L' anno del bradipo. Diario di un critico di provincia 9788855292061, 9788855292078

Rapsodico journal, diario in pubblico che travalica i generi: dal ritratto critico alla nota descrittiva, dalla scheggia

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L' anno del bradipo. Diario di un critico di provincia
 9788855292061, 9788855292078

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L’anno del bradipo
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Domenico Calcaterra

L’anno del bradipo Diario di un critico di provincia

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 8

Domenico Calcaterra

L’anno del bradipo Diario di un critico di provincia

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 8 – maggio 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-206-1 ISBN – Ebook: 978-88-5529-207-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Sloth portrait. Face of cute animal. Aviator flying leather helmet with googles. © helen_f – stock.adobe.com Le fotografie presenti nel volume, salvo diversa indicazione, sono di Domenico Calcaterra.

Agli involati Ai vivi e ai morti

Abbiamo tutti dentro un libro, forse un grande libro, che però nel tumulto della nostra vita interiore raramente emerge oppure lo fa così in fretta che non ci dà il tempo di arpionarlo. Ecco: spero di esserci riuscito. (Enrique Vila-Matas) Scrivere dal posto più lontano per essere più vicino su questo zero sopra questo zero seduto su questo zero e travolto mi alzo da questo zero e da questo zero scrivo. (Luigi Di Ruscio) Sotto l’alibi della dissertazione demolita, si giunge alla pratica regolare del frammento; poi dal frammento si scivola al «diario». Da quel momento lo scopo di tutto ciò non è forse di darsi il diritto di scrivere un «diario»? (Roland Barthes) Alla fine non esiste la storia: solo la biografia. (Ralph Waldo Emerson) You are a man, or haven’t you heard That you keep on trying to be a bird? (Wystan Hugh Auden)

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13 luglio, ore 13:17 Tredici. Il numero, insieme al diciassette, in cui si condensa tutta la mia privata numerologia sentimentale, in barba ad ogni italica geografia della superstizione che induce a credere, rispettivamente nel Settentrione e nel Meridione d’Italia, questi due numeri apportatori di sciagure, e che indusse D’Annunzio, dedicando un suo libro, a scrivere «1912+1» (ce lo ricorda Sciascia, nella divagante cronaca dal titolo omonimo, in cui riprende il caso giudiziario della contessa Maria Tiepolo). Diciassette. In quel giorno, e per di più di venerdì, nacque l’involata Basilisca; così come di diciassette è nata, epperò sotto il segno della vergine, Rosamaria, la mia sposa, vagheggiata e assai invocata in versi giovanili e acerbi, e tuttavia sinceri: «Vieni, / nei giorni gemelli / sui balconi trafitti / dai soliti giovani soli. // Tieni le mani bianche / sulle tue – nuove – / di mimosa»… Che fanno il paio con questi, di non meno arresa puerilità, di appena qualche anno più tardi: «là è che canta la Rosa / e dimora la pace: nel docile / braccio di mare dei tuoi occhi / terrestri». Mi vengono in soccorso le Lettere d’amore del carteggio Gozzano-Guglielminetti che Ermanno Cavazzoni ha voluto ripubblicare per Quodlibet, mai più ristampato

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dal 1951 per la perdita delle lettere originali e che vado compulsando in questi giorni. Beata serendipità, incredibilmente connessa col mestiere del critico! Nella prima lettera (datata 13 aprile 1907) che la poetessa invia al Cortese Avvocato (sic) ritrovo infatti quanto meglio riesce ad esprimere il senso di questo mio regesto pubblico, ciò che ne costituisce il motore primo, il sentimento dominante: «il rimpianto di ciò che fu, e l’ansia di ciò che non è ancora, e il sottile tormento del dubbio, e l’ebbrezza folle del sogno»; insomma, tutte le cose «belle e perfide» per cui si vive e ci si avvelena.

14 luglio, ore 00:27 È mania la lettura. È mania la scrittura. Mania è questo appigliarsi all’etica di un lavoro il cui compenso svapora, non è mai quantificabile. Mania è questo dover stare soli, allo scrittoio, appena passata la mezzanotte – quieta la casa, e a empire gli scoppi di silenzio, in cuffia, il Dido & Aeneas del sublime Henry Purcell (amo l’ipnotica fissità della musica barocca, arzigogolato basso continuo per le mie meditazioni notturne). A compilare tabelle di marcia che sarà arduo riuscire a non disattendere, l’ennesimo tour de force da mettere in conto per rubare al risicato calendario feriale il massimo del profitto: in termini di studio, saggi o articoli da scrivere, progetti editoriali da portare a termine, nuove idee da sviluppare. Anche questa notte davanti al foglio bianco, mentre tu dormi nella stanza a fianco ed io vivo questo non essere con te come un pallido tradimento, penso che dovrei stare abbracciato a te, accompagnare il tuo sonno, anziché lasciare crescere la tensione per quel giro di frase che non viene, quell’argomentazione che s’ingolfa e non mi soddisfa in pieno, la montante preoccupazione per la scadenza che impensierisce – chissà perché? – e temo di non fare in tempo a onorare… Una sensazione, con l’avanzare degli anni, che si rinnova, sempre uguale – a

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che tanto spreco? (di tempo, d’energie, di vita) –, e che trovai qualche anno fa luminosamente espressa in una pagina di uno degli scrittori senz’altro più importanti del secondo Novecento e mai abbastanza celebrato quando non del tutto obliato, complice anche la malattia che lo ha nel tempo corroso, reso un recluso, ignoto a se stesso. Sto parlando di Daniele Del Giudice, da qualcuno in verità ricordato sui giornali e sui social, qualche giorno fa, in occasione del ricorrere del suo settantesimo compleanno. Mi riferisco all’incipit di In questa luce, raccolta in cui confluiscono le pagine di riflessioni su quelle tematiche che hanno sostanziato il suo immaginario letterario: il tempo e il volo, il rapporto tra linguaggio e realtà, e tutto quanto ha costituito l’abbecedario della sua cartografia fatta di oggetti e manie, sempre coniugando precisione e immaginazione, nel solco della migliore lezione calviniana. Del Giudice descrive il disagio di quel ritrovarsi al fine soli, l’ansia di fallire davanti al foglio bianco, appena riscattata dall’agognata gioia di riuscire a «levare ad ogni frase la terra sotto i piedi»; la tentazione, forte, di mandare tutto a monte, svicolare dalla gabbia dello scrivere. Autoagnizione della propria fragilità che Del Giudice conclude, non a caso, rivolgendosi a sua moglie, alludendo al deficit di vita che la sua mania ha comportato, in termini di cose a lei non dette o mai chieste. Anch’io voglio dirtelo, stanotte, prendendo in prestito le parole dell’autore di uno dei romanzi più importanti di un terminale Novecento, Staccando l’ombra da terra, «quanto mi piace e dispiace questo mio mestiere, che non è un mestiere». Spengo il Mac. Camminando al buio, a memoria, ti raggiungo per venirti a guardare, mentre dormi.

15 luglio, ore 10:10 Difficoltà oggi a rimanere concentrato sul da farsi. Penso al mio caro amico Fabio che da qualche giorno ha visto spegnersi

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la sorella in un’età in cui dovrebbe essere ormai di certo impossibile morire. Fabio è quello che si dice un uomo buono, ma d’una bontà tutta speciale, ruvida, al punto da suscitare talvolta imbarazzo. Sua forza e suo tallone d’Achille, il suo essere veracemente buono è ciò che più te lo fa amare e suscita verso di lui, in chi gli vuol bene, un istintivo moto di protezione. È accaduto di nuovo: ogni volta che apprendo di queste morti precoci ripiombo in un arreso sgomento che ha sempre più il senso di uno smacco che la vita beffarda apparecchia, e a cui non si può né reagire, né scampare. Penso a come non fui capace di assistere, pietrificato, impegnato per mesi e mesi a capacitarmi di ciò che stava accadendo, la mia Basilisca. Lei, che fu d’una bellezza antica e severa, mitologica quasi, per quel non assomigliare a nessun’altra, dalla malattia impietosamente offesa e ridotta a irriconoscibile estranea. Avevamo preso a chiamarla così io e zia Geco negli anni in cui si viveva insieme nella casa paterna, in quell’ampio studio-dormitorio che sarebbe diventato poi il suo reclusorio, la stanza de la dolora. Un pomeriggio d’estate, a lenire l’inquieta noia che ci univa, proposi di vedere insieme il VHS del film d’esordio del ’63 di Lina Wertmüller, I basilischi, capolavoro di verità antropologica sul Meridione d’Italia. In una delle sequenze del film Stefano Satta Flores finalmente riesce a dichiararsi, ponendo fine a un estenuante corteggiamento, fatto di prolungati appostamenti e vogliose occhiate. Ascoltatolo, la ragazza, sentenzia: «la risposta tra tre giorni!» – andando via tacchettando e sgonnellando. Quella camminata, sottolineata da un ironico piano-sequenza, ci sembrò il perfetto ritratto del suo incedere nervoso e saettante. Ecco come, da quel momento, divenne per noi la Signorina Basilisca. Mi accosto alla foto che le scattai nel giorno del suo matrimonio a Salina che la ritrae in tutta la sua selvatichezza snob, qui parossistica, complice anche il bianconero: seduta al tavolo, gli occhi puntati sull’obiettivo, nella mano sinistra l’immancabile sigaretta; lo sguardo di chi

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avverta che stia lasciando trapelare più del dovuto di sé (era il suo aristocratico modo di donarsi agli altri). Con eguale cupo stupore, ogni volta che rientro a casa e poso lo sguardo su questa foto, sento miei i versi interrogativi che Striggio scrisse per l’Orfeo di Monteverdi: «Tu se’ morta, mia vita, ed io respiro? / Tu se’ da me partita / Per mai più non tornare, ed io rimango?». Sta tutto qui: nell’immedicabile nostalgia di non poter più essere insieme nel mondo dei vivi. Il mito vuole che, decapitato Orfeo dalle Baccanti, a causa del suo negarsi alle attenzioni del gentil sesso e del suo vivere ritirato sui monti della Tracia, la sua testa abbia continuato ancora a cantare, anche dopo essere stata separata dal corpo e gettata in un fiume. E c’è un magnifico e rivelatore dipinto di Waterhouse Nymphs finding the Head of Orpheus che ritrae proprio il momento del ritrovamento della testa di Orfeo. Potrebbe essere l’alba o il tramonto, a giudicare dai riflessi rossastri che si scorgono, sullo sfondo, tra i rami, all’orizzonte. Ai margini di una selva, in una polla verde in cui si riversa un corso d’acqua, galleggia la testa d’Orfeo, la chioma quasi femminea, i capelli che s’intrecciano, indistinguibili, con le corde della sua lira. A colpire è il diverso sguardo che Waterhouse affida alle due sensualissime ninfe (appollaiate su due spuntoni di rocce erbose) artefici del ritrovamento: quella di sinistra, aggrappandosi al fusto di un albero, contempla con fissità e voracità di sguardo la testa di Orfeo appena aggallata; la ninfa di destra mira, non meno assorta, ma con più preoccupata ritrosia, suggerita dal gesto di difesa che compie portandosi al petto un pugno chiuso. Due differenti modi di reagire, due differenti modi di accogliere l’incontro con ciò che è morto, qui tradotto in specchio entro cui riverberarsi, scrutare se stessi; diaframma tra i vivi e i morti. Il persistere del canto di Orfeo, che sopravvive alla morte, testimonia proprio quell’intatto languore, purtroppo a noi tutti noto, della nostalgia di non poter più essere hic et nunc ancora insieme. L’opera di Waterhouse è datata intorno

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all’anno 1900 circa, all’alba di quel Novecento che avrebbe visto definitivamente scoperchiarsi l’otre di tutte le nostre fragilità e nevrosi.

16 luglio, ore 10:13 Qualche giorno fa m’intrattenevo al telefono con Marco Ciaurro, una delle poche solide amicizie sorte nel gran circo virtuale dei social, per confrontarci sui rispettivi contributi foscoliani di quel volume a mia cura che dovrà uscire non prima della prossima primavera. A un certo punto il discorso è caduto sul mio vivere nella provincia italiana più estrema – separato e marginale – tagliato fuori da ogni centro d’opportunità culturale, pensandola su ciò pressappoco come il giovane Sciascia che in una lettera al sodale Stefano Vilardo dell’8 dicembre del 1957 dava ragione all’amato Pascal, convinto con lui che tutti i guai nascono dal «non saper stare nella propria camera» (o nel proprio paese), attribuito dall’autore de La Sicilia, il suo cuore alla sua incapacità a trovare requie di pensiero e lavoro, e concludendo che la “fuga” dal nostro quotidiano onfalo è di fatto imposta dagli esiti stessi del nostro lavoro. Marco, il cui sforzo epistemologico è indirizzato, con trigonometrica determinazione, a tenere insieme lingua, poesia e filosofia (entro la casa comune della critica), con serrato argomentare ribalta, appassionato, il mio ragionare, respingendo con piglio affettuoso quanto ascritto al mio personale cahier de doléances: «al contrario» – sostiene – «marginalità è privilegio, marginalità è libertà estrema!». D’improvviso mi sovviene ciò che Edward W. Said a un certo punto scrive in Dire la verità, e cioè di dover somigliare la condizione dell’intellettuale a quella dell’espatriato, dell’esiliato, o quantomeno «vivere come se», per avere nulla da difendere, niente da consolidare, se non preservare il nostro dovere d’essere liberi e sinceri. E così solo oggi, favo-

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rito dall’intermezzo piovoso degli ultimi due giorni, al riparo da un’estate finora ostinatamente afosa, realizzo quanto io sia davvero fortunato.

17 luglio, ore 15:21 Ieri mattina ricevo una garbatissima mail da una giovane assegnista di ricerca presso uno dei più virtuosi atenei italiani del ramo umanistico, con la proposta di revisione double-blind, in qualità di specialista, di un articolo dedicato a Italo Calvino per una rivista accademica di classe A che si occupa ambiziosamente di critica e analisi testuale, teoria letteraria e traduzione. Incuriosito dall’abstract che accompagna l’articolo, decido di accettare, avviando così la procedura di registrazione al portale della rivista per tracciare il mio lavoro di peer-review. Abbandonando per qualche ora l’ennesimo libro d’inseguimenti sciasciani di Antonio Motta, decido subito di dedicarmi al breve saggio dell’anonimo estensore che è mosso dalla preoccupazione somma di dimostrare come, a partire dagli anni Sessanta, Calvino – scrittore in crisi – viri verso una scrittura a trazione saggistica, concedendo sempre più spazio alle ragioni teorico-speculative; e si concentra, per provare quanto argomentato in premessa, sulla vicenda testuale del Castello dei destini incrociati. Mettendo da parte il mio pregiudizio forte sul metodo della revisione paritaria (e al farsesco uso che se ne fa applicato agli studi umanistici), l’esperienza di lettura coincide per me con la consueta delusione, ogni qualvolta mi attendo un affondo deciso e controtendenza nello studio dell’opera di Calvino. Anche in questo caso ci si ferma a tiepidi revival truccati da rutilanti novità. Sarà l’utilitarismo che muove il mare magnum delle scritture accademiche, sarà la preoccupazione inoculata da un siffatto sistema di non abbandonarsi troppo alla propria immaginazione critica, ma,

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a fronte di uno stile assai fresco e a cui non è affatto ignoto un certo nitore d’argomentazione, nessuno “scorniciamento”, nulla che mini e revochi in dubbio l’arcinota narrazione critica sullo scoiattolo della penna; nessuna manovra spericolata per comprendere a fondo il contenuto di verità implicito, specie, nel cosiddetto “secondo Calvino”. Non una parola insomma sul cambio di paradigma avviato con i racconti cosmicomici e le prose deduttive; non una parola sul libro-referto di quella tanto sbandierata e poco compresa crisi dell’autore che è l’imprescindibile La giornata d’uno scrutatore. Nonostante l’ininterrotto proliferare di studi e saggi dedicati a Calvino, nessuna novità è intercorsa rispetto ai due soli modi in cui è stata finora declinata l’interpretazione della sua opera: la via ideologica (o post-ideologica) e quella strutturalista. Forse l’apice di questa vulgata bifronte ma coincidente infine negli esiti, è stato toccato dal fortunato Pasolini contro Calvino del 1998 in cui Carla Benedetti, indugiando sul crinale di quella crisi storica e antropologica, gli contrappose il fustigatore e chiaroveggente Pasolini di Petrolio. Entrambi dentro la crisi: il friulano alfiere dei mutamenti in atto, resi poi nella poetica del non-finito; il ligure ridotto a ingranaggio di quelle stesse dinamiche, epperò rispecchiate nelle poetiche del finito di un incipiente postmoderno. Compresso nella dialettica tra finito e non-finito, il giudizio di valore della Benedetti si risolve in lode di PPP, ai suoi occhi il solo interprete non accomodante della crisi intellettuale e culturale degli anni Settanta. E pensare come, solo due anni prima, fosse già uscito il fondamentale L’occhio di Calvino di Marco Belpoliti, un libro di rinnovato vigore prospettico, in cui forte era l’accento posto sulla centralità del visuale nell’opera dell’autore delle Città invisibili. Un retrocedere dunque, con la miope incomprensione del paradosso per cui la profezia dell’incerto Calvino risulta, rispetto a quella dello sventurato Pasolini, ancora attuale per quella totale disperante mancanza di centro che appartiene al

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kit minimo di sopravvivenza per noi abitatori di questi tempi di sbandierato mutamento. La contrapposizione Pasolini-Calvino ha ragione di sopravvivere, come faceva bene a rilevare già Raffaele Manica in Exit Novecento, soltanto ostinandosi a tener fede a un ideologico partito preso. Quando è chiaro che bisognerebbe avere parimenti a cuore entrambe le loro lezioni, per aver prodotto, in quegli anni decisivi – il poeta di Casarsa sul piano della storia, il sanremese su quello d’una finalmente recuperata filosofia della natura – chiavi di lettura complementari. Non meno allibente l’accostamento in chiave anti fornito da Berardinelli in un suo articolo uscito su «Il Foglio» qualche anno fa, in cui riconosceva in Paolo Volponi addirittura l’«anti-Calvino»; tuttavia adducendo motivazioni che potrebbero benissimo giovare a scorciare un ritratto di Calvino (come d’altronde i vari Primo Levi, Sinisgalli, e appunto lo stesso Volponi) scrittore della complessità. Anche i big non sono dunque immuni dal prendere clamorose cantonate. E che dire di Baldacci che, mettendolo a fuoco col suo occhio verticale, in Novecento passato remoto lo liquidò come epigono di Bontempelli? Ma forse l’oroscopo più interessante lo fornì Cesare Garboli, che a un certo punto manifestò tutto il suo fastidio per quel variato «falsetto», inteso come sintomo manifesto del palesarsi, in ogni sua opera – vero e proprio leitmotiv in tutto Calvino – di una «puerilità» bloccata. Ineccepibile e condivisibile analisi senz’altro, almeno fino a quando il palombaro di Viareggio, forse per sopraggiunta anossia o per mera impazienza di dimostrare il suo teorema, non si affretta a concludere che tuttavia detta puerilità, nello scrittore, non conosce nevrosi. Quando invece il nitore mercuriale dei suoi giochi letterari fu proprio il segno di una nevrosi che si esplicò in una spasmodica ricerca di metodo. Del resto, è Calvino a suggerire l’endiadi proprio nella Taverna dei destini incrociati, per sua stessa ammissione il suo più grande fallimento letterario, là dove, nel tentativo di riscrivere la

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storia di Amleto, tradisce, parlando per bocca della figurina del Folle, un sì eloquente autoritratto d’artista: «se la sua è nevrosi, in ogni nevrosi c’è del metodo e in ogni metodo, nevrosi» – mostrando quanto quel suo giocare avesse a che fare con la sua stessa vita. Sarebbe maturo il tempo per tornare a farsi palombari e scendere a profondità maggiori, provarsi a ricostruire con pazienza l’implicita autobiografia del rimosso di un autore che, come molti altri del secondo Novecento italiano (e penso ai vari Gadda, Sciascia, Consolo, a Garboli stesso), ha investito e dissipato vita e opere a tenere separate facciata e ferita.

18 luglio, ore 09:35 Continuo a compulsare con gran godimento, sotto un ombrellone, in una pietrosa spiaggia semideserta, le Lettere d’amore dell’epistolario Gozzano-Guglielminetti. A un certo punto Guido, per sottrarsi alla «voluttà acre» che monta nei confronti di Amalia sente arrivato il momento di frapporre, fra sé e lei, «molti mesi e molti chilometri» e decide così di fuggire a San Giuliano d’Albaro, uno dei suoi luoghi del cuore, da dove le scrive il 9 dicembre del 1907. Il rivedere il mare, nel luogo stesso dove aveva ricevuto le sue prime lettere, gli infonde quella pienezza di spirito che lo rinfranca e gli permette di tornare a pensare ad Amalia come gli apparve in origine, creatura di una «bellezza spirituale» e d’una «intelligenza superiore», al riparo da ogni turbamento della carne. E così si confessa: «Il mare è pur sempre il grande purificatore: io mi sento l’anima leggera e monda, nata da ieri! C’è un tepore, una gaiezza nell’aria! Tutto l’orizzonte che traspare dalla mia finestra non è che l’armonia di due fasce azzurre: una più cupa, il mare; una più chiara: il cielo»… L’intera lettera di Guido è poi scandita, quasi fosse un vero e proprio mantra, da una ridondante ed esclamativa con-

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clusione: «Ma c’è il mare di fuori!» – a motivare quello stato di grazia e leggerezza che tanto ha a che fare con il sentimento della felicità. Ecco: anch’io oggi non riesco a immaginare nulla di più coincidente con la felicità che queste due strisce di colore che allagano gli occhi – dico quella incredibilmente verde dell’acqua e il solito azzurro, poco più che pallido, del cielo di luglio in Sicilia –; sullo sfondo le isole dolci del Dio cantate, tra gli altri, da Quasimodo, e il lieve solfeggiare d’un mare appena increspato. Che si creda o meno, che si possa perfino amare ciò che non esiste, come suggerisce lo stesso Gozzano nella poesia sparsa scritta proprio nell’abbazia di San Giuliano, ci sono frangenti della nostra vita in cui non si può non avvertire il respiro dell’eterno, l’amore del Tutto.

19 luglio, ore 11:11 Gioie dello studio: lavorare contemporaneamente su più tavoli – anche se tutto si trova disordinatamente accatastato su un piccolo scrittoio dal quale, per motivi affettivi, mai potrei separarmi (dolente eredità della dismissione dell’appartamento di Basilisca). In quest’estate che mi pare correre veloce più di altre, su di esso convivono le carte per un volume collettaneo su un classico italiano dell’Ottocento; un trascurato e funestato poeta del secondo Novecento; i cataloghi di un pittore milanese, tanto visionario quanto geometrico, interprete fuori dagli schemi di un archeologico e memoriale barocco, capace di tenere insieme la retta e la spirale; gli immancabili contemporanei – quelli già canonizzati (taluni addirittura ritenuti classici in vita) e quelli agognanti una rapida (?) canonizzazione; infine, le estemporanee prospezioni estive nei carteggi e nei mémoires (quest’anno finalmente riesco a dedicarmi al «milanese» che «visse, scrisse, amò»). Ogni tanto capita di assistere a un serratissimo e involontario dialogo tra autori e testi assai

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diversi tra loro che – nel rigoroso ordine di rotazione che impongo alle mie letture – a un certo punto sembrano contaminarsi, “debordare” l’uno nell’altro… E allora non posso non pensare a quell’icona involontaria della lettura (e quindi della critica) che il semisconosciuto pittore catalano Pere Borrell del Caso, maestro d’illusioni, volle effigiare nel suo straordinario elogio della fuga, Huyendo de la crítica, in cui un garzone descamisado, i calzoni arrotolati alle ginocchia, gli occhi spiritati a tradire un irrefrenabile impulso a conoscere, è colto nell’atto preciso di svicolare dalla cornice, abbandonare il quadro, protendendosi verso lo spazio aperto dell’osservatore. Non a caso, da quando lo scoprii, biglietto da visita per il catalogo di un’esposizione che celebrava le meraviglie del trompe-l’œil, a Palazzo Strozzi, in Firenze, è divenuto per me un’icona famigliare al punto che lo volli in copertina al mio Niente stoffe leggere, primo tassello dal titolo balzachiano di un’autobiografia intellettuale in cui, oltre a certificare il ritorno alla militanza dopo il digiuno accademico, saldavo di fatto i conti con i molti scrittori, saggisti e amici di carta, nel contempo provando a declinare un’idea e di critica e quindi di letteratura. Peraltro in anticipo rispetto al suo apparire, di lì a poco, in copertina a Exit strategy, ultimo atto dell’autobiografia in forma di romanzo di un ormai fuggitivo Walter Siti. Da allora questo dipinto è entrato a far parte della mia personalissima araldica. Che cos’è infatti Huyendo de la crítica se non l’emblema figurale di quello speciale pendolarismo – che un visionario Michele Perriera tratteggiò meravigliosamente in La spola infinita, libro tanto luminoso quanto passato nel dimenticatoio, e che andrebbe oggi letto dalle giovani marmotte che invadono il web – dalla pagina al mondo, dal mondo alla scrittura? Ne sono sempre più convinto: l’essenza della critica ha qualcosa dell’irruenza di quel ragazzo che sbuca via prepotente oltre la soglia della finzione, quell’irriverente affacciarsi al di là della cornice (un obliterare l’arte nella vita); puerile e giocoso attraversamen-

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to – la critica ha più che mai oggi diritto di rivendicare questa guascona libertà: sconfiniamo!

20 luglio, ore 23:31 Stasera rivado alla mia ossessione, che sovente si manifesta, di rintracciare immagini che abbiano la forza di epitomare, con fulminea evidenza, il senso della mia ricerca. Come se le barriere di difficoltà da superare, e che il discorso scritto inevitabilmente presuppone, necessitassero di una più icastica espressione – possibile, appunto, solo attraverso l’immagine. Non per una presunta voglia di oggettività, né per un mero desiderio di riequilibrare, come fu per esempio in Vincenzo Consolo, la prosodia con un equivalente visuale (che giovi anche come alleggerimento al sistema di pesi e contrappesi che è proprio del narrare o dell’argomentare). Né l’immagine, come fu per Italo Calvino, vale ai miei occhi come punto d’arrivo o di partenza per svecchiare le modalità stesse del narrare. Risponde piuttosto alla (se si vuole utopica) urgenza di fornire una corrispondenza che riesca a sussumere, epperò con un surplus di lapalissiano nitore, quel “qualcosa di scritto” che inveniamo per mezzo dell’interpretazione, e che alla fine coincide con ciò che più ci riguarda da vicino. È un’ansia, tutto sommato, figlia del carico d’insoddisfazione e d’incompiutezza connaturato al commento, alla critica, al mettere per iscritto; ciò che ci rende tanto liberi quanto alfine dubbiosi. Ma anche nelle immagini, Didi-Huberman docet, si annida la speciale insidia della «onnitraducibilità», per cui non bisogna mai dimenticare che l’inesauribile potenziale dell’immagine travalica sempre e mette in crisi la storia dell’immagine stessa: potenziale che viene mortificato ogni qualvolta la visione smette di darsi come asindetica e divagante interpretazione e diventa automaticamente lettura. È ciò che separa il cimento del

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critico-lettore da quello, ragionieristico, dello storico (dell’arte o della letteratura, poco importa). E che si nutre pertanto del paradossale aggrapparsi alla vertigine cui, nella loro epifanica verità comunicativa, gli oggetti rimandano, se solo sganciamo il nostro scrutare da ogni presupposto occhiale storico o culturale. Sicché l’interprete – colui che guarda, colui che ha scritto, colui che si ammanta del più ingombrante dei pronomi – è scisso tra l’innata coazione a spiegare e l’arrendersi a un vuoto di senso, sempre sfuggente e sempre oscuro. La critica è funambolica e spericolata esplorazione nei dintorni di un simile abisso; pianura proibita, in cui, per mancanza di certezze inoppugnabili, ci sottomettiamo al reiterato azzardo dell’immaginazione. Ecco perché, più di tutto, essa assomiglia a una forma speciale di visione.

21 luglio, ore 22:20 Dopo quanto scritto ieri notte sulla critica come erranza, mai al riparo da un significato del tutto conquistato, oggi mi scopro a chiedermi in che rapporto essa stia con l’assai più prosaica abitudine di fotografare, ogni qualvolta, ciò che vado leggendo. Perché questo bisogno di disseminare tracce? E in che relazione questo repertorio d’immagini-oggetto, rigorosamente cronologico, si pone con l’attitudine stessa del leggere? Quale il nesso tra questa singolare compulsione e il tempo affettivo della lettura e quello ossessivo della scrittura? Non so darmi un’immediata risposta. Da oltre un anno non pubblico altro, sui social, se non simili iconici referti: messaggi in bottiglia abbandonati al mare della grande bolla; regesti, di volta in volta, dei miei umilissimi cimenti – e mi sovviene lo scoppiettante adagio di colui che fu il mio sui generis relatore-dandy a Tor Vergata, Andrea Gareffi: «il critico si cimenta dove il cuore lo fomenta». Se cedessi alla tentazione di condividere sui social le

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pagine che vado scrivendo di questo maldestro diario di bordo, come prima di me hanno fatto in tanti, mi sembrerebbe di dover scrivere per soddisfare le aspettative di un pubblico, di doverlo in qualche modo sempre compiacere, fagocitato dal perverso familikismo che finirebbe per assestare un duro colpo alla sincerità, tutta intransitiva, che lo scrivere di sé semplicemente comporta. Verità che rimane intatta anche quando si prova a scrivere dei libri degli altri.

22 luglio, ore 23:13 La preparazione di un mio lavoro monografico sul pittore milanese Fabrizio Clerici, per la bella collana “Parole d’arte” diretta da Antonio Celano per l’editore Sillabe di Livorno, propizia stanotte la rilettura, a distanza di oltre dieci anni, di Retablo di Vincenzo Consolo. Seppur l’interesse sia appuntato sul modo di trattare il personaggio protagonista, il cavalier Fabrizio Clerici, in tour in Sicilia per alleviare le pene d’amore per doña Teresa Blasco, ispirato a Consolo proprio dall’amico pittore (i cui disegni originali peraltro impreziosiscono la prima edizione Sellerio del romanzo del 1987), non posso piacevolmente non costatare, una volta ancora, come Retablo resista come il libro suo della perfetta letizia dello scrivere; laddove anche l’imperativo categorico dell’impegno è qui coniugato con una grazia che mai più sarà raggiunta. Dopo, verranno gli splendidi romanzi-tragedia – Nottetempo, casa per casa e soprattutto Lo spasimo di Palermo –, ma sarà tutt’altro Consolo: non quello della soavità settecentesca, letto nella favola teatrale (d’ispirazione piccoliana) dedicata a celebrare il potere sempre risorgente della poesia in Lunaria o nella peregrinatio di un così finemente cesellato gioiello, vergato come fosse una bacchiana fuga, un musicalissimo retablo; bensì quello dello scacco, del gravame di tempi dagli orizzonti sempre più cupi,

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introibo all’ammorbante afasia degli ultimi anni. Non poteva essere che sul terreno di un comune Settecento di grazia e sublimata bellezza, di visionaria e indignata ironia, l’incontro tra l’ultimo dei grandi scrittori siciliani e l’inattuale maestro a cui dobbiamo un capolavoro assoluto come La grande confessione palermitana.

23 luglio, ore 10:38 C’è uno spettro che si aggira per i social, un popolo sempre più inquietante, specchio dell’attassante abbandono d’ogni tentativo di seria riflessione, malattia che si palesa nel linguaggio ancor prima che nell’insufficienza totale dell’argomentazione: sto parlando dei cinesi del web, dico quei coccodrillari che si danno, con pervicace applicazione, alla celebrazione indistinta, day by day, replicanti e custodi di un mai così affollato olimpo, per cui un giorno sì e l’altro pure risulteremmo di volta in volta privati del più grande scrittore italiano, del cronista più lucido dei nostri anni, del politico più lungimirante, dell’uomo di spettacolo che sapeva entrare nelle case degli italiani… e così Camilleri diventa Simenon e a De Crescenzo viene quasi riconosciuto lo spessore, che so, di un Levinas. Ma ciò che è peggio, tutti rigorosamente presentati come gran sacerdoti e maestri del saper vivere, producendo la peggiore delle retoriche che trova la sua falsificazione nell’istante in cui viene espressa. Teoria infinita di seriali medaglioni, tarocchi intercambiabili di un inesauribile alfabeto Morse dei buoni sentimenti, vergati in un monocorde dettato esclamativo e fabiofaziesco, sfocianti non di rado in uno spericolatissimo confidenzialismo: li appellano per nome (come fossero amici o parenti), s’improvvisano chiaroveggenti, scavalcando nell’aldilà, riuscendo perfino a immaginare i loro primi passi (mai stentati però, manco a dirlo, trionfali e radiosi), il loro scru-

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tare serafici e sornioni; e finalmente, da lassù, lanciare pietosi sguardi su di noi poveri mortali che restiamo. Dal canto mio di queste presunte benedizioni faccio volentieri a meno e continuo a preferire la pratica di un ostinato silenzio.

24 luglio, ore 12:35 Non riesco a staccarmi dal delizioso epistolario Gozzano-Guglielminetti, forse per la gioia che mi procura il leggerne certe pagine di luminosa saggezza. Gozzano scrive sulla spiaggia, a matita, ancora da San Giuliano d’Albaro (11 dicembre 1907). Comunica all’Amica che sta bene e ama profondamente questo dolce lasciarsi vivere. E soggiunge: «la vita è ancora bella, per chi ha la scaltrezza di non prendervi parte, di salvarsi in tempo». Arriva addirittura a benedire il suo male che gli consente il privilegio dell’esilio. È insomma un’anima in fuga, leggera, e che basta a se stessa. Si bea della solitudine, del leggere sulla spiaggia, ha sete di musica… In un rigurgito di sincerità estrema, assesta ad Amalia la stoccata finale, esortandola sì a scrivergli, ma di «cose frivole» – raccomanda –, perché nulla possa guastare questa sua «grande serenità»; certo che la raggiunta disposizione d’animo lo renderebbe perfino insensibile alla sequela dei suoi turbamenti. Non tarda ad arrivare la risposta accorata di Amalia all’«Amico oblioso» (19 dicembre 1907): teme di essere dimenticata, fiuta il suo sentirsi in quei giorni senza più peso e felice; ipotizza addirittura la vicinanza di un’altra donna presso di lui, a tal punto non crede possibile la solitaria fuga (in se stesso e per se stesso) del poeta. Dinanzi al felice oblio di Guido, ad Amalia non rimane che reclamare, verso di sé, un po’ più di tenerezza. Nonostante Gozzano, nella seguente missiva, avvertirà il bisogno di esternare il suo personale pentimento, rimane d’intatta freschezza la perorazione delle ragioni dell’esistere qui da lui professata: quando

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la vita ci assedia, la fuga è il solo modo di assecondare il nostro sacrosanto bisogno di leggerezza. Come non sposare il monito di un giovanissimo poeta di appena venticinque anni e già gravato dalla malattia, ad ascoltare ancora la bellezza della vita, grazie alla puerile astuzia di «non prendervi parte», di «salvarsi in tempo»? Quando, a saper leggere tra le righe, quella programmata ritrazione finisce col coincidere con il massimo di fedeltà a essa?

25 luglio, ore 13:46 Guido non nega l’eccezionalità del legame con Amalia, ma fortemente vuole salvarlo dalla «sorte comune», dalla «sentimentalità meschina dei piccoli amanti» (lettera del 21 marzo 1908). Ecco perché ritiene necessario frapporre tra loro la distanza, procrastinare gli incontri fino a desiderare mai più rivedersi (magari ridendo a questo pensiero). Il copione è sempre lo stesso: per Guido la consacrazione del loro speciale legame presuppone la distanza, il porre fine ai loro convegni e il dirsi addio; Amalia dubita invece della sua sincerità, si arrovella, sospetta freddezza, paventa ostilità da parte sua; vive nel continuo bisogno di essere rassicurata: insomma, soffre terribilmente – le sue fughe scoperte, le continue elusioni. Se è vero che in un epistolario il passaggio al Tu è il momento in cui tutto davvero comincia – l’abbattimento d’ogni ostacolo al dialogo, l’avvio del reciproco disvelamento –, è altrettanto vero che nel carteggio Gozzano-Guglielminetti forse quel Tu giunge troppo in anticipo. Quel primo momento del Tu, diverso tempo dopo, non a caso invocato proprio da Amalia, perché le sia davvero e autenticamente concesso da Guido (lettera del 24 marzo 1908): «Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura».

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26 luglio, ore 11:51 I suoi speciali malesseri e i malumori connessi al suo non buonissimo stato di salute, eccitano in Guido la corda d’un sadismo che sfoga verso l’Amica. Sentite qui cosa le scrive a chiusura di una lettera inviata da Torino, l’ultimo d’aprile del 1908: «la tua figura mi è diventata estranea come se scomparsa in una tomba o in un laberinto: non so… Ti penso un po’ come una morta, mentre ti bacio». Trascorso un mese da queste parole, torna a scriverle dal Meleto, sentenziando che è finalmente «giunta l’ora dell’amicizia». Da questa apparente tregua, implorando benevolenza, le confessa essere lo spirito di Lei quello senz’altro a lui più affine; ma ciò non gli impedisce di portare a segno – con schizofrenico dettato – l’ennesima acida stoccata: «Ah! Ma la petite bourgeoise che visita Roma e Napoli e ritorna entusiasta e col tono di deprezzare la sua bella città natale e i suoi concittadini! Tutto questo è terribilmente provinciale, amica mia!». E l’incalza, con ironica baldanza, circa i progetti che potrebbero sortire dalle sue impressioni di viaggio, esortandola ad evitare di scrivere su soggetti «ormai ignobili», buoni per «libri di lettura per la seconda elementare», «scatole di fiammiferi» e «cartoline illustrate». Infine, a ulteriore riprova della ciclotimìa della sua penna, si affretta a giudicare la propria lettera poco incisiva, «indecorosamente slombata». Amalia si rivela una grande incassatrice e, nella lettera di risposta del 30 maggio 1908, accondiscende alla sua richiesta di parlargli, più che dei luoghi visti, delle persone incontrate, che tuttavia gli sono parse assai «fredde e inferiori ad ogni attesa». Ma a prevalere in lei è pur sempre il bisogno di essere rassicurata: «Ci vogliamo sempre serenamente, fraternamente bene, non è vero?» – e lo esorta a rimanere sempre franco e ruvido nei suoi riguardi. Dopo qualche mese di programmati incontri, scampoli di tempo da trascorrere assieme, Amalia stessa legittima il registro di una corrosiva ironia, da tempo inaugurato da Guido, quando gli

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confessa (lettera del 16 luglio 1908): «Mi sento un’anima così borghese, vuota, vigliacchetta anche, che in qualche momento ne ho nausea e ira». Dal canto suo l’ondivago e malmostoso Guido alterna momenti in cui riesce a tenere a freno il suo trasporto, sublimandolo in una forma d’amore tutto spirituale, che trova il suo collante nelle cosiddette affinità elettive, alla confessione sincera del pensarla «molto» e soprattutto «male», desiderandola «acutissimamente» – come le scrive da Ronco il 3 settembre del 1908.

27 luglio, ore 12:40 Sì, d’estate, è vero: divento più leggero e insieme malinconico (complice forse anche l’intensificarsi del lavoro intellettuale). Come adesso che mi sorprendo a godere del piacere di tenere tra le dita un mezzo Toscano. Senza scomodare le prosodie onofriane di Benedetti toscani, il sigaro per me ha un valore più che altro affettivo-memoriale: sono io, intorno ai sette anni, che corro ad acquistare alla più vicina rivendita di tabacchi un pacco di ammezzati per l’Aviatore; è Lui, seduto in poltrona, che lo fuma; è il languore del fumo di quella remotissima comune infanzia – mia e sua, solo nostra. Non sopporto l’odore della sigaretta ma adoro, per questo retablo sensoriale incistato nella memoria – un bambino, un padre, una poltrona –, l’aroma del Toscano. La mia adesione è tutta sentimentale, niente di “filologico”, nessun purismo da fumatore incallito. Ma di tanto in tanto acquisto una scatola di Toscanelli aromatizzati – roba da giovin signori – per inseguire, proustianamente, l’utopia del temps retrouvé. O, più prosaicamente, per dare prova a me stesso che il tempo no, non è mai esistito.

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28 luglio, ore 07:58 In questa afosa domenica di fine luglio, prima della fuga per raggiungere il mare, la mia attenzione viene calamitata da uno scatto di Eve Arnold della fine degli anni Settanta, in cui m’imbatto del tutto casualmente su Instagram visitando l’account ufficiale della storica Agenzia Magnum Photos, fondata da Cartier-­Bresson & Co. nel 1947. La fotografia, insieme al calcio, fu una delle mie più precoci passioni – ricordo l’eccitazione che provavo per la mitica Zeiss Werra Mat, con otturatore centrale, caricamento tramite apposita ghiera ed elegante custodia in cuoio, dell’Aviatore: fu lui a impartirmi i primi rudimenti, quando mi consentiva il lusso di scattare foto ad amici e parenti o nel corso delle nostre frequenti gite fuoriporta, insieme a mia madre. Mete privilegiate erano i paesini nebroidei, verso i quali ci si muoveva, in pomeriggi d’estate come questi o nelle giornate d’incertezza meteorologica che preludono a un incipiente autunno, per soddisfare il desiderio, perlopiù di mia madre, di obliarsi nel verde in cerca di frescura o andare a visitare qualche santuario per il quale, nel tempo, lei aveva sviluppato una sincera devozione. Di quei passeggi, nell’era della compiuta rivoluzione digitale di massa e della moda auto­ referenziale dei selfie, ciò che più manca – oltre al rimando a una pienezza dell’esistere che era il sapore dominante di quelle lunghissime giornate – è che anche lo scatto più occasionale aveva il potere di raccontare senza cosmesi, riconduceva il gesto fotografico all’esperienza del conoscere. Ecco perché sono rimasto doppiamente folgorato da una delle immagini tratte da In China, il magnifico e fortunato reportage che Eve Arnold realizzò a seguito di un viaggio condotto in quel paese nel 1979, in cui ritrae alcuni allievi al lavoro in un corso d’arte a Chongqing. Nota per aver saputo immortalare meglio di chiunque altro Marilyn Monroe, l’icona sexy per antonomasia del Novecento (suoi infatti gli scatti più celebri della diva), la fotografa americana figlia di immigrati russi mostrò,

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oltre a saper empaticamente dialogare attraverso l’obiettivo con le celebrità di Hollywood, un indiscutibile talento per il fotogiornalismo documentario. Ne fornisce un saggio questo scatto: al centro dell’immagine, posta su un tavolo, un’enorme testa greca in gesso bianco fa da modello a tre aspiranti artisti ritratti di spalle, impegnati a copiarla sulla tela, da tre differenti punti di vista; cosicché l’immagine ingloba il soggetto, gli artisti che riproducono l’opera dalla loro personale prospettiva e lo sguardo centrale di chi fotografa che tutto tiene assieme. Ai miei occhi ha subito guadagnato il valore di eloquente metafora figurale del critico, per quel rimandare alla proliferazione di sensi possibili, spia di quell’estesa potenzialità che agisce (deve agire) anche come limite allo sguardo stesso. Non so davvero trovare immagine che meglio riesca a restituire il senso dell’attività critica di questa. Lo sguardo del critico (come qui quello della fotografa) è quello decisivo che trattiene, e insieme comprende, riformula il racconto con la sola forza di un occhio argomentativo, tanto più lungimirante quanto più consapevole è d’incarnare una simile modalità dello scrutare. Che cos’è dunque quest’immagine se non una sottile metariflessione sulle complesse, correlate e indissolubili dinamiche del vedere – tra artista, soggetto, fotografo (critico) e spettatore?

29 luglio, ore 12:02 Lo scriveva, non ricordo più dove, Giorgio Manganelli: la copertina di un libro non è (o mai dovrebbe essere) un vacuo contenitore estetico, quanto piuttosto il biglietto da visita per il lettore. Ecco perché ho sempre preteso di partecipare alla scelta delle illustrazioni per le copertine dei miei libri, considerandole parte integrante del testo – ad annunciarne e completarne il senso. Ho già raccontato quale carica di contestazione

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recasse in sé la scelta dell’opera di illusione di Pere Borrell del Caso per le pagine militanti di Niente stoffe leggere. Così come non meno motivata fu la decisione di scegliere, per il Secondo Calvino, uno scatto risalente al suo primo soggiorno americano, che ritrae lo scrittore appollaiato sulla scaletta di accesso a un tetto popolato di antenne: seduto, le mani rinserrate nelle tasche della giacca, lo sguardo curioso rivolto verso un orizzonte non compreso nell’inquadratura. Ad anticipare l’importanza di quel viaggio in cui ebbe occasione di ascoltare una conferenza di Giorgio de Santillana che gli avrebbe schiuso un nuovo orizzonte circa la possibile contaminazione, in funzione dello svecchiamento dell’immaginario letterario, fra scienza e letteratura. Mentre per il Perriera sentimentale, che talvolta pure dimentico di aver pubblicato, a significare il carattere intimo che mi spinse a radunare in volume quanto fino a quel momento avevo scritto sull’autore e a saldare così il debito di radiosa gratitudine verso l’amico, scelsi, in linea con la qualità tutta sentimentale del libro stesso, uno schizzo realizzato sull’iPad da Rosamaria, cui peraltro il libro è dedicato; e che mi pare incarni appieno, meglio della foto cui s’ispira, quello strabismo fisico che fu anche il carattere essenziale dello sguardo traverso su uomini e cose da parte dello scrittore palermitano. Posso dire di aver spesso trovato impulso a fare un nuovo libro ogni qualvolta mi sono imbattuto in un’immagine che abbia assunto l’inatteso senso di una chiarificazione di ciò su cui stavo lavorando o cercando di mettere ordine. Così è accaduto per lo scatto in apparenza ordinario e dal mero valore documentario di Eve Arnold. Se non fosse che, per me, quell’immagine si è palesata come l’oltremodo evidente effigie visuale che tiene insieme tutte le implicazioni che stanno dietro a quel mio tanto vagheggiato libro su uno sfocato Novecento visto non solo a distanza, ma appunto di spalle.

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30 luglio, ore 12:00 Lo scrivevo proprio ieri a Paolo Del Colle, a proposito di questo journal di complemento al secondo mestiere che vado redigendo da qualche giorno. La scrittura, anche quella critica, è affare tutto intransitivo: almeno nel momento decisivo in cui si prova a trarsi dall’oscurità, in vista di una soggettività che solo ex post si auspica certo condivisa. Per lui vale quello che Sciascia, in un saggio del 1954, scrisse sul Tobino degli esordi poetici: «il discorso sul poeta non può che risolversi in un discorso sull’uomo». Non una parola sarebbe possibile dire sul poeta e scrittore Paolo Del Colle che non tenesse conto della “pianta uomo”. Come altrimenti poter comprendere la forza della ricerca letteraria messa in atto con la trilogia inaugurata dalla suite Le ragazze dell’Eur e conclusa con l’ibrido poemapersonal essay Nuda proprietà (Virgilio l’amato Herzog), passando per il dolorosissimo libro de religione di Spregamore? Una volta sperimentato il dramma dell’incoincidenza di quotidianità e vita, una volta patito il disagio di non riuscire a starci dentro, la scrittura diviene il campo di asintotica coesistenza di biologia e metafisica, visibile e invisibile, aldiquà e aldilà. Le sue pagine rimandano a uno spazio epifanico d’inaccessibile prossimità che paradossalmente scaturisce proprio da una costitutiva incapacità di abbracciare appieno la vita. La fronte spaziosa, lo sguardo limpido da tenero ferito a morte, a tradire una sensitiva pietà, mai ignaro di quanto vivere possa coincidere con una inaccettabile dissipazione, l’esplosione delle sue sempre coloratissime cravatte, correlativo oggettivo forse del sogno cui la vita dovrebbe somigliare, Paolo non ha fatto altro che contrabbandare la sua personalissima poesia di rivolta attraverso ciò che ha scritto. La scrittura sorge pertanto come referto di una bruciante insufficienza, muove da quest’inossidabile fedeltà a se stessi, perciò è sempre utopica.

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31 luglio, ore 11:26 D’accordo, la scrittura. E la lingua? Me lo chiedo mentre recensisco per «Poesia» Tiatru, il nuovo libro di Nino De Vita, tra i poeti dialettali del secondo Novecento dal percorso più limpido e coerente, per quella tenace opera di scrittura dell’indiviso romanzo in versi, autobiografico e corale insieme, di Cutusìo, la contrada marsalese in cui è nato e da sempre vive, toponimo ultimo di quella felicissima geografia della conversazione in terra di Sicilia, per cui un autore non poteva non rimandare ai suoi luoghi, entro un reticolo di franche coordinate che presupponeva un riconoscersi e così fondeva geografia ed esperienza: la natìa Racalmuto, la civile Caltanissetta o la casa in contrada Noce di Sciascia; la Bagheria di Buttitta e la Palermo dei Sellerio; la Comiso di Bufalino, la Sant’Agata di Consolo, Villa Vina a Capo d’Orlando del singolare e colto barone magico Lucio Piccolo… Limitata geografia quella di Cutusìo, ma che miracolosamente consiste, vive nella lingua materna del dialetto del suo aedo, la cui sofferta giovialità trasfonde in compassionevole sguardo, nei suoi cùntura disseminati, pel suo furore archeologico, di parole-pietre da salvare; che tuttavia da sole non bastano, se non inverate, redente nei fatti: «T’abbàstanu ’i palori. // E ppuru m’abbisògnanu, o Berengariu, i fatti, / ci rissi.» – così come, chiosatore di se stesso, chiarisce in questo suo ultimo libretto, sintomaticamente intitolato Tiatru. Il vernacolo dei poeti certo, frutto di un’operazione letteraria che muove dai fatti alle parole, e dalle parole torna ai fatti per illuminarli. Il vernacolo dei poeti dico, che sempre reca in sé quel quid di musicale verità, anche quando non ne cogliamo appieno il significato. Penso all’eco di senso in me suscitato da La farfàla, una scheggia poetica di Tonino Guerra che ho finito per mandar via a memoria e che per me vale come metafora tout court della condizione umana: «Cuntént propri cuntént / a so stè una masa ad vòlti tla vòita / mò piò di tòtt quant ch’ i m’ a liberè / in Germania / ch’ a m sò mèss a guardè

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una farfàla / sénza la vòia ad magnèla». Altra cosa è quando il dialetto assurge a codice unico di comunicazione riconosciuto, prevarica, nel parlato, sull’italiano, orgogliosamente agitato come sola radice identitaria; quando diventa cioè negazione d’ogni occasione di confronto. Immagino, a questo punto, il caro Nino scuotere il capo, disapprovare, corrucciato, questo mio ragionare, magari reputandolo reazionario, quando non conformista; ma sul pervasivo uso del dialetto nel parlato o sul suo insegnamento a scuola, e ho in mente i miei meravigliosi alunni che vivono in un contesto di beato isolamento geografico e culturale, la penso come il Savinio di Ascolto il tuo cuore, città che vado compulsando con sommo godimento in questi giorni: il dialetto «restringe la vita, la rimpicciolisce, la puerizza»; costringe a uno stato di minorità da cui origina quel familismo amorale, padre di tutti i mali sociali. Da insegnante credo ancora alla lingua italiana come veicolo di riscatto e di emancipazione sociale, nell’aiutarci a diventare cittadini consapevoli e avveduti apolidi di questo mondo. Ecco perché non si potrà mai prescindere dallo studio della letteratura italiana nelle scuole d’ogni ordine e grado. Come pensare di formare i nostri ragazzi senza l’incontro, favorito e incoraggiato dalla scuola, ancor prima che con il gettonatissimo e inflazionato Leopardi in salsa pop, con il greco-italiano Ugo Foscolo che ha saputo forse più di chiunque altro, nell’Ottocento, tenere insieme proprio parole e fatti?

1° agosto, ore 23:57 Il risveglio è stato dei peggiori, turbato dalla doccia fredda del messaggio di Beijaflor, uno dei miei amici storici, in cui mi confida che la sua assenza sui social è dovuta al fatto che gli è stata diagnosticata una patologia molto grave, causa di lancinanti dolori alla schiena e che lo ha reso non più auto-

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sufficiente nei movimenti. Conclude scrivendomi che una visita mia e di Rosamaria, nella sua casa di campagna, dove si è ritirato da diversi mesi, gli sarebbe oltremodo gradita, per così trascorrere qualche ora insieme. Di getto rispondo che andremo a trovarlo oggi stesso, nel pomeriggio. Impiego la mattinata a rileggere e ordinare vecchi appunti, m’immergo in maniera frenetica nel lavoro, quasi mi dimentico di dover pranzare, m’illudo così d’ingannare il tempo, giacché ho gran desiderio e insieme paura d’incontrarlo. Guidato al cellulare da lui riesco a raggiungere, percorrendo una dissestata stradina secondaria, la sua bella dimora in campagna che non frequentavo da più di dieci anni. Giunti al cancello di casa sua lo trovo in piedi, un busto ortopedico a cingergli il tronco, a farmi manovra per parcheggiare l’auto. Lo abbracciamo, lui fa gli onori di casa, e finalmente ci accomodiamo (lo rimprovero perché non voglio che si affatichi) nel cortile antistante la villetta, noi su due seggiole in legno, lui lentamente adagiandosi su una sedia a rotelle. Slacciato il busto, comincia a raccontare tutto. Ci tiene, senza mai rinunciare a quella corrosiva ironia che è il suo vero marchio di fabbrica, a non trascurare nessun dettaglio della sua non ancora risolta odissea ospedaliera: lo ritiene un caso tanto emblematico quanto inquietante di ciò che è diventata la sanità italiana, tra superficialità, approssimazione, negligenze varie, totale mancanza d’umanità e assurdi meccanismi di burocratizzazione dell’apparato sanitario, a tutto svantaggio (manco a dirlo) del malato. Sento lo sguardo di Rosamaria posarsi su di me, indovino che entrambi abbiamo in testa la medesima immagine: Basilisca, al principio della sua malattia, che cammina nervosamente, sorretta da un’armatura bruna, di forgia quasi metafisica, come in un dipinto del pictor optimus. Io, ipocondriaco conclamato, mi sforzo comunque di seguire con estrema attenzione il suo minuzioso resoconto, non voglio perdermi nemmeno una virgola, penso di doverglielo, e per questo, mentre parla, cerco sempre i suoi occhi.

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La posizione della testa leggermente rientrata tra le spalle smagrite, l’inquieto agitarsi dei piedi, simili a una sequela di false partenze, nell’attesa di spiccare il volo – improvvisamente, dentro di me, erompo in un grido appena tradito da un lieve acuirsi dello sguardo: «è un gabbiano!» – mi dico. Assomiglia, infatti, a uno dei personaggi dell’omonimo dramma cechoviano, perennemente colti da una palpabile agitazione – frutto dei sogni delusi, della gabbia di frustrazioni amorose e ambizioni artistiche. Quella condizione mutilata che, nella sua visionaria riscrittura, Michele Perriera impone sulla scena a tutti gli attori, traducendo in impedimento fisico l’aspirazione di ciascun personaggio a essere libero: le ali tarpate – il proprio cielo davanti –, grottescamente protesi nel tentativo di un volo al momento tanto impossibile quanto irrinunciabile; ma dove l’utopia potenziale del poter un giorno tornare a volare non cessa mai. E dinanzi all’inglorioso sadismo della vita, Beijaflor, dal suo terrazzo, non smette di sperare di potersi nuovamente involare, consegnando alla parola ancora limpida che esce dal suo corpo l’ingaggio di quell’antico e nuovo gioco a rinascere.

2 agosto, ore 10:55 Nelle pagine finali di Sentieri delle ninfe, ennesimo incunabolo di quelle variazioni sul discorso amoroso che in verità Fabrizio Coscia va da anni declinando attraverso i suoi scritti, per uno di quegli strani cortocircuiti, m’imbatto nella interpretazione che egli offre proprio del Gabbiano di Cechov, lui che da attore ha interpretato più volte il ruolo di Medvèdenko, il maestro elementare ossessionato dalle difficoltà economiche e innamorato di Mascia, la giovane figlia dell’amministratore della casa di Sòrin. Racconta che, ancora a distanza di anni, gli capita di sognare d’interpretare il suo ruolo, di trovarsi sul palcosceni-

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co, del tutto dimentico delle battute, motivo per cui si aggira tra le quinte nell’affannosa ricerca del suo copione, prima che inizi il quarto atto. Quel quarto atto che contiene il famoso monologo di Nina e il suicidio finale di Kostja: Nina mostra di essere maturata attraverso il passo nel dolore, smette di sentirsi ciò che gli altri hanno voluto che fosse in passato, čaika, il gabbiano del titolo – quel gabbiano che Kostja nel primo atto uccide e abbandona in terra, ai suoi piedi; e che Trigòrin, in un’esaltazione immaginativa, pensa come soggetto di una sua novella –, per diventare liberamente se stessa, un’attrice («Io sono un gabbiano… Che c’entra. Sono un’attrice. Ma certo!»); smette di essere ninfa, fugge, ma questa volta in quanto donna capace di sottrarsi allo spavento della vita. Kostja, mentre la implora di restare, sembra disperatamente sprofondare nelle sabbie mobili di uno stato di minorità dal quale gli appare più che mai difficile uscire, giungendo a concepire il togliersi la vita come solo epilogo possibile. A questo punto Coscia, prendendo spunto da una visionaria regia di Eimuntas Nekrošius messa in scena alla Biennale di Venezia del 2001, suppone che l’esperienza di morte e resurrezione vissuta da Nina, possa di riflesso riguardare anche Kostja: si tratta della resurrezione che solo il miracolo dell’arte può compiere. Entrambi, Fabrizio Coscia e Michele Perriera, seppur per sentieri diversi, scorgono dunque nel dramma cechoviano il senso di una plausibile rinascita: che se per Coscia riguarda i due protagonisti, nella complementarità cui assurgono i loro destini; in Perriera, si estende a macroscopica metafora della condizione cosmica dell’individuo dinanzi al male, al dolore inevitabilmente connaturato all’esistenza, a cui contrapporre la mai dismessa lotta «contro la prigione dello spirito».

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3 agosto, ore 13:22 In Notes on Life and Letters del 1921 Joseph Conrad – dopo aver trascorso buona parte della sua vita attiva «a familiare contatto con l’acqua di mare» – racconta della sua prima esperienza di volo. E lo fa principiando dalla fine, dalla pratica meraviglia per un atterraggio lieve, «singolarmente “smorto”», sulle acque del Mare del Nord, a bordo di un biplano Short – dopo oltre un’ora e venti minuti di navigazione. Sensazione che mi riporta al mio ammaraggio, alla mia tardiva prima volta nell’aria con il tubi-e-tela di costruzione belga, il pollo d’acciaio (Chickinox) dell’Aviatore. Nel fornire il resoconto del suo casuale battesimo dell’aria, compiuto all’età di cinquantotto anni, Conrad non poetizza, lascia da parte le possibili suggestioni, evita di ricamarci su: nessun regesto di emozioni forti, nessun sentimento di potenza o dominio sulle cose; e se egualmente rifugge dall’avventurarsi in considerazioni circa la natura umana (D’Annunzio, in tal senso, è lontanissimo), non può certo negarsi di confrontare quella prova (non solo per lui) innaturale al senz’altro più familiare stare in mare. Preferisce attenersi al dato esperienziale nudo e crudo: occasione, durata del volo, fase d’atterraggio… riesce perfino a dar spazio al racconto dell’irritazione che lo accompagna, poco prima del decollo, per ragioni che, in sé, nulla hanno a che spartire con il viaggio che si appresta di lì a poco a compiere. Quanto ai suoi «sentimenti nell’aria», per l’assoluta novità della situazione in cui si trovava, si limita a riferire della confortevole impressione di sicurezza dovuta all’apparente «immobilità della materia». Il mio primo volo non fu per nulla occasionale, determinato invece da un preciso desiderio: carpire il segreto, assaporare la medesima radice di quella gioia che vedevo fiorire sul viso dell’Aviatore ogni qualvolta riusciva a staccare l’ombra da terra. E che mi aveva ispirato, giovanissimo, appunto L’aviatore, una poesiola tutta brio e ritmo, di radioso entusiasmo, suggellata da un accostamento – nel segno d’una allora creduta in-

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vincibile giovinezza – di due solitudini: quella dell’aviatore e quella del poeta. Ma più di tutto, a restituirmi il basso continuo di un’incontenibile catarsi i cui effetti si protraevano a terra – l’esatta ecfrasi di ciò che era assai più di un prosaico senso di appagamento – era il puntuale associare, a quello stato, i versi di La facilité en personne di Paul Éluard, per quell’attacco che sembrava piombare dritto dritto da quel paradiso, condividerne la pasta stessa: «Te doucer tes défaites ta fierté de velours / La géographie légendaire de tes regards de tes caresses»… Versi, in verità, figli di tutt’altra temperatura emotiva, scritti in anni in cui la disperazione e la speranza, per il tormentato Paul, si contagiavano, come testimonia un libro «chiuso e difficile» (Fortini), Le vie immédiate. Misteri insondabili della personalissima ricezione di un allora giovane lettore.

4 agosto, ore 01:12 Quella mattina inoltrata (era da poco trascorso il mezz’agosto) – entro un’afa che stingeva mare e cielo, rendendo implausibile ogni possibile riferimento all’orizzonte, a bucare la caligine solo il rosario sparso e sfumato delle Eolie (le «isole dolci del Dio» di quasimodiana memoria) –, quella mattina, la decisione, dettata da una placida allegria, fu presa quasi per gioco. Di colpo mi trovai sull’Elba Innocenti color verde bottiglia dell’Aviatore, subito di strada (due chilometri appena separavano infatti la casa al mare dal campo di volo), verso la nostra meta. Nell’istantanea successiva abbiamo già aperto l’hangar autocostruito per far scivolare senza fatica in senso trasversale, su un binario progettato ad hoc dall’Aviatore, il papero tre assi con le ali dalla sgargiante velatura bicolore arancio-petrolio. Da quel momento in poi fui invaso da un’eccitata curiosità per quella ritualità concreta, il meticoloso protocollo che precede, ogni volta, il decollo: sequela di verifiche, statiche

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e dinamiche; dal controllo dei giunti e dei tiranti delle ali, ai flaps; dal check di comandi e pedaliera, alle prove di potenza motore. Se a una prassi così codificata si unisce l’estrema meticolosità dell’Aviatore, è facile intuire come quell’esperienza si tramutò in una lezione in piena regola sui fondamenti della meccanica del volo. Non tralasciò nulla, e quando fu la volta di soffermarsi sullo spartano cockpit del Chickinox dove stavano allineati gli strumenti di bordo, li passò in rassegna – contagiri, altimetro, anemometro –, per ciascuno indugiando sul principio di funzionamento e l’utilità nel volo.

5 agosto, ore 07:48 Finalmente fummo pronti. Dopo aver indossato i caschi, volle assolutamente ragguagliarmi sullo speciale meccanismo di sgancio delle cinture di sicurezza («Non si sa mai ce ne fosse bisogno», disse – precisazione che, sul momento, attribuii al suo quasi maniacale eccesso di scrupolo), concentrandosi sul dettaglio del differente posizionamento del pulsante di rilascio. Effettuate sufficienti prove di comunicazione via interfono, avviato il motore, era proprio giunto il momento di rullare per portarsi in testata pista, zona utile per un corretto decollo: col motore a basso regime, a mimare un arzillo ma goffo quadrupede al trotto, l’Aviatore guadagnò rapidamente la posizione, sul lato esposto a Nord-Ovest della pista (che si sviluppava, per circa un chilometro e mezzo, parallelamente all’incavo appena pronunciato di una costa dolce e per ampi tratti sabbiosa). Il tempo di uno sguardo d’intesa, un rassicurante cenno, il piede sul freno, la manetta a fine corsa, lo strepitare metallico del motore spinto al massimo dei giri: appena liberato il freno, furono sufficienti poco più di un centinaio di metri (e un accorto gioco di pedali per controbilanciare le imbardate) perché il velivolo si librasse in aria, quasi senza più peso. Daniele Del

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Giudice, in quel manuale di geometrica grazia esistenziale che è Staccando l’ombra da terra, definisce la corsa del decollo, il momento esatto in cui una certa «quantità di metallo» spicca il volo per mezzo dell’aria (cessa d’essere terrestre), come una «metamorfosi». L’intuizione fisica di un simile transito, il poterlo condividere con mio padre, giovò a svuotare il mio animo da ogni residuo moto d’ansia. Lo compresi simultaneamente: nel miracolo tecnico di quell’innaturale e repentina trasformazione si racchiudeva il rattenuto sussulto di gioia che perdurava nell’Aviatore, una volta a terra, come l’eco di una pienezza raggiunta; epitome di uno stato di beata sospensione al quale agognare sempre di fare ritorno (era questa proiezione – tanto utopica quanto concreta – ad abitarlo).

6 agosto, ore 08:25 Vidi sfilare, una volta alzato il muso del papero, in rapida sequenza: dapprima il nastro bruno del terreno sotto di noi; poi, alla mia destra, entro una visione sempre più grandangolare, la serie pressoché regolare degli hangar (primo riferimento che dava ragione del fatto che si stesse facendo quota); infine, la percezione dell’atteggiata geometrica teoria dei pini marini nel disegnare la fisionomia di un profondo viale, a delimitare il lato superiore, esposto a sud, dell’aviosuperficie. Dopo una comoda virata in direzione delle Eolie, sopra gli astratti motivi del fondale di un mare quel giorno incredibilmente traslucido e immobile, ci ritrovammo nuovamente paralleli alla costa: l’ossatura del viadotto ora alla nostra sinistra, il tracciato della ferrovia, la vecchia torre d’avvistamento, il deflagrato formicaio di placidi bagnanti con i pois colorati degli ombrelloni; il piccolo promontorio, a ridosso della spiaggia, dove sorgeva casa nostra; dritto davanti a noi – altro segno d’una più che familiare geografia (adesso scrutato da una mu-

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tata prospettiva) – il moai solitario dello scoglio di San Biagio (luogo privilegiato per i tuffi, nei tempi memorabili e lontani dell’infanzia). Quell’impressione di rassicurante staticità di cui, peraltro sbrigativamente, parla Conrad nel suo resoconto fu presto anche la mia: epperò al prezzo di un necessario e così assordante e sguaiato strepito del motore (tuttavia ben presto divenuto ovattato, sopportabile). Complice quella quiete senza il minimo beccheggio o rollio, da quel momento fui assorbito, come il Saint-Exupéry di una delle Lettres de jeunesse à l’amie inconnue, da un serrato interloquire con il paesaggio (l’occhio sempre sul mirino della Nikon F100 che mi ero portato dietro per documentare quel primo volo), che anziché estenuarmi mi condusse a una concentrata distrazione. Sensazione lontana dai tumulti che animavano la penna dell’autore de Le petit prince, in quelle «eroiche» lettere degli anni giovanili a Rinette – l’«amica inventata» del titolo – nelle quali metteva in scena un teatrino di non meno immaginarie schermaglie.

7 agosto, ore 00:19 L’aereo aveva perso, subito dopo l’ampia virata, d’un tratto, potenza: ed io avevo confuso una seria avaria al motore con la generosa accondiscendenza dell’Aviatore a rimanere a bassa quota. Non c’era modo (mi avrebbe spiegato solo dopo), planando, dato un rapido sguardo all’altimetro, di tentare un nuovo allineamento per atterrare sulla pista. Inevitabile la scelta dell’ammaraggio. Preferì non dirmi nulla, approfittando della mia distrazione, disponendosi in silenzio alla manovra d’emergenza cui fummo costretti dalle circostanze. La reflex in modalità scatto continuo, il mirino elettronico diventato il mio unico occhio, concentrato sul taglio dell’inquadratura – scattavo, eccitato, foto che non avrei mai visto. Fu un attimo:

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l’ultraleggero impattò il pelo dell’acqua dapprima con le ruote posteriori del carrello, poi s’impunto appena con l’estremità della semiala destra, producendo uno smorto e ovattato tonfo che fece innalzare un enorme fungo bianco d’acqua, per poi rapidamente inabissarsi (in principio solo di un paio di metri). Non ebbi il tempo di provare paura (e fu un bene) che il moto del velivolo fu smorzato dagli spruzzi dell’acqua, velocemente giunti fino a coprirci. Il primo colpo al pulsante di sgancio fu violentissimo, ma andò a vuoto, ricordandomi soltanto dopo dell’avvertenza che l’Aviatore mi aveva dato prima di disporci al decollo. Divincolatomi dalla cintura al secondo tentativo, la risalita dal fondo, pur trattandosi ancora di pochi metri, mi sembrò interminabile: riuscii perfino, non so spiegarmi nemmeno a ripensarci adesso come, a sfilarmi letteralmente il casco dal capo, che quindi affiorò poco distante dal punto in cui ero riemerso, peraltro creando immotivato allarme in chi – da un piccolo gozzo da pesca – aveva seguito impietrito tutta la scena e si era subito diretto verso il luogo dell’impatto per sincerarsi delle nostre condizioni. Tornato a galla, la prima cosa che vidi fu la sagoma dell’Aviatore che aveva già doppiato la fusoliera per venirmi a tirar fuori. Si arrestò, di fronte a me, fissandomi preoccupato negli occhi. «Come stai? Hai avuto paura?» – mi chiese sconsolato. «Bene. Non ne ho avuto il tempo» – risposi, sorridendo eccitato per alleggerire il rammarico di un incidente di percorso che nei suoi piani non sarebbe mai dovuto accadere. Sulla spiaggia, oltre ai familiari, trovammo un’ambulanza del 118 e una pattuglia dei Carabinieri, allertati da qualche solerte bagnante: contrariato, mio padre spiegò che si era trattato di un’avaria e che stavamo bene.

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8 agosto, ore 09:37 In quel viaggio – preparato a terra, durato una manciata di minuti in volo e ultimato, imprevedibilmente, in barca – avevo vissuto l’esperienza di una speciale concentrata distrazione, come se la linea del tempo si fosse rappresa, piacevolmente inghiottita da uno di quei buchi bianchi dell’esistenza: un’ansa di sospensione, un condensato punto, un fungo d’acqua. Capii che forse aveva ancora una volta ragione il Saint-Ex delle lettere giovanili, laddove sosteneva che «c’è un altro modo di viaggiare», di andare molto lontano. E che un viaggio – non importa quanto duri – può valere il senso di una vita intera. Giorni dopo, per esorcizzare la paura postuma legata alle tante ipotesi (che mi frullavano in testa) su come si sarebbero evolute le cose se l’Aviatore fosse venuto meno a quel suo compulsivo bisogno di esattezza, ricordandomi il particolare circa il rilascio della cintura di sicurezza, buttai giù in inglese pochi versi, che oggi suonano come emblematico blasone di un comune destino: I have been in another time Where the timeline was a point: only the deep attention kept me alive.

9 agosto, ore 19:43 La sua ribellione, nei mesi della malattia, era passata attraverso lo scrupoloso mai retrocedere dal rispetto di sé, della sua indole, della forza del suo carattere, di quel suo amore ordinatore: metodico, ostinatamente accurato, l’Aviatore inforcava le lenti, si sedeva al tavolo della camera da pranzo per riporre in una carpetta rossa (secondo un principio rigorosamente cronologico) esami clinici, prescrizioni mediche, terapie. Sfogo a un bisogno di esattezza che, come il signor Palomar di Calvino, lo

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vedeva impegnato con pervicace tensione tassonomica a sfidare e sfatare l’ingovernabile entropia dell’universo. Così come non stupiva più di tanto, la fluidità di pensiero (finanche negli ultimi giorni), quell’esprit de géométrie, perfino nel costruire, in un italiano impeccabile, le sue “istruzioni per l’uso del mondo” che sin da bambini ci aveva consegnato. Era il compulsivo bisogno di dire, spiegare e spiegarsi ogni cosa: disteso sul letto (dal quale mai più si sarebbe rialzato), con voce flebile, indugiava nell’illustrarmi il basilare principio fisico per cui il contenuto della flebo entrava in circolo nel suo corpo… Anche riguardo al tiro mancino di quel male che lo aveva aggredito con inimmaginabile ferocia, confessava di comprendere tutto, assolvendoci all’istante dalle reticenze e dalla prudente vaghezza delle nostre spiegazioni. Una volta, volendoci lui, paradossalmente, rassicurare, mi disse: «Ditelo alla dottoressa: io non sono una persona ignorante». Ammissione di una lucidità alla quale non poteva derogare, vanto da esibire fino allo stremo, in una dissipazione che faceva del discernere il solo plausibile carburante. Tarocco riassuntivo d’una vita spesa a mietere sogni, a soddisfare curiosità: quell’ansia romantica a conoscere, a dominare, a esperimentare, ne faceva una creatura bina, con i piedi nel Novecento e la testa nell’Ottocento.

10 agosto, ore 02:11 In questa notte che si ragiona di prosaiche stelle cadenti, di sogni a comando, di desideri confessati e stanchi, e sempre uguali – lo sguardo alzato –, non posso che pensare all’Aviatore, a Basilisca, al signor Rino B., al tormento angoscioso d’un amico che vorrei più vicino, al piccolo principe di Saint-Ex e al suo minuscolo pianeta con i vulcani e l’unico fiore – da proteggere, sempre, sotto una campana di vetro.

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11 agosto, ore 00:33 Deus ex machina delle nostre vite sgangherate, anche i suoi messaggi in bottiglia altro non erano che schiarimenti da concedere in primis a se stesso: la consapevolezza del male, il rammarico di lasciarci (il dispiacere, soprattutto, di doversi separare da mia madre), le lacrime amare, i miti singhiozzi per le «soddisfazioni da dimenticare» (come le chiamava lui) – per ogni sortita nel bel mezzo della vita. Prima di allentare per sempre la presa gli premeva che ogni cosa andasse nel verso giusto, che tutto procedesse come doveva anche dopo e, nel vederci inutilmente affannati e goffi nell’accudirlo, ridendo, a mezza voce, spesso diceva: «quando sarò arrivato là – se è vero che esiste un aldilà – ne avrò di barzellette da raccontare!». Nel tempo a perdere di ore bucate, slabbrate dall’inedia o visitate dal dolore, l’Aviatore perciò assegnava compiti, impartiva a ciascuno speciali affidamenti: ché non mancasse, morto lui, protezione alle sue donne, disorientate dal dolore; ragguagliava il figlio maschio maggiore, l’unico a vivere ancora nella casa del padre, sul da farsi, per quando avrebbe detenuto il pesante scettro della conduzione della famiglia. A mia madre, invece, non riusciva a raccomandare nulla: era lei, ne era sempre stato convinto, la vera colonna portante, regina di quel matriarcato dolce e schiacciante che, facile intuirlo, si sarebbe consolidato dopo la sua morte. E a me, l’ultimo di sette, l’eterno studente, l’intellettuale di casa? Attendevo che proferisse un viatico prezioso per il dopo e che avesse la forza di un’illuminazione, che m’aiutasse a vincere la mia disorientata inerzia, il giorno che invece mi disse, quasi con malcelato rammarico, che avrei dovuto, una volta per tutte, prendere le distanze dall’ambiente universitario (peraltro ricorrendo a una colorita espressione dialettale che non lasciava adito a fraintendimenti). Null’altro. Se non questo pratico avvertimento di «stare alla larga» – dopo i sacrifici e l’investimento in anni e gioventù, in rigorose e forzate clausure – da quello che fino a qualche mese prima

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era stato il mio elemento (e al quale, con immotivata speranza, bisogna ammetterlo, avrei desiderato quanto prima tornare). Lui che aveva sempre sostenuto, con orgogliosa fiducia, il mio desiderio di affermazione, adesso si congedava con quella finale palinodia di totale disincanto che ebbe, lo confesso, l’esito di mettermi irrimediabilmente in crisi e di farmi piombare in un periodo di sconforto. Per cui se mi chiedeva, che so, se avessi fatto a tempo a finire quel lavoro su certo Pascoli estremo di cui gli avevo parlato poco prima che si ammalasse, davo risposte evasive, sviavo apposta il discorso, cosa per la quale s’incupiva, attribuendo al suo male il malessere e il disorientamento di chi gli stava accanto (e dunque anche il mio, che riuscivo con sempre maggiore fatica a dissimulare). Allora toccava a me forzarlo a tirarsi su dalla poltrona, a mettersi in piedi per una breve confidente camminata, mano nella mano, padre e figlio, a misurare l’ampio corridoio come sghembe sentinelle bilicate sul nulla; entrambi a fare perno su quel bastone da patriarca sconfitto (la sola arma che si era scelto per la resa). Tornato seduto, in poltrona, le gambe coperte dal solito plaid scozzese che, vent’anni prima, Basilisca gli aveva portato da Edimburgo, aveva un modo particolarissimo di ricompensare la mia insistenza: prendendomi la mano, cominciava a giocare con la mia fede nuziale, inseguendone, con la punta del dito indice, il contorno. Compiuto quel curioso rituale, mi guardava obliquo; gli occhi colmi d’indicibile tenerezza (fattisi, per un istante, da opachi limpidi) di quell’uomo già in dissolvenza erano la quintessenza, la perfetta ipostasi dell’amo­re paterno. Quella stessa specie d’amore che con la sua dipartita, sentendo tutto il peso e la gioia stinta di prendermi cura di lui, io – che padre non sono mai stato – ho potuto egualmente sperimentare. Me ne accorsi una mattina, mentre lo assistevo nella oramai impegnativa operazione di radersi: lui con fatica a falciare la rada peluria ed io, dietro, a vigilare sull’involucro rinsecchito del suo corpo; riflesso nello specchio, eloquente

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immagine, un cambio di testimone, l’inversione delle parti, tra un figlio che si faceva padre e un padre costretto a farsi figlio, prima di andarsene.

12 agosto, 01:49 Quanto di più distante, cocci d’una vita vissuta gomito a gomito, dalla difficile amorosa convivenza con Basilisca, per quel suo tribolare che veniva da lontano prima dell’irrompere del cancro, inevitabile conseguenza (almeno sempre così mi parve allora, e ancora e più mi pare oggi, quando di anni ne sono trascorsi abbastanza). Di tanto convivere coatto, con rabbiosa tenerezza, ricordo la pratica, per mantenersi in esercizio, a esorcizzare uno di quei crolli in cui si trasformò (rovinosamente per la sua salute) da un certo punto in poi la sua vita – essendosi trovata, di colpo separata dal marito e senza lavoro, costretta a ritornare a vivere, per beffarda necessità, nella casa del padre –, di trascrivere integralmente, digitandolo al computer, Il Gilgul di Park Avenue, uno dei racconti del Nathan Englander di Per alleviare insopportabili impulsi, libro che a quel tempo l’aveva catturata e divertita. Vaticinio, ancora per poco irriconosciuto, di una protesta allora consegnata (lo realizzo solo ora, scrivendone) a un innocuo nevrotico addestramento: nella Kabbalah ebraica, il “Gilgul Neschamot” è, infatti, il “ciclo dell’anima”, per cui si parla anche di “Nizozot haneshamot”, ossia di “scintille delle anime”; separate dai corpi, le anime erranti, nel loro violento staccarsi da essi, somiglierebbero a delle schegge impazzite capaci di dar vita a delle scintille. E me li immagino ora – Basilisca e l’Aviatore, padre e figlia –, radiosi atomi, a fare scintille, a rifulgere d’un amore postremo e indelebile, nel cielo parallelo e di vetro della loro assenza.

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13 agosto, ore 10:17 Ci sono istantanee capaci di rivelare un carattere, di esprimere con immediata evidenza l’universo interiore attorno al quale gravita l’esistenza di una persona. Ho infatti davanti a me una foto che scattai all’Aviatore circa vent’anni fa, nel giardino di casa: in primo piano, di profilo, lo scheletro dell’ultimo monoposto autocostruito ad ala bassa, per l’occasione tirato fuori da quel garage, che da sempre era stato il suo rifugio, nei pomeriggi d’inverno, fuga dalle ubbie quotidiane. Al centro della scena, all’altezza della carlinga, la foto lo ritrae mentre, il volto a tradire una speculativa concentrazione, è impegnato a verificare con malcelata e autocompiaciuta soddisfazione il corretto funzionamento della cloche e della pedaliera, degli alettoni e del timone di profondità del velivolo di cui aveva realizzato a mano ogni singola parte. Quest’immagine spiega perché, nonostante non avesse poi conseguito quella laurea in ingegneria, avesse lo stesso guadagnato sul campo l’appellativo di ingegnere (non conosco altre persone capaci di fare calcoli statici e dinamici, piegare una centina con il solo ausilio di morse, costruire tutta la timoneria di un monoposto legno e tela). Era un misto di logica e intuito, un pozzo senza fondo di curiosità. Di professione impiegato – solo perché la vita, il caso, aveva avuto in serbo per lui un mestiere da svolgere con scrupolo e appassionata dignità –, la sua rivincita era nell’inesausta tensione a progettare, sperimentare, costruire – libera espressione di una filosofia pratica che si tramutava in divisa etica; a valere anche nelle relazioni con il prossimo. Era l’uomo dalle mille epifanie: una a ogni volo; e più diminuivano, avanzando l’età, le occasioni, più preziose e imprescindibili diventavano le sue ascesi aeronautiche. Costretto a terra dalla malattia, dato via il suo pollo d’acciaio, era diventato una sfinge di umori impenetrabili: fino a quando ha voluto insegnarci, con naturale coerenza, come si muore. Oggi rimane un’eredità feconda: questa mitologia privata e insieme universale, di aria

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e di terra. Per Noi che, pur essendo ancora qui, apparteniamo già alla stirpe degli involati!…

14 agosto, ore 00:53 «Non conosciamo veramente nulla, di questo mondo; non siamo al mondo» – per tutto il tempo (compresso) della malattia dell’Aviatore fino all’attimo in cui, morente, lo guardavo spegnersi, già da giorni ombra di se stesso, non ho potuto togliermi dalla mente queste parole tratte dal Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos. Accomunati – io che restavo, lui trapassato ancor prima di trapassare – da questa cecità: e tutto questo mentre lui moriva; in verità spirato già dall’attimo in cui era stato costretto, con stizza, a cedere, a non più alzarsi da quel letto-culla dove avrebbe consumato i suoi ultimissimi giorni di atroce agonia. Il corpo malamente adagiato, in prospettiva quasi mantegnesca, su un lettino fatto marmo, per giorni e ore in cui eterna sembrava solo la passione. Eppure, la sua morte ha acquistato il senso ultimo di uno shock e insieme di una rivelazione: ha avuto a che fare con la testimonianza; e, se non con il miracolo, con una speciale e (per me) incontrovertibile agnizione. Sensazione che è diventata in un lampo evidente certezza quando, per traslarlo dall’ultimo giaciglio e ricomporne le spoglie, abbiamo dovuto avvolgerlo nei lenzuoli ritorti, i piedi che si toccavano, riproduzione involontaria di un’iconografia del dolore solo adesso fattasi carne e avvertita in tutta la sua potenza di senso: per la prima volta in vita mia, anch’io ho afferrato quei lembi ritorti e benedetti! Mi sentivo come il personaggio di un sacro dipinto, come se i miei gesti si compissero (attesi e saputi senza mai prima averli conosciuti) naturalmente, obbedienti a una meccanica che avevo finora solo osservato nelle tele che riproducevano uno dei soggetti pittorici più rappresentati: la deposizione. Meccanica scevra da ogni sicurezza, concentrata nel solo incavo della fatica (come

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il Nicodemo della Deposizione di Caravaggio) – i muscoli tesi e impegnati a sorreggere il vuoto grave di quel corpo –, senza nessuna rinascimentale illusione di leggerezza, sprofondato dentro l’incavo di quell’improvvisato sudario. A governare l’unanime teoria di affetti di chi, a quell’antichissimo rituale di passaggio, partecipava, da vivo.

15 agosto, ore 06:12 Tuttavia, la sua malattia non mi è mai sembrata per la morte: ma dalla morte bisognava passasse per farci toccare con mano un piccolo capolavoro di gloria ignota e resa tangibile dalla parabola fulminea della sua passione (fu proprio questo il senso ultimo del miracolo). Nell’attimo stesso del suo trapasso, nel banale e automatico prendersi cura di quell’involucro che era stato, in vita, l’Aviatore, nel comporsi naturale di una domestica deposizione, ho capito che si consumava un risveglio che nemmeno adesso riesco bene a connotare: e fu come se, insieme a lui – Didimo testimone –, fossi morto un po’ anch’io. Epperò egli risorto, nel mio pensamento, più che come un esausto Lazzaro, come il figlio della vedova di Naim, ritornato (eterno?) «giovinetto». Ha saputo insegnarci, insomma, come si muore, percorrendo l’intero perimetro che principia da un cupo risentimento e giunge alla più docile accettazione, rivelando così tutta la forza della sua anima buona. Certo, furono giorni anche di furia e di sdegnato disappunto per non essere più quello di prima, lui che aveva bellamente rifiutato di affinare quella preziosa forma d’arte in cui consisterebbe, per Hillman, l’invecchiare. I segni evidenti del male – prima sotterraneo infine palesatisi con inaccettabile virulenza – insidiavano quel fisico di zangleo mezzosangue che fino a quel momento noi tutti avevamo voluto credere progettato per durare cent’anni e sconfiggere l’incedere del tempo. Allevatore di polli, cacciatore (poi pentito), costruttore-ingegnere di mac-

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chine (natanti e volanti), taratore di antenne, cuore di burro e bullo da far west, volatore, travet della famiglia e inappagato corteggiatore del sogno – inghiottito da un sonno che sonno non era –, stava l’Aviatore, in poltrona o sul divano, con la bocca spalancata, assai somigliante all’uomo che arde d’angoscia del celebre Urlo di Munch, tuttavia sollevato da ogni sfogo, svuotato da ogni ansia, ridotto a puro sguardo; maschera che si concede, ubbidiente, all’ineluttabile resa senza condizioni. Come a dire: «hai vinto Tu! Solo perché hai barato…».

16 agosto, ore 00:18 Fui io a capire cosa stesse, con affanno e le lacrime agli occhi – mite e deciso e appena contrariato –, impetrando: mimava il suo desiderio, le mani giunte, non più in grado di parlare, estinto anche l’ultimo alito di voce, preoccupato soltanto che riuscissimo a decifrare quel surreale segnale di fumo. Fu un lampo: l’annuire di mio padre, la corsa forsennata e saettante in strada, alla ricerca del prete alla vicinissima chiesa del Sacro Cuore di Gesù. Lo stesso donabbondiano e incredulo sacerdote – più che irritato, allarmato dal mio incalzarlo perché si affrettasse, per strada, prima che svanisse la piena lucidità di spirito dell’Aviatore –, lo stesso prete (crudele ripetizione) che, sempre a perdifiato, ero andato quasi a staccare dalla tavola da pranzo, quattro anni prima, perché si precipitasse, sul filo di lana, a dare i sacramenti a una già annebbiata Basilisca. A lei, di contenuta e wertmulleriana ironia, morta il 20 di dicembre, quando, per un caso astratto, mancavano ancora «quattro giorni a Natale» – era questo uno dei nostri sketch domestici preferiti, infine rivelatosi come sconcertante chiave di volta del suo destino –, non ho saputo regalare che compagnia e coatta convivenza, in quella che era diventata, anzitempo, la stanza de la dolora. E distici sciolti e tellurici, a mero risarcimento, come

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a un’innamorata a cui, con rammarico, si pensa e si continua a riandare nel privato Quaderno delle ore: *** I colpi nel comune dormiveglia non erano che i tuoi, la mano che batteva la bestemmia porca della vita.

*** Stare e non stare, vibrare d’inquieto vivere: tu mi guardavi, io ti capivo e nulla dicevo.

*** Si stava e si sta ancora lungo la strada di sabbia, sul litorale, dentro quella luce bianca che acceca.

*** Costretti, tu ed io, a dividere una stanza ampia, fatta di cose e dolori sparsi, di pianti rotti ai quattro venti.

*** E giace dietro una porta della casa grande, metafisico segno degno d’un De Chirico, l’ortopedico sostegno che t’aveva reso cosa estranea.

*** Eruzione discontinua, se a toccarti era (solo per un attimo) allegria: cadenzata e martellante risata a raccontare presente un’altra vita, conosciuta.

*** Perfino mi manca quel tuo gusto per gli interni, i giusti oggetti, gli abbinamenti perfetti che sapevi intonare ad ogni vita.

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*** Solo mi aggiro premendo l’occhio provato – disegno dei passi sulla sabbia – dal puro orizzonte mi chiama forte un languore bianco di te, del tuo e del mio padre.

17 agosto, ore 08:09 Quando entrai facendo da scorta all’imbarazzato don Elia, l’Aviatore stava là, dove l’avevo lasciato prima di precipitarmi in strada, adagiato in poltrona al centro della stanza, le mani giunte appoggiate sul ventre, gli occhi appannati, l’allarmata consapevolezza di aver consacrato, a fatica, l’ultimo barlume di lucidità, in vista di quel momento. Prima dell’estrema unzione, il prete volle comunicarlo col solo vino e una minuscola particola che con gran fatica riuscì a mandar giù. Esaurita la meccanica litania del Viatico, estrasse dal sacchetto di seta violaceo il vasetto dell’olio degli infermi: il pollice destro levato e, intingendolo a ogni unzione, tre volte lo appoggiò a mimare una croce – sulla fronte, sulle palpebre, sulle mani. A ogni segno meccanicamente ripetendo la formula rituale: Per istam sanctam unctionem… Lì si arrestò. Non reggendo, don Elia, alla vista del corpo consunto e rinsecchito di quell’Ercole patuto che non era stato capace di metabolizzare l’oltraggio più diabolico che a un padre possa capitare di subire: l’innaturale vedersi sopravanzare, nel congedo da questo mondo, dalla figlia; la più grande, la più amata, la più ostile: Basilisca. In quella pala sacra che aggalla spesso dalle trame scucite della mia memoria, campeggia su tutto la disposizione antirituale di noi presenti: raccolti in ordine sparso (concrezioni di silenzio e solitudine) al capezzale dell’Aviatore; eppure con un che di teatrale per quelle due chiese improvvisate ed entrambe disadorne, voci mute di sentimenti egualmente dominanti e

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opposti: io, mia madre – e alle nostre spalle come una ferita bianca, una presenza, una fatua scintilla –, confidenti nell’Amore (che tutto può, tutto guarisce e tutto trasforma); i miei fratelli, a disegnare un ghirigoro di atterrito silenzio misto a un moto d’impotente rabbia, trattenuta a stento (e che quelle terminali orazioni solenni subivano quasi come irritante bestemmia contro il nulla). Limen metafisico, le mani giunte e strette di mio padre, all’altezza della bocca, due lagrime brune a rigargli lente – perpendicolari agli occhi incerati –, l’incavo color ocra delle guance.

18 agosto, ore 00:21 Mi conforta saperlo nel paradiso degli involati, tra i pedoni dell’aria. Ora potrà chiedere a Saint-Exupery cosa accadde, quel giorno, in quel fazzoletto di cielo di Provenza; ora, potrà continuare a costruire “inutili” macchine volanti – per il solo gusto di vederle realizzate –, facendo concorrenza al belga Panamarenko; ora, potrà liberamente conversare con Charles L., osare l’impudenza di chiedergli dell’innaturale esperienza di vedersi strappato anzitempo un figlio e magari chiedere anche alla fascinosa Amelia E. da dove le venisse tutta quella temerarietà e fiduciosa incoscienza. E ci sarà qualcuno che ti sorprenderà ancora, incalzandoti, come in Journal of an Airman di W.H. Auden, ammonendoti: «You are a man, or haven’t you heard / That you keep on trying to be a bird?».

19 agosto, ore 01:39 Io che ho sempre pensato allo sport (in accordo con Volponi) come la massima espressione di una «materiale cultura della libertà» che abbia la forza di un’etica concreta (visione, lo ammetto, forse un po’ troppo eroica), sono sempre rimasto per-

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plesso rispetto al grande amore dell’Aviatore per la boxe. Al punto che quella (per me inspiegabile) passione fu oggetto, sin da bambino, di ammirato studio: rimanevo a guardarlo, mentre stava, concentratissimo, in poltrona, a seguire ogni scambio, a ruminare sul punteggio che i giudici avrebbero attribuito, sollevando dubbi sull’obiettività o meno nella valutazione dei singoli round, sovente rivolti a proteggere il detentore del titolo e a penalizzare lo sfidante di turno… Mi costringevo io stesso a stargli accanto (era la mia volontà di capirlo e di specchiarmi in quel crudele fervore). Poi giungeva il momento decisivo, quando uno dei due boxer prendeva inesorabilmente il sopravvento, e l’altro – costretto, animale in trappola che implora di essere finito – rimaneva immobile, all’angolo o al tappeto, un attimo prima di precipitare, in silenzio, nella sconfitta (quasi sempre frutto di un cedimento improvviso, d’una svista). Era insomma il soccombente ad attrarmi: al punto da provare somma irritazione per i festeggiamenti dei campioni, l’ostentazione delle loro sgargianti e vistose cinture kitsch, il momento ridicolo della premiazione. La mia attenzione era invece calamitata del tutto dallo sguardo perso nel vuoto del perdente (a incarnare il rinnovarsi di un antichissimo rito sacrificale). Per anni non ho inteso da dove provenisse quel non essere da meno, quel mio sdegnato desiderio di un difficile riconoscersi, il puntuale e cieco fraternizzare con lo sguardo perso di colui che alla fine soccombeva sul ring, al punto di provare sommo disprezzo per il vittorioso; a negare, io già uomo di parola, cittadinanza alle ragioni della forza – del corpo come arma –, per ritrarmi a incommensurabili spanne di lontananza. Di cosa fosse metafora l’impari contesa che fu per entrambi la boxe lo compresi soltanto dopo, quando tra noi s’invertirono le parti, quando vidi l’Aviatore gettare il proprio corpo nella mischia, pur avendo già fisso lo sguardo altrove ed io mi sorpresi, serrando i pugni, ad aggrapparmi soltanto alla verità biologica del mio corpo. Come a un certo punto Pasolini

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fa dire all’Ombra di Sofocle in Affabulazione, nella vita come teatro, come palcoscenico, nel teatro dove «la parola vive di una doppia gloria», nella nota ribattuta della parola – «scritta e pronunciata» – che prende vita, non solo è importante l’evocazione della realtà dei corpi per mezzo delle sole parole, ma anche che ciò si compia con «quei corpi stessi». Ecco, nell’opera come nella vita di PPP il corpo era tutto: il tabernacolo (principio e fine) dell’esistenza, medium epistemologico per antonomasia. Penso ad alcuni versi contenuti nella collana L’hobby del sonetto, esito della disperazione per la fine del suo rapporto con Ninetto Davoli che l’aveva “tradito” innamorandosi d’una ragazza che poi avrebbe finito per sposare, e dove scrive: «Quanti ragazzi come voi mi odiano e mi amano / Non ho altro da gettare nella lotta / che il mio corpo / esso è al loro fianco ma io sono lontano». Perché, come fa dire ancora in Affabulazione al padre, la realtà non è un enigma da risolvere ma bisogna «conoscerla», penetrarne il mistero. In questo scambiarsi di ruoli, in un parallelo e reciproco mutuo regredire, il padre si fa figlio e il figlio assume una paternità sacrificale. Così scrive infatti in Affabulazione PPP: «Egli, il figlio, getta nella lotta contro il padre – che è sempre il padre a cominciare – il suo corpo, nient’altro che il suo corpo». Quel corpo che, ce lo ricorda Paul Valéry, «pone sempre fine a ogni commedia»; commedia che si chiude, sempre, grazie al ritorno del corpo stesso sulla scena.

20 agosto, ore 17:39 Non so perché ho sempre atteso a questo secondo mestiere, da dilettante autodidatta, con la fiducia semplice che il suo senso mi si sarebbe di volta in volta palesato nella pratica, nel cimento (come direbbe qualche accademico snob). Comunque vissuto come un gioco serio, una seria attività; e avendo

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a mente che sempre di gioco si tratta. E forse lo schiarimento più veritiero sulla peculiarità di questo giocare me lo rivelò, anni orsono, un passaggio delle Lettere spirituali di un irregolare come Giuseppe Rensi, laddove precisava: «Bisogna per tutta la vita aver qualcosa di analogo a quel che è giuoco per i ragazzi: qualcosa che ci interessi come una cosa seria a cui dedicare una seria attività, e che nell’istesso tempo ci lasci l’avvertimento che non è nulla di essenzialmente importante». Di cosa si tratta se non di questo? Torno a riflettere su ciò anche in questa afosissima estate, in cui puntuali giungono le mai dismesse e cicliche querelles sulla morte del romanzo, lo stato di salute della critica, le lagnanze sullo scarso livello delle pagine e dei supplementi culturali (simili agli immancabili consigli al runner principiante che troviamo nei numeri estivi di qualsiasi rivista di podismo). Ricognizioni – apocalittiche o integrate, poco importa –, ma che si levano ogni volta a significare un ripiegamento: il bisogno d’istituire comunque una narrazione riassuntiva e condivisa sullo stato dell’arte di ciascun attore (lo scrittore, il lettore, il critico). Per anni, prima ancora di ricercare nelle immagini i segni di questo vagabondare, nella partita di un apprendistato che consideravo e considero mai finito, mi sono ritrovato a ricucirne le mappe, a rincorrerne il senso. Sottoforma di appunti o talvolta di lettere indirizzate all’Assente – a quel lettore cui il critico, esultante, dovrebbe rivolgersi.

21 agosto, ore 00:34 L’ennesima polemica sui social oggi mi ha spinto a tirar via dal classificatore una delle agende e, aprendo a caso, sono andato a rileggere un frammento che reca la data 9 novembre 2005: «Caro Assente, non ho nulla da insegnarti, nessuna velleità pedagogica, lo dico davvero. Se non renderti partecipe spettatore

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del mio argomentare. Guardare con empatica disposizione al mio scavo autobiografico, alle tangenze inattese, all’emergere, anche solo per un attimo, dal cono d’ombra. Una critica, come fu la poesia secondo il Gottfried Benn di Problemi della lirica, senza speranza, non diretta ad alcuno e che sta a cuore fondamentalmente a questo me stesso in carne ed ossa. Certo vorrei che la mia fervida vocazione a conoscere risultasse tutt’altro che respingente…». Frammento curiosamente seguito da una postilla che sembra essere in contrasto con quanto prima enunciato: «La critica ha insomma a che fare con la vita: col problema cruciale di cui scriveva Pavese: “rompere la propria solitudine”; “comunicare con gli altri”». Ma il cui trait d’union si può ricavare nella notazione della pagina a fianco, in cui riprendevo una delle tante epifanie contenute nell’Esame di coscienza di un letterato di un Renato Serra che amavo alla follia, ma che con giudizioso raziocinio già mi imponevo di respingere: «Adesso ho capito. Ho potuto distruggere nella mia mente tutte le ragioni, i motivi intellettuali e universali, tutto quello che si può discutere, dedurre, concludere; ma non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione». Quella passione che ci aiuta a ignorare l’ontologica contraddizione tra inutilità pratica e innegabile propensione conoscitiva della critica.

22 agosto, ore 02:54 E alla critica come passione edificata sulle parole e con le parole continuo a pensare anche stanotte, vinto dall’insonnia e dall’insopportabile calura di questi giorni. Rosamaria riposa da ore, le cicale, sul pino della villetta del vicino, friniscono a intervalli quasi regolari, in un ciclo di pause e riprese che scandisce il ritmo estenuante del corteggiamento, mentre io mi costringo allo scrittoio, senza un preciso scopo se non questo

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sismologico impulso a raccontarmi. Non ne faccio mistero: non saprei scrivere altrimenti. Elucubrazioni di un io ipertrofico? Può darsi. Ma non conosco altro diapason al quale accordarmi. È la sola forma di stendhaliana impudicizia che mi governa. Il più primitivo strumento di cognizione, fatto di tanti “io” e di “me” messi in fila, ma al solo scopo di operare un sincero riconoscersi. E in ciò io non sono diverso dagli altri.

23 agosto, ore 16:09 La convalescenza di Rosamaria, in ripresa dopo una brutta colica renale, si sta rivelando una pausa, per quanto imprevista, in fondo non troppo dura. Più passa il tempo e più realizzo che la nostra vita insieme sia l’espressione di un vero e proprio talento. La vocazione naturale che ci siamo industriati a costruire, con un tacito giuramento, ancora e più dopo l’esser stati destinati a non avere figli, genitori nulla più che di un meticcio (adesso vecchio di diciassette anni). Talvolta penso che la nostra vita in due sia la sconfitta più dura che si possa infliggere alla leggenda nera della solitudine. Da quasi vent’anni, Lei, «donna di temperamento e luminosa ironia» (così la dipinse in uno dei suoi Passaggi il più simpatico dei narcisisti), ha reso insperata realtà quel «duro desiderio di durare» che, giovanissimo, avevo meravigliosamente trovato espresso nei versi di Paul Éluard.

24 agosto, ore 20:51 Sento che anche una certa idea naïve, intimista e se vogliamo pop della critica, abbia a che fare con la qualità di una simile disposizione. Mi viene in mente quando mi ero fitto in capo, convincimento non so poi quanto delirante, che un onesto e fortunato romanzo epistolare dell’osannato David Grossman,

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Che tu sia per me il coltello, potesse leggersi, sotto metafora, come il romanzo che svela, attraverso il rapporto dei due protagonisti, il movente primo della critica. Nella storia semplice di uno sconosciuto che entra nella vita di una donna veduta a una festa, in Yair che inizia a scrivere lettere a Myriam proponendole il «contratto» di un rapporto (dunque di una vita) fatta solo di parole. Yair le scrive proprio in virtù di quel non conoscere, è mosso dal sentire di non sapere; cerca di distanziarsi dalla vita per a essa tornare. Inventare un loro codice per decifrare l’enigma di questa insipienza, perché le parole sgorghino da un punto assolutamente altro, un insolito germoglio, nel tentativo di invenire quella che nel romanzo viene definita una «nudità senza pelle». Quale l’eresia di una simile scrittura? Osare porre un piede nella realtà, ma aggirandosi entro una sterminata landa d’illusione. Lei finisce di ricopiare in ordine cronologico su un quaderno tutte le lettere di lui, pensando che così egli stesso avrà modo di scoprire diverse cose sul suo conto. L’epistolario diventa così un mutuo dono di auto-agnizione e di svelamento. E non è forse questo scrivere «senza pretendere nulla da nessuno», questo concerto per voce sola quanto di più somigliante alla scrittura del criticolettore? Non è simile al coltello attraverso il quale frugare in se stessi che fu per Kafka l’amore per Milena? Senza questo «luogo privato», la vita è condannata a rimanere vita e basta!

25 agosto, ore 00:02 Ecco: prendersi la responsabilità (suggerita dall’occasione) di accogliere nel palmo della mano il destino di un’opera (del suo autore), e farsi carico di raccontarla e riviverla, scrivendone. Tutto sta nel trovare la «giusta misura», rinvenire un possibile e inatteso ordine delle somiglianze: è questo un po’ il nocciolo della questione. Lo scrivere del critico autobiografico è il ricercare una breccia, un credito da ascriversi verso quell’amoroso

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oggetto che abbiamo incrociato e deciso di conoscere, attraverso il quale specchiarsi. La perorazione, le domande inevase, i sospensivi dubbi, non fanno che reclamare con forza una risposta che alla fine ci riguarda (in accordo con la nostra storia) proprio in quanto uomini.

26 agosto, ore 16:47 Metto da parte tutto. Ho difficoltà a concentrarmi. Il mio dolore oggi è quello della mia vecchia amica Maryàm, afflitta e amareggiata. L’avevo appena rivista stamattina, ma trascorsa qualche ora, ho sentito il bisogno di chiamarla al telefono. Maryàm è l’amica più avanti negli anni che ho – amata di un amore discreto e lontano (così come da sempre lei ha voluto). Quest’estate è praticamente scappata dalla casa al mare, non potendo digerire, alla sua età, musi e malumori di un’aria già fattasi irrespirabile (quanto di meno indicato alla sua fragile costituzione nervosa). Mentre me ne parla con voce di cartavetrata e al limite delle lacrime, per farmi capire come abbia vissuto queste ultime settimane, mi dice che il mare e il sole le apparivano grigi; neri i tramonti di quella pur amata contrada. Dal vaso dei ricordi montano e irrompono i più spiacevoli, i più tristi, i più indelebili. È l’inatteso rovesciarsi in terra di esso, il costringersi a contemplare in ogni infimo dettaglio i suoi cocci. Siamo ancora al telefono. Non può trattenersi, e mentre ridisegna la cartografia dei suoi dolori privati e famigliari, mi fulmina con una frase: «Oggi sono ottantatré anni di solitudine». Poi subito desiste dal proseguire, perché, con malcelato rammarico, «le parole non bastano» dice, cercando di ritornare padrona del suo normale tono di voce. Quasi azzittito riesco a dirle davvero poco, io che forse, per quanto mi ami, le appaia come, se non un nemico, un perfetto e beato ignorante, avendo entrambi i piedi ben piantati al sole della speranza. Mi sforzo, senza ferirla, di darle udienza sincera,

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senza dispensare facili consigli; e, nel mio cuore, confidando che la chimica guasta venga al più presto scacciata da quella leggera. Improvvisamente desisto: mi chiedo se sia giusto scrivere di tutto questo dolore che ci assedia. Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

27 agosto, ore 20:45 Oggi pomeriggio, prima di scendere in spiaggia, nella sacca dei libri, accanto alla Vita di Henry Brulard di Stendhal e all’ultimo romanzo dell’indiscusso campione del grottesco italiano degli ultimi anni, ho fatto scivolare qualche albo bonelliano che di tanto in tanto, e specie d’estate, mi concedo di leggere come vacanza dallo studio e dal lavoro. Dopo il bagno, anziché riprendere la lettura delle confidenze di Monsieur Beyle sulla sua infelice infanzia nell’oppressivo ambiente della retriva Grenoble, indugio sull’albo speciale tutto a colori di Dylan Dog che contiene tre storie dedicate all’irresistibile Groucho, l’assistente svitato del famoso Indagatore dell’incubo, ispirato al celebre comico statunitense Groucho Marx (di cui ha pure le sembianze). Nella selva di calembours, a un certo punto Groucho, alle prese con gli appunti di un suo libro dedicato alle Regole della comicità, fulmineo pensa al possibile suo epitaffio da scrittore: «Si privò del sonno per procurarlo agli altri». Freddura certo non nuovissima, rintracciabile in qualche libro di Achille Campanile, ma che con impietosa sincerità scorcia un ritratto dell’inconsapevole e comica disposizione di non pochi e perfino celebratissimi scrittori d’oggi. Destino, non m’illudo, che in vero potrebbe toccare anche all’estensore di questa cronaca personale, per cui già in anticipo me ne faccio una ragione: al massimo, i potenziali detrattori, di me potranno dire, con meteorologica e felice deformazione, che fui un critico sereno, senza mai un lampo.

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28 agosto, ore 17:45 Sul finire degli anni Settanta viveva con noi un’anziana zia di mio padre, la zia Betta. Donna semplice ma cocciuta di fine Ottocento, educata all’etica della terra e della roba, religiosissima, ma di quell’ingenua religiosità che non smuove a dubbi di sorta, a oscene domande su Dio e sul senso del proprio credere. La zia dell’Aviatore non era certo di buon carattere, litigava per un nonnulla con tutti, e il suo modo di manifestare apprezzamento o contrarietà era sempre lo stesso: mettere mano di continuo al suo testamento, modificandolo a seconda delle circostanze e dei casi che le occorrevano. Nei due anni di permanenza con noi fu vittima privilegiata dei crudeli sberleffi di quell’associazione a delinquere che erano le giovani donne di casa: Lepre, Cicogna, Patata, Perchia, Mollichina. Quei soprannomi, a registrare una particolarità del fisico, a cogliere una nota distintiva del carattere, erano stati loro affibbiati dal ginecologo e medico di famiglia che aveva visto nascere ognuno di noi. Grande amico dell’Aviatore, con il quale condivideva passioni e svaghi, Peppino, il medico, fedele al suo essere giocosamente dispettoso, prese per scherzo ad appellarle così, al punto che quei nomignoli gli rimasero in eredità anche da adulte. La devozione sincera di zia Betta fu il suo vero tallone d’Achille: talvolta, mentre seguiva messa in tv, sostituendo la propria voce all’audio reale, Patata la costringeva, già ottantenne, ad alzarsi e risedersi continuamente, nel frenetico incalzare degli “in piedi” e dei “seduti”; oppure Cicogna legava una pesante catena a un filo di nailon per farla stridere sul pavimento, sotto il suo letto, perché la zia fosse indotta a credere che la sua stanza fosse assediata dai demoni: allora subito si segnava il capo, si scamiciava, scoprendo il suo corpetto abbottonato davanti, sul quale, come fosse un militare pluridecorato, teneva attaccati con spilli da balia una teoria di “Fu’rini di sænt” (immagini sacre), medaglie e medagliette da cui invocava immantinente protezione. Una volta les terribles

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arrivarono addirittura a inscenare un prodigio soprannaturale, cospargendo di gocce di succo di pomodoro concentrato la statuetta del Cuore di Gesù che la zia teneva sul suo comodino, inducendola, credula, a prostrarsi e a esclamare nel natìo dialetto gallo-italico: «Signar’ Dia M’racul» («Signore Dio, miracolo!»). Ma davvero esilaranti erano le risposte che dava se per caso la interrogavano, con eguale insistenza, sull’anatomia del corpo maschile o sui dogmi della fede: se le chiedevano cosa fossero i testicoli lei, fattasi rossa in viso, rispondeva, nella sua lingua materna – «Li causi dardi di meshku» («Le cose sporche dei maschi»); se le chiedevano un chiarimento semplice su come fosse stato possibile per la Madonna preservare la sua verginità, lei decisa spiegava tutto con un’immagine: «Fu ’na palauma ki ghi thrasó ta d’arogg» («È stata una colomba che le è entrata nell’orecchio»). A farmi venire in mente cose remotissime della mia infanzia è stato proprio ritrovare quella stessa spiegazione nel Sillabario dell’amore crudele, l’ultimo romanzo di Francesco Permunian, che da qualche giorno mi fa compagnia in spiaggia. Nell’ennesimo teatrino osceno messo in piedi dall’appartato scrittore di Cavarzere, protagonista è il nano Teodoro Maria Baseggio che decide di affidare alla scrittura di un personale sillabario, dal tono e dallo sviluppo diaristico (maniera peraltro assai congeniale all’autore), il racconto crudele della sua vita e della sua infanzia, tirato su in un orfanotrofio in cui regolarmente, insieme agli altri bambini ospiti, subì violenza da parte dei religiosi. Come sempre la provincia rimane la riserva di caccia privilegiata di Permunian, da cui trarre quei suoi personaggi a un passo dalla follia conclamata; follia che tuttavia rappresenta la salvifica sortie di molte (altrimenti anonime) esistenze. Quella provincia vissuta come malattia, ma che non di rado aiuta a sviluppare i giusti anticorpi, necessari a rendere le persone adatte alla sopravvivenza. Nell’affollata galleria di figurine grottesche presenti anche in quest’ultimo libro, a un certo punto ci si imbatte nei

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coniugi Amanda e Andreas Hofer, vicini di casa del nano Baseggio, cattolici preconciliari che hanno in odio papa Bergoglio e che appartengono ai cosiddetti «Cristiani auricolari», antica corrente di pensiero secondo la quale il concepimento di Gesù Bambino da parte della Madonna sarebbe avvenuto, appunto per aurem, attraverso l’orecchio destro, in modo da preservare l’integrità virginale della Santissima. Che sorpresa il riaggallare dal pozzo della memoria di quella strana storia della colomba entrata nell’orecchio della Vergine che la zia Betta andava raccontando, e che noi tutti attribuivamo alla sua disarmante e disarmata ignoranza. E invece? Scopro che nell’iconografia medievale il tema viene rappresentato proprio in maniera così inusuale; per esempio, in un bassorilievo del XV secolo della Marienkapelle di Würzburg in cui dalla bocca di Dio-Padre diparte una sorta di tubo entro cui scivola il piccolo Bambino Gesù, discendente verso l’orecchio sinistro di Maria, seduta a leggere. Il mistico condotto, approssimandosi all’orecchio di Maria, si tramuta proprio in una colomba. Una simile iconografia, insomma, altro non era se non lo specchio delle credenze e delle dispute dottrinali diffusesi nei secoli per spiegare il concepimento di Maria. Inoltre, i movimenti e le differenti collocazioni della colomba nell’iconografia sacra, riflettevano le posizioni della Chiesa circa la reale natura di Gesù Cristo. Ma la cosa più strabiliante è che, secondo Kerenyi, a suggerire ai padri della Chiesa la cosiddetta con­ceptio per aurem sarebbe stato il mito pagano secondo il quale si credeva che la donnola fosse fecondata attraverso il condotto auricolare. Non è tutto: il verbo creatore riconduce alle dieci Sefiroth della mistica giudaica, di cui le prime tre – Keter (la Corona), Kokhma (il Padre), Binah (la Madre) – risiedono nel mondo divino e simboleggiano una Trinità particolare, epperò nella quale non appare Cristo. E la parte del corpo corrispondente alla Madre (Binah) è proprio l’orecchio. Dunque, la conceptio per aurem rappresenterebbe un meraviglioso caso di conta-

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minazione religiosa fra cabala giudaica e cristianesimo, una ricezione dei testi mistici ebraici (tra i primi cabalisti cristiani fu Pico della Mirandola) letti in accordo con la dottrina, ma per esprimere una trinità rivisitata in cui entra a far parte, con Maria, anche l’elemento femminile. Ecco perché mi è sembrato quanto meno doveroso riabilitare, a distanza di più di quarant’anni, la zia Betta, la cui religiosità si è infine rivelata tutt’altro che ingenua, cabalista cristiana e stretta parente di un Pico della Mirandola.

29 agosto, ore 01:08 Se c’è un classico della nostra letteratura nazionale che, pur amando tanto, ho sempre guardato con sospetto, convinto che anzi, per poter essere inteso fino in fondo, debba esser letto come negazione della sua parte diciamo così più pedagogica ed edificante, è Le avventure di Pinocchio dell’immenso Carlo Collodi. Convincimento che si consolida ogni volta che m’imbatto in quell’accomodante e deludente epilogo che fu di fatto imposto all’autore dai malumori dei lettori del «Giornale dei bambini» diretto da Ferdinando Martini (dove in principio il romanzo era apparso a puntate) a cangio dell’originario finale tragico della fiaba, che si concludeva infatti con la macabra impiccagione del burattino ad opera dei due compari, il Gatto e la Volpe. «Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni» – così Geppetto ammaestra Pinocchio, nel frattempo tramutatosi in bambino in carne ed ossa – «hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche nell’interno delle loro famiglie». Ma questa virtù non sempre, in famiglia, sortisce i medesimi effetti, ché assai spesso bontà equivale a minchioneria; per infine trovarsi – egualmente e mortalmente – adagiati su un misero pagliericcio, «sfiniti dalla fame e dal troppo lavoro», come il povero (somaro) Lucignolo. Perciò,

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fosse vivo ancora Collodi, come antidoto a quella dizione troppo consolatoria, e dunque in nome della perduta coerenza e verità della sua fiaba, gli chiederei senz’altro di restituire un più congruo suggello alle peripezie del burattino che potrebbe essere riscritto, con minima ma sostanziale variazione, pressappoco così: «– Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son “pentito” di esser diventato un ragazzino perbene!…» (che poi dalla contentezza al pentimento, si sa, non di rado il passo è breve). Di questa abbacinante coltre di conformistica ipocrisia mi pare sia ammantata la nostra storia patria sin dai suoi albori.

30 agosto, ore 00:27 Alla ricerca di qualcosa che ci faccia vincere la noia e l’afa di un’estate sempre più crudele, io e Rosamaria decidiamo di scaricare on demand un patinato documentario che sembra sin dal titolo promettere bene: Calvino. Tutto in un punto. Si tratta del solito racconto, tra biografia e opere, volto a resti­ tuirne il percorso umano e intellettuale, arricchito dalle parole di amici, scrittori e studiosi, da Ernesto Ferrero a Domenico Scarpa. Non mancano le enfatiche letture dal Barone rampante, Marcovaldo o Le cosmicomiche, da parte di attori d’eccezione la cui dizione è troppo arzigogolata, troppo recitata e che, penso tra me e me, lo scoiattolo della penna non avrebbe apprezzato (specie le gesticolanti accelerazioni imposte al testo da una deludente Sonia Bergamasco). Un documentario ben fatto, esaustivo nel racconto, bello nel montaggio delle immagini, efficace nel ricostruire i punti di svolta della sua molteplice attività di editore e autore. Eppure mi pare sia impossibile raccontare veramente cosa abbia rappresentato, e non solo per la letteratura italiana, il passaggio dell’astro Italo Calvino nel firmamento del Novecento. Egli è stato una sorta di Dio – tanto schivo quanto

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consapevole – del letterario: se ne può rinvenire il preannuncio nelle astrazioni percettive di Quasi leggera morte, le ottave di Osip Mandel’štam, fedele anch’esso all’utopia del ruolo attivo e creatore del lettore; oppure, che so, nell’autore contemporaneo un tempo di nicchia, in apparenza a lui più lontano, per estrazione intellettuale e modelli. Penso al Moresco di La lucina, il cui protagonista, per quell’atteggiamento di stupore e orrore insieme nei confronti della natura, è un signor Palomar che, arreso, va incontro a se stesso: rinuncia a ogni ansiogena ricerca di metodo per abitare la soglia, cruciale, dell’ultimativo trapasso. Sorta di Qfwfq della letterarietà, l’essenza di ciò che Italo Calvino rappresentò, rappresenta e continuerà a incarnare, e forse proprio ben espressa da quel titolo cosmicomico: Tutto in un punto!.

31 agosto, ore 15:23 Il monito di questo pomeriggio è: mettere ordine in casa. È il nostro modo, mio e di Rosamaria, di dichiarare guerra all’entropia che domina le nostre vite. Mettere ordine tra i libri, le cose abbandonate fuori posto, riconcepire lo spazio della nostra casa ha una rassicurante funzione lenitiva: aiuta a credere che si possa diventare, in pieno, demiurghi della propria esistenza. Fingiamo entrambi di pensare sia così, ma è il solo modo che conosciamo per segnare ogni volta un nuovo inizio (non per noi, ma per lo spazio intorno a noi). Spolverando una pila di libri che farei meglio a mettere via, sono sorpreso dal ritrovamento, in mezzo a un’edizione economica da edicola del Diario di un uomo superfluo di Turgenev, di una vecchia foto che ritrae l’Aviatore. Seduto comodamente su una sdraio in metallo e fili di plastica di uno sgargiante color arancio, sul terrazzo d’affaccio antistante la casa di famiglia, al mare. Torre del Lauro, frazione del vicino comune di Caronia, che si esten-

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de per circa un paio di chilometri e delimitata da due passaggi a livello, è un luogo della memoria e insieme il simbolo per me più eloquente della dismissione: il paesaggio urbano è dominato da una stazione ferroviaria non più funzionante e da una grande struttura alberghiera abbandonata, quasi spettrale; per il resto villette private. Per quanto sia sormontato da un viadotto costruito sul finire degli anni Sessanta, rimane un luogo di requie, adesso in parte se non abbandonato spopolato: sterpaglie sul viale, immondizia, generale incuria. Eppure non so rinunciare, ogni estate, a correre o semplicemente a camminare da un estremo all’altro – dalla vecchia Torre allo scoglio di San Biagio – confini di questa enclave di bellezza e decadenza. Nella foto l’Aviatore, a torso nudo, indossa un pantaloncino di colore neutro e ha le gambe accavallate; ai piedi un paio di lisi mocassini, segno che si tratta di un momento di pausa dalle sue piacevoli fatiche. Tra le mani un quotidiano – la destra a tenere il giornale adagiato sulle gambe, la sinistra raccolta sul mento, a suggerire concentrazione rispetto all’oggetto della sua lettura. La prospettiva, un po’ schiacciata, dall’alto verso il basso, rende visibile la corona, ancora castana, dei capelli, e quella giottesca luna rotonda che la calvizie gli aveva proprio disegnato alla sommità della testa. Alle sue spalle una cassetta da frutta in legno capovolta (a coprire quello che sembrerebbe un accumulatore), una ramazza e una tanica rossa per il carburante del fuoribordo. Sullo sfondo i vecchi infissi in legno bianco: sulla soglia mia madre, ripresa solo dalla vita in giù; la bambina di spalle, colta nell’attimo in cui sta per entrare in casa, è senza dubbio Mollichina, qui all’età di circa quattro anni. Facendo un rapido calcolo dovrebbe correre l’anno 1970. Curiosamente la foto mi riporta a una nota del viscerale Diario dello smarrimento di Andrea Di Consoli letta proprio stamane, in cui confessa che nel 1987, a undici anni, vedeva suo padre (così come del resto oggi suo figlio tende a considerare lui) vecchio. Saldo nel convincimento che «un padre

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deve essere vecchio, sennò che padre è?». In questa foto in cui io non ero nemmeno nato, strana coincidenza, mio padre aveva quarantadue anni, la stessa età di quello di Di Consoli nel 1987. E penso che sì, l’Aviatore è sempre stato per me, sin da bambino, un padre anagraficamente vecchio (quando nacqui aveva già quarantasei anni!), ma giovanissimo. Epperò di una gioventù, di corpo e di spirito, del tutto immune da ogni sorta di puerilismo. Dico quel puerilismo che è stato e continua a essere il bozzolo di tanti padri-crisalide che stentano a farsi farfalla.

1° settembre, ore 20:59 Mentre ieri annotavo qui del ritrovamento di una foto che ritrae l’Aviatore poco più che quarantenne, nel descrivere il luogo dove essa, quasi cinquant’anni fa, è stata scattata, per la consueta mania di ancorare sempre a una salda immagine ciò di cui vado scrivendo o forse piacevolmente influenzato dallo Stendhal più scopertamente autobiografico che preferisco, quello della Vita di Henry Brulard, che accompagna i suoi ricordi con maldestri e primitivi disegni, ho sentito per la prima volta anch’io l’esigenza di realizzare uno schizzo per mappare con scrupolo la posizione della nostra casa al mare, lungo il litorale di Torre del Lauro. Un’urgenza di esattezza, un bisogno d’oggettività, insomma, che passa per il disegno come forma più alta di certificazione del ricordo.

2 settembre, ore 16:40 Ritornare a scuola è sempre un ricominciare, per quanto da cinque anni ormai lavori nello stesso istituto, in un piccolo centro nel cuore del Parco dei Nebrodi. Ogni anno che passa un diverso big bang, un differente caos da cui principiare nella

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totale assenza di mezzi, di opportunità, di stimoli. Le macerie di quest’avvio riguardano perlopiù la fusione con un altro istituto, il non avere ancora un dirigente scolastico, la solita esiguità di risorse e di mezzi (a cui faccio sempre più fatica ad abituarmi). La stasi riguarda financo il calendario scolastico, non potendo deliberare alcunché al riguardo, dal momento che attualmente siamo privi di un consiglio d’istituto. Per non dire del turn over continuo tra i docenti, la maggior parte in attesa di conoscere il proprio destino, soggetti ai guasti di un apparato burocratico che assomiglia sempre più alla peggior caricatura di se stesso. Eppure, in questo assurdo deserto che è diventata la scuola italiana, a brandire la ginestra di una civile resistenza, è rimasto il silenzioso ma operoso esercito degli insegnanti che, lasciandosi alle spalle il frustrante fardello del dissesto, improbabili formiche di un già precarissimo futuro, ogni giorno accettano di entrare in scena.

3 settembre, ore 14:23 Seduto allo scrittoio, il solito mezzo Toscano rigorosamente spento tenuto tra l’indice e il medio della mano destra, da brandire come confortante talismano contro il vertiginoso ritornare a farsi frenetico di tutto. In questo avvio di settembre, che per me ha già il sapore dell’inverno, per via della ripresa del lavoro a scuola, l’unico invito alla calma, alla piena stasi del tempo, al sostare indipendentemente dall’ora, me lo regala il concerto di cicale che proviene dal pino del vicino della villetta di fronte, che mai come in quest’estate crudele ha accompagnato, ciarliera colonna sonora, le mattinate sonnolente, i lunghissimi e afosi pomeriggi, gli ozii notturni. La casa è deserta: il silenzio è scalfito da questo monodico e insistito frinire. Per me il canto delle cicale è il paesaggio verghiano, nei racconti di mia madre, delle sue memorie di precocissima

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lettrice; è il podere di Mastrissa, a due passi da Taormina, con la casa padronale della famiglia della mia nonna materna che si affaccia sulla falce del Golfo di Naxos; è la musica della contróra dell’infanzia, a cui vorrei ma è impossibile ritornare… Quell’infanzia remotissima in cui, racconta Platone nel Fedro, gli uomini, all’apparire delle Muse, assorbiti dal piacere del loro canto, e mettendosi a loro volta a cantare, non si curarono più di nutrirsi finché, dimentichi di tutto, morirono. Da essi deriverebbe la famiglia delle cicale, dalle Muse stesse, per riconoscenza, tramutati in vuoti insetti la cui vita coincide col loro canto, e per ciò stesso affrancati da bisogno alcuno di bere e di mangiare. Una volta morti sarebbero liete annunciatrici alle Muse di chi, tra gli uomini, in vita, ha reso loro lustro. Mentre per me il canto è memoria; la memoria è racconto; il raccontare è ragionamento; e il ragionare, infine, è l’attitudine indivisa insieme del pensare e del poetare.

4 settembre, ore 20:27 La ripresa del lavoro a scuola, finita la pausa estiva, coincide per me con il ritorno al pendolarismo. Per cui dell’insegnare, da quando svolgo questa professione, è parte integrante lo spostarsi; al punto che non saprei immaginarla senza quella necessaria appendice che è il viaggiare per raggiungere il posto di lavoro. Da più di dieci anni, al singolare computo del tempo, che vede per noi l’anno solare contrarsi a poco più di duecento giorni, corrisponde un personalissimo atlante fatto di luoghi, volti, transiti, gesti, rituali quotidiani (sempre uguali e pur sempre diversi). Così, per esempio, col tempo ho imparato che tra una stazione ferroviaria costiera e una dell’interno dell’Isola corre una differenza abissale: affollate, frastornanti, percorse da una corrente di operosa vivacità, le prime; solinghe, piene di niente, fatte per la sosta e l’ascolto del paesaggio, veri e propri

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buchi neri in cui la curva del tempo sembra ripiegarsi su stessa, le seconde. Oasi di requie, le pause abituali in certe piccole stazioni sorte in mezzo al nulla, durante le programmate attese, si tramutano in entomologiche cacce metafisiche: sotto pensiline gelide d’inverno o assolate nelle precoci primavere siciliane, sulle strette piattaforme di cemento chiuse sui binari, l’occhio può comunque spaziare, passare dalle panchine di una improvvisata sala d’attesa en plein air, ai piccoli giardinetti dove l’ulivo fraternizza con la palma e una piccola fontana con la sommità a foggia di testa di leone ha smesso da anni di sputare acqua. Perfino il vecchio locomotore diesel sul primo binario, pronto a coprire una tratta secondaria, come quelli che conducono a Xirbi, sembra che da un momento all’altro debba deviare dai cordoni bruni della strada ferrata, per sgusciare leggero oltre i campi rossi di sulla, sparire dietro il profilo scuro delle montagne. E che dire dei quasi trenta chilometri di bosco che cotidie attraverso per raggiungere la comunità montana del parco dei Nebrodi dove insegno oramai da cinque anni? Dico quel folto ed esteso bosco di Caronia dove la macchia mediterranea cede il posto, senza soluzione di continuità, a una rigogliosa teoria di specie arboree: dai sugheri ai cerri, dai faggi (i più meridionali d’Europa) ai rarissimi boschetti di tassi. Molto più che semplice metronomo del susseguirsi delle stagioni, la selva di Caronia agisce dentro di me come catalizzatore di un sentimento di relatività, epifania dell’arrestarsi e dell’improvviso infrangersi della freccia del tempo, per quell’incavo di calida solitudine cui ci riporta. Nemmeno la tecnologia qui ha potere: nella mezz’ora buona di transito si è fuori da ogni contatto che non sia con l’elemento naturale. Forzosa catabasi a una sensoriale preistoria, che principia dall’ineludibile intelligenza, come scriveva Friedrich, di sapere d’essere da solo (anche se in compagnia d’altri, poco importa), «per sentire e vedere tutta la natura» – alla quale ritornare, con la quale ricongiungersi. Ecco che puntuale, a ogni ascesa, si rinnova il miracolo

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di quella piccola sospesa e incompiuta Winterreise: talvolta penso che basterebbe aprire la portiera, abbandonare l’auto e inoltrarsi su uno qualsiasi di quei sentieri interni per essere di colpo assorbiti – finalmente cosa dentro il paesaggio; tornare a essere così viandante nella natura, ricongiungersi con il vero sé, nascosto in questo immenso mare grigio-verde di consolante desolazione.

5 settembre, ore 17:08 Metto in ordine gli appunti sparsi in alcuni quaderni per quel reportage critico su una figura di pittore un po’ dimenticata come lo stendhaliano per natura Fabrizio Clerici. Il folgorante incontro con la sua pittura è per me legato a Retablo, senz’altro il romanzo più arioso di Vincenzo Consolo che nella prima edizione Sellerio recava in copertina proprio un particolare della Grande confessione palermitana, tra le messe in scena pittoriche clericiane degli anni Cinquanta di maggior impatto. Entro un’atmosfera catacombale, gli scheletri dei prelati ascoltano (?), dislocati su più livelli, le confessioni di scultoree dame di fattura serpottiana: un fiorire della morte o il marmorizzarsi della vita? Quello che si può subito dire è che il quadro attinge a piene mani ai luoghi cari all’artista e alla sua particolare educazione religiosa. Eppure le variazioni sul tema della confessione che popolano i diversi livelli di cui si compone la dinamica figurativa del quadro, nonché la disposizione citatoria, trasfondono un brio di archeologica riscoperta di alcuni oggetti iconici, qui ridisposti nell’architettura pensata da Clerici. Non stupisce che Consolo sia stato attratto dal barocco archeologico di quello che mi viene di definire un suo gemello in arte (come lui in totale controtendenza rispetto alle mode del tempo), al punto da pensare come protagonista del suo romanzo proprio a un Cavalier Fabrizio Clerici

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pittore milanese di fine Settecento che abbandona Milano alla volta di un grand tour in Sicilia, nella speranza di lenire la cocente delusione amorosa, dopo che doña Teresa Blasco gli ha preferito il «giovin» Beccaria. E che dire dei cinque disegni originali realizzati ad hoc da Clerici per illustrare le peripezie di don Fabrizio e di fratel Isidoro? Come nel primo della serie in cui don Fabrizio, guardandosi allo specchio, abbozza un suo autoritratto (che ripropone l’inconfondibile profilo dell’artista), a innescare una potenziale macchina ipercitatoria che fa pendant con l’idea stessa che presiede al romanzo dello scrittore siciliano. Cosa mi spinge, da non addetto ai lavori, a scrivere un libro su Fabrizio Clerici, a entrare nella sua opera da corsaro dilettante quale sono? Se anche scrivere d’arte, in fondo, è comunque, come ricorda John Berger, «un modo di raccontare», il racconto per me ha senso solo quando è capace, tanto per lo scrittore quanto per il lettore, di sollevare dubbi, rivelare nuove modalità del guardare, anche quando il nostro sguardo è il più indisciplinato che si possa immaginare (quel guardare dico che dall’opera si estende alla vita).

6 settembre, ore 00:08 Uno scrittore al suo secondo romanzo e il cui esordio si è prepotentemente imposto grazie anche a una massiccia presenza sui social, alterna al dovere d’intervenire con calibrato esercizio di precisione su qualsiasi questione, a periodi di fughe e di autoimposto silenzio. Ritornato su Facebook solo da qualche giorno, ritrovo con piacere la sua intelligenza affilatissima, la sua dote naturale da innocuo provocatore, figlio forse di un istintivo meccanismo di autodifesa che affonda le sue radici nelle mai nascoste difficoltà relazionali dell’infanzia. L’odierna chiosa sulla crisi politica in atto e sul cosiddetto popolo gialloverde che leggo solo adesso, a tarda notte, è invece stata capa-

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ce di produrre in me un irritato moto di sottile indignazione. Lo scrittore in questione confessa di rimanere interdetto ogni qualvolta, da sinistra – a proposito di leghisti e grillini – si giudicano con scherno o velato disprezzo per il loro essere poco scolarizzati e inadeguati alle responsabilità del ruolo, finendo per associare una sì esibita modestia a una categoria a tal riguardo per nulla chiarificatrice come quella degli “umili”. Se posso comprendere da dove origini questo partito preso nell’amico scrittore, tuttavia mal sopporto chi si trincera dietro lo scudo dell’incultura, quando poi si palesa come errata percezione di sé e dei propri mezzi (convinti di essere depositari di chissà quale nuovo e pragmatico sapere che si nutre solamente di tale supponente pregiudizio). Come dire: l’effetto Dunning-­ Kruger dilagante e oramai, ahinoi, saldamente al potere. Eviterei pertanto di scomodare categorie come conservazione o progressismo per fare riferimento all’attuale realtà politica italiana. Piuttosto parlerei di un profondo e conclamato disagio, una distorsione cognitiva di massa (che colpisce al pari e in maniera sempre più allarmante eletti ed elettori).

7 settembre, ore 23:36 D’altra parte, lo ricorda Goffredo Fofi introducendo il suo ultimo libro di saggi, non più la religione ma la cultura – anch’essa fagocitata dal grande mostro della massificazione – si è tramutata in «oppio del popolo», cessando di essere strumento d’emancipazione. Un pericoloso retrocedere che a sua volta, e lo scrivo da insegnante, pretende un nuovo cimento (Fofi paragona l’agone culturale contemporaneo a un «campo di battaglia») da ingaggiare per sottrarre spazio alla macina dell’omologazione, per restituire alla cultura l’originaria necessità, la vergine perduta dignità di strumento principe (in senso socratico) di educazione. Eppure penso: se in tempi di narcisismo di mas-

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sa, proprio l’io – inteso come formidabile congegno conoscitivo – divenisse il luogo paradossale di onesta rifondazione per ricostruire un depurato linguaggio comune, un rinnovato terreno di dialogante confronto, lontano dalle secche stagnanti del conformismo? Forse è proprio questa la scommessa per gli intellettuali di oggi: coltivare la sacrosanta ambizione di farsi voci dialoganti. Questo il punto di sutura, la benefica eclissi che spesso mi porta a sovrapporre il mestiere di critico al lavoro d’insegnante, abbandonandomi a certe interferenze che radicano in me la delirante (me ne rendo conto) convinzione che a incidere sulla scuola dovrebbe essere soprattutto la critica.

8 settembre, ore 11:37 Chissà perché tutti si affannano a disquisire sulla perdita di efficacia e di aderenza sulla società italiana dell’intellettuale contemporaneo, che sia critico o scrittore poco importa, e nessuno si preoccupa davvero della totale indifferenza nella quale operano i primi tra gli intellettuali di uno Stato: gli insegnanti. Voglio dire che la frattura non è solo quella, di superficie, tra l’autore e il lettore, nel proliferare di ignari “scrittori medi”, perlopiù pubblicati dai colossi dell’editoria italiana (sotto l’estenuato lavoro di un esercito di editor, i soli autori rimasti in circolazione): volendo sociologizzare, lo “scrittore medio”, il “lettore medio”, “il critico medio”, sono l’effetto di una causa che sta a monte e riguarda la perversa organicità con la quale un abito mentale si è imposto come divisa intellettuale. Pensate allo “stato di salute” degli insegnanti italiani – in quali condizioni di precarietà si trovano ad operare oggigiorno. Cosa voglio dire con ciò? Che il pensiero critico – che siate lettori, scrittori, rivistai – si comincia a coltivare proprio sui banchi di scuola. Scendendo in piazza, difendendo la scuola pubblica e la funzione dei docenti – anziché agitarci dietro astratti lucori: popolo, massa, pubblico – saremmo davvero a un soffio da

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una riconquistata possibilità di riguadagnare il tanto agognato ruolo di coscienza storica, civile ed etica del nostro Paese.

9 settembre, ore 16:31 L’insegnante e il critico. Uno dei ritratti più celebri di Raffaello, quello di Tommaso “Fedra” Inghirami, l’umanista volterrano attivo alla corte papale di Leone X, mi ha da sempre rimandato a questa ambivalenza. Il chiarissimo studioso, indosso un lucco di panno rosso stretto in vita da una cintola color corda, in capo la berretta clericale, la cui sagoma risalta dal nero intenso dello sfondo, è ritratto al tavolo da lavoro, alle prese con l’incombenza quotidiana dello studio. Sullo scrittoio si trovano gli umili strumenti della sua fatica: un leggìo, un corposo tomo ivi adagiato, un calamaio e il foglio bianco. Fedra (così soprannominato per una sua magistrale interpretazione di questo personaggio nell’Ippolito di Seneca), di tre quarti, la penna in mano forse appena intinta nell’inchiostro, e la cui effigie sembra ascriversi a un antonelliano ordine delle somiglianze, colpisce perché il suo sguardo, anziché rivolgersi verso il basso, si perde, obliquo, oltre i limiti dello spazio pittorico, accentuato dal difetto distintivo dello strabismo all’occhio destro (per amor di realismo qui restituito da Raffaello). Spesso, nelle ecfrasi che si possono leggere di quest’opera straordinaria, si descrive la posa assorta del protagonista del dipinto come di chi sia in cerca d’ispirazione. Ma più lo guardo più mi convinco invece che il difetto fisico colga la cifra esatta di uno stile, un passo consapevole, una volontaria eversione; ancora una volta – come fu per me il folgorante incontro con il garzone di Perre Borrell del Caso – l’ennesima istantanea di una fuga; l’evasione (qui colta nell’intimità domestica della scena) da un angusto e convenzionale orizzonte. Quel libertario “strabismo” di sguardo che insegnante e critico devono mantenere vivo, nel tentativo di riannodare i fili con quell’altrove che è il

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proprio vissuto, il mondo fuori, la vena larga della vita. Quello stesso sguardo mi dico che è un po’ il vero leitmotiv di questo mio sconnesso e improbabile journal.

10 settembre, ore 23:46 D’un tratto mi sovviene che domani saranno già nove anni dalla scomparsa di Michele Perriera: la fortuna di averlo incrociato, ai tempi del mio esordio come critico, ha inequivocabilmente segnato il mio destino intellettuale. Se Consolo rappresentò per me l’impegno con la letteratura, l’oltranza barocca della lingua, in una parola il padre; Perriera è stato il radioso mentore della scarcerazione da ogni zavorra ideologica, in nome della libertà di spirito e di visione, la luminosità dell’intelligenza. A ogni anniversario sale forte il rammarico per il fatto che sia così poco letto, così poco conosciuto. Mi capita spesso di sognarlo durante le prove di una sua pièce, che avanza dal fondo bianco verso il palcoscenico, suggerendo le intenzioni e le molteplici sfumature dell’interpretazione alla famiglia di attori che lui stesso, negli anni, ha formato; e, nel sogno, per l’occasione divenuti suoi spettatori. Un monologo di gesti, di guizzi improvvisi, di inusitate posture, di sguardi strabici lanciati su quel pubblico al quale consegna una sola luminosissima battuta: «In una vita si muore e si rinasce tantissime volte. Di ogni nuovo anno dovremmo fare il fondale bianco di una vita a venire». Good bye Michele!

11 settembre, ore 23:19 Domani, alla ripresa delle lezioni, rivedrò i miei alunni. E come ogni anno, per il primo giorno di scuola non ho preparato nessuna attività particolare, nessun lavoro preordinato per un’accoglienza (parola abusatissima fino a svuotarla del suo

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reale significato, uno dei tanti miracoli al contrario in cui si cimentano i tanti Soloni dello scuolese) insincera, improntata su una pavloviana idea del rapporto insegnante/discente. Così come arresa e sostanzialmente fallimentare è la vulgata di certi nuovissimi teorici della scuola, per i quali al docente spetti al massimo il compito di timido suggeritore. Penso che accettare di abbassarsi al ruolo neutro di “facilitatore”, di “mediatore”, di “regista” sia una sconfitta, una perdita secca (oramai fagocitata la professione nel colossale abbaglio della scuola delle “competenze”). L’insegnante va in scena ogni giorno: nel suo dire, nell’interazione con gli alunni, entra in gioco quella «riflessologia del discorso» che Mandel’štam riteneva magnifica in Dante, ossia l’azione della parola detta sugli interlocutori, e perfino su colui che è impegnato nell’atto di parlare; i mezzi che usa per arrivare a trasmettere, non tanto l’oggetto del suo dire, ma quello slancio che presiede al desiderio di esprimersi. Merda, merda, merda!

12 settembre, ore 23:19 Consolo e Perriera, il Barocco e il Visionario. Più volte, in queste pagine, non ho potuto fare a meno di chiamarli in causa. Così diversi eppure, per me, così vicini – li immagino seduti sempre allo stesso tavolo, mentre mangiano di gusto, il Barocco invidiando all’altro la capacità di stare appartato, di tenersi lontano dalle «risse letterarie»; il Visionario riconoscendogli d’essere un vero «cavallo da corsa». Questo scambio di battute in verità possiamo leggerlo nelle “note ai margini” di Con quelle idee da canguro, in cui a un certo punto, idealmente, a quel banchetto, scrive Perriera, prendono parte anche i loro morti: la «tormentata sorella» di Vincenzo e il «gran violoncellista» fratello di Michele. Ecco: convocandoli sulla pagina, ogni volta, è come se a quel tavolo mi andassi a sedere pur’io, in compagnia dei miei morti – raccontando di Basilisca

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e dell’Avia­tore – ai quali anch’io cederei volentieri «metà di questa nostra viva, piccola quiete».

13 settembre, ore 00:15 Il Barocco e il Visionario. Le tragedie senza catarsi del primo – bassorilievi che raccontano le sciagure dei nostri tempi, hanno la carne e il fiato d’uno straziato epicedio; il pulsare della vita nelle opere del secondo – il senso del possibile che può attecchire nel deserto dell’impossibile, l’estrema utopia della rinascita, o meglio del ritorno, epperò sempre dalle plaghe del “troppo tardi”. Il lutto, l’urlo d’indignazione, la sconfitta dell’uomo nella Storia insomma, di contro al dipanarsi di un pensiero folle, un contravveleno che origini da un mai dismesso contatto con le cose del mondo; sillabario di sopravvivenza frutto di una radiosa disperazione. Dal pessimismo di Consolo che sfocia, infine, nella più alta forma d’indignata rivolta: l’afasia; a quello paradossale di Perriera, capace di tramutarsi perfino in insperata «pista di lancio» verso uno spericolato futuro. Luminosissimi scrittori politici di certo entrambi, eppure cromosomicamente diversi: il Barocco, mai potendo obliare l’imperativo della dimensione sociale, e tutto sacrificando come s’è detto, eccetto il vanto di una scrittura vertiginosa e verticale, sull’altare della Storia; il Visionario, la cui analisi serrata della fisiologia del potere, passa dallo sporcarsi le mani, rimane inscritta nel funambolico equilibrismo tra società e intimità, suggellata da una scrittura in cui ricercare una «drammatica armonia».

14 settembre, ore 22:59 Vincenzo lo vedevo a Sant’Agata, nei periodici ritorni in Sicilia, specie in estate, quando s’imponeva di trascorrere le ferie

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nella casa di famiglia, in via Medici. Quella casa che nel volgere di pochi giorni diventava meta di tanti amici e visitatori, provenienti da tutta l’isola. Alle esequie funebri, mentre vegliavo nella chiesa dell’oratorio dei salesiani dove la salma era giunta da Milano, ci fu un momento in cui rimasi da solo con lui, la bara posta ai piedi dell’affresco dell’altare centrale, con quel Gesù dalle candide vesti che, discendendo una scalinata contornata di gigli bianchi, va incontro ai fedeli e che aveva alimentato, in me, bambino, un’adesione tutta sentimentale alla fede: in quell’assordante vuoto mi sono sciolto in lacrime, provando per la prima volta un’infinita tenerezza per l’uomo; di colpo realizzando da quale e quanta privata profonda sofferenza derivasse il suo ardore contestatario, la furente indignazione del suo barocco politico. Una cognizione del dolore che non agì affatto come consolazione, semmai contribuì ad acuirne la ferita. Le sue poematiche riscritture a decostruire la trama della Storia originano da questo spasimo interiore: e sono possibili solo a patto di sacrificare se stesso – nel distanziante sguardo che produce sì una scrittura del dolore, ma sempre trasposta, concepibile se non in terza persona. Consolo dunque come Gadda? (accostamento in verità che lo faceva rabbrividire e che anche oggi lo farebbe montare su tutte le furie). Se Gadda non si libera ma si trincera dietro le sue accordate polifonie, Consolo, pur principiando da un analogo gnommero di dolore, riedifica a modo suo, tenta di ricostruire. Ma con una significativa divaricazione: ciò che in Gadda discende da un senso di pudore, in Consolo palesa una castrante obliterazione.

15 settembre, ore 00:18 L’ultima volta che vidi Michele fu nella sua casa di Palermo, al numero 40 di via Tasso, pochi mesi prima dell’ultimo prolungato suo ricovero: non mi venne incontro quella volta con

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il suo passo strascicato e allargando le braccia come era solito fare; mi aprì Lisa, la moglie, invitandomi ad entrare. Lo trovai, i segni della malattia fattisi ancora più evidenti, adagiato su una sedia a rotelle che mi attendeva nel salottino vicino all’ingresso, voglioso di sapere come procedesse il lavoro su quel libro tanto atteso (e che avrei dato alle stampe soltanto cinque anni più tardi). Il contrasto (ancor più accentuato) tra il suo corpo, provato fino all’inverosimile dalla malattia, e il vigore trasparente e combattivo del suo spirito, mi parve aver raggiunto una soglia estrema, insopportabile. Squarciò il disagio, invitandomi a interloquire indicando il registratore che stringevo perplesso tra le mani. Gli chiesi titubante della sua idea di romanzo, di cosa intendesse precisamente quando scriveva del dilagare della “peste del tragico” o della fiaba moderna del mito del desiderio di morire e rinascere… Dopo un silenzio di qualche secondo che a me sembrò lunghissimo, iniziò a parlare quasi balbettando, la cadenza del suo dire funambolico appena rallentato, fino quasi a tornare privo di sforzo. E mentre parlava, con lentezza ma pacificato, come il Pippo Badalamenti di Romboide in carrozzella, assai spesso diceva noi, ricorreva al plurale, per cercare di spiegare la sua “visione d’amore”; le ultime parole che adesso con commozione (mentre scrivo) riascolto sul nastro sono state queste: «L’amore è la cultura del romanzo: è grazie all’amore che il romanzo prende l’aspetto della volontà di cogliere la complessità della vita. Noi vogliamo condurre la visione del mondo verso la scommessa della volontà di vincere il destino della vita. Il destino della vita è il destino della morte. E il destino della morte è il destino della vita. E noi vogliamo scommettere su questo per condurre la nostra esistenza verso l’amore. L’amore è la chiarezza raggiunta: e la chiarezza raggiunta permette di ottenere una chiarezza in sovrappiù… Vogliamo scommettere sull’amore». Il prezioso luminescente romboide di Michele continua, inestinguibile, a parlarmi.

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16 settembre, ore 21:34 Eppure c’è la confidenza con un personaggio che, al netto della diversità degli esiti, nell’incrociarsi di due maniere distanti, potrebbe rappresentare l’inatteso e possibile punto d’incontro tra il Barocco e il Visionario: sto parlando di Empedocle, di cui entrambi, e più o meno nello stesso torno di anni, riscrivono, mettono in scena la finale vicenda del suicidio. Ecco perché confesso che, da tempo, accarezzo l’idea di farne un saggio comparativo, un ponte che me li faccia ritrovare insieme. Con l’atto unico Catarsi del 1989 Consolo scrive, in meravigliosa controtendenza, una (meta)tragedia – «la meno compromessa delle arti» – in cui un Empedocle contemporaneo, scienziato coinvolto in una storia di malcostume politico, giunge a compiere l’estremo gesto. A essere drammatizzata, e qui raccontata in chiave simbolica da Consolo, è sempre la dialettica dei linguaggi: alla lingua verticale e di rischiarata follia di Empedocle (che parla citando Hölderlin e Leopardi) fa da contrappunto quella piana ed estremamente comunicativa dell’anghelos, il genero Pausania, che si assume la responsabilità di raccontare ciò che si rappresenta; anticipo di quell’irrisolta circolarità tra esigenza testimoniale del canto e tentazione del silenzio che raggiungerà poi il suo climax nello Spasimo di Palermo. In Dietro la rosata foschia, favola teatrale in due giornate scritta nel 1991, che da semplice libretto d’opera (la cui scrittura era stata sollecitata a Perriera dal talentuoso compositore siciliano Giovanni Sollima) è finito per diventare un dilagante manifesto di eversione da questa contemporaneità malata, Empedocle, dormiente, viene invece implorato di salvare il popolo dal minaccioso levarsi del mare e dal vento che trascina «le schegge di tutte le epoche», mentre insorge un conflitto tra chi cerca di fuggire e una donna giovanissima che esorta a perdersi in quell’occhio d’incombente rovina. Passato il peggio e quando sembra conquistata una posticcia tranquillità per un attimo dimentica dei mali del mondo, irrompono dei mostri sulla scena,

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personificazioni della coscienza individuale di ciascuno. Mentre tutti tentano di sottrarsi allo sguardo della propria deforme proiezione, Empedocle dialoga con il suo mostro e accetta di abbracciare il suo destino di morte gettandosi nel fuoco dell’Etna; in quel fuoco simbolo di passione rigeneratrice. La passione sua è la saggezza della sparizione: di essa come ritorno e geniale eredità, che guarda con eguale sospetto al facile oblio come a ogni attuale ribellismo, entrambi fallaci, perché rimuovono la «cognizione del dolore». Che si tratti dell’afasia di Consolo o della sparizione di Perriera, la crisi contemporanea viene da entrambi rappresentata e vissuta come «coscienza antica del precipizio». Il transfert di Empedocle è stato il più genuino e inconsapevole punto d’incontro tra il Barocco e il Visionario sotto il segno di quella malinconia (che per Michele «apre i confini del possibile») e di quel titanico umanesimo di ascendenza leopardiana che è presente in entrambi («voglio stare vicino a chi mi è più estraneo»).

17 settembre, ore 16:55 L’improvviso ritorno d’estate, grazie all’innalzarsi delle temperature, invoglia ancora a sostare sulla spiaggia, in questo primo weekend da quando sono riprese le lezioni a scuola. Bisogno di tranquillità, bisogno già di evadere dal tran-tran delle ascensioni e dai frenetici ritmi imposti dal pendolarismo. Finito di leggere i primi capitoli degli Oscillanti di Claudio Morandini, il suo nuovo romanzo orchestrato come sembra, ancora una volta, nel segno di quell’educato e forbito grottesco che oramai lo contraddistingue, mi sdraio supino sulla stuoia: una piacevole brezza mi accarezza il volto e presto sprofondo in una culla di sonno il cui tepore color arancio mi rimanda istantaneamente al pieno della vita non meno che al pieno della morte; come se le due cose, per uno strano allineamento favorito da que-

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sto sonno ristoratore, anche solo per un attimo, coincidessero. Come se la luce non fosse ora più esclusivo attributo della vita, ma anche e in egual misura della morte (non penso all’onda blu fluorescente che sarebbe il segno, dentro il corpo, del propagarsi della morte biologica). Una piccola scoperta di cui tuttavia non rimane traccia alcuna, una volta aperti gli occhi ancora accecati dal sole.

18 settembre, ore 16:15 Settembre è il mese della riapertura della caccia, me ne ricordo ogni qualvolta vedo aumentare le jeep parcheggiate ai margini del bosco, sulla strada per raggiungere la scuola dove insegno. L’Aviatore, da giovane, fu (tra le molte cose) anche un accanito cacciatore. Capitava spesso che mi raccontasse di quando, poco più che ventenne, andava a caccia di cinghiali in Sardegna (quell’altra isola che, allora nemmeno sospettavo lontanamente, molti anni dopo, sarebbe entrata nelle affollate mappe d’una mia nostalgica geografia). Qui era di stanza un cugino generale dell’esercito che, dopo averlo ogni volta catechizzato sui protocolli da osservare a tavola e nei rapporti con le alte gerarchie militari, lo invitava a trascorrere presso di lui alcune settimane in occasione dell’apertura della stagione venatoria. Del suo racconto mi sorprendeva sempre come fosse capace di rievocare la vita di un’intera comunità: c’era per esempio, a Oschiri, un certo don Focu, prete corpulento che amava spostarsi in bicicletta, grande cacciatore e altrettanto sommo bevitore, di cui narrava le imprese e che pareva un personaggio uscito da uno dei romanzi sardi della Deledda. Ma più di tutto, di quel ritorno a un passato oramai remoto, mi colpiva il trapelare di un coscienzioso e amaro pentimento per quella passione di gioventù. Quel puerile e saggio stupore che lo portava a ripetere tra sé: «Come ho potuto?! Poveri

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animaleddi!». Ecco: auguro ai cacciatori convinti il medesimo ravvedimento conosciuto dall’Aviatore anni dopo.

19 settembre, ore 15:18 Ogni anno, nel giorno dell’anniversario della morte di Italo Calvino, spiace che venga ricordato come il massimo esponente italiano dei Lego in letteratura. Letto ancora, nella più ammirativa delle ipotesi, nulla più che come un brillante costruttore di eterocosmi finzionali: tuttavia la questione più elusa (o mai abbastanza messa a fuoco), anche per uno scrittore come Calvino, rimane sempre quella dell’elisione dell’Io, camuffata dietro una sapiente arte della fuga (anche quando trucca il problema fondamentale da rompicapo epistemologico), al punto da farcelo considerare come il Bach delle lettere italiane del Novecento. Nessuno che si sia preso la briga di battere con forza le nocche sulle pagine dello scoiattolo della penna per decostruirne il senso, scardinarne l’armatura congegnata dall’autore. Un esempio? Prendete il suo romanzo fatto di incipit di romanzi Se una notte d’inverno un viaggiatore e leggete singolarmente ogni racconto, sganciandolo da quell’orchestrazione… Per dire poi di come la mia bibliografia contempli e tenga insieme due scrittori diversissimi come Calvino e Consolo, la linearità di dettato e l’archeologia barocca, la retta e la spirale – il primo ha rappresentato il legame più immediato con la grande tradizione letteraria siciliana; il secondo la quadratura del cerchio tra i miei primi studi scientifici e i successivi studi umanistici, per quell’abbattimento di ogni schisi di sorta tra le «due culture» (per citare un noto pamphlet di Charles P. Snow sull’argomento che, negli anni Sessanta, contribuì in Italia a riaccendere quel dibattito assai caro anche a Vittorini).

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20 settembre, ore 23:02 L’occhio e la bellezza. Per l’Aviatore la vita stava tutta entro questa duplice attrattiva corrispondenza. Al punto di far consistere l’essere nell’atto del guardare, la forma più naturale e immediata di conoscenza. Lontano dall’utile – il sopravvivere, in me, di questa eredità di sguardo dovuta a un insaziabile bisogno di bellezza mi ha sempre stupito: è fame dell’occhio che non può astenersi dal vedere, da un istintivo cercare. È la via di fuga da un senso di disagio tanto semplice quanto insostenibile. Sulla bellezza la penso esattamente come il Brodskij delle pagine del diario veneziano: essa è una casa del sollievo; è la vittoria dell’effimero su ogni preteso utilitarismo; è il superfluo che si fa eterno (e ci eterna). È il porto in cui l’occhio trova ristoro. Ne sono convinto anch’io: «il senso estetico è gemello dell’istinto di conservazione ed è più attendibile dell’etica».

21 settembre, ore 00:05 Stanotte, immerso nella trascrizione degli appunti del Quaderno Clerici, a un certo punto m’imbatto nell’annotazione del suggello che Sciascia volle imprimere a quel luminoso apologo sulla critica che in realtà è Atti relativi alla morte di Raymond Russell: «I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da “atti relativi” diventano, per così dire, “atti assoluti”». E se è vero, ne era convintissimo Rothko, che la pittura scava in profondità quanto la scrittura, memoria di uno stesso gesto archetipico – una mano che scorre su un piano obliquo –, non posso non chiedermi se l’assunto sciasciano conservi eguale forza di verità se traslato dallo scrivere al dipingere. Cosa rivela, in definitiva, l’immagine dipinta in questo supposto inevitabile passo verso l’oscurità? Sembrerebbe che la pittura, a differenza dello scrivere, punti

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alla sintesi, ma ci sono artisti (ovviamente penso allo stesso Clerici) che concepiscono l’opera pittorica come “aperta”, lasciano spazio a una irriducibile ambiguità di fondo (ciò, per dirne una, è oltremodo vero per i surrealisti). Mi spiego meglio: se la sintesi teleologica attiene alla storia (dell’arte); al presente dell’opera, dell’immagine, pertiene invece un’ambiguità che va colta (e risolta?) dallo sguardo sempre nuovo di chi guarda. Nell’inchiesta degli Atti Sciascia non a caso insiste sulla contiguità delle camere in cui soggiornano lo scrittore e la sua accompagnatrice, comunicanti tramite una porta interna (aperta/chiusa). Ecco, senza scomodare Barthes, mi pare si tratti di un’efficace metafora dell’enigmaticità dell’attività interpretativa tout court (e, perché no, dell’opera d’arte in sé).

22 settembre, ore 11:08 L’occhio e il paesaggio. Ci sono paesaggi che accolti dall’occhio di chi li scruta acquistano un senso evidente, pressante sullo sguardo; diventano vere presenze – testimoni d’una pienezza, d’una trascendenza tutta terrestre. E di questa “terrestrità” possiamo fare esperienza non solo guardando un dato paesaggio, ma anche osservando le linee di un edificio, il particolare disegno delle forme di una statua, le linee di fuga di un dipinto o l’armonia di un luogo deserto… Sono segni che prendono vita, acquistano senso, hanno (come scrive Bonnefoy in L’Arrière-pays) «valore di parola». Epperò d’una parola che di continuo ci sfugge, di cui intuiamo appena l’occulta grammatica, forse per quel loro emergere dal nulla. Consacrati sull’altare della nostra finitudine, i brani di assoluto che ci raggiungono (nel qui e dal qui) muovono in noi una speciale forma di compassione; e pur tuttavia somigliano a un atto di fede che non può del tutto liberarsi, rispecchiarsi entro una salda teologia.

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23 settembre, ore 23:51 Stanotte, alle prese con incalzanti letture per la pagina da scrivere per «L’Indice dei Libri» in occasione dei trent’anni della morte di Sciascia, non riesco proprio a concentrarmi. In cuffia Le impressioni dal vero di Gian Francesco Malipiero m’inchiodano, s’impongono con la costruzione d’una sonorità sempre più verticale, sempre più tridimensionale. È per me da sempre così il rapporto con la musica contemporanea: ti obbliga a seguirne lo sviluppo, non concede intuizioni o distrazioni di sorta; non è comoda e profonda come la musica dei grandi romantici che lascia spazio a languori, a interne risonanze che grosso modo si legano, finiscono per accordarsi; implica una difficoltà alla quale bisogna non assuefarsi, ma lentamente abituarsi: è un’estraneità, come direbbe Nietzsche, che ci attanaglia finché non siamo diventati «i suoi umili ed estasiati amanti». È infine una pazienza che si nega alla possibilità di dedicarsi a qualsiasi altra attività. Ecco perché io, che con la musica intrattengo un rapporto dilettantesco simile a quello che Stendhal confessa di avere con essa nei Ricordi di egotismo, amo in sommo grado ascoltare i compositori barocchi, capaci di una saturazione sonora che fa sì che l’orecchio si smemori, al punto di convincersi che non si sia quasi udito alcunché. La musica barocca coincide per me con quell’arte della conversazione che (Savinio docet) consiste nella magistrale attitudine a non dire nulla; che poi per lo scrittore coincideva con la capacità di «mettere la vita in musica».

24 settembre, ore 19:31 Leggendo il ponderoso numero monografico che la rivista «Il Giannone» ha dedicato ai trent’anni della scomparsa di Sciascia, nella sezione “Immagini”, trovo una selezione di Sei scatti per Leonardo Sciascia del grande Ferdinando Scianna. Si tratta

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di poche foto, ma che cercano di riassumere la parabola dello scrittore di Racalmuto: un paio di scatti in contrada Noce – il primo lo ritrae da solo, l’altro in compagnia di un sorridente Gesualdo Bufalino; a Parigi nel 1978 davanti alla statua di Voltaire, uno dei suoi padri intellettuali; a Milano, a convegno con uno dei massimi studiosi della sua opera, Claude Ambroise; nell’80 a Roma, nel suo ufficio di parlamentare. Ma lo scatto che più m’incuriosisce è il primo: lo scrittore, in abito scuro, è ritratto in primo piano, di tre quarti, seduto sul banco di una chiesa, le gambe accavallate, la mano sinistra in tasca, l’altra d’appoggio sulla guancia, in una posa sorniona e ironica, gli occhi a tradire una lampeggiante intelligenza; sullo sfondo un antico confessionale ligneo (più oltre s’intravede il baldacchino di una vara). A farmi sobbalzare è la didascalia: «Nella chiesa di Santa Lucia a Sant’Agata di Militello, anni Sessanta». Eppure niente dell’immagine mi riporta a un che di familiare di quella chiesa che ben conosco, perché si trova davvero a un tiro di schioppo dalla mia abitazione e che, se ben ricordo, fu edificata e aperta al culto soltanto nel 1974. Non posso credere si tratti di un errore del fotografo: così, incuriosito, decido di saperne di più. In rete rintraccio quello scatto insieme ad altri, accompagnati da una nota di Fernando Scianna in cui si fa menzione di una gita in compagnia dello scrittore a Militello Val di Catania, con il proposito di andare a vedere il bassorilievo in marmo con ritratto del viceré di Sicilia Pietro Speciale, opera del Laurana, di cui lo stesso Sciascia ebbe modo di parlare in termini entusiastici. Sembra trattarsi di un banale errore redazionale, frutto della sovrapposizione tra i due toponimi che condividono quel “Militello”, per cui spesso si tende a confonderli. A giustificare l’errore forse anche il periodo in cui venne scattata la fotografia: gli anni Sessanta sono infatti quelli dell’avvio del sodalizio tra l’esordiente Consolo e il faro Sciascia, della riconoscenza del primo che non fa mistero di scorgere nello scrittore delle Parrocchie il suo maestro, e del

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fervido interesse di quest’ultimo per i luoghi consoliani; quei paesi che fanno da teatro antropologico e naturale alla Ferita dell’aprile, folgorante romanzo d’esordio dello scrittore santagatese che proprio nelle lettere di devota ammirazione indirizzate a Sciascia trasfonde tutta la sua voglia di emanciparsi dalle angustie del «natìo borgo scipito» (così in una lettera del 15 aprile ’67), fuga da quell’isolamento che riconosce nuocergli non poco, per il fatto che alimenta infondati timori (strozzato com’è dalle infinite cure che gli derivano dal “clan” familiare).

25 settembre, ore 23:18 Non so perché il piccolo giallo della didascalia errata sotto la foto di Scianna che ritrae Sciascia a Sant’Agata in Val di Catania, mi ha per converso riportato alle due sole immagini di Consolo che ho in casa. Si tratta di due scatti, entrambi in bianco e nero, omaggio dello scrittore: nel primo Vincenzo si trova di spalle a un muro, ripreso a mezzo busto con indosso una camicia a righe, sulle labbra un rattenuto sorriso, gli occhi non a fissare l’obiettivo ma di proposito sfuggenti e intenti a guardare verso un punto di fuga laterale, lontano; alla sua destra, sul muro che fa da sfondo, si trova una scritta: «terroni tornate al Sud». Più che evidente l’agra ironia dell’immagine che nel taglio stretto, la suggestione della camicia a righe, la drammaticità infusale dal bianco e nero, la scritta razzista, rievoca un’atmosfera quasi concentrazionaria. Non ricordo più chi sia l’autore della foto (dovrei toglierla dalla cornice e cercare indizi sul retro, ma non ne ho voglia). Eppure se devo pensare a un’immagine di Vincenzo, la prima a venirmi sempre in mente è uno scatto di Mario Dondero che lo ritrae a Parigi nell’ottobre del 1970, davanti alla Comédie Française: Vincenzo si trova ritto in piedi, al centro esatto della scena, in un completo scuro, indosso un cappotto col bavero alzato, in-

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tento a leggere un quotidiano; a rivelare il luogo, dietro di lui, un grosso camion da trasporto con il tendone con su il nome del più grande e celebre teatro francese (oltre, a formare una seconda quinta, si intravede la parte superiore dei fusti delle colonne del portico dello storico edificio). Cosa mi cattura di questa foto solo in apparenza dal taglio quasi pubblicitario, su cui, ogni volta che rientro a casa, non posso evitare di posare anche solo per qualche secondo lo sguardo? Lascio per un attimo lo scrittoio e mi metto, in piedi, nell’ingresso, a studiarla, in cerca di una risposta: penso che forse il suo fascino stia proprio nel segno di quell’ambiguità che la fa sembrare tanto spontanea quanto frutto di una situazione costruita ad arte. Mi dico: quale migliore sintesi dell’approccio di Consolo alla scrittura? Cos’è stata ogni sua pagina se non una verità che si libera e s’innerva (fino a diventarne profonda sostanza) nella forza prosodica del discorso, nella teatralità della parola detta e pronunciata?…

26 settembre, ore 22:16 È forse vero, per Consolo, ciò che John Berger mette a fuoco in un suo ritratto scritto in occasione della morte di Giacometti: «La morte dell’artista è anche una linea di demarcazione». La morte di Vincenzo ai miei occhi ha di colpo trasformato radicalmente il modo di guardare alla sua opera: è venuto meno quanto di familiare mi aveva impedito fino a quel momento di scorgere sia l’effettiva portata e grandezza, sia l’origine più intima del suo scrivere. Riletti a bocce ferme, i suoi palinsesti mi portano al di là, oltre il dato inoppugnabile della progressiva scomparsa ante mortem che coincise con la dura afasia degli ultimi anni (quella sterilità non tanto di progetto quanto di dettato). I suoi libri, se letti, come Berger suggerì per le opere di Giacometti, à rebours rappresentano, a uno sguardo liberato, il contatto con l’origine di ogni sua pagina, con la

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verità del suo scrivere: quella ferita che campeggia – seppur mutata in allusione condivisa di un determinato clima sociale e politico – sin dal suo esordio. Vivo Vincenzo, guardavo ai suoi romanzi attraverso i suoi stessi occhi: bastava la formula sontuosa (e bardica) della “metrica della memoria” a tutto spiegare; estinta la sirena del suo sguardo, non più solo sotto il segno dei fortilizi storico-metaforici, ma nel solco di una immedicabile solitudine, le sue partiture da Omero in fuga da se stesso si sono a me palesate come le carte strappate di un poeta che ha mortificato la sua poesia, inchiodandola all’agone della lotta col drago bicefalo del potere e della storia.

27 settembre, ore 23:40 Il ritratto di Vincenzo dinanzi alla Comédie Française, negli ultimi giorni, mi ha riportato, con insistenza, alla memoria una serie di esperienze locali che in qualche modo hanno a che fare con la sua persona. Anche se il vero incontro rivelatore fu per me non con lo scrittore laureato, ma con il soave nipote di lui, il naturalista contemplativo, il signor Rino B. Sessantottino pentito, dopo i trascorsi come militante di Lotta Continua, aveva preso le distanze da quell’esaltata esperienza politica per accostarsi all’area ambientalista, divenendo uno dei più accesi fautori, in quel di Milano, dei Verdi italiani, dopo aver abbracciato il relativismo taoista e il gandhismo. Ai nostalgici, agli sbandati del Sessantotto che avevano finito per darsi al terrorismo e alla lotta armata, consigliava di salire a piedi in cima a una collina, sedersi e scrutare l’orizzonte, là dove cielo e mare si confondono, per smemorarsi di bellezza – al punto di non saper più distinguere il dentro dal fuori. Spesso mi raccontava dei suoi viaggi africani e in particolare del Senegal dove diceva di aver visto le donne più belle del mondo. Il suo amore per l’Africa lo induceva a sostenere con convinzione che noi occidentali, noi siciliani, avremmo avuto molto più da imparare, in fatto

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di democrazia, rispetto al modo di vita, dalle culture animiste che da paesi come la Francia e la Germania. Il suo solo credo era agire in spontaneo accordo con la natura, attivista di una felice involuzione – dall’uomo ai pesci, dalla terra all’acqua –, vibrante di un’autoironia che l’ha accompagnato fin quando ha potuto. Sacra per lui era da sempre quella sicurezza che risiede nel luogo dell’infanzia e della giovinezza (penso al giardino della casa della nonna materna e degli zii che gli fecero da padre). Il suo progetto politico incarnato nella vita d’ogni giorno era l’imitazione degli animali e dei neonati: mangiare, dormire, giocare e amare. L’amore per il gioco e il fatto che l’amore stesso fosse un gioco. I suoi scritti, per lo più, erano liste di personali eversioni a spezzare il cerchio della way of life occidentale: camminare, fuggire dal caos, godere del paesaggio, festeggiare l’arrivo della primavera, dire senza dir nulla, come quel “Manifesto dei Naturalisti” scritto in risposta al “Manifesto dei Futuristi” del 1909, tutto improntato a un naturale contentarsi del poco, a una ricercata lentezza, a esaltare l’importanza di respirare o l’amore per ciò che è dolce e diverso, del mirare agli alberi come ad opere d’arte… Dopo che i filosofi si erano applicati allo squartamento del mondo adesso si trattava (era una delle sue tante massime) di «lasciarlo in pace». All’ideale dell’ostrica di verghiana memoria aveva sostituito quello del giardino interiore. L’uomo, a suo dire, era mortalmente incappato nell’errore di confondere gli ultimi duecento anni con la storia dell’umanità, mentre ai suoi occhi la creatura umana gli appariva nulla più che come un «bipede che si è montato la testa» (altra sua boutade alla quale ricorreva di frequente per sentenziare sullo stato di salute del pianeta). Dell’arte cinese apprezzava proprio quel senso di riduzione d’importanza della figura umana che veniva dipinta così piccola da perdersi nel paesaggio. Le sue minimali scritture, convinto che tutto fosse già stato detto, erano il frutto di un disinvolto e autoironico postmoderno: «È stato già detto tutto: basta saper riciclare» (anche lo scrivere, diventava, prima di tutto una pratica ecolo-

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gica). Con tenerezza ci si prendeva in giro a vicenda, entrambi radicali, preso io nel mio orgoglio occidentale, felice di non voler accogliere alcun senso di colpa per la nostra storia (comunque gloriosa, comunque millenaria); lui coinvolto in pieno in una presa di distanza non meno settaria, dopo che aveva voltato le spalle al maoismo e abbracciato il taoismo. Era un delizioso gioco delle parti al quale non potrò più permettermi di giocare con nessuno dei miei amici attuali, presi e compresi, chiusi in se stessi, murati vivi nelle loro irrinunciabili certezze: questo è ciò che di lui più mi manca. Un’intera sezione della mia biblioteca, nel tempo, è stata consacrata al suo lascito: lì ritrovo tutti i suoi omaggi stagionali, i libri che leggeva o che comprava per il solo piacere di poterli donare (anche a me, il più giovane, negli anni Novanta, tra i suoi amici, da quando aveva fatto ritorno in Sicilia). Dai testi della saggezza legata alla terra degli indiani d’America, ai classici del Taoismo come le tante copie dello Zhuang-zi o della Regola celeste; dai 101 detti zen ai classici contemporanei del buddismo come Thich Nhat Hanh; dai romanzi di Lin Yutang e Mo Yan ai racconti di Acheng, dai racconti di Kawabata ai romanzi di Tanizaki e Oe; ai molti saggi sull’estetica cinese e giapponese, su cui ci si divideva (amando visceralmente io il formalismo esasperato e imitatorio dei nipponici, lui preferendo il nitore e l’apparente semplicità dei cinesi). Oggi, la sua aspirazione dura ancora in me: «avere un’esistenza domenicale».

28 settembre, ore 12:54 Lo chiamavo Rino B., perché così si firmava, nei suoi scritti di naturismo militante, su «Piuomeno», quel foglio che fu la mia prima palestra e che era sorto da una sua idea a metà degli anni Novanta. Laboratorio casalingo, realizzato da un gruppo di amici – gli incontri di preparazione della rivista si tenevano nell’accogliente abitazione popolata di gatti di Lia e Luigi, la

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coppia di amici architetti che facevano da redattori, occupandosi loro della composizione grafica e della raccolta dei pezzi che, in maniera del tutto libera, pervenivano alla redazione. Rigorosamente stampato su carta riciclata, distribuito a mano a un pubblico di lettori selezionati o portato nelle edicole della zona nebroidea, «Piuomeno» evocava il senso del relativo, della complementarità del tutto, ispirandosi all’humus ecologista del suo ideatore. Fu un’esperienza di autentica espressione condivisa: ciascuno contribuiva con una personale tessera al mosaico che senza sforzo andava via via delineandosi, incontro dopo incontro, fino ad arrivare, senza nessuna scadenza fissa, alla naturale chiusura di ogni numero di quel foglio corsaro. Qui conobbi Beijaflor, collezionista di freddure, cinemaniaco dai gusti sofisticatissimi, sacerdote della triade nichilista delle tre C – Céline, Cioran, Ceronetti –, che non mancava, a ogni incontro, di segnalarmi un libretto o un film di uno sconosciuto regista su “Fuori orario” di Ghezzi, per il quale valeva la pena fare l’alba. Qui ho pubblicato i miei primi versi di un malcelato e attardato ermetismo, che risentivano l’influsso di un certo spiritualismo di sapore orientale, quando non ispirati a un panismo tutto mediterraneo; o i miei omaggi, le riscritture poetiche in cui consacravo le voci del mio apprendistato di lettore precoce (su tutti Caproni e Sereni, Éluard e Auden); le prime prose e i racconti autobiografici, e soprattutto le mie prime prove da recensore a tutto campo: di autori classici come Hermann Hesse, Ismail Kadaré, o di minori dell’Ottocento come l’Eichendorff di Vita di un perdigiorno; o pezzi con cui celebravo le mie scoperte musicali, come quando scrissi del mio folgorante incontro con gli amatissimi Madredeus e con la suadente voce di Teresa Salgueiro; di pellicole come Carne tremula o film in linea con il taglio ecologista di quel foglio come Il popolo dell’erba. I cinque anni, dal ’95 alla soglia del terzo millennio, della giocosa militanza in questo foglio culturale ecologista, che bucava i confini di un certo provincialismo

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snob con un engagement dolce e scanzonato, hanno costituito il singolare noviziato di quel polveroso chierico che nel tempo sono diventato.

29 settembre, ore 21:34 Il signor Rino B., per involarsi, scelse un primo aprile, per quello scherzo vero di abbandonarci, lasciarci orfani (crudele pesce d’aprile) della sua presenza. Lo stesso giorno in cui, in Inventario di Shabtai, muore il padre di Goldman, uno dei protagonisti. Più tempo passa, più si acuisce il vuoto per la sua mancanza; più la sua fine si allontana nel tempo, più si dilata la sensazione che niente sia uguale a prima. Il capolavoro della stasi al di là della disperazione di Shabtai, per questa coincidenza, mi rimanda a lui, al suo congedo. Oltre il mito taoista della serena accettazione della vita, giunto al culmine, allo scenario finale: abbandonato a un’amara pace che, cessata l’armonia, di naturale ha perso tutto – per tornare a essere un altro e improvviso altrove; senza più l’ombra alcuna di paura. Noi, dalla tua dipartita, abbiamo imparato a esprimerci in un rabberciato esperanto di mutismo. Mentre scrivo, a dissipare il seme della commozione e a infondermi uno sconosciuto accento di gioia sono le note del coro finale della Passione secondo Matteo di Bach (Wir setzen uns mit Tränen nieder), che mi fanno pensare al signor Rino B., a Basilisca, all’Aviatore, a tutti gli involati in fuga dalle lacrime di noi che restiamo qui seduti a terra: «Ruhe sanfte, sanfte ruh!».

30 settembre, ore 23:47 E la couche amicale di «Piuomeno» (a ripensarci adesso) fu anche il luogo del mio primo incontro con un poeta dall’aura

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mitica come Beppe Salvia, amico, in gioventù, di quel pugno di sodali che era la redazione di quel casalingo foglio. All’incirca a metà degli anni Novanta, infatti, le sue poesie erano apparse sull’antologia Guaraldi dei Nuovi poeti italiani contemporanei curata da Galaverni, perciò in redazione si parlava, commossi, del ritorno d’interesse verso la sua opera come di un piccolo ma importante evento (del resto Sant’Agata, luogo di nascita della madre, era stato, negli anni, uno dei suoi intermittenti rifugi). Io che, da aspirante poeta, con i miei lirici omaggi, nascevo orgogliosamente già vecchio, non potevo rimanere indifferente a quelle sue liriche che somigliavano a quadri, meditazioni con paesaggi; sguardi a bucare la realtà, dimidiare l’io; mettere in perenne (e talvolta euforica, talaltra disillusa) allerta il lettore. Scriveva come un classico (ha notato Emanuele Trevi introducendo Un solitario amore). Forse per quei suoi versi ad arte imbrigliati entro un’archeologica e colossale bulimia di parole: dal canto mio bastò la sostanza del riverbero sonoro di quel particolare modo di verseggiare – la parola incarnata nello stile, lo stile chiamato a darsi come nuda evidenza di parola –, l’autorappresentazione (tuttavia sempre protesa a una plausibile scommessa di condivisione) di un radioso narcisismo – pronto a sciogliere le inquietudini tra io e mondo –, per farmelo amare. Le stagioni concentrate e luminose della sua poesia, con l’implicito autunno che stava dietro a ogni suo verso, l’insistito cromatismo degli azzurri e dei bianchi, quella nota di neostilnovismo, capace di fondere lingua e pensiero, parola poetica e ricerca di senso, nella mia memoria di lettore, coesiste nella grazia (tutta penniana) di una manciata appena di versi in cui Beppe cifrò il più aereo e insieme veritiero autoritratto: «Oggi vesto la mia giacchetta bianca / e in capo porto un cappello fresco / di paglia; vogliatemi bene, anche / io ve ne voglio». Che sento ancora come il congedo più bello e in sé conchiuso di tutta la poesia italiana del secondo Novecento: su questa pianura proibita d’indo-

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mita terrestrità, immagino Beppe sostare a braccetto con il signor Rino B.; entrambi in cerca d’un riscatto bianco, d’una promessa di salute. Entrambi involatisi troppo presto, in un crudelissimo e oramai lontano giorno d’aprile.

1° ottobre, ore 16:41 Stasera rileggo i versi di Salvia, e non posso non pensare a quel particolare «sentimento» di cui parlava Odisseas Elitis, in un suo breve ma denso saggio, a proposito della poesia di Ungaretti: un sentimento che non coincide esattamente né con la fede né con l’estetica, ma assomiglia piuttosto alla certezza che sia disponibile per l’uomo sulla terra una «sufficiente scorta di luce», a controbilanciare il buio. Di questa insospettata luce Beppe è stato uno dei più grandi alfieri.

2 ottobre, ore 01:16 Rosamaria, in una di quelle interminabili discussioni che ci capita di avere a letto, prima che il sonno ci colga, la scorsa notte mi ha confessato, con la sua implacabile capacità di andare al sodo, di pensare a me, da sempre, come a un bicchiere privo di fondo: un’anima a perdere, insomma; spasmodicamente vocata a un inesauribile e compulsivo avanzare che m’induce a mai soffermarmi più di tanto sui traguardi raggiunti e le cose vissute. E lo diceva non certo con l’intento di ferirmi, piuttosto perché io avessi occasione di ragionare da dove possa derivare questa perpetua oltranza, quel desiderio di spostare sempre più in là l’orizzonte d’attesa (cercare oltre e mai guardare vicino). Forse, per affrancarmi una volta per tutte da questa assurda fame, dovrei imparare quella mansueta “arte di perdere” protagonista di una nota poesia di Elizabeth Bishop: accettare l’ansia della perdita, il potenziale dissolversi di tutto, un

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positivo che contenga e contempli a un tempo il suo doppio negato; di ciò che in fondo non è troppo arduo, anche se può sembrare un dramma.

3 ottobre, ore 17:13 Alle prese con la frustrante banalizzazione cui si è obbligati, da insegnanti, a ogni avvio di anno a sottoporsi, della stesura in un balbettante scuolese di mirabolanti progettazioni (supposte panacee d’ogni male), fiduciosi nel verbo delle competenze da accertare e delle nuove tecnologie, penso che una didattica siffatta, fondata sulla tautologica ovvietà dell’«imparare a imparare» (concetto in vero non nuovo, implicito in qualsiasi scolastica, anche dell’evo antico), dimentica di sapere e conoscenza, chiusa nel ragionieristico computo delle abilità individuali, sia un monumentale spreco d’energia: come costruire un arsenale militare per una nazione per tradizione neutrale. Allora, spacciamo la nostra eversiva e buona eresia, issiamo questa bianca bandiera, diamo torto a questa frenesia contemporanea fondata su una malintesa e distorta centralità dell’individuo, riconoscendo primari i veri valori: la curiosità e la passione, lo stimolo alla ricerca attraverso il sapere di sé… Per rinascere, come araba fenice, dal troppo tardi, dalle ceneri dell’impossibile.

4 ottobre, ore 23:37 Per scrivere bisogna essere un po’ «innamorati», occorre saper coltivare la memoria di un simile sentimento. Questa riflessione me la suggerisce l’ultima erranza di Fabrizio Coscia, impegnato a dar libero corso alla sua immaginazione critica sui «sentieri delle Ninfe». Fabrizio, sin dai tempi del suo esordio

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con Soli eravamo, persegue il recupero di un’idea sentimentale della scrittura (e in genere dell’arte). Ché torni a uno sguardo depurato, ancora e di nuovo vergine. I suoi sono regesti di sopravvivenze – cui peraltro sento, per certi versi, di poter rassembrare queste mie rapsodiche carte giornaliere. Perché nella tessitura di un simile discorso amoroso c’è di mezzo, sempre, un movente autobiografico: un parlare di sé per dire anche altro; e che trova il suo centro nel preciso e intermittente affiorare di un Tu dialogico – per Fabrizio l’amata Linda, la sua compagna, dalla graffiante bellezza di mulatta partenopea (cui peraltro quest’ultimo libro è dedicato) – che si muta in specchio convesso, che accoglie l’immagine di una spiazzante alterità. E cos’è l’avventura del guardare, come del resto quella della scrittura, se non il redigere un frale sillabario di fallimenti? Cos’è dico questo aggirarsi intorno al discorso amoroso se non un trascorrere, un approssimarsi a un oggetto d’amoreverità che si alimenta proprio del paradosso di essere quasi del tutto inaccessibile, e al quale tuttavia non si può non tentare di ambire? Scrivere è quell’agire per mezzo della parola che muove dunque da una perenne e insoddisfatta urgenza d’amore: compresso entro i poli di eros e thanatos, è il folle tentativo di riappropriarsi di un’immagine perduta. È su questa strada dell’eterna rincorsa di un mito primevo e dilagante che chi ingaggia la partita dello scrivere compie l’azzardo d’invenire il visibile nell’invisibile; si nutre dell’utopia di mettere a fuoco, trarre alla luce l’essenza ninfale della vita stessa (da sempre mirata attraverso il deformante specchio dell’arte). Quel «bisogno di autobiografia» che Elio Vittorini ravvisava nel suo Diario in pubblico rimane ancor oggi il modo più genuino per registrare «i mutamenti cellulari della storia in seno alla vita privata». O forse è proprio nello sfondamento del muro della storia, nell’imbuto stretto, oltre di essa, che si vuole puntare l’occhio per ridiscendere all’essenziale.

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5 ottobre, ore 20:41 Questo frammentato journal, sorto dall’impulso di una verifica esistenziale di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che infine sopravvive, sembra assumere, solo adesso me ne rendo conto, la coloratura dominante di un vero e proprio diario “sentimentale”. L’antico gioco del privato vagabondare intorno al misteriosissimo oggetto dello scrivere di sé scrutando attraverso lo specchio deformante dell’arte. Quel salutare e sfrontato narcisismo che talvolta ci s’impone come molto più di un consolatorio appiglio: il desiderio, per progressivi contrappunti, di rifondare una visione del tempo e dello spazio; il richiamarsi a un sentire preciso che di colpo rischiari il cono d’ombra su noi stessi, sul nostro stare al mondo.

6 ottobre, ore 23:12 Cominciate a vergare nel cuore dell’estate, sembrerebbe quasi che queste note non siano figlie della fatica, nulla abbiano a che spartire col turbamento e col dolore, e che anzi possano facilmente contrabbandarsi come puro e gioioso tripudio. Eppure, più scrivo, più comprendo il peso di questo narcissico esercizio; più scrivo, e più mi capacito che non solo il leggere ma anche il memorare sorga dal superare barriere di difficoltà. E non è per il supposto orrore di dover parlare di sé, per la vittoria sul pudore di donna onesta che d’improvviso si trovi costretta a darsi al meretricio – come voleva lo Stendhal dei Ricordi di egotismo; né perché – satollo dell’esperienza di lettura – l’animale che c’è in me avverta, tutto a un tratto, irrefrenabile il bisogno compulsivo di scrivere. A incatenarmi è altrimenti la sete dello sguardo: quella certa metafisica del vedere che solo basta a dare carne a queste asimmetriche linee d’inchiostro. Perciò stanotte non trovo di meglio che chiedere venia anticipata, così come fece il gran milanese per le sue flu-

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viali e viziate memorie, a un mio improbabile lettore dell’anno del signore 2080.

7 ottobre, ore 17:43 Da ieri sono tornato a lavorare sul volume collettaneo di contributi dedicati a Foscolo. Dopo la fatica nel trovare un editore disposto a credere in questo progetto, sembra finalmente che questo libro, da me tanto caldeggiato, possa venire alla luce. Perché proprio Ugo Foscolo? – qualcuno potrebbe chiedersi. Guardare a lui, rileggerlo con la dovuta attenzione e devozione, mi è sembrato, negli ultimi anni, un modo per resistere, ricominciare, recuperare un’eredità sopita, da tempo espropriata. Dico di quel Foscolo per il quale sembra non essere mai maturo il tempo per carpirne, a fondo, bellezza e grandezza indivise della sua opera; e a cui ha fatto ombra anche un astio duro a morire, dai contemporanei suoi fino al Novecento inoltrato (penso alla feroce ironia di Gadda, che lo ridusse a macchiettistica figurina da teatrino). Quel Foscolo uomo della crisi – tra Rivoluzione e Restaurazione – che al disinganno della Storia ha saputo ribattere con l’eversione d’un sogno concreto, con l’utopia d’una religione della vita e della poesia. Ecco: riaccostarsi alla grandezza della sua laicissima professione di fede nell’umano, per noi italiani del XXI secolo, significa ripensare l’intramontato capitale estetico ed etico della sua lezione. Il giganteggiare degli assoluti, pur dinanzi alla virile coscienza della finitezza di tutto, la piena dei pensieri e dei tumulti che Foscolo riflette nelle pagine autobiografiche dell’Ortis, sanno ancora parlare oggi a chi ha la pazienza di sostenere la temperatura acida di quella prosa: alle ragioni di uomini – come Ugo, come Jacopo – sconfitti dalla vita. E c’è una presenza rintracciabile in ogni suo scritto, che è senz’altro il valore centrale della fede di un sì fervido sacerdozio: alludo

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al moto di pietà, a quella compassione per chi soccombe; e che lo indusse a dedicare la chiosa del carme Dei Sepolcri, a quel grande eroe della resistenza che fu l’Ettore omerico, meritevole, per mezzo della poesia, di una gloria raddoppiata rispetto allo sprezzante e vittorioso Achille. Un libro che torni a riflettere su Foscolo lo trovo sacrosanto non foss’altro perché, di tutti gli autori delle patrie lettere, è colui che più di ogni altro ha pagato lo scotto di quell’educazione gesuitica che ha viziato e caratterizzato, come sosteneva il Savinio di Ascolto il tuo cuore, città, il rapporto con i nostri classici, cui si continua a guardare da sempre con «disciplinato rispetto»; ma con i quali sembra negata ogni possibile «comunione sentimentale». Dunque, perché non tornare a leggerlo, magari mossi dal medesimo auspicio che il poeta delle Grazie rivolgeva nel Tomo dell’io, ossia che ogni sua pagina sia in grado di suscitare analoghi pensieri di quelli «destati da una lapide sepolcrale incontrata in passeggio solitario»?

8 ottobre, ore 21:51 Non c’è da stupirsi se a scuola Foscolo sia poco apprezzato dagli studenti e così mal studiato. La narrazione sul poeta patriota, idealista, affamato di gloria, donnaiolo impenitente, mantenuto, assillato dai debiti e dal bisogno fino alla morte, che lo coglierà, confortato dalla figlia, in terra straniera; l’insistere su certi vizi e bagatelle dell’uomo prosegue ancor oggi – basti leggere il recente racconto biografico dedicato al Foscolo inglese di Luigi Guarnieri, Forsennatamente Mr. Foscolo, in cui l’interesse esclusivo è rivolto al profilo clinico della personalità esaltata del poeta, mostrando la sua psicologia al pari di quella d’uno «squilibrato», ostaggio delle proprie passioni, dei vizi e delle nevrosi. Mosso da un intento demitizzante, Guarnieri presenta Mr. Foscolo come un’anima fragile con l’ossessione

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della fama e del danaro. Nel tentativo programmatico di abbattere il monumento, la biografia di Guarnieri riesce non di rado a sfiorare l’effetto caricaturale, sicché spesso ricorda, nel suo contenuto irritante, quella assai discutibile e malaccorta del Pecchio, che vide addirittura negli scrittori come Foscolo degli «avvelenatori della vita». La miseria dell’uomo, le contingenze che l’afflissero sono macerie che ne occultano il genio, che inducono chi vi si dedica a mettere sotto il tappeto la singolarità del suo poetare, capace di coniugare vicenda individuale e slancio civile, e che dal Sette-Ottocento giunge fino ai nostri giorni (da Foscolo a Magrelli, passando per Pasolini). È questa la visione che pressappoco si ha di Foscolo oggi. È questa lettura distorta del genio foscoliano, vacuamente anacronistica o, peggio ancora, tutta interessata al tratto patologico del suo carattere, che si vuole contrastare. Al personaggio Foscolo è toccata insomma sorte analoga a quella di Leopardi, quantomeno negli approcci che sono stati tentati negli ultimi anni: penso al Giovane favoloso di Mario Martone, pellicola che reinterpreta, concedendosi non poche libertà, i momenti cruciali della biografia leopardiana; al netto di certe invenzioni e di didascaliche quando non provocatorie soluzioni narrative e sceniche, il Leopardi di Martone, che avrebbe voluto pretenziosamente sortire l’effetto di far accostare i giovani al sommo cantore di Recanati, non svela nulla della sua grandezza, della complessità del suo pensiero filosofico, del travaglio intellettuale che lo rese tra le voci principali e più originali di quella stagione della poesia europea. Forse una sola scena riscatta la modestia complessiva del film di Martone (motivo per cui mi convinco talvolta, e soltanto alla fine del percorso di presentazione dell’autore, di proporlo in visione ai miei studenti), ed è quando viene immaginato l’incontro, a Recanati, tra Giacomo e il suo mentore Pietro Giordani: in quel piano sequenza della corsa a perdifiato del giovane favoloso culminante nell’abbraccio al sospirato maestro, è condensato l’impulso libertario a

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svincolarsi dall’asfissiante borgo natìo in cui tutto è «morte», «insensataggine» e «stupidità»; per un attimo sconfitta la «nerissima materia» della noia.

9 ottobre, ore 00:14 Su Facebook, poco fa, ho battibeccato allegramente con un mio contatto di vecchia data, appassionato come me di musica francese, che mi ha bacchettato perché colpevole (a suo dire) di non venerare abbastanza l’astro dell’aforista Debussy, trincerandomi nel mio ostinato preferirgli il più “prosaico” Ravel. Se non fosse che la mia predilezione per quest’ultimo è di ordine concettuale, oserei dire filosofico, anch’io non avrei indugiato circa quale partito preso assumere. Eppure, Ravel mi appare, nella mia percezione musicale da perfetto dilettante, il genio della superficialità. In rotta e insieme in contiguità con una superata allure romantica, è Maurice che sento a me più vicino e contemporaneo rispetto al pur blasonatissimo Claude. E qui mi viene in soccorso Jankélévitch che, accennando alla profondità cristallina della ingenuità del compositore della Pavane pour une infante défunte, lo reputa profondo proprio in quanto «superficiale». Se è vero, e ce lo ricordava Brodskij in Fondamenta degli Incurabili, che le superfici sono la prima cosa che l’occhio registra, non di rado (e ciò mi sembra non meno vero) esse riescono più eloquenti del loro provvisorio contenuto stesso. Ancora: se Debussy, gran architetto di scenari musicali, ha espresso, in musica, l’effervescente lavorio della mente, Ravel, proprio in virtù di quella apparente naïveté, ha saputo invece raccontare il potere, la chiarità dello sguardo. L’essere profondo entro una supposta superficialità mi rimanda inoltre alla familiare indagine circa l’«inesauribile» superficie del mondo di cui parla e su cui si è interrogato, attraverso le sue prose, Italo Calvino. Così come familiare risuona quella nozione di “esattezza” cui fa riferimento il ligure nelle Lezioni americane con

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quella “precisione” di cui parlò ancora Jankélévitch a proposito della qualità dell’ispirazione musicale e della maniacalità per il dettaglio tecnico di cui fu capace Ravel. Quella ossessionata precisione che è più che evidente in opere come il congegno del celebre Boléro, oppure nell’atto unico l’Heure espagnole, o ancora nelle sue fiabe musicali. Una vicinanza da cui scaturisce per certi versi una singolare complementarità, messa a fuoco diversi anni fa nel corso di una lunga e divagante conversazione telefonica avuta col filosofo e amico degli anni sassaresi Andrea Dezi (fine traduttore delle opere di Tjutchev), per cui al Ravel di Jankélévitch che, a partire dal supposto concetto di superficie, deduce lo spazio dal tempo, si contrappone il Calvino delle storielle cosmicomiche e delle prose palomariane in cui il tempo viene dedotto sempre a partire dallo spazio. Quello tra Ravel e Calvino potrebbe essere descritto come un «sincronismo involontario», come l’avrebbe definito il Giacomo Debenedetti del Romanzo del Novecento. O meglio: un «anacronismo involontario». Ogni volta che mi capita di soffermarmi sul mare degli addentellati che l’opera di Italo Calvino mi ha offerto e continua a propormi, nel tempo, non posso di riflesso che scuotere la testa dinanzi alla malafede di certe prose anticalviniane in cui un livoroso Antonio Moresco parlava del metodo dello scrittore come nulla più che un «nuovo galateo culturale» – il «variegato galateo della morte» –, quando al contrario siamo di fronte non al cincischiare di un autore sopravvalutato e terminale nel suo schematismo (sorretto a suo dire da una vacua ideologia), quanto piuttosto all’artefice di un grande salto verso una letteratura di autentica portata filosofica. Così come prima di lui aveva provato a fare in musica il superficiale Ravel.

10 ottobre, ore 01:55 Pensavo: perché tra i padri che non ti aspetti – per un’idea di letteratura (e perché no di romanzo o di ciò in cui esso si è

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venuto trasformando) fondata sui concetti di verità ed eticità – si debba a priori sottostimare l’esperienza di Italo Calvino? Se è vero com’è vero che la realtà non si dà allo scrittore così com’è ma discende da quella attitudine “costruttivista” (dalla sua vocazione a carpire la verità), non fu allora in tal senso Calvino il più grande (e per parecchi ingombrante) di tutti? A tagliarlo fuori, forse, a un certo punto, l’avversione maturata verso ogni chimica – organica o disorganica – dell’impegno. Aveva compreso, in accordo con la sua filosofia, che la natura dell’intellettuale non poteva che essere (continuando a servirsi della metafora chimica) minerale. La funzione-Calvino registra il suo punto di massimo all’esatto incrocio tra un valore x di conoscenza (sempre messa in crisi, e per sua natura perciò sempre rinegoziabile) ed una sotterranea eticità y: è, la sua, una scrittura dell’implicito; rassomiglia a una corrente tellurica che agisce ascendendo, irradiandosi da un epicentro remoto; possiede una carica politica che però è fatta detonare in profondità. Il suo spazio letterario, così come, seppur per vie altre, quello di un autore diversissimo come Perriera, è sempre orizzontato al possibile, a un’ipotetica e immaginata potenzialità. E ciò principiando da un’evidente posizione di debolezza. Calvino e Perriera: il fatto di amarli senza riserve entrambi trova giustificazione proprio in un simile millantato credito di (come direbbe Paul Valéry) «avere una disposizione senza disporne».

11 ottobre, ore 23:25 Ora di letteratura. Stamane, correggendo alcune produzioni scritte dei ragazzi di seconda media che dovevano concepire un breve testo poetico sulla falsariga del classico cattivo esempio del S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri, occasione prima per familiarizzare con il politically uncorrect, a un certo punto

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m’imbatto in questi versi: «se io fossi il prof. Calcaterra metterei note personali / a tutti gli ineducati, / e alzerei i voti a tutti gli intellettuali». A parte l’impulso a non trascendere nel linguaggio che ha impedito allo studente di usare un’espressione più forte (ripiegando sul neutro “ineducati”), mi ha colpito davvero quell’insistere sull’«alzare i voti a tutti gli intellettuali». Verrebbe da dire: che fine hanno fatto gli intellettuali? Se gli insegnanti hanno del tutto smarrito la coscienza di essere la vera avanguardia culturale di questo paese? Come instradare all’esercizio critico, primo compito di qualsivoglia intellettuale, se i primi a non riconoscerne più ruolo e funzione sono proprio i docenti? L’alunno inconsapevole mette il coltello sulla ferita che spiega assai bene il disdoro che ha colto la categoria negli ultimi vent’anni almeno di scuola pubblica. Nessuna indignazione, nessun orgoglio per questi arresi burocrati, misuratori di fantomatiche competenze da accertare, proni al ruolo di meri mediatori, epperò di una cultura svuotata di sapere.

12 ottobre, ore 17:21 Non faccio che rimeditare l’inconsapevole verità messa su carta dal mio alunno, ieri. È come se ci fosse una sfasatura, un incrollabile muro di separatezza che porta a pensare alla scuola come qualcosa di avulso dalla cultura e, più in generale, dal sapere. Un funesto cortocircuito che ha fatto saltare, nell’era di una pervasiva tecnocrazia, ogni coscienza (da parte dei più) che il lavoro a scuola è autentico lavoro culturale; che essere insegnanti implica l’assumersi la responsabilità di stimolare il pensiero critico. E penso a chi, come me, insegna letteratura a dei ragazzi di dodici tredici anni. Alla difficoltà di presentare il senso e l’attualità dello studio degli autori classici e contemporanei delle nostre patrie lettere: il parlare di verità da scoprire, di un qualcosa che sempre e comunque, in quanto uomini, ci

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riguarda; della bellezza di una lingua (quella italiana) dimenticata, anzi a loro sconosciuta, perché distante dall’odierno deserto di parole. Ogni volta la scommessa è sempre la stessa: portare in scena, perché non vada perduta, la nostra irrinunciabile voglia di tramandare un canone di verità e bellezza. In ciò risiede la comunità di interessi che dovrebbe rendere alleati il critico, il docente, l’autore di un manuale di letteratura… È questa scollatura, nella «scuola del nostro scontento» (per citare il titolo di una densa raccolta di scritti di Guido Baldi), tra critica e didattica, tra passione ermeneutica e obiettive difficoltà, che ha indotto i più a tirare i remi in barca, rispetto alla prioritaria necessità di affermarne (con impegno) la capitale importanza dello studio della letteratura a scuola.

13 ottobre, ore 12:07 Portare in scena. Per questa missione interpretativa l’insegnante e il critico si assomigliano. Entrambi cercano di rischiarare, attraversandolo, il mondo poetico di un autore; entrambi ambiscono a rievocarlo, tenendo insieme sentimento e concetto, desanctisianamente: «il critico» – come l’insegnante – «dee presentare il mondo poetico rifatto e illuminato da lui con piena coscienza». Estremizzando, per assurdo, l’insegnamento, come la critica, dovrà tendere alla poesia; farsi esso stesso poesia.

14 ottobre, ore 00:21 Dopo più di un anno di totale immersione nell’eterocosmo clericiano, oggi ho rotto gli indugi ed ho iniziato a scrivere il mio reportage critico dedicato all’aristocratico pittore milanese la cui grandezza mi si è rivelata leggendo Retablo di Consolo. La letteratura come veicolo dell’arte, dunque. E, a ben guardare,

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letteratissimo fu – nella cura estrema della sua pittura che potremmo senza esitare definire poematica, specie quella più barocca degli anni Cinquanta, così come nei cicli di riscrittura o risemantizzazione di pezzi iconografici celebri tra la fine degli anni Settanta e Ottanta (da Latitudine Bocklin in poi) – anche Fabrizio Clerici che appunto Sciascia, con perentoria sentenza, ebbe a definire «il più letterato di tutto il Novecento». Mentre «pittore dell’anima», forse indulgendo a una alquanto generica urgenza definitoria, lo appellò un altro grande barocco come Bufalino. Ma al di là di come lo intesero le tre corone del secondo Novecento siciliano, per me Clerici rimane il pittore prima delle grandi macchine teatrali, come nella straordinaria e ipnotica gipsoteca di Sonno romano del 1955, poi dei minimali ritratti di cose, autentiche visionarie nature morte, in cui gli oggetti convocati sullo spazio pittorico, eroso quasi del tutto il loro originario contesto, s’impongono – epifanicamente – come elementi costitutivi di una nuova simbologia che attinge, con eguale forza, al sogno e alla memoria. Scorrendo i cataloghi delle diverse mostre a lui dedicate, mi colpisce ogni volta come esso abbia vaticinato, attraverso la codificazione di una esatta visionarietà, la quasi totale sparizione della figura umana dalla scena, al punto da chiedermi: che fine ha fatto la Storia nei suoi quadri? Consolo, delle impennate verticali della lingua ha fatto l’ariete per disinnescare la moneta cattiva di un potere mellifluo e mistificante; Clerici, anziché provarsi a riscrivere la storia, non si accontenta di un ideologico slittamento di punto di vista; semmai si muove, su un piano esclusivamente metafisico, alla ricerca di una sorta di “passato anteriore” da trarre dal pozzo del caos e presentificare, grazie a una prosodica e rigorosissima ricomposizione di esso all’interno dello spazio dipinto. A certificarne l’esistenza? Il gesto sublime ed aristocratico dell’artista. Ma Clerici ha saputo essere tante cose, attraversare e rispondere a più vocazioni, incarnare, senza mai perdere di coerenza, più anime: accanto alle prove di educato surrealismo,

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al suo inconfondibile catacombale barocco, al racconto di un visionario mondo post che stranamente si alimenta di una percezione potremmo dire geologica della storia, Clerici è stato anche l’innamorato interprete di un Settecento favolistico e assai teatrale con quei più modesti e luminosi «romanzi aerei» (così Savinio) delle sue prove grafiche. E per una poi non troppo peregrina interferenza quando vedo i suoi grotteschi autoritratti non posso non pensare al manichino, al fantoccio del Viceré protagonista di Lunaria, la favola teatrale in cui Consolo racconta la caduta di una luna-poesia e insieme il mito-utopia del suo risorgere in una contrada senza nome. Come dimenticare poi che Fabrizio Clerici, peraltro gran collezionista di abiti settecenteschi, accompagnato da una magnetica Leonor Fini nei panni di “Angelo nero”, incarnò un radioso Re Luna, nel più chiacchierato ballo in maschera del Novecento, tenutosi nel 1951 nel restaurato Palazzo Labia sul Canal Grande a Venezia, passato alla storia come “Ballo Beistegui” (dal nome dell’eccentrico milionario e collezionista d’arte che lo organizzò), e in cui il divo Salvador Dalì si presentò, di contro al mirabolante sfarzo, vestito solo di una leggera camicia da notte bianca e di una berretta con pompon?

15 ottobre, ore 19:05 Non mi dispiace l’intersecarsi di queste scritture parallele, per cui l’una diventa per l’altra occasione di meditazione: due livelli differenti, l’uno autobiografico, l’altro prettamente critico, cosicché, mentre vado componendo gli smilzi capitoletti del reportage sulla pittura di Clerici, utilizzo questo mio journal come luogo dove mettere a fuoco le idee; specie di retrobottega in cui approntare gli strumenti e collaudare argomentazioni se possibile da mettere a frutto. Per esempio: come tacere della scoperta di quale formidabile scrittore sia stato Fabrizio Clerici? Basta infatti tuffarsi in quel libro tardivo del

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1992, Di profilo, che raccoglie le sue prose critiche e i saggi per dare ragione a Ennio Flaiano che, per incoraggiare l’artista al cimento della parola scritta e a realizzare un suo libro, lo incalzava ironicamente: «se sapete disegnare, sapete anche scrivere». Convinto che a un pittore non si possa chiedere di più né di meglio, il Clerici scrittore rimane, nei suoi pezzi, sempre nell’ambito di una elegante e sbrigliata conversazione. È poi straordinario come, rilette tutte insieme, le sue pagine rivelano un’incredibile coerenza di visione che prenderà sostanza nel suo modus operandi. Penso allo splendido saggio su Paolo Veronese a Maser del ’44 in cui sembra proprio codificare quella concezione geometrica, architettonica della sua pittura futura: non mero ornamento, ma sorta da un’esigenza di armonica ed equilibrata resa dello spazio. E come non riconoscere, nel saggio su Piranesi, la spiegazione di quei suoi retabli pittorici basati su percorsi che si articolano, donando dinamicità alla costruzione dei dipinti, a differenti quote? O come non percepire, nel fortunato saggio dedicato a Jan Brueghel, nella interpretazione che ne offre, quell’analogo suo arretrare nel tempo, lontano dai viventi – «in cerca di apparizioni»; di quella dimensione di silenzio da intendere come coincidenza col massimo di equilibro compositivo? Clerici, come Matisse, non fa differenza tra la costruzione d’un libro e quella di un quadro. Nella sua carriera di illustratore occasionale non ha mai smesso, con la sua poetica visionaria, di essere un pittore: a dimostrarlo l’operazione grafica dell’Orlando furioso, in cui ha saputo coniugare fedeltà alla parola del testo (stimolato dal grande esempio düreriano) e fedeltà all’innata «indipendenza fantastica». Questa ricerca di equilibrio mi pare possa assumersi come l’habitus distintivo nello sviluppo dell’intera sua ricerca pittorica: il suo razionalismo di architetto ha infine agito da preziosa contrainte, il geometrico teatro entro cui ha potuto sbrigliare la sua immaginazione, portare alla luce le immagini che «giacevano addormentate nel fondo della memoria».

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16 ottobre, ore 23:20 Stasera riflettevo sul fatto che il mio rapporto con ciò che ho scritto e mi ostino a scrivere, comprese le pagine di questo composito diario, non è mai di compiacimento, ma quasi sempre d’insoddisfazione, quando non di piena sconfitta; proprio per l’incrollabile percezione d’insufficienza, di ferma inadeguatezza della parola rispetto all’intenzione. Al punto che talvolta confesso di essere tentato di prendere qualche mio vecchio articolo o una delle tante pagine dedicate agli scrittori d’una vita e obliterarne d’impulso il senso, applicando, sulla falsariga della lezione di Emilio Isgrò, delle cancellature, per così provare a scorgere quali sopravvivenze emergano, quali trame di altro plausibile o implausibile discorso (poco importa) prenderebbero corpo… Vedrei magari salvarsi proprio quei tic linguistici che – a rileggermi –sempre meno in verità sopporto; e una mia qualsiasi pagina dedicata a Consolo, Perriera o Calvino farsi latrice, forse, di chissà quale spiazzante e bizzarro cortocircuito linguistico e visivo, quale sorprendente e luminosa invenzione. Da questo partito preso d’azzerare ogni stantio progetto di discorso, salvare solo quelle parole, o parti del flusso scritto, che sappiano bucare, naturalmente, il diaframma tra il “già detto” (e spesso anche male) e il potenziale mare del “non detto”: ciò che torna vivo e (inatteso) s’impone. Per una critica, più che di sensi vietati, di nuovi segni: nuove corrispondenze emerse e rinate – oltre la rete d’inchiostro.

17 ottobre, ore 20:04 Oggi, mentre stavo annotando l’odierna lezione di letteratura sul registro elettronico, riandando al mio delirio di ieri circa il potenziale infinito di ciò che sta, ma a fondo, sulla pagina, mi sono messo a pensare a quale autonomo discorso (visivo e testuale), fuori da qualsiasi presupposto furore ideologico o di

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contestazione, potrebbe scaturire, emergendo dal mare della dimenticanza di ciò che, istintivamente, alla lettura, si rivela superfluo… Dedicarsi penso, e non solo per un gioco a decontestualizzare, magari a scoprire un altro canone inscritto nel canone consueto, attraverso un sistematico intervento cancellatorio sui testi più celebri della tradizione letteraria italiana, per ricavarne nuovi iconotesti, in cui a imporsi siano le parole che guidano o, meglio, che hanno guidato la nostra storia, la nostra civiltà letteraria. D’un tratto, afferro il manuale di letteratura e cerco uno tra i più celebri sonetti danteschi (che peraltro ho appena finito di spiegare agli alunni) e comincio, con una gioia sconosciuta, a cancellare le parole, salvando solo quelle che mi sembrano abbiano la forza di sopravvivere, di fare da ponte con altre, disperse, nel fondo di questo mare magno testuale. Appena finito, di getto, leggo ai miei alunni assonnati l’esito del mio estemporaneo esperimento: e tanto / mia / lingua / muta / di guardare. // si va, / venuta / a / mostrare. // mira, / li occhi // labbia / soave / Sospira. Il loro silenzio di gesso taglia di colpo le gambe al guizzo d’euforia che mi ha colto negli ultimi minuti dell’ora. Esco dall’aula sommesso e perplesso: li saluto senza voltarmi.

18 ottobre, ore 22:37 Io, che non ho mai avuto troppa simpatia per le avanguardie ed altre simili operazioni, mi scopro improvvisamente attratto da certe possibilità grazie a Marcello, un collega che insegna arte, conterraneo di Emilio Isgrò e anch’egli artista metodico e concettuale, che sembra muovere la sua ricerca proprio in direzione analoga a quella del più celebre maestro delle Cancellature. Appassionato fautore della rinascita culturale della sua città, Barcellona di Sicilia, scettico ma indomito animatore di eventi culturali, accanito e maniacale scrutatore di quotidiani, settimanali e supplementi culturali vari, alla ricerca di notizie

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e spunti verbali e visivi da riusare nei suoi collage a tema, Marcello spiazza per la sua disarmante sincerità. Generoso in arte e nella vita, è il compagno di viaggio ideale e il collega con il quale non mi stanco mai di parlare. Alla sua sconfinata cultura ben si attaglia la mia continua petizione di dialogo, di confronto, di studio. A unirci è anche la comune passione per la musica – io più arretrato sui compositori del Romanticismo e fin de siècle, lui decisamente sbilanciato verso la musica contemporanea, di cui non si stanca di rilevare le molteplici sintonie proprio con l’arte del secondo Novecento. Questa nostra eccitata amicizia che induce a perderci in un dedalo di discussioni aperte che si rincorrono, è stata suggellata in uno dei suoi Palinsesti su Arte e dintorni, sorta di work in progress aperto e infinito (sulla scia del concetto che John Cage ha sotteso al suo concerto programmato Più lento possibile), dove ha voluto trascrivere e ritagliare un mio brano critico estrapolato da Niente stoffe leggere in cui parlo di Permunian, definendolo «scrittore senza dubbio palinsestuoso» che «alimenta ogni sua pagina col fuoco della letteratura». Ecco, quel riferimento alla germinante palinsestuosità del maestro del grottesco italiano ha senz’altro sollecitato la sua decontestualizzazione a progetto in vista di una futura ricomposizione di senso: strumento di stratificata conoscenza, sorta di archeologia alla rovescia, strabico agire di un occhio che insegue e si allontana, epperò guardando indietro. E anch’io stasera, sull’eco di tanto ragionare su ciò che sopravvive delle parole che si fanno immagini e delle immagini partorite dalle parole, ho ancora voglia di giocare lasciandomi andare all’evidenza istintiva del loro attrarsi per formare altri agglomerati di significazione.

19 ottobre, ore 23:24 Stasera riflettevo sul fatto che il mio rapporto con ciò che ho scritto e mi ostino a scrivere, comprese le pagine di questo

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composito diario, non è mai di compiacimento, ma quasi sempre d’insoddisfazione, quando non di piena sconfitta; proprio per l’incrollabile percezione d’insufficienza, di ferma inadeguatezza della parola rispetto all’intenzione. Al punto che talvolta confesso di essere tentato di prendere qualche mio vecchio articolo o una delle tante pagine dedicate agli scrittori d’una vita e obliterarne d’impulso il senso, applicando, sulla falsariga della lezione di Emilio Isgrò, delle cancellature, per così provare a scorgere quali sopravvivenze emergano, quali trame di altro plausibile o implausibile discorso (poco importa) prenderebbero corpo… Vedrei magari salvarsi proprio quei tic linguistici che – a rileggermi –sempre meno in verità sopporto; e una mia qualsiasi pagina dedicata a Consolo, Perriera o Calvino farsi latrice, forse, di chissà quale spiazzante e bizzarro cortocircuito linguistico e visivo, quale sorprendente e luminosa invenzione. Da questo partito preso d’azzerare ogni stantio progetto di discorso, salvare solo quelle parole, o parti del flusso scritto, che sappiano bucare, naturalmente, il diaframma tra il “già detto” (e spesso anche male) e il potenziale mare del “non detto”: ciò che torna vivo e (inatteso) s’impone. Per una critica, più che di sensi vietati, di nuovi segni: nuove corrispondenze emerse e rinate – oltre la rete d’inchiostro.

20 ottobre, ore 16:51 Sin da quando ero l’ultimo dei supplenti, ho vissuto l’ora buca come momento di salutare eversione, rispetto alla marcia continua del succedersi delle ore di lezione in classe. Non una fuga dal mestiere, dalla passione e dal ruolo che mi compete, ma una sosta alla quale consacrare le ragioni più profonde del mio lavoro intellettuale. Che si tratti di ultimare la lettura di un romanzo, correggere le bozze di un saggio, scrivere qualche nota diaristica od organizzare la scaletta per la scrittura di un articolo, vivo quel tempo compresso ma fruttuoso come decisi-

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va e irrinunciabile occasione di fedeltà. E non di rado è il momento in cui si sdipanano matasse o si creano nuove inattese connessioni. Come è accaduto stamane quando, senza nessun programmato intento, ho tirato fuori dalla mia cartella un dossier monografico dedicato al milanese Giuseppe Arcimboldo, il pittore di apparenti bizzarrie barocche, con le sue Teste composte costruite utilizzando elementi naturali, e che riscossero grande apprezzamento, specie presso i sovrani della dinastia asburgica nel XVI secolo. I suoi ritratti, le allegorie, come la superba Estate del 1573 ammirata al Louvre diversi anni fa, mi hanno sempre dato l’idea di un artista troppo avanti per il suo tempo, con quel chiamare inequivocabilmente in causa chi osserva a compiere un esercizio interpretativo, che allinea sguardo e mente, e al quale è del tutto impossibile sottrarsi. Il suo pre-surrealismo, la natura polisemica e aperta delle sue Teste, ci giungono ancora come emblematiche figurazioni della molteplice (e potenziale) lettura del mondo. Precorrono, inoltre, una visione, più che combinatoria, costruttivista della significazione del reale (una plurima intellegibilità di essa). Le figure risultanti dall’insieme degli elementi e le primizie che quel volto delineano con dovizia di particolari (e mentre scrivo ho ancora davanti agli occhi della mente quel celebre dipinto veduto al Louvre), mi sembrano ancora oggi la rappresentazione più scoperta di un serrato gioco di corrispondenze tra micro e macrocosmo, in cui la visione naturale si sposa a un “politico” senso del relativo. Ha ragione Barthes quando, nella sua monografia dedicata a questo eccelso pittore cosmico amato dagli imperatori, scrive senza indugio che le Teste di Arcimboldo rappresentano un autentico salto di paradigma, pari a una vera e propria rivoluzione nel mondo dell’arte, perché ci fanno transitare da una pittura «newtoniana» a una pittura «einsteiniana», in cui il punto di vista dell’osservatore diventa parte integrante dell’opera. Liberato dall’etichetta superficiale di puro artista “bizzarro”, il suo grottesco è il medium per

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rendere vive interconnessioni irriducibili. Più semplicemente penso che Arcimboldo testualizzi la realtà, la rappresenti, più che in ciò che è, nella rizomatica gamma di possibilità del suo divenire e mostrarsi. Mentre leggo mi chiedo quanti siano riusciti a cogliere, nell’opera di un sì strepitoso artista, quella che mi viene di definire la sua classica e intramontabile aura di contemporaneità. Perché la ricerca pittorica di Arcimboldo è figlia del suo tempo e insieme ponte che unisce tanta esperienza del Novecento, dai surrealisti a Duchamp, al mare magno dell’arte concettuale. A tal proposito viene naturale chiedermi, per esempio, cosa accomuni Arcimboldo con l’esperienza, che so, di un Emilio Isgrò… Come l’artista siciliano con le cancellature, allo stesso modo Arcimboldo inventa non tanto un nuovo stile, quanto un vero e proprio linguaggio: un codice visivo, una macchina visivo-testuale in grado di produrre nuovi e molteplici livelli di significazione, principiando da una continua opera di decontestualizzazione e successive risemantizzazioni. E ancora, ulteriore tratto comune a tanta arte del Novecento, inchioda l’osservatore dell’opera a una responsabilità di decodifica del messaggio iconico alla quale non può sottrarsi. Funzionano pertanto, i suoi dipinti, come possibili esercizi immaginativi (si pensi a Leonardo). Mario Zanchi, autore della monografia che leggo di gusto in quest’ora di meritata requie, a proposito dell’universo pittorico di Arcimboldo parla di «tentativi di empatia», stimoli verso nuove modalità del percepire. Ma in maniera tanto più semplice, anche a “leggerle” oggi, le Teste naturali di Arcimboldo rappresentano l’esternalizzazione più esplicita di un genuino anti-antropocentrismo che ricolloca quel bipede che si è montato la testa che è l’uomo entro una dimensione onnicomprensiva. Le sue figurazioni delle stagioni, degli elementi naturali, dei mestieri o i suoi eccentrici ritratti dei potenti della terra, le sue immagini reversibili, tutti i suoi dipinti, insomma, sono trattati visuali di filosofia naturale. E non posso non riandare alla filosofia naturale di un altro ma-

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gnifico indagatore di universi potenziali quale fu il secondo Calvino. Ecco: Arcimboldo, gran tempo prima di Calvino, fu pittore della complessità ante litteram; impegnato a ricercare un metodo di descrizione del mondo che tutto potesse tenere insieme. A lungo frainteso e liquidato come grottesco e barocco, in realtà il suo modo singolarissimo di pensare la pittura, lo condurrà – come del resto accadrà a un altro non meno visionario e da me amatissimo pittore milanese come Fabrizio Clerici – a farsi interprete di una ossimorica “maniera antimanierista”, perché innervata su una forte tensione conoscitiva. Mentre vado meditando queste cose suona la campanella: è ora di riandare in scena.

21 ottobre, ore 21:59 Inscenando una divertente caccia al tesoro, con tanto di indicazioni scritte in versi a rima alternata, oggi i miei ragazzi hanno voluto dimostrarmi il loro affetto omaggiandomi un pacchettino contenente stampe di istantanee di momenti vissuti insieme. Sfogliandole, ritornato a casa, mi soffermo sui loro volti. Le foto di quando si è ancora giovanissimi mi turbano sempre, sembrano tradire le stimmate del destino di ciascuno. Sono l’esatto contrario di ciò che, naturalmente, dovrebbero ispirare: il rigoglio, lo slancio infinito, un futuro senza macchia, radioso. Perciò non di rado mi ostino a disilluderli, a metterli dinanzi a ciò che li attende, sperando che siano pronti a parare il colpo, a resistere allo schianto che è diventare adulti. I loro volti congelati in queste foto, a guardarli adesso, mi appaiono come il ritratto inconfutabile dell’effimero. Spie autorizzate della loro sconfinata bulimia di vita, assai di rado le loro ragioni incontrano la nostra pretesa di educarli, illudendoci di poter fornire loro un sicuro apprendistato a diventare, più che cittadini, amanti. Siamo capaci, con una sola parola, di avvici-

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narli o allontanarli irrimediabilmente: ogni nostra azione non è mai neutra, suscita reazioni – dalla noia grigia, alla collera più nera. La scuola, oltre ad essere un posto «contro natura» come l’ha definito Roberto Contu nel personal essay dedicato alla sua esperienza di insegnante, è il luogo della coesistenza di inconsolabili delusioni e, insieme, lo spazio in cui nutrire intensamente l’utopia di fondare una comunità capace ancora del miracolo tutto terrestre dell’empatia. Ecco perché preoccuparmi della letteratura non è cosa diversa, per me, dall’aver cura di loro; farmi carico di ogni loro frustrazione, dei loro traumi, delle loro insicurezze da rintracciare, ciascuno a suo modo, parte integrante del sistema-esistenza, nel fondo della pagina scritta. La scuola dovrebbe essere il posto privilegiato di una sacrosanta religione della ricerca di sé. Non culla di autoreferenziale sentire, bensì il luogo entro cui strutturarsi, conoscersi, provare a rispecchiarsi. Mentre accarezzo il pensiero di una sì intermittente certezza, ripongo nel secretaire il plico con le foto: l’ultima cosa che mi rimane impressa è il sorriso di smagliante contrarietà di Awa, la mia (perché qui nata) italianissima alunna senegalese, che vive già il disagio di dover attendere ancora degli anni prima di poter incamerare almeno la certezza di dirsi veramente italiana. Chi cercherà quest’anno di lenire, con il balsamo delle parole, la sua scandalosa ferita?

22 ottobre, ore 22:53 Professore per un giorno. È questo l’esperimento che ogni anno, a prescindere dal livello della classe, mi ostino a compiere. Oggi è toccato al mio alunno Giuseppe vestire i panni del docente. Quintessenza della distrazione, Giuseppe – bassino, capelli corti, occhi vivissimi, carnagione olivastra – è sempre affaccendato in altro durante l’ora di lezione. Talvolta, invece, non riesce a resistere all’impulso di intonare, con voce simil-

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tenorile, arie d’opera o canti di chiesa, magari proprio nel bel mezzo di una spiegazione o di una verifica. Lo scorso anno, venuto a sapere che mi occupavo in qualche modo di libri, si avvicinò alla cattedra per dirmi che aveva scritto in vita sua già un paio di libri e che ne stava preparando un terzo, addirittura dedicato all’origine e alla fondazione della città di Firenze. Nelle ultime settimane di scuola esibisce sul banco una copia tascabile dell’Inferno di Dante, mostrando di leggerlo compiaciuto (con l’aria di chi è consapevole di imbattersi in un’esperienza decisiva). Di tanto in tanto lo colgo a disegnare, in un suo quaderno dedicato, schizzi e mappe dell’oltretomba dantesco. Perciò mi è sembrato naturale assegnargli la mediazione dell’argomento degli argomenti, per un docente di lettere: la Commedia. Così oggi gli ho ceduto il mio posto alla cattedra, prendendo io il suo, tra i banchi. Subito compenetrato nel ruolo, Giuseppe fa un breve cappello sul padre Dante e inizia citando il primo commentatore dell’opera a cui si deve l’imperituro aggettivo: Giovanni Boccaccio. Parla del viaggio immaginario compiuto dal poeta nella Settimana Santa dell’anno 1300, sorvola sulla profonda valenza simbolica del viaggio, passa a descrivere la geografia dantesca, rappresenta alla lavagna (con accettabile precisione) la collocazione dei peccatori, le pene che spettano alle anime dei dannati; rivela chi furono le guide del suo percorso, dando il giusto rilievo sia a Virgilio sia a Beatrice. Archivia rapidamente la questione cruciale dell’esilio, le cui ragioni e conseguenze non gli sono forse ancora sufficientemente chiare; così come, in generale, glissa su quei passaggi di cui non ha ancora colto appieno il valore. In un clima di partecipazione che non mi attendevo, si sprecano le curiosità e le domande: perché Dante, se ama Beatrice, finisce per sposare Gemma Donati? Quanto impiega a scrivere il suo capolavoro? Perché, dopo tanto peregrinare, decide di fermarsi proprio a Ravenna? L’ora di lezione scorre rapida, in uno stato di soave letizia che mi inumidisce gli occhi.

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23 ottobre, ore 19:43 Disteso sul lettino, attendo che inizi la seduta di massaggio profondo, per cercare di riuscire a risolvere il problema fisico che da quasi sei mesi ormai mi impedisce di correre. Silvio, il fisioterapista, ha fama di essere un portento nel suo campo. Capisco subito di trovarmi di fronte un meraviglioso personaggio: siciliano, di Messina, Silvio vive da diversi anni a Losanna, in Svizzera, dove si è specializzato come fisioterapista; ma scende sempre nell’isola per ricevere, due weekend al mese, i suoi pazienti. Prima di iniziare il trattamento mi osserva, si rifiuta di leggere i referti degli esami diagnostici effettuati e dice senza indugio di aver già inquadrato il mio problema: parla di manutenzione e blocchi mentali; di condizionamenti e fisiologia; sembra di trovarsi davanti uno psicoterapeuta. Mentre comincia a praticare un massaggio decontratturante agli arti inferiori, non smette un attimo di parlare: snocciola metafore, sembra aver in tasca il mondo, depositario di una certezza conquistata (racconta) a fatica. Ed io, con la mia vita fatta di crolli e ripartenze, di macerie ed esultanze, che su tutto nutro perplessità – dalla postura alla scrittura –, subisco frastornato il rosario delle sue convinzioni. Io e Rosamaria seguiamo in silenzio il monologo dello svizzero che si ritiene cosmopolita e che tuttavia è rimasto sempre uno «stronzo siciliano» (così si autodefinisce). Di fronte alla nostra arresa perplessità, parla di un convegno a Helsinki, nel lontano 1905, in cui un giovane fisico tedesco spiazzò tutti scrivendo la formula arcinota E = mc2, mettendo in relazione appunto la massa e l’energia; una relazione la cui dimenticanza è proprio causa, a suo dire, d’ogni scompenso nell’uomo. Per rendere ancora più pregnante il suo tentativo di esplicazione recupera dalla sua formazione liceale la distinzione tra la fisica e la metafisica in Aristotele. Afferma di essere ossessionato dalle parole, ama studiarne l’etimologia, e quando mia moglie interviene confessandogli che oltre a insegnare lettere mi occupo di critica, finge di volermi

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sfidare, per poi concludere, con una citazione non so quanto involontaria di Palombella rossa, che «le parole sono importanti!». Gioca a disorientare, ammette di provare gusto nel farlo, per così studiare le nostre reazioni. Ma il suo capolavoro e cavallo di battaglia, a quanto pare, è la metafora del “buco del culo” che – per quanto ognuno si sforzi – non possiamo mai conoscere del tutto, essendo la nostra particolare visione di noi stessi inevitabilmente viziata e distorta; pronti ad occultare sotto il tappeto ciò che di noi non ci piace o che nemmeno riusciamo a vedere. Allora è necessario che qualcuno lo faccia al nostro posto! Che a provocare lo shock di svelarci ciò che siamo o non siamo tocchi a qualcuno, magari a colui o colei che più ci è vicino: e qui chiama in causa, con una chiosa imprevista, il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, quintessenza della poetica pirandelliana (rivendicando la sua identità di lettore forte, specie di autori siciliani). Con uno scatto circolare del discorso, torna ancora a parlare di sé, racconta l’inferno che è stato l’«essere Silvio», il farsi carico di essere ciò che è… Almeno fino a quando ha iniziato a capirsi e ad accettarsi. Confessa un disagio antico che rimonta già alla sua adolescenza diversa, quando ogni cosa, vista da lui, aveva tutt’altro significato. Porta come esempio, La cura, la canzone perfetta di Battiato e finisce per chiederci, a bruciapelo, cosa voglia dire per noi: io me la cavo mostrando di conoscere la genesi della canzone e che, in realtà, sembrerebbe che sia da interpretare come dedicata dall’autore a se stesso; mia moglie confessa che, da fidanzati, gliela dedicai più volte (perciò l’ha sempre riferita a un ipotetico amore-compagno per la vita). Ridendo racconta che egli l’ha sempre ascoltata come la voce di Dio che parla all’uomo contemporaneo (a un uomo angosciato e sempre più impaurito). Quel Dio con il quale, dice, dopo averci fatto per anni a pugni, creduto sorgente di ogni sua caduta, ha infine imparato a parlare (e a farlo sempre più spesso). Dopo una breve pausa di silenzio riprende a raccon-

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tare per metafore, cita, per farsi capire, film cult come la trilogia di Matrix o Il sesto senso – per dire dei vivi e dei morti, dei morti che non sanno di esserlo (per un attimo rivado a un libro perturbante come Le stelle fredde di Piovene). Dopo avermi travolto e trascinato lontano, con la sua bulimica loquela, non faccio in tempo a chiedergli il da farsi che ha già guadagnato l’uscita della sala massaggi. Allibiti, io e Rosamaria, ci affacciamo sul corridoio: Silvio, prima di perdersi dietro a un’altra porta, dietro l’ennesima visita, mi congeda definitivamente dicendomi di rimettermi in gioco, «già da domani». Quando esco mi pare di sentirmi meglio e di poter tornare a correre… già da domani.

24 ottobre, ore 16:47 Ho finto tutta la mattinata di non pensarci, eppure avverto già dalla giornata di ieri una piacevole eccitazione, perché finalmente si ritorna a indossare le scarpe da running. Il più banale e frequente degli infortuni mi ha infatti costretto a un periodo di riposo forzato e a un digiuno di chilometri che dura da diversi mesi. Negli ultimi anni la riscoperta più consapevole della giovanile passione per la corsa mi ha indotto sempre più a pensarla per ciò che in verità è: la naturale e primeva attitudine dell’uomo; per secoli il solo modo di spostarsi, di coprire grandi distanze. «La storia dell’umanità inizia con i piedi» – scriveva non a caso, nel 1964, il grande antropologo e archeologo André Leroi-Gourhan. Quando penso alla corsa non ho mai in mente l’agonismo cieco, che la retrocede a sport tra gli sport, tutto centrato e finalizzato alla prestazione. Il ritorno alla corsa per me ha coinciso con il recupero di una confidenza perduta con il mio corpo, con un gesto che dovrebbe essere – come il mangiare, il dormire, il respirare – un innato istinto. Si può scegliere di correre per svariati motivi, giacché ciascuno, nel cor-

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rere, è mosso da differenti motivazioni. Silvio, il fisioterapista affetto da ipertrofia metaforica, parla della corsa come presa di coscienza, progressiva cognizione di sé. E non stupiscono certi tentativi di elaborare una sorta di vera e propria «filosofia del running», costruendola, come ha voluto ipotizzare l’antropologo e maratoneta Paolo Maccagno, magari provandosi ad accordare alla corsa la dottrina tomista (si sa, a scivolare dal tomismo al podismo, ci si impiega un attimo). Per me la corsa è ipostasi della gioia; forse la più realistica simulazione di un atto di libertaria fuga, autentica filosofia in movimento. Amo la corsa perché per me è poesia e, come Montale, se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta. Avendo preparato tutto in previsione dell’allenamento pomeridiano, tornato dal lavoro, mi cambio in fretta e sono già in strada, sul lungomare. Comincio, per riscaldarmi, con poco più di un paio di chilometri di camminata veloce, alternata ad alcuni brevi allunghi di qualche centinaio di metri per riattivare la muscolatura. Quando prendo a correre mi sforzo di tenere il passo più corto possibile e, com’è ormai mia abitudine, respiro solo col naso e cerco di contenere le oscillazioni laterali del busto; tengo il mento alto – mentre penso a rilassare spalle e braccia – lo sguardo fisso e largo, davanti a me. In principio avverto la strana sensazione di essere un astronauta scafandratissimo alle prese con un difficile allunaggio. Superato il primo chilometro di corsa tutto diventa più semplice: mi dimentico delle preoccupazioni, dei controlli che mentalmente, ogni volta, in principio, m’impongo nel tentativo (difficile) di raggiunge un assetto di corsa ottimale. Nonostante qualche trascurabile fastidio ravvisato sul finire dell’allenamento, tornato a casa, fiducioso e soddisfatto di questo nuovo inizio, compilo il mio diario di corsa a cui affidare, in maniera dettagliata, le sensazioni di benessere, l’eventuale insorgere di avvisi muscolari, le annotazioni sulla postura e la naturalezza o meno con la quale ho saputo trovare il giusto comfort durante la seduta.

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25 ottobre, ore 01:19 «Il secolo degli aeroplani ha diritto alla sua musica». Non so perché poi mi sovvenga questo aforisma di Debussy datato 1913, mentre sto ascoltando, a tarda ora, nel silenzio notturno, Volo di notte (1940), la prima opera di Luigi Dallapiccola, atto unico in sei scene, sintesi della materia complessiva dell’omonimo romanzo di Saint-Ex. Il direttore della compagnia aerea Rivière, per rendere più celere il traffico postale, ha istituito i voli notturni. Mentre tutti gli altri corrieri fanno regolarmente ritorno, Fabien, corriere della Patagonia, si trova in serie difficoltà, per l’appressarsi di un uragano e la penuria di carburante che potrebbero rendere impossibile il suo rientro. Composta in anni difficili, tra il 1937 e il 1939, quest’opera mi ha sempre affascinato non solo perché potrebbe esprimere in maniera mirabile la sintesi di sentimenti contrapposti che preludono all’imminente ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, ma soprattutto per una sua indiscussa valenza sovrastorica e trascendente. Rivière, nella prima scena si presenta ed esibisce senza mezzi termini la grande rinuncia che la sua missione (in cui crede ciecamente) ha comportato: il non aver mai avuto tempo; lo spingere verso la vecchiaia «tutto ciò che fa dolce la vita». Estranea gli è quella dolcezza che è qui invece significata dall’unione dei coniugi Fabien, novelli sposini da appena sei settimane. Dallapiccola, sulla scia dell’autore del Piccolo principe, mette in scena la dialettica tra due visioni incompatibili della vita: da una parte la dimensione degli affetti; dall’altra, la grande retorica dell’azione al costo del sacrificio. L’inconciliabilità tra questi due approcci all’esistenza esplode nella scena quarta, laddove la signora Fabien, in apprensione per il marito, fa di tutto per parlare con il direttore. Dinanzi alla donna, che vede nella difesa della propria felicità la prima legge, Rivière rivendica al contrario il diritto di lanciare gli uomini «fuori da se stessi», verso quella «vita forte» che ritiene essere, al di là della gioia e del dolore, «la sola che debba essere vissuta».

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Dallapiccola fa dire alla signora Fabien che «ciascuno parla in nome del suo mondo»: Lei, destinata a consumarsi nel vuoto cavo della solitudine senza l’amore strappato; lui, il grande Rivière, pur consapevole di quanta felicità possa dissolversi, andare in fumo in un solo istante, chiuso nella prigione che la stessa signora Fabien gli vede già cucita addosso di vittorioso che «trascina la catena della sua pesante vittoria», a cogliere la meccanica di un progresso che non ammette cedimenti né battute d’arresto. Ma a stupirmi è il racconto, attraverso la trovata scenica del Radiotelegrafista che “rappresenta” la voce del pilota, del mistero di quella morte che si tramuta sempre più in una precipitante ascesa, una lucente rivelazione: quando sta per schiantarsi scorge le stelle, dice di volerle raggiungere ad ogni costo, proteso entro quella fine che sopraggiunge come benedizione, come bellezza; e in cui tutto – le mani, le vesti, le ali – «si fa luminoso». Quella fine che incalza sì, ma come sublime bellezza: «Troppo bello!» – «Non abbiamo più essenza». Anche il direttore Rivière, che spinge il corriere verso l’ignoto, che pensa alla disfatta come esperienza che «avvicina la vera vittoria» (perché conduce verso e dentro il futuro), è alfiere e insieme schiavo di un’ideologia che celebra, ancor prima e più del successo finale, il processo, l’azione appunto, il «solo avvenimento in cammino». Non a caso, alla fine, dopo aver ordinato la partenza notturna del corriere per l’Europa, seduto al tavolo, Rivière sillaberà la sentenza – che rivela il destino, l’idea, l’orizzonte che egli incarna –, segno d’estrema cognizione, che gli ha profetato la sposa di Fabien, vaticinio di una solitaria e sì «pesante vittoria». È curioso poi che i personaggi delle opere che aprono e concludono la carriera operistica di Dallapiccola – il pilota Fabien e il mitico Ulisse –, nella loro petizione di trascendente comprensione, siano accomunati sotto un cielo di stelle al quale impetrare una promessa di «trepida bellezza». E se pur l’eroe per antonomasia, rimasto solo su una piccola imbarcazione in una notte stellata, non ottiene risposte

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dagli astri su ciò che gli manca («la Parola, il Nome»), non gli riesce di placare il tormento del suo insistito cercare («guardare, meravigliarsi e tornar ancora a guardare»), in maniera diversa dal corriere di notte, guadagna inattesa (preceduto da un suono fisso, forse di tuba) l’illuminazione che erompe in un’improvvisa invocazione («Signore!») e nella certezza che il cerchio di solitudine si sia infranto con il ritornare del verso di Machado («Non più soli sono il mio cuore e il mare»). Dalla solitudine alla pienezza: sembra che la sola musica possibile, per il secolo degli aeroplani, stia nel crescendo di una sovrastorica scoperta. E Dallapiccola ha dimostrato di saper cogliere, nella sua musica, questa epifanica oscillazione.

26 ottobre, ore 20:02 È accaduto ancora. Avevo richiesto qualche giorno fa copia saggio della versione originale di uno dei classici più importanti e insieme sottovalutati della letteratura italiana del secondo Ottocento che una piccola ma valente (per questi e altri provvidi recuperi letterari) casa editrice siciliana rimanda in libreria. La querimoniosa risposta non si è fatta attendere. Il riferimento ai piccoli numeri, le limitate tirature rispetto alle major della editoria italiana, e dunque anche al ristretto numero di copie degli invii stampa da riservare solo a chi ha scritto in passato delle pubblicazioni dell’editore o ha dichiarato che lo farà… Si tratta, mi spiegano, di una mutua «corrispondenza di gentilezze», una «convergenza di opinioni e d’intenti». E, dal momento che, ça va sans dire, le recensioni oggi «spostano poco», ogni invio è presto trasformato dall’addetto stampa in un capolavoro di filantropismo. Rispondo di getto che, pur comprendendo il pragmatismo del loro argomentare, tuttavia un editore (specie se piccolo) dovrebbe saper scegliere i critici secondo altri valori e parametri, sapendo svincolarsi dal miope

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e avvilente criterio del mero scambio di cortesie e, soprattutto, riconoscendo la differenza che corre tra un critico onesto e il mare dei rivistai seriali (mi esprimo qui come avrebbe fatto Capuana), certo tra i più solerti nel corrispondere a questa logica clientelare. Ma a irritarmi ancor di più è la replica, sempre in perfetto stilnovismo editoriale, in cui si torna a insistere sul libro «omaggiato» (con tutto ciò che la per nulla innocua puntualizzazione trae con sé). Anch’io, scrivo, sono fermamente convinto d’una cosa: la critica non può vivere di elemosine e nemmeno ridursi a ingranaggio di un pragmatico do ut des, sorta di pavloviana risposta per cui, puntuale, all’invio della copia si fa seguire la recensione. Pertanto, mi congedo, con sincerità e senza spocchia alcuna, con un cordialissimo: «sentitevi liberi, sentiamoci liberi!». Difficili mestieri a perdere, oggi: quello dell’editore (specie se piccolo), così come quello del critico (piccolissimo) di provincia.

27 ottobre, ore 23:38 Lo sperimento ogni volta, quel senso di greve impotenza di fronte a certe immagini che vorrebbero mostrare l’orrore. Mi spaventa come io riesca a sostenerne la visione. Quell’indifferenza dell’occhio – dico l’incapacità, dettata dall’abitudine, di leggerle per ciò che sono: l’equivalente della cruda realtà delle cose. E mi interrogo, ecco il punto, sull’uso strumentalmente politico di simili ostensioni che vorrebbero documentare l’orrore, fatto per cui non possono che giungermi come oscene; certo non perché mi scandalizzano, ma perché esibiscono il dolore, lo strazio, la tragedia, epperò falsificandone il nucleo di drammatica verità. Ciò è ancor più evidente quando all’immagine si accompagna l’insulso giochino semantico di certi geniali titolisti. Allora preferisco il mio silenzio, meglio l’impietrimento a questo sguaiatissimo circo. L’estetica del dolore e della

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morte sbattuta sulle prime pagine o sulle bacheche dei social non la tollero, per il semplice motivo che denuncia, almeno per me, il peccato più grave che un uomo possa commettere: la totale mancanza di pietà. Shakespeare docet: «Tutta la pietà sarà soffocata con l’abitudine alla oscenità».

28 ottobre, ore 00:18 Alla ricerca di entrature ogni volta diverse, penso a qualcosa di nuovo per tornare a parlare con forza di Dante. Innamorato della centralità del testo, mi propongo di partire proprio dal canto introduttivo alla Commedia (di solito funziona). Ma presto si rivela un clamoroso passo falso. Sbadigli, bisbigli, facce insonnolite e per nulla entusiaste: è questo il paesaggio desolante che mi si presenta agli occhi quando, riemergendo dall’appassionata recita dell’incipit del poema, rivolgo loro lo sguardo. Sconsolato, porto in fretta a termine la lettura delle terzine dantesche per giocare la carta del loro essere intriganti e curiosi della vita altrui, e ancor più quando si ha a che fare con un Vip, per quanto del passato. Mi ricordo di Biondo era e bello, quella sanguigna e vibrante biografia che Mario Tobino dedica al ragazzo Dante, all’amante della vita, al ritratto della Firenze delle baldorie e della violenza, dell’odio tra bande e famiglie avverse. Quel libro in edizione Oscar Mondadori che, in un autogrill, durante una sosta sulla strada di ritorno dal viaggio d’istruzione in Puglia, lo scorso maggio, era sbucato, venendomi a cercare, dalla selva di best seller italiani e giallisti scandinavi, scegliendomi e che da mesi giace abbandonato nella mia cartella. Comincio a leggere dal volume di Tobino dell’avidità di Bonifacio VIII, del suo delirio di onnipotenza, della spregiudicata sete di potere di Corso Donato, che vende Firenze al Pontefice, offrendogliela su un piatto d’argento; dell’affaire dell’esilio e di cosa rappresentò effettivamente per

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il poeta la lontananza dall’amata sua città. Improvvisamente, si ridestano, piovono domande: vogliono sapere del perché di tanta cattiveria da parte di colui che dovrebbe incarnare Dio in Terra, del no della Firenze dominata dai Guelfi Bianchi, degli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella… Dante, recatosi a Roma con altri ambasciatori fiorentini per cercare di contenere le pretese pontificie e di rassicurare il successore di Pietro, viene trattenuto nella città santa (e saranno, racconta Tobino, «ore interminabili»). Il poeta soffre due volte, la prima quando paventa accada il peggio, la seconda quando l’immaginazione si fa realtà. Le notizie corrono e presto lo raggiungerà la mala nuova del processo e dell’accusa di essere cittadino ladro e ignobile. Indugio sulla ferita inferta dall’esilio… E mi chiedo, complice Tobino, ragionando a voce alta: come poté Bonifacio VIII, che ebbe occasione di trovarsi faccia a faccia con il sommo poeta, con la fiamma dei suoi occhi, con la luce della sua intelligenza, come poté raggirarlo, promettere sapendo di non voler mantenere? Ma un grande poe­ ta è «un cataclisma che non si può prevedere, un fenomeno inarrestabile che dura nei secoli» – «illumina la verità, svela i peccati, le vergogne» –, è sacro per il futuro! Grazie alle parole di Tobino, al racconto delle tribolazioni dell’uomo e del poeta, riesco a riacciuffarli (i loro occhi adesso tradiscono una scintilla). Suona la campanella che segna la fine dell’ora di italiano. Oggi mi salvo per il rotto della cuffia, mi arrendo e imparo a mia volta la lezione: la vita, anche quando è storia passata (pubblica o privata, poco importa), vince sempre sulla letteratura.

29 ottobre, ore 23:58 Piacevolmente travolto dall’esperienza in classe della mattinata di ieri, mi sorprendo a pensare come tanti poeti odierni

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sembra abbiano smarrito quel continuum tra poesia e vita che invece si respira in ogni pagina di Dante, assillati – per riuscire contemporanei al massimo grado – dal bisogno di mortificare l’umana necessità del canto, ingolfati da complicazioni pseudofilosofiche solo allo scopo di alzare il tiro, montare (quasi iniziatiche elucubrazioni) un lievito che tuttavia non dà pane. Dico quella forza naturale d’espressione, quella necessità di canto, che forse resiste ancora intatta e forte, nelle voci dei poeti dialettali, capaci di trarre dalla lingua madre, da quel loro viscerale volgare, una trama di vita e prosodia. Mentre scrivo ho in mente le sillogi di racconti in versi del bardo di Cutusiu.

30 ottobre, ore 16:31 Incoraggiato dall’esito inatteso della lezione di ieri l’altro, proseguo con la lettura di brani dall’intimo «libello» di Dante: la Vita Nova; diario di quel novello incominciamento – all’insegna dell’amore e di un nuovo modo di poetare. Leggo passi sparsi ai miei ragazzi: del primo incontro con «la gloriosa donna» della sua mente; della visione; del suo «dolcissimo salutare»; della donna dello schermo… Ma il tutto arriva loro troppo confuso, difficile da accettare: cos’è questo Amore maiuscolo e assoluto? (Rimane per loro il nodo incomprensibile: dedicare poesie a una donna e infine sposarne un’altra!). M’incaponisco ancora, per troppa passione e fretta che apprezzino la testata d’angolo della poetica dantesca, forzo la mano: mi dilungo sulla «camera de le lagrime»; mi attardo a proporre lo spettro sentimentale dello stato in cui versa l’anima del poeta, dei suoi sussulti, dei patimenti vari nella battaglia d’Amore… Li perdo e mi perdo. Irrimediabilmente.

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31 ottobre, ore 20:42 Memore dei fiaschi e dei fiaccati entusiasmi, nell’altra mia seconda evito lo shock della lettura del canto primo della Commedia e mi butto a capofitto nello sviscerare la geografia dell’oltretomba dantesco. I loro sguardi cessano di essere dubbiosi quando, esaurita la trattazione (con l’ausilio di mappe) della correlazione tra i tre regni, mi dedico alla fisica della voragine dell’Inferno, al dato tassonomico, la concretezza della ripartizione dei peccatori e delle relative pene previste per ciascuna categoria. Di solito, e questa volta non sembra fare eccezione, al loro interesse per i peccati e la legge del contrappasso, corrisponde una proporzionale indifferenza nel cogliere la grande capacità visionaria di Dante, l’ardito surfare, del suo genio, a metà tra summa del sapere medievale e potenza viva dell’immaginazione. La loro curiosità, peraltro da soddisfare immantinente (pena il sabotaggio dell’intera ora di lezione), è più che altro sapere se Dante abbia posto nell’Inferno solo i nemici suoi e i grandi cattivi del suo tempo o anche qualche povero innocente. Giustificano e comprendono, come consequenziale, la presenza di Bonifacio VIII, ma sfugge loro l’ambiguo trattamento riservato all’eroe della metis, Ulisse. A questo punto, come sempre attratti dai risvolti pratici delle scelte del poeta, e rimaste del tutto eluse le domande che invece mi attendevo copiose sul fuoco, il turbine cromatico e polifonico della visione dantesca, anch’io perdo del tutto la bussola e, prima di abbandonare l’aula senza nemmeno salutarli, declamo a memoria uno dei “come se” per me più potenti nella storia della critica: quello che Mandel’štam dedica proprio alla Commedia, per rendere l’idea di cosa possa rappresentare l’esperienza della lettura di quell’opera. «Se le sale dell’Ermitage all’improvviso dessero fuori di matto, se i quadri di tutte le scuole e di tutti i grandi pittori all’improvviso si staccassero dai chiodi, penetrassero l’uno nell’altro, si mischiassero fra loro e riempissero di urla futuriste e di una furiosa eccitazione

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cromatica l’aria che odora di chiuso, ne deriverebbe qualcosa di simile alla Commedia dantesca». Così, ragionando tra me e me a voce alta, recito a salve quella tensione esemplificativa, quell’analogico “come se” – indizio sublime di cosa debba intendersi per immaginazione critica.

1° novembre, ore 22:29 La filosofia è la mia donna gentile – afferma Dante. Per me, la mia donna, è letteratura, è critica, è poesia. Questo journal è la mia Vita Nova, è la ricerca di una ragione pratica nel mio lavoro intellettuale; il mio Convivio – alla buona – sanza scienza, ma intriso nella e della vita. In quale lingua, come scrivere? Non la narrazione, non il romanzo; ma il solo libro che per me valga la pena intraprendere è quello ibrido, “rizomatico” – centrifugo e centripeto insieme: che dall’io parta per raggiungere le cose, introibo a una cognizione di sé e dell’altro da sé; e che dalle cose della vita conduca alla scalata della montagna del proprio io.

2 novembre, ore 12:47 Come ogni anno, puntualissimo, anche quest’anno, per il Giorno dei Morti, si è rinnovato lo squallido e acido teatrino sulla tragica fine di Pier Paolo Pasolini: siamo al braccio di ferro, al muscolare gallismo intellettuale, al machismo del pro e contro PPP. Penso comunque sia sempre istruttivo questo ipertrofico antagonismo – che corre tutto l’arco delle posizioni, dalla santificazione al totale ripudio – sulla sua figura, non foss’altro per il fatto che dà occasione di ridisegnare, in un lampo, l’attualissima mappa degli stili (di comportamento, di idee, di argomentazione). PPP? L’autore della letteratura italiana più brutalizzato dall’eccesso di confidenza, con la quale è stato fin qui trattato. Il giusto distacco da ogni emotività ed ecceziona-

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lità, lo scrostare la ruggine da quel santino di latta – profeta sventurato di questo non meno sventurato Paese –, il ritorno, insomma, silenzioso, alla lettura e allo studio delle sue opere (eh sì, certi autori, proprio in virtù del loro ingombro, è indispensabile persino studiarli), gioverebbe se necessario a ricollocarlo, al netto di ogni mitologia beatificante. Dico questo convinto che, comunque la si pensi sul poeta di Casarsa, rimane sempre un gigante intellettuale con il quale fare i conti e al quale accostarsi con estrema prudenza. Altrimenti tutto si risolve in un interminato postumo necrologio.

3 novembre, ore 01:47 La critica letteraria, se ha perso la capacità d’incidere, la sua stessa radicale messa in crisi ne ha di fatto, con scintillante e paradossale effetto, rilevato l’urgenza. Vera rimane essa per chi scrive – nella sua funzione (inoppugnabile) di autocognizione e inesausta ricerca. Perciò essa ha a che fare, è sorella della filosofia; non a caso la critica migliore ci è sempre parsa quella, disinteressata e totale, figlia di un estremo partito preso, dei poeti. Ecco: potremmo dire che, dopo aver raggiunto il massimo storico, il punto di non ritorno d’una innegabile marginalità, la critica, liberatasi da ogni sussidiario utilitarismo, ripiegata su se stessa, consiste in quel “qualcosa di scritto” che i critici si ostinano a vergare per dar forma e sostanza ai loro inseguimenti. È il carattere che potremmo definire “ninfale” della critica stessa (o meglio del suo oggetto). È ciò che più inchioda di questo solitario mestiere. Queste e altre considerazioni, a ora tarda, mi vengono suggerite dalla lettura dell’agile libello dal titolo semplice ma efficace di Giulio Ferroni, La solitudine del critico. Penso che questo dorato slancio d’inappartenenza sia la condizione privilegiata e impossibile di noi cresciuti e formati in piena crisi: noi dico figli della crisi, e che

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della crisi siamo l’esito più decadente, da tramonto attardato e ultimativo. Per cui non è rimasto che questo volgersi indietro: stanchi di trastullarsi con certo belletto contemporaneo, si è preferito alzare il tiro, non accettare compromessi e sotterfugi di un nuovo menzognero, tuffandosi a capofitto in un radioso anacronismo (penso a ciò che in proposito ha scritto Agamben sulla qualità dell’essere veramente contemporanei). E penso a Massimo, Fabrizio, me, Andrea: generazioni serratissime, vicine, genealogia di voci che – stanche della penuria di notizie dal fronte e di cifrati messaggi in bottiglia – si sono dedicate a una critica totale; una critica che sconfina coscienziosamente nell’autobiografia (eppure mai fine a se stessa). Ogni volta che vado, con rapsodica disposizione, ragionando di ciò, non posso non pensare al verbo volgarizzato da Calvino che, in anni non sospetti, andava riconoscendo nella crisi, la sola situazione che dia frutto. Come non convenire che ciò sia ancor più vero per il critico che scrive – dalla solitudine del suo avamposto – entro una città perennemente assediata?!… La critica di oggi è critica di revenants, di rifugiati, sfollati del cimitero dei massimi sistemi, delle certezze strutturaliste e semiologiche (pur oggetto di spiazzanti e appassionate palinodie negli anni, penso a Todorov), dell’offuscarsi del demone della teoria; fino ai tentativi più recenti di colonizzare la critica dalla parte dello specifico neurobiologico, ecologico o di altri limitanti ed esclusivi approcci. A cogliere la radice ineludibile e impermutabile della critica, a ragione, Ferroni chiama in causa la poesia e la musica; ciò che in esse si palesa come impossibilità totale e piena di carpire: così la poesia è una tensione e una sostanza che intravediamo, una voce che non possediamo mai del tutto; ma alla quale, per mezzo della parola, dello scavo nel linguaggio, cerchiamo sempre di approssimarci, nel suo essere ontologicamente sfuggente (ecco il ritorno dell’essenza ninfale della poesia, della musica, dell’arte in genere e, in ultimo, anche della critica). Cosa sono l’arte e quell’attraversamento neces-

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sario e solitario che è il lavorio mentale del critico, se non quel rompersi la testa per venire a capo di una irriducibile oscura complessità? Forse Bonnefoy, con la summa dei suoi versi e dei suoi scritti saggistici, ha saputo meravigliosamente esprimere il porsi sulle tracce d’un utopico e insieme plausibile arrièrepays: da parte d’ogni critico che, inforcati gli occhiali e penna in resta, si lancia – in nome di una «aspirazione durevole» e un’«intuizione incerta» – in quella fame del dire, conversando con gli autori e le loro opere, nella speranza di una parola colma, rotonda e perfetta.

4 novembre, ore 22:27 Si tratta di mettere a frutto un pensiero «analogico» (e mi sovviene la convincente confutazione della vulgata comune di un Calvino razionalistico e geometrico fornita in Autoritratto nello studio da Giorgio Agamben), del dispiegarsi di un’immaginazione appena rattenuta da un principio di ragione. Dico strappare gli oggetti del nostro interesse all’eterno presente per stagliarli su di un orizzonte d’immaginaria «preistoria»: stare con i piedi nella storia e gli occhi rivolti indietro, a questa dimensione non codificata, sfuggente, fuori da ogni tradizione.

5 novembre, ore 19:22 Da quanto ho scritto finora potrebbe apparire che la mia rinuncia d’ogni precostituita teoria, in fatto di critica, possa suonare come non meno ideologica presupposizione (rischio che davvero si corre). Ma talvolta, e qui mi viene in soccorso ancora una volta il Saint-Ex delle Lettere di giovinezza all’amica inventata con la sua parva lezione di pragmatismo – più che di metodo sbagliato è questione di vera e propria assenza di visione: «non si deve imparare a scrivere ma a vedere». Non

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sono un teorico, la mia cassetta degli attrezzi è minima (tutta fatta d’oggetti di fortuna): sono, semmai, un superstite, un Robinson Crusoe della critica.

6 novembre, ore 18:53 La mia contraddizione di questi giorni? Lasciare ancora aperto il mio account Facebook e vocarmi sempre più a un’asocialità (appunto) poco social. Rifiutarmi d’intervenire sempre e comunque – sull’attualità politica, sui miseri scontri di culture e di parrocchie, round a pugni stretti, tra osannatori e detrattori di talune icone culturali (che a questo si è infine ridotta ogni celebrazione, anziché rileggerli e “criticarli”, rendendogli così il miglior servigio). Autopromozione? Alla fine non funziona, non paga nemmeno quella. I miei venticinque lettori sono persone che non detengono, vivaddio!, nessun potere culturale, alcuna egemonia da amministrare, e che apprezzano sinceramente quel poco (anzi pochissimo) che scrivo: perché sono un bradipo, perché non intendo cedere alla nevrastenia di una critica bulimica e schizofrenica – impegnata, senza soluzione di continuità, in un vacuo e quotidiano esercizio di equilibrismo. Non sto sul pezzo, non sto sull’argomento, gioco di ritardo, per istinto. E vado ripetendo, con il Parise dei Sillabari: «Io non me ne intendo» (non più, non meno di voi).

7 novembre, ore 23:52 Dopo averlo abbandonato per diversi mesi, emergo perplesso dalla lettura delle pagine conclusive de Gli oscillanti, l’ultimo romanzo di Claudio Morandini. È sempre difficile recensire un autore che si segue da tempo, specie se si riceve l’impressione di stare leggendo ogni volta lo stesso libro e dunque di correre il rischio, anche per il critico, di ripetersi. Negli ultimi anni

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Claudio si è mosso con maestria sul terreno della fiaba moderna, edificando una sua geografia immaginaria che coniuga visione e mistero, e che ha come teatro d’elezione la montagna. L’occasione è sempre quella di mettere a nudo nevrosi e paure contemporanee, spingendo il pedale su un educato grottesco che tuttavia, col tempo, forse rispondendo a un sabaudo pudore, suona sempre più alluso, stenografato. Claudio, in ciò rispecchiando la sua indole, predilige sempre il garbato suggerimento, l’ammiccamento divertito e in punta di penna, eludendo quell’autobiografia che è invece centrale e ossessiva nelle scritture (anch’esse ridondanti) di Permunian. Così come lontanissima è la sua maniera gentile dal graffio autocompiaciuto delle incursioni nel grottesco dell’Onofri di Benedetti Toscani, capace di dar vita a un fantasioso bestiario di tipi umani. Sarà stata l’aspettativa creata da quel bel titolo che Claudio ha tratto da un suo libretto operistico di qualche anno fa, costruito non su un vero e proprio intreccio drammaturgico, ma a partire da motivi dominanti, come appunto l’oscillazione, la fluttuazione, la precarietà (e che però poco o nulla ha a che spartire con la materia del nuovo romanzo), ma non riesco a vincere una certa delusione. Forse il trait d’union, tra il libretto e il romanzo, potrebbe essere quel fondare il racconto ancora una volta più su motivi che su fatti, essendo egli più scrittore di paesaggi e passaggi che un puro storyteller. Di getto gli scrivo che, per quanto come sempre ben arpeggiato e coerente con la ricerca dei libri precedenti, il suo romanzo questa volta non mi ha convinto: è troppo forte l’assenza di un grande e memorabile personaggio, come l’Adelmo Farandola di Neve, cane, piede o, ancor più, l’indimenticabile Rafail Dvoinikov di Rapsodia su un solo tema. Claudio accoglie di buon grado le mie riserve, e mi confessa che gli interessava, questa volta, ancor più mettere al centro, come unico e autentico protagonista, il paesaggio e le sue voci. E dimostrandomi un affetto incondizionato e una grande umiltà mi ringrazia, dicendosi ansioso di leggere la mia

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recensione da cui potrà imparare senz’altro a «mettersi meglio a fuoco». Ribadisco che il suo è un romanzo onestissimo, ma che difetta forse d’ambizione e che sarebbe interessante tornare a leggere un Morandini che allunga oltre lo sguardo, magari dribblando la tentazione (oramai abusata) della fiaba moderna. Allora, con un finissimo gioco in contropiede che solo la fraterna e reciproca stima consente, Claudio mi spiazza sortendo così dal nostro veloce scambio di vedute: «Chissà, quello che aspetti tu è già qui, pronto o quasi, ma non è ancora arrivato il suo tempo».

8 novembre, ore 23:53 Quest’oggi Silvio, il fisioterapista in grado d’imbastire interminabili discorsi che sfiorano il soliloquio, mentre si dedica a sciogliere le fasce late delle gambe e i tensori delle anche, dopo l’amato Pirandello, che consulta come la cartina al tornasole di ogni suo convincimento, per dare forza e spessore alle sue argomentazioni, recupera dal suo smartphone un passo tratto addirittura dalle Lettere a Lucilio di Seneca, in cui viene espressa l’inscindibile correlazione tra vita, tempo e morte: «Ecco il nostro errore:» – legge – «vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata». Per lui un mantra, un memento a ricercare la felicità quanto più si è capaci di maturare coscienza chiara di ciò che si vuole veramente, per sé, nella vita. E così prosegue sciorinando le sue certezze personali, raccontandoci del suo programmato proposito di sparizione nel 2022, di partire in solitaria per un anno piantando in asso tutto e tutti, lavoro e famiglia. E tanto più vorrebbe comunicare positività e determinazione, quanto più i suoi autoproclami suonano al mio orecchio (affollato di ingorghi irrisolti e sacrosante inquietudini) come il disperato bisogno di parlare non di se stesso ma

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a se stesso. E mentre Rosamaria tenta di controbattere al suo adorabile egotismo oltranzista, io mi abbandono sul lettino a un lieve e piacevolissimo torpore.

9 novembre, ore 17:20 Sono giorni mesti di operoso accudimento. Il nostro meticcio che è con noi da quasi diciassette anni è vistosamente peggiorato: non riesce più a deambulare, ha difficoltà a deglutire e non è in grado più di alimentarsi autonomamente. Mi sembra di assistere una creatura sovrumana: una sfinge. Si lascia accudire con rassegnata e dignitosa postura, abbandonato a una commovente fiducia in ogni nostro gesto o iniziativa nei suoi riguardi. Così, mentre lo nutriamo con un sondino per alimenti o provvediamo alla sua igiene, dalle sue pupille già da tempo offuscate giunge un languidissimo sguardo colmo di gratitudine. Oggi, in cui non c’è talk show o tg che non parli delle celebrazioni per i trent’anni dalla caduta del muro di Berlino; oggi, nel giorno del mio quarantacinquesimo compleanno, il nostro solo pensiero è quello di preservarlo nella sua dignità di essere vivente.

10 novembre, ore 23:21 A chi si ammazza costruendo castelli di parole e grandi ragionamenti sul calcio, a chi s’improvvisa esperto di tattica e moduli calcistici (e magari in vita sua non ha mai tirato un calcio a un pallone), a chi si affanna a inseguire idee ricevute e fedi comunque da portare innanzi ho sempre preferito l’etica “protestante” del podista che si affida solo alla sua tenacia e decide deliberatamente di pensare un po’ più con i piedi. Ragionavo così stamane durante la domenicale sgambata con gli amici dell’associazione d’atletica di cui faccio, alquanto

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immeritatamente, parte. Fuori forma e in leggero affanno per qualche chilometro in più del solito da percorrere, stamane, a turno, alcuni compagni si sono staccati dal gruppo per raggiungermi in coda e fare qualche metro al mio fianco incitandomi – «Animo! Animo!» – perché continuassi a sostenere il loro passo e portassi a termine l’allenamento previsto. Mi è bastato questo per avere una volta di più la conferma di come la corsa – a differenza del calcio – abbatta ogni diaframma tra discorso e gesto, per cui la cronaca non può mai divergere dal dato, mai diventare discorso alla seconda che surroga e oblitera l’atto sportivo. È cultura cinetica, è etica in movimento: e penso che valga soprattutto per la corsa quanto Paolo Volponi andava scrivendo in generale sullo «sport attivo», da intendere come la sola forma di educazione e partecipazione a una cultura.

11 novembre, ore 00:01 Irrimediabilmente ossessionato dall’inseguire le tracce dell’Aviatore (e di tutti gli involati), grazie alla lettura dell’Autoritratto di Goffredo Petrassi restituito dalla penna di Carla Vasio, m’imbatto in uno dei pochi esperimenti operistici del grande vecchio del Novecento musicale italiano, Morte dell’aria. L’atto unico in musica ripercorre il tentativo tragicamente fallito del lancio, indossando una sorta di vestito-paracadute, di un eroico inventore dalla Tour Eiffel, nei primi anni del Novecento, e di cui rimane un agghiacciante documento filmato. Fu questo episodio a ispirare il libretto di Toti Scialoja che nella nota di accompagnamento definisce la vicenda una «favola tragica», una storia di fedeltà esistenziale alla propria natura: un amore ostinato e fedele, dico, verso cose che non sono (un ostinato vivere altrove). Corro ad ascoltare l’opera che si dispiega come un fitto intreccio di voci e di commenti sulla folle impresa di un esaltato, colui che, per i cronisti, è uno

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squilibrato, un suicida «destinato a sicura morte». Centrale, nella scrittura musicale di Petrassi, il ruolo del piccolo coro femminile – pensato in esplicito contrappunto delle voci maschili dei personaggi – fuori scena. Che vede nell’inventore un uomo che è uomo come gli altri, e perciò a cui strappare di dosso quei panni di «presuntuosa follia». E dinanzi alle parole di esaltazione dell’osservatore («darete agli uomini il dono dell’aria») e del questore il coro ribatte che esse, le belle parole, «non salvano dall’aria», non proteggono, giacché sono «mortali quanto l’aria». L’aria e la morte si assomigliano e qui – in questo curioso atto unico che è un gesto di sfiducia verso l’anacronismo che rappresenta per Petrassi l’opera di teatro – possiedono la medesima luce. Lo stesso inventore per ben tre volte esita, è incredulo nella riuscita del volo, sospinto dall’unica certezza di «serbare la propria fede, morire di fedeltà». Mentre ascolto il passaggio culminante del soliloquio dell’inventore prima del lancio, realizzo come Petrassi abbia messo in musica la sovrastorica scoperta della solitudine, qui magnificamente tradotta nel gesto di un’esperienza di volo destinata sin dal principio a fallire. Quello stesso Petrassi che nell’Autoritratto confessa di aver sempre sentito la fatica di vivere, il crudele assedio della solitudine come crisi e soluzione insieme, nella vita. Penso all’Aviatore, perché è alla ricerca delle sue orme che ancora mi muovo, e mi pare di capire, trovare giustificazione a quel suo morire già in vita, quel «vivere altrove» (che non ammetteva deroga alcuna) come atto di estrema fedeltà; quel credo senza speranza in una salvezza invisibile. Per quanto la pietà non basti – vuota, come è vuota l’aria, conclude il coro femminile, a chiosare il dramma preannunciato e consumato –, ancora un fiore per la vitale dipartita di tutti quegli uomini che decidono di morire di fedeltà a se stessi.

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12 novembre, ore 17:26 Dopo l’agnizione di ieri favorita dall’ascolto di Morte dell’aria di Petrassi, non riesco a non pensare ad alcune pagine dell’Antropologia cristiana di Romano Guardini (che andavo leggendo, del tutto disorientato, nei giorni di passione dell’Aviatore) sul dramma assurdo e folle della fede come qualcosa di mobile, in perenne divenire, sempre in pericolo: «Io credo, ma tu aiuta la mia incredulità!» (Mc 9,24). Ecco: l’inventore di Scialoja-Petrassi riporta anche al mito moderno di questa potenzialità a perdere, tanto inconcepibile quanto irrinunciabile, del richiamo dell’ignoto.

13 novembre, ore 23:22 Ho appena finito di rispondere a un’inchiesta sulla critica (e la sua funzione oggi) e sul romanzo: ho iniziato dicendo che parlare di critica equivale a parlare di autobiografia intellettuale, racconto critico. Ho inoltre detto del paradosso sovversivo della necessaria disposizione sabotatrice del critico. Ancora: ho avuto modo di accennare al rimosso problema della “voce” in letteratura e del desolante panorama letterario che fa dello storytelling e di un monocorde traduttese i due idoli da venerare per ogni aspirante scrittore. Ho esaltato – chiamando in causa il bel libro di Fabrizio, dedicato alla pittura di Francis Bacon – il valore incendiario della “deformazione”, in arte come in letteratura, del dato reale, del riferimento concreto, in nome di una trasfigurazione che si ponga come epitome della verità (non importa quanto personale) inseguita dall’artista, dallo scrittore. Ho concluso che sì, il romanzo è vivo, ma straordinariamente più viva che mai è la scrittura saggistica o talune forme ibride di scrittura. In definitiva, oggi è la critica a farsi romanzo, laddove autobiografia e detection critica procedono parallele e si tengono insieme. A corollario di quanto

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detto, e per evitare qualsiasi equivoco a riguardo, è necessario aggiungere che la critica non è mai innocente, non è naïveté, impressionismo…

14 novembre, ore 16:15 Sui social la specie peggiore dei poeti (ancor più degli illusi poetucoli domenicali) sono quelli per i quali l’esercizio critico appare un inutile spreco, giacché soggetti a qualsivoglia elucubrazione, in un’azzerante amplificazione di senso per cui tutto può voler dire tutto, fagocitato nel fondo indistinto da cui ogni loro verso discende. Quali poeti? A scelta, fate voi, trovateli da soli. Indagare il prosaico, l’attimo normale e rivelatore della vita, trasfigurarlo in immagini, non va più bene: bisogna mutare ogni cosa in concetto – materiale o metafisico, poco importa; concetto che sfibra altri concetti, filosofemi truccati da versi perentori, ultimativi, “veri”.

15 novembre, ore 19:47 Oggi mi giunge inattesa una cartolina «bruttina» da Tenerife, Canarie. A scrivere è Porgy, che trova il pretesto per compiere l’ennesimo gesto demodé e fuori tempo massimo (spedire una cartolina al tempo di internet è un vezzo che solo in pochi si concedono). Il testo fluente, aggirante, è tutto centrato sull’avviso di custodirla gelosamente per accarezzare, magari tra quarant’anni, l’emozione di rivederla insieme. Predestinata dallo scrivente a reperto museale già nell’atto stesso in cui la verga, il breve testo di accompagnamento alla cartolina che ritrae alcuni siti naturali d’interesse dell’isola, insiste perciò (con lieve accenno di compiaciuta ironia) sulla eccezionalità della cosa. Amico di vecchia data, il nostro legame rimonta

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alla mia adolescenza – più grande di me di un po’ di anni –, Porgy è una persona tanto sui generis quanto sensibile. (Ricordo ancora che non riuscì a partecipare alle esequie funebri di Basilisca: me lo confessò con il groppo in gola e le lacrime agli occhi, quando era trascorso già più di un anno dalla sua dipartita). Entrambi innamorati della fotografia, era una gioia condividere insieme il miracolo stregonesco della camera oscura o la magia di andare in giro per i paesi dei Nebrodi con il banco ottico in spalla e le lastre fotografiche, novelli Ansel Adams. E che dire di quelle invenzioni-battute, tanto inutili quanto geniali, in cui si divertiva ad applicarsi, come l’oramai mitico “orologio di cartone subacqueo”. Niente a che vedere con il Porgy gershwiniano, il nomignolo deriva dalla storpiatura americanizzata del suo cognome con cui, io e mio fratello Ulisse, suo coetaneo, abbiamo preso per gioco, e con suo compiacimento, ad appellarlo. Passati da poco i cinquanta, sempre in spasmodica attesa di capire cosa farà da grande, il suo ultimo progetto di fuga dalla famiglia e da se stesso è quello di introdurre nelle Canarie specialità siciliane doc come il gelato artigianale e la granita; allo scopo ha pure conseguito un diploma di mastro gelataio e ha compiuto un breve periodo di apprendistato in un bar di Capo d’Orlando. Eccitatissimo per la nuova avventura, di tanto in tanto, m’invia scatti, accompagnati da messaggi rigorosamente scritti in español, che lo ritraggono attorniato da ragazzi molto più giovani con i quali ha fraternizzato, confessando di sentirsi un venticinquenne in Erasmus. La cura per l’autoguarigione è da sempre la stessa: la fuga. Ma, lo insegna Lavoisier, in chimica come nella vita, nulla si crea e nulla si distrugge; tutto si trasforma. E credendo nell’utopia di orientare il baricentro del suo quotidiano verso il perpetuo abbrivio di tanta agognata trasformazione, Porgy non trova pace. Che abbia ragione lui?

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16 novembre, ore 19:12 Mentre scrivo un articolo su Storia di un burattino del 1881 di Collodi che penso di destinare a «Succedeoggi» del generoso Nicola Fano, da cui ho la fortuna di nutrire incondizionata fiducia (al punto che, di mio, pubblicherebbe perfino la lista della spesa), realizzo che questa novella del proto-Pinocchio è uno dei libri più neri in assoluto (non solo dell’Ottocento italiano). Nei quindici sincopati capitoletti assistiamo a una totale negazione della fiaba e di ogni plausibile edificante morale. No, non parlo solo della tragica fine che in origine spetta al burattino, ma del clima generale che avvolge l’intera storia, per il suo assomigliare a un ineludibile viaggio entro una realtà cupa e angosciosa, qui ben sottolineata, nella bella edizione di cui ho ricevuto in anticipo copia staffetta, dalle tavole di un giovane e talentuoso illustratore, Simone Stuto, che raffigura il primo incontro tra Pinocchio e il Grillo-parlante come quello tra uno zombie e una creatura la cui saggezza sembra essere frutto di una inquietante metamorfosi, simile a quella che toccherà al Gregor Samsa di Kafka. Nota dominante del libro è infatti quella ossessione mortuaria che Collodi sceglie di porre con insistenza dinanzi agli occhi del lettore, non per puro vezzo di scandalizzare, ma per rammentarci come la verità provenga sempre dal mondo dei morti. Leggo in sequenza i due notturni che, in qualche modo, fanno da cerniera all’originario nucleo del romanzo, per trovare evidente conferma di ciò: tanto durante la «nottataccia d’inferno» trascorsa da Pinocchio in preda alla fame in cui ai suoi occhi la realtà gli si palesa come «il paese dei morti», quanto nei capitoletti finali, col tentativo di Pinocchio di raggiungere i due compari al Campo dei Miracoli per finire invece vittima di un inseguimento che gli riuscirà fatale, il paesaggio è «tutto buio e deserto», a trasfondere una percezione cimiteriale della realtà. C’è poi un’immagine precisa che rimane indelebile di questo Pinocchio Uno, cifra della sua carica enigmatica, di quel fasci-

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no oscuro e, per paradosso, insieme luminoso: quella «casina bianca come la neve» in mezzo al nulla, in cui abita la bambina dai capelli turchini e il viso di cera che laconica risponde al burattino che «sono tutti morti» (lei compresa); luogo che diviene, per l’inseguitore divenuto fuggiasco, intravisto approdo di salvezza e porta che conduce a un misterioso altrove. Non riesco a immaginare un finale più coerente di questo febbrile andare incontro al proprio destino, per una storia pregna di una costitutiva ambiguità. Su Pinocchio si è scritto (e riscritto) tanto, ma qual è, dunque, la vera natura di questo personaggio? Che nessuna conversione etica è possibile, come accadrà invece con la palinodia narrativa delle Avventure, lo troviamo prefigurato nell’irruzione di Pinocchio nel teatro dei burattini di Mangiafuoco: cessazione di ogni sollazzo, brusca cesura del normale svolgimento della commedia; mefistofelico sabotaggio di ogni qualsivoglia intento edificante.

17 novembre, ore 21:13 È proprio vero: i social sono il più grande termometro di un livellamento per cui come tutti s’improvvisano oggigiorno poeti, allo stesso modo tutti assurgono a critici e recensori. Dimmi che critica fai e ti dirò chi sei: promoter, rivistaio, esteta, filosofo, storico, sociologo, scienziato… Per me il vero critico è colui che vede triplicare e coincidere la sua identità: nasce lettore, diventa scrittore e, quando vi riesce, si fa critico. Ricordo che in un articolo di qualche anno fa, non so più dove, riprendendo Sturgeon, Filippo La Porta scriveva: «Ogni cosa al 90% è pattume». Verità comune del resto, giacché spesso tra la critica esclamativa e quella intrisa di sofisticheria libresca e misticismo a tanto al chilo non corre differenza alcuna. Nel migliore dei casi le argomentazioni nascono dalle idiosincrasie, sono figlie delle impressioni; senza tuttavia trovare riscontro e

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direi “codificazione” nel serrato e chiaro dipanarsi di un pensiero sempre e comunque soggettivo. Ci sono critici (anche tra i più giovani) che rimangono illeggibili nonostante i loro castelli discorsivi costruiti ad arte, con mattoni tanto pesanti quanto vacui, forse perché, per dirla con Emerson, hanno poca «fiducia in se stessi». O forse meglio, in ossequio a una illuminata disposizione ecologica, basterebbe soltanto leggere molto per scrivere pochissimo. Auspicare ancora, peraltro invocato da più parti, il ritorno a un «metodo condiviso della critica» mi sembra francamente un modo vecchio di affrontare il problema: tutti i tentativi in tal senso, alla lunga, hanno dimostrato la loro inadeguatezza. La critica rimane per me un fatto di soggettiva assunzione di responsabilità intellettuale, fiducioso equilibristico destreggiarsi tra fervore e analisi: è ciò che fa del critico quel particolare tipo di scrittore; senza questa presupposizione esso si pone come altro da sé. Nemmeno mi convince chi si attarda a parlare di «tirannia ideologica» della critica. A resistere è piuttosto una certa sudditanza degli addetti ai lavori verso un discorso che si vuole, necessariamente, storico e sociologico, quando non tematico. E cos’è la scrittura critica se non quell’atto di fede protestante che, nell’operare di una sorta di selezione naturale, d’inevitabile gerarchizzazione di valori, si pone come utopica tensione a interloquire con un proprio pubblico di riferimento?

18 novembre, ore 19:44 «Il futuro può sempre portare con sé nuove rivalutazioni», «la storia non è mai qualcosa di consolidato, e perciò non è mai finita» – m’imbatto in questa, che dovrebbe essere una considerazione ovvia, compulsando La musica del Novecento di Paul Griffiths, in cerca di schiarimenti su quell’universo che amo (ed ho sempre amato), epperò da perfetto dilettante. E penso

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che ciò sia vero non solo per la musica ma anche per la poesia. Quando giungerà, che so, il momento di rivalutare un formidabile genio poetico come Lucio Piccolo, relegato a minore sui generis, la cui vicenda è nota per la macchiettistica rivalità di cui tanto si è parlato con il celebre e blasonato cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa? Quando tornerà accessibile il corpus di un’opera non vastissima ma sublime e che non viene più pubblicata da anni a fronte del profluvio dei tanti supposti classici e mostri sacri celebrati già in vita? Quando, soprattutto, si finirà di trattarlo alla stregua di figurina caricaturale di se stesso, relegato nel racconto della singolarità di superficie, sua e dei suoi fratelli (Casimiro e Agata)? Quando si comprenderà che nel teatro naturale e metafisico di Villa Vina è vissuto un poeta che, nella dorata soledad di quel luogo, ha pur saputo esprimere il fiore di una poesia a torto ritenuta difficile, ma al contrario cesellata con grande maestria, barocca e visionaria, frutto di uno degli uomini più colti del Novecento italiano?

19 novembre, ore 21:14 Perché ci addestrano alla preghiera, fin da bambini, come strumento, mero fine per ottenere qualcosa? Perché, dico, associare ad essa un fine pragmatico che ne vanifichi la potenza? Per me la preghiera è sempre stata una porta, un soliloquio proiettato verso l’ignoto; l’anima che, sola, si protende verso qualcosa di più grande cui agogna appartenere. Mi pare che già Sant’Agostino stigmatizzasse la pratica di una preghiera utilitaristica e indirizzata a un fine personale. Io ho sempre guardato alla lezione di R.W. Emerson che in essa rintracciava l’unità tra natura e coscienza, scorgendola in ogni atto: preghiera è quella del contadino; preghiera è quella del barcaiolo; preghiera è quella del podista; preghiera, aggiungo io, è quella del critico «innalzata per scopi di poco conto».

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20 novembre, ore 02:11 La delusione è il sentimento che più avverto ogni qualvolta mi accosto a scrittori che vengono presentati come nuovi e la cui lettura viene considerata come imprescindibile, assolutamente da non perdere. Quando poi il problema è sempre lo stesso: la totale assenza di una voce riconoscibile e autentica. Basta con gli azzimi della narrativa italiana e straniera, basta con la sciatteria promossa a tratto distintivo e a vanto giustificato di una totale assenza di stile. Senza stile non c’è romanzo, non c’è storia che tenga. Non c’è letteratura! Risparmiateci i libri di denuncia, l’italiano liquido all’uopo rimesso a posto dagli editori di turno (i certosini custodi dei palinsesti più vieti). Risparmiateci le carte elementari del vostro dissesto, i vostri privati fallimenti e sforzatevi di scrivere almeno un libro ogni tre anni.

21 novembre, ore 00:06 Oggi sono uscito per svolgere uno dei consueti allenamenti settimanali di corsa. Stanco, le gambe imballate, la mente affollata dalle solite stupide preoccupazioni. Eppure, percorsi alcuni chilometri, ho percepito una chiara sensazione di “fluidità” che non riuscivo a provare davvero da tanto tempo. Correre per correre. Sentirsi dentro il gesto della corsa, essere quel gesto, non distinguersi da esso, abbandonare ogni soggezione o preoccupazione di sorta; essere quel dinamismo pensante e presente. Solo respiro e gambe, gambe e respiro. L’infinita meraviglia e la gioia di compiere una falcata dopo l’altra – seme e frutto insieme.

22 novembre, ore 15:13 Da quando, da adulto, ho avuto i miei primi morti ho cominciato a capire come la morte sia un fenomeno che riguarda

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non soltanto chi se ne va, ma anche e soprattutto chi rimane. La morte, per parafrasare il Faulkner di Mentre morivo, non è di chi muore, ma di chi quel lutto subisce. Mi pare assai eloquente l’immagine ancora usata da Faulkner per descriverla: «non è altro che un affittuario o una famiglia che se ne va da un appartamento o da una città». Né fine, né principio – la morte è in questo trasloco di sostanza che, tanto per chi va quanto per chi resta, squarcia un orizzonte metafisico di impensate tangenze, pericolose ascese, contiguità da scrutare di sottecchi. E così accade che Basilisca mi segua ancora, mentre corro, sul litorale bianco o che l’Aviatore plani, non visto, tra i palazzi dei miei schianti e delle mie ansie.

23 novembre, ore 17:21 Sono diversi mesi ormai che persevero nell’abitudine di raccogliere queste mie note, che non sono né un romanzo, né una pura e semplice narrazione. Delle prose? Può darsi. Comunque una materia scritta, autobiografia di pensiero che persegue l’utopia di provarsi a restituire, per dirla con Boine, quella «compresenza di cose diverse nella brevità dell’attimo» che da sempre mi affascina; ciò che, in letteratura, più m’interessa.

24 novembre, ore 20:28 Sui social capita anche questo: che si passi al microscopio la prosa di un articolo, si pretenda di sciogliere il senso di ogni parola. E che ad applicarsi con insospettabile zelo siano addirittura il filologo Gualazzi e il linguista Orione, peraltro con tanto di prelievi testuali. E, ancora, che ciò avvenga in nome, aspetto più sintomatico della vicenda, di un supposto criterio di “leggibilità” (cui entrambi unanimi si appellano). Critica alla critica, critica alla lingua, critica allo stile. Cianciano, gli

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stimatissimi sacerdoti della lingua, autori a tutto campo – di manuali, saggi, poesie, romanzi –, cianciano fino allo spasimo, notomizzatori, squartatori della parola, grammatologi d’accatto, nel triste teatrino dell’unica costante della storia: la stupidità. «L’intelligenza ha i suoi limiti, ma la stupidità è illimitata», scriveva Pontiggia in una delle sue tante prove di lucidità contenute in Il giardino delle Esperidi, rammentando a se stesso e al lettore come l’incontro con essa sia iscritto nel destino di ciascuno; come difendersi da essa sia questione di sopravvivenza; come non giovi talvolta nemmeno l’ironia a sferzarla, data l’incommensurabile vastità a cui forse potrebbe fare da illustrativo simbolo solo la celebre siepe dell’Infinito leopardiano.

25 novembre, ore 21:01 Quanti di voi conoscono Odd Nerdrum, pittore svedese di Helsingborg, naturalizzato norvegese, ma che risiede in Islanda da diversi anni? Fino a qualche ora fa questa singolare e controversa figura dell’arte contemporanea mi era del tutto ignota; e tale sarebbe rimasta probabilmente per sempre se non mi fossi imbattuto in Twilight, un suo curioso dipinto del 1984 che, con insospettato nitore comunicativo, ha risvegliato la mia antica ossessione di cercare immagini che fungano da discorso visivo intorno alla critica (e ai suoi limiti). Fautore di un’arte che ripudia ogni irruzione dell’ironia e della parodia nel dettato figurativo, Nerdrum si è affrettato ad autoproclamarsi padre di quel kitsch contemporaneo che in un suo saggio Hermann Broch descrisse come il male assoluto (la menzogna necessaria all’uomo: che lo vive, lo produce, lo incarna), al contrario in esso riconoscendo la roccaforte più idonea al suo sentirsi anacronistico e festosamente fuori dal coro. In totale controtendenza, già a partire dagli anni Sessanta, Nerdrum si fece fautore del ritorno alla lezione di pittori come Tiziano,

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Caravaggio, Goya e soprattutto Rembrandt. Con la sua pittura, producendo una sorta di carnale sovramondo romantico, punta dritto alla poesia. Kitsch, per lo stravagante Nerdrum (ama presentarsi abbigliato con un’ampia tunica bianca), è ciò che si autodefinisce in contrapposizione al cosiddetto “contemporaneo”; ciò che è frutto della Téchne (aristotelicamente intesa). Intestandosi la battaglia contro l’establishment dell’arte contemporanea, denunciandone l’angusto orizzonte, Nerdrum mostra nelle sue tele di prediligere la dimensione dell’eterno e di un’arte come religione, di cui peraltro si autoprofessa sommo sacerdote. Senza ancora nulla conoscere della sua storia, la visione sul diario social di un mio contatto di Twilight mi è sembrato il suo più eloquente biglietto da visita, specie per le implicazioni che nella mia appropriazione ha, con fulminea evidenza, suggerito. Al crepuscolo, in un fitto bosco di alberi spogli, prima di addentrarsi ancora, una donna, accovacciata, di spalle, la mano sinistra appoggiata al suolo, l’altra impegnata a trattenere la veste sollevata fino alla schiena, a scoprire il flessuoso corpo illuminato da una luce radente, è colta nell’atto di defecare. Ecco: in quel gesto tanto naturale quanto ostentato, mi è sembrato di poter cogliere la figurazione più lampante del rischio altissimo, sempre in agguato, di scivolare nella retorica e nel kitsch della vita.

26 novembre, ore 22:23 Da quando Massimo Onofri in La ragione in contumacia ha teorizzato l’idea di critica come «critica della vita», d’una critica insomma capace d’instillare una costruzione di senso nella vita non solo di chi scrive ma anche e soprattutto di chi legge, ripercorrendone la singolarissima genealogia, ad onta di ogni formalismo teorico-accademico, e addirittura individuando una vera e propria costellazione generazionale in tanti nuovi

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interpreti di una simile tendenza, da più parti si è sollevata (e anche dallo stesso Onofri in più occasioni in verità) l’obiezione che essa, da autentica, possa correre sul pericoloso e astratto crinale del tradursi in mera ideologia della letteratura. Su questo rischio mi ha fatto tornare a riflettere il perturbante Crepuscolo dipinto da Nerdrum: penso ai libri di Andrea, Fabrizio, dello stesso Massimo, meravigliosamente di confine, ibridi, di funambolico saggismo, scritti nella consapevolezza della follia estrema di simili scritture; somigliano a quella donna di spalle, epperò colta un attimo prima che compia quell’atto fisiologico e provocatorio. Con analoga consapevolezza, di questo bisogno parlano anche queste mie deiezioni – sottovoce.

27 novembre, ore 19:12 E il dipinto di Nerdrum mi ha riportato all’ambiguità di un testo come Istruzioni per l’uso del lupo, la lettera sulla critica di Emanuele Trevi, ipostasi negli anni Novanta di questa pericolosa deviazione. Dove portava la «scienza lupologica» di Trevi? Forse in quella regione in cui a contare non è la meta ma il cammino, il piacere, misto a paura, della strada da fare. Una sorta di estetica dell’inafferrabile, con la pretesa tuttavia di rincorrere un dettato istintivo a premere direttamente sulle cose, sulla porosa evidenza del mistero. Come dire: una lingua portata dentro l’esistenza che assomiglia a un’irragionevole convinta intuizione. Attrarre il fatto letterario nudo e crudo sotto il microscopio personale dell’esistenza di everyman; fare di quell’intuitivo incedere concreta evidenza derivante dall’interno stesso del discorso. A non convincere, ancora oggi, è l’assimilare l’esperienza del critico-lettore a quella di uno sciamano o di un mistico danzatore sufi; quasi configurandosi come deliberata dismissione d’intelligenza. Ecco, questo oltranzismo è ciò che non tiene nel discorso imbastito da

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Trevi: è questa insidia profondissima a farlo scivolare sul crinale di una contro­retorica kitsch, e che tutto risolve in vacuo e primitivo impressionismo. Recupero dalla biblioteca il libretto lupesco ed apro a caso: «Ho letto Una questione privata in poche ore, steso su un prato bellissimo e immenso che sta dietro quella casa. Nel caldo di luglio, la pianura era priva di colori, immersa in un vapore denso come quello di una pentola di zuppa. Io credo che durante quelle ore qualcosa in me si sia rotto, qualcos’altro sia zampillato fuori. Una specie di illuminazione, forse, ma di quelle che rafforzano in noi nient’altro che il muscolo dell’ignoranza, di quel sapere nero che è il contrario di ogni saggezza. I libri si leggono con la saggezza oppure con il batticuore, non dipende da noi. Io ho letto molti libri con saggezza. Non è una maniera malvagia di spendere il proprio tempo». È questo cedere a una ingenuità da educande, a tratti davvero imbarazzante, che spiazza: altra cosa invece è l’appellarsi al «senso comune» (penso a certe scritture ibride di La Capria), l’essere consci del fatto che il contenuto, la materia, il fascio di sensazioni e situazioni espresse da un romanzo o da un dipinto possano riuscire a intercettare il vissuto del critico e del lettore; lambire il filo rosso che unisce quell’opera, quello scrittore, alla biologia e biografia di ciascuno.

28 novembre, ore 23:03 Stasera, riflettendo su certi anomali rapporti favoriti dai social, in cui a dettar legge è uno spregiudicato opportunismo, mi dico che sarebbe ora di tralasciare le effimere strategie e gli ipocriti tatticismi da “geografia politica”, per dedicarsi a talune verità, relative sì, ma di certo più autentiche, concedersi insomma il sacrosanto lusso della “geografia umana”, dell’amicizia.

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29 novembre, ore 01:59 Quasi le due. Ho chiuso e inviato una recensione alla quale tenevo molto; ho evaso della corrispondenza accumulata; ho meglio definito un progetto che mi sta particolarmente a cuore; ho risposto a un invito di collaborazione; ho iniziato la lettura di un nuovo libro… Finalmente una giornata proficua: ne ricevo una piacevolissima sensazione, complice anche la quiete notturna, di vero benessere e di pace.

30 novembre, ore 20:50 Per reazione forse all’imperativo dell’impegno, da sempre ho amato i libri che, con sapiente calcolo e in barba a tutte le poetiche codificate, mandano a puttane ogni pretesa di realismo, peraltro in nome di una rivendicata salvifica inutilità della letteratura. Il problema del realismo: il tallone d’Achille della letteratura e, come è stato per diverso tempo in passato, anche di certa critica tardivamente ideologica.

1° dicembre, ore 22:51 Oggi è giorno di lutto. Dopo quasi diciassette anni di innamorata fedeltà, Paco, il nostro meticcio fulvo e miele ci ha dovuto lasciare. Inutile dire che per me e Rosamaria il senso di vuoto è doppio, incolmabile la mancanza. Dopo averlo accompagnato nelle ultime settimane, attanagliati dal rovello del suo trasformarsi in effigie stessa della sofferenza, dopo aver dovuto per disperazione prendere la mai finora contemplata decisione di farlo dolcemente addormentare, siamo rimasti soli di una solitudine che vede la nostra esigua famiglia dimezzata. Noi: genitori di un irripetibile meticcio, orfani di colpo di tutto un mondo di attenzioni, di preoccupazioni, di riguardi… Nella

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strana atmosfera di irreale vacanza che avvolge il nostro piccolo appartamento, d’improvviso divenuto smisurato per la sua dipartita, io e Rosamaria c’interroghiamo insieme sull’esistenza o meno di un paradiso degli animali: dopo aver detto d’istinto la mia, chiamando in causa qualche passo della Bibbia che possa suffragare una simile ipotesi, mi ricordo del conforto che mi diede la lettura di Pietà verso gli animali di Piero Martinetti. Lo rintraccio rapidamente sugli scaffali e prendo a leggere a voce alta un passo tratto dagli epitaffi dedicati ai suoi cari gatti, riportati in Appendice al volumetto: «Nella perdita amara io ho sentito l’amarezza irreparabile di tutte le perdite, la rivolta disperata ed inutile contro il destino che spegne successivamente intorno a noi tutto ciò che è più intensamente nostro, tutto ciò che è parte di noi. Rassegnati!». Relegato a un passato che non può più raggiungerci qui né tornare, il nostro vecchio caro Paco vive nell’Eliso della memoria, campione di fedeltà e bontà. E come Martinetti, per i suoi gatti, così, piangendo abbracciati, non possiamo non augurarci di ritrovarlo «nel seno di Dio».

2 dicembre, ore 14:32 Ma un padrone può restituire il senso della perdita solo in minima parte. Se è vero che il cane è il solo essere vivente che ha potuto conoscere il suo Dio, la sola creatura innocente che potrà considerarsi senz’altro degna (per natura) del Paradiso, vorrei potergli dire, guardandolo ancora un istante in quegli occhi morenti troppo umani, che il suo Dio oggi è triste per la sua assenza. Quale altro premuroso addestramento, quale cieca e ostinata dedizione potremo mai più conoscere? Vivo di quella bianca rassegnazione a morire ogni giorno di più in tutto ciò che più si ama, e che infine ci induce a pensare che non possa non esserci qualcosa di sbagliato nella nostra vita. Non c’è scienza che tenga, né filosofia: la sua morte ha segnato

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la fine di un’epoca, di una irripetibile amorosa appartenenza. Ora che le sue spoglie finalmente riposano sotto un plurisecolare pino marittimo, di fronte al mare, lo scorgo ancora, agli angoli di casa, a porgere la zampa agli angeli e ai morti.

3 dicembre, ore 19:42 Stasera leggendo l’autoantologia delle Poesie scelte a cui Luigi Di Ruscio lavorò alacremente fino allo stremo, m’imbatto in alcuni versi davvero rivelatori e che, assolutizzando, rovesciando la prospettiva, da politica e storica ad esistenziale, suonano di sconvolgente evidenza: si vive anche col germe dentro di rappresentare «tutti quelli che sono morti» – tutti quelli «che sono stati» e «che verranno». Lo scrivere, quello che lo «spatriato» Di Ruscio chiama la «tragedia della poe­sia», equivale perciò a uno «smascheramento», dismissione di ogni camuffamento dinanzi alla morte. Sola patria è il verso, sono queste pagine, vessillo d’una memoria fragile, queste carte squinternate.

4 dicembre, ore 00:26 Interferenze di un lettore notturno: leggere il politico e apocalittico Di Ruscio, o almeno certe sue cose dal piglio più narrativo che ritrovo nel primo gruppo di poesie selezionate da Le streghe s’arrotano le dentiere del 1966, al pari di certi racconti in versi dall’appartato bardo di Cutusiu, Nino De Vita. Prendiamo il “Pampurio” protagonista della poesia omonima, deriso da tutti e che «tira mattoni spreme il cervello / in insulti che dovrebbero offendere / invece fanno solo ridere», e che in sé compendia, per Di Ruscio, l’esistenza di coloro che avvertono irrimediabilmente «finita tutta la dignità»: come non sentirlo palese fratello (appena d’altra geografia, d’altra latitudine socio-esistenziale) delle tante figure di destino fissate

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dal poeta siciliano nei suoi cùntura? Quadri, istantanee, effigi di vita. Anche in queste schegge di Di Ruscio mi pare vi sia l’intento di salvare un tempo, un luogo, un mondo. Meglio: un popolo (che non fa classe). Per entrambi l’autobiografia è il solo modo noto di ricostruire la mappa d’una memoria collettiva e condivisa: ritratto d’una umanità rosa dal tarlo del lavoro, schiacciata dalla preoccupazione prima della fame e dalla perdita secca d’identità. Sul terreno unanime d’una memoria da edificare, tanto l’apocalittismo politico di Di Ruscio quanto il primitivismo filosofico di De Vita, diversissimi per storia e DNA personale, per via diversa (riposti in soffitta gli umili di manzoniana memoria ed i vinti d’antan) approdano entrambi a rendere l’onore delle armi a quegli ultimi di una contemporaneità disumanizzante.

5 dicembre, ore 19:11 È davvero incredibile quanto trascurabile sia diventata oggi, nel dibattito critico, la questione della voce in letteratura. Torno a rifletterci ancora recuperando una meritoria inchiesta realizzata qualche anno fa da Alberto Sagna per «Momento Sera» che sollecitava a indugiare proprio sul rapporto (di congiuntura o antinomia?) tra gusto estetico della parola e voce nel romanzo. Questione per me centrale, ma al massimo ridotta a mera faccenda di registro o di dettato. Forse il parlare poco della voce, in letteratura, nasce dal percepire questo termine come sinonimo esclusivo di deteriore innamoramento estetico della parola e per la parola. È lo stesso motivo per cui oggi rimane un mezzo tabù tornare ad occuparsi di uno dei nostri (piaccia o no) padri letterari come il tanto vituperato Gabriele D’Annunzio. Spesso ce ne dimentichiamo, ma nel corso di tutto il Novecento, la voce è stata – da Pirandello a D’Annunzio, da Proust a Kafka, da Brecht a Beckett – la chiave per dare senso alla letteratura. E parlare di voce equivale a parlare di

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tono, di cadenza, ossia del complesso di ciò che definisce l’identità di un autore. Qualche esempio? Provate a immaginare quanto improponibile o perlomeno assai diverso suonerebbe un Italo Calvino al netto della sua “leggerezza”, di quell’ostinato «falsetto» letterario (rimproveratogli da Garboli) entro il quale ha voluto con pervicacia occultare il suo io; oppure, pensate a un Vincenzo Consolo che avesse optato, come modello stilistico, per una (per lui del tutto impraticabile) medietà manzoniana, così rinunciando all’archeologia di parola, alla spinta volutamente verticale della sua prosa. Sarebbero, entrambi, tutt’altra razza di autori. Analogo discorso vale anche per gli scrittori degli anni Duemila: pensiamo, per dirne una, a un Emanuele Tonon la cui pagina venisse spogliata dalla scansione poematica e la grazia viva della sua scrittura… ci troveremmo dinnanzi a tutt’altro romanziere, e le sue storie, è probabile, cesserebbero d’interessarci. In tempi in cui non si riesce a evadere dalla vacua e sterile contrapposizione tra stile piano e stile barocco, tornare a interrogarsi seriamente sulla voce è il solo modo che conosca di accostarmi a un’opera.

6 dicembre, ore 20:55 Se si tende a eludere il problema della voce, di contro, la parola d’ordine diffusa – per la nutrita schiera dei rivistai – è: «la storia è tutto». Fatto che ci espone al rischio continuo di una dilagante eguale salmodia di trame declinate in una lingua il più delle volte anonima (da non meno anonime meteore della scrittura). La voce è il paravento dell’autore? Può darsi. Ma ciò non implica una perdita di autenticità. Penso che per la voce degli scrittori valga, in genere, ciò che Josif Brodskij, in Il canto del pendolo, scriveva a proposito dei poeti: «le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono». È la voce a fare la differenza!

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7 dicembre, ore 19:42 Curiose trame discorsive che si tengono insieme, per la sorprendente serendipità che è connaturata a questo quotidiano vagabondare. Non faccio in tempo a chiosare come la letteratura, la poesia siano per me questione di voce, che oggi m’imbatto nel conforto di questa sentenza che H.D. Thoreau inscrive nel suo Journal: «Tra le pagine di un buon libro deve riecheggiare qualcosa di simile ai suoni di un bosco». Si tratta dunque di lasciare il segno attraverso la scrittura. E altrove (sempre compulsando le pagine dei suoi taccuini) Thoreau annota, con laconica asserzione, che la vera poesia trova origine «sotto i piedi del poeta», capace, con il suo peso, d’imprimerla nel terreno. Restituendo l’idea che la scrittura sia qualcosa di concreto e sensibile insieme. Immagine suggestiva, suggerita senz’altro all’autore di Walden dal suo naturale pensare al poeta in sommo grado come a un filosofo che attinge forza e coscienza dallo stare con i piedi ben saldi dentro la vita. È infatti lo scoprire e arrendersi a questa “gravità” a fare, per Thoreau, dell’uomo un saggio. Che poi estremizzi questo suo ragionare, al punto di giungere a considerare le opere d’arte – intere gallerie o gipsoteche – nulla più che semplici combinazioni di colori o meri pezzi di marmo (giacché dell’opera, egli riflette, è importante piuttosto ravvisare in che modo essa abbia trovato forma ed espressione nella realtà vitale dell’artista), è tutt’altra questione.

8 dicembre, ore 10:24 Il tempo d’Avvento è, da sempre, tempo di bilanci e di una puntuale incolmabile nostalgia: di cose perdute, di cose attese, di cose di cui si consuma il senso preciso della perdita, proprio mentre le si sta vivendo. Di cose che furono persone, di persone che furono e sono presenze; di fantasmi con i quali non si perde mai il vizio di dialogare, di convocare, tra gli oggetti

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affollati di un’esistenza scompigliata. Ecco perché mancano (e sempre mancheranno): «Quattro giorni a Natale»! Personaggi di un romanzo tutto mentale, l’Aviatore e Basilisca sono più veri del vero per ciò che ci “costringono” a vivere e per quel come su cui si è puntata tutta la storia di una stirpe, di una ideologia famigliare, di una vita sempre e comunque presa di petto. Anche quest’anno che sia perciò – per Noi, per Voi – un buon tempo di Avvento!

9 dicembre, ore 03:19 Realizzo solo adesso, trascorso più di un lustro da quando l’Aviatore si è involato, come egli abbia saputo dar prova, nel morire, nella sopportazione delle tribolazioni, di quella «pazienza in Dio» di cui parlano i santi. Magari non proprio la gioia, ma l’accettazione ferma: quando il dispiacere di doverci lasciare ha dovuto cedere, per forza di cose, alla certezza di volersene andare. Stanotte, da questo inospitale esilio, penso a quanto mi piacerebbe poter risentire, anche solo al telefono, anche solo una volta, la sua voce di basalto, da arcaico animale; quel tono da cosa eterna, già in vita. È la sua archeologia che è di colpo venuta meno: di questa eredità sottratta non riesco ancora a capacitarmi. Basterebbe riudire una sola volta il suono di quella voce, riacciuffarla… Perciò, tutte le notti, al buio, prima di addormentarmi, tendo l’orecchio e lo chiamo, bisbigliando: «pa’?!».

10 dicembre, ore 20:01 Nessuno mi ha mai chiesto, prima che iniziassi a scriverlo, come fece Emerson con Thoreau, se tenessi un diario. Posso solo dire che ho preso l’abitudine di vergare queste pagine come una cosa da fare, un gioioso parlare a me stesso. Puro

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egotismo? Forse. Eppure, non è uno scrivere in privato, semmai un delirio in pubblico. Un modo – peraltro il solo che conosca – di provare anch’io a ricordare, tenere insieme tanto l’eternità che mi precede quanto quella che seguirà.

11 dicembre, ore 18:51 Anche in Thoreau, ma la cosa non mi sorprende, è radicato il pregiudizio di preferire uno stile semplice a un’espressività più esuberante, che egli definisce «barocca»; convinto com’è che la vera esuberanza coincida proprio con la semplicità. Perché questo rifiuto di una parola “complicata”, vibrante, capace di essere sì scarna, ma anche tortuosa? Come non convincersi dico che, talvolta, il dover superare apparenti barriere di difficoltà sia un modo assai più preferibile di inoltrarsi nel discorso, tanto per chi scrive quanto per chi legge? Ancora: se la letteratura, per Thoreau, non è che un’«esagerazione» – verità raccontata principiando da altri parametri, sovente riducendosi a mera enfasi –, come non pensare – mi viene di aggiungere – che, senza la forza di quell’amplificazione, senza il megafono dello stile, la letteratura sarebbe altro da sé?… La voce non come orpello, bensì come strumento di conoscenza: per dirla con l’amato Biamonti, un modo per «sceverare le cose».

12 dicembre, ore 22:46 Assorbito anche stasera dalle pagine del centripeto Journal di Henry David Thoreau, in cui la natura volta le spalle alla cultura, e la cultura, sottilmente, con i suoi tranelli, nel rovescio della pagina, crea falle, è sempre pronta a prendersi una silenziosa rivincita sullo spontaneismo vitalistico del bardo di Concord, rifletto, di rimando, sul magistero del poeta: se il poeta, il filosofo (o, semplificando al massimo, chi vive di scrittura) è

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colui che sa pensare e agire, stare seduto e camminare, allora come non ritenere lo scrivere una pratica che debba doverosamente sottrarsi, non dico alla sintesi, ma quanto meno alla stasi di una presunta facilità? E, qualche pagina oltre, rintraccio la conseguenza estrema di una simile immediatezza riconosciuta alla sfera della poesia e dell’arte in generale, ossia la convinzione che dinanzi alla «vera poesia» il critico debba «rimanere ammutolito e appagato», come di fronte «a una ghianda o a un rampicante»: ecco, nel postulare questa barriera naturale dell’incantamento che nega ogni possibilità di discorso risiede tutta la fallacia di una simile visione; quando, al contrario, la critica trova margine d’esistenza proprio nella profanazione di questa tentazione afasica di abbandonarsi alla magia del “nondetto”, razionale incedere verso un ribaltamento, l’argomentare per ricondurre lo stupore entro i limiti soggettivi di una pur liquida dicibilità, giacché la scommessa più ardua della ricerca della verità (e della filosofia) non può non principiare dal desiderio di spiegare, dalla forza del commento.

13 dicembre, ore 17:00 Mentre si dedica a sbloccare le articolazioni delle mie caviglie, Silvio, il fisioterapista, mi dice che è a caccia, da tempo, della prima edizione del Birraio di Preston di Andrea Camilleri, autore di cui si rivela grande estimatore, oltre che collezionista seriale di prime edizioni delle sue opere. Mi sovviene che potrei possedere quella prima edizione e gli prometto con piacere di omaggiargliela, sempre che la memoria non m’inganni… Provo a spiegargli perché Camilleri non sia mai stato un mio scrittore; di come, anche al netto del personaggio e dei romanzi che hanno fatto la fortuna sua e della Sellerio, non abbia mai digerito quella lingua inventata che è il suo marchio di fabbrica, e insieme quanto di più possa disturbarmi. Dopo

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avergli raccontato di come Camilleri diventò Camilleri, del mio ricordo vago di una recensione uscita negli States che suonò la carica all’improvvisa affezione di una critica italiana fino ad allora del tutto silenziosa sul caso Camilleri (ma da quel momento pronta a festeggiare puntualmente ogni nuova uscita), penso a come anche il grande vecchio Camilleri, in apparenza sicilianissimo, per quel suo lego letterario che non si perita di assemblare insieme Verga e Pirandello, Sciascia e Consolo, arriva al successo proprio con il Birraio che ha il suo ipotesto d’elezione in Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, in nome di un postmoderno al cubo che gioca il gioco di mescolare, non di rado con intento mimetico-parodico, alto e basso, dal pantheon dei grandi siciliani fino all’immaginario pop dei fumetti, e penso alla citazione del celebre incipit del romanzo di Snoopy che finisco per citare come un mantra ad alta voce, mentre mi trovo disteso sul lettino: «Era una notte buia e tempestosa».

14 dicembre, ore 17:51 C’è un momento dell’anno che io e i miei compagni di viaggio e di lavoro aspettiamo con particolare trepidazione: l’arrivo della prima neve. E ciò c’induce a trasformarci in piccoli esperti del meteo, ciascuno col suo credo, ciascuno con la propria teoria “sul tempo che farà” da dimostrare. A colpire è l’estrema variabilità, per cui da un innaturale caldo decisamente fuori stagione, capita non di rado di piombare, nel giro di poche ore, a temperature inferiori allo zero. Così come è accaduto stamane in cui, dopo settimane di sole e giornate dal cielo velato da un tardivo scirocco, è finalmente giunta la prima abbondante nevicata. Già luogo di astrazione dal reale, per quella cortina d’isolamento in cui t’avvolge, il bosco di Caronia, coi rami che s’inarcano per il peso della neve, la strada che inevitabilmente

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si restringe a due sole scie di transito, a meno che, provvidenziali, non giungano gli spazzaneve a fare da apripista, diventa un lenzuolo bianco refrattario ad ogni imperio del tempo. Le dominanti cromatiche che caratterizzano il bosco per diversi mesi dell’anno – dal prevalente verde primaverile, al grigio inessenziale dei mesi autunnali – lasciano il posto a una distesa bianca, un fondale da cui tutto si staglia stilizzato, ridotto all’essenziale, come in un dipinto di Hokusai. Così chi guida sperimenta una sensazione di vigile distrazione in cui ciò che importa non è arrivare a destinazione, ma proprio questo bianco essere nel transito. Dopo verrà l’arrivo di corsa in classe, il tempo di un fugace caffè, i consueti siparietti con i collaboratori scolastici o con lo sparuto numero di intrepidi alunni che hanno deciso lo stesso di essere presenti… Risorge per un attimo la voglia tutta nuova di essere comunità, lontano dalle ansie e dalle private frustrazioni, a vincere quella sottile sensazione di buttare via il tempo che spesso mi assale, al lavoro.

15 dicembre, ore 18:08 Sono trascorse due settimane da quando in casa nostra è piombato un silenzio e un vuoto a cui non eravamo affatto abituati. Due settimane che hanno segnato un cambio di paradigma esistenziale per me e Rosamaria, dacché Paco non c’è più – orfani anche di quella benedetta ossessione di prendersi cura di lui, mettere le cose al loro posto, quel doverlo di continuo rassicurare, specie nei giorni ultimi, quando, nell’accudirlo, abbiamo condiviso la comune paura animale (che ci ha, indissolubilmente, uniti) di non voler morire in solitudine. Di lui ora mi resta addosso quel suo sguardo opaco di estrema gratitudine e il bacio freddo sulla testa, un attimo dopo essersi addormentato.

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16 dicembre, ore 01:19 Leggo oramai Io cammino da solo, la selezione di pagine tratte dal Journal (1837-1861) di Henry David Thoreau, magnificamente tradotte da Mauro Maraschi, con l’intento quasi cannibale di contrappuntare le sue verità sull’atto dello scrivere e sull’essenza stessa della poesia (della letteratura). Lo scrittore di Concord, anche quando sembra guadare il fiume dello spontaneismo e dell’essenzialismo, laddove considera sempre un errore «parlare di qualsiasi argomento con leggerezza o superficialità», svicola poi concludendo con quella che alle mie orecchie suona più che come un’ambiguità, come una vera e propria palinodia: «Nello stile il contenuto dev’essere tutto, la forma niente». Ma più ancora, l’entrare in contatto con l’universo argomentativo e spirituale di Thoreau, con la sua figurina oltremodo citabile e “spendibile”, autore di un libro tanto osannato quanto poco letto (Updike) come Walden, mi riporta indietro ai miei primi incontri con il Signor Rino B., al tenace incanto di certe sue convinzioni, tra oltranzismo taoista e naturalismo contemplativo, soave e tetragono individualismo e caparbio riparo dalla società. Non penso a massime come quella, peraltro abusatissima, che poi confluirà nell’incipit di Disobbedienza civile («il migliore dei governi è quello che governa meno»), ma a quelle che più parlano di una way of life che di tutto prende senza trattenere alcunché: per cui «non bisogna camminare sui talloni della propria esperienza», bensì lasciarsi affascinare dalle cose «senza prenderne nota»; o sprofondare nell’abbagliante certezza che ciò che è misterioso per il bambino tale rimane anche per l’anziano, in nome e per conto di un’amata immutabile imperturbabilità; e che dire del peccato originale di riuscire sempre «saggio nelle piccole cose ed ingenuo in quelle importanti»? Se è vero che il silenzio, al fondo, altro non è che il consapevole ritrovarsi con se stessi – la storia, ogni volta, di un ritorno; se ciò che abbiamo vissuto, anche distrattamente e sommessamente, ha avuto sempre

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e comunque modo di depositarsi in noi; se il corpo e l’anima hanno dunque una memoria naturale e indelebile, allora non è affatto strano che io stanotte, senza saperlo prima di scriverlo, abbia ritrovato, all’incrocio esatto tra le torrenziali pagine del Journal di Thoreau e questa telegrafica mia nota notturna, il ritratto perfetto del Signor Rino B.

17 dicembre, ore 17:22 Non riesco a cancellare dalla mia mente le invettive lanciate dal pulpito da don Emerenzio la scorsa domenica, zelante e giovanissimo sacerdote con nostalgie lefebvriane che non manca mai occasione di usare la lingua come una frusta, atteggiandosi, in nome di Dio, a grande moralizzatore. La sua malafede ha raggiunto un diabolico candore quando, commentando un passo del libro sapienziale del Siracide – in cui si dice che il Signore a nessuno ha mai comandato di essere empio, né ha mai ad alcuno concesso di peccare – ha finito per citare il presunto decalogo sulla manipolazione da parte dei media attribuito anni addietro a Noam Chomsky, chiamando in causa sia la cosiddetta “strategia della gradualità”, ossia l’omeopatica insinuazione dell’inaccettabile nel sistema sociale; sia la non meno perversa volontà di soggiogare il pubblico a uno stato di minorità culturale, instillando, scientemente, nelle masse un’educazione «la più povera e mediocre possibile». A parte che lo stesso Chomsky, per quanto possa somigliare a una verosimile sintesi di talune sue argomentazioni forti, ha più volte smentito la paternità di quello scritto, chiarendo pertanto come si tratti di un fake scritto da altri, ciò che mi ha davvero spiazzato è stato piuttosto l’uso disinvolto e strumentale fattone dal parroco che, riciclando trame discorsive falsamente attribuite al celebre linguista e filosofo, credendo d’innalzarsi, al contrario caracolla, inchinandosi dinanzi a quella mediocrità che vorrebbe combattere (e contro la quale ha inaugurato la

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sua personale e privata crociata), come quando passa in rassegna certi format trash della tv italica. Né si perita, nei suoi salti mortali e ripartenze a tutto campo, di applicare con disinvoltura queste nuove sacrosante leggi a questioni delicatissime come l’aborto, la fedeltà coniugale, l’amore difficile per il prossimo, l’alfa e l’omega della vita e della morte. È avvilente questo fenomeno che potrei definire di parallasse concettuale, per cui un’ideologia pseudocritica viene fagocitata per colpire il lassismo del popolo dei cattolici che scontano, sembrerebbe a suo dire, la colpa incancellabile di essere rimasti uomini (e non santi). Quando il vero dramma sta forse proprio dentro questa frattura originaria tra fede ed etica; questa la voragine di senso che così facendo si manca d’illuminare. Per una mediocre idea di cattolicesimo del tutto avulso da ogni concreto barlume di misericordia. Perché sembra non debba esser mai maturo il tempo affinché si possa finalmente realizzare una Chiesa davvero riformata?

18 dicembre, ore 23:43 Il salone parrocchiale dell’Assunta è gremito di un pubblico scelto e in silenziosa attesa. Io e Rosamaria ci troviamo stasera a Galati Mamertino, il paese natale di nonna Signorina, per assistere alla presentazione pubblica dell’ultima opera di don Alfredo, artista figurativo e dall’ispirazione neoromantica cui mi lega peraltro un’antica conoscenza e una comune origine. La madre, Maricchia, fu infatti amica d’infanzia e compagna di giochi dell’Aviatore, nel rione di San Luca, situato nel cuore del piccolo centro nebroideo. Là dove oggi si trova la noce inviolabile della casa-atelier del pittore, con gli impertinenti davanzali aperti e rotti a frangere l’aria, austera tiritera di pietra materna. Barocco fin nei modi, don Alfredo, i tratti riconoscibilissimi da hidalgo chisciottesco, seicentesco in tutto, la barba lunga da nobile o eremita, impeccabile nel suo comple-

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to gessato, gilet bleu abbottonato, cravatta in tinta unita, camicia rigorosamente bianca, s’avventura in una presentazione non-presentazione in cui indugia sull’ipocrisia di certi cattolici benpensanti e sull’essere divenuto senz’altro il segno della croce il gesto più politicamente scorretto che ci sia; conduce un’appassionata arringa contro i sostenitori dell’aborto, fustiga e sorride, alternando seriosità estrema ed ironia. A luci spente, prima di aprire il sipario dietro cui giace la sua ultima fatica pittorica, ascoltiamo l’Allegro mosso e marcato in sol minore del Nisi dominus di Vivaldi, scelto dall’artista come commento sonoro al momento culminante della serata. Le parole del salmo 126 messe in musica da Vivaldi riempiono la sala: «Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt, qui aedificant eam»; «ecce haereditas Domini, filii: merces, fructus ventris»; «Sicut sagittae in manu potentis, ita filii excussorum»… Cessata la musica, si accende un faretto, si apre il sipario e ci troviamo dinanzi a una imponente Deposizione dai colori accesissimi.

19 dicembre, ore 05:33 Entro una luce crepuscolare di grande effetto, in primo piano, disteso su un lino bianco, il corpo martoriato di Cristo (in posa mantegnesca) imbrattato di gocce vivissime di sangue in ogni parte; sorretto da Maria e con a fianco le altre figure – Maria di Magdala e Maria di Cleofa – che compongono i personaggi dell’iconografia tradizionale di questo soggetto pittorico. Maria, la Madre, la mano sinistra a sorreggere (pietosa) il capo del Figlio, l’altra appoggiata sul costato ancora sanguinante, ha il volto che manifesta un dolore imploso, tanto angosciato quanto amaramente consapevole; il sangue che per metà le macchia il volto sembra alludere a un desiderio estremo di comunione con il Figlio. La Maddalena e le altre pie donne vestono abiti dai panneggi sgargianti – blu di persia, nero, rosso porpora –, a infondere una drammaticità basata, per contrasto, sulla svet-

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tante vivacità cromatica del complesso della scena. A turbare l’equilibrio tradizionale, la presenza di una figura-testimone, l’unica in piedi, di poco discosta, dietro, avvolta in un lungo mantello color rosso veneziano, i capelli bianchi, un ghigno tra l’ebete e il compiaciuto, a contemplare (unico spettatore) la scena principale. Emblema forse del Maligno? Ma a campeggiare, sorta di doppio del corpo del Cristo deturpato, la Croce da cui è appena stato deposto, resa con dovizia di dettagli: tozza e pesante, le chiazze di sangue come garofani esplosi nella zona del capo, dei polsi, del costato e dei piedi; il cartiglio con l’iscrizione «Jesus Nazarenus Rex Judaeorum»; all’estremità del patibolo delle borchie con anelli di ferro, forse giovati a issare il corpo del condannato; il poggiapiedi, divelto, sta in terra, sulla sinistra della scena, dove in primo piano troviamo (adagiati su una pietra) i simboli tangibili, insieme alla croce, del martirio: il casco di spine, i chiodi lunghissimi, il pesante martello. Don Alfredo chiarisce poi come, sulla scorta del racconto offerto dall’evangelista Luca e dagli esiti degli studi sindonici, sia stato guidato dall’intento di ritrarre «scientificamente» i segni concreti di quanto effettivamente patito dal Cristo: l’ematoidrosi, ossia il sudore di sangue dovuto al forte stato d’angoscia cui il Cristo fu sottoposto sin dalle ore appena precedenti alla sua cattura e all’esecuzione della sentenza di morte per crocifissione; il sanguinamento e le numerose ferite dovute alle percosse subite, alla flagellazione, alle cadute durante la pesante e faticosa ascesa al Golgota; ai momenti finali di straziante agonia sulla croce che lo condussero lentamente alla morte per emopericardio, traumatico e irreparabile squasso del cuore. Vinta la tensione del momento, don Alfredo, conclude con un aneddoto personale legato all’intenso periodo di lavorazione al dipinto, quando, dopo ore e ore, perduta quasi la cognizione del tempo, si andava ripetendo di dover dare notizia di sé alla madre anziana (in verità morta da diversi anni), perché non si desse pensiero. Erompendo, il suo ricordo, in un’accorata esortazione rivolta al pubblico: «Lasciate perde-

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re i bambini: abbracciate i vecchi, abbracciate i vostri vecchi genitori! Annusateli…».

20 dicembre, ore 13:17 Sono trascorsi dieci anni oggi. Ma, per un caso astratto che dissolve il tempo, mancano sempre «quattro giorni a Natale». Tu sai, capisci il sottinteso e accenni un tiepido sorriso insieme a me adesso, mia adorata Basilisca, mentre contemplo sul cassettone quella foto in bianco e nero che ti ritrae magnifica, dalla profondità di giorni felici e remotissimi. Accovacciata su un muricciolo a secco di un terrazzo isolano, le gambe incrociate, le braccia appoggiate sulle ginocchia, lo sguardo celato da un paio d’occhiali scuri a guardare oltre, novella sposa dal corpo flessuoso e tonico, mentre ti concedi all’obiettivo. Da dieci anni sei l’inquilina di questa fissità iconica, in cui continuiamo a rispecchiare la nostra coesistenza. Eppure, se riuscissi a recidere quel cordone ombelicale, che collega il corpo della cosa fotografata allo sguardo, di cui parla Barthes in La camera chiara, se, d’un tratto, provassi a voltarmi, penso che, per un istante, ti vedrei sfilare leggera, su questi giorni irrimediabilmente mutati – come le nostre vite. Dovremmo risorgere, già da qui, con i piedi per terra.

21 dicembre, ore 16:34 Trasportato dall’ipnotica cadenza di certe canzoni del The Fairy Queen di Henry Purcell, mi sovviene un dipinto, il solo, in cui io e Basilisca facemmo da modelli per don Alfredo. L’opera s’intitolava La mantide religiosa, ricordo che Alfredo aveva molto insistito perché fosse proprio Lei a prestarsi per dare anima a quell’idea in pittura. Dopo molte resistenze e la rassicurazione che avremmo posato in casa e non in studio, si convinse. Non

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vedo da oltre dieci anni quel dipinto, perciò la mia memoria è un po’ appannata per quanto riguarda le tinte. Ciò che invece nitidamente ricordo è l’essenziale costruzione: Basilisca, ritratta da sottinsù, a figura intera, il corpo ricoperto da un lungo panneggio rosso; ai piedi, io – la preda –, avvolto e rannicchiato, sotto quello stesso lenzuolo. La ritrasse in posa ieratica, il volto quasi magnetico da madonna, più che dolente, fissata entro una giudiziosa severità. Era, in tutto e per tutto, profondamente Lei: altera, noce di bellezza, pietrosa sibilla, cannibale verso coloro i quali amava e la amavano. Solo adesso riesco a comprendere perché Don Alfredo, ogni volta che ancora oggi parla di Lei, a fatica riesce a rattenere una viva commozione; e posso comprendere perché avrebbe desiderato farne il soggetto privilegiato, la Gala di quella sua pittura tenebrosa, barocca e romantica insieme; per quel suo viso prismatico da sfinge dall’espressività bloccata e fuori dal comune. Mentre mi sforzo di riacciuffare altri dettagli sbiaditi di quella spiazzante pala laica, riavverto il peso del suo silenzio, i volontari errori del suo spigoloso amare che l’hanno forse condotta allo stremo, al culmine dell’insopportabile: «If Love’s a Sweet Passion, why does it torment? If a Bitter, oh tell me whence comes my content?» – recita il sublime duetto della canzone d’apertura dell’atto terzo del The Fairy Queen di Purcell. Ecco: Basilisca apparteneva a questa inconciliabilità; continua ad incarnare questo mitologema bino di creatura che dice senza dire, rivela celando: «When in striving to hide, she reveals all her Flame, / And our Eyes tell each other, what neither dares Name».

22 dicembre, ore 18:40 Immenso nel suo egotismo, in perenne ascolto della natura, convinto che il viaggiare il più delle volte equivalga a una sconfitta, chino sulla propria ricerca personale, H.D. Thoreau, col suo Journal, mi pare senz’altro da ascrivere tra i padri fondatori

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della “critica della vita” se precisa, con esemplare nettezza, che «non esiste nulla di simile a un’osservazione obiettiva». Anzi: perché essa risulti interessante è indispensabile che sia soggettiva, attinga a «un po’ di esperienza umana». E chiosa meravigliosamente, assimilando la divisa sacrosanta della soggettività a una passione da “cantare”. Di nuovo: la critica sorella della poesia. E penso alla disumanità di certe scritture, alla supposta scientificità di tanti glaciali referti, ai tanti scienziati che, penna in resta, guardano alla vita con sospetto, inerme quanto quella (sentenzia ancora il bardo di Concord) «di un pluviometro o di un rivelatore meteorologico automatico».

23 dicembre, ore 21:09 Non meno colpisce l’estremismo con cui Thoreau fa i conti con lo scrivere per lo scrivere. Davanti a una libreria che per i due terzi è occupata dall’invenduto dei suoi libri, impilati per un metro circa d’altezza contro una parete del suo studio: l’autore da solo, a contatto con quelle copie che sono il «prodotto» del suo cervello, il risultato tangibile del suo lavoro. E lì continua, sera dopo sera, ad appuntare, con inscalfibile soddisfazione, note ed esperienze. Nemmeno il successo editoriale potrebbe superare la gioia di vivere quella dimensione privata e libera dello scrivere.

24 dicembre, ore 19:14 Non ho un buon rapporto con le vigilie, hanno da sempre avuto per me quel sapore malinconico della perdita, dell’abbandono, di un implicito reiterato addio: penso a me bambino, a quel sentimento del durare, dello stare al mondo (allora percepito illimitato), a una leggerezza rincorsa con affanno e mai più riacciuffata. La moneta pesante è oggi, stretti a un tavolo,

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questa condizione di superstiti che si scrutano con amorevole apprensione, consci che, da un momento all’altro, ci si potrebbe perdere di nuovo.

25 dicembre, ore 20:47 E penso all’Aviatore, al suo dolore che reclamava un barlume di senso, un cenno da Dio, come il Manzoni di Pomilio. Al pianto chiuso in bagno – alla vigilia, il giorno di Natale o l’ultimo dell’anno –, offerta all’incomprensibile; a un Dio che è specchio di una croce condivisa. Alla ferita immedicabile che è forse di ogni credente.

26 dicembre, ore 13:16 Come per l’interminata questione del romanzo, allo stesso modo è sempre stancamente in auge il dibattito sul valore e il senso del mestiere del critico. A tal riguardo mi è rimasta impressa la considerazione con la quale Berardinelli, qualche anno fa, nella consueta rubrica tenuta il venerdì su «Avvenire», chiudeva un suo intervento dedicato a Seneca e Kierkegaard: «Gli studiosi studiano e sistemano. Ma si guardano bene dal prendere personalmente sul serio le verità che hanno guidato la vita di uno scrittore». Ecco: questo non prendere sul serio, il mantenere le distanze da ciò che ha condotto la vita di uno scrittore, trovo sia all’origine della fastidiosa supponenza che caratterizza certo vaniloquio accademico; quando il critico, al contrario, dovrebbe accostarsi da “credente” alle verità (private o pubbliche, poco importa) da ogni autore contrabbandate. Si tratta insomma, come mi pare scrivesse Pasolini a proposito di Debenedetti, di rifiutare quella distanziante «posizione di inferiorità» che non di rado assumono studiosi e insegnanti, e farsi (sul piano dell’esi­ stenza) loro complici. Mi pare non vi sia da aggiungere altro.

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27 dicembre, ore 17:12 «L’Italia ha tempo. Non c’è niente mai di fallito o di perduto in un popolo che ha la vitalità e la vivacità di questo» – scriveva un secolo fa Renato Serra. Oggi che, non meno di allora, la barbarie è conclamata, penso che questo lusso dell’«aver tempo» non ci sia più concesso: un simile ottimismo sovrastorico non ci accompagna; né tanto meno quella vitalità e vivacità cui faceva riferimento, fiducioso, il critico cesenate. Per quanto l’addestramento alla speranza di cui era convinto Ernst Bloch debba essere superiore alla paura di fallire, tuttavia l’abitare un «nuovo» che non conosce, dal canto mio, se non un sentimento di ottenebrato sradicamento, m’induce a credere che per questo nostro Paese sia sempre più difficile poter ragionevolmente continuare a sperare.

28 dicembre, ore 18:55 È proprio vero che si scrive in fondo con l’intento di «perfezionare» la propria biografia, come leggo stasera nel diario di Valentino Zeichen, un poeta che avrei voluto conoscere prima. Come a dire: laddove non arriva la vita (la nostra vita!), può invece la letteratura, la critica, la poesia. L’io che scrive nutre da sempre la legittima pretesa di essere qualcosa di più, qualcosa di meglio dell’io che vive.

29 dicembre, ore 19:17 Ho scritto qualche giorno fa di Thoreau come uno dei padri della “critica della vita”, per l’accento posto sulla necessità d’uno sguardo quanto più soggettivo. Eppure egli stesso, in ossequio a certi suoi inossidabili principi, non di rado cade in evidente contraddizione, risultando nelle sue argomentazio-

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ni assai ambiguo. Prendiamo la sua religione della Natura: in nome di essa non si perita di palesare tutta la sua delusione appena conclusa la lettura dei Pittori moderni di Ruskin, giacché a suo dire il critico non si limita a descrive la Natura com’è, ma in che modo è stata vista e dunque dipinta da Turner; imputando al saggio ruskiano di essere mosso soltanto dall’intento dell’artista e dello storico. Facile così spiegarsi il suo dichiarato odio verso i musei, definiti come catacombali nature morte. Finisce per considerare «prosa» – in nome del suo amore intransigente e fideistico per la Natura in sé e per sé – ciò che è frutto della descrizione della cosa e non la cosa stessa.

30 dicembre, ore 21:19 Ancora spigolando il Journal di H.D. Thoreau: «Il poeta non è forse costretto a scrivere la propria biografia»? – e cos’è, aggiungo io, la critica se non implicita proiezione autobiografica? E prosegue: «Può forse scrivere qualcosa di superiore di un buon diario»? Epperò stupisce il rigoroso candore di Thoreau quando non ammette a se stesso che scrivere, in quanto atto di estrema libertà e verità, si pone come occasione necessaria e distanziante dal mero referto dell’accaduto. È sempre la voce, per me, a colmare la distanza e a fare la differenza.

31 dicembre, ore 23:37 Trovo perfettamente inutili, oltre che una spesa innecessaria per la televisione pubblica, quelle trasmissioni con il conto alla rovescia, con il raduno per l’occasione di ospiti naftalinici e presentatori, ammantati da spumeggiante ipocrisia, che si fingono felicissimi di stare in tv la notte di San Silvestro, davanti a gente che nelle piazze muore di freddo, giocando al teatro assurdo d’uno svagato e manierato carnevale.

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1° gennaio, ore 23:05 Esiste un Eliso degli animali? – torniamo a chiederci, a un mese esatto dalla scomparsa del nostro Paco. E per quanto ci sforziamo in tutti i modi di lasciarlo andare nel ricordo, basta imbattersi in una sua foto perché affiori ancora un filo di commozione, per entrambi. Lo so: è un dolore per molti puerile, perfino di cui vergognarsi; elementare certo, strano da capire, perciò da custodire con pudore. Mentre io ne avverto ancora la presenza tutelare ad ogni angolo di casa, e Rosamaria è sempre più convinta che abbia fatto ritorno alla Natura.

2 gennaio, ore 23:40 Repertori. Elenco delle cose cambiate: le telefonate a pranzo o al pomeriggio da un binario; il disagio delle visite sporadiche alla Sfinge d’aria (costretta a stare a terra); il tramonto di un’idea primordiale di famiglia; le passeggiate estenuanti e nervose sul litorale bianco; un campionario di paure consunte ormai dismesse, prontamente soppiantate da altre nuove di zecca; lo sguardo quadrupede di gratitudine, al guinzaglio o sotto lo scrittoio…

3 gennaio, ore 11:33 Stamane ritorno alle Poesie scelte di Luigi Di Ruscio, per chiudere finalmente la mia recensione da inviare a «L’Indice». A colpirmi è la forza radicale della sua poetica che lascia tracimare le cose nelle parole. Autodidatta, spatriato, operaio, vissuto per anni nella condizione di indesiderato delle italiche lettere (a fronte dei numerosi rifiuti editoriali), la sua vera patria è stata, foscolianamente, la memoria; ridotta a quella lingua quasi morta che fu per lui l’italiano (da quando il norvegese,

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per oltre cinquant’anni, pervase le sue giornate di emigrato), lingua di una geografia poetica che apre rotte non sempre decifrabili. Era convinto che la poesia si facesse solo scrivendola, che consistesse nella materia e nell’atto proprio dello scrivere. La percepiva come l’issarsi davanti all’incomprensibile, come lo stare dell’anima dinanzi alla morte. Scrivere versi equivaleva insomma per lui a mettere «la carta davanti alla belva», un’agnizione che passasse per la porta stretta di una «verbalizzazione straziata». Per quanto lo scrivere riservi improvvisi squarci d’inattesi rischiaramenti, quella del poeta non è affatto una condizione privilegiata: a scrivere, per Di Ruscio, è sempre il più debole, «il cardellino accecato nella gabbietta». Quel suo sguardo che da politico si allarga a sovrastorico, che lo ha reso un curioso metafisico alla rovescia, arso dal suo credo di rivolta e dall’imperativo in nome del quale ha preteso per tutta la vita di scrivere, tuttavia non gli ha mai impedito di sentire il poetare, quel profondo scavare con la lingua il pozzo della memoria, anche come sommo esercizio di gioia: come i licheni dell’amato Sbarbaro – pervasivi, «cespugliosi in pianeti avversi», ove ogni altra vita appare negata – la sua fu poesia di parole incistate nei fatti; di fatti cesellati (e scorti) nelle parole; entro un’indissolubilità in cui nulla è superfluo. Non riesco a immaginare descrizione più esatta di ciò che rappresenta la gioia della scrittura anche per il critico.

4 gennaio, ore 12:56 Il malmostoso Thoreau che fa le pulci a Ruskin accusandolo di incapacità conclamata nell’amare sul serio la Natura, che aborre musei e collezioni d’arte, così come i saggi ben scritti (giacché per lui il talento rimane qualcosa da fuggire, come la peste, come il peccato), ribadisce, inoltre, nel suo Journal, una cosa ovvia ma di cui forse spiace ai più ragionare: quando

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muore un parente o un amico, a perire siamo anche noi che restiamo e che quel lutto abbiamo patito e dobbiamo imparare ad elaborare. Ma è così davvero? Oppure perdiamo del tutto contatto con un certo modo d’interpretare la vita o di considerare e conoscere la realtà? Forse, quel perire di cui parla Thoreau, somiglia più a una forzosa rinascita, in minore, che porta a riconsiderare, sott’altra luce, ogni cosa. Più che un «assalto alla nostra forza vitale», è dunque un ossimorico e urgente bisogno di morire di vita, a fiorire.

5 gennaio, ore 06:21 Ancora, secondo H.D. Thoreau, che siano «sentenze» od «opinioni», i frutti offerti dal pensatore gli appaiono involontari, quasi «pre-pensati», giungendo a ipotizzare un pensiero sincronico, all’unisono con una supposta mente universale. Dinamica di cui, mentre l’annota nel suo diario, non finisce di farsi meraviglia. Come non riandare al fulmineo dipanarsi di certe epifanie definitorie, certe aggiranti argomentazioni che ci colgono improvvise, al punto di sembrarci dettate da una inconscia chiaroveggenza, e fino solo a un attimo prima del tutto ignorate? Talvolta si è indotti davvero a credere che si tratti di un qualcosa afferrato per miracolo dal nostro campo neuronale… Io, dal canto mio, come mi ha pur anche suggerito la recente riflessione stimolata dalla poesia di Luigi Di Ruscio, continuo a pensare che sia proprio dello scrivere il naturale disporci a una condizione di superamento di barriere di difficoltà, l’accedere, dico, a una forma altra di intelligenza delle cose.

6 gennaio, ore 08:21 Mattinata in cui tutto sembra dover durare, eternamente: sensazione inscritta nell’aria fresca, nella limpidezza dei colori

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d’una bella giornata di pieno inverno. Quell’allegria buona che è pienezza, e fa sentire a ciascuno la sensazione (rara) di essere dentro i gangli dell’esistere. Stato di grazia favorito anche dalla lettura delle pagine iniziali di Giorni rappresentativi di Walt Whitman, piacevolmente travolto dalla febbre d’entusiasmo del grande vecchio d’America che accende le battute d’avvio d’un libro di memorie frammentarie in cui ha scritto, confessa, obbedendo all’ispirazione della sua «ora felice». Nel raccontare della genealogia dei Whitman e dei luoghi di provenienza, a un certo punto incontriamo una delle pagine più belle in assoluto, datata 21 luglio 1891: il ritorno a Long Island, a trenta miglia da New York, per una visita di una settimana. Rivede l’antica residenza dei Whitman sulla collina, la grande quercia ultracentenaria, il boschetto di alti noci, il pometo di più di venti acri, cartografando la geografia privata di tutta la sua stirpe. Ma per annotare le sue impressioni, visita i cimiteri dove sono sepolti i vecchi dei Whitman e dei Van Velsor (la madre era di origine olandese), seduto su una vecchia tomba – tra rovine, silenzio e vento –, e dove la maggior parte delle sepolture hanno perso la loro forma originaria, presi dallo «sfacelo del tempo». Descrive lo scenario pacificato, gode della sosta, della desolazione; avverte, dentro di sé, e comprende, come tre secoli di storia familiare siano racchiusi in quello sterile acro di terra. Riconosce, in ciascuno dei vecchi cimiteri di cui Long Island pullula, «la più profonda eloquenza di cui sermone o poema sia capace». Scrive. E mentre scrive realizza come questi cimiteri (come quello dei Van Velsor presso Cold Spring) – in gran parte pianori di terra brulla al sommo di un colle, circondati da sterpaglie e boschi rigogliosi, di primitiva bellezza pur senza l’ausilio alcuno dell’arte – siano «il più significativo luogo d’inumazione che si possa immaginare». Capisco che quando m’illudo di stare a ragionare di poesia, di arte, di critica, in realtà, anch’io, non sto facendo altro: come il poeta di Foglie d’erba, seduto su una pietra, a inseguire la

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mia stirpe, ricostruire – nel bel mezzo d’una consolante desolazione – la mia estinta genealogia. E per un attimo rivado alla mia origine di cattivo poeta d’ispirazione neoromantica, alla prefazione scritta da Michele Perriera (che ancora oggi non smetto di considerare la cosa migliore di quell’acerbo e insieme terminale esordio) in cui parla di me come «poeta dalla parola appoggiata sulla lapide», che attraversa la realtà per lambire il mistero in cui, concludeva Michele, «le cose sono cose e sono alternative alle cose». Da una simile erranza scaturiscono anche queste mie note quotidiane: biglietti appoggiati su una pietra; pagine scritte a corteggiare questo limite.

7 gennaio, ore 16:37 Una morbosa curiosità m’induce a saltare alle pagine in cui Whitman parla di Thoreau, nelle note relative al suo soggiorno a Concord, Massachusetts, dove si ritrova ospite a casa Emerson. Argomento della conversazione dei convenuti è proprio Thoreau – i singolari casi di vita, le lettere (a lui dirette e da lui scritte) del poeta che, durante il primo viaggio tenuto da Emerson in Europa, aveva dimorato, per qualche tempo, proprio presso quella famiglia. Whitman ascolta, preferisce astenersi dal conversare, piacevolmente distratto dall’opportunità di poter scrutare da vicino il padrone di casa (anch’egli garbato e silenzioso, seduto in poltrona): attrattiva principale di una casa che si faceva apprezzare per l’eleganza disadorna, segno d’una democratica opulenza. Il giorno dopo, un’«incantevole mattinata domenicale», grazie all’amica Miss M. e ai suoi «focosi pony bianchi», durante un’escursione, sosta una mezz’ora alle tombe di Hawthorne e di Thoreau che riposano, l’uno accanto all’altro, sulla collina di Sleepy Hollow: piatta, fittamente ricoperta di mirti e bordata da una siepe di tuie quella di Hawthorne; di pietra più scura, poco elaborata e con iscrizione quella di Thoreau. Poco discosto la tomba del fratello di belle

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speranze John, prematuramente scomparso (la cui perdita fu per lui fonte di grande dolore). Whitman, con la sua peculiare verve descrittiva, non aggiunge altro. Come se lo spirito di Thoreau aleggiasse per sempre altrove, radicato nello spazio, tra i boschi, del lago di Walden («specchio d’acqua splendidamente incastonato nel verde»). Non a caso indugia più di un’ora nel posto dove sorgeva il capanno, teatro della sua vita solitaria; anch’egli aggiungendo la sua pietra all’enorme cumulo lasciato dai tanti visitatori che in quel luogo ancora oggi si recano. «Un uomo che ci vogliono secoli a creare e secoli a comprendere»: non è un caso che nel consunto taccuino che Whitman portava con sé, in tasca, in cui trascriveva le sue massime preferite e a cui ricorreva quando era a caccia di un penetrante suggerimento, figuri anche questa citazione attribuita a Thoreau.

8 gennaio, ore 18:51 Qualche anno dopo, Whitman tornerà ancora allo Sleepy Hollow Cemetery, questa volta per sostare, «senza tristezza», ma con gioia e «fede solenne», presso la fresca sepoltura di Ralph Waldo Emerson, a onorare non soltanto la persona, quanto la somma di quegli attributi umani e intellettuali che egli incarnava e sapeva coniugare nella vita d’ogni giorno. Eroe, insomma, «come nella luce vespertina sul mare», delle cose grandi che incontrano la semplicità del quotidiano. Se aveva avvertito lo spirito di Thoreau profondamente vivo e presente sulle rive del lago Walden, Emerson invece perdura ancora nel verdeggiante ricordo delle ore felici trascorse nella contemplazione del suo «volto buono», dei suoi occhi «limpidi», di quel sorriso fino all’ultimo capace di una «vivacità e cordialità» senza tempo; ipostasi, con la perfezione della sua parabola esistenziale, dell’«intera classe dei letterati». E conclude, citando Abramo Lincoln a Gettysburg, di essere giunto lì, «colmo di reverenza»,

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non a benedire un morto, ma a ricevere piuttosto da lui «una qualche benedizione per noi stessi e per il nostro lavoro quotidiano». Cosa diventano i nostri morti – cosa è diventato, per me, il pervasivo trascorrere dell’Aviatore, di Basilisca – se non il romanzo buono di vere presenze a cui impetrare benedizioni?

9 gennaio, ore 15:45 Scrivo per ricordarmi che l’anima è luce; per tenere d’occhio – e mi sovviene ancora l’Emerson di Fiducia in se stessi – quello «sprazzo di luce interiore» che balena nella mente. Scrivo per dare conto di una verità soggettiva, che pure mi sopravanza; e che solo dal chiuso di questa camera, nel ventre di una sì decisiva solitudine, posso provare a raccontare. È uno scrivere, spesso, discendendo alle origini; principiando da un fondale bianco, una perpetua ripartenza.

10 gennaio, ore 08:09 Whitman come Thoreau scopre il sentimento, la «legge» del suo poetare nell’inesorabile gioioso abbandonarsi al libero e pieno gioco della Natura – «pienezza di materia, totale assenza d’arte». E proprio in Giorni rappresentativi racconta di come questa disposizione essenziale della sua ispirazione crescesse in lui. E così come Thoreau aborre i musei, allo stesso modo Whitman non vuol sentir parlare di recarsi in Europa a visitar rovine e resti, quando può abbracciare la varietà e vastità del paesaggio americano. Capace, dice, di emanare «una bellezza, un terrore e una potenza sconosciuta anche a Dante e Michelangelo». Il Nuovo Mondo insomma nutrimento primario d’ogni possibile espressione. Il paesaggio perciò è la poesia: l’unica verità che consente – lo sapeva Whitman che cita Emerson – di parlare «secondo l’ideale, e non le apparenze».

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11 gennaio, ore 17:30 «Contano i fatti, non conta l’opinione» – così sentenzia l’esperto che ha da qualche minuto preso possesso della mia classe per spiegare ai miei ragazzi cosa vuol dire fare il giornalista. Si avvita in uno snervante monologo, principiando da Erodoto, presentato come primo cronista della storia, per giungere ai padri del giornalismo italiano, da Montanelli a Biagi. Appellandosi alla correttezza della informazione, parla di notizie, di fonti, di lavoro redazionale, dei differenti generi giornalistici… Apre poi un’ampia parentesi su ciò che è morale, per il giornalista. Si produce in una furente invettiva contro gli abusivi, i molti che offuscano il mestiere di chi soltanto ha titolo ad esercitare la professione. Mostra la sua tessera, ne recita, a memoria, il numero – discepolo del vangelo dell’iscritto all’ordine – concludendo, con grande esaltazione, che l’ordine dei giornalisti è «il più pubblico di tutti». Il culmine lo raggiunge quando, dicendo di scrivere come critico musicale per una testata online, nel tentativo di spiegare ai ragazzi cosa sia una recensione, afferma che anche il critico deve «raccontare i fatti», producendosi nell’ennesima inconsistente e ragionieristica visione del racconto giornalistico. A questo punto lo blocco, lo contraddico con piccato garbo: è colto da una vampata di rossore. Fra me e lui cala il gelo. Esco dall’aula lasciandolo in balìa dei ragazzi e della sua stessa inadeguatezza.

12 gennaio, ore 01:24 Il caro Fabrizio convinto ormai che il romanzo non abbia più motivo di esistere, che anzi sia stato fagocitato, fino a perdere credibilità, dalle meglio orchestrate partiture dell’io, leggendo qualche brano di questo mio diario, mi esorta a continuare; tuttavia spingendomi a tuffarmi nel quotidiano, a partire dai fatti minimi, perfino dall’osservazione del mondo animale (da

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cui certo abbiamo da imparare) – dai pesci rossi nell’acquario o dalla processione di formiche che attraversano la stanza. Eppure, quale sia, per ciascuno, lo specifico, in cosa davvero consista, voglio dire, il quotidiano non è cosa agevole da dire. Inseguirlo, talvolta, mi pare affare da polli, quando assai più rischioso certo è sondare il vento e liberarsi dai gravami: provarsi a dire delle ossa che diventano ali, del corpo che si fa macchina volante, dello schianto d’inseguire un’antica e gioiosa stirpe. Scrivere in fondo assomiglia a una visione, alla luminosissima esperienza di uscire dal proprio involucro, verso uno stato di risicato equilibrio che si gode, seppur per poco, d’abitare. E c’è un’immagine di Forse che sì, forse che no, il romanzo di D’Annunzio che, senza riserve, per partito preso, ho più amato, in cui la rinnovata esperienza del volo che compie Paolo Tarsis viene descritta al pari della presa di coscienza di una metamorfosi in atto: «Di nuovo egli sentì che le sue vertebre armavano tutto il congegno e che l’ossatura delle ali, simile all’omero tubulare dell’uccello, era penetrata dall’aria stessa dei suoi polmoni. Di nuovo gli si creò nei sensi l’illusione di essere non un uomo in una macchina ma un sol corpo e un solo equilibrio. Una novità incredibile accompagnò tutti i suoi moti. Egli volò su la sua gioia. Una intera stirpe fu nuova e gioiosa in lui». Ecco: scrivere, per me, preserva intatta questa illusiva radice mitica e metamorfica.

13 gennaio, ore 15:17 Ci sono poeti che riescono ad esprimere, attraverso i loro versi, una visione “archeologica” del senso. Intendo un’estensione onnicomprensiva del significare che dilaga, sembra pervadere ogni cosa. Penso a certa precisione verticale che troviamo nei versi di un poeta, quasi del tutto rimosso dal pubblico, come il siciliano Bartolo Cattafi. Stupisce, a poterlo leggere adesso nella raccolta più completa che sia mai stata data alle

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stampe di Tutte le poesie, la qualità estrema del suo verseggiare: il dettato, la voce che si fa, essa stessa, termine primo di significazione. Non c’è ansia nel lettore: non intercorre schisi tra il tempo della lettura e quello dell’eventuale messaggio da carpire. È l’offerta della parola poetica – nuda, evidente, in sé – che avanza, che viaggia, nel discorso dispiegato dal poeta de Le mosche del meriggio. Un esempio? Nella sezione d’avvio della raccolta L’osso, l’anima c’è una poesia – Apertura d’ali – che mi ha suggerito, con lampeggiante contezza, quanto sopra ho appena affermato. Cattafi fa in essa riferimento a una tanto metaforica quanto necessaria «apertura d’ali» – di varie dimensioni (a seconda del caso e dello scopo), e in varie epoche passate: nell’Eden o «sottoghiaccio» – coi relitti e i mammut o le mosche da secoli trapassate; e ora imbozzolate nell’«ambra del tempo». Necessità del volo, tuttavia, che appare poco più che un «gioco», un «aiuto», una «finzione» se è esposta all’offesa – materiale e metafisica – di disumane intemperie. Perciò il «bianco stormo di brandelli», di resti che il poeta si limita a ravvisare, sono nulla più che segni: memento che un «battito d’ali», fosse anche nell’antro superstite della memoria, non riuscirà mai a sottrarci all’«ombre che ci inseguono».

14 gennaio, ore 16:43 Era l’aprile del ’43 quando un Bartolo Cattafi appena ventunenne, ottenuta la licenza di convalescenza (come racconta egli stesso nella nota d’autore scritta in occasione dell’uscita nel 1951 della sua prima raccolta in assoluto, Nel centro della mano), buttatasi alle spalle l’eccezionalità mostruosa della guerra, cominciò a scrivere versi, in pieno entrando come in una «seconda infanzia» che lo induceva a «enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo». E da subito ha le idee chiare su cosa debba essere per lui la poesia: «la storia dei miei versi non può non coincidere con

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la mia storia umana». Quello di poeta, più che un mestiere, gli appare come una divisa esistenziale, una pura condizione, un modo come un altro di «essere uomini». E già questa precoce e disimpegnata autodichiarazione me lo fa amare sommamente. E ancor più quando precisa che, in realtà, la sua poesia nasce «sotto il segno apparente dell’imprevisto», inseguimento di una virile evidenza che brucia: nudo e cruento «atto esistenziale».

15 gennaio, ore 21:20 Oggi, correggendo gli elaborati di italiano, mi ha colpito la bellissima e geniale definizione che Cristina, una mia brillante alunna, ha voluto dare della letteratura come «arte da cui trarre molto». Stupisce poi come, a prescindere dal fatto che siano stati o meno compositori di versi, per i miei ragazzi di seconda, gli autori della letteratura italiana studiati nel corso di quest’anno di primo approccio ai fatti letterari siano tutti – indifferentemente – poeti. Ecco: mi è parso un sacrilegio correggerli o peggio contraddirli, smontare questa loro del tutto inconsapevole e totalizzante professione di involontario crocianesimo. E mi sono ricordato di ciò che Croce scriveva nel suo Breviario di estetica del 1913: «una piccola poesia è esteticamente pari a un poema; un minuscolo quadretto o uno schizzo, a un quadro da altare o a un affresco; una lettera può essere cosa d’arte non meno di un romanzo; perfino una bella traduzione è originale quanto un’opera originale». Piccoli crociani crescono!

16 gennaio, ore 23:39 L’impressione che si potrebbe ricevere della scuola è quella di un’isola felice. Eppure, quello dell’insegnante, è un mestiere

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che, per molti di noi, ha smesso sempre più di conoscere il piacere e la gioia. È un lavoro il più delle volte giocato in difesa: un lavoro-catenaccio. Questi benedetti ragazzi si vorrebbe farli leggere, scrivere, recitare, ballare, correre, cantare… Se solo aprissero un credito illimitato nei nostri confronti! E invece i più – studenti e professori – s’accontentano del minimo sindacale, dell’ordinaria amministrazione.

17 gennaio, ore 18:03 Stasera ritorno a confrontarmi con la poesia di Bartolo Cattafi, che subì l’ostracismo dell’esclusione dai Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo, la più celebre delle antologie poetiche del secondo Novecento italiano. Al centro del suo poetare c’è il sentirsi abitato e l’abitare una gigantesca ambiguità di fondo: ambiguità che palesa e mette in versi nella seconda raccolta mondadoriana, L’osso, l’anima. Il difficile tenere insieme, l’addomesticare la dicotomia costitutiva tra la verità evidente – «l’immagine del vero» – e il non esserci comunque; il non farcela per quell’essere (non meno evidente) «anima da qualche parte». La tensione che scaturisce dalla «fatica» di mandare avanti la carcassa, la massa biologica e mortale, epperò amando l’altro e l’altrove – il «non creato», l’«assente silenzioso» –, il luogo che non è stato creato, non conosce consistenza alcuna («liquida, solida, gassosa»). Tra voce biologica e sirena metafisica, il solo metodo plausibile, per il poeta, rimane comunque e soltanto quello di aggredire la vita «col coltello». Entro questa morsa che alla nuda realtà giustappone l’inesausto languore di un altrove, che fare (si chiede il poeta)? Esiste forse, tra morte e vita, una rischiosa «terza vita», equidistante: «la più scialba e perplessa». Quella che, per assurdo, spinge, come in un esperimento scientifico, ad espellere ciò che è superfluo e ciò che è «lietamente necessario». Espellere dalla vita «l’osso, l’anima», per credere a ciò

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che resta: la «tabula rasa» che rimane al di là dell’essenziale e dell’inessenziale insieme.

18 gennaio, ore 13:15 Colpisce, in Bartolo Cattafi, la sentitissima vocazione al viaggio, all’anabasi (come titola una sua fulminea ed eloquente lirica di L’osso, l’anima); all’ansante attraversamento di regioni, fisiche e metafisiche: la «necessaria perdita» in esse e per mezzo d’esse. Disposizione inconscia, amore che rimane incompreso alla mente stessa del poeta. Oppure, quando comprensione si palesa è quasi sempre foriera del troppo tardi: c’è sempre nei versi di Cattafi la certificazione d’uno scollamento, il trovarsi in una condizione di smarrita ostinazione. Per cui il non capire, il giungere dopo, l’apprendere quando è del tutto innecessario, sono la norma del vivere. Cos’è la vita, per Cattafi, se non questo viaggiare privo di ogni lume di romanticismo? La poesia si fa così voce di un siderale sgomento che attraversa il poeta (e le cose). Non c’è messaggio più d’attendere, si corre oramai per sola abitudine (si legga la lirica Notizia), un trepidare simile a un condizionato riflesso – tutto confluisce nel vortice centripeto: ciò che rimane è «un senso precipite d’abisso».

19 gennaio, ore 09:08 Se non è fuga pura, è forse il viaggio per Cattafi, in ultimo, nevrosi? Di certo, l’andare cattafiano assomiglia (nel suo autentico sentire) a un «cadere in tentazione». E la Sicilia? A cosa assomiglia? Cosa rappresenta per il poeta? La Trinacria, da «America avanti lettera», si è ora tramutata in «triangolo arido», simile a un approdo nordafricano: isola scissa, terra metafisica per antonomasia, «metà dentro metà fuori / di un

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chiaro capitolo di storia». A perpetuarne la bellezza meridiana i colori del Sud: l’osso, l’avorio, il gesso calceviva… fino al variato e «immensamente bianco». E che dire del martellante verseggiare, rincorsa a perdifiato – quasi tassonomica e teatrale messa in scena – dei versi che dedica a celebrare lo specchio di mare dello Stretto di Messina, che l’Isola separa dal resto del continente, nella sezione d’apertura di L’aria secca del fuoco, raccolta che segna, dopo l’incredibile silenzio di otto anni, il suo ritorno (febbrile e fluviale) alla poesia?

20 gennaio, ore 16:52 Di Cattafi, ancora, non lascia indifferente l’abbrivio, lo swing strafottente di certi suoi versi a fior di labbra, che hanno, a leggerli senza soluzione di continuità, come sto facendo io da diversi giorni, l’effetto di nervose cantilene. Penso alle liriche folgoranti dedicate al paesaggio umano e naturale dello Stretto di Messina – fatto di tipi umani, di pesci (guizzanti o in padella), di situazioni, messe a fuoco al volo dall’occhio visionario del poeta. O a certi quadri di vita scorciati appena in una manciata di versi: «A dicembre Badoglio / ricominciò a scocciare, / dovetti cercare un male / in qualche frattaglia, / dal fronte della licenza / passare alla battaglia per il foglio / di congedo illimitato / illuminato…». E che dire delle chiose acidule che aggallano, pungenti, in alcuni testi inclusi in La testa del maiale? Sentite qui: «Invecchia oggi / invecchia domani / la cresta si abbassa / si diventa buoni / l’anima si salva / ti ritrovi la cresta ed i coglioni / nel tegamino / con foglia di salvia». Sovente la sua poesia assomiglia a un’istantanea e brutale effervescenza: gioco di parole, eufonico clangore, scatto della rima che, come sale, accelera.

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21 gennaio, ore 19:01 Ma anche quando è descrizione di un attimo, di una scena, di un momento colto nel paesaggio, la sua poesia ha luogo, si consuma, nel teatro scintillante della mente («uccelli dorati saliti dalla mente»): non conosce altra ribalta che quella del rendere sacrificio al Dio di una parola che viene, irrompe come nella trance di un sogno, nonostante. Quella di Bartolo Cattafi è la poesia del «transfuga» – che «il rombo frastorna / in corsa nella mente, / lungo le belle curve di conchiglia» – che non smette mai di affannosamente specchiarsi nell’incavo dell’anima. Poesia di viaggi, di luoghi, di stagioni: paesaggi esterni che si connettono con quelli suscitati interiormente, sciolti nel fitto bosco dell’io. È, la sua, una geografia di cocci rotti, computo di cedimenti e resistenze, di frantumi; e tutto questo avviene non di rado in piena luce – immerso entro un paesaggio che non smette di essere, per lui, rifugio: fonte di ispirazione e nutrimento.

22 gennaio, ore 19:53 Un atlante di “ipotesi” (così s’intitola una delle liriche di L’osso, l’anima) che Cattafi non indugia a mettere in versi; e in cui, ondeggiando tra i pro e i contro del quotidiano, metaforizzando tra luce e buio, avanza plausibili e risicatissimi bilanci. Quando, il più delle volte, dal vaglio, non rimane che ricomporre «col mastice i frantumi». Il viaggiare stesso – il desiderio di andare fuori, seguire un «vento propizio» alla sua vela – è un andare oltre, un superamento di confini che non sono meramente spaziali, ma – ancor più sentitamente per il poeta – assomigliano a un salutare allontanarsi da sé: al di là del suo «ignorare e sapere», della sua «testa», «dei piedi», dei «frusti pensieri». Epperò non si creda che il viaggio, l’immersione o l’oltranzistica fuga nel paesaggio corrispondano a una paci-

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ficata soluzione delle sue inquietudini di vita: niente di più falso. Mosso com’è da un bisogno di sincerità, esercitato nel precipite affollarsi di versi nei suoi quaderni, non nega mai a se stesso come in verità procedano le cose: «Non mi tornano i conti, le misure, il modo / che ha il mondo di girare».

23 gennaio, ore 17:47 I veri «luoghi deputati» a suggerire, con sintesi fulminea, la temperatura, il clima distintivo che presiede al fare poesia, alla personale modalità d’accesso alla dizione del verso, in Bartolo Cattafi, sono quelli, tanto concreti quanto immaginari, in cui è possibile al poeta «avere visioni»; plausibile «ascoltare qualcosa»; in cui tutto coesiste, messo insieme, «a stormire sullo stesso ramo»; e in cui, infine, e ancora, tutto, è destinato a perdersi: scagliato, con centrifuga dispersione, entro «una fuga di specchi». Luoghi mentali riempiti solo dalla risacca del verso (dalla parola, dal tono, dalla cadenza); luoghi di solitudine, di reperti e rovine, in cui tutto il resto manca… cetera desunt. Storia vecchia, storia di oggi: storia remota, presente e futura di ciò che nell’assenza perdura. E c’è una lirica (Il resto manca), tra le tante, sincopata ed eloquente, nella sua misura, in cui Cattafi certifica, con chiaroveggenza estrema, questo vessillo di accartocciata verità che sempre mi sorprende, e perciò qui m’affretto ad annotare: «Mancavano pagine / il marmo dell’epigrafe / era scheggiato / due sole parole / cetera desunt / il resto mancante / mancanti la testa e i piedi / e tutto il resto mancante / che testa e piedi divide / cetera desunt… cetera desunt… / parole sul frontone d’un tempio vuoto / vorticanti col vento come per dirci / solo noi ci siamo / tutto il resto manca / era questo che non sapevate».

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24 gennaio, ore 13:25 In resta, come lance, oggi, di Cattafi, ci giungono, eloquenti, quelle liriche di una sua caratteristica cifra ironicamente condensata. Sono l’esito finale, esaurito il periplo, del viaggio mentale, alla fine della fiera. Poesie, schegge, in cui tutto si risolve nel bianco detonare del senso, nel giro, adesso placato, non più frenetico del verso. Penso alle centodiciassette poesie pubblicate postume nel 1986 che compongono Segni, iniziate a raccogliere negli anni Settanta dal poeta estrapolandole dai suoi quaderni, in cui si concentra sulla metafora segnica, radunando tutti gli emblemi e gli oggetti ricorrenti nella sua produzione poetica passata e presente; e, in maniera che potremmo definire dichiaratamente metapoetica, riflette sul comporre versi e, più in generale, sul produrre segni, sullo scrivere. Il poeta scompare ridotto a puro gesto; rimangono, in primo piano, soltanto gli strumenti dell’incidere: la penna, il calamo, la grafite, l’inchiostro. Lo spazio è quello bianco o quello geometrico, squadrato; il senso non è mai chiaro, la parola destinata a rimanere nebulosa. Cosa rimane? Il necessario comporre, ricostruire, edificare, sia anche con l’esito di un pugno di mosche in mano. La candela è tremula, il gioco, anche se non vale, è necessario portarlo innanzi, giacché altro modo non c’è di giocare la partita. Ne deriva un’essenziale sghemba cartografia visionaria, ma di una visionarietà spogliata d’ogni fuoco d’artificio, d’ogni orpello; elementare, per la pochezza di mezzi da cui si genera: viene da pensare alle opere di un pittore geometrico-astratto, per cui l’arte è consegnata al gesto, alla performance senza troppa speranza di successo…

25 gennaio, ore 15:53 La scrittura, il segno, diventa biologia – si fa «sangue fresco», «osso» (già spolpato). Inchiostri di una cosmogonia segnica:

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architettura di spazi essenziali, memoria da rifare, cancellatura (cancellare le nostre idee e i segni, le zampe di galline vergate sul foglio che sono i loro simulacri); scrittura che certifica un «atto di presenza» – nero su bianco –, attesta la «finzione». Realtà-mondo in cui tutto confluisce, trasborda, comunica: la natura e la cultura, la biologia e la storia, privata e collettiva (si legga la lirica Mosca). I segni sciamano per passare «a nugoli», per posarsi sul «miele del mondo». Deperiscono in relitti, ciarpami, rifiuti nel gioco creduto di puerili cacciatori di frodo. La pagina bianca rimane comunque per Cattafi lo spazio agonico, foglia da strappare «all’immane foresta del non segnato». Entro questo spazio delimitato l’inchiostro diventa esile «filo di cose smorte / rivelate». Al poeta non resta che questa necessità incerta, malsicura: sa bene che il premio non è mai la chiarezza, ma al massimo la «parola nebbiosa». L’utopia (se mai c’è) è che il segno-relitto si faccia «parola illimitata / senza più segno e nesso / connotato». In Segni, la sua poesia si trasforma in saettante riflessione metapoetica, se è vero che lascia confluire in libertà quel suo consueto repertorio entomologico di simboli, spiegando da cosa nasca la sua incontinente necessità di scendere e incolonnare, fissare sulla carta.

26 gennaio, ore 15:49 Certo, Bartolo Cattafi ha subìto un destino di prolungato oblio in questi anni. Ma ciò che più colpisce è che ci siano ancora interpreti che non perdonano al poeta, come scriveva Luigi Baldacci già dai tempi dell’uscita di L’osso, l’anima, di aver obliterato la politica. Quello stesso Baldacci che si affrettava a chiarire, e a ragione, come la sua opera risultasse scivolosissima, qualora la si volesse accostare e trattare con le «pinze sociologiche». Nonostante la professione di laicismo critico (in nome di illustri padri) accampata in premessa, allibisco

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leggendo oggi un saggio che muove dal dichiarato obiettivo di voler porre rimedio a certe letture parziali, o peggio fuorvianti, dell’opera cattafiana, il cui estensore, preoccupato di strapparlo a una «confessionale» acquisizione da parte di una critica cattolica che insiste nell’offrirne una distorta lettura teologica, tuttavia finisce per incorrere nel peccato originale di fatto di abiurare proprio quel laicismo rivendicato come movente primo del suo stesso argomentare. Ecco che il carattere «prismatico», la complessa «poliedricità», pure in avvio riconosciuta all’esperienza esistenziale e letteraria del poeta, viene qui schiacciata dall’idée fixe e ridondante dell’influsso esclusivo esercitato sulla sua poesia dal «contesto», dalla couche familiare e socio-culturale della sua cittadina, per cui tutta l’opera del barcellonese si ridurrebbe, con l’eccezione del suo stile ultimo, con quei versi improntati a un recuperato stoicismo isolano di matrice greca, a quella di un conservatore misoneista, quando non reazionario, nemico d’ogni progresso. In vista di una diminutio (in linea con Luperini) che relega la genuina ispirazione soltanto a quelle liriche in cui si mostra in piena sintonia (anche sul piano linguistico), manco a dirlo, con la «cultura popolare»; quelle liriche che propongono la retorica del colorismo (riconoscibile nell’Isola) del mondo rurale, che rappresentano felici parentesi entro una visione antistoricista e «complessivamente nichilista». Esiste lettura più manichea e ideologica al quadrato di quella basata sull’appartenenza di classe?

27 gennaio, ore 16:09 Per il ricorrere della Giornata della Memoria, anziché ripiegare sulle testimonianze dei superstiti di Auschwitz o proporre la visione di uno dei tanti film sulla Shoah, ai miei alunni stamane ho voluto raccontare una storia di sport e discrimi-

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nazione davvero poco nota, ma che tuttavia mi pare davvero sintomatica di ciò che da lì a poco sarebbe esploso in tutta la sua sconcertante tragicità. Corre l’anno 1938, a Helsinki, un giovane di 29 anni, Abraham Tokazier, ebreo finlandese, ha in cuore di realizzare il suo più grande sogno: rappresentare il suo paese, la Finlandia, alle prossime Olimpiadi del ’40 (che lì si sarebbero tenute) nella gara di velocità che da sempre è ritenuta la più affascinante e spettacolare dell’atletica leggera. È consapevole del suo talento e sa di poter fare bene. In occasione dell’inaugurazione del nuovo funzionale e avveniristico impianto sportivo dell’Olympiastadion a Helsinki la Federazione finlandese di atletica organizza i campionati nazionali assoluti di quell’anno. Quale migliore occasione? Abraham sogna già di correre la gara perfetta, pregustando la sua definitiva consacrazione nell’élite della velocità. Frequenta la sinagoga di Helsinki, è tesserato per il Maccabi Urheilu Seura (Società sportiva Maccabi) uno dei più antichi club sportivi di matrice ebraica di tutta Europa, ma la sua appartenenza non gli ha mai creato problemi: l’atletica è un’isola felice. Il giorno della gara Tokazier arriva primo: è campione finlandese dei 100 metri! Tuttavia, al primo annuncio dello speaker ne seguirà presto un secondo di rettifica che gela l’atleta e il pubblico presente: per la giuria Abraham Tokazier è «ufficialmente» quarto (addirittura fuori dal podio). L’incredibile ribaltamento del verdetto sportivo è presto spiegato: all’Olympiastadion nuovo di zecca c’è una delegazione di dirigenti sportivi tedeschi, venuti a visitare lo stadio e a complimentarsi con un paese che (per opportunismo politico) strizza l’occhio alla Germania hitleriana. Per compiacere gli «amici» tedeschi, i giudici della federazione finlandese di atletica decidono, in palese malafede, di escludere dal podio Tokazier per le sue origini e per l’essere atleta di una società sportiva di matrice ebraica come il Maccabi. Nonostante abbia vinto, Abraham si vede incredibilmente negata la vittoria. A nulla giovano i reclami del Maccabi, la

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società del campione palesemente estromesso dalla vittoria e addirittura spazzato via dal podio. Tutti sanno che Tokazier ha vinto quella benedetta gara: lo sa lui; lo sa il pubblico che ha assistito all’evento sportivo all’interno dello stadio; lo sa l’opinione pubblica, se il giorno dopo un quotidiano finlandese, mettendo in prima pagina l’immagine del fotofinish (da cui peraltro appare evidente la netta vittoria dell’atleta del Maccabi), rivela lo scandalo e titola: «il vincitore arriva quarto». Dopo qualche giorno, il clamore suscitato dalla singolarissima vicenda scema e la sua storia cade presto nel dimenticatoio. Disgustato per l’accaduto, quello stesso 21 giugno del 1938, Abraham Tokazier scriverà la parola fine sulla sua passione per l’atletica. L’ingiustizia subita lo priverà del tutto di ogni stimolo a insistere nel coltivare il suo sogno di talentuoso velocista olimpionico. La guerra allontanerà le Olimpiadi del ’40, essendo l’Europa impegnata a fronteggiare il dilagare della minaccia nazista. All’inizio della Seconda guerra mondiale, la comunità ebraica finlandese conta poco più di duemila anime. Pur se la Finlandia non conoscerà, come l’Italia, la vergogna della promulgazione delle leggi razziali, nel Paese i gesti di prevaricazione e di provocazione antisemita saranno all’ordine del giorno. Durante il conflitto saranno una sessantina circa gli ebrei destinati ai campi di concentramento consegnati dal governo finnico ai nazisti. Una verità troppo a lungo nascosta di cui la tragedia sportiva di Abraham Tokazier può considerarsi il triste ed emblematico preannuncio. Peraltro, le tardive scuse ufficiali da parte della Federazione finlandese giunte, fuori tempo massimo, dopo la fine del conflitto, non fecero altro che accrescere lo sdegno di Tokazier. Soltanto settantacinque anni dopo, nel 2013, grazie allo scrittore Kjell Westö, che si farà carico di raccontare la storia della medaglia negata in un romanzo intitolato Miraggio 38, verrà ufficialmente riconosciuta quella vittoria con l’assegnazione di una medaglia d’oro che l’orgoglio ferito di Abraham Tokazier di certo non gli avreb-

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be fatto accettare. L’atleta finlandese morì infatti molti anni prima, a Stoccolma, il 7 aprile 1976. Una storia semplice che, paradossalmente, i miei alunni avvertono come (se possibile) ancor più spiazzante. Nella difficoltà per loro di abbracciare e comprendere il dramma spaventoso della Shoah, di riuscire a immaginare un inferno di quel tipo, questa clamorosa pagina d’ingiustizia sportiva di marca antisemita, proprio per la normalità del contesto in cui deflagra e la disinvoltura con cui viene perpetrata, riesce assai meglio a raccontare di quel vento mefitico di follia che spirava già in tutt’Europa, perfino nella civilissima Finlandia, foriero della prossima funesta apoteosi.

28 gennaio, ore 22:12 La correzione dei compiti di letteratura, talvolta riserva gradite sorprese, come la scoperta di critici in erba. Sentite qui: a confronto con la molto più «avventurosa» e «fantastica» Odissea, l’Iliade, a un mio alunno di prima media, «sembra una soap opera – perché possiede storie d’amore, litigi per donne…». E così, sbrigativo, chiosa: «insomma, questo tipo di faccende non mi piace!». Bel giudizio idiosincratico, tutto di pancia; ma diamogli tempo per scoprire per intero la bellezza del poema della forza.

29 gennaio, ore 20:13 Tra la lettura e la critica, l’indispensabile trait d’union è l’immaginazione. È il passaggio, inevitabile, per il termine medio dell’immaginazione che riesce a farci intravedere nel testo, ci aiuta a cogliere quanto in esso è in potenza, ma non si palesa immediatamente. Un po’ come, nella fisica subatomica, accade per il bosone di Higgs: bisogna “stimolare” il testo; far aggallare quelle micro particelle di senso che ne abitano, invisibili,

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il vuoto (e che pur esistono). Non a caso Cesare Garboli in Stanze separate parlava di quella «zona franca» in cui la critica cessa di essere “critica”, e diventa finalmente e «odiosamente» letteratura.

30 gennaio, ore 15:35 Col tempo ho capito che no, non è stato solo un caso, ma una questione di pelle, l’essere rimasto al palo, inchiodato al natio borgo, al microcosmo della mia periferia. Non ho mai avuto padrini, né procuratori legali, né imbonitori che s’adoperassero per me. E hanno fallito per primi, perdendo del tutto di appeal su di me, i salvatori del mondo: preferisco stare con i piedi ben piantati entro questa zona grigia (navigare a vista) – nel caldo ombelico di questo mio Ottocento, dove dire Io è un riconciliarsi con il Tu; è nutrire l’utopia di un Noi, davvero condiviso.

31 gennaio, ore 16: 48 Curioso come mi si ripresenti il problema del differente indirizzo e uso nella scrittura del punto di vista, imbattendomi per caso nella lettura di un testo inedito (pubblicato su «Avvenire»?) di Daniele Del Giudice, che reca in sé un titolo tanto importante quanto intimidatorio: Teologia dei pronomi. Del Giudice avvia la sua riflessione, con la consueta nettezza di discorso che caratterizza la sua prosa, principiando dalla considerazione che nelle lingue semitiche il paradigma di coniugazione dei verbi princìpi dalla terza persona, esprimendo la radice verbale allo «stato puro», per cui l’Egli (da intendere sostanzialmente come Dio), così come il Tu dialogico (in riferimento all’appartenenza a una Comunità), precedono e sacrificano di fatto la sfera dell’Io individuale. Quell’Io che,

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depotenziato, perduta l’indivisibile compattezza ottocentesca, si è venuto disintegrando nella trinità freudiana (ego, io, superio); si è fatto nullificante «legione» nella moltiplicazione, prima pirandelliana, dopo pessoana; è diventato il nemico numero uno da misconoscere nei sogni di palingenesi politica novecenteschi; e laddove resiste, nella declinazione letteraria, ha segnato, in senso negativo, il confinamento, sostanzialmente intransitivo, che ne certifica tutta la fallimentare e autoreferenziale impotenza. Nello scrivere, oggi, continua Del Giudice, più che dei «punti di vista fondanti», i pronomi ci appaiono come «dei registri musicali, dei timbri narrativi». L’Io, al massimo, sembra essere relegato a un ruolo testimoniale, guadagnandosi il rango di personaggio della storia e nella storia; il Tu, dal canto suo, quando sembra facilitare le cose, postulando la costitutiva plausibilità di un dialogo con un altro fittizio, può essere descritto o ironicamente blandito, magari per compiacere il vero destinatario esterno del gioco letterario, ossia il lettore; e che dire della scelta, solo in apparenza democratica, del Noi che, nel momento in cui sembra unirci, neutralizza il libero arbitrio, deresponsabilizza, spalmando il peso di ciò che si narra su una coscienza collettiva presupposta, e vera solo in teoria? Ma il vero pronome, chiosa da par suo Del Giudice, è quello «muto e sottinteso di chi narra»; il personale incedere che si attaglia a ciascuno – il modo «di pensarsi “io” nel linguaggio» – in cui il narcisismo di ciascuno si dissipa appunto nel discorso. Ecco: cos’è dunque la voce, se non il distinto avvertire il dettato interno di chi pensa, attraverso la scrittura?

1° febbraio, ore 07:06 A due mesi esatti, talvolta mi capita di chiedermi ancora dove tu sia… D’Annunzio vi immaginava come «genii benigni», mossi da un istintivo senso del soprannaturale, palesato ad ogni vo-

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stra improvvisa agitazione. A mancare è proprio quell’atavica simbiosi, quel muto linguaggio di sguardi e d’intese.

2 febbraio, ore 11:59 Da quasi un anno attendo con ansia l’uscita di un mio breve ritratto dedicato a Nicola Chiaromonte (da me scritto con vivace devozione), e che mi è stato chiesto per un numero speciale dedicato ai Buoni e cattivi maestri della rivista «Il Maradagal», diretta da Sara Calderoni. Nulla di che, intendiamoci, ma che si torni a parlare di questo magnifico intellettuale asistematico mi sta molto a cuore. Lo voglio scrivere anche qui: Chiaromonte – insieme a Borgese, certo Rensi, Steiner, Garboli, Baldacci, Berardinelli – è stato uno dei miti irregolari della mia formazione da autodidatta. La sua posizione terza era già per me leggenda, ancor prima del confronto diretto con i suoi testi più noti. A rendermelo semprecaro, è quella fruttuosa mai dismessa pratica del dubbio, una ricerca di verità che coincide con la stessa ininterrotta perorazione, e che rimane figlia, si manifesta soltanto «nell’esperienza vissuta». E di questa esperienza, manco a dirlo, è parte fondante la letteratura, giacché, come scriveva in Credere e non credere, «è soltanto attraverso la finzione, e nella dimensione dell’immaginario, che è possibile apprendere qualcosa sull’esperienza autentica dell’individuo». Mani in tasca, incappottato, il bavero alzato, un grosso tomo sotto il braccio, di spalle a una ringhiera sul mare, pensoso, lo sguardo proiettato lontano oltre il punto di ripresa: è questa forse l’immagine più famosa che ritrae Nicola Chiaromonte, con quel volto «un po’ mulatto» che «poteva appartenere a tutto il Mediterraneo occidentale», come volle ritrarlo nei panni di Giovanni Scali, l’aviatore italiano di L’Espoir, nel suo romanzo dedicato all’avventura della guerra civile spagnola, André Malraux.

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3 febbraio, ore 14:29 L’ho già scritto. Mal sopporto i coccodrillari seriali che affollano i social, per i quali non c’è scrittore, attore, regista, sportivo, personaggio pubblico in genere che muoia, per cui non valga la pena di lasciare una pietra sulla lapide o un fiore di plastica, di scrivere insomma un post, per lo più esaltato e celebrativo (accompagnato dall’immancabile corredo iconografico), dove le parole più gettonate sono senz’altro sempre le stesse: «vita», «amore», «passione», «bellezza», «capolavoro»…; e con l’effetto, peraltro disarmante, di non ricordare veramente nessuno. Noto questo rigurgito pavloviano del popolo dei social anche oggi che ad andarsene è il luminosissimo George Steiner, colui che ha avuto la pretesa, vinta, di rieducarci alla confidenza estrema con una «lettura ben fatta» (Peguy). Ché il testo è ciò che ci sopravvive: mentre leggiamo moriamo un po’, come Le Philosophe lisant di Chardin che si trova al Louvre, la cui analisi apre Nessuna passione spenta. Ciononostante, il leggere rimane uno dei modi privilegiati che l’uomo ha a sua disposizione per combattere, novello David, l’oblio. In questo serratissimo dialogo con il testo, parte attiva e collaborativa hanno i marginalia (vergati in accordo o in antagonistica divergenza, poco importa): sorta di straripamento, di fusione tra l’opera e il suo lettore-interprete, impulso riflesso alla riscrittura. Se la critica è un debito contratto da saldare, l’altare al quale officiare questo tributo allora non può non essere che quello della memoria personale del lettore. Come a dire che il lettore autentico è anche e soprattutto uno scrittore che si scruta, per mezzo dello specchio del testo, nella sua stratificata memoria personale. Uno scrivere, quello del lettore, comunque negandosi all’opera compiuta. E acutamente Steiner in I libri che non ho scritto, parla dell’agire potenziale, nell’ombra, dei libri mai scritti che avrebbero potuto permetterci di «fallire meglio». A pensarci bene: cos’è questo mio journal, queste note rapsodiche, se non un possibile catalogo di libri mancati e meravigliosamente falliti?

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4 febbraio, ore 16:49 Tornando ancora su Chiaromonte, mi sono sempre sentito a mio agio entro quel suo pensare alla vita come paradossale teatro dell’esistere: commedia o tragedia che si recita mai per sé, bensì per gli altri; l’essenza stessa della vita autentica essendo contenuta in ciò che di essa sfugge e più ci colpisce (visione che lo pone tra Pirandello e Montale). La sua personalissima filosofia della realtà, si spiega ancora meglio con l’amore per l’originale e sempre viva lezione del teatro pirandelliano, quel mettere in scena l’ambiguità delle situazioni umane e la necessità, a partire da esse, di «ragionarle»: ritorno a una condizione elementare che ci riconduca a un dialogo, e con noi stessi e con la società. Basta infatti leggere i suoi Scritti sul teatro per cogliere la radice di quel suo genuino antistoricismo; figlio di quel pensare, in maniera esclusiva, al teatro stesso, data una “situazione drammatica”, come antagonistico ragionare sul reale e nel mondo. Giacché il personaggio – l’eroe tragico o quello comico, poco importa – è «la manifestazione senza veli né rispetti umani» della «incomparabilità fra l’uomo e ciò che gli accade».

5 febbraio, ore 17:53 A distanza di anni, di Nicola Chiaromonte mi colpisce l’oltranzistica difesa di un’irrinunciabile idea di cultura che metta al centro l’individuo, libera da ogni condizionamento ideologico. La politica semmai viene soltanto dopo, rappresentandone l’implicito approdo, una volta ridefiniti e risemantizzati i valori condivisi. Sta forse tutta qui l’intramontata attualità del suo pensiero: in tempi di penuria morale come i nostri, sforzarsi di ridefinire il sillabario etico, trovare il coraggio radicale di restituire a un patrimonio di valori un «contenuto vitale» (rispondente all’«intelligenza dell’epoca nostra»), dovrebbe essere

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l’urgenza cruciale. Quell’essere e pensare fuori dalla politica, epperò sempre avendo come principio cardine la dimensione individuale e orizzontale dei rapporti umani. Prospettiva che potrebbe benissimo mutuare anche chi svolge il mestiere del critico, giacché – nella spola tra io e mondo, tra individuo e società, tra visione personale e ricerca di una comune eredità di valori culturali – la soggettivissima detection del critico, per quell’allargarsi e aspirare delle sue personali argomentazioni a tradursi in racconto condiviso, rimanda, analogamente, a un senso ricercato di prossimità, a un interesse da mettere in comune; nell’inossidabile certezza, come scrisse lo stesso Chiaromonte, che «se l’esperienza di uno non è l’esperienza di tutti, essa ne è però parte integrante e significativa». Entro una visione che accosti teatro e critica – simile all’attore, il critico, suggerisce implicitamente ancora Chiaromonte rievocando un pensiero tratto dall’epistolario di Van Gogh, non può non riconoscere la sua inadeguatezza, che tuttavia rappresenta il motore primo della sua voglia di essere. È proprio vero, come scrisse in una lettera Dwight Macdonald indirizzata allo stesso Chiaromonte, che «Nick» è davvero riuscito a cambiare il nostro «modo di vedere le cose dal punto di vista culturale».

6 febbraio, ore 23:14 Non so perché, stasera mi girano in testa queste parole che, se la memoria non m’inganna, si ritrovano in Città distrutte di Davide Orecchio: «il trauma è fertile, vorace, duraturo, virale. Capita che si trasmetta di padre in figlio. Può diventare cultura». E i traumi, come cercavamo di spiegarci a vicenda conversando ieri l’altro io e un amico scrittore, non esistono soltanto nel teorema perfetto di una filosofia del tutto avulsa dalla vita (si pensi a un’operazione saggistica che ho sempre rigettato come quella del Senza trauma di Daniele Giglioli,

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che sale sul tram di Žižek): appellarsi alla società dell’inesperienza, della finzione in scala esponenziale, non spiega nulla. Non racconta, di fatto niente, della vita di ognuno. E questo, se è vero per tutti, è (se possibile) ancor più vero per i grandi autori: per ciascuno di essi, infatti, possiamo indagare la loro natura bifronte; scegliere, dico, d’indugiare sulla facciata che si sono impegnati a costruire, oppure incaponirsi a ricercare garboliane infezioni, scavare dentro la ferita. La storia di uno scrittore può essere raccontata, dal critico, in maniera duplice. Meglio: è precisamente nella spola tra “facciata” e “ferita” che si può cogliere il senso pieno di un’autobiografia intellettuale, l’oroscopo di un destino.

7 febbraio, ore 23:41 Non finirò mai di stupirmi per quella singolare febbre di presentare un romanzo come il migliore dell’annata, quello che racconta meglio gli ultimi vent’anni della storia del nostro Paese, l’inatteso caso letterario, la rivelazione, la luce in fondo al tunnel del vuoto pneumatico di tanto sottobosco letterario… Non conosco modo peggiore per rinunciare in partenza a dire qualcosa di sensato su un libro. È un lessico pseudo-definitorio, per certi versi aggirante e giornalistico (in senso deteriore): insomma, dorrichiano. E non finiamo di sorprenderci di scoprire, ad ogni novità che approda in libreria: il «Roth» o il «Bernhard italiano»; il «degno erede di Volponi»; le «situazioni kafkiane»; il «romanzo post post-postmodern»; «la leggerezza che lo fa il solo erede di Calvino»; il «minimalismo carveriano» (che per gli italiani, poi, equivale ad assenza totale di estro della penna); semplicismo versus profondismo e, non ultimo, il giallista dell’ultim’ora che viene presentato come il «nuovo Camilleri». Alla fine, la grande assente è proprio la letteratura, il lavoro sulla scrittura che costa tempo, fatica, il rompersi la testa. Personalmente, non conosco altro modo che

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quello di riportare a casa – e qui si dovrebbe aprire un’ampia parentesi sulla critica intesa come autobiografia e spola infinita tra il libro e la vita – le parole degli autori (come Vespero le capre – scriveva Garboli).

8 febbraio, ore 23:50 Antagonista al testo, all’autore à la page, al fumistico bisogno della réclame mozzafiato di penne vilipendio, quanto meno, del decoro di un buon partito preso. Tacere è troppo poco: infliggersi un deserto di parole, un intoppo di memoria, almeno si dovrebbe. Cresce d’ogni lato il resto della marmaglia di adoratori social (il belletto, si sa, tira: il make up della parola piana). Il commento è morto, sepolto il suo idioma più vero, di sincero non resta che a malapena un motto, un chiasmo d’entusiasmo: nell’incrocio, sprazzi d’inventive e desuete pratiche di stile. È una questione di metodo – non si discute che per atterrare: le armi sono da sempre eguali a quelle troppo umane dell’astioso ribrezzo, dell’indecente decenza di dire in cattedra la parola più forte e ultimativa. Porgere l’altra guancia – adagio démodé – non giova più nemmeno a guadagnarsi la palma del mite, che incassa e stiva il mazzo di parole sul marmo o al massimo nasconde la polvere del contendere sotto il tappeto del disagio: la critica si combatte, non la si parla.

9 febbraio, ore 13:00 Ieri notte insonnia, colpa dell’adrenalina. Oggi ho infatti corso la mia prima gara podistica. In una domenica dal tepore decisamente primaverile, col mare d’olio e le isole dolci del Dio, come sospese all’orizzonte, a nutrire gli occhi di circa mille runner. Per quasi l’intera durata della gara, scaricata l’ansia della partenza, mi sono imposto di “legare la scimmia”, con-

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centrarmi a gestire mentalmente lo sforzo, a dosare le energie, a mantenere la giusta andatura, a lavorare bene con la respirazione, mettendo a frutto le dritte di Tony, uno dei podisti più esperti e anziani della società sportiva per la quale gareggio, e che mi ha preparato, in poco più di quattro settimane, ad affrontare al meglio, divertendomi, questo mio esordio locale in una mezza maratona. Le gambe pesanti dopo l’ultima impegnativa salita, nel chilometro finale, ho abbandonato ogni controllo, ho messo la testa nelle scarpe e ho potuto finalmente godere la singolarissima sensazione dell’arrivo: il busto eretto, la testa leggermente reclinata all’indietro, gli occhi semi chiusi; l’oscillazione delle braccia a farsi sempre più cadenzata, la falcata che si allunga (senza più peso), la ricerca della progressione; e poi quegli ultimi metri in cui ci si sente vivi sì, ma in un punto preciso. E l’incontenibile gioia!

10 febbraio, ore 23:46 Spinto dai Taccuini del 1918 del prigioniero Bonaventura Tecchi, riprendo in mano il René di Chateaubriand, ricerca dell’inconciliabile armonia tra religione, passione amorosa e natura. Il dittico, composto dalle storie esemplari di Atala e René, al loro apparire incluse nel Genio del Cristianesimo del 1802, letto adesso, denuncia, se possibile con maggiore evidenza, l’incompatibilità di fondo del materiale morale e poetico fatto confluire sulla pagina da Chateaubriand. E sono proprio le due figure femminili, Atala e Amelia, – frapponendo alle loro passioni il diaframma di una religiosità che ha le tinte del dovere o dell’oblio della colpa – a suonare, in via definitiva, le campane a morte per le fole dell’eroe romantico all’alba del XIX secolo; per lo smaniare del cuore umano e per l’abisso delle sue contraddittorie perplessità. Chactas e René, rimangono pertanto esseri tanto sublimi nei loro sacrifici (vissuti da estenuati e

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impotenti spettatori), quanto, in fondo, assai incomprensibili: qualcosa da amare sì, ma poi respingere. Atala non sarà mai la sposa di Chactas per non infrangere il voto fatto dalla madre; Amelia, sceglierà la clausura della monacazione per sottrarsi al sentimento colpevole che la lega profondamente al fratello; entrambe, comunque, scelgono il patto della fede come ritorno alla normalità, mantenimento o ricostituzione di un ordine morale (e sentimentale), messo in crisi dalla passione. La fede è, nei racconti cristiano-indiani di Chateaubriand, il farmaco, ma quasi a bocce ferme, per un’improbabile guarigione dagli astratti furori e dall’egotismo romantico. I segreti di Atala e Amelia, una volta confessati, liberano le loro anime: Atala, per non contravvenire al voto, sceglie di darsi la morte con il veleno (la sua dipartita è dipinta come quella di una santa in estasi, così come del resto la immagina nella Deposizione di Atala nella tomba il Girodet-Trioson del Louvre); Amelia muore anch’essa da santa, curando, prima di abbandonare la vita, con dedizione estrema le consorelle (per entrambe, pertanto, la fede si rivela di fatto phàrmakon e motivo ultimo di felicità).

11 febbraio, ore 00:26 Rimane l’attrattiva scoperta di Chateaubriand per il sacro, i segni, i riti, come quando Atala e Chactas vengono accolti nella missione di padre Aubry e prendono parte al culto («O fascino della religione! O magnificenza del culto cristiano!»), immersi entro uno scenario esotico: è forse in questo connubio di natura e fede, paesaggio e religione, che avvertiamo, per un attimo, il più genuino e veracemente romantico sentimento cristiano, in Chateaubriand. Per il resto l’eroe romantico è per natura condannato a vivere il dispatrio dalla vita stessa, in virtù proprio dell’agire di quell’eccezionale sensibilità che lo porta a rincorrere chimere e a giungere al pieno disgusto di tutto ciò

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che imporrebbe il vivere ordinario; il pregiudizio romantico è quello di carcerarsi in un oltre di sogno e immaginazione che induce all’improvvido deviare dalla realtà e dalla storia (da cui, al massimo, potere infine parlare, da postumi, di se stessi).

12 febbraio, ore 18:08 Anch’io mi stupisco di come, in Chateaubriand, l’implicito monumento all’incipiente moderna inquietudine romantica, abbia trovato spazio nell’opera apologetica per antonomasia del cristianesimo del XIX secolo. Nonostante le ingenuità ravvisabili, nonostante taluni passaggi di maniera, nonostante il resistente pregiudizio che la nostra sensibilità contemporanea frappone ogni qualvolta ci si accosti a simili opere, al pari di Tecchi non possiamo non rimanere conquisi dalla bellezza del libro, giacché la passione di René «vive di vera vita»; libro che Tecchi preferisce al più dimostrativo Atala, dove la contrapposizione tra passione e religione è, in modo più esteriore, funzionale all’enunciazione del teorema della fede. E che dire di certe pagine descrittive che abbondano sia in Atala che nel René: i chiostri, i cimiteri, le selve, i deserti, il corso del fiume Meschasebé… O di passaggi lirici come la lettera indirizzata da Amelia al fratello René, con la quale lo informa della decisione ultima di abbracciare la vita religiosa, rinchiudersi nella pace di un monastero in riva al mare, strappandosi da lui nel tempo, per non essere da lui separata nell’eternità. Si pensi ancora alla scena sublime e patetica della monacazione di Amelia, nella quale, consumato il rito del taglio dei capelli e della vestizione con il velo, simbolo doppio della verginità e della religione, pronuncia, pensandosi inascoltata, quelle «spaventose parole»: «Dio di misericordia, fai che non mi rialzi più da questo letto funebre, e colma di beni il fratello che non ha condiviso la mia criminale passione!». Quel motivo caro allo

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Chateaubriand dell’incesto nello stato primordiale di natura che, notava Praz, in tanto lo ammalia in quanto ne avverte tutta la trasgressione e il turbamento (se nei casi di René egli scorcia in parte l’autoritratto della propria inquietudine, in Amalia sembra adombrare la sorella prediletta, Lucile). Di qui, è probabile, quel rifiuto, nei Mémoires d’outre-tombe, del René e di quella stagione: «Se René non esistesse, non lo scriverei più; se mi fosse possibile distruggerlo, lo distruggerei».

13 febbraio, ore 14:15 È interessante cogliere analoghe sospensive perplessità romantiche nei Taccuini del giovane Bonaventura Tecchi, prigioniero nel ’18 in un Lager nel nord della Germania, tra Amburgo e Hannover: immalinconito, scosso dalle ubbie, nei giorni del suo fondamentale contatto con la lingua e la letteratura tedesca, in cui legge, tra gli altri, De Maistre, Goethe e Chateaubriand (le cui opere non può fare a meno di confrontare); portato com’è, confessa, per suo temperamento, «a sentire più queste opere inquiete, di dolore, che quelle del sorriso». Ragiona sull’«avidità di essere sempre occupato con i libri», unico modo che sa di sottrarsi al suo «spirito nudo»; nutrendo un sentimento di stizza e insieme di vacuità, per ciò che l’inferno dello studio, al fine, gli rassembra, tale da apparirgli come «la veste d’oro e di seta di un mendicante». Fiorisce, dal diario, quest’immagine del «mendicante», come figurazione, posa romanticamente atteggiata, di cui peraltro Tecchi appare consapevole, se scrive che basta sputarla sulla carta bianca per vederla svanire, rallegrarsi di quel «po’ di chiacchiera» sul suo malanno. Non sa concepire l’esistenza, entro una continua tensione di nervi, se non come parossistico imperativo al fare («Io sono un facchino, un bue al lavoro»): a guastarlo, insomma, è la paura dell’abbandonarsi alla libertà del godere,

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di cui peraltro si reputa del tutto incapace. Finendo per dare ragione al Goethe che nel Werther, in modo inequivocabile, sentenzia sulla questione: «L’uomo di niente ha tanto paura come della libertà». Pose di un giovane intellettuale, si dirà. Eppure, quanta verità in questa etica del fare, dell’immersione asfittica nell’ostinata e cieca bramosia del lavoro culturale! Dalla quale, se appena ce ne allontaniamo, ci scopriamo più fragili, soli, inquieti, e inetti. Come non riconoscersi fratelli, in quella indifesa nudità?…

14 febbraio, ore 15:53 Sto guardando una foto. Si tratta forse del mio esordio ufficiale come giovane promessa del calcio locale: campionato provinciale esordienti. Correva l’anno 1986: quello dei mondiali in Messico e della beffa subita ad opera dell’Argentina di Maradona che mi costò un lunghissimo pianto di delusione. Accosciato, al centro, entrambe le mani appoggiate al pallone, la fascia di capitano indossata con sbarazzino orgoglio, con il segno sgargiante di quella prima divisa arlecchina: la maglietta color arancio, il bordino del colletto nero; i calzoncini bianchi; calzettoni verdi; il numero 6, in blu, cucito a mano sul retro della maglia. Libero: quel ruolo che il nostro allenatore, custode del campo sportivo, assai più esperto di ciclismo che di calcio, mi aveva di primo acchito affibbiato, oltre che per il fatto di avere piedi buoni, per quel mio fisico segaligno (a quel tempo alto già quasi quanto adesso). In verità, scoprii subito, poi così poco libero, relegato ad essere il baluardo estremo della difesa, ultimo uomo da cui pure era obbligatorio l’azione ripartisse; ruolo certo di responsabilità, ma che soffrivo come il più grande degli affronti. Motivo per cui consumavo la mia personale protesta saltando almeno un paio di uomini, prima di cedere, controvoglia, ai compagni il pallone (mentre l’alle-

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natore già sacramentava dalla panchina). Non so se avesse ragione Pasolini nel considerare, forse con eccesso di estetizzante posa, il calcio al pari di una «sacra rappresentazione»: per me, fu la scoperta del miracolo del possibile, tradotto in azione; primitivo linguaggio in cui la mia immaginazione poté trovare sfogo. Penso a quel calcio povero di mezzi, giocato in campetti di fortuna o per strada, a ridosso delle case rosa di Bordonaro, dirimpetto all’oratorio, dove ogni saracinesca era una porta in cui fare goal (dopo appena tre tocchi guizzanti e leggeri). Il calcio della terra battuta e del brecciolino di cava che sbucciava le ginocchia; quello dei tornei estivi, chiuse le scuole, tra i quartieri: Salesiani, Agip, Chianu di Chiesa, S7, Terreforti, Vallebruca – giocati per lo più in quel rettangolo di calcio a sette che recava il nome, esotico ed epico a un tempo, di “campetto dei gitani”. Perfino quello giocato senza palla: come quando in due, in pieno agosto, si decideva di rigiocare interi campionati, interi gironi; in anni in cui ancora della Premier League si vedeva, in rigorosissima differita, nulla più che al sabato la sintesi. Quando – nei quadernetti Pigna –, nella consueta numerazione dove il 7 era l’ala e il 9 il centravanti, si annotavano le formazioni dei grandi club internazionali, con quegli undici da mandare a memoria e ripetere (improvvisati cronisti) davanti alla mano stretta in un pugno, a mo’ di microfono.

15 febbraio, ore 11:45 E al calcio della crudele stagione del transito dall’infanzia all’adolescenza è legata, anche per me, quella progressiva perdita d’infinito che induce ciascuno, inevitabilmente, a tutto ridimensionare; e in cui la realtà finisce per coincidere sempre più con ciò in cui decidiamo di credere. Somigliando lo stare al mondo a un complicato e risicatissimo esercizio di costruttivismo mentale. Così, eclissatisi i sogni di gloria, caduti

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per sempre gli abbagli di quel piccolo mondo, il calcio è stato respinto in favore della letteratura; convinto comunque che, ciononostante, abbia giovato a prendere coscienza una volta per tutte della mia autentica vocazione. A tradurre in parole il caos di tali intimi accadimenti aveva provato, con un romanzo tanto ambizioso quanto affogato entro una tramatura stilistica con non poche falle, Enrico Macioci con il suo Breve storia del talento. Ma forse un simile racconto di vita sarebbe da consacrare, più che nella disinvolta ricerca dell’effetto poetico, nell’implicito corteggiamento del non-detto, in quel difficile gioco a sottrarre che Calvino consegnava ai lettori nelle sue postume Lezioni americane.

16 febbraio, ore 22:21 Gli orizzonti culturali si curvano, s’incontrano in un punto, compressi, ripiegati, fino a coincidere con se stessi. Agli assi consueti e consunti, all’impasto morboso di viete prospettive, incrostate ideologie, filosoferie passe-partout a buon mercato, certezze ermeneutiche a tanto al chilo, preferirei un nuovo umanesimo (anche in sedicesimo, magari arpeggiato in minore) che passasse dalla riscoperta della persona e del trascendente.

17 febbraio, ore 00:37 «Per me la critica somiglia al Fisco il quale quasi sempre ci tassa per capitali superiori a quelli che realmente possediamo. Guai a non contrastarla e a non farle capire che il nostro patrimonio è piccolo, ma è nostro». Così scriveva, non ricordo più dove, e in orgogliosa difesa di quella sua poetica, quel gigante della letteratura italiana che fu Grazia Deledda. Prospettiva che, richiamata dai più, potrebbe lasciar pensare a una fuorviante idea “aristocratica” della critica che agisca, di contro, da

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attenuante per taluni scrittori d’oggi, sempre pronti a esibire il vanto di un sì piccolo “patrimonio”. Dal canto mio, rimango sempre più convinto che la lotta agli “evasori” della letteratura debba essere strenua e spietata.

18 febbraio, ore 20:26 In tempi di schizofrenia politica e mediatica, l’intellettuale deve imparare a stare solo, farsi silenziosamente vigile, tirarsi fuori: avere il passo del bradipo, confrontarsi con la longue durée. Pena il rischio di scadere. Più che stare sull’attualità, la pratica viva e quotidiana del dubbio. Vivere da ottocenteschi questi anni.

19 febbraio, ore 15:54 Leggendo Isolitudini, il ponderoso Atlante letterario delle isole e dei mari che Massimo Onofri, con titanica applicazione ha voluto, novello De Maistre, scrivere, mi sono ricordato di una trasmissione radiofonica da me curata anni orsono per un’emittente locale dedicata proprio a quest’argomento, e che allora avevo voluto intitolare, manco a dirlo, in stridente contrasto con la mia natura d’incallito stanziale, “Andar per isole…”. L’isola non solo come luogo geografico, scoglio fisso nel mare, occhio di terra, ma anche come segno, luogo mentale, metaforico approdo. A dire anche di un’insularità della mente: quel ritrarsi che porta a fare vuoto attorno a noi; forse a meglio discernere, entro una riduzione che possa somigliare a una più familiare percezione del cosmo. Isolamento che non sempre equivale ad asocialità, ma a un paradossale allontanarsi per meglio abbracciare tutto, mirare verso un orizzonte meno ottuso. Un esercizio di necessaria misantropia per mezzo del quale ridisegnare le nostre mappe, decrittarne altre, intraprendere

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una rinnovata cartografia di più umani arcipelaghi. Riflettendo su una simile operosa solitudine, è inevitabile che il discorso ci porti non tanto discosti dal rovello del filosofo; dalle ambasce del compositore (di parole o di musica, poco importa); dai furori del lettore che, prendendosi del tempo, guadagna la sua parentesi dal mondo, per immergersi nel rito della lettura. La penna, il pianoforte, il libro – rappresentano l’isola concreta, le Encantadas private, i possibili ripari da cui intraprendere un’appassionata conoscenza. Ossessivo insuperato interprete di Bach, Glenn Gould, che ai concerti in pubblico preferiva la sala di registrazione, è forse tra gli esempi più estremi di questa peculiare forma di clausura. Rinchiuso in casa, attendeva che calasse la notte per irrompere nel silenzio e suonare la sua musica, inascoltato. Concedendosi, unica sua compagnia, quel canticchiare sgraziato e inconfondibile che accompagnava più di qualche sua incisione discografica.

20 febbraio, ore 17:21 Che poi l’antitetico modo di concepire il viaggiare (che finisce per corrispondere ad opposte forme di concepire l’isolitudine stessa) è seccamente definito, da Massimo, dalla differente visione di due scrittori svedesi: Stig Dagerman e Björn Larsson. Se per Dagerman esso coincide con l’esperienza dell’accostarsi sempre più alla morte (il farsi «isola di sé a se stesso»); per Larsson, si configura, piuttosto, come inseguimento d’una imperitura giovinezza, da realizzare in quanto desiderio di perenne intensificazione della vita (essere «isola del mondo per il mondo»). Diversioni, dal canto mio, quelle del «combusto e verticale» Dagerman e del «mercuriale ed orizzontale» Larsson, entrambe sintomatiche dell’agire, nel loro rapportarsi alla vita, d’una degradazione romantica; insomma, le dissimiglianti isole di un medesimo stagno esistenziale.

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21 febbraio, ore 19:30 Potrò sbagliarmi, eppure non mi abbandona l’idea che questa dicotomia su cui insiste Onofri, emblematizzata dai due autori svedesi, valga infine come un circolare andare che dall’inseguire il mito d’una inconclusa giovinezza – esaurito il periplo, circumnavigata ogni ragionevole utopia, tentato ogni passaggio a nordovest – conduca in qualche modo alla delusione di un’incompleta appartenenza, all’esaltato montante appressarsi a un desiderio di estinzione.

22 febbraio, ore 11:07 Al netto del disincanto con il quale Massimo apre e soprattutto chiude questo suo inventario, chiamando a testimonianza di quanto epifania e scacco finiscano per coincidere i versi (inequivocabili) di un meraviglioso quanto bistrattatissimo poeta che mostrò una dura frequentazione col nulla come Bartolo Cattafi, sorprende che abbia mancato di dedicare almeno mezza paginetta al magnifico racconto lungo di D.H. Lawrence L’uomo che amava le isole. E ancor più la cosa stupisce leggendo la conclusione cui perviene riguardo al testamento spirituale di Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, a chiosa dell’incomparabile partita, denunciata dallo scrittore morto suicida, tra l’esigua libertà dell’uomo davanti a quella del mare: «Soltanto una piccola isola, allora, ci potrà salvare? Forse sì, e per il fatto che lo sguardo, lasciandosi dietro il mare, non troverà dall’altra parte la terra a chiudergli tutto l’orizzonte, ma soltanto altro vastissimo mare».

23 febbraio, ore 19:21 Ovunque sembrerebbe possibile abitare la nostra isola, trovare il luogo che più ci somiglia, magari solo migrando di isola in

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isola… Eppure, questa peregrinante ricerca può risolversi in tetragono passo nell’autodistruzione, tuffo in una lucida follia, come accade appunto al protagonista di The man who loved islands di D.H. Lawrence. L’uomo, pur essendo nato in una grande isola, è mosso dal desiderio di trovare «un’isola tutta per sé», in cui farsi isola egli stesso, nutrendo un sentimento di pervicace misantropia che sfocerà in ultimo nell’odio, nel totale rifiuto della natura e della storia; accecato da una coriacea convinzione: la vera isola è un nido «in cui c’è posto per un uovo, e uno soltanto». Non a caso acquisterà ben tre isole (e ogni volta, la nuova, sarà ancora più piccola della precedente). Isole di cui non viene rivelato il nome, anche se non è difficile immaginarne la collocazione geografica, isolotti celtici che potrebbero trovarsi nelle Ebridi, isolotti di pochi chilometri quadrati. Sulla prima isola sperimenta i pericoli del «diventare isolano», primo fra tutti quel ritrovarsi sperso entro un «mondo senza tempo», in cui vivi e morti coabitano; l’isola gli appare tanto bella quanto ostile, tanto misteriosa quanto maligna; l’isola-mondo della comunità di cui è capo e padrone ben presto gli si rivela guastata dall’atteggiamento degli altri isolani, che percepisce, nonostante i suoi sforzi filantropici, nemici; così come «implacabilmente nemica» avverte l’isola stessa fino a sentire il bisogno di disfarsene. La seconda isola non è più una piccola società, bensì una sorta di placato rifugio in cui iniziare a pascersi dell’assenza d’ogni desiderio. E a tradirlo, questa volta, sarà proprio il montante ritorno della meccanica del desiderio sessuale, che finisce per produrre un effetto luttuoso: l’amore fisico per la figlia di una vedova (superstiti che aveva deciso di condurre con sé dall’isola precedente) lo fa infatti ripiombare al punto di partenza, compromettendo quell’apparente pace fino a quel momento conquistata. La terza isola, pochi acri di roccia ancora più lontani, ancora più a nord, verso il mare aperto, una piattaforma brulla e inospitale, tempio consacrato alla solitudine estrema e al grande silenzio.

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Essere solo, assolutamente solo: «questo era il pane della sua anima». Il mondo gli è ripugnante, così come ogni occasione di contatto con esso (uomini e animali li sente nulla più che come «sudiciume sulla freschezza della terra»). La misantropia deborda in una visionaria follia, sorprendendosi a fissare, con furiosa e quasi crudele ossessione, «il mare scuro sotto il cielo oscuro»; al migrare degli uccelli, prova un senso di crudele soddisfazione, al pensiero che, in quell’estremo lembo di terra in mezzo all’oceano, «tutto sarebbe scomparso», nulla sarebbe sopravvissuto (nutrendo un vivo istintivo desiderio di estinzione); morta in lui è anche la smania di computare il tempo o di aprire un libro: il linguaggio gli appare anzi quanto di più simile alla depravazione, e arriva a distruggere tutto ciò che di scritto ha in casa (strappa via perfino l’etichetta di ottone della stufa a kerosene). Rimasto solo contro gli elementi, l’estrema e impari battaglia la combatte con la neve (demoniaca) che imperversa, a ricoprire tutto, sull’isola; al punto da mutarne profondamente la sagoma, fino a renderla «irriconoscibile».

24 febbraio, ore 17:19 Per quanto sia la storia di un’inesorabile caduta da una singolare aspirazione (prima chiara, poi sempre più oscura) alla più cupa follia, l’essermi imbattuto, poco più che ventenne, nella lettura di questo perturbante racconto lungo di Lawrence, ebbe allora l’effetto, su di me, di una vera e propria folgorazione; al punto da percepire come desiderabile la brama dissennata del protagonista. Dico desiderabile proprio quel perdersi e arreso lasciarsi pervadere dallo spettacolo superbo e crudelissimo degli elementi. Quell’atmosfera frederichiana, in cui un uomo solo, in un’isola grande poco più di uno scoglio, istupidito, immerso nel monocromatico e vasto biancore di quel lembo di terra ultimativo ed estraneo – davanti a

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sé, ad accecargli gli occhi, nulla più che «la desolazione del mare privo di vita» tempestato dalla neve battente –, mi parve la conquista di una delle più perfette epifanie della bellezza. Solo oggi ne riesco a cogliere la forza di concentrata e circolare visione del sovrapporsi, fino a collimare, del puerile inseguimento di un sogno di giovinezza con un’autodistruttiva smania di estinzione.

25 febbraio, ore 01:17 Adoro i preraffaelliti. Se penso infatti al rivelarsi della mia natura diciamo così “sentimentale”, la prima cosa che mi balena in mente sono proprio certi dipinti di Gabriel Dante Rossetti. Ricordo che da ragazzino, non avevo ancora compiuto sedici anni, strappai di nascosto, da un numero della rivista «FMR» che zia Geco allora aveva preso a collezionare e custodire gelosamente, diverse pagine che, insieme ad un ampio articolo letto con curiosa avidità, comprendevano alcune (e per me da subito magnetiche) riproduzioni delle donne ritratte dal preraffaellita Rossetti. Furono, in certo senso, le prime icone benedette, a racchiudere il mistero inestricabile dell’elemento femminile. E da allora sempre care, giacché testimoni di una spaesante agnizione (che poco aggiungeva al mistero se non la scoperta del mistero stesso), quelle antiche reliquie con devozione sottratte, giacciono ancora sigillate entro una carpetta azzurra, nel fondo di uno dei cassetti dello studio, nella casa di famiglia. A ripensarci adesso, non è per nulla strano che mi sia lasciato letteralmente conquidere dall’ubriacante commistione di sogno e realtà, di arte e vita, di cui quei dipinti erano latori, dalle patinatissime pagine nere di quella preziosa rivista che un editore geniale come Franco Maria Ricci si era inventata, peraltro ergendo (fatto questo di per sé non meno geniale) le sue iniziali a cifre inequivocabili di una particolare estetica del gusto.

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26 febbraio, ore 20:14 Il maniacale concentrarsi di Rossetti sul volto femminile; la ricerca ossessiva, in quelle sembianze, di un’effigie onnicomprensiva, figura fantasmatica e quintessenziale, lo catapulta «via dal mondo». Al punto che la sua vita vera, dirà, sarà dentro quel baluginante sogno dettato dalle donne fissate nei suoi dipinti. Che fosse Lizzy Siddal, la tragica e tormentata moglie dell’artista, celebrata, anche dopo la morte di lei, nei panni della Beata Beatrix del 1872 – sognante e dagli occhi chiusi, le mani in mano, il capo leggermente reclinato, la chioma adagiata sulle spalle, compresa in una trance spirituale, sulla soglia; che si trattasse dell’altra sua grande ossessione, la cameriera poi divenuta modella dei preraffaelliti Jane Burden Morris, che incarnerà – nelle tele di Rossetti –, oltre a tante altre figure di eroine, quella cattivante Proserpina del 1874, lo sguardo penetrante e assorto, i capelli lisci e ramati, il frutto fatale stretto nella mano sinistra, l’incarnato di un colorito perfetto, colta di tre quarti, in un buio antro del suo palazzo, alle spalle l’aprirsi di un improvviso baluginio che per un attimo rimanda al mondo superno (dipinta nel momento in cui il traviamento amoroso per Jane era al suo culmine); o che fosse la barocca venere da suburbio Fanny Cornforth, sua amante già dal 1859, dalla morte della Siddal divenuta governante in casa del pittore, a prestare le fattezze (di certo meno eteree) a queste dee di una molteplice prismatica femminilità, il narcissico simbolismo di Rossetti trasfonde, in ogni sua tela, le inquietudini private (tra esaltazione e depressione) nell’immaginario – mitologico e romantico – che aveva deciso di abitare come un sovramondo; e che, attraverso l’evocazione pittorica, tenta di rendere sostanza unica della sua esistenza. Ecco: quel topos di beltà femminile trino, ma sempre più tendente, nell’immaginario dell’artista, all’uno, delle donne più amate – la bionda Lizzy, la corvina Jane, la rossa Fanny – fu per me il precoce incontro con un altrove sconosciuto, inconsciamente desiderato; e per

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un attimo raggiunto, dal languore che coglie l’occhio di chi con lo sguardo sosta su quelle immagini. Fu naturale oltre che inevitabile, manco a dirlo, qualche anno più tardi, fresca matricola universitaria, assimilare l’oggetto di una mia infatuazione, una ragazza di appena qualche anno più giovane di me che in tutto mi sembrava, e proprio a cominciare dalla folta chioma ramata, condividesse i tratti e l’intelligenza sensibile delle cose e dello spirito trasfusa dalle donne rossettiane.

27 febbraio, ore 17:19 Del resto, come dar torto a Swinburne quando scriveva che Dante Gabriel Rossetti credeva nella bellezza «come in una divinità»? Fede peraltro da sempre masticata e familiarissima anche all’Aviatore, che da quando mi ricordo ha voluto onorare, artista senza bisogno d’arte, lo spazio utopico di un assoluto culto della bellezza, per nulla morboso e anzi declinato come lapalissiano e granitico discorso di amorosa certezza. Quel centellinato logos pulcrocentrico che, in principio, lasciava spiazzata perfino Rosamaria; stupita dal pervicace gravitare, o implicito confluire, d’ogni suo dire attorno a quella aerea e insieme lucida idée fixe. Forse senza nemmeno sospettarlo, con la sua consueta disarmante semplicità di asserzione, con quell’eloquio tanto preciso quanto morigerato, a tal proposito l’Aviatore pensava proprio come il Balzac di Béatrix che «la beauté est la génie des choses».

28 febbraio, ore 19:09 Arturo Graf ne era convinto: per quanto riconoscesse loro il pregio di avere, in pittura, contribuito ad affinare nuovamente il gusto, dopo l’ampia dittatura del naturalismo, quella confraternita d’artisti (e Rossetti in testa) non avrebbe segnato nulla

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più che «un breve e passeggero ringorgo». Quell’Arturo Graf che, preferendo alla formula dell’«arte per l’arte» degli esteti quella correttiva dell’«arte per l’uomo nuovo», considerava la poetica del preraffaellismo «l’infingardaggine nell’arte». Dal canto mio, l’eterno femminino declinato in pittura da Rossetti fu la scoperta di quello che potremmo definire, con un termine oggi improvvisamente tornato di moda, un precoce stilnovismo.

29 febbraio, ore 11:47 Non so perché, fin da ragazzo, non ho mai digerito e amato gli anni bisestili. E ancor più ho sempre vissuto con fastidio e apprensione il mese più compresso dell’anno: febbraio. Mensis Feralis – per i romani il mese dedicato ai riti per i defunti e ai rituali di purificazione. Nel XV secolo Michele Savonarola, medico e scienziato, nonno del più noto Girolamo, sosteneva già che gli anni bisestili fossero portatori di epidemie ed altri nefasti accadimenti. In Irlanda, quel giorno in più, il 29 febbraio, è chiamato leap day – giorno del salto; in cui è concesso alle donne chiedere al fidanzato di prenderle in moglie. E il 29 febbraio 1848 Ferdinando II, re delle Due Sicilie, concesse la Costituzione palermitana, con l’intento di sedare il malcontento popolare che avrebbe dato il la a quella che sarebbe passata alla storia come la stagione della “primavera dei popoli”.

1° marzo, ore 13:07 Anche sullo sfondo di Isolitudini, dopo i due Passaggi dedicati alla geografia fisica ed umana delle sue due isole di destino (Sardegna e Sicilia), dopo le stanziali meditazioni dei “pensieri in fumo” di Benedetti toscani, il personaggio-uomo è sempre lo stesso: un intellettuale malinconioso, ironicamente narciso,

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assediato dai suoi incubi e dai suoi inesausti slanci amorosi, volto a chiosare, tra il compiaciuto e il rassegnato, lo “stilnovismo patologico” da cui è inguaribilmente affetto. Per Massimo, e ne sono più che mai convinto anch’io, il ricorso al filtro di un io solo in apparenza ipertrofico è divenuto, negli ultimi anni, la privilegiata chiave d’accesso alla realtà. Entro una decisiva triangolazione tra io, scrittura, viaggio, secondo quella disposizione che, in quest’Atlante letterario, suggerisce nelle pagine dedicate al Viaggio sentimentale di Laurence Sterne. E che fa dell’“isolitudine”, accanto al desiderio di spatriarsi, una condizione sentimental-esistenziale: si leggano, in tal senso, le belle pagine dedicate a L’isola del tesoro di Louis Stevenson, il romanzo che, planando sul mito di una mai davvero perduta infanzia dell’uomo, non a caso definisce come «programmaticamente superficiale». Ecco: l’inseguimento di una solare immagine di imperitura giovinezza che qui, per dire, troviamo scolpita (proprio nelle pagine dedicate all’amato Stevenson) nella cursoria rievocazione del fulminante romanzo di vita della sua infanzia tra i ragazzi di via della Pila a Viterbo.

2 marzo, ore 23:02 M’imbatto per caso in Livelli di vita un libro di qualche anno fa dell’osannato Julien Barnes che mi stuzzica non foss’altro per l’argomento. Giacché, in almeno uno dei protagonisti, Félix Tournachon (Nadar), mette insieme due cose a me da sempre care: aeronautica e fotografia. Leggendo mi viene in mente quella caricatura di Daumier che immortala proprio Nadar a bordo di un aerostato mentre si accinge a effettuare riprese sulla città. È il tipo di libro che avrei voluto scrivere io, da dedicare, come un altare, all’Aviatore. Fotografia e aeronautica. Come non pensare a quel primo volo in cui si voleva celebrare lo sposalizio delle nostre passioni, tra me e l’Aviatore: è singo-

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lare che di quel volo, durato pochissimi minuti e conclusosi nel modo che ho qui raccontato, non sia rimasta altra traccia se non nell’approssimativa e peraltro distorta cronaca di un ammaraggio di diversi corrispondenti dei quotidiani regionali. Nadar fu il primo, dice bene Barnes, a mettere insieme questi due mondi: il guardare dall’obiettivo e l’ascendere.

3 marzo, ore 18:34 Costruito come un polittico, Levels of life è un libro in tre sezioni – Il peccato dell’altezza; Con i piedi per terra; Perdita di profondità –, libro che intreccia, manco a dirlo, un discorso amoroso, giacché l’amore, scrive Barnes, «è il punto d’incontro fra verità e prodigio. Verità come nella fotografia; prodigio, come nel volo aerostatico». E Barnes sembra dare ragione a un mio chiodo fisso, ossia che il volo, oltre che indubitabilmente con la vita, abbia a che fare anche con l’esperienza della morte. Altrimenti perché, in un libro sulla terra e il volo, sulla verità e il sogno, sull’ascensione e la caduta, avrebbe dovuto scrivere, nella terza e finale parte del suo libretto di grazia della dolorosa perdita della moglie e dell’elaborazione del lutto? Anche per me scrivere dell’Aviatore (della sua grande passione per il volo), averne voluto qui tracciare in qualche modo una plausibile mitologia (facendomene di fatto carico, assumendola come eredità), equivale a dire della sua morte. Voglio dire che il volo, la sua condizione, è non tanto dissimile da quella del non esserci più, del separarsi da quel resto di tutto, che fino a un attimo prima ci ha riguardato. Ecco perché, una volta a terra, dopo ogni uscita, al ritorno, il viso dell’Aviatore tradiva un’espressione come di chi avesse concretamente veduto in un’altra realtà, un “livello di vita” senza più peso, senza memoria; una totale sospensione di profondità, entro un radioso attimo in cui tutto assomiglia, di più, a ciò che è invero.

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4 marzo, ore 23:07 Se dunque fare esperienza del volo è un po’ come morire, per chi rimane, e Barnes questo lo riesce a raccontare benissimo, andando dritto al nocciolo della questione, si tratta di un precipitare «senza mai perdere i sensi», impattando con tale violenza al suolo, al punto da conficcarsi nel terreno fino alle ginocchia. Chi rimane, il sopravvissuto (il «dolente»), e di ciò me ne convinco anch’io, più che per sé (che quel lutto deve imparare a gestire), dovrebbe addolorarsi per la perdita che ha subìto chi non è più insieme a noi. Anche se la perdita più grave è sempre quella a danno del principio stesso della vita: così, a dover fare a meno della radiosa intelligenza dell’Aviatore e della bellezza archeologica di Basilisca non sono più tanto io, quanto la vita stessa, di cui, finché è durato il loro passaggio, sono stati tutt’altro che vacui testimoni. Morire è diventare custodi di una perdita: cessare di essere vox vitae; disincarnarsi per rendere palpabile un’assenza.

5 marzo, ore 15:56 Barnes s’impegna, metaforizzando, grazie anche all’esempio fornito dall’esperienza del volo, a ricostruire l’anatomia del dolore, ripercorrendo quella fenomenologia dell’assenza che ha patito sulla propria pelle. A questo punto sembrerebbe concludere che la scrittura rappresenti il modo più intimo di elaborazione del lutto; tra lo stato (verticale) del dolore e il processo (orizzontale) del lutto, ricorrendo a un’immagine a lui cara, la nostra condizione è simile a quella di uno dei pionieri dei voli aerostatici con scarsa possibilità d’intervento sulle cose, al primo decollo, sotto l’involucro gonfio di gas di un aerostato. Scrivere come primo arnese di elaborazione del lutto. Eppure, non scrivo per vincere il distacco, bensì nella consapevole determinazione di non solo tenere in vita chi non c’è più, ma

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soprattutto di farli rinascere come autonomi e realissimi personaggi, interpreti autentici di se stessi (e dunque, più veri del vero). Non è il rimpiattino della memoria a interessarmi, piuttosto è l’epica.

6 marzo, ore 00:02 Racconta ancora Barnes che la soluzione radicale del suicidio su cui da tempo meditava, avrebbe definitivamente ucciso la moglie, giacché «la misura del suo essere viva» era affidata a lei e a lei soltanto; così come il solo modo di pensare al suo vivere senza di lei non poteva non coincidere con il modo in cui lei avrebbe voluto vivesse. Così torna a frequentare i luoghi pubblici, riprende ad andare a teatro. Gli accade qualcosa d’inatteso: si innamora della lirica. Per chissà quale strana coincidenza, il periodo prima che Basilisca s’involasse, estranea già a se stessa e a noi tutti, anche per me coincise con il rivelarsi di una inattesa e tardiva passione per l’opera lirica. Passai, nel giro di poche settimane, dall’incomprensione totale della passione smodata di mio nonno materno, incallito melomane verdiano (i cui vinili, al pomeriggio, dal suo studio, erano forzatamente ascoltati, quand’ero bambino, dall’intero quartiere), per una forma d’intrattenimento che, fino ad allora, avevo sempre trovato buffa oltre che anacronistica, a un incontrollato invaghimento estetico per lo spettacolo totale che di fatto è il melodramma. Sicché, dopo aver frequentato un corso gratuito tenuto nei locali del corpo bandistico cittadino da un eccentrico professore di lettere di mia vecchia conoscenza, da quel momento, non ci fu giorno che non mi dedicassi, in maniera forsennata, all’opera: dai librettisti, alle prime incisioni; dagli interpreti classici a quelli più in voga del momento; alla passione, accanto agli intramontabili Verdi e Donizetti, per il melodramma barocco: Monteverdi, Vivaldi, Händel, Purcell.

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Il giorno prima che Basilisca s’involasse stavo vedendo la registrazione di una Carmen degli anni Ottanta prodotta dal MET di New York con la Baltsa e Carrera, diretti da Levine. Da quel momento il patetismo di certe situazioni drammatiche mi riportava con prepotenza allo spasimo finale di Basilisca, in un gioco di sovrapposizione-sublimazione del dolore che mi faceva sopportare (o almeno m’illudevo così fosse) l’idea della sua prossima dipartita, quando, per un caso astratto, mancavano ancora quattro giorni a Natale…

7 marzo, ore 22:35 Poi fu la volta della mia prima opera a teatro, al Massimo di Palermo: Lucia di Lammermoor. Quei personaggi, quelle dame dal sicuro futuro tragico mi venivano incontro, e alla tragedia di plastica sovrapponevo, ancora una volta, quella in carne e ossa di Basilisca: ecco, era come se la regia occulta della sua esistenza avesse subìto una furiosa sterzata (o almeno di questo allora m’ero d’un tratto fatto convinto). Nel buio della sala, sull’orlo di un palchetto prossimo al proscenio, il mio stato, suscettibilissimo per questa interferenza, era sempre al limite del tracollo emotivo. E così il teatro lirico, in passato considerato come la meno credibile, la più risibile delle rappresentazioni artistiche, finì per diventare la cassa di risonanza di ogni mio naufragio emotivo. L’ori­ginario spiazzamento per quell’alone d’implausibilità che lo avvolge, la naturale diffidenza per ciò che fino a non troppo tempo addietro avevo considerato come nulla più che lo sciocco sopravvivere di un puro anacronismo, vennero ben presto surrogati dalla scoperta di un’inattesa e a suo modo rivelatrice passione.

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8 marzo, ore 15:23 Gli ascolti si moltiplicarono, il gusto musicale si andava affinando. Così, per dire, scoprii la potenza davvero mefistofelica del Macbeth verdiano, inconfondibile già dal preludio; o la bellezza languida di taluni concertati belliniani, come l’Ah, vieni al tempio dei Puritani; o brindisi, tra il perfido e il beffardo, come l’Innaffia l’ugola dell’Otello verdiano. Barnes, in Livelli di vita, si sofferma sull’opera lirica destinata senza riserve a chi è in lutto, l’Orfeo ed Euridice di Gluck, veduta dallo scrittore in un cinema londinese, in cui è messo in scena il divenire consequenziale di un atto di irragionevolezza come il voltarsi di Orfeo, sentendo la voce di Euridice alle proprie spalle. Soltanto chi sta soffrendo – «per amore, per lutto, per disperazione» – può infine perdere un mondo per uno sguardo. Scritto per Basilisca, in quegli anni di compulsivi ascolti, mi sembrò invece l’Addio del passato che Violetta Valéry canta in Traviata, quando appunto comprende che davvero poco le resta da vivere. L’irrompere in quell’accorato «È tardi!» – che assomiglia a un parlare già dalla tomba, da cui i «bei sogni ridenti» sono oramai a siderale distanza (unica consolazione il cessare di ogni dolore e fine, giacché la «tomba mortale di tutto è confine») – ogni volta che lo ascolto, mi provoca un sussulto, riportandomi al voltaspalle del destino patito da Basilisca; e alla sua, prima rabbiosa e dopo arresa, ribellione. Così accadde la prima volta, guardando in televisione un’allora chiacchieratissima messa in scena dell’opera più celebre di Verdi al festival di Salisburgo del 2005, in cui, nei panni di Violetta, c’era la suadente venere bruna Anna Netrebko, la cui fisicità ed espressività vocale, la magnetica presenza scenica, si attagliavano perfettamente al ruolo e alla situazione con intelligenza rivisitata nel provocatorio allestimento di Willy Decker, che fa cantare al soprano l’aria dell’Addio sdraiata all’interno di un quadrante d’orologio, le cui lancette si fermano a segnare il tempo inesorabile della morte. Certo, a noi

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non è dato scendere laggiù come Orfeo, i nostri più modesti mezzi di riappropriazione di chi non c’è più sono (come scrive Barnes) la memoria, il sogno. Credo per diverso tempo di aver fatto in modo di condizionare le mie proiezioni oniriche notturne, circondandomi di foto di Lei ancora giovane che io stesso avevo scattato, nel giorno del suo matrimonio, a Salina, alle Eolie. La memoria, attraverso il sogno, avrebbe dovuto lavorare a rendere giustizia alla sua bellezza che la malattia, con vorace e maligna crudeltà, aveva di colpo spazzato via, per tramutarla di colpo in una irriconoscibile (a sé e agli altri) estranea. Cominciai così a sognarla regolarmente: sorridente; pensierosa; nel corso di una delle tante lunghe e ciondolanti camminate pomeridiane, sul lungomare; o in attimi verosimili della nostra convivenza, dopo la sua separazione, con le nostre prove tecniche di confidenze (scambiate finché fu possibile). Da quel momento in poi cominciai perfino a parlarle, non perché fossi uscito di senno, ma quasi per gioco: come il Pereira di Tabucchi parlava con la foto della moglie morta, allo stesso modo mi sorprendevo a mandarle baci, a strizzarle l’occhio, ad avventurarmi in considerazioni a lei rivolte, come se potesse davvero ascoltarmi. E fu allora che si tramutò in ciò che è adesso: Basilisca. Così presi a rivolgermi a Lei; e, a dieci anni di distanza, non ho più smesso.

9 marzo, ore 00:39 Barnes, ancora in Livelli di vita, racconta della Ivy ComptonBurnett che continuava, perfino in pubblico, a rivolgersi alla sua compagna Margaret Jourdain, morta da anni, giacché la scrittrice sentiva il bisogno di dirle le cose… Per me un tale bisogno è sorto soltanto dopo, come la necessità di coltivare a vita un tardivo rimedio di cosa di preciso non riesco ancora a comprendere, né del tutto a spiegare. E non soltanto perché tutto, a un certo punto, ha rischiato di perdere di profondità,

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come confessa anche Barnes nel suo libretto di grazia, ma forse, semplicemente, perché questo ventriloquismo è diventato nei giorni, con gli anni, la porta d’accesso per esperimentare una rinnovata e relativa riconsiderazione d’ogni cosa, il necessario commento alla mia solitudine. È divenuto il mio modo di proseguire la conversazione; o, meglio, di renderla eternamente sincera. Del resto, anch’io sono convinto, con Barnes, che «il fatto che una persona sia morta può voler dire che non è viva, ma non che non esiste».

10 marzo, ore 17:13 Talvolta i miei colloqui con Basilisca si risolvono in uno sguardo, un fugace ammiccamento, uno stenografato sorriso d’intesa, scambiato con il suo sguardo di tre quarti che arriva dalla foto da diva del cinema hollywoodiano anni Cinquanta che le scattai nel giorno del suo matrimonio. Oppure mi scopro a fissare, perdendo per un attimo percezione del tempo e del luogo, quella sigaretta in resta, tra indice e medio, scettro regale e rabbioso di una vita… in fumo. Tra gli effetti di questo mio ostinato conversare in solitudine con Lei c’è il dilatarsi di quella vacua convenzione che è il computo del tempo. È il solo modo che conosca per liberarmi dalle zavorre, dagli inciampi, dai legacci che ci costringono al suolo; per finalmente librarci nell’aria, alla deriva, dentro una cesta di vimini appesa ad un grande aerostato, alimentato dal nostro serafico disincanto.

11 marzo, ore 17:41 L’infittirsi del contagio, nel nostro Paese, per un curioso allineamento temporale, ha finito per coincidere con l’avvio del tempo di quaresima. E in effetti viviamo (e ci apprestiamo a vivere ancora per molto) giorni di attesa, in cui a essere col-

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piti sono, non solo la salute pubblica, ma il cuore della nostra socialità, gli affetti, la confidenza con gli spazi e i luoghi del quotidiano. Una condizione di ascolto delle nostre vite, tuttavia, che non è detto, per quanto è indubbio che la solitudine favorita dal contagio ci porti a riflettere su ciò che è fondativo del nostro stare al mondo, sfoci necessariamente nel benefico fomentare un genuino senso di appartenenza a una comunità. Non è, insomma, scontato che questa esperienza di quaresima sociale possa senz’altro trasformarsi in un cammino di guarigione, a riparo dall’odio, dall’egoismo.

12 marzo, ore 23:04 Sfatando il noto assioma steineriano in cui si sostiene che la lettura seria «esclude persino gli intimi», insieme a Rosamaria, profittando di questo tempo dilatato della quarantena, ci siamo lanciati nel vecchio piacere di leggere, insieme e ad alta voce, un classico, scegliendo come al solito di buttarci su uno di quei libri su cui la critica ha già detto tutto, per cui non rimane che rincantucciarsi nel puro ristoro della lettura, secondo quella disposizione (di un abbandono senza riserve) esaltata dal Bonaventura Tecchi di Officina segreta. Quale migliore occasione dunque di riprendere in mano, a più di vent’anni di distanza, Madame Bovary di Flaubert? Seguendo un simile disinteressato umore, sostiene ancora Tecchi, più facile riesce abbandonarsi senza riserve a una piena confidenza e immedesimazione con i personaggi, quasi fossero nostri conoscenti con i quali venire a colloquio, presenti a noi in carne e ossa. E anche quando il nostro sguardo ne risultasse deformato e viziato, istintivamente, dalla necessità di fare critica, perfino gli aspetti più «tecnici» vengono considerati sott’altra luce. Ma, si sa, Tecchi tiene fede ancora «all’ispirazione, al genio, alla forza dei sentimenti e della fede nelle idee, che il genio deve trasformare e anzi far suoi in un modo speciale, senza di che

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l’arte non sarebbe, ma che di questa sono l’incremento e la linfa immortale».

13 marzo, ore 17:23 Ritrovandolo, e per nulla invecchiato, dopo tanti anni, mi pare che il personaggio di Madame Bovary possa accamparsi come il mitologema di tutte le nostre chimeriche proiezioni. Fuga (vana) dalla noia e dall’insoddisfazione, procurata dalla mediocrità della nostra routine quotidiana. Sicché i suoi slanci somigliano sempre più a un’impietosa caricaturale sinopia di una nuova vita, ossessivamente agognata e accarezzata. Ma c’è dell’altro: in Emma, una simile scoperta si complica, sfociando in conclamata nevrosi depressiva. La proiezione che Emma sovente assimila dalle sue letture e che vorrebbe rintracciare nella sua anodina esistenza è, ce lo svela Flaubert, «sentimentale»: perennemente a caccia di emozioni forti, «appagamenti immaginari» alla sua inesausta bramosia di novità; per finalmente agguantare quell’«immenso paese delle felicità e delle passioni». Temperamento ondivago, vocato all’autodistruzione e a una cruda infelicità, quello di Emma: pronto a volere e disvolere, a un tempo, la stessa cosa. Da ciò deriva quella dimensione distorta, l’essere immersa entro una temperatura emotiva d’incrollabile procrastinante sospensione esistenziale.

14 marzo, ore 23:59 L’aspetto fisico, l’effigie di Emma sembra recare «il vago segno di una sublime predestinazione». Il suo «fascino glaciale» attanaglia e turba il giovane León che a un certo punto si rassegna a crederla irraggiungibile e inconfessabile oggetto del desiderio. Emma, dal canto suo, è scossa dal turbinoso ribollire di sentimenti contrastanti che contribuiscono ad alimentare il

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fiume unico di una grande sofferenza, capace di eclissare ogni suo pensiero. Così anche il tentativo (vacuamente orgoglioso) di resistere agli assalti e alle adulazioni degli altri uomini, mostrandosi «virtuosa», crolla dinanzi all’impressione di ribrezzo che le causa la gretta convinzione di Charles di averla resa e di renderla ogni giorno più felice (lei che è invece abitata, cotidie, da «atroci congetture»). Il risultato di quella che lei stessa vive come un’insensata ipocrita recita è l’autoimposizione di un’ostentata felicità che tutti (e non solo il marito) sentono il diritto di attribuirle; e che lei, infine, si sente in dovere di esibire a beneficio del suo prossimo e del piccolo mondo di Yonville. Ecco che quel matrimonio, che per molte donne assomiglia al coronamento d’una ragionevole dimensione di quieta realizzazione, per Emma rappresenta il lento ma inesorabile inizio della sua personalissima caduta – quella specie di male osceno che assedia il suo umore e la sua testa. Vittima di sé e della sua inguaribile noia. Quella stessa noia che Boulanger coglie subito quando per la prima volta la nota: apprezza le sue grazie, il suo incarnato pallido; quei suoi occhi, quel «paio di occhi neri» che entrano nel cuore «come succhielli».

15 marzo, ore 12:19 Nei libri, Emma va a caccia di idee già in segreto accarezzate, di sentimenti nascosti, oscure fole riposte nei recessi di ciascuno. Data la sua inclinazione, nei libri finisce allora per cercare personaggi che siano semplicemente diversi da quelli del suo quotidiano; o che nutrano sentimenti non scialbi e «pacifici», a differenza di coloro con i quali è costretta a intrattenersi nella vita normale. La sua crociata – combattuta attraverso le penne e le parole degli altri – è insomma rivolta ad abbattere e rigettare la tranquillità, l’ordinario, il fondale grigio della sua e altrui vita. E ogni volta s’inganna, cambiando, di potersi tro-

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vare a una svolta, che riconduca la sua vita sui binari di quel gran teatro di eccezionalità cominciato a conoscere e agognare proprio attraverso i romanzi. «– Ho un amante! Ho un amante!» – così esulta, incredula, dopo le titubanze e i turbamenti avuti prima di capitolare all’assedio cortese di Rodolphe. Si illude che la sua vita le appaia riscattata, assai simile – finalmente! – a quella delle eroine di cui aveva avidamente letto, e che a un tratto riconosce come «sorelle».

16 marzo, ore 00:49 Assistendo a Rouen alla prima di una Lucia di Lammermoor, avendo appreso la vicenda tragica di quel personaggio dal romanzo scottiano, Emma vede messa in scena la «riproduzione delle sue sofferenze». Riconosce «tutte le ebbrezze e le angosce di cui per poco non era morta»; viene ricondotta all’atmosfera di «un altro mondo», che era poi quello vagheggiato nei romanzi da cui, ogni giorno, non le rimane tuttavia che misurare il doloroso scarto dalla realtà. Rosamaria, e non ho difficoltà a convenirne, legge la complessione mentale di Emma come l’esito di una puerilità bloccata. Come a dire che la cultura, la lettura, la letteratura non sempre sono garanzia di emancipazione; anzi, talvolta, ed Emma ne è l’evidenza più celebre, se non sono filtrate dal ritorno consapevole alla vita, dal confronto ineludibile con la realtà, producono il funesto risultato di acuire, appunto, uno stato di puerile minorità. La sola via d’uscita da questo loop negativo è, da un simile asfissiante orizzonte, l’uscita stessa dalla vita: il suicidio, come rimedio all’incapacità di vivere. Epperò, in Madame Bovary, Flaubert racconta molto su quale sia il meccanismo d’identificazione che presiede alla letteratura: come se quella sospensione d’incredulità fosse, per Emma, una sorta di cambiale a vita. Intrappolata in quei modelli (Girard docet) che rappresentano il

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solo accesso non solo all’esperienza amorosa, ma alla vita tout court; e della quale non può dunque che ravvisare la completa insufficienza. E ancora: in quale persona (uomo o donna) non agisce, seppur in concentrazioni omeopatiche, un po’ di bovarismo? Del resto, lo ha già scritto Thibaudet, Madame Bovary è «una biografia della vita umana piuttosto che la biografia di un essere qualsiasi».

17 marzo, ore 23:20 Le illusioni che alimentano i chimerici voli di Emma, i casi succedutisi nella sua vita, ogni cosa si riduce a una manciata di mosche, una sterile e cocente dissipazione dalla quale le apparirà sempre più difficile risalire la china e trarsi in salvo. A cosa assomiglia la sua vita se non a una progressiva perdita secca, al pari di un viaggiatore che, ad ogni nuova sosta, lasci «un po’ del suo avere» in ogni albergo lungo il suo cammino? E gli uomini della sua vita? Rodolphe è stupito, prova quasi tenerezza per il candore e la sincerità dei suoi slanci amorosi; l’ardimentoso Lèon non riesce nemmeno a capacitarsi da dove le venga quell’impulso a gettarsi a capofitto e con tutta se stessa nelle «gioie della vita»: ammaliato non può non chiedersi dove mai la donna abbia imparato «quella corruzione, quasi immateriale, tanto era profonda e dissimulata». E Charles? Irrimediabilmente e inevitabilmente, agli occhi di Emma, e specie quando la sua anima si abbandona alle illusioni e ai batticuori dell’amore, appare sempre come un «pover’uomo», affetto da una cronica «inguaribile inettitudine». Si sente addirittura disturbata dalla sola presenza del marito, che mina i suoi propositi di evasione. L’unico slancio romantico di cui, in verità, Charles è capace, in tutta la sua vita, lo dimostra nel predisporre le sue volontà circa il modo in cui sarebbe dovuta avvenire la sepoltura della moglie: i capelli corvini sciolti

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lungo le spalle; tre casse – una di quercia, una di mogano, una di piombo; un grande panno di velluto verde a ricoprirne per intero il corpo… Morta Emma, Charles è un uomo mutato. E in effetti non ci si sofferma mai abbastanza sull’ottuso amore del dottor Bovary per la moglie. Anche quando, nel granaio, s’imbatte in un biglietto inviatole da Rodolphe (finito per caso tra due casse), indietreggia di fronte alle prove, la gelosia stinge dinanzi al forte dolore della perdita. Anzi, quel primo distratto ritrovamento lo induce a pensare che ogni uomo venuto in contatto con lei aveva dovuto certamente, da subito, adorarla e desiderarla; e ciò gliela faceva apparire ancor più bella, scoprendo un languore e un desiderio per lei che ora non avrebbe più potuto soddisfare. Nel folle proposito di riuscire ancora (?) a piacere alla moglie decide di adottare «le sue preferenze, i suoi pensieri». E così giustamente chiosa Flaubert: «Dall’oltretomba, lo corrompeva». Come a dire che Emma rimane davvero per Charles l’«amabilem conjugem» dell’epigrafe che era stata concepita da Homais, e che Charles aveva subito approvato. In definitiva, Charles riesce ad assomigliare in qualche modo a Emma, paradossalmente, soltanto quando Lei non c’è più: prende i suoi vezzi, s’indebita, firma cambiali; e anche quando, in ultimo, impatta nelle prove inconfutabili dei suoi tradimenti, nonostante il dolore, non riesce a disprezzarla, ma il suo «cuore addolorato» e mutato rimane quello di un adolescente. Sia Emma sia Charles amano entrambi, a modo loro, ciecamente: Charles la moglie, nel solo modo che sapeva e che poteva, nel solo modo in cui la sua complessione d’animo gli aveva consentito di amarla; Emma, per sempre traviata e innamorata dell’idea stessa dell’amore assoluto (assorbita dalle tante letture), e che, innestata in quella sua costitutiva fragilità psicologica e nervosa, aveva sortito la rovina sua e di quel pover’uomo del marito. Ecco perché il romanzo, sin dal suo avvio, sembra funzionare come un congegno ad orologeria in cui, ad ogni pagina, è presagita la catastrofe. Emma, con incon-

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sapevole e autodistruttiva fedeltà, vuol fare di sé – o sarebbe meglio dire Flaubert, nell’estremizzazione parossistica della psicologia del personaggio femminile – una creatura dipinta, ricalcata sulle tante storie d’amore dei romanzi di cui pasce la sua fragile mente: la montante insoddisfazione cronica si tramuta, di fatto, in un potenziale autodistruttivo d’incalcolabile effetto, con quel continuo ripiegamento verso un vissuto altro e di sognata e irraggiungibile felicità che, fatalmente, aveva cominciato a conoscere prestissimo; fino a crederla la sola, la vera realtà della vita. Come dire: per Emma la letteratura è tutto. La vita pur sempre rimanendo spanne dietro, sinopia rattrappita.

18 marzo, ore 15:04 Le videochiamate come forma immediata di recupero del rapporto con l’altro di cui esigiamo, evochiamo il corpo: abbiamo bisogno di vedere, riconoscerci nella fisicità del nostro interlocutore. Perfino Maria, nel giorno del suo ottantatreesimo compleanno, in tempi d’emergenza sanitaria, ha dovuto abbandonare quel suo insuperbito e istintivo luddismo, piegandosi alle esigenze del momento. A lei devo quella passione per la lettura, trasformatasi via via in mestiere. A metà degli anni Ottanta, mi mandava (le diecimila lire in mano) in edicola, per acquistare le uscite settimanali delle prime collane di classici con copertina in finta pelle e fregi dorati. Tanto forte quanto schiva, per nulla siciliana, Maria è nordica in tutto (sia nel temperamento, sia nelle sembianze). Madre di sette figli e un lavoro da impiegata da portare avanti, già all’età di trentotto anni. La sua alterigia, la sua misantropia gentile, sono il fiore all’occhiello a cui per nulla al mondo potrebbe rinunciare. Purtroppo, oggi, per proteggerla, dovrò evitare di recarmi da lei per andarle a dare quel bacio stenografato che, una volta l’anno, si concede di accogliere con malcelato imbarazzo.

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19 marzo, ore 18:13 Le sconvolgenti immagini dei mezzi armati dell’esercito che prelevano il numero impressionante di morti dall’ospedale di Bergamo – cadaveri a cui non è stato concesso né l’affetto, né l’estremo saluto, né le esequie funebri – per traslarli nel luogo della cremazione, hanno fulmineamente riportato alla memoria l’episodio narrato dal Manzoni, nel capitolo XXXI dei Promessi sposi, a proposito della peste milanese del Seicento: la necessità dell’accaduto, il massiccio impiego dell’esercito, da ultimo lo sfilare di mezzi militari, mi è sembrato da intendere anche come implicito monito ai tanti che hanno da sempre sottovalutato il virus, non rispettando le stringenti norme di contenimento volute da regione e governo in Lombardia; come i corpi ignudi di quella intera famiglia sterminata dalla peste e condotta al cimitero – i segni del morbo oscenamente visibili – nell’«ora di maggior concorso», in mezzo a carrozze, gente a cavallo e pedoni, affinché la gente, fino a quel momento incredula e indotta a minimizzare il fenomeno dell’emergenza sanitaria, fosse brutalmente in qualche modo costretta ad assistere alla coatta ostensione dei segni orribili, il «marchio manifesto della pestilenza». E forse, comune a tutte le epidemie, ai contagi di sempre, è quel ventaglio di supposizioni e percezioni che è quasi fisiologico preludano a una più seria presa di coscienza della reale e drammatica entità del male. Così si spiegano le variazioni sul tema della pandemia: nulla più che influenza; poco più che un’influenza; altra cosa, e assai più seria, rispetto a una semplice influenza stagionale. A ben pensarci, ancor meno stupisce il coro delle voci che gridano al complotto: è la storia eterna degli untori che ritorna anche oggi; così come la propensione ad abbracciare la credenza di attribuire i mali «a una perversità umana» contro cui «far le sue vendette», anziché riconoscervi una causa alla quale non vi si possa che rassegnare. Anche oggi in molti sono indotti a credere alla «esistenza di una trama». Ancora oggi – e in ciò

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l’uomo è rimasto uguale a se stesso, dico l’uomo del Seicento, l’uomo del Manzoni, che poi è l’italiano degli anni Duemila – si preferisce prestar orecchio alla favola dei presunti untori del contagio, fingendo a tutti i costi di trovare una spiegazione che individui origine e causa del male.

20 marzo, ore 17:49 Per puro caso ho rivisto Nostalghia di Andrej Tarkovskij, di cui avevo un ricordo assai sbiadito, avendolo visto una sola volta nel suo passaggio notturno, moltissimi anni addietro, durante un “Fuori orario” di Enrico Ghezzi. Protagonista è un poeta sovietico, Andrej Gorčakov, in Italia per scrivere la biografia di un compositore russo del XVIII secolo. Accompagnato nel suo viaggio dall’affascinante e inquieta guida Eugenia, a Bagno Vignoni, Gorčakov è incuriosito dal vecchio Domenico, ritenuto da tutti matto, perché, per sette anni, si è barricato con la famiglia in casa, in attesa della fine del mondo. La poesia dei luoghi del paesaggio toscano e sabino, la sintassi filmica tarkoskjiana, in cui non c’è inquadratura che risulti superflua o inessenziale al racconto, ne fanno un’opera di innegabile suggestione. La nostalgia del titolo – è evidente – è quella che accomuna i tre tormentati personaggi, in attesa, più che di una palingenesi personale, di un autentico ritorno alla vita. Imbattermi in questo film, durante la reclusione coatta, a causa della quarantena, come quella del folle Domenico in attesa di un’imminente apocalisse, mi ha indotto a considerare questo tempo sospeso come un’opportunità per provarsi a superare la propria alienazione, ritornare a un genuino e veritiero desiderio dell’altro, ridiscendere alla semplice origine dell’esistenza; prima del troppo tardi, prima della catastrofe, come farnetica Domenico nel suo finale discorso in Piazza del Campidoglio a Roma, a cavallo della statua equestre di Marco Aurelio, prima di darsi fuoco sulle note dell’Inno alla gioia

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della nona sinfonia di Beethoven – una purificazione, una sanificazione dunque che, infine, ci riporti alle scaturigini di una vita veramente semplice e monda («tornare alle basi principali della vita»). Bisognerebbe avere il coraggio, come il pazzo del film di Tarkovskij, di rivolgersi domande e propositi radicali e insieme sconcertanti, nella loro semplicità: «alimentare il desiderio»; «tirare l’anima da tutte le parti come fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito»; «riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi, di cose che siano all’inizio»; «ascoltare le voci che sembrano inutili»; uscire da noi stessi e interrogarci su dove siamo quando non alberghiamo nella realtà e neanche nella nostra immaginazione… Dal reclusorio di questa apparente e insospettata vicevita a cui, obiettivamente, ciascuno di noi è giunto impreparato, dovremmo avere tutti l’umiltà di tentare d’uscire in punta di piedi: essere capaci di proteggere la candela – come il poeta Gorčakov, il quale, dopo un lungo colloquio con il folle, decide di non partire più, ritorna a Bagno Vignoni, per portare a termine la promessa che Domenico riesce a strappargli, ossia far giungere una candela (ancora accesa) da un’estremità all’altra della piscina del paese. Attraversare questo momento, preservando la luce del nostro spirito – custodirla: per trarla in salvo. Ma sarà possibile?

21 marzo, ore 16:03 Siamo in guerra! – tuonano in tanti, in questi giorni. E allora finisco per chiedermi, come il Renato Serra dell’Esame di coscienza di un letterato, se abbia senso, di questi tempi, continuare a scrivere, a occuparsi di letteratura. È lecito ancora rimanere bellamente con gli occhi bassi sui libri? Ha senso seguitare a scrivere questo mio diario in pubblico? Non per amore nei confronti della letteratura, ma per mantenersi il più possibile razionale, mi fa bene pensare che la pandemia «è un fatto», per quanto enorme (insieme agli altri che sono stati e

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che saranno). E forse aveva ragione Serra, ravvisando come con la Grande Guerra, fossero mutate le trame argomentative, le occasioni dello scrivere, ma non le persone, in fondo sempre uguali a se stesse. E come la guerra, la pandemia non sembra redimere, non cancella nulla, di un mondo, scriveva il critico cesenate divenuto mito anche per la sua precoce morte in trincea, «che non conosce più la grazia».

22 marzo, ore 08:39 Come vivere questa condizione di bloccata ed estrema compressione in cui ci siamo, con fulminea evidenza, venuti a trovare, e a cui nessuna delle generazioni postbelliche, in Occidente, era mai stata abituata? Il basso continuo dello sgomento fa brillare, per converso, la bellezza grandiosa di quanto appena e solo un mese prima appariva scontato. Il mondo, nella globalizzazione della paura, ai tempi della pandemia, è diventato un posto davvero stretto. Piccolo – come piccoli ci sentiamo, non più al riparo –, dopo che siamo stati con brutale rapidità edotti circa la precarietà di quelle che fino a ieri erano inossidabili certezze. Da settimane asserragliati nelle nostre rocche condominiali, sanatori di lusso – dove il male vero è la segregazione stessa, il preventivo astenersi da ogni possibile contatto con l’esterno. Il naso fuori dai balconi – la nostra fame d’aria, incredibilmente divenuti, per necessità, sensibili e attenti alle brezze (la mattina presto, appena svegli, o all’imbrunire). Eppure, non m’illudo: non penso affatto che sarà più bello il dopo. Una quotidianità che elide il fuori è già di per sé un vivere che si apparenta alla condizione patologica. Alla clausura, voglio dire, appartiene la stessa eccezionalità che possiede la malattia. La nostra vita tramutatasi, simile alla Santa Lucia del più autobiografico dei poemi di Dereck Walcott, in un’«isola fragile» come «un biscotto in quaresima».

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23 marzo, ore 17:48 Alla difficoltà di piegarsi a una situazione che assume sempre più i tratti di un valzer della completa perdita di contatto con la realtà, stretti nella morsa del contagio, nello sclerotizzarsi d’ogni barlume di ragionamento, si aggiunge la oramai conclamata fragilità di una società, quella italiana, a tutti i livelli impreparata. L’Italia dei decreti e dei cretini. Dell’informazione ipertrofica – a inseguire statistiche, ipotizzare scenari futuri – che ciascuno di noi costringe a ragionare sulla cruda matematica del virus: comparando grafici, apprendendo, a forza, la lettura di curve divenute esponenziali (e che presto si spera decrescano); assuefatti al rituale macabro, scandito dai due bollettini giornalieri, del rosario delle cifre che atterriscono (computo cui tuttavia è difficile sottrarsi). E come tacere della puntuale fuga di notizie ad anticipare i provvedimenti e la pubblicazione delle direttive governative, ulteriore diabolico catalizzatore di uno stato di paura oramai ingovernabile, che ha indotto alla fuga non pochi meridionali dalle province del nord Italia? Esodo in cui, un noto intellettuale viscerale, non ha potuto fare a meno di scorgere l’atavico istinto del meridionale indotto a farsi fagocitare dal suo stesso irresponsabile irrazionalismo, convinto che è “bene” morire a casa propria, «nella camera dove è cresciuto».

24 marzo, ore 01:33 La quiete forzata di questi giorni si materializza nello svuotamento – che ha un che di metafisico – delle piazze, dei luoghi di ritrovo, degli spazi tutti della vita associata: la cappa di silenzio che assale chi s’avventuri, per necessità improrogabili, fuori di casa, è un’esperienza straniante, per il desolante alone di silenzio in cui è di fatto piombato il paese. Nel basso continuo di una calma innaturale e cava, si stagliano, più nitidi, i

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pochi rumori – sempre gli stessi, sempre più ovattati, comunque riconoscibilissimi. Il tocco delle campane, che giunge dalla vicina chiesa di Santa Lucia, al mattino; gli uccelletti, la sera, appollaiati sulla palma del marciapiede sotto casa, deserto dei tavolini del bar che ha chiuso i battenti; i notturni parlamenti, sui balconi delle case dei palazzi d’intorno, di cui giungono, in sordina, appena echi, l’allarme della banca del quartiere che suona, di tanto in tanto, propagandosi ai quattro punti cardinali. Il condominio, invece, sembra il museo di una vita scomparsa: gli appartamenti sono gabbie, per uomini e donne la cui esistenza è piombata indietro di dieci o di vent’anni almeno.

25 marzo, ore 12:00 La storia non raccontata e non scritta di questa battaglia contro la pandemia, dico il nocciolo della tragedia, rimarrà sepolta nel chiuso degli ospedali, come se l’intero paese si sia trasformato in unico oscuro lazzaretto, sigillato da paura e operosità.

26 marzo, ore 17:09 Le nostre città deserte, le immagini che i tg rimandano dei luoghi turistici spopolati, evocano l’immaginario figurativo della metafisica urbana di pittori come De Chirico, Sironi, o del conterraneo Giuseppe Modica. Eppure, non so perché, se devo pensare a un equivalente iconico di queste giornate quaresimali, ad affollarsi alla mente sono piuttosto taluni quadri di un pittore che ho da sempre amato: il danese Wilhelm Hammershøi. Il bozzolo di certa impenetrabile intimità in modo magistrale messa in scena nei suoi dipinti, specie quelli in cui figura Ida, la moglie, musa e modella, non di rado ritratta di spalle, ulteriore segno dell’inviolabilità offerta, allo spettatore, degli interni di famiglia in Strandgade 30, a Copenaghen, dove

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Wilhelm e Ida vivevano, peraltro senza aver avuto figli. Autentica testa di ponte tra la precisione di un Vermeer e l’epopea tutta novecentesca dell’uomo solo di Hopper, tra naturalismo e simbolismo insomma, Hammershøi è riuscito a raccontare per immagini, ricorrendo a una tavolozza ristretta – con i leitmotiv cromatici dei luminosissimi bianchi, del cangiante ventaglio dei grigi e dei bruni, i tagli di luce a inondare gli ambienti –, l’atmosfera di sospensione che regna entro una quotidianità bloccata, quasi astratta dal tempo; fissata nei gesti comuni, simbolo eloquente di quel lato per così dire innaturale e in certo senso ipnotico della vita di ciascuno. Ogni gesto sembra come congelato, pervaso da una carica differente, come in queste nostre giornate di slabbrata clausura coatta in via Trento 30. Una gelosa esibizione di istantanee del proprio quotidiano che mi ha sempre affascinato, forse per un rimando alla nostra vita insieme, mia e di Rosamaria (come Wilhelm e Ida soli e senza figli), alla nostra coltre di riservatezza, nel paradosso estremo di un celare, epperò esibendo. Guardarsi vivere – nell’occhio del nostro esistere al mondo, insieme: ecco ciò che d’inatteso ci ha donato questo periodo di dorata quarantena coniugale. Del resto, come non dare ragione a Rilke quando scrive che il lavoro di Hammershøi «offre materia di riflessione su ciò che di importante e di essenziale vi è nell’arte» e (io aggiungerei) nella vita?

27 marzo, ore 21:47 E un’essenzialità di tutt’altra specie è andata in scena proprio stasera, in mondovisione, sul sagrato più celebre del mondo, in piazza San Pietro, con l’adorazione eucaristica e la benedizione Urbi et orbi impartita da Francesco, con il finale accordo, ai fedeli, dell’indulgenza plenaria: il pontefice benedicente che, ansante e affaticato, mostra il Santissimo Sacramento, le campane che rintoccano all’unisono nell’impazzare delle sirene

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delle ambulanze, la pioggia battente che non accenna a cessare, nel vuoto ombelico del colonnato del Bernini… La presenza di due simulacri antichissimi cari alla devozione religiosa della capitale: l’icona mariana della Salus Populi Romani (conservata in Santa Maria Maggiore) e il crocifisso ligneo di San Marcello al Corso, che la tradizione vuole abbia miracolosamente posto fine alla grande pestilenza del 1522 a Roma, portato in processione, eludendo i divieti, per ben sedici giorni. A fare da introduzione il Vangelo di Marco, della tempesta inattesa e furiosa che sorprende Gesù e i discepoli in mare: questi ultimi colti da una paura che li paralizza, mentre il Maestro dorme imperturbabile – alfa e omega d’ogni possibile reazione al contingente. Dal nostro Medioevo tecnologico e barbarico, noncurante e schizofrenico, e che ha dismesso la pietà dal proprio bagaglio leggero, per un attimo siamo sprofondati nella sacra rappresentazione di un evo antico: invocare, dico, la cessazione del flagello; sovrastati dall’onda emotiva provocata dai simboli stessi attraverso cui il rito si compie. È così che la morsa della paura diventa l’anticamera della riflessione. E il timore dei flagelli – che reca in sé il pericolo della soppressione del futuro, della mortificazione del desiderio di libertà – ci annichilisce all’asfissiante abbraccio di una storia che diviene, nostro malgrado, collettiva.

28 marzo, ore 01:02 Sgomenta il vitalistico egoismo dei giovani che rivendicano la libertà d’aggregazione, il diritto a una sacrosanta incoscienza. Oggi che si sono erte schiere risentite di vecchi difensori d’ufficio della gioventù, sibila dentro di me una semplice domanda: come si può millantare l’incapacità di rinunciare a qualcosa che sì appartiene loro e, nondimeno, che mai hanno davvero conquistato? I giovani d’oggi mi pare siano del tutto orfani di una visionaria e circolare lungimiranza. Quella, per intender-

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ci, che nel suo postremo libretto di commiato, I nostri tempi, Michele Perriera, anch’esso involato ancor prima di andarsene, declinava con queste illuminanti parole: se una terra promessa esiste, dobbiamo prima credere che essa esista «dentro di noi, dietro e avanti a noi».

29 marzo, ore 00:16 Talvolta avverto tutta la fatica di condurre innanzi questo mestiere, da stanziale. I valori in campo sono viziati, a languire assai spesso è la conversazione: da soli, non rimane che l’imperativo del racconto critico che non puoi fare a meno – coazione a conoscere – di portare avanti. Ogni prospezione autobiografica è, in fondo, la prosa di una solitudine (più o meno comodamente abitata).

30 marzo, ore 06:11 Inchiodati a gabbie ideologiche, castrati da logore diatribe concettuali, costretti nella camicia di forza di un intramontato Novecento. Ed io vorrei piuttosto cappello, bastone e carrozza, magari guanti bianchi. Non vessilli, combattimenti di galli. Sono i giorni del rimpianto postumo perfino del «secol superbo e sciocco».

31 marzo, ore 10:01 Evito di pensare a come sarà il ritorno a una quotidianità non più compressa. L’istinto è quello di congelare, come un ricordo lontano, come fossero trascorse ere geologiche dal prima di questa pandemia. Cosa avrà da insegnarci questa sofferenza narrata senza lesinare sui dettagli, l’algebra dello sgomen-

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to in cosa potrebbe trovarci, di qui a qualche mese, davvero migliori? Lo spettacolo del dolore ha confuso atteggiamenti e parole: e parole e atteggiamenti, logorandoci, c’è il rischio che tracimino in una carsica indifferenza.

1° aprile, ore 18:10 Follie da quarantena: i tentativi di corsetta in casa. Eppure, in quell’angusto correre, ho potuto sperimentare un radicale cambiamento del paesaggio domestico: le quinte delle librerie, gli scrittoi del mestiere (mio e di Rosamaria); la torre, che fu di Basilisca, della libreria inglese, in cui sostano i volumi per lo studio, le letture programmate, per gli articoli futuri; il falso Hopper del living e il falso Segantini dello studio; la musica per pianoforte di Debussy, in sottofondo, a creare a buon mercato un’atmosfera il giusto sognante, che sospenda per un attimo il vuoto pneumatico di questa clausura… Il cinetico sfilare, al mio passaggio, degli oggetti di arredo del nostro appartamento mi fa assimilare il tutto a una vorticante pittura futurista: un’opulenta città, nondimeno bombardata e sott’assedio.

2 aprile, ore 12:37 Se il virile nichilismo del Lindbergh cantato da Fossati ha, a un certo punto, funzionato come detonatore d’ogni facile retorica sull’esperienza del volo; se, da sempre, ho creduto di riconoscere un doppio autoritratto – mio e dell’Aviatore – nel Joe Temerario di Ron, polifonia per immagini, in cui la vita si capovolge in metafora del volo stesso (e non il contrario, come si potrebbe facilmente essere indotti a credere), canzone-­ romanzo di ariosa e fantasticante solitudine; quella che mi appare, e lo realizzo solo adesso riascoltandola per caso, l’ecfrasi più prossima di un empireo degli involati è la sognante (e in

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tutto naïf )Vado in paradiso del solito Ron: «Vado in paradiso / Son sicuro / Mi porto il tuo sorriso / Te lo giuro / Vieni via con me / Là staremo bene / Io e te / Vieni via con me / Là staremo insieme / Per sempre». E non riesco a non fingermi che a cantarla a me sia l’Aviatore; ma a un me tornato improvvisamente bambino, con le ginocchia sbucciate e i calzettoni corti, le scarpette da football e un pallone in mano. Del resto, come resistere al richiamo di quel verso da sirena cantato in falsetto da una voce femminile: «E su / Noi saliremo su / Senza rischi / In aria / In mezzo al blu»…

3 aprile, ore 11:19 Il giorno in cui nacqui, il 9 novembre del 1974, su «Il Giornale» di Milano si poteva leggere una densa recensione di Guido Piovene a un romanzo a torto rimosso dalla memoria letteraria come il Rubè di Giuseppe Antonio Borgese, ripresentato al pubblico a distanza di cinquantatré anni dal suo primo apparire, nella collana Oscar Mondadori. E già in quell’articolo Piovene si stupiva del fatto che ancora si parlasse così poco d’un uomo «di tanto talento», travolto da «un vento ingiusto» che l’aveva di fatto «soffiato via dalla nostra letteratura». Politicamente odiato dai fascisti (e gli antifascisti sembravano sottilmente godessero di quell’odio), Borgese, con Rubè scrive un romanzo anomalo, per l’essere più cose insieme: spaccato di una nazione che corre tetragona verso il suo destino; romanzo politico che esibisce quelle trasformazioni che avrebbero condotto prestissimo alla gabbia del ventennio fascista. Ma ritornando a ragionare sul romanzo, a distanza di oltre vent’anni, per la preparazione d’un articolo sul Borgese scrittore, mi rendo conto solo adesso di quanto assai più ambizioso fosse il romanzo, e per altri motivi: Filippo Rubè, intellettuale che proviene dalla più remota provincia siciliana (da subito destinato a grandi cose), è espressione sì della crisi d’inizio Novecento,

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ma, al di là della contestualizzazione storica, mi appare senza dubbio soprattutto l’emblematico personaggio d’una immedicabile crisi, più che morale e intellettuale, esistenziale. La sua lacerazione prescinde dalle contingenze, avendo a che fare con un’invincibile difficoltà a capacitarsi del vivere, che non potremmo definire altrimenti che pirandelliana. Si stupisce persino, quando ritorna in Sicilia, del suono inatteso del suo nome, pronunciato alla maniera paesana: «Che cos’è questa cifra stampata a fuoco sulla mia carne? Questo marchio? Non avere nome! Sparire! O chiamarmi soltanto Rrubbè, come mi chiamavano quando ero bambino!». La paura che lo pervade, e che si palesa (come un morbo inatteso) al fronte, per una guerra che gli era sembrata il cimento decisivo attraverso il quale dovesse per forza di cose passare l’affermazione della sua superiorità intellettuale, è il primo sintomo che mina quel superomismo naturale che egli stesso si va convincendo lo destini a soccombere e al fallimento, non avendo altra forza che di «tollerare il presente e temere o desiderare il futuro». Il suo spirito è malato: i segni conclamati stanno nella sua ebetudine affettiva, che lo ha reso incapace d’amare perfino se stesso. Le trame del suo compulsivo ragionare assomigliano perciò a un continuo specchiarsi nella palude del vivere, in attesa di quell’occasione che segni una svolta, abulico cacciatore delle «cose definitive, assolute» (la guerra assoluta, la professione assoluta, l’amore assoluto). Amara ironia, dinanzi a questo assoluto e indistinto desiderare, simbolo più ingombrante di tutto il romanzo, la fine di Filippo Rubè, mentre cerca di riannodare i fili del proprio destino per l’ennesima ripartenza, schiacciato tra le due folle – le avverse parrocchie del patriottismo e del bolscevismo –, ucciso dal beffardo incedere della storia che assume nelle pagine finali del romanzo le sembianze di un giovanissimo biondo cavalleggero.

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4 aprile, ore 07:08 Se la Grande Guerra, per Filippo Rubè, doveva agire in principio come trampolino di lancio (disinnescato dal dilagare della paura), polarizzatrice delle sue doti intellettuali ed umane, per Eliseo Gaddi, protagonista di I vivi e i morti, secondo romanzo di Borgese, essa è l’imbuto della Storia cui rimanere estraneo, un seppur tragico fondale che gli riesce del tutto incomprensibile. E attraverso Gaddi, in certo modo, Borgese approfondisce le domande che fanno capolino già nell’agonizzante Rubè («voleva aprire gli occhi, sapere se si possono aprire gli occhi nel mondo dei morti»). Intellettuale non più giovanissimo, Eliseo, prima di abbandonare ogni ambizione a meno di quarant’anni, fa in tempo a conoscere la forma più sublime dell’amore, invaghendosi (riamato) della giovanissima Sofronia, creatura fresca e maliziosa: ninfa capricciosetta nella cui anima alberga se non «futilità». Quell’amore, scrive Eliseo, che non è di tutti gli uomini, ma «giunge ad alcuni come il miracolo, come la grazia» (siamo al “cor gentile” degli stilnovisti). Amore che, come la morte, «non deve tollerare ostacoli». E indulgendo l’autore a uno schietto e fluviale sentimentalismo, fa sì che galeotto sia il libro di versi del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti: «È giovane il signore, / Ed ama molte cose, / I canti, le rose, / La forza e l’amore. Quel che più vuole / Ancora non osa»… Un amore tuttavia che non trova compimento, che rimane brace sepolta. Giacché, «con le forze della giovinezza quasi intatte», Eliseo decide definitivamente di abbandonare le lusinghe della vita cittadina e, in cerca di riconciliazione, anela a una vita semplice, quasi ascetica, immersa nella campagna, da condurre nella casa materna a Miriano, eletto a luogo della ricerca di una solitudine perfetta («scoperse che per lui tutti i luoghi erano Miriano»). Luogo entro cui i vivi e i morti – egli, la madre, il fratello Michele, lo zio Alvise – coabitano, dialogano, si specchiano e si somigliano.

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5 aprile, ore 11:21 All’aritmetica discendente e sterile del computo degli anniversari che fanno strazio dei ricordi, anch’io preferisco la geometria metafisica delle confluenze, del coesistere, del co-vivere – nel prima-morte e nel dopo-vita – di noi e loro. Specchiarsi nei morti. Qualcuno mi vive già accanto, mi tiene la testa; in altri mi sono imbattuto per caso: si sono rivelati per poi andarsene di nuovo – com’è sacrosanto – per la loro strada (ed io, che angelo non sono, per la mia). È una questione di porte da aprire e chiudere, di passaggi che non comprendiamo mai fino in fondo. Se per una logica del rovescio la vita fosse morte, e la morte la vera vita?… E cos’è questo ostinato journal se non la consacrazione della critica a indagare questo privato incrocio, una simile sovrapposizione che ribalta ogni senso, per cavarne, plausibile effigie di una delle tante città invisibili di Calvino, un’immagine speculare?

6 aprile, ore 15:34 In preda al delirio della malattia che lo ha colto d’improvviso, l’Eliseo Gaddi di Borgese, a un certo punto, si vede smarrito entro una vasta e desolata pianura «traversata da fiumi lenti» e, sull’altra sponda di uno di questi fiumi, intravede la sagoma di Michele, il fratello prematuramente scomparso che lo invita, festoso, a riunirsi con lui. Accostatosi un barchetto con un rematore, di cui non riesce nemmeno a ravvisare il volto, Eliseo può così raggiungerlo: in preda a una sensazione «d’inestinguibile freschezza agli occhi», invitato da Michele, che già lo conduce per mano, cominciano, di nuovo insieme, a correre senza fatica e senza alito di vento. Al di là dello scoperto simbolismo – il rematore, l’attraversamento del fiume, l’immancabile passaggio da una riva all’altra –, l’episodio letterario mi ha rimandato a un curioso racconto che l’Aviatore fece a me e

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a Ulisse, qualche giorno prima che la sua coscienza si offuscasse del tutto: ci raccontò con un filo di voce (il volto mutatosi, d’un tratto, in una maschera di radioso disorientamento) della strana sensazione, provata negli ultimi giorni, di percepire se stesso disteso sul letto dove riposava e – in una stanza attigua, perfetto gemello di sé – di vedere un suo fratello defunto (ma l’Aviatore era figlio unico!), il quale gli chiedeva, con impaziente e rassicurante insistenza, di raggiungerlo. Io e Ulisse accogliemmo quella confidenza, fatta mentre l’Aviatore teneva entrambi per mano, in religioso silenzio, e tradendo appena un comprensibile sbigottimento, specie perché, se da un lato ammetteva gli dispiacesse il doverci lasciare, dall’altro si diceva contento di poter finalmente riabbracciare quel suo sosia. Che si trattasse del fratellino mai nato che Signorina, la madre dell’Aviatore, quando ancora il primogenito non era in età da poterne fissare memoria, aveva perduto a causa di un aborto spontaneo, e che l’aveva traumatizzata a tal punto da provare terrore all’idea stessa di un nuovo concepimento? Separarsi da sé, staccarsi da terra, non è mai un repentino andare, ma un fiducioso alleggerirsi: l’innata arte di perdere peso, contatto, dalla zavorra della nostra terrestrità.

7 aprile, ore 13:09 Quando sviene, «lasciato per terra il suo corpo», al principio di quel delirio che lo terrà per quaranta giorni sospeso tra la vita e la morte, Eliseo scorge il suo spirito venirgli incontro, dallo spiraglio dell’uscio, e d’improvviso gli sembra di comprendere: «Non c’è nulla, non c’è nulla nell’oltretomba se non l’oscurità e il mio fantasma». Colloquiando con il fratello morto scopre che il «lassù» coincide con la vita stessa, mentre la vera terra è il «giù» dei morti. A un certo punto, dopo essersi ritrovato con Michele, Eliseo, disorientato, vede apparire diverse «forme

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volanti», a stormi, che gli volteggiano attorno, riempiendo l’aria: sono le anime, gli chiarisce Michele, dei soldati morti in guerra. Il paradiso, dunque, come un’interminata santa voliera: non riesco a concepire più vibrante immago dell’aldilà di questa. Tornato dalla morte, sconfitto il tifo, Eliseo, avendo conosciuto come tutto è santo – «la vita, la resurrezione, il sonno, la grande oscurità» – confesserà alla madre Fifina di voler vivere il tempo che gli resta soltanto coltivando «pensieri di pietà e bellezza».

8 aprile, ore 13:33 I romanzi di Borgese sono la proiezione autobiografica del coesistere, nella sua anima, di troppi personaggi: interventista della prima ora e destinato, per le sue qualità di logica e oratoria, all’avvocatura (di fatto abbandonata nel 1900), come l’«esaltato» Rubè, che «troppo ha temuto e troppo ha desiderato»; o simile al «depresso» Gaddi, che nutre a un certo punto un desiderio di ritiro e di silenzio. Ciò che è indubbio, è il presentarsi della vita stessa, per Borgese, come una lunga malattia, un’«estenuazione da convalescente». I suoi Cinque diari americani (1928-1935) a tal proposito sono illuminanti, da leggersi come il referto impietoso del tentativo di dominio su una volontà per troppo tempo balbuziente. Seppellire il vecchio se stesso e parlare dalla tomba, in attesa dell’avvento di quella rinascenza personale che lo trasformi nel solo «personaggio accettabile», disposto a credere in Dio e nella virtù: questo, giunto ai cinquanta, il suo nuovo convinto progetto di vita.

9 aprile, ore 07:57 Assimila la sua storia (come del resto quella d’ogni individuo) a quella di un «fanciullo spaventato», la cui vita è stata da sempre

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dominata dallo spauracchio del «terrore economico» (perfino Rubè fu scritto sotto la pressione degli anticipi mensili riscossi dall’editore). Esuberanza dell’immaginazione e fluttuante volontà (le sole malattie serie) gli sembrano essere le catene più pesanti della sua vita, entro cui la critica rappresenta il giusto mezzo, la «rivalsa», lo «sfogo». E la critica di sé è il solo modo che conosce di scavare dentro le «stimmate» della sua vita passata.

10 aprile, ore 11:26 «Fu l’8 agosto del 1932, a Siasconset nel Massachusetts, il primo giorno che io vidi come tutta la mia vita avrebbe dovuto essere vissuta». Borgese, bisognoso di conversione, prossimo ai cinquant’anni, vede d’improvviso chiarificarsi il suo unitario progetto esistenziale: sospendere le recite delle cattive abitudini, battagliare contro i vacillamenti della sua volontà; e, impegnato nella serrata lettura degli Atti degli apostoli e delle lettere paoline, attraversare il necessario deserto che dalla paura conduce alla vera fede, dalla morte all’eternità. Come il Gaddi di I vivi e i morti – alla ricerca di una perfetta e ordinata solitudine –, sente di dover ereditare da sé, di dover imparare a considerarsi come morto e risorto («io sono morto e pronto alle resurrezioni»), concependo la sua compulsione a scrivere come una benedetta «sublimazione». È la scoperta di quella dimensione altra (e ignorata dall’uomo) in cui l’attimo e l’eterno coincidono. Dall’analisi dei suoi fallimenti, passa quest’espe­rienza di morte e risurrezione, già in vita. Nella continua verifica della realizzazione dei suoi propositi di rinascenza, dell’efficace durata, nel tempo, dell’anelare a una vita ordinata e libera da ogni vacua dissipazione, sfiora la consapevole nevrosi, per la maniacalità con la quale insegue una svolta così radicale («la mia principale forma di follia è nel continuo giudicarmi o condannarmi»).

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11 aprile, ore 10:33 Epifania di sé e geografia, in Borgese, si compenetrano. Al punto che potremmo definire il suo rapporto con i luoghi di rabdomantica tesa auscultazione. Basti pensare alle sue ascensioni in Engadina, narrate nel racconto lungo Tempesta nel nulla. Il nuovo cammino di rinascita, intrapreso in terra straniera, coincide qui con la sua permanenza estiva, prima di avviare un ciclo di lezioni allo Smith College, nell’isola di Nantucket, Massachusetts – «isola bassa di cespugli e fratte, ancorata in faccia all’Atlantico» (come la ritrarrà, celebrandola, in Atlante americano). In questo avamposto che sembra situato a siderale distanza dall’America delle grandi città, confortato dalla pienezza di una operosa solitudine («mondata quasi da ogni durezza di scorza»), godendo degli allentati nodi scorsoi del consorzio sociale, prende alloggio a Siasconset, all’estremità orientale dell’isola, un villaggio affacciato sull’Oceano, asserragliandosi «dentro una casa ombrosa circondata di sole, fra la brughiera e il mare». Siasconset, o più brevemente Sconset com’è chiamata dai locali, diventa l’osservatorio, aperto e fuori dal tempo, da cui ridiscendere, attraverso ciò che affida alle pagine di diario, alla sua più autentica natura; e dove ha modo di affinare il complesso «quadrilatero» delle sue idee teologiche, estetiche, politiche e poetiche.

12 aprile, ore 16:16 Un po’ Lemno un po’ Sciro, l’isola di Nantucket, con la labile culla di Sconset («idea pura del Villaggio») ad aprirgli il cuore, si rivela luogo ideale per cominciare un serrato scrutarsi: s’impone rigidi schemi di lavoro, un metodo che s’impegna a rispettare, e di cui valuta quotidianamente l’efficacia e i frutti («credo sempre più difficile una religione che non si concreti immediatamente in una regola»); matura una piena revisio-

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ne di ogni singolo aspetto della sua vita; programma nuovi progetti letterari, tra cui un’organica opera, in accordo con la svolta, da intitolare non a caso La terra promessa; cerca di appianare questioni familiari; affolla i suoi taccuini di schemi autobiografici, come l’autoritratto contenuto nel Diario II, alla data 27 novembre 1932, in cui, facendo ricorso alla metafora astrale, fotografa la sua parabola: da «satellite» nella costellazione familiare d’origine, a «stella doppia» nel sistema coniugale; fino a concepirsi come «stella singola», unico fulcro di questo nuovo paradigma di vita che ha avuto il suo big bang (nell’estate appena lasciatasi alle spalle) a Sconset, il luogo in cui ha «dato convegno» alla sua anima.

13 aprile, ore 08:17 Borgese insomma, nei Diari americani, si mette a nudo con compulsiva applicazione, facendo di sé, della sua vita – passata, presente e a venire – oggetto d’indagine su cui esercitare una spietata critica totale; occasione (irripetibile e indifferibile) di autocognizione. Quella detection che, oltre ad essere testimonianza tangibile della funzione universale dell’arte, si esplica in tutta la sua formidabile potenza proprio quando è declinata in chiave autobiografica: scrivere per obiettivarsi, raccontarsi, mettersi a fuoco facendo ricorso alle proprie “fanesse” qualità critiche. Passare al setaccio la sua opera di figlio, di padre, di marito, d’intellettuale, ma per aprirsi all’unità, all’universale: invenire il significato «mitico e collettivo» dell’esperienza individuale. E così Giuseppe Antonio precisa: «essa è l’uscita dall’arbitrio individuale (schizofrenia di Pirandello, idée fixe di Valéry) verso l’architettura del carattere, dalla solitudine alla giusta comunità, dal fine qualunque (Rubè) al fine necessario». Se le lettere paoline sono il combustibile per bruciare il suo passato, la lettura dei libri dell’Iliade lo dispone

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a un «quieto splendore» dell’anima. Ulisse, cessato di sognare, ha davvero compreso che non esistono ritorni possibili; Orfeo, disceso agli inferi (ma adesso solo per salvare se stesso) che «non si deve volgere più indietro». L’intelligenza del proprio destino equivale all’emanciparsi da uno stato di minorità, per cui dallo «spirito lirico» approdare allo «spirito epico» (nello scrivere, nei rapporti umani, in tutto). Rinato a Siasconset, da dove ha potuto trarre i frutti dalla nebulosa che è stata la sua esistenza fino a quel momento, Borgese maturerà la decisione di non più fare ritorno in Italia, rifiutandosi di prestare giuramento al fascismo.

14 aprile, ore 09:46 Nell’inseguimento di una goethiana organica unità, vita e scrittura, esistenza e politica, in Borgese si compenetrano. Quel Borgese americano che, dalle ceneri del suo lavorio spirituale e intellettuale, dal soggiorno a Sconset, rinasce profondamente emersoniano, per la convinzione forte del coincidere dell’uomo con ciò che egli definisce «immaginazione trascendentale». E non è casuale che a suggello del Diario II abbia voluto appuntare questa citazione (peraltro più volte ripresa nelle sue annotazioni) tratta da The Conduct of Life del pensatore di Concord: «The hero is he who is immovably centred». Memorandum (di un Emerson che sembra farsi qui ventriloquo di Pascal) a tenere salda la rotta, continuare a lavorare nella stessa direzione. «Fermi nel centro»: esortazione che ritorna nelle battute conclusive di The Intellectual Origins of Fascism, saggio apparso nel 1934 sulla rivista accademica «Social Research», vero e proprio incunabolo di quelle idee che avrà poi modo di approfondire nel suo libro capitale del 1937 sull’ascesa in Italia e in Europa del Fascismo: Goliath. The March of Fascism. I nuovi intellettuali, i filosofi e i poeti, non dovranno più indulgere ai peccati della ragione, alle degradazioni senti-

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mentali del pensiero, ma ritornare a una parola di verità, senza provare vergogna di sentirsi profeti. E come cantico, autentica profezia – come nei tempi orfici e biblici – deve tornare a risuonare la poesia. Più m’addentro nella lettura di questi Cinque diari americani, più si rinsalda in me la convinzione che basterebbero appena le pagine dell’estate trascorsa in ritiro sull’isola di Nantucket a mostrare quanto di grosso, su di lui, si sbagliasse l’ingombrante e piccato mentore della prima ora, Benedetto Croce, che in una lettera a Prezzolini (Napoli, 22 maggio 1932) scriveva che il siciliano (come Papini) sarebbe morto «senz’essersi corretto di nessuno dei suoi difetti coi quali venne al mondo». Ecco: le “correzioni” di Siasconset, il volgere quel suo naturale antagonismo critico a scrutare e imbrigliare volontà e manchevolezze, il serrato confronto con i testi biblici e i poemi omerici, i nuovi progetti di palingenesi in nome di un’unità trascendentale, dimostrano quanto il nonno della critica italiana avesse torto. Riemergo dalla lettura con l’euforia di questa guadagnata certezza, da investire nell’articolo che presto o tardi dovrò principiare a scrivere.

15 aprile, ore 15:28 Forse qualcuno ci avrà senz’altro già pensato, ma una ricognizione della storia della letteratura italiana dalla parte del fumo, credo sarebbe un’entratura foriera di non poche sorprese. Penso questo mentre m’imbatto in una scena di I vivi e i morti in cui Eliseo Gaddi, in viaggio, avvinto da «tenaci pensieri», si attacca al conforto della sigaretta: «Fumava, e da lungo tempo non aveva sentito così piacevolmente la vaghezza dei colori e degli odori e delle memorie come la dà la sigaretta, tutto quel biancore azzurrino e aromatico di cui gli uomini avviluppano la verità e la vita». Il fumo dunque come inebriante sinestesia, coltre che ammanta verità e vita. Da non-fumatore incallito e puerilmente sentimentale, nel mio caso, ad agire come con-

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forto e ponte olfattivo, è da sempre l’«incenso laico», così lo definì Soldati, del mezzo Toscano – rigorosamente spento, tra indice e medio – che anche adesso accompagna e propizia il quotidiano rituale della scrittura. Richiamo sensoriale che oserei definire quasi medianico, giacché m’illudo (o mi convinco) che esso sia capace di attrarmi, con nostalgica disposizione, verso la distesa pianura proibita d’una evocata e remotissima alterità. La mia languorosa adesione, ne sono consapevole, potrebbe suscitare la ragionevole protesta degli appassionati puristi del sigaro nostrano, per averlo degradato a nulla più che a mero feticcio olfattivo (come chi si beasse della propria sposa lambendola con il solo sguardo). Il toscanista, si sa, è «uomo attivo e virile» (Restany), e liquiderebbe con salaci battute i miei pindarici inseguimenti a salve: tuttavia, per me, accenderlo, sentirlo bruciare, le volte che mi capita di trasgredire alla modalità consueta dell’attuarsi di questa tentata discesa al tempo perduto dell’infanzia, possiede davvero qualcosa di sottilmente straziante. Se l’ingresso del sigaro nella letteratura italiana si deve, a quanto pare, al Casanova dei Mémoires, nel Novecento il poeta e sacerdote del Toscano rimane quel Mario Soldati che, in Rami secchi, rintracciava proprio in esso il «miglior antidoto» contro gli eccessi del fumo. Smetto di scrivere per cercare di recuperare, dalla libreria, Il Toscano. Guida completa al sigaro italiano, delizioso volume regalatomi, per soddisfare già allora la mia curiosità, dall’Aviatore, prima della partenza, durante la sosta alla stazione Termini a Roma, il giorno successivo al mio passaggio, da perfetto straniero, a Tor Vergata, per discutere la mia tesi di laurea.

16 aprile, ore 10:24 Alla ricerca di certi vecchi appunti sul Borgese critico, m’imbatto casualmente in un fascicoletto di versi sparsi che, tre anni orsono, avevo scritto come incipit di un possibile libro

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di cose poetiche che avevo voluto allora intitolare “Diario per Basilisca”, e in cui già centrale era il rimando a questo nostro parlare cieco. «Se prima e dopo / non esistessero: se financo / il presente fosse tutto relativo, // Se solo fosse questo il gioco / ultimativo – il modo unico / di stare nell’incontro? // Tu non saresti Tu? / Io non ti parlerei lo stesso? // Dal vortice interrogativo / aggalla una povera verità / ineludibile e certa: il vibrato monologhetto / di quest’io scisso, / di carta». Ecco: come non considerare questi pochi versi il preludiale incunabolo di questo mio diario con personaggi? Dei miei ostinati colloqui con Lei?

17 aprile, ore 12:45 Può darsi avesse ragione il Bonaventura Tecchi di Maestri e amici, in cui, recensendo Capogiro, l’esordio al romanzo del critico militante Arnaldo Frateili, s’interrogava sul difficile passo dalla critica alla narrativa. Salto «periglioso», il «più difficile», scrive Tecchi, giacché (proseguiva) se la critica spartisce, per quel sale intellettualistico che li avvicina, più di qualche parentela con la poesia, l’ars narrativa richiede, al contrario, capacità d’invenzione e scioltezza che la renderebbe quanto di più distante dal discorso critico. Ma è poi davvero sempre così? L’inventio del critico, avendo a che fare con un incrollabile istinto di scoperta, e configurandosi come «esperienza di solidità» (sulle forze altrui e su se stessi), non di rado sfocia in una scrittura ibrida, corteggia pure, a suo modo, una speciale scioltezza, attinge all’autobiografia, può scegliere la misura breve della scheggia di diario o le sontuose lasse del saggio, la precisione dell’articolo o la divagazione dell’elzeviro. Certo il dominio della materia romanzesca, di un congegno narrativo efficace e funzionale a ciò che si narra, la capacità di trarre dei personaggi la cui fisionomia non risulti viziata, sono attitudini che sembrano fare a pugni con la tendenza a problematizzare

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che è propria del critico. Il rischio è che, come annotava ancora Tecchi recensendo Il varco nel muro, raccolta di racconti di un altro critico e scrittore come Titta Rosa, il senso di ciò che si racconta derivi, più che dalla realtà, dai libri che l’autore ha letto. Del resto, come dargli torto se, anche oggi, alcuni tra i critici più attrezzati come Matteo Marchesini e Andrea Caterini, nei loro romanzi, rimandano entrambi a quel loro specifico sostrato di riferimento, scrivendo libri (peraltro diversissimi) come Atti mancati e Giordano, ma le cui rispettive effigi intellettuali sono imprestate a personaggi nei quali specchiarsi e così scorciare un proprio consapevole autoritratto? Cruciverba, casi di vita dal piglio filosofico, scritture al cloroformio dal sapore talvolta ingegneristico (specie in Marchesini), attraverso i quali non accontentarsi di solo narrare, ma riuscire a dimostrare. Opere, insomma, di chirurgia esistenziale che raccontano soprattutto di un disagio: l’irriducibile scollamento tra l’esperienza e l’immaginazione; e la conseguente necessità di reinventare i fatti. Pretendendo da sé, in quanto scrittori, ciò che, da critici, hanno richiesto ai tanti autori con i quali nel loro rigoroso apprendistato si sono venuti misurando. Parafrasando Raboni: di cosa parlare, se non di corda, in casa dell’impiccato?

18 aprile, ore 08:39 Quel senso soprattutto «intellettivo» che possiamo ricavare dai romanzi dei critici, ha fomentato e continua a fomentare un pregiudizio – ne fu consapevole anche lo stesso Tecchi tornando più volte sull’argomento – dovuto al fatto di dover pagare dazio al rispetto di un preteso principio di genuino realismo e di verità a buon mercato. Pregiudizio dal quale non è facile affrancarsi anche per il recensore, in perenne allerta, ad ogni giro di frase, ogni campanello d’allarme, atteggiamento che altrimenti sarebbe ingiustificato. E che rende i poveri critici

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che fanno anche gli scrittori esposti «come i merli sulla frasca a tutte le schioppettate» (Tecchi). Il guasto è forse nel voler a tutti costi contrapporre, segnare una netta schisi tra vita e letteratura, esperienza e libri. Eppure: perché il lavorio mentale d’un critico non può assurgere a veritiero romanzo? Perché, come peraltro ha voluto sperimentare ancora Caterini con Vita di un romanzo, appare ancora oggi assai scandaloso pensare che il romanzo possa ripartire proprio da qui, dal cavo di questa ferita, dalla crisi d’ogni logica attesa, e dal cedere completamente il passo al mistero della scrittura critica?

19 aprile, ore 17:04 E Tecchi, anch’egli, dal canto suo, scrittore e recensore, non è un caso che, tra i racconti di Titta Rosa, trovi più significativi proprio quelli in cui si consuma un’«evasione dalla realtà», che talvolta non disdegna la riflessione. È questo l’autentico «varco nel muro»: inteso non solo come passo attraverso il diaframma violato di una realtà «troppo piatta e solida» (provinciale o borghese che sia, poco importa), ma soprattutto come possibile accesso – per questa singolare stirpe di critici e scrittori – dalla critica all’arte. A dire di quella «concretezza fantastica» che investe per intero un personaggio, la trama di un racconto; fino a divenire il reale nocciolo d’esso. Ecco perché le prove narrative dei critici, di ieri e di oggi, assomigliano a delle coscienziose e salvifiche fughe.

20 aprile, ore 07:29 Non basta che i contagi stiano, seppur con lentezza, diradandosi. Non basta l’evento funesto, non migliora niente e nessuno. I social sono diventati ancor di più lo sfogatoio di un pervasivo e non meno ammorbante sragionare collettivo. Che

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umanità è quella che vive, usa la tragedia per liberarsi da ogni freno inibitorio, per mostrarsi in tutta la sua ferina brutalità? L’emergenza sanitaria sta agendo anche come prova della tenuta delle nostre più radicate convinzioni. Il confronto, se già era difficile prima, adesso è reso quasi del tutto impraticabile: tutto viene esacerbato; i discorsi sono indirizzati con protervia dall’interlocutore di turno. Informarsi non basta più o, peggio, non giova affatto, se il prezzo da pagare è il caos dilagante. Perfino il giudizioso limitarsi ad osservare in silenzio ha, in questi giorni sospesi, il sapore della definitiva resa dell’intelligenza delle cose: la filosofia non fa che sedurci, in questi casi; ma per lasciarci assai più di prima vacillanti. Nessuno che si affanni davvero a cercare meglio ciò che sa o a criticare ciò che ritiene buono.

21 aprile, ore 18:29 Sfogliavo, nel pomeriggio, la sola copia superstite del mio primo saggio consoliano. E, casualmente, mi accorgo che si tratta di quella che regalai e dedicai a una Basilisca già da mesi assediata dal male. Credo che la dedica vergata in quel volume abbia sancito, per me, la definitiva caduta d’ogni remora nell’espressione dei miei sentimenti. Così infatti le scrivevo il 5 settembre del 2007: «Vorrei tenerti io, adesso, sulle ginocchia – cambiando e ricambiandoti il piacevole favore di bambino. Come dirti che ti voglio bene e ti sono (dentro) davvero vicino».

22 aprile, ore 22:44 Si ragionava ieri al telefono con il carissimo Emanuele di come, e ciò a causa della massiva sovraesposizione dovuta all’avvento dei social, di un dato autore già tutto sia presto noto – nessu-

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na curiosità da scoprire, nessuna reticenza, niente che sfugga, insomma, circa la fisionomia intellettuale e umana di colui che ha scritto il libro che ci troviamo tra le mani: una vera e propria espropriazione d’immaginazione; una dilagante (e disarmante) prevedibilità. Sarebbe allora auspicabile, da autori, ripiegare in sé, mettersi in fuga: riconsegnarsi a una certa aura di mistero, in grado di cattivare, ancora, la fantasia del lettore.

23 aprile, ore 11:57 Lo stato di attuale confusione mi ha indotto, in questi giorni, a interrogarmi sul mito bacato della infallibilità della scienza che già il Feyerabend di Contro il metodo aveva provato giudiziosamente a scardinare. «Anything goes» – «qualsiasi cosa può andare» – questo il motto simbolo del suo anarchismo epistemologico; contro ogni ideologia scientifica precostitui­ta; a difesa del pluralismo democratico, scudo al castrante conformismo della comunità scientifica (percepita come entità che limita e sorveglia). Che fare? – si chiedeva già negli anni Settanta Feyerabend. E viene da chiederselo ancora e più oggi, al tempo della pandemia. Quale baedeker per sortire dalla morsa di questa conformistica entropia? «Non fare parte del quadro» – suggeriva ancora, laconico e radicale, l’eclettico Feyerabend. D’un tratto mi tornano alla memoria quei versi di L’osso, l’anima di Bartolo Cattafi: «in questa, e in ogni altra stagione / se fai parte del quadro / farai un’orribile moneta […] scappa, metti / ali ai piedi, i tappi di cera agli orecchi».

24 aprile, ore 07:31 Che fare dunque di fronte a una situazione di totale smarrimento come l’attuale? Bisognerebbe, come voleva ancora l’anarchismo feyerabendiano, «inventare» nuovi criteri che si

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adattino alla particolare situazione contingente. Rimane il fatto che ciò non è per nulla agevole, quando tutto e il suo contrario assumono lo stesso seducente belletto, si presentano tali e quali, entro un indistinto limbo d’inestricabile sospensione di senso. Conoscere il racconto della scienza e, nel contempo, stimolare i sacrosanti anticorpi del dubbio per immunizzarci da un racconto che non di rado vacilla e precipita in un’oscura e benedetta indeterminatezza.

25 aprile, ore 16:43 Educare all’oggi, alle nuove condizioni e possibilità di vita; senza preconcetti o sistemi ricevuti. Alla complessità della realtà odierna – quella della pandemia, del contagio, delle nostre vite separate… Cosicché ciascuno, senza imposizioni o modelli ricevuti da scienziati-opinionisti, trovi la propria strada: si faccia egli stesso specialista (in sé e per sé) di un vivere libero, autentico, responsabile. Se c’è una cosa che la pandemia, con impietosa evidenza, sta dimostrando è quanto sia difficile il mantener vivo – sotto il pressante fuoco incrociato dell’informazione cui siamo stati fin qui sottoposti – lo spirito critico. Dico quella capacità di discernere adesso continuamente allertata, imbrigliata, frastornata dal ginepraio di narrazioni (abominevole parola, me ne rendo conto) che coesistono entro un sistema di polarizzazione d’ogni plausibile discorso intorno alla pandemia. Non rimane che aggrapparci all’utopia pedagogica di Feyerabend, per cui, oltre a veicolare un’idea se ne dovrebbero nondimeno palesare i limiti stessi. Una sorta di profilassi, insomma, ciò che Feyerabend aveva in mente, contro ogni coercitivo sistema ideologico ricevuto. Più prosaicamente, la situazione sembra essere assai simile allo scenario esistenziale che Cattafi (ancora lui!) ci consegna in una delle sue tante liriche dall’inconfondibile chiaroveggente concisione

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come L’affondo: «Ti ottenebro la parte / migliore della mente / quella che può ancora illuminare / non ti attacco / alle ali o al ventre / spingo l’affondo e faccio guasto / dove tu non c’entri / dove vorresti andare». Ottenebrare la «parte migliore della mente» – quella «che può ancora illuminare», facendo guasto là dove si vorrebbe andare. Quale migliore e impietosa didascalia della situazione attuale?

26 aprile, ore 13:53 Stamane Fabrizio Ottaviani – ricordando un’intervista di Piero Chiambretti a un poeta meridionale nella quale, dopo le prime battute, lo showman invitava l’intervistato a parlare con la sua «voce normale» – ha avvertito il bisogno di estendere la medesima preghiera alla metà degli scrittori italiani, esortandoli appunto a scrivere «normale», a rinunciare ai pretesi «sabotaggi» della lingua italiana perpetrati, che hanno per converso il merito di fulmineamente certificare la loro inautenticità. Io, che da sempre sono sensibile al tema della voce, la grande e centrale questione rimossa nel dibattito odierno sulla letteratura italiana, mi affretto a segnalare come non sia solamente questione di corretto o naturale uso della lingua. Nella ricerca della voce giusta, me lo suggerisce anche il Bonnefoy di Osservazioni sul disegno compulsato in questi giorni di fine aprile, quando essa non si riduca a posa o falsetto (come nel caso del malcapitato poeta, erto a negativo exemplum da Fabrizio), c’è comunque la rincorsa segreta e talvolta inconscia della poesia: così è nei romanzi, per dirne una, di Consolo e Bufalino; così in quelli più metafisici di Sciascia o nelle stenografie meditative del secondo Calvino. Così è, stando agli anni più recenti, nelle partiture, che inseguono l’intonazione della grazia e della gloria, di Emanuele Tonon. Più di quanto si creda, il problema della voce, per l’autore, corrisponde alla necessità di una libera

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e privata inquisizione sulle ragioni stesse del suo scrivere. E a questo bisogno non può e non deve sottrarsi, in quanto scrittore di genere, nemmeno il critico.

27 aprile, ore 12:54 E a proposito di ricerca della voce, anche per il critico, in questi giorni fiacchi e distratti, una delle poche cose sensate che mi sia riuscito di leggere è un articolo del compianto Giuseppe Bonura, apparso qualche anno fa su «Avvenire», che avevo provveduto a ritagliare e a conservare gelosamente. Interrogandosi sul rapporto tra critico e lettore, responsabile esercizio del primo e sacrosante aspettative e illusioni del secondo, il lucidissimo Bonura affermava una verità che poi, nei fatti, così ovvia non è: «Un critico serio non deve abbassarsi al buon senso del lettore comune, ma deve fare in modo che il presunto consenso, che è spesso conformismo mentale e morale, si sciolga dal torpore dell’abitudine e dialoghi attivamente con il linguaggio del recensore». Così soltanto sarà possibile elidere ogni «sfasatura culturale», pervenire alla costruzione di un linguaggio davvero comune, e così perseguire il solo «fine critico letterario onesto». Qualsiasi scorciatoia, per quanto allettante, proposta, sul piano della lingua e dei contenuti, dai troppi critici faciloni oggi in circolazione non fa che alimentare un conformistico ed acritico buonsenso. Ammonimento, quello di Bonura, che non può non riportarmi all’adagio preferito di Vincenzo Consolo che, di fronte a qualsiasi obiezione verso la scelta stilistica e di lingua da lui con ostinazione praticata, non esitava a rimarcare quel valore (anche per me) inossidabile del necessario, per il lettore, schiodarsi da ogni «conformistico immobilismo» e superare (nel confronto antagonistico con il testo letterario) «barriere di difficoltà». Giro questa riflessione di Bonura ai facili celebratori del lettore, agli amanti dei sem-

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plicismi e dei minimalismi, così come ai mistici e ai burocrati, tanto in letteratura che nell’agone critico.

28 aprile, ore 11:13 Certe schizofrenie del linguaggio che si è costretti a partorire, da perfetti replicanti, a scuola, mi sembrano la spia assai impietosa del suo attuale decadimento. Una pseudo-lingua il cui affannato vitalismo definitorio o la cui approssimazione rappresentano, a mio modo di vedere, la più compiuta ipostasi di come la scuola italiana sia implosa dall’interno. Lingua iperastratta e vacua, impotente, devitalizzata e avulsa dai suoi stessi referenti, dunque inautentica per statuto; affetta da un congenito deficit di espressione. E il paradosso di questa intransitività è che la sua fallacia si rivela di più laddove essa presume di toccare vette di precisione o di sintesi estreme, peraltro dando la stura a partiture di involontario umorismo. Qual è, per dirne una, il senso di questa stringata verbalizzazione? – «Tenuto conto di come il candidato ha affrontato l’esame, riuscendo a illustrare il contenuto del suo elaborato in modo sufficiente, la commissione unanimemente ritiene di valutarlo idoneo alla classe successiva». Come ha affrontato l’esame? Quale contenuto? Su cosa si è basata l’unanime valutazione? E che dire della comica sciatteria di certe circolari: «Mentre il PAI è allegato al documento di valutazione dell’alunno, il PIA e la relativa organizzazione per il suo svolgimento (tempi e modalità) dovrebbero essere, in teoria (sic), comunicati dall’istituzione scolastica alle famiglie, entro l’inizio del mese di settembre, per un avvio regolare dei lavori». In teoria? E in pratica?! Forse mi sbaglierò, ma il primo vero moto di ribellione degli insegnanti dovrebbe proprio coincidere con il farsi volenterosi dinamitardi, far saltare questo scuolese la cui vuota intercambiabilità suona oggi come il greve correlativo oggettivo dell’abisso in cui è precipitata la scuola italiana.

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29 aprile, ore 12:01 Stamane, cavalcando la possibilità offertami da un mio alunno, che anche in tempi di didattica a distanza si ostina a rispondere all’appello in vernacolo, cerco di metterli in guardia dalle insidie che una esclusiva fedeltà alla lingua natìa (da loro sentita come fonte di verità assoluta) possa in effetti comportare: da patrimonio potendosi velenosamente tramutare in ventre molle, irrazionale nascondiglio, confessionale d’assolvenza; arma a doppio taglio, culla di un familismo amorale, rottura di qualsiasi patto etico; giustificazione di tutto ciò che può essere eluso, riveduto, in certo modo occultato o tacitato. La lingua italiana è (o dovrebbe essere) la norma, la regola, il nitore, la forza benedetta del pensiero argomentato, il folle desiderio di giustizia e libertà.

30 aprile, ore 00:15 Vorrei che a Cristina, Gianpaolo, Ivana, Rosaria, Pia, Domenico, Michela, Giacomo, Giulia, Francesca, Giuseppe, Mariangela, Salvatore rimanesse non dico un concetto, un autore, una regola, nemmeno un metodo; ma almeno un gesto, un esempio, una prospettiva, un atteggiamento aperto; al limite anche l’eco di una sola parola.

1° maggio, ore 10:05 Trascorsi cinque mesi, di Paco più mi mancano i suoi enigmatici silenzi, capaci di placare ogni domanda. Essi esprimevano la piena evidenza del senso del nostro muto appartenerci – cane e padrone. Sfinge i cui misteri non era nemmeno necessario decifrare, per l’implicito colmare le nostre vite con la sola tua quieta presenza. E ora che non ci sei, tutto ci sfugge: la chiarità del mondo; la pena d’essere soli; la labile traccia del nostro de-

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stino. Ed io, e noi, rimasti qui: ammansiti segugi – nello stallo della misteriosissima insidia che è lo stare al mondo.

2 maggio, ore 09:09 Lo Studiolo – ce lo ricorda Agamben col suo ultimo libretto einaudiano – era il luogo in cui i prìncipi, nel Rinascimento, si ritiravano per leggere o meditare, circondati dai dipinti che scuotevano, erano in grado di titillare la loro immaginazione. Ripensandoci bene, proprio mentre leggo l’Avvertenza alle divagazioni sulle icone di senso a cui Agamben ha voluto dedicare la sua attenzione, le tante opere d’arte chiamate in causa qui, in questo mio pubblico taccuino, a cosa somigliano se non a un privato studiolo? Il garzone in fuga dal quadro di Huyendo de la crítica di Borrell del Caso o lo sguardo strabico del Fedra Inghirami di Raffaello, solo per citarne alcuni, hanno preso ad assediare il mio immaginario, fino a tradursi in veri e propri simulacri, segni araldici del mio mondo interiore e intellettuale; tarocchi, a disvelare un destino; ideogrammi il cui senso ha acquistato (poco a poco) nitore, ogni qualvolta sono tornato a indugiare su di essi, nel tempo. È proprio vero: l’opera d’arte sopravvive nella misura in cui sa corrispondere al nostro bisogno – in virtù dell’evidenza prensile assunta dall’immagine nella nostra privatissima esperienza – di fissare quell’orizzonte di senso che fino a un attimo prima avevamo potuto appena intuire, e che solo nella visione si dispiega. Lo sguardo, dunque, è sempre complice di questa latente orfananza, per la quale chi osserva non può che impetrare consolazione.

3 maggio, ore 07:33 Così è stato anche quando, per puro caso, mi sono imbattuto in On watch, un dipinto (datato 1889) del semisconosciuto

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pittore impressionista norvegese Eilif Peterssen. Per saperne di più coinvolsi perfino l’amica e studiosa di Calvino Margareth Hagen, italianista norvegese, decana della facoltà di Arts and Humanities di Bergen, la quale si offrì di recarsi al Bergen Art Museum, poco distante dalla sua università, dove il dipinto in questione si trova esposto, per inviarmi delle foto dell’opera, specie di alcuni suoi particolari. Anche per Margareth quel dipinto fu una sorpresa (non l’aveva mai notato prima), e mi ringraziò per averla messa a parte di questa casuale scoperta. Costa sabbiosa di Selestranda (nei pressi della penisola di Stavanger), gruppo di figure – in attesa, sulla spiaggia. Ritratti da dietro, distesi a pancia in giù, il capo coperto da berretti, piedi incrociati l’uno sull’altro, i gomiti puntati sulla sabbia, il volto tra le mani, placidi, con lo sguardo concentrato sull’orizzonte di un mare che lascia intravedere, sul limitare d’un cielo bigio e nuvolo, un piccolo lembo di terra, un isolotto, o forse poco più che uno scoglio. Un uomo, più anziano (?), poco discosto dal gruppo degli assorti scrutatori, sta seduto su una rudimentale panca di assi di legno, anch’egli incappellato, le spalle intabarrate, è colto in un analogo atteggiamento di meditativa attesa, dinanzi a quel paesaggio marino, dalle vicine increspature verde-­azzurro delle onde fino alla fitta teoria di nubi basse che assiepano l’orizzonte, foriere di un temporale prossimo a venire… Di questa scena pittorica, più che la rotondità esibita d’una cava sospensione dell’ora, mi ha da subito attratto il magnetico dettaglio di quell’isolotto che appare, tra le onde, all’orizzonte, in alto a sinistra, accolto dal mio occhio – quadro nel quadro – quasi come una sorta di anomalia; una deviazione di senso verso quel misteriosissimo oggetto. Mi sono fatto convinto che quei vigili scrutatori non siano dei semplici osservatori che sostano davanti al mare o in attesa del rientro delle barche prima che irrompa il fortunale; né tanto meno che il loro sia uno sguardo puramente allarmato. A rischiarare tutto è proprio la stenografia di quel lembo di terra che s’intravede

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all’orizzonte, segno nell’indistinto verde-azzurro d’un agitatissimo mare. Lo spiazzamento generato da quel dettaglio sembra chiarire come lo sguardo dei protagonisti della scena agisca da congegno indagatore: i marinai che, guadagnata la possibilità della sosta, dopo la fatica quotidiana del lavoro, possono dedicarsi a una vigile contemplazione. On watch – in guardia. Ma il titolo originale dell’opera, Pa utkikk, aiuta meglio a sciogliere quello stare di vedetta che è più un andare «alla ricerca». Ecco che il dipinto funziona come dispositivo a scatole cinesi, giacché in esso – luogo di presentificazione di un molteplice intrecciato scrutare – allo sguardo dei personaggi ritratti, si aggiunge quello dell’artista che l’opera ha realizzato; e quello, non meno decisivo, dello spettatore. Quel sospensivo protendere lo sguardo in cerca di un misterioso oggetto, ha sortito, su di me, qualcosa di simile a una potenziale agnizione, magnificamente tramutandosi, quella scena dipinta da Peterssen, in uno dei più immediati appigli figurali della confidente disposizione alla critica. Come dire che la critica è questione di sguardo: è un andare «in cerca», somiglia a un inesausto stare «in guardia».

4 maggio, ore 09:17 Senza un preciso motivo, del tutto istintivamente, stamane, eppure come fosse una cosa decisa da tempo, di buon’ora mi sono diretto in auto verso il cimitero del paese. Nei primi mesi dalla scomparsa di Basilisca, recarmi al cimitero spesso, era diventato il necessario compiersi di un rito, il modo di mostrarle tutta la mia amorosa ostilità nel non volerla lasciare andare. Credendo che fosse lì – quando ancora il lutto era fresco e tutt’altro che elaborato –, sostavo in cappella, seduto sulla sedia, annegando lo sguardo nel marmo della lapide fino a smemorarmi, in perfetto silenzio. Perché, trascorsi più di dieci anni, abbandonata nel tempo l’abitudine di visitare la

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sua tomba, l’improvviso ritorno a questa quasi coercitiva necessità? Perché il rinnovato imporsi di questo bisogno, come primo segno di un malsicuro tentativo di fingersi il ritorno a una quotidianità slabbrata, mi ha spinto di nuovo là dov’è sepolta (e dove pure non è), nel cimitero vecchio, in una cappella tetramente luminosa, dal cancello in ferro battuto, e che lascia intravedere, già dall’esterno, il bianco abbaglio di quella geometrica casa della morte?

5 maggio, ore 01:03 L’accesso al cimitero vecchio è a nord, su una strada bordeggiata da bassi agrumeti che digradano verso il mare. Appena entrato, imbocco, a sinistra, il breve vialetto di cipressi costeggiato dai colombai che ne interseca un altro, più stretto, in cui si susseguono, a schiera, le cappelle più vetuste. Poco prima di raggiungere il luogo, ancora sulla sinistra, a sormontare una sontuosa tomba recintata, in pietra, la vista di un monumento funebre mi fa sobbalzare: su un’ara squadrata un gruppo scultorio in marmo (in origine di un bianco candido, ora in gran parte brunito dalle intemperie) della Pietà – la Vergine accasciata, a sostenere sulle ginocchia, con addolorata fatica, il corpo esanime del Figlio, la testa di tre quarti, in una posa plastica che sembra condensare il dramma del momento nell’impossibilità di potersi incrociare e reciprocamente sostenere dei loro sguardi; alle spalle la croce del martirio, con un drappo adagiato laddove stava crocifisso il Cristo; sulla destra un’anfora coperta da un panno; in basso, a fugare ogni altra possibile interpretazione, queste parole: «non est qui consoletur eam». Quasi non riconosco la cappella, che nel frattempo è stata restaurata, se non fosse per il cognome della famiglia che campeggia al sommo dell’arioso portoncino in ferro battuto, dominato al centro da un emblema, una croce inscritta in due cerchi, che stride con i ghirigori a sbuffi che la adornano per

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tutta la sua lunghezza. La cappella è un austero parallelepipedo a suo modo accogliente, una camera chiara che veicola la luce in ogni stagione dell’anno: il marmo bianco che riveste il muro fino al tetto; quello lucido (appena venato di grigio) e levigatissimo delle lapidi; l’altarino minimalista a doppia alzata, con il sobrio contrappunto di due esili candelabri di argento simmetricamente congiunti a una coppia di oblunghi vasi gemelli; l’umile crocifisso di peltro – sembrano oggetti disposti lì ad arte, per compiacere il fascio di luce che penetra dentro dalla finestrella a oblò che sormonta l’altarino e incrocia la luce che invade, dalla direzione opposta, la porta-cancello. A tradire la neoclassica parvenza dell’interno, i fiori finti nei vasi che si trovano sul pavimento, in corrispondenza di ogni fila di tombe, flebile grottesco rimando al rifiorire d’una nuova vita. In principio non riesco subito ad avvicinarmi: sosto davanti al cancello appena aperto, mi guardo intorno, per cercare di riprendere confidenza con il luogo. E solo dopo qualche istante mi decido a prendere posto su una delle due robuste sedie di mogano e pelle che si trovano proprio dinanzi all’umile altarino. Nel leggere sulla lapide il diminutivo di quel singolare nome di battesimo – anagrafico e civile – ereditato dalla nonna paterna, mi sembra quasi di non riconoscerla; così come mi stranisce l’angusta e sguaiata crasi della sua esistenza rappresa nei numeri incisi nel marmo, a segnare i confini temporali del suo passaggio. Ritrovo Basilisca nel cameo ovale che la ritrae, poco più che trentenne, questa volta a colori: in una posa studiata, la bocca semiaperta, tra il sognante e l’ironico; il suo volto buca un fondale nero (la foto fu scattata all’imbrunire) nel quale annega la sua fluente chioma corvina; gli occhi, grandi e appena contornati da un filo di trucco, guardano avanti, quasi a voler violare l’imene di quel fondo che anche adesso la intrappola. Quella sera, per puro divertimento, chi la fotografò aveva provato a tirar fuori quella sua ruggente sofferenza da tormentata diva del cinema, che adesso io accarezzo e premo forte contro il palmo chiuso della mia mano.

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6 maggio, ore 06:55 Richiuso il cancello, proseguo salendo verso la parte alta del cimitero. La stradina, larga non più di un paio di metri, conduce al livello successivo: i cipressi qui sono mute sentinelle a vegliare la discreta pianura di tombe basse, perlopiù contraddistinte da stilizzate croci in cemento. Spiccano, qua e là, alcune sculture funebri in marmo: un angelo dalle lunghe ali, l’indice della mano destra rivolto verso il cielo, quello della sinistra a indicare il sepolcro, sembra mimare l’iscrizione alla base di una tomba comune – «lassù le anime, qui le ceneri»; un piccolo angelo dallo sguardo basso e contrito sta al sommo di una stele marmorea a tronco di cono, dove solo l’ovale della fotografia non lascia dubbi sul fatto che si tratti della tomba di una bambina. Le statue, per me, sono da sempre frutto di perturbazione estetica, una sindrome che non genera paura, piuttosto un’eccitata incredulità per l’immoto dinamismo acquisito dalla materia trasformata; corrispondono, in qualche modo, a un metafisico richiamo. Mentre il canto delle cicale diventa tanto più forte quanto estenuato e intermittente, la mia attenzione è ora totalmente assorbita da un’allegoria del sonno della morte che sigilla un sepolcro posto ai margini: una giovane donna dai capelli fluenti, avvolta in una lunga veste dal morbido panneggio, sta in piedi, gli occhi inevitabilmente chiusi, la guancia destra appoggiata sulle mani incrociate a mo’ di guanciale, sorretta da una colonna a pianta quadrata su cui sta, a fare da base d’appoggio, quella che sembra essere una pigna. Le incrostazioni che chiaroscurano quel simulacro sembrano conferire all’insieme un surplus di verità. Distratto da quella languida apparizione, non mi rendo nemmeno conto di essere giunto davanti alla cappella di famiglia (che però trovo chiusa) dove è sepolto, in alto, il signor Rino B. «naturalista contemplativo» – così amava definirsi; e così sta scritto sotto lo scherzo della sua data di morte. Nella fila adiacente, vicino all’ingresso, si trova invece la tomba dello zio scrittore,

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l’amato Vincenzo. Il raffronto delle date, mi fa realizzare, per la prima volta, il rapido lasso di tempo tra l’improvvisa dipartita di Rino B. e l’involarsi, ad appena nove mesi di distanza, di un Enzo già stanco e provato dalla malattia. A riempire di senso lo spazio vuoto della cappella (che riesco a scorgere dalla porta a vetri), la natura morta degli oggetti che facevano parte della quotidiana meditazione del signor Rino B., disposte ad arte da Anna, la moglie, sul marmo dell’altarino interno, perché rimanessero custoditi insieme a lui: la ciotola del tè; l’arco di legno; uno scorticato pallone di cuoio; una pietra proveniente dal mitico giardino della casa degli zii (là dove era cresciuto e aveva potuto sperimentare una selvaggia libertà). Ora giace qui come un re sepolto con i suoi tesori, perché il ritorno alla terra assomigli il più possibile al riedere alla fissa dimora di una riconquistata infanzia.

7 maggio, ore 07:28 Ieri, nella mia incursione al cimitero, ho dedicato appena un fugace saluto all’Aviatore. Del resto, ho sempre creduto il suo vero sepolcro essere altrove. Così, mi sono messo in macchina è ho percorso i tredici chilometri di statale che mi separavano dal campo di volo. Arrivato sulla spiaggia, ho proseguito a piedi, inoltrandomi lungo l’ampio viale in terra battuta, bordeggiato da eucalipti che fungono da limite naturale all’avio­ superficie. Raggiunti gli hangar, sono sbucato nella zona mediana del campo, nel punto esatto in cui sorge una stele in marmo con la quale, a un anno dalla sua morte, gli amici del club volo hanno voluto ricordarlo e ringraziarlo per la tenacia con la quale aveva fatto sì che quella pista si realizzasse. Sotto un panciuto biplano giallo, campeggia la più logora delle citazioni tratte da Il gabbiano Jonathan Livingstone di Richard Bach. Ma l’inconsapevole apice di veridicità della stele sta

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tutto nell’aver deciso di riportare, in basso, la posizione esatta di quel luogo: 38°2’50” Nord – 14°32’23” Est – di fatto realizzando quella corrispondenza tra coordinate fisiche e metafisiche, che mi induce a credere che quel luogo e il suo spirito siano un tutt’uno.

8 maggio, ore 12:58 «Ho sentito storie su di lui che sembravano romanzi» – così mi scrisse Antonio Lovato, un appassionato di volo a proposito dell’Aviatore. E in effetti, rileggendo ora il commosso ricordo che il comandante Gagliani gli dedicò sulla rivista «Aviazione Volo Sportivo», ne viene fuori il ritratto di un personaggio già in vita: pioniere del volo ultraleggero; costruttore di barche e velivoli; dotato di una innata perizia tecnica; la sua vicenda suona a dir poco romanzesca, laddove si racconta che, decollato insieme all’estensore di quell’articolo dall’aeroporto di Boccadifalco, correvano i primi anni Sessanta, a bordo di un Piper Cub J3, presi i comandi, aveva istintivamente imparato, da formidabile autodidatta qual era, a «stare in aria». A rafforzare l’aura romanzesca, la foto d’accompagnamento che lo ritrae in camice, nel suo garage, intento a lavorare su un biplano in legno interamente autocostruito. Dalle pagine di questo mio pubblico journal, m’interrogo su quanta verità si annidi in quella brachigrafia narrativa che così lo ritraeva: se assai più «vera», dico, risulti la proiezione del racconto rispetto a ciò che l’uomo, la persona, è stato in grado d’esprimere; o, meglio, se la scrittura davvero possieda lo straordinario potere di aggiungere un sovrappiù di «autenticità»? E se così fosse, quanto necessario (quando non obbligato) – per stendhaliano impulso di meglio conoscersi – riesca il trasfigurante transumare da uomo a personaggio.

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9 maggio, ore 10:06 Se c’è un pittore la cui opera mi rimanda all’Aviatore è colui che Matisse riconobbe come il più dotato degli artisti sovietici. Sto parlando di Alexandr Deineka, la cui prassi compositiva ed estetica venne del tutto stravolta dall’esperienza di quel suo primo volo compiuto nel 1920; e il cui sguardo d’artista, in virtù di quella improvvisa infatuazione, mutò radicalmente, per le scelte coloristiche e prospettiche inedite, ispirate proprio al mondo dell’aviazione. Al punto da considerare gli anni del suo apprendistato come l’epoca dell’«amore per l’aviazione». A sorprendere di Deineka è l’aver saputo coniugare potenza comunicativa e innovazione tecnica, almeno stando alla sua opera degli anni Venti e Trenta. Ancor più del gigantismo monumentale e plastico di quegli uomini e donne che, specie nei suoi dipinti a tema sportivo, caratterizzati da inediti tagli prospettici, dominano lo spazio pittorico fino a determinarlo, e in cui il gesto atletico è risolto nella squillante cromatica coincidenza di estetica e dinamismo, reinventato come motivo fondante di una nuova epica dell’uomo contemporaneo la cui libertà è suggerita dall’esaltazione plastica del corpo in movimento, capace di agire, infine, anche come rivelazione di un carattere spirituale; a far sì che Deineka abbia un posto importante nel mio studiolo sono certi dipinti di enigmatica sospensione. Penso a un’opera del 1938 come Futuri aviatori, in cui tre ragazzi seduti, ritratti di spalle, seminudi, scrutano lo specchio di mare antistante, assorti nell’ammirare bianchi idrovolanti in volo o prossimi all’atterraggio o al decollo. Il contrasto tra le tinte calde che caratterizzano l’incarnato dei ragazzi e quelle fredde che determinano il paesaggio entro cui si stagliano i velivoli, segna uno stacco interlocutorio, contribuendo a rendere quasi palpabile quel febbrile sentimento di attesa del realizzarsi di un potenziale desiderio (che è, insieme, malcelata paura che quel sogno possa sfumare). Così è anche per me ogni volta che vedo un velivolo bucare l’orizzonte o

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passarmi sopra la testa: un tuffo al cuore inatteso, un’agitazione impossibile da domare; quell’accelerazione della frequenza del polso che rivela una latente ansietà.

10 maggio, ore 11:24 L’accento meditativo di quella stessa situazione resa da Deineka in Futuri aviatori, lo ritrovo intatto in un dipinto di qualche anno prima, che ne rappresenta in qualche modo l’archetipo figurale: Pioniere. Un ragazzino a torso nudo, seduto su un banchetto, le gambe leggermente divaricate, le mani nelle mani a ricadere nell’incavo delle gambe; lo sguardo assorto, anche qui a contemplare il passaggio di due idrovolanti che sfilano all’orizzonte, stagliandosi su un paesaggio montano appena accennato. A colpire è un libro rosso chiuso, appoggiato in terra, a un palmo dai piedi del giovine. Mi è sempre parso evidente che il vero nodo semantico dell’opera (palese nell’accensione cromatica conferitagli) stia proprio in quest’oggetto: un libro chiuso, abbandonato in terra; libro che, magari, fino a un attimo prima, aveva in tutto e per tutto assorbito l’attenzione del giovane. Ancora una volta l’idea che sottende all’opera è la sospensione: è lo sguardo – tra il concentrato e l’assorto – che determina e dà senso pieno a un potenziale cambiamento. L’abbandono della vecchia occupazione – rapito da quelle sagome che riempiono il vuoto paesaggio di fronte (e da tutto ciò che quel passaggio può significare). Ecco: quel ragazzo in mutande, sprofondato nel richiamo che promana dall’intrapresa aeronautica, mi è sempre parso “pioniere” (come recita il titolo) non esattamente del volo, piuttosto della vertigine emotiva che da esso può scaturire, e in grado di strapparlo perfino dall’oggetto della sua passione (il libro). Pioniere, per me, di una spiazzante preconizzazione autobiografica: epifanico ritratto di una “memoria a venire”. Guardare questo di-

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pinto è un po’ come guardarmi allo specchio: esiste retablo figurale più efficace a dire del mio rapporto con l’Aviatore? Quel bambino-ragazzo che d’improvviso è quasi costretto a scrutare il cielo – il libro rosso, correlativo dell’alacre studio, insegna dell’attività intellettuale, per un attimo abbandonato a terra; quel transito imprevisto di un bianco idrovolante che rinnova il mio rapporto con l’esperienza dell’aria – luogo di un ritorno. Di me che ancora resto a terra – e con ancora intatto, negli occhi, il desiderio del volo. Mito impossibile di una giovinezza da strappare e alla quale fare ritorno.

11 maggio, ore 15:34 Oggi mi ha spiazzato un amaro post di Paolo Del Colle che, nell’implacabile propensione a confessarsi, ha esternato il senso d’incompiutezza e di scacco in lui generato dal non avere avuto figli; essendo, a suo dire, il passato infecondo, se non giova a donare speranza per gli altri; perciò, lasciare un libro, un albero, un futuro qualsiasi, non è, «a essere seri», la stessa cosa. Approdo alla rassegnata protesta di non voler più vivere, solo per sé, una vita sterile e dal fiato corto. A rafforzare il senso d’una irriducibile disillusione, fa seguire il suo scritto da una citazione filmica, il finale di Bianca (1984) di Nanni Moretti. Io mi sono sentito doppiamente coinvolto: e per il comune destino di non aver avuto figli; e per l’aver sempre considerato la scena conclusiva di Bianca come uno dei finali più intimamente tragici del cinema italiano, per la secca battuta che Michele Apicella, dopo un amaro sorriso, pronuncia prima di essere tradotto in carcere: «È triste morire senza figli». Ero meno che un ignaro ventenne la prima volta che, sentendola, mi misi sommessamente a singhiozzare, a letto. Foriera di un destino? Può darsi. Eppure, superati i quarantacinque, mi sono fatto convinto che essere padri non è solo questione

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di cieca biologia. Del resto, il mondo è pieno di padri bamboccioni e irresponsabili. E mi fa sorridere chi suppone che quotidianamente realizzi la paternità attraverso il mio ruolo d’insegnante. La sola misera paternità che potrei rivendicare è l’eredità, vacua, del cumulo di parole spese per i libri degli altri. Rivolgendomi a Rosamaria, mi avventuro allora in quello che potrebbe sembrare solo fino a un certo punto un paradosso: creare la paternità, farsi padri di se stessi. Come il Geppetto di Collodi, il desiderio di diventare padre può indurci alla santa follia di un indifeso demiurgo che impetra una paternità acquisita, al miracolo del burattino (brutta copia, però a nostra immagine e somiglianza) che solo a prezzo di un grande sacrificio diventa, in ultimo, bambino in carne e ossa. Non v’è dubbio: la paternità coincide con un proiettivo ritorno a un passato che dovrà ancora avverarsi.

12 maggio, ore 11:37 Ho già accennato alla mia attrazione per le statue, allo scandalo della materia che prende forma, si fa inquietante sirena. Ricordo di una mia infatuazione per la Niobe di Hyppolite Lefebvre che si trova nel Jardin d’Été di Arles. Durante quel remoto soggiorno in Provenza costrinsi Rosamaria (non ancora mia moglie) a consumare i nostri pranzi in quel meraviglioso giardino per poterla ogni giorno tornare a guardare, a fotografarla da ogni angolazione, puntualmente deluso nella ricerca di una razionale spiegazione al cospetto di quel magnetico richiamo. Situata al centro della vasca di un’ampia fontana, la figlia di Tantalo e sposa di Anfione ha gli occhi chiusi, il capo reclinato a seguire l’onda dei lunghi capelli, il volto addolorato e piangente, la bocca appena aperta in un moto d’angoscia, denudata, i seni generosi e aggettanti, a fendere l’aria; a contrastare con la stasi del suo sembiante, l’aggirante

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dinamismo plastico del suo essere piantata a terra. La sensazione di avvitarsi nello spazio, oltre ad essere suggerita dalla torsione del busto, è accentuata dalla vorticante postura delle gambe e delle mani, impegnate in una vigile rotazione, a proteggere due dei suoi numerosi figli morti (o, stando al racconto ovidiano, scampati al massacro?), a causa dell’ira che il vanto della sua fecondità, ritenuta superiore a quella di Latona, aveva scatenato nei figli di quest’ultima, Apollo e Artemide. I figli, un bambino e una bambina, riposano (quasi occultati) al suo fianco, riparati dal panneggio della veste della madre, distesi l’uno sull’altra, e sospesi entro una dimensione di sonno. Quel dinamismo congelato nel marmo, ancora oggi, ha su di me l’effetto di un’istantanea: come se davvero lo scultore fosse riuscito a cogliere e presentificare l’esatto momento in cui Niobe, senza perdere le sue fattezze, viene tramutata in pietra, pur non cessando mai di versare le sue lacrime. Ecco: la visione della Niobe di Lefebvre, ad Arles, coincise per me con l’irrazionale scoperta dell’arcano della materia che prende forma, del marmo che si fa vita.

13 maggio, ore 09:50 Credo che il mio viscerale attaccamento all’opera di De Chirico derivi proprio dal fatto che sia stato l’artista del Novecento che più di tutti è riuscito a declinare, in pittura, quell’irriducibile senso di enigma che ogni scultura reca in sé. Per De Chirico lo scultore è il «creatore per eccellenza»: una bella scultura è sempre «pittorica». Nell’invenzione di un personalissimo linguaggio figurativo, le statue, le teste, i busti della grecità che appaiono nelle sue piazze o negli interni di tantissime tele dechirichiane funzionano come medium di una latente rivelazione: il miracolo, intuito, dell’apparire altro del noto; il ritorno di un antico che si accampa, ancora una volta, come

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emblema di un paradiso di vergine giovinezza. L’esperienza della visione diventa così questione di sguardi, da cui origina un polifonico dialogo: tra gli elementi del dipinto e l’artista; tra il dipinto e lo spettatore. E a proposito di sguardo, per De Chirico, come ebbe a scrivere in una sua poesia, quello della statua, solitario, è un «sguardo eterno». Fino a incarnarla, quella visione, senhal di sé e della sua arte, nell’Autoritratto del 1924-25, in cui si ritrae, di tre quarti, come statua di gesso, lasciando dipinto solo il volto, simbolo aperto di uno sguardo diverso lanciato sul mistero della realtà.

14 maggio, ore 17:17 A pensarci bene, la parabola del Pictor Optimus si potrebbe ripercorrere attraverso la fedeltà dimostrata a un genere come l’autoritratto, fino a diventare l’arma di più esplicita contestazione rispetto ai tanti suoi detrattori. A partire dall’eloquente Portrait de l’artiste par lui-meme del 1911 in cui un De Chirico giovane si raffigura quasi come fosse uno dei tanti soggetti della ritrattistica rinascimentale, però nella posa della più celebre foto del filosofo di cui avverte già tutto il fascino, Friedrich Nietzsche. L’abito scuro, il volto adagiato su una mano, in atteggiamento meditativo, l’occhio rivolto nella profondità avanti a sé, a sconfinare dalla finta cornice, sulla quale, funzionale didascalia, in basso, si trova l’iscrizione latina che da quel momento diviene il suo motto araldico: «Et quid amabo nisi quod aenigma est?». E all’enigma, parola chiave del suo universo pittorico e speculativo, appare proprio rivolto il giovane artista, che si ritrae su un fondo blu-verdastro, in atteggiamento pensoso. Atteggiamento replicato nell’Autoritratto (1912-13) del Metropolitan Museum di New York, in cui, pur mantenendo la meditativa posa di profilo, l’occhio a valicare la finta cornice che inquadra il soggetto, il senso del

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mistero è ribadito dalla costruzione appena più allargata, e dall’apparire, sul consueto sfondo blu-verdastro, di uno dei tanti elementi figurativi della sua peculiare sintassi pittorica che popoleranno le sue tele: un’alta torre. Qui, insomma, la vertigine dell’enigma indagato nella sua pittura, comincia a rivolgersi, in maniera già quasi sistematica, al paesaggio urbano. Fino a diventare, quel primo autoritratto del 1911 in cui si rivela nella medesima posa dell’autore dell’Ecce homo, vero e proprio sintagma pittorico da citare, facendo da quinta al Portrait de l’artiste avec sa mère (1919) del Centre Pompidou di Parigi in cui la madre, in un vestimento di un rosso cupo, i capelli di un plastico grigio, lo sguardo obliquo, con sussiegoso disincanto proteso a intercettare quello dell’osservatore fuori dal quadro, è separata dall’effigie del figlio dalla Stillleben di frutta che fa da diaframma, entro un ascendente gioco prospettico, fra la dimensione simbolica dell’artista e quella concreta (?) della madre. Il passo successivo a quel percorso di auto­monumentalizzazione dell’artista palesatosi con l’Autoritratto del ’24-’25, trova una sua variante nel ritrarsi al lavoro, in Autoritratto nello studio di Parigi (1934), in abiti casalinghi, gli arnesi del mestiere in bella vista; una testa di Atena ai piedi (cifra del suo oramai riconoscibile alfabeto metafisico), poco discosto dalla tela che sta dipingendo; il medesimo sguardo traverso, rivolto all’osservatore, il fruitore dell’immagine – mise en abîme di una solitudine, quella esibita dall’artista, in qualche modo ancora dialogante. La testa dell’artista, come si trattasse di un mezzo busto, un reperto archeologico che si staglia su un cielo crepuscolare, poco più di un fondale che faccia da edicola al segno, campeggia invece nell’Autoritratto (1940-1945) della GAM di Torino: uno sguardo qui non più dialogico, e rivolto all’osservatore, bensì meditativo, assorto; colto sul limitare di una pensosa autoreferenzialità (a trasmettere un senso di voluta ritrosia).

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15 maggio, ore 11:35 Gli autoritratti en travesti degli anni Quaranta e Cinquanta rendono ancor più chiara la carica di contestazione che De Chirico assegna al genere, in risposta a quella critica italiana che considera adesso la sua opera attardata e vacua, e priva di un contenuto veramente nuovo. Dalla scomparsa della figura umana nelle sue tele più metafisiche, con l’invenzione di una grammatica di oggetti-simulacri a innescare la visione, fino al farsi egli stesso personaggio, maschera, ritraendosi nei panni di un orientale che brinda, in costume nero seicentesco o abbigliato da torero. Lo smagliante ed estremo anacronismo di queste tele dall’aura barocca, ma dalla solipsistica inquietudine profondamente contemporanea, segna la siderale distanza alla quale il pittore di Volos si poneva dai suoi più agguerriti detrattori; fino allo scontro aperto con Venturi e Longhi, alla Biennale di Venezia del ’48, dedicata a celebrare i metafisici italiani, ma intesa da De Chirico come l’ennesimo tentativo di bocciare i suoi attuali orientamenti neobarocchi. L’altro estremo, rispetto ai sontuosi dipinti in costume, nel declinare un’autoiconografia di polemica resistenza, è senz’altro rappresentato dall’Autoritratto nudo del ’43, in cui, analogo sguardo di quello a figura intera nello studio parigino di quasi un decennio prima, adagiato su una sedia, di tre quarti, si mostra in tutta la sua olimpica solitudine: a cosa corrisponde qui l’ostensione della sua nudità se non all’offerta della sua ars pittorica? L’orgoglioso narcisismo si tramuta in divisa etica e libertaria, in nome di una ricerca che muove in direzione ostinata e contraria, rispetto all’apparente rigoglio, in quegli anni, di presunte avanguardie artistiche. Il Grande Metafisico, intorno alla metà degli anni Cinquanta, è come se dipingesse dalla tomba, risentito nei confronti di chi si ostinava a voler legare l’intera sua opera al palo della sua prima stagione metafisica. Quella vigile ritrosia che Sciascia aveva visto magnificamente colta nel somigliantissimo ritratto a matita che

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gli fece Bruno Caruso, il volto scolpito dagli anni, lo sguardo archeologico, da sfinge; la «faccia imprigionata», di cui parlava Silvina Ocampo nell’Epistola poetica indirizzata all’artista, di chi ha saputo attraversare, da lucido e curioso spettatore, la vita.

16 maggio, ore 10:57 Non so se sia mai stata scritta una storia della pittura raccontata attraverso le stanze, luogo metafisico, spazio potenziale della visione e dell’immaginazione, ma la palma del pioniere, almeno stando al Novecento, credo spetterebbe senz’altro a Giorgio De Chirico. Le stanze che affollano il suo primo romanzo del ’29, Ebdomero, le «buone camere» ove ci si rinchiude «con le tende calate e le porte serrate», dagli angoli nascosti e dai bassi soffitti. Camera-isola «fuori dalle grandi linee di navigazione»; che nell’incipit delle Memorie ritorna come il più remoto ricordo della sua vita: «una camera grande e alta di soffitto», illuminata, a sera, da lampade a petrolio. I manichini, le squadre, le teste di gesso, i cavalli, sono convocati dalla sua immaginazione a obiettivare il mistero inafferrabile che la realtà non riesce in pieno né a svelare né a trattenere. Spaesamenti creati ad arte, che l’amico Cocteau paragonerà (con efficace similitudine) ad oggetti piovuti dal cielo «come un aviatore tra i selvaggi». Stanze, orchestrate anche in senso prosodico: giacché De Chirico organizza lo spazio pittorico con la fulminea sintesi che è propria del poeta; secondo un’interna ragione che poi diventerà maniacale disposizione al calcolo esatto nell’opera di Fabrizio Clerici, pronto a raccogliere la sua eredità, facendosi apostolo di un non meno sfolgorante anacronismo.

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17 maggio, ore 13:09 La divagazione di ieri a proposito delle camere-isole in De Chirico e Clerici mi ha condotto assai lontano, all’ascolto dell’ultima composizione (per baritono, tre cori maschili e orchestra) di Luciano Berio che, manco a dirlo, proprio Stanze s’intitola. L’estremo frutto della riflessione musicale del ligure torna a insistere sulla fusione di parola e tessitura sonora. Di Berio ho sempre ammirato il piglio critico e sperimentale, la dimensione perorativa del suo percorso artistico, specie quando ha rivolto la sua attenzione, «per un desiderio di polifonia» (arcinota la sua ammirazione per Joyce), alle potenzialità della voce e della poesia, alchemicamente calate entro un contesto sonoro ove sia possibile invenire nuovi inattesi scenari connotativi (rispetto a quelli strettamente linguistici). È arcinota la sua amicizia e collaborazione, tra gli altri, con intellettuali del calibro di Sanguineti, Eco, Calvino. E alla parola e ai poeti non poteva non tornare nel momento del congedo. Autentici spazi, più che meri fondali sonori, luoghi di contiguità tra parola e suono, poesia e musica – ciascuna delle cinque Stanze è abitata da una poesia diversa: da Tenebrae di Celan al Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni; da Job, una stanza di Sanguineti (scritta appositamente dal poeta per quest’opera) a The News That di Brendel e Die Schlacht di Dan Pagis. L’effetto che la musica deve poter sortire sulla parola, in Berio, assomiglia a una promessa di scarcerazione, approdo a nuovi potenziali livelli di significanza in sé e per sé resi fruibili, all’ascoltatore, nel ventre d’uno spazio di coesistenza solidamente realizzato, edificato (sarebbe il caso di dire); non per nulla l’opera è dedicata a Renzo Piano. Spazio, in definitiva, concepito come luogo d’infinita interrogazione. Scrittura musicale della fine, i testi poetici chiamati in causa in Stanze orbitano attorno al tema della morte e di Dio – dell’altrove e dell’altro. Entità ironica in Brendel; quasi «blasfema» in Caproni; sfuggente e «labirintica» nell’amato Sanguineti; una sorta di «perentoria

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lettera maiuscola» in Celan; o semplicemente «colpevole» in Dan Pagis, l’irrompere di Dio nei versi dei poeti in queste “stanze” mentali – «con porte e finestre sempre aperte» – risponde all’impellenza di concettualizzare in qualche modo il mistero. Se De Chirico, come scrisse Cocteau, fu «pittore religioso privo di fede», il pittore del «mistero laico», Berio, per quanto anch’egli non credente, è nondimeno interessato all’ineludibile questione del porsi dinanzi «all’idea di Dio», verità (come nell’ebraismo) che va soprattutto conquistata. A ricordarci che il vero senso sta nella ricerca, che il cammino è più stimolante della meta, il processo formale della forma.

18 maggio, ore 16:32 Rileggendo i quaderni che sono venuto riempendo in questi mesi, avverto pieno il disagio di questa voce a tratti financo sgraziata. Gli inciampi dei miei tic linguistici, il gerundivo incedere del mio contorto argomentare… Quando vorrei, invece, che la mia voce fosse limpida, o affilata e chirurgica, come la lama d’un coltello.

19 maggio, ore 12:57 Gli «uomini-nodi», così come li chiama Ebdomero – l’alter ego del primo romanzo di Giorgio De Chirico – sono ancora, aujourd’hui, il simbolo vivente e ambulante della stupidità; e nei cui discorsi trapela, immantinente, l’ingombro del loro agghiacciante difetto d’origine: una congenita refrattarietà a comprendere. Boriosi replicanti – gli occhi livorosi e insanguinati – il loro disprezzo è un conato di becero utilitarismo; e che dire dei ceri accesi, adoranti, al Dio Quattrino? Sono i segni del loro ombelicale sragionare che li porta a principiare

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o concludere, indifferentemente, ogni loro discorso con il cavernicolo motto: «Prima gli italiani!».

20 maggio, ore 00:27 Per quanto stizzito dal silenzio dell’editore, a distanza di qualche mese, stanotte riprendo in mano, complice forse anche il fantasma di De Chirico, carte e appunti per quel reportage critico su Fabrizio Clerici, di cui ho avuto modo finora di scrivere soltanto i capitoli d’avvio. Tornando sui cataloghi delle sue più importanti esposizioni, non posso fare a meno di pensare quanto ancor più vera risulti, se applicata al suo lavoro artistico, la massima di Hubert Damish, secondo la quale la pittura non si limita a «mostrare», ma la pittura «pensa». Ciò che appare come naturale in De Chirico, viene portato all’estreme conseguenze e razionalizzato in vero e proprio congegno nei suoi dipinti: scomparso l’uomo come soggetto, la tela diventa infatti il luogo deputato a una visione non più solamente misteriosa, ma con sapienza costruttiva veicolata. La fedeltà all’essenza figurativa della sua maniera pittorica aborre nondimeno ogni intento illustrativo, a tutto vantaggio di una icasticità che ha il compito di proiettare l’osservatore in uno spazio altro, tanto rigoroso (stando alla sua concezione) quanto metafisico. La pittura archeologica e visionaria di Clerici presuppone, questo è l’apparente paradosso su cui si basa il suo rigoroso modus operandi, un analogo archeologico sguardo da parte di chi si volga a considerare l’evento (laico e verticale) racchiuso in quello spazio dipinto. Un occhio che oblitera il dato visibile, anche in nome di una più ignorante e meno impeccabile grammatica. Opponendo resistenza, in virtù di una significanza aperta, alla facile tentazione di testualizzare in una comoda vulgata gli oggetti della rappresentazione. Cos’è infatti quell’interno gemino di Le due stanze – due cubi di perlacea

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chiarità, la geometrica teoria degli scacchi bianco-azzurri del pavimento, il senso di continuità dato dall’intravedere le camere attigue, scomparso dalla scena ogni oggetto-totem – se non la nuda ostensione di uno spazio, di quella macchina con sapienza costruita per stimolare l’esperienza della visione che qui – vuota offerta – cessa di essere congegno scenico e diventa l’oggetto stesso da dare in pasto all’occhio dello spettatore, eloquentissima metafora della pittura che pensa se stessa?

21 maggio, ore 13:43 Ho apparecchiato il tavolo sulla terrazza, disponendo con ordine tutto ciò che mi occorre, rituale che scandisce la mia prima giornata al mare nella casa di famiglia. Mi metto a leggere i capitoli d’avvio di Tempesta nel nulla di Borgese. D’improvviso vengo piacevolmente interrotto dall’infittirsi del canto delle cicale e dall’incresparsi di un mare fino a qualche istante prima d’olio; e ciò accade proprio mentre m’imbatto in un passaggio della Tempesta in cui Borgese racconta d’una precisa agnizione nel tempo e del tempo – che coincide con Dio, con l’eterno. «Io sentii quella vicenda come si fosse svolta in me». Così la descrizione del paesaggio naturale tracima nello scenario aperto di quello interiore, sprofondando lo scrittore nella voragine di un passato («come un’acqua nera che chiedesse una vertigine») che lo fa deflagrare, al ricordo della giovinezza, in un interno (e a lui solo udibile) «grido intollerabile». Agogna di poter abbracciare le «larve» del passato, invoca Dio perché uccida il tempo, gli restituisca i giorni perduti… Solo dopo si persuade dell’insignificante distinzione di tempo ed eternità, ed è capace di riconoscere, in quell’istante di stasi percettiva, di comunione totale con il luogo, se stesso «salvato» (riceve la netta sensazione di essersi definitivamente lasciato alle spalle il pensiero della morte). Mentre scrivo, le cicale non smetto-

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no ancora di frinire. Non concedendosi soste o variazioni di sorta, il loro canto sembra abitare ogni cosa; la siepe dei fichidindia che ci riparano dalla spiaggia sotto al piccolo promontorio dove sorge la casa fa da contrappunto alle increspature del mare, arricciatosi, puntuale, col meridiano giungere della levantata. Le cicale adesso mi pare che mimino l’impressione di un tempo concavo e immutabile, che non passa ma si espande, fino a coincidere con tutto lo spazio possibile, ben oltre l’orizzonte. Questo metronomo instancabile, che è più d’una impressione, né una delle tante intime sinestesie che abbagliavano l’autore di Rubè, al contrario, proprio nella sua prosaica plasticità sensoriale mi pare riveli un’eternità liberata finanche dal bisogno di essere pensata. Per noi e per le «larve» dei morti cantano e canteranno sempre le cicale.

22 maggio, ore 17:05 Autoritratto. In perenne contesa col mio tempo, impegnato a volgere il capo; sprofondare nella ricerca di ciò che è stato, ciò che di nuovo permane, valicando le epoche. Convinto che l’uomo non si sia mai davvero redento, che cattiveria e resa si siano appena scambiati di posto. Attratto dall’anacronismo romantico, dal metafisico urlo di un eterecosmo che reclama attenzione; la fuga o forse la rincorsa di un ritorno che anela la sconfitta del tempo – l’esultanza dello spazio che si fa punto, linea, colore sempiterno; momento di esemplare scoperta. Se fossi pittore non mi accontenterei del magro bottino di cinetiche e neobarbariche esternazioni, del gesto cubico e nervoso, del pugno di mosche di scoli spettrali e rabbiosi scarabocchi, del magro ginepraio (inconcluso e ridondante) di segni e cancellature… Avrei piuttosto la baldanza dell’esploratore attratto dal percussivo incedere tra ciò che più sfugge, del cartografo visionario che vuole redigere le mappe risica-

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tissime della sterminata impalpabile pianura delle cose al di là delle cose.

23 maggio, ore 12:00 La terrazza – arca ebbra di memoria espansa – è oggi sferzata da un maestrale stizzoso che gonfia la vela bianca d’un interno entusiasmo. Le nuvole, lambite appena da un glauco riflesso, s’arpionano a un cielo squillante, donando virile conforto alla linea dell’orizzonte, occupata dalle sonnolente sagome dell’Eolie e dai triangoli colorati di guizzanti imbarcazioni (impegnate forse in allegra regata). Quest’affaccio sul mare, in aereo promontorio, mi è parso, fin da bambino, luogo ideale ove lucrare formidabili giudiziose scoperte. Ritorno all’originaria verità dello scoprire (Ebdomero docet!), contesa a viso aperto con lo spaventevole vegliardo del Tempo. È il sogno di un ulisside minore, il mio, di un novello Ebdomero in «novello Oceano» – immobile, il fiato sospeso, l’occhio aperto a scrutare la linea d’ombra, sulla prora… Staccando lo sguardo dall’oggetto della mia lettura, adesso posso scorgere Basilisca sostare, olimpica, accanto all’ortopedico sostegno; e l’Aviatore, pensoso, inseguire le volute di fumo del suo vecchio Toscano ammezzato, mentre avanza stringendo in mano parte di un longherone.

24 maggio, ore 17:49 Tra le mie idiosincrasie, confesso occupare un posto di rilievo, con tanto di violenti attacchi d’orticaria, la logora narratologia che con ciclica regolarità ritorna a fare capolino, dico quella imperniata sul mito del Sessantotto o sui rivoluzionari anni Settanta: l’esaltato fideismo progressista; l’amore a sinistra, fatto di sesso e abbandoni (per perdersi e ritrovarsi solo da borghesi); la monocultura intransigente truccata da espe-

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ranto politico (condita da retorici vessilli e gadget ideologici); l’immancabile tuffo nella pagina nera della sconcertante ma inevitabile deriva verso il terrorismo di alcuni (con tanto di notizie dal carcere e resoconti di processi, perché vicino alla moglie di Toni c’è la sconosciuta protagonista di turno); fino all’appendice dell’immancabile capitoletto sui funerali di Berlinguer e l’onda commossa dei compagni… Per la serie amori e altre catastrofi. Perché non invece un romanzo storico serio che torni a parlare ancora, chessò, di Cavour e Pisacane, di Nievo e Garibaldi? Perché non ridiscendere, allora, al miraggio costosissimo di un’Unità rabberciata?

25 maggio, ore 12:09 Quando mi soffermo sull’ottusa cecità di questo mio lavoro, mi sovvengono le tombali parole che Virginia Woolf spende sulla questione in A Room of One’s Own, ricordando come alle ben note difficoltà materiali e ambientali si aggiunga il pernicioso disagio per ciò che definisce «the world’s notorious indifference» (la ben nota indifferenza del mondo), per cui nessuno ci chiede in verità di scrivere il dato romanzo o il tal saggio critico… La solitaria partita è perciò da sempre la stessa: si tratta di espiare la mortificazione di una necessità nostra (e solo nostra).

26 maggio, ore 16:00 Pomeriggio confortato dal consueto concerto di rumori: la risacca, la brezza, le cicale, il ritmato transitare dei veicoli sul viadotto, lo sferragliante muggito di qualche treno sulla ferrovia, poco distante… Ritornare, dopo più di venticinque anni, su un classico come Le affinità elettive e scoprire di trovarsi di fronte a tutt’altro libro rispetto alla traccia impressa nella mia

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labile memoria di precocissimo lettore. Del resto, si sa, a seconda dell’età e delle stagioni, la memoria (e non fa eccezione quella di un lettore poco più che adolescente), alla distanza, ne esce sovente ingannata. Vivo il ricordo della metafora mutuata dalla chimica che giustifica il titolo e il senso della vicenda narrata da Goethe, estesa al campo dello spirito e dei sentimenti umani – laddove un equilibrio (fino a quel momento stabile) viene meno, si spezzano i vincoli precedenti per crearne di nuovi e superiori. Palese il nitore da teorema da enunciare e dimostrare che permea l’intero romanzo. A sfuggirmi del tutto, allora, la sapiente orchestrazione nel ritrarre i caratteri, nel rispetto di una simmetria più che mai funzionale al calcolo esibito dal romanzo goethiano, e con una netta demarcazione, nel modo di reagire al cambiamento, tra universo femminile e universo maschile: saggezza e irrequietezza, stasi e movimento, attesa e azione – sono queste infatti le contrapposte leve che determinano o preparano quel nuovo futuro che tarda ad avverarsi, e in cui Charlotte e Ottilie sono impegnate nella difficilissima arte della moderazione, chiamate a stemperare ed equilibrare l’indole di certo più impaziente, distruttiva e risoluta di Edward e del Capitano. Edward, fino a quel momento della sua vita accusato di «saper soltanto abborracciare e pasticciare nella maggior parte delle cose», scopre, grazie alla giovane e pura Ottilie, il suo «talento di amare»; vede nel divorzio da Charlotte la soluzione, il modo per restituire, a ciascuno, pace e felicità. Il romanzo sta tutto in questa robusta dialettica tra calcolo e destino, soluzione ed enigma. Tutto si complica, nei piani di Edward, quando, lontano da casa, gli giunge la notizia di quel bambino atteso ora dalla moglie, proprio quando la solidità della loro unione sembra pressoché definitivamente minata. Neppure l’illusione di un apparente ritorno alla normalità della «cerchia domestica», in cui ciascuno sembra di nuovo assecondare la propria natura, sarà sufficiente a evitare il tragico epilogo.

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27 maggio, ore 07:18 Quello di Ottilie, nelle pagine finali del romanzo, assomiglia al sereno trapasso di una santa che sembra voglia prendere commiato dai suoi cari, i suoi gesti esprimendo agli astanti «tenerissimo affetto, amore, gratitudine, scuse e l’addio più sentito». E in effetti Ottilie ed Edward, se ne vanno da martiri: lasciarsi morire di inedia – che per Ottilie era beatitudine e per Edward un tormento necessario – è il solo possibile viaggio per il compiersi di un comune destino, non più nella vita, ma nella morte. Giacendo sepolti insieme, nella cripta della cappella che non potrà né dovrà più accogliere altri. E Goethe non poteva concepire per il suo romanzo un finale più soave: «Così i due innamorati riposano l’uno accanto all’altra. Sulle loro tombe si libra la pace, serene, affini immagini d’angeli chinano lo sguardo su di loro dalla volta, e che istante gioioso sarà, quando un giorno si ridesteranno insieme!».

28 maggio, ore 16:36 E quanto è distante questo Goethe da Chateaubriand! Nei racconti cristiano-indiani di inizio secolo dell’autore delle Memorie dell’oltretomba, tanto Chactas quanto René sono spettatori del sacrificio d’amore che loro s’impone; Atala e Amelia, vere eroine, scelgono in ultimo il definitivo accostarsi alla fede per rientrare in modo indubitabile nell’alveo di una moralità messa in un primo momento in crisi dalla passione. Nelle Affinità elettive possiamo dire che la morale non entri quasi mai davvero in gioco, e la fede ha un ruolo di pacificazione secondario: Ottilie, la cui vicenda svetta emblematica su gli altri protagonisti, è una martire laica, sacerdotessa di un amore assoluto e libero da ogni soverchieria di colpa. Il farmaco della fede, che non impedisce ad Atala di avvelenarsi e ad Amalia di darsi la morte dedicandosi anima e corpo alla cura delle altre sorelle

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del monastero, non sembra affatto interessare i protagonisti della tragedia d’amore goethiana della maturità.

29 maggio, ore 17:12 A causa dell’emergenza sanitaria e del blocco delle attività produttive che ha interessato tra gli altri anche il settore editoriale, l’uscita di Gli archi e gli strali. Foscolo inattuale, il volume collettaneo a mia cura che attende da quasi tre anni la pubblicazione, è stata al momento congelata e rinviata a data da destinarsi. Nel frattempo, la riscoperta, sotto altra luce, del nitore trigonometrico delle Affinità elettive, mi ha indotto a una non meno ispirata rilettura anche del romanzo generazionale di Goethe, I dolori del giovane Werther. Complice forse l’empatico ed elegante italiano della traduzione di Borgese che vado leggendo, riassaporo il piacere della misura insuperata del più noto dramma dell’amore impossibile che distilla, inframmischiandoli, idillio e disperazione. Mi viene istintivo riandare all’Ortis di Foscolo, alla quasi “illeggibilità” del non-romanzo foscoliano, se confrontato con il suo dichiarato modello. E si comprende bene come Cesarotti, nello scrivere circa le sue impressioni di lettura all’autore dei Sepolcri, parlasse della necessità, di tanto in tanto, di «respirare», staccarsi dalla pagina, certamente facendo riferimento allo sconvolgimento provocato, in chi legga, da quel tono d’insostenibilità di una materia incandescente, e che corrode, dall’interno, financo la scrittura. Eppure, sulla questione della filiazione dal modello goethiano ci sarebbe da operare un netto distinguo: come non notare, per dirne una, il carattere senz’altro più cerebrale di Jacopo, al punto che, più che come quella di un’anima, andrebbe letta come storia d’una mente? E ancora: il dipingersi di Foscolo con tutte le sue follie nell’Ortis, lo mostra davvero profondamente impelagato in quella medesima temperatura emotiva e medita-

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tiva, che non sembra del tutto essersi lasciato alle spalle. Se il Werther affascina e incanta, da sempre, come modello raffinato e compiuto d’un tragico sentimentalismo, l’asfissiante e quasi illeggibile vicenda dei tumulti dell’Ortis, sembra ancora oggi e meglio, proprio in virtù di certi irrespirabili eccessi, incontrare le nostre insindacabili ragioni di lettori sconfitti dalla vita.

30 maggio, ore 08:58 Oggi ho preso parte, da semplice uditore, a una conferenza online dedicata a Camilleri, in cui uno degli intervenuti si è prodotto in una serratissima disamina del tipico mistilinguismo camilleriano, con tanto di analisi dei costrutti più ricorrenti, senza trascurare nemmeno i problemi connessi alla traduzione in altre lingue della sua opera. In questi casi a ronzarmi in testa è sempre la medesima obiezione di fondo: secondo questo azzerante approccio metodologico, che so, negli anni Novanta Il birraio di Preston può tranquillamente stare accanto a Nottetempo, casa per casa di Consolo, senza sentire nemmeno il disagio di misurarne le distanze, in un indistinto livellante calderone, sul piano del valore letterario? O ancora, per dirne un’altra, come si può, in nome di un generico filone del plurilinguismo delle patrie lettere, solo pensare di affiancare Camilleri a Meneghello con tanta inveterata nonchalance? Il ricorso a un mono-metodo può produrre di questi fraintendimenti, “libere associazioni” in cui il vero sconfitto rimane il giudizio di valore, la messa a sistema dell’autore. Ricorrere poi a un simile armamentario di mezzi pesanti per passare al setaccio l’opera omnia del pur simpatico, autoironico e intelligentissimo Camilleri, rassomiglia tanto all’atteggiamento di chi, per avere la meglio su un manipolo d’uomini, decida di mettere in campo uno spropositato esercito. Fuor di metafora, sarebbe stato meglio provare a convincere il pubblico che il padre del commissario Montalbano sia davvero un grande scrittore, un

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autore di tutto rispetto, ma ricorrendo alla sola forza delle argomentazioni; pur partendo, com’è ovvio, sempre e comunque dai testi. Anche il meteorologo, dopo aver raccolto i dati relativi ai valori di pressione, temperatura, umidità e quant’altro, li interpreta per fornire una previsione sul “tempo che farà”. E invece il rimanere inchiodati a uno sterile accertamento dei dati nulla ha a che spartire con la critica letteraria.

31 maggio, ore 10:01 Perché scriviamo? Forse per raddrizzare ciò che, nella nostra vita, è andato in altro modo. Per spiegarci meglio, e senza infingimenti, come sono davvero andate le cose; quale rumore di fondo è rimasto intrappolato oltre la rete del puro accadere. La cicala dello scrivere ha la pretesa blasfema di catturare, come direbbe il cembalo sonante Paolo Del Colle, «l’aria di un’ennesima alba». Scrivere come esercizio di una fuga nel segno di una inalienabile differenza da computare, con incallito stupore: vivere, scrivere e pensare, allora, ma (facendo eco a Gottfried Benn) mettendo a fuoco qualcosa di diverso da ciò che avevamo in mente.

1° giugno, ore 18:23 Più passano i mesi, più realizzo quanto l’assenza di Paco abbia lasciato un così palpabile strascico di vuoto in questa casa. Tutto è cambiato. Perfino il modo di abitare gli spazi del nostro appartamento. In cerca d’improbabile conforto mi avventuro nella lettura di un delirante articolo dedicato alla reincarnazione degli animali e ai segnali che sarebbero capaci di mandare ai loro padroni, anche dopo morti. Così scopro che i rumori familiari della sua presenza che mi pare talvolta ancora d’avvertire in casa o il continuo visitarmi in sogno, sarebbero, a

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detta dell’estensore dell’articolo, nulla più che i segni con i quali continua a manifestare la sua presenza e il suo inscindibile legame con noi.

2 giugno, ore 23:03 Riprendiamo le letture coniugali. Dopo Madame Bovary, propongo a Rosamaria di concentrarci su un’altra indimenticabile figura di “vizio”: l’Oblomov di Gončarov. La mollezza di Oblomov che lo inchioda al divano, in nome di una dignità umana che rivendica, dinanzi allo spettacolo, per lui orripilante, di un consorzio sociale che gli vibra attorno come mosca impazzita. Eppure, conosce un moto d’indignazione quando Penkin, alfiere per nulla empatico di un bieco realismo propagandistico, mostra di farsi scherno dell’uomo caduto; e i cui scritti assomigliano a filistee inquisizioni, recluso nell’inganno di stare ritraendo «la vita tale e quale». Incapace di concentrazione, di determinazione all’agire, spaventato dalla vita e dal suo prossimo – «Non vi avvicinate, non vi avvicinate: io non vi darò la mano; voi venite da fuori e fa freddo», così si rivolge alle persone che vanno a visitarlo in casa sua – Oblomov è comunque convinto che il pensiero debba essere «fecondato dall’amore». Amore e indolenza – binomio solo a prima vista ossimorico.

3 giugno, ore 14:59 La noia: Emma e Ivan Ilic. Lei cerca di vincere il tedio dell’ambiente chiuso e provinciale in cui vive, proiettandosi entro un mondo fittizio di cui non cessa mai d’inseguire le chimere, le medesime illusioni alimentate dalla lettura dei romanzi; per Ivan Ilic il disegno dell’avvenire, al contrario, si va da subito sbiadendo sempre più ogni giorno; e ogni anno che passa è costretto a cancellare qualcosa. Lavoro e noia, per lui,

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sono sinonimi. Non gli rimane che l’attesa infinita ed arresa di un momento in cui si possa principiare davvero a vivere: Ma: «Quando si può vivere?»…

4 giugno, ore 10:48 Mentre da giorni preparo un quizzone online per salutare i miei alunni a conclusione di un anno davvero particolare, non faccio altro che chiedermi cosa rimarrà loro di questo strano e lungo periodo di istruzione a distanza. Sarò riuscito a risvegliare, in ciascuno di essi, quel gene della bellezza, inscritto nel loro DNA, ma che tuttavia bisogna nutrire ed educare? A dimostrare che lo studio non è poi così avulso dall’aria che respirano, dai passi che camminano, dal loro quotidiano? Cosa avrei potuto insegnargli di più, giacché, quando s’inizia a intendersi, è già giunto il tempo di togliere le tende? Sommerso dalle carte da impilare, strappato alla libertà responsabile con cui dovrebbe coincidere la nostra professione, mi chiedo cos’è un insegnante se non un istrione, un camaleonte, uno sciamano, infine, che cerca di spacciare la sua moneta buona?

5 giugno, ore 21:40 Dei colleghi dell’esperienza sassarese, la sola persona con cui è rimasto un autentico rapporto di cordiale affinità è Gabriella. Non ci vediamo dai tempi del dottorato, ma ogni anno, in coincidenza con la fine della scuola o più o meno al principio dell’estate, ci diamo un tacito convegno telefonico. Di solito è lei, com’è accaduto anche oggi, a chiamare. Le nostre sono conversazioni-fiume che potrebbero protrarsi, senza timore di conoscere stanchezza, per delle ore. Donna d’altri tempi, sicilianissima ma trapiantata con la sua famiglia d’origine da oltre trent’anni in Sardegna, Gabriella, come le donne di Boldini,

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possiede un’incantevole desueta eleganza, a cui oggi qualsiasi uomo sembra essere del tutto disabituato. Il suo temperamento, nonostante l’innesto in terra sarda, mi appare, sotto le braci, oltremodo siciliano, specie per quell’amarezza rattenuta che talvolta accompagna il suo dire, anche quando si lascia trascinare allo strappo di una risata che dovrebbe, vorrebbe sortire l’effetto, se non di cancellare, almeno per un attimo di allontanare ogni ferita. Così come quando si concede qualche scambio di battute in dialetto, quasi a rammentarmi le sue origini sicule. Affezionata, garbata e mai sopra le righe, il suo affetto e incoraggiamento ogni volta mi commuovono.

6 giugno, ore 10:15 L’invio da Giulio Perrone Editore dell’ampia biografia di Boris Vian di Valère-Marie Marchand mi ha riportato indietro al periodo intorno allo scoccare dei miei diciotto anni, quando rimasi letteralmente ammaliato dalla lettura (in un’edizione economica della Newton) di Io non vorrei crepare, raccolta postuma uscita in Francia solo nel ’62. Le ventitré liriche di Je voudrais pas crever, compulsate allora come si trattasse di uno scintillante romanzo in versi di un uomo in rotta (il romanzo estremo del Bison Ravis), furono una giudiziosa eresia, l’imbarco su una nave blasfema, in quei giorni per il resto di prevedibili letture. Forse perché, nella disposizione allo sberleffo, nella sfida continua, e talvolta amaramente divertita, di Vian, nella dolcezza affogata nel sarcasmo, nella giocosità acida di certi refrain che sono il marchio di fabbrica anche di talune sue canzoni, c’è dentro l’intero universo dell’artista. La cosa che ancora oggi mi stranisce, di quella prima infatuazione per il mito vianesco, è la distanza del vissuto di Monsieur Boris dal mio piccolo mondo. Antimilitarismo a parte – la scelta dell’obiezione di coscienza fu per me naturale e convinta, tutt’altro che dettata da mero opportunismo – il jazz non rientrava

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allora nei miei ascolti musicali, prediligendo la classica; così come poco avvezzo ero alla frequentazione dei suoi amati e tradotti autori di romanzi fantascientifici e polizieschi. La mia vianofilia si è poi, col tempo, persa per strada; accantonata in un angolo della memoria, è sempre rimasta carsica la schiuma di quella fulgida giovanile ammirazione. Ritorna adesso, in tutta la sua chiarità, con la lettura di questa biografia della Marchand dedicata all’homo politechnicus dall’intelligenza potenziale: il fatto letterario, la musica, l’arte in genere, per Vian, rappresentano, infine, un indiviso universo di possibilità. La sua arditezza stava, me ne rendo adesso sempre più conto, nella capacità di trarre il meglio da ogni situazione o intrapresa nella quale decidesse di lanciarsi.

7 giugno, ore 11:08 «La felicità dei ragazzi / E tante cose ancora / Che dormono nei crani»; vivere per toccare «il fondo dell’acqua», vederlo diventare azzurro; e, in basso, i pesci, «i calmi pesci». La vita, per Vian, è «come un dente» – da curare, da strappare, per essere davvero guariti (la vita). Quell’immaginare – sin da bambino – il suo deperire, l’invecchiare; quel «fosforo un po’ molle», il suo cervello, che gli è servito per prevedersi «senza vita». Ciò che è necessario, ciò che a Boris sembra sempre bastare, anche davanti alla distruzione del mondo: «Il suffit que j’aime». Perfino in frantumi, del mondo, quando si ama, ne rimane abbastanza («Il reste assez»). Ciò che più gli piace è ciò che è innecessario: il suo non scrivere «que du vent». Risuona, inequivocabile, in Vian, qualcosa di neoromantico – dico quel senso di onesto amore di degradazione che è caro, per ciò stesso, a ogni romantico d’ogni luogo ed epoca. La totale e bella futilità – come quella di certi capolavori d’ingegno, come certe macchine inutili che tanto piacevano all’ingegnere Vian (addestrato dal padre Paul) –, la inservibilità riconosciuta allo

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scrivere, nondimeno gli vieta di chiarire quale sia la qualità prima di chi si vuole egualmente poeta: «Un poète / C’est un être unique / A des tas d’exemplaires / Qui ne pense qu’en en vers / Et n’écrit qu’en musique». Ecco perché i poeti sono «très bêtes», molto stupidi, giacché scrivono «pour commencer» invece di mettersi «à travailler». Fare il poeta, comporre versi, è insomma per lui uno scrivere a perdere: una forma somma di dissipazione, per la quale patire appena qualche innocuo rimorso. La petizione tra utilità e inutilità, tra scienza e vita, tra progresso e natura, ritorna come tema centrale della riflessione poetica in una delle liriche di Non vorrei crepare, laddove, nel dilemma tra locomotiva o uccello («Comotive ou zoizillon»), non ha dubbi: terrebbe l’uccello («je garderais l’oiseau») – il cui cuore, come quello del poeta, «battrait si vite»; così veloce. Tra le schegge di un sì disintegrato romanzo in versi, l’amore (ça va sans dire) ha un ruolo centrale, come testimonia il verso più memorabile forse dell’intera raccolta: «Je veux une vie en forme de toi». La dichiarazione amorosa per me ancor oggi più bella (insieme a certe cose di Éluard). Sono queste le parole che, quando sono in vena di romanticherie, sussurro, in un francese dalla pronuncia sgangherata, con rotonda enfasi a Rosamaria: «Je-veux-une-vie-en-forme-de-toi». Si può leggere anche, Non vorrei crepare, come dichiarazione di poetica, attraverso la breve ma significativa poesia intitolata «Tout a été dit cent fois» – la libertà di dire in virtù del fatto che «tutto è stato detto cento volte». Assunto che sostanzia lo sberleffo e il divertimento della scrittura, per Boris, di esprimere diversamente quanto già è stato detto. E di farlo con guascona e ilare spregiudicatezza: «C’est que ça m’amuse et je vous chie au nez». L’ultima graffiante malinconia la riserva alla sua dipartita (da sempre aleggiante, a causa di quella malformazione cardiaca che lo induce, per reazione, a vivere allo stremo delle forze ogni giornata) alla quale, per quanto provi, non riesce ad abituarsi, scrivendo, nella poesia posta in coda alla raccolta,

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che morirà, «sans passion, mais avec intérêt». Chiudendo il cerchio e riservando, alla morte, quella passione fredda, quella operosa curiosità che da sempre ha rivolto alla vita. Certi stilemi vianeschi sono rimasti impressi a fuoco, carcami nella mia memoria lirica. Qualcosa di simile sarebbe accaduto, qualche anno dopo, con l’incontro della poesia di un altro grande francese come Paul Éluard.

8 giugno, ore 07:09 Cutusiu Settanta. Questo il titolo scelto da Alessio Arena e Fabrizio Catalano per festeggiare i settant’anni del caro Nino De Vita, in un incontro online organizzato questo pomeriggio a cura dell’Osservatorio Poetico Contemporaneo. Insieme a Nadia Terranova e Massimo Onofri, anch’io sono stato invitato, tra gli amici del poeta, a intervenire. Fu Consolo, e prima ancora che scrivesse nel 2001 la prefazione all’edizione «non clandestina» per i tipi di Mesogea di Cutusiu, il vero tramite di un’assidua frequentazione, per me iniziata sui libri. Nei puntuali ritorni in Sicilia, nei rituali incontri estivi, non di rado mi esortava a entrare in confidenza con i versi di Nino che, dalla remotissima e natia spelonca, aveva preso a scrivere nella lingua della sua contrada. Nel mio ricordo, nella costellazione di poeti evocata sovente da Vincenzo, la solitudine dell’appartato Nino si sovrapponeva a quell’altra solitaria e non meno singolare figura del “barone magico” Lucio Piccolo che (come ha raccontato nelle Pietre di Pantalica) Vincenzo andava a visitare, allora poco più che esordiente, nella pace di Villa Vina, nei pressi di Capo d’Orlando. Quel Lucio Piccolo sacerdote, per Consolo, di quella seducente sirena barocca che avrebbe innestato, cercandola di mitigare, sul selvaggio agliastro della preoccupazione (tutta sciasciana) della storia. Al contrario, i versi di Nino conducevano, per altra via, a un grado zero, un

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primitivo agone di senso in cui a campeggiare, per forza di parola, non era più l’urgenza della storia da rifare, ma la memoriale vampa, capace d’illuminare a giorno la vita d’ognuno. Niente di più lontano dalla vocazione palinsestuosa di Vincenzo, ma una cadenza, quella di Nino, altrimenti risentita. Non il regesto di crolli e rovine, ma l’esattezza d’una voce cristallina, d’una lingua consustanziale al suo mondo, tuttavia capace di irradiarsi in loquela dell’universale condizione umana. Ho sempre creduto che il miglior commento indiretto alla poesia di Nino De Vita non possa che essere I linguaggi del bosco, il raccontino, quasi un manifesto di poetica, che proprio Vincenzo inserisce nelle Pietre di Pantalica. Storia dell’iniziazione del protagonista da parte di Amalia, una ragazzina che, nominando le cose, rivela il potere di una lingua sorgiva che sembra essere dettata dal luogo. Cos’è la Cutusiu di Nino De Vita, il mondo che sembra averlo scelto come custode, se non il farsi uno del luogo con la lingua? «Timpuni assulazzatu» – con alle spalle il promontorio di Erice e davanti la fenicia Mozia e lo Stagnone – che ancora una volta Consolo contribuì a consacrare, quale luogo di una già fitta geografia letteraria dell’isola, in L’olivo e l’olivastro, narrando di uno dei tanti passaggi nella casa di Nino e Giovanna – «giardino di voci infantili» in cui Nino va scrivendo «poemi» di vita, in una lingua limpida e alta. E a ripensarci adesso: quanto somiglia la Cutusiu di Nino alla «contrada senza nome» di Lunaria, la favola teatrale con la quale Vincenzo celebrava la possibilità del risorgere della poesia, anche nel luogo più improbabile e sperduto!

9 giugno, ore 11:12 Ieri, spiegavo come non riesco ad avere un ricordo nitido di quando sia avvenuto il primo contatto tra me e Nino De Vita. Forse perché, in virtù dell’imprinting consoliano, è stato piut-

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tosto un ritrovarlo in carne ed ossa. Eppure, prima ancora che tra di noi nascesse un radicato legame d’amicizia, capitò che proprio nel giorno dell’esequie funebri di Consolo ci trovassimo casualmente nella stessa fila, tra i banchi della chiesa, e potei sentire Nino sussurrare con commozione, a mezza a voce, a Giovanna, lì al suo fianco: «Ti rendi conto?! Vincenzo non c’è più! Né noi verremo più d’estate a trovarlo, a Sant’Agata» – come se la morte di Enzo avesse dell’incredibile; come se fosse necessario ripeterselo, a voce alta, per metabolizzare la perdita non dell’ultimo grande siciliano del secondo Novecento, ma dell’amico. Fu quella circostanza, e sono felice di averlo ricordato anche nel mio intervento di ieri, a rivelarmi tutta la sensitiva compassione di Nino che nella sua poesia si tramuta in formidabile ed empatico strumento di cognizione. Fu allora che mi parve di aver compreso davvero la radice prima del suo universo poetico.

10 giugno, ore 09:47 Tre incontri, tre voci di autori siciliani hanno segnato il mio più che ventennale apprendistato: accanto a Vincenzo Consolo, corifeo di un’idea di letteratura risentita e che tuonava alta; dopo il superamento di certe ingessature e incrostazioni ideologiche che resistevano come scudata zavorra, e che ho avuto modo di lasciarmi alle spalle, grazie al salvifico incontro con il più visionario degli intellettuali siciliani del secondo Novecento, Michele Perriera; l’incrocio con Ninuzzu, ha rappresentato, attraverso le sue novelle in versi, la scoperta del valore archetipico della lingua all’alba della lingua, all’apice di un esemplare nitore lirico e insieme comunicativo. Ma c’è dell’altro: l’accanito leggere libri e scrivere versi, sin da giovanissimo, a Cutusiu, per Nino è stato, a ripensarci adesso, il solo modo per sconfiggere la solitudine di quella grande casa

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immersa nella campagna in cui continua ancora oggi a vivere. È il destino del periferico, dello stanziale, ciò voglio significare, a rendermelo assai fraterno.

11 giugno, ore 15:31 Nella folgorazione che mi aveva reso, in breve tempo, incondizionato estimatore di Boris Vian, ma realizzo ciò soltanto adesso, non ero riuscito davvero a cogliere l’origine di quella guascona joie de vivre. L’incontro con taluni snobistici affondi di fioretto contenuti in quella esigua plaquette fu l’intravedere appena la punta dell’iceberg di un talento in realtà molteplice. Subito dopo venne, grazie a Giusiny, la mia amica francofila nata in Svizzera, l’entusiasmo per il jazzman e l’eccezionale ironico paroliere, il corrosivo funambolico bricoleur della parola. Ignaro delle notti brave del principe di Saint-Germain-­desPrés; del Tabou e dei club della Rive Gauche; della spericolata corsa contro il tempo, nell’attesa di una morte alla quale guarderà, negli ultimi anni, con profondissima angoscia (specie di notte). Ogni esibizione alla tromba (che fa male al suo cuore nato stanco) è uno strappo, un furto perpetrato a quella costituzione fin da bambino precaria. Campione di un esistenzialismo futurista che lo rende appassionato di velocità e motori, automobili e congegni: segno più scoperto della sua personale battaglia ingaggiata contro «l’angoscia di una vita al rallentatore il cui destino non può mai compiersi davvero».

12 giugno, ore 17:24 Postmoderno ante litteram, Boris era convinto che, essendo già stato tutto scritto, le nuove possibilità, in letteratura, dovessero originare dalla riscrittura del già noto. Non stupisce perciò che amasse realizzare dei palinsesti e dei collage. Fu anche un gran

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collezionista: oltre che di automobili, di francobolli, di graffette, di puntine da fonografo. Alla distanza, in Vian, sorprende ancora la fedeltà assoluta al gioco della finzione e allo swing frenetico della lingua. Più sposa la finzione, più gli sembra di avvicinarsi al nodo della verità della e sulla vita.

13 giugno, ore 10:10 Nonostante sia il prodotto dell’assemblaggio di ampi scampoli d’interviste ai tanti personaggi chiamati a dire la loro sul Vian amico, scrittore, ingegnere, musicista, discografico, artista, che rende il tutto talvolta ridondante, non riesco a staccarmi dalla biografia della Marchand. Le pagine dedicate a tratteggiare la figura di Paul, il padre di Boris, che trasmette ai suoi figli, e soprattutto a Boris, un sapere pratico che è tutt’uno con l’idea di una libertà da esercitare principiando dal proprio spazio, m’inchioda. Mi sovviene la lezione precocissima, appresa, ancora bambino, dall’Aviatore. Il mio gioco preferito era l’armeggiare con cacciaviti, pinze e tenaglie per imparare a smontare con metodo e perizia (e rigorosamente riassemblare, senza che nessun pezzo avanzasse) vecchi ferri da stiro e radio a transistor ormai fuori uso. Ricordo ancora il senso di frustrazione se per caso fallivo nell’impresa, e la fiorita risata dell’Aviatore, come a dire «non è niente, riuscirai la prossima volta». Ammaliato dalla precisione del suo linguaggio, il suo eloquio non era mai asettico, somigliando a un demiurgo che creasse, davanti ai tuoi occhi, le cose di cui parlava. Così la portanza, i filetti fluidi, la resistenza – concetti teorici basilari sul volo – diventavano cose concrete non appena mi portava sul viadotto per far volare l’aereo di balsa ad elastico regalatomi per l’occasione. Come Vian, l’Aviatore negli ultimi tempi soffriva di un’insonnia indotta, spesso non chiudendo occhio, costringendosi a non cedere facilmente al sonno, spaventato dal pensiero di dover far passare la notte, di resistere fino

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all’alba, consolato dalla magra soddisfazione di non essersi fatto cogliere di sorpresa, in quella pania di solitudine fattasi oramai, insidiato dalla malattia, doppia.

14 giugno, ore 11:29 Impelagato ancora nella lettura del Borgese narratore, per quella pagina-ritratto da scrivere per «L’indice dei Libri», m’im­ batto, tra le novelle ripubblicate di recente da Avagliano, in Fox-trot, un perfetto e delizioso racconto – perfetto per grazia di scrittura e delizioso per la levità che lo informa – in cui il protagonista, un padre che giunge nella residenza estiva con la famiglia, la prima sera, si lascia contagiare da uno scatenato fox-trot diffuso da un fonografo, lanciandosi in un ballo frenetico con la figlia; ballo che lo sfinisce, lasciando il suo cuore in preda a un tamburante cancan per tutta la serata. Lo stesso trambusto, penso, che doveva provare Vian, ogni qualvolta rischiava la vita per suonare la tromba o ballare. Nel racconto di Borgese, la situazione di allegrezza agisce peraltro come scoperta dell’avanzare dell’età, da vivere con leggera accettazione, quasi con entusiasmo. «Yes! We have no bananas, We have no bananas to-day» – così suonava il refrain di quel fox-trot che aveva trascinato il padre in una danza sgraziata e frenetica.

15 giugno, ore 10:44 Conversando al telefono con Fabrizio, il discorso cade sul rapporto tra scrittura e successo, che poi sarebbe come dire tra scrittura e fallimento. Appena uscito dal ripasso di memoria per la mia giovanile infatuazione vianesca, non mi stupisco di sostenere che la scrittura, la vita stessa, vadano pensate se non come gioco. E nel gioco, ce l’ha meravigliosamente insegnato Caillois, il modo di giocare è più importante della vittoria

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stessa, più importante della posta in palio. Il distacco da ciò che si è e si fa, dai libri che si scrivono, dall’eco che suscitano; l’astenersi dal ragionare in termini di successo o fallimento, il non montarsi la testa, il non prendersi troppo sul serio in quanto bipedi (avrebbe sentenziato ironicamente il signor Rino B.); il considerare, insomma, qualsiasi «contrattempo» circa la partita con indulgente distacco (a voler ancora ascoltare la lezione di Caillois) è la vera e sola «legge del gioco» a cui tenere scrupolosamente fede. La fedeltà incondizionata a un’etica della lontananza che storni da noi il negativo e si proponga come opera di nuda civiltà. Fabrizio tace – credo quasi di averlo convinto.

16 giugno, ore 07:07 A scuola, accanto alla storia dei testi si dovrebbe portare in classe la storia delle parole: quest’ultima lascia più spazio all’im­maginazione, consente d’inseguire e riportare alla luce insospettabili rapporti; l’ossatura di un parlato centripeto che contribuisce a ricostruire il senso di un’unità che inizia dalla parola e alla parola ci riconduce. Il mio ideale di perfezione? L’etimologia che si fa responsabilità, cristallino e universale nesso. Antidoto contro il conformismo più bieco: quello vacuamente anticonformista e politically uncorrect.

17 giugno, ore 12:50 Sdraiato all’ombra, gli occhi chiusi, al basso continuo della risacca del mare a un certo punto si aggiunge un sibilo, un familiare ronzio che va salendo d’intensità. Mi alzo. In direzione del viadotto vedo approssimarsi un motoaliante bianco (le ali oblunghe, la goccia carenata della cabina) appena decollato dal vicino campo di volo. Sul mare, quasi di fronte al piccolo

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promontorio dove sorge la casa, il pilota vira in direzione delle Eolie, descrivendo un’ampia circonferenza, così da poter sfilare basso, a fine manovra, sulle nostre teste. Chiunque conosca l’aviopista della zona, sa che questa casa bianca col tetto spiovente è da sessant’anni la casa di villeggiatura dell’Aviatore e della sua famiglia. Così capita sovente, nella bella stagione, che gli aeroplani compiano bassi passaggi, e con dei piccoli spostamenti laterali della cloche accentuino il rollio delle ali, in segno di amicale saluto. Conforto e insieme malinconia mi assalgono, ogni volta, corrispondendo a quel cenno festoso, e mi fanno sospirare.

18 giugno, ore 18:45 In auto, guido alla volta di Torre del Lauro. La straordinaria variabilità del tempo di questi giorni promette qualche altro corsaro acquazzone. Indico con un cenno a Rosamaria la pioggia che, da Ovest, sale dal mare. Non appena arrivato a casa, faccio in tempo ad indossare pantaloncini, canotta e scarpette da corsa che inizia a cadere una pioggia dapprima leggera, poi improvvisamente fattasi battente. Senza troppo pensarci comincio a correre su e giù entro quel fazzoletto di poco più di un paio di chilometri, per diversi tratti rettilineo, che delimita, da bivio a bivio, la contrada. Sarà la sensazione di refrigerio data dalla brezza di ponente, sarà l’amplificarsi degli odori, o la suggestione del rapido radicale mutarsi dell’atmosfera, complici anche quei bassi nuvoloni grigio-azzurri che donano nuova tridimensionalità al paesaggio, ma ad ogni falcata è un’esultanza del corpo che mi accompagna fino alla fine dell’allenamento. La medesima gioia del corpo che, in pittura, ha saputo trasmettere soltanto Deineka con i suoi corridori: uomini e donne che campeggiano – plastici e simbiotici totem –, irradiando di prorompente fisicità i vasti spazi che attraversano.

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19 giugno, ore 16:54 L’inadeguatezza, da critico-lettore, è il mio sentimento principale. Sono anzi convinto che, pur nella diversità di formazione e di esperienze, sia questo il tratto che accomuna tutta una nuova schiera di critici. Quel senso di inadeguatezza per esempio lucidamente chiamato in causa anche da Andrea Caterini in un suo polemico articolo di qualche anno fa uscito sulle pagine culturali de «Il Giornale» contro alcuni scrittori italiani che si vantavano di non avere il tempo di frequentare i classici o addirittura di averli abbandonati perché noiosi. Liquidare il rapporto verticale con i classici in nome dell’illusoria credenza in un’idea di letteratura al ribasso, e che possa germinare da quell’orizzonte contemporaneo fatto di detriti di materiali buoni per ogni occasione ed ogni stagione, è al contrario segno inequivocabile di sconfitta; di piena resa rispetto all’ansia conoscitiva e al demone della curiosità che non dovrebbe mai smettere di abitare, tanto chi legge quanto chi scrive. Effetti collaterali, si direbbero, di un pervasivo utilitarismo che si riverbera anche sul fatto letterario, al punto da indurre i più ad accontentarsi dell’angusto imperativo miseramente ricevuto, e che sembra retrocederci a un’etica da seminarista: ricevere, come elemosina, il nostro pane quotidiano nella più rosea delle ipotesi da chi ci ama e nonostante tutto ci sorregge; o, per i meno fortunati, da inflessibili superiori. Quando l’utopia privata (il più possibile condivisa) dovrebbe forse proprio coincidere con la riscoperta del piacere di provarsi a forzare l’angusto serraglio dei limiti ideologici e culturali, dei condizionamenti, delle mortificazioni quotidiane, delle offese alla nostra incrollabile buona fede e intelligenza.

20 giugno, ore 18:19 Spesso vengo canzonato per il mio disagio a dare la caccia a topi, blatte e formiche, a ingaggiare battaglia contro vespe,

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zanzare e mosche. Canzonato, quando non aspramente redarguito come il peggiore dei folli. Quando accade, preferisco far sloggiare da casa nella maniera più indolore possibile questi indesiderati ospiti. Per rintuzzare certi attacchi alla mia tetragona determinazione nel sottrarmi all’impulso feroce che è proprio dell’uomo, controbatto spostando l’attenzione sulla paura che invece devono provare quelle creature nell’incontro con l’uomo. E ogni volta che ciò accade mi capita di citare una luminosa paginetta delle Lettere spirituali di Giuseppe Rensi, in cui sostiene che se il miracolo di un supposto «giocattolo d’aeroplano», una perfetta miniatura eppure in tutte le sue parti meravigliosamente funzionante, fosse oggetto di distruzione, per quanto si tratti di un giocattolo, il distruggerlo sarebbe avvertito come «un’azione da selvaggio», per il fatto stesso di annientare d’un tratto il frutto di cotanta ingegnosità e pazienza. Quale ancor più grave e colpevole brutalità compiamo allorquando, mulinando da forsennati, muoviamo le nostre mani per uccidere creature ancor più meravigliose dell’aeroplanino chiamato sopra in causa a mo’ d’esempio, velivoli viventi alla cui naturale perfezione hanno contribuito millenni di evoluzione naturale come una vespa, una zanzara o una mosca?

21 giugno, ore 14:11 Confesso di non riuscire a celare il mio imbarazzo, ancora a distanza di anni, quando qualcuno mi ricorda di aver anch’io commesso il peccato di gioventù di pubblicare un libro di versi. Ritrosia che non m’impedisce talvolta di appuntare qualche scheggia dal tono metafisico o sentimentale, come quella che stamattina, in spiaggia, ho scritto di getto sotto l’ombrellone, mentre guardavo una Rosamaria, al mio fianco, baciata dal sole e dolcemente assopita. «Soave tempesta / fresca (di stanza in stanza) / Stare a contemplare / l’immagine (pensata e detta),

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/ cucita al mio fianco sinistro – / di Te – amore di sostanza, / più leggero dell’aria – / compagna e misura della gioia, / nel nostro inconfondibile / ciarlare di niente». Quale più fedele autoritratto della nostra perfetta solitudine a due?

22 giugno, ore 13:17 Per tutta la mattina mi sono intrattenuto a dialogare con Gesualdo Bufalino, auspice la deliziosa iniziativa di Mimma Rapicano per il blog “Formicaleone – Letteratura e altre bestie” che per rendere omaggio allo scrittore nell’appressarsi del centenario della nascita ha immaginato un dialogo a distanza tra Bufalino e uno scrittore contemporaneo, a tessere un insolito discorso amoroso, a metà tra il dialogo e la confessione, prendendo spunto da alcune riflessioni dello scrittore siciliano tratte da Cere perse. Le ragioni e gli affanni dello scrivere e la tentazione dell’afasia; il vizio di leggere e l’interesse per tutte le forme di scrittura dell’io… Ogni libro stampato è una bara? – si chiedeva non ricordo più dove il caro don Gesualdo, facendo eco a un amato autore francese. Ed io mi mostro convinto che la disposizione più sincera allo scrivere sia proprio quella di farlo immaginandosi già nella tomba, da postumi (in vita). Morte e scrittura (e Gesualdo giustamente rimastica Blanchot, «si scrive per non morire»). Ma anche, aggiungo io: eterno e scrittura. Desiderio impossibile di ri-essere, al di là della nostra polvere e della nostra carne. Si scrive per «rendere verosimile la realtà», dice incalzandomi Gesualdo; ed io gli faccio eco: «Sì certo, ma anche per trarre dal caos quella inverosimiglianza; imprimere a cose e fatti un ordine: coordinate più esatte e intellegibili, sott’altra luce significanti». Ricordandomi, fuori dal gioco, delle mie scritture a perdere sulle vite e i libri degli altri, gli confesso che comunque l’atto dello scrivere rimane per me affare del tutto intransitivo. E a bruciapelo gli chiedo: «cosa sarebbe mai la vita senza l’impulso a declinarla

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in autobiografia – sinonimo più intimo, quintessenziale della scrittura?». Del resto, brevissimo è il passo dall’io al calamo. Di colpo, dietro gli occhiali grandi e scuri, mi guarda con accondiscendenza e tace, divertito. E così ribalta la questione: «E se provassimo per un poco, un anno, sei mesi, a tacere?». L’«incappucciamento delle stilografiche», il concedersi una «stagione sabbatica» per noi siciliani, gli dico, è forse, se non impossibile tuttavia un rischio; mai comunque un piacere: è l’impietrimento. «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» – mi esce dalla bocca istintivamente quel motto desunto dal Prometeo incatenato eschileo che il suo amico e mio conterraneo Vincenzo aveva assunto a modello e inscritto nel suo blasone. C’è poi il rischio dico quasi sottovoce che anche il silenzio, non meno della scrittura, si faccia ossessione. Come quel Paul Morphy, amatissimo da entrambi, che per la vita inseguì la sfida delle sfide che l’inglese Staunton, impegnato nei suoi studi shakespeariani, sempre gli volle negare; e che lo ridusse all’ebetudine, lontano dalla scacchiera, alla rinuncia, alla conclamata follia. «A stare in silenzio si rischia troppo!» – diciamo all’unisono e ridendo entrambi di gusto. Assecondando la mia natura già di per sé, riguardo allo scrivere, bradipesca, gli dico che sarebbe più realistico forse come intendimento, in alternativa al silenzio, leggere moltissimo per scrivere ancora meno. Epperò, complica il gioco Gesualdo, a quel punto anche il leggere potrebbe tradursi in vizio, «pratica cannibalesca», insaziabile fame delle altrui vite (poco importa se vere o immaginarie). Leggere, rilancio io, con la piacevole ebbrezza di lasciar cadere la penna; leggere i classici come forma suprema di autodifesa anche, dai tanti vacui vivandieri delle lettere contemporanee. Scrutare le velleità di una Emma Bovary, sostare ai piedi del divano di un Oblomov, o vicino ai corpi esanimi ma ancora caldi di vita di Amalia e Ottilie, di Werther e Jacopo… «Allora perché non andare direttamente alla fonte, leggere soltanto», mi dice don Gesualdo, «i diari,

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gli epistolari degli autori che più amiamo? Origliarne il quotidiano, per patire, come fosse cosa nostra, la memoria di quel tritume di vita?». Volgendo il nostro conversare sul terreno dei referti dell’io, e titillando il comune voyeurismo letterario, Gesualdo m’invita a nozze. Scrivere un’autobiografia o tenere un diario è sempre una volontaria perdita di contatto, sfondamento del muro della storia che cessa di esistere, per restare (sia benedetto Emerson!) allo stretto imbuto della sola biografia. Lo scriveva provocatoriamente come cruciale punto di domanda, ed io qui voglio invece affidargli il crisma di verità inoppugnabile, in uno dei suoi tanti opuscoli ciclostilati, l’amico naturalista contemplativo, il caro signor Rino B.: è necessario «fare coincidere la filosofia con la biografia». Don Gesualdo annuisce, compiaciuto.

23 giugno, ore 11:48 Fino adesso avevo accuratamente evitato di leggere libri che fossero presentati come il frutto del periodo di reclusione a causa della pandemia, e invece oggi, forse anche attratto dal titolo, ho ceduto alla lettura di Canto degli alberi, l’ultimo libro di Antonio Moresco, racconto dell’isolamento dello scrittore, nella natia Mantova, proprio durante i cento giorni più drammatici per il nostro Paese dell’emergenza sanitaria. Libro inaspettato per lo stesso scrittore, presentato come la personale risposta al trauma collettivo subìto, nel segno di una palingenesi ecologista. Gli alberi con i quali Moresco, scegliendo ancora una volta la formula libera di un fiabesco contemporaneo, viene a colloquio sono del tutto particolari: si tratta degli «alberi murati», intesi come specie crocevia tra il mondo vegetale, minerale e umano. La ventura di sorgere in condizioni di difficoltà e in ambienti tra i più svariati fa sì infatti che lo scrittore s’identifichi con essi: bloccato a fronteggiare un periodo

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di impasse collettiva (che coincide peraltro con «un momento sismico della sua vita»), ostinandosi a dar frutto, nonostante il suo io risulti «avvelenato e bruciato». La vita fragile al tempo della pandemia diventa occasione per il mondo naturale, approfittando della stasi forzata dell’azione distruttrice dell’uomo, di riappropriarsi degli spazi, dei luoghi, perfino dei palazzi signorili, dei luoghi d’arte, degli affreschi dipinti… Giorni in cui – venuto meno lo «spietato controllo del territorio» – può accadere anche che un albero possa sorgere dentro il buio di un’autorimessa o di un garage. Moresco prova a raccontare dal punto di vista del mondo vegetale, attraverso gli immaginari colloqui con le varie tipologie di alberi che incontra nel corso delle sue solitarie e notturne peregrinazioni per vie, stradine secondarie e periferiche in piena quarantena, nei giorni in cui si trova segregato nella casa della figlia di un amico poeta.

24 giugno, ore 23:11 Lo sguardo biologico di Moresco stasera mi irrita, trasmettendomi un invincibile tedio, un senso di claustrofobia, sortendo in me, nonostante il condivisibile assunto di fondo del libro, l’effetto opposto a quello desiderato dallo scrittore. Il canto di Moresco non assomiglia, come vorrebbe, a quello di un «albero capovolto» e nemmeno a un festoso requiem. L’auspicio di una rigenerante metamorfosi – «riuscirò a capovolgermi, riuscirò a trasformare anche la mia vita in una musica nuova e in un nuovo canto mai sentito prima, alle soglie di questo passaggio di ere e di specie?» – viene disinnescato proprio dal tono, dalla cadenza della sua voce, dal ridondare dell’assunto di partenza. Dalle lontananze da cui è abituato a ergere la penna, stanca oramai mi giunge la sua pretesa di scrivere da postumo, assimilabile piuttosto a un oscuro scrutare la realtà dal buco della serratura. Ad ogni nuovo libro, irrimediabilmente e

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definitivamente impaniato nelle spire di una contemporaneità, che cerca di compendiare, tra biologia e apocalisse, facendo ricorso alla narrazione favolistica di città dei vivi e dei morti, di mondi capovolti i cui confini si lambiscono fino a confondersi.

25 giugno, ore 13:00 Non so se Moresco conosca la definizione che della fiaba diede (non ricordo più dove) Bufalino come unione di un incantesimo e di uno spavento, ma mi sembra essere la più adatta a sostanziare certe sue narrazioni. Credo di averlo già scritto a proposito di Fiaba d’amore, in cui l’incantesimo era quello dell’amore, lo spavento invece quello della morte. Mentre per questo Canto degli alberi, di cui mi accingo con fatica a ultimare la lettura, se l’incantesimo è quanto di bello (nonostante il suo furore distruttore) l’uomo ha saputo creare – la poesia, l’amore, la musica, il canto –, lo spavento è ancora quello dell’estinzione e della perdita. E nel suo essere scrittore che fonda il suo racconto sulla simmetria, su di un gioco di corrispondenze, una scoperta complementarità di elementi, sempre uguali, stupisce ogni volta il paradossale emergere, suo malgrado, della lezione di quel Calvino in passato da Moresco avversato in pagine di ossessionato livore. Se La lucina aveva accenti palomariani; se in Favola d’amore e altrove troviamo traccia di echi che rimandano alle simmetrie delle Città invisibili; qui invece è il Calvino cosmicomico a fare capolino con sconcertante evidenza, nel segno di un punto di vista dichiaratamente antiantropocentrico. Cos’altro è il sogno delle radici murate che sognano gli alberi – ciò che prende forma fuori da loro, che non possono vedere, ma che tuttavia si figurano – se non un tipo d’immaginario letterario che trova la sua fondazione nel Calvino cosmicomico degli anni Sessanta?

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26 giugno, ore 17:16 Più mi piace Moresco laddove invece si fa scopertamente decadente, giacché in sublime decadenza volge il suo repertorio d’immagini (qui la vera distanza da Calvino); decadente essendo, in effetti, la sua percezione della realtà e delle cose (un’estetica dell’apocalisse). Penso alla bella pagina del colloquio con l’albero sorto dall’occhio di una statua (Dialogo con l’albero fuori di testa) che si trova in un giardino, dalla piccola crepa in cui il vento ha depositato per caso il seme che, diventando pianta, ne ha sgretolato in parte la testa per ergersi verso l’alto, in cerca di luce. La povera statua abbandonata, simile a uno dei guerrieri di Omero che combattevano sotto le mura troiane, diviene così il simbolo della riconquista di tutto lo spazio che la natura selvaggia ha dovuto cedere alla specie umana; a principiare dai siti e dalle opere espressione di quella bellezza che l’uomo, ciononostante, ha saputo nel tempo produrre e donare al mondo, come le crepe che il tempo ha inferto ai muri delle stanze dei musei o le fessure negli affreschi.

27 giugno, ore 10:47 Uscito irritato e svuotato dalla lettura di Canto degli alberi, penso che il signor Rino B. si sarebbe limitato a commentare che a Moresco, per quanto accenni alla bellezza, più di tutto in verità è estranea la gioia. E avrebbe senz’altro attribuito ciò a quell’eccesso di occidentalità che bonariamente talvolta rimproverava anche al sottoscritto. Sarebbe suonato inconcepibile, oltre che filosoficamente incoerente, per lui, abbandonarsi alla visione del richiamo delle radici, tenere conto del punto vista degli alberi, dei vermi, dei sassi, e tuttavia continuare a parlare la lingua dello spavento (che voce è quella di Moresco, a pensarci, se non di budella ritorte, di atterrimento?). Pensando alla sacralità di quegli alberi che aveva potuto riconoscere e

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comprendere durante quel suo viaggio nel sud del Senegal, di quelle piante che tutto offrono, dall’abitazione al sostentamento, il signor Rino B. avrebbe sentenziato che il libro di Moresco è sì un «pacchettino», ma va letto per capire come e quanto possa riuscire vacuo un discorso negli intenti ecologista che non sappia abbandonare certe zavorre (una mite intransigenza era parte della sua formazione taoista). Dopo questa premessa me lo avrebbe omaggiato, non prima di apporre una delle sue laconiche dediche: «Estate 2020. Rino B.». Magari avrebbe chiamato in causa il Lin Yutang di L’importanza di vivere per sostenere la moneta buona di un antiantropocentrismo non viziato da strutture o preconcetti, ché la natura è un sanatorio che se non può guarire da nient’altro, può almeno lenire la megalomania dell’uomo. Rimesso al suo posto, appena un puntino sullo sfondo. Come nei quadri dei pittori cinesi in cui la figura umana è sempre ritratta piccolissima e immersa nel paesaggio.

28 giugno, ore 12:01 Consueta sgambata domenicale con i compagni di squadra dell’Atletica Nebrodi. Oggi corro con l’Etiope, sicilianissimo in verità, ma che per il suo fisico, la sua falcata, l’impressionante capacità nei cambi di ritmo, ho da subito così ribattezzato. Corriamo un lungo lento di circa sedici chilometri, a un’andatura che ci consente tranquillamente di conversare. Sandro, questo il suo vero nome, comincia a raccontarmi di sé, del suo cammino di emancipazione e riscatto; degli incontri decisivi che hanno sconvolto, in positivo, la sua vita; del suo apprendistato matto e disperatissimo; di quell’ossessione per la lingua, la dialettica, la psicanalisi e la psicologia delle masse. A fine allenamento, ci scambiamo uno sguardo d’intesa, entrambi soddisfatti. Penso che la corsa in fondo sia un po’ come il vino buono: stimola il racconto di sé, incoraggia all’autobiografia.

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Così capita che due persone che si conoscono non da molto, che poco forse hanno in comune, messe a correre insieme, sulla strada, riescano a raccontarsi con estrema sincerità.

29 giugno, ore 03:07 Passo dal divano allo scrittoio, senza speranza stanotte di cedere al sonno, stretto da un’inquietudine cieca. È l’agitazione a perdere che conosco, e che talvolta (molesta) mi assale, negandomi il riposo. In questo nervoso ciondolare notturno, badando a fare piano per non turbare il sonno di Rosamaria, mi avvicino, al buio, sulla soglia della camera da letto per guardarla dormire. Lei è la bussola. Cosa sarei diventato se non l’avessi incontrata? Quanto avrei inutilmente dissipato? Cosa non avrei compreso? Quanto poco mi sarei voluto bene, forse, se lei non mi fosse venuta in soccorso?… Rosamaria. Rosa e Maria. Placerdemivida.

30 giugno, ore 04:54 È quasi l’alba, ho ancora insonnia e anche stanotte ho accuratamente evitato di mettermi a letto. Al silenzio notturno fa eco quello, interno, della casa, al punto che dallo scrittoio posso sentire il respiro profondo e quasi metronomico del sonno di Rosamaria. Esco in balcone, adagiandomi sulla sdraio, a farmi compagnia un Toscano ammezzato aromatizzato alla grappa che, senza accenderlo, tengo appuntato alle labbra: il suo aroma, d’un tratto, si sposa con un’inconsueta frescura che mi dà sollievo e piacere. Mi dimentico del fatto che da due notti non dormo, immerso in una sensazione di pace e benessere che di rado riesco a provare. Adesso capisco cosa intendesse Stendhal quando scriveva che, allo spuntar dell’alba, un sigaro fortifica l’anima.

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1° luglio, ore 19:33 Nonostante siano già trascorsi sette mesi, l’assenza in casa del nostro meticcio, Paco, è sempre più fonte di disorientamento. Quando, come stasera, sono colto da attacchi di malinconia cerco conforto nelle canzoni, che in qualche modo possano accordarsi con l’umore del momento. La quadra emotiva, per questo senso di insidiosa solitudine che io e Rosamaria stiamo attraversando da quando il nostro spinone nano non c’è più, la trovo stasera in una canzone di Piero Ciampi, Quando il giorno tornerà. La struggente descrizione d’un amore circolare e rotondo, senza soluzione di continuità – fatto di mattine che si aggiungono alle sere, di notti che si protendono verso nuove mattine; di sogni e di ombre – mi sembra la migliore radiografia del nostro voler essere comunque e ovunque insieme, a vivere e sognare.

2 luglio, ore 12:46 Con la posta di stamane la sorpresa dell’arrivo di un plico inviatomi dall’artista mazzarese Giuseppe Modica, contenente alcuni cataloghi e diversi scatti di sue opere più recenti. Attratto come sono dagli artisti che incoraggiano uno sguardo antinaturalistico sulla realtà, instradando lo spettatore alla visione, anche nei dipinti di Modica ritrovo quello slancio a una inseguita risignificazione delle cose. L’anacronismo della fedeltà al figurativo mi pare una resistenza necessaria a declinare un discorso, in arte, ancora autentico. Come in Clerici, anche in Modica centrale è l’attenzione, quasi maniacale, alla costruzione dell’opera, alla scrupolosa edificazione dello spazio pittorico. E come Clerici, memore della lezione d’un De Chirico, convinto nel perseguire in direzione ostinata e contraria sul terreno di un figurativo aperto giudiziosamente alla visione; mettendo in scena l’idea (certo a partire da tutt’altro entroterra culturale e

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iconico), la concezione, nel segno di un fondante riconoscibilissimo luminismo. A suggerirmi ciò è Visione ritmica, un olio su tela del 2005 in cui il paesaggio monumentale di Roma viene ritratto, attraverso una finestra a quadrati, ciascuno di essi trattato come un retablo a sé stante in cui riprodurre un differente e variato effetto possibile di luce; e di fatto realizzando un isolamento dello spazio, scomposto in tessere di un mosaico che grazie alla perizia e all’orchestrazione visiva declinata dall’artista presenta così, allo sguardo dello spettatore, una dinamica, una ritmica rimodulazione della realtà; del tutto alternativa rispetto a un mero intento documentario o a un ammiccante effetto di iperrealismo. Analoga ragione compositiva messa in atto in Frammenti del 2007, e nella serie di opere che hanno per soggetto i monumenti del tessuto urbano romano, anche qui risemantizzati attraverso una visione ritmica e spezzata da un’ampia finestra a riquadri.

3 luglio, ore 16:50 La luce e lo specchio, le cornici anticate e offese dal tempo, gli impiantiti di stanze mediterranee, gli interni e i paesaggi, sono gli elementi ricorrenti della grammatica generativa d’una realtà – quotidiana, storica o mitica – comunque “ampliata”, “aumentata” (nel segno sempre di una ridefinizione); capace di compenetrare il percepito e il riflesso, l’osservazione e lo sguardo, la stanza e il paesaggio, entro uno scenario in cui la figura umana, evocata in absentia o presente, è sempre parte integrante della visione. Si potrebbe dire che Modica fa opera di riscrittura pittorica: gli oggetti accolti nei suoi dipinti, strategicamente disposti a condurre lo sguardo, assolvono il ruolo di veri e propri addendi catalizzatori nella costruzione del campo di visione. Ecco perché mi convinco che, per lui, si debba parlare, più che di facile e attardato manierismo me-

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tafisico, di trigonometrica visionarietà. Basata sullo scarto, sul dato discreto della differenziazione tra luce e ombra, realtà fisica e suo riflesso, interno ed esterno – entro un contrappunto di costanti dialogiche che animano i suoi dipinti e ne determinano il singolare linguaggio d’artista. Tutto, nella pittura di Giuseppe Modica, figura apparecchiato perché colui che osserva sia spronato a una visione ellittica, finalmente liberata dalla linea del tempo; e per ciò stesso aperta.

4 luglio, ore 11:10 Più prendo confidenza con la pittura di Giuseppe, più mi viene d’accostare certi suoi dipinti allo scatto di Eve Arnold all’Accademia d’Arte di Pechino del 1979, in cui nell’immagine, accanto al soggetto centrale (un’enorme testa greca in gesso bianco) sono compresi i differenti punti di vista degli allievi che lo stanno copiando e lo sguardo, che tutto contiene, di chi quella scena fotografa. Analogo meccanismo onnicomprensivo in cui tout se tient che ritrovo in quell’idea di realtà “aumentata” suggerita dai suoi interni di atelier. Stanze dai muri sbrecciati, pavimenti usurati dal tempo, affacci su finestre e terrazze, specchi a catturare nature morte o squarci mediterranei. Anche nei casi in cui pare che l’artista stia cercando di realizzare un’attualizzata oleografia del mito meridiano, le sue tele – a cominciare da certe stanze degli anni Ottanta e Novanta – risultano progettualmente stranianti. Mi pare si tratti dell’esibizione, l’ostinata messa a sistema di un familiare congegno, sulla scia di ardue quando non improbabili “riflessioni”. Ecco: la stanza-atelier di Modica, oltre che luogo stesso della creazione, agisce da oggetto generante – ordine geometrico, resto visuale – dell’opera stessa. È una «grande stanza della pittura» in cui gli orizzonti del visibile vengono rimodulati: sorta di porta d’accesso verso un autremonde. E quando del quadro

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vi entra a far parte l’artista, egli lo fa carpendo al più sulla tela la sua immagine indiretta, la sua fantasmatica presenza colta nello specchio; oppure, traducendosi in ingranaggio della spirale visiva che innerva la costruzione stessa del dipinto, come accade in molti suoi autoritratti, si mostra, sempre riflesso allo specchio, magari mentre sbuca dalla quinta dell’opera che sta architettando (così rivisitando la lezione del Velázquez di Las Meninas). La figura umana, qualora compaia sulla scena, e specie la figura femminile, è ritratta e proiettata nella sua natura di presenza indiretta (di sale o come di pietra): simulacri del femminino, del vivente. Ho davanti agli occhi le sue donne: perlopiù dipinte di spalle, allo specchio, dormienti, sdraiate sul letto o in affaccio su balconi e terrazze rivolte a scandagliare il paesaggio (di cui finiscono per essere parte integrante), nella loro statuaria ma evanescente presenza funzionano, all’interno dello spazio dipinto, da operatori interni che veicolano e predispongono alla visione, alle molteplici possibilità del guardare. Mentre continuo a sfogliare uno dei cataloghi la mia attenzione viene calamitata ora da Apparizione-Evocazione (Il libro), un olio su tela del 2003, in cui appare riflessa nello specchio di una porta una donna nuda, il volto immerso entro una luce sfumata, elettrica e caliginosa; in mano, vero fulcro dell’immagine, un libro aperto su cui, s’intuisce, è appuntato il suo sguardo. Oltre a essere un’efficace dimostrazione del costruttivismo compositivo del pittore siciliano, in quella donna dal viso sfumato, china su di un libro che fa da perno alla scena, mi pare di poter riconoscere un’allegoria della critica. E ancora una volta un quadro si dà come discorso, perorazione circolare intorno alle inestricabili dinamiche del vedere che parimenti coinvolgono l’artista e l’osservatore, il soggetto e il suo fantasma.

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5 luglio, ore 20:18 Imbocchiamo, dopo aver corso appena cinque chilometri di saliscendi, il bivio per cominciare la salita. Per l’uscita domenicale di oggi, con gli amici podisti, si è pensato a un bell’allenamento di forza e resistenza: raggiungere il promontorio di San Marco d’Alunzio, antichissimo borgo costellato di chiese che si affaccia sulla costa tirrenica. Poco più di sei chilometri di salita, ma con una pendenza davvero importante. Il passo rapido e accorciato, le spalle alte, il ritmo scandito dalla regolare oscillazione delle braccia, lo sguardo concentrato, puntato qualche metro avanti ai miei passi… Pian piano tutto diventa naturale, automatico l’andare; così che posso concentrarmi sul paesaggio, sull’odore dell’erica selvatica e delle altre essenze della vegetazione spontanea che bordeggia la strada asfaltata. Riesco ad assaporare i profumi, a sentire i colori, ad ascoltare la calura. Ho un sussulto quando, nel silenzio, irrompe brioso e sgraziato il frinire delle cicale (che mi accompagnerà fino in cima). L’avrò senz’altro già scritto: della corsa più mi piacciono quei momenti in cui smetti di pensare alla performance, al gesto, per diventare tu quel gesto – in perfetta sintonia con la strada. L’arrivo poi mi regala una vera esultanza del cuore, capace davvero per un istante di azzerare e trascendere il tempo: percorso l’ultimo tornante, sbucando dall’ennesima strettissima curva a gomito, ecco palesarsi davanti ai miei occhi il Tempietto di Ercole del IV secolo a.C. Quando si dice l’abbraccio dei secoli!

6 luglio, ore 15:04 Nel modo in cui Giuseppe mi ha fatto dono della sua amicizia non posso non ravvisare quell’antica curiosa cordialità che sembra essere prerogativa di noi siciliani, se appena siamo capaci di lasciarci alle spalle ogni segno di timido riservo e ci concediamo all’altro con sincero slancio della mente e del cuore. Mi stupi-

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sce il rigore nel puntare l’occhio sulle cose che occupano le sue stanze dipinte, a sondare differenti livelli di realtà. Gli oggetti di volta in volta ritratti sono ricorrenti: quelli del quotidiano; i segni della cultura; i dispositivi, vecchi e nuovi, atti a catturare l’immagine (lo spazio colto e dipinto attraverso uno specchio che palesa i segni dell’usura del tempo, e da cui sovente rimane esclusa la figura umana). A passare in rassegna certe sue nature morte mi appare chiaro che a dominare, manco a dirlo, è comunque il sillabario della luce: diretta, radente, riflessa, notturna, lunare o meridiana – è sempre la luce a definire, a vivificare, a creare lo spazio. Luce che si fa memoria. Quella di Modica, citando il sottotitolo di una delle sue stanze del 1995, si può senz’altro definire una «memoria riflessa». L’interno dell’Atelier, il solito pavimento in ceramica tipicamente isolano; uno specchio basculante appoggiato a una parete nel quale si riflette un altro angolo dello studio da dove s’intravede un’altra tela su cavalletto, il paesaggio delle saline; e oltre, a superare il limite visivo di una parete, il solito “buco” – una sorta di quinta aperta, nel continuum tra interno ed esterno – sul paesaggio; il mare nello specchio; le colline e i campi coltivati oltre il limite dell’inferriata della terrazza che si affaccia sulla vallata… Cos’è per lui la memoria, mi chiedo, se non questo sofisticatissimo congegno che erode il tempo o, meglio ancora, lo presentifica, evocando rovine della storia, reperti della cultura, presenze del quotidiano, palpiti di una luce totale, esplorata, con instancabile perizia, in tutte le sue possibilità ed effetti?

7 luglio, ore 23:19 Il continuum tra interno ed esterno, insieme alla sapiente costruzione del calcolato effetto finale di ogni quadro, mi pare siano i leitmotiv che accomunano l’opera più che trentennale di Giuseppe Modica. La visione propiziata da ciascun dipinto sorge da una sorta di compenetrazione che, per realizzarsi, ne-

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cessita dello sguardo dello spettatore. Anche quando si dedica a ritrarre scorci di paesaggio arcinoti – i Templi di Agrigento, le saline del trapanese, l’Altare della patria o il Colosseo a Roma –, essi vengono proposti come luoghi veduti per la prima volta. Non mi stupisce che io sia rimasto affascinato dal suo discorso figurativo. Del resto, visione metafisica e archeologia appartengono da sempre al mio DNA, e questo mio journal mi ha aiutato non poco a metterlo a fuoco. Ma l’archeologia mediterranea di Giuseppe Modica è in toto dominata dal dilagante imperativo della luce: essa conduce e regge le fila del discorso; detta lo sguardo. È, perciò, più che delle rovine, un’archeologia dell’implicito, dello scarto, della traccia riscattata dalla polvere. Come il tempo, la memoria-luce circolare compresenza che l’artista si perita di scomporre e ricomporre.

8 luglio, ore 17:45 Non c’è verità biologica che tenga o stolto nichilismo che mi faccia distogliere lo sguardo da ciò che si assesta, come direbbe Enzensberger, «a mezz’aria» – su di un altro livello, di presenza e di vita. Quel risicato limbo, tra essere ed estinzione, in cui mi è possibile passeggiare ancora fianco a fianco a Basilisca; sorvolare il litorale insieme all’Aviatore; sostare in silenzio in compagnia del Signor Rino B.; giacché, delle molte cose che rimangono (ventriloquo ancora Enzensberger) in ogni caso a mezz’aria, «più leggero di tutto è forse / ciò che resta di noi / quando siamo sotto terra».

9 luglio, ore 11:59 Mentre, disteso in spiaggia, la mano a fare da cuscino dietro la nuca, annego lo sguardo in un cielo per metà occupato da uno strato sottile e quasi diafano di serafiche nubi da cui filtra una

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luce zenitale piacevolmente diffusa che di colpo ha mutato, con radicale veemenza, la sostanza del paesaggio attorno a me, rifletto su quanto poco siamo davvero abituati a dedicarci al guardare. È questione di orizzonti, non da mandare a memoria ma da cogliere e meditare: troppo stretti talvolta, bassi, fino a farsi soffocanti; talmente ampi talaltre, da non riuscire a lenire quella fame ansiogena d’un nuovo che sappia riempire la nostra vita, e ci lasci eternamente ubriachi o eternamente insoddisfatti. Orizzonti, comunque, variabili e corsari, mutevoli, come le nuvole; non racchiudibili in una rigida tassonomia, a meno che non si voglia farne oggetto di parodia, scienza poetica e tutta d’invenzione, come fece Fosco Maraini in quel delizioso libretto in cui fissò i Principi di Nubignosia. Uno sguardo continuo e pronto all’inafferrabile, al provvisorio, al passeggero… al vero eterno che accade.

10 luglio, ore 13:03 Figlio di un Aviatore per passione e necessità, fratello di una saettante e sgonnellante Basilisca; io, ultimo di sette figli; io, in tutto e per tutto autodidatta; io, dilettante dall’irregolare e mutilo apprendistato, con la sequela di parricidi voluti o inconsapevolmente consumati; io, insegnante di professione e critico per vocazione, talpa e bradipo; io, marito appassionato e padre solo di me stesso – mi chiedo: questo poco può bastare a giustificare quello che il Giuseppe Berto di Il male oscuro chiamava il «naturale narcisismo» che lo scrivere di sé inevitabilmente comporta?

11 luglio, ore 13:33 Eppure, a scrivere di sé si finisce per cercare l’altro. Se le cose stanno così – riguardo a ciò che ho fin qui raccontato, in questo

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convulso e rapsodico diario; Se le cose stanno così – come ho voluto intitolare la serie dei quaderni riempiti in quest’ultimo anno e che formano questo mio inatteso journal – è sempre un dire accompagnato da un implicito e ragionevole dubbio. Nel testimoniare ciò che più ho amato e amo, ho solo provato a inseguire quel pensiero e quella condizione di sentirsi «fertile» di cui parlava anche H.D. Thoreau nel suo diario. Qualcosa di scritto, insomma, a cui affidare tutta la gioia, l’entusiasmo potenziale di cui sono stato, sono e sarò sempre capace: diario personale e di lavoro, romanzo della mente, in cui tutto è vero (eccetto forse le date?). Ma si sa, il tempo della scrittura è altra cosa, vive entro una dilatata rincorsa.

12 luglio, ore 09:11 Un bradipo tridattilo appartato su un albero, campione di lentezza e sedentarietà, ne sono convinto, è la figura araldica che dovrebbe campeggiare su di un mio ipotetico blasone. Solo in apparenza il mammifero più fannullone del regno animale, esso è al contrario un ecosistema in sé autonomo che con insospettata coerenza alimenta il ciclo della vita: nutre, senza sforzo alcuno, portandoseli sulle spalle, altri organismi come coleotteri e farfalle che prolificano sulla sua pelliccia; le falene, a loro volta, aiutano le alghe del manto, di cui il bradipo si ciba, a crescere. Scendendo peraltro dal suo albero solo per defecare e perpetuare il ciclo della vita. E cosa ho fatto, in quest’anno, se non ritornare sul mio albero da dove, sonnecchiando e riducendo al minimo ogni scatto, offrirmi in maniera inconsapevole al mio mestiere, ma in ossequio a una lentezza di pensiero e scrittura? È adesso giunto il tempo di correre il rischio calcolato di scendere nuovamente, scavare la buca per defecare, consentire alle falene di ritrovare il sito ideale per deporre le uova da cui nasceranno le nuove falene che torneranno a colonizzare la mia pelliccia, contribuendo a favorire

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così la crescita delle alghe. Allevatore di falene e orticoltore di alghe, sedentario per necessità, queste pagine non sono che gli atti di un bradipo.

13 luglio, ore 17:09 Mentre mi risolvo a scrivere finalmente quel ritratto di G.A. Borgese per «L’Indice dei Libri del Mese», penso anch’io – e ne è chiara testimonianza questo regesto di note quotidiane accumulate nell’arco di un intero anno – di aver trasformato il luogo di questo stanziale e fatale insistere sulla Terra nella mia Sconset: senza frenesie, senza progetti precisi se non quello, minimo, di vedermi vivere e scriverne. Da questo zero da cui non mi sono mai mosso, ho voluto dire della mia personale vicenda, redigere lo squinternato tomo d’una esplosa autobiografia, un personale diario che, come fu per Borgese, mirasse all’unità di vita e scrittura.

Album

Occhi puntati o Aristocrazia dello sguardo

Elogio della fuga (Pere Borrell del Caso, Huyendo de la crítica, 1874)

Primi rudimenti

Prolegomeni alla gioia

Etica della gioia

Gioventù bianca

Fenomenologia dell’attesa

Sensoriale preistoria

Elogio dello strabismo (Raffaello, Tommaso “Fedra” Inghirami, 1510-1511 ca.)

Un’esistenza domenicale (Il Signor Rino B. in Africa, © Biagio Latino) Su gentile concessione dell’autore

Soave apprendistato

Prima neve

«Quattro giorni a Natale»…

Libero

Silenzi e sguardi

In guardia (Eilif Peterssen, On Watch, 1889)

Languida apparizione

38°2’50” nord – 14°32’33” est

Perturbazione

Apparizione-Evocazione (Il libro) (Giuseppe Modica, 2003; olio su tela, 180 × 90 cm) Su gentile concessione dell’autore

Indice

L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia Album

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Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia.

L’anno del bradipo Rapsodico journal, diario in pubblico che travalica i generi: dal ritratto critico alla nota descrittiva, dalla scheggia autobiografica al recupero dei momenti cruciali d’un apprendistato, fino a farsi, in taluni passaggi, arioso romanzo che convoca sulla pagina i vivi e i morti. O, più semplicemente, regesto quotidiano del lavorio mentale del critico nell’intento di restituire, per dirla con Boine, quella “compresenza di cose diverse nella brevità dell’attimo”.

Domenico Calcaterra (1974), insegnante e critico letterario, collabora con diverse riviste tra cui «L’Indice dei Libri del Mese» e «Succedeoggi». Tra le sue pubblicazioni: Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza (Prova d’Autore, 2007), Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo (Mimesis, 2014), Niente stoffe leggere (Meligrana, 2014), Lo scrittore verticale. Conversazione con Vincenzo Consolo (Medusa, 2014), Perriera sentimentale. L’umanesimo gentile di un soave eroe della mitezza (Algra Editore, 2016).

Collana diretta da Filippo La Porta

€ 13,00

Margini | 8

ISBN ebook 9788855292078