Hannah Arendt 8837231326, 9788837231323

C'è una razionalità propria della politica? Da questa razionalità consegue un male specificatamente politico? Doman

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Hannah Arendt
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PAUL RICOEUR

Hannah Arendt a cura di Ilario Bertoletti

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MORCELLIANA

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Titolo originale dell'opera: Lecture I. Autors du politique (capitolo Hannah Arendt) © Seuil, Paris 1991 © 1996 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia Traduzione di Ilario Bertoletti

ottobre 2017

. www.morcelliana.com I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del l�ttore possono essere effettuate nei limiti del 15% di cia­ scun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dal l'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carat­ tere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centl'O Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazionì@clearedi.org e sito web www.clearedi.org.

ISBN 978-88-372-3132�3 LegoDigit srl • Via Galileo Galilei 15/1 - 38015 Lavis (TN)

PREMESSA

L'attenzione di Ricoeur per Hannah Arendt si fo­ calizza in tre scritti: inizia con la Préface alla tradu­ zione francese di The Human Condition 1 , continua con il saggio Hannah Arendt, in «Les Cahiers de philoso­ phie» 4 (1987), e culmina nel saggio Pouvoir et vio­ lence, ospitato nel volume collettaneo Hannah Arendt. Ontologie et politique2 • Testi poi raccolti da Ricoeur nel primo capitolo di Lectures 1. Autour du politique, sotto la sezione Le paradoxe politique3 • Un titolo in­ dicativo, come se attraverso la Arendt Ricoeur avesse continuato la riflessione su il chiasmo di politica, vio­ lenza, male e totalitarismo iniziata, dopo i fatti di Bu­ dapest del 1956, nel saggio Le paradoxe politique (in «Esprit» mai 1957, poi raccolto nella terza edizione di 1 Calmann-Lévy, Paris 1983. 2 Éd. Tierce, Paris 1989. 3 Seui!, Paris 1991, pp. 13-66. Alla richiesta dell'editrice Morcellia­ na di una Introduzione alla traduzione di questi saggi, Ricoeur rispondeva che non era necessaria perché i tre saggi «sono autosufficienti» (Lettera di Paul Ricoeur del 28\11\1998, Archivio Morcelliana, cartella Ricoeur). Da ricordare è il saggio di Ricoeur Jugement esthétique et Jugement politique selon Hannah Arendt (in Le Juste, Esprit, Paris 1995, pp. 143-161) dedica­ to alle ultime riflessioni della Arendt su Kant (cfr. H. Arendt, La vita della mente, il Mulino 1987, Appendice Giudicare, pp. 549-567; Id., Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Il Nuovo Melango­ lo, Genova 2006).

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Historie et vérité4). Paradosso che consegue dalla ra­ zionalità specifica del politico, portando con sé una fe­ nomenologia propria del male: «Da un lato, il politico realizza un rapporto umano non riducibile ai conflitti di classe né, in generale, alle tensioni economiche-sociali della società [ ... ] Grazie a questa prima caratteristica, l'esistenza politica dell'uomo sviluppa un tipo di ra­ zionalità specifica, irriducibile alle dialettiche a base economica. Dall'altro lato, la politica sviluppa dei mali specifici, che sono precisamente mali politici, mali del potere politico; questi mali non s.ono riducibili ad altri, in particolare all'alienazione economica[... ]. Raziona­ lità specifica, male specifico, questa è la doppia e para­ dossale originalità del politico» 5 • Quasi che con questo saggio, negli anni in cui stava elaborando una simboli­ ca del male religioso che sfocerà in Finitudine e colpa del 1960, Ricoeur avesse compiuto una deviazione dal "giro più lungo" della simbolica per soffermarsi sulla • Seui), Paris 1964, pp. 260-285. Scrive Ricoeur in La critique et la con­ vinction (Calmann-Lévy, Paris 1995, p. 152): «È vero che ho tentato anche di presentare questo paradosso [politico] a partire dalle analisi di Hannah Arendt». Sul saggio del 1957, in rapporto con la successiva riflessione suJla Arendt, cfr. O. Mongin, Paul Ricoeur, Seui!, Paris 1994, pp. 88-95; F. Dosse, Paul Ricoeur. Les sens d'une vie, La Découverte, Paris 1997, pp. 231-238; J. Miche!, Paul Ricoeur. Une philosophie del 'agir humain, Cerf, Paris 2006, pp. 351-382; M.-0. Padis, À la poursuite du paradoxe politique, in «Esprit» 3-4(2006), pp. 216-230; L. Alici, Il paradosso del potère. Paul Ricoeur tra etica e politica, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 147-182. s !bi, p. 261. Gli altri autori raccolti in Lectures I nella sezione Le paradoxe politique sono Jan Patotka, Eric Weil e Karl Ji,,spers, autori essi stessi di indagini sulla fenomenologia del male politico: Patotka decifran­ . do il nichilismo del totalitarismo comunista, Weil soffermandosi suJla vio­ lenza che pertiene alla politica, Jaspers riflettendo sulla colpa della Ger­ mania nazista.

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logica specifica del male politico. Una alienazione po­ litica irriducibile alla alienazione economica, di contro a quanto credeva la tradizione marxista. Un male che ha che fare con la deriva totalitaria del potere politico - nel caso specifico del potere in uno Stato socialista: «II "male" politico è, in senso proprio, la follia della grandezza, vale a dire la follia di ciò che è grande Grandezza e colpevolezza del potere!» 6. In questionè sono il controllo del potere e i suoi limiti: una esigenza propria della tradizione liberale7 • Ponendo le riflessioni di Hannah Arendt sotto il sin­ tagma "paradosso politico" Ricoeur rideclina la cosa stessa in gioco attraverso le categorie di potere, au­ torità, forza e violenza come le ridefinisce la Arendt, e con le quali ella, maestra delle "distinzioni", pensa da un lato l'incarnazione novecentesca del male poli­ tico - il totalitarismo-, e dall' altra un modo d'essere della politica che fuoriesca dalla equazione "politica= forza+violenza". Il potere e l'autorità pensati nella loro dimensione «obliata e più prossima» - e questo è per Ricoeur il lascito filosofico-politico della Arendt (in­ fra, pp. 34 s.) - si oppongono alla coazione del male politico, che concettualmente identifica potere e do­ minio, autorità e violenza. «Il potere· esiste solo dov-e un'azione comune è regolata da un legame istituzionale 6 !bi, p. 275. 7 !bi, pp. 281 ss. Meriterebbe un confronto la disamina ricoeuriana delle insufficienze della teoria marxista del potere e dello Stato con quanto scri­ veva Norberto Bobbio appena due anni prima in Politica e cultura (Einaudi, Torino 1955, in particolare nei saggi Democrazia e dittatura e Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, pp. 148-194).

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riconosciuto (autorità) (infra, p. 17)» 8 • Potere e autori­ tà: categorie con le quali la politica rende durevole ciò che è fragile, nolil dimentica la sua radice nel miraco­ lo terrestre, la natalità, l'accadere dell'inatteso e di cui originariamente ha cura perpetuandone l'eco nell'azio­ ne. Una eredità che è anche dell'antropologia filosofica delineata in Vìta activa, con le distinzioni tra lavoro, opera e azione (infra, cap. III)9• Azione come capacità d'iniziativa, un tratto antropologico affine al ricoeuria­ no homo capax 10 • Pagine che se da un lato invitano a riflettere su Ri­ coeur filosofo della politica 11 - a partire dalla cogenza euristica del sintagma "paradosso politico"-, dall'altro 8 Cfr. C.A. Garduilo Comparan, Arendt and Ricoeur on. Ideology and Authority, in «Études Ricoeuriennes/Ricoeur Studies» 2(2014), pp. 64-80. 9 Cfr. P. Ricoeur, Temps et récit. 3. Le temps raconté, Seui!, Paris 1985; p. 342 (sul rapporto tra azione e racconto); Id., La mémoire, l'histoire, l'ou­ bli, Seuil, Paris 2000, pp. 680 ss.; Id., Parcours de la reconossaince, Trois études, Stock, Paris 2004, p. 194 (sul perdono e la speranza) .. to Cfr. P. Ricoeur, Parcours de la reconossaince, cit., pp. 137-163; Id., Le destina/aire de la religion: l 'homme capable, in «Archivio di filosofia» ( 1996), pp. 20-34; Id., Soi-méme comme un autre, Seuil, Paris 1990, Dixiéme étude, Vers quelle ontologie?, pp. 345-410. Cfr. J. Greisch, Paul Ricoeur. L'itinérance du sens, Millon, Grenoble 2001, pp. 285 ss.; D. Ìervolino, In­ e troduzione a Ricoeur,Morcelliana, Brescia 2003, pp. 75-83; O. Aime, Snso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur, Cittadella, Assisi 2007, pp.

517-537. II Ricouer cosi rappresenta il proprio itinerario filosofico-politico: «Ciò che mi interessava, sotto lo choc di Budapest, era la specificità del politico, in relazione con l'economico-sociale. Oggi è invece il problema del rapporto del politico con il giuridico e con il piano della moralità» (La critique et la convinction, cit., p. 148). In questo senso si potrebbe affermare che Hannah Arendt, per Ricoeur, ha rappresentato il medio. per passare da questioni di teodicea politica alle riflessioni sulla giustizia raccolte in Lectures I (cit., pp. 176-229) Le Juste (cit.) e Le Juste 2 (Esprit, Paris 2001), dove centrale è il confronto con John Ralws.

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sono un esempio del suo stile enneneutico: interpreta­ re è con-filosofare (synphilosophieren), definire la cosa stessa del proprio pensiero attraverso le costellazioni categoriali di altri pensatori. Ilario Berto/etti

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Paul Ricoeur

Hannah Arendt

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DALLA FILOSOFIA ALLA POLITICA

Vorrei individuare il percorso attraverso il quale Hannah Arendt risale dalla politica verso la filosofia fondamentale e ritorna dalla seconda alla prima. Può meravigliare, infatti, che la stessa pensatrice abbia po­ tuto, da una parte, scrivere abbondantemente su eventi quali l'irruzione del totalitarismo e, in forma più circo­ stanziata, il processo a Eìchmannn e, dall'altra, com­ porre libri come Vita activa. La condizione umana 1 e La vita della mente2, con il suo triplice ritmo: pensare, volere, giudicare. Cosa tiene insieme la filosofia e la politica in Han­ nah Arendt? Una prima risposta si trova nell'opera apparente­ mente più legata alle circostanze: Le origini del totalita­ rismo3 . Uno dei tratti sconcertanti di questo libro è che �

I Human Condition, Thé University ofChicago, Chicago 1958 (Vita ac­ tiva. La condizione umana, tr. di S. Finzì, Bompìani, Milano 1994). 2 The Life ofthe Mimi, Harcourt Brace Jovanovitch, New York 1978 (La

vita della mente, tr. di G. Zanetti, Intr. di A. Del Lago, il Mulino, Bologna 1987). 3 The Origins o/Totalitarism, Harcourt, Brace and Co, New York 1951; 2' ed. ampliata, Meridian Books, New York 1958; 3' ed. con nuove prefazio­ ni, Harcourt Brace and World, New York 1966 (Le origini del totalitarismo, tr. di A. Guadagnin, Intr. di A. Martinelli, con un nuovo saggio di S. Forti, Comunità, Torino 1999).

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esso accumula osservazioni sui fattori che hanno favori­ to l'insorgere del totalitarismo, dettagli sull'eccezionale apparato di potere e nel contempo di seduzione messo· in atto dall'hitlerismo e dallo stalinismo, senza che alla fme sia trovata una risposta alle tre domande poste dal libro: «che cosa succedeva? perché succedeva? come era potuto succedere?»4 • La spiegazione, a questo pun­ to, si perde nell'inesplicabile, nell'ipotesi sull'uomo che il sistema totalitario cerca di verificare con il terro­ re. Un'ipotesi che è al limite del pensabile. Un sistema che rende gli uomini superflui - vale a dire, di troppo deve fondarsi su un concetto di potere radicalmente nuovo, senza precedenti. L'espressione stessa, mutuata da David Rousset, «tutto è permesso, tutto è possibile» 5 serve solo a focalizzare il punto cieco. Dall'altra indica, e contrario, il luogo della risposta positiva: pensare la possibilità di un mondo non totalitario. Negli anni 1945-1949, quando l'esperienza ameri­ cana non è ancora decisiva, la possibilità di un mondo non totalitario è da ricercare nelle risorse di resistenza e di rinascita contenute nella condizione umana in quan­ to tale. La questione della filosofia, e più precisamente della filosofia politica, dopo l'esplosione concentrazio­ naria, ha questa forma: quali barriere e quali risorse la condizione umana oppone all'ipotesi terrorista dell'in­ definita plasticità dell'uomo-massa, che il sistema tota­ litario sostituisce all'uomo con un rango o situato in una classe? Il pensiero politico è così sollecitato a un'antroLe origini del totalitarismo, cit., p. LVI. 5 ]bi, p. 598.

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pologia filosofica, a una ricerca che tenti di identificare i tratti più durevoli della condizione umana, i meno vul­ nerabili nelle vicissitudini dell'uomo moderno. Se insisto così fortemente su questo legame di fi­ liazione tra Le origini del totalitarismo e Vita activa è per affrontare il sospetto spesso rivoltole - o addirittu­ ra causa di rifiuto-: il sospetto di nostalgia. Vorrei qui contrapporre il carattere di un pensiero resistente, nel duplice senso politico e filosofico, a quello di un pen­ siero nostalgico. Se la filosofia- di contro a ogni storicismo, a ogni evoluzionismo: in breve, a ogni sopravvalutazione del· cambiamento nella storia della cultura, delle istituzioni e delle dottrine - può ambire a fissare i tratti durevoli della condizione umana, è perché la politica, in quanto tale, è, al di qua della sua perversione totalitaria, un pro­ getto di lunga durata. Tanto per Hannah Arendt i feno­ meni economico-sociali sono segnati dal cambiamento e dalla variabilità, quanto la politica presenta caratteri per così dire transistorici, che permettono, ad esempio, ai lettori moderni di riconoscere - nel senso forte di rei­ dentificare - in concetti come potere, sovranità, violen­ za, delle costanti dell'impresa di stabilizzazione della vita in comune degli esseri mortali. Insisto su questo punto: di esseri mortali che pensano l'eternità, ma non godono dell'immortalità, quali sono questi esseri che, attraverso un progetto politico, si danno la sola misura d'immortalità storica loro accessibile. Non mi soffermo sulla triade lavoro-opera-azione, che occupa un così grande posto nell'analisi della vita activa della condizione umana.Nella Prefazione ali' edi15

zione francese di Vita activa (infra, cap. III), ho cercato di collegare la progressione da un termine all'altro della triade con la parallela progressione del tema sotterra­ neo della durevolezza (perdurable) [del mondo]. Ma la durevolezza ha la sua più alta incarnazione nella istitu­ zione politica, la quale è eminentemente fragile. Que­ sta congiunzione del durevole e del fragile costituisce il carattere tragico del pensiero di Hannah Arendt. Que­ sto carattere tragico m'è apparso più chiaramente dopo aver letto l'ammirevole libro di Martha Nussbaum, de­ dicato al rapporto tra la tragedia.e la filosofia e intitolato La fragilità del bene 6 - la fragilità specifica legata alla ricerca del bene... Marta Nussbaum dedica poco spazio alla riflessione politica, sebbene gli eroi dalla grandezza fragile siano in ultima analisi figure politiche: Agamen­ none, Edipo, Creonte e Antigone. Dove risiede la fonte della fragilità, in una impresa pratica che ha di mira ciò che è durevole nella costituzione stessa del potere? Qui, gli scritti del periodo americano chiariscono re­ trospettivamente le analisi forse troppo antistoriche di Vìta activa (ma ho insistito sul motivo della resistenza a un progetto nichilistico di fabbricazione di un uomo senza radici). I saggi intitolati: n concetto di storia7 , Che cos'è l'autorità? 8 , Che cos'è la libertà? 9 e il testo 6 M Nusbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nellafilosofia greca, tr. e intr. di G. Zanetti, il Mulino, Bologna 1996. 7 Il concetto di storia nell'antichità e oggi, in H. Arendt, Tra il passato e ilfuturo, tr. di M. Bianchi di Lavagna Malagodi e T. Gargiulo, Vallecchì, Firenze 1970, pp. 44-97. 8 Jbi, pp. 101-155. 9 lbi, pp.157-187.

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Sulla violenza10, contemporanei degli eventi del '68 e degli_anni '70, sono estremamente preziosi. Vediamo il concetto di potere, che Hannah Arendt cerca con cura di distinguere dalla forza e dalla violen­ za. La violenza non è un abuso di potere e il potere, no­ nostante Max Weber, non è, o non è fondamentalmen­ te, l'uso legittimo della violenza. I due concetti sono antitetici e inversamente proporzionali. Il potere esiste solo dove una azione in comune è regolata da un legame istituzionale riconosciuto. Qui, l'esperienza americana s'impone: «Ogni governo si fonda sull'opinione» (Ma­ dison); In questo senso, l'errore iniziale sta nell'assi­ milare "potere" con "comandare\obbedire". Prima del potere di, viene il potere in. Potestas in populo, auctori­ tas in senatu, dicevano i Latini. Il potere procede fonda­ mentalmente dalla capacità di agire in comune. Rispetto a questo concetto, l'energia risiede nell'individuo e la forza non è che una energia in atto. Insisto sulla cura nel concettualizzare, nel distinguere: è ciò che differenzia lo spirito filosofico dallo spirito politico. Questo lavoro del concetto è possibile solo se precisamente le entità che esso designa derivano la loro stabilità (ho detto so"." vrastorica) dall'appartenenza a un campo d'azione, se­ gnato esso stesso da un progetto di durevolezza. Dall'altro, se è·vero che la politica è il luogo dove si congiungono il durevole e il fragile, si deve ritrova­ re nella politica il principio stesso della sua fragilità e quindi, anche, della sua corruzione. L'abbiamo detto: il V

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H. Arendt, On Vìolence, Harcourt Brace & Company, New York 1970 tr. it. di S. D'amico, Guanda, Parma 1996).

(Sulla violenza,

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potere procede dall'agire in comune. Ora, l'azione in comune esiste solo per il tempo in cui gli attori la so� stengono. Il potere esiste quando gli uomini agiscono insieme; svanisce quando essi si disperdono. La violen­ za è lo sfruttamento di questa debolezza attraverso un progetto strumentale a breve termine. Ma, ancora pri- · ma di questa perversione che è un'inversione brutale, una fonte più sottile di fragilità risiede nel legame, so­ pra richiamato, tra il potere che è nel popolo e l'autorità che è nel senato. L'autorità, secondo la formula, intro-, duce nel campo dell'azione una relazione del tutto altra dalla forza, ancor più dalla violenza: una mediazione che, idealmente pensabile come delega, si autonomizza in istanza diretta. Nel saggio intitolato Che cos'è I 'au­ torità?, la Arendt rifà la storia, dai Greci fino a noi, di questa istanza ambigua nella quale si cristallizza la fra­ gilità della politica. L'autorità, in effetti, ha questo di paradossale: riesce a fare da intermediario del potere indiviso - attraverso il medio di una istanza di governo distinta dai governanti, per mezzo quindi di una istanza gerarchica - solo nella misura in cui questa autorità viene da un altro luogo, più lontano e più alto del potere stesso: il mondo plato­ nico delle Idee, la fondazione antica della Città presso i Romani, la potenza ecclesiastica che brandisce i ful­ mini dell'Inferno; ora- e questo è l'incipit del saggio «l'autorità è SCOmparsa dal mondo modem0» 11 , Qui, Ci imbattiamo nell'accusa di nostalgia. Ma credo che ci si inganni. Se è vero che la polis greca serve costantemen� 11

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Che cos'è l'autorità?, cit., p. 101.

te da riferimento, lo è nella misura in cui, con Isocrate e il suo principio d'isonomia, contiene potenzialmente le risorse per una ripresa al di là del fallimento delle sor­ genti tradizionali d'autorità. La polis greca non è costru­ ita sulla base dell'autorità che Platone le assegna, né sul modello romano ab Urbe condita. Quel che è da pensa­ re, è proprio la delega dell'autorità a partire dal potere. Ed è questo che Hannah Arendt trova nellà rivoluzione americana, e nel relativo pensiero politico: il modello di un'esperienza moderna che si ricollega con l'impre­ sa, fino a ora abortita, di una autocostituzione della cit­ tà, dove l'autorità derivi dal potere del popolo. Allora, Hannah Arendt nostalgica? Quando rende conto di tut­ to ciò che è scomparso, del crollo di tutti i fondamen­ ti extra o sovra-politici, la Arendt torna semplicemente alla nudità della politica - alla politica messa a terra. Attraverso quali giochi di istituzioni liberamente scelte l'azione umana sfugge alla futilità delle opere («salvare le azioni umane dalla futilità che risulta daU'oblio» 12)? Restaurazione di uno spazio politico? Ma è mai esi­ stito storicamente? V'è un punto in cui la rammemora­ zione è insieme una proiezione verso l'avvenire. Non è un caso se l'ultimo rimedio cui tornano tutti gli articoli del periodo americano è l'alleanza tra la libertà in sell' so politico, ovvero l'adesione consenziente ad un corpo di istituzioni, e la libertà della tradizione ebraica o cri­ stiana, vale a dire la possibilità di cominciare qualcosa nel mondo.

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Cfr. Vita activa, cit., p. 144.

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Su questa «infinita improbabilità» 13 - come è det­ to nel saggio Che cos'è la libertà? -, sulla capacità di interrompere la fatalità, riposa la scommessa antitotali­ taria che conclude tutti questi saggi. Citerò solo la con­ clusione di Che cos'è la libertà?: «Sono gli uomini a realizzare i miracoli, quegli uomini che, per aver rice­ vuto il duplice dono della libertà e dell'azione, possono fondare una loro realtà» 14 •

13 Che cos'è la libertà?, cit., p. 186. 14 !bi, p. 187.

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II

POTERE E VIOLENZA

Parlerò quasi esclusivamente del pensiero. politico di Hannah Arendt e ne parlerò dal punto di vista della sua argomentazione-della sua ricerca dell'argomento migtiore. La distinzione ferma e costante tra potere e violenza costituisce un topos privilegiato del suo pensiero; pri­ vilegiato, nel senso che permette di concentrare in que­ sto punto la maggior parte delle difficoltà con le quali questo pensiero si scontra e delle obiezioni che le sono state opposte. Ho detto: la distinzione tra potere e violenza. E im­ mediatamente si è di fronte a questa sorprendente vigi­ lanza semantica di un pensiero che si è dato per compito - e spesso per primo compito - di separare i concetti, di combattere contro le confusioni sia nel discorso che nell'azione. «Distinguere, distinguere», dice la Arendt. Questo inizia sul piano dell'antropologia fondamenta­ le di Vita activa, con la trilogia di lavorare, operare, agire. Continua sul piano precisamente politico, con la coppia concettuale potere e violenza, alla quale si do:.. vrà aggiungere più avanti autorità, per non dire niente dei concetti di forza e di potenza. La stessa caccia alle confusioni continua con l'opposizione tra regime tota­ litario, regime autoritario e le varietà dei regimi detti 21

"democratici". E le domande si impongono: queste di­ stinzioni mettono capo a èntità concettuali senza sto­ ria? Non instaurano dicotomie che impediscono ogni uso dialettico della mediazione? E quando esse cercano per sé dei garanti storici, ove li trovano se non presso i Greci e i Romani? Di colpo, questo pensiero apparen­ temente staccato da ogni storia non è profondamente nostalgico? E se i suoi garanti sono nel passato, la tra­ dizione che ne trasmette l'energia di senso non svolge la funzione di argomento? E cos'è questo argomento tradizionale, se non una varietà d'opinione - diciamo, per essere generosi, qualche cosa come l'opinione giu­ sta secondo Platone? Ora, la teoria politica, per meritare il nome di "teoria", non rivendica una verità che non può accontentarsi dell'opinione? Come si vede, quasi tutte le discussioni suscitate dal pensiero politico della Arendt possono essere passate in rassegna relativamen­ te alla coppia concettuale potere-violenza. Ma lo pre­ ciso subito: attraverso l'esame critico di questa distin-, zione cardinale non perseguo alcun intento apologetico. Tuttalpiù avrò cura di costringere le obiezioni a farsi più elaborate, permettendo così al dibattito di prosegui­ re senza K.O. tecnico. Infatti, non ci si sbarazza tanto facihnente di Hannah Arendt. Non è indifferente, per cominciare, che l'articolo Sulla violenza, da me preso come primo testo di rife­ rimento, sia del 1970 e storicamente situato all'epoca delle rivolte degli studenti. Esso risponde a una con­ giuntura per niente immaginaria, caratterizzata dalla tentazione del ricorso alla violenza nella nuova sini­ stra americana, in particolare sotto la pressione e sul 22

modello del Black Power, ma anche dallo spettacolo del ricorso effettivo alla violenza nei campus da parte delle stesse autorità universitarie- senza dimenticare il comportamento violento dei magnati del Partito Demo­ cratico alla convenzione di Chicago [del 1968]. Sullo sfondo, ben intesi, la guerra del Vietnam e la minaccia della guerra nucleare. La Arendt scrive quindi in una situazione molto precisa - in un tempo in cui le mino­ ranze attiviste s'entusiasmavano alla lettura dei Dan­ nati della terra di Fanone della prefazione incendiaria di Sartre a questa opera-, una situazione che ella stes­ sa caratterizza così: «Quanto più è diventata dubbia e incerta in quanto strumento nei rapporti internazionali, tanto più la violenza ha guadagnato terreno in fatto di reputazione e di attrazione negli affari interni, special­ mente in fatto di rivoluzione» 1 • (Sulla rivoluzione, tor­ neremo dopo.) HannahArendt si rivolge qui alla nuova sinistra, nel momento in cui questa rischiava di cadere in ciò che in Europa avremmo conosciuto più tardi: il terrorismo dell'estremismo di sinistra tedesco e italia­ no e, a un livello inferiore di organizzazione e d'effi­ cacia, il movimento francese di Action directe. Ma per poter esclamare: «La violenza può distruggere il po­ tere; è assolutamente incapace di crearlo»2, la Arendt cerca di vedere le cose con distacco e si dedica a scio­ gliere la matassa delle confusioni che han potuto far considerare la violenza come un'impresa generatrice di potere. In tal modo, non è più agli studenti, agli attiviI H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Panna 1996, p. 13. 2 /bi, p. 5:2.

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sti che ella si rivolge, ma alla scienza politica, alla sua terminologia, alla sua impotenza a distinguere. Ed ecco che cade come un trincetto l'affermazione seguente - si tratta infatti di tagliare là dove si confondono le famose distinzioni, che ricordo brevemente: «II potere corri­ sponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito3 [ ••• ] La violenza [ ... ] si distingue [ ... ] per il suo carattere strumentale. Fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato che gli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sono creati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale finché, nell'ultimo stadio del loro svi­ luppo, possono prendere il suo posto»4 . Domandiamoci: cosa c'è dietro queste distinzioni? La Arendt rovescia la domanda e chiede: cosa c'è die­ tro le confusioni? Non è in apertura del gioco che ella getta sul tavolo queste distìnzioni, ma al termine di un lavoro di smantellamento del sistema di pensiero che ha condotto a quelle confusioni che servono da alibi ai giovani intellettuali dei campus americani. Quella che la Arendt affronta è la quasi totalità della filosofia po­ litica, Max Weber compreso, in cui il rapporto politico si definisce come rapporto di dominazione tra gover­ nanti e governati, a sua volta determinantesi in termini di comando e di obbedienza. Il potere, in quei pacifici pensatori, restaun potere di obbligazione. Si può certo, 3 4

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!bi, p. 40. !bi, p. 41.

con Max Weber, qualificare la violenza con l'aggetti­ vo legittima - richiamo qui la definizione di Stato in Max Weber: «Lo Stato [ ... ] consiste in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della violenza legittima (vale a dire, considerata legittima)» 5 (non è indifferente ricordare che Weber dà questa definizione in La politica come professione, ovvero nel discorso rivolto ad altri studen­ ti, i giovani pacifisti tedeschi succubi della tentazio­ ne della non-violenza alla conclusione disastrosa della Prima guerra mondiale). Ecco il bersaglio: anteriore alla tentazione della vio­ lenza, v'è un errore sulla natura stessa della politica definita in termini di dominazione, di subordinazione di una volontà a un'altra; ma, lo si noti, questa idea di dominazione non figura nella lista delle nozioni chiave qui esaminate - potere, potenza, forza, autorità, violen­ za. La dominazione, per Hannah Arendt, è un'interpre­ tazione falsificata e falsificante del potere, inteso come potere di obbligazione, come potere dell'uomo sull'uo­ mo. La Arendt, quindi, trae il proprio concetto di potere da un'intensa polemica con la quasi totalità del pensie­ ro politico. Se si vuol continuare a obiettare che ella fon­ da questo concetto sulla tradizione e non sulla scien:z'a --' questa sarà, lo vedremo, l'argomentazione di Haber­ mas -, si deve innanzitutto renderle giustizia afferman­ do che è innanzitutto contro una immensa tradizione che ella pensa. Con il che non si vuole affermare che 5 M. Weber, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, tr. di A. Giolitti, Einaudi, Torino 1976, p. 49.

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i Greci e i Romani, e anche i cristiani, risultino inden­ ni: per niente. Anche i Greci hanno definito le forme di governo come varianti nel sistema di dominazione dell'uomo sull'uomo: uno solo, qualcuno, la maggioran­ za. Quanto agli ebrei e ai cristiani, la loro concezione imperativa della legge (che, la Arendt insiste, non è la loro sola eredità) li trattiene nello stesso cerchio magico della dominazione dell'uomo sull'uomo. E all'altro capo della storia si trova il regno anonimo della burocrazia: variante mitigata della dominazione. Ma allora, ci si chiederà, cl.a dove trae legittimità questa definizione del potere come altra cosa dalla do­ minazione? Si inscrive in qualche cielo platonico delle Idee? Per niente, faranno allora osservare i critici che sospettano sempre qualche ricorso all'argomento della tradizione: laArendt s'appoggia su un'altra tradizione, e gioca quindi una tradizione contro la tradizione. In ef­ fetti, in Sulla violenza si legge «c'è anche un'altra tradi­ zione e un altro vocabolario non meno antico e rispettato nel tempo» 6 . A cosa si riferisce? Certamente alla famosa isonomia di Solone e Pericle e alla civitas romana. Ed ecco l'obiezione della nostalgia! Ma è opportuno chiari­ re bene due cose: polis e civitas non hanno mai costitui­ to. una vera alternativa all'idea di dominazione, come si può vedere nella classificazione antica dei sistemi di go­ verno; inoltre, questi concetti hanno funzionato in forza di una concezione dell'autorità- su cui ritorneremo-, o piuttosto di più concezioni dell'autorità che sono per noi morte o arcimorte e quindi, è il caso di dirlo, non 6

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H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 36.

hanno più alcuna autorità. Ma l' essenziale non sta qui: i riferimenti storici della Arendt non sono principalmen­ te greci o latini, ma moderni, e anche contemporanei. LaArendt richiama innanzitutto - in una certa corrente tra i pensatori della rivoluzione americana, e poi france­ se -1 'idea che il compito della rivoluzione è sostituire la volontà del popolo alla dominazione dell'uomo sull 'uo­ mo, mettere fine alla dominazione grazie all'esercizio della volontà del popolo, anche se in questi pensatori la sottomissione dell'uomo alla legge divina o morale conserva ancora la confusione tra potere e dominazione. Ma i veri riferimenti storici della Arendt sono le irruzio­ ni moderne del potere popolare, esemplificate dai consi­ gli operai, i veri soviet, dalla insurrezione di Budapest, dalla Primavera di Praga e dai molteplici movimenti di resistenza a una occupazione straniera. Ecco l'altra tra­ dizione che, a differenza della tradizione della domina­ zione, è fatta di apparizioni discontinue, di insurrezio­ ni, oserei dire di tentativi falliti; di movimenti incoativi, al limite puramente virtuali (quest'ultimo tennine, che non è della Arendt, m'avvicina all'ipotesi interpretativa che tra breve proporrò). Quali tratti distintivi caratterizzano in comune que­ ste esperienze storiche disparate? Hannah Arendt pr� pone qui, prima di avanzare le ferme definizioni che abbiamo visto, una analogia con le regole di un gioco - un'analogia che è più di una comparazione, ma è già una approssimazione all'essenziale. Il gioco, infatti, offre una illustrazione, di grande significato didattico, della differenza tra due tipi di regole: le regole accet­ tate e le regole imposte. Queste ultime rientrano nello 27

schema della dominazione, del comando e della obbe­ dienza, mentre, nel gioco, l'accettazione della regolari­ sulta dal solo desiderio di giocare, di vivere secondo il modo ludico articolato dalla regola. Qui si vede il la­ voro del pensiero della Arendt: consiste nell'esplicitare una aspirazione implicita che, in qualche momento sto­ rico privilegiato, ha aperto un varco, interrompendo la tradizione deUa dominazione; in un senso curiosamente prossimo a certe concezioni oggi presenti nella filoso­ fia del linguaggio e improntate alla teoria dei giochi, la Arendt suggerisce che noi abbiamo la nozione di rego­ le che sarebbero direttive senza essere coercitive: «esse dirigono i rapporti umani come le regole dirigono il gio­ co. E la garanzia ultima della loro validità è contenuta nella antica massima romana: pacta sunt servanda»7 • Si dirà: ah, ecco i Romani! Certo. Ma, innanzitutto, questa formula non implica la fondazione propriamente roma­ na ab Urbe condita - su cui tra poco ci soffermeremo, quando aggiungeremo alla coppia potere-violenza il ter­ zo tennine, l'autorità, molto difficile da situare in rap­ porto alla coppia potere-violenza; inoltre, l'idea di un potere che non riposi se non sul consenso degli attori politici è in realtà sovversiva in rapporto a ogni impre­ sa fondatrice, sia essa dall'alto, da fuori, da addietro: «È, scrive la Arendt, il sostegno popolare che dà potere alle istituzioni di un paese, e questo appoggio non è al­ tro che la continuazione del consenso (consent) che ha dato originariamente vita alle leggi» 8 • Siamo così giunti 7 8

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]bi, ]bi,

p. 122. p. 37.

al cuore del problema: che cos'è questo consenso irri­ ducibile al rapporto di dominazione? Che cos'è questa forza viva del potere popolare che, allorquando si eclis­ sa, lascia il posto proprio alla violenza? Si giunge alla definizione proposta poco dopo nel saggio: «(Il) potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito»9 • E ancora: «Ef­ fettivamente una delle più ovvie distinzioni fra potere e violenza è che il potere ha sempre bisogno di numeri, laddove la violenza fino a un certo punto può fame a meno perché si affida agli strumenti di cui dispone» 10 • Soffermiamoci sul carattere non solo non gerarchico del potere, all'opposto della relazione di dominazione, ma ancora non strumentale, al contrario della relazione di violenza. Quale idea ci si può fare di un consenso che s'inscrive fuori della relazione di dominazione intersog­ gettiya e fuori della relazion� mezzi-fini? Un approccio provvisorio è dato da una specie di ragionamento per assurdo che occupa la maggior par­ te dell'articolo sulla violenza. Quando il potere viene meno la violenza tende a occupare il terreno, e questa rivela la sua incapacità a instaurare un qualsiasi legame politico. L'argomento ha due aspetti. Da un lato, esso afferma: «Il dominio per mezzo della pura violenza en­ tra in gioco quando si sta perdendo il potere» 11 . Dall'al­ tro, afferma: «La violenza può distruggere il potere; è !bi, p. 40. !bi, p. 37. 11 !bi, p. 49.

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IO

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assolutamente incapace di crearlo» 12 • Che lo si prenda in un senso o nell'altro, ciò equivale a dire che la de­ composizione del potere è un fenomeno più istruttivo, rispetto alla vera natura del potere stesso, che l'impo­ tenza risultante dall'esplosione della violenza. È quel che dimostrano le rivoluzioni, la loro irruzione e soprat­ tutto le loro perversioni e i loro fallimenti. Quand'è che la rivoluzione ha una possibilità? Non quando la sua violenza prevale su quella dello Stato - assai conside� revole nell'epoca moderna-, ma quando lo Stato non è più sostenuto dalla credenza dei suoi cittadini nel suo potere, nel loro potere in quanto rappresentato e con­ centrato nello Stato - in breve: quando il potere lascia quest'ultimo. Allora la chance delle armi può cambiare di campo; ma il fattore decisivo è la perdita di potere, non la violenza. Ora, questo può accadere in uno Stato democratico, come gli Stati Uniti, all'epoca del mac­ carthysmo, della guerra del Vietnam e dell'agitazione nei campus. Quando i cittadini non riconoscono più il loro potere nelle istituzioni divenute violente, il potere vero. si rifugia nella disobbedienza civile, in continuità con l'intenzione dei Padri fondatori (con questa allu­ sione ai Padri fondatori della Costituzione americana, tocchiamo un'altra volta il fenomeno supplementare, intrecciato a quello del potere: il fenomeno dell'auto­ rità). Per restare nel filo della presente argomentazione, si deve dire che la descrizione e l'interpretazione dei fenomeni di disintegrazione interna, che lasciano cam­ po libero all'irruzione della violenza, costituiscono una 12

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lbi, p. 52.

semplice prova per difetto della definizione di potere. come non dominazione, non strumentalità - come ir­ riducibile alla dominazione e alla violenza: se non v'è potere, allora v'è violenza. Ma cos'è il potere in quanto tale, se si vuol andare oltre questa prova per difetto? Si potrebbe pensare di trovare la risposta risalen­ do dall'analisi politica a quella che si può chiama­ re l '