Gershwin
 8859201454, 9788859201458

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Gershwin

A CURA DI GIANFRANCO VINAY

Biblioteca di cultura musicale Reprints

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta delTeditore © 1992 EDT srl 17, via Pianezza - 10149 Tonno www.edt.it [email protected]

ISBN 978-88-5920-145-8

Questo libro è stampato su carta ecosostenibile

Gershwin

A CURA DI GIANFRANCO VINAY

Indice

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Prefazione

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I. Arte e Business: la “doppia vita” di George Gershwin e le due anime dell’America - Autopromozione e ascesa artistica in un decen­ nio di biografia attraverso i documenti (Aloma Bardi)

3

1.

9 22 26

2. 3. 4.

39 52 61

5. 6. 7.

76

n. «Viviamo in un’epoca di staccato» - Dimostrazione della musica d’attualità (Carlo Piccardi)

97

m. Le ambizioni colte di un musicista popolare (Gianfranco Vinay)

Coscienza storica e coscienza nazionale del compositore americano. Elevazione del jazz ad arte Ritmi della vita moderna. Valutazioni a confronto La voce di quale anima americana? Funzione dell’arte nell’Era della Macchina. Musica in bilico fra calcolo ed emozioni “Tin Pan Alley” e Goldberg. Industria della canzone e sociologia dell’effimero Senso e limiti del nazionalismo in musica Folk-opera. Mescolanza di generi e stili e sua giustificazione

122

IV. Gli enigmi di un feeling equivoco: Gershwin e il jazz (Giampiero Cane)

139

N. George Gershwin il pianista “jazz”: tra “fast-shout”, “novelty ragtime” e “stride piano”, l’itinerario di una accorta mediazione tra tasti “bianchi” e tasti “neri” (Riccardo Scivales)

168 171

Bibliografia essenziale Discografia essenziale

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174

VI. Un’opera folk negli specchi di Broadway: immagini e riflessi di drammaturgia spettacolare nel teatro musicale di Gershwin {Gianfranco Vinay)

197

VII. Folk sofisticato e arguzia savoiarda al crocevia con la spetta­ colarità - Le parole per la musica di George Gershwin {Aloma Bardi)

220

VIE L’arte della semplicità {Gianfranco Vinay)

240

IX. Registri espressivi di Ira Gershwin {Aloma Bardi)

256

X. «Dev’esserci stata l’immagine di qualche cosa nella mente del compositore» - Riflessi di estetica cinematografica {Carlo Piccardi)

305

XI. Le fortune (o le sfortune) di Gershwin in Italia {Roberto Leydi)

305

1.

310 315 316 317

2. 3. 4. 5.

343

Bibliografia essenziale (Aloma Bardi)

351

Discografia selezionata (Marcello Piras)

385

Indice dei nomi

I canali e gli strumenti della diffusione della musica “leggera” in Italia: il cinema sonoro, la radio, il disco Il fascismo e la musica americana Le fonti dei musicisti (e del pubblico italiano) Sulle tracce delle canzoni di Gershwin Gershwin nella produzione discografica italiana

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Prefazione

Gershwin: quasi un identikit Provate a entrare in un negozio di musica self-service (gli altri sono pressoché scomparsi) e a cercare Rhapsody in Blue e una canzone di Ger­ shwin molto famosa: The Man I Love, ad esempio. Se il negozio è molto piccolo - uno di quei negozietti di provincia in cui la musica di tutti i tempi e di tutti i generi è affastellata in un’antologia ecumenica - vi potrà anche capitare di trovarle assieme, nello stesso scomparto. Ma se vi recate in un grande magazzino di città dove generi e culture sono accu­ ratamente selezionati e distinti, il foglio di The Man I Love lo troverete, assieme agli altri hit di Gershwin, tra i Beatles e Kern, mentre Rhap­ sody in Blue dovrete andarla a cercare tra Franck e Haydn. Se provate a compiere la stessa ricerca in un negozio di dischi, la situazione non sarà tanto differente, soltanto più complicata. Rhapsody in Blue conti­ nuerete a trovarla negli scaffali destinati ai classici della musica colta; The Man I Love, invece, sarà sparsa un po’ qua e un po’ là. Magari anche nel settore della musica colta perché cantata o accompagnata da qualche interprete che abitualmente si dedica a quel repertorio, ma per lo più nel settore dei classici della popular music o in quello dei classici del jazz, naturalmente sotto il nome dell’interprete e non sotto quello dell’au­ tore, Gershwin. Questa dislocazione spaziale, topica, della musica di Gershwin ha una sua ragione piuttosto evidente nella logica mercantile: il foglio di musica lo può leggere chiunque strimpelli qualche strumento; la parti­ tura della Rhapsody, sia in versione orchestrale sia in quella pianistica, no. Il collezionista di dischi di musica sinfonica, non foss’altro perché la Rhapsody è eseguita da qualche grande orchestra e interpretata da qual­ che direttore o pianista famoso, non può fare a meno di acquistarla, gli piaccia o no; il collezionista di dischi di musica leggera o di jazz - al quale The Man I Love non può non piacere - ha a disposizione, se il negozio è ben fornito, una scelta di interpretazioni piuttosto vasta. Non è però questa logica mercantile l’unica spiegazione dello smem-

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bramente di Gershwin in due parti (che poi diventano in realtà tre, per­ ché Porgy and Bess la potrete trovare fra le opere; anzi, quattro, perché se cercate un’edizione discografica di un suo musical in versione inte­ grale, per mancanza di una tradizione al riguardo nell’Europa continen­ tale - e quindi del relativo scomparto - la troverete, se sarete fortunati, fra la musica da film!). Nonostante la versione originaria di Rhapsody in Blue fosse stata arrangiata da Ferde Grofé per la band di Paul Whiteman, questa composizione è entrata nel repertorio sinfonico assieme al Concerto in F, ad An American in Paris e alle meno frequentate Second Rhapsody, Cuban Overture, “I Got Rhythm” Variations e Catfish Row (la suite sinfonica tratta da Porgy and Bess), mentre le canzoni sono diven­ tate costante alimento melodico di voci e complessi appartenenti alle più disparate costellazioni di quella galassia in continua espansione che è la popular music. Di fatto il repertorio sinfonico ha assimilato la parte della produzione di Gershwin che, ad eccezione di Rhapsody in Blue, sì presentava in quella forma stabilizzata della musica - e determinata in tutti i suoi dettagli, veste orchestrale compresa - alla quale siamo soliti attribuire la deno­ minazione di musica “seria”, “colta”, “d’arte”, “classica” e simili, men­ tre il repertorio extracolto ha, di fatto pur esso, assimilato l’altra parte della produzione di Gershwin che si presentava in quella forma niente affatto stabilizzata per la quale manca significativamente in Italia un termine onnicomprensivo come l’angloamericano popular (l’aggettivo “popolare” che compare nel titolo di uno dei saggi di questo volume non deve essere interpretato come un’appropriazione autarchica di popular, ma nel senso più generale e comune di “colui che gode delle simpa­ tie, del favore del popolo”, quale Gershwin è stato e continua a essere). La dislocazione spaziale della produzione di Gershwin nei grandi magazzini della musica e lo smembramento dell’integrità creativa che ne consegue rafforzano in modo ancor più evidente di un tempo - del tempo che ormai fu dei negozietti di musica con venditore al banco l’idea di una molteplicità culturale che può essere intesa o in senso esten­ sivo, di funzionalità plurima nel campo dello spettacolo, o in senso ridut­ tivo, di dispersione creativa e di ambiguità culturale. Eppure l’impres­ sione che si ricava dalla lettura o dall’ascolto della musica di Gershwin è quella di una grande coerenza e unità stilistica senza fratture, limiti o barriere tra le composizioni collocate nell’uno o nell’altro scomparto del supermercato della musica. Il progetto di questo libro prende l’av­ vio da riflessioni su tale discrepanza fra una sensazione di unità e di coe­ renza stilistica comunemente avvertita e una tendenza allo smembra­ mento e alla dislocazione che non si riscontra soltanto nella realtà mercantile del grande magazzino, ma anche in quella ideologica della critica musicale e della musicologia, di cui l’altra è come una sorta di emblematico riflesso, di metaforico e concreto duplicato.

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Prefazione

Se tale coincidenza degli opposti (unità/polivocità) fosse semplicemente il risultato del relativismo della fruizione estetica, il problema sarebbe facilmente risolvibile con una specificazione del punto di osservazione del critico-fruitore: ponendosi da un’ottica più interna al linguaggio si coglie l’unità; spostandosi nel vasto campo della funzionalità, della fun­ gibilità esecutiva e spettacolare, si coglie invece la polivocità. Ma il “caso Gershwin” è ben più complesso, in quanto la stessa unità stilistica è frutto di una sintesi artistica fra sfere culturali diverse e diversificabili (musica “leggera”, musica “colta”, jazz, folclore). Nel caso di Gershwin il pro­ blema della definizione dell’oggetto critico si pone quindi in modo urgente e prioritario. La ricerca dell’importanza, del peso specifico che l’uno o l’altro fattore culturale hanno avuto nella definizione dello stile gershwìniano non è semplicemente un appassionante esercizio di investigazione musicologica, ma è operazione preliminare alla scelta di una metodolo­ gia critico-analitica che sì attagli a un’esperienza creativa così aperta a influssi disparati. Su questo problema di fondo, affrontato da prospettive culturali diverse, vertono in modo particolare i capitoli III, IV, V, VI e Vili. Nel terzo capìtolo (Le ambizioni colte di un musicista popolare) il più radi­ cato dei luoghi comuni dell’interpretazione gershwiniana, fonte del più abusato smembramento critico e classificatorio della sua produzione musi­ cale - il rapporto fra serious e popular - è dapprima analizzato nei suoi risvolti biografico-esistenziali, quindi verificato nella prassi compositiva dei lavori orchestrali di Gershwin. L’asse dell’interpretazione critico­ analitica inclina piuttosto verso il piano - più eccentrico che interme­ dio rispetto agli altri due - della comunicazione spettacolare, cui sono espressamente dedicati i capitoli VI e Vili. Porgy and Bess è l’opera di Gershwin che ha maggiormente diviso i critici fra le opposte fazioni di chi ha voluto ravvisarvi nuli’altro che un musical colossale travestito da operetta e di chi invece la considera una “vera opera” a tutti gli effetti. La lettura critica proposta nel sesto capitolo (Un'opera folk negli specchi di Broadway: immagini e riflessi di drammaturgia spettacolare nel teatro musi­ cale di Gershwin) proietta invece Porgy and Bess sullo sfondo dello spet­ tacolo musicale contemporaneo per coglierne la specifica drammaturgia a confronto con quella impiegata nell’ambito del musical e delle “ope­ rette satiriche”. Nell’ottavo capitolo (L'arte della semplicità) l’arte tutta gershwiniana di sfornare hit che rivelano un’inconfondibile impronta stilistica nonostante l’adesione ai moduli formali correnti, è esplorata tanto nei suoi caratteri più schiettamente musicali quanto nel rapporto fra la musica di George e i testi di Ira; ne emerge un atteggiamento crea­ tivo più prossimo alla composizione che all’invenzione melodica, pre­ supposto alle dilatazioni formali dei lavori di più ampio respiro. Nei capitoli IV e V, dedicati al rapporto di Gershwin con il jazz (Gli enigmi dì un feeling equìvoco: Gershwin e il jazz, e George Gershwin il

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pianista “jazz”: tra “fast-shout”, “novelty ragtime” e stride piano, l'itine­ rario di una accorta mediazione tra tasti “bianchi” e tasti “neri"), ciò che risulta con particolare evidenza da due tipi di indagini profondamente diverse negli obiettivi critici e nelle metodologie è l’atteggiamento eso­ tico del musicista bianco nei confronti del jazz. Nel corso della sua intera carriera Gershwin si ispirò a moduli jazzistici e parajazzistici per alimen­ tare il proprio stile pianistico e compositivo, che si situa però in un’area culturale diversa da quella jazzistica poiché perfino le sue doti di improv­ visatore erano «in realtà limitate a un tipo ben preciso di approccio improvvisativo, non estemporaneo e di stampo “compositivo” più che jazzistico» (Scivales); ma diversa anche da quella compositiva in senso stretto per la maggiore importanza attribuita da Gershwin al «travol­ gente feeling esecutivo» rispetto alla «faticosa stabilizzazione della forma»

(Cane). Questa eccentricità della musica gershwiniana rispetto ai generi e alle tradizioni da cui trasse ispirazione fa sì che la sua specificità e le ragioni profonde della medesima vadano ricercate nel rapporto fra la persona­ lità creativa e il contesto sociale e culturale dell’epoca. Dai momento che la musica di Gershwin e la sua stessa personalità sono a un tempo immagine e riflesso di un’epoca nello specchio multirifrangente dei media, per comprendere a fondo l’originalità del personaggio e delle sue crea­ zioni bisogna approfondire preliminarmente il rapporto con tale conte­ sto per distinguere ciò che appartiene all’uno, all’altro e a entrambi. Tale problema, sotteso all’intero lavoro, è particolarmente messo a fuoco nei primi due capitoli del libro. Nel primo {Arte e Business: la “doppia vita” di George Gershwin e le due anime dell’America) il gioco di specchi fra la personalità creativa e il contesto sociale e culturale è osservato attraverso il diaframma di una raccolta di articoli dello stesso Gershwin pubblicati in diverse occasioni nel corso del decennio 1925-35. La lettura critica di questi articoli sullo sfondo del contesto culturale dell’epoca permette di accostarsi alla per­ sonalità di Gershwin direttamente nel cuore di quel connubio tra rifles­ sione estetica e mercato dello spettacolo che rappresenta uno dei tratti salienti della sua creatività. Lettura critica e non semplice antologia di scritti: donde la collocazione strategica all’inizio del volume, quasi un’ou­ verture che anticipa pressoché tutti i temi sviluppati nei capitoli successivi. Nel capitolo successivo {«Viviamo in un’epoca di staccato» - Dimo­ strazione della musica d’attualità) è lo stesso mito di Gershwin a esser preso in esame: Gershwin come incarnazione di molte fra le più vive attese dell’Americano Medio del tempo e, proprio in quanto tale, com­ positore “diverso”, di un genere nuovo, metropolitano, che asseconda le sollecitazioni artistiche di una civiltà pluralistica, eterogenea e pro­ gressista, senza rimpianti e nostalgie nei confronti del passato o desi­ deri di palingenesi future: Gershwin compositore del presente, dell’Zvc et nunc.

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Prefazione

Particolare risalto si è voluto dare al rapporto fra testi e musica delle canzoni di Gershwin; nonostante sia ritenuto uno dei fattori che hanno maggiormente determinato la loro fortuna e il loro valore Intrinseco, que­ sto aspetto non è stato ancora indagato a fondo neppure in ambito sta­ tunitense. Il settimo capitolo (Folk sofisticato e arguzia savoiarda al cro­ cevia con la spettacolarità), esplorazione degli ambiti letterari cui appartengono i lyrics di Gershwin, evidenzia quanto e come essi trag­ gano suggestioni da un substrato culturale comune al mondo dello spet­ tacolo statunitense dell’epoca (l’aggettivo “savoiardo”, che a non spe­ cialisti dell’operetta inglese - peraltro poco cognita in Italia - evoca piuttosto immagini storico-dolciarie subalpine, qui si riferisce alle ope­ rette di Gilbert & Sullivan, che traggono questa appellazione dal londi­ nese Teatro Savoy, fatto erigere dall’impresario Richard d’Oyly Carte espressamente per ospitarne le rappresentazioni). I due capitoli successivi (Vili e IX) sono rispettivamente dedicati all’a­ nalisi dell’intreccio metrico-prosodico e compositivo fra linguaggio musi­ cale e linguaggio verbale (la già menzionata Arte della semplicità) e all’a­ nalisi dei lyrics di Ira in sé e nel contesto della produzione coeva (Registri espressivi di Ira Gershwin). Il decimo capitolo («Dev’esserci stata l’immagine di qualche cosa nella mente del compositore» - Riflessi di estetica cinematografica) è molto più di un’analisi della musica scritta da Gershwin per Hollywood. E un’in­ terpretazione della creatività di Gershwin e dei suoi prodotti osservata attraverso il filtro critico della dimensione cinematografica che è al tempo stesso carattere saliente della sua arte musicale: da cui l’oggettivazione dell’immagine sonora, il montaggio come processo compositivo, tutti quei tratti che rendono il musicista partecipe di una più generale tendenza estetica al rifiuto del soggettivismo condivisa da una larga parte dell’a­ vanguardia dell’epoca. L’ultimo capitolo (Le fortune, o le sfortune, di Gershwin in Italia) tratta della ricezione della musica di Gershwin in Italia in particolar modo durante il periodo fra le due guerre: un’indagine condotta direttamente sul mercato musicale e sui mezzi di comunicazione di massa, che abbatte luoghi comuni e ridimensiona non solo l’oggetto della ricerca, ma, più in generale, la ricezione della musica americana durante il fascismo. La Bibliografia essenziale e la Discografia selezionata forniscono, a con­ clusione del volume, un orientamento generale sulla consistenza delle fonti gershwiniane (musicali, letterarie e critico-musicologiche, sonore) e sulla problematica relativa. L’immagine di Gershwin che risulta da questo reticolo di interventi critici non è simile a quella impressa sui fotogrammi della narrazione biografica, già tante (forse troppe) volte percorsa, la cui nitidezza è pro­ porzionale all’esteriorità, alla distanza dal processo creativo, dalle sue motivazioni e dai suoi risultati. È un’immagine più sfumata, più simile

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a quella di un identikit che si costruisce non solo per aggiunzione di ele­ menti, ma anche per sottrazione di informazioni svianti e preconcette. Immagine quindi più fedele alle elusive sembianze di una personalità creativa, che non si rivela mai in modo diretto ed estroverso, ma tra­ spare da qualche strappo dell’intreccio di accensioni fantastiche e calcoli razionali e opportunistici, slanci e ritegni, influssi esterni e vita interiore. Ringrazio gli autori che hanno partecipato a questa impresa per la collaborazione e la disponibilità ad adattare la loro scienza alle esigenze di uno studio che, seppur miscellaneo, è stato concepito come un ser­ rato intreccio di parti problematicamente interattive. In modo partico­ larissimo voglio poi ringraziare Aloma Bardi, le cui ricerche condotte negli Stati Uniti sulle fonti documentarie hanno arricchito il volume di elementi preziosi per una riconsiderazione critica del “caso Gershwin”. Gianfranco Vinay

Torinò-Parigi, settembre 1992

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I Aloma Bardi

Arte e Business: la “doppia vita” di George Gershwin e le due anime dell"America Autopromozione e ascesa artistica in un decennio di biografia attraverso i documenti

Sperimentare ed esplorare non hanno mai rappresentato alcunché di rivo­ luzionario per un americano: con la massima disinvoltura egli è a proprio agio laddove le regole non vi sono ancora, laddove non si è compiuta esplo­ razione. In un paese nuovo e così vasto l’esperienza è diretta, intensa e varia; e una così diffusa e radicata attività creativa come quella degli Stati Uniti porta il segno di un’esuberanza e di una molteplicità sbalorditive per sensi­ bilità sviluppatesi in altre culture, la cui essenza è raffinatezza e selettività. In tutte le arti gli americani in totale naturalezza fanno coesistere elementi che altrove appaiono canoni inconciliabili di scuole di pensiero radicalmente opposte. Le tradizioni ereditate, con tutte le sottigliezze che comportano, vengono di necessità respinte allorché è giunto il tempo di infondere nuovo vigore all’arte con una trasfusione di esperienza più immediata. Ciò non avviene perché gli americani abbiano deciso d’essere iconoclasti o eccentrici. Sono soltanto ansiosi di essere se stessi, d’instaurare con la vita e con l’arte un rapporto che sia diretto e si sprigioni dal profondo. Tale atti­ tudine è ben lungi dall’essere espressione di romanticismo personale.1

Dunque, «personal romanticism» assente, secondo i Cowell. Che segui­ tano poi le proprie considerazioni sfociando - Henry Cowell già da vari decenni era esploratore infaticabile di coincidenze di opposti nella cultura americana - in un terreno “serio” e aspro: quello in cui si collocano Charles Ives e tutte le sue contraddizioni, che poi sono le contraddizioni dell’America e dell’artista americano; del compositore nel caso specifico. Eppure - e non si fa che aggiungere una sfumatura in più alla già sfac­ cettata immagine disegnata dai Cowell, cogliendo il nucleo di contrasto fra il compositore “ingenuo” e il “consapevole” in una persona sola -, in un artista come George Gershwin tracce di «personal romanticism» ce ne sono, eccome: nel suo farsi da sé; nella costante tensione a nobilitarsi; nell’appartenenza a pieno diritto a più di un habitat artistico; nell’umorismo onnipresente e nell’onnipresente prendersi sul serio; in autobiografismo e autopromozione. Nell’abilità, nell’opportunismo vissuto in tutta naturalezza ed esplicatosi nell’edificazione del proprio successo precoce e durevole.

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Può essere non priva d’interesse l’idea di seguire Gershwin e la sua storia percorrendo un sentiero insolito: l’itinerario degli articoli da lui scritti e pubblicati lungo l’arco di un decennio, quello, ultimo della sua breve vita, segnato da ascesa di consapevolezza e multidimensionalità di livello artistico. L’operazione presenta certi rischi che sarà bene con­ siderare subito. Primo: prendere troppo sul serio Gershwin “scrittore” fino a farne un “teorico” dell’estetica del Novecento americano, cosa che non era. George Gershwin non fu scrittore né ne ebbe alcuna intenzione o pre­ tesa. Gli articoli da lui pubblicati su giornali e riviste illustrate, o le pre­ fazioni a libri o i contributi a volumi che raccoglievano gran quantità di firme illustri, tutto ciò attuava una intenzione sempre uguale a se stessa e in certo senso usa e getta: propagandare se medesimo in tutta la sua sfaccettata ricchezza di complessi e raggiungimenti artistici, in tutta la sua originalità; cogliere o creare occasioni per promuovere questa o quella sua composizione; difendersi da attacchi reali o prevenirne di imminenti inevitabili. La novità delle idee espresse da Gershwin nei suoi articoli era meno estesa di quanto a lui in totale intraprendenza piacerebbe farla suonare. Un rapido sguardo panoramico sulla cultura dell’epoca, sulle controversie, sui dibattiti, mostra che egli fu più riflesso che origina­ tore di idee. Ciò naturalmente non sottrae interesse alla lettura, né e questo è troppo ovvio - originalità e soprattutto fascino al Gershwin compositore. Anzi, lo mostra immerso nel suo tempo, coinvolto e par­ tecipe. Secondo rischio: ignorare che gli articoli “scritti” da Gershwin potreb­ bero anche essere stati scritti da qualcun altro. Neppure questo fattore è però da prendere troppo sul serio. Cioè, se il tale articolo di Gershwin in realtà fosse stato scritto, tutto o in parte, riscritto o “corretto” da - per dire un nome fra i tanti possibili - Isaac Goldberg, il fatto non fa che accrescere interesse all’intera vicenda: interesse storico, s’intende. Non bisogna infatti dimenticare che ci muoviamo in un ambito in cui il ghostwriting^ scrittura clandestina di pezzo che poi figura sotto nome d’altri, è cosa di ogni giorno. Tutti sanno che brillanti celebri libri con­ cepiti nel mondo dello spettacolo2 furono opera di “cascatori” dello scrivere. Specie di controfigure delle quali è pertinente valutare l’ano­ nimo operato. E in fondo ben tipico di quell’ambito indulgere all’auto­ biografismo senza essere scrittori veri e senza averne il tempo. Sarà quindi il caso di dedicare talora alcune osservazioni di carattere “filologico” agli articoli indovinando sulla base delle informazioni chi ne fosse l’au­ tore, il perché degli stunt-man di George Gershwin, quali fili si mano­ vrassero dietro le quinte. Ma, ed è opportuno ripeterlo una volta per tutte, ciò ha in fondo pochissima importanza ai fini della valutazione. Questa “storia” di un decennio della vita di George Gershwin attra­ verso documenti dell’epoca (opera di lui o di altri) si propone di aprirsi

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Arte e Business: la “doppia vita” di George Gershwin e le due anime dell'America

un varco minimo nell’intrico della circolazione di idee negli Stati Uniti degli anni Venti e Trenta del ventesimo secolo, prendendo Gershwin a campione di precipitato nelle sue conseguenze e riflessi. Gli articoli di George Gershwin qui presentati, dopo che di alcuni di essi si era perfino persa memoria o se ne rammentava solo vagamente l’esistenza, sono per la prima volta rintracciati, riuniti insieme e tradotti. Neanche gli studiosi americani li hanno mai raccolti, né sembrano dedi­ care loro troppa attenzione; e probabilmente non hanno torto: presi come sono da questioni tecnico-analitiche esplicantesi sui manoscritti musi­ cali o da storie totali che non lasciano un millimetro all’inesplorato (v. Bibliografia} non hanno tempo da perdere in divagazioncine a margine della musicologia. Non sarà comunque trascurabile leggere di certi punti cruciali dell’ascesa artistica di Gershwin raccontati da lui stesso; o sentire come si difende dalle accuse degli avversari; o come con la solita intrapren­ denza personale sfoggia capacità di vendere nel modo più spettacolare la propria merce (tutto il discorso traduce il conciso inglese showmanship). Gli articoli in questione furono scritti fra il 1925 e il 1935 e per cia­ scuno di essi l’occasione fa il contenuto, senza tante pretese. Le con­ traddizioni ne emergono copiose e stridenti. Sarà inevitabile seguire nel proporli il duplice filo secondo cronologia e secondo problemi affron­ tati; così come sarà doveroso, in un’Europa non solo geograficamente remota e a distanza di non pochi decenni, offrire ai lettori qualche pic­ colo aiuto informativo su una “new found land”. Cosicché Gershwin appare incastonato nella cultura del suo tempo, dalle cui voci discordi e concordi non può essere indipendente. Anche in ciò stava la sua origi­ nalità, quella “giornaliera”, passibile di rivalutazione specifica mostrando quanto essa fosse a volte tutt’altro che originale, anzi fortemente dipen­ dente, anzi forse addirittura solo eco del già detto e del già fatto; sem­ pre però specchio del tempo.

1. Coscienza storica e coscienza nazionale del compositore americano. Elevazione del jazz ad arte

1.1. Il jazz si fa consapevole e invade le sale da concerto. Antefatti delle polemiche (I)

Nel 1917 Carl Van Vechten, personaggio interessantissimo nel pano­ rama della cultura statunitense dell’epoca e che si incontra spesso nel corso di ricerche sul mondo dello spettacolo3, produce per «Vanity Fair» un articolo pioniere in un terreno abbastanza vergine ancora, e in questo articolo l’elogio di Irving Berlin conduce all’affermazione epo­ cale che la grande musica autenticamente americana stia sorgendo dalla vitalità della musica “leggera”, dalla canzone, dal materiale musicale ori-

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ginariamente americano e legato alla tradizione popolare non imitativa4. George Gershwin nel 1917 era un ragazzo di diciannove anni, piano pounder per Remick & Co. a Tin Pan Alley, nel cuore dell’industria della canzone. Con Harry Von Tilzer aveva per la prima volta pubblicato, da pochi mesi, un suo song, che, su lyrics di Murray Roth, godeva del­ l’interminabile titolo di When You Want ’Em, You Can’t Get ’Em, When You’ve Got ’Em, You Don’t Want ’Em. Van Vechten incontrò Gershwin due anni dopo e cioè nel ’19, naturalmente a un party, e lo ascoltò suo­ nare Swanee, la novità che poi si rivelò il grande hit portatore di fama e denaro. Alcuni anni dopo egli raccontò l’incontro allorché sulla stessa rivista pubblicò quello che a buon diritto si può porre in bibliografia come uno dei precoci capisaldi della critica su Gershwin5. Eventi di capitale importanza avevano frattanto colmato l’intervallo fra i due articoli: l’ascesa da Tin Pan Alley a Broadway; il debutto della stretta felicissima collaborazione fra i due fratelli Gershwin; l’inizio di quella che per molti fu la “doppia vita” di George Gershwin, caratte­ rizzata da una parte da musical in cui immancabilmente rifulgevano pre­ ziosi hit, dall’altra dall’opera-miniatura Blue Monday Blues, «a coloured tragedy» di ambientazione afro-americana e singolarmente inserita nei George White’s Scandals del 1922; dal concerto con Eva Gauthier all’Aeo­ lian Hall del 1° novembre 1923; dall’esecuzione nella medesima presti­ giosa sede di Rhapsody in Blue il 12 febbraio 1924. Questi tre avveni­ menti sono fra i primi a segnare l’ascesa di Gershwin quale musicista colto o impegnato, «serious», come si usava dire. Gli ultimi due in modo specifico acquistano una valenza che aiùta a comprendere gli scritti che seguiranno. Ed ecco dunque in breve gli antefatti e i personaggi. Nella primavera del 1923 il già noto Van Vechten suggerisce al mez­ zosoprano Eva Gauthier6, sempre in cerca di novità, l’inserimento di un gruppo di canzoni americane in un recital programmato per il suc­ cessivo autunno. «Jazz» fu la specificazione che seguì. Ed essendo neces­ sario un pianista accompagnatore limitatamente a tale parte del pro­ gramma, l’inevitabile altro suggerimento fu: George Gershwin. Il recital scatenò polemiche fra “conservatori” e “innovatori” circa l’opportu­ nità di presentare jazz songs a un pubblico “colto” e si pone come ante-, cedente significativo delle controversie sul jazz che costarono a Gershwin accuse mirate a coglierlo in punti precisi - quelli da lui sentiti fragili della sua dignità di compositore. E fu una storia che lo accompagnò, con varianti di poco conto, per tutta la vita. Deems Taylor, che operava come critico per il «World», definì la nuova arrivata in sala da concerto come «our own folkmusic»: nuova musica “popolare” dell’America7. E una terminologia da non sottovalutare; la ritroveremo spesso, segnale luminoso di una carica energetica che si andava agitando nella cultura del tempo.

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Arte e Business: la “doppia vita” di George Gershwin e le due anime dell'America

1.2. Interrogativi sull1" "American Music”. Antefatti delle polemiche (II)

Seconda penetrazione del compositore nella dimensione della musica “seria”: Paul Whiteman, altro maestro di autopromozione (sul quale c’è troppo da dire e la cui importanza e il cui operato sono condensati in nota8), con il suo “Experiment in Modern Music” che ebbe luogo all’Aeolian Hall il 12 febbraio 1924 contribuì alla creazione di quella che potremmo chiamare una “terminologia tecnica” con cui designare certi tipi di musica con il bagaglio delle loro interazioni. Il battage pub­ blicitario fu notevole; negli ultimi tempi precedenti il concerto, su tutte le fonti di informazione divenne spasmodico. Si insisteva sulla “Ameri­ can Music”, su che cosa essa fosse, su quali ne fossero i peculiari valori e stili (Gershwin intanto stava lavorando furiosamente per completare in tempo Rhapsody in Blue, cui pose mano non prima del 7 gennaio). Le note illustrative del concerto, stese da Hugh C. Ernst9, facevano battere l’accento sull’intento educativo della serata per la crescita della coscienza nazionale: Mr Whiteman intende mettere in evidenza, con l’aiuto della sua orche­ stra e dei suoi collaboratori, l’incredibile progresso compiuto nella musica leggera dai giorni del jazz disarmonico, il cui impetuoso emergere quasi dal nulla risale a circa dieci anni fa, fino alla musica d’oggi, così melodiosa, che - senza alcuna ragione valida - si insiste con il chiamare jazz.10

La confusione terminologica si iniziava così ed era destinata a pro­ trarsi inarrestabile assieme alla manovrabilità dei contenuti, ovvero all’i­ dentità della musica: si trattava di jazz, o di popular songs - cioè di can­ zoni e canzonette -, o di ballabili {dance music} in veste molto speciale? (Magistrali arrangiamenti-orchestrazioni - come anche nel caso di Rhapsody in Blue - opera di Ferde Grofé, e un complesso di esecutori che erano praticamente tutti dei solisti conferivano alle composizioni quel peculiare colore della Whiteman Jazz Band). Il programma della serata includeva un’ampia gamma di varietà11 e non era affatto agevole penetrare sulla base di esso nelle intenzioni di Whiteman (quelle delle scelte “culturali”, s’intende, giacché quelle commerciali erano fin troppo palesi), nella parabola evolutiva del jazz e del suo stile dalla pretesa roz­ zezza incolta tutta color locale fino all’appropriazione di un linguaggio musicale elevato e durevole. 1.3. Gershwin tenta una mediazione lungimirante

Le critiche alla prima esecuzione di Rhapsody in Blue diedero inizio ufficiale alla visione dualistica del compositore George Gershwin, che gli scivolò addosso e fu la sua ombra costante12. A parte i problemi legati alla valutazione le questioni aperte restavano tuttavia le medesime:

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fino a che punto il jazz è legittimato musica *‘seria”? È la vera nuova voce dell’America musicale o febbre che si scatena, ma passa e va? E come può il compositore americano porsi in equilibrio fra gli stimoli di un’incolta dimensione indigena e la cultura derivativa ma elevata che mira all’Europa come modello? Ed ecco finalmente che cosa il già celeberrimo Gershwin scriveva nel 1925 sul numero di maggio di «Theatre Magazine»13. Si trattava del “Jubilee Number” per il venticinquesimo anniversario dalla fondazione dell’elegante rivista illustrata. Tutti gli articoli erano pertanto special arti­ cles, da quello di George Bernard Shaw a quello di Oscar Hammerstein II14. Le celebrità del mondo dello spettacolo si avvicendavano nel sofi­ sticato Olimpo di carta patinata. Gershwin proclama le proprie idee “innovative”, rivestendo di tinte “oggettive”, di lungimiranza e intel­ ligenza indubbia anche i punti spinosi del suo più spinto autobiografi­ smo. Questi i centri di coagulazione delle idee, che ancora in successivi interventi si ripeteranno più e più volte, sintetizzati tenendo presente che Gershwin parla sempre di sé e della sua musica (fa anche sovente riferimento ai propri complessi, lasciando così intravedere il fianco vul­ nerabile a chi non esita a sferrarvi colpi): importanza del jazz nella musica americana; il jazz si sta elevando ad arte; ricerca di una posizione abil­ mente equilibrata, lungi dall’estremismo delle avverse fazioni; jazz e trionfo della macchina; jazz e cultura afro-americana donatrice di ener­ gie nuove; contributo durevole che il jazz apporterà alla storia della musica americana, pur tramontando in quanto tale; il jazz deve essere soste­ nuto dalla conoscenza del patrimonio musicale del passato; lo studio non uccide l’originalità (ben individuabile qui un grumo di autobiografismo fra i più restii a sciogliersi). IL NOSTRO NUOVO INNO NAZIONALE

La vera importanza del jazz nella musica americana è un argomento su cui si è scatenata una controversia nelle più opposte direzioni. Vi sono quelli che condannano il nuovo idioma radicalmente e vi sono quelli che profes­ sano di ravvisare in esso il nuovo vangelo musicale. I primi tacciano il jazz di esprimere quel che c’è di sgradevole nella vita moderna, condannandolo in quanto distruggerebbe la bellezza, il gusto e tutto ciò che tende al pro­ gresso artistico; i secondi lo considerano il principio di una nuova scuola musicale, una scuola essenzialmente americana. Io da parte mia inclino più verso i secondi che verso i primi, però sono lontano dall’estremismo di chi crede che il jazz ben presto rivoluzionerà la musica o almeno la musica ame­ ricana. Il jazz con il tempo verrà assorbito nella grande tradizione musicale così come vi sono stati assorbiti altri generi. Influirà su quella tradizione ma sarà lungi dall’esserne elemento predominante. Insomma troverà il suo posto.

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Ritmi della vita americana A dire il vero ci sono molti segni che stia già trovando il suo posto. Il jazz chiassoso di dieci anni fa, rozzo, volgare e disadorno è ormai al tra­ monto. Nella mia Rhapsody in Blue ho tentato di fissare questo fatto impie­ gando il jazz quasi per inciso, proprio come impiego il ritmo sincopato. Mi rendo conto che della vita americana il jazz esprime qualcosa di molto con­ creto e vitale, ma mi rendo anche conto che ne esprime un solo elemento. Per esprimere pienamente la ricchezza di tale vita un compositore deve impie­ gare melodia, armonia e contrappunto come li ha impiegati ogni grande com­ positore del passato. Non naturalmente allo stesso modo, ma con piena coscienza del loro valore. Convinto di questo mi risolsi a studiare seriamente composizione. Molti fra i miei amici mi consigliarono di non farlo, dicendo che ciò avrebbe distrutto la mia originalità. Io replicai che ogni composi­ tore del passato il quale avesse dato un nuovo vitale contributo alla musica era stato un musicista ben preparato e mi dichiarai convinto del fatto che un talento naturale che possa essere ucciso dallo studio dev’essere troppo fragile per dare grandi risultati. Sentivo i ritmi della vita americana e nella mia musica li avevo espressi come meglio potevo, ma ero convinto che non mi sarebbe stato possibile fare di più. Per ricreare la ricchezza della vita è sempre necessaria una conoscenza del passato e delle tecniche di un tempo. Il futuro è nelle mani del compositore che senza dimenticare le impressioni innate della sua giovinezza è in grado di esprimerle utilizzando pienamente le risorse dei maestri del passato. Solo in questo modo il jazz può acquistare valore durevole. Parlando del jazz, dev’essere assolutamente sfatato un pregiudizio: quello che esso sia essenzialmente negro. I negri certo vi si dedicano, però nella sua essenza il jazz non è più negro di quanto lo sia il ritmo sincopato, che esiste nella musica di tutte le nazioni. Il jazz non è negro, ma americano. È l’espressione spontanea dell’energia nervosa della moderna vita americana. Il negro l’ha adottato perché ha una sensibilità straordinariamente svilup­ pata per la rudezza ritmica e perché ama improvvisare. Più si studia la storia del jazz degli ultimi quindici anni, più ci si rende conto che esso sta seguendo precisamente lo stesso corso seguito da tutti i ballabili del passato. Rude e volgare all’inizio, a poco a poco si sta emanci­ pando e tende a un livello più elevato. All’inizio era soltanto dissonanza per il gusto della dissonanza, semplice ricerca di soddisfacimento nel vigore animale. Ma pian piano il significato di quella dissonanza, il suo calore, il suo potere di rappresentare il sentimento americano sono venuti alla luce. La dissonanza del jazz non è oggi mera successione di brontolìi e rantoli insensati e sgradevoli. Che siano ancora presenti è senza dubbio vero, ma insomma la vita moderna non si esprime, ahimè!, con frasi tranquille. Viviamo in un’epoca di staccato, non di legato. Dobbiamo accettare questo fatto. Ciò però non significa che proprio da tale modo di esprimersi in staccato non si possa sviluppare qualcosa di bello. Tutti noi ricordiamo la brutta archi­ tettura dei primi grattacieli. Tutti ricordiamo gli attacchi sferrati contro tale architettura, attacchi motivati di per sé, tuttavia ignari della possibile bel­ lezza futura. Oggi, con strutture come la Woolworth Tower e il nuovo Hotel Shelton, cominciamo a renderci conto che il grattacielo può essere bello oltre

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che originale. Lo stesso risultato si verificherà, ne sono certo, nel caso del jazz. Brutto all’inizio, è già stato toccato dalla bellezza. Quando alla fine occuperà nella musica il posto subordinato che gli spetta nessuno di noi rim­ piangerà la sua comparsa. L’impiego del jazz pone tuttavia al compositore un grave problema, estre­ mamente difficile da superare. È quasijimpossibile scrivere in modo esatto e definitivo gli effetti desiderati, con il risultato che gli esecutori sono troppo propensi all’esagerazione di quello che interpretano e se si lasciano fare a modo loro travisano totalmente la musica rispetto alle intenzioni del com­ positore. Questo naturalmente dipende dal direttore, che deve stare conti­ nuamente all’erta e governare la fantasia dei suoi musicisti con mano fer­ rea. In verità un direttore, quando intraprenda la direzione di un lavoro in cui il jazz gioca una parte importante, deve stare ancora più attento a rispettare le intenzioni del compositore di quanto dovrebbe fare se dirigesse una sinfonia classica. Lasciate che per una volta gli esecutori facciano di testa loro con il jazz e ben presto elaboreranno qualche cosa che l’autore stesso non riuscirà a riconoscere come sua creazione.

La frenesia del ballo passerà Quindi biasimare il trionfo del jazz è inutile come biasimare il trionfo delle macchine. La cosa da fare è domare entrambi a nostro vantaggio. L’at­ tuale frenesia del ballo passerà come passa tutto ciò che è umano. Anche il male che tale frenesia ha impresso sulle sue orme passerà, però resterà un residuo di bene. L’impiego del jazz non sarà più così dominante, ma sti­ molerà soltanto la vitalità. Sta al musicista preparato che è anche artista creativo far sprigionare questa vitalità e innalzarla con l’eterna fiamma della bellezza. Quando verrà quel momento, £ forse non è così lontano, il jazz sarà solo un elemento di quel grande complesso che darà alla fine degna espressione musicale all’America e al suo spirito. Intanto non possiamo che fare del nostro meglio per scrivere ciò che sentiamo e non quello che pen­ siamo di dover sentire. E chiunque conosca l’America non può dubitare che il jazz abbia un ruolo importante nella coscienza nazionale. Proprio come le acrobatiche danze campestri sono espressione dell’ener­ gica vita dei contadini dell’Europa centrale, proprio come il minuetto espri­ meva la grazia solenne della civiltà che gravitava attorno a Versailles, così i balli oggi in voga esprimono la vitalità nervosa, un po’ irriflessiva, dell’A­ merica attuale. Siamo quasi certamente in una fase di transizione; è incon­ cepibile che questa tensione possa continuare per sempre. E probabile che adattandosi il jazz assumerà a poco a poco il ruolo subordinato che gli com­ pete. Insomma il jazz non è di per sé un fine, ma piuttosto un mezzo per il conseguimento di un fine. Sarà il futuro sviluppo musicale del paese a deter­ minare qual è questo fine.15

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2. Ritmi della vita moderna. Valutazioni a confronto 2.1. La grande Madame d Alvarez scende in campo

Continuata senza disagi l’attività di autore di commedie musicali16 e di musica “seria”17, George Gershwin attirò l’attenzione, dopo Èva Gauthier, di un’altra primadonna altrettanto creativa e ancora più esube­ rante, Marguerite d’Alvarez, nota nel mondo della lirica come «contralto peruviano»18. Avendo assistito al concerto di Gauthier, fu presa, secon­ do il racconto che Van Vechten ne fece a Gershwin in una lettera19, da «entusiasmo isterico» e non potè più togliersi dalla mente che il succes­ sivo recital con Gershwin sarebbe stato il suo. Isaac Goldberg, nella prima biografia di Gershwin20 - più che “auto­ rizzata” dal compositore, il quale certo vi collaborò fianco a fianco con l’amico studioso, anch’egli in certo modo “dilettante” geniale -, riferisce l’antefatto e il contesto degli articoli di Gershwin (e di quello di Kramer) che seguiranno, alla sua tipica maniera piccante e disinibita. Sarà curioso osservare come certe frasi sono identiche a quelle di Gershwin, che per una volta, scritte nel 1926, risulterebbero al sicuro da ogni sospetto, dato che Isaac Goldberg lavorò alla biografia nel 1930 e i due si incontrarono non prima del ’29. Ma di Goldberg e del suo rapporto costante e stretto di amicizia collaborativa con Gershwin si dirà in seguito. Le avventure di Gershwin nella Landa Sinfonica soffiavano nuovamente sul fuoco dei dibattiti a getto continuo sul jazz. Nella primavera del 1926 il reverendo John Roach Straton si era eletto San Giorgio a trucidare quel drago, dopodiché il nostro Giorgio [George, Gershwin naturalmente] rin­ negando ogni santo contegno, si era buttato a capofitto nella mischia. «Posso solo accompagnarlo muovendo la punta del piede - aveva detto una volta Amy Lowell a George riguardo al jazz -, ma se non potessi fare questo non so proprio come riuscirei a frenare l’entusiasmo ». Con sommo piacere di George, chi avrebbe marciato al suo fianco se non Marguerite d’Alvarez, la cantante peruviana, colei che Van Vechten aveva menzionato due anni prima in una lettera memorabile?211 seguaci del jazz banditi e serpenti ten­ tatori? E il jazz musica da malviventi, che si dovrebbe vietare per legge? «Musica del più sfrenato libertinaggio intellettuale e spirituale, degradazione infima», secondo le poco reverenti espressioni del reverendo? Balle, rim­ beccò Madame d’Alvarez. «Quando muoio voglio sentire sul mio sepolcro le note del concerto jazz, di Gershwin».22

Pur con tutto il colore stesovi da Goldberg, la circostanza, benché umoristica, era piuttosto critica. Le accuse pubblicamente rivolte al jazz, dipinte di moralismo acceso, le difese di esso da parte della «irrefrena­ bile» d’Alvarez a breve distanza dal recital all’Hotel Roosevelt23 richie­ devano un intervento diretto di Gershwin, che apparve su uno dei primi numeri della rivista «Singing»24 e i cui intenti furono: 1) difendersi

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dalle accuse già lanciate e 2) da quelle prevedibili; 3) suscitare interesse per l’evento prossimo, farsi pubblicità, costruire in modo più accurato la propria immagine pubblica. Il tono onesto e persuasivo non manca di accenti che oggi, a un lettore irrimediabilmente fuori dalla mischia, suonano velati di patetismo comico. Esempio: la frase, arrischiata poco dopo l’inizio dell’articolo, in cui Madame d’Alvarez fa la sua trionfale comparsa quale autorità preclara in campo musicologico. Ingombrante presenza davvero, e senza spiegazioni il lettore di oggi sarebbe disorien­ tato e forse non si divertirebbe nemmeno. L’articolo di Gershwin s’intitola Does Jazz Belong to Art? e lo tradu­ ciamo, alla lettera, Il jazz appartiene all'arte? Fin qui tutto bene, nel senso di legittimità, appartenenza culturale, ecc. Ma allorché Kramer risponderà con un articolo intitolato I Do Not Think Jazz “Belongs", le sfumature si biforcano nel doppio senso, cioè: Kramer vuole anche dire che il jazz non ha un’uappartenenza” in senso assoluto. Il jazz è qualcosa che “non va”. Si continua a tradurre «appartiene all’arte» per mantenere l’analo­ gia terminologica, però A. Walter Kramer intendeva dire di peggio. IL JAZZ APPARTIENE ALL’ARTE?

Chiunque studi canto non può più permettersi di ignorare la musica jazz o di snobbarla come cosa vile e negativa dal punto di vista culturale. Lo studio e la pratica del jazz possono offrire un contributo importantissimo alla preparazione completa del moderno allievo di musica. Può essere di con­ creto beneficio per il cantante e per la sua professione sotto tutti gli aspetti. La nuova comprensione del ritmo che da *esso deriva semplificherà e amplierà il suo repertorio.

Nelle frasi che precedono sono stato risolutamente dogmatico: era mia intenzione esserlo, perché credo sia venuto il tempo in cui certe afferma­ zioni si possono fare apertamente e senza bisogno di giustificarsi, come argo­ menti di provata verità. Non ho intenzione di “difendere” il jazz. Non faccio propaganda e non ho tempo da perdere per “convertire” quelli che nascondono la testa nella sabbia come lo struzzo, rifiutandosi di vedere le cose come stanno. Lasciamo che il jazz parli da solo. Esso è una realtà. Tutte le invettive dei nostri oracoli musicali non possono eliminarlo o cancellarne la profonda influenza sulla musica del presente e del futuro. Si è discusso troppo sul jazz, per lo più da parte di gente che non è nean­ che precisa nell’uso della terminologia. Condannare il jazz, ad esempio, perché c’è al mondo molto cattivo jazz è assurdo come condannare tutta la musica perché esiste molta cattiva musica. Neanch’io sono a favore di quelle com­ posizioni della scuola Dada che impiegano la strumentazione di ventole elet­ triche o mettono insieme cinquanta pianoforti elettrici sincronizzati in uno scatenarsi di chiassosa cacofonia. Quello non è jazz: è soltanto delirio. Ma se prendete il meglio della nostra seria moderna musica jazz e la stu­ diate potete giungere a una conclusione sola: che essa è, secondo le parole

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di Madame d’Alvarez, «il più grande contributo americano all’arte della musica». I più accaniti oppositori del jazz si presentano con l’imparzialità della totale ignoranza al pulpito da cui poi emettono giudizi. «Io sicuramente so ben poco della musica - ingenuamente affermò il dott. John Roach Straton al Town Hall Club - ma sono certo che il canto jazz viene dal demo­ nio e non avrà posto nel coro celeste». Pochi giorni dopo un insigne scienziato, rettore di una delle nostre più grandi università, si avventurò a pronunziare un discorso in occasione della cerimonia per il conferimento delle lauree all’istituto di Musica della sua università. Per la maggior parte del discorso egli si attenne alle proprie com­ petenze specifiche e parlò paternamente ma sensatamente di scienza. A un certo punto però, pretendendo di dissertare con pari autorità su un argo­ mento al di là della sua portata, fece uno scivolone. «Miei cari ragazzi - disse lanciando uno sguardo al di sopra degli occhiali - guardatevi dal terribile jazz, coltivate la buona musica. Seppure può esservi arte in quei ritmi moderni è certamente un’arte diversa da quella testimoniata nei classici di approvato e riconosciuto valore. Tenetevi saldi a ciò che ha superato la prova del tempo». E per un bel po’ continuò con lo stesso genere di assurdità. Parole, vuote parole che rivelano nient’altro che una totale ignoranza del soggetto che egli affrontava. Che cosa direbbe il dotto Prexy se un musicista di chiara fama si alzasse dinanzi agli studenti il giorno del conferimento delle lauree al suo Istituto di Scienze e declamasse: «Ragazzi e ragazze, guardatevi dal moderno nella scienza. Evitate l’evoluzione e gli studi e le ricerche degli ultimi anni. Dedi­ cate il vostro tempo a Lucrezio e ai classici di provato valore dell’età aurea di Re Tut. Non c’è progresso. Tutto ciò che è bene è vecchio, tutto ciò che è nuovo è male».

Difficoltà ritmiche Ogni musicista che abbia studiato la musica moderna sa che il jazz ha già dato un reale contributo alla nostra arte. Quanta importanza tale contri­ buto avrà fra dieci anni nessuno può predirlo, ma senza dubbio il suo ruolo sarà di grande rilievo. Ogni compositore d’oggi ha dedicato lungo tempo e applicazione a questo nuovo stadio dell’evoluzione della musica, anche se molti non sono poi capaci di comporre loro stessi con successo musica jazz. Per creare un artista jazz, sia compositore che strumentista o cantante, il ritmo dovrebbe entrare nel sangue fin dai primi anni. L’acquisizione del­ l’arte del jazz in anni più maturi è sempre difficile e talora impossibile. Uno dei nostri più illustri cantanti americani, che ha condotto un profondo stu­ dio sul jazz e che ne canta molto, non è mai stato capace di acquisirne l’au­ tentico ritmo. Lo comprende intellettualmente e lo adora, ma i veri e propri effetti di eccitazione e abbandono vengono in qualche modo a mancare nelle sue esecuzioni. Ciò nonostante, egli si è di proposito specializzato nell’in­ terpretazione intellettuale del jazz e in questo campo ha dato un contributo di ineguagliabile valore: è stato capace di mostrare che nel jazz c’è un’au­ tentica anima musicale anche indipendentemente dal trascinante effetto pro­ dotto dai ritmi che gli sono propri.

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La scomparsa Amy Lowell, grande poetessa e veggente del New England, fu fra gli amanti del jazz, sebbene non sapesse né cantarlo né suonarlo né danzarlo. «Posso solo accompagnarlo muovendo la punta del piede - mi disse una volta -, ma se non potessi fare questo non so proprio come riu­ scirei a frenare l’entusiasmo». Il jazz per molti anni ebbe vita dura in Inghilterra; gli inglesi sono con­ servatori all’eccesso e non amano fare il minimo sforzo per comprendere quello di cui non hanno esperienza. Ma il jazz ha infine fatto breccia nei loro cuori e penso che oggi gli inglesi ne capiscano l’essenziale valore musi­ cale anche meglio di noi in America. Paul Whiteman l’anno scorso riempì l’Albert Hall più di quanto fosse mai successo da che essa fu costruita e tale concorso di pubblico fu sintomatico di un cambiamento nella valutazione della musica in Inghilterra a ogni livello. «Il jazz è la musica della strada», disse un religioso assai dotto l’altro giorno, supponendo a quanto pare che questo fosse il massimo della con­ danna. E vero che molte delle canzoni di strada di oggi hanno caratteristi­ che proprie del jazz, ma il nostro jazz migliore possiede un valore musicale troppo elevato per trovare popolarità in strada. Praticamente nessuna delle mie canzoni può vantarsi di quella vasta popolarità che dia loro pieno diritto ad essere chiamate «canzoni della strada». Nel programma assai dignitoso e posato che eseguirò con Madame d’Al­ varez nell’ambito della stagione di concerti allo Hotel Roosevelt questo autunno, la mia parte consisterà in selezioni da Rhapsody in Bluey con l’ag­ giunta di due o tre Preludi jazz25 a cui sto adesso lavorando e che verranno presentati al pubblico per la prima volta in quella occasione. Proseguendo con il programma, accompagnerò Madame d’Alvarez in diverse canzoni scelte dalle mie più recenti commedie musical;, come Lady Be Good e Tiptoes. Nessuno dei pezzi in programma sarà di natura scadente o banale, ne sono certo. Sono tutti di sicuro valore musicale, degni di figurare in ogni programma equilibrato e dignitoso. Questa collaborazione fra Madame d’Alvarez e me a sostegno della musica moderna è il risultato della sua recente difesa del jazz in un dibattito con il rev. John Roach Straton. Ella canta il jazz meglio, io credo, di qualsiasi altro grande cantante alla ribalta con­ certistica o operistica oggi, perché interpreta con esattezza ed entusiasmo non solo le note, ma lo spirito e il ritmo della musica. E meraviglioso ciò che una grande voce può fare, da un punto di vista musicale, con una buona aria jazz. Più la voce è grande, maggiore è l’effica­ cia nella sua interpretazione del jazz, solo a patto che il cantante abbia un superlativo senso del ritmo. Il ritmo è l’autentica vita della musica: «Se non si ha un perfetto senso del ritmo - ella ci dice - non si può far piangere un pubblico né incitare un esercito al combattimento». Il jazz non è gioco da ragazzi. La padronanza della buona musica jazz richiede tanto sforzo e abilità quanto quella di ogni altro genere di musica. Ho il sospetto che molti musicisti “di prima categoria” siano costretti ad assumere un’aria di altero disprezzo nei suoi riguardi perché non sono capaci di padroneggiarlo. Forse hanno cominciato troppo tardi; forse non hanno cominciato affatto; forse è mancata loro quella “divina scintilla” che in fondo è parte essenziale della buona esecuzione del jazz. Se pensate che il jazz sia

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facile, provate a eseguire They Didn't Believe Me di Kern come esercizio: ci sono certi passaggi in quella canzone che si riveleranno difficili ostacoli per ogni voce. Mi è stato chiesto di suggerire una lista di canzoni jazz che un cantante potrebbe studiare, sia come introduzione ai ritmi jazz sia in vista di un’ese­ cuzione pubblica. La lista che accludo mi viene in mente mentre faccio la valigia preparandomi a partire in gran fretta per l’Europa ed è presentata senza alcuna pretesa d’essere completa o di essere la migliore lista possibile a questo riguardo: Siren Song................................. Kern Japanese Sandman..................... Whiting-Egan St. Louis Blues ..................... Handy The Jazz City........................... Souvaine International Rag .................. Berlin I Want to be Happy................ Youmans Carolina in the Morning.......... Donaldson They Didn't Believe Me.......... Kern Stairway to Paradise................ Gershwin Swanee ................................ Gershwin Nashville Nightingale ............. Gershwin

Per ogni cantante un eccellente esercizio sui ritmi jazz è lo studio delle registrazioni fonografiche di cantanti come Marion Harris, Al Jolson e The Revelers. Il quartetto vocale dei Revelers è meraviglioso non solo per la per­ fezione ritmica ma anche per l’ineguagliabile abilità nel creare con la voce effetti orchestrali insoliti e di gran maestria. Ci sono alcuni cantanti che non troveranno nell’odierno repertorio vocale jazz niente che desiderino aggiungere ai loro programmi quando si presen­ tano alla ribalta. Ma non vi è fra loro chi non trarrebbe beneficio - dal punto di vista della cultura musicale in senso lato - dal serio studio e dal­ l’esercizio della ritmoginnastica prodotta dal jazz. Concludo con la morale di questa storiella: se siete cantanti, non igno­ rate la musica jazz! Studiatela, amatela e tenetevela ben cara; lasciatela agire liberamente sul vostro cuore. Essa vi ricompenserà cento volte tanto. Vi aiuterà ad affrontare molti punti difficili dei classici che studiate. Aggiun­ gerà un nuovo senso del ritmo a tutto il vostro repertorio, vecchio e nuovo. Sarà per voi buona amica e compagna nella gioia e nel dolore. Non condannate il jazz in base alle dicerie di vecchi bacucchi; evitate lo snobismo in musica. Pensate con la vostra testa, vivete nel presente della musica e il passato diverrà per voi ancora più significativo e prezioso.26

Nota redazionale27 Pubblichiamo l’articolo di Mr Gershwin non perché condividiamo il suo punto di vista, ma solo perché vorremmo porgere ascolto con rispetto agli argomenti dei più importanti artisti della scuola jazz. Abbiamo chiaramente espresso il nostro parere circa il jazz in un editoriale di qualche mese fa28. Siamo d’accordo sul fatto che il jazz è vivace espressione di certi aspetti della nostra vita moderna: un riflesso ritmico della bruttezza e del fracasso.

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E per di più molti compositori jazz sono sopravvalutati ed eccessivamente lodati, grazie alla potenza della pubblicità e della propaganda patrocinate da zelanti membri della nostra intellighenzia letteraria, scrittori che scoprono arte venerabile nelle facezie dei sigg. Mutt e Jeff e dei Katzenjammer Kids, e nelle deliziose farse di Mr Charlie Chaplin. Può darsi che anche i triti programmi presentati dagli esponenti di musica “seria”, con i loro sguardi solenni, siano responsabili della voga del jazz. Ma questa è un’altra storia. Mr Gershwin è un giovane alacre musicista dai modi sofisticati. La sua alacrità e le sue doti d’inventiva lo collocano in una posizione speciale a grande distanza dalle fitte schiere dei mercanti di Broadway. Ci aspettiamo di vedere presto uscire dalla sua penna un’operetta tipicamente rappresenta­ tiva dell’America: forse dopo che sarà un po’ passata questa inondazione jazz. Comunque abbiamo intenzione di essere presenti quando Mr Gershwin e l’irrefrenabile M.me d’Alvarez cominceranno a invadere le nostre tran­ quille sale da concerto.29

2.2. Kramer. Il problema dell'orchestrazione Come tutti sanno l’orchestrazione di Rhapsody in Blue per la Whiteman Band non fu opera di Gershwin ma di Ferde Grofé e come è anche noto l’accusa di non sapere orchestrare perseguitò il compositore per il resto dei suoi giorni, causandogli non pochi disagi. Il problema dell’au­ tenticità dell’orchestrazione in Gershwin (e dello studio come necessità) è affrontato in modi diversi da coloro che a vari livelli si sono occupati del musicista. Per citare due esempi fra i celeberrimi e fra i più letti, Charles Schwartz30 afferma che Gershwin fu sempre costretto a farsi aiutare e sostiene con prove documentarie tale supposizione. Edward Jablonski31 risolve con una certa leggerezza le controversie sull’orche­ strazione e sulle insicurezze che sempre tormentarono Gershwin. Studi più tecnici e specifici32 del resto non pongono più in discussione il fatto se Gershwin orchestrasse da sé i propri lavori a cominciare dal Concerto in F, ma ne esaminano i procedimenti, i limiti, le caratteristiche di orchestratore. Arthur Walter Kramer33 è oggi una figura di compositore americano da riesumare. Prende molto sul serio le affermazioni di Gershwin e risponde al suo articolo con un attacco che viene pubblicato sul numero successivo della stessa rivista. Severo nel giudicare il jazz, egli non brilla per sense of humour. Henry Cowell, se avesse contemplato la sua pre­ senza nel panorama multicolore della musica americana qual è delineato nel capitolo primo del volume da lui curato, American Composers on Ame­ rican Music34, laddove suddivide i compositori americani in sette gruppi più un ottavo di giovanissime promesse e li contrassegna con cifra diret­ tamente proporzionale alla loro “europeizzazione” nonché inversamente proporzionale alla mancanza di originalità e di nesso con il fermento e gli stimoli di un nuovo grande vergine mondo, non lo avrebbe sicura­

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Arte e Business: la “doppia vita" di George Gershwin e le due anime dell'America

mente assegnato a uno dei primi gruppi. Ma purtroppo non ne fa menzione. Segue il testo di Kramer, con la precisazione che le note redazionali, parzialmente riportate a titolo di curiosità, cercano sempre di riequili­ brare i contrasti. IO NON CREDO CHE IL JAZZ «APPARTIENE ALL’ARTE»

Non ho intenzione di essere dogmatico. Il mio proposito è di affermare in maniera semplice e quanto più possibile chiara le ragioni per cui ritengo che il jazz non «appartiene all’arte». Mr Gershwin, il jazzista di gran talento, sembra pensare di sì. In un recente numero di questa rivista, egli sosteneva nel paragrafo iniziale del suo articolo che il jazz «appartiene» al canto e «può essere di concreto beneficio per il cantante e per la sua professione sotto ogni aspetto». Ho letto l’articolo di questo signore attentamente, molto atten­ tamente davvero; eppure in nessun punto egli ha addotto qualche argomento a sostegno della sua affermazione del tutto fantasiosa. Né ho alcuna inten­ zione di chiedergli di dimostrarla. Ma a parte questo, ci sono consistenti motivi per credere che il jazz di oggi poggi su una base assai malferma. E a meno che il jazz non diventi, attraverso qualche miracolosa metamorfosi (di cui adesso non c’è il più lieve indizio), il folclore musicale degli Stati Uniti, sarà già un ricordo del passato prima che siano trascorsi molti anni. E se il folclore musicale di questo paese è destinato a essere il risultato della sopravvivenza del più forte all’interno della musica leggera di oggi, devo esprimere quella che è almeno la mia convinzione: la musica di Irving Ber­ lin e Jerome Kern adempie tutti i requisiti dei canti popolari molto più di quella di Mr Gershwin e anzi di ogni jazzista. Mr Berlin sta dimostrando da molti anni ~ e con tanto successo che ci si stupisce della sua riserva evidentemente inesauribile di idee originali che sa scrivere una melodia da far cantare a tutto il mondo: dico il mondo, perché le sue melodie non sono più cantate soltanto da questi centodieci milioni di persone qui negli Stati Uniti. E Mr Kern, le cui incantevoli melodie sono sempre state fra le mie pre­ ferite nell’ambito della musica leggera, possiede in moltissime sue canzoni (per citarne soltanto due, Babes in the Wood e D'ye Love Me?) quella genuina nota volkstumlich che riscalda il cuore. E ciò basti. Mi si consenta ora di aggiungere che, se anche il jazz dovesse diventare il canto popolare del futuro americano, non c’è ragione di lasciarci ingannare fino a non scorgere quale posto esso dovrebbe occupare, oggi e sempre. Non esiste inganno più grosso di quello che i dilettanti della musica vanno blaterando, cioè che il canto popolare è la base della grande musica: non lo è mai stato. Sul canto popolare un Grieg, un Dvofàk, un Cajkovskij hanno potuto fondare le loro strutture musicali; in altre parole, il meglio del secondo o terz’ordine, ma mai gente di prim’ordine come Bach, Beethoven, Wagner, Brahms (a dire il vero, quest’ultimo mise in musica del folclore tedesco e finanche arrangiò alcune melodie popolari tedesche, però le sue grandi opere, anche se possono avere assorbito un certo spirito del canto popolare, non si basano in nessun modo sul folclore musicale).

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Come ho dichiarato, nell’orazione di Mr Gershwin non c’è nulla a soste­ gno della sua affermazione che il jazz sia di beneficio ai cantanti; né riesco a trovare vero il fatto che, come egli scrive, «più la voce è grande, maggiore è l’efficacia nella sua interpretazione del jazz, solo a patto che il cantante abbia un superlativo senso del ritmo». La parte di questa frase che dice «solo a patto che» annulla la parte precedente. E inoltre, non sappiamo forse che il jazz deve la sua vera vita al ritmo? E le registrazioni fonografiche proprio di alcuni di quei personaggi che Mr Gershwin raccomanda come modelli di canto jazz - personaggi le cui voci appartengono al genere diseur-diseuse - non dimostrano che musica di questo tipo può essere espressa nel modo migliore da uno che ottiene il suo effetto con altri mezzi che non la mera voce? E quanto al menzionare M.me d’Alvarez - o al menzionare qualun­ que cantante quando si parli di musica - non è forse un procedimento poco convincente? Perché citare cantanti su un argomento riguardo al quale essi sono notoriamente privi di senso critico? Si sa che perfino il generoso con­ tralto peruviano, che pure canta musica eccellente nei suoi programmi, ha offerto al pubblico dei suoi concerti autentica robaccia come The Blind Ploughman di Clarke nello stesso programma in cui figurava - separata di fatto solo da un breve intervallo - La Chevelure di Debussy. Un compor­ tamento del genere screditerebbe chiunque si voglia erigere a critico della musica; n'est-ce-pas, M.me d’Alvarez? Non pensiamo che il jazz sia facile, come il compositore di jazz crede che noi pensiamo: molti pianisti di eccellente formazione hanno scoperto che le loro dita sono assai maldestre nell’eseguire a prima vista la musica dei condottieri di Tin Pan Alley. Ma quando il brillante George cita They Didn't Believe Me di Kern come canzonejazz e dice che ci sono passaggi nella parte vocale che sono difficili e potrebbero essere usati come esercizio, devo dichiarare quanto segue, lasciando che siano i lettori di «Singing» a giudicare. Primo, questa canzone (che è sempre stata una delle mie preferite) è stata scritta prima dell’avvento del jazz. Non è jazz. Secondo, fu cantata in una commedia musicale di Kern (se la memoria non m’inganna) in cui la deli­ ziosa Julia Sanderson era la star dello spettacolo, e fu lei che lanciò alla ribalta questa incantevole melodia. Di lei si è sempre detto che come cantante era un’ottima ballerina. Per cui temo che le difficoltà vocali di They Didn't Believe Me non siano proprio insormontabili! Ma per me il punto fondamentale è che la canzone non è jazz - e proprio non capisco perché Mr Gershwin dica che lo è e la includa nella sua lista di «undici canzoni jazz adatte per essere eseguite in concerto».

Poiché ciò che scrivo vuole essere una replica all’articolo del composi­ tore di Rhapsody in Blue, ho inteso innanzitutto sbarazzarmi di alcuni equi­ voci in cui mi pare che il nostro giovanotto di Broadway sia inciampato. Ammiro la sua alacrità, ma mi rammarico che le sue premesse siano così sbagliate. Ho l’impressione che egli sia dotato di un genuino talento creativo che potrebbe essere sviluppato. E mentre è improbabile che lo sarà, poiché il successo del genere di quello mietuto da questo giovanotto allontana dalla seria applicazione all’arte piuttosto che avvicinare ad essa, Mr Gershwin

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annuncia che sta scrivendo alcuni Preludi per pianoforte (lui li chiama «Pre­ ludi jazz», naturalmente) che vorrebbe vedere affermati anche nel campo di quella musica che non è composta per i teatri di Broadway. E perché no? Ma si ricordi che allora la sua musica avrà da sostenere il confronto con altra musica pianistica. Personalmente ritengo il suo Rhapsody in Blue un pezzo fantastico. Que­ sto solo voglio dire: quando parlo di «pezzo fantastico» non intendo una splendida composizione. Ci sono cose che gli fanno davvero onore e l’idea di un Konzertstìick per pianoforte e jazz band era perlomeno insolita. L’astuto Walter Damrosch, che conosce il suo pubblico, trasgredì la regole fissate dalla tradizione commissionando il Concerto per pianoforte e orche­ stra. Come successo di cassetta mi si dice che il lavoro, con il compositore al pianoforte, fu un trionfo. Non avendolo sentito, né avendo esaminato la partitura, non sono in grado di esprimere il mio giudizio. Però vorrei chie­ dere se un compositore che avesse in precedenza prodotto materiale tema­ tico di non maggior valore di quello di Rhapsody in Blue sia stato mai prima di lui scelto dal direttore di una illustre orchestra sinfonica per fare quello che Mr Gershwin fu chiamato a fare. Penso di no. Mi si riferisce che l’esperimento non ha avuto successo sul piano arti­ stico. Il concerto di cui dicevo è soltanto in parte jazz. E neanche quella parte può funzionare in sede concertistica. Il jazz non è un fine, è un mezzo; è solo parte del percorso verso un traguardo. Se usato come vocabolario per comporre può essere allettante e utile, come ad esempio in Jazz Study per due pianoforti di E. B. Hill, un piccolo pezzo meritevolissimo di essere udito in concerto. Ma che si tratti di Eva Gauthier con un gruppo jazz nei suoi recital per il resto assai colti, o di Georgette Leblanc in un programma «da Bach al Jazz» (come quello che interpretò la scorsa primavera a Parigi); e che il pubblico si entusiasmi o meno ai loro numeri jazz (tale entusiasmo comunque si spiega facilmente rendendosi conto di quanta parte le contrad­ dizioni abbiano nella vita): tutto ciò è di nessun rilievo ed è soltanto cosa passeggera come lo stesso jazz. Il jazz è un irrequieto riflesso della vita vivace, ritmata, frenetica del ven­ tesimo secolo, pieno di turbamenti emotivi, di sentimenti non più repressi, di libertà da ogni inibizione, dell’ebbrezza di comportamenti non equilibrati, che tutti gli spiriti assennati riconoscono come cose transitorie. Con tutto ciò passerà il jazz, lasciando molto probabilmente la sua impronta su di noi, pur senza essere mai stata pienamente riconosciuta la sua appartenenza alla musica in senso artistico. Mentre è proprio quello che ha la pretesa di fare.

Se è vero che la strumentazione in uso nei complessi jazz (o orchestre, se preferite) gli ha conferito quel suo speciale colore, lo sviluppo (storico, per così dire) del jazz è un validissimo argomento contro l’idea che esso abbia qualcosa a che fare con la musica d’arte. Come si sa, i compositori scrivono da sé. L’autore di una sinfonia è un uomo la cui competenza e capacità di scrivere per l’orchestra si dà per scontata. E così è anche per i compositori di musica da camera, di opere, ecc. Invece pare che nel jazz quello che si è soliti chiamare «arrangiatore» sia il musicista del complesso, colui che prende lo schizzo del compositore jazz e scrive per esteso una partitura che,

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se egli è un Ferdie Grofé (è forse Ferdie il diminutivo jazz che sta per Ferdi­ nand?), sarà piena di abili effetti strumentali. E dunque la versione stru­ mentale dell’arrangiatore che si ascolta; e invece di applaudire lui, si applaude il compositore, che in questo caso deve aver fatto poco più che scrivere la melodia o... fischiettarla! Mr Grofé è l’autore di quegli arrangiamenti jazz cui generalmente ci si riferisce come questo o quel pezzo di Paul Whiteman. Tale situazione non esiste nel campo della musica d’arte. Ci sono stati diversi casi di sedicenti compositori (praticoni «al pianoforte») che assu­ mono musicisti con le carte in regola per orchestrare i loro lavori, perfino per scrivere correttamente la parte pianistica delle loro canzoni. Mi viene in mente anche un notissimo autore di operette, venticinque e più anni fa, che non scrisse una battuta per orchestra in tutta la sua vita, pur essendo ben disposto a farsi lodare per la strumentazione delle sue operette, stru­ mentazione realizzata da una mezza dozzina di validi musicisti di New York, Chicago, ecc. In quel caso si trattava di disonestà, mentre nel jazz al com­ positore non si richiede nemmeno di scrivere le partiture. Si dichiara aper­ tamente che l’orchestrazione di Rhapsody in Blue è di Ferdie e che il Con­ certo per pianoforte di Gershwin è stato sì scritto da lui, però orchestrato da qualcun altro. Quanto sia insolito per i nostri autori di musica leggera essere in grado di scrivere per orchestra si capisce dall’esempio di Paul Whiteman, di cui si racconta lo sbigottimento provato recentemente a Vienna, dove apprese che Lehar, Kàlmàn e altri fra i più importanti compositori viennesi di ope­ rette orchestravano essi stessi i loro lavori. Sicuramente qualcosa che per esistere dipende dall’aiuto di un composi­ tore non è una forma artistica più di quanto un gergo senza letteratura possa essere una lingua. Il jazz non solo dipende dall’aiuto di arrangiatori profes­ sionisti come Ferdie Grofé, il padre della moderna orchestrazione jazz, ma per di più non ha letteratura. Dopotutto, canzoni dalle commedie musicali di Broadway, o versioni di Minnetonka, At Dawning, o altre ballate popolari d’oggi non costituiscono una letteratura. E neppure i nostri compositori autentici riescono tanto bene quando tentano di dare un contributo al jazz (lavori di Deems Taylor e John Alden Carpenter sono stati inclusi nei programmi di Mr Whiteman grazie all’accorta orchestrazione di Ferdie, ma non ci sono prove che né l’uno né l’altro abbiano avuto almeno un po’ di successo). Non si può ballare un fox-trot sui movimenti lenti delle sinfonie di Bee­ thoven o di Brahms; e per la stessa ragione sono certo che non si può por­ tare in sala da concerto musica per sala da ballo o teatro di varietà. Non sarebbe al posto giusto. E per giunta temo che non lo sarà nemmeno dopo che ardenti difensori di questa passione dominante ci avranno spiegato in così ardenti apologie che il jazz fa bene a questo o quello. Mr Gershwin ci ha assicurato che fa bene al canto; io temo che si sbagli e che, secondo il verso della vecchia canzone, piuttosto faccia benissimo - come l’olio Omega - alle scarpe! Perché non lasciare il jazz all’ambito cui appartiene? Lì ha dato a milioni di persone il piacere più grande che esse conoscano. Ne sentiranno la man-

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canza se esso se ne va in cerca di un’altra dimora. Mentre l’arte della musica non ne sentirà affatto la mancanza se il jazz la smette di invadere inutil­ mente un territorio che è al di là dei suoi limiti oltre che totalmente estra­ neo alla sua natura.35 Nota redazionale36 A. Walter Kramer appartiene al gruppo ristretto ed esclusivo di compo­ sitori americani impegnati che sta guadagnando al nostro paese grande pre­ stigio musicale. Musicista che non scende a compromessi quando si tratta dei suoi ideali, Mr Kramer è eclettico nello stile, con netta propensione verso la scuola tedesca. Se proprio lo si deve classificare, forse la cosa migliore è definirlo un neo-romantico. [...] Come scrittore Mr Kramer ha collaborato alle più importanti riviste nel nostro paese e in Inghilterra. È stato il primo corrispondente americano del «Chesterian» di Londra, cui tuttora collabora. Nei suoi scritti ha pro­ pugnato la causa dei più seri compositori dei nostri giorni e ha speso anche parole appassionate a favore dei suoi colleghi americani. Mr Kramer non ha affatto in antipatia il jazz, ma, come egli stesso sostiene nell’articolo qui pubblicato, pensa che il jazz dovrebbe stare al suo posto; e prova indignazione per l’eccessiva importanza ad esso attribuita da parte di alcuni che dovrebbero mostrare più buon senso.

2.3. Elogio finale del genio creatore Non era ancora finita. Dopo il numero di settembre di «Singing» uscì in quello di ottobre una replica di Gershwin all’attacco di Kramer. Ferito nel suo orgoglio di compositore, George Gershwin, corretta qualche pic­ cola gaffe, è sobrio e conciso contentandosi di offrire ai lettori della rivista una prova inconfutabile del proprio sapere orchestrale e soprattutto del proprio operato: la fotografia di una pagina - la numero 70 per l’esat­ tezza - della partitura del suo Concerto in F> scritta di suo pugno. L’im­ magine reca la didascalia: «Mr Gershwin sottopone all’attenzione dei lettori un saggio del manoscritto del suo concerto, per dimostrare che è lui stesso a orchestrare personalmente le proprie composizioni». Il finale è affrettato: in primo luogo perché Gershwin si sta annoiando, dinamico com’è, e ha voglia di passare ad altro; in secondo luogo perché quello che più gli interessa è l’esaltazione del genio d’artista e della sua creatività. E l’essere un eccellente orchestratore, lui dice - ma è tutto il mondo dello spettacolo a ogni livello, anzi tutta la dimensione della spettacolarità a fare eco alle sue parole, di contro alla seriosità degli euro­ peizzati e dei colti, dei non dilettanti ma dei non geniali -, l’essere un eccellente orchestratore non garantisce in fondo la reale grandezza di un musicista. E George Gershwin lo afferma con generosa esibizione del già menzionato personal romanticism.

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Gershwin MR GERSHWIN REPLICA A MR KRAMER

Al Direttore di «Singing»:

Ho appena letto l’articolo di Mr A. Walter Kramer nel numero di set­ tembre di «Singing». Mr Kramer non ha affatto in antipatia il jazz; pensa soltanto - così dice - che il jazz dovrebbe «stare al suo posto». La cosa più penosa in ogni discussione sul jazz è la confusione terminolo­ gica, a quanto pare inevitabile. La parola “jazz” dovrebbe essere limitata a un certo tipo di ballabile. È stata usata invece per indicare così tante e diverse cose che ha cessato di avere alcun preciso significato. Ad esempio, ecco alcune delle svariatissime cose che ora vanno sotto il titolo di “jazz”: canzonette come Papa Loves Marnai adattamenti dei clas­ sici a ritmi di danza; Negro spirituals; perfino un valzer come 'Whafll I Do di Irving Berlin; Rhapsody in Blue, Qualcuno si spinge fino a etichettare come jazz il mio Concerto in F, in cui ho cercato di utilizzare certi ritmi jazz rielaborati secondo linee sinfoniche più o meno tradizionali.

Abbiamo bisogno di una nuova serie di parole per ognuna di queste cate­ gorie così divergenti, perché il dibattito sta oggi in gran parte degenerando in veri e propri cavilli su parole e definizioni. Lo stesso problema termino­ logico si presenta riguardo all’uso colloquiale dell’espressione “musica clas­ sica”, che significa tante cose quante sono le persone che la usano. Qual­ cuno scrive una composizione che considera impegnata, ma che di fatto è piuttosto scadente; la definisce “classica” e c’è sempre un pubblico fidu­ cioso che accetta la definizione. Dal punto di vista seriamente critico le etichette non significano proprio nulla. La buona musica è buona musica, anche se la chiamiamo “ostriche”. Mr Ernest Newman, che ha di recente denunciato il jazz in termini ine­ quivocabili, a quanto pare si riferiva soprattutto a riadattamenti di classici secondo ritmi ballabili. Udì Rhapsody in Blue l’anno scorso e scrisse: «La Rhapsody di Mr Gershwin è di gran lunga il lavoro più interessante nel suo genere che mi sia mai capitato di sentire. Senza dubbio vi sono idee, e per di più elaborate in modo tale da interessare all’ascoltatore che conosca la musica»37. In altre parole, quello che conta sono le idee, non l’etichetta che si dà alla forma. Mr Newman continuava: «Ma questo è davvero jazz? La Rhapsody sicu­ ramente comincia come jazz e di tanto in tanto nel suo svolgimento succes­ sivo si comporta come tale. Ma mi pare che si dimentichi di essere fedele al proprio nome per gran parte del tempo. Il jazz, in effetti, si sta adesso adeguando alla legge universale dell’evoluzione della musica. Perché tanti passi della Rhapsody suonano così alla Brahms? Non ci sarebbe da meravi­ gliarsi se fra cinque o dieci anni Mr Gershwin scrivesse musica classica. Quello che ora è certo è che egli ha scritto per orchestra jazz qualcosa che è veramente musica».

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Finché c’è una musica nota come “jazz”, che è capita e apprezzata da milioni di persone - alcune sono colte ma i più non lo sono -, il musicista dovrebbe almeno sapere che cos’è e che senso ha. La sua cultura musicale non è completa se egli si rifiuta perfino di riconoscere che essa esiste. Quando raccomandavo studi jazz ai cantanti intendevo dire soltanto che certi pezzi scritti in stile jazz farebbero loro assai bene dal punto di vista di ritmo e accento. In essi sono presenti alcuni elementi che non si possono trovare in altre canzoni o esercizi vocali. Ci sono un paio di questioni specifiche nell’articolo di Mr Kramer che vorrei puntualizzare. Egli ha completamente ragione quando dice che They Didn't Believe Me non è jazz. Neanch’io lo considero tale e il farne men­ zione nel mio articolo fu un errore nella trascrizione della mia dettatura che io non ebbi l’occasione di correggere a causa della mia partenza per l’Inghil­ terra. La canzone che avevo in mente era Everybody step di Irving Berlin, che per le sue interessantissime qualità ritmiche gioverebbe a ogni cantante, purché interessato a variazioni ritmiche per la voce. Mr Kramer mi fa un’ingiustizia affermando che il mio Concerto per pia­ noforte è stato orchestrato da altri. Rhapsody in Blue fu orchestrato da Fer• die Grofé, ma questo successe perché l’orchestra di Whiteman è un com­ plesso del tutto particolare. E tuttavia Mr Grofé lavorò sulla base di un abbozzo pianistico e orchestrale dettagliatissimo che già conteneva indica­ zione di molti colori dell’orchestra. Anche un ottimo orchestratore come Deems Taylor dette il suo Circus Days a Grofé perché l’orchestrasse per Whiteman. Il Concerto però è stato interamente orchestrato da me. Sarei lietissimo di avere un incontro con Mr Kramer, non appena gli è comodo, sì da esami­ nare con lui la partitura di questo Concerto. Forse interesserà ai vostri let­ tori osservare la riproduzione di una pagina del manoscritto originale. E, fra l’altro, le considerazioni di Mr Kramer sull’importanza dell’or­ chestrazione mi sembrano un po’ esagerate. Egli dice: «E la versione stru­ mentale dell’arrangiatore che si ascolta. E invece di applaudire lui, si applaude il compositore, il quale deve aver fatto poco più che scrivere la melodia». La Passacaglia di Bach era un pezzo bellissimo prima che Stokowski l’or­ chestrasse. Rimskij-Korsakov riorchestrò in gran parte il Boris Godunov di Musorgskij. Chopin è stato uno dei più grandi musicisti del mondo, eppure come orchestratore era assai mediocre. L’abilità nell’orchestrare è un talento indipendente dall’abilità nel creare. Il mondo è pieno dei più competenti orchestratori che in tutta la vita non sono capaci di scrivere quattro battute di musica originale. Per concludere, ancora una citazione da Mr Newman, un po’ tagliata per risparmiare spazio: «Non c’è valore in alcuna particolare forma musicale. Se si fosse scoperto solo qualche anno fa come scrivere l’arte della fuga, probabilmente sarebbe accaduto ciò che è successo al jazz: ognuno vorrebbe scrivere fughe e 999 su mille sarebbero pessime fughe. Non v’è salvezza per la musica in forme o mode o conventicole. V’è salvezza solo nei com­ positori».38

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Nota redazionale39

Nel numero di settembre di «Singing» il compositore americano A. Walter Kramer scese risolutamente in campo dichiarando che «il jazz non appar­ tiene» all’arte della musica. Il suo articolo era in risposta a uno precedentemente scritto da Mr Gershwin, che perorava a favore di una seria conside­ razione della musica sincopata. Mr Gershwin non gradisce scrivere e non ha voglia di prendere parte ad alcuna controversia tirata per le lunghe, che lo distoglierebbe dal suo mezzo espressivo, la musica, costringendolo alle fatiche della macchina per scrivere, con cui ha poca confidenza. La lettera che pubblichiamo sopra è, come lui stesso la presenta, soltanto la puntualizzazione di certe questioni sollevate da Mr Kramer. La sua vera replica alle critiche circa il proprio punto di vista sul jazz avrà luogo, lui afferma, in musica, con un gruppo di sei nuovi Preludi per pianoforte, che per la prima volta presenterà al pubblico nel recital con M.me d’Alvarez, nell’ambito della stagione al Roosevelt, il 4 dicembre.

3. La voce di quale anima americana?

3.1. Mitologia personale di un compositore Lo scritto che segue è collocabile non tanto fra gli articoli di George Gershwin quanto piuttosto nell’incalcolabile abbondanza di interviste, “confessioni aperte” del compositore, cui in ogni numero di giornale o rivista almeno dal 1924-25 fino alla sua morte si dedica spazio sterminato40. ]azz is the Voice of the American Soul si presenta come una serie di luoghi comuni, di antologia del già detto in un’ottica di com­ mercio della creatività. Tuttavia, poiché fu pubblicato sotto il nome di George Gershwin in una nota rivista dell’epoca, certamente corrispose a un’intenzione del compositore o almeno gli recò un non rifiutato servigio e lo proponiamo come ricapitolazione delle sue gesta, dei suoi successi, delle sue opinioni circa se stesso e il futuro della musica. Che poi si tratti di confessioni rapsodiche ricucite da un giornalista intervistatore o di un ennesimo monologo autopromozionale ha un peso molto relativo. IL JAZZ È LA VOCE DELL’ANIMA AMERICANA

Il punto culminante della mia camera non è stato, come pensano i miei amici e il pubblico, quando suonai il mio Concerto in F alla Carnegie Hall con la New York Symphony Orchestra sotto la direzione di Walter Damrosch. Quello fu un avvenimento che ben disposti biografi registrano come importante. E, con gratitudine e umiltà, posso dire che lo fu. Ma vi sono punti culminanti invisibili che anticipano quello visibile. Vi sono appagamenti spirituali che precedono quello materiale. Il culmine della gioia più intensa che si prova nel portare a compimento un lavoro fu per me quando ascoltai quel Concerto suonato dai cinquanta illustri musicisti che avevo assunto per l’occasione, Due settimane prima di quella serata in

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cui il Concerto fu eseguito alla Carnegie Hall, un pomeriggio se ne tenne un’audizione al Globe Theatre. Charles Dillingham aveva permesso che avesse luogo nel suo teatro. Ne ebbi piacere; non, come disse uno dei miei cari maliziosi amici, nel modo in cui il folle re Ludwig godeva della musica di Wagner, essendo lui solo il pubblico del suo teatro. C’erano infatti Mr Damrosch e una decina d’altri che io desideravo udissero la mia musica. Quat­ tro di loro erano critici musicali; gli altri, amici personali. Fu allora che udii con le mie orecchie il mio lavoro più impegnativo. In tale occasione io stesso ero al pianoforte e ascoltavo, per così dire, attraverso il molteplice orecchio del pubblico. Un altro culmine sarà questa sera: proprio lo stesso giorno in cui preparo queste impressioni per «Theatre Magazine», con la New York Symphony Orchestra suonerò per la radio e per un milione di ascoltatori la mia più importante composizione. L’anno scorso, quando suonai alla Carnegie Hall il mio primo Concerto, avevo ventisette anni. Componevo musica da otto anni, perciò non rimasi del tutto sorpreso quando grandi musicisti si avvicinarono al pianoforte e si complimentarono con me per le mie fatiche di compositore. A farmi sor­ ridere di stupore fu comunque il fatto che tutti loro, Rachmaninov, Hei­ fetz, Hoffman, mi fecero i complimenti per l’esecuzione pianistica. Perché io avevo studiato il pianoforte solo per quattro anni e neanche con celebri maestri. La mia abilità non proviene dall’insegnamento ricevuto, ma da un’a­ bitudine che ho coscientemente praticato fino dalla mia prima adolescenza. Mi riferisco alla mia abitudine all’intenso ascolto. Ero stato ai concerti e avevo ascoltato non solo con le orecchie, ma con i nervi, con la mente, con il cuore. Avevo ascoltato la musica con tale fervore da esserne compietamente pervaso. Poi tornavo a casa e ascoltavo nella memoria. Mi sedevo al pianoforte e ripetevo i motivi; stavo acquistando coscienza di quello di cui sarei stato in seguito l’interprete: l’anima del popolo americano. Nato a New York e cresciuto fra i newyorkesi, ho sentito la voce di quel­ l’anima. Mi parlava per strada, a scuola, a teatro. La sentivo nel coro dei suoni della città. Sebbene di famiglia russa, a tale origine non devo alcuna sensibilità per la musica: nessuno in famiglia vi ha mostrato interesse salvo mio fratello Ira e me. Dovunque andassi udivo convergere una molteplicità di suoni. In gran parte essi non potevano essere uditi dai miei compagni, perché io li sentivo nella memoria: melodie dall’ultimo concerto, i cigolanti motivi di un orga­ netto, la cantilena di un cantante di strada sull’obbligato di un violino scas­ sato. Musica passata o presente, tutto ciò udivo dentro di me. Vecchia musica e nuova musica, melodie dimenticate e quelle di gran moda, brani d’opera, canzoni popolari russe, ballate spagnole, chansons, can­ zonette in ragtime si univano in un coro di grande potenza nel mio orecchio interiore. E in tutto ciò e al di sopra di tutto ciò udivo, con suono dapprima debole, forte alla fine, l’anima di questa nostra grande America. E qual è la voce dell’anima americana? È il jazz in cui è confluito il rag­ time, il jazz che è il canto delle piantagioni perfezionatosi e sviluppatosi in armonie più raffinate ed evolute.

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Lo spirito americano si esprime attraverso i4‘canti dei negri”? Noto un’e­ spressione di scherno. Oh, sento la derisione dei saccenti. Io rispondo di sì, che include anche quelli. Ma è di più. Non sto affermando che l’anima americana sia negra. Però essa è una combinazione che include il lamento, il pianto e la nota d’esultanza dei vecchi canti delle balie del sud. E negra e bianca. E tutti i colori e tutte le anime, uniti nel grande crogiolo del mondo. Suo segno dominante è il palpitante ritmo sincopato. Se fossi un asiatico o un europeo che un aeroplano all’improvviso avesse fatto atterrare su questo suolo e ascoltassi con vergine orecchio il coro dei suoni dell’America, direi che la vita americana è nervosa, affrettata, sempre in accelerando; e lievemente volgare. Userei la parola “volgare” senza inten­ zioni offensive. C’è una volgarità che è novità. E essenziale. Il charleston è volgare; eppure ha una forza e una materialità che sono aspetti essenziali di questa sinfonia di suoni. Quando mi resi conto, al di là di ogni possibilità di errore e anche di ogni necessità di ritrattazione, che la voce dell’America, l’espressione della sua anima, è il jazz, mi sentii pieno di determinazione a fare il meglio possi­ bile esprimendomi in quel linguaggio. Il jazz è giovane: non ha più di dieci anni. Il ragtime è morto. Era morente quando il mio orecchio cominciò a intonarsi alla voce dello spirito americano. Iniziai a scrivere canzoni. La prima che pubblicai fu When You Want 'Em, You Can't Get 'Em, il cui titolo era allora singolarmente espresso in forma non abbreviata. Avevo diciassette anni quando l’offrii a un mondo indifferente. L’editore per il quale lavoravo mostrò di apprezzarne i meriti decidendo di pubblicarla. Poi però la casa editrice di Von Tilzer accettò anche di pubbli­ care la mia seconda canzone, dal titolo You, Just You, La prima ad accontentare l’innamorata che noi tutti corteggiamo/la ritrosa damigella Miss Pubblico, fu 1 Was So Young - You Were So Beautiful. Mollie e Charles King, il duo canoro di fratello e sorella, la cantarono nella versione musicale di The Magi­ strate, dal titolo Good Morning, Judge. Il mio primo “show”, La La Lucìlie, fu rappresentato quando avevo vent’anni. Fu allo Henry Miller Theatre. La migliore canzone che ho scritto, stando all’accoglienza ricevuta, è stata Swanee, cantata da Al Jolson. Mr Jolson la inserì in Sinbad. Ho composto la musica per ventidue commedie musicali, delle quali la penultima, risa­ lente a oltre due anni fa, è Lady Be Good e l’ultima - e la più popolare Oh, Kay! Della mia carriera nell’industria dello spettacolo non mi vergo­ gno. La mia media è all’incirca di tre commedie musicali l’anno. Continuerò a scriverne. Esse rendono possibile prendere il volo - come farò dopo avere scritto questa - per una vacanza di riposo a Lake Placid o agli Adirondacks. Il mio lavoro è gradevole e redditizio; ma al confronto con le mie composizioni che più gratificano la ricerca interiore c’è la stessa differenza che fra pezzi cantati da Al Jolson e da un Caruso. Tale afferma­ zione non scredita Mr Jolson: nel suo regno egli è sovrano. Ma chi crea ha gran desiderio di scrivere qualcosa che valga la voce di un sommo maestro del canto. Dunque i miei lavori migliori sono Rhapsody in Blue e Concerto in F. Rhapsody in Blue rappresenta ciò per cui mi sono tanto impegnato fino dalla

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mia prima composizione. Volevo mostrare che il jazz è un linguaggio da non limitare a una semplice canzone con il ritornello che si esaurisse nel corso di un’esecuzione che dura tre soli minuti. La Rhapsody è un lavoro più esteso: l’esecuzione richiede quindici minuti. Il pezzo include più che del materiale ballabile. Sono stato capace di mostrare che il jazz non è soltanto un ritmo ballabile, che anzi comprende contenuti e scopi più nobili. Può assumere un piglio epico. La scrissi in dieci giorni; ha già tre anni e gode di sempre miglior salute. Non so quali rivelazioni i prossimi dieci anni ci riserveranno nella musica. Nessun compositore lo sa. Ma la musica per essere autentica deve esprimere i pensieri e le aspirazioni del proprio popolo e del proprio tempo. Il mio popolo è quello americano, il mio tempo è l’oggi. Del domani, e del mio domani, io - quale interprete, attraverso la musica, della vita americana sono sicuro di una cosa sola: che la musica futura manterrà nella sua essenza la melodia e l’armonia d’oggi abbastanza da poterne riconoscere l’origine. Conterrà sicuramente qualche traccia di ciò che era deriso ieri, che è stato accettato oggi e che forse sarà esaltato domani: il jazz.41

3.2. Gli anni 1927-1929. Ancora sul jazz L’anno 1927 trova Gershwin che già figura sulle pagine di libri al tempo molto noti, da So This is Jazz di Henry O. Osgood42 a Are They the Same at Home? di Beverley Nichols43. Il lavoro di Osgood, se certo non fu in maniera totale quel «primo tentativo» di ricostruzione di ori­ gine, storia, sviluppo e affermazione del jazz quale egli lo riteneva, oltre ad avere valore documentario e storico indubbio come pezzo d’epoca, risulta pertinente in questo contesto; giacché tra i tanti e tanti osservatorii da cui considerare il jazz, con il suo significato e la sua origine, Osgood è situato in quello dal quale veniva naturale capire Gershwin come lui stesso voleva essere capito e apprezzarlo condividendone i punti di vista. Gershwin è «la Speranza Bianca»44 in una dimensione - quella del jazz - di matrice nera, che accoglie in sé tutto ciò che di veramente originale l’America abbia prodotto nella musica. In questo libro si dedica ampio spazio a Gershwin, per la prima volta. E se non è l’unico punto di vista sul jazz, è senz’altro quello più allineato. Rhapsody in Blue e Concerto in F sono in quest’ottica «tentativi esemplari e riusciti di inne­ stare sul grande tronco della musica sanzionata ramoscelli di quel vigo­ roso arbusto che è l’unico contributo musicale dotato di vera originalità prodotto dall’America: il jazz»45. Siamo in una prospettiva di concilia­ zione fra il concetto di * ‘classico” - eurocentrismo culturale e stratifi­ cazione storica di valori approvati - e quello di “folk” - naturalezza di energie nuove, tutte da esplorare, provenienti dalla cultura afro­ americana - sulla via del conseguimento di un bilancio indubbiamente comodo o addirittura di un autentico sfruttamento culturale se lo si con­ sideri da parte di quegli spettatori più radicali o finanche estremisti che il passare del tempo e le distanze storiche hanno sostenuto e legittimato.

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Non era comunque quest’ultimo il punto di vista di Gershwin. Il libro di Osgood valorizzava l’opera del compositore scoprendola al crocevia fra la dimensione della spettacolarità leggera americana, quella, carica di storia, della musica “seria” e le tradizioni popolari finalmente elevate a durabilità. Ed era appunto ciò cui Gershwin dal canto suo mirava. Se un libro di questo genere non si spingeva troppo in profondità ed era fortemente com­ promesso in una certa direzione, era segno comunque di un riconosci­ mento ufficiale a Gershwin e alla sua peculiare posizione di musicista. Dall’altro libro menzionato, quello dello scrittore inglese Beverley Nichols, balza la figura di un Gershwin sentito e reso con immaginosa pertinenza (rispetto alla visione da lui fornita di se stesso): «[...] mentre lo ascoltavo sembrava che la giovane America sbocciasse dinanzi ai miei occhi nella sua interezza. Le frasi scivolavano sulla tastiera con la stessa grazia severa e risoluta di un grattacielo»46. In quel tempo Gershwin si trovava a Londra per la rappresentazione di Lady, Be Good! Seguirono nello stesso anno il soggiorno parigino, la composizione della prima politicai operetta, Strike Up the Band, e del musi­ cal Bunny Face. Il 26 luglio George Gershwin apparve per la prima volta in un concerto al Lewisohn Stadium di New York City davanti alla folla di molte migliaia di spettatori. Il 1928 fu l’anno del tour europeo per i Gershwin47 e, continuando con l’espugnazione di spazi consacrati alla musica “seria”, di An American in Paris, eseguito alla Carnegie Hall il 13 dicembre sotto la direzione di Walter Damrosch sul podio della New York Symphony Orchestra. Sarebbe ripetitivo insistere sull’accoglienza della critica, che fu, salvo oscillazioni lievi, la stessa che per tutte le com­ posizioni “serie” di Gershwin. Procedeva frattanto la produzione a getto continuo di musical48. Il compositore aveva inoltre incominciato a dipingere e a sentire che tale attività non era poi così marginale nella sua vita artistica. Si iniziò anche la passione del collezionare pregevoli opere altrui, fino alla raccolta di un vero museo privato selezionato secondo un gusto indiscutibile.

4. Funzione dell’arte nell’Era della Macchina. Musica in bilico fra calcolo ed emozioni

4.1. Ombre e luci dell’impero economico. Gli anni della Grande Depressione

L’ottobre del ’29 con il crollo di Wall Street vede senza più coper­ ture né illusioni la protagonista della situazione americana di quel momento e di molti a venire: la Grande Depressione. La crisi econo­ mica investe presto anche l’Europa, mentre si compie l’ascesa di Hitler al potere. La disoccupazione diventa sempre più preoccupante. Al tempo

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stesso il mito del grattacielo come sintesi dell’energia e della modernità dell’America - in una fase in cui America significa soprattutto New York con l’alta tensione e velocità che ne contraddistinguono la vita -, il mito del grattacielo come miracolo della tecnica e dell’ingegneria pro­ segue fino al parossismo: la costruzione dell’Empire State Building è ulti­ mata nel 1931. I Gershwin, nonostante qualche piccola perdita finanziaria, soprav­ vissero più che bene: molto lavoro, successo, l’avvio del rapporto con Hollywood e il mondo del cinema. Il 1930 vide andare in scena la riscrit­ tura di Strike Up the Band49 e il musical Girl Crazy dai molti hit. Non solo: George Gershwin aveva firmato il 30 ottobre 1929 un contratto con il Metropolitan per la composizione di un’opera. Se Ziegfeld con il suo mondo variopinto era stato spazzato via dal crollo della borsa, i Gershwin avevano abbondantemente di che vivere e tenersi occupati. Per l’opera il compositore aveva in mente un folktale ebraico, The Dybbuk, che poi come opera da lui non fu realizzato mai. È però interes­ sante che si trattasse di un folktale. La situazione economica dei Ger­ shwin era tale, dunque, che essi potevano permettersi’ di dedicarsi a un’opera invece di comporre songs usa e getta per consolare la gente e fare prontamente affluire denaro.

4.2. L'Era della Macchina: caos o rivolta? LA RIVOLTA

In questa epoca di cambiamenti improvvisi e violenti ci confrontiamo di frequente con la necessità di adattarci alle conseguenze di un evento prima di essere stati regolarmente avvertiti dell’evento stesso. Se per i nostri pre­ decessori un tale sistema di vita e di lavoro sarebbe stato disagevole, noi ci siamo adattati a questo regime, a quanto pare inevitabile, al punto che abbiamo imparato da soli a renderci conto in un baleno della nuova situa­ zione, a prendere con essa repentino contatto e tirare avanti. Non appena abbiamo fatto la pace con la radio e ci siamo adattati alle strane circostanze che essa ha introdotto nella nostra quotidianità, ecco che ci troviamo a fron­ teggiare la televisione e la necessità di un ulteriore assestamento. Allo stesso modo altre invenzioni, ipotesi scientifiche, teorie economiche, filosofie popo­ lari, panacee politiche e infatuazioni estetiche sfilano in processione, Puna alle calcagna dell'altra, finché talora ci viene voglia di starcene in disparte assumendo un atteggiamento di blanda indifferenza e aspettare che i conti­ nui mutamenti di scena si compongano in qualcosa di stabile e ordinato, qualcosa su cui si possa contare. Ma non c’è modo di starsene in disparte. Noi stessi siamo parti organi­ che di questo caos avvolgente, destinati a roteare nel suo turbine vorticoso finché moderni profeti usciti proprio dai nostri ranghi non escogiteranno modelli, sentieri, significati e motivi nuovi e convincenti, orientamenti ori­ ginali in un mondo che ha perduto molti se non tutti i vecchi punti di riferi­ mento. Intanto, in attesa di vedere nascere una filosofia della vita che sia

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nuova e di valore durevole, una nuova cosmogonia rivelatrice, finanche una nuova e vincolante religione, conviene che ognuno di noi per la pace del suo spirito vada tentando d’inventarsi percorsi in quel punto, del caos in cui gli è capitato di trovarsi e se quei percorsi su cui si è mosso a tentoni gli garantiscono una qualche sicurezza e consolazione, condividerli con altri. In quanto condivisione di esperienza, in quanto risultati di una ricerca e non alcunché di dogmatico, definitivo o profetico, queste note mie e dei miei collaboratori non sono rivolte a un ristretto pubblico di addetti ai lavori. In tale ottica di provvisorietà e sperimentalismo, propongo di convenire che: arte è ciò che l'immaginazione umana concepisce e la mano umana costruisce servendosi di parole, suoni, colori, forme e sostanze materiali per suscitare le emozioni umane o l'umano intelletto, ovvero le une e l'altro, in modo tale da riprodurre nell'ascoltatore o nello spettatore uno stato emozionale o mentale, ovvero l'uno e l'altro, simile a quello di cui lo stesso artista ha avuto esperienza. Diversamente dalla maggior parte delle precedenti rivoluzioni artistiche, l’attuale sconvolgimento non è una sorta di artificiale “tanto rumore per nulla”. Le sue ramificazioni hanno un’estensione quasi universale. Pochi però sono pienamente consapevoli del fatto che ben poca gente è immune dalle conseguenze di questa rivolta, tanto è radicata l’idea tradizionale che l’arte non abbia molto a che fare con quello che succede all’umanità. Troppi fra noi vanno ancora avanti vittime dell’impressione ereditaria che l’arte si addica a chi ha tempo, abilità o risorse per crearla o recepirla, che dopo­ tutto però sia un lusso. Ma come tanti altri lussi dei nostri padri e dei nostri nonni, l’arte ci è divenuta necessità. Attraverso i mezzi di distribuzione della nostra Era della Macchina, essa è a tal punto penetrata nei più remoti recessi della nostra quotidianità, da esserci più indispensabile di religione, politica o sport, e seconda solo ai bisogni fondamentali di cibo, riparo e sesso.50

E l’inizio della prima parte, scritta dallo stesso Sayler, del volume da lui curato, Revolt in the Arts, pubblicato nel 1930, in cui figura il più noto forse fra gli scritti di Gershwin, intitolato The Composer in the Machine Age. Oliver M. Sayler, nato nel 1887, era uno storico del teatro, in particolare modo del teatro russo51. Il volume da lui curato sulla “Rivolta” nell'arte dell’Era della Macchina comprende nella seconda parte scritti di rappresentanti delle varie arti, riunite in due gruppi: visuali­ uditive e grafiche-plastiche. Una galleria di celebrità: da Belasco a Lillian Gish, da Martha Graham a Louis Bromfield, dal professor Phelps a Frank Lloyd Wright, tutti concordano anche se con sfumature diverse Lillian Gish ad esempio fa naturalmente un elogio del cinema muto -, sulla seguente tesi: è scorretto pensare che la moderna meccanizzazione uccida Parte; l’arte si adatta a nuove tecniche e mentre quello che vale sopravvive, il resto fa rumore per un po', quindi scompare presto. Al contrario i mezzi meccanici recentemente introdotti facilitano diffusione e comprensione dell’arte e ne ampliano la conoscenza a ogni livello della scala sociale, fino alla penetrazione nel quotidiano dell’utente più sem­ plice e meno fornito di preparazione specifica. La macchina svolge per­ fino una precisa missione in campo artistico, in quanto mezzo di selezione

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“naturale” sovrapponendosi alla natura stessa, con la quale il rapporto si presenta modificato nel moderno tessuto urbano: il mediocre è schiac­ ciato dalla macchina, che sostituisce il gesto umano ripetitivo e mecca­ nico, puramente imitativo; potenzia invece la voce della creatività che nessun mezzo meccanico potrà mai soppiantare52. Per inquadrare questi contenuti, come si è visto fu necessario per prima cosa personalizzare, in qualche modo finanche personificare, P allora attuale “Rivolta” che sconvolgeva il sempre precario assetto artistico, conferendole presenza di personaggio vivo e operante, l’Era della Mac­ china. Personificazione che da sola spiega la presunta (e certo anche reale) peculiarità della “Rivolta” del ventesimo secolo: se è vero che tutta la storia di tutte le arti è sempre stata una “rivolta”, PEra della Macchina si imponeva per attualità e unicità. Ci fu anche bisogno di appellarsi a una filosofia semplificatrice, i cui echi e rimandi non sono difficili da identificare in certe tendenze del pensiero contemporaneo (John Dewey per esempio), fino a definire Parte: immaginazione, abilità, coinvolgi­ mento emotivo, capacità di trasmissione dell’esperienza creativa. L’arte è però nel ventesimo secolo una entità nuova, è alla portata di tutti. La tesi del libro è che questo apparente caos sia in realtà rivolta mirata a un miglioramento delle^condizioni sia dell’artista sia del pubblico frui­ tore dell’opera d’arte. E insomma, in un’ottica ottimistica, incessante progredire verso il meglio. Ed è in questo contesto che le infinitesimali implicazioni della rivolta penetrano i più ardui problemi di quel presente, offrendo aiuto per vedervi chiaro. La non esistenza di una posizione di osservatore passivo mostra da sé che PEra della Macchina esige com­ pleto coinvolgimento. Data la natura quasi incessante di questi sconvolgimenti estetici e poi­ ché un armistizio o pace senza vittoria prevaleva fra teatro e cinema piutto­ sto di una conquista decisiva, come pure fra musica prodotta e musica ripro­ dotta, è forse naturale che i presagi di una nuova, universale, catastrofica rivoluzione nelle arti sarebbero stati generalmente sottovalutati. Possono ancora esserci alcuni che credono di potersi permettere una posizione di com­ piacente neutralità. Ma come il conflitto raggiunge l’apice e già si profila il tavolo dei negoziati, il diritto a prendervi parte supera verosimilmente i vantaggi della neutralità. Fu durante la settimana di Natale del 1929 che questa nuova rivolta cominciò ad essere senza più finzioni riconosciuta come inevitabile se non già esistente. Presagi ce n’erano da un anno o più, presagi cui una civiltà dal passo meno affrettato avrebbe posto attenzione. Ma è vero che una civiltà dal passo meno affrettato non li avrebbe mai generati. Figli di un’epoca sem­ pre più indaffarata, essi attirarono attenzione limitatamente alle loro sfere, come nuovi inquilini in un condominio, senza che alcuno rivelasse i nessi esistenti fra loro e un significato globale. Quei presagi erano prevalentemente economici. Se di carattere estetico, erano pertinenti al lato meccanico e tec­ nico dell’estetica piuttosto che a quello spirituale, inclinando così anch’essi

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all’aspetto economico. E presagi economici lasciano presagire minacce peg­ giori che non quelli estetici, proprio perché più inflessibili e di più vasta portata nelle loro implicazioni. Aggrediscono la vita, la vita tutta, nel suo nucleo primordiale. Contro di loro non v’è resistenza che tenga.53

4.3. Arte urbana. «Una scienza delle emozioni» Charles Schwartz, nella monografia su George Gershwin che nel 1973 s’impose come tentativo di interpretazione globale della personalità e della produzione musicale del compositore - soprattutto della personalità, e soprattutto degli aspetti più contraddittorii e inquietanti di essa dà spazio all’osservazione dello scritto con cui Gershwin contribuì al volume curato da Sayler54, peraltro generalmente considerato con occhio attento e, unico fra i negletti articoli di Gershwin, ripubblicato più e più volte. Schwartz esamina l’articolo nel capitolo intitolato The Perennial Troubadour, il cui significato sostanzialmente è questo: Ger­ shwin era a suo agio solo quando parlava di sé e della propria musica, però le sue baldanzose affermazioni in materie di cui egli non era com­ petente non risultano convincenti. I suoi nessi sono definiti «semplici­ stici»55. Certo, Gershwin non era un pensatore di professione e passi dell’articolo come quelli esaminati da Schwartz (la questione delle rea­ zioni fisiche alla vibrazione musicale che potrebbero essere sfruttate con beneficio dalla medicina; gli uomini dei bassifondi e i malviventi anch’essi amanti della musica...) dinanzi a quel certo tipo di indagine crollano mise­ ramente rivelando «mancanza di capacità di giudizio»56. Diversamente il lavoro si presenta non solo pertinente al contesto in cui è collocato, ma perfettamente centrato rispetto al taglio interpreta­ tivo, allo stile e ai contenuti del volume curato da Sayler, cui lo accomu­ nano forze di coesione quali: ottimismo delle vedute e prontezza a cogliere la positività del nuovo, flessibilità dinanzi a una realtà che muta e spi­ rito conciliatore fra alti ideali e quotidianità con innegabili tendenze al comodo. E ben individuabile un substrato “filosofico” per non specia­ listi, propaggine ultima della capillare penetrazione pragmatista in un tessuto la cui permeabilità veniva accentuata da una attiva componente compromissoria. E tali sono i parallelismi fra i due autori che - oltre a segnalare, laddove più si insiste sull’autobiografico gershwiniano, la ripetizione del già detto nei precedenti scritti - le corrispondenze si possono anche visualizzare, come è stato fatto nella pagina a fronte (viene riportato nella colonna sinistra il testo di Gershwin spezzato per evi­ denziare la corrispondenza con i relativi brani di Sayler riportati nella colonna destra. Le parti giustapposte sono in carattere corsivo):

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Arte e Business: la “doppia vita" di George Gershwin e le due anime dell’America IL COMPOSITORE NELL’ERA DELLA MACCHINA

Senza dubbio la musica americana moderna è stata influenzata dalla mo­ derna musica europea, Però mi sembra che i compositori europei moderni, a loro volta, abbiano ricevuto gran parte dei loro stimoli, ritmi e impulsi dal­ l'America dell'Era della Macchina. Es­ si hanno una tecnica musicale di tra­ dizione molto più antica, che li ha aiu­ tati a tradurre con un po ' di chiarezza in termini musicali i contenuti che sono nati qui. Sanno, esprimersi con maggiore scioltezza. L’Era della Macchina ha praticamente influenzato tutto. Non in­ tendo dire solo la musica, ma tutto, dalle arti alla finanza. La macchina non ha tanto inciso sulla nostra epoca influenzando la forma, quanto il tempo, la velocità, il suono. Essa mo­ stra la sua influenza sul suono ogni volta che i compositori si servono di nuovi strumenti per imitarne i vari aspetti. Nel mio American in Paris ho usato quattro trombe di taxi per creare un effetto musicale. George Antheil ha usato di tutto, compresi eliche di aeroplani, campanelli, tasti di macchine per scrivere, e così via. Possiamo inoltre usare i vecchi stru­ menti per ottenere effetti moderni. Prendete una composizione come Pacific 231 di Honegger scritta per una locomotiva a vapore e ad essa dedicata. La musica riproduce com­ pletamente l’effetto di un treno che si ferma e riparte, eppure impiega soltanto strumenti tradizionali.

La macchina ha influenzato la forma della musica in maniera notevo­ lissima nelle opere di Gershwin, Car­ penter, Antheil e Ornstein. Ma strana­ mente la macchina sembra avere stimolato l'immaginazione di compo­ sitori europei più che l'immaginazione nostra. Recenti stagioni teatrali ci hanno fornito esempi come “Jonny Spielt Auf di Kfenek”, “Maschinist Hopkins” di Max Brand e “Schwarze Orchidèe” di Eugen d'Albert. Può darsi che la macchina abbia sopraffatto loro meno che noi. Forse la macchina è musica per noi. E arduo comprendere perché l'americano tolleri l'incessante sviluppo ritmico del nostro rumore urbano se si esclude che gli piaccia veramente.57

L'unica cosa importante nella musica sono le idee e il sentimento. Le diverse tonalità e i diversi timbri non hanno significato se non nascono dalle idee. Non molti compositori hanno

Finora l'arte dell'Era della Mac­ china, sia che utilizzi la macchina in quanto contenuto, sia che la utilizzi in quanto forma, ovvero in entrambi i modi, si è generalmente accontentata

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idee. La maggior parte di loro sa usare strumenti strani, ma per questo non c'è bisogno di idee. Chi abbia idee e ispi­ razione scrìverà la grande musica del nostro tempo, Noi stiamo arando il ter­ reno per quel genio che forse già esiste o che può nascere oggi o domani. Se già vivesse, si potrebbe riconoscere come tale fino a un certo punto, però sarebbe impossibile per il grande pub­ blico distinguerne subito la vera gran­ dezza. Prendiamo un compositore come Bach: in vita fu riconosciuto come uno dei più grandi organisti del mondo, ma non fu acclamato come uno dei più grandi compositori del suo e di tutti i tempi se non diverse genera­ zioni dopo la sua morte.

ma con curiosità divorante essa ha preso la macchina, l'ha maneggiata, l'ha liquidata. Di tanto in tanto si è spinta fino a esprìmere riguardo alla macchina un commento, un giudizio, di solito dal punto di vista proletario. Ma siamo ancora in attesa di qualcosa che ne sia interprete davvero, qualcosa che giustificherebbe il termine profezia. Se accadrà - e accadrà, in quale delle arti per prima però nessuno può pre­ dirlo - cominceremo a raccogliere i primi preziosi frutti artistici adoperando proprio il suo terreno caotico per la risoluzione del caos. Un'arte così autenticamente profetica può servirsi in maniera realistica dei tempi, dei rit­ mi, delle immagini della macchina, o trasporre quei valori in termini che non ci possiamo nemmeno immagi­ nare. Ma allorché si manifesterà, l'arte in quanto interpretazione giustificherà se stessa, sia che accetti, condanni o tra­ sformi l'Era della Macchina da cui ha tratto vita.58

Non credo possa esistere una com­ posizione musicale meccanica senza sentimento, senza emozione. La musica è un'arte che ci tocca direttamente attraverso le emozioni. Meccanismo e sentimento dovranno procedere di pari passo, così come un grattacielo è al tempo stesso trionfo della macchina e straordinaria esperienza emotiva, quasi mozzafiato: non solo la sua altezza, ma anche la massa e le proporzioni sono il risultato di un'emozione, oltre che di un calcolo,

Nessuna fra le arti è paragonabile alla musica nell'essere universalmente accettata e praticata in quanto arte. Essa tocca direttamente le nostre emo­ zioni e, attraverso di esse o spesso anche direttamente, il nostro intelletto. [...] Dopo tutto, il contatto quasi esclusi­ vamente mentale con la scienza è proprio ciò che ci lascia bisognosi di qualcos'altro. Comprendiamo, siamo incitati all'azione o spinti alla rasse­ gnazione con più prontezza e profon­ dità, se non con più esattezza, attra­ verso le emozioni che attraverso l'in­ telletto. 59

Ogni dibattito sulla distinzione fra presentazione e rappresentazione in musica si risolve in un tentativo di determinare i relativi valori di musica astratta e musica a programma. È per

Non molto tempo fa c'era una scuola di crìtica a livello sia professio­ nale sìa popolare pronta a insistere affinché l'opera abbracciasse l'enne­ sima presunta riforma dell'interpreta­

te

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tutti difficilissimo dire dove comincia la musica astratta e finisce la musica a programma. Dev'esserci stata Vimma­ gine di qualche cosa nella mente del compositore. Ma la musica ha la mera­ vigliosa facoltà di imprimere un'imma­ gine nella mente di qualcun altro. Nel mio caso, chiunque abbia mai ascoltato Rhapsody in Blue - e si trat­ ta di migliaia di persone - fa ad essa corrispondere una storia, me escluso, “An American in Paris" è ovviamen­ te musica a programma, sebbene si possa dire che metà di essa o anche di più sia musica astratta tenuta in­ sieme da qualche tema rappresenta­ tivo. L’imitazione non porta mai nes­ suno da nessuna parte; l’originalità è l’unica cosa che conta. Colui che crea però si serve di materiale e idee che sono intorno a lui e lo penetrano. Dalla sua esperienza nasce l’origi­ nalità della sua creazione o opera d’arte, la quale è indubbiamente in­ fluenzata dal contesto, da quei feno­ meni cui in larghissima misura appar­ tiene ciò che chiamiamo l’Era della Macchina.

zione realistica. Fu quando il realismo era rampante nel teatro. Ora che un pedissequo realismo ha invece perduto presa sul teatro, ora che ci rendiamo conto di quanto il teatro può essere più entusiasmante se cerchiamo come inter­ preti di presentare la vita piuttosto che rappresentarla, è giunto il momento di ammettere che il realismo assume nel teatro lirico un ruolo ancora minore e che la stilizzazione può perfino essere elevata a un livello più alto nell'opera che nel teatro, grazie ai più cospicui mezzi tecnici ed espressivi dell'opera stessa.60

E difficile determinare a quali du­ raturi valori, da un punto di vista estetico, il jazz ha dato il suo contri­ buto, perché jazz è una parola che è stata usata per almeno cinque o sei diversi tipi di musica. E in verità è un conglomerato di molti elementi: c'è qualcosa del ragtime, del blues, del classico e degli spiritual. Fondamental­ mente è una questione di ritmo. Dopo il ritmo, per ordine d'importanza ven­ gono gli intervalli, gli intervalli musi­ cali che sono tipici di quel ritmo. In fondo non c'è niente di nuovo nella musica. Sostenevo anni fa che c'è pochissima differenza nella musica di differenti nazioni: c'è appena quel pic­ colo tocco di individualità. Un paese può preferire un particolare ritmo o un

Coloro che guardano ancora con sgomento alle conquiste della musica meccanizzata farebbero bene a ricor­ dare la sorte degli immusoniti critici del jazz quando quel primogenito fra i figli musicali dell'Era della Macchina per­ corse come un fulmine l'America e il mondo intero. Ogni arte ha i suoi ora­ coli di sventura e la musica è più per­ seguitata da loro che non le altre arti, semplicemente perché occupa una posi­ zione più universale nelle vicende umane. Già ora è chiaro che l'arte della musica è sopravvissuta all'età del jazz; che il jazz è stato scritto senza mezzi termini e accettato senza riserve da uno strato sociale del tutto nuovo, chiara­ mente perché era musica semplificata a costo dell'appiattimento; che quello

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intervallo come quello di settima; su ciò pone l’accento e tali elementi fini­ scono per identificarsi con quella certa nazione. In America il ritmo prescelto si chiama jazz. Jazz è musica', usa le stesse note che usava Bach. Quando lo si esegue in altre nazioni, viene chia­ mato americano. Quando lo si esegue in un altro paese suona falso. Il jazz è il risultato delle energie immagazzi­ nate dall’America. E un genere di musica molto energetica, rumorosa, impetuosa e perfino volgare. Una cosa è certa, il jazz ha dato davvero all’A­ merica un contributo di valore dura­ turo: ha espresso quello che noi siamo. E una realizzazione originale ameri­ cana che durerà, non sotto forma di jazz forse, ma in qualche modo lascerà il segno nella musica futura. Gli unici tipi di musica che durano sono quelli che possiedono una forma nel senso universale, e la musica popolare. Tutto il resto muore. Ma indubbia­ mente si scrivono e sono state scritte canzoni popolari che contengono intra­ montabili elementi di jazz. Certo, esso è solo un elemento, non è tutto. Una intera composizione scritta secondo i moduli del jazz non potrebbe soprav­ vivere. Quanto a ulteriori sviluppi este­ tici nella composizione musicale, può darsi che i compositori ameri­ cani useranno un giorno i quarti di tono, ma allora anche l’Europa userà i quarti di tono. Alla fine il nostro udito acquisterà una sensibilità mag­ giore di quella che aveva cento, cin­ quanta, o anche solo venticinque anni fa. Musica reputata brutta allora è accettata oggi senza riserve; è logico quindi che i compositori continue­ ranno a trasformare il loro linguag­ gio. Tale processo potrebbe portare a risultati di ogni genere. Già si è scritto in due chiavi: non c’è ragione di non spingersi oltre, fino a farci

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stesso nuovo strato sociale è adesso pronto per una musica più matura e più complessa; e che tale musica più matura e più complessa ha tratto gran profitto dalla concorrenza del jazz, nel senso che si è finalmente ripulita dalle scorie delle inibizioni tradizionali.^

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accettare i quarti o i sedicesimi di tono. Tali intervalli, che siano scritti o no, si usano sempre, solo non ne siamo consapevoli. In India si usano i quarti di tono e, per quanto ne so, consapevolmente. La musica è un fenomeno che secondo me ha un marcatissimo effetto sulle emozioni. I risultati pos­ sono essere dei più disparati. Essa ha il potere di indurci ai più svariati stati d’animo; attraverso le emozioni la musica riesce ad avere sulla mente un effetto purificante, un effetto irri­ tante, un effetto soporifero, un effetto eccitante. Non so fino a che punto potrà in definitiva far parte della vita della gente. Io non credo che la musica, per l’esperienza che di essa oggi abbiamo, sia indispensabile, sebbene siamo immersi nella musica in un modo o nell’altro. La musica è nell’aria. Eppure la gente può vivere in modo più o meno soddisfa­ cente senza musica orchestrale, per esempio. E chi può dire che non sta­ remmo meglio se non fossimo civi­ lizzati come siamo, se fossimo privi di gran parte delle nostre emozioni? Invece le abbiamo e di solito ne siamo abbastanza gelosi. Crediamo che esse siano importanti e che fac­ ciano di noi quel che siamo. Ci sen­ tiamo evoluti rispetto a gente di altri tempi che non le aveva. La musica è divenuta un importantissimo ele­ mento di civiltà, e una delle princi­ pali ragioni sta nel fatto che non si ha bisogno di essere istruiti per apprezzarla. La musica può essere apprezzata da una persona che non sa né leggere né scrivere, cosi come da gente dotata della più evoluta forma di intelligenza. Per esempio, Einstein suona il violino e ascolta musica. Gente dei bassifondi, drogati e banditi, sono solitamente amanti della musica o almeno non sono ad essa insensibili. La musica sta en-

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trando nell’uso medico: produce una certa vibrazione da cui sicuramente deriva una reazione fisica. Si finirà per trovare e utilizzare per ogni per­ sona la vibrazione appropriata. Mi piace pensare alla musica come a una scienza delle emozioni. Più o meno tutti i grandi compo­ sitori influenzano l’età in cui vivono. Bach, Beethoven, Wagner, Brahms, Debussy, Stravinskij: tutti loro hanno dato nuova forma a qualcosa del loro tempo, cosicché milioni di persone potessero avere una più intensa percezione di esso e com­ prendere meglio la loro epoca. La musica, che ancora si stava Il compositore, a mio avviso, è stato molto avvantaggiato dalla riproduzione riprendendo dalla concorrenza dei meccanica della musica. La musica è primi mezzi di riproduzione meccanica, scritta per essere udita e ogni strumento ebbe vita dura finché non si rese capace concepito affinché contribuisca a farla di opporre resistenza alla crescente udire più frequentemente da più ascol­ competizione di una nuova macchina, tatori reca vantaggio a chi la scrive. A la radio, una macchina dotata di mag­ parte i benefici derivanti dai diritti giore flessibilità riproduttiva e di facol­ d'autore e da cose del genere, sosterrei tà di distribuzione incredibilmente più ugualmente la teoria secondo la quale -vasta dei suoi predecessori.62 la musica è scritta per essere udita. Mi sembra estremamente positivo il Offrire a milioni di persone la possibi­ lità di ascoltare musica alla radio o al fatto che, con i tempi che corrono, in fonografo giova a chi la compone. Chi questi ultimi anni la musica abbia scrive musica per se stesso e non vuole subito in America un grande sviluppo farla sentire, di solito come composi­ in senso commerciale. In confronto al tore vale poco. Il primo irrompere della covo di giocatori d'azzardo che è il tea­ riproduzione meccanizzata ha rappre­ tro, la musica è stata organizzata sentato un incentivo per il compositore; secondo le stesse oculate prospettive la seconda ondata non ha fatto altro commerciali di una fabbrica di auto­ che potenziare tale incentivo. In pas­ mobili o di una banca. Si va ai con­ sato i compositori hanno sofferto la certi su prenotazione dei biglietti, si fame perché non avevano possibilità di vendono abbonamenti a stagioni di fare eseguire la loro musica, di essere concerti vocali, strumentali, orchestrali ascoltati. Questo oggi non può più suc­ e gli esecutori sono artisti abilmente cedere. Schubert fu poverissimo perché reclamizzati, per di più con anticipo non ebbe alcuna opportunità di con­ sufficiente ad assicurare un massimo di tatto con il pubblico, non disponendo reazione positiva nel pubblico. In certi dei mezzi di diffusione che abbiamo circoli pare di moda deplorare la cosid­ oggi. Morì a trentun'anni e godeva di detta commercializzazione della mu­ una certa reputazione. Se fosse vissuto sica, nel convincimento che la musica

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fino a cinquanta o sessantanni, indub­ biamente avrebbe ottenuto pieno rico­ noscimento anche allora. Oggi vivrebbe nella ricchezza e negli agi. La radio e il fonografo sono dan­ nosi nel senso che imbastardiscono la musica e mettono in circolazione tanta roba scadente. Non sono dan­ nosi per il compositore; più la gente ascolta la musica, più diventerà capace di giudicarla e riconoscerne il valore. Quando si parla di musica fatta a macchina, comunque, non si parla di musica nel senso più alto per­ ché, indipendentemente da quanto il mondo sarà conquistato dall’Era della Macchina, la musica dovrà essere creata nella stessa vecchia maniera. L’Era della Macchina può modi­ ficare soltanto i processi di distribu­ zione della musica. I compositori devono comporre come si faceva un tempo. Nessuno ha scoperto un nuovo metodo per scrivere musica: usiamo ancora i vecchi segni, i vec­ chi simboli. Il compositore deve rea­ lizzare da sé il suo lavoro in tutto e per tutto. Nella composizione musi­ cale il lavoro fatto a mano non potrà mai essere sostituito con qualcos’al­ tro. Se mai la musica diventasse fatta a macchina in tal senso, cesserebbe di essere arte.68

ci

in quanto arte si deteriori nella misura in cui diviene un commercio. Secondo me, tale presa di posizione ignora le enormi responsabilità amministrative che comporta l’impegno di diffondere la musica fra centoventi milioni di per­ sone sparpagliate su un territorio di estensione quasi due volte quello del­ l’Europa occidentale e centrale. I ric­ chi mecenati saranno capaci di evitare deficit solo a patto che l’impresa sia gestita in modo efficiente.60 Se è vero che non si può tornare indietro rispetto alla macchina, è altret­ tanto futile pensare a fare progetti troppo in anticipo. Petulanti invettive contro l’Era della Macchina o accetta­ zione estatica di essa con il rifiuto di rimettere in discussione le proprie posi­ zioni, tutto ciò è superato, quanto a futilità e mancanza di criteri realistici, solo dalla edificazione di utopie.64

Se è assurdo avere timore della mac­ china non è assurdo comunque insistere sul fatto che si dovrebbe fare appello a ogni briciola di intelligenza e a ogni barlume di intuizione per salvaguardare l’esistenza della macchina di modo che essa renda il massimo beneficio all’u­ manità.65

[...] Dobbiamo ricordare che così tanti milioni di persone sono stati d’un tratto introdotti alle arti dalla macchina e dall’Era della Macchina, che queste persone sono come bambini impadro­ nitisi di un giocattolo nuovo: allettati da aspetti ovvi e superficiali, affascinati dal puro e semplice girare di ruote e lusingati dal possesso di qualcosa che i loro predecessori consideravano oltre i confini del possibile. Hanno pochi parametri di giudizio con cui rivolgersi a ciò che è stato loro posto a portata di mano. Molti nemmeno capiscono che si tratti di arte. Ma i parametri di giudizio si possono insegnare. Giudi­

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zio e discriminazione si possono acqui­ sire. L'arte e i parametri per giudicare l'arte che vale non sono estranei alla natura. In natura essi nascono e riman­ gono in vita.66

Forse la conclusione più stimolante cui conduce la presente indagine [,..] è che in questa nostra Era della Mac­ china l'arte profonda e personale può esistere alfianco dell'arte come produ­ zione di massa, da quest'ultima traendo sostegno in cambio dei servigi ad essa resi come laboratorio, terreno di inda­ gine e ispirazione. Sembrerebbe perciò possibile, purché lo vogliamo con suf­ ficiente convinzione, salvare l'elemento personale nell'arte, indipendentemente da quanto la macchina potrà espugnare il mondo.67

4.4. Quello che Gershwin non considerò Un ennesimo richiamo, dunque, all’idea “romantica” dell’autore come creatore e della sua centralità: l’importante è avere idee; le macchine da sole non faranno mai musica; le emozioni sono essenziali e nascono dal profondo, dall’individualità. In un pensiero così perfettamente com­ binato fra innovatività e conformismo non vi è posto per alcuna forma di critica sociale sulla meccanizzazione, sulle ombre affiancatesi alle luci nella costruzione dell’impero economico. Gershwin nell’Era della Mac­ china scorge solo i vantaggi e le facilitazioni che al compositore - pur­ ché di genio, purché artista creativo - possono giungere. Mentre lo scenario di Revolt in the Arts, anche con tutto l’ottimismo che lo con­ traddistingue, si tinge di colori talora un po’ opachi, le riflessioni di Ger­ shwin, improntate a esemplare trasparenza, si situano ancora una volta sul sottile discrimine fra businessman e artista “ingenuo”, fra smagliante consapevolezza della propria posizione privilegiata e dono innato (per­ ché business e progresso artistico non dovrebbero andare di pari passo? - argomento cui Gershwin fu sempre sensibilissimo. E anzi in questa specifica fase storica che uomo d’affari e artista, un tempo avversi, si incontrano sul comune sfondo del progresso, simboleggiato dall’inarre­ stabile Macchina). Schegge di ancora maggiore originalità si percepiscono infine in Gershwin nella felice sintesi fra esattezza e utilità di tutte le scienze e libertà di tutte le emozioni: «Mi piace pensare alla musica come a una scienza delle emozioni». Quello che Gershwin non considerò fu comunque risolto da Sayler senza spaccature. Dopo tante riflessioni attente sul macchinismo è que-

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sto il modo di guardare all’attualità in piena Depressione mentre in ogni campo le cifre della disoccupazione si andavano facendo sempre più pesanti: Vedo un unico sistema per sfuggire al vicolo cieco in cui la disoccupa­ zione specifica in campo musicale ha ammassato tante migliaia di musicisti professionali. La musica meccanizzata ha probabilmente sottratto per sem­ pre a molti di loro i mezzi di sostentamento, così come la macchina ha eli­ minato senza pietà innumerevoli milioni di lavoratori nel secolo scorso e ha detto loro di andarsi a cercare qualcos’altro da fare. A parte la soffe­ renza personale e l’orgoglio ferito, che si possono deplorare senza sentimen­ talismo, non riesco a convincermi che l’arte della musica sarà seriamente danneggiata, poiché molti di quegli esecutori erano artigiani, lavoratori a giornata, piuttosto che artisti. Con un coraggio che l’Era della Macchina rispetta più che le virtù tradizionali, lasciamo che questi musicisti malmessi, che mai sarebbero avanzati oltre la mediocrità nell’arte della musica, si por­ tino a casa violini e clarinetti e li suonino per diletto personale e si volgano a un altro mestiere. Quelli che fra loro sono veri artisti sopravviveranno in quanto artisti, fortificati, come la stessa musica lo sarà, da un’inesorabile epurazione.69

5. “Tin Pan Alley" e Goldberg. Industria della canzone e sociologia dell'effimero

5.1. Le forme della Cultura e quelle della Vita Il 1930 fu anche l’anno di Tin Pan Alley di Isaac Goldberg70, pub­ blicato con una Introduzione di George Gershwin, al quale il volume era dedicato: «A George Gershwin per Rhapsody in Blue, Concerto in F, An American in Paris e non ultimo per... la sua sincera amicizia». Gold­ berg, bostoniano di ambiente ebraico, nato nel 1887 e PhD a Harvard in filologia romanza nel 1912, era uno degli autori più straordinariamente colti e meno vincolati da ogni possibile forma di accademismo che il pur variegato panorama statunitense dell’epoca potesse vantare. Antiacca­ demico anzi per vocazione, presenta singolari aspetti di dilettantismo geniale nel combinare in una personalità sola così tante e così disparate professionalità spesso di non agevole convivenza: formatosi, si è già detto, come specialista in filologia romanza e già trilingue per educazione fami­ liare, padroneggiava una serie innumerevole di lingue, tradusse e curò testi dal portoghese, dallo spagnolo, dal tedesco, dallo yiddish, dal fran­ cese, dall’italiano, dal russo. Fu studioso profondo dell’ambiente ebraico, lingue, letteratura, pensiero, costume. Aveva un debole per l’umorismo, in particolare modo per le sue forme più implicite, più intellettuali però più libere, più elevate però più irriverenti. Amava Gilbert & Sullivan, sulle operette dei quali scrisse copiosamente71, tanto che gli piaceva inserire nelle sue schede biografiche la notizia di «essere stato cullato

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e fatto addormentare con le melodie di Gilbert & Sullivan e di essere generalmente accolto in questo paese come la più eminente autorità savoiarda». Era dotto e attratto dall’inaspettato ed era solito spingersi sui sentieri della sociologia, della psicologia, della psicanalisi, della sessualità, dell’erotismo per collezionisti, della linguistica. E del linguaggio fu un virtuoso, colto e creativo, trasgressore affascinante e disinibito. I principi della psicanalisi - che nel tessuto urbano intellettuale, spe­ cialmente ebraico, degli Stati Uniti si era molto affermata - creavano la trama connettiva dei suoi interessi: individuazione di. forze occulte, delle fonti di energia, a costo di sconfinamenti nel “proibito”72. Pro­ fessore a Harvard, poteva permettersi di usare con disinvoltura i mezzi della Cultura con l’occhio costantemente rivolto a quella che potremmo chiamare la Vita, con il suo groviglio di contraddizioni e lacerazioni, con umorismo di cui egli rivelò a sorpresa l’inaspettata esistenza in dimen­ sioni “serie”73. Il mondo della canzone, contemplato senza romantiche­ rie come meccanismo commerciale in cui coesistono ferree leggi della produttività e doti creative originalissime, suscitava in lui il proposito di cogliere la sopravvivenza del nucleo ispirazione-poesia-individualità nel regno dell’anonimato e dell’asservimento alle norme di produzione e vendita74. Studiare il commercio dell’ispirazione, di un’ispirazione che commercializzata dà il meglio di sé poiché nata per essere venduta, lo condusse all’individuazione di un tessuto sociale in costante movi­ mento e che si esprime attingendo energia e vitalità da dimensioni tra­ sgressive, onde poi elevarle ad arte: ed ecco il jazz, ecco Tin Pan Alley, ecco artisti come Gershwin che nelle "contraddizioni e nel commercio sono a loro agio e affermano la propria capacità di penetrare ed espri­ mere il loro tempo e il contesto urbano dell’America. Al momento della morte, nel ’38, lasciò manoscritta un’opera intitolata The Wonder of Words: An Introduction to Language for Everyman15: il linguaggio, con la sua genesi, con la sua storia, costituisce un’avventura a disposizione di ognuno, anche dell’uomo comune, purché si ponga in attitudine di cùriosità e intelligenza creativa e collaborativa con l’autore. Così come produsse notevoli libri sulla divulgazione del gusto musicale e artistico76. Evidentissimo sempre in Goldberg il substrato della cultura ebraica, composita e avventurosa, che movimentò tanto in quel tempo anche la vita intellettuale statunitense. L’incontro fra George Gershwin e Isaac Goldberg è narrato da que­ st’ultimo in un articolo commemorativo scritto in occasione della scom­ parsa dell’amico77. L’incontro avvenne nel 1929 e si trasformò presto in amicizia durevole cui pose fine soltanto, nel ’37, la morte di Ger­ shwin. Goldberg gli sopravvisse solo un anno esatto. Dai frequenti incon­ tri fra i due - «kaleidoscopic meetings» li definisce Goldberg78, a sug­ gerirne l’aspetto complesso e sfaccettato, l’iridescente mutevolezza, la vivacità smagliante e anche la creatività, la poesia - scaturirono molte

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idee, e molte idee vi circolarono, determinando un eccitante complesso di parallelismi e scambi che fu tra i più fecondi dell’intera vita di Ger­ shwin. Il periodo in cui Goldberg pubblicò Tin Pan Alley e Gershwin ne scrisse l’introduzione è anche il tempo in cui Gershwin insisteva perché fosse appunto Goldberg l’autore della sua prima biografia di compositore. Da un po’ di tempo andavo scrivendo qua e là sull’impiego versatile di “blue notes” nella sua musica. È evidente che un’affollata serra in una sera d’estate79 non era proprio il posto per insistere su quelle note. Sono sem­ pre stato riluttante quando si tratta d’incontrare gente, per di più famosa, sulla cresta dell’onda; anche quella sera ero pieno d’esitazione. Stretta la mano, come si conviene, al giovane musicista dal radioso sorriso, dal volto scintillante di sincero piacere per il proprio successo, me ne andai senza sospettare che ci saremmo rivisti. Ma fu presto avviato il progetto di una biografia del compositore. Non uno dei soliti libri boriosi e rigidi che parlano di un musicista quasi fosse un pezzo da museo, bensì una storia vivace come si addice alla carriera e ai tempi di un giovane pieno di idee e speranze nuove per la musica del suo paese. Se non sbaglio l’intenzione si era presentata dapprima a Miss Grace Morse, l’agente letteraria di New York. A George erano stati suggeriti innu­ merevoli autori, egli però desiderava qualcuno che avesse padronanza tanto della musica quanto dello scrivere. In questo credo (senza alcun riferimento al mio successivo coinvolgimento personale in quel progetto) che egli, come in tanti altri casi, avesse intuitivamente ragione. Mi sono sentito offeso e credo che anche George lo sia stato, più di una volta - dal modo in cui gente palesemente ignorante in musica ha scritto non solo di George come personalità ma di George come compositore. Comunque, quando espressi interesse a lavorare alla biografia, George ricordò con mio grande stupore il nostro incontro nella serra della Boston Symphony Hall. Non solo, ma aveva letto la mia Story of Gilbert and Sulli­ van. E infine, poiché il mio libro sulla divina coppia dell’operetta inglese era stato pubblicato da Simon & Schuster, anche il libro su George uscì dallo stesso editore.80

La decifrazione del rapporto fra Goldberg e Gershwin non rende­ rebbe giustizia a quest’ultimo se lo intendessimo soltanto a senso unico: Goldberg fu una delle principali “fonti” della consapevolezza di George Gershwin, però le affinità e le forme dell’amicizia fra i due personaggi ebbero carattere complesso di reciprocità e scambio. Fra il 1929 e il ’30 la corrispondenza fu fitta. Gershwin cominciò subito a confidare all’a­ mico i suoi progetti per un’opera, a fargliene sentire le idee alla tastiera. Goldberg aveva ricevuto da Grace Morse esplicita richiesta a lavorare come ghostwriter per alcuni articoli in cui Gershwin esprimesse le sue opinioni sulla musica moderna e sul futuro della musica stessa81. Non è chiaro se ci si riferisse a quei tre articoli apparsi un anno e mezzo dopo su «Ladies’ Home Journal»82, ma scritti ben prima di allora e il cui materiale confluì nella monografia su Gershwin che ne fu lo sviluppo

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anche se venne pubblicata precedentemente ad essi; oppure se si allu­ desse a lavori che dovevano uscire sotto il nome dello stesso Gershwin. Del resto i precisi termini della questione dai documenti disponibili non risultano evidenti. Gli studiosi che si sono occupati di queste vicende concordano sul fatto che vi furono molti scambi fra i due, ma non sui dettagli dello scambio stesso83. 5.2. Teorìa e pratica della canzone: la produttività e le sue leggi

A quanto pare Goldberg aveva scritto o riscritto o riveduto l’intro­ duzione di George Gershwin a Tin Pan Alley. Così risulterebbe sulla base di una lettera in cui il compositore osserva che nel pezzo sono pre­ senti troppi pronomi personali di prima persona singolare e afferma di volere tagliare certi paragrafi, per evitare che si parli eccessivamente di lui84. Anche così come è stata pubblicata, comunque, quell’introdu­ zione mantiene ancora molte delle caratteristiche cui Gershwin faceva riferimento. Ciò che a Gershwin sta a cuore è sfatare il diffuso pregiu­ dizio che scrivere canzoni sia cosa facile. Al contrario, egli afferma, è logorante, richiede mestiere e applicazione per supplire all’ispirazione che spesso manca, quell’ispirazione che è presente soltanto in momenti di grazia. Si ribadisce la centralità delle emozioni oltre a quella della tecnica, mentre l’esperienza personale è come sempre protagonista incon­ trastata. Sebbene i riferimenti all’opera di Goldberg siano rari e margi­ nali, l’introduzione ben si adatta comunque a un libro che esalta la crea­ tività, anche quella che si vende secondo le leggi del mercato, in un ambiente artistico di gente che si è fatta da sé. INTRODUZIONE [A “TIN PAN ALLEY” DI ISAAC GOLDBERG]

Ecco un libro che bisognava scrivere, e noi tutti siamo grati al dott. Gold­ berg per averlo scritto. La musica leggera americana è divenuta parte impor­ tantissima della vita americana; anzi ha raggiunto, come appare dai capitoli sul ragtime e sul jazz, il cuore stesso di molti paesi europei. E uno degli aspetti più pittoreschi della scena americana e, come testimonia la Società Ameri­ cana di Autori, Compositori e Editori, sta diventando anche un Affarone. Insomma, Tin Pan Alley è un fenomeno unico nel suo genere e non c’è nulla in alcun altro paese del mondo che gli si possa paragonare. E naturale che sia stata New York, centro musicale e teatrale della nazione, in cui nascono la maggior parte delle canzoni e delle commedie, a veder sorgere la Via delle Padelle di Latta.

Con questo enorme accrescersi dell’interesse, a noi impegnati a scrivere canzoni viene chiesta più che mai, sia da parte di profani che di aspiranti compositori, la nostra formula, se ce n’è una: precisamente come, dove, per­ ché e quando scriviamo la nostra musica. Nel rendere questa testimonianza della mia esperienza non intendo mettere in rilievo la mia propria attività, ma chiarire qualcuno dei molti e diffusi malintesi circa il mestiere di scri­ vere canzoni.

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Si sente spesso dire che comporre una canzone è cosa facile. Tutto ciò che un pezzo richiede per avere successo consiste, a quanto pare, in trentadue battute: una bella frase di otto battute che serve a dare l’avvio al ritor­ nello si ripete altre due volte con Paggiunta di altre otto battute che però sono molto meno importanti. Certo a dirlo è facile, ma personalmente non so pensare a un compito che logora i nervi e stanca la mente più del fare musica. Certe volte si scrive una frase musicale al prezzo di molte ore di grande sforzo interiore. I ritmi pullulano nel cervello, ma non è facile acchiap­ parli e non lasciarseli scappare. La cosa più difficile è evitare reminiscenze. Nell’intera mia annuale produzione di canzoni, forse due, o al massimo tre, sono il risultato di un’ispirazione. Non si può mai contare sull’ispira­ zione: quando ce n’è più bisogno essa non viene. Perciò il compositore non può starsene in ozio ad aspettare che un’ispirazione arrivi e gli si presenti. Ciò con cui la sostituisce non è altro che talento più studio. Se egli è molto dotato, la canzone sarà tale da suonare come autenticamente ispirata. Fare musica è in effetti poco più che una questione di invenzione col sostegno e la complicità delle emozioni. Nel comporre combiniamo la nostra conoscenza della musica e il nostro sentire. Vedo una composizione musi­ cale come un disegno: se si tratta di una melodia si può cogliere tutto il dise­ gno in un solo sguardo; ma se si tratta di una composizione di maggiori pro­ porzioni, come un concerto, è necessario affrontare il disegno pezzo per pezzo e costruirlo più estesamente. Non bisogna prestare orecchio al detto “non c’è niente di nuovo sotto il sole”. E sempre possibile inventare qualcosa di originale. Chi scrive canzoni prende un’idea e vi aggiunge la sua indivi­ dualità; usa la sua capacità di invenzione nel sistemare le battute alla sua maniera. Comporre al pianoforte non è buona regola. Io però ho cominciato così ed è diventata un’abitudine. Comunque è possibile lasciare libero corso alla mente e servirsi del pianoforte soltanto per verificare quello che si può udire mentalmente. Il metodo migliore sarà quello che non permetterà a nulla di porsi d’intralcio, perché è sempre più facile pensare in modo continuato, quando non si è distratti dai suoni. Alla mente si dovrebbe concedere di correre libera, senza l’ostacolo del pianoforte, che si può usare ogni tanto solo per stimolare il pensiero e accendere un’idea. La vera e propria compo­ sizione deve avvenire nella mente. Tuttavia non si dovrebbe sovraccaricare di lavoro la memoria. Talvolta, proprio quando la frase sembra al sicuro nella mente, andrà perduta l’indomani. Io, quando non sono sicuro che ricorderò il giorno dopo una frase, la fisso subito sulla carta. Qualche volta capita di comporre in sogno, ma al risveglio raramente ci si può ricordare quella musica. In una circostanza soltanto mi alzai dal letto e scrissi una canzone. Quel pezzo, fra parentesi, è una delle mie più recenti composizioni, Strike Up the Band! Come il pugile, l’autore di canzoni deve sempre tenersi in esercizio. Deve cercare di scrivere qualcosa ogni giorno. So che se non scrivo nulla per qual­ che settimana poi perdo un sacco di tempo per rimettermi in marcia. Ecco perché non cesso mai di comporre. Il mio lavoro è prodotto quasi esclusivamente di notte e ottengo il meglio nei mesi autunnali e invernali. Una bella giornata di primavera o d’estate è la meno favorevole al comporre, perché io preferisco sempre al lavoro le

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Gershwin attività all’aria aperta. Non scrivo affatto la mattina, per l’ovvia ragione che allora non sono sveglio. Il pomeriggio lo dedico al lavoro materiale: orche­ strazioni, copie pianistiche, ecc. La notte, quando gli altri dormono o vanno a divertirsi, io ho un assoluto silenzio per comporre. Ma non sempre è neces­ saria una quiete cosi perfetta: ho spesso scritto le mie canzoni con qualcun altro nella stessa stanza o che giocava a carte in quella accanto. Se mi trovo nello stato d’animo giusto, posso farlo durare finché non finisco la canzone. Molti di noi hanno imparato a scrivere musica studiando le canzoni pub­ blicate che hanno incontrato maggior successo. Ma l’imitazione non dà frutti più che tanto. Il giovane autore di canzoni può cominciare imitando il com­ positore di successo che egli ammira, però deve prenderne le distanze appena abbia imparato i segreti e la tecnica del maestro. Quindi deve cercare di sviluppare la propria personalità musicale e introdurre nella sua opera qual­ che elemento di sua invenzione. Per alcuni autori di canzoni non è neanche indispensabile conoscere la musica. Molti dei compositori di musica leggera con il più gran numero di successi al loro attivo non sanno leggere un rigo di musica. Quello che hanno è un senso innato della melodia e del ritmo; tutto ciò che cercano di fare è scrivere un semplice motivo che il pubblico ricordi facilmente. Però per scrivere composizioni più lunghe lo studio della tecnica musicale è necessa­ rio. Tanti dicono che il troppo studio uccide la spontaneità in musica; ma se lo studio può uccidere un piccolo talento, sicuramente ne sviluppa uno grande. In altre parole, se lo studio fa morire un talento musicale, quel talento merita la morte. Io ho studiato pianoforte per quattro anni e quindi armo­ nia. E continuerò a studiare per tanto tempo ancora. La maggior parte di ciò che ho detto naturalmente deriva dalla mia espe­ rienza personale e può darsi che essa sia ben diversa dalle esperienze altrui. Il dott. Goldberg offre un rapido sguardo sui metodi seguiti da diversi autori e compositori. Io condivido la sua opinione che la canzone odierna nell’ambito della musica leggera abbia un po’ la stessa natura della canzone popolare85. Le canzoni di Foster, che ora veneriamo come canzoni popolari, al loro tempo non erano altro che canzoni appartenenti all’ambito della musica leggera. Condivido anche la sua opinione del valzer come danza importantissima, immortale86. Willard Huntington Wright, in The Creative 'Will (ciò fu prima che diventasse S. S. Van Dine c intraprendesse una carriera come autore di romanzi polizieschi), ha evidenziato la superiorità del ritmo di 3/487 rispetto a tutti gli altri ritmi di danza, superiorità che sta nel suo equi­ librio naturale di accenti. In una danza in 3/4, il movimento dei piedi alterna gli accenti con il succedersi delle battute. Nel tempo di 2/4 o 4/4, lo stesso piede poggia sempre sullo stesso accento. Il dott. Goldberg suggerisce che forse la regola del jazz di spostare l’ac­ cento dal primo e terzo, com’è normalmente, al secondo e quarto tempo di battuta, non è solo un tentativo di sbarazzarsi della routine, ma anche un inconsapevole bilanciamento di effetti. Detto per inciso, il jazz, così come si è sviluppato, riflette da anni il suo stesso fermento: fra l’altro, il modo in cui ragtime e jazz sono affrontati in Tin Pan Alley riesce bene a chiarifi­ care questa confusa situazione.

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H Racket Row è senza dubbio sempre più sofisticato. Tuttavia sono sicuro che ci sarà sempre un mercato per le canzoni dolci e sentimentali, così come ci sarà sempre un pubblico sentimentale e ingenuo.

Tin Pan Alley non è solo un contributo di grande valore per il nostro archivio di studi sull’America: è una storia straordinaria, magnifica.88

Il concetto pervasivo del pluralismo in musica - e più estesamente nella cultura tutta - rendeva Tin Pan Alley una «storia straordinaria» davvero. Goldberg vi afferma la legittimazione di ogni forma espressiva purché nel suo ambito offra prodotti validi, per cui nel rapporto fra jazz e musica “colta” quello che conta è solamente la qualità della musica stessa. Alla luce di questo principio risulta che non tutto il jazz è di cat­ tiva qualità, così come la musica “classica” non è tutta di buona qua­ lità. Le riflessioni sull’importanza del jazz e sul suo rapporto con la musica “seria”; sulla coesistenza fra epoca della macchina e vera arte ispirata; sul non escludersi a vicenda di arte e business; su imitazione e origina­ lità: tutto ciò spiega la compenetrazione totale fra il pensiero di Gold­ berg e il pensiero (e soprattutto l’operato) di Gershwin. Non solo: il com­ positore aiutò Goldberg con suggerimenti e informazioni circa molti personaggi che gravitavano attorno a Tin Pan Alley, come testimoniano lettere che risalgono al 193089. Alcuni passi del libro renderanno subito chiaro non soltanto che le idee di Goldberg e quelle di Gershwin coinci­ devano, ma anche che i due si passavano il “materiale” con cui espri­ merle e perfino un preciso frasario. Il jazz: [...] è tante cose quanti sono i punti di vista. Per il teologo attaccato ai dogmi è una nuova sembianza del diavolo, da combattere come influsso satanico. Per il pagano, se è disposto a interpretare le novità secondo i canoni dell’e­ tica sociale, è sintomo di gloriosa liberazione dai ceppi delle inibizioni morali. Il musicista, se è uno della vecchia scuola, lo guarda dall’alto con un misto di divertimento e disgusto; se è un tipo che crede nel moderno vi scorge ricche potenzialità per la creazione di uno stile nuovo. Il direttore della Boston Symphony Orchestra, Serge Koussevitzky, durante la stagione 1925-26 ricevette da parte di abbonati ai concerti newyorkesi del suo cele­ bre complesso diverse lettere piene d’indignazione, secondo le quali la colpa dell’«ondata di criminalità» del momento era addossata a lui, per aver intro­ dotto tutta quella musica moderna. Il tema sembra predestinato a violente variazioni e così pure a strane confusioni. Il dibattito s’inizia come se riguardasse solo l’estetica, ma prima che ce ne rendiamo conto eccoci a porgere ascolto a una diatriba morale. Tale deviazione dal sentiero della pura musica non si limita in alcun modo a chi di musica non si occupa. Esecutori, compositori, critici, insegnanti: tutti costoro hanno versato alla discussione sul jazz la propria quota di com­ menti non pertinenti. Il jazz sarebbe una fissazione che non durerà. Il jazz sarebbe la salvezza dell’arte. Il jazz sarebbe l’intrusione della sala da ballo da quattro soldi nei sacri confini dell’auditorium per la musica sinfonica.

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Il jazz non sarebbe così giovane come fa finta d’essere; si può trovare nei classici, dove lo si usava con maggior profitto di quanto non facciano gli strimpellatoti e gli strilloni al servizio di Tin Pan Alley. Il jazz verrebbe dai baraccati della musica; corromperebbe gusto e maniere. Il jazz apporte­ rebbe alla musica classica un sangue nuovo, seppur volgare, che grazie a questa inevitabile alleanza darà all’arte una sferzata di giovinezza. Il jazz sarebbe, in senso letterale e figurato, la creazione di vincoli di parentela con la razza inferiore che causa l’imbastardirsi di quella superiore. Maligno trionfo del nero sul bianco. Noi ci occupiamo di musica, non di etica. Anche il jazz, come ogni altra cosa, ha le sue connotazioni morali, non c’è dubbio; ha anche il suo aspetto sociologico, ed è quanto mai interessante. Noi comunque ci interessiamo principalmente al valore musicale: considerato in termini musicali, un buon pezzo jazz è buona musica e una brutta sinfonia è un’indecenza, di gran lunga inferiore al buon jazz.90

E ancora: il jazz ha avvicinato la musica e la vita, è riuscito a mettere in relazione la musica e un pubblico non preparato. Il jazz fornisce i fon­ damenti per lo sviluppo di un nuovo più completo gusto musicale. Per­ fino un critico esigente come Ernest Newman ha capito il valore del jazz. Esso è il simbolo musicale del melting-pot^ della grande città americana, di tutti i suoi aspetti, anche quelli “brutti”, anche le contraddizioni. Il jazz esprime l’assenza di un mondo facile e “pulito”, dà voce alla vita della strada. Ha offerto il suo contributo alla realtà musicale e un giorno sarà assimilato nell’idioma della musica universale. Personaggi come Ger­ shwin mostrano che il jazz raggiunge i suoi più alti traguardi laddove si svincola dal legame con la sala da ballo e tende a essere musica in senso più elevato. II fatto che esso esprima una civiltà anche superficiale e le sia legato, poi, non ne invalida il valore e le potenzialità. Perché l’ame­ ricano deve rendersi conto di quello che possiede solo quando ciò ha superato l’approvazione dell’Europa? Il jazz, liberato dalle sue connota­ zioni più transitorie, non morirà, ma entrerà, anzi è già entrato, nel regno della musica. Musica urbana come nuovo folk-song: Tin Pan Alley ha tenuto a battesimo un nuovo canto popolare, la can­ zone urbana, fabbricata come un prodotto sintetico, effimera come un sospiro, eppure non per questo meno autentica. L’autentico canto popolare, nel corso lento della sua evoluzione, non fu cantato in cent’anni da tante ugole quante sono quelle che interpretano il canto popolare di oggi in una sola settimana. Grazie alle invenzioni moderne abbiamo conquistato il tempo e lo spazio, adesso concentrati e messi a fuoco nella magia di un istante. Il concetto stesso di musica popolare è stato di necessità modificato dal rombo delle macchine e dal tempo accelerato della vita contemporanea.91

Era dalla macchina ed emozioni in rapporto allo scardinamento ope­ rato da Tin Pan Alley rispetto ai valori tradizionali:

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Le emozioni - a meno che i comportamentisti riescano inaspettatamente a meccanizzare tutte le nostre reazioni - non saranno mai fuori moda. Certo, comunque, la canzone, almeno per quanto riguarda i testi, è giunta a una crisi tutta particolare. Non c’è modo di tornare alla semplicità degli anni Novanta. Continuare a raffinarsi oltre l’attuale sofisticazione significa corteggiare un pubblico più ristretto - di migliore qualità, forse, ma più ristretto - e Tin Pan Alley non ha interesse a diminuire gli incassi. La canzone di oggi è fatta a macchina, suonata a macchina, ascoltata a macchina. È una formula, così come sicuramente lo è il raccontino sulla rivista illustrata o il romanzo poliziesco. Obbedisce a ogni regola formulata da chi per pubblicarla è in cerca di sveltezza, vispezza e mordente. Costituisce una letteratura musicale d’evasione, di realizzazione dei desideri, un sostituto dell’esperienza sessuale, un po’ di baldoria. E di per sé un afrodisiaco sonoro che fornisce un vocabolario amoroso limitato ma efficiente per un vasto pub­ blico le cui concezioni dell’amore (e relativi comportamenti),, anche se limi­ tate, sono improntate a efficienza. È impossibile fare ascoltare o cantare una canzone - bella o brutta che sia - simultaneamente a diversi milioni di persone, senza che quella canzone abbia su di loro un certo effetto. Ed è tanto più stupefacente, alla luce di questo fattore psicologico, che i cen­ sori da tanto tempo permettano a Tin Pan Alley di prosperare.92

5.3. La musica e le musiche dell*America A Hollywood dalla fine del 1930 i Gershwin lavorarono alle musiche per il film Delicious^ per cui il compositore scrisse anche la sequenza stru­ mentale Manhattan Rhapsody, Il ritorno a New York avvenne entro il febbraio 1931 e nella stessa città Delicious e OfThee I Sing debuttarono contemporaneamente nel dicembre di quell’anno. Il giorno 26 la prima rappresentazione newyorkese di Of Thee I Sing fu diretta dallo stesso compositore. Nel 1931 Goldberg pubblicò anche il primo studio mono­ grafico dedicato a Gershwin: George Gershwin: A Study in American Music9*. Nel volume confluirono numerose interviste a Gershwin pub­ blicate tra il 1924 e il 1930, oltre ai tre articoli dello stesso Goldberg già menzionati. Fra il compositore e il suo biografo la collaborazione fu assidua. Gershwin forniva a Goldberg materiale e suggerimenti e i due soprattutto parlavano molto: ecco allora una biografia che fa uso costante di discorso diretto ma non è di taglio giornalistico, che si legge come un romanzo ma in fondo non è romanzata e che proprio in virtù del suo essere così spesso una conversazione con lo stesso Gershwin, è da intendersi come testimonianza diretta su di lui. Successivamente Gold­ berg si proponeva di aggiornarla94, ma il suo contributo commemora­ tivo, già citato, al volume su Gershwin curato da Armitage doveva rac­ cogliere le ultime parole che ancora gli restavano da scrivere sull’amico. Quindi la biografia fu aggiornata da altri. Edith Garson per fortuna non tentò neanche di riallacciarsi allo stile di Goldberg e si contentò di offrire un’appendice di asettica chiarezza a quella brillante storia, di così capi­ tale importanza nell’edificazione della leggenda di Gershwin. Se infatti

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è vero che fu Gershwin stesso a dare inizio al proprio “mito”, Gold­ berg contribuì non poco all’impresa. Certe sezioni del libro corrono così parallele a passi analoghi di Tin Pan Alley e alle idee espresse da Gershwin nei suoi scritti e nel suo ope­ rato, da far capire quanto tutto quel materiale fosse riversato e raccolto in un contenitore unico cui entrambi attingevano all’occorrenza. In par­ ticolare i tre capitoli della sez. 9, Stretto: «I am a man without tradi­ tions»95 , sono simmetrici ad alcuni passi e a tutto il tema ispiratore di Tin Pan Alley (il jazz e la musica “colta”; quello che vale è la qualità della musica; non tutto il jazz è di cattiva qualità, come la musica clas­ sica non è tutta di buona qualità; e così via96). Il finale del libro profe­ tizza al giovane compositore un lungo brillante avvenire. Tin Pan Alley... il Musical Show Racket... l’Operetta... Lady Jazz in sala da concerto... lo Sposalizio del jazz all’arte sinfonica... e ora, l’Opera... Inin­ terrotta ascesa, non tanto grazie a specifiche forme o generi quanto grazie al valore dellajnusica in sé. Segno di crescita naturale di un dono schietto e spontaneo. E una storia emozionante; è l’America; è George. E soprat­ tutto è la storia di una musica bella, viva. E George sa meglio di tutti di essere appena all’inizio. Salute, allora, all’inizio di un glorioso com­ pimento!9'

L’accento batte sempre, nello svolgimento del libro, sull’America e sul suo compositore, che la esprime felicemente essendo una delle voci attraverso cui se ne manifesta con più aderenza la molteplicità. Tornando appena un passo indietro, in Tin Pan Alley troviamo in sintesi le rifles­ sioni sulla musica (e le musiche) dell’America che tanto informarono di sé quest’epoca e le sue idee e l’arte di Gershwin, ma che al tempo stesso - in una fase storica in cui ogni nazionalismo tende pericolosamente a chiudersi in imperativo settoriale - suona come esortazione a osservare che cosa includa il termine “americano”, non che cosa esso escluda. Volere unificare il pluralismo, quando il concetto di razza è così divisorio, si dimostra superato e inutile. Che cos’è la musica americana? E che cos’è la musica leggera americana? Giacché sembrano essere due cose differenti. Uno dei nostri più dotati e radicali critici della musica e delle altre arti, Paul Rosenfeld, inizia il suo studio monografico sulla produzione musicale di questo paese98 con l’affer­ mazione categorica che la musica americana non è jazz e che il jazz non è musica. Uno dei nostri spiriti più conservatori e accademici, Daniel Gre­ gory Mason, va a stringere la mano a Rosenfeld facendosi largo tra i righi musicali99. Ma non sono reazioni violente a un violento stimolo? Nessuno, per quanto ne so, ha mai detto che la musica americana sia soltanto jazz; dire che il jazz non è musica è emettere un verdetto anziché applicare capa­ cità di discernimento. La distinzione fra la cosiddetta musica classica e quella per il popolo è di livello, non di genere. Spesso esse vengono a sovrapporsi, non solo per importanza, ma anche per valore. Dire che la musica leggera mira a un intrattenimento superficiale e basta, mentre la musica classica tende

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a istituire valori inerenti a relazioni estetiche, equivale a mostrare una dif­ ferenza nell’approccio critico, una differenza di attitudine da parte del com­ positore specifico e del pubblico specifico. Certo, la musica leggera degli ultimi tempi è un’attività chiaramente commerciale. Tende così a instau­ rare formule e a trasformarsi in un prodotto consistente in robot, confezio­ nato da robot per robot. In poche parole, diviene a suo modo aridamente cerebrale, ridotta a formula, non più che pseudoemozionale. Eppure l’in­ tento del compositore può essere una cosa e il risultato un’altra cosa. E arduo giudicare la musica in base alle intenzioni che si propone chi la esercita. E anche successo, cosa strana, che un compositore di musica leggera, che nem­ meno conosce il suo mestiere, abbia prodotto qualcosa che si distingue in quanto creazione estetica. È proprio importante che vi sia una musica nazionale? Tale categoria non riguarda la storia forse più che l’arte? Un compositore che se ne preoccupi può aggiungere qualche cubito alla sua statura nazionale? Se vi è qualcosa di valido nel nazionalismo come esso risulta nell’arte - anche nell’arte minore - ciò non apparirà forse nell’opera di un compositore, o di un poeta, anche senza uno sforzo troppo consapevole? Lasciate prima che vi siano buona musica e buona poesia. La specificazione della nazionalità può attendere. [..,] La via che conduce alla padronanza del mestiere è lastricata di ciot­ toli trabocchetto. Vi sono musiche americane; c’è bisogno che vi sia una musica americana? Deems Taylor ci ha saggiamente ricordato100 che noi non siamo una razza omogenea e che ciò ha conseguenze importanti per la nostra vita musicale. Le sue stesse opere, The King's Henchman e Peter Ibbet­ son, di sicuro non vanno errando dalla parte dello sciovinismo musicale, ma alla stessa stregua neppure rappresentano il paese o l’epoca dell’autore (chi ha detto che dovrebbero?). Gli Stati Uniti, esperimento politico ed econo­ mico, sono per necessità anche un esperimento artistico. Non c’è bisogno che mirino a una unità di espressione della razza prima che raggiungano se mai la raggiungeranno - una unità di razza (e, ancora, chi ha detto che dovrebbero? Quello di razza non è un concetto disgregante?). Le particolari condizioni degli Stati Uniti determinano risultati molto particolari anch’essi, ma non per questo insignificanti.101

5.4. Vendere la qualità, fissare l'improvvisazione

Altro frutto dei «kaleidoscopic meetings» fra Gershwin e Goldberg fu ITntroduzione al Song-Book pubblicato nel 1932. Da una lettera di George Gershwin all’amico studioso pare di capire che un iniziale scritto introduttivo alla raccolta di canzoni fosse opera esclusivamente di Isaac Goldberg quale ghostwriter. Gershwin se ne dichiara contento, ma afferma di volersi cimentare a scrivere un’introduzione lui stesso, di carattere più personale e meno tecnico, e promette di mostrarla a Goldberg per averne un giudizio102. Quella che leggiamo oggi dovrebbe dunque essere opera di Gershwin, anche se, come si vede, distinguere con esattezza non solo non è possibile ma è altresì inutile, dato lo scambio che sicura­ mente si verificò nel ripetuto passaggio di mano del breve scritto. Il SongBook, dedicato a Kay Swift, uscì in una edizione a tiratura limitata di

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trecento copie numerate e firmate dall’autore e dall’illustratore, Con­ stantin Alajalov, nel maggio 1932. L’editore Bennet Cerf di Random House era stato per Gershwin compagno di viaggio a Cuba nei mesi del precedente inverno. Era il tempo in cui il compositore aveva già ese­ guito la Second Rhapsody, elaborazione della sequenza Manhattan Rhap­ sody per Delicious, che con l’autore al pianoforte e Serge Koussevitzky alla direzione della Boston Symphony Orchestra aveva debuttato il 29 gennaio 1932. Verso la fine di marzo Gershwin aveva intanto, dopo cin­ que anni dai primi contatti, scritto un’altra lettera a DuBose Heyward pensando ancora a Porgy in forma operistica. E subito dopo (meno di due settimane per l’esattezza) la bella edizione del Song-Book illustrato, morì Morris Gershwin, padre del compositore. Seguì in settembre la pub­ blicazione del volume destinato alla vendita (presso l’editore Simon and Schuster). George Gershwin aveva intanto anche iniziato a studiare con Joseph Schillinger. Gli studi sarebbero continuati per quattro anni. L’Introduzione al Song-Book chiarifica come il volume, con il suo ten­ tativo di fissare sulla carta una evolutissima tecnica improvvisatoria, risponda all’esigenza di trasformare la musica da vendere in musica impe­ ritura, puntando sulla qualità per vincere i ritmi del consumo e conci­ liare infine: ingranaggio commerciale con fantasia improvvisativa ine­ sauribile; aspirazione alla composizione definita in precisi segni sulla carta, alla maniera “classica”, con efficienza della “macchina” per la produ­ zione in serie; artigianato redditizio con ambizione a non essere dimen­ ticato. Sullo sfondo il mondo dei party, abituale scenario alle improvvi­ sazioni di Gershwin sui suoi songs, protagonisti di così tante serate da motivare la definizione, valida per molti di loro, di “party-song”. La pubblicazione del Song-Book con le “trascrizioni” di 18 canzoni, se da una parte congela il getto dell’improvvisazione, dall’altra ne offre una seppure parziale testimonianza, spingendola in direzione di un pubblico composto da esecutori capaci, verso la durata nel tempo103. INTRODUZIONE [AL «GEORGE GERSHWIN’S SONG-BOOK»]

L’America negli ultimi vent’anni è diventata un vero e proprio vivaio di musica leggera. Proprio durante questo fecondo periodo ha prodotto musica fra la migliore che si possa trovare nella commedia musicale contem­ poranea. La strada era stata preparata, naturalmente, già fino dall’epoca ante­ cedente alla Guerra Civile, quando il minstrel show viveva il suo momento aureo e già si avevano canzoni e compositori veramente di musica leggera, per non dire dei primi esitanti passi delle jazz bands e dei sistemi di Tin Pan Alley, ben prima che Tin Pan Alley esistesse come strada. La musica leggera americana fin dalla sua origine ha decisamente acqui­ sito una sempre maggiore originalità; oggi può a buon diritto rivendicare di essere l’espressione più vitale della musica leggera contemporanea. Pur­ troppo però molte canzoni muoiono in giovane età e sono completamente dimenticate dal medesimo pubblico che le cantava un giorno con tanto entu­ siasmo. La ragione di questo è il fatto che esse vengono cantate e suonate troppo quando sono in vita e non ce la fanno a sopportare Io sforzo della

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loro stessa celebrità. Ciò è vero specialmente dopo l’invenzione del fono­ grafo e ancora di più dopo l’enorme diffusione della radio. Quando gli editori mi chiesero di pubblicare una raccolta di mie canzoni accettai l’idea con grande entusiasmo, perché pensavo che questo poteva essere un modo per farle vivere più a lungo. Mi venne anche in mente che l’idea sarebbe forse stata adottata da altri compositori di musica leggera. La musica pubblicata in fascicoli, come regolarmente si stampa per il con­ sumo su larga scala, viene arrangiata mirando alla facilità. Non è da farne una colpa agli editori se producono versioni facilitate delle canzoni, poiché la maggior parte degli acquirenti di musica leggera sono ragazzine dalle pic­ cole mani, non molto progredite nello studio del pianoforte. Per giunta, se si ha la pazienza di confrontare gli arrangiamenti della nostra musica leg­ gera di un tempo con quelli dei successi moderni, gli arrangiamenti di oggi, per quanto facili, rispetto a quelli del passato appariranno complicati. A poco a poco, con il generale accrescersi di abilità tecnica in chi suona il pianoforte, è sorta una richiesta di arrangiamenti che tengano presente tale abilità. Suonando così spesso le mie canzoni in occasione di serate in casa di amici e conoscenti, sono stato portato naturalmente a comporre nume­ rose variazioni su di esse e a indulgere al desiderio di complessità e varietà che ogni compositore prova allorché ha fra le mani ripetutamente lo stesso materiale. E stata tale mia abitudine a indurmi all’insolita proposta di pub­ blicare questo gruppo di canzoni non solo negli arrangiamenti facilitati che il pubblico già conosceva, ma anche nelle variazioni che avevo elaborato. Ecco spiegata, in questo libro, la presenza di trascrizioni per pianoforte solo di ogni ritornello, che per ogni pezzo seguono la versione già pubbli­ cata in fascicolo. Alcune di queste trascrizioni sono molto difficili: sono state qui inserite per quei buoni pianisti, oggi più numerosi, che amano la musica leggera, ma che si ribellano agli arrangiamenti troppo facili prodotti dagli editori per venire incontro alle capacità del pianista medio. In un paese che spende così tanto denaro nel ballabile era inevitabile che si dovesse riscontrare un radicale sviluppo nel modo di suonare lo strumento più importante: il pianoforte. L’evoluzione del nostro stile pianistico nella musica leggera ebbe il suo vero inizio con l’introduzione del ragtime subito prima della guerra contro la Spagna e raggiunse il culmine nell’età del jazz che seguì alla Grande Guerra. Molti i nomi che mi si affollano nella memo­ ria: Mike Bernard, Les Copeland, Melville Ellis, Lucky Roberts, Zez Confrey, Arden e Ohman, e altri ancora. Dobbiamo a ognuno di loro la divulga­ zione di una nuova tecnica, di qualche nuova invenzione nel modo di suonare. Alcuni fra i miei lettori rammenteranno parecchi di quegli espedienti, molti dei .quali in verità non erano altro che vistose trovate. Les Copeland aveva l’abitudine di pestare con la sinistra un gruppo indistinto di note da cui scivolava su un normale accordo: ciò produceva nel basso una pulsazione piuttosto interessante, una specie di spensierato effetto di sforzando. Ber­ nard aveva invece l’abitudine di suonare la melodia con la mano sinistra mentre tesseva una filigrana di contrappunto con la destra; per un po’ que­ sto fece furore, poiché suonava abbastanza bene a orecchie non abituate a procedimenti musicali più sofisticati. Il contributo di Confrey è stato più duraturo, in quanto alcune delle sue figurazioni pianistiche si sono affer­ mate nella musica impegnata.

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A tutti questi predecessori io sono debitore; certi effetti che realizzo nelle mie trascrizioni derivano dalla loro maniera di suonare il pianoforte. Ora, il pianista americano che suona canzoni è riuscito a tenere il passo con il progredire di esse. Come la canzone americana si è evoluta dal punto di vista armonico e ritmico, così l’esecutore è divenuto più sottile e incisivo nel modo di suonarla. Una delle principali indicazioni atte a conseguire lo stile più confacente all’esecuzione di questi pezzi è già ben individuata. Per suonare con mag­ giore efficacia la musica leggera americana ci si deve guardare dalla tendenza naturale a fare uso troppo frequente del pedale di risonanza. Lo studio dei grandi compositori romantici ci ha formati secondo il metodo del legato, mentre la nostra musica leggera esige effetti di staccato e uno stile esecu­ tivo in cui le note suonino quasi riprodotte a macchina. I ritmi della musica leggera americana sono tutti piuttosto taglienti: bisognerebbe farli schioc­ care, talvolta scoppiettare. Più certa musica è eseguita in modo pungente, tanto più convincente risulta. La maggior parte dei pianisti di formazione classica falliscono miseramente nell’esecuzione del ragtime o del jazz perché applicano l’uso del pedale di Chopin all’interpretazione dei blues di Handy. Il tocco romantico va benis­ simo per una ballata sentimentale, ma in un motivo dal ritmo netto è alquanto fuori luogo. Desidero ringraziare B. G. De Sylva, Irving Caesar, Ballard MacDonald, Gus Kahn e mio fratello Ira Gershwin (Arthur Francis) per avere acconsen­ tito a pubblicare i loro versi in questo volume. Desidero anche ringraziare il dott. Albert Sirmai per avere collaborato alla correzione delle bozze e a predisporre il materiale per la pubblicazione in volume. E anche Mr Constantin Àlajalov, i cui splendidi disegni hanno colto così bene lo spirito delle mie canzoni.104

6. Senso e limiti del nazionalismo in musica 6.1. Il jazz è una delle musiche popolari dell'America

AlFinizio del 1933 era pronto per la pubblicazione il volume Ameri­ can Composers on American Music curato da Henry Cowell105, risultato di una raccolta di testimonianze cui avevano contribuito compositori ame­ ricani o anche stranieri di nascita ma residenti in America e non solo negli Stati Uniti, compositori di varie generazioni e dai più svariati orien­ tamenti artistici. L’Introduzione è datata New York City, 12 gennaio 1933. Il progetto di Cowell era che ogni tendenza facesse sentire la pro­ pria voce a dimostrazione della molteplicità e del pluralismo. Si trattava di un’idea audace ma bilanciata, nonché lievemente provocatoria: «I par­ ticolari punti di vista sono qui contrapposti gli uni agli altri in modo da rendere meglio l’idea delle diverse tendenze oggi seguite in Ame­ rica»106. Compositori americani furono chiamati a parlare di altri com­ positori americani: in questo senso si trattò, nella prima parte del volume, per lo più di elogi incrociati fra soggetti compatibili (Weiss su Riegger, Riegger su Weiss, per esempio)107. Ma si sa che, lodando un autore,

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implicitamente se ne screditano altri. Inoltre, nella seconda parte i com­ positori discussero tendenze generali della musica americana, includendo Messico e Cuba108. Entrambe le sezioni del libro si chiudono nel nome di Ives, che pure non prese parte direttamente al Symposium: la prima con il saggio di Cowell109, la seconda con la ristampa dell’articolo dì Ives Music and Its Future1™. S’intende che non fu un caso. In un’opera essa per Cowell rappresentò anche una non lieve fatica sul piano orga­ nizzativo - che mira all’abbattimento delle barriere nazionalistiche, all’inclusione di nuovi materiali musicali che convivano pacificamente con i vecchi nel patrimonio del compositore e a nuovi usi di vecchi mate­ riali che si affianchino ai vecchi usi di vecchi materiali; in un’opera il cui motto è rimettere tutto in discussione rendendo compatibili e coesi­ stenti elementi che la tradizione di lunghi secoli di musica colta ha voluto distanziare; in un’opera cosi, chiaramente Ives non può che svettare. La ricerca - pratica, di compositore, e teorica - di Cowell sui nuovi materiali musicali si era attivata fino dall’inizio della sua storia di musi­ cista allorché nel 1917, appena ventenne, già autore di 199 composi­ zioni in cui si serviva di materiali convenzionali e non, cominciò a scrivere New Musical Resources, ultimato nel ’19 ma pubblicato solo nel ’30 ul, in cui proclamava di applicare «la teoria della relatività musicale»112. E già allora connetteva le emozioni che sono alla fonte dell’esperienza musi­ cale con il dominio dei veicoli tecnici che le trasmettono. Trascurare l’importanza dei materiali non contribuisce all’elaborazione di uno stile personale, né alla perfezione o alla libertà di espressione. Le emozioni musicali non sono mai così spontanee come quando le forme attra­ verso le quali esse si manifestano sono così note al compositore da divenire inconsce e si possono con mille sfumature adattare a quella particolare situa­ zione. Le emozioni di un ascoltatore dotato di sottile sensibilità non potranno mai offrire piacere e soddisfazione completi se la composizione che egli ascolta contiene asprezze di cui non sia consapevole a livello intellettuale così come le percepisce a livello emozionale.113

La costante esigenza di rendere cosciente l’ascoltatore americano si accompagnò sempre per Henry Cowell - instancabile esploratore del rapporto strettissimo fra le emozioni più intime e la teoria più sperico­ lata - all’altrettanto costante esigenza di rendere cosciente il composi­ tore americano che egli spronò a far sentire la propria voce. Cowell si impegna a non prendere niente per scontato e pone Kreisler e Heifetz allo stesso livello del fiddler dello sperdutissimo villaggio: gli uni e l’al­ tro sono infatti sommi maestri all’interno del loro sistema, però non pos­ sono eccellere l’uno nel sistema degli altri114. Per i musicisti che presero parte al progetto American Composers on American Music, compositore americano e musica americana significa­ vano principalmente o necessità di rendersi indipendenti dall’Europa o spirito di competizione volto al superamento di essa (sullo stesso piano, però). Nella suddivisione dei compositori americani in categorie, Cowell

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colloca Gershwin nel gruppo - il quinto - «di compositori americani che non tentano di sviluppare idee o materiali originali ma si servono di quelli che già sono disponibili in America e li adattano a uno stile europeo»115, Gershwin è in compagnia di Copland, Carpenter, Janssen, Rogers, Jacobi, Converse, più i due stranieri di nascita Bloch e Gruenberg, tutti francesizzati, George Gershwin sarebbe «il più grande mae­ stro di vero jazz che però rimuove [Cowell un po’ ambiguamente scrive «extracts»] dal suo jazz tutte le qualità originali e lo costruisce in uno stile sentimentale tipicamente europeo, mescolando Liszt, Puccini, Stra­ vinsky e Wagner quando cerca di scrivere musica “classica”»116. Cowell è dinanzi a Gershwin un osservatore di mente aperta, ma “colto” e il suo giudizio è quello dei colleghi e dei critici della sfera “colta”. La lista delle suddivisioni segue del resto una parabola marcatamente discendente quanto al giudizio che si dà circa il valore dei compositori americani. E questa è la premessa: Tutti loro in certa misura trascendono i ristretti confini di definizioni o scuole. Molti scrivono a volte in un modo, a volte in un altro. Con i com­ positori europei è spesso possibile affermare con un buon margine di sicu­ rezza che sono “espressionisti” o “impressionisti”, che scrivono musica “ato­ nale” o “politonale”, ecc. Con i compositori americani questa terminologia praticamente non è mai azzeccata, poiché tutti gli americani hanno nella loro musica mescolanze di tali elementi.117

Quindi, dal primo gruppo, cui appartiene Ives, giù giù fino al set­ timo, autonomia e originalità vanno calando, nonostante illustri esempi di ispirazioni e doti, sempre inquinate da pose alla francese (anche alla tedesca e all’italiana) o da attitudini reazionarie. Finché giungiamo all’ot­ tavo e ultimo gruppo, quello delle “promesse” e sale di nuovo il livello. Certe considerazioni potevano riuscire scomode per chi come Cowell si professava avverso a ogni settorialismo: l’esaltazione dell’americanità era troppo trasparente. Per evitare “malintesi” il finale del capitolo Trends in American Music rimette in discussione il nazionalismo in musica, dichia­ randone la validità provvisoria: Tutte le categorie che abbiamo enumerato includono uomini di grande valore e musica di valore può essere scritta secondo ognuna delle tendenze che essi rappresentano. In particolare modo non è mia intenzione muovere critiche contro quei compositori che seguono modelli europei. Sarebbe assurdo aspettarsi che gli europei debbano cambiare di colpo stile musicale perché si trasferiscono in America. Alcuni dei nostri compositori di maggior talento sono quelli che, come Weiss, seguono i moderni principi germanici o che, come Copland, seguono le moderne maniere francesi. Il fatto sor­ prendente comunque è che abbiamo anche prodotto nel mondo della musica contributi originatisi proprio qui. La maggior parte dei nostri compositori non hanno ancora cominciato a utilizzare questi contributi né tanto meno a svilupparli; alcuni fra i più indipendenti però li utilizzano e anche ne inven­ tano altri. È comunque interessante chiarificare la questione se certa musica

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sia americana nella sua essenza o soltanto a causa del titolo o della fortuita nazio­ nalità del compositore. Certa musica si può definire essenzialmente americana in quanto esprime una certa fase della vita o del sentimento dell’America. Certa altra musica si può chiamare americana se contiene materiali nuovi creati da un compositore americano o dal popolo dell’America. Il nazionalismo in musica di per sé non ha senso. La musica trascende feli­ cemente sbarramenti politici e razziali e vale o non vale indipendentemente dalla nazione in cui è stata concepita. L’indipendenza comunque è più forte dell’imitazione. Nelle mani di grandi uomini l’indipendenza può produrre risul­ tati di valore duraturo. Non ci si può aspettare che l’imitazione produca esiti altrettanto significativi. La musica americana è stata finora attaccata alle sottane della tradizione europea. Al fine di conseguire l’indipendenza musicale, oggi il compositore ame­ ricano deve raggiungere una maggiore coscienza nazionale. Il risultato di un tale risveglio dovrebbe essere la creazione di opere capaci di imporsi all’atten­ zione internazionale. Ottenuto questo, autocoscienza e nazionalismo non saranno più necessari.118

Gershwin non presentò un contributo per il Symposium e le brevi note che seguono furono stese dallo stesso Cowell seguendo evidente­ mente dichiarazioni orali del compositore. IL RAPPORTO FRA IL JAZZ E LA MUSICA AMERICANA

La grande musica del passato in altri paesi ha sempre avuto come fonda­ mento la musica popolare che è la fonte più vitale e feconda. L’America non fa eccezione rispetto agli altri paesi. La migliore musica che oggi vi si scrive è quella che nasce da fonti popolari. Non sempre viene riconosciuto che l’America ha una musica popolare; eppure in realtà non ne ha una sola, anzi ha molti tipi di musica popolare, gli uni diversi dagli altri. È un immenso paese e diversi tipi di musica popolare sono sorti in diverse parti, validi tutti, ognuno di essi possibile base per lo sviluppo di una musica d’arte. Per que­ sta ragione credo che diversi stili particolari possano svilupparsi in Ame­ rica, tutti eredi legittimi del canto popolare delle diverse località. Jazz, rag­ time, Negro spirituals e blues, canti di montagna del sud, country fiddling e cowboy songs possono tutti essere impiegati nella creazione della musica d’arte americana e per la verità oggi vengono usati da molti compositori. Tali compositori sono sicuramente in grado di produrre qualcosa di valido se hanno innato sentimento e talento per sviluppare il ricco materiale loro offerto. Ci sono anche altri compositori che si possono a buon diritto classi­ ficare come americani, i quali non si basano sulla musica popolare ma, lavo­ rando in America, hanno elaborato stili e metodi personalissimi. I materiali da loro recentemente scoperti si dovrebbero chiamare americani, così come un’invenzione viene chiamata americana se è ideata da un americano! Io considero il jazz come una musica popolare americana; anche se non l’unica, è importantissima ed è forse nel sangue e nel sentimento degli ame­ ricani più di ogni altro tipo di musica popolare. Credo che, nelle mani di un compositore che abbia talento sia per la musica jazz che per quella sin­ fonica, si possa assumere come base per lavori sinfonici impegnati di dura­ turo valore.119

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L’America come crocevia delle tendenze opposte che si incontrano; l’America come luogo del pluralismo; il jazz visto come musica popo­ lare, una delle tante possibili musiche popolari dell’America: Gershwin gioca la sua solita carta della folk-music eletta a durabilità nelle mani del compositore di genio che l’affronti con gli strumenti della musica “seria”. Il punto di vista di Gershwin nel Symposium di Cowell non era certo maggioritario. Visto l’insieme in cui si trovava, non solo le sue doti non facevano effetto a nessuno, ma su una posizione come la sua pesavano tutti gli svantaggi risultanti dal fatto che l’altro osservatore all’interno del Symposium era posizionato sul versante opposto. Se difatti secondo qualcuno l’americanità viene identificata come sentimentalismo, energia nervosa, dinamismo fino all’amore del sensazionale120; se la musica esprime «un’emozione che risulta dal contatto con la vita quoti­ diana, con il rumore, con il ritmo, con l’energia, con l’intraprendenza della macchina», pur senza con ciò intendere musica a programma bensì soltanto «una costruzione rigorosamente musicale i cui ritmi derivino da quelli della macchina»121; se si esalta lo stile in quanto spettacola­ rità che s’impone miscelando il serio e il giocoso a tal punto «che non si sa o non interessa sapere qual è l’uno e quale l’altro»122; se il com­ positore degli Stati Uniti avverte le difficoltà insite nel tentativo di creare una “scuola nazionale” basandosi su materiale folk a causa dei contra­ sti che si determinano fra gli elementi di semplicità e quelli di sofisticatezza musicale, il tutto alla luce del bisogno di autonomia, affinché anche gli Stati Uniti diventino «un nuovo mondo con una nuova musica origi­ nata da se stesso»123; se l’autentico elemento folk nella musica ameri­ cana è considerato ormai differenziato da quello europeo per il suo gusto dell’irregolarità, della sorpresa, del “difetto” ed è in posizione dialet­ tica rispetto al cultivated che pure tenta di fissare un’esperienza viva124; se Ives profetizza - con tanto di impennata emersoniana nel finale che la salvezza della musica non è nei gruppi e nelle sette particolari, che «la speranza della musica tutta - del futuro, del passato, per non dire del presente - non sta nelle parzialità e nei pregiudizi di chi va in delirio per un’opera ultramoderna (ammesso che esista) però disprezza Schubert, o nel fazioso che dissennatamente sostiene la posizione oppo­ sta. Né starà in alcun culto o idioma o in alcun artista o compositore. Tutte le cose nella loro molteplicità partecipano di un’unica essenza e sono esse sole a se stesse confine»125; se fin qui rispetto alle posizioni di Gershwin c’era perlomeno compatibilità, altri punti di vista mostrano innegabilmente quanto dinanzi a differenti tendenze nel panorama sta­ tunitense di quegli anni la particolare posizione di George Gershwin appa­ risse progressivamente remota fino alla squalificazione. Non è tanto il caso di alcune istanze di elevare il jazz svincolandolo dai confini del bal­ labile, dandogli autonomia126; ma piuttosto sfumature presenti nell’e­ saltazione di un’America che ha superato il modello, cioè l’Europa, pre­ miando in tal modo l’applicazione assidua secondo il principio che «la formazione sull’armonia tradizionale e sul contrappunto di Bach costi­



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tuisce la base per una equilibrata modernità»127; rappresentanti di ten­ denze simili - e sono molti - implicitamente guardano Gershwin dal­ l’alto, quale esponente dell’altro mondo, quello della musica leggera. Inne­ gabile che il Symposium accolse voci decisamente avverse ai principi pro­ clamati da Gershwin, specialmente per quanto riguarda rapporto fra jazz e musica “classica” e ascesa dell’uno alla dimensione imperitura dell’altra: Che gran corpo goffo è questa musica americana! Gran talento, grandi risorse, grandi opportunità; ma resta pur sempre un gigante senza testa né piedi: niente arte popolare su cui basarsi, niente capo che ci instradi. Stam­ pelle e guide le prendiamo acriticamente in prestito dall’Europa e ci pare di muoverci con grazia e disinvoltura! Ed è proprio con lo sguardo rivolto a questo mostro che ci compiacciamo di valutarne l’operato così fine, enig­ matico, ricercato! E se invece dicessimo che è squilibrato nel metodo e nei criteri? Come potrebbe essere altrimenti? Tracce di Giovanni Sebastiano! Non può essere che così. Per raddrizzare un gigante tanto sbilenco bisogna proprio essere sbilenchi, piegati nell’altro senso però. E Carl Ruggles lo è. Gli europei guardano ai nostri compositori impegnati secondo l’immagine che l’Europa ha dello spirito dell’America? lasciate che guardino ad altri, non a Ruggles: egli è più o meno l’opposto di tutto ciò che si presuppone essere tipicamente americano. Grazie al cielo! E non è il solo; qualcun altro c’è. Senza di loro, e se non si offre loro un qualche sostegno, la musica ame­ ricana non sarà mai altro che un pallido riflesso dell’arte europea, proprio quello che l’arte di Roma fu dell’arte degli Elleni! Certi giudici europei per­ sistono a sconsigliare l’apprezzamento di Portals. Sembrano preferire compo­ sizioni americane che mostrano «l’influenza del jazz». Quale sarebbe l’im­ pressione dei francesi se a un festival internazionale si ritenesse che la loro musica possa essere rappresentata solo da lavori che mostrano l’influenza delle chansons del Settecento? Quale l’impressione dei tedeschi se tre o quat­ tro valzer di Strauss (o imitazioni di essi) venissero scelti per rappresentare la loro musica? Il jazz è un aspetto della produzione musicale americana tanto insignificante quanto lo sono entrambi quei generi così incantevoli ma note­ volmente limitati e sfiziosi, La musica americana impegnata non ha con esso più elementi in comune di quanti ne abbia l’equivalente musica europea. E fra parentesi - lo si lasci dire a uno che il buon jazz lo apprezza sul serio non mi è mai giunta notizia di una sola utilizzazione del jazz nella cosid­ detta musica classica che non riducesse il valore della composizione dal punto di vista artistico. Né mi è giunta notizia di una sola utilizzazione del jazz che riuscisse in qualche modo a produrre musica bella, ingegnosa o che altro per il valore pari a un decimo di quanto ne abbia l’improvvisazione in dor­ miveglia di un qualsiasi complesso negro da sala da ballo. Il jazz addomesti­ cato è una volgarizzazione della musica classica europea: specialmente Brahms e Wagner generosamente conditi con Debussy. Per i musicisti europei o ame­ ricani seriamente intenzionati, gingillarsi con quella che per la loro arte è mera concimazione non solo è fatale ai fini della singola opera ma è meglio di ogni altra cosa - indice del fallimento completo dello stile roman­ tico. «Il faut cultiver nos jardins!». Sì, però mangiate la frutta, non il concime.

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Il rifiuto da parte di Ruggles di vendersi a ogni forma di popolarità è consolante come il suo rinnegamento del jazz. Naturalmente questa scelta riduce il suo pubblico e gli impone di essere un artista per gli artisti.128

Un tono di protesta agita infine il saggio di Roy Harris129 che mostra notevole penetrazione e consapevolezza sul piano storico-sociale nel denunziare la passività della musica americana rispetto ai modelli euro­ pei e che nella meccanizzazione non individua soltanto vantaggi per la «fresca vitalità», per la «illimitata riserva di energia» dell’americano, la cui spontaneità ricettiva è dominata dall’imitazione e la cui creatività è impiegata nell’edificare una potente routine commerciale. Mentre i pensieri sui conflitti fra tradizione e innovazione sono così felicemente sintetizzati da Charles Seeger: Certo, in Europa la musica può continuare per un bel po’ lungo le linee abituali, con blandi esperimenti sulla base delle tradizioni ereditate dagli antenati. Ma in America praticamente non ci sono tradizioni perché non ci sono stati antenati, musicali voglio dire: tutti i nostri antenati trascorre­ vano la vita all’aria aperta, abbattendo alberi a colpi d’ascia. E ammazzando gli indiani. Cosicché ora che la musica cerca di riguadagnare tre secoli di tempo perso, è doppiamente vergogna che non solo l’Europa debba cuocere nel suo brodo, ma che in quello stesso brodo cuocia anche l’America.130

6.2. “Il mito dì Gershwin"". Ripresa del problema dell"orchestrazione Sul numero di dicembre 1932 dell’«American Spectator» era stato pubblicato un articolo che attaccava Gershwin come orchestratore. S’in­ titolava The Gershwin Myth ed era opera di Allan Lincoln Langley, vio­ lista, violinista e compositore formatosi al New England Conservatory, il quale già nel ’25 era stato fra i primi esecutori del Concerto in P sotto la direzione di Walter Damrosch e già allora aveva contestato il compo­ sitore. Nel novembre 1932 Gershwin, William Daly e l’ungherese San­ dor Harmati si erano avvicendati sul podio. Daly diresse fra l’altro An American in Paris. Il concerto, fra parentesi, era di beneficenza a favore dei musicisti disoccupati. Secondo Langley durante le prove Daly mostrò di conoscere le partiture di Gershwin meglio del presunto autore e il violista riaprì la questione della paternità delle orchestrazioni stesse. Il tono era fortemente risentito. Gershwin, pur essendogli stato offerto spazio sulla medesima rivista per ribattere alle accuse, rinunziò a difen­ dersi. Prese le sue parti Daly sul «New York Times», il che era ovvia­ mente destinato a fare risultare la difesa molto più convincente, oltre a procurarle maggiore diffusione presso i lettori.

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Arte e Business: la “doppia vita" di George Gershwin e le due anime dell'America GEORGE GERSHWIN COME ORCHESTRATORE

Sull’« American Spectator» dello scorso dicembre fu pubblicato un arti­ colo di Allan Lincoln Langley intitolato The Gershwin Myth, in cui Fautore cerca con determinazione di dare a intendere ai lettori che Gershwin non è Forchestratore, e probabilmente neanche Fautore, delle opere a lui attri­ buite. Io da parte mia ricevo non poco onore dal sapermi menzionato come un probabile ghostwriter, come risulta da quel che segue: «Quanto a An American in Paris, Daly, uomo di grandi doti, era costan­ temente presente*alle prove, sia come répétiteur che come consulente e ogni membro dell’orchestra potrebbe testimoniare che egli conosceva la parti­ tura molto meglio di Gershwin. Il fatto è questo: nessun altro musicista che abbia preteso di essere onorato come compositore di musica sinfonica ha mai offerto il destro a tante e tali dispute e controversie riguardo al fatto se le sue opere siano o non siano sue». Grazie a Mr Langley per il complimento che mi fa, ma io non ho né scritto né orchestrato FAmerican. Il mio unico contributo è consistito in qualche suggerimento su come rinforzare la partitura qua e là, né sono sicuro che Gershwin l’abbia accettato. E se non l’ha accettato probabilmente c’erano buone ragioni. Ma insomma Gershwin di suggerimenti ne riceve molti dai suoi molti amici ai quali suona sempre le sue varie composizioni, leggere o sinfoniche, mentre vi sta lavorando. Mr Langley forse s’immagina che noi tutti ci riuniamo (dovremmo trovarci allo Yankee Stadium) a scrivere la musica di Mr Gershwin al posto di lui. Sarei ben felice di essere noto come il compositore di An American in Paris o di qualunque altra opera di Gershwin, o come Forchestratore di esse. Ma ahimè! Io di mestiere faccio il direttore (ed è forse perché Mr Gershwin pensa che sono un buon direttore, specialmente per la sua musica, che Mr Langley è stato depistato). E vero che orchestro molti numeri di Gershwin per il teatro; ma lo fa anche Russell Bennett. E ho anche adattato alcuni suoi lavori sinfonici per un’orchestra ridotta, ai fini delle trasmissioni radio­ foniche. Ed è vero che siamo amici intimi - con mio grande beneficio - e che io mi valgo di questo rapporto confidenziale per muovergli delle criti­ che. Ma ciò è ben lungi dal ruolo che Mr Langley mi attribuisce. Insomma, il fatto è che io non ho mai scritto una nota di alcuna delle sue composizioni, così come non ho orchestrato per intero una battuta di alcuno dei suoi lavori sinfonici. Le asserzioni di Mr Langley assumono importanza solo per colpa del fatto che ora sono pubblicate e vengono lasciate circolare per il mondo a influen­ zare coloro che non dispongono di strumenti per controllare com’è andata, e a incoraggiare chi vuole credere che Gershwin sia un mito, non una realtà. Suppongo che dovrei seriamente offendermi del fatto che Langley mi attri­ buisce le opere di Gershwin, giacché gli paiono tutte così scadenti. Ma for­ tunatamente per il mio amour propre ho sentito qualcuna delle composi­ zioni di Langley. Dovrebbe starsene lontano dalla penna e tenersi ben stretta la sua viola.131

Del resto poco tempo dopo la prima esecuzione di Second Rhapsody, e appunto nel’33, Grofé ne fece ancora uno speciale arrangiamento per

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la Whiteman Band, e in questa forma la incluse nel suo repertorio. Così succedeva che ogni musical venisse orchestrato da altri, secondo l’uso di quel mondo e di quel tempo e secondo la fretta di quei meccanismi di produzione. Eppure dall’anno precedente Gershwin aveva iniziato gli studi con Joseph Schillinger, che si protrassero fino al 1936. Fra tutti i maestri di Gershwin, Schillinger fu senza alcun dubbio il più coinvolto nelle questioni della teoria musicale132. Le composizioni “serie” di que­ sti anni, da Cuban Overture155 a “I Got Rhythm” Variations15* a Porgy and Bess, rivelano gli influssi del suo insegnamento. La produzione di commedie musicali e operette proseguì frattanto con Pardon My English155 e Let 'Em Eat Cake156, entrambe segnate da scarso successo.

6.3. Beneficenza Un altro aspetto della personalità di George Gershwin. Il 26 settem­ bre 1933 molti giornali riportarono questa notizia: il compositore con­ tribuiva generosamente a borse di studio per perfezionarsi con Schon­ berg a Boston, dove quest’ultimo, emigrato negli Stati Uniti, avrebbe insegnato. Da notare che i due musicisti, i quali a Hollywood sarebbero in seguito divenuti amici, non si erano ancora incontrati. Il «New York Times» pubblicava un articolo così intitolato: Funds for Study with Schoen­ berg: Mrs A. L. Filene and George Gershwin Aid Scholarship for Compo­ ser's Course. He will teach in Boston. Exile from Germany, He Will join Staff of Newly Formed Malkin Conservatory157. E toccante nella sua semplicità estrema appare, soprattutto alla luce dei riferimenti autobiografici, la lettera da Gershwin inviata solo pochi giorni prima allo stesso «New York Times» a testimonianza di un impe­ gno a favore dei ragazzi poveri che intendessero dedicarsi allo studio della musica. RAGAZZI DI TALENTO HANNO BISOGNO DI AIUTO

Al direttore del «New York Times»: So per esperienza personale che cosa significhi avere la possibilità di stu­ diare musica. La preparazione offerta dalla Henry Street Settlement Music School è di altissimo livello e la scuola è un importante centro artistico e sociale. Quest’anno abbiamo bisogno di aiuto per continuare P educazione musi­ cale e sociale di ragazzi di talento. Non si richiede una gran somma, ma sono necessari ulteriori fondi. Cinquanta dollari coprono le spese di un corso gra­ tuito per un ragazzo dotato che non è in grado di pagarsi le lezioni. Saremo profondamente grati a chiunque creda di poterci aiutare. Si prega di inviare gli assegni al n. 8 di Pitt Strett.138

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7. Folk-opera, Mescolanza di generi e stili e sua giustificazione Porgy and Bess andò in scena a Broadway, allo Alvin Theater, il 10 ottobre 1935. Gershwin vi aveva lavorato dal febbraio dell’anno prece­ dente. Paralleli alla composizione dell’opera svariati altri eventi: il ciclo di trasmissioni radiofoniche con frequenza bisettimanale intitolate «Music by Gershwin» durate gran parte dell’anno 1934, a cominciare dalla fine di un intensissimo tour concertistico che in un mese aveva compreso un concerto ogni giorno. Nel giugno Gershwin soggiornò a Folly Island al largo di Charleston dove intese raccogliere materiale folk attingendo direttamente alle fonti, e cioè alla comunità afro-americana, ai suoi usi, alle sue credenze, alla sua musica e alla sua lingua. Ai suoi ritmi. Quando il compositore tornò a New York, il fratello Ira cominciò ad affiancarsi a DuBose Heyward per la stesura del libretto. L’inverno successivo fu dedicato all’orchestrazione, cui Gershwin lavorò molto durante un sog­ giorno a Palm Beach. Le prove ebbero inizio verso la fine di agosto. Pochi giorni dopo la prima rappresentazione dell’opera, il 20 ottobre, Gershwin scrisse un articolo per le pagine teatrali del «New York Times» domeni­ cale. È uno scritto di tanti contenuti, dai quali traspaiono ricche idee e anche molti dei problemi che un lavoro come Porgy and Bess creava al suo compositore. Perché “folk-opera”? Perché tante commistioni con il genere leggero, perché tanti songs? E perché l’opera non era passata dai tradizionali canali operistici e non era rappresentata dove si conve­ niva al genere? Del resto la questione basilare era: a quale genere Porgy and Bess appartiene e quale stile è ad essa confacente? RAPSODIA A CATFISH ROW

Fin dalla prima rappresentazione di Porgy and Bess mi è stato chiesto spesso perché si chiami “folk-opera”. La spiegazione è semplice: Porgy and Bess è un racconto popolare, i cui personaggi è naturale che cantino musica popo­ lare. Quando cominciai a comporre la musica fui subito contrario all’utiliz­ zazione di materiale popolare originale, perché volevo che la musica avesse carattere unitario. Perciò scrissi io stesso gli spiritual e i folksongs. Ma sono pur sempre musica popolare. Quindi, presentandosi in forma operistica, Porgy and Bess è una “folk-opera”. Tuttavia, poiché Porgy and Bess ha per soggetto la vita dei negri d’Ame­ rica, vengono introdotti nella forma operistica elementi che nell’opera non erano apparsi mai e ho modellato i miei criteri compositivi per utilizzare la drammaticità, l’umorismo, la superstizione, il fervore religioso, la danza e l’irrefrenabile allegria di quella razza. Se così facendo ho creato un nuovo genere che combina l’opera con il teatro, questo nuovo genere è derivato in tutta naturalezza da tale materiale. Non ho sottoposto questo lavoro agli sponsor cui di solito si sottopone l’opera in America perché speravo di avere realizzato, nel campo della musica americana, qualcosa che avrebbe interessato le masse, invece che una mino­ ranza colta.

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Avevo l’idea che l’opera dovesse essere divertente, cioè che dovesse con­ tenere tutti gli elementi dell’intrattenimento. Perciò, quando scelsi come soggetto Porgy and Bess, una storia di negri di Charleston, fui certo che mi avrebbe consentito di scrivere musica sia leggera sia impegnata e che mi avrebbe anche consentito di inserirvi sia umorismo sia tragedia e anzi tutti gli elementi di intrattenimento da vedere e da ascoltare, perché la razza negra possiede tutte quelle qualità. Questa gente è ideale per il mio scopo, perché si esprime non solo parlando, ma in modo altrettanto naturale con il canto e con la danza. L’umorismo è un aspetto importante della vita in America, e un’opera americana senza umorismo non potrebbe coprire l’intera gamma espressiva della nazione. In Porgy and Bess ci sono abbondanti occasioni di canzoni e danze spiritose. Questo umorismo è naturale, non “gags” che si sovrap­ pongono alla storia, bensì umorismo che scaturisce dalla storia stessa. Per esempio, il personaggio di Sportin’ Life anziché essere un sinistro spacciatore di droga è uno spiritoso furfante ballerino, che ispira simpatia e fiducia e al tempo stesso è malvagio. Fummo fortunati a trovare per que­ sta parte un giovane il cui talento corrisponde perfettamente al personag­ gio, John W. Bubbles, o, com’è noto fra gli appassionati di vaudeville, sem­ plicemente Bubbles, quello di Buck and Bubbles. Fummo parimenti fortunati a trovare Todd Duncan per la parte di Porgy e Anne Brown per quella di Bess: entrambi conferirono intensità drammatica alla partitura. Fu possi­ bile trovare tali interpreti perché quello che cercavamo in loro appartiene alla loro razza e quindi appartiene a questa nostra storia della loro razza. Tanti contestarono la mia scelta di un artista da vaudeville per una parte operistica, ma la sera della prima tutti acclamarono Bubbles. Fummo anche fortunati perché riuscimmo a invogliare il grande regista Rouben Mamoulian a tornare da Hollywood per allestire lo spettacolo. Era stato Mr Mamoulian a mettere in scena l’originaria produzione teatrale di Porgy, Egli ne conosceva tutto il valore e, cosa ancora più preziosa, la sua conoscenza dell’opera era pari a quella che aveva del teatro e fu capace di far confluire la sua conoscenza di entrambi in questo nuovo genere. A mio avviso la sua regia non ha lasciato niente a desiderare. Per raggiungere nella fossa d’orchestra lo stesso livello del palcoscenico riuscimmo ad avere Ale­ xander Smallens, che ha guidato la Philhadelphia e la Philharmonic Sym­ phony Orchestra e diretto più di centocinquanta opere. La sua presenza è stata per noi di inestimabile valore. Scelsi la forma che ho dato a Porgy and Bess perché credo che la musica sopravviva soltanto quando sia concepita in una forma impegnata. Allorché scrissi Rhapsody in Blue presi dei “blues” e li collocai in una forma più estesa e impegnata. Ciò accadeva dodici anni fa e Rhapsody in Blue è sopravvissuta benissimo, mentre se avessi preso gli stessi temi e li avessi utilizzati per la composizione di canzoni, essi sarebbero già stati dimenticati da un pezzo. Nessun’altra storia avrebbe potuto essere più adatta di Porgy and Bess per la forma impegnata che io volevo. Prima di tutto è una storia americana e io credo che la musica americana si dovrebbe basare su materiale ameri­ cano. Quando lessi Porgy sotto forma di romanzo sentii che possedeva umo­ rismo oltre a un’intensità drammatica al cento per cento. Allora scrissi a DuBose Heyward suggerendogli di farne un’opera insieme.

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Le mie impressioni, ricavate da quella prima lettura del romanzo, furono confermate quando fu rappresentato il dramma teatrale: il pubblico affollò il teatro dove esso continuò ad andare in scena per due anni. Mr Heyward e io, collaborando a Porgy and Bess, abbiamo cercato di intensificare le qualità di coinvolgimento emotivo della storia senza perderne le caratteristiche origina­ rie. Io ho scritto la mia musica affinché fosse parte integrante di quella storia. È vero che ho scritto canzoni per Porgy and Bess. Non mi vergogno mai di scriverne, purché siano canzoni di qualità. Lavorando a Porgy and Bess avevo coscienza di comporre un'opera che fosse al tempo stesso teatro e mi resi conto che senza canzoni non sarebbe stata né teatro né intrattenimento, almeno dal mio punto di vista. ’ Ma le canzoni appartengono appieno anche alla tradizione operistica. Molte fra le opere più popolari del passato contenevano romanze. Quasi tutte le opere di Verdi contengono quelle che si direbbero “canzoni di successo”. Carmen è quasi una raccolta di canzoni di successo. E che dire di The last Rose of Summer, forse una delle canzoni più note del suo tempo? Quanti fra quelli che la cantano sanno che faceva parte di un'opera? Naturalmente in Porgy and Bess le canzoni sono soltanto una parte in un insieme composto anche di altri elementi. I recitativi ho cercato di renderli quanto più possibile simili all’inflessione che i negri hanno nel parlare e credo che il mio apprendistato di autore di canzoni mi sia stato di inestimabile aiuto a questo riguardo, perché in America gli autori di canzoni hanno svi­ luppato al massimo grado la capacità di musicare testi in modo che la musica ne intensifichi le qualità espressive. Mi sono servito di una trama continua di musica sinfonica per amalgamare intere scene: mi ero preparato a tale impresa con studi più avanzati di contrappunto e armonia moderna. Nel libretto di Porgy and Bess credo che Mr Heyward e mio fratello Ira siano riusciti a sintonizzare in modo eccellente attitudini diverse: Mr Heyward ha scritto quasi tutte le parti più legate alla tradizione indigena, mentre si devono a Ira quasi tutte le canzoni più sofisticate. Per mostrare la gamma di differenti attitùdini esplicata nel loro lavoro, ricorrerò a qualche esempio. Si veda la preghiera nella scena dell'uragano, scritta da Mr Heyward:

Oh, de Lawd shake de Heavens an’ de Lawd rock de groun’, An’ where you goin’ stand, my brudder an' my sister, When de shy come a-tumblin’ down. Oh, de sun goin' to rise in de wes' An’ de moon goin’ to set in de sea An' de stars goin’ to bow befo' my Lawd, Bow down befo’ my Lawd, Who died on Calvarie.

E, per contrasto, la canzone di Sportin' Life scritta da Ira per la scena del picnic:

It ain’t necessarily so, It ain’t necessarily so, De t’ings dat yo’ li’ ble To read in de Bible, It ain’t necessarily so.

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Li’l David was small, but oh my! Li’l David was small, but oh my! He fought big Goliath Who lay down an’ dieth. Li’l David was small, but oh my! Si veda poi la ninna-nanna di Mr Heyward che apre l’opera: Summer time, an’ the livin’ is easy, Fish are jumpin’, an’ the cotton is high. Oh, yo’ daddy’s rich an’ yo’ ma is good-lookin’, So hush, little baby, don’t yo’ cry.

One of these mornin’s you goin’ to rise up singin’, Then you’ll spread yo’ wings an’ you’ll take the sky. But’ til that mornin’ there’s a nothin’ can harm you With Daddy an’ Mammy standin’ by. E, ancora, la canzone di Sportin’ Life scritta da Ira per l’ultimo atto: There’s a boat dat’s leavin’ soon for New York. Come wid me, dat’s where we belong, sister. You an’ me kin live dat high life in New York. Come wid me, dere you can’t go wrong, sister.

I’ll buy you de swellest mansion Up on upper Fi’th Avenue, An’ through Harlem we’ll go strutting We’ll go a-struttin’, An’ dere’ll be nuttin’ Too good for you.

Tutti questi versi, credo, sono il linguaggio naturale dei negri. Sono adatti per la mia musica popolare. Così Porgy and Bess è una “folk-opera”, un’o­ pera che è al tempo stesso teatro, ricca di senso drammatico, di umorismo, di canti e di danze.139

Lo scritto è caldo e persuasivo; le argomentazioni interessanti. La ven­ dita dei biglietti non andava bene. I critici accusavano Gershwin di avere prodotto una serie di canzoni priva di coesione. Con le sue considera­ zioni sulle canzoni e la loro continuità e omogeneità rispetto alle arie delle grandi opere del repertorio tradizionale, Gershwin cercò di reinse­ rirsi nella storia della tradizione operistica, cui le critiche di molti recensori lo sottraevano, anche nel tentativo di incoraggiare il pubblico ad assi­ stere alla sua opera. Tragedia, sentimento, umorismo e spettacolo insieme promettevano di toccare molte corde care al pubblico di tutti i tempi. Fu del resto lo stesso compositore a dichiarare il suo intento che Porgy and Bess non dovesse essere un’opera per pochi. In questo senso tutta­ via l’articolo non servì: dopo 124 rappresentazioni, all’inizio dell’anno nuovo l’opera chiuse a New York.

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Non era così semplice comunque. “Folk-opera” come tentativo di precisazione fu già in sé il risultato di un compromesso: il pubblico di Broadway avrebbe potuto sentire come deterrente la definizione “opera” da sola. Nell’ambiente del Theater Guild circolava non poca preoccu­ pazione. Ma tutto questo ancora non basta. La mescolanza dei generi e degli stili che ne siano espressione è il centro cui tutte le contraddizioni di Porgy and Bess confluiscono come in un’unità che è sempre risultata pre­ caria a chi la guardi dal punto di vista della separazione di generi e stili. Opera per il teatro, tragedia e umorismo, folclore, danza; opera, ope­ retta, commedia musicale, canzoni, folk music: Gershwin mirava consa­ pevolmente alla confluenza di tutte le contraddizioni in una totalità di mezzi espressivi, all’opera come fusione delle diversità, manifestazione complessa e difficilmente definibile dell’“America crogiolo del mondo”, meltìng-pot a sua volta di tutte le forme possibili della teatralità e dello spettacolo musicale. Le alte aspirazioni di Gershwin a una musica “classica” che non solo e non semplicemente coesista in modo pacifico con la produzione “leg­ gera” senza fratture fra serious e popular come fossero due facce della stessa medaglia, ma che anche voglia inglobare il popular nel serious e arricchire il serious della godibilità del popular che ha così superato lo scoglio del precipitoso oblio; laddove il “classico” e il “leggero” ces­ sano di essere aspetti diversi di una pur unica realtà per diventare coesi­ stenza di ormai solo apparenti contrari in quello stesso mondo la cui vita fluisce unica e unificata nella dimensione della spettacolarità e nella coscienza e perfino nella volontà di esprimere l’America con i suoi con­ trasti e le sue riserve di energia; quelle aspirazioni sono sempre al cen­ tro degli articoli presentati, in cui tentativi di giustificazione, autopro­ mozione e pubblicizzazione s’intrecciano a tutte le consapevolezze e a tutte le ingenuità di George Gershwin. Come si vede il bisogno di defi­ nire si risolve sempre in lui nell’affermazione delle tendenze che il mondo della musica e dello spettacolo cataloga come opposte, e che però s’in­ contrano rendendo precario ogni tentativo stesso di definizione. In seguito alla rappresentazione di Porgy and Bess, dall’opera Ger­ shwin ricavò Porgy and Bess Suite per orchestra, titolo che successiva­ mente Ira Gershwin mutò nel postumo Catfish Row. Ripresi i contatti con il cinema, presto il compositore partì per Hollywood e stabilitosi a Beverly Hills per quel mondo produsse gli ultimi lavori: Shall We Dance, A Damsel in Distress e The Goldwyn Follies, lasciato incompiuto al momento della morte avvenuta 1’11 luglio 1937. .

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Note 1 Henry e Sidney Cowell, Charles Ives and His Music, New York, Oxford Univer­ sity Press 1955, pp. 5-6. 2 Fra gli esempi più noti i libri di Oscar Levant, normalmente considerati ghostwrit­ ten, soprattutto quelli successivi al celeberrimo A Smattering of Ignorance New York, Doubleday, Doran and Co. 1940 (una sezione del quale, My Life; or, The Story of George Gershwin, pp. 147-210, costituisce fra l’altro un’interessante testimonianza su Gershwin) e cioè The Memoirs of an Amnesiac, New York, G.P. Putman’s Sons 1965 e The Unim­ portance of Being Oscar, New York, G.P. Putman’s Sons 1968. 3 Carl Van Vechten (1880-1964) agli inizi operò principalmente come critico musi­ cale. Da tale attività nacquero i primi libri, soprattutto raccolte di saggi e articoli sulla musica, con speciale attenzione rivolta ai fermenti di novità nella musica americana ed europea: Music After the Great War, New York, G. Schirmer 1915; Music and Bad Man­ ners, New York, Alfred A. Knopf 1916; Interpreters and Interpretations, New York, Alfred A. Knopf 1917; The Merry-Go-Round, New York, Alfred A. Knopf 1918; The Music of Spain, New York, Alfred A. Knopf 1918. Dedicatosi in seguito principalmente alla letteratura, mantenne un’insolita vastità di interessi. Anche come scrittore coltivò un costante rapporto con la musica. Amico di Gershwin e da sempre profondamente inte­ ressato al rispetto del mondo afro-americano e alle sue potenzialità nella resa artistica e autore nel 1926 del romanzo Nigger Heaven (New York, Alfred A. Knopf 1926), più volte propose a George Gershwin di lavorare insieme a un’opera che esprimesse la dimen­ sione nera dell’America. Fondò scuole e istituti di cultura per la popolazione di colore e si dedicò a opere benefiche di ogni tipo, come era nella tradizione della sua famiglia. Fotografo a livello professionale, fu tra l’altro autore nel 1933 di una serie di ritratti di George Gershwin fra i più intensi nella smisurata abbondanza di fotografie che ci restano del compositore (Gershwin Collection presso la Music Division della Library of Congress, Washington D.C., B. 17, I. 11). Su Van Vechten e sui suoi molteplici interessi e attività, v. Edward Lueders, Carl Van Vechten, New York, Twayne Publi­ shers 1965; Bruce Kellner, Carl Van Vechten and the Irreverent Decades, University of Oklahoma Press, Norman 1968; e soprattutto Bruce Kellner, A Bibliography of the Work of Carl Van Vechten, Westport CT, Greenwood Press 1980. 4 C. Van Vechten, The Great American Composer, «Vanity Fair», XVI, aprile 1917 (datato 23 gennaio 1917). Ristampato, con modifiche e aggiunte che ne fanno un lavoro più ampio, in C. Van Vechten, Interpreters and Interpretations cit., pp. 269-84. Uno degli aspetti più interessanti di questo articolo è la serie di riflessioni sulla caducità del popu­ lar song tradizionale e sui nuovi apporti che giungono dalla cultura folk afro-americana, per cui il popular song «costituisce per il compositore “serio” una base su cui lavorare altrettanto valida che il folk-song» (ibid., p. 273). Le considerazioni su Irving Berlin e i compositori americani suoi contemporanei sono da vedere soprattutto alle pp. 276-7. Il finale dell’articolo è un invito ad abbandonare l’imitazione e i complessi di inferiorità nei riguardi dell’Europa. I ritmi autentici americani e i grattacieli non sono inferiori a ciò che si produce fuori dagli Stati Uniti: «Non c’è più bisogno di imitare la musica francese o tedesca di quanto ce ne sia di imitare l’architettura francese o tedesca. E prima ce ne renderemo conto, meglio sarà per tutti noi» (ibid., p. 284). Sul rapporto fra popular e classical music e su imitazione e originalità, v. anche l’articolo Music and Supermusic (1918), in The Merry-Go-Round cit., pp. 23-34. 5 C. Van Vechten, George Gershwin: An American Composer Who is Writing Nota­ ble Music in the Jazz Idiom, «Vanity Fair», XXIV, marzo 1925, pp. 40, 78 e 84. L’arti­ colo, finito il 5 gennaio di quell’anno, fu il risultato di discussioni e frequenti incontri fra Van Vechten e Gershwin, i quali insieme lo progettarono come pezzo che avrebbe destato grande interesse. Netto stesso periodo i due parlarono spesso di un progetto di opera, su libretto dello stesso Van Vechten, che non fu mai realizzato.

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6 Eva Gauthier (1885-1958), mezzosoprano canadese, nutriva grande interesse per repertori nuovi e insoliti e i programmi dei suoi recital spaziavano dai contemporanei americani alla musica orientale. In Oriente aveva trascorso diversi anni di studio onde poi stabilirsi a New York, dove si esibiva spesso quale interprete di inaspettati abbina­ menti nel corso della stessa serata. 7 Deems Taylor, Atoc, «New York World», 2 novembre 1923, p. 13. Taylor (1885-1966) era compositore egli stesso, oltre che critico per il «World» e autore di scritti sulla musica. Estimatore di Gershwin e dell’uso di jazz e popular music per la costruzione di uno stile autenticamente americano, espresse nel 1924 uno dei pareri più positivi circa Rhapsody in Blue. 8 Paul Whiteman (1890-1967) fu un personaggio di notevole rilievo nella musica americana attraverso vari decenni, sia per il suo riuscire veramente a cogliere e compia­ cere lo spirito del suo tempo, sia per l’importanza che per primo attribuiva a se stesso e al suo operato. Formatosi come violista e violinista, dopo la prima guerra mondiale mise su una dance band con cui si esibiva nelle città della West Coast. Abilissimo nella scelta di musicisti insuperabili per qualità solistiche e con il sostegno delle orchestra­ zioni di Ferde Grofé, divenne presto celeberrimo e onnipresente, propugnando un tipo di musica leggera, che denominava “jazz”, eseguita dalle varie formazioni di jazz-band di cui era direttore. Interessato al successo e alla ricchezza, nel 1926 pubblicò il volume Jazz (New York, J. H. Sears Company), scritto insieme a Mary Margaret McBride, in cui espresse il suo scopo di contribuire a dare al jazz un rispettabile futuro (p. 11), insi­ stendo sul proprio coraggioso «fare esperimenti con la nuova musica soltanto perché essa era interessante» (p. 35). La quarta sezione del libro, An Experiment (pp. 87-111), dipinge con tinte protagonistiche la memorabile serata del debutto di Rhapsody in Blue. Il jazz, così come egli lo intendeva, rappresentava « the composite essence » dell’Ame­ rica (p. 133). Di Whiteman v. anche la testimonianza George and the “Rhapsody” in George Gershwin) a cura di Merle Armitage, London-New York-Toronto, Longmans, Green, and Co. 1938, pp. 24-6. 9 H.C. Ernst era anche il manager di Whiteman. 10 H.C. Ernst nell’introduzione al programma di sala, dal titolo The Way of This Experiment (Gershwin Collection presso la Music Division della Library of Congress, Washington D.C., B. 11, I. 11). 11 Ampia fino a essere imbarazzante. Queste nell’ordine le 11 sezioni dell’B^pewment con i loro contenuti: I. True Form of Jazz: a. Ten Years Ago - “Livery Stable Blues”; b. With Modem Embellishment - “Mama Loves Papa” (Baer). II. Comedy Selections: a. Origin of “Yes, We Have No Bananas” (Silver); b. Instru­ mental Comedy - “So This is Venice” (Thomas, adapted from “The Carnival of Venice”). III. Contrast - Legitimate Scoring vs. Jazzing: a. Selection in True Form - “Whispe­ ring” (Schonberger); b. Same Selection with Jazz Treatment. IV. Recent Compositions with Modem Score: a. “Limehouse Blues” (Braham); b. “I Love You” (Archer); c. “Raggedy Ann” (Kern). V. Zez Confrey (Piano, accompanied by the Orchestra): a. Medley Popular Airs; b. “Kitten on the Keys” (Confrey); c. “Ice Cream and Art”; d. “Nickel in the Slot” (Confrey). VI. Flavoring a Selection with Borrowed Themes: “Russian Rose” (Grofé, based on the Volga Boat Song). VIL Semi-Symphonic Arrangement of Popular Melodies: consisting of: “Alexander’s Ragtime Band” (Berlin); “A Pretty Girl Is Like a Melody” (Berlin); “Orange Blossoms in California” (Berlin). VIII. A Suite of Serenades (Herbert): a. Spanish; b. Chinese; c. Cuban; d. Oriental.

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IX. Adaptation of Standard Selections to Dance', Rhythm: a. “Pale Moon” (Logan); b. “To a Wild Rose” (McDowell); c. “Chansonette” (Friml). X. George Gershwin (Piano, accompanied by the Orchestra): “A Rhapsody in Blue” (Gershwin). XI. In the Field of Classics: “Pomp and Circumstance” (Elgar). 12 W. J. Henderson («Herald»); Olind Downes («New York Times»); D. Taylor («New York World»); Gilbert Gabriel («Sun»); Henry T. Finck («Post»); Lawrence Gilman («Tribune»): venivano da ognuno di loro osservate le debolezze di Rhapsody sul piano formale, ma era comune a quasi tutti i critici menzionati il rilievo che Ger­ shwin avrebbe fatto bene a tenersi lontano dalle tentazioni di scrivere musica “clas­ sica” e conservare così intatta e libera da compromessi la sua autentica vena creativa. 13 La rivista, fondata nel 1900, si autodefinisce «America’s most beautiful and sumptuous monthly record of the contemporary stage and the leading authority on the dramatic art». Per uno sguardo panoramico sull’attività della rivista e sui suoi collabo­ ratori e contenuti, v. Stan Cornyn, A Selective Index to «Theatre Magazine », New YorkLondon, The Scarecrow Press 1964. 14

Voices Versus Feet.

15 George Gershwin, Our Hew National Anthem: Broadway's Most Modem Popular Composer Discusses Jazz as an Art Form, «Theatre Magazine», XLI, maggio 1925, p. 30. 16 Primrose e Lady, Be Good! (1924); Tell Me More, Tip-Toes e Song of the Flame (1925); Oh, Kay! (1926). 17 Nuovo recital con Eva Gauthier a Londra il 22 maggio 1925; debutto del Con­ certo in F alla Carnegie Hall, con la New York Symphony Orchestra diretta da Walter Damrosch con il compositore al pianoforte il 3 dicembre dello stesso anno; sempre alla Carnegie Hall il 29 dicembre Whiteman riesuma la “black jazz opera” Blue Monday Blues con il titolo mutato in 135th Street. 18 Marguerite d’Alvarez (1888-1953) era nata a Liverpool da padre peruviano e madre francese, aveva studiato in Belgio e debuttato in Francia. Già in carriera con la Manhattan Opera Company fino dai primi del secolo, negli anni Venti si esibiva soprat­ tutto in recital. Sulle riviste dell’epoca si faceva un gran parlare di lei e del suo tempera­ mento. Dopo la sua morte Van Vechten ne diede una descrizione in The Voice and the Temperament, «Saturday Review», 26 febbraio 1955, p. 43: «Era un’esagerata nell’esprimere le emozioni, faceva gesti inconsulti e sforzava la voce fino a farla suonare stri­ dula. Mentre nell’opera mancava di passione e fuoco autentici, in sala da concerto man­ cava di ogni ritegno e si scatenava come una forza della natura». 19 Datata 14 febbraio 1924 (Gershwin Collection presso la Music Division della Library of Congress, Washington D.C., B. 17, I. 11).

20 Isaac Goldberg, George Gershwin: A Study in American Music, New York, Simon and Schuster 1931, rist. New York, Frederick Ungar 1958, con un Supplement (sei capitoli aggiunti) di Edith Garson, e Foreword to the New Edition e A Selected Gershwin Disco­ graphy di Alan Dashiell. 21 La lettera, cui si è già fatto riferimento nella nota 19, è anche riportata dallo stesso Goldberg, seguita da un commento, in I. Goldberg, George Gershwin: A Study in American Music cit., pp. 154-5. 22 Ibid., pp. 220-1. 23 4 dicembre 1926. 24 La rivista «Singing», fondata a New York nel gennaio 1926, seppure dedicata all’illustrazione del repertorio vocale tradizionale, era solita ospitare anche discussioni sugli argomenti del giorno, mettendo talora a confronto contributi fra loro opposti. Si

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veda come esempio dell’attenzione rivolta alla folk music dell’America l’articolo di Arthur Billings Hunt Have We a Folksong Literature?, pubblicato sul numero di gennaio 1926 e riguardante l’individuazione dell’autentico folk-song americano. 25 Per uno studio circa le ipotesi sul numero e sull’identificazione dei Preludi per pianoforte e sulla questione dei “missing preludes”, v. Robert Wyatt, The Seven Jazz Preludes of George Gershwin: A Historical Narrative, «American Music», VII, 1, prima­ vera 1989, pp. 68-85. 26 G. Gershwin, Does Jazz Belong to Art? Foremost Composer of Syncopated Music Insists on Serious Appraisal, «Singing», I, luglio 1926, pp. 13-4. Ristampato in «Second Line», XIV, settembre-ottobre 1965, pp. 120-3. 27 Ibid., p. 13. 28 «Singing», I, febbraio 1926, p. 11. L’editoriale, intitolato The Passing of MachineMade Popular Music, considerava con ammirazione unita a caustica ironia «the Broadwaymade music» e Irving Berlin. Mentre l’età presente veniva definita «l’Era del Rumore», Berlin era ritenuto «l’essenza del nuovo ordine di questa Era del Rumore». «Ci dicono - continuava l’editoriale - che questo tipo di musica dovrà essere il fondamento di una nuova “scuola” americana. [...] Forse la musica sincopata sarà la base delle sinfonie o del canto popolare del futuro. La musica di Broadway [...] è fatta a macchina e [...] a macchina viene “venduta” al pubblico. Ecco perché il jazz è già in declino nei nostri circoli più in voga. Ce ne è stato dato troppo in pasto e quella che è seguita non era che la reazione normale». 29 Dato lo spazio che sulla rivista si riservava alle attualità di cultura musicale ame­ ricana, essa costituiva indubbiamente per Gershwin uno scenario stimolante e appro­ priato in cui collocare le sue riflessioni e le sue manovre. Infatti nonostante l’atteggia­ mento, come si è visto, tutt’altro che di piena approvazione del jazz da parte della rivista stessa, l’attenzione rivolta all’identificazione dell’autentica musica “popolare” ameri­ cana, o alla musica fatta e diffusa “a macchina”, o al rumore della metropoli moderna che si rispecchia nella nuova musica dinamica e irriverente, contribuiva a richiamare interesse verso i contenuti che a Gershwin stava a cuore esprimere. 30 Charles Schwartz, Gershwin: His Life and Music, Indianapolis-New York, BobbsMerrill Company 1973, pp. 112 sgg. 31 Edward Jablonski, Gershwin: A Biography Illustrated, New York, Doubleday 1987, rist. Boston, Northeastern University Press 1990, pp. 98 sgg. 32 Richard Crawford, Gershwin's Reputation: A Note on “Porgy and Bess”, «The Musical Quarterly», LXV, 2, aprile 1979, pp. 257-64; Wayne D. Shirley, Reconcilia­ tion on Catfish Row: Bess, Serena, and the Short Score of “Porgy and Bess”, «The Quar­ terly Journal of the Library of Congress», estate 1981, pp, 145-65 e The “Trial Orche­ stration” of Gershwin's “Concerto in F”, «MLA Notes», XXXIX, 3, marzo 1983, pp. 570-9; Steven E. Gilbert, Gershwin's Art of Counterpoint, «The Musical Quarterly», LXX, 4,1984, pp. 423-56; Lawrence Starr, Toward a Reevaluation ofGeshwin's “Porgy and Bess”, «American Music», II, 2, estate 1984, pp. 25-37; W.D. Shirley, Scoring the “Concerto in F”: George Gershwin's First Orchestration, «American Music», III, 3, autunno 1985, pp. 277-98; L. Starr, Gershwin's “Bess, You Is My Woman Now": The Sophistica­ tion and Subtlety of a Great Tune, «The Musical Quarterly», LXXII, 4,1986, pp. 429-48; Charles Hamm, The Theatre Guild Production of “Porgy and Bess”, «Journal of the Ame­ rican Musicological Society», XL, 3, 1987, pp. 495-532. 33 Arthur Walter Kramer (1890-1969) fu attivissimo come compositore di musica per ogni tipo di organico, come traduttore, come autore di articoli sulla musica e recen­ sioni, lavorò per lungo tempo nella redazione di «Musical America» fino a diventarne redattore capo, fu organizzatore di vita musicale, fu nel 1919 tra i fondatori della Society for Publication of American Music di cui divenne in seguito presidente. Aveva lunga­ mente soggiornato in Europa.

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34 Henry Cowell (a cura di), American Composers on American Music: A Symposium, Palo Alto, Stanford University Press 1933, rist. New York, Frederick Ungar 1962, pp. 3-13.

35 A.W. Kramer, I Do blot Think Jazz “Belongs”: American Composer Objects to Mr Gershwin's Appraisal of “Art” - Outspoken Comment on Broadway Music, «Singing», I, settembre 1926, pp. 13-4. 36

Ibid., p. 14.

37 «The New York Evening Post», 17 novembre 1924, così come i due passi di Newman successivamente citati da Gershwin. 38 G. Gershwin, Mr Gershwin Replies to Mr Kramer, «Singing», I, ottobre 1926, pp. 17-8. 39

Ibid., p. 18.

40 Quasi non esiste numero di giornale o rivista pubblicati in quegli anni negli Stati Uniti in cui non si legga di Gershwin, dei suoi successi, di quello che pensa sugli argo­ menti più disparati, di ogni suo concerto, ogni apparizione pubblica, ogni progetto circa la composizione di lavori nuovi, oltre alle imprese sportive, benemerite, galanti, le par­ tenze e i ritorni, le vacanze, le gesta di ogni tipo, anche quelle di tutti gli altri membri della famiglia e del cane. Moltissime le interviste a Gershwin, i cui contenuti sono gli stessi degli articoli da lui scritti. Si vedano, fra quelle pubblicate negli anni in questione sul «New York Times», portavoce quasi ufficiale di tutti gli avvenimenti della vita di George Gershwin: Mr Gershwin Will Study and Work in Europe, LXXIX, 9 marzo 1928, 20:8; Interview, LXXX, 20 gennaio 1929, V, 9; George Gershwin's Method of Compo­ sing Music, LXXXI, 27 dicembre 1931, Vili, 6:4; Mr Gershwin Says American Music is Most Vital of Contemporary Work, LXXXII, 25 settembre 1932, 17:3; George Ger­ shwin Collaborates with Brother Ira, and DuBose Heyward in Writing Musical Version of “Porgy”, LXXXIII, 3 novembre 1933, 23:5; Mr Gershwin in Radio Speech Appeals for Stadium Concert Support, LXXXV, 20 giugno 1935,17:6; Mr Gershwin's First Opera blears Completion, LXXXV, 21 luglio 1935, II, 1:7; George Gershwin Soloist at Stadium Con­ cert, LXXXVI, 10 luglio 1936, 15:3.

41 G. Gershwin, Jazz is the Voice of the American Soul: Hailed by Musicians and Cri­ tics as the Outstanding Figure Among Native Composers, the Author of This Article Defends and Glorifies Syncopation, «Theatre Magazine», XLV, marzo 1927, pp. 14 e 52B.

42 Henry Qsborne Osgood, So This is Jazz, Boston, Little, Brown and Co. 1926, specialmente il cap. XVI, pp. 172-80, intitolato Gershwin, the White Hope, e il XVII, And What He Wrote, pp. 181-218. 43 Beverley Nichols, George Gershwin, or a Drunken Schubert, in Are They the Same at Home? Being a Series of Bouquets Diffidently Distributed, New York, George H. Doran Co. 1927, pp. 108-11. Ristampato con il titolo George Gershwin in Merle Armitage (a cura di), George Gershwin cit., pp. 231-4. Il pezzo fu originariamente pubblicato sul «Daily Sketch», per cui Nichols lavorava. 44 H.O. Osgood, So This is Jazz cit., p. 180. 45 Ibid., p. 181. A questo punto del libro si dedica attenzione alla ‘‘jazz opera” One Hundred and Thirty-Fifth Street (v. ibid., pp. 181-5), definendola un «ibrido» (ibid., p.

183) che però mostra come il jazz può diventare opera: «Il punto è che seppure il lavoro non ha affatto avuto successo di pubblico, come del resto doveva succedere in quelle condizioni, Gershwin è riuscito a dimostrare le possibilità del jazz come legittimo mate­ riale operistico quando sia usato con immaginazione. Dopo avere visto One Hundred and Thirty-Fifth Street [...] ci si era convinti che un’opera jazz è cosa possibile, che sia o che non sia Gershwin a produrla. Questo è il momento opportuno per sottolineare che se l’America non ha mai avuto un compositore di opera la ragione principale è che

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non ha mai avuto un buon librettista, uno che comprendesse appieno le potenzialità drammatiche del teatro lirico» (ibid., pp. 184-5). 46

B. Nichols, Are They the Same at Home? cit., p. 109.

47

New York-Londra-Parigi-Berlino-Vienna-Parigi-Londra-New York. Rosalie e Treasure Girl (1928); Show Girl (1929).

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49 Libretto rielaborato da Morrie Ryskind, sulla base della versione di Kaufman del 1927. Prima rappresentazione, 14 gennaio 1930.

50 Oliver Martin Sayler The Fact of Revolt, in O.M. Sayler (a cura di), Revolt in the Arts: A Survey of the Creation, Distribution and Appreciation of Art in America. With Con­ tributions by Thirty-six Representative Authorities in the Several Arts, New York, Bren­ tano 1930, pp. 3-4, 51 Assai produttivo negli anni Venti. Fra le sue opere: The Russian Theatre Under the Revolution, Boston, Little, Brown and Co. 1920; The Russian Theatre, New York, Brentano 1922; Our American Theatre, New York, Brentano 1923. A cura di Sayler: The Moscow Art Theatre Series of Russian Plays, I e II serie, New York, Brentano 1923; The Eleonora Duse Plays, New York, Brentano 1923; Max Reinhardt and His Theatre, New York, Brentano 1924; The Plays of the Moscow Art Theatre Musical Studio, New York, Brentano 1925. 52 Fra i contributi al volume più strettamente connessi all’articolo di Gershwin, v. specialmente: Arthur Hammerstein, The Light Musical Stage at the Cross Roads, pp. 202-4; J. L, Warner, Sound Stimulates Story, pp. 222-4; John Erskine, Hew Ideas in Music Edu­ cation, pp. 259-63; Albert Spalding, The Challenge of Mechanical Music to the Powers of the Young Artist, pp. 276-9; Major Edward, Radio as an Independent Art, pp. 280-3; Albert Coates, Opera and the Symphony Will Survive, pp. 270-5; George Pierce Baker, Training the Playwright of the Machine Age, pp. 175-9. 53 O. M. Sayler, The Fact of Revolt, in O.M, Sayler (a cura di), Revolt in the Arts cit., pp. 8-9. 54 C. Schwartz, George Gershwin: His Life and Music cit., pp. 123-5. 55

Ibid,, p. 125.

*Ibid.

57 O.M. Sayler, The Implications of Revolt, in O. M. Sayler (a cura di), Revolt in the Arts cit., p. 98.

58

Ibid., pp. 65-6.

59

Ibid., p. 97.

60

Ibid., p. 101.

61

Ibid., p. 99.

62

Ibid., p. 10.

63

Ibid., p. 156-7.

64

Ibid., p. 61.

65

Ibid., p. 64.

66

Ibid., p. 63.

67

Ibid., p. VIII.

68 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age, in ibid., pp. 264-9. Ristampato con il titolo The Composer and the Machine Age in Merle Armitage (a cura di), George Gershwin cit., pp. 225-30. Ristampato con tagli in Sam Morgenstern (a cura di), Com­ posers on Music: An Anthology of Composers' Writings from Palestrina to Copland, New

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York, Pantheon 1956, pp. 510-3; l’articolo è suddiviso in paragrafi intitolati: American and European Reciprocal Influences-, Ideas and Feeling', Jaw, Emotion-, Mechanical Music. Ristampato integralmente in Gilbert Chase (a cura di),TAe American Composer Speaks: A Historical Anthology, 1770-1965, Baton Rouge LA, Lo uisiana State University Press

1966, pp. 139-45. 69 O. M. Sayler, The Implications of Revolt, in O. M. Sayler (a cura di), Revolt in the Arts cit., p. 159. 70 I. Goldberg, Tin Pan Alley: A Chronicle of the American Popular Music Racket, New York, The John Day Co. 1930. Ristampato con il tiitolo Tin Pan Alley: A Chroni­ cle of American Popular Racket, con il supplemento From Swing and Sweet to Rock an' Roll di Edward Jablonski, New York, Frederick Ungar 1961. 71 Sir William S. Gilbert: A Study in Modem Satire: A Handbook on Gilbert and the Gilbert-Sullivan Operas, New York, Stratford Pub. Co. 1913; Gilbert and Sullivan: A Handbook to the Famous Operettas, Girard Kan., Haldeman-Julius Co. 1923; The Story of Gilbert and Sullivan: or the ‘Compleat' Savoyard, New York, Simon and Schuster 1928; Hew and Original Extravaganzas by W. S. Gilbert as First Produced at the London Play­ houses, a cura di I. Goldberg, Boston, J. W. Luce & Co. 1931; “Ruddigore” and "Prin­ cess Ida", «The Musical Record», I, 1933, pp. 57-60. 72 The Hew Immorality: A Little Dictionary of Unorthodox Opinion, Girard Kan.,

Haldeman-Julius Co. 1929. 73 What You Laugh at and Why, Girard Kan., Haldeman-Julius Co. 1938. 74 Oltre al citato Tin Pan Alley, v. anche Isidore Witmark and I. Goldberg, The Story of the House of Witmark: From Ragtime to Swingtime, Lee Furman, New York, 1939 (Goldberg mori lasciando incompiuto il lavoro di collaborazione con Witmark).

751 . Goldberg, The Wonder of Words: An Introduction to Language for Everyman, New York-London, D. Appleton-Century Co. 1939. 76 The Enjoyment of Music: Chapters on Musical Appreciation, Girard Kan., Haldeman-Julius Co. 1925; How to Enjoy the Orchestra, Girard Kan., Haldeman-Julius Co. 1926; ]azz Music: What it is and How to Understand it, Girard Kan., HaldemanJulius Co. 1927; The Fine Art of Living: An Approach to Life and the Arts, Boston, The Stratford Co. 1930. 771 . Goldberg, Homage to a Friend, in M. Armitage (a cura di), George Gershwin cit., pp. 161-7. 78 Ibid., p. 161. 79 Dove ebbe luogo un concerto dei Boston Symphony “Pops”. Era in programma An American in Paris e dirigeva Alfredo Casella (v. ibid'., pp. 161-2). Ibid., p. 162. 81 In una lettera del 2 agosto 1929, alla Isaac Goldberg Collection, Nathan N. Pusey Library, Harvard University, Cambridge, Mass. 821 . Goldberg, Music by Gershwin, «Ladies’ Home Journal», XLVIII, 2, febbraio 1931, pp. 12-3; XLVIII, 3, marzo 1931, p. 20; XLVIII, 4 aprile 1931, p. 25. 83 Lawrence D. Stewart lascia aperta la questione della paternità dei tre articoli per il «Ladies’ Home Journal» e ritiene Goldberg il ghostwriter della Introduzione a Tin Pan Alley firmata da Gershwin (L. D. Stewart, Bibliography, in Edward Jablonski e L. D. Stewart, The Gershwin Years, con una introduzione di Carl Van Vechten, Garden City, Doubleday and Co. 1973, p. 389). Edward Jablonski afferma che Gershwin collaborò con Goldberg alla stesura sia dei tre articoli pubblicati nel ’31 sia del libro sul mondo della canzone, mentre Goldberg avrebbe “riveduto” l’introduzione di Gershwin a Tin Pan Alley (E. Jablonski, Gershwin: a Biogaphy cit., pp. 199 e 203).

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84 Lettera di Gershwin a Goldberg, in E. Jablonski, Gershwin: a Biography cit., p. 203. 85 Cfr. I. Goldberg, Tin Pan Alley cit., pp. 84-7. 86

Cfr. ibid., p. 96.

87 Quello che segue fa riferimento alla sez. X di Tin Pan Alley, intitolata King Jazz, e in particolare al paragrafo The Rhythm of Jazz, pp. 271 sgg. 88 G. Gershwin, Introduction, in I. Goldberg, Tin Pan Alley cit., pp. VII-XI.

89 In particolare la lettera del 1° maggio 1930 di Gershwin a Goldberg (in E. Jablonski, Gershwin A Biography cit., pp. 199-200). 90 I. Goldberg, Tin Pan Alley cit., pp. 259-60. Ibid., pp. 320-1.

92 Ibid., p. 100.

” V. nota 20. 94 «U libro deve essere ampliato e aggiornato in una revisione definitiva; Ira Gershwin e io cominceremo presto a lavorarvi» (I. Goldberg, Homage to a Friend, in M. Armitage a cura di, George Gershwin cit., p. 161). 951. Jazzo-Analysis, pp. 277-81; II. Jazz and the Machine Age, pp. 282-8; III. The Music Is the Thing, pp. 289-93. 961. Goldberg, George Gershwin cit., Preface p. 2: «Pochi libri sono stati consul­ tati; la biblioteca specifica sul jazz è limitata. Tali fonti sono citate nel testo. Qua e là, ove il contenuto si sovrappone a quello del mio ultimo libro Tin Pan Alley: A Chroni­ cle of the American Music Racket, ho preso in presito da me stesso, anche se più quanto a idee che a fraseologia». 971. Goldberg, George Gershwin cit., pp. 292-3.

98 Paul Rosenfeld, An Hour with American Music, Philadelphia-London, J. B. Lip­ pincott Co. 1929. Dello stesso autore v. anche Modem Tendencies in Music, New York, The Caxton Institute 1927. 99 C’è nel testo un doppio gioco di parole che allude anche al basket-ball. Il libro di Mason cui Goldberg si riferisce è: Daniel Gregory Mason, The Dilemma of American Music and Other Essays, New York, The Macmillan Co. 1928. Dello stesso autore e sullo stesso soggetto v. anche: Contemporary Composers, New York, The Macmillan Co. 1918, e Artistic Ideals, New York, W. W. Norton 1927. Inoltre, al tempo in cui Goldberg scriveva Tin Pan Alley, Daniel Gregory Mason stava lavorando a Tune in, America: A Study of our Coming Musical Independence, New York, A. Knopf 1931. 100 Harold Edmund Stearns (a cura di), Civilization in the United States: An Inquiry by Thirty Americans, New York, Harcourt, Brace and Co. 1922. Il saggio di Deems Taylor sulla musica è alle pp. 199-214. 1011. Goldberg, Tin Pan Alley cit., pp. 15-6. 102 George Gershwin in una lettera a Goldberg citata in E. Jablonski, Gershwin: A Biography cit., p. 231.

105 Un tentativo di ricostruzione scritta della maestria improvvisativa di George Gershwin è stato compiuto recentemente da Artis Wodehouse sulla base delle registra­ zioni del 1926 e del 1928 (Gershwin’s Improvisations for Solo Piano Transcribed from the 1926 and 1928 Disc Recordings, Secaucus, Warner Bros. Publications 1987). Conside­ rando le “transcriptions” di Gershwin pubblicate nel Song-Book come versioni sempli­ ficate delle sue reali improvvisazioni e considerando che anche le registrazioni, a causa dei limiti di tempo imposti dalle possibilità delle tecniche riproduttive dell’epoca, offri­

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Gershwin

vano un’immagine già a sua volta semplificata delle durate e della qualità di quella musica, Artis Wodehouse ne tenta una ricostruzione scritta che tiene conto del linguaggio com­ posito del pianismo gershwiniano, dagli apporti della canzone di Tin Pan Alley a quelli dello stride piano, da quelli del teatro musicale yiddish a quelli del repertorio colto (Debussy e il Romanticismo). 104 G. Gershwin, Introduction, in G. Gershwin, George Gershwin's Song-Book, New York, Random House 1932, pp. IX-X. 105 V. nota 34. 106 H. Cowell, Introduction, in H. Cowell (a cura di), American Composers on Ame­ rican Music cit., p. VII. 107 Adolph Weiss, Wallingford Riegger, e Wallingford Riegger, Adolf Weiss and Colin McPhee, in H. Cowell (a cura di), American Composers on American Music cit., pp. 70-4 e 36-42. 108 Prima parte del volume: Composers in Review of Other Composers, pp. 3-145; seconda parte: Composers in Discussion of General Tendencies, pp. 149-98. 109 H. Cowell, Charles E. Ives, in H. Cowell (a cura di), American Composers on American Music cit., pp. 128-45. L’articolo, con il titolo American Composers. IX: Char­ les Ives, era già quasi contemporaneamente stato pubblicato su «Modern Music», X, 1, novembre-dicembre 1932, pp. 24-33. 110 Charles E. Ives, Music and Its Puture, in ibid. pp. 191-8. Il saggio è costituito dalla ristampa di brani da The Fourth Symphony for Large Orchestra: Conductor's Note for the Second Movement, «New Music», II, 2, gennaio 1929. Lo scritto è ora ripubbli­ cato in C. E. Ives, Symphony No. 4, partitura a cura di Theodore A. Seder, Romulus Franceschini e Nicholas Falcone, Preface di John Kirkpatrick, New York, Associated Music Publishers 1965, pp. 12-4. 111 H. Cowell, New Musical Resources, New York-London, A. Knopf 1930. 112 H. Cowell, New Musical Resources cit., Introduction, p. XIV. mIbid., p. 138. 114 H. Cowell, Charles E. Ives, in H. Cowell (a cura di), American Composers on American Music cit., p. 129. 115 H. Cowell, Trends in American Music, in ibid., p. 8. 116

Ibid.

117

Ibid., p. 3.

Ibid., p. 12-3. 119 G. Gershwin, The Relation of Jazz to American Music, scritto da Henry Cowell sulla base di dichiarazioni di George Gershwin, in ibid., pp. 186-7. 120 Wallingford Riegger su Adolph Weiss, in ibid., p. 40. 121 Colin McPhee su se stesso, ibid. 122 Charles Seeger su Ruth Crawford, in H. Cowell (a cura di), American Compo­ sers on American Music cit., p. 117. 123 Aaron Copland, Charlos Chavez - Mexican Composer, in ibid., p. 106. L’articolo era già apparso su «New Republic», LIV, 2 maggio 1928, pp. 322-3. 124 Henry Cowell su Charles Ives, in H. Cowell (a cura di), American Composers on American Music cit., p. 130. 125 C. E. Ives, Music and Its Future, in ibid., p. 197. 126 Theodore Chanler su Aaron Copland, in ibid., p. 50. Il titolo originario dell’ar­ ticolo, precedentemente apparso su «The Hound and the Horn», era Aaron Copland 118

Up to Now.

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Arte e Business: la “doppia vita” di George Gershwin e le due anime dell'America

127 Edward Royce su Howard Hanson, in H. Cowell (a cura di), American Compo­ sers on American Music cit,, pp. 98-100.

128 Charles Seeger su Carl Ruggles, in ibid., pp. 33-4. Già pubblicato su «The Musi­ cal Quarterly», XVIII, 4, ottobre 1932, pp. 578-92. 129 Roy Harris, Problems of American Composers, in H. Cowell (a cura di), Ameri­ can Composers on American Music cit., pp. 149-66. Lo scritto era già apparso, con il titolo Some Problems of the American Composer, su «Scribner’s Magazine», La stessa rivista pubblicò altri contributi di Harris sull’argomento: Does Music Have to Be Euro­ pean?, «Scribner’s Magazine», XCI, 4, aprile 1932, pp. 204-9; American Music Enters a New Phase, «Scribner’s Magazine», XCIII, 10, ottobre 1934, pp. 218-21. 130 Charles Seeger, Carl Ruggles, in H. Cowell (a cura di), American Composers on American Music cit., pp. 21-2. 131 William Daly, Letter from W. Daly on Article in «American Spectator» by A. L. Langley which gave Daly Credit for Gershwin's Work, «The New York Times», LXIII, 15 gennaio 1933, IX, 8:3. Ristampato con il titolo George Gershwin as Orchestrator in M. Armitage (a cura di), George Gershwin cit., pp. 30-1. La lettera di risposta di Lan­ gley, Langley Replies, si legge sul «New York Times» del 22 gennaio, IX, 8:4. 132 Joseph Schillinger (1895-1943) si formò in Russia come musicista e matematico. Nel 1927 organizzò il primo concerto di musica jazz che abbia avuto luogo in Russia. Fra i suoi allievi negli Stati Uniti molti musicisti del mondo della musica leggera e cine­ matografica americana, come, oltre a Gershwin, Vernon Duke e Oscar Levant. I suoi scritti teorici: Kaleidophone: New Resources of Melody and Harmony, New York, M. Witmark & Sons 1940; The Schillinger System of Musical Composition, con una prefa­ zione di Henry Cowell, 2 voli., New York, Carl Fischer 1941; The Mathematical Basis of the Arts, New York, Philosophical Library 1943; Encyclopedia of Rhythms, New York, Charles Colin 1966. 133 Prima esecuzione: New York, Lewisohn Stadium, 16 agosto 1932. 134 Prima esecuzione: Boston, Symphony Hall, 14 gennaio 1934. 135 Prima esecuzione: New York, Majestic Theater, 20 gennaio 1933. 136 Prima esecuzione: New York, Imperial Theater, 21 ottobre 1933. 137 «The New York Times», LXXXIII, 26 settembre 1933, 26:6. 138 G. Gershwin, Talented Children Need Help, «The New York Times», LXXXIV, 22 settembre 1934, p. 14. 139 G. Gershwin, Rhapsody in Catfish Row: Mr Gershwin Tells the Origin and Scheme for His Music in That New Folk Opera Called “Porgy and Bess”, «The New York Times», LXXXV, 20 ottobre 1935, X, 1/2; rist. in M. Armitage (a cura di), George Gershwin cit., pp. 72-7.

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II Carlo Piccardi

«Viviamo in un'epoca di staccato»

Dimostrazione della musica d'attualità

«Gershwin è la guida della giovane America nella musica, nello stesso senso in cui Lindbergh è una guida della giovane America nell’avia­ zione»1: il discorso pronunciato nel dicembre del 1928 da Otto Khan, presidente del comitato del Metropolitan, per accompagnare la presen­ tazione del compositore dopo la prima esecuzione di An American in Paris collocava la sua immagine nella dimensione metaforica di un’America che aveva trovato la sua identità in una nuova frontiera, nella sfida alla moderna prospettiva del mondo trasformato dalla tecnica. Scriveva Francis Scott Fitzgerald: Nella primavera del ’27, un oggetto scintillante e insolito lampeggiò per il cielo. Un giovane del Minnesota che non sembrava aver nulla a che vedere con la sua generazione fece una cosa eroica, e per un attimo la gente depose il bicchiere nei circoli e negli Speakeasies di provincia e si abbandonò ai suoi vecchi sogni migliori. Forse, nel volo c’era un’evasione, forse il nostro san­ gue irrequieto poteva trovare frontiere nell’aria senza confini. Ma ormai era­ vamo impegnati a fondo; e l’Età del jazz continuò; tutti eravamo in vena di un altro bicchiere.2

La brama di distrazione a cui gli Americani avevano cominciato ad abbandonarsi per dimenticare la guerra aveva trovato modo di esten­ dersi e di moltiplicarsi fino allo stordimento grazie ai mezzi tecnologici (radio, disco, cinema, automobile), a portata di qualsiasi mano in una società in cui individuale e collettivo venivano inevitabilmente a fon­ dersi. La figura di Lindbergh si stagliava certo come quella di un eroe, di una guida, ma nel contempo con le fattezze di una persona comune, di un ragazzo del Minnesota appunto, prodotto democratico di una col­ lettività che nel successo del proprio idolo celebrava la possibilità per tutti di salire sul suo piedistallo. George Gershwin occupò lo spazio riservato al musicista-eroe non tanto imponendosi come artista in grado di acquisire all’America un modello

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«Viviamo in un'epoca di staccato»

di musica da contrapporre alla musica europea come rivendicazione di una propria autonomia e di una propria dignità, quanto dimostrando la capa­ cità di accedere ai gradi alti del merito partendo dalla condizione umile del song-plugger, in qualche modo esaltata anziché negata nell’atto di auto­ promozione. La vera straordinarietà di Gershwin non sta nel fatto di aver ottenuto che 1’Aeolian Hall spalancasse le sue porte all’ingresso di Rhap­ sody in Blue, ma nel constatare che, dopo il successo assicuratogli dal­ l’audace operazione, egli non smettesse di comporre canzoni. La Rhapsody non arriva infatti come opera della maturità, preparata da paziente lavoro di perfezionamento e di rifinitura, ma come opera della giovinezza, frutto della stessa fase creativa di canzoni quali Somebody Loves Me, Fascina­ ting Rhythm, I’ll Build a Starway to Paradise e affermatasi senza preten­ dere di ascendere su una scala di valori in cui la canzone avrebbe occu­ pato il grado più basso. Gershwin mirò sempre in alto (dopo Porgy and Be'ss pensò a una seconda opera, a comporre un quartetto d’archi, ecc.3), ma tornò sempre alle canzoni che fino all’ultimo compose con la stessa convinzione e la stessa innocenza con cui le aveva affrontate nell’adolescenza. Non c’è frattura fra i due momenti, ma integrazione completa, come dimostra il Song-Book che per certi versi può essere con­ siderato il suo capolavoro pianistico, dove la canzone risulta in un certo senso elevata al quadrato, ma dove la sua riconoscibilità contribuisce a mantenere alla raccolta il grado di quotidianità della musica dal vissuto. «Il mio popolo è quello americano, il mio tempo è l’oggi»4: la presa di coscienza di Gershwin del suo preciso hic et nunc non è moderna nel senso in cui il presente era vissuto dai compositori europei coevi. La modernità in Europa era esperienza che riguardava il presente non per quello che era bensì per quello che sarebbe potuto essere: il concetto di modernità non pertineva all’attualità ma alla fuga in avanti verso il futuro. Con la Zukunftsmusik l’utopia wagneriana aveva indicato all’arte una frontiera che misurava il progresso non negli obiettivi realizzati ma in quelli che attendevano di essere portati a compimento: «Il mio tempo verrà» aveva affermato Mahler, lasciando ai posteri un testamento che li induceva a vivere il nuovo come ansia dell’inappagamento più che come aggancio diretto all’attualità del vissuto. In Gershwin la modernità è innanzitutto la quotidianità, la capacità di contatto con il reale manife­ stato al livello della sua fisica esuberanza. Il suo modo di percepire la musica era lontano mille miglia dalla carica trascendente con cui la cor­ rente critica del radicalismo modernista l’aveva investita: «La musica produce una certa vibrazione da cui sicuramente deriva una reazione fisica»5. L’atto stesso del comporre era per lui un fatto fisiologico, quasi atletico6. Egli fu immerso nel proprio tempo fino al punto da non subire nemmeno il contraccolpo che la crisi del 1929 aveva prodotto in uno scrittore come Scott Fitzgerald, il quale di fronte all’“Età del jazz” si trovò a vagheggiarla come paradiso perduto:

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Gershwin

Essa Io sostenne, lo lusingò e gli dette più danaro di quanto avesse potuto sognare, semplicemente per aver detto alla gente che egli sentiva come lei, che bisognava fare qualcosa con tutta l’energia nervosa accumulatasi e non consumata durante la guerra.7

In Gershwin non ci fu mai un momento nel quale egli potesse porsi al di fuori del vissuto, prendere le distanze dal ritmo che propulsiva­ mente gli infondeva l’anima. L’intera sua parabola si iscrive nell’“Età del jazz” che per lui non ebbe tramonto, percorrendola dalla «gioventù scatenata» alla «maturità impetuosa»8, situazione che gli consentì di interpretare organicamente il ruolo del musicista-eroe di un’epoca e di una nazione che chiedevano risposte dirette a un bisogno che coniugava strettamente l’idealità legata alla presa di coscienza di un ruolo guida nella moderna civiltà con il vitalismo e l’edonismo di quella che Scott Fitzgerald chiamò «la più sfrenata delle generazioni» («Un’intera razza diventava edonistica, si dichiarava per il piacere»9). Gershwin colse tutto il benessere materiale che l’epoca era in grado di offrirgli, conce­ dendosi generosamente alla mondanità, praticando lo sport (equitazione, nuoto, sci, tennis, golf10), acquistando automobili di lusso in continua­ zione11, riservando le sue apparizioni ai momenti notturni12, in perma­ nente eccitazione erotica, coniugando sofisticazione e dissipazione come fosse uscito dalle pagine di Scott Fitzgerald. La prestanza fisica diventò per lui un culto come lo fu la ricerca del benessere per la generazione che riconobbe in lui un modello. Vuoi per distinzione, vuoi per aspira­ zione al migliore equilibrio tra mente e corpo, non si sottrasse nemmeno alla tappa obbligata dello psicanalista13. La sua vita fu una serie di luoghi comuni. I passaggi obbligati che l’attesero dopo l’affermazione di Swanee furono tutti prevedibili e in circostanze normali tali da renderlo un personaggio scontato: per gli ame­ ricani alla ricerca di idoli in cui rispecchiare la propria mediocritas essi significarono la sua consacrazione a personaggio pubblico adulato e invi­ diato per il successo che aveva saputo conquistarsi e amministrare; suc­ cesso che come principio, in una società che riservava la dignità mas­ sima all’umile capace di emergere, era destinato a prevalere su qualsiasi giudizio potesse essere emesso nei suoi confronti14. Egli ripagava la massa dei suoi estimatori riconoscendo alla musica il merito di rompere i confini di classe e di cultura, di agire da collante in una società che si compiaceva di esibire la varietà dei suoi estremi15. Gershwin era cosciente del tessuto pluralistico in cui la sua esperienza era calata, dell’inopportunità di rivendicare alla sua musica una specifi­ cità di senso in rapporto al destinatario. L’approdo alla sala di concerto non fu un obiettivo, ma un semplice passaggio. Riuscire a farsi ricono­ scere nel solco della tradizione sinfonica non significò per lui sottoscri­ vere patti con quella parte di società che esclusivisticamente vi si dava

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«Viviamo in un'epoca di staccato»

convegno e che riservava tale esperienza a precisi luoghi di ritrovo. Un traguardo furono piuttosto per Gershwin le occasioni che ebbe di esi­ birsi nei grandi stadi, di fronte a una moltitudine, come quando nell’a­ gosto del 1932 al Lewisohn Stadium si presentò da solista nelle sue due rapsodie, ricavandone un’esperienza memorabile: E stata, lo credo veramente, la notte più eccitante della mia vita, in primo luogo perché la Philharmonic Orchestra suonò un intero programma di musica mia, e secondariamente poiché il record di tutti i tempi dei concerti dello Stadium fu infranto. Ho proprio fatto i calcoli: 17845 persone hanno pagato per accedervi mentre 5000 circa erano accalcate davanti ai cancelli chiusi cercando invano di entrare.16

Dietro l’evidente compiacimento per il risultato quantitativo c’era quello qualitativo di poter contare su una vasta platea interlocutrice in cui democraticamente era rispecchiata l’intera nazione, a tutti i livelli delle sue componenti culturali. Tale aspetto non sfuggì ai testimoni più attenti del suo primo successo, a Irving Soblosky che scrisse: Ciò che è sotteso all’ambizione sinfonica di Rhapsody in Blue non è l’aspi­ razione alla rispettabilità della classe media bensì la convinzione democra­ tica che ciò che è popolare può anche essere raffinato.17

Con ciò egli superava il pericolo del kitsch nel cui ambito apparente­ mente si sarebbe tentati di collocare talune sue composizioni. In verità la situazione kitsch si dà quando l’ambizione compositiva va al di là di quanto l’organicità stilistica dell’opera consenta, con un effetto quasi di spaesamento. Ora in Gershwin l’eterogeneità della scrittura è qual­ cosa di programmatico, qualcosa che si fonda appunto sulla convinzione che non esista una modalità di espressione superiore a un’altra e che il maggior arricchimento risulti dalla possibilità di far coesistere il mag­ gior numero di tali modalità. In questo senso non è necessario atten­ dere Rhapsody in Blue per vederlo testimoniato: qualsiasi sua canzone, capace di coniugare la franchezza teatrale della melodia con la ricerca­ tezza delle armonie “impressionistiche” dell’accompagnamento in cui per giunta si innesta la blue note dell’influenza negra, già lo dimostra. E il risultato di una presa di coscienza (che era già stata quella di Ives ma non degli altri compositori americani che lo precedettero) secondo cui la condizione “naturale” della musica americana non poteva essere quella dell’omogeneità, della valorizzazione dell’espressione attraverso la possibilità di ridurla a un unico denominatore, bensì del suo contra­ rio, della facoltà di trovare motivazione nell’affermazione dei propri con­ trasti, degli innumerevoli gradi attraverso cui si confrontano e si com­ penetrano le realtà sociali e culturali della grande nazione. In qualche modo Gershwin stesso espresse questo pensiero parlando del jazz.

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Gershwin

È difficile determinare a quali duraturi valori, da un punto di vista este­ tico, il jazz ha dato il suo contributo, perché jazz è una parola che è stata usata per almeno cinque o sei diversi tipi di musica. E in verità è un conglo­ merato di molti elementi: c’è qualcosa del ragtime, del blues, del classico e degli spiritual.18

Proprio in questa definizione di jazz, oltre a verificare l’atteggiamento di apertura senza pregiudizi di Gershwin sulla realtà musicale americana, cogliamo il segno di come esso fosse allora percepito, più come la sintesi di espressioni disparate che come manifestazione esclusiva di cultura afro­ americana. Il fatto che la critica sul jazz sia andata delineandosi e sia cresciuta sul principio dell’identificazione della sua purezza come defi­ nizione di un genere ben distinto e tenuto al riparo da più o meno pre­ tese contaminazioni, non ha certo contribuito a valorizzarlo come mani­ festazione americana intesa nella sua globalità. Ancor più gli ha nuociuto a questo livello (più di quanto di conseguenza abbia nuociuto a Ger­ shwin) la sbrigativa emarginazione, in quanto spurio, del cosiddetto “jazz sinfonico”, che viceversa, alla luce delle ricerche più recenti (con pre­ ciso riferimento all’attività di Paul Whiteman oltre lo stesso fatto dì aver tenuto a battesimo Rhapsody in Blue), si rivela come momento cruciale di quella coagulazione di modi, interessi e abitudini che l’hanno fon­ dato come espressione universale al di là dei confini di razza e di classe. Non è in verità di secondaria importanza venire a conoscenza del fatto che Ferde Grofé, l’orchestratore della rapsodia gershwiniana, non vada considerato un musicista colto che abbia adattato il jazz ad ambizioni ad esso estranee, bensì un pioniere del jazz in piena regola a cui ascri­ vere il merito di aver praticato già nella seconda metà degli anni Dieci (in associazione con il batterista Art Hickman) precise esperienze stru­ mentali che gettarono le basi dell’azione articolata delle big band. Se fu probabilmente idea di Hickman quella di costruire una band intorno a un coro di sassofoni, fu certamente merito di Grofé il dispiegamento di altri strumenti opposti ai sassofoni in rapporto contrappuntistico che non riproduceva più la sovrapposizione di linee strumentali divergenti tipiche dei complessi dixieland, ma era orientato verso una conduzione parallela e serrata delle linee. Inoltre è a Grofé che andrebbe ascritta l’idea stessa di arrangiamento, di un’organizzazione del discorso capace di andare al di là della semplice successione dei chorus nella stessa tona­ lità mediante l’introduzione della variazione musicale da uno all’altro chorus con contrapposizione di gruppi di strumenti. Benché presto dimen­ ticato, è a lui e ai suoi procedimenti di messa in partitura del jazz (prima ancora dell’approdo all’Aeolian Hall di Rhapsody in Blue) che Henry Osborne Osgood nel 1931 faceva riferimento per designare l’esperienza del “Symphonic jazz”19, che evidentemente non era intesa nel senso limitativo dell’ambiziosa operazione di promozione del jazz nel tempio concertistico (come avvenne nel memorabile concerto del 12 febbraio

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1924), ma riguardava l’estesa pratica delle orchestre di danza che si erano modellate sull’esempio di Paul Whiteman. Il quale Whiteman, dopo aver dato vita al suo celebre complesso nel 1919 avvalendosi immediatamente della collaborazione di Grofé in qualità di pianista e arrangiatore, non fu semplicemente colui che adattò il jazz a esigenze commerciali come si è voluto far credere, bensì il capostipite della vasta fase del jazz “arran­ giato” che dalla metà degli anni Venti in poi vide affermarsi le big band di Henderson e di Ellington e indusse i complessi di King Oliver, di Red Nichols e perfino di Armstrong ad ampliarsi in più estesa formazione20. Fu la società bianca, decretando a Whiteman il successo, a determinare tale direzione imboccata dal jazz, che non solo in quel decennio riuscì a scrollarsi di dosso la memoria dell’infamante marchio del suo impiego sottoproletario, ma conseguì soprattutto il traguardo di un’espressione che non solo la classe nera ma l’insieme della cultura americana erano già in grado di annettersi. Come ha sottolineato Neil Leonard, la conquista di tale livello di “rispettabilità” fu merito degli esponenti del “Symphonic jazz”: In larga misura fu attraverso i loro sforzi se il termine “jazz” negli anni Venti e Trenta fu meno associato al bordello e più alla sala di concerto come un prodotto indigeno di cui gli americani potevano andar fieri.21

La clamorosa esperienza di Whiteman in altre parole non può essere semplicemente separata dal filone principale e autentico del jazz, ma ne è parte costitutiva, a testimonianza del ruolo risolutivo della società bianca e della sua cultura nel relativo radicamento. La componente bianca del pubblico del jazz era maggioritaria e nel caso dei club di Chicago, del Sunset, come fu testimoniato da Earl Hines, fino al 90 per cento22. Secondo James Lincoln Collier musicisti quali Ellington e Henderson non cominciarono come esponenti del jazz bensì della musica da ballo leggermente influenzata dal jazz: tra il 1923 e il 1926 avrebbero tra­ sformato i loro complessi in jazz band sotto la spinta del pubblico bianco che costituiva la parte maggiore degli spettatori paganti dei cabaret, delle sale da ballo, dei teatri, della radio e dei dischi23. D’altra parte l’orche­ stra di Whiteman fu una fucina di grandissimi esecutori di jazz, che non furono per niente sacrificati alla pagina scritta, e ai quali in almeno la metà delle relative registrazioni discografiche fu concesso di esibire negli assoli le loro capacità improvvisatorie. Inoltre al tempio concertistico non ambivano solo i compositori,che si erano avvicinati al jazz da posi­ zione colta, come fu il caso di George Antheil con la sua A Jazz Sym­ phony commissionatagli da Whiteman nel 1925 (ma, per ragioni di ritardo nella consegna, eseguita solo nel 1927 alla Carnegie Hall dalla W. C. Handy’s Orchestra diretta da Allie Ross24), bensì anche figure insospet­ tabili quali Bix Beiderbecke il quale, oltre a essersi messo in luce nel­ l’orchestra di Whiteman, potè presentare la sua famosa composizione

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Gershwin

In A Mist in trio con Roy Bargy e Lennie Hayton alia Carnegie Hall nel 19282\ Lo stesso Gershwin fu ben consapevole di tale situazione che già allora si delineava tra partiti presi, quando nel 1925 dichiarava: Parlando del jazz, dev’essere assolutamente sfatato un pregiudizio: quello che esso sia essenzialmente negro, I negri certo vi si dedicano, però nella sua essenza il jazz non è più negro di quanto lo sia il ritmo sincopato, che esiste nella musica di tutte le nazioni. Il jazz non è negro, ma americano.26

Per molto tempo purtroppo le preoccupazioni puristiche hanno impe­ dito di vedere negli articolati percorsi dell’espressione musicale ameri­ cana la stimolante ricchezza di relazioni, l’interdipendenza e i rapporti di necessità. Soprattutto, da specola europea, l’imporsi di una visione categoriale ha impedito la decifrazione di fenomeni musicali che andreb­ bero visti nel loro insieme anziché subordinati a quella specie di furore classificatorio che da Panassié in poi ha contagiato tutti quanti si sono occupati di jazz nel vecchio continente. Per il critico francese l’esperienza di Whiteman era semplicemente da mettere alla berlina: Paul Whiteman, con il concorso dell’arrangiatore Fred [s/c] Grofé, coprì di ridicolo la musica jazz, sconciandola con pasticci di musica classica, sottraendole la spontaneità e il carattere che le è proprio27 [...]. Si è specializ­ zato in quelle esecuzioni vuote e pompose, sprovviste del minimo interesse, che sono state soprannominate “jazz sinfonico” [...]. Quanto alle opere di un Gershwin quali Rhapsody in Blue e il Concerto in F, è meglio non parlarne. E una musica che si avvicina al jazz solo a causa della strumentazione e, più vagamente, per certi temi ibridi di un interesse musicale relativo. Ciò che costituisce il fondo della vera musica jazz, lo swing, è totalmente assente da queste composizioni che in realtà si riallacciano molto di più alla musica sinfonica.28

L’apparizione di Rhapsody in Blue non costituì dunque un evento iso­ lato e staccato dall’esperienza del jazz negli anni Venti, ma fu il pro­ dotto organico e persino necessario di una congiuntura che a tutti i livelli mobilitava le forze del rinnovamento. Non è sicuramente un caso.se il jazz, la commedia musicale di Broadway, il cinema, la canzone di Tin Pan Alley e le nuove danze comparvero tutti nello stesso momento29. Una relazione collegava tali manifestazioni del nuovo volto dell’Ame­ rica, ringiovanita, libera dalle convenzioni, irrispettosa verso i padri, urbana anziché contadina, dinamica e frenetica addirittura: il senso del­ l’emancipazione, della perdita di valore, di abitudini antiche e logore, l’affermarsi di principi in grado di giustificare l’adattamento della vita sociale al grado avanzato del livello tecnologico raggiunto. Un nuovo ritmo di vita si impone: In America il ritmo prescelto si chiama jazz. Jazz è musica: usa le stesse note che usava Bach. Quando lo si esegue in altre nazioni, viene chiamato

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americano. Quando lo si esegue in un altro paese suona falso. Il jazz è il risultato delle energie immagazzinate dall'America. E un genere di musica molto energica, rumorosa, impetuosa e perfino volgare. Una cosa è certa, il jazz ha dato davvero all’America un contributo di valore duraturo: ha espresso quello che noi siamo. È una realizzazione originale americana che durerà, non sotto forma di jazz forse, ma in qualche modo lascerà il segno nella musica futura.30

Le parole di Gershwin sono la risposta più esaustiva a tutte le obie­ zioni che potrebbero essere formulate per mettere in dubbio la coerenza jazzistica della sua musica, la quale ovviamente non è jazz (o meglio non è solo jazz), ma è spiegabile solo facendo riferimento allo spirito del jazz, alla stessa esperienza che Scott Fitzgerald visse e descrisse con identi­ che parole nello stesso periodo, quando collegava l’“Età del jazz” a «tutta l’energia nervosa accumulatasi e non consumata durante la guerra»31. La stessa capacità di partecipare allo slancio di quel particolare momento di vita americana e la stessa capacità di esserne l’osservatore distaccato, quasi disincantato, dimostrava Gershwin, il quale, lungi dal subire il fascino di quell’esaltazione collettiva, era perfettamente in grado di situarla come una tappa nel processo di emancipazione dell’identità nazionale di cui il jazz fungeva da rivelatore; non quindi come fine, bensì come strumento che sarebbe servito ad approdarvi, magari accettando di essere superato come modello: [...] così i balli oggi in voga esprimono la vitalità nervosa, un po’ irriflessiva, dell’America attuale. Siamo quasi certamente in una fase di transizione; è inconcepibile che questa tensione possa continuare per sempre. E probabile che adattandosi il jazz assumerà a poco a poco il ruolo subordinato che gli compete. Insomma il jazz non è di per sé un fine, ma piuttosto un mezzo per il conseguimento di un fine. Sarà il futuro sviluppo musicale del paese a determinare qual è questo fine.32

C’è una relazione diretta tra lo spirito del jazz che percorre e innerva la musica di Gershwin e il brulicante e stordito universo urbano di Scott Fitzgerald, tra il «caleidoscopio musicale d’America»33 quale volle essere per Gershwin la Rhapsody nella sua mimetica riproduzione della frenesia metropolitana e «tutta l’iridescenza del principio del mondo»34 in cui New York compariva agli occhi dello scrittore. Era la città vis­ suta in primo luogo come spettacolo, in grado di indurre a collocare «lo stile e lo scintillio di New York a un livello ancora più alto del suo stesso valore»35, la città riletta in base al ritmo dettato dal suo macchinistico pulsare in cui l’individuo in quanto tale non può più pretendere di essere riconosciuto. Si trattava di una presa di coscienza che aveva il discri­ mine tra l’accettazione della modernità, con tutti i suoi risvolti di cadu­ cità ma globale, e l’arroccamento in una modernità che, nella pretesa di conservare incontaminato il giudizio individuale, portava l’artista

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all’isolazionismo e a regredire in una condizione rurale come fu (secondo Charles Hamm) la polemica scelta di Ives il quale, a giustificare il suo ritiro nel New England, citava l’astioso congedo di Daniel Gregory Mason dal mondo contemporaneo: «[...] se veramente la terra di Lincoln ed Emerson è degenerata fino al punto che nulla ne rimane fuorché un “sob­ balzare e strepitare”, allora siamo almeno liberi di ripudiare il falso patriottismo di “Patria mia, a ragione o torto”, per perseverare nel con­ vincimento che niente musica è meglio di cattiva musica, e così pure lasciare che la nostra diletta arte sprofondi alfine sotto il clangore dei gong della metropolitana e dei clacson d’automobili, morta, ma non diso­ norata»36. Viceversa in Gershwin sorprendiamo l’orecchio attento al «coro dei suoni della città», la scomparsa di ogni pregiudizio nei con­ fronti dei modi in cui la realtà urbana si manifesta. La sua forza era rico­ nosciuta nella sua contradditorietà, nella disarticolazione apparente di un assembramento di suoni corrispondente al moltiplicarsi delle azioni che in piccolo spazio venivano a condensare l’inverosimile37. Con Gershwin registriamo l’adeguamento dell’artista alla condizione urbana e industriale, sia nel senso dell’adattamento alle nuove modalità di produzione e diffusione della musica («L’Era della Macchina ha pra­ ticamente influenzato tutto. Non intendo dire solo la musica, ma tutto, dalle arti alla finanza»38), sia in quanto rispecchiamento dell’estetica della macchina nel modello musicale («La macchina non ha tanto inciso sulla nostra epoca influenzando la forma, quanto il tempo, la velocità, il suono. Essa mostra la sua influenza sul suono ogni volta che i compo­ sitori si servono di nuovi strumenti per imitarne i vari aspetti»39). In una società tutta protesa a raccogliere i benefici dell’industrializ­ zazione e, attraverso la macchina, a coronare il sogno di potenza di una nazione, Gershwin era destinato a diventare il musicista prediletto. Non erano tanto le asperità del linguaggio, la sua difficile accessibilità, a impe­ dire a Charles Ives di diventare simbolo di quell’America: la sua scelta rurale, la determinazione ad appartarsi, lo legavano a un’altra America, quella che guardava al passato e che cercava di conservarsi fuori del tempo. Il passaggio a Gershwin, indipendentemente dal mezzo espressivo, segna la fine del rapporto con il paesaggio di natura (tra l’individuo e le voci del silenzio) e l’instaurazione di un rapporto organico con la città moderna. Nessuno si aspettava che componessi musica. L’ho semplicemente fatto. Ciò che ho fatto è ciò che era in me, la combinazione di New York, dov’ero nato, e il suo ritmo crescente ed esilarante, con centinaia di sentimenti ere­ ditari dietro di me.40

Questa identificazione, apparentemente totale, con la realtà urbana è la base dell’immagine mitizzata di Gershwin, del compositore che sarebbe stato capace di trasfondere in musica «l’eccitazione, il nervosi­ smo e il movimento dell’America»41. Evidentemente la sua musica è

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ben lungi da quella specie di riflesso condizionato della situazione metro­ politana che si volle veder rispecchiata nelle sue composizioni. Pur rico­ noscendo la portata del condizionamento della realtà industriale, già la sua volontà di non subirla come un annullamento dell’individuo di fronte alla macchina ci induce a ridimensionarne il senso: Meccanismo e sentimento dovranno procedere di pari passo, così come un grattacielo è al tempo stesso trionfo della macchina e straordinaria espe­ rienza emotiva, quasi mozzafiato.42

Non vi è nulla di esaltatorio nel rapporto di Gershwin con la moderna realtà industriale, se non il modo di viverla come una seconda natura. Per lui non ci furono né il problema del rifiuto di tale realtà, né quello di esorcizzarla allo scopo di piegarla alle ragioni dell’individuo. Vi fu semplicemente la sua accettazione, che significava percorrerla nelle più intime fibre e annetterla a sé in un equilibrio costruttivo di ipotesi di cui essa diventava il principale vettore. Così giustamente Hamm ha atti­ rato l’attenzione sul significato dell’adesione di Gershwin alle prospet­ tive estetiche aperte dall’epoca dei mass media e della riproduzione mec­ canica del suono. A partire dall’età di diciotto anni Gershwin cominciò a dedicarsi alla registrazione di rulli per il pianoforte meccanico, mentre al disco egli dovette la precoce e immensa popolarità delle sue canzoni. La radio e il cinema furono pure veicoli a cui la sua musica si adattò perfettamente43. È significativo il fatto che una delle sue riflessioni più articolate sugli aspetti della musica tocchi il problema del compositore nell’“era della macchina”, in cui si considera lo scenario nuovo rappre­ sentato dalla diffusione della musica a livello di massa, della possibilità attraverso il disco e la radio di raggiungere milioni di ascoltatori44. La macchina come strumento prevaleva dunque nella sua concezione sulla macchina come idolo o come feticcio. Dal futurismo che indulgeva verso questa seconda ipotesi lo divideva proprio il fatto di conoscere perfetta­ mente i termini in cui muoversi disinvoltamente al suo interno, mentre il movimento marinettiano di un’Italia protoindustriale tendeva a vagheg­ giarne la proiezione ideale. Il futurismo effettuale di Gershwin lo indu­ ceva a usare la macchina più che a venerarla, a sfruttarla come mezzo di comunicazione in un contesto in cui essa veniva a collegarsi come pro­ lungamento del sistema nervoso, dei tramiti che uniscono i termini della comunicazione, non già come cuore o cervello. Senza molto sapere del futurismo, ma certamente con riferimento agli esperimenti di George Antheil egli dichiarava: Neanch’io sono a favore di quelle composizioni della scuola Dada che impiegano la strumentazione di ventole elettriche o mettono insieme cin­ quanta pianoforti elettrici sincronizzati in uno scatenarsi di chiassosa cacofonia.45

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Non è la natura in sé della musica che viene a essere modificata: «L’Era della Macchina può influenzare soltanto i processi di distribuzione della musica»46, mentre dal processo compositivo, riconosciuto nella sua autonomia di artigianato, essa rimane esclusa. Esemplare in questo senso fu l’uso della radio, ai cui microfoni Gershwin si esibì come interprete fin dai suoi primi successi, ma che lo sollecitò soprattutto nel momento in cui gli fu offerto di animare un programma bisettimanale dal titolo Niusìc by Gershwin diffuso in due serie tra febbraio e giugno del 1934 dalla WJZ e tra settembre e dicembre dello stesso anno dalla WABC47. Tale esperienza, che vedeva il musicista nel ruolo dell’intrattenitore che conversava sulla propria musica e su quella di giovani colleghi (Harold Arlen, Oscar Levant, Morton Gould, Dana Suesse, Rube Bloom e il fra­ tello Arthur Gershwin che aveva pure iniziato a comporre48), su can­ zoni e composizioni che egli stesso suonava al pianoforte eseguite anche dall’orchestra presente in studio, fu la verifica definitiva di un bisogno di comunicazione che trovava modo di esplicarsi organicamente in rap­ porto ai termini in cui esso veniva a determinarsi nella moderna società di massa. Gershwin abbracciò la causa della radiofonia con determinazione. Ciò non significa che egli non ne vedesse i limiti. La sua capacità analitica lo mise subito in condizione di individuarla come fattore di usura del­ l’ascolto nella sovrabbondanza di offerta resa possibile dal nuovo mezzo tecnologico. Se le nuove canzoni americane per questa via riuscivano ad affermare la loro originalità e la loro vitalità, d’altra parte esse si tro­ vavano confrontate con un problema di caducità che ne abbreviava sempre più l’arco di esistenza: La ragione di questo è il fatto che esse vengono cantate e suonate troppo quando sono in vita e non ce la fanno a sopportare lo sforzo della loro stessa celebrità. Ciò è vero specialmente dopo l’invenzione del fonografo e ancora di più dopo l’enorme diffusione della radio.49

Nonostante le perplessità manifestate verso la “voracità” del micro­ fono, che come un leone affamato divora una novità dopo l’altra, men­ tre in una tournée di concerti egli poteva offrire a ripetizione per più sere lo stesso identico programma50, egli seppe domarlo e non solo sfruttarlo economicamente (2000 dollari fu il suo onorario settimanale), seppe riconoscerlo nella centralità della vita sociale e culturale della con­ dizione moderna. Significativo appare il modo in cui il musicista intese la prima e non unica operazione di verifica del risultato sonoro, realiz­ zata assoldando un’orchestra per una seduta privata d’ascolto, possibile solo a un compositore dagli esiti di massa e dalle risorse finanziarie note­ voli nell’America di quegli anni. Orbene, in occasione delle sedute pri­ vate di prova del Concerto in F volute per mettere a punto il suo primo tentativo di orchestrazione originale, Gershwin tenne a precisare che

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la grandiosità del fatto non doveva essere interpretata come sciocca emu­ lazione di un’impresa regale e d’altri tempi (come potevano essere le manie di Ludwig II di Baviera), bensì il tentativo organico di uscire dall’unila­ terale specola dell’autore per situarsi nella posizione che per lui contava in primo luogo, quella dell’ascoltatore («[...] io stesso ero al pianoforte e ascoltavo, per così dire, attraverso il molteplice orecchio del pub­ blico»51). L’apparente atto di magniloquenza e di vanità si rivelava a conti fatti come un atto di umiltà, di sottomissione alle regole della comu­ nicazione e di rispetto verso l’anonimo destinatario del messaggio. Per quanto riguarda l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, anzi­ ché come fattore di rimessa in discussione del ruolo dell’artista, essi erano visti come possibilità estrema di consolidamento del suo ruolo creativo: Il compositore, a mio avviso, è stato molto avvantaggiato dalla riprodu­ zione meccanica della musica. La musica è scritta per essere udita e ogni strumento concepito affinché contribuisca a farla udire più frequentemente da più ascoltatori reca vantaggio a chi la scrive.52

DuBose Heyward, impegnato a quel tempo con Gershwin nella ridu­ zione a libretto di Porgy and Bess, ci ha testimoniato il significato dei nuovi rapporti a cui l’evoluzione tecnologica ed economica della comu­ nicazione costringeva l’artista a far fronte: E diventato moda in America lamentarsi della prostituzione dell'arte attra­ verso il grande rotocalco, la radio, il cinema. In proposito sono categorico. Utilizzati in modo proprio, la radio e il cinema possono essere per lo scrit­ tore di oggi ciò che per Villon era il suo principe, per Wagner il re di Baviera. In nessun'altra epoca è stato mai possibile che uno scrittore, vendendo i propri servizi da abile tecnico, guadagnasse in due mesi un introito suffi­ ciente a mantenerlo per un anno. E ora il cinema l'ha reso possibile. Io ho deciso che lo schermo dovrà essere il mio mecenate, e George ha scelto di servire la radio [...]. Le statistiche registrano l'esistenza in America di 25 000 000 di apparecchi radio. Il loro contributo all'opera è stato indiretto ma importante. Oltre a ciò per mezz’ora alla settimana ha sparso la notizia che chiunque, per la modica cifra di dieci centesimi - la decima parte di un dollaro - poteva portar via il Beenamint [la marca di chewing-gum che finanziava il programma radiofonico di Gershwin] a un qualsiasi garzone di drogheria. E con l'autentico fiuto del medicone, il fabbricante ha distri­ buito le sue informazioni in un’irresistibile confezione di successi di Ger­ shwin, con il compositore al pianoforte. Posso immaginare che ci sia un destino peggiore di quello che dipende dall’uso del chewing-gum lassativo. E, comunque, eravamo persuasi che il fine giustificava i mezzi.53

Gershwin era ben cosciente di come la realtà industriale, la tecnolo­ gia della comunicazione di massa, avessero rimescolato le carte e scon­ volto le regole a cui obbediva il giudizio estetico. Egli si rendeva conto in particolare della diversità che a questo livello si era instaurata tra l’Ame-

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rica e il vecchio continente. Al ricatto dell’educazione europea non cedette mai, nemmeno quando scriveva per la sala di concerto o per il teatro d’opera, poiché anche nelle composizioni concepite per i luoghi deputati della cultura non rinunciò a manifestarvi la franca irruenza dell’espres­ sione metropolitana con la sua dose di nevrastenia e di volgarità per­ fino, concetti che gli non esitò a sfidare nella consapevolezza che, come sintomi della carica materica mutuata dal convulso respiro della frene­ sia urbana, ne uscisse un messaggio liberatorio, in cui non si potesse più parlare di primato del soggetto sull’oggetto e in cui la modernità si rive­ lasse come ridimensionamento dei poteri demiurgici dell’individuo. Se fossi un asiatico o un europeo che un aeroplano all’improvviso avesse fatto atterrare su questo suolo e ascoltassi con vergine orecchio il coro dei suoni dell’America, direi che la vita americana è nervosa, affrettata, sempre in accelerando; e lievemente volgare. Userei la parola “volgare” senza inten­ zioni offensive. C’è una volgarità che è novità. E essenziale. Il charleston è volgare; eppure ha una forza e una materialità che sono aspetti essenziali di questa sinfonia di suoni.54

Erano argomenti sufficienti a fargli dichiarare di non aver vergogna di appartenere all’industria dello spettacolo55 che, in quanto veicolo di una nuova sensibilità chiamata al compito formativo di un tipo umano all’altezza del tempo, al di là dei pretesti divaganti era considerata come prepotente fattore di civilizzazione. Sicuramente tale aspetto dell’uso della.tecnologia come strumento in funzione missionaria si collega all’ideologia della frontiera, ai valori tipi­ camente americani del pionierismo, benché apparentemente sembri negarli, poiché la società urbana di massa non riconosce la priorità del merito individuale. La radio e il fonografo per Gershwin svolgevano un’ef­ fettiva funzione colonizzatrice dal punto di vista culturale: «[...] più la gente ascolta la musica, più diventerà capace di giudicarla e riconoscerne il valore»56, e qui veniamo a una concezione democratica della cultura a cui Gershwin certamente approdò nel momento stesso in cui alla parte più “evoluta” della sua musica era dato di conquistare le cittadelle esclu­ sivistiche del gusto. Il suo sviluppo compositivo verso forme articolate e rigorose non obbediva infatti a un bisogno di promozione sociale all’in­ segna di un ideale alto-borghese, bensì testimoniava piuttosto il contra­ rio, cioè la rivendicazione dell’accesso alla cultura tout court da parte degli strati non colti della società. Rhapsody in Blue e An American in Paris, cioè, non furono tanto la chiave per conquistare la Carnegie Hall, quanto piuttosto il Lewisohn Stadium in cui il musicista non disdegnava di esibirsi, per fornire un modello di alta dignità artistica al pubblico di massa che in questi luoghi si radunava in unità di centinaia di per­ sone. Anche Porgy and Bess è stata concepita non già come un prodotto

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dimostrativo di un processo di acculturazione che si evolve iniziando da uno stadio popolare, bensì come «qualcosa che avrebbe interessato le masse invece che una minoranza colta»57. Secondo Charles Hamm ci si è troppo adagiati sull’immagine di un Gershwin artista “rampante”, predisposto a percorrere i binari del suc­ cesso e dell’affermazione individuale secondo il luogo comune del “sogno americano”. L’immagine corrente dell’artista apolitico e non intellet­ tuale, insensibile a problemi quali il ruolo della musica nello sviluppo della società democratica e capitalistica americana, avrebbe dominato troppo sbrigativamente, senza tener conto di una messa a fuoco, sem­ pre più precisa nel giudizio gershwiniano, dell’attenzione al risvolto sociale dell’espressione. Pur non avendo fatto parte del Composers Collective di New York (affiliato alla Workers’ Music League, una branca del par­ tito comunista americano di cui erano membri Aaron Copland, Marc Blitzstein e Elie Siegmeister), poiché apparteneva alla comunità artistica e intellettuale ebraica egli non potè rimanere indifferente al coinvolgi­ mento dei membri di questa comunità nella politica radicale dei primi anni Trenta58. Negli stessi anni è sintomatico l’apparire nella termino­ logia gershwiniana del concetto di folk music, simultaneamente al momento in cui la musica folk era diventata centro di interesse dei cir­ coli radicali americani. Sicuramente Porgy and Bess non può essere sem­ plicemente ridotta a “folk-opera”; ma che dietro questo concetto stesse una dimensione perlomeno criticamente articolata sulla sostanza sociale della materia esibita era già intenzione del compositore, il quale in un’in­ tervista dichiarò addirittura di intenderla come «esemplificazione del punto di vista del tipico proletariato americano nei suoi assunti fonda­ mentali e indipendentemente dalla razza e dal colore della pelle»59. Benché non ci siano elementi sufficientemente probanti di una precisa svolta politica nella coscienza di Gershwin, è significativa l’evidenza della logica che nel suo teatro conduce dagli spettacoli di intrattenimento e di attualità (Lady Be Good, Oh Kay, ecc.) all’esperienza della satira politica all’inizio degli anni Trenta (Strike Up the Band, Of Thee 1 Sing, Let ’Em eat Cake ) e infine alla focalizzazione del «tipico proletariato americano» in Porgy and Bess60. È comunque certo che nel suo maturo capolavoro il compositore perviene a mettere in discussione l’autenticità della sua stessa origine musicale: il pericolo maggiore (in quanto insinuante) che attenta all’«innocenza radicale dello spirito» rappresentata dalla figura di Porgy61, didascalicamente garantita dall’umile condizione di proleta­ rio negro, è costituita dal torvo personaggio di Sportin’ Life, spaccia­ tore di miraggi e di paradisi artificiali, la cui capacità di convinzione è tradita dall’ambigua intonazione dei suoi interventi cantati che richiama il modulo evasivo di Tin Pan Alley62. L’immagine stessa di New York per la prima volta in Gershwin vi appare separata come un mondo pro­ messo e lontano e per di più, nel battello che parte per la grande metro­

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poli cantato nelle lusinghe di Sportin’ Life indirizzate alla fragile Bess, rivelata come luogo in cui l’operosità, il commercio, la fantasmagoria mascherano una realtà di anime perdute, di prostituzione, di apparenza ingannevole. D’altra parte vi fu anche un momento in cui Gershwin riconobbe la caducità delle sue canzoni in un contesto dove il consumo produce usura. Nella prefazione al Song-Book (1932) egli prendeva atto che la caratte­ ristica delle canzoni era di morire in giovane età e di essere subito dimen­ ticate, in quanto «cantate e suonate troppo quando sono in vita [...] spe­ cialmente dopo l’invenzione del fonografo e ancora di più dopo l’enorme diffusione della radio»63. Uno dei motivi per cui egli cercò lo sbocco nelle grandi forme fu appunto la sua convinzione che solo in quel conte­ sto fosse possibile assicurare sopravvivenza nel tempo al messaggio musicale: Allorché scrissi Rhapsody in Blue presi dei tra “blues” e li collocai in una forma più estesa e impegnata. Ciò accadeva dodici anni fa e Rhapsody in Blue è sopravvissuta benissimo, mentre se avessi preso gli stessi temi e li avessi utilizzati per la composizione di canzoni, essi sarebbero già stati dimenticati da un pezzo.64

Charles Hamm collega tale presa di coscienza, capace di distinguere il grado di artisticità secondo la funzione, al livello di consapevolezza, alle strategie e alle posizioni ideologiche di molti musicisti europei poli­ ticamente impegnati negli anni Trenta65. Da un certo punto di vista alcune idee e alcune realizzazioni di Gershwin potrebbero essere intese nel contesto della Gebrauchsmusik, più precisamente nell’articolazione del messaggio a più livelli praticatala Hanns Eisler, dove la finalizza­ zione portava a esito semplice o complesso a dipendenza del livello d’ac­ culturazione del destinatario. Il fatto che Gershwin si sia manifestato come musicista colto accanto al musicista popular, senza con questo lasciar intendere che ci sia stata una conversione dalla condizione umile a quella più alta ma accettando il principio dell’integrazione tra i due livelli, lo avvicina assai alla concezione dei compositori europei indicati. La moti­ vazione del Song-Book è evidenziata in questi termini attraverso la già menzionata prefazione: La musica pubblicata in fascicoli, come regolarmente si stampa per il con­ sumo su larga scala, viene arrangiata mirando alla facilità. Non è da farne una colpa agli editori se producono versioni facilitate delle canzoni, poiché la maggior parte degli acquirenti di musica leggera sono ragazzine dalle pic­ cole mani, non molto progredite nello studio del pianoforte. Per giunta, se si ha la pazienza di confrontare gli arrangiamenti della nostra musica leg­ gera di un tempo con quelli dei successi moderni, gli arrangiamenti di oggi, per quanto facili, rispetto a quelli del passato appariranno complicati. A poco a poco, con il generale accrescersi di abilità tecnica in chi suona

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il pianoforte, è sorta una richiesta di arrangiamenti che tengano presente tale abilità. Suonando così spesso le mie canzoni in occasione di serate in casa di amici e conoscenti, sono stato portato naturalmente a comporre nume­ rose variazioni su di esse e a indulgere al desiderio di complessità e varietà che ogni compositore prova allorché ha fra le mani ripetutamente lo stesso materiale. E stata tale mia abitudine a indurmi all *insolita proposta di pub­ blicare questo gruppo di canzoni non solo negli arrangiamenti facilitati che il pubblico già conosceva, ma anche nelle variazioni che avevo elaborato.66

Non si tratta evidentemente di assimilare Gershwin alla dimensione dell’artista weimariano, poiché le differenze rimangono sostanziali, ma è evidente che non si tratta di due esperienze lontane una dall’altra. Con­ tribuirebbe tra l’altro a dimostrarlo la fase americana di Kurt Weill, al quale non bastò certamente solo il fatto di essere ebreo “senza patria” per adattarsi con rapidità stupefacente alla situazione musicale di Broad­ way, e il quale probabilmente riuscì a inserirsi senza remore nella pra­ tica della commedia musicale newyorkese per il fatto di trovarla grazie a Gershwin già evoluta nel senso di un’esemplarità capace di equilibrare in modo ottimale le proprie risorse, sia valorizzando la portata didasca­ lica dei contenuti, sia sfoderando procedimenti compositivi complessi secondo l’opportunità: Lost in the Stars non sarebbe pensabile non solo senza il precedente di Mahagonny e delle altre opere tedesche di Weill, ma anche e soprattutto senza l’esempio di Porgy and Bess61. D’altra parte la teatralità a cui Gershwin aspirava nel suo approdo operistico non era di tipo coinvolgente come si può intendere in senso comune. L’ampiezza dell’articolazione non dev’essere interpretata come la pre­ messa di un processo di immedesimazione che egli non pretese mai di suscitare con la sua musica, a onta di certe letture interpretative che traggono spunto proprio dai suoi momenti operistici. La motivazione della scelta del libretto è sintomatica: Perciò, quando scelsi come soggetto Porgy and Bess, una storia di negri di Charleston, fui certo che mi avrebbe consentito di scrivere musica sia leggera sia impegnata e che mi avrebbe anche consentito di inserirvi sia umo­ rismo sia tragedia e anzi tutti gli elementi di intrattenimento da vedere e da ascoltare, perché la razza negra possiede tutte quelle qualità.68

La chiave di lettura suggerita da queste parole ci orienta verso l’op­ zione anti-illusionistica, verso un teatro di rappresentazione dichiarata anziché chiuso nella finzione. E questo un altro elemento condiviso con l’estetica neo-oggettivistica e in particolare con la teoria brechtiana del teatro epico a cui non sembra esagerato fare allusione, non solo in quanto fra gli strumenti teatrali a cui fa ricorso il drammaturgo tedesco figu­ rano il teatro di varietà, il circo e in genere il versante spontaneo e popo­ lare del teatro musicale a cui Gershwin in quanto autore di commedie musicali appartiene, ma anche nella misura in cui il compositore ameri-

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cano nel suo appellarsi al principio dell’“umorismo” accentuava la com­ ponente della distanziazione dall’ineluttabilità della tragedia su cui si regge l’azione del suo capolavoro operistico. A fugare ogni dubbio sta l’assegnazione della parte di Sportin’ Life a un cantante di vaudeville (John W. Bubbles)69, che rivela l’intenzione del compositore di non adagiarsi nella vibrante enfasi dei modi esecutivi del canto operistico impostato e di ribellarsi all’unità del punto di vista narrativo emozio­ nalmente imposto dall’opera, allo scopo di frazionare viceversa la rap­ presentazione in oggettivate e distinte realtà sceniche. Del resto la sua riflessione sulla componente di intrattenimento nelle opere più popolari del repertorio {«Carmen è quasi una raccolta di canzoni di successo»70) implica chiaramente un modo di vedere il teatro al livello del suo mec­ canismo smontato. Di primaria importanza è inoltre la considerazione del suo stile ese­ cutivo. Non è infatti possibile disgiungere la sua scrittura pianistica dal suo modo di suonare, tipico di un compositore che intratteneva con lo strumento un rapporto di necessità. L’atto di improvvisare al pianoforte era in qualche modo incantatorio, come ci è stato testimoniato da Rouben Mamoulian («George al pianoforte era simile a un allegro stregone che celebrava il proprio sabba»71), ma non nel senso di indurre l’ascol­ tatore a trascendere la realtà, bensì l’opposto, di soggiacere all’attrazione sensuale dello strumento attraverso un’articolazione del discorso musi­ cale che obbedisce a una sua prorompente forza interna prima di essere il veicolo di un’emozione a cui aderire. Vernon Duke lo ricorda alla tastiera «senza mai cambiare ritmo e senza suonare in rubato, trasci­ nato dall’incessante scansione di 4/4 - era fisicamente difficile per lui fermarsi»72. Harold Arlen riferisce: «Il suo stile pianistico era molto staccato, e specialmente quando suonava le proprie canzoni egli dete­ stava usare i pedali»73. A confermarcelo restano le registrazioni disco­ grafiche, stupefacenti rispetto a tutte le interpretazioni fornite da ese­ cutori a lui posteriori, i quali in misura più o meno larga hanno tradito l’inesorabilità della sua radiografica lettura, i quali hanno magari colto meglio le sfaccettature del suo variegato discorso ma sacrificandone la forza propulsiva, il senso di vettore ai energia fisica da esso liberato74. «Viviamo in un’epoca di staccato, non di legato»75: il suo modo di sen­ tire musicalmente ciò che lo circondavaT^Tn'qtuesti termini, lo poneva nella condizione di situarsi organicamente in un-dontesto e in un momento di civiltà profondamente inoltrati sulla via attraverso la quale il Nove­ cento si stava liberando dall’ipoteca del soggettivismo, cercando l’inte­ grazione nella realtà, nel riconoscimento delle forze costruttive che la innervano e che, al di là della modernità di facciata, erano motivo di scoperta di un divenire letto nella prevalenza della sua carica oggettiva.

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Note 1 Alan Kendall, George Gershwin: A Biography, London, Harrap 1987; ed. ameri­ cana New York, Universe Books 1987, p. 7. 2 Francis Scott Fitzgerald, The Crak-up (L'età del jazz, trad. it. Milano, Mondadori 1990, pp. 28-9). Cfr. anche Charles Haines, George Gershwin ovvero del musicista come eroe, «L’approdo musicale», IV, ottobre-dicembre 1958, pp. 3-23, di cui si segnala anche il saggio di Luigi Pestalozza, Il mondo musicale di Gershwin (pp. 24-45).

3 Charles Schwartz, Gershwin: His Life and Music, Indianapolis-New York, BobbsMerrill 1973, p. 288, rist. New York, Da Capo Press 1979. 4 George Gershwin, Jazz is the Voice of the American Soul: Hailed by Musicians and Critics as the Outstanding Figure Among Native Composers, the Autor of This Article Defends and Glorifies Syncopation, «Theatre Magazine», XLV, marzo 1927; cfr. cap. I, par. 3.1

del presente volume. 5 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age, in Oliver Martin Sayler (a cura di), Revolt in the Arts: A Survey of the Creation, Distribution and Appreciation of Art in America. With Contribution by Thirty-six Representative Authorities in the Several Arts,

New York, Brentano 1930; cfr. cap. I, par. 4.3 del presente volume. 6 «Come il pugile, l’autore di canzoni deve sempre tenersi in esercizio. Deve cer­ care di scrivere qualcosa ogni giorno. So che se non scrivo nulla per qualche settimana poi perdo un sacco di tempo per rimettermi in marcia. Ecco perché non cesso mai di comporre» (G. Gershwin, Introduction, in Isaac Goldberg, Tin Pan Alley: A Chronicle of the American Popular Music Racket, New York, The John Day Co. 1930; cfr. cap. I, par. 5.2 del presente volume). 7 F. S. Fitzgerald, The Crak-up cit., p. 21. 8 Ibid., pp. 29-30. 9

Ibid., p. 23.

10

C. Schwartz, Gershwin cit., p. 122.

11 Edward Jablonski-Lawrence D. Stewart, The Gershwin Years, con un’introdu­ zione di Carl Van Vechten, London, Robson Books 1974, p. 254.

12

C. Schwartz, Gershwin cit., p. 123.

Ibid., p. 235. 14 «Eppure, a dispetto di questo successo, ma in armonia con la sua parte di eroe, Gershwin scrisse fiaschi patentati, e fu ed è complessivamente criticato più di qualsiasi altro musicista si possa criticare. Altro è essere ignorati, altro è essere famosi ma fatti segno alle invettive altrui... e alle gelosie altrui. Dopo Swanee, Gershwin non fu mai più ignorato: qualunque cosa componesse, veniva ascoltata da migliaia di persone; delle quali molte erano convinte che egli annunciasse l’alba di una nuova era musicale, e alcune altre che nemmeno una sua nota avesse la benché minima importanza» (C. Haines, George Gershwin cit., pp. 11-2). 15 «La musica può essere apprezzata da una persona che non sa né leggere né scri­ vere, così come da gente dotata della più evoluta forma di intelligenza. Per esempio, Einstein suona il violino e ascolta musica. Gente dei bassifondi, drogati e banditi sono solitamente amanti della musica o almeno non sono ad essa insensibili» (G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del presente volume). 13

16 C. Schwartz, Gershwin cit., p. 226. 17 Cit. in Ronald L. Davis, A History of Music in American Life, Malabar, Robert Krieger Publishing Co. 1981, III, p. 150.

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Gershwin

18 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume. 19 James Lincoln Collier, The Reception of Jazz in America, Brooklyn Institute for Studies in American Music 1988, p. 16. 20 Ibid., pp. 19-20. 21 Neil Leonard, Jazz and the White Americans, Chicago, University of Chicago Press 1962, p. 89. 22 J.L. Collier, The Reception cit., p. 23. 23 Ibid., p. 24. 24 Linda Whitesitt, The Life and Music of George Antheil, 1900-1959, Ann Arbor, UMI Research Press 1983, p. 112. 25 J.L. Collier, The Reception cit., p. 24. 26 G. Gershwin, Our Hew National Anthem: Broadway's Most Modem Popular Com­ poser Discusses Jazz as an Art Form, «Theatre Magazine», XLI, maggio 1925; cfr. cap. I, par. 1.3 del presente volume. 27 Hugues Panassié, Le Jazz Hot, Paris, Editions Correa 1934, p. 60. 28 Ibid., pp. 48-9. 29 J.L. Collier, The Reception cit., p. 14. 30 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume. 31 F. S. Fitzgerald, The Crak-up cit., p. 21. 32 G. Gershwin, Our New National Anthem cit.; cfr. cap. I, par. 1.3 del presente volume. 33 Cit. in Robert Kimball-Alfred Simon, The Gershwins, London, Jonathan Cape 1974, p. 35. 34 F. S. Fitzgerald, The Crak-up cit., p. 35. 35 Ibid., p. 34. 36 Charles Ives, Essays Before a Sonata, The Majority, and Other Writings, a cura di H. Boatwright New York, W.W. Norton & Co. 1962, pp. 94-5. 37 «Dovunque andassi udivo convergere una molteplicità di suoni. In gran parte essi non potevano essere uditi dai miei compagni, perché io li sentivo nella memoria: melo­ die dall’ultimo concerto, i cigolanti motivi di un organetto, la cantilena di un cantante di strada sull’obbligato di un violino scassato. Musica passata o presente, tutto ciò udivo dentro di me. Vecchia musica e nuova musica, melodie dimenticate e quelle di gran moda, brani d’opera, canzoni popolari russe, ballate spagnole, chansons, canzonette in rag­ time si univano in un coro di grande potenza nel mio orecchio interiore» (G. Gershwin, Jazz Is the Voice of the American Soul cit.; cfr. cap. I, par. 3.1 del presente volume). 38 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume. 39

Ibid.

40 E. Jablonski-L.D. Stewart, The Gershwin Years cit., p. 9. 41 Merle Armitage (a cura di), George Gershwin, London-New York-Toronto, Long­ mans, Green and Co. 1938, p. 5. 42 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume. 43 Charles Hamm, Verso una nuova lettura di Gershwin, «Musica/Realtà», 25, aprile 1988, p. 39.

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«Viviamo in un'epoca di staccato»

44 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume. 45 G. Gershwin, Does Jazz Belong to Art? Foremost Composer of Syncopated Music Insists on Serious Appraisal, «Singing», I, luglio 1926; rist. in «Second Line», XIV,

settembre-ottobre 1965; cfr. cap. I, par. 2.1 del presente volume. 46 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume. 47 E. Jablonski-L.D. Stewart, The Gershwin Years cit., p. 387. 48

Ibid., p. 211.

49 G. Gershwin, Introduction, in G. Gershwin, George Gershwin's Song-Book, New York, Random House 1932; cfr. cap. I, par. 5.4 del presente volume. 50

C. Schwartz, Gershwin cit., p. 257.

51 G. Gershwin, Jazz is the Voice of the American Soul cit.; cfr. cap. I, par. 3.1 del presente volume.

52 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume.

53 In Merle Armitage (a cura di), George Gershwin cit. Sul significato della radio nel suo primo decennio di vita, e per la diffusione della musica di Gershwin in partico­ lare, vale la pena di riportare anche la riflessione di Alain Lacombe: «La radio dap­ prima impone un rapporto di vicinanza, dissacra lo spettacolo e rivela nuovi talenti. Ingenua, energetica e commerciale, essa favorisce l’unificazione della mentalità ameri­ cana intorno al destino individuale di qualche eroe “repertoriato” con cura, campione della tradizione orale. I romanzi d’appendice, i cantanti celebri difendono il loro pro­ gramma nel mezzo del valzer-sarabanda dei messaggi pubblicitari. In assenza di televi­ sione, la radio è la traccia della memoria popolare. Gershwin utilizza al massimo il nuovo strumento. Broadway e il prestigio acquisito stavano intronizzando nel regno del serio l’altro aspetto della sua musica. Gershwin non era neanche più discusso. Era plebiscitato. Durante le emissioni di Rudy Vallee, cantante celebre negli anni Trenta e Qua­ ranta, Gershwin veniva a spiegare le sue musiche prima di dirigerle. Questa nuova com­ plicità, questo dialogo invisibile con l’ascoltatore gli permetteva di confortare l’America in crisi. Gershwin era introdotto nella galleria dei personaggi “euforizzanti”, emblemi della nazione» (Alain Lacombe, George Gershwin, une cronique de Broadway, Paris, Francis van de Velde 1980, pp. 97-8). 54 G. Gershwin, Jazz is the Voice of the American Soul cit.; cfr. cap. I, par. 3.1 del presente volume. 55

Ibid.

56 G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del pre­ sente volume.

57 G. Gershwin, Rhapsody in Catfish Row: Mr Gershwin Tells the Origin and Scheme for His Music in That New Folk Opera Called “Porgy an Bess", «The New York Times», LXXXV, 20 ottobre 1935, X, 1-2; cfr. cap. I, par. 7 del presente volume. 58

C. Hamm, Verso una nuova lettura di Gershwin cit., p. 31.

59

Ibid., p. 32.

60

Ibid.

61 Wilfrid Mellers, Music in a New Found Land, London, Barrie and Rockliff 1964 (Musica nel Nuovo Mondo, trad. it. L. Bonino Savarino, Torino, Einaudi 1975). 62

W. Mellers, Musica del Nuovo Mondo cit., pp. 398, 402, 410.

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Gershwin

63 G. Gershwin, Introduction, in G. Gershwin, George *Gershwin s Song-Book cit.; cfr. cap. I, par. 5.4 del presente volume. 64 G. Gershwin, Rhapsody in Catfish Row cit.; cfr. cap. I, par. 7 del presente volume. 65 C. Hamm, Verso una nuova lettura di Gershwin cit., pp. 32-3. 66 G. Gershwin, Introduction, in G. Gershwin, George Gershwin's Song-Book cit.; cfr. cap. I, par. 5.4 del presente volume. 67 In un saggio del maggio 1937, scritto subito dopo il suo arrivo negli Stati Uniti (Oper in Amerika), Kurt Weill, dopo aver illustrato l’elaborazione da parte dell’avan­ guardia tedesca di un linguaggio musicale teatrale chiaro, diretto e semplice, e di una concezione d’impiego della musica al di fuori dei luoghi deputati (alla radio, nelle scuole, nei raduni di massa, ecc.), già prendeva atto del parallelismo della situazione americana: «Questa intera evoluzione è stata improvvisamente troncata dagli avvenimenti politici nell’Europa centrale, e con la situazione attuale nel vecchio continente è difficile spe­ rare che possa essere ripristinata in un tempo accettabile. Al tempo stesso non ritengo che questo movimento nel teatro musicale europeo possa essere semplicemente prose­ guito qui in America. Le premesse per una realizzazione artistica sono qui del tutto diverse da quelle in Europa. Tuttavia credo che proprio qui sia iniziata un’evoluzione che corre parallela a quella europea e che, sebbene o in quanto essa si svolga su un terreno del tutto nuovo corrispondente ai rapporti su cui è costruito questo paese, può raggiungere gli obiettivi da noi rincorsi con risultati più grandi di quelli che ci erano concessi in Europa» (Kurt Weill, Ausgewdhlte Schriften, a cura di D. Drew, Frankfurt a.M., Suhr­ kamp 1975, p. 83). 68 G. Gershwin, Rhapsody in Catfish Row cit.; cfr. cap. I, par. 7 del presente volume. 69

Ibid.

70

Ibid.

71

M. Armitage (a cura di), George Gershwin cit., p. 54.

72 Vernon Duke, Gershwin, Schillinger and Dukelsky: Some Reminiscences, «The Musical Quarterly», XXXIII, 1, gennaio 1947, p. 105. 73 Citato in R. Kimball-A. Simon, The Gershwins cit., p. 169. 74 «Lo studio dei grandi compositori romantici ci ha formati secondo il metodo del legato, mentre la nostra musica leggera esige effetti di staccato e uno stile esecutivo in cui le note suonino quasi riprodotte a macchina. I ritmi della musica leggera ameri­ cana sono tutti piuttosto taglienti: bisognerebbe farli schioccare, talvolta scoppiettare. Più certa musica è eseguita in modo pungente, tanto più convincente risulta» (G. Ger­ shwin, Introduction, in G. Gershwin, George Gershwin's Song-Book cit.; cfr. cap. I, par. 5.4 del presente volume). 75 G. Gershwin, Our New National Anthem cit.; cfr. cap. I, par. 1.3 del presente volume.

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Ill Gianfranco Vinay

Le ambizioni colte di un musicista popolare

Diversi musicisti non considerano George Gershwin un compositore “serio”. Non vogliono capire che, "serio” o no, è un compositore - vale a dire, un uomo che vive dentro la musica ed esprime tutto, "serio” o meno, profondo o superficiale che sia, per mezzo di essa, perché è la sua lingua materna. Ci sono diversi compositori che si ritengono "seri” (ma io non credo lo siano), perché hanno imparato a mettere assieme un mucchietto di note. Di "serio” hanno soltanto la più totale mancanza di spirito. Mi pare che questa sia Punica vera differenza che distingue un composi­ tore da chi non lo è. Un artista è come un melo: quando è giunta stagione comincia a sbocciare e poi a produrre mele. E come un melo non si pone il problema del valore che verrà attribuito ai suoi frutti dagli esperti di mer­ cato, così il vero compositore non si pone il problema se i suoi prodotti piac­ ciano o meno agli esperti delle arti "serie”. Sente che deve esprimere qual­ cosa e Pesprime: ecco tutto. Mi sembra che Gershwin sia stato indubbiamente un innovatore. Ciò che ha creato con il ritmo, con Parmonia e la melodia non è esclusivamente un fatto stilistico. E profondamente diverso dal manierismo di molti com­ positori: un manierismo che si basa su presupposti capziosi, frutto di specu­ lazioni e conclusioni tratte da compositori che assecondano le mode e le ten­ denze del momento. Uno stile siffatto è un insieme di espedienti messi al servizio di un’ideuzza insignificante, priva di una motivazione, di una sua ragione intrinseca e profonda. Una musica di questo tipo potrebbe esser smembrata e ricomposta in modo diverso: ne risulterebbe un insieme ugual­ mente privo di consistenza espresso con un altro genere di manierismo. Con la musica di Gershwin non ci si può comportare in questo modo. Le sue melodie non sono il risultato di una combinazione, di un’unione meccanica: sono unitarie e non possono quindi esser smembrate. Melodia, armonia e ritmo non sono saldati insieme, ma colati in un unico stampo. Suppongo che li improvvisasse al pianoforte. Forse solo in un secondo tempo dava loro il tocco finale; forse vi dedicava molto tempo, vi ritornava sopra più volte. Non lo so. L’impressione che se ne ricava è quella di un’improvvisazione, con tutti i pregi e i difetti di un processo creativo di questo tipo. L’effetto

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Gershwin

che producono è più simile a quello di un’orazione: se la si legge e la si ana­ lizza nei suoi dettagli può anche deludere - si perde ciò che ci ha tanto col­ piti quando eravamo soggiogati dal fascino personale dell’oratore. Probabil­ mente bisogna aggiungervi qualcosa di personale perché possa di nuovo produrre una tale impressione. Ma nell’arte è sempre così - da un’opera si riceve tanto quanto si è disposti a darle. Non sto parlando in veste di musicologo, né tanto meno in quella di cri­ tico, e non mi sento obbligato a profetizzare quale posto sarà assegnato a Gershwin dalla storia: se lo si considererà più simile a Johann Strauss o a Debussy, a Offenbach o a Brahms, a Lehar o a Puccini. So però che è un artista e un compositore; ha inventato idee musicali nuove, come è nuovo il suo modo di esprimerle.

Queste parole furono scritte da Arnold Schonberg per la miscellanea di saggi curata da Merle Armitage un anno dopo la morte di Gershwin1. Si metta pure in conto la commozione del momento, l’amicizia per il compagno di tennis che spesso lo invitava a giocare sul campo della villa al n. 1019 di North Roxbury Drive di Beverly Hill, dove i Gershwin si erano momentaneamente trasferiti per lavorare ad alcune produzioni cinematografiche. Fu però sempre Schonberg a scriverle. Due anni innanzi la pubblicazione di questo breve articolo commemorativo aveva steso la prima versione in inglese del famoso saggio Musica nuova, musica fuori moda, stile e idea, in cui fissava i principi basilari della sua concezione dell’arte compositiva. Gershwin rientrava nei canoni di questa conce­ zione, ed era perciò un autentico compositore. Certamente un composi­ tore “sui generis”, la cui arte musicale era legata a un processo creativo basato per lo più sull’improvvisazione, il cui modo di sentire, coinci­ dendo con quello dell’“uomo della strada”, era secondo lui molto simile a quello di altri compositori genuinamente “popolari” come Offenbach e Johann Strauss2: tuttavia compositore, e compositore “serio”, poiché la sua arte era espressione sincera e autentica di un’“idea”. Leonard Bernstein, che sicuramente fra i compositori americani fu quello più legato artisticamente e affettivamente alla memoria di Ger­ shwin, nella sua “intervista immaginaria” emblematicamente intitolata Perché non vai su e scrivi una bella melodia alla Gershwin?, insiste invece molto sul tasto dell’opposizione culturale tra popular e cultivated, innan­ zitutto per distinguere le loro diverse carriere musicali. In effetti Gershwin e io provenivamo da parti opposte, e se accade che c’incontriamo è soltanto per l’amore che nutro per la sua musica. Tutto qui. Gershwin era un compositore di canzoni che diventò un compositore di musica seria. Io sono un compositore di musica seria che cerca di scrivere canzoni. Lui seguì la via più normale. Il mio itinerario è più confuso: io ho composto una sinfonia prima di scrivere una sola canzone di successo.3

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Le ambizioni colte di un musicista popolare

Questo scritto di Bernstein, proprio perché non fu ispirato da ran­ cori più o meno inconfessati, da chiusure mentali e da ideologie reazio­ narie, ma semmai dall’affetto e dall’ammirazione di chi, incitato dal­ l’immaginario manager che interloquisce con lui, si stava sforzando di “essere semplice”, di “scrivere per la gente, non per i critici”, e due anni dopo avrebbe emulato il maestro con West Side Story, è un’impor­ tante testimonianza delle profondissime radici che tale contrasto cultu­ rale ha nell’interpretazione critica della figura e della musica gershwiniana in ambito statunitense. Il Gershwin amato e preso a modello da Bernstein è il Gershwin melodista. L’altro Gershwin, quello cultivated, o che si dà arie di esserlo, è criticato e ripudiato perché “non compositore”. [a proposito di Rhapsody in Blue] [...] non basta mettere insieme quattro motivi, anche se di divina ispirazione, e chiamare il pezzo una composizione. E vero che comporre significa mettere insieme; ma messi insieme, i vari ele­ menti debbono formare un tutto che si integra armonicamente. Compono, componere [...] appena scatta quel piccolo congegno che si chiama sviluppo, ecco che l’America vola via dalla finestra e Cajkovskij entra dalla porta con tutti i suoi seguaci. Il guaio è che la vita di una composizione dipende dal suo sviluppo [...]/ [a proposito di An American in Paris} [...] Ma anche An American in Paris è uno studio su motivi: motivi belli che rimangono separati e disgiunti. Nel frattempo però aveva scoperto alcuni trucchi compositivi: il modo di legare i temi fra loro, di combinarli insieme sviluppandoli e di ottenere una strut­ tura orchestrale. Ma questi sono trucchi presi in prestito da Strauss, Ravel e chi sa da chi altro. Tutto considerato, rimane un pezzo debole, perché nessuno di questi trucchi era farina del suo sacco. Non sono dettati dalla natura stessa della musica, ma sono presi in prestito e applicati a essa: come appliques su un vestito. All’ascolto, il primo tema è un godimento; poi, durante il periodo di connessione, cioè durante “la imbottitura”, rimani in attesa del secondo. E questo succede per due terzi della composizione. L’al­ tro terzo è bellissimo, perché formato dai temi stessi. Ma dov’è la compo­ sizione?5

Per Bernstein l’unico ambito “evoluto” della musica di Gershwin che si salvi, anzi, dove egli raggiunge mete altissime, è quello del teatro musicale. Improvvisamente, con Porgy, t’accorgi che Gershwin era un grande, ma proprio un grande compositore di teatro. Lo era sempre stato. Ed è forse per questo che la sua musica da concerto è poco convincente: si trattava in effetti di musica per teatro portata in sala da concerto. Immagina cosa avrebbe prodotto per il teatro entro un’altra decina o ventina d’anni. E sarebbe stato ancora giovane! Che perdita! Chissà se l’America si accorgerà mai della perdita sofferta?6

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Gershwin

È molto interessante comparare quanto dicono Schonberg e Bernstein di Gershwin; tanto più se si pensa che tutti i grandi musicisti che inco­ raggiarono Gershwin a proseguire sulla sua originalissima strada furono europei (Ravel, Berg, Stravinsky). Si metta pure in conto che Gershwin fosse osservato da costoro attraverso il filtro colorato dell’esotismo; si aggiunga una certa indulgenza, da parte sua, a lasciar circolare versioni “fiorite” di questi incontri; che altri compositori come Prokof’ev si pro­ nunciarono negativamente nei confronti di lavori che avevano avuto modo di ascoltare (nel caso specifico, il Concerto in F); e ancora, che non pos­ siamo sapere su quali lavori Schonberg basasse il suo giudizio, mentre Bernstein conosceva sicuramente e a fondo tutto quanto il suo opposto alter ego aveva scritto innanzi la sua morte prematura. È pur sempre singolare il fatto che dei due chi non nega - anzi asse­ gna in modo esplicito - al musicista il rango di compositore, sia pure sui generis, è proprio quello sideralmente distante dalla sua sensibilità artistica: il compositore più intellettuale, severo, ipercritico e intransi­ gente del nostro secolo. Ma non americano. Penso che ciò sia (o, meglio, fosse, considerando quell’epoca ormai conclusa) dovuto a riflessi atavici, a un complesso di inferiorità nei con­ fronti della cultura europea che si cercava di superare mettendo al bando tutto ciò che non era sufficientemente evoluto, elaborato, sviluppato, frutto di una professionalità acquisita attraverso studi rigorosi e acca­ demici. Più di recente la cultura americana ha iniziato a considerare Ger­ shwin da un’angolatura più specificamente musicologica, da un lato sot­ toponendo al vaglio rigoroso della filologia testuale la ricchissima messe di fonti e documenti custoditi alla “Gershwin collection” della Library of Congress7, dall’altro avviando un processo di revisione in campo biografico8 e indagando la sua musica mediante metodologie analitiche diverse. Si è così passati, con il passare del tempo e con la conseguente sedimentazione storica, dalla fase della mitologia e del criticismo più o meno risentito alla fase dello storicismo e dell’indagine sistematica. Questa presa di distanza emotiva, questa brusca transizione da un’interpreta­ zione per lo più naif e popular del personaggio Gershwin e della sua musica, a una “seria”, cultivated e fin accademica quanto a metodologie impiegate, rischia, con il suo zelo ed entusiasmo peraltro comprensibili, di elevare tout court, senza mediazioni, distinzioni e riflessioni, musica e personaggio a queste medesime sfere. È quanto mi è parso di osser­ vare recentemente, in special modo nel campo analitico9. Osservando il fenomeno dalla posizione eccentrica (e quindi, in que­ sto caso, privilegiata) dell’europeo, si ha l’impressione che la tendenza generale della musicologia statunitense che si applica alla musica di Ger­ shwin con intenti analitico-interpretativi operi un processo di rivaluta­ zione della sua musica, per troppi anni mortificata e negletta, analiz­ zandola secondo criteri applicabili alla musica colta per conferirle un

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Le ambizioni colte di un musicista popolare

attestato di garanzia del suo valore in quella sfera: dimenticandosi però che tra la medesima sfera e quella popular c’è quanto meno una certa dialettica. E come se nel grande magazzino dell’interpretazione critica fosse eliminato il settore della popular music. Certamente si ha il gran vantaggio dì evitare la dislocazione, ma a prezzo di una drastica sottra­ zione. E comunque, ancora una volta, questione di riduzione e smem­ bramento, anche se di segno opposto. Tenendo conto delle insidie nascoste nel rapporto tra cultivated e popu­ lar comunque lo si voglia impostare, bilanciandolo o squilibrandolo, si è allora presi dalla forte tentazione di compiere un colpo di mano e di abolirlo semplicemente, di provare a cancellarlo dall’orizzonte critico e interpretativo. La personalità creativa di George Gershwin e la sua pro­ duzione sono talmente coinvolte in quel processo di trasformazione radi­ cale del mercato musicale in atto nei primi decenni del secolo negli Stati Uniti con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (dischi, radiofonia e cinematografo), tanto più nell’ambito dello spettacolo popo­ lare (canzoni, musical, ballabili, jazz di varie tinte), da rendere quanto meno lecita una lettura del fenomeno Gershwin in chiave sociologica: mutando contesto, mezzi e tecniche di produzione, mutano anche para­ metri e modelli interpretativi, e quelli ancor validi - seppure ormai fru­ sti - per una certa società (quella europea) non valgono più per un’al­ tra (quella statunitense). E quanto fa Charles Hamm in un suo recente saggio10. Con una rimozione così drastica si eluderebbe però un pro­ blema che è stato particolarmente enfatizzato dagli autori delle più accre­ ditate biografie gershwiniane di questi ultimi decenni (v. nota 8), e che merita quindi di essere considerato e valutato nei suoi risvolti biografici e creativi: l’incidenza delle ambizioni colte, dell’aspirazione a raggiun­ gere uno “status” di compositore “serio” sulla carriera artistica di Gershwin. Un’aspirazione che si portava dentro già fin dai primi anni di appren­ distato sotto la guida di Hambitzer e poi di Kilenyi. Ma a quell’epoca (siamo negli anni immediatamente precedenti e immediatamente suc­ cessivi il suo impiego a Tin Pan Alley) Gershwin era talmente preso dalla ricerca di un’occupazione stabile prima, e teso poi al conseguimento del successo nel campo della canzone e del musical, da accontentarsi per il momento di soddisfare le sue ambizioni colte con gradevoli ninnoli da salotto come il movimento per quartetto d’archi intitolato Lullaby, rici­ clato poi in Blue Monday Blues qualche anno dopo (nel 1922). Questa operina-vaudeville su libretto di uno dei parolieri più attivi di quel periodo, B.G. De Sylva, scritta di getto in meno di una settimana di ininterrotto lavoro, fu l’esordio pubblico di Gershwin in veste di musi­ cista “più colto”, se non di vero e proprio compositore “colto”, e gli costò, sul piano della salute, l’insorgenza di quell’indisposizione psico­

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Gershwin

fisica da lui stesso definita “composer’s stomach”, che lo tormentò per tutta la sua carriera e la sua vita futura.11 Fu comunque lo strepitoso successo di Rhapsody in Blue a rendere Gershwin e il mondo intero consapevoli delle sue potenzialità creative e ad avviarlo quindi definitivamente su quel(l’apparentemente) doppio binario che distinguerà la sua carriera da quella dei suoi illustri e famosi colleghi; e a scatenare un apparente dissidio fra aspirazioni “colte” e origini popular. Un dissidio tanto più acuto in quanto fomentato non solo dalle inevitabili critiche negative che lo attaccavano con argomen­ tazioni non troppo dissimili da quelle espresse da Bernstein, ma anche da uno stillicidio di insinuazioni basse e malevoli circa la sua incapacità di confezionare da solo la veste orchestrale delle sue composizioni “colte”, dal Concerto in F in avanti. Proprio nel caso di questo primo lavoro, inte­ ramente da lui orchestrato e poi sottoposto al vaglio di colleghi più esperti12, Gershwin scese in campo direttamente con un articolo in cui, oltre a ribattere punto per punto le osservazioni e le critiche di A.Wal­ ter Kramer a un suo precedente scritto sul jazz pubblicato sulla mede­ sima rivista, «Singing», esibiva a prova inconfutabile della paternità arti­ stica dell’orchestrazione del Concerto in F una pagina autografa della partitura. In un altro caso - di An American in Paris - in cui veniva insinuato dal violinista-violista e compositore Allan Langley il sospetto che Gershwin si fosse servito della professionalità musicale di Bill Daly nella stesura della partitura, fu lo stesso Daly a scendere in campo rin­ tuzzando le insinuazioni del collega, invidioso della fortuna di Gershwin e della sua musica13. Dal momento in cui Gershwin divenne una vedette internazionale, la sua biografia è costellata di episodi in cui sostanzialmente si ripete la stessa scena, soltanto ogni volta con un deuteragonista diverso. Ger­ shwin incontra un compositore o un didatta illustre (Ravel, Stravinsky, Toch, Schonberg, Nadia Boulanger e altri ancora) e gli domanda di. diventare suo allievo privato, ricevendo una risposta negativa più o meno venata di humour a seconda del carattere del personaggio. Nel caso di Stravinsky, egli negò in vecchiaia di aver replicato con la famosa domanda circa i compensi derivati dalla sua musica e, ricevutane in risposta una cifra altissima, di aver allora domandato lui di diventare allievo di Gershwin14. Si metta pure in conto che questi episodi possono esser stati “fioriti” dallo stesso Gershwin, o magari da altri senza venir da lui smentiti; lasciano comunque trasparire un complesso di inferiorità e di insicurezza malcelato da naiveté, humour, wìt. Sotto sotto, però, poteva esserci anche qualcosa di più calcolato, meno candido e più con­ sapevole: il fatto stesso di avanzare quelle richieste a quei personaggi elevava già in qualche modo Gershwin a un rango “serio”.

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Fra tutti i grandi compositori dell’epoca, Ravel fu colui che sicura­ mente rimase più colpito dal genio di Gershwin. Prova ne sia non tanto e non solo il solito diniego alla solita richiesta di diventare suo allievo (diniego motivato dal fatto che studiare con lui avrebbe potuto trasfor­ marlo in un “mauvais Ravel”), quanto l’omaggio musicale che gli tri­ butò nel primo movimento del Concerto in Sol. Vista l’importanza e l’ec­ cezionaiità dell’occasione, di questa restituzione di favori e di onori a Gershwin da parte di un compositore “serio”, vale la pena di doman­ darsi se fra i tanti ammiccamenti armonici e ritmici ad atmosfere blues e jazz in versione Broadway, vi sia qualche momento autenticamente gershwiniano: se, insomma, Gershwin sia soltanto evocato o anche citato direttamente. Alcuni dei momenti più esplicitamente gershwiniani si pos­ sono cogliere in certi disegni pianistici della sezione di innesto della cadenza nella ripresa orchestrale. Si confronti, ad esempio, l’episodio dell’attacco 33 con l’ostinato ritmico della sinistra in Rhapsody in Blue (es. Ib): Es. la. Maurice Ravel, Concerto in Sol per pianoforte e orchestra, I movimento, nn. 33-34 (Paris, Durand 1932).

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Es. lb. George Gershwin, Rhapsody in Blue, riduzione per pianoforte solo, batt. 90-95 (New York, Harms Inc. 1924).

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Quanto a tematismo melodico-intervallare, vi è invece una rassomi­ glianza piuttosto vistosa tra il primo tema blues che compare nel con­ certo all’attacco 5, e il tema del blues di Xm American in Paris di cui quello raveliano sembra una specie di sintesi abbreviata e semplificata: Es. 2a. Maurice Ravel, Concerto in Sol per pianoforte e orchestra, I movimento, n. 5 (Paris, Durand 1932).

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Es. 2b. George Gershwin, An American in Paris, riduzione per pianoforte solo di William Daly, batt. 380-383 (New York, New World Music Cor­ poration 1929).

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È sempre molto difficile, in casi del genere, stabilire se vi sia o meno intenzionalità. E comunque suggestivo questo omaggio del parigino all’a­ mericano che sembra alludere a An American in Paris. Il complesso dell’eterno studente non si manifestò soltanto in occa­ sione dei suoi incontri con celebri compositori; in questa continua ricerca di maestri eccellenti che, almeno nel caso di Schillinger, si concluse feli­ cemente con un sodalizio didattico durato più di quattro anni (dalla pri­ mavera del 1932 all’estate del 1936), ciò che più conta è che ebbe riper­ cussioni dirette sul suo itinerario creativo le soprattutto sulle sue opere per orchestra. An American in Paris non è soltanto un poema sinfonico in cui certi oggetti del panorama sonoro urbano fanno da sfondo a una passeggiata scandita da rapide sequenze di tipo cinematografico; nella sua parte iniziale è un’esplicita ostentazione di maestria orchestrale esi­ bita con diversi flash di mimesi stilistica: riconoscibili fin dal primo ascolto lo Stravinsky del Sacre (6 batt. prima di 9; n. 29) e il Ravel di Ma mère l’oie (n. 23-24). Di ritorno dal suo viaggio in Europa Gershwin dimo­ strava di aver assorbito in pochissimo tempo le qualità salienti dello “stile francese”, che per un americano di quell’epoca in cui Parigi era dive­ nuta meta obbligata dei giovani compositori statunitensi più curiosi e intraprendenti (Copland, Thomson, Blitzstein, Carter, Harris, Piston) significava essere all’avanguardia, all’ultima moda. Tenendo conto delle capacità di mimesi stilistica esibite in An American in Paris, si può ancor più apprezzare la lungimiranza e la saggezza di tutti i grandi composi­ tori che rifiutarono di dargli lezione perché non diventasse una loro mauvaise copie. Cuban Overture (originariamente intitolata Rumba), composta all’i­ nizio dei suoi anni di studi con Schillinger, non è soltanto «una ouver­ ture sinfonica che incorpora l’essenza della danza cubana», come si legge

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nelle Program notes stilate dallo stesso Gershwin. Entrando nei dettagli tecnici, più avanti, egli avverte della presenza, nella prima parte, di un «episodio contrappuntistico a tre parti che conduce a un secondo tema», dell’elaborazione di un «canone politonale nella parte centrale» e dello «sviluppo del materiale precedente a guisa di stretto» nel Finale. Una così palese ostentazione di valentia contrappuntistica in un lavoro all’inse­ gna dell’esotismo più smaccato si può forse porre in connessione con un fatto occorso tempo prima della composizione dell’ouverture orche­ strale15. Gershwin, per il tramite del compositore e pianista Vladimir Drozdov che fungeva da interprete, avrebbe espresso il suo solito desi­ derio di studiare orchestrazione con Aleksandr Glazunov che, allora negli Stati Uniti, aveva ascoltato un’esecuzione di Rhapsody in Blue. L’emi­ nente sinfonista, famoso anche per il suo antimodernismo, che aveva già espresso al suo compatriota un giudizio ben poco lusinghiero sul lavoro («E in parte umano, in parte bestiale», pare avesse detto) rispose in modo brusco: «Vuole studiare orchestrazione, ma non ha la benché minima nozione di contrappunto»; quindi, rivolgendosi a Gershwin direttamente, gli disse che mancava totalmente di basi teoriche. Gershwin incassò, molto probabilmente fu colto da una crisi acuta di “composer’s stomach”, poi, due giorni dopo telefonò a Glazunov per ringraziarlo di aver parlato molto schiettamente e per farsi consigliare un insegnante che potesse colmare le sue lacune. A sua volta Glazunov avvertì della telefonata Drozdov, il quale consigliò di rivolgersi a Schillinger. Altre fonti - tra cui lo stesso Schillinger - affermano invece che sia stato un altro émigré russo (il violinista e compositore Joseph Achron) a inviarlo da Schillinger, ma ciò che conta, nel nostro contesto, è il fatto sostanziale che quella cri­ tica ebbe il potere di scatenare violentemente il complesso d’inferiorità di Gershwin spingendolo, a più breve termine, a infarcire Cuban Over­ ture di canoni e stretti e, a più lungo termine, ad approfondire per quat­ tro anni la pratica compositiva con uno degli insegnanti più teorici che gli potesse accadere di incontrare. Le “I Got Rhythm” Variations, che iniziano con quell’anticipazione del tema elaborato secondo i principi della “proiezione geometrica” illustrati da Schillinger nel terzo libro del suo System of Musical Composition (e squadernano poi variazioni polito­ nali, pentatonali, cromatiche e altre ancora concepite secondo principi geometrici), composte nel 1934, a metà del quadriennio di studi con Schil­ linger, sono un po’ come una prova d’esame di passaggio dal corso infe­ riore a quello superiore di composizione. Anche Porgy and Bess, splendido saggio finale di quegli anni di intensi studi, non è immune da atteggiamenti esibizionistici, da una certa osten­ tazione di un magistero compositivo ormai raggiunto, ma poiché è un’o­ pera totalmente risolta sul piano spettacolare, ogni cosa, anche queste vanità, contribuisce al complessivo risultato teatrale e drammaturgico: si pensi soltanto alla fuga che accompagna il duello tra Porgy e Crown,

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cui Gershwin teneva moltissimo, e che mise nel bel centro della suite orchestrale tratta dall’opera a costo di alterare la successione delle scene, peraltro rispettata negli altri numeri della suite16. Rhapsody in Blue aveva reso Gershwin consapevole non solo delle sue chance di compositore nel senso più specifico del termine - della pro­ pria capacità di elaborare brani di successo più articolati e complessi delle canzoni - ma anche delle implicazioni e delle conseguenze culturali di tale attività creativa, più faticosa ma anche più gratificante e meno tran­ seunte ed effimera. In un saggio esplicativo su Porgy and Bess, parecchi anni dopo quel suo esordio compositivo, affermava: Scelsi la forma che ho dato a Porgy and Bess perché credo che la musica sopravviva soltanto quando sia concepita in una forma impegnata. Allorché scrissi Rhapsody in Blue presi dei “blues” e li collocai in una forma più estesa e impegnata. Ciò accadeva dodici anni fa e Rhapsody in Blue è sopravvissuta benissimo, mentre se avessi preso gli stessi temi e li avessi utilizzati per la composizione di canzoni, essi sarebbero già stati dimenticati da un pezzo.17

Il songster che sfornava hit con grande disinvoltura, naturalezza e con­ tinuità, era tormentato dalla caducità dei suoi successi, dal logorio del consumo e del consumismo, da un senso tragico del trascorrere del tempo e dalla vanità dell’effimero. Nonostante si trovasse in totale sintonia con l’euforico dinamismo degli “anni ruggenti”, come tutti i veri creatori Gershwin avvertiva il desiderio di prolungare la vita delle sue opere, di immaginarle in un tempo futuro, e proiettava su di esse le sue ansie di sopravvivenza. Questo desiderio di longevità artistica non riguardava soltanto Ger­ shwin in quanto singolo e isolato creatore, ma si estendeva anche alla realtà sonora dell’epoca da cui egli traeva alimento e ispirazione; e, primo fra tutti gli aspetti di questa realtà, dal jazz, o a ciò che Gershwin inten­ deva con questo termine: qualcosa, tutto sommato, di non troppo dissi­ mile da ciò che a quell’epoca era considerato jazz dai compositori “colti” che traevano spunto da certe sue caratteristiche - specialmente ritmi­ che e armoniche - per integrarlo nelle loro creazioni (Ravel nel secondo movimento della Sonata per violino e pianoforte del 1923-26, oltreché nel già menzionato Concerto in Sol; Milhaud nella musica per il balletto La création du monde, del 1923; Copland in Music for the Theatre, del 1925 e nel Concerto per pianoforte e orchestra del 1926; Carpenter nei balletti Krazy Cat del 1921 e Skyscrapers del 1926; Gruenberg in The Creation, del 1924 e in Daniel Jazz del 1925, e molti altri ancora). Ger­ shwin, che non perdeva occasione di affermare il suo intento di nobili­ tare il jazz elevandolo dalle sue origini basse, volgari e di colore a livelli artisticamente più evoluti e dignitosi, sembrerebbe per un verso inse­ rirsi nell’alveo di quella tendenza all’ibridazione jazzistica che aveva già

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fatto diversi proseliti sia in Europa sia in America. Con la profonda dif­ ferenza che, mentre i compositori in questione erano “colti”, e quindi inglobavano il jazz all’interno di linguaggi e stili preformati, Gershwin, che proveniva dall’area popular e quindi era più prossimo alle “bassezze” del jazz, ne diveniva a un tempo il portavoce e l’educatore: la crescita e l’elevazione dell’uno determinava la crescita e l’elevazione dell’altro in una sorta di stretta simbiosi artistica. Con un piede a Broadway e l’altro alla Carnegie Hall, Gershwin si presentava a un tempo come il compositore modernista che trae ispirazione esotica dal folclore urbano, e però anche come il menestrello, il portavoce, l’interprete di quella stessa realtà da cui traeva ispirazione: come la sintesi di quei due mondi e, come tale, un fenomeno unico nel suo genere. Se questa consapevolezza poetica fosse schietta e genuina o piutto­ sto frutto di un calcolo autopromozionale è difficile dire nel caso di un personaggio come Gershwin. La sua poetica, quale si può evincere dai suoi articoli, non appare tanto come la presa di coscienza di una perso­ nale e organica tendenza estetica, quanto come la giustificazione in iti­ nere della propria operatività compositiva all’interno della cornice della società e della vita musicale del suo tempo. Attorno all’idea guida di voler nobilitare il jazz e il folclore urbano d’America, ruotano tante pic­ cole idee satelliti che rivelano la sua intenzione di atteggiarsi a composi­ tore in costante ricerca dell'originalità («L’imitazione non porta mai nes­ suno da nessuna parte; l’originalità è l’unica cosa che conta»18), della perfezione tecnica acquisita attraverso lo studio continuo («Io ho studiato pianoforte per quattro anni e quindi armonia. E continuerò a studiare per tanto tempo ancora»19), modernista in quanto interprete dell’epoca contemporanea («Il mio popolo è quello americano, il mio tempo è l’oggi. Del domani, e del mio domani, io - quale interprete, attraverso la musica, della vita americana - sono sicuro di una cosa sola: che la musica futura manterrà nella sua essenza la melodia e l’armonia d’oggi abbastanza da poterne riconoscere l’origine»20) ma senza velleità speri­ mentali («Neanch’io sono a favore di quelle composizioni della scuola Dada che impiegano la strumentazione di ventole elettriche o mettono insieme cinquanta pianoforti elettrici sincronizzati in uno scatenarsi di chiassosa cacofonia»21), democratico («La musica può essere apprezzata da una persona che non sa né leggere né scrivere, così come da gente dotata della più evoluta forma di intelligenza»22), fautore della concilia­ zione estetica tra progresso ed emozionalità («Meccanismo e sentimento dovranno procedere di pari passo, così come un grattacielo è al tempo stesso trionfo della macchina e straordinaria esperienza emotiva»2’), tra razionalità ed emozionalità nella creazione artistica («Mi piace pensare alla musica come a una scienza delle emozioni»24), della funzione prio­ ritariamente comunicativa della musica («Chi scrive musica per se stesso

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e non vuole farla sentire, di solito come compositore vale poco»25), e quindi della diffusione più ampia possibile favorita dai mass-media («La musica è scritta per essere udita e ogni strumento concepito affinché contribuisca a farla udire più frequentemente da più ascoltatori reca van­ taggio a chi la scrive»26). È un ritratto fedele del compositore progres­ sista (ma fino a un certo punto) come se lo poteva immaginare l’Americano Medio, in equilibrio tra rinnovamento e tradizione, professionalità ed estro, tecnica ed emozione. Gershwin amava ritrarsi così. Per verificare quanto il suo autoritratto sia fedele a quello che noi possiamo scorgere effigiato in trasparenza, in filigrana, nella sua musica, dobbiamo calarci più a fondo nel processo creativo e compositivo vero e proprio. Un buon punto di partenza può essere proprio quel fatidico 1924 in cui Gershwin compose Rhapsody in Blue: anno di svolta nella sua carriera non solo per aver avviato ufficialmente la produzione di lavori strumentali, ma anche perché è l’anno di Lady Be Goody che rappre­ senta un esito egualmente importante nell’ambito della produzione più schiettamente popular. La collaborazione d’ora in poi stabile con il fra­ tello Ira in qualità di paroliere darà inizio a quella continua catena di hit che soltanto la tragedia dell’immatura scomparsa di George riuscirà a interrompere. Canzoni come fascinating Rhythm, Oh Lady Be Good, e The Man I Love (che venne però infine espulso dal musical) non solo dimostrano il salto di qualità compiuto in quell’anno da George, ma anche due altri fatti determinanti per comprendere il “fenomeno Gershwin”: l’importanza dell’apporto testuale nella valorizzazione dell’ispirazione musicale, e la perfetta sincronia nel raggiungimento della maturità tanto nell’ambito della canzone come in quello della creazione di brani musi­ cali di più vasto respiro e impegno compositivo. La coincidenza di que­ sti fatti ne dimostra un altro che si può assumere come tesi da verificare nel corso di questa indagine: la sua creatività non era scissa in due o più scompartimenti sia pure comunicanti, bensì frutto di un’integrità duttile che sapeva piegarsi alle diverse esigenze compositive imposte e autoimposte. La coscienza creativa di Gershwin non era una riedizione musicale e meno orrifica dello “strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde”, frutto dello sdoppiamento di impulsi che derivavano ora dal “basso”, ora dall’“alto”, ma semmai della riunificazione di questi stimoli attraverso l’esercizio di un’arte compositiva certamente inconsueta ed originale. Se si considera Rhapsody in Blue partendo da queste premesse si pos­ sono riscontrare, nella forma più estesa e complessa, molte analogie con le canzoni. In Rhapsody in Blue, come nelle canzoni, gli elementi più forti, di maggior spicco, sono quello armonico (l’atmosfera “blue”, appunto) e quello ritmico, dinamizzato, drammatizzato da un continuo gioco di opposizioni ritmiche tra temi con incipit in battere e temi con incipit in levare (es. 3).

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Es. 3

TEMI CON INCIPIT IN BATTERE

TEMI CON INCIPIT IN LEVARE

Lo stesso Gershwin, in una sua ricordanza pittoresca, e sia pure un po' fantasiosa e “fiorita”, rievoca l’ideazione della Rhapsody ponendo il ritmo in primo piano come elemento determinante nell’ispirazione musicale: Non avevo in mente nessuno schema, nessuna struttura alla quale la musica potesse adattarsi. La rapsodia, all’inizio, non fu un progetto, ma sol­ tanto un’intenzione. A questo stadio del lavoro dovetti recarmi a Boston

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per la prima di Sweet Little Devil. Avevo già cominciato a lavorare un po’ alla rapsodia. Fu sul treno con i suoi ritmi metallici, con il suo sferragliare cadenzato che così spesso stimola la fantasia dei compositori [...] spesso odo la musica uscire dal bel mezzo del rumore. Ed ecco che improvvisamente udii - e vidi anche fissata sulla carta - l’intera struttura architettonica della rapsodia, dall’inizio alla fine. Non inventai temi nuovi, ma lavorando sul materiale tematico che avevo già in mente cercai di immaginare la composi­ zione nella sua interezza.27

La propulsione ritmica prodotta dal contrasto fra i motivi in battere e quelli in levare, attivata all'inizio dai due temi principali e drammatiz­ zata successivamente dal confronto fra orchestra e pianoforte, è orga­ nizzata in modo che ognuno di questi due temi si ponga come principale elemento di stimolo e di richiamo mnemonico, secondo uno schema ter­ nario (ABA). La sezione più divergente sotto il profilo tematico ed espres­ sivo (l’Andantino moderato con espressione: U tema H) si colloca a 3/4 del brano come nello schema che ricorre maggiormente nella produzione di canzoni di Gershwin (AABA). La riesposizione invertita dei temi prin­ cipali, a conclusione, elude qualsiasi riferimento sonatistico, e risponde invece alla massima valorizzazione del tema principale, come uno hit song, nella logica di una esibizione spettacolare conclusiva quale talora ricorre nelle ouverture dei musical dell’epoca: una struttura, insomma, che rias­ sume diversi modelli formali di immediata comunicazione. Es. 4 A orch. B orch.

I A orch. A orch. D pf. A pf. - C A pf. - C Epf. A pf. - C D pf. A orch. A orch. A orch. ' A orch.

C pf. C pf. orch. orch.

pf.

C orch. C orch. C orch. - E

fui u F orch. B orch. - F2 orch. - B orch. B G orch. B pf. - F2 pf. B pf. - F2 pf.

(segue)

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A A A G

pf. - C pf. orch. orch. pf.

r H orch. H pf. I pf. + C H +1 + C pf. e orch.

B orch. A orch. Cpf.

Se si tiene ancora presente che fra certi temi della Rhapsody e le can­ zoni dell’epoca (ad es. fra il tema C e quello di The Man I Love) esistono evidenti somiglianze, si può comprendere la contiguità fra l’ideazione delle canzoni e della Rhapsody che, in molti sensi, ne è come l’esten­ sione, l’amplificazione nell’ambito strumentale. La costante ambiguità maggiore-minore ispirata dal blues e dalle sue assimilazioni jazzistiche, l’atmosfera blues della Rhapsody, che avvolge pure le canzoni in tutto o in parte, è l’altro elemento che dona alla musica di Gershwin la sua inconfondibile “tinta”. Una “tinta” che mutua certamente ambiguità modali e scivolamenti cromatici dalle peculiarità armoniche e melodi­ che del blues, ma anche dallo stemperamento di colori estratti da modelli “colti”. Un esempio molto evidente di questa mistura è il secondo dei Preludes for piano degli anni 1925-26 in cui, se l’oscillazione cromatica della sinistra e quella di terza minore della destra alludono al blues, l’an­ damento tanto dell’accompagnamento quanto del canto riecheggiano quello del preludio che occupa il medesimo posto nell’op. 28 di Chopin. Es. 5a. George Gershwin, Preludio». 2 per pianoforte (New York, New World Music Corporation 1927).

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Es. 5b. Fryderyk Chopin, Preludio n. 2 per pianoforte (dai 24 Preludi op. 28). Lento

Sappiamo che Chopin, assieme a Liszt e Debussy, era fra i classici prediletti dal primo maestro che ebbe un’importanza capitale nella for­ mazione musicale di Gershwin, Charles Hambitzer. Non è difficile imma­ ginare quanto tre simili campioni di arditezze armoniche possano aver suggestionato il giovanissimo Gershwin già incline per natura alla speri­ mentazione di armonie ‘‘strane”: Ho sempre avuto una specie di sensibilità istintiva per le combinazioni di suoni, e diversi accordi che suonano così moderni nelle mie composizioni orchestrali furono buttati giù senza che rivolgessi un’attenzione particolare alle giustificazioni teoriche della loro struttura.28

L’originalità dell’armonia gershwiniana deriva da questa sua ricerca empirica continuamente stimolata dai modelli più disparati, colti e popular, da questo suo atteggiamento ricettivo nei confronti dell’universo sonoro. Ne parla egli stesso in uno dei suoi tanti pronunciamenti poeticoautobiografici: La mia abilità non proviene dall’insegnamento ricevuto, ma da un’abitu­ dine che ho coscientemente praticato fino dalla mia prima adolescenza. Mi riferisco alla mia abitudine all’intenso ascolto. Ero stato ai concerti e avevo ascoltato non solo con le orecchie, ma con i nervi, con la mente, con il cuore. Avevo ascoltato la musica con tale fervore da esserne completamente pervaso. Poi tornavo a casa e ascoltavo con la memoria. Mi sedevo al pianoforte e ripetevo i motivi; stavo acquistando coscienza di quello di cui sarei stato in seguito l’interprete: l’anima del popolo americano. [...] Dovunque andassi udivo convergere una molteplicità di suoni. In gran parte essi non potevano essere uditi dai miei compagni, perché io li sentivo nella memoria: melodie dall’ultimo concerto, i cigolanti motivi di un orga­ netto, la cantilena di un cantante di strada sull’obbligato di un violino scas­ sato. Musica passata o presente, tutto ciò udivo dentro di me.

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Vecchia musica e nuova musica, melodie dimenticate e quelle di gran moda, brani d’opera, canzoni popolari russe, ballate spagnole, chansons, can­ zonette in ragtime si univano in un coro di grande potenza nel mio orecchio interiore. E in tutto ciò e al di sopra di tutto ciò udivo, con suono dapprima debole, forte alla fine, l’anima di questa nostra grande America.29

Pur facendo la tara di un certo compiacimento narcisistico) di una certa enfasi autocelebrativa e di una certa retorica onnipresenti nelle dichiarazioni di Gershwin, Patteggiamento di fondo penso lo si possa prendere per buono, contenga un nocciolo solido di verità. Nei confronti del mondo sonoro circostante, colto ed extracolto, presente e passato, Gershwin si poneva in una disposizione esotica nel senso più lato del termine: le suggestioni musicali più diverse e disparate venivano osser­ vate come oggetti estranei e spettacolari, quindi filtrate attraverso un processo di associazione mnemonica e ricomposte secondo le proprie esi­ genze creative: prima fra queste, la coerenza armonica. Dell’universo sonoro circostante Gershwin seleziona quei linguaggi, colti ed extracolti, che possono integrarsi fra loro: in tal senso l’esotismo vero è prediletto perché diviene crogiolo di fusione tra certe peculiarità armoniche dei classici a lui più congeniali e peculiarità, pertinenti e omologhe, del blues, del ragtime e affini. Questo processo associativo, così come realizza una sintesi tra diverse culture, interessa tanto la produzione strumentale e operistica, che ambisce a un grado di maggior elevatezza e a una fama più duratura delle canzoni, quanto queste ultime. Se si prende una can­ zone contemporanea ai Preludes for piano, That Certain Peeling (da TipToes, del 1926) si può constatare che ciò che rende memorabile e inte­ ressante il nucleo tematico principale, quella sillabazione del testo in sé del tutto elementare, è la sofisticata struttura armonica, la concatena­ zione di accordi di settima, nona (poi anche di undicesima e tredice­ sima) e gli scivolamenti cromatici. Es. 6. George Gershwin, That Certain Peeling, refrain (New York, Harms Inc. 1925).

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Ciò che normalmente viene usato come argomento forte per conte­ stare a Gershwin una dignità di compositore “serio” e per confinare quindi i suoi lavori strumentali - e quelli orchestrali in particolare - nel limbo delle occasioni mancate, è l’assenza di sviluppo. Bernstein è molto chiaro ed esplicito su questo punto: fin quando Gershwin si limita a scri­ vere belle melodie, e si attiene quindi alla sua genialità naturale, è un musicista perfetto; quando invece si picca di fare il compositore, la sua musica diventa debole perché continua a esercitare una seduzione tema­ tica, compromessa però dalla ripetitività e dalla accessorietà delle sezioni di collegamento. E - continua Bernstein - non è che le cose vadano meglio quando Gershwin si culturalizza, come accade in An American in Paris, perché i “trucchi” presi a prestito da questo o da quell’altro maestro sono tal­ mente scoperti da risultare giustapposti alla'sua ispirazione: come «appli­ ques su un vestito», affermava. È indubbiamente vero che c’è, come si è visto, una certa ostentazione di magistero acquisito in Gershwin “compositore”; è però anche vero che fa parte di quell’atteggiamento esotico e di restituzione spettacolare del medesimo che era a lui conge­ niale. Esotismo, sempre nel senso di diverso da sé che deve essere oggettivato, proiettato su uno schermo virtuale: sé medesimo in veste di com­ positore “serio”. C’è tuttavia una sua parte profonda che cresce nell’alveo naturale della propria genialità e congenialità. E quella che deriva dall’esercizio quoti­ diano della variazione pianistica. Gershwin non mancava occasione, pub­ blica o privata, di fronte a grandi platee come in cerehie ristrette di amici e conoscenti, di prodursi in variazioni estemporanee delle proprie melo­ die. Tutti coloro che ebbero modo di ascoltarlo, anche quelli non parti­ colarmente entusiasti delle sue composizioni orchestrali, rimasero molto colpiti dalle doti pianistiche e dalla fantasia inesauribile nell’escogitare formule di variazioni a getto continuo. Oggi possiamo farcene un’idea ascoltando il discreto numero di registrazioni pervenuteci o leggendo le elaborazioni pianistiche delle 18 canzoni, pubblicate nel 1932: biso­ gna però tener presente i limiti tecnici delle registrazioni, le possibili

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alterazioni dei rulli di pianola, e il fatto che la pagina scritta rispecchia la pratica viva ancor meno di quanto una pellicola in bianco e nero possa restituirci fedelmente la variopinta realtà. Se ne può comunque ricavare un repertorio di moduli di variazione che vanno dalla trasposizione della melodia ai diversi registri, ai più diversi tipi di trasformazioni armoni­ che e melodiche, all’impiego di ostinati ritmici e armonici indifferenti al decorso melodico, di accordi spezzati e arpeggi, alla sorpresa di modu­ lazioni improvvise, di scivolamenti cromatici: un intero arsenale di tec­ niche per arricchire, trasformare, occultare le melodie catturando l’at­ tenzione dell’ascoltatore, che già conosce i temi, in una specie di labirinto in cui nessuna svolta è prevedibile30. Tenendo conto dell’assiduità con cui Gershwin si applicò all’arte della variazione estemporanea, non è strano che quando per la prima (e unica vera) volta fu costretto dai vincoli formali a elaborare, nel primo movi­ mento del Concerto in F, qualcosa di simile allo sviluppo nella parte cen­ trale, lo sostituì con una catena di variazioni su un nuovo tema intro­ dotto all’attacco 16, inglobando, qui e là, la formula ritmica del secondo tema. E vero, Gershwin non sviluppa, ma avvalendosi del magistero acquisito dall’indefessa attività di decoratore estemporaneo delle pro­ prie melodie, elabora i temi mediante l’arte della variazione. E a quale raffinatezza, complessità ed efficacia possa arrivare quest’arte combi­ nandosi con quella del contrappunto, lo si può osservare nella prima parte di An American in Paris, animata da continue trasformazioni e varianti di piccoli incisi fra cui un motivo apparentemente accessorio e seconda­ rio(jron ) che invece, attraverso ripetizioni variate, aumentazioni

e continui cambiamenti timbrici, funge da principale elemento di pro­ pulsione ritmica. Certamente non si può parlare di sviluppo in senso sin­ fonico, estraneo alla dimensione compositiva di Gershwin non tanto per mancanza di acquisizioni tecniche e di studi specifici, ma perché, par­ tendo dal microcosmo della propria concezione modulare della canzone, egli aveva messo a punto una tecnica di elaborazione tematica consona a una dimensione elettrizzante, euforica, del tempo musicale, continuamente frammentato in spezzoni rapidi come fotogrammi: una concezione che, proprio con l’abolizione dello sviluppo e con il ricorso alla tecnica della variante e della variazione, era ben più in sintonia con certe cor­ renti moderniste nell’ambito della musica “seria”; donde, non a caso, certe simpatie e certi entusiasmi di compositori “seri” di quell’epoca. Gershwin era consapevole di questa congenialità tra il proprio talento compositivo e certe correnti della musica contemporanea? Sembrerebbe comprovarlo una conversazione con S.N. Behrman alcune settimane prima dell’inesorabile aggravarsi delle sue condizioni di salute, nella tarda pri­ mavera del 1937. George, che gli aveva fatto ascoltare alcune nuove inci­ sioni di brani di Sostakovic, a un certo punto affermò che «i russi

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elaboravano brevi motivi» e che egli stesso avrebbe voluto «tentare quella strada»31. Fra i progetti futuri che la morte non gli permise di realiz­ zare vi erano un’altra opera, una sinfonia, un concerto, un’ouverture, un balletto, un quartetto... Non potremo mai sapere se e come Gershwin avrebbe messo in pratica quel suo “nuovo corso”. Possiamo invece con­ statare che le anticipazioni e le premesse contenute in An American in Paris furono in qualche modo tenute in sospeso nei tre successivi lavori orchestrali, Second Rhapsody, Cuban Overture e “I Got Rhythm” Variations. È molto curioso il fatto che, dopo aver sperimentato nella prima parte di An American in Paris una vera e propria forma “a montaggio” con sezioni brevi e concise come fotogrammi, in Second Rhapsody, origina­ riamente concepita per un uso cinematografico (per il film Delicious), Gershwin ritorni piuttosto a quei principi di ripetizione e di variazione tematica che aveva utilizzato in Rhapsody in Blue e nel Concerto in F, con una ancor più accentuata prevalenza del tema principale rispetto alla prima Rhapsody (in cui c’era una ben maggiore varietà tematica) e con varianti ben più aderenti al tema che nella sezione centrale del Con­ certo in F. Insomma, in quanto a tecnica compositiva sembra un passo indietro, e se si tien conto della sua destinazione originale e lo si con­ fronta con An American in Paris sembra un controsenso. Credo che que­ ste apparenti debolezze risultino tali se si considera l’itinerario gershwiniano da quel preconcetto critico per il quale il cammino artistico di un grande creatore deve essere rettilineo e in costante salita verso il succes­ sivo traguardo (nel caso specifico, Porgy arid Bess), e ci si dimentica delle occasioni per le quali furono concepite le singole composizioni: nel caso di Second Rhapsody, per una duplice funzione cinematografica e concer­ tistica (cfr. cap. X). Un conto era stato assegnare a un poema sinfonico sui generis {An American in Paris) una dimensione cinematografica in senso metaforico e illusionistico, per velocizzare il tempo musicale; un altro conto era adattare realmente la musica alla scansione del tempo cinematografico. Anche la ripetizione enfatica del martellante tema prin­ cipale penso debba ricondursi alle funzioni descrittive ed evocative che è chiamato ad assolvere. Nonostante le ambizioni colte, ì relativi com­ plessi che ne derivavano e il continuo stimolo a migliorare, Gershwin era un musicista abituato a comporre per specifiche occasioni spettaco­ lari, e se c’è una partitura che doveva assolvere a molteplici finalità di tal genere, è proprio Second Rhapsody, per cui semmai il problema rela­ tivo alle mancate conseguenze di premesse poste in An American in Paris investe gli altri due lavori. Cuban Overture, come già si è visto, fu in un certo modo la sua prima “risposta creativa” alle critiche che gli venivano rivolte circa la sua igno­ ranza teorica e contrappuntistica. Se si scorrono le Program notes di Ger­ shwin e poi si esamina o si ascolta Cuban Overture si è colpiti dalla discre­

ti»

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panza fra il rilievo dato al contrappunto dal musicista in veste di prefa­ tore rispetto a quello che esso ha effettivamente nella sostanza musicale e sonora. Il primo episodio - quello a tre voci - lo si percepisce di più nella sua funzione fonica di momentaneo e gradevolissimo alleggerimento sonoro in mezzo al clangore della piena orchestra; il secondo, il “canone politonale” della parte centrale, nella sua funzione di crescente intensi­ ficazione enfatica che conduce alla ripresa dell’episodio iniziale. Così in “I Got Rhythm1' Variations, nonostante le “proiezioni geometriche” schillingeriane, ciò che vi è di profondamente gershwiniano è una mani­ festa volontà di esibizione spettacolare che proietta sull’esercizio scola­ stico svolto con molta buona volontà e diligenza le luci multicolori delle ribalte di Broadway. Il principio di coerenza che lega assieme l’intera produzione musicale di Gershwin non è tanto una linea evolutiva rettilinea, quanto la sua costante attitudine alla comunicazione diretta e spettacolare che si rea­ lizza sempre e pienamente, qualunque siano le premesse ideative. Le sug­ gestioni “colte” e quelle “popolari” si fondono in unità a questo livello. Operando una sintesi di questo tipo, Gershwin ideò un genere di musica “classico-leggera” per le masse, preconizzando così la creazione di un repertorio “classico” accessibile a più larghi strati della popolazione americana; un repertorio che si diffuse negli Anni Trenta e Quaranta, in sintonia con gli ideali e la politica del “New Deal” rooseveltiano32. Sarebbe però azzardato e tendenzioso spingersi oltre e trasformare Ger­ shwin in un antesignano di certe sintesi transculturali propugnate da recenti e contemporanei “neoromanticismi” per riconquistare il mer­ cato e il pubblico scoraggiato dalle avanguardie; non foss’altro perché Gershwin era alieno da qualsiasi atteggiamento autenticamente manie­ ristico in quanto la sua arte era espressione sincera di un’“idea” e il suo stile una sigla inconfondibile in cui melodia, armonia e ritmo sono «colate in un unico stampo».

Note 1 Arnold Schonberg, in Merle Armitage (a cura di), George Gershwin, London-New York-Toronto, Longmans, Green and Co. 1938, pp. 97-8. 2 Ciò che nello scritto dedicato a Gershwin è espresso in forma dubitativa, nella versione finale di Musica nuova, musica fuori moda, stile e idea, è espresso invece in forma assertiva: «Estremamente deplorevole è il comportamento di alcuni artisti che arrogan­ temente vogliono far credere di discendere dall’apogeo per concedere alle masse qual­ cosa delle loro ricchezze. Questa è ipocrisia. Ma vi sono alcuni compositori come Offen­ bach, Johann Strauss e Gershwin il cui modo di sentire coincide effettivamente con quello dell’uomo della strada. Esprimere sentimenti popolari in termini popolari non è, per essi, mistificazione. Essi sono del tutto spontanei quando parlano così e di queste

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cose». A. Schonberg, Style and Idea, New York, Philosophical Library 1950 (Stile e idea, trad. it. L. Pestalozza, Milano, Feltrinelli 19752, p. 55). 3 Leonard Bernstein, Why Don't You Run Upstairs and Write A Nice Gershwin Tune?, «The Atlantic Monthly», aprile 1955, pp. 39-42; anche in L. Bernstein, The Joy of Music, New York, Simon and Schuster 1959, pp. 52-62 (La gioia della musica, trad. it. Milano, Longanesi 1982, p. 41). 4

Ibid.

5

Ibid., p. 42.

6

Ibid., p, 44.

7 Cfr. Bibliografia essenziale, del presente volume. 8 V. le biografie di Charles Schwartz, Gershwin: His Life and Music, IndianapolisNew York, Bobbs-Merrill Company 1973 e di Edward Jablonski, Gershwin: A Biogra­ phy Illustrated, New York, Doubleday and Co. 1987; rist. Boston, Northestern Univer­ sity Press 1990. 9 Cfr. Gianfranco Vinay, George Gershwin e l'analisi impertinente, «Rivista Italiana di Musicologia», XXVI, 1991, pp. 59-78. 10 Charles Hamm, Verso una nuova lettura di Gershwin, «Musica/Realtà» 25, aprile 1988, pp. 23-44. 11 V. C. Schwartz, Gershwin: His Life and Music cit., pp. 62-3. 12 V. i due saggi di Wayne D. Shirley, The “Trial Orchestration'' of Gershwin's “Concerto in F", «MLA Notes», XXXIX, 3, marzo 1983, pp. 570-9 e Scoring the “Con­ certo in F": George Gershwin's First Orchestration, «American Music», III, 3, autunno 1985, pp. 277-98. 13 V. cap. I, par. 2.2 e par. 6.2 del presente volume. 14 Igor Stravinskij-Robert Craft, Dialogues and A Diary, London, Faber & Faber 1961, p. 101. 15 E. Jablonski, Gershwin: A Biography Illustrated cit., pp. 231-2.

16 Nella successione dei cinque quadri (Catfish Row; Porgy Sings; Fugue; Hurricane; Good Morning; Brother) la fuga precede la scena del ciclone, mentre nell’opera il duetto tra Crown e Porgy ha luogo nella prima scena del terzo atto.

17 Da George Gershwin, Rhapsody in Catfish Row: Mr Gershwin Tells the Origin and Scheme for His Music in That New Folk Opera Called “Porgy and Bess", «The New York Times», LXXXV, 20 ottobre 1935, X, 1-2; rist. in M. Armitage (a cura di), George Gershwin cit.; cfr. cap. I, par. 7 del presente volume. 18 Da G. Gershwin, The Composer in the Machine Age, in Oliver Martin Sayler, Revolt in the Arts: A Survey of the Creation, Distribution and Appreciation of Art in America, New York, Brentano 1930; cfr. cap. I, par. 4.3 del presente volume. 19 Da G. Gershwin, Introduction a Isaac Goldberg, Tin Pan Alley: A Chronicle of the American Popular Music Racket, New York, The John Day Co. 1930; cfr. cap. I, par. 5.2 del presente volume. 20 Da G. Gershwin, Jazz is the Voice of the American Soul: Hailed by Musicians and Critics as the Outstanding Figure Among Native Composers, the Author of This Article Defends and Glorifies Syncopation, «Theatre Magazine», XLV, marzo 1927; cfr. cap. I, par. 3.1

del presente volume. 21 Da G. Gershwin, Does Jazz Belong to Art? Foremost Composers of Syncopated Music Insists on Serious Appraisal, «Singing», I, luglio 1926; rist. in «Second Line», XIV, settembre-ottobre 1965; cfr. cap. I, par. 2.1 del presente volume.

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22 Da G. Gershwin, The Composer in the Machine Age cit.; cfr. cap. I, par. 4.3 del presente volume. 23

Ibid.

24

Ibid.

25

Ibid.

26

Ibid.

27 In Isaac Goldberg, George Gershwin: A Study in American Music, New York, Simon & Schuster 1931, pp. 138-9. 28 In E. Jablonski, Gershwin: A Biography Illustrated cit., p. 11.

29 Da G. Gershwin, Jazz is the Voice of the American Soul cit.; cfr. cap. I, par. 3.1 del presente volume. 30 Cfr. per una trattazione circostanziata il cap. V del presente volume. 31

In E. Jablonski, Gershwin: A Biography Illustrated cit., p. 320.

32

Cfr. C. Hamm, Verso una nuova lettura di Gershwin cit., pp. 42-3.

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IV Giampiero Cane Gli enigmi di un feeling equivoco: Gershwin e il jazz

Il normale comportamento della cultura americana rivela che anche in quel continente la differenza è apprezzata soltanto se si manifesta come una questione di dettaglio. Ogni alternativa alla musica europea che sia stata posta con determinazione e radicalità non ha avuto che un’ac­ coglienza marginale, mentre ad essa è stata preferita una tradizione insa­ porita dal condimento del colore locale: effetto gradevole ai sensi, quale si può cogliere nel tragitto musicale che collega Gershwin a Bernstein, con la musica “pop” che diventa “fine”, o nel jazz di Paul Whiteman, dei fratelli Crosby o di Benny Goodman, che incorpora gli effetti grezzi del folclore nero in una musica per lo più da ballo. C’è un carattere medio che appartieni anche all’arte di Gershwin, la cui natura è resa evidente dal modo con cui agisce sui testi, dopo che essi sono usciti dalle mani dell’autore: quella specie di spiazzamento, di aggiunta di senso che muta Porgy and Bess in un insieme di canzo­ nette, i concerti in balletti, le canzoni in temi di jazz. Alla fine si ha la sensazione che tutto quanto non sia altro che una manifestazione di astuzia. Bernstein, più smaliziato e anche più colto musicalmente, preferisce utilizzare tutto il pot-pourri di ingredienti, evitando che siano gli altri a ridefinire funzione ed esito. Come mai Porgy and Bess è stata mano­ messa quanto nessun’altra opera del teatro moderno, mentre West Side Story è stata rispettata almeno quanto La Gioconda o Lucia di Lammermoorì Ciò deriva, credo, dal fatto che né Porgy and Bess, né altri testi (Treemonisha, ad esempio) hanno ottenuto fino a pochi anni fa una posi­ zione nel territorio colto americano, ma ne sono rimasti alla periferia, “inquinati” dal popolare, dal folclore. Contemporaneamente, quella cul­ tura media che infine detta le leggi, ponendo West Side Story su uno dei piedestalli, mostra la propria insufficienza finché misconosce e neglige altri testi, alti e sofisticati ma semplici, come, ad esempio, Four Saints in Three Acts, di Virgil Thomson.

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Negli anni in cui Eric Salzman teorizzava il “third music theater”, predicandolo «non opera, non musical, ma un genere che sta fondan­ dosi», la cui caratteristica sta nell’“essere prima di tutto un’arte non verbale, capace d’integrare suono, movimenti, immagine, musica, lin­ guaggio, idea, pensiero, sentimento”1, e West Side Story trovava una collocazione quale immediato antecedente di una tale linea-fioritura spon­ tanea, prima dell’idea (fantastico per un aristotelico) - nel mondo del jazz già da qualche po’ circolava un’altra “third stream”: quella teoriz­ zata da Gunther Schuller, terza strada tra la tradizione classica e il jazz. Qui fu l’idea, invece, il discutere con John Lewis - la “mente”, diciamo, del Modern Jazz Quartet - a spingere un’impresa che ripro­ poneva un’interpretazione dei rapporti tra jazz e musica classica quale era già stata descritta quasi mezzo secolo prima, in maniera operativa, senza farvi troppa teoria, anche se teoria vi fu. Non del tutto inutile, forse, risalire brevemente a quella prassi, cercandone l’ideologia nella saggistica dell’epoca. Chi si prendesse la briga di andare a leggere uno dei primissimi testi sul jazz, So This Is Jazz, scritto da Henry Osgood nel 19262 troverebbe mescolate assieme tesi che grosso modo ancora reggono con altre che sono di travisamento e che evidenziano motivi osservati da un’ottica affatto differente da quella attuale. Osgood con­ ferma a parole il luogo natale del jazz collocandolo nel Sud e a New Orleans, ma la musica di cui poi scrive non è quella che oggi viene con­ siderata comunemente come il jazz di New Orleans. L’ottica che orienta oggi la critica positiva e negativa nei confronti del jazz ha messo in primo piano il valore dell’esecuzione, considerando spesso i testi alla stregua di pretesti; ma già nel racconto di Jelly Roll Morton non è la materia in sé che si configura come jazz, ma il modo di trattarla nell’esecuzione. Quando Osgood pubblicò il suo testo, Mor­ ton era un signore di quarant’anni, nel pieno successo della sua carriera di musicista: lui e i suoi “Red Hot Peppers” furono uno dei gruppi musi­ cali meglio pagati d’America. Nel proprio biglietto da visita egli si defi­ niva «l’inventore del jazz». Ma Osgood tutto questo non lo sa, e ci indica titoli dei pezzi e autori della loro musica, dicendoci, come farà del resto anche David Ewen ancora negli anni Sessanta, che il jazz è la musica di Gershwin, di Whiteman e di quegli autori tutti che han messo un po’ di colore nero nelle loro stupende canzonette: musica da night-club, da ballroom, da palcoscenico. «So This Is (not) Jazz», verrebbe polemicamente da dire constatando che non vi si tratta di Joe “King” Oliver, Ferdinand “Jelly Roll” Mor­ ton, Louis “Satchmo” Armstrong, che non vi compaiono le Smith del blues, Bessie in testa, né Ma Raney, né Ida Cox, ma Florence Smith, Bert Williams, Eddie Cantor e Sophie Tucker: nomi che rimandano a delizie del varietà, della commedia leggera, del musical, ma che poco, o meglio nulla, hanno a che fare con la polpa di quella musica chiamata

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jazz. Complessivamente Osgood interpreta la musica nera un po’ come un folclore le cui dense linfe avrebbero prodotto un’arte raffinata solo dopo aver incontrato i musicisti americani bianchi, Gershwin e Irving Berlin soprattutto. Del resto, all’epoca, nemmeno Schaeffner e Coeuroy in Le jazz, del 19263 giungono a definire il jazz quale musica essen­ zialmente nera. Poiché la riflessione sul jazz prende l’avvio quando nel quadro del­ l’interpretazione del mondo è ancora la posizione idealistica a esercitare un predominio e a caratterizzare il pensiero medio, fu affatto naturale che l’interpretazione del jazz in quanto arte fosse filtrata da schemi idea­ listici. Quale manifestazione di universalità un’arte non può essere patri­ monio di una minoranza: o è arte, e allora è universale, oppure arte non è, ma manifestazione del costume, di credenze, di pratiche e gusti locali, cioè folclore. Anche Gershwin esprime, se pur in maniera assai generica, questa posizione. Premesso che «la grande musica del passato in altri paesi ha sempre avuto come fondamento la musica popolare», Gershwin passa a dire che l’America ha più folclori: «Jazz, ragtime, Negro spiritual e blues, canti di montagna del sud, country fiddling e cowboy songs ». Quanto al jazz, in particolare, anch’esso «è una musica popolare ameri­ cana; anche se non l’unica, è importantissima ed è forse nel sangue e nel sentimento del popolo americano più di ogni altro tipo di musica popolare». Anticipando Gunther Schuller, Gershwin si dice sicuro che il jazz «nelle mani di un compositore che abbia talento sia per la musica jazz che per quella sinfonica, si possa assuthere come base per lavori sin­ fonici di duraturo valore»4. «È difficile determinare a quali valori dura­ turi, da un punto di vista estetico, il jazz ha dato il suo contributo afferma ancora Gershwin - perché “jazz” è una parola che è stata usata per almeno cinque o sei diversi tipi di musica. E in verità è un conglomerato di molti elementi: c’è qualcosa del ragtime, del blues, del classico e degli spiritual. Fondamentalmente è una questione di ritmo»5. Anche se U jazz può avere un primato tra i folclori americani, però, ai fini di una possibile composizione, «certo, esso è solo un ele­ mento, non è tutto. Un’intera composizione scritta secondo i moduli del jazz non potrebbe sopravvivere»6. Se è interessante notare come Gershwin abbia colto dall’ambito jaz­ zistico l’impiego degli intervalli usati per spezzare il ritmo (un’intuizione capace di grandi conseguenze nella pratica, ma per nulla approfondita teoricamente) bisogna però anche dire che non ne trae nulla che venga utilizzato metodicamente, né nell’uso degli intervalli melodici e armo­ nici, né nel rapporto fra intervallo e ritmo. Da questo interesse di Ger­ shwin per il ritmo e da qualche possibile relazione tra certi tratti della sua musica e quella dei neri d’America (pur se mutuata attraverso l’ascolto di quella dei jazzmen bianchi che l’imitavano) deriva il (pregiudizio a

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lungo consolidatosi e ancor oggi diffuso che Gershwin scrivesse le sue opere pensando in qualche modo al jazz. Il rilievo assunto dalla terza minore in The Man I Love, così come il giro del blues di Summertime, sembrerebbero convalidare tali (pre)giudizi, non fosse che Gershwin non pensa al jazz, ma piuttosto a un folclore da cui si impegna a trarre gli elementi salienti. Se mai è allora proprio il folclore nero a costituire un punto d’incon­ tro tra la musica di Gershwin e il jazz, poiché quest’ultimo, anche se stava muovendosi verso modalità espressive autonome, presentava all’e­ poca - come in modo assai minore ancora oggi, a volte - un nutrito campo di praticanti capaci di trarre in tutta naturalezza ispirazione dalle forme e dai modi dell’espressione popolare, qui magari incontrandosi con quell’altro visitatore che fu appunto Gershwin. Un blues quale Summertime non deriva dal jazz, ma, come il blues connatura di sé gran parte della produzione jazzistica, così suggerisce a Gershwin questa pagina di grande fascino. (Sarà anche forse utile osser­ vare come l’originale sia in tonalità di Si minore e sfrutti i rivolti per articolare una battuta in cui il Fa diesis della melodia non appare sciatto, mentre la maggior parte degli arrangiamenti non rispetta questa tona­ lità, ma ne sceglie altre probabilmente perché più adatte ai meccanismi degli ottoni, come il Do minore che troviamo impiegato dall’orchestra di Glenn Miller). Sebbene Gershwin conoscesse le forme e i modi espressivi dei musi­ cisti neri, le sue canzoni appartengono al mondo di Tin Pan Alley e non a quello del blues e dello spiritual. Anche se qualche influsso da quel folclore è manifesto nella musica leggera, da ballo, degli anni Venti, si possono conservare - come Gershwin ha fatto - criteri di differenzia­ zione tra una musica e l’altra. Definendo il jazz un conglomerato di molte cose (ragtime, blues, spiritual e musica classica) e specificando che la parola jazz era attribuita a cinque o sei generi di musica, Gershwin ci fa capire che egli per jazz non intendeva l’arte degli improvvisatori, ma le forme stereotipe da essa derivate. Andava così perdendo il contatto con quello che più avvicinava il proprio far musica alla pratica dei jazz­ men'. la musica di Gershwin così come risulta dalla pagina stampata è infatti diversa da quel che egli ci fa ascoltare in registrazione. Non si può affermare che ciò avvenga perché Gershwin improvvisi (anche se sappiamo che alla prima di Rhapsody in Blue arrivò senza aver comple­ tato la parte solistica), poiché analoghe differenze tra testo eseguito e testo stampato le troviamo nei ragtime di Scott Joplin, e riguardano sem­ pre e solo l’eliminazione del maggior numero di difficoltà virtuosistiche dal foglio: queste musiche erano vendute a dilettanti e amatori, donde la facilitazione. Il problema della relazione tra Gershwin e il jazz sembra invero non possa essere indagato nella sua scrittura musicale. Il jazz, infatti, era

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un’arte che, come Jelly Roll Morton aveva già dimostrato musicalmente e come illustrerà poi Alan Lomax, riguardava l’esecuzione, non la com­ posizione. Anche Thomas Fats Waller, fosse stato solo autore di temi, non sarebbe stato un compositore jazz; negli anni Venti e Trenta, nulla mostrava ancora l’esistenza di una categoria concepibile in questi ter­ mini, ed è assai dubbio ancor oggi in che cosa possa consistere la figura del “jazz composer”, vista la modestia dei risultati in tale campo. Certo, all’epoca i blues di W. C. Handy non si pongono come esempi composi­ tivi, ma un pezzo quale Si Louis Blues, una canzone di Morton o una di Waller si qualificano come jazzistici se e perché vengono interpretati da musicisti jazz. Non per nulla, verso la fine degli anni Venti l’apo­ teosi di questa musica è rappresentata dal terzo chorus delle interpreta­ zioni armstronghiane, con il secondo gruppo degli Hot Five, dove il trom­ bettista inventa melodie affatto nuove sulla struttura di canzoni o blues di successo. Strettamente legato alla musica da ballo, alle canzoni di successo anch’esso musica da ballo - il jazz si arricchisce dei temi composti dagli autori popular, ma li trasforma facendoli diventare “pezzi unici”: anche Gershwin, in fondo, ha soprattutto dato al jazz null’altro che temi. C’è da chiedersi allora sé vi sia qualche tipo di tema che meglio si presti all’im­ provvisazione jazzistica. Probabilmente c’è qualche carattere che il/mman ritiene sia favorevole alla propria elaborazione, e ci sono musiche che, invece, gli risultano estranee., I confini (Armstrong che canta C'est si borì} sono decisamente labili, i territori incerti: una vastissima “no man’s land”. La forma AABA è senza dubbio preferita dalla generalità dei jazzmen a quella struttura in strofa e refrain, più comune nella can­ zone postoperistica europea; il blues, .però, con le sue stanze libere in forma AAB, spesso indifferenti l’una all’altra (a volte nemmeno stanze, ma successioni di versi connessi dal rimare, ma ancor più tenuti insieme dal collante della progressione armonica) parrebbe quasi una successione di strofe senza refrain (questa la forma “classica”, costituita da una serie di couplet rimati con ripetizione del primo dei tre versi). Nel blues la struttura armonica su cui il canto si tende è affatto sem­ plice, basata com’è sulle triadi di tonica, sottodominante e dominante, cui s’aggiungeranno, ancora in epoca “classica”, quelle di sopratonica e sopradominante. Tale è lo schema che prese il sopravvènto, ma la pra­ tica del blues prevedeva soluzioni molteplici e meno rigide, come risulta da registrazioni storiche in cui si ascoltano chitarristi che si accompa­ gnano solo ritmicamente, tenendo un accordo per un intero blues, senza svilupparlo nel giro “classico”. Di questo folclore meno evoluto Gershwin non fa uso, e non giustap­ pone una trama armonica tonale e un canto modale, come avviene nella pratica del blues. Il folclore, nella sua veste educata, entra però nella musica di Gershwin, soprattutto sotto forma di ragtime, come in I Got

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Rhythm, in Overflow (Porgy and Bess, I, 2), nel Concerto in F (I movi­ mento, n. 9, Più mosso); ma anche in quella di blues, nella tipica ten­ sione di terza minore che caratterizza Summertime, The Man I Love, oltre, naturalmente, Rhapsody in Blue. Anche se è praticamente impossibile mostrare come l’armonia agisca sulla melodia, se non per consonanza, c’è da dire che in Gershwin ci si trova di fronte a elaborati armonici che tendono a essere già essi stessi armonia. La melodia appare addirittura a volte nascosta dall’armonia, la quale pare costituita, anche se attraverso il nascondimento di un rego­ lare sviluppo, da un succedersi di parallelismi. Nelle prime due battute di I Got Rhythm così come egli stesso l’ha registrata nel Song-Book, ad esempio, ci troviamo di fronte a un andamento di triadi ascendenti costruito su un Re bemolle che sembra fungere da pedale, mentre è la nota superiore delle triadi a costruire il tema: sostanzialmente un movi­ mento dal I al V grado. Nelle due battute successive, il tema è condotto con parallelismi discendenti che si fondono, ma non sono, un pedale sul La bemolle. Es. 1. George Gershwin, I Got Rhythm, batt. 1-4 (da Gershwin at the Key­ board, London, Chappell e Co. LTD-New York, New World Music Cor­ poration 1930). I GOT RHYTHM

Com’erano stati assorbiti da Gershwin, nei suoi anni formativi, il blues e il ragtime? Che genere di musica erano nel secondo decennio del secolo? Forse è un errore considerarli alla stregua di generi musicali apparte­ nenti a un’area diversa da quella della popular music. Il ragtime, già in decadenza per il filologo, stava per vivere il suo momento di massima fortuna popolare con Alexander Ragtime Band (1911) di Berlin; quanto al blues, è questa l’epoca in cui le regine ottengono i loro più grandi suc­ cessi. Varrà forse notare che, guidata da considerazioni astratte più che da testimonianze documentarie, si è poi avvertita l’esigenza di dare al blues un passato, di farlo emergere dal folclore a più sofisticate forme d’intrattenimento attraverso una sua storia (ma, per quel che si può pro­

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vare, il blues non è più antico del jazz o del ragtime, non ha radici più remote, anche se tale è il convinciménto di ognuno dei suoi interpreti). Questo per dire che Gershwin diciottenne scrive musica alla moda quando compone Rialto Ripples e che il medesimo, trentasettenne, riu­ tilizza gli strumenti della sua formazione quando, per caratterizzare il personaggio di Sportin’ Life, presta orecchio alla maniera ora di moda, aderendo perfettamente alla stilizzazione swing. Mi sembra questo il segno di un pensiero debole, che trova il proprio miglior terreno negli aspetti di superficie del fatto sonoro nel suo insieme. «E giunto il momento di riportare alle giuste proporzioni la negrofilia di Gershwin», affermò Ellington pronunciando un giudizio negativo nei confronti del carattere stereotipato che contraddistingue la vicenda e i personaggi di Porgy and Bess. Secondo lui, inoltre, il compositore avrebbe mescolato un’accoz­ zaglia di fonti eterogenee, «da Liszt al kazoo di Dickie Wells», mentre nell’insieme la musica non legherebbe con l’atmosfera e con lo spirito del racconto7. Questa presa di posizione ellengtoniana, come quella di Hall John­ son «un’opera sui negri, ma non un’opera negra», o come quella di Ralph Matthews, che sottolinea la mancanza di quei peculiari «incantesimi sonori che nascono dall’originalità delle musiche etniche»8 rappresen­ tano la linea conservatrice dell’orgoglio nero, sulla strada indicata dal­ l’insegnamento di Du Bois sulla tradizione e sul suo valore. Ma lo “ziotomismo” che Ellington riscontra in quest’opera è il medesimo di cui anch’egli è stato sovente accusato. All’epoca poteva certo trattarsi di un aspetto realmente inquietante per il fatto che i neri, alla cui crescita sociale erano lasciati aperti pochi campi, vedevano occupare uno di questi, quello della musica, da una pletora di orchestre (e in questo caso da un autore) che sfruttando il loro patrimonio, i modelli espressivi da loro elaborati, i procedimenti da loto impiegati nelle loro esecuzioni musicali, ottene­ vano grandi successi esercitando una spietata concorrenza. Comprensi­ bilissima, dunque, la reazione, anche se la maggior parte del mondo nero amò Porgy and Bess, collaborando fin dalla creazione al suo successo. Se Gershwin non tiene un atteggiamento eversivo nei confronti delle convenzioni musicali, ha però un vivo gusto nel piegare le regole (cui sostanzialmente si attiene) agli effetti che va ricercando. In questo egli è contiguo alla pratica di colui che all’epoca era a stento considerato un jazzman, diventando poi uno dei maestri di quest’arte soltanto per pro­ gressivo consenso, negli anni Trenta e in seguito: al “Duca”, appunto, che ha sorpreso il modo del jazz soprattutto con la particolarità di quel che è stato denominato “effetto Ellington”, ovvero con la sua conce­ zione timbrica dell’armonia. Nel considerare le sintonie tra la musica gershwiniana e le manifestazioni jazzistiche o parajazzistiche della sua epoca, va tenuto presente che essa è stata coperta da una grande melassa sensuale, soprattutto nella pratica dei night; il che non toglie che quando

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la si ascolta eseguita dall’autore stesso o da chi si proponga di attenersi alle qualità che emergono dalla scrittura, risulti ancora nitida, ricca di una tensione simulatrice, di una verve di sofisticata teatralità; il suo senso “aguzzo”, scarno di “effetti espressivi”, conserva quella dimensione eufo­ rica, febbrile, tipica della musica americana degli anni Venti. La relazione attiva tra Gershwin e la nuova musica che invadeva l’Ame­ rica risulta poi consolidata dalla frequentazione, fin amorosa, dei suoi temi musicali da parte dei più diversi interpreti del jazz nelle diverse epoche, durante e dopo gli anni di attività del musicista. A questo pro­ posito non si può dimenticare come la pratica jazzistica sia stata intima­ mente legata alla vita della popular music, non solo connessa ma anche confusa con essa in un continuum che rende quanto mai difficile sepa­ rare con una cesura forte e precisa l’un campo dall’altro. Il successo delle canzoni gershwiniane è dunque ragione sufficiente perché esse s’inse­ dino nel repertorio di band e di combo jazzistici, costituendo anche uno strumento abituale in occasione delle serate jam. Ma in seguito nella ric­ chissima produzione misero le mani anche i musicisti ribelli; e non solo come pretesti per improvvisazioni che rendono pressoché irriconosci­ bile l’originale. Alcuni temi di Gershwin furono conservati dai musici­ sti così com’erano, sempre freschi nella memoria del pubblico, e conti­ nuarono a essere eseguiti non solo negli anni del bebop, ma anche in seguito, in quelli del free jazz e ancora oltre, stimolando gli interpreti a mettere in evidenza certi elementi tematici caratteristici. Se osserviamo, ad esempio, come si comporta Charles Parker di fronte a questi classici, vediamo come nell’interpretazone di I Got Rhythm e dei titoli nuovi che ricava dal giro armonico di questa canzone origina­ riamente scritta per Girl Crazy (del ’30) egli offra il consueto esempio di un’improvvisazione avulsa dal riferimento testuale al materiale tema­ tico. Interpretando i songs di contenuto emotivo più spiccato, rimane invece maggiormente aderente alla linea melodica, mettendone in evi­ denza le figure portanti. Si osservi il caso di Summertime. Parker inizia il proprio assolo richiamando la conclusione del tema gershwiniano un po’ variata rispetto all’originale (batt. 3-4 dopo 18, alle parole: «So hush, little baby, don’ yo’ cry»). Nella seconda parte della batt. 9 e alla batt. 10 dell’assolo di Parker c’è un vago riferimento alle battute corrispon­ denti dell’originale. Le batt. 11-14 di Parker si riferiscono alle batt. 4 dopo 19-22 dopo 20 di Gershwin. Nelle batt. 17-19, Parker riprende il tema di Gershwin trasformando l’intervallo iniziale da una terza a una seconda maggiore; poi questa frase evolve e conclude nei modi che un tempo erano chiamati della “svisatura”, cioè della variazione.

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Es. 2a. George Gershwin, Summertime (da George Gershwin, Porgy and Bess, New York, Gershwin Publishing Corporation 1935, nn. 17-21).

(segue)

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Es. 2b. Charles Parker, improvvisazione su Summertime. End of first theme statement

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Della vasta produzione gershwiniana al mondo del jazz non interes­ seranno a lungo che poche cose. Accade così che un bel tema come That Certain Feeling (1925) non venga più ricordato nemmeno dai jazzmen dell’epoca di mezzo, mentre è sopravvissuto The Man I Love (1924), can­ zone che ha un breve ponte capace di suggerire un nuovo slancio rit-

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mico. Certo non si può pensare che un mondo del jazz ancora fortemente legato alla funzione dell’intrattenimento leggero potesse interessarsi a una tarantella quale il madrigale The Jolly Tar and the Maid, ma ci si sarebbe potuti aspettare che Jazzbo Brown Blues (1935), parte integrante della scena d’apertura di Porgy and Bess (nella partitura originale di Ger­ shwin), che il secondo dei Preludes for Piano (1926), che ì’Impromptu in Two Keys (1924 ca.), quest’ultimo in virtù della frase di risposta, con il loro schietto colore blues ispirassero letture e improvvisazioni jazzi­ stiche. Ciò non è accaduto, a conferma del sospetto che i musicisti di jazz più che al nero presente in Gershwin fossero interessati a quel che della sua musica riscuoteva successo presso il medesimo pubblico cui anche loro si rivolgevano. Negli anni Quaranta I Got Rhythm divenne il banco di prova del vir­ tuosismo bebop. Innumerevoli sono le versioni parkeriane di questo pezzo, e recano una certa varietà di titoli: le registrazioni note sono ben 147, per lo più nelle tonalità maggiori di La bemolle, Mi bemolle, Si bemolle, Fa e Do. I titoli dietro cui è mascherato I Got Rhythm vanno da Dizzy Atmosphere, a Sepian Bounce, ad Anthropology, Bird’s Nest, Crazeology, Dexterity, Ah-Leu-Cha, al celeberrimo Salt Peanuts, e così via. L’inseri­ mento di questa maschera tra la fonte usata e la melodia suonata è deter­ minato dalla necessità di evitare il pagamento dei diritti d’autore. (In una delle tante pubblicazioni di prove di registrazione incomplete si sente sullo sfondo la voce del produttore che ferma l’esecuzione proprio per­ ché, così come i musicisti stanno eseguendo il pezzo, se ne riconosce chiaramente l’origine). Di 1 Got Rhythm viene dunque usata, salvo un paio di registrazioni che conservano il titolo, la struttura armonica, che può fornire l’ossatura all’intero pezzo o a una sola parte di esso (come per esempio avviene in Scrapple from the Apple, che nella consueta forma AABA utilizza nella sezione A la struttura armonica di Honeysuckle Rose, nella sezione B quella di I Got Rhythm). Spesso trasportato in Si bemolle maggiore, I Got Rhythm presenta la seguente struttura. Nell’originale gershwiniano il tempo è in 2/4, la tonalità è Re bemolle. L’edizione più diffusa è in tempo tagliato nella tonalità di Si bemolle. L’indicazione di tempo originale è Very marked, quella dell’altra ver­ sione With abandon, ma poi lo spartito presenta gli accenti in maniera tale che quell’abbandono è, se non impossibile, perlomeno improbabile. Ci sono ulteriori differenze nelle dinamiche. Il giro armonico autentico è: A: III/IV V/I VII/VI V/ (in realtà i gradi di passaggio non hanno forza tonale, ma servono a dar rilievo alla melodia, per cui, sotto l’aspetto strutturale, si tratta di due cadenze sospese I/V/I/V) I II/IV VII/IV/I/. B: noria minore sul III/nona minore sul III/nona minore sul III/nona minore sul VI/nona minore sul VI/nona minore sul II/nona minore sul

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Gli enigmi di un feeling equivoco: Gershwin e il jazz

II/discesa cromatica di quinte parallele al basso per 2 battute e chiusa e ritorno ad A. Quattro battute cromatiche per condurre al ponte in Fa maggiore, costruito sulla medesima successione armonica di A, variato nella parte interiore da un gioco di arpeggi di sedicesimi discendenti. La sinistra effettua i salti tipici del ragtime. L’edizione “popolare” semplifica il processo sviluppandosi così: IIV/II V/VI IV/II V/IVI/IIV II (IV)/I (II rivolto) V/I/ B: l’andamento paral­ lelo viene semplificato con settime che si sospendono sulla nona, man­ tenendo i collegamenti della versione originale, mentre la variazione più evidente è nella “pompa” della mano sinistra. Naturalmente, poi non si può mostrare quel che non c’è, ovvero il modo con cui Parker interpreta la canzone gershwiniana: quando egli giunge al momento di prendere il proprio assolo ogni riferimento tema­ tico viene abbandonato e il saxofonista procede nel suo tipico lavoro di combinazione di quel che è il suo personale bagaglio fraseologico, costi­ tuito da una vastissima ed elaborata collezione di formule e motivi. A mo’ d’esempio, entrambi i pezzi di cui si riporta la trascrizione della parte iniziale, Dexterity (da una registrazione dell’ottobre 1947) e Anth­ ropology (da una registrazione del marzo ’51), sono basati sul giro armo­ nico di I Got Rhythm, ma con il pezzo gershwiniano non presentano somi­ glianza alcuna, mentre mostrano un’evidente parentela fra di loro: Es. 3. Anthropology, trascrizione da una registrazione del marzo 1951.

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Es. 4. Dexterity, trascrizione da una registrazione dell’ottobre 1957.

Fra Gershwin e il mondo del jazz si può dire che sia intercorso un certo “feeling”. «Per me il feeling - affermava Gershwin - ha più importanza di qualsiasi altra qualità. Credo sia proprio esso a determi­ nare il risultato di qualsiasi prova artistica. Significa più che non la tecnica o le nozioni acquisite, dato che entrambe senza feeling non contano nulla»9. Il feeling costituisce una qualità non tanto formale, quanto sostanziale: una sostanziale coesione tra l’idea che si possiede di una cosa e l’espressione di quest’idea con gli strumenti del linguaggio, cercando di coinvolgere questa con quella, i mezzi espressivi con l’idea. Non è dunque una qualità interna alla cosa, ma una qualità dell’esecuzione, ragion per cui sia Kaye Ballard, che canta secondo i canoni della tradi­ zione accademica, sia Billie Holiday, che canta secondo quelli dello hot, possono mostrare, in differenti ambienti, un ottimo feeling gershwiniano. Ma Gershwin, da parte sua, verso cosa ha feeling? In quella vivace mescolanza di ritmi americani e satira politica che è Of Thee I Sing (1931) il feeling del musicista è con lo scorrere del tempo, riempito dal muo­ versi delle cose, nasce da un occhio che guarda da una certa distanza, un poco scettico, ma fiducioso. La lamentevole storia di Porgy di lì a poco tradotta in opera, non ha altrettanto disincanto, non altrettanta briosità di costruzione: sembra che il mondo nero che tanti suggerimenti ha portato alla musica di Gershwin, si riveli infine come l’ostacolo che egli non ha saputo superare10.

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Gli enigmi di un feeling equivoco: Gershwin e il jazz

C’è certo un enigma Gershwin, che è tale anche perché, chiamato a parlare, il compositore fa propri i luoghi comuni dell’epoca, dicendo cose che non occorre siano pensate, ma che, soprattutto, non corrispon­ dono se non in modo molto parziale alla realtà. Per esempio, quando nella prefazione alla raccolta del ’32, afferma la “precoce mortalità” delle canzoni11 quel che dice non corrisponde al vero: le canzoni degli anni Trenta, e anche dei Quaranta, sono ancora quelle del primo e del secondo decennio del secolo, come sì può evincere da album quali The Eddie Cantor Story (1953), Al Jolson (in tre volumi, rispettivamente degli anni 1946-47-48); dal successo di God Bless America - una canzone di Irving Berlin scritta nel 1917 - nel 1939-1940, di Peg o' My Heart, del 1913, prima nelle classifiche del 1947, di You Belong to Me, composta nel 1916 da Victor Herbert, che furoreggiò nel 1952. È giusto quel che scrive Charles Hamm, che «l’industria di Tin Pan Alley non si è basata su una tradizione musicale, ma ha creato la tradizione musicale»12. E giusto, ma l’esito si trasforma in bene di consumo, in merce. Berlin, Gershwin e i diversi semi di Fats Waller ne sono stati i fecondatori. L’enigma Gershwin, in fondo, lo si chiarisce riconsiderandone l’opera unitariamente ma nel mondo della musica leggera. Egli ha scritto splen­ dide melodie, che costituiscono anche la parte affascinante delle sue com­ posizioni “classiche”, trovando spesso materia d’ispirazione nell’arte dei musicisti neri della sua età ai quali ha restituito materia per nutrire la loro creatività. Che egli stesso fosse uno splendido pianista, che sapesse improvvisare in modo geniale sui propri “canovacci” testimoniano della relativa importanza che attribuì di fatto al comporre, preferendo spesso il travolgente feeling esecutivo alla faticosa stabilizzazione della forma.

Note 1 Citato in H. Wiley Hitchcock, Music in the United States: A Historical Introduc­ tion , Englewood Cliffs, Prentice-Hall ine. 19792, p. 273.

2 Henry Osborne Osgood, So This is Jazz, Boston, Little, Brown and Co. 1926; rist. New York, Da Capo Press 1978. 3 André Coeuroy-André Schaeffner, Le Jazz, Paris, Editions Claude Aveline 1926. 4 Tutte le citazioni sono tratte da George Gershwin, Thè Relation of Jazz to Ame­ rican Music, in Henry Cowell, American Composers on American Music: A Symposium, Palo Alto, Stanford University Press, 1933; rist. New York, Frederick Ungar 1962, pp. 186-7. Cfr. cap. I, par. 6.1 del presente volume. 5 Dal par. Jazz di G. Gershwin, The Composer in the Machine Age, in Oliver Mar­ tin Sayler (a cura di), Revolt in the Arts: A Survey of the Creation, Distribution and Appre­ ciation of Art in America. With Contributions by Thirty-six Representative Authorities in the Several Arts, New York, Brentano 1930, pp. 264-9. Per le diverse riedizioni, v. cap. I,

par. 4.3, nota 68, del presente volume.

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Ibid.

7 Citato in Charles Schwartz, Gershwin: His Life and Music, Indianapolis-New York, Bobbs-Merrill Company 1973; rist. New York, Da Capo Press 1979, p, 245. 8

Ibid.

9 Edward Jablonski-Lawrence D. Stewart, The Gershwin Years, con un’introdu­ zione di Carl Van Vechten, Garden City, Doubleday and Co. 1973, p. 108.

10 Di questo avviso era già Sidney Finkelstein, che in Jazz: A People Music (New York, The Citadel Press 1948, pp. 247-51) affermava: «GH sforzi fatti finora di com­ porre musica utilizzando il jazz van valutati soprattutto come esempi di ciò che non si deve fare. La figura di maggior rilievo tra i compositori di questo tipo è stata quella di George Gershwin, uno dei grandi talenti creativi, un genio o quasi della musica popolare americana - dove popolare non è un aggettivo per sminuire, ma solo per determinare l’area nella quale egli si mosse. Egli era una personalità jazzistica sebbene gli mancas­ sero molte qualità del jazz [...]. Le sue canzoni [...] vengono dall’insieme della lezione jazzistica, ma hanno una loro propria personalità e invenzione melodica [...]. Tuttavia come canzoni mostrano certe carenze che possono essere colte comparando Gershwin con il genio classico della canzone, Franz Schubert. [...] Le pagine di Gershwin nella forma, nella quadratura, nelle stanze, nel climax, non differiscono dai modelli della musica standard commerciale. Le parole non sono che varianti senza significato delle vacue can­ zoni di Broadway [...]. Le idee armoniche restano basate su pochi cliché, ma queste, come l’orchestrazione, sono spesso, inoltre, opera di un altro specialista. [...] Le can­ zoni di Gershwin sono un esempio evidente di un’arte di portata limitata, di un talento sottile che non ha mai trovato mezzi espressivi maturi ed efficaci. [...] C’è musica di vera qualità in Rhapsody in Blue, nel Concerto in F, in An American in Paris, nelle loro melodie danzanti dotate di un sentimento fresco e giovanile, nei ritmi che, come nel vero jazz, scherzano con le battute, nel vago sapore jazzistico dello strumentale. [...] Chiunque conosca il jazz non può non lamentare l’assenza dai lavori di Gershwin delle splendide qualità che esso vi avrebbe portato, la scossa elettrizzante di una sezione rit­ mica hot, il timbro chiaro di un insieme che comprènde clarinetto, tromba, trombone e sax, sapientemente dosato, le intonazioni blues e la libertà polifonica. Ciononostante, poiché questi lavori mostrano una traccia di musica autentica, sono sempre risultati ecci­ tanti all’ascolto per quel loro spigliato carattere melodico che li fa apparire molto migliori di altre musiche scritte con maggior maestria da musicisti diplomati, ma vacue». 11 «Purtroppo [...] molte canzoni muoiono in giovane età e sono completamente dimenticate dal medesimo pubblico che le cantava un giorno con tanto entusiasmo. La ragione di questo è il fatto che esse vengono cantate e suonate troppo quando sono in vita e non ce la fanno a sopportare lo sforzo della loro stessa celebrità», dall’Introdu­ zione al George Gershwin's Song-Book, New York, Random House 1932, p. IX; cfr. cap. I, par. 5.4 del presente volume. 12 Charles Hamm, Yesterdays. Popular Song in America, New York-London, W.W. Norton & Co. 1979, p. 325.

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V Riccardo Scivales George Gershwin il pianista “jazz": tra “fast-shout”, “novelty ragtime” e “stride piano”, I’itinerario di una accorta mediazione fra tasti “bianchi” e tasti “neri”

New York, Park Avenue, 1924. Cocktail-party organizzato in un hotel di lusso per festeggiare il trionfale successo della “prima” di Rhapsody in Blue. Al bar, invitati da George Gershwin in persona, tre pianisti jazz di colore, ben noti a New York: James P. Johnson, Willie “The Lion” Smith e Thomas “Fats” Waller. Ascoltano Gershwin che, seduto al pia­ noforte, sta improvvisando variazioni sui motivi delle proprie canzoni, e monopolizza (forse troppo per i gusti di qualcuno) l’attenzione su di sé. E da un bel pezzo ormai che “The Lion” sta fremendo, e a un certo punto ne ha abbastanza. Si dirige verso Gershwin e lo apostrofa con un violento: «Get up off that piano stool and let the real pianists take over, you tomato»1 (una possibile traduzione italiana è: «Alzati da quello sgabello e lascia fare ai veri pianisti, pomodoro»). Gershwin non se la prende a male (da tempo conosce il carattere irruente e provocatorio di “The Lion”), ride e lascia il campo a Smith, Johnson e Waller, che fino al termine della festa si avvicendano con successo al pianoforte2. Veritiero o meno3, questo aneddoto (dovuto ai ricordi dello stesso Willie “The Lion” Smith) non è del tutto improbabile4, e soprattutto ci introduce a una questione di un certo rilievo. Quanto peso ebbero gli stili individuali dei pianisti ragtime e jazz nella formulazione dello stile pianistico (e compositivo più in generale) di George Gershwin? In che modo egli riuscì ad assimilare, sintetizzare e superare queste influenze, forgiandosi un linguaggio personale, coe­ sivo e originale, che finì con l’affermarsi e il trionfare presso il grande pubblico, magari oscurando l’analoga produzione di altri musicisti che condivisero i suoi stessi ideali artistici? Ancora, quanto delle sue tanto celebrate doti di improvvisatore al pianoforte corrisponde effettivamente a realtà se le confrontiamo con quelle dei suoi colleghi, specialmente di colore, del tempo? Infine anche se egli non fu certo un jazzman, pos­ siamo in qualche modo considerarlo un pianista “jazz” (beninteso, rela-

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tivamente ai parametri che caratterizzano e definiscono il pianismo jazz dell’epoca)? Nel presente contributo prenderemo pertanto in esame quel settore della produzione pianistica di Gershwin (i piano rolls, gli assoli incisi a Londra nel 1926 e nel 1928, i Preludes for Piano e altre composizioni per pianoforte, alcune trasmissioni radiofoniche, il Song-Book) che si col­ loca in un ambito popular e per così dire “jazzistico”, e lo raffronte­ remo con il pianismo del suo tempo per scoprirvi eventuali affinità e analogie. Contemporaneamente cercheremo di evidenziare quei tratti di originalità e novità in virtù dei quali Gershwin si differenziò dai pia­ nisti della cosiddetta “Jazz Age”, trascendendone i vari linguaggi. Nella Introduzione al suo celebre Song-Book, pubblicato nel 1932, Gershwin stesso cita i nomi di vari pianisti ai quali si ritiene in qualche modo “debitore”: [...] Molti i nomi che mi si affollano nella memoria: Mike Bernard, Les Cope­ land, Melville Ellis, Lucky [szc] Roberts, Zez Confrey, Arden e Ohman, e altri ancora. Dobbiamo a ognuno di loro la divulgazione di una nuova tec­ nica, di qualche nuova invenzione nel modo di suonare. Alcuni fra i miei lettori rammenteranno parecchi di quegli espedienti, molti dei quali in verità non erano altro che vistose trovate. Les Copeland aveva l’abitudine di pestare con la sinistra un gruppo indistinto di note da cui scivolava su un normale accordo: ciò produceva nel basso una pulsazione piuttosto interessante, una specie di spensierato effetto di sforzando. Bernard aveva invece l’abitudine di suonare la melodia con la mano sinistra mentre tesseva una filigrana di contrappunto con la destra; per un po’ questo fece furore, poiché suonava abbastanza bene a orecchie non abituate a procedimenti musicali più sofi­ sticati. Il contributo di Confrey è stato più duraturo, in quanto alcune delle sue figurazioni pianistiche si sono affermate nella musica americana impegnata. A tutti questi predecessori io sono debitore; certi effetti che realizzo nelle mie trascrizioni derivano dalla loro maniera di suonare il pianoforte [...].5

A questi nomi (che, come si può notare, si riferiscono tutti ad artisti bianchi, con la sola eccezione di Luckey Roberts) Gershwin avrebbe dovuto aggiungere perlomeno quello di James P. Johnson (e, in misura minore, di “Fats” Waller e di Willie “The Lion” Smith), il caposcuola dello stride piano che le testimonianze dell’epoca concordano nel rite­ nere il vero dominatore della scena pianistica newyorkese durante tutti gli anni Venti e i primi anni Trenta. Come vedremo, infatti, anche gli stilemi dello stride e di Johnson affiorano un po’ ovunque nel pianismo “jazz” di Gershwin, al punto tale da costituire, insieme al novelty rag­ time, la struttura portante del suo vocabolario. Come è noto, negli anni del suo apprendistato musicale Gershwin ebbe modo di ascoltare musica in quantità. La fiorente vita musicale di New York e il carattere cosmopolita di questa città gli permisero di accostarsi

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ai più svariati generi musicali, da cui egli trasse poi ispirazione. Per quanto concerne più in particolare il pianoforte “jazz” e popular nella Big Apple tra l’inizio del secolo e la prima metà degli anni Trenta, gli stili più in voga furono il ragtime, il fast-shout, il novelty ragtime e lo stride piano. E importante tenere presente che i pianisti newyorkesi avevano dato vita a scuole ben distinte tra loro. I pianisti bianchi perpetuarono il rag­ time e crearono il novelty ragtime, quelli neri furono gli artefici deljWshout e della sua conseguente evoluzione, lo stride piano di Harlem. Giovane dalla mentalità aperta e privo di pregiudizi razziali, Gershwin si recava spesso ad Harlem, nei localini che facevano musica e ai rent parties8 per ascoltare e osservare da vicino i pianisti fast-shout e stride come Luckey Roberts, James P. Johnson, Donald Lambert, Willie “The Lion” Smith e “Fats” Waller che si impegnavano in interminabili sfide musicali (i cutting contest ) che privilegiavano il virtuosismo e la capacità improvvisativa7. Come riferiscono unanimamente le fonti, il campionejncontrastato del pianismo afro-americano degli anni Dieci a New York fu Charles Luckeyeth “Luckey” Roberts (Philadelphia, 1887/New York, 1968), mas­ simo esponente (insieme a Eubie Blake di Baltimora) del cosiddetto fastshout, uno stile di transizione tra il vecchio ragtime dell’Est e lo stride piano degli anni Venti8. Ci pare opportuno accennare alla carriera di Roberts9 in quanto presenta varie affinità con quella di Gershwin, di cui fu un importante ispiratore. Pianista virtuoso, dotato di mani enormi (capaci di prendere una quattordicesima sulla tastiera), Roberts fu il modello di un’intera generazione di pianisti di colore, e pare anche che abbia insegnato personalmente a Gershwin10. Con i suoi formidabili Nothin', Pork and Beans, Spanish Fandango, Railroad Blues e Spanish Venus, Roberts dominò la scena pianistica “jazz” dell’area di New York dal 1908 al 1916 (anno che vide l’ascesa di James P. Johnson), e già a par­ tire dal 1910 suonava nei migliori club della città, come il Little Savoy. Nel decennio successivo fu attivissimo come leader di orchestre di musica sincopata che suonavano ai ricevimenti dati dalle grandi famiglie (i Van­ derbilt, i Gould, gli Astor, ecc...) della high-society a Palm Beach, New­ port e New York. “Perforò” rulli di pianola, riuscì a farsi pubblicare proprie composizioni pianistiche (sebbene in forma ultrasemplificata) e scrisse qualche motivo di successo. Analogamente a Gershwin, anche Roberts fu compositore per Broadway (a partire dal 1911 scrisse le musi­ che di almeno quattordici riviste) e nutrì delle aspirazioni “colte”, ten­ tando la via del “jazz sinfonico” con brani per pianoforte e orchestra come la Spanish Suite: Spanish Venus, Spanish Fandango, Porto Rico Maid e Whistlin' Pete-Miniature Syncopated Rhapsody (entrambi del 1939 circa)11. Il possente e atletico pianismo fast-shout di Roberts, caratterizzato da grandi sonorità e dallo sfruttamento completo della tastiera, costituì

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certamente una delle prime e più importanti fonti d’ispirazione per Ger­ shwin. Fu Roberts (insieme a Eubie Blake) a introdurre nel pianismo “jazz” e popular degli anni Dieci una concezione “orchestrale”, basata su grandi salti e ampi intervalli, con un diffuso utilizzo delle decime e di accordi disposti in posizione lata12. Come è noto, questa imposta­ zione “a tutta tastiera” è caratteristica del pianismo di Gershwin, così ricco e spesso impegnativo per l’esecutore. Ed è anche al clima, allo spi­ rito infuocato e un po’ selvaggio della musica di Luckey Roberts che sono improntate varie pagine pianistiche di Gershwin, come il rag gio­ vanile Rialto Ripples (1916), svariati piano rolls, l’incisione in assolo (1928) di My One and Only, l’arrangiamento di Swanee incluso nel Song-Book, e ancora il terzo dei Preludes for Piano1*. Il primo Prelude, poi, è tutto imperniato su un ritmo di tango-habanera (cfr. es. 1), lo stesso del pos­ sente Spanish Fandango (composto intorno al 1908) di Luckey Roberts14 (cfr. la nostra trascrizione nell’es. 2). Al contempo è evidente come in questa pagina Gershwin trascenda in modo decisivo l’influenza di Roberts grazie a un maggiore talento melodico, a una più raffinata e moderna sensibilità armonica, alla capacità infine di stilizzare e variare in modo sottile la figurazione di base (3 + 3 + 2) dell’accompagnamento. Es. 1. George Gershwin, Preludio n. 1, batt. 6-14 (da George Gershwin, Pre­ ludes for Piano, New York, New World Music Corp. 1927).

sa.

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Es. 2. Luckey Roberts, Spanish Fandango, batt. 1-5 dello strain Bn 18 marzo 1958 (Good Time Jazz S 10035).

Questa stessa notevole capacità di assimilazione e stilizzazione si ritrova in quella pagina affascinante che è il secondo dei Preludes for Piano. Si tratta di un blues in piena regola, “filtrato0 però attraverso una sen­ sibilità e un approccio decisamente “bianchi0. Ciò che ne risulta è un qualcosa del tutto personale e innovativo rispetto agli standard dell’e­ poca. Come si può notare nell’es. 3, infatti, la melodia è squisitamente blues, ma l’accompagnamento è in minore, e tra l’altro nella inusitata (per un blues) tonalità di Do diesis minore15. Gli intensi cromatismi determinano inoltre una sottile ambiguità tra il modo minore e quello mag­ giore. La figurazione dell’accompagnamento, per la quale si è parlato di affinità con il Preludio in do minore op. 28, n. 2 di Chopin (cfr. cap. Ili), può anche essere intesa, nella sua ciclicità, come una trasfigurazione cro­ matica di un classico modulo di accompagnamento blues-stride (cfr. ess. 5 e 6), del quale avremo modo di parlare più avanti. Dal punto di vista ritmico, infine, le crome di questo brano non sono articolate secondo