzi di prova, come le ispezioni, la prova testimoniale, accertamenti di fatti e valutazioni tecniche. Quando una delle parti lo chiede, viene fissata l’udienza pubblica per la discussione nel merito. Successivamente il collegio giudicante deposita la sentenza. Nel complesso, il processo amministrativo ha una struttura piuttosto semplice ed è di regola molto più rapido del processo civile. Nel corso del processo amministrativo, come degli altri processi, possono sorgere vari tipi di questioni incidentali: per esempio, una questione di legittimità costituzionale, che il giudice ritenga di sottoporre alla Corte costituzionale; una questione inerente all’interpretazione o all’applicazione del diritto europeo, che esso ritenga di sottoporre alla Corte di giustizia europea; una questione di giurisdizione, da sottoporre alla Corte di cassazione, o di competenza tra diversi tribunali amministrativi regionali, da sottoporre al Consiglio di Stato; una questione concernente lo stato o la capacità di una persona o un incidente di falso, che spettano alla cognizione del giudice civile. Oltre al rito ordinario, vi sono un rito abbreviato, per controversie di particolare rilievo, e vari tipi di riti speciali, per determinate materie. Infine, contro la sentenza che definisce il giudizio possono essere esperiti diversi mezzi di impugnazione: l’appello al Consiglio di Stato, che ovviamente può essere proposto solo contro le sentenze dei tribunali amministrativi regionali; la revocazione, ammessa in circostanze particolari, come la falsità di prove o l’errore di fatto; l’opposizione di terzo, da parte di un controinteressato che non abbia partecipato al giudizio; e il ricorso per cassazione, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

20.6. GLI ALTRI GIUDICI E GLI ALTRI PROCESSI Come si è osservato, alcune controversie in cui sono parti le pubbliche amministrazioni sono risolte dal giudice ordinario. Il processo si svolge secondo le modalità ordinarie, ma vi è un limite ai poteri del giudice, derivante dal principio di separazione dei poteri: al giudice ordinario è sempre stato negato il potere – che è invece attribuito al giudice amministrativo – di annullare o modificare atti amministrativi. La legge attribuisce invece al giudice ordinario il potere di “disapplicare” i provvedimenti illegittimi: esso deve, infatti, appli-

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carli in quanto siano conformi alla legge. Ciò significa che, a fronte di un provvedimento illegittimo (per esempio, dovendo valutare la responsabilità di un cittadino per la violazione di un divieto illegittimo), il giudice non può annullarlo, ma può non tenerne conto nel caso concreto, giudicando come se il provvedimento non vi fosse (e, quindi, nell’esempio, assolvendo il cittadino dall’imputazione penale o annullando la sanzione amministrativa che gli sia stata irrogata). La disapplicabilità da parte del giudice ordinario è un elemento del regime di invalidità del provvedimento amministrativo (cap. 16). Vi sono, peraltro, specifiche ipotesi in cui la legge attribuisce al giudice ordinario il potere di annullare provvedimenti amministrativi. Ciò avviene per determinati provvedimenti, come le sanzioni amministrative pecuniarie e l’espulsione dello straniero, che devono essere impugnate dinanzi a questo giudice e non dinanzi a quello amministrativo. Per alcune controversie che vedono il coinvolgimento di pubbliche amministrazioni vi sono giudici speciali, come i tribunali delle acque pubbliche e i tribunali militari. Va poi rilevato che i ricorsi contro alcuni atti delle amministrazioni degli organi costituzionali, come quelli delle Camere inerenti alla gestione del personale, sono sottratti alla giurisdizione dei giudici ordinari e decisi da organi giurisdizionali interni, a salvaguardia della loro indipendenza. Le pubbliche amministrazioni, ovviamente, non possono commettere reati e non sono soggette al Codice penale né al giudice penale. Ovviamente possono commettere reati e subire un processo penale i singoli pubblici funzionari, ma ciò attiene al regime della loro responsabilità. Altrettanto vale per la responsabilità erariale e per quella contabile (cap. 19): ai relativi processi dinanzi alla Corte dei conti (ora disciplinati dal Codice della giustizia contabile, adottato con il decreto legislativo n. 174 del 2016) l’amministrazione danneggiata non partecipa, in quanto è la procura presso la Corte dei conti ad agire per suo conto. È vero, peraltro, che il giudice penale e la Corte dei conti, nel valutare la responsabilità dei pubblici funzionari, si spingono a volte a valutare il modo in cui essi hanno svolto le loro funzioni e a sindacare le scelte discrezionali da essi compiute. Le pubbliche amministrazioni, invece, possono essere parti di controversie tributarie, non solo in quanto enti che impongono tributi, ma anche come contribuenti. Possono, di conseguenza, ricorrere ai giudici tributari, non diversamente dai soggetti privati. Va infine osservato che anche per le controversie che coinvolgono pubbliche amministrazioni possono essere utilizzate forme di risoluzione alternative al processo, come l’arbitrato (che però è ammesso solo per determinate categorie di controversie e a volte è escluso dalle norme) e procedure di conciliazione.

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20.7. I RICORSI AMMINISTRATIVI Il ricorso al giudice è la principale forma di soluzione delle controversie tra amministrazioni e cittadini e di tutela dei secondi nei confronti delle prime, ma non è l’unica. I provvedimenti amministrativi possono di regola essere impugnati non solo dinanzi ai giudici, ma anche dinanzi a organi amministrativi. Le relative procedure sono definite ricorsi amministrativi. Si tratta di procedimenti amministrativi che si concludono con provvedimenti amministrativi di secondo grado, che possono a loro volta essere oggetto di ricorso giurisdizionale. Da un lato, i ricorsi amministrativi sono un ulteriore residuo delle concezioni superate a cui si è accennato, che non ammettevano ingerenze di altri poteri (come quello giudiziario) nell’amministrazione, ma ammettevano le richieste di riesame allo stesso organo che aveva emanato l’atto contestato o il ricorso a un altro organo. Dall’altro lato, essi possono essere un modo per ridurre il contenzioso giurisdizionale e una forma di tutela più rapida e meno costosa, per il cittadino, di quella giurisdizionale. Vi sono vari tipi di ricorso amministrativo. I ricorsi “ordinari” sono: il ricorso in opposizione, che si propone allo stesso organo che ha emanato l’atto impugnato; il ricorso gerarchico, che si propone all’organo gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto impugnato (se ve ne è uno); e il ricorso gerarchico improprio, che si propone dinanzi a un organo diverso, indicato da una specifica norma, in assenza della quale questo rimedio non è ammesso. Vi è, poi, il ricorso straordinario, che può essere proposto nei confronti degli atti definitivi, cioè di quelli per i quali non sono ammessi ricorsi ordinari. Esso, inoltre, può essere proposto entro un termine più lungo di quello per il ricorso al giudice amministrativo (centoventi giorni invece che sessanta), il che induce a volte a utilizzarlo in assenza di altri possibili rimedi. Esso è rivolto al Presidente della Repubblica, il quale formalmente decide su di esso, ma su proposta del ministro competente per materia, che è a sua volta condizionato da un parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato. Di fatto, quindi, il ricorso è deciso dal Consiglio di Stato. Ciò spiega perché esso sia alternativo al ricorso giurisdizionale.

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BIBLIOGRAFIA

Vi sono molti ottimi manuali di diritto amministrativo italiano, ma, per la loro valenza formativa e la loro capacità di reggere la sfida del tempo, vanno segnalati: M.S. Giannini, Diritto amministrativo, II ed., 2 voll., Milano, Giuffrè, 1988; S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, sesta ed., Milano, Garzanti, 2000; e F. Benvenuti, Disegno dell’amministrazione italiana, Padova, Cedam, 1996. Tra i manuali recenti e aggiornati: M. D’Alberti, Lezioni di diritto amministrativo, terza ed., Torino, Giappichelli, 2017; V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, sesta ed., Torino, Giappichelli, 2017; M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, terza ed., Bologna, Il Mulino, 2017; G. Napolitano, La logica del diritto amministrativo, seconda ed., Bologna, Il Mulino, 2017. L’unica trattazione completa della parte speciale del diritto amministrativo (unitamente a un’ampia trattazione della parte generale) è contenuta nel Trattato di diritto amministrativo, seconda ed., 2+5 voll., a cura di S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2003. Utili trattazioni di problemi applicativi sono contenute in Diritto amministrativo applicato, a cura di A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2005; e in La dinamica del diritto amministrativo. Dieci lezioni, a cura di L. Torchia, Bologna, Il Mulino, 2017. Per i profili comparati, con la giusta prospettiva storica: M. D’Alberti, Diritto amministrativo comparato. Trasformazioni dei sistemi amministrativi in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia, Bologna, Il Mulino, 1992; e Diritto amministrativo comparato, a cura di G. Napolitano, Milano, Giuffrè, 2007. Sul diritto amministrativo europeo, Diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. Chiti, seconda ed., Milano, Giuffrè, 2018. Sul diritto amministrativo globale, S. Cassese, Il diritto globale, Torino, Einaudi, 2009. Per approfondimenti specifici, Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, 6 voll., Milano, Giuffrè, 2006; e il molto più sintetico Dizionario di diritto amministrativo, a cura di M. Clarich e G. Fonderico, Milano, Il Sole 24 ore, 2007. Sulle funzioni amministrative, tre risalenti contributi di altrettanti grandi maestri del diritto amministrativo: F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 118; G. Zanobini, Criteri di classificazione delle varie manifestazioni dell’azione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954,

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p. 529; M.S. Giannini, In principio sono le funzioni, in Amministrazione civile, n. 24, 1959, p. 11 (ora in Scritti, vol. IV, Milano, Giuffrè, 2004, p. 719). Sul riparto delle funzioni amministrative dopo la riforma costituzionale del 2001, in varie materie, Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, a cura di G. Corso e V. Lopilato, voll. 1+2, Milano, Giuffrè, 2006. Per una prospettiva economica, J.E. Stiglitz, Il ruolo economico dello Stato, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1997. Sulla storia dell’amministrazione italiana e del diritto amministrativo, G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana. 1861-1993, Bologna, Il Mulino, 1996; L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Più sinteticamente, M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stato e amministrazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 1986; M. Cammelli, La pubblica amministrazione, seconda ed., Bologna, Il Mulino, 2014. Sulle riforme amministrative, A. Natalini, Il tempo delle riforme amministrative, Bologna, Il Mulino, 2006; B.G. Mattarella, Burocrazia e riforme. L’innovazione nella pubblica amministrazione, Bologna, Il Mulino, 2017. Sul sistema amministrativo, Il sistema amministrativo italiano, a cura di L. Torchia, Bologna, Il Mulino, 2009. Sui controlli amministrativi, M.S. Giannini, Controllo: nozioni e problemi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, p. 1263. Sulle fonti, F. Sorrentino, Le fonti del diritto amministrativo, Padova, Cedam, 2004; sui princìpi, Studi sui princìpi del diritto amministrativo, a cura di M. Renna e F. Saitta, Milano, Giuffrè, 2012; sui problemi della normazione italiana, B.G. Mattarella, La trappola delle leggi, Bologna, Il Mulino, 2011. Sul personale pubblico, M. Rusciano, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978; S. Battini, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Padova, Cedam, 2000; G. Melis, La burocrazia, Bologna, Il Mulino, 2015. Sui doveri dei pubblici dipendenti, B.G. Mattarella, Le regole dell’onestà, Bologna, Il Mulino, 2007. Sui beni pubblici, S. Cassese, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, Giuffrè, 1969; M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, Giuffrè, 2004. Sui relativi problemi e per alcune proposte, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, a cura di U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà, Bologna, Il Mulino, 2007. Sulla finanza pubblica, G. della Cananea, Indirizzo e controllo della finanza pubblica, Bologna, Il Mulino, 1996; A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino, Giappichelli, 2005; sui problemi della spesa pubblica e alcune proposte, C. Cottarelli, La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, Milano, Feltrinelli, 2015. Sul potere, sul procedimento e sul provvedimento amministrativo, F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl., 1950, p. 29; F. Benvenuti, Autotutela (diritto amministrativo), in Enc. dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, p. 537; S. Cassese, La disciplina legislativa del procedimento amministrativo. Una analisi comparata, in Foro it., 1993, V, c. 27; G. Corso, Validità (diritto amministrativo), in Enc. dir., XLVI, Milano, Giuffrè, 1993, p. 84; M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995; N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, Giuffrè, 2001; B.G. Mattarella, Potere amministrativo, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, p. 4393. Sui contratti pubblici, F, Cafagno, Lo stato

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banditore, Milano, Giuffrè, 2001; Lo Stato compratore. L’acquisto di beni e servizi nelle pubbliche amministrazioni, a cura di L. Fiorentino, Bologna, Il Mulino, 2007; I contratti con la pubblica amministrazione, 2 voll., a cura di C. Franchini, Torino, Utet, 2007. Sulla giustizia amministrativa, M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc., 1963, p. 523 e 1964, p. 12 e p. 217; M. Nigro, Giustizia amministrativa, quarta ed., Bologna, Il Mulino, 1976; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, dodicesima edizione, Torino, Giappichelli, 2016. Più sinteticamente, G. Corso, La giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 2002.

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INDICE ANALITICO

A Accesso ai documenti amministrativi, 93 Accesso civico, 94 Accordi amministrativi, 162, 188, 222 Affidamenti in house, 224 Agenzie governative, 75 Amministrazione digitale, 95 Amministrazione europea, 81 Amministrazioni aggiudicatrici, 229 Annullamento d’ufficio, 219 Atti – ablatori, 216 – amministrativi, 162 – amministrativi generali, 49, 162, 212 – di alta amministrazione, 221 – dichiarativi, 220 – politici, 163, 221 Attività amministrativa, 159 – disciplina, 159, 163 – forme, 161 – materiale, 161 Attribuzione, 100 Autocertificazione, 221 Autogoverno, 108 Autonomia, 103 Autorità indipendenti, 77 Autorizzazioni, 214 Autotutela amministrativa, 142, 219

B Beni pubblici, 135 Bilanci pubblici, 146

C Carenza di potere, 208 Centrali di committenza, 230 Codici di comportamento, 125 Collaudo, 234 Collegi amministrativi, 101 Concessioni, 213 Concorsi pubblici, 118 Competenza, 100 Conferenza di servizi, 185 Conferma e atto confermativo, 218 Conflitto di interessi, 129 Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, 252 Consiglio di Stato, 101, 252 Contrarius actus, 218 Contratti pubblici, 151, 162, 223 – centralizzazione delle committenze, 230 – conclusione, 233 – disciplina, 164, 227 – esecuzione, 234

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– oggetto, 226 – offerte anormalmente basse, 232 – presupposti, 223 – qualificazione dei contraenti, 229 – requisiti degli operatori economici, 229 – scelta del contraente, 231 – tipologia, 225 Controllo, 102 Controlli amministrativi, 104 Convalida del provvedimento, 219 Coordinamento, 102 Corte dei conti, 101, 105

D Decentramento, 40 Delegazione, 102 Demanio pubblico, 139 Democrazia amministrativa, 91 Dichiarazione o Segnalazione di inizio di attività, 215 Dipendenti pubblici, 114 Direzione, 102 Dirigenti amministrativi, 115 Diritto amministrativo, 3 – caratteri, 19, 24 – origine, 24, 27 – funzione, 3, 15, 250 – parte generale e parte speciale, 4, 23 – specialità, 18 Discrezionalità amministrativa, 194 Discrezionalità tecnica, 196

E Eccesso di potere, 206 Enti aggiudicatori, 229 Enti pubblici, 77 Enti territoriali, 76 Esecuzione forzata amministrativa, 161 Espropriazione per pubblica utilità, 136, 216

Etica pubblica, 123 Evidenza pubblica, 225

F Finanza pubblica, 145 Fonti del diritto amministrativo, 45 Freedom of Information Act, 94 Funzionari 113 – e addetti, 113 – professionali e onorari, 113 Funzioni amministrative, 3 – caratteri, 12 – classificazione, 5 – e altre funzioni, 4, 11 – espansione, 10, 32, 34, 36, 37 – forme di svolgimento, 38, 161 – riparto, 22 – tecniche di disciplina, 20

G Gerarchia, 102 Giudice amministrativo, 251 Giudizio di ottemperanza, 255 Giurisdizione amministrativa, 254 Giustizia amministrativa, 249 Giustizia contabile, 258

I Impresa pubblica, 226, 229 Incompetenza, 206 Inflazione normativa, 37, 39, 56 Interesse legittimo, 170, 176 Irregolarità, 208 Ispezioni, 105

L Linee guida, 49, 228

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M Ministeri, 74

N Normazione amministrativa, 56, 160

O Obbligo di procedere e obbligo di provvedere, 187 Operazioni materiali, 161, 222 Organi, 99 Organismi di diritto pubblico, 66, 229

P Parità, 102 Patrimonio pubblico, 142 Personale pubblico, 111 – A tempo determinato, 114 – contrattazione collettiva, 120 – disciplina, 119 – doveri, 123 – in regime di diritto pubblico, 120 – privatizzazione, 113 – professionale e onorario, 113 – reclutamento, 117 Potestà organizzativa, 105 Potere amministrativo, 16, 169, 171, 250 Presidenza del Consiglio dei ministri, 74 Prestazioni imposte, 149 Primazia, 102 Princìpi del diritto amministrativo, 52 – adeguatezza, 22 – autonomia, 53 – buon andamento, 22, 52 – buona fede o legittimo affidamento, 54 – decentramento, 53, 108 – differenziazione, 22

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– diritto a una buona amministrazione, 53 – giusto procedimento o contraddittorio, 53 – imparzialità, 22, 52, 108 – legalità, 52 – partecipazione, 53 – proporzionalità, 22 – ragionevolezza, 54 – sussidiarietà, 22, 108 Procedimento amministrativo, 179 – conclusione, 188 – disciplina, 181 – di spesa, 154 – e altri procedimenti giuridici, 180 – fasi, 185 – funzioni, 180 – legge n. 241 del 1990, 41, 91, 159, 183 – modelli di disciplina, 182 – partecipazione, 92, 186 – responsabile del, 186 – termine, 187 – tipologia, 189 Processo amministrativo, 255 Provvedimento amministrativo, 162, 193, 197 – Annullabilità, 207 – disapplicazione, 257 – di secondo grado, 218 – e atto normativo, 212 – efficacia ed esecuzione, 202 – esecutorietà, 204 – esecuzione forzata, 161 – esternazione, 200 – invalidità, 204 – motivazione, 200 – nullità, 208 – struttura, 198 – tipologia, 211 Pubblica amministrazione, 61 – dimensione, 69 – e cittadini, 85, 91 – e politica, 89 – locale, 76 – nella costituzione, 35

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– nozioni espansive, 65 – nozioni restrittive, 68 – periferica, 76 – perimetro, 61 Pubbliche amministrazioni, 61 – in forma privata, 80 – parallele, 34 – statali e non, 73 – ultrastatali, 81

R Rapporto d’ufficio e rapporto di servizio, 113 Rating di impresa, 231 Regimi regolatori globali, 48 Regolamenti amministrativi, 49, 162, 212 Responsabilità, 237 – dei pubblici dipendenti e funzionari, 237 – della pubblica amministrazione, 238 – dirigenziale, 246 – disciplinare, 246 – erariale o amministrativa, 245 – ministeriale, 28, 108 Revoca del provvedimento, 220 Ricorsi amministrativi, 259 Riforma del provvedimento, 220 Riforme amministrative, 39 Riparto della giurisdizione, 253 Riserva originaria, 213

Segnalazione certificata di inizio di attività, 215 Semplificazione amministrativa, 39, 185 Servizi pubblici, 8 Settori speciali, 226 Silenzio della pubblica amministrazione, 188, 201, 215 Situazioni giuridiche soggettive, 169 Società pubbliche, 78 Soggetti aggiudicatori, 229 Sospensione del provvedimento, 220 Sovvenzioni, 214 Spoils system, 90 Stazioni appaltanti, 229

T Trasparenza amministrativa, 92 Tribunale amministrativo regionale, 252 Tutela cautelare nel processo amministrativo, 256 Tributi, 148

U Uffici, 99 Unificazione amministrativa, 28

V S Sanatoria, 219 Sanzioni amministrative, 217

Violazione di legge, 206 Vizi del provvedimento amministrativo, 205

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