Diritto sindacale
 9788892111127, 8892111124

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Capitolo 1 I RAPPORTI COLLETTIVI: LIBERTÀ, ORGANIZZAZIONE, RAPPRESENTANZA
Capitolo 2 LE FONTI
Capitolo 3 L'AUTOTUTELA E IL CONFLITTO COLLETTIVO

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DIRITTO SINDACALE

In copertina: Dalla prima pagina della Domenica del Corriere (8 aprile 1900).

ORONZO MAZZOTTA

DIRITTO SINDACALE Quarta edizione

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-1112-7

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

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Indice

INDICE

pag.

CAPITOLO I I RAPPORTI COLLETTIVI: LIBERTÀ, ORGANIZZAZIONE, RAPPRESENTANZA

Sezione I. La libertà sindacale 1. 2. 3. 4. 5.

Di cosa si occupa il diritto sindacale Breve profilo evolutivo della libertà sindacale La libertà sindacale nelle fonti internazionali e dell’UE La libertà sindacale nella Costituzione: significato e funzioni La tutela della libertà sindacale nei confronti del datore di lavoro: il principio di non discriminazione ed il divieto dei sindacati di comodo 6. L’«altra» libertà sindacale: imprenditori e lavoratori autonomi; polizia e militari

1 3 4 5 8 11

Sezione II. L’associazione sindacale 1. Struttura giuridica: i sindacati come associazioni non riconosciute 2. La democrazia sindacale all’interno delle associazioni 3. I rapporti esterni

14 16 18

Sezione III. Il sindacato in Italia 1. Breve profilo storico: alle origini dell’associazionismo sindacale 2. Le forme organizzative del sindacato

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pag. 3. L’organizzazione sindacale dei datori di lavoro 4. Gli enti bilaterali

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Sezione IV. La rappresentatività sindacale 1. Pluralismo sindacale e selezione dei soggetti: a cosa serve la rappresentatività? 2. La variabile nozione di «sindacato maggiormente rappresentativo» e gli indici della rappresentatività

30 32

Sezione V. Sindacato e funzioni pubbliche 1. La partecipazione del sindacato a funzioni pubbliche 2. La concertazione sociale

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Sezione VI. La rappresentanza e i diritti sindacali nei luoghi di lavoro A) La rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro

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1. L’assetto storico pre-statutario 2. L’autunno caldo e lo statuto dei lavoratori 3. Le rappresentanze sindacali aziendali nell’art. 19 dello statuto dei lavoratori 4. I locali delle r.s.a. 5. Il diritto di affissione 6. Permessi e aspettative sindacali 7. La tutela dei sindacalisti interni 8. Oltre le r.s.a.: le rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.) 9. La rappresentanza sindacale nel pubblico impiego 10. Il rappresentante per la sicurezza: rinvio 11. La partecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese

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B) I diritti sindacali nei luoghi di lavoro

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12. L’assemblea 13. Il referendum 14. L’attività di proselitismo e la raccolta dei contributi sindacali

69 71 72

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pag.

Sezione VII. Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale 1. 2. 3. 4.

L’art. 28 dello statuto dei lavoratori: il procedimento La legittimazione attiva e passiva e l’interesse ad agire La nozione di condotta antisindacale La condotta antisindacale nel pubblico impiego

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CAPITOLO II LE FONTI

Sezione I. Concetti generali 1. Alle origini della formazione extra-legislativa del diritto del lavoro: fra statualità e socialità 2. L’internazionalizzazione delle regole e la globalizzazione versus la regionalizzazione ed il federalismo

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Sezione II. Il contratto collettivo 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Le origini e le prime ricostruzioni Il contratto collettivo corporativo La fase transitoria L’assetto costituzionale L’inattuazione post-costituzionale e la legge Vigorelli Il contratto collettivo di diritto comune: il problema dell’efficacia soggettiva Le tecniche di estensione dell’efficacia del contratto collettivo al di fuori del vincolo associativo L’inderogabilità del contratto collettivo Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti Il contratto collettivo: natura, tipologie, soggetti, forma Le funzioni del contratto collettivo L’efficacia del contratto collettivo nel tempo Contratto collettivo e processo: interpretazione e amministrazione del contratto collettivo

93 95 97 98 101 105 107 112 115 119 129 132 134

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pag.

Sezione III. I rapporti tra le fonti 1. Contratto collettivo e contratto individuale 2. Il contratto collettivo e la legge 3. Rapporti fra contratti collettivi

140 142 148

Sezione IV. La contrattazione collettiva in Italia ed il dialogo sociale europeo 1. La contrattazione collettiva in Italia: breve profilo evolutivo 2. Il dialogo sociale europeo e la recezione delle direttive attraverso il contratto collettivo

152 161

Sezione V. Il contratto collettivo nel pubblico impiego 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Premessa e rinvio Il sistema della contrattazione collettiva nel settore pubblico Le parti della contrattazione collettiva Le procedure di contrattazione Sguardo d’insieme e problemi di costituzionalità L’interpretazione dei contratti collettivi pubblici

164 166 168 171 174 176

CAPITOLO III L’AUTOTUTELA E IL CONFLITTO COLLETTIVO

Sezione I. Concetti generali 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Le alterne vicende giuridiche dello sciopero La Costituzione repubblicana e lo sciopero Il diritto di sciopero: natura e titolarità Sciopero e rapporto di lavoro La legittimità dello sciopero in relazione alle sue modalità La legittimità dello sciopero in relazione alle sue finalità L’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali 8. La determinazione delle prestazioni indispensabili ad opera dei contratti collettivi

179 182 185 188 190 194 197 201

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IX

pag. 9. 10. 11. 12.

La Commissione di garanzia La precettazione ed il ruolo delle associazioni degli utenti Le altre forme di lotta sindacale La serrata

203 207 210 212

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Diritto sindacale

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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CAPITOLO I

I RAPPORTI COLLETTIVI: LIBERTÀ, ORGANIZZAZIONE, RAPPRESENTANZA Sezione I. La libertà sindacale SOMMARIO: 1. Di cosa si occupa il diritto sindacale. – 2. Breve profilo evolutivo della libertà sindacale. – 3. La libertà sindacale nelle fonti internazionali e dell’UE. – 4. La libertà sindacale nella Costituzione: significato e funzioni. – 5. La tutela della libertà sindacale nei confronti del datore di lavoro: il principio di non discriminazione ed il divieto dei sindacati di comodo. – 6. L’«altra» libertà sindacale: imprenditori e lavoratori autonomi; polizia e militari.

1. Di cosa si occupa il diritto sindacale Il diritto sindacale – al pari della restante parte del diritto del lavoro – accede alla modernità. Anch’esso si sviluppa parallelamente all’evoluzione dei rapporti socio-economici che porta l’assetto economico dal sistema dell’economia curtense all’industrialismo. È dunque anch’esso figlio del sistema il cui epicentro è la fabbrica. Il fulcro del suo specifico interesse ruota intorno alle regole che lo Stato o le parti sociali stesse pongono in essere per disciplinare le relazioni fra i soggetti collettivi, rappresentativi degli interessi che ruotano intorno ai rapporti di lavoro subordinato.

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Diritto sindacale

Mentre protagonisti del diritto del contratto individuale di lavoro (o diritto del lavoro tout court) sono datore di lavoro e lavoratore, protagonisti del diritto sindacale sono invece i soggetti collettivi (le associazioni sindacali dai lavoratori, gli organismi di rappresentanza dei datori di lavoro, ecc.). Come oggetto dello studio del diritto del lavoro è il contratto individuale di lavoro, così oggetto del diritto sindacale sono i contratti collettivi, che sono fonti di regolamentazione dei contratti individuali di lavoro. Infine il diritto sindacale si occupa degli strumenti di autotutela (sciopero e serrata) che costituiscono mezzi di pressione nei confronti della controparte per ottenere una modifica dei patti esistenti. Una caratteristica peculiare di questa parte dell’ordinamento è che gran parte dei comportamenti dei protagonisti si realizza sul piano dei rapporti sociali in via di fatto, attraverso regole che vengono poste dalle stesse parti in conflitto, cosicché il diritto sindacale costituisce il prototipo dell’autonomia e della preesistenza della regolazione proveniente dai corpi sociali rispetto a quella calata dall’alto di origine statuale. Non è casuale che, in ragione di tali caratteristiche, sia stata elaborata la teorica dell’ordinamento intersindacale (Giugni), con l’intento di trapiantare sul terreno dei rapporti collettivi la più generale ed antica intuizione della pluralità degli ordinamenti giuridici. Ed in effetti significative applicazioni di tale concettualizzazione possono riscontrarsi nella diversa valutazione che di un medesimo comportamento può essere operata all’interno dell’ordinamento sindacale e di quello statuale (qualche esemplificazione verrà fatta nel corso della trattazione). Ad esaltare il profilo della prassi e dell’effettività, caratteristico del diritto sindacale, vale l’ulteriore constatazione secondo cui il nostro legislatore si è astenuto dal dare attuazione alle regole costituzionali che costituiscono il fulcro del diritto sindacale: la contrattazione collettiva con efficacia generalizzata e la limitazione dello sciopero (salvo l’intervento del 1990 in materia di servizi essenziali). Di qui l’ulteriore carattere della disciplina consistente nel significativo ruolo di supplenza svolto,

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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anche per l’inquadramento giuridico di profili cruciali della disciplina, dalla giurisprudenza ordinaria e costituzionale e, perché no?, dalla dottrina.

2. Breve profilo evolutivo della libertà sindacale Il nostro sistema giuridico, come accade in tutti i paesi democratici, si caratterizza per il pluralismo sindacale. Tale principio postula che possano essere liberamente costituite associazioni di tutela degli interessi delle varie categorie di lavoratori (subordinati, autonomi e/o parasubordinati). Storicamente – come tutti sanno – non è stato sempre così. I conflitti sociali che hanno fatto seguito all’industrialismo sono stati per lungo tempo oggetto di repressione da parte degli stati. Per quanto ci riguarda ricordiamo che il codice penale sardo del 1859 (esteso al resto del paese dopo l’unità, con l’eccezione della Toscana) incriminava penalmente ogni forma di coalizione sia dei datori di lavoro che dei lavoratori (artt. 385 e 386). Va da sé che l’equidistanza punitiva sfavorisse assai più l’associazionismo operaio che la posizione datoriale. Al periodo di repressione legale fece seguito una fase di tolleranza penale con il codice Zanardelli del 1889. La repressione infatti si indirizzava, non alle forme di lotta sociale in sé (sciopero e serrata), ma alle eventuali violenze o minacce ad esse connesse ed, in quanto tali, impeditive della libertà di lavoro (v. gli artt. 165-166). Il fenomeno sindacale ed il conflitto collettivo non furono peraltro mai oggetto di intervento normativo nel corso del primo ventennio del Novecento e fino all’avvento del fascismo. Il regime fascista si caratterizzò per una svolta radicale: esso intese dare risposta ai conflitti collettivi ed alla questione sociale attraverso una forma di corporativismo autoritario, che interruppe bruscamente lo sviluppo della democrazia industriale e le forme volontarie di evoluzione delle istituzioni sindacali.

Il periodo della repressione

Il periodo della tolleranza

Il corporativismo fascista

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Il dopoguerra

Diritto sindacale

La l. 3 aprile 1926, n. 563 si incaricò, nella sostanza, più che nella forma, di bandire la libertà sindacale. In astratto infatti si ammetteva siffatta libertà, ma nei fatti si negava il pluralismo sindacale, dal momento che un solo sindacato di diritto pubblico per ciascuna categoria produttiva (sia per i datori che per i lavoratori) poteva ottenere il riconoscimento legale dal governo. Il sindacato aveva per legge la rappresentanza istituzionale dei lavoratori operanti in ciascuna categoria e stipulava contratti collettivi generalmente obbligatori ed in quanto tali inseriti nel sistema delle fonti (v. successivamente l’art. 1 delle preleggi). Faceva da sfondo e da cornice al sistema la repressione penale del conflitto collettivo (sciopero e serrata). Caduto il fascismo, con il r.d.l. 9 agosto 1943 vennero soppresse le istituzioni del corporativismo, mentre vennero lasciate in vita e commissariate le organizzazioni sindacali di diritto pubblico. La fase transitoria ebbe termine con il d.lgt. 23 novembre 1944 n. 369 che dispose lo scioglimento dei sindacati fascisti e mantenne in vigore le norme dei contratti collettivi corporativi, fatte salve le successive modifiche, al fine di non pregiudicare la posizione dei lavoratori.

3. La libertà sindacale nelle fonti internazionali e dell’UE

Le Convenzioni dell’OIL

A parte la fondamentale indicazione di cui al 1° comma dell’art. 39 Cost., su cui si tornerà più oltre, la libertà sindacale è evocata in una serie di fonti internazionali e dell’UE. Un significato storico hanno le Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.L.) 17 giugno 1948, n. 87 e 8 giugno 1949, n. 98, ratificate con l. 23 marzo 1958, n. 367. La prima ha ad oggetto la protezione dei diritti di libertà sindacale (costituzione ed adesione a sindacati, divieto di intrusione dello stato nella vita interna dell’associazione, ecc.) nei confronti delle amministrazioni statali. La seconda riguarda invece la protezione dei lavoratori contro discriminazioni provenienti dai datori di lavoro, per ragioni di rappresaglia sindacale.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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In materia vanno segnalate altresì la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, ratificata con l. n. 848/1955 (v. segnatamente l’art. 11), la Carta sociale europea del 1961, ratificata con 1. 929/1965 (v. gli artt. 5 e 6). Per la disciplina europea è sufficiente evocare, da ultimo, gli artt. 12 e 28 della Carta dei diritti fondamentali (c.d. Carta di Nizza). È peraltro ben noto e pacifico il limite sostanziale delle fonti descritte. Da una parte si tratta di raccomandazioni rivolte agli stati, dirette ad impegnare questi ultimi a disporre le opportune iniziative legislative per garantire la protezione dei beni presi in considerazione. Sotto altro profilo si tratta comunque di affermazioni generalissime e di principio, di carattere programmatico, che hanno bisogno di specifiche strumentazioni che possano garantire in termini di effettività l’affermazione di quei valori. Non a caso, nel nostro ordinamento, è solo con lo statuto dei lavoratori del 1970 che, come vedremo, si è provveduto a tradurre in divieti specifici il programma contenuto nel 1° comma dell’art. 39 Cost., rafforzando tali divieti con sanzioni ed apposite strumentazioni (anche) di carattere processuale.

La disciplina europea

4. La libertà sindacale nella Costituzione: significato e funzioni L’incipit dell’art. 39 Cost. è di rara efficacia espressiva, se pure con il minimo impiego di parole: «l’organizzazione sindacale è libera». Si tratta infatti di una indicazione densa di significati e nelle più disparate direzioni. Intanto occorre rilevare che la tutela della libertà sindacale si iscrive nel più ampio contesto della protezione delle libertà civili e della libertà di associazione in particolare, protetta dall’art. 18 Cost. Peraltro la necessità di prevedere una norma ad hoc per la libertà sindacale esprime la direttiva dei costituenti

Libertà di associazione e libertà propriamente sindacale

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Diritto sindacale

di valorizzare il fenomeno sindacale e la libera articolazione da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni di tutti gli strumenti necessari per la sua realizzazione. Il proprium del carattere sindacale della libertà non è evidentemente definito nella disposizione costituzionale. Come avviene in generale per le libertà civili la Costituzione rinvia alla realtà sociale l’individuazione del contenuto e della sua latitudine. In linea di grande approssimazione si può dire che è sindacale l’attività e/o l’organizzazione che è rivolta alla protezione degli interessi collettivi che gravitano intorno ai rapporti che hanno ad oggetto il lavoro umano. È dunque lo scopo dell’attività che ne circoscrive il suo carattere sindacale. Il rinvio alla realtà sociale implica che i confini della libertà (di attività e organizzazione) sindacale siano assai mobili. Per fare un esempio deducibile dalla nostra storia recente il sindacato negli anni settanta ha inteso allargare gli spazi della propria presenza nella società, estendendo la propria competenza fino a ricomprendere la tutela di interessi solo indirettamente connessi con la posizione del lavoratore (il diritto alla casa, il diritto all’istruzione): si è parlato, con riferimento a tali fenomeni, di pansindacalismo, alludendo alla propensione delle organizzazioni sindacali ad invadere territori tipicamente rimessi alla mediazione dei partiti politici. Si tratta peraltro di un effetto necessariamente indotto dall’ampiezza del concetto e dalla mutevolezza degli assetti della società civile. Resta quale confine esterno della nozione il riferimento alla autotutela di interessi collettivi dei lavoratori, i quali ultimi devono essere i promotori, in quanto tali, delle forme organizzative: vi deve essere cioè un collegamento specifico e puntuale fra la rappresentanza delle categorie lavoratrici e l’attività di autotutela svolta dall’organizzazione. Inoltre i soggetti rappresentativi, investiti dai lavoratori, devono avvalersi degli strumenti classici dell’azione sindacale, quali lo sciopero, la partecipazione alla contrattazione collettiva, le assemblee nei luoghi di lavoro, ecc.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Sul piano individuale l’affermazione della libertà sindacale implica anzitutto una libertà positiva, che si realizza attraverso la libertà di costituire sindacati, di aderirvi, di svolgere attività di proselitismo, di raccolta di contributi sindacali, ecc. Tradizionalmente si riconosce poi che il concetto dà spazio anche alla libertà sindacale negativa, che comprende il diritto del singolo di non aderire ad un sindacato e di cessare liberamente di farne parte. Il che implica che nel nostro ordinamento non potrebbero in alcun modo aver corso ipotetiche discipline legislative che, per promuovere l’attività sindacale, condizionassero, ad es., l’assunzione dei lavoratori alla circostanza che costoro fossero iscritti o non iscritti ad un sindacato (c.d. clausole di closed shop o di «sicurezza sindacale», diffuse nei paesi anglosassoni). Sul piano collettivo il principio di l.s. implica la libertà di organizzazione del sindacato, con il corollario della libertà delle forme concrete di organizzazione, della disciplina interna, delle finalità e delle strumentazioni, al di fuori di ogni intrusione dall’esterno. Il collegamento con il successivo art. 40 Cost. consente poi di rilevare che l’affermazione della libertà dell’organizzazione implica altresì quella della libertà di azione sindacale, a tutela degli interessi collettivi, con un evidente riferimento alla libertà di contrattazione collettiva (v. nelle fonti internazionali l’esplicito riferimento alla libertà di contrattazione di cui alla Conv. OIL n. 98 ed all’art. 28 della Carta di Nizza). Il riconoscimento di tale libertà non implica il suo necessario rovescio e cioè la riserva di contrattazione a favore dei sindacati: più volte infatti la Corte costituzionale ha avuto l’occasione di ribadire l’esclusione della vigenza di siffatta riserva nel nostro ordinamento (v. comunque infra: Cap. II, Sez. IV, par. 1). La libertà sindacale ha un’ampia latitudine. In primo luogo si estende ai rapporti con i pubblici poteri, sancendo la notevole distanza fra la Costituzione repubblicana ed il previgente ordinamento corporativo. Su questo piano il principio impedisce ogni intrusione e/o controllo dello stato nei confronti dell’organizzazione sindacale così come esclude ogni spazio per inter-

Libertà sindacale positiva e negativa

Libertà di organizzazione ed azione sindacale

Libertà sindacale e pubblici poteri

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Diritto sindacale

venti autoritativi che condizionino l’azione sindacale. Va da sé che tale affermazione non implica che fra gli attori sociali (stato ed organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori) non possano intercorrere rapporti concertativi che impongano vincoli e condizioni all’azione sindacale, in vista del raggiungimento di determinati obiettivi di benessere generale della collettività. Si tratta delle tecniche di concertazione (o negoziazione legislativa) da tempo invalse, nel nostro come negli altri ordinamenti democratici, in relazione all’assetto complessivo dell’economia (sul punto si tornerà più oltre). Altra e diversa questione è quella che riguarda la possibilità che la legge intervenga a modificare o limitare specifici accordi sindacali. In tali situazioni non viene in evidenza una limitazione (astratta e generale) del potere contrattuale delle organizzazioni sindacali (l’attività), ma solo la limitazione di diritti previsti sul piano negoziale (gli atti). Anche su tale aspetto della vicenda si tornerà più oltre, nell’ambito della trattazione del tema dei rapporti fra legge e contratto collettivo (v. infra, Cap. II, Sez. III, par. 2).

5. La tutela della libertà sindacale nei confronti del datore di lavoro: il principio di non discriminazione ed il divieto dei sindacati di comodo

Il ruolo dello statuto dei lavoratori

Oltre che verso lo stato la libertà sindacale è garantita anche nei confronti del datore di lavoro. Su questo piano dato il contenuto programmatico della disposizione costituzionale gioca un ruolo essenziale la complessiva regolamentazione contenuta nello statuto dei lavoratori (1. 20 maggio 1970, n. 300), che dedica proprio alla «libertà sindacale» un apposito Titolo (il secondo). Come vedremo ampiamente nel corso della trattazione lo statuto dei lavoratori si caratterizza proprio per aver garantito in termini di effettività quanto le disposizioni costituzionali prevedevano sul piano generale dei principi.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Lo statuto ha anzitutto istituzionalizzato la presenza del sindacato nell’impresa attraverso la prefigurazione di una forma di rappresentanza (la r.s.a.), così favorendo un controllo diretto delle organizzazioni sindacali sui comportamenti datoriali in violazione dei diritti dei lavoratori e dei sindacati (v. infra, Sez. VI in questo capitolo). Ha poi costruito uno speciale procedimento giurisdizionale d’urgenza con cui le organizzazioni sindacali possono reagire nei confronti di attività antisindacali del datore di lavoro ed ottenere rapidamente la ricostituzione della «normalità» sindacale nell’impresa (art. 28 dello statuto dei lavoratori; su cui v. infra, Sez. VII in questo capitolo). Ha infine ribadito ed articolato in modo più puntuale la vigenza del principio di non discriminazione avendo specifico riguardo alle discriminazioni connotate da antisindacalità. Vengono, a questo proposito, in evidenza le disposizioni degli artt. 14, 15 e 16 dello statuto dei lavoratori. L’art. 14 si occupa, in generale, di ribadire il principio, secondo cui i lavoratori hanno diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale (anche) all’interno dei luoghi di lavoro. L’art. 15 pone un generale divieto di atti discriminatori, considerando per tale ogni atto o patto diretto sia a subordinare l’occupazione alla condizione che il lavoratore aderisca o non aderisca ad un sindacato o cessi di farne parte (dando rilievo alla c.d. libertà negativa) sia a discriminarlo in ogni fase della sua vicenda lavorativa (assegnazione di mansioni, inflizione di sanzioni disciplinari, trasferimento licenziamento, ecc.). Da notare che – quale ulteriore garanzia di effettività – le norme dello statuto si riferiscono ad ogni atto di gestione del rapporto (atto o patto) ed anche a comportamenti della vita di relazione, in altri contesti irrilevanti per il diritto, ma che assumono i tratti della discriminatorietà ed illiceità, proprio per la loro direzione antisindacale (v. amplius la trattazione relativa all’art. 28 statuto dei lavoratori: infra, Sez. VII). Tali atti o comportamenti – se posti in essere – vanno considerati giuridicamente nulli, con la conseguenza che va ripristinata la situazione quo ante.

Il diritto di costituire associazioni sindacali Il divieto di discriminazioni per ragioni sindacali

10 Il divieto di trattamenti collettivi discriminatori

Il divieto di sindacati di comodo

Diritto sindacale

Alla stessa stregua, all’art. 16, lo statuto vieta la concessione di trattamenti economici collettivi di maggior favore di carattere discriminatorio. La medesima norma attribuisce poi ai lavoratori discriminati e/o alle associazioni sindacali il potere di adire, con uno speciale procedimento giurisdizionale, il giudice del lavoro, per ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento, a titolo sanzionatorio, al Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, di una somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno. Non si può sottacere comunque che mancano, pressoché del tutto, riscontri giurisprudenziali sulle norme in questione, a conferma della loro sostanziale inattuazione, che è un indizio della difficoltà a realizzare una efficace politica antidiscriminatoria, difficoltà che scontano anche le norme sulle discriminazioni c.d. «di genere». L’art. 17 dello statuto dei lavoratori infine vieta ai datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori. Si tratta quanto a questi ultimi di quelli che vengono definiti sindacati di comodo (o sindacati gialli), organizzazioni che fintamente tutelano i lavoratori, ma che, nella realtà, subiscono l’influenza del datore di lavoro, che ne orienta l’attività nel proprio interesse. È evidente che nella realtà ben difficilmente si presenterà la situazione in cui il datore di lavoro platealmente costituisca un soggetto sindacale. Più spesso sarà necessario provare forme – più o meno occulte – di influenza dominante, sostegno o collusione. Lo strumento-principe per costruire una reazione avverso la violazione dell’art. 17 è il ricorso al procedimento di repressione dell’attività antisindacale del datore di lavoro (su cui v. infra, Sez. VII in questo capitolo). Con tale procedimento le organizzazioni sindacali genuine, danneggiate dall’attività svolta dal «finto» sindacato, possono chiedere la cessazione del comportamento antisindacale del datore e la rimozione degli effetti. È peraltro discusso e discutibile che tra gli effetti da rimuovere possa essere collocato anche il provvedimento di scioglimento del sindacato «giallo». In contrario militano sia la circo-

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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stanza che tale soggetto è estraneo rispetto ai contendenti della procedura di cui all’art. 28 (ed è ben noto che i provvedimenti giurisdizionali solo in casi tassativi possono produrre effetto verso terzi) sia la generale protezione della libertà di associazione che è comunque garantita dall’art. 18 Cost. Mette conto infine rilevare in generale – anche se può sapere di ovvio – che la normativa di tutela della libertà sindacale non è tale da escludere la dialettica fra diritti sindacali dei lavoratori e contrapposte posizioni di diritto dell’impresa. È quasi inutile sottolineare a questo proposito – anche se la materia nel corso dei caldi anni settanta è stata oggetto di discussioni e polemiche, in gran parte nominalistiche – che l’affermazione della libertà associativa sindacale lascia intatto l’esercizio delle prerogative datoriali. Il che significa, ad es., che l’attività di proselitismo sindacale, come la raccolta dei contributi, ma anche le forme di manifestazione del pensiero non possono svolgersi in contrapposizione all’attività produttiva, interrompendo il lavoro dei colleghi o disturbandone altrimenti l’attività. Anche le manifestazioni della libertà sindacale devono quindi essere contemperate con il diritto di libera esplicazione della libertà di impresa, che riceve, parimenti, una tutela costituzionale nell’art. 41.

6. L’«altra» libertà sindacale: imprenditori e lavoratori autonomi; polizia e militari Si è discusso a lungo intorno al problema della unilateralità della tutela della libertà sindacale nell’art. 39 Cost. La contrapposizione si pone fra chi ritiene che la norma costituzionale si riferisca esclusivamente alla l.s. dei lavoratori subordinati, con esclusione di quella degli imprenditori, che rientrerebbe nella più generale protezione accordata dall’art. 41 alla liberà di iniziativa economica privata e chi invece assume che anche la libertà sindacale dei datori di lavoro riceva accoglienza nell’art. 39. Si tratta di una contrapposizione che pecca di ideologismo. Ammettere infatti – come sembra ragionevole – che l’art. 39,

La libertà sindacale del datore di lavoro

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La titolarità della libertà sindacale: a) i lavoratori parasubordinati ed autonomi

Diritto sindacale

1° comma si riferisca anche alla libertà sindacale dei datori di lavoro (i quali nella realtà di fatto si associano e svolgono attività sindacale) non significa contestualmente riconoscere che la Costituzione assume un atteggiamento di equidistanza fra le due diverse classi sociali (dei datori e dei lavoratori). Tale affermazione di principio è dunque perfettamente compatibile con una legislazione che – come si è storicamente verificato – si proponga il sostegno e la promozione dell’attività sindacale dei (soli) lavoratori. Così come è altrettanto compatibile con l’idea che il sostegno all’attività sindacale dei lavoratori rappresenti proprio uno dei contrappesi prefigurati dall’art. 41 Cost. nei confronti della libertà d’impresa. Venendo alla questione della titolarità della libertà sindacale da parte dei lavoratori, scontato l’ovvio riferimento ai lavoratori subordinati, l’ampliamento dei soggetti potenzialmente titolari va di pari passo con la c.d. tendenza espansiva del diritto del lavoro. Quest’ultimo – come vedremo più avanti – ha via via esteso porzioni di disciplina anche a soggetti qualificabili giuridicamente come lavoratori autonomi e/o piccoli imprenditori: è il caso dei lavoratori parasubordinati, in genere, ed in specie degli agenti e rappresentanti di commercio, dei medici convenzionati con il s.s.n., degli artigiani, dei coltivatori diretti, affittuari e coloni, ecc. Del resto tali soggetti fanno concreto uso di tale libertà – sul piano del diritto vivente – associandosi in organizzazioni rappresentative dei loro interessi, che sottoscrivono i contratti o accordi collettivi che regolano i rispettivi rapporti di lavoro. L’estensione della libertà sindacale anche a tali soggetti, oltre che discendere dalla medesima ratio di tutela che ha consigliato al legislatore l’estensione di parte della disciplina lavoristica, è stata anche indirettamente riconosciuta dalla giurisprudenza in materia di sciopero. Si pensi alla qualificazione come sciopero della «serrata dei piccoli imprenditori», privi di lavoratori dipendenti, operata dalla Corte costituzionale (v. Corte cost., 222/1975) o anche al riconoscimento della titolarità del diritto di sciopero in capo ai medici convenzionati con il s.s.n. (v. Cass. n. 3278/1978) (in argomento v. comunque infra, Cap. III, par. 3).

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Titolari della libertà sindacale sono anche i pubblici dipendenti. Di fatto il sindacalismo nella p.a. è da tempo presente e tale presenza è testimoniata sia dalla partecipazione del sindacato a vari organi di gestione di pubbliche istituzioni sia dall’attività contrattuale svolta prima in modo informale e successivamente – a seguito della c.d. contrattualizzazione del pubblico impiego – sulla base di regole rigorosamente predeterminate. A definitivo suggello della presenza sindacale nel pubblico impiego vi è ora l’art. 42 del d.lgs. n. 165/2001 che ha esteso a tale ambito i diritti e le guarentigie sindacali di cui allo statuto dei lavoratori. Una limitata estensione delle libertà sindacali è stata introdotta a favore del personale della polizia di stato, a seguito della smilitarizzazione prevista con la l. n. 121/1981. Il personale di p.s. può «associarsi in sindacati» (art. 82 della legge). Peraltro l’iscrizione è limitata esclusivamente ai sindacati di categoria, i quali non possono rappresentare altri lavoratori. E ciò proprio perché si vuole tenere rigorosamente separato il sindacalismo specifico da quello generale (e/o confederale). Permane invece tuttora il divieto di sindacalizzazione per i militari, ai quali è inibito non solo l’esercizio del diritto di sciopero, ma anche la costituzione di associazioni sindacali nonché l’adesione ad altre associazioni sindacali (v. l’art. 1475 del d.lgs. n. 66/2010, contenente il codice dell'ordinamento militare).

b) i pubblici dipendenti

c) il personale di polizia ed i militari

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Diritto sindacale

Sezione II. L’associazione sindacale SOMMARIO: 1. Struttura giuridica: i sindacati come associazioni non riconosciute. – 2. La democrazia sindacale all’interno delle associazioni. – 3. I rapporti esterni.

1. Struttura giuridica: i sindacati come associazioni non riconosciute La mancata attuazione dell’art. 39 Cost.

I sindacati come associazioni non riconosciute

I padri costituenti – come vedremo ampiamente più avanti – avevano costruito, con l’art. 39, seconda parte (2°, 3° e 4° comma), un sistema nel quale l’estensione erga omnes dei contratti collettivi avrebbe dovuto essere realizzata sul presupposto del riconoscimento delle associazioni sindacali, con l’attribuzione a tali associazioni della personalità giuridica (restando aperta l’opzione circa la natura pubblica o privata della personalità). La storia si è però mossa in direzione diversa: il sistema costituzionale di estensione generale dell’efficacia dei contratti collettivi non ha mai trovato attuazione. Il diritto sindacale, nel suo insieme, si è evoluto all’interno delle strutture privatistiche e quindi alla stregua del diritto comune e non di un diritto (sindacale) speciale che non è mai decollato. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori (ed anche quelle dei datori di lavoro) devono dunque essere giuridicamente qualificate come associazioni non riconosciute, ricevendo, in quanto tali, regolamentazione negli artt. 36, 37 e 38 cod. civ. È inutile dire che si tratta di una regolamentazione del tutto insoddisfacente al cospetto dell’imponenza del fenomeno sindacale. Basti considerare che le norme codicistiche si occupano prevalentemente dell’aspetto patrimoniale del fenomeno associativo,

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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preoccupandosi di chiarire su chi ricada la responsabilità per i debiti dell’associazione. Esse viceversa ignorano del tutto la complessità dell’ordinamento interno di un sindacato, nel cui ambito sono assai più rilevanti le questioni relative alla dialettica interna fra iscritti ed organi rappresentativi nonché a quella esterna, che ha riguardo ai rapporti con le controparti rappresentative dei datori di lavoro. Assumono cioè rilievo centrale le questioni della gestione della democrazia sindacale. Il principio-base di governo dell’associazione ritraibile dalle norme del codice è quello secondo cui il sodalizio è retto dalle regole volute dagli associati attraverso lo statuto ed i regolamenti interni (art. 36, 1° comma, cod. civ.). Inoltre il codice fornisce soluzione al problema della rappresentanza esterna dell’associazione, conferendola a coloro cui, secondo gli accordi interni, è conferita la presidenza o la direzione (art. 36, 2° comma, cod. civ.). Il nodo della responsabilità patrimoniale è risolto assumendosi che i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni dell’associazione rispondono comunque anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (art. 38 cod. civ.). Le associazioni sindacali, come vedremo, hanno una struttura complessa, essendo raggruppate in una serie di associazioni a vari livelli sia territoriale che per categoria. Si tratta quindi di associazioni di associazioni, al cui interno l’adesione del singolo può essere richiesta sia all’associazione di primo grado che a quella di secondo grado. È abbastanza diffusa nella dottrina civilistica l’idea che – a parte le norme menzionate – alle associazioni non riconosciute siano applicabili, in via analogica, anche le disposizioni sulle associazioni riconosciute, non incompatibili con il mancato riconoscimento. Occorre osservare peraltro che tale affermazione non è condivisa da una parte minoritaria della dottrina lavoristica che delinea una ancor più marcata sfera di immunità dell’associazione sindacale, anche rispetto all’applicazione analogica delle regole previste per le associazioni riconosciute. Tale affermazione generale è particolarmente rilevante nel

L’applicazione analogica delle regole previste per a.r.

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Le strutture non associative

Diritto sindacale

nostro ambito, dal momento che consente di assumere che siano applicabili all’associazione sindacale le regole che riguardano il recesso (art. 24 cod. civ.). Ne deriva che il recesso dell’associazione nei confronti dell’associato deve essere disposto dall’assemblea e solo per gravi motivi (art. 24, 3° comma, cod. civ.) ed il recesso dell’associato deve ritenersi sempre libero, tranne nel caso in cui quest’ultimo abbia assunto l’obbligo di farne parte a tempo determinato (art. 24, 2° comma, cod. civ.). È opportuno precisare comunque che la struttura associativa del sindacato non priva di natura propriamente sindacale anche strutture non associative. Ricordiamo infatti che l’art. 39, 1° comma, Cost. assicura protezione all’organizzazione sindacale, quale che sia la sua forma giuridica. Ricevono pertanto tutela costituzionale anche forme organizzative a carattere elettivo, come erano olim le Commissioni interne o come sono oggi le rappresentanze sindacali unitarie, tutte strutture rappresentative a carattere aziendale. Così come rientrano entro l’alveo della tutela costituzionale coalizioni puramente occasionali, cui non è riconoscibile la stabilità tipica delle associazioni.

2. La democrazia sindacale all’interno delle associazioni

La gestione della democrazia interna

Ad onta della mancata attuazione dell’art. 39, seconda parte, Cost. è abbastanza diffusa l’idea che vuole che il principio di «democraticità interna» previsto dalla norma costituzionale sia applicabile (non solo ai sindacati registrati, ma) anche agli attuali sindacati di fatto. Si tratta di un pre-requisito che consente l’applicazione all’associazione delle norme legali che attribuiscono diritti e poteri ai sindacati. Altra e diversa questione è quella che riguarda la concreta gestione della democrazia interna da parte delle singole associazioni. In materia è sovrana evidentemente la disciplina statutaria che detta spesso regole assai puntuali in relazione agli organi che esercitano il potere disciplinare sugli associati ed alle procedure di contestazione ed irrogazione delle sanzioni (so-

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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spensione, espulsione, ecc.). Usualmente gli statuti prevedono la costituzione di speciali collegi probivirali incaricati di vagliare la correttezza del comportamento degli iscritti e di irrogare le sanzioni. È chiaro peraltro che – attraverso siffatte regole formali – può talvolta passare la repressione del dissenso interno rispetto alla linea della maggioranza e l’allontanamento dei dissidenti. Il problema è difficilmente risolvibile perché la giurisprudenza (la scarsissima giurisprudenza che se ne è occupata) si è sempre mostrata restia ad interloquire negli atti interni delle associazioni, rifiutandosi anche di estendere ad essi (ad es.) le garanzie generali di contestazione degli addebiti e difesa degli incolpati, se ed in quanto non recepite dagli statuti. Inoltre è pacifico che il controllo sugli atti interni del sindacato possa essere solo diretto a valutarne la legittimità e non il merito. Su tale ordine di controversie aleggia infine la direttiva più generale che esclude del tutto la competenza della giurisdizione ordinaria a favore degli organi interni di autodichia. A prescindere dalla precedenti considerazioni generali va detto che la totalità delle (poche) decisioni edite in materia di controversie interne alle associazioni sindacali (come del resto per i partiti politici) ha avuto ad oggetto questioni patrimoniali, conseguenti a processi di scissione. I casi più rilevanti e clamorosi del dopoguerra sono quelli che hanno riguardato, nel 1948, la scissione dalla CGL della corrente cristiana e, successivamente, nel 1949 di quella repubblicana e socialista (in giurisprudenza per un caso che ha riguardato la FABI v.: Pret. Ferrara, 6 giugno 1984). In tali situazioni gli scissionisti che abbandonano l’associazione pretendono di mantenere non solo il diritto al nome, ma anche parte del patrimonio sociale. L’alternativa giuridica che si pone in tali circostanze è quella di valutare il processo scissionistico o come una somma di recessi individuali (che escluderebbe ogni diritto sul patrimonio) ovvero come una sorta di suddivisione dell’unica entità in due sottoinsiemi autonomi, con diritto, in questo secondo caso, a mantenere una porzione del patrimonio.

Le scissioni sindacali ed i problemi conseguenti

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Diritto sindacale

Più semplice è la soluzione del problema quando la scissione avvenga a livello dell’associazione territoriale, essendo assai spesso riflessa negli statuti dei sindacati la direttiva che considera gli organi territoriali come associazioni autonome nell’ambito più generale della struttura nazionale, con il conseguente riconoscimento dell’autonomia patrimoniale rispetto agli organi centrali del sindacato.

3. I rapporti esterni Soggettività e legittimazione ad agire

Per quanto attiene ai rapporti esterni occorre muovere dalla constatazione secondo cui anche all’associazione non riconosciuta – alla luce della più moderna riflessione dottrinale – va riconosciuta la soggettività e dunque l’associazione sindacale costituisce un autonomo centro di imputazione giuridica. Tale constatazione consente di riconoscere che l’associazione può essere parte di un giudizio, in via autonoma rispetto ai singoli soci: il che è quanto è avvenuto nelle controversie fra associazione e soci e/o frazioni della medesima, di cui abbiamo dato notizia nel precedente paragrafo. Più complicata si presenta la questione avendo riguardo alle azioni che il sindacato intenda far valere nei confronti della controparte contrattuale (la rappresentanza sindacale contrapposta dei datori di lavoro o i singoli datori, in caso di contratto collettivo aziendale) per ottenere la soddisfazione di diritti propri, previsti da clausole c.d. obbligatorie della contrattazione collettiva (su cui v. infra, Cap. II, Sez. II, par. 11). In tali situazioni – così come in quella in cui l’associazione sindacale venga evocata in giudizio dal datore di lavoro (o dall’associazione dei datori di lavoro) per risarcire i danni causati, ad es., da uno sciopero – la giurisprudenza ha, per lungo tempo, negato la legittimazione (attiva e/o passiva) del sindacato. Una significativa evoluzione in senso contrario si è verificata nella giurisprudenza più recente, presumibilmente stimolata dal riconoscimento a favore del sindacato da parte del legislatore della legittimazione ad agire nel procedimento di repres-

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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sione dell’attività antisindacale, di cui all’art. 28 dello statuto dei lavoratori (v. ad es.: Cass. n. 3263/1982). Si tratta comunque di oscillazioni destinate a ripresentarsi, dal momento che sono, in qualche modo, direttamente conseguenti all’assetto di puro fatto, nel cui ambito si muovono le relazioni sindacali.

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Diritto sindacale

Sezione III. Il sindacato in Italia SOMMARIO: 1. Breve profilo storico: alle origini dell’associazionismo sindacale. – 2. Le forme organizzative del sindacato. – 3. L’organizzazione sindacale dei datori di lavoro. – 4. Gli enti bilaterali.

1. Breve profilo storico: alle origini dell’associazionismo sindacale

Le Società di Mutuo Soccorso

Le leghe di resistenza e il partito operaio

La nascita dell’associazionismo operaio in senso moderno, al pari di tutti i fenomeni che ruotano intorno al lavoro, costituisce la conseguenza del processo di industrializzazione che ha interessato il nostro paese nella seconda metà dell’Ottocento (v. anche retro la Sez. I). Sul piano giuridico esso fu reso possibile dalla soppressione delle corporazioni che, nel regno di Sardegna, venne disposta nello Statuto albertino del 1848 e nel regno d’Italia con la 1. 29 maggio 1864, n. 1797. Si trattava di un tardivo trapianto delle idee della rivoluzione francese, che oltralpe erano state recepite fin dalla legge Le Chapelier del 1791. Cominciarono così a svilupparsi e diffondersi (in particolare al Nord ed in Toscana) le Società Operaie di Mutuo Soccorso. Peraltro queste – pur avendo scopi latamente di tutela della classe operaia – non possono essere considerate le progenitrici delle associazioni sindacali, dal momento che, da una parte, ammettevano come soci sia operai che artigiani e, dall’altra, si occupavano solo di assicurare sussidi economici e l’assistenza sanitaria gratuita ai soci colpiti da infortuni sul lavoro. Non a caso tale forma organizzativa cominciò ad entrare in crisi quando apparve all’orizzonte il Partito Operaio Italiano (1885), le cui strutture territoriali (leghe di resistenza) erano as-

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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sociazioni di soli lavoratori subordinati ed avevano come scopo la lotta contro lo «sfruttamento» dei «padroni». La costituzione nel 1892 del Partito dei Lavoratori Italiani (divenuto nel 1895 Partito Socialista Italiano) segnò una svolta fra l’anima politica e l’anima propriamente sindacale del movimento operaio. Una parte delle leghe di resistenza del Partito Operaio Italiano confluì nella nuova entità politica, riaggregandosi attorno a comitati elettorali a sostegno dei candidati. La restante parte delle leghe si ricollegò all’associazionismo propriamente sindacale, di cui fu antesignana la categoria dei tipografi che fin dal 1872 aveva costituito un’associazione fra i lavoratori che aveva proprio lo scopo di pattuire condizioni di lavoro uniformi sull’intero territorio nazionale. Le prime forme organizzative sindacali si caratterizzavano quindi per essere legate ad un mestiere, per avere, cioè, come forma aggregativa l’attività svolta dai lavoratori che vi aderivano (i tipografi, i muratori, ecc.). Ben presto però il sindacato si rese conto che questa forma organizzativa non era affatto funzionale alla strategia di contrapposizione alla classe padronale. Essa infatti non teneva conto di un dato della massima importanza: e cioè che all’interno del processo produttivo industriale venivano ad operare lavoratori con qualificazioni (e dunque mestieri) assai diverse fra loro. Il sindacato apprese perciò sulla propria pelle che aggregare i lavoratori per mestiere avrebbe prodotto divisioni e contrapposizioni, anziché unità di intenti e finalità. Si riconvertì pertanto ad un modello organizzativo che riuniva i lavoratori per ramo d’industria, prendendo cioè a base di riferimento l’attività svolta dall’impresa entro la quale i lavoratori dovevano operare. Nasceva così il modello organizzativo del sindacato di categoria, avendo riguardo, quanto al concetto di categoria, al settore economico-produttivo nel quale operava l’impresa. In tal modo la solidarietà di classe era ricomposta perché il sindacato, ad es., dei metalmeccanici organizzava tutti i lavoratori che operassero all’interno di un’impresa metalmeccanica, quello degli edili,

Il sindacato di mestiere

Il sindacato di fabbrica

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Le federazioni di categoria

Gli organismi intercategoriali: le Camere del lavoro

La fondazione delle grandi confederazioni

Diritto sindacale

tutti i dipendenti dalle imprese edili, quello dei chimici, tutti gli addetti all’industria chimica e così via. Le singole leghe di categoria poi, per l’ovvia necessità di coordinare le rispettive azioni rivendicative e rafforzare l’unità, ritennero indispensabile associarsi in una forma organizzativa nazionale che le riunisse: nacquero così le federazioni di categoria. La prima categoria operaia che pervenne a tale rilevantissimo risultato fu quella dei metallurgici che costituirono nel 1891 la FIOM (Federazione Italiana degli Operai Metallurgici), storica sigla ancora presente nel panorama sindacale italiano. Nello stesso torno di tempo nacquero altresì forme organizzative a carattere intercategoriale, con lo scopo di fornire rappresentazione agli interessi comuni alle varie categorie lavoratrici, sia a livello locale che nazionale. Il modello di riferimento di tale forma organizzativa sono le Camere del lavoro. Tale definizione in un primo tempo, ad imitazione delle Bourses du travail francesi, identificava quei luoghi nei quali convenivano sia padroni che operai per la stipulazione dei contratti ovvero per l’acquisizione di informazioni. In questa fase dunque le CL svolgevano attività gratuita di mediazione fra domanda ed offerta di lavoro cioè di collocamento. Successivamente – a seguito dei provvedimenti governativi di scioglimento emanati alla fine dell’Ottocento – le Camere del lavoro rinacquero con una accentuazione del loro carattere esclusivamente sindacale ed intercategoriale. Finalmente nel 1906 venne fondata la Confederazione generale del lavoro (CGdL), organismo confederale che riuniva le federazioni di categoria e le locali camere del lavoro, con lo scopo statutario di assumere la «direzione generale del movimento proletario». Nel 1912 la frazione del sindacalismo rivoluzionario (capeggiata da De Ambris) si staccò dalla CGdL e costituì un nuovo sindacato: l’USI, oggetto, a sua volta, nell’immediato primo dopoguerra (1918), ad una ulteriore scissione che diede luogo alla costituzione dell’UIL. Infine nel 1918 venne fondata la CIL, confederazione di ispirazione cattolica che respingeva l’idea della lotta di classe e

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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propugnava la collaborazione fra capitale e lavoro, con l’espansione della contrattazione collettiva. L’avvento del fascismo – dopo il ben noto biennio rosso (1919-1920), nel corso del quale furono sperimentate dal sindacalismo forme di rappresentanza interne ai luoghi di lavoro (i consigli), quali cellule di base di un processo rivoluzionario – fu caratterizzato, come abbiamo già visto, dalla repressione delle libertà sindacali e del pluralismo. La legislazione liberticida del ’26 fu preceduta dal c.d. Patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925) con cui la Confederazione delle Corporazioni fasciste e la Confindustria (l’organizzazione sindacale delle imprese industriali) si davano reciprocamente atto di essere i rappresentanti esclusivi delle due parti. Contestualmente procedevano alla soppressione delle rappresentanze a livello di impresa (Commissioni interne), attribuendone le funzioni al sindacato fascista territoriale (esterno all’impresa). A seguito della l. n. 563/1926 vennero sciolte le libere associazioni sindacali: la CGdL si sciolse nel 1927, anche se continuò ad operare (con la sigla CGL) in forma clandestina. Alla caduta dell’ordinamento corporativo gli esponenti sindacali aderenti ai tre maggiori partiti antifascisti (Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista) diedero vita ad una nuova confederazione unitaria (la CGIL) con il c.d. Patto di Roma del 3 giugno 1944. Sennonché l’unità sindacale durò pochi anni, dal momento che già nel 1948 la corrente democristiana abbandonò la CGIL e così fece poco dopo la componente socialdemocratica. Dopo varie e complesse fasi di transizione, nel 1950 i cattolici diedero vita alla CISL (Confederazione Italiana dei Sindacati dei Lavoratori) ed i socialdemocratici alla UIL (Unione Italiana del Lavoro). Nello stesso anno fu fondata la CISNAL (ora UGL), sindacato di ispirazione neo-corporativa, che intendeva porsi in continuità con il sindacalismo fascista. Le tre confederazioni CGIL, CISL e UIL sono largamente rappresentative della maggioranza dei lavoratori italiani. I loro reciproci rapporti hanno risentito, nel corso del settantennio

Il fascismo ed il Patto di Palazzo Vidoni

Gli eventi post-bellici

La situazione attuale

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Diritto sindacale

postcostituzionale, dei mutevoli equilibri politici della nostra democrazia. Sinteticamente si può dire che – passata la turbolenza del processo scissionistico – a partire dagli anni sessanta esse hanno adottato una certa unità d’azione sul piano delle politiche contrattuali. All’inizio degli anni settanta ebbe corso il tentativo più significativo di ricostituire la perduta unità, con il Patto federativo del luglio del 1972. Peraltro dopo alterne vicende il patto federativo è stato sciolto a metà degli anni ottanta (a seguito dei contrasti sulla questione della scala mobile). Da allora ad oggi l’andamento dei rapporti reciproci è quanto mai ondivago anche se, in linea di massima, resta una sostanziale unità d’azione che è peraltro sottoposta spesso a tensioni (come è avvenuto all’inizio del nuovo secolo con l’accordo separato per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici cui è seguito recentemente un nuovo rinnovo, questa volta, unitario). Accanto alle menzionate confederazioni, in qualche modo (o comunque alle origini) ideologicamente connotate, operano nel nostro paese moltissime altre sigle sindacali che si usano definire autonome: ad es. la CISAL e la CONFSAL. Vanno ricordate altresì importanti associazioni non confederali, che operano in settori specifici, come la FABI, per il settore del credito, e lo SNALS, nell’ambito della scuola.

2. Le forme organizzative del sindacato

L’organizzazione categoriale (o verticale)

Quanto abbiamo detto nel precedente paragrafo in relazione alle forme storiche di organizzazione del sindacato ci consente di rendere più agevole la descrizione degli attuali modelli organizzativi. Essenziale è la distinzione fra un’organizzazione categoriale (o verticale) ed una intercategoriale (orizzontale). Alla prima accedono i sindacati di categoria (metalmeccanici, chimici, edili, tessili, ecc.), associazioni rappresentative dei lavoratori che operano nello specifico ramo d’industria

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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(sindacato d’industria in contrapposizione al sindacato di mestiere). A loro volta i sindacati di categoria (che hanno spesso conservato l’originario nomen di federazioni) aderiscono a quelle organizzazioni di secondo livello che sono le confederazioni: laddove la parola composta (con-federazione) indica per l’appunto che tali entità costituiscono delle federazioni di federazioni, dei sindacati di sindacati. Cosicché – per esemplificare – un lavoratore metalmeccanico che simpatizzi per il sindacalismo per c.d. di sinistra avrà in tasca anzitutto la tessera della FIOM (la federazione di categoria che rappresenta i lavoratori metalmeccanici) e sarà iscritto alla CGIL in ragione del fatto che la FIOM aderisce a quella confederazione. Le forme di rappresentanza intercategoriale (o orizzontale) sono invece costitute al livello verticistico dalle confederazioni che raggruppano nel loro seno (come associazioni di associazioni) tutte le federazioni di categoria. Ambedue le diverse forme organizzative – quella categoriale e quella intercategoriale – sono poi variamente presenti sul territorio. Avremo così: a) un livello di base che è spesso costituito dalla rappresentanza operante sui luoghi di lavoro; b) una struttura provinciale (o comprensoriale). A tale livello le federazioni provinciali delle varie categoria (verticali) confluiscono in strutture orizzontali variamente denominate (Camere del lavoro, per la CGIL; Unioni Sindacali per la CISL; Camere Sindacali per la UIL); c) un livello regionale; d) un livello nazionale, ove operano le strutture di vertice sia delle federazioni che delle confederazioni. Alla contrapposizione fra le due forme organizzative categoriale ed intercategoriale corrisponde – per grandi linee – anche una conseguente ripartizione di competenze. Le federazioni di categoria hanno infatti il compito di sottoscrivere il contratto collettivo nazionale dello specifico settore. Per converso alle confederazioni compete il coordinamento delle politiche sindacali che riguardano tutti i lavoratori, quale che sia la loro categoria di riferimento. Saranno così le confederazioni a sottoscrivere i cc.dd. accordi interconfederali, che, in quanto tali, detta-

L’organizzazione intercategoriale (o orizzontale)

L’organizzazione territoriale

Le competenze delle due forme di associazioni

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La residua rilevanza delle leghe territoriali

Le organizzazioni a livello internazionale e dell’UE

Diritto sindacale

no regole che si applicano a tutte le categorie di lavoratori o a porzioni consistenti delle medesime (il settore industriale, ad es.). Ancora le confederazioni – quindi l’organizzazione orizzontale – sono le interlocutrici naturali dei poteri pubblici nelle politiche di concertazione. Le descritte forme organizzative (il sindacato di fabbrica) hanno segnato storicamente il superamento di quelle più risalenti che – come abbiamo visto – aggregavano i lavoratori in relazione al loro mestiere ovvero su base territoriale. Un parziale recupero di tali forme – in particolare delle leghe territoriali – si ha oggi solo con riferimento alla rappresentanza di quei lavoratori che non sono collocati all’interno di unità produttive: ciò vale in particolare per i lavoratori a domicilio ed, in parte, per gli addetti dell’edilizia e dell’agricoltura. Sul piano internazionale infine va segnalata – quale organizzazione maggiormente rappresentativa – la Confederazione sindacale internazionale (CS, meglio nota con l’acronico inglese ITUC), sorta nel 2006 dalla fusione della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (CISL) con la Confederazione mondiale del lavoro (CML), cui sono affiliati milioni di lavoratori di un centinaio circa di paesi e cui aderiscono anche CISL, UIL e CGIL (quest’ultima dal 1991, a seguito degli avvenimenti politici conseguenti alla caduta del muro di Berlino). Nell’ambito dell’Unione europea opera dal 1973 la Confederazione Europea dei Sindacati (CES, meglio nota con acronico inglese ETUC), alla quale pure aderiscono le nostre tre centrali confederali. Non esiste al contrario un organismo sindacale internazionale di rappresentanza delle imprese. A livello europeo opera la BusinessEurope (fino al 2007 nota come Unione delle Industrie della Comunità Europea-UNICE), con sede a Bruxelles, che organizza la rappresentanza datoriale per settori di attività.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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3. L’organizzazione sindacale dei datori di lavoro Venendo al sindacalismo imprenditoriale occorre notare che – come è da sempre unanimemente riconosciuto – esso si caratterizza per essere un sindacalismo «di risposta», dal momento che il datore di lavoro, in ragione della sua posizione di supremazia economica, non ha bisogno di associarsi per far valere le proprie ragioni. Si usa dire, con una formula felice, che il datore è di per sé stesso coalizione. È per questa ragione che, a parte alleanze locali a livello comunale o provinciale, occorrerà attendere il 1906 per assistere alla nascita, nella capitale dell’industrializzazione italiana, della prima organizzazione imprenditoriale: la Lega Industriale di Torino. Quest’ultima costituì lo schema di riferimento per l’estensione su tutto il territorio nazionale di modelli organizzativi analoghi, fino alla costituzione (sempre a Torino nel 1910) della Confederazione Italiana dell’Industria (CIDI), che riuniva sia le leghe locali che singoli imprenditori. Attualmente operano nel nostro paese distinte organizzazioni datoriali in relazione ai vari settori economici. Fra le principali ricordiamo: la Confindustria, per il settore industriale; la ConfCommercio, per il commercio e la ConfAgricoltura, per l’agricoltura. Nel 1957 le imprese a partecipazione statale fuoriuscirono dalla Confindustria (a seguito della l. n. 1589/1956) e confluirono in due soggetti autonomi l’INTERSIND (per le imprese del gruppo IRI) e l’ASAP (per quelle dell’ENI). Nel pubblico impiego – a seguito del processo di contrattualizzazione – è stata istituito, come vedremo più avanti, un soggetto rappresentativo delle pubbliche amministrazioni, quale controparte dei sindacati che è l’ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale). Essa è stata istituita fondamentalmente per rendere stabile la rappresentanza della parte pubblica. La Confindustria è – al pari delle confederazioni sindacali – un’associazione di associazioni, dal momento che ad essa fanno capo le varie Associazioni degli Industriali a livello provinciale,

La natura del sindacalismo imprenditoriale

Le origini

La situazione attuale

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Diritto sindacale

cui, a loro volta, aderiscono le imprese del comprensorio. Per le imprese industriali minori opera una confederazioni autonoma rispetto alla Confindustria che è la CONFAPI.

4. Gli enti bilaterali

La recente valorizzazione degli e.b. ed i problemi conseguenti

La contrattazione collettiva prevede spesso la costituzione di organismi paritetici – i cc.dd. enti bilaterali – cui attribuisce varie funzioni, normalmente assistenziali a favore dei lavoratori: un esempio significativo e risalente di tale modello è la Cassa edile, che funziona da ammortizzatore sociale del settore garantendo, fra l’altro, il mantenimento del salario nel caso in cui, per ragioni di forza maggiore, il lavoratore non possa prestare attività. La caratteristica di tali entità è per l’appunto la circostanza di assumere una composizione mista, al cui interno sono presenti pariteticamente rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Esse si iscrivono quindi nel novero di istituzioni caratterizzate da intenti collaborativi fra le parti e non di contrapposizione di interessi, come avviene nell’ambito dell’attività negoziale. Di recente il legislatore, nel contesto della riforma del mercato del lavoro contenuta nel d.lgs. n. 276/2003, ha attribuito agli enti bilaterali, costituiti da sindacati comparativamente più rappresentativi, alcune rilevanti funzioni: la possibilità di svolgere attività di somministrazione ed intermediazione (art. 6, 3° comma del d.lgs. n. 276/2003), di certificare i contratti lavoro e gli atti di disposizione del lavoratore (art. 76, 1° comma, lett. a) e art. 82), di svolgere attività formativa (art. 12, 4° comma). Inoltre con il Titolo II (art. 26 e ss.) del d.lgs. n. 148/2015 è stato attribuito alla contrattazione collettiva il potere-dovere di istituire Fondi di solidarietà bilaterali per il sostegno del reddito nei settori non coperti dalla cassa integrazione guadagni. Siffatta attribuzione di poteri da parte del legislatore solleva non pochi problemi. In primo luogo i vantaggi che lavoratori ed imprese potreb-

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bero ritrarre dall’attività di tali enti delinea un sostegno indiretto (ma significativo) a favore dei sindacati che ne fanno parte, indebolendo così la libertà sindacale negativa dei lavoratori (intesa come libertà di non aderire ad un sindacato). Inoltre l’attribuzione di funzioni pubbliche (con i relativi finanziamenti) potrebbe innescare conflitti di interesse, nel gioco fra comunione di scopo, caratteristica della gestione di tali entità, e contrapposizione di interessi tipica dell’attività negoziale.

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Diritto sindacale

Sezione IV. La rappresentatività sindacale SOMMARIO: 1. Pluralismo sindacale e selezione dei soggetti: a cosa serve la rappresentatività? – 2. La variabile nozione di «sindacato maggiormente rappresentativo» e gli indici della rappresentatività.

1. Pluralismo sindacale e selezione dei soggetti: a cosa serve la rappresentatività? Rappresentanza e rappresentatività

Più avanti, quando tratteremo del contratto collettivo, ci toccherà di occuparci della questione della rappresentanza, cioè della tecnica giuridica attraverso cui le organizzazioni sindacali vengono delegate dai lavoratori alla stipulazione, per loro conto e nel loro interesse, del contratto collettivo. La rappresentanza è un istituto giuridico antico e consolidato che dovrà essere indagato avendo cura di segnalare la specificità del rapporto sindacato-iscritti (e non iscritti), che, come vedremo, ha elementi di marcata deviazione rispetto allo schema privatistico tradizionale. Qui ed ora dobbiamo invece richiamare un concetto diverso, che costituisce anch’esso uno snodo essenziale del nostro diritto sindacale: quello di rappresentatività. La rappresentatività – a differenza della rappresentanza – è un concetto sociologico, che esprime la capacità effettiva di una determinata associazione sindacale di raccogliere ed organizzare il consenso della categoria professionale che si prefigge di rappresentare (i bancari, gli edili, i metalmeccanici, ecc.). Si tratta evidentemente di una questione rilevante solo in un sistema che assicura il pluralismo sindacale, dal momento che è solo in un contesto in cui opera la concorrenza fra sindacati di diversa ispirazione che può porsi il problema di selezionare quelli più (o meno) rappresentativi.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Non è facile individuare in astratto i criteri in base ai quali è possibile misurare la effettiva rappresentatività di un sindacato (laddove, ad es., per il partito politico il misuratore per eccellenza è costituito dal risultato elettorale). La questione può avere scarso peso nell’ambito dell’attività contrattuale e/o di rappresentanza del sindacato nei confronti della controparte datoriale: saranno i rispettivi rapporti di forza, la capacità di fare proseliti, di raccogliere adesioni, di tutelare al meglio la posizione dei lavoratori che opereranno per c.d. una selezione naturale, facendo emergere quelli fra i sindacati che siano dotati di rappresentatività effettiva. Il problema si pone invece in modo ben diverso nel momento in cui è lo stato che, in funzione del perseguimento di determinati fini di interesse generale, intende attribuire specifici poteri ai sindacati. In tale diversa situazione è evidente che i criteri selettivi sono individuati direttamente dalla legge, cosicché rispetto ad essi si pone un problema di corrispondenza rispetto all’effettivo quadro sociale, anche in chiave di rispetto del principio di eguaglianza fra i vari soggetti sindacali. La storia della nostra legislazione post-costituzionale in materia esprime assai bene la difficoltà ad individuare criteri appaganti per selezionare i sindacati più rappresentativi, presentandoci un panorama evolutivo che dà paradigmaticamente conto dei mutevoli assetti dei rapporti fra lo stato e l’ordinamento intersindacale. Tali rapporti si sono espressi secondo una gamma di atteggiamenti che vanno dalla partecipazione esterna del sindacato ad attività a carattere burocratico, al sostegno e promozione delle associazioni sindacali (di alcune di esse) fino alla compenetrazione fra i due ordinamenti (quello statuale e quello intersindacale). Proviamo a segnarne i passaggi più significativi, preavvertendo che, successivamente, nel corso della trattazione, il problema della rappresentatività verrà più approfonditamente riesaminato in relazione ai vari istituti giuridici rispetto ai quali è rilevante.

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2. La variabile nozione di «sindacato maggiormente rappresentativo» e gli indici della rappresentatività L’evoluzione della nozione di «sindacato maggiormente rappresentativo» (s.m.r.), nelle definizioni legali, può essere analizzata a partire dalle funzioni via via assegnate dalla legge ai soggetti collettivi o, se si vuole, dai poteri che lo stato ha inteso, di volta in volta, attribuire ai sindacati. Sotto questo profilo distinguiamo: a) funzioni e/o poteri di rappresentanza dei lavoratori all’interno di organi collegiali, che esprimono la partecipazione dei sindacati a funzioni pubbliche; b) funzioni e/o poteri di rappresentanza dei lavoratori all’interno dell’impresa privata o nel pubblico impiego; c) funzioni e/o poteri propriamente negoziali, che autorizzano cioè i sindacati dotati di rappresentatività a stipulare contratti collettivi nel settore privato come in quello pubblico, con efficacia generalizzata; d) funzioni e/o poteri di deroga normativa alle condizioni previste dalla legge, attribuite esclusivamente ai contratti collettivi stipulati da s.m.r. La partecipazione dei sindacati a funzioni pubbliche ed i variabili riferimenti alla rappresentatività

a) La legge prevede la partecipazione dei sindacati ad un nutrito numero di organi pubblici. Oltre ad integrare la rappresentanza in seno al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), organo ausiliario di rilevanza costituzionale (art. 99 Cost.), su cui torneremo subito, i sindacati sono presenti (o sono stati presenti nel corso della evoluzione del diritto sindacale), fra l’altro, in commissioni ed organi di vario livello nell’ambito del collocamento e della gestione del mercato del lavoro, nelle commissioni di conciliazione delle controversie di lavoro (art. 410 cod. proc. civ.), in quelle per il lavoro a domicilio (artt. 5, 6, 7, l. n. 877/1973), la cassa integrazione guadagni, ecc. La selezione dei soggetti sindacali, in tali contesti, viene effettuata dalla legge utilizzando espressioni varie: «sindacati maggiormente rappresentativi», senza ulteriori specificazioni; «associazioni sindacali»; «sindacati maggiormente rappresentativi» a livello confederale; «sindacati maggiormente rappre-

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sentativi» a livello categoriale; «sindacato di categoria» nazionale e/o locale. I criteri per la valutazione della rappresentatività sono stati variamente interpretati dalla giurisprudenza, nell’ambito del contenzioso sviluppatosi davanti ai giudici amministrativi, dalle associazioni sindacali non ammesse alla designazione. La giurisprudenza ha spesso fatto ricorso a dati quantitativi (numero di iscritti), ma anche all’estensione territoriale delle strutture organizzative, alla misura della partecipazione all’attività contrattuale, ai conflitti collettivi o al numero di deleghe rilasciate per la riscossione dei contributi. Una collocazione a sé – per il rilievo costituzionale dell’indicazione – occupano i criteri previsti per la delegazione sindacale che integra i componenti del CNEL. Secondo l’art. 99 Cost. tale organo è «composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa». La l. n. 936/1986, che ha sostituto la precedente regolamentazione contenuta in una legge del 1957, ha previsto, all’art. 4, che la designazione dei rappresentanti sindacali deve avvenire da parte delle «organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative», individuate dal Presidente del Consiglio (3° comma). Allo scopo con una importante indicazione il 5° comma della medesima norma – in qualche modo facendo tesoro della elaborazione giurisprudenziale in materia – fornisce quali criteri selettivi «l’ampiezza e diffusione delle strutture organizzative, la consistenza numerica, la partecipazione effettiva alla formazione e alla stipulazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro e alla composizione delle controversia collettive o individuali di lavoro». b1) Una svolta di grande importanza è quella che ha operato lo statuto dei lavoratori (l. n. 300/1970) con riferimento alla composizione delle rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.). Sul punto si tornerà ampiamente più oltre. Per il momento rileviamo che il legislatore, all’art. 19, ha operato una doppia selezione. Da una parte ha escluso l’opzione di affidare la rap-

Le r.s.a. nel settore privato e la rappresentatività presunta

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La crisi del criterio ed il referendum abrogativo del 1995

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presentanza dei lavoratori nell’impresa ad un organismo eletto dai lavoratori, al di fuori del sindacato ed ha inteso invece riferirsi alle associazioni sindacali esterne. Dall’altra, nel selezionare i soggetti sindacali, ha riferito la maggiore rappresentatività non al livello categoriale, bensì al livello intercategoriale o confederale (lett. a) dell’art. 19). Ne consegue che le associazione sindacali categoriali aderenti alle tre grandi confederazioni (CGIL, CISL e UIL) sono state autorizzate a costituire r.s.a., anche se, per avventura, nell’ambito di quella specifica categoria produttiva (i bancari ad es.) non fossero state dotate di rappresentatività a fronte di altre associazioni sindacali autonome. Con la scelta statutaria dunque il legislatore ha promosso e privilegiato il sindacalismo confederale. Un blando correttivo a tale scelta è costituito dalla lett. b) dell’art. 19 che conferisce il potere di costituzione delle r.s.a. anche ai sindacati (autonomi) purché firmatari di contratti collettivi (nazionali o provinciali) applicati nell’unità produttiva. Il che significa che il sindacalismo autonomo (non confederale) avrebbe dovuto conquistare sul campo la propria legittimazione, senza godere di un sostegno legislativo. Si è parlato, a proposito di tale scelta legislativa, di rappresentatività presunta, dal momento che si basava sul presupposto, storicamente verificabile, della importanza dell’azione sindacale svolta dalle grandi confederazioni, in quanto tale dotata di significativa effettività. La scelta legislativa si giustificava in funzione della valorizzazione di principi solidaristici e di tutela di interessi più ampi, garantita dalle grandi confederazioni, a fronte di quelli settoriali, di cui sono portatori i sindacati di categoria. Ciò che conta è che il criterio in questione ha subìto un’eclissi in conseguenza della crisi di rappresentatività delle grandi confederazioni, indotta dai mutamenti dei sistemi produttivi, che, oltre a ridurre il peso dei lavoratori subordinati, in generale, ha anche frammentato questi ultimi in gruppi diversificati e spesso in conflitto fra loro. Di qui la difficoltà dell’organizzazione intercategoriale di costituire il collante fra i vari gruppi sociali. Il referendum abrogativo dell’art. 19 dello statuto dei lavora-

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tori, svoltosi l’11 giugno 1995, ha in qualche modo formalizzato tale crisi. I promotori del referendum formulavano due opzioni alternative: l’abrogazione integrale del collegamento fra r.s.a. e sindacato esterno ovvero l’eliminazione del privilegio delle grandi confederazioni, previsto dalla lett. a) della norma. L’esito della consultazione ha bocciato la prima opzione, così mantenendo il collegamento fra rappresentanza dei lavoratori nell’impresa e sindacato, ed ha avallato invece la seconda, abrogando la lettera a) dell’art. 19 e mantenendo in vita la lettera b), se pure con formulazione ridotta (come vedremo). Ne consegue che oggi le r.s.a. possono essere costituite solo «nell’ambito dei sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva» (quale che ne sia il livello). Dal punto di vista pratico il risultato referendario non muta gran che la sostanza delle cose, dal momento che i sindacati aderenti alle grandi confederazioni sono (ovviamente) firmatari dei contratti collettivi di tutte le categorie produttive. Ciò che viene meno è invece il privilegio ed il sostegno aprioristico (rappresentatività presunta) a favore del sindacalismo confederale, il quale, al pari degli altri sindacati, è onerato di conquistarsi sul campo (con l’attività contrattuale) la propria rappresentatività. Mette conto rilevare comunque che l’abrogazione parziale dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori non ha ovviamente intaccato la residua legislazione che continua a mantenere il privilegio a favore del sindacalismo confederale in altri e diversi contesti in cui è rilevante la selezione fra i sindacati. b2) Un significativo banco di prova delle discussioni intorno alla rappresentatività presunta è costituito dalla selezione dei soggetti abilitati a costituire r.s.u. nel pubblico impiego. In tale ambito, come vedremo più ampiamente, il diritto alla loro costituzione spetta alle oo.ss. «ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi» (art. 42, d.lgs. n. 165/2001), che sono i sindacati che «abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al 5%». Allo scopo di determinare tale percentuale viene in considerazione la

Le r.s.u. nel pubblico impiego ed i criteri legali di selezioni fra i sindacati

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media fra il dato associativo, espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali, ed il dato elettorale, risultante dalla percentuale dei voti ottenuti nella elezione delle r.s.u. (v. l’art. 43, d.lgs. n. 165/2001). Vengono così meno, in tale contesto, sia il criterio della rappresentatività presunta del sindacalismo confederale sia quello, della «stipulazione dei contratti collettivi». La selezione dei soggetti rappresentativi (sia per l’accesso alla costituzione delle r.s.a. o r.s.u. sia per la partecipazione all’attività negoziale) è affidata ad indici di consistenza numerica ed al dato elettivo, predefiniti dalla legge, mentre nel settore privato il dato della stipulazione di contratti è affidato ai contingenti rapporti di forza. Vedremo più avanti che in tempi recenti il modello proprio del pubblico impiego è stato tendenzialmente esportato anche nel settore privato a seguito della sottoscrizione del Testo Unico sulla rappresentanza, sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL, il 10 gennaio 2014 (cui ha successivamente aderito anche USB). Inoltre, accordi del medesimo tenore sono stati sottoscritti anche con Confservizi, Confcommercio, Confartigianato e Alleanza Cooperative) Il T.U. del 2014, che raccoglie le previsioni contenute nell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 marzo 2013, prevede infatti che, nell’ambito di applicazione del c.c.n.l., siano ammesse alla contrattazione le federazioni (firmatarie del T.U. del 2014, dell’A.I. del 2011 e del Protocollo del 2013) che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) ed il dato elettorale (percentuale di voti ottenuti sui voti espressi). Sotto tale profilo il T.U. del 2014 riconosce una delicata funzione al CNEL, cui devono essere inviati i dati relativi al numero delle deleghe (rilevato dall’INPS tramite un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali, Uniemens) ed i dati elettorali, con lo scopo di provvedere alla loro ponderazione. Va peraltro aggiunto che, data l’incerta sorte dello stesso CNEL, che attraversa una delicata fase di transizione (nonostante l’esito infausto del referendum costituzionale del dicem-

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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bre 2016), le parti sociali si sono accordate per una modifica del TU sulla rappresentanza del 2014, trasferendo all’INPS le funzioni relative alla raccolta dei dati elettorali ed alla sua ponderazione con il dato associativo (v. l’accordo del 4 luglio 2017, fra Confindustria e CGIL, CISL e UIL, nonché l’accordo 23 novembre 2016 fra Confartigianato, CNA e CGIL, CISL e UIL). c1) Vi è poi un filone normativo che affida poteri (di informazione e) negoziali ai sindacati, nel contesto delle crisi di impresa e delle ristrutturazioni. Basti pensare alla disciplina sulla mobilità ed i licenziamenti collettivi. In tali situazioni viene evocata in prima battuta la competenza delle r.s.a. ed, in mancanza di r.s.a. quella delle “associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” (art. 4, 2° comma, l. n. 223/1991). La legge oscilla quindi fra il riferimento ad una rappresentatività settoriale (o di categoria) ed il ricorso allo storico criterio della rappresentatività presunta.

I poteri negoziali fra r. presunta e r. di categoria

c2) Viceversa, come abbiamo visto, per la rappresentanza negoziale nel pubblico impiego valgono i medesimi criteri, rigidamente predeterminati dal legislatore, utilizzati per la costituzione delle r.s.a. (o r.s.u.).

I poteri negoziali nel pubblico impiego

d) Vi è infine il filone normativo, recentemente notevolmente incrementatosi, che riguarda l’attribuzione al contratto collettivo di poteri di deroga e/o integrazione della disciplina che regola il rapporto di lavoro. Basti pensare alla legge che individua il contratto collettivo applicabile per la determinazione della retribuzione imponibile previdenziale o al complessivo impianto contenuto nella riforma del mercato del lavoro, di cui alla l. n. 30/2003 ed al successivo d.lgs. n. 276/2003 nonché alla riforma di cui al d.lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act). Tale più recente filone normativo valorizza la nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo.

Poteri derogatori del contratto collettivo e sindacato comparativamente più rappresentativo

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Il legislatore presuppone che, nell’ambito della medesima categoria, vengano stipulati più contratti collettivi ed indica quale criterio di scelta fra i contratti da applicare (in relazione, ad es., alle deroghe autorizzate dalla legge) quello della stipulazione da parte di associazioni che, comparativamente, nella categoria, siano dotati di maggiore rappresentatività rispetto agli altri. Si tratta di un criterio che non viola l’art. 39, seconda parte, Cost., dal momento che la legge non attribuisce efficacia erga omnes al contratto collettivo in questione, ma conferisce il potere di deroga solo ad alcuni contratti collettivi e non ad altri. L’efficacia dei contratti collettivi esclusi dall’effetto sostitutivo non viene peraltro messa in discussione secondo le regole generali pacificamente invalse per i cc.dd. contratti di diritto comune (su cui v. infra, Cap. II, Sez. II, par. 6). Così come non viene in alcun modo lesa la libertà sindacale delle associazioni che li abbiano stipulati. Semmai l’aspetto problematico è quello di individuare i criteri da utilizzare per effettuare la comparazione fra i sindacati. Gli indici ampiamente elaborati per individuare il sindacato maggiormente rappresentativo – quali, ad es., la diffusione sul territorio nazionale, la partecipazione effettiva alle attività negoziali, la consistenza numerica, ecc. – non appaiono trapiantabili di peso a tale diverso contesto. Essi non esprimono infatti un giudizio comparativo, ma per c.d. un giudizio assoluto: individuano quei sindacati che hanno di fatto e storicamente ampi poteri rappresentativi, selezionando, secondo una logica binaria, chi li ha da chi non li ha. Sfugge invece a quei criteri la dimensione del confronto e della comparazione fra vari soggetti. Ne consegue che si avverte, almeno nel settore privato, l’assenza di una indicazione normativa circa i criteri selettivi utilizzabili che consenta di mediare fra il dato puramente associativo, deducibile dal numero di iscritti e la capacità di aggregare consenso anche al di fuori degli associati.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Sezione V. Sindacato e funzioni pubbliche SOMMARIO: 1. La partecipazione del sindacato a funzioni pubbliche. – 2. La concertazione sociale.

1. La partecipazione del sindacato a funzioni pubbliche Abbiamo già ricordato che il sindacato è chiamato, nel nostro ordinamento a partecipare, in vario modo, a funzioni pubbliche. In primo luogo gli è attribuito il potere di designare rappresentanti in seno a vari organi pubblici. L’esempio più rilevante è quello che riguarda la rappresentanza in seno al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), che è un organo di rappresentanza delle categorie produttive che ha funzioni consultive del Governo e del Parlamento ed ha anche poteri di iniziativa legislativa nella materia della «legislazione economica e sociale» (art. 99 Cost.). Le associazioni sindacali sono inoltre presenti in commissioni ed organi di vario livello nell’ambito del collocamento e della gestione del mercato del lavoro, in organi di gestione degli enti previdenziali, nelle commissioni di conciliazione delle controversie di lavoro (art. 410 cod. proc. civ.), in quelle per il lavoro a domicilio (artt. 5, 6, 7, l. n. 877/1973), la cassa integrazione guadagni (art. 8, l. n. 164/1975), ecc. Ciò che conta rilevare, con riferimento a tali previsioni, è che la funzione che i sindacati svolgono in tali contesti si differenzia profondamente dal tradizionale ruolo di autotutela collettiva, consacrato e protetto nell’art. 39 Cost. Nell’integrare gli organi pubblici i sindacati espletano infatti funzioni di rappresentanza di interessi più generali rispetto a quelli – per c.d. egoistici – che fanno da sfondo alla loro tipica azione contrattuale (v. in argomento: Corte cost. n. 15/1975).

La funzione svolta dal sindacato

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Diritto sindacale

Va osservato peraltro che negli anni più recenti è stata oggetto di critica l’idea che il sindacato – tipicamente portatore di interessi propri – possa efficacemente rappresentare gli interessi generali in seno ad organi che svolgono funzioni pubbliche. Una prima ricaduta concreta di tali critiche è rinvenibile nella norma (art. 44, d.lgs. n. 165/2001) che ha soppresso la rappresentanza elettiva del personale nei consigli di amministrazione delle amministrazioni statali.

2. La concertazione sociale I tradizionali rapporti fra stato e parti sociali

Tradizionalmente il sindacato, in consonanza con le proprie origini storiche, esercita la propria funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori in una dimensione di contrapposizione alla controparte datoriale, contribuendo a determinare le regole che governano i rapporti di lavoro attraverso gli strumenti dell’autotutela collettiva. Su di un piano distinto e separato si svolge – altrettanto tradizionalmente – l’azione dello stato sociale, che predispone interventi diretti a proteggere i lavoratori e/o ad orientare la politica economica. Siffatta visione tradizionale delle relazioni fra i soggetti sociali viene messa in crisi da quei modelli di associazionismo sindacale, in cui il sindacato aspira non solo a svolgere un’azione contrattuale, ma si pone anche più ampi obiettivi politici di tipo riformistico. L’azione sindacale, in quest’ultimo caso, tende ad invadere il territorio tipico dell’azione politica, creando prospettive di conflitto o di compartecipazione con le strategie statuali a seconda della coalizione che governa le sorti del paese. Resta fermo comunque che, nell’una o nell’altra prospettiva, ciascun soggetto del sistema delle relazioni industriali (stato, per un verso, parti sociali, per l’altro) resta all’interno dei confini storicamente determinati dalle rispettive funzioni (anche se – è fin troppo ovvio – l’azione dell’uno può condizionare quella dell’altro).

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Il descritto e schematico quadro di riferimento è destinato a cambiare nel momento in cui fattori esterni ai soggetti sociali mettono in crisi il sistema economico nel suo insieme. È quanto è accaduto, nel nostro come in gran parte dell’occidente democratico ed industrializzato, a seguito della crisi petrolifera dei primi anni settanta. Le trasformazioni del sistema economico che sono conseguite a quella crisi hanno inaugurato una lunga stagione di marcato interventismo legislativo nell’economia sia per contenere il salario e lottare contro l’inflazione sia per attenuare i gravi effetti della crescente disoccupazione, giovanile e non. I governanti di tutti i paesi industrializzati si sono resi ben presto conto che interventi di tale natura non potevano più essere imposti dall’alto ma richiedevano la collaborazione delle parti sociali. Ne è derivata, per lo stato, la necessità di aprirsi al dialogo con i corpi sociali, allo scopo di assicurarsene il consenso su interventi normativi diretti ad imporre misure economiche pesantemente restrittive delle condizioni di vita e su politiche dirette ad influenzare e limitare l’azione sindacale. Questa nuova metodologia di costruzione delle politiche pubbliche si usa definire come concertazione sociale. La specificità di tale metodo consiste per l’appunto nella circostanza che lo stato sottopone al vaglio preventivo ed al consenso delle parti sociali le misure di politica economica, fiscale, di investimenti, ecc., che intende tradurre in legge. Rispetto a tale fenomeno si parla non a caso anche di negoziazione legislativa, intendendosi alludere al fatto che, in qualche modo, ci si trova di fronte ad una tecnica (nuova e diversa) di formazione della legge. Vedremo più avanti in che misura siffatta tecnica può considerarsi legittima a fronte dell’assetto della nostra Costituzione formale. Per il momento dobbiamo delineare un breve profilo evolutivo della concertazione. Come abbiamo detto essa ha preso le mosse, all’inizio informalmente, in occasione della crisi della seconda metà degli anni

Crisi economica e mutamento delle prospettive tradizionali

La nozione di concertazione sociale

Profilo evolutivo della concertazione in Italia

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Il Protocollo Scotti del 22 gennaio 1983

L’accordo di San Valentino 14 febbraio 1984

Il Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993

Gli accordi più recenti

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settanta. All’epoca peraltro non venne formalizzato alcun patto triangolare (fra stato, sindacati dei lavoratori e sindacati dei datori), ma le parti sociali assunsero su loro stesse gli obiettivi di politica economica di riduzione dell’inflazione, attraverso la stipulazione dell’accordo interconfederale 26 gennaio 1977. La parte pubblica, in contropartita, diede corso all’emanazione delle norme legali che ne costituivano in qualche modo lo scambio politico. È agli anni ottanta che risale invece il primo vero e proprio accordo triangolare: il c.d. Protocollo Scotti del 22 gennaio 1983. Con tale intesa il Governo si impegnava ad introdurre disposizione di riforma in materia previdenziale (fiscalizzazione degli oneri sociali per le imprese, riforma degli assegni familiari, ecc.) in contropartita dell’impegno delle parti sociali di rivedere i meccanismi di indicizzazione del salario, fonte di fenomeni inflattivi. Peraltro già dall’anno successivo il metodo della concertazione entrò in crisi. L’accordo 14 febbraio 1984 (voluto dal Governo Craxi) non fu infatti sottoscritto dalla CGIL, contraria all’intervento coattivo sulla contrattazione collettiva (taglio di alcuni punti di contingenza). La legge che ne segui (l. n. 219/1984) superò il vaglio di legittimità della Corte costituzionale, con una decisione che si pronunciò anche sulla tecnica concertativa (o neo-corporativa) e di cui si dirà più oltre. Il successivo referendum abrogativo promosso dalla CGIL ebbe esito negativo. Seguì – anche in ragione dello «strappo» sindacale – un periodo di quiescenza della concertazione, consacrata solo da prassi informali di consultazione. Un momento di basilare importanza nell’evoluzione delle politiche concertative è costituito dal Protocollo Ciampi-Giugni (il primo presidente del consiglio, il secondo ministro del lavoro) del 23 luglio 1993, sul quale ci soffermeremo ampiamente più avanti (v. Cap. II, Sez. IV, par. 1), con cui le parti condividevano comuni obiettivi economici di politica dei redditi e di contenimento dell’inflazione e concordavano una formalizzazione del sistema della contrattazione collettiva. La concertazione è proseguita nel corso dell’ultimo ventennio. Segnaliamo: l’accordo del 24 settembre 1996 per il lavoro

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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(ministro del lavoro Treu), contenente misure contro la disoccupazione; il patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione 22 dicembre 1998 (governo D’Alema), con cui la concertazione viene in qualche modo istituzionalizzata, prevedendosi «meccanismi procedurali certi e trasparenti», e viene coordinata anche con le prospettive di decentramento amministrativo e federalismo (all’epoca allo stato di progetto). Un momento di discontinuità nelle politiche concertative è costituto dal Patto per l’Italia del 5 luglio 2002, voluto dal governo Berlusconi nonostante il dissenso della CGIL. Esso ha costituito il programma sul cui calco è stata poi emanata la riforma del mercato del lavoro di cui alla l. n. 30/2003 ed al successivo d.lgs. n. 276/2003. Nella medesima logica si colloca l’Accordo quadro fra Governo, Cisl, Uil e le principali associazioni datoriali italiane (non sottoscritto dalla Cgil) del 22 gennaio 2009, relativo all’assetto della contrattazione collettiva. Di minore rilievo istituzionale è il “verbale” del 28 settembre 2016, con cui il governo, in presenza delle sole oo.ss. dei lavoratori, assume una serie di impegni destinati ad essere trasfusi in una futura legislazione in materia fiscale e previdenziale. Una sorta di sottotipo degli accordi trilaterali sono i cc.dd. strumenti di programmazione negoziata (v. l’art. 2, 203° comma l. n. 662/1996): i patti territoriali e i contratti d’area. Con i primi – stipulati fra le pubbliche amministrazioni locali e soggetti privati, con la partecipazione delle parti sociali – si perseguono (prevalentemente) obiettivi di sviluppo economico. I secondi – stipulati dai medesimi soggetti – hanno lo scopo di promuovere l’occupazione in aree del paese particolarmente svantaggiate, utilizzandosi agevolazioni fiscali e finanziarie, autorizzate dalla UE.

Gli strumenti di programmazione negoziata

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Diritto sindacale

Sezione VI. La rappresentanza e i diritti sindacali nei luoghi di lavoro A) La rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro SOMMARIO: 1. L’assetto storico pre-statutario. – 2. L’autunno caldo e lo statuto dei lavoratori. – 3. Le rappresentanze sindacali aziendali nell’art. 19 dello statuto dei lavoratori. – 4. I locali delle r.s.a. – 5. Il diritto di affissione. – 6. Permessi e aspettative sindacali. – 7. La tutela dei sindacalisti interni. – 8. Oltre le r.s.a.: le rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.). – 9. La rappresentanza sindacale nel pubblico impiego. – 10. Il rappresentante per la sicurezza: rinvio. – 11. La partecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese.

1. L’assetto storico pre-statutario

Le Commissioni interne

L’organizzazione sindacale, come abbiamo accennato in precedenza, nata in fabbrica, si è ben presto spostata sul territorio, ove ha radicato strutture organizzative dirette alla rappresentazione di interessi collettivi di vaste categorie di lavoratori, in forma associativa. Il sindacato italiano, in particolare, ha, per una lunga parte della sua storia, trascurato la rappresentanza all’interno dell’impresa e tale vuoto è stato colmato da entità rappresentative, sganciate da ogni riferimento all’associazione esterna. L’espressione più caratteristica di tale forma organizzativa è la Commissione interna, che venne regolata, per la prima volta, in uno storico accordo del 1906 tra la FIOM (l’organizzazione sindacale dei metallurgici) e la fabbrica di automobili Itala. Con il patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 le commis-

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sioni interne vennero soppresse e successivamente ripristinate con l’Accordo Buozzi-Mazzini (v. retro, Cap. I, Sez. I, par. 2) il 2 settembre del 1943. Alla loro regolamentazione si procedette, nel dopoguerra, con accordi interconfederali del 7 agosto 1947, 8 maggio 1953 e 18 aprile 1966. Le c.i. erano organismi eletti dai lavoratori dell’impresa a suffragio universale, su liste contrapposte; i seggi venivano ripartiti con il metodo proporzionale. Alla formazione delle liste contribuivano sia lavoratori aderenti a sindacati sia lavoratori non iscritti. Le c.i. svolgevano azione sostanzialmente sindacale, anche se non erano organi del sindacato. Con l’accordo del 1966 inoltre fu loro preclusa l’attività contrattuale. La presenza delle c.i. nelle fabbriche ancora alla fine degli anni sessanta è testimoniata dallo stesso statuto dei lavoratori, che, in più occasioni, affida loro funzioni di contropotere sindacale nell’impresa, ma solo nel caso di mancata costituzione delle r.s.a. (v. gli artt. 4 e 6). Ai membri ed ai candidati alle elezioni delle c.i. sono inoltre riconosciute guarentigie analoghe a quelle dei sindacalisti interni (v. gli artt. 18 e 22). Un primo tentativo di superamento delle c.i. si ebbe con l’istituzione – fatta propria in particolare dalla CISL – delle sezioni sindacali aziendali (s.a.s.). Si trattava di una forma organizzativa che ripudiava il meccanismo di rappresentanza di tipo elettivo delle c.i., per basarsi sul principio associativo. Esse però non ebbero grande diffusione, senza riuscire a sostituire le c.i. La svolta – anche per i modelli rappresentativi nell’impresa – si ebbe nel cruciale biennio 1968/69, nel corso del quale vennero introdotti: i delegati ed il consiglio di fabbrica (o consiglio dei delegati). Volendo semplificare al massimo fenomeni assai articolati, si può dire che i delegati erano soggetti rappresentativi dei lavoratori appartenenti ad un medesimo «gruppo omogeneo», cioè dei lavoratori che operavano nel medesimo settore produttivo (o reparto), che avevano quindi una solida comunanza di inte-

Le s.a.s.

I delegati ed i consigli di fabbrica

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ressi. Non necessariamente il delegato era espressione di un sindacato, essendo eletto dai lavoratori del «gruppo»; anzi all’inizio i delegati nacquero in aperta contestazione del sindacalismo tradizionale. Ciò peraltro non impedì al sindacato di fare gradatamente propria tale forma di rappresentanza. I delegati di una determinata unità produttiva si riunivano poi nel consiglio di fabbrica (o dei delegati). I sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL), riuniti in un patto federativo nel 1972, riconobbero ai consigli di fabbrica poteri «contrattuali» all’interno dell’impresa, senza peraltro definire con chiarezza sia i rapporti verso la base che quelli verso il sindacato esterno. In virtù del patto federativo, che riconosceva i consigli di fabbrica come struttura di base del sindacato, a questi ultimi, nella contrattazione collettiva, vennero attribuiti i diritti ed i poteri delle r.s.a. Sennonché la rottura del patto federativo fra le confederazioni, avvenuta nel 1984, oltre alle modificazioni intervenute nella complessiva geografia delle categorie lavoratrici, fece declinare la stella dei consigli di fabbrica e le varie sigle sindacali si orientarono verso la costituzione di autonome e separate r.s.a.

2. L’autunno caldo e lo statuto dei lavoratori

La situazione socio-politica alla fine degli anni sessanta

Rispetto al tema della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro lo statuto dei lavoratori rappresenta un ineludibile spartiacque. È infatti la legge del ’70 che per la prima volta dà un supporto normativo a tale forma di rappresentanza, nel contesto di un disegno generale di promozione dell’attività sindacale nell’impresa e di garanzia della libertà sindacale. Per comprendere la scelta del legislatore del 1970 è necessario inquadrare storicamente la situazione sindacale italiana sullo scorcio degli anni sessanta. È ben noto il quadro socio-politico di riferimento: sono gli anni della contestazione, una contestazione che muove dalle aule universitarie (maggio francese del ’68) e si propaga alle

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fabbriche, fino ad investire gli equilibri politici complessivi del nostro come della maggior parte dei paesi dell’occidente (ma anche dell’Est europeo: basti pensare alla c.d. primavera di Praga del luglio del 1968). La critica contestataria non investe – anche questo è risaputo – solo i «padroni» e lo stato, ma si estende a tutte le istituzioni «totalizzanti», fra cui, certamente la fabbrica, ma anche il sindacato, in quanto struttura ritenuta ormai burocratizzata ed oligarchica, non più rappresentativa dei reali interessi dei lavoratori. Si sperimentano così – nelle università come nelle fabbriche – forme di democrazia diretta di matrice assembleare, in cui la soluzione dei conflitti è affidata non alla mediazione di soggetti rappresentativi, ma direttamente alla «base» (guidata peraltro dalle avanguardie). Le tradizionali forme organizzative del sindacato, i cui modelli principali abbiamo ricordato nel precedente par., vengono scavalcate da coalizioni occasionali di lavoratori: i delegati di reparto, di linea, di gruppo omogeneo, i c.u.b. (comitati unitari di base), ecc., tutte forme di rappresentanza non associative e spontaneistiche. La descritta situazione non mancò di influire sulla discussione – da tempo avviata – relativa alla introduzione, per via legislativa, di una carta dei diritti dei lavoratori (o statuto dei lavoratori) nell’impresa. Si trattava di un progetto che veniva da lontano (da una prima proposta di Di Vittorio del 1952 al Congresso della CGIL) ed era entrata nei programmi del primo governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro nel 1963. Il progetto che iniziò il proprio iter parlamentare nel giugno del 1969 (su proposta del Ministro socialista Brodolini, con il supporto essenziale di Gino Giugni) nasceva su basi ben diverse e teneva conto della sopravvenuta situazione sindacale e sociale, che abbiamo rapidamente descritto. Ferma l’idea che lo statuto dei lavoratori dovesse garantire nei luoghi di lavoro l’affermazione dei diritti di libertà ed attività sindacale, si poneva la questione cruciale del modello di rappresentanza da costruire.

Lo statuto dei lavoratori e i modelli di rappresentanza

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Diritto sindacale

Le alternative astrattamente proponibili erano sostanzialmente due. Secondo l’una il legislatore avrebbe potuto affidare la rappresentanza dei lavoratori nell’impresa a coalizioni spontanee, di volta in volta scelte dai lavoratori ovvero ad organismi elettivi dei lavoratori stessi, in ambedue i casi al di fuori di ogni collegamento con le organizzazioni sindacali esterne all’impresa. Secondo l’altra invece la scelta avrebbe potuto cadere su una rappresentanza, collegata al sindacato esterno. L’opzione legislativa cadde su quest’ultimo modello, caratterizzando l’intervento legislativo come intervento di sostegno ai sindacati e promozionale della loro attività nell’impresa. Fu dunque una scelta per c.d. istituzionale, che ripudiava forme di democrazia sindacale diretta (assembleare), per privilegiare una democrazia di tipo rappresentativo. Inoltre, come vedremo subito (ma abbiamo già anticipato), la promozione del sindacalismo fu rigorosamente selettiva, dal momento che privilegiò il sindacalismo confederale nei confronti del restante associazionismo di matrice «autonoma».

3. Le rappresentanze sindacali aziendali nell’art. 19 dello statuto dei lavoratori

L’ambito di applicabilità del Titolo III

L’art. 19 dello statuto dei lavoratori apre il Titolo III della legge che è dedicato alla protezione e promozione dell’attività sindacale nell’impresa. Nell’ambito di tale Titolo vengono introdotte norme per regolare: a) la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali ed i diritti connessi (artt. 19, 25, 27); b) le guarentigie a tutela dei membri e/o dirigenti delle r.s.a. (art. 22) ed il diritto ai permessi strumentale all’esercizio della loro attività (artt. 23, 24); c) i diritti sindacali dei lavoratori (artt. 20, 21, 26). Il Titolo III – a differenza dei residui Titoli dello statuto dei lavoratori – non è di generale applicabilità. Secondo l’art. 35 dello statuto esso trova applicazione nei confronti delle imprese (con esclusione dei datori non imprendi-

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tori) che nelle rispettive unità produttive occupino oltre quindici lavoratori. Il numero complessivo di quindici dipendenti può essere raggiunto anche sommando le unità produttive poste nello stesso comune. Al personale navigante delle imprese di navigazione ferma l’applicabilità degli artt. 1, 8, 9, 14, 15, 16 e 17, l’applicazione dei principi dello statuto (ivi comprese le norme di cui qui si discute) è demandata alla contrattazione collettiva. Secondo l’art. 19 dello statuto dei lavoratori (versione originaria), r.s.a. possono essere costituite «ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva». Inoltre, alla stregua del 2° comma dell’art. 19, nell’ambito delle imprese con più unità produttive, le r.s.a. posso costituire organi di coordinamento. Per quanto riguarda il rapporto fra i lavoratori dell’impresa ed il sindacato esterno la norma lascia la massima libertà, limitandosi a stabilire che le r.s.a. debbano essere costituite «ad iniziativa dei lavoratori». Il che comporta che potrà trattarsi di organismi elettivi o non elettivi. Inoltre la circostanza che la scelta debba essere operata «nell’ambito» di taluni sindacati è altrettanto rispettosa della libertà nei rapporti lavoratori/associazione, prescindendo dalla necessità, ad es., che i membri delle r.s.a. siano iscritti al sindacato. Ciò che conta, in buona sostanza ed al di fuori da ogni formalismo, è che la rappresentanza sia riconosciuta dal sindacato esterno come propria. Venendo alla selezione dei sindacati nel cui ambito possono essere costituite le r.s.a. abbiamo già ricordato che la scelta dello statuto costituisce la punta più alta di emersione del criterio della rappresentatività presunta. Lo statuto ha voluto cioè privilegiare i sindacati di categoria aderenti alle confederazioni

L’art. 19 s.l. nella versione originaria

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Questioni di costituzionalità

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maggiormente rappresentative, attribuendo loro una patente di rappresentatività del tutto avulsa dalla verifica concreta della sua effettività nello specifico settore produttivo. I sindacati autonomi (non confederali) trova(va)no uno spazio nell’art. 19 esclusivamente, nel caso in cui fossero stati sottoscrittori di contratti collettivi – nazionali o provinciali – effettivamente applicati nell’unità produttiva. Costoro dovevano cioè conquistarsi sul campo e la legittimazione negoziale e, conseguentemente, il potere di costituire r.s.a. L’opzione di politica del diritto, fatta propria dalla legge del ’70, è stata oggetto di verifica di costituzionalità e sotto vari profili. Anzitutto si è lamentata la violazione del principio di eguaglianza, per la promozione solo di una rappresentanza espressione dei sindacati (e non per c.d. «spontaneistica») e, sotto altro profilo, per la scelta di quei sindacati. Più in generale sì è lamentato il carattere eversivo dei criteri utilizzati per la selezione dei soggetti sindacali a fronte di quelli fatti propri dall’art. 39 Cost. Sennonché la Corte costituzionale, chiamata più volte a pronunciarsi, ha avuto sempre modo di ribadire la legittimità della scelta. Con la prima storica decisione del 1974 (v. Corte cost. n. 54/1974) la Corte giustificò quel privilegio per il sindacalismo confederale – in relazione all’art. 3 Cost. – in termini di ragionevolezza, rilevando, da una parte, che quei sindacati fornivano garanzie di solidità di impianto e storica rappresentanza degli interessi dei lavoratori, e, dall’altra, che la scelta di affidarsi ai sindacati esterni anziché a coalizioni spontanee, impediva una frammentazione della rappresentanza che sarebbe andata a detrimento anche dell’attività dell’impresa. La violazione dell’art. 39 Cost. venne poi esclusa, sul presupposto che lo statuto assicurava comunque la tutela della libertà sindacale dei singoli (artt. 14-16), mentre la scelta selettiva era giustificata dall’attribuzione di specifici diritti, ulteriori rispetto alla mera garanzia di libertà. L’orientamento della Corte venne poi confermato in successive pronunce (v.: Corte cost. n. 334/1988 e Corte cost. n. 30/1990),

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anche se con qualche distinguo significativo. Per quel che più conta nella più recente decisione, i giudici della Consulta, pur riaffermando la legittimità costituzionale dell’art. 19, hanno ritenuto necessario segnalare al legislatore la necessità di approntare «nuove regole, ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato», aprendo così la strada all’abbandono del criterio della rappresentatività presunta. Come abbiamo già ricordato l’art. 19 dello statuto dei lavoratori è stato oggetto nel 1995 di referendum abrogativo. L’esito del referendum è stato parzialmente positivo per i promotori. È stata infatti abrogata l’intera lettera a) della norma ed espunte le parole «nazionali e provinciali» dalla lettera b). Ne è risultato un quadro in cui è stato eliminato il privilegio conferito al sindacalismo confederale (lett. a) e si è lasciata in vita la possibilità di costituire r.s.a. solo a favore dei sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, quale che ne sia il livello di estensione. Gli esiti pratici del referendum – lo abbiamo già rilevato – non sono stati sconvolgenti: i sindacati confederali, cacciati dalla porta, sono infatti rientrati dalla finestra, in quanto, fuor di dubbio, firmatari dei contratti collettivi di tutti i settori produttivi. Ciò che invece resta acquisito è il superamento di un criterio selettivo (quello della rappresentatività presunta) che consentiva la promozione di certi sindacati, anche al di fuori di una rappresentatività effettiva. Oggi il potere di costituire r.s.a. è conferito a chi in concreto possa dimostrare di avere poteri rappresentativi, mediante la partecipazione all’attività di negoziazione collettiva. La formulazione dell’art. 19 post-referendaria, per un lungo periodo, ha superato il vaglio di costituzionalità. Fino al luglio 2013, la Corte costituzionale (v. la sent. n. 244/1996) aveva infatti riaffermato la ragionevolezza del criterio della «sottoscrizione dei contratti collettivi», criterio che lungi dall’essere puramente formale, alludeva invece alla effettiva partecipazione all’attività di negoziazione, a condizione, ovviamente, che si trattasse di contratti normativi, contenenti la rego-

Il referendum abrogativo del 1995

Il vaglio di costituzionalità sulla nuova norma

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lazione di rapporti di lavoro e non di accordi occasionali o settoriali (a livello aziendale). Nel 2013 però (v. la sent. n. 231) la Consulta ha ribaltato il precedente orientamento rilevando come il testo dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori riflettesse un assetto storicamente datato delle relazioni sindacali e che il criterio della «sottoscrizione dei contratti collettivi», per una sorta di eterogenesi dei fini, si era trasformato in meccanismo di esclusione di soggetti altamente (se non maggiormente) rappresentativi. La vicenda concreta, che ha dato origine alla questione di costituzionalità, è la seguente: la FIAT, dopo essere uscita dal sistema confindustriale ed aver disdettato il contratto collettivo nazionale, aveva sottoscritto un contratto aziendale solo con alcune oo.ss., con l’opposizione della FIOM, organizzazione altamente rappresentativa, che aveva rifiutato di sottoscriverlo, non condividendone i contenuti. Proprio in ragione della mancata sottoscrizione del contratto collettivo la FIAT non aveva consentito alla organizzazione dissenziente la costituzione di una r.s.a. e l’esercizio dei diritti sindacali previsti dallo statuto. La Corte costituzionale, investita della questione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lett. b), dello statuto, «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda». Per la Corte in buona sostanza il dato della sottoscrizione del contratto collettivo – ai fini della selezione dei soggetti abilitati a costituire una r.s.a. – non va inteso in senso formale, ma deve essere comprensivo di una seria partecipazione alle trattative, restando ovviamente libera l’organizzazione sindacale, all’esito di queste e per ragioni di opportunità politica, di non sottoscrivere il patto. A ritenere il contrario il dato della sottoscrizione rischierebbe di trasformarsi in un meccanismo di esclusione di un soggetto (maggiormente o significativamente) rappresenta-

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tivo a livello aziendale, con violazione sia del principio di eguaglianza (per irragionevolezza e disparità di trattamento) e dello stesso art. 39 Cost., perché fortemente penalizzante della libertà di azione sindacale. Resta peraltro da dire che – come la stessa Corte costituzionale avverte – la declaratoria di incostituzionalità, se tampona una situazione irrazionale, non risolve in radice il problema dei criteri cui ancorare la rappresentatività, criteri che dovranno essere individuati dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità politica.

4. I locali delle r.s.a. Le r.s.a. per poter svolgere la loro attività di tutela dei lavoratori nell’impresa hanno diritto, in ciascuna unità produttiva con almeno duecento dipendenti, a disporre in modo permanente di un «idoneo locale comune» (art. 27 statuto dei lavoratori). La norma presuppone che le r.s.a. siano (o possano essere) più di una, giacché per ogni categoria esiste una pluralità di soggetti sindacali dotati di rappresentatività ed indica che il locale deve essere unico per tutte le r.s.a. («comune»). Ulteriore requisito è quello dell’idoneità del locale a svolgere la funzione, cui è preordinato: quella di consentire le riunioni dei membri delle r.s.a. e le attività connesse al loro mandato. Il locale deve trovarsi «all’interno dell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa». Va da sé che l’imprenditore è libero di individuare quello da destinare alle r.s.a. fra più locali, tutti forniti dei requisiti richiesti. Non potrebbe invece sceglierne uno esterno all’unità produttiva, in presenza di un locale idoneo all’interno. Porrebbe in essere, in tal caso, un illegittimo ostacolo all’attività sindacale. Il locale va utilizzato per le finalità sue proprie ed il datore di lavoro può opporsi ad un uso improprio. In astratto gli atti di turbativa posti in essere del datore di lavoro nei confronti del libero uso dei locali da parte delle r.s.a.

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possono essere tutelati attraverso il ricorso all’azione di reintegra nel possesso di cui all’art. 1168 cod. civ. Resta fermo peraltro che una ben più pregnante tutela assicura la clausola generale di cui all’art. 28 dello statuto dei lavoratori. Infine, alla stregua del 2° comma dell’art. 27, nelle unità produttive con meno di 200 dipendenti, le r.s.a. non hanno diritto ad un locale permanentemente adibito alle riunioni, ma possono usufruirne solo su apposita richiesta.

5. Il diritto di affissione Secondo l’art. 25 dello statuto dei lavoratori le r.s.a. «hanno diritto di affiggere su appositi spazi, che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre in locali accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro». Si tratta di un diritto già riconosciuto in precedenza dalla contrattazione collettiva ai rappresentanti dei lavoratori, che ha la funzione di concedere alle r.s.a. uno strumento di comunicazione con la base dei lavoratori. Per rendere agevole tale compito gli spazi in questione non solo devono essere collocati all’interno dell’unità produttiva, ma anche in luogo accessibile a tutti. Dall’impiego del plurale («spazi») si è dedotto che ciascuna r.s.a. ha diritto ad un proprio spazio e ciò anche per evitare conflitti fra le varie r.s.a. Le r.s.a. sono le titolari esclusive di tale diritto e la loro posizione rispetto agli spazi è quella di un detentore qualificato (più che di possessore). Sul piano della tutela potranno pertanto invocare l’art. 1168 cod. civ. o, come abbiamo già visto nel precedente par., più incisivamente l’art. 28 statuto dei lavoratori. La precedente affermazione comporta che il datore di lavoro non può procedere unilateralmente alla defissione di documenti, ritenuti estranei alla materia dell’art. 25, ma deve ottenere un provvedimento giurisdizionale autorizzativo (magari attraverso la procedura d’urgenza di cui all’art. 700 cod. proc. civ.).

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Fra l’altro il datore potrebbe esporsi alla commissione del reato di cui all’art. 392 cod. pen. (esercizio abusivo delle proprie ragioni con violenza sulle cose). I documenti o i comunicati affissi devono attenere a «materie di interesse sindacale e del lavoro»: data l’identità di formulazione si rinvia alla trattazione che se ne farà nel commento dell’art. 20 (diritto di assemblea): infra, par. 12.

6. Permessi e aspettative sindacali Per l’esercizio del loro mandato rappresentativo i dirigenti delle r.s.a. hanno diritto a godere di permessi. Secondo l’art. 23 statuto dei lavoratori essi hanno anzitutto diritto a permessi retribuiti. In tali situazioni il datore di lavoro è onerato non solo di tollerare l’assenza dal lavoro, ma deve anche retribuire le ore di permesso. Titolari del diritto sono i dirigenti delle r.s.a. di cui all’art. 19. La distribuzione dei permessi tiene conto delle dimensioni delle imprese, con un alleggerimento degli oneri delle imprese minori. Nelle unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti il diritto spetterà ad un dirigente per ciascuna r.s.a. della categoria. Nelle unità produttive maggiori invece il numero dei titolari dei permessi è proporzionale al numero dei dipendenti dell’impresa: a) nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti avrà diritto al permesso un dirigente di r.s.a. ogni 300 (o frazione di 300) dipendenti per ciascuna r.s.a.; b) nelle unità produttive di maggiori dimensioni avrà diritto al permesso un dirigente di r.s.a. ogni 500 (o frazione di 500) dipendenti per ciascuna r.s.a. La durata dei permessi non potrà essere inferiore ad un’ora l’anno per ciascun dipendente nelle unità produttive più piccole e ad otto ore l’anno per ciascun dipendente in quelle maggiori (sub a e b). La materia è derogabile in melius da parte della contrattazione collettiva. Quest’ultima usualmente per semplificare il problema assegna a ciascuna r.s.a. (o a ciascuna sigla sindaca-

I permessi retribuiti

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Permessi ed organizzazione produttiva

I permessi non retribuiti

I permessi per i dirigenti dei sindacati esterni

Diritto sindacale

le) un monte-ore di permessi retribuiti che i destinatari autogestiscono in relazione alle loro esigenze. Il lavoratore che intende esercitare il permesso deve darne comunicazione al datore di lavoro, tramite le r.s.a., «di regola» 24 ore prima. Va da sé che il titolare del permesso dovrà utilizzarlo per attività strettamente connesse al mandato sindacale. È conseguenziale assumere che il datore di lavoro potrà eventualmente contestare – provandolo adeguatamente – l’impiego illegittimo delle ore di permesso, negando la controprestazione retributiva ed, ove del caso, agendo in via disciplinare. Per converso il datore non sembra avere un diritto ad un controllo preventivo delle finalità del permesso. Trattandosi di una sorta di diritto potestativo (qualificazione che vale per questo come per gli altri diritti sindacali) il datore non potrebbe opporre alla fruizione del permesso l’esistenza di esigenze confliggenti di carattere organizzativo. L’unica eccezione vale per l’ipotesi della esistenza di esigenze di salvaguardia dell’incolumità delle persone e della integrità degli impianti. L’art. 24 dello statuto dei lavoratori prevede poi il diritto, per i medesimi soggetti, a permessi non retribuiti. L’impiego di tali permessi è ristretto alla «partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale». I lavoratori che intendono fruirne devono informare il datore di lavoro, tramite le r.s.a., «di regola» tre giorni prima. Il limite minimo di fruizione è di otto giorni all’anno. Anche rispetto a tali permessi vale quanto già riferito in ordine all’insussistenza di un potere di controllo preventivo del datore sulle finalità dell’assenza dal lavoro. L’art. 30 dello statuto dei lavoratori prevede poi il diritto a permessi retribuiti anche per i dirigenti provinciali e nazionali delle associazioni di cui all’art. 19, che, come abbiamo visto in precedenza, all’esito del referendum sono quelle firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva. Tale norma, a differenza degli artt. 23 e 24 è di generale applicabilità, essendo estranea al Titolo III, alle cui norme si applica la limitazione dimensionale prevista dall’art. 35.

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La funzione di tali permessi è ristretta alla «partecipazione alle riunioni degli organi» direttivi dei sindacati provinciali e nazionali. Si tratta quindi di un’attività di natura sindacale che si svolge al di fuori dell’impresa. La legge non indica la misura dei permessi, ma rinvia alla contrattazione collettiva siffatta determinazione. Anche rispetto a tali permessi i contratti collettivi utilizzano la tecnica del monte-ore. Non vi è nemmeno alcuna indicazione circa un obbligo di preavviso, anche se il medesimo è comunque enucleabile alla luce dei principi generali di buona fede e correttezza. Infine l’art. 31 dello statuto dei lavoratori riconosce, a richiesta, ai dirigenti provinciali e nazionali dei sindacato il diritto all’aspettativa non retribuita. Di tale diritto sono titolari i dirigenti di tutti i sindacati, anche al di fuori delle limitazioni poste dall’art. 19. Anche tale norma è di generale applicabilità. Il periodo di aspettativa è utile a fini pensionistici, essendo onerati gli enti previdenziali di accreditare una contribuzione figurativa. Il lavoratore in aspettativa conserva inoltre, per il relativo periodo, in caso di malattia, il diritto alle prestazioni previdenziali e sanitarie. Per quanto riguarda il settore pubblico l’art. 50 del d.lgs. n. 165/2001 rinvia alla determinazione del limite massimo delle aspettative e dei permessi ad uno specifico accordo fra l’ARAN e le confederazioni sindacali rappresentative. Anche tali diritti sono proporzionati secondo la rispettiva rappresentatività associativa, stabilita per la contrattazione collettiva e la costituzione delle r.s.a.

7. La tutela dei sindacalisti interni I dirigenti delle r.s.a. (nonché i candidati ed i membri delle commissioni interne) hanno una tutela rafforzata in caso di trasferimento (art. 22 dello statuto dei lavoratori) e licenzia-

L’aspettativa per il mandato sindacale

Permessi e aspettative nel settore pubblico

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La tutela nei confronti del trasferimento

La tutela nei confronti del licenziamento

Diritto sindacale

mento (art. 18, 11° comma dello statuto dei lavoratori). Per quanto riguarda il trasferimento l’art. 22 dello statuto dei lavoratori riconosce al sindacalista interno una sorta di diritto all’inamovibilità, che può essere rimosso esclusivamente tramite il nulla-osta dell’associazione sindacale di appartenenza, la cui negazione è insindacabile da parte del giudice. Va da sé che, in caso di concessione del nulla-osta, il datore è comunque onerato di rispettare le previsioni dell’art. 2103 cod. civ. quanto all’esistenza di giustificazioni oggettive della scelta di trasferire. Giova rilevare che la nozione di «trasferimento» di cui all’art. 22 s.l. sembra più ampia di quella prevista dall’art. 2103 cod. civ. con riferimento a tutti gli altri lavoratori. Proprio per giustificare una più pregnante protezione dell’inamovibilità del sindacalista in ragione del suo ruolo che implica necessari contatti con la base dei lavoratori, da cui riceve la legittimazione all’azione sindacale, la norma dello statuto identifica il trasferimento come ogni spostamento «dall’unità produttiva», senza indicare il luogo di approdo del lavoratore, laddove nell’art. 2103 cod. civ. si parla di trasferimenti «da un’unità produttiva ad un’altra». Va peraltro osservato che la tendenza giurisprudenziale più recente si muove nella direzione di unificare le nozioni di trasferimento rilevanti nelle varie situazioni, facendo prevalere quella più strettamente aderente alla ratio dell’art. 2103. Una disciplina accentuatamente garantistica è prevista anche nei confronti del licenziamento del sindacalista interno dall’art. 18, 11° comma dello statuto dei lavoratori; tale disciplina riprende ed amplia la regolamentazione di cui all’art. 14 dell’Accordo Interconfederale 18 aprile 1966 sulle commissioni interne. I destinatari di tale tutela sono i lavoratori «di cui all’art. 22 dello statuto» e cioè i dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali ed i candidati e membri di commissioni interne. In caso di licenziamento di tali soggetti si prevede che, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui aderisce o conferisce mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti

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o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione nel posto di lavoro. La natura cautelare dell’ordinanza è confermata dall’ammissibilità del reclamo e dalla possibilità di revoca con la sentenza che decide il giudizio. A parte la prefigurazione di uno speciale procedimento (la cui mancanza peraltro non avrebbe impedito al lavoratore di utilizzare lo strumento generale di cui all’art. 700 cod. proc. civ. ed al sindacato quello di cui all’art. 28 dello statuto), la tutela si caratterizza soprattutto per l’obiettivo che persegue il legislatore di garantire l’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro. La reimmissione del sindacalista nell’impresa è infatti considerata un valore imprescindibile, per consentire l’adempimento del mandato, che può espletarsi solo attraverso il diuturno contatto con i colleghi e la possibilità di accedere nei luoghi di lavoro. Allo scopo la legge – consapevole della incoercibilità giuridica dell’obbligo di reintegrazione – cerca di scoraggiare un adempimento esclusivamente economico dell’ordinanza, consistente cioè nel pagamento della retribuzione senza effettiva reintegrazione. Per raggiungere tale obiettivo si serve di una coazione indiretta, imponendo al datore di lavoro, che non ottempera all’ordine di reintegrazione, il pagamento, ulteriore rispetto alla retribuzione dovuta, per ogni giorno di ritardo, di una somma pari all’importo della retribuzione a favore del Fondo adeguamento pensioni (presso l’INPS). Il che significa intuitivamente che ogni giorno di mancata reintegra ha, per il datore, un costo doppio, giacché alla retribuzione dovuta al lavoratore si aggiunge l’ulteriore ed eguale somma dovuta a titolo di astreinte.

8. Oltre le r.s.a.: le rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.) L’introduzione per via legislativa della forma di rappresentanza regolata dall’art. 19 dello statuto dei lavoratori lasciava aperti non pochi problemi sia nei rapporti interni fra i sindacati sia in quelli con la controparte datoriale. In primo luogo essa non attenuava la tensione interna alle

I problemi lasciati aperti dall’art. 19 s.l.

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L’introduzione per via contrattuale delle r.s.u.

Diritto sindacale

varie componenti sindacali, ciascuna portatrice di una specifica visione delle relazioni industriali: da una parte, quella fatta propria dalla CISL, che ha sempre privilegiato una forma di rappresentanza basata sul vincolo associativo, dall’altra, quella della CGIL, che invece propende per una visione più egemonica, in cui il sindacato è ente esponenziale della categoria professionale, a prescindere dall’affiliazione. Ulteriore terreno di contrapposizione era costituito dal riconoscimento del reciproco peso all’interno delle rappresentanze di tipo unitario (ad es. i consigli di fabbrica), oscillante fra il proporzionalismo (propugnato dalla CGIL) ed il principio paritario (fatto proprio dalla CISL). Come accennato in precedenza la rottura del patto federativo fra le confederazioni (nel 1984) condusse al superamento dell’esperienza della rappresentanza unitaria dei consigli di fabbrica. Il che portò alla moltiplicazione delle r.s.a. (una per ciascuna sigla sindacale), con la conseguenza di rendere faticosa la gestione delle relazioni industriali, in particolare in caso di forte contrapposizione fra i sindacati. La cronaca giurisprudenziale ha spesso dovuto documentare di presunte condotte antisindacali del datore di lavoro, consistenti nell’ammettere al tavolo delle trattative soggetti sindacali, sgraditi alle altre associazioni. Probabilmente il dibattito interno alle forze sindacali su temi così cruciali si sarebbe protratto assai più a lungo, se la crisi economica e la necessità, per l’Italia, di adeguarsi ai vincoli imposti dalla Comunità europea per l’ingresso nell’area monetaria comune non avessero reso ineludibile l’adozione di una rigorosa politica dei redditi. Fu questa la temperie in cui maturò, come abbiamo già riferito (v. retro, Sez. V, par. 2 ed infra, Cap. II, Sez. IV, par. 1), il Protocollo Ciampi-Giugni del luglio 1993. Nell’ambito della complessiva risistemazione delle relazioni industriali le parti stipulanti il Protocollo intesero collocare anche la revisione della materia della rappresentanza sindacale nell’impresa, con la costituzione di un nuovo organismo: le rappresentanze sinda-

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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cali unitarie. Alla regolamentazione puntuale di tale nuova forma di rappresentanza provvide un apposito accordo interconfederale sottoscritto il 20 dicembre 1993 da Confindustria, Intersind, CGIL, CISL ed UIL. Alla stregua di tale accordo le organizzazioni sindacali firmatarie (o quelle che vi abbiano aderito successivamente) hanno diritto di costituire – nelle unità produttive con oltre 15 dipendenti – le r.s.u., secondo le modalità che illustreremo subito, per quel che più conta, rinunziando a costituire proprie r.s.a. Le r.s.u. nascono quindi istituzionalmente quali strutture sostitutive della rappresentanza prevista dallo statuto dei lavoratori, ed, in quanto tali, subentrano a quest’ultima «nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni» che la legge assegna alle r.s.a. La coesione del patto è peraltro espressa dal principio per cui ciascun sindacato firmatario può «uscire» dalla r.s.u., in una determinata unità produttiva, costituendo una propria r.s.a., ma solo a condizione di dare disdetta all’intero accordo interconfederale. Il che ovviamente comporta la preclusione a partecipare alla elezione di r.s.u. in ogni (ulteriore) luogo di lavoro. In sostanza l’accordo intende evitare in tal modo una frammentazione delle forme di rappresentanza ed incentivare la costituzione di r.s.u. La materia è stata oggetto di recente revisione per effetto dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo di intesa del 31 marzo 2013, entrambi sottoscritti da Confindustria, CGIL, CISL e UIL. La regolamentazione è confluita oggi nel Testo Unico sulla rappresentanza sindacale (sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL) del 10 gennaio 2014 che, per espressa previsione, “riprende” la disciplina contenuta nell’A.I. del 20 dicembre 1993, anche alla luce delle modifiche apportate dall’A.I. del 2011 e dal Protocollo del 2013. L’A.I. del 1993 risolveva in modo originale la questione essenziale dei rapporti fra la base dei lavoratori dell’impresa ed il sindacato esterno, operando un compromesso fra designazione verticistica e metodo elettivo. Alla costituzione delle r.s.u. si procedeva infatti, per due terzi dei seggi mediante elezione con

La composizione

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Le operazioni elettorali

I soggetti che vi possono partecipare

Diritto sindacale

suffragio universale ed a scrutinio segreto fra liste concorrenti e per il restante terzo con assegnazione alle liste presentate dalle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva ed alla sua copertura si procedeva o mediante elezione o mediante designazione, in proporzione ai voti ricevuti (v. l’art. 2 dell’A.I. del 1993). Il Testo unico del 2014, superando tale impostazione, prevede che alla costituzione di r.s.u. si proceda mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra liste concorrenti (v. Parte II, sez. II, n. 2 del T.U. del 2014). Il numero dei componenti è variabile e crescente in proporzione al personale occupato nell’unità produttiva: 3 componenti per le unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti; 3 ogni 300 (o frazione) nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti; 3 ogni 500 (o frazione) nelle unità produttive che occupano oltre 3.000 dipendenti. Le operazioni elettorali sono analiticamente regolate nella sezione III della Parte II del T.U. del 2014, dedicata alla «disciplina della elezione delle r.s.u.». È discusso e discutibile che le eventuali controversie elettorali possano essere trattate con il rito lavoristico, esulando dall’ambito delle «controversie individuali di lavoro», di cui agli artt. 409 e ss. cod. proc. civ. L’elezione delle r.s.u. è parzialmente «aperta» anche ad associazioni non firmatarie. Alle elezioni possono concorrere infatti sia, ed ovviamente, le oo.ss. di categoria aderenti a confederazioni firmatarie del T.U. del 2014 o firmatarie del c.c.n.l. applicato nell’unità produttiva sia altre associazioni, purché «formalmente costituite con un proprio statuto e atto costitutivo», previsione che ha lo scopo evidente di escludere dalla partecipazione eventuali coalizioni occasionali di lavoratori. Le associazioni non firmatarie devono comunque: a) accettare espressamente e formalmente i contenuti del T.U. del 2014, dell’A.I. del 2011 e del Protocollo del 2013 e b) presentare una lista che sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti non inferiore al 5% dei lavoratori aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 di-

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pendenti (nelle aziende con un numero inferiore di dipendenti, la lista dovrà essere corredata da almeno 3 firme di lavoratori). Altra previsione di rilievo è quella secondo cui i componenti delle r.s.u. durano in carica per tre anni e decadono automaticamente allo spirare del periodo. Tale previsione supera pertanto la prassi della proroga tacita, spesso invalsa per le r.s.a., che creava non poche disfunzioni ed incertezze nei rapporti con la controparte datoriale. Al componente dimissionario subentra il primo dei non eletti. Le dimissioni dei componenti che superino il 50% dei componenti la r.s.u. comportano la decadenza dell’intera r.s.u. Si prevede poi che il cambiamento di appartenenza sindacale di un componente della r.s.u. determini la sua decadenza dalla carica con sostituzione con il primo dei non eletti nella lista di originaria appartenenza del sostituito. Come abbiamo già visto le r.s.u. subentrano alle r.s.a. nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad esse assegnate. Inoltre – e la previsione è della massima importanza – alle r.s.u. ed alle competenti strutture territoriali delle associazioni firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro è attribuita la competenza a stipulare il contratto collettivo aziendale nelle materie, con le procedure e nei limiti stabiliti dal contratto nazionale. I componenti delle r.s.u. godono infine delle guarentigie sindacali (permessi, aspettative e libertà sindacali) riconosciute dal titolo III dello statuto dei lavoratori alle r.s.a. Le associazioni firmatarie fanno salvi, quali diritti gestibili singolarmente dai sindacati: a) quello ad indire l’assemblea durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue per lavoratore previste dall’art. 20 dello statuto dei lavoratori; b) quello ai permessi non retribuiti di cui all’art. 24 statuto dei lavoratori; c) il diritto di affissione.

9. La rappresentanza sindacale nel pubblico impiego La vicenda della rappresentanza sindacale nel pubblico impiego va inquadrata nel contesto della progressiva contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico.

Durata della carica

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I soggetti che possono costituire r.s.a.

Le rappresentanze unitarie del personale

Diritto sindacale

Per il momento ci basti rilevare che, alle origini, con la (ormai in gran parte abrogata) l. n. 93/1983 il diritto alla costituzione delle r.s.a., come nell’art. 19 statuto dei lavoratori, spettava alle «associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale» nonché ai sindacati ammessi alla contrattazione di comparto, in quanto più rappresentativi in tale ambito. Dopo il referendum del 1995, che non ha formalmente investito la norma in questione, con l’art. 6 del d.lgs. n. 396/1997, il legislatore è intervenuto per modificare quei criteri. Ne è venuto fuori un assetto in cui il potere di costituire r.s.a. è stato conferito ai medesimi sindacati ammessi alle trattative per la sottoscrizione della contrattazione collettiva (v. ora l’art. 42 del d.lgs. n. 165/2001). Ne consegue che possono costituire r.s.a. i sindacati che abbiano, nel comparto o nell’area, una rappresentatività non inferiore al 5%. Per determinare tale percentuale – come vedremo meglio quando tratteremo della contrattazione collettiva (v. infra, Cap. II, Sez. V, par. 3) – si dovrà tener conto della media fra il dato associativo, espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali, ed il dato elettorale, espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle r.s.u. (v. l’art. 43, d.lgs. n. 165/2001). Occorre comunque osservare che tali criteri sono in qualche modo considerati «provvisori» dal momento che potranno essere sostituiti da quelli previsti da norme di carattere generale sulla rappresentatività sindacale (art. 42, 1° comma, d.lgs. n. 165/2001). Alle organizzazioni sindacali così individuate spettano, in proporzione alla rappresentatività, le garanzie previste dalle norme dello statuto sui permessi e le aspettative. Accanto al riconoscimento generale del diritto a costituire r.s.a. però la legge intende favorire, anche nell’ambito della pubblica amministrazione, forme di «rappresentanza unitaria del personale», da effettuarsi mediante elezioni alle quali è garantita la partecipazione di tutti i lavoratori (art. 42, 3° comma, d.lgs. n.165/2001). Ciascuna associazione sindacale ha dunque il diritto a costituire una r.s.a. (con i connessi diritti), ma può anche parte-

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cipare alle elezioni per la r.s.u. La costituzione di r.s.u. è fortemente incentivata dalla legge, dal momento che l’associazione sindacale che intenda rinunciare a partecipare alle elezioni per le r.s.u. si vede penalizzata dall’innalzamento della soglia minima di rappresentatività per partecipare alla negoziazione collettiva dal 5% al 10% degli iscritti. Ed inoltre il mancato raggiungimento di tale soglia più alta impedisce al sindacato anche la costituzione di una r.s.a. ed il godimento dei diritti sindacali. I componenti delle r.s.u. sono equiparati ai dirigenti delle r.s.a. e godono dei medesimi diritti (art. 42, 6° comma, d.lgs. n. 165/2001). Mette conto infine ricordare che secondo la previsione del 7° comma dell’art. 42 del d.lgs. n. 165/2001 la rappresentanza unitaria del personale può esercitare in via esclusiva i diritti di informazione e di partecipazione riconosciuti alle r.s.a. nonché essere titolare della contrattazione integrativa, rinviando a specifici accordi sindacali. In attuazione di tale delega con l’accordo quadro del 1998 si è però prevista una legittimazione concorrente alla stipulazione del contratto integrativo fra r.s.u. e sindacati di categoria firmatari del contratto nazionale.

10. Il rappresentante per la sicurezza: rinvio Il d.lgs. n. 626/1994, che ha rivisitato la materia della sicurezza nei luoghi di lavoro, adeguando il nostro ordinamento alle direttive europee ha introdotto una nuova forma di rappresentanza: il rappresentante per la sicurezza. La regolamentazione è oggi contenuta nel d.lgs. n. 81/2008 (Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro). Per le evidenti connessioni con l’adempimento degli obblighi datoriali, l’argomento va trattato nell’ambito dello studio del contratto individuale di lavoro.

Poteri delle r.s.u.

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Diritto sindacale

11. La partecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese L’art. 46 Cost. e la causa della sua inattuazione

I diritti di informazione e consultazione

Secondo l’art. 46 Cost. la Repubblica riconosce «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione ... il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Si tratta di un principio che trae ispirazione dall’esperienza dei consigli di gestione, istituiti nell’aprile del 1945 dal Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, quali organismi a struttura paritetica, con funzioni di partecipazione alla gestione delle imprese. Il dibattito sull’attuazione della norma è stato peraltro ben presto abbandonato sotto la spinta sia delle imprese, refrattarie a forme di coinvolgimento dei sindacati nelle scelte decisionali, sia degli stessi sindacati, restii a farsi coinvolgere. L’azione sindacale nel nostro paese sì è invece svolta nella diversa, ed antitetica, prospettiva del contropotere sindacale, nella consapevolezza dell’irriducibile conflitto di interessi fra le due parti del rapporto di lavoro (e fra i rispettivi rappresentanti). Massima espressione di tale atteggiamento è lo statuto dei lavoratori, che, da una parte, allarga gli spazi al contropotere sindacale dentro l’impresa, così come, dall’altra, nel porre limiti esterni ai poteri unilaterali del datore di lavoro ne rifonda e conferma, in qualche modo, l’esistenza. In altri paesi (l’esempio classico è quello della Germania) la codeterminazione (Mitbestimmung) costituisce invece uno dei pilastri dello stato sociale. La via italiana alla partecipazione dei lavoratori alle gestione delle imprese – una via, per forza di cose, assai debole – è invece identificabile, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, in quelle previsioni della contrattazione collettiva di quasi tutte le categorie produttive, con cui si riconosce alle associazioni sindacali un diritto ad essere informate e consultate sulle strategie economiche delle imprese e sui principali mutamenti degli assetti organizzativi e produttivi (trasferimenti

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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d’azienda, decentramenti produttivi, nuovi investimenti, ecc.). Più in generale alla medesima logica vanno iscritte tutte quelle disposizioni di legge che coinvolgono il sindacato nelle scelte conseguenti alle crisi d’impresa: si pensi all’art. 47 della l. n. 424/1990, sul trasferimento d’azienda, agli artt. 1 e 4 della l. n. 223/1991, quanto alla cassa integrazione ed i licenziamenti collettivi, per le quali si rinvia alla trattazione relativa al contratto di lavoro. Nel diritto europeo l’attenzione al tema della partecipazione dei lavoratori è espressa dapprima dalla direttiva 45/1994, che ha istituito i comitati aziendali europei (CAE), cui è stata data attuazione con il d.lgs. 2 aprile 2002 n. 74 (preceduto da un accordo interconfederale del 27 novembre 1996, che non poteva ovviamente essere di generale applicabilità) e, più di recente, dalla direttiva 2009/38/CE, cui è stata data attuazione con il d.lgs. 22 giugno n. 2012, n. 113. In tale normativa si prevede, nelle imprese di dimensioni europee, l’istituzione di un CAE o, in alternativa, di una procedura di informazione e consultazione. Allo scopo la legge fornisce una nozione – da valere ai soli fini specifici della costituzione dei CAE – di «gruppo di imprese» e di «impresa controllante». La regolamentazione puntuale della costituzione, funzionamento e competenze del CAE è rinviata ad un accordo fra la direzione centrale (o il dirigente delegato) dell’impresa o del gruppo di imprese ed una delegazione speciale di negoziazione. La competenza a designare i membri della delegazione di negoziazione è conferita ai sindacati stipulanti il contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’impresa ed alle r.s.u. In mancanza di r.s.u. la competenza è dei lavoratori, secondo modalità concordate fra i sindacati e la direzione centrale. I CAE risultano dunque entità rappresentative e delle associazioni sindacali e dei lavoratori dell’impresa di dimensioni europee. Lo scopo della istituzione di tale forma di rappresentanza è quello di definire fra le parti (imprese e sindacati) un accordo sulle modalità dell’informazione e consultazione dei lavoratori. A tal fine la legge pretende che la direzione aziendale sia «re-

I comitati aziendali europei

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Diritto sindacale

sponsabile della realizzazione delle condizioni e degli strumenti necessari all’istituzione di un CAE» (art. 4, 1° comma). Ove la direzione centrale rifiuti per sei mesi di aprire la trattativa o comunque l’accordo per la disciplina dei CAE non venga raggiunto entro tre anni dalla richiesta, la legge prevede una disciplina alternativa, in attesa della determinazione delle parti. La parte datoriale può legittimamente negare le informazioni suscettibili di creare notevoli difficoltà al funzionamento o all’attività delle imprese interessate o di arrecare loro danno o realizzare turbativa dei mercati. A tal fine i membri della delegazione sono comunque tenuti al segreto rispetto alle notizie ricevute in via riservata e qualificate come tali dalla direzione centrale (art. 10). Dalla materia sono espressamente escluse le informazioni regolate da altre fonti legali o contrattuali (come quelle relative al trasferimento d’azienda, al licenziamento collettivo ed alla Cig o alle materie regolate dalla contrattazione collettiva).

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B) I diritti sindacali nei luoghi di lavoro SOMMARIO: 12. L’assemblea. – 13. Il referendum. – 14. L’attività di proselitismo e la raccolta dei contributi sindacali.

12. L’assemblea Oltre ai diritti riconosciuti direttamente alle r.s.a. lo statuto introduce una serie di diritti strumentali all’esercizio delle libertà sindacali posti in capo ai lavoratori. Del generale diritto di associazione e attività sindacale, di cui all’art. 14, con i connessi divieti di atti discriminatori (art. 15) e trattamento collettivi discriminatori (art. 16) abbiamo già detto. Dobbiamo ora ricordare anzitutto che, secondo l’art. 20, i lavoratori hanno diritto di riunirsi nelle unità produttive in cui prestano la loro opera, per svolgere assemblee. Il diritto di assemblea ha la funzione di consentire un collegamento fra la base dei lavoratori dell’impresa e le rappresentanze. Si tratta di un diritto di cui – secondo una logica che sotto questo profilo lo assimila allo sciopero – sono titolari i singoli lavoratori, ma che è strutturalmente di esercizio collettivo. Esso costituisce (unitamente al referendum) un correttivo alla logica della democrazia rappresentativa accolta dallo statuto, quale istituto di democrazia diretta. Il potere di convocazione dell’assemblea spetta alle r.s.a., singolarmente o congiuntamente. Peraltro tale potere può essere esercitato dalla r.s.u. Semmai il problema che si è posto è stato quello di stabilire se tale potere spettasse a ciascun componente ovvero alla r.s.u. nel suo insieme, intesa come organo collegiale. Dopo alterni orientamenti giurisprudenziali il contrasto è

Titolarità e legittimazione a convocarla

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L’oggetto dell’assemblea

Il locale

I partecipanti

Assemblee retribuite e non retribuite

Diritto sindacale

stato risolto dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 13978/2016) che ha riconosciuto il potere di ciascun componente della r.s.u. di convocare l’assemblea, escludendo la necessità dell’unanimità. L’assemblea deve avere ad oggetto «materie di interesse sindacale e del lavoro». Si è molto discusso, a ridosso dell’emanazione dello statuto, e sulla base di marcate contrapposizioni ideologiche, sulla nozione di «interesse sindacale». La contrapposizione era fra una concezione oggettiva, che limitava la materia alle sole questioni che coinvolgessero la tutela collettiva degli interessi dei lavoratori ed una soggettiva, che invece faceva capo alle questioni che, in un dato momento storico, il sindacato riteneva rientrare nel proprio interesse. Non vi è dubbio che la più ragionevole sia la seconda, posto che l’ambito di interesse dell’attività sindacale è strutturalmente mutevole e non è definibile a priori. Per converso più semplice è identificare la materia ‘del lavoro’ con riferimento a tutto quanto riguarda l’amministrazione del rapporto ed i diritti connessi. Per l’esercizio del diritto di assemblea il datore di lavoro è obbligato a mettere a disposizione un locale idoneo. Allo scopo è indispensabile che il datore sia preavvertito per tempo e che l’assemblea sia «legittimamente convocata». All’assemblea possono partecipare tutti i lavoratori dell’unità produttiva di riferimento o anche gruppi di questi, secondo la convocazione. Possono inoltre prendervi parte anche i lavoratori sospesi e/o in cassa integrazione o scioperanti. Quanto ai soggetti estranei all’impresa la norma prevede che possano parteciparvi «previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la r.s.a.». Il datore non ha invece diritto a partecipare all’assemblea. Dal punto di vista dei rapporti con il contrapposto interesse del datore di lavoro alla continuità dell’attività produttiva distinguiamo due tipi di assemblee: quelle in costanza di orario di lavoro e quelle al di fuori di esso. Le seconde – quelle fuori orario – non hanno alcuna limitazione temporale e sono non retribuite.

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Le prime invece – retribuite – sono limitate ad un massimo di dieci ore annue o alla misura eventualmente più favorevole prevista dal contratto collettivo. Più specifiche modalità possono essere previste dalla contrattazione collettiva, anche a carattere aziendale.

13. Il referendum Lo statuto prevede altresì (art. 21) che nell’impresa possano svolgersi referendum (cioè consultazioni della base dei lavoratori dell’impresa), promossi da tutte le r.s.a., fuori dell’orario di lavoro, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti all’unità produttiva ed alla categoria particolarmente interessata. La circostanza che la legge ponga la titolarità del diritto di indizione in capo a tutte le r.s.a. è indicativa della volontà legislativa di consentire la partecipazione della totalità dei lavoratori interessati alla consultazione. Va da sé che il referendum potrà riguardare la totalità dei lavoratori dell’impresa ovvero una parte o gruppo di essi e diversa sarà nei due casi la platea dei destinatari: la totalità nel primo caso, il gruppo interessato nel secondo. Il referendum deve avere ad oggetto, secondo l’art. 21, «materie inerenti all’attività sindacale». All’apparenza si tratta di una formulazione più ristretta rispetto a quella utilizzata per il diritto di assemblea, che include anche la «materia del lavoro». Sennonché è evidente che – secondo quanto abbiamo già detto a proposito dell’assemblea – è di interesse sindacale tutto quanto rientra nell’azione di tutela svolta dall’associazione. Nella prassi sono oggetto di referendum fra i lavoratori sia le piattaforme rivendicative che il sindacato presenta alla controparte datoriale prima dell’inizio delle trattative per il rinnovo del contratto collettivo, sia le ipotesi di accordo siglate all’esito di queste. Anche per il referendum la formulazione legislativa evoca una sorta di diritto potestativo, dal momento che il datore di

L’oggetto

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Diritto sindacale

lavoro è posto nella condizione di dover «consentire» la sua effettuazione. Dato che i referendum devono svolgersi al di fuori dell’orario di lavoro non si pone un problema di interferenza con l’attività produttiva, salvo che il datore deve comunque porre a disposizione un idoneo locale per lo svolgimento della consultazione. Come per l’assemblea, anche per l’effettuazione dei referendum la contrattazione collettiva, anche a carattere aziendale, può introdurre più specifiche modalità di svolgimento.

14. L’attività di proselitismo e la raccolta dei contributi sindacali

Diritto a svolgere attività di proselitismo

Anche se può apparire prosaico rispetto agli ideali perseguiti dalle associazioni sindacali, queste ultime hanno bisogno di risorse finanziarie per poter sopravvivere e svolgere il mandato loro tipico. Essenziale è dunque, per garantire in termini di effettività la vita del sindacato, l’attività di proselitismo e raccolta dei contributi. Della materia si occupa lo statuto dei lavoratori con una norma (l’art. 26), che è stata oggetto di referendum abrogativo. La versione originaria della disposizione statuiva – e statuisce tuttora, come vedremo – al 1° comma anzitutto il principio fondamentale secondo cui i lavoratori hanno diritto di raccogliere i contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale. Titolari di tale diritto sono individualmente i lavoratori, i quali possono svolgere non solo attività di propaganda, ma anche tutte le attività strumentali ad essa (come la raccolta di adesioni o iscrizioni, l’adempimento delle formalità, la riscossione, ecc.). La titolarità individuale implica che non è necessaria una esplicita autorizzazione dell’associazione sindacale di riferimento, anche se gli eventuali ostacoli frapposti dal datore di lavoro possono integrare gli estremi della condotta antisindacale.

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L’esercizio di tale diritto non deve peraltro pregiudicare la normale attività aziendale. I lavoratori quindi non potranno sospendere il lavoro o farlo sospendere ai colleghi per svolgere attività di proselitismo, ma dovranno utilizzare gli intervalli lavorativi o, eventualmente, permessi sindacali. Al principio, posto dal 1° comma dell’art. 26, seguivamo due altre disposizioni: l’una diretta a conferire alle associazioni sindacali un diritto a percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi che i lavoratori intendono loro versare (2° comma) e l’altra diretta ad assicurare ai lavoratori un diritto a chiedere al datore il versamento dei contributi sindacali all’associazione da loro indicata, nel caso in cui il rapporto non fosse regolato da un contratto collettivo (3° comma). Il referendum popolare del giugno 1995 ha abrogato il secondo ed il 3° comma dell’art. 26, lasciando in vita solo il primo. Vediamo quali ne sono gli effetti. Preliminarmente occorre ricordare che la riscossione dei contributi sindacali per il tramite di trattenuta sulla retribuzione va qualificata giuridicamente come una delegazione di pagamento (art. 1269 cod. civ.). Il datore di lavoro (delegato) versa al sindacato (delegatario) una quota-parte della retribuzione, su indicazione del lavoratore (delegante). La struttura della delegazione di pagamento postula peraltro che il debitore delegato (datore di lavoro) non sia giuridicamente obbligato «ad accettare l’incarico» (art. 1269, 2° comma, cod. civ.). Il che, nel caso dei contributi sindacali, è anche ragionevolmente giustificabile con la spendita di risorse che l’organizzazione del servizio può comportare per il datore di lavoro. L’art. 26, 2° e 3° comma dello statuto dei lavoratori, in questa logica, introduceva, con la forza propria della legge, l’obbligo per il datore di lavoro di aderire alla richiesta dei lavoratori di effettuare le trattenute a favore dell’associazione sindacale di riferimento. Ciò posto, risulta evidente che l’abrogazione – ad opera del referendum – della seconda parte dell’art. 26 riconduce la vicenda nell’alveo preesistente, restituendo all’autonomia delle parti (individuale o collettiva) la gestione della raccolta dei contributi.

L’art. 26 s.l., seconda parte, nella versione originaria

Le conseguenze del referendum abrogativo

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Diritto sindacale

Il che significa che il datore di lavoro, non più obbligato ex lege ad aderire all’invito del lavoratore, potrà farlo solo su basi volontarie o perché destinatario di una omologa previsione del contratto collettivo. A mitigare quest’ultima – ineccepibile – valutazione giuridica vale considerare che l’effetto pratico del referendum non è stato avvertito dalle associazioni sindacali (si pensi a quelle confederali contro cui era prevalentemente diretta la consultazione) firmatarie di contratti collettivi, dal momento che in tutti i contratti è previsto un tale obbligo a carico del datore. Ad essere penalizzate sono solo le associazioni (come ad es. i Cobas) escluse dalla sottoscrizione dei contratti collettivi. Per queste ultime la questione si è spostata sul fronte giudiziario, sostenendo esse che la riscossione dei contributi sindacali per il tramite della trattenuta sulla retribuzione non potesse essere qualificata come una delegazione di pagamento (art. 1269 cod. civ.), che avrebbe richiesto il consenso del debitore ceduto (il datore di lavoro), bensì come cessione di credito (art. 1260 cod. civ.) che tale consenso non richiede. Orbene, mentre nel vigore del precedente testo dell'art. 26 dello statuto la tesi più attendibile ed accreditata sembrava essere quella che riconduceva la riscossione al paradigma della delegazione di pagamento, non avendo senso altrimenti l'introduzione di un obbligo per il datore, oggi la giurisprudenza opta invece per la qualificazione come cessione di credito (v. in particolare Cass. Sez. Un., 28269/2005).

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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Sezione VII. Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale SOMMARIO: 1. L’art. 28 dello statuto dei lavoratori: il procedimento. – 2. La legittimazione attiva e passiva e l’interesse ad agire. – 3. La nozione di condotta antisindacale. – 4. La condotta antisindacale nel pubblico impiego.

1. L’art. 28 dello statuto dei lavoratori: il procedimento A suggello della strategia di promozione e garanzia dei diritti sindacali nell’impresa lo statuto dei lavoratori, con l’art. 28, ha posto uno speciale procedimento giurisdizionale che ha la funzione di restaurare, con tempestività ed immediatezza, la normalità sindacale lesa da comportamenti illegittimi del datore di lavoro. Si completa così il disegno inteso a rendere effettivi i diritti astrattamente sanciti dalle norme costituzionali e dalle disposizioni dello stesso statuto a protezione dei diritti (collettivi ed individuali) dei lavoratori. L’art. 28 prevede che, quando il datore di lavoro ponga in essere un comportamento diretto a impedire o limitare l’esercizio della libertà e l’attività sindacale o il diritto di sciopero, gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, possono ricorrere al giudice del lavoro del luogo ove è stato posto in essere il comportamento e chiedere che quest’ultimo ordini la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti. Il giudice del lavoro, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di legge, ordina, con decreto motivato (che ha evidentemente natura di ordinanza), la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti.

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Le sanzioni

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Avverso il decreto la parte soccombente può, entro quindici giorni, proporre opposizione davanti al medesimo giudice. A seguito dell’opposizione ha corso un ordinario giudizio, a cognizione piena, all’esito del quale il giudice emette una sentenza, la cui impugnazione seguirà le sorti delle impugnazioni ordinarie (appello e quindi Cassazione). Si tratta, quanto alla prima fase, di un procedimento apparentabile alle procedure d’urgenza con cui il giudice adito, all’esito di una sommaria istruttoria, accoglie o nega la domanda sulla base della riconoscibilità di un buon fondamento giuridico, almeno apparente. Nella successiva fase a cognizione piena, nel rispetto delle ordinarie regole processuali, la materia verrà più adeguatamente meditata e si darà eventualmente luogo ad una istruttoria completa. Allo scopo di rafforzare la deterrenza dello strumento processuale, l’art. 28 prefigura a carico del datore, che omette di eseguire in concreto l’ordine del giudice, l’applicazione della sanzione penale prevista dall’art. 650 cod. pen. (disobbedienza all’ordine dell’autorità): l’arresto fino a tre mesi o un’ammenda. La sentenza penale è anche soggetta a pubblicazione ai sensi dell’art. 36 cod. pen. È pacifico che il richiamo all’art. 650 cod. pen. è effettuato esclusivamente quoad poenam ed il giudice penale che sia chiamato ad applicarla non ha alcun potere di sindacare la legittimità dell’ordine giudiziale contenuto nel decreto ex art. 28. Con l’art. 7, 7° comma della l. n. 388/2000 poi è stato previsto altresì il provvedimento di revoca delle agevolazioni fiscali di incentivazione di nuova occupazione a carico del datore di lavoro condannato definitivamente per condotta antisindacale.

2. La legittimazione attiva e passiva e l’interesse ad agire Come abbiamo ricordato l’art. 28 statuto dei lavoratori conferisce la legittimazione ad agire agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Si tratta di una scelta della quale vanno apprezzati i molteplici significati.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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In primo luogo il legislatore, affidando al sindacato (e non ai lavoratori) il potere di provocare l’accertamento giurisdizionale in questione, reinserisce nel circuito giuridico-processuale le associazioni sindacali, in quanto portatrici di un interesse collettivo. Al di fuori di tale procedimento è invece usualmente negata ogni legittimazione al sindacato, posto che, dopo la caduta dell’ordinamento corporativo e nell’attuale situazione di mero ‘fatto’, esso non ha alcuna rappresentanza giuridica della categoria di riferimento. L’allusione del testo è alle strutture territoriali delle associazioni sindacali. Per individuare le strutture in concreto legittimate occorrerà far capo all’organizzazione dell’associazione che intende agire, alla luce della distribuzione interna dei poteri riflessa nello statuto dell’associazione medesima. Normalmente si tratterà del sindacato provinciale di categoria, mentre deve escludersi la legittimazione della r.s.a., che in linea di massima non rappresenta una struttura a carattere territoriale (né ha natura associativa). Assai significativo è che la legittimazione sia conferita non al «sindacato maggiormente rappresentativo» di matrice confederale, secondo il disegno originario dello statuto dei lavoratori, riflesso, come abbiamo visto, nell’art. 19, ma semplicemente alle associazioni sindacali nazionali. Si tratta di una apertura che consente di garantire una sfera più ampia di soggetti tutelati, anche se essa è in qualche modo mitigata dalla necessaria coesistenza dell’interesse ad agire. Non tutte le associazioni sindacali, infatti, hanno legittimazione, ma solo quelle che rispetto allo specifico comportamento tenuto dal datore di lavoro abbiano uno specifico interesse a farne valere l’antisindacalità. Ne deriva che – quanto meno in via di fatto – saranno per lo più le associazioni titolari di posizioni di contropotere nei confronti del datore di lavoro (riconosciute dalla legge o dal contratto collettivo) che potranno agire in concreto. Si ritorna così ai soggetti cui lo statuto dei lavoratori riconosce – a partire dall’art. 19 – specifici diritti nell’impresa, anche se in giurisprudenza si è spesso affermato che – almeno in astratto (e salvo a verificarne i ri-

La nozione di «organismi locali»

L’interesse ad agire

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Il carattere «nazionale» dell’associazione

Problemi di costituzionalità

La legittimazione passiva

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scontri concreti) – non potrebbe escludersi la legittimazione a favore di sindacati non presenti nell’impresa ed a tutela di lavoratori non iscritti. Inoltre l’aver conferito la legittimazione ad agire ad organismi sindacali esterni all’impresa consente una valutazione della vicenda maggiormente ponderata, potendo essere tali soggetti meno coinvolti e più sereni rispetto ai rappresentanti interni. Un altro discrimine rilevante è quello del carattere nazionale del sindacato. Vengono così escluse realtà associative puramente locali, senza alcuna diffusione sul territorio nazionale. Ne consegue che, ad es., nell’attuale assetto dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori, un sindacato che fosse sottoscrittore solo di un contratto collettivo provinciale o aziendale potrebbe costituire una r.s.a., ma non avere legittimazione ad agire ex art. 28 statuto dei lavoratori. La scelta politica di affidare la legittimazione attiva alle strutture sindacali territoriali è passata positivamente al vaglio di costituzionalità. Con la già ricordata sent. n. 54/1974 la Corte costituzionale ha negato anzitutto la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., per l’esclusione dei singoli lavoratori dalla legittimazione, in ragione della considerazione secondo cui costoro ben possono agire con gli usuali strumenti giurisdizionali a tutela dei propri interessi, anche sindacalmente rilevanti. Ha poi escluso la violazione degli artt. 3, 24 e 39 Cost., per il privilegio assegnato alle associazioni sindacali nazionali a fronte di organizzazioni strutturate a livello territoriale più ridotto. La legittimazione ex art. 28 statuto dei lavoratori non esclude infatti, secondo la Corte, la possibilità per tali associazioni di avvalersi della tutela giurisdizionale ordinaria. Si tratta di un argomento peraltro alquanto formalista e non particolarmente convincente, posto che la particolare strutturazione dell’art. 28 statuto dei lavoratori lo rende assolutamente non comparabile ai rimedi ordinari. Legittimato passivamente è il datore di lavoro. Il che consente di escludere – come riconosce pacificamente la giurisprudenza – la legittimazione delle associazioni datoriali.

I rapporti collettivi: libertà, organizzazione, rappresentanza

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La legittimazione passiva compete inoltre a qualsiasi datore di lavoro, quale che sia la sua dimensione, essendo l’art. 28 norma di generale applicabilità (in quanto estraneo al Titolo III dello statuto dei lavoratori).

3. La nozione di condotta antisindacale Per l’art. 28 è antisindacale il comportamento «diretto ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero». Si tratta di un classico concetto indeterminato, secondo un modello alquanto diffuso nel diritto del lavoro: si pensi alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo per il licenziamento, di giustificato motivo del trasferimento, alla giustificazione per l’apposizione del termine, ecc. Più in generale si pensi alle ipotesi di violazione dei diritti della personalità (artt. 7, 8, 10 cod. civ.) o alle azioni di turbativa del diritto del proprietario (art. 949 cod. civ.) o, ancora, agli atti di concorrenza sleale (artt. 2598 e ss. cod. civ.). La caratteristica fondamentale delle ipotesi ricordate – e dell’art. 28 – consiste essenzialmente nel fatto che il legislatore non elenca un numero chiuso di comportamenti illeciti e lesivi, ma prospetta clausole ampie ed onnicomprensive che indicano soltanto la direzione dell’attività illecita. Il legislatore adotta tale tecnica ogniqualvolta è impossibile definire a priori la fattispecie illecita ed è indispensabile rinviare ad una tipizzazione giurisprudenziale. In tali situazioni si limita ad evocare i beni protetti (nel caso: la libertà e l’attività sindacale nonché il diritto di sciopero) ed adotta la tecnica teleologica. Identifica cioè l’antisindacalità con dei comportamenti «diretti a» ledere quei beni e valori primari. Alla descritta ricostruzione dell’illecito corrisponde poi una altrettanto indeterminata reazione dell’ordinamento: anche la sanzione non è prefigurata dal legislatore, ma viene rinviata alla determinazione da parte del giudice, rispetto alla quale si indicano esclusivamente – ad ancora una volta – i fini (cessa-

Carattere teleologico della definizione

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Il superamento dei tradizionali schemi privatistici

L’elemento soggettivo: l’intenzione antisindacale

Comportamenti monoffensivi e plurioffensivi

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zione del comportamento e rimozione degli effetti) e non i mezzi. Ma non è tutto. La novità della previsione dell’art. 28 è rinvenibile anche laddove essa prende in considerazione – per vietarle – non solo attività contrattuali del datore di lavoro (ad es. illegittimo esercizio del potere organizzativo, di quello disciplinare, ecc.), ma anche comportamenti della vita di relazione, normalmente irrilevanti per il diritto: pensiamo al comportamento consistente nella defissione di un volantino sindacale dalla bacheca, irriducibile alla dimensione contrattuale, ma sicuramente lesivo della libertà sindacale. La norma si allontana così dal tradizionale riferimento a schemi privatistici che fanno leva sulla causa del negozio quale elemento di controllo della legittimità degli atti privati ed aspira a contrastare i poteri «di fatto» del datore di lavoro non traducibili nella grammatica del contratto. Si è discusso molto in giurisprudenza intorno alla questione della rilevanza, quale elemento soggettivo dell’illecito, dell’intenzione o consapevolezza di porre in essere un’attività antisindacale (il c.d. animus antisindacale). Va da sé che, se si opina nel senso della necessità di tale elemento, l’associazione sindacale agente dovrà provare, oltre alla condotta in sé, anche l’intenzione datoriale di nuocere. All’esito della discussione le Sezioni Unite della Cassazione (v. sent. n. 5295/1997) hanno escluso la necessità dell’animus nocendi. La soluzione è solo in parte soddisfacente, dal momento che trascura di considerare la distinzione fra la violazione di diritti sindacali posti in capo alle associazioni o ai lavoratori e la violazione di regole attinenti al rapporto di lavoro (della parte normativa del contratto collettivo) che diviene antisindacale solo se connessa ad una specifica intenzione di ledere le prerogative sindacali (secondo lo schema in cui opera il c.d. «abuso del diritto»). Inutile dire che – data l’indeterminatezza dell’oggetto della norma – la casistica in materia di antisindacalità è sterminata. Nei limiti della presente trattazione ci limitiamo a ricordare la rilevante distinzione fra comportamenti monoffensivi e com-

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portamenti plurioffensivi. Appartengono alla prima categoria i comportamenti datoriali diretti a violare una prerogativa posta direttamente ed esclusivamente in capo alle associazioni sindacali: classico esempio è la violazione dei diritti di informazione del sindacato. Appartengono alla seconda invece quelle condotte, con cui il datore di lavoro, attraverso un illegittimo atto di gestione del rapporto di lavoro, colpisce anche la libertà e l’attività sindacale: pensiamo al licenziamento o al trasferimento di un sindacalista. Nel caso di condotta plurioffensiva si porrà un problema di possibile sovrapposizione fra l’azione individuale, che il singolo potrà intraprendere per ottenere la restaurazione del diritto leso (ad es.: impugnazione del licenziamento per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro), ed il ricorso da parte dell’associazione sindacale alla procedura ex art. 28. In tali situazioni va peraltro esclusa sia la possibile riunione dei due processi sia la prevalenza del procedimento ex art. 28 su quello individuale, dal momento che è pacificamente acquisita l’idea che il sindacato non è (né può operare come un) sostituto processuale del lavoratore (v. già Corte cost. n. 54/1974). Le due azioni sono alternative, non potendo essere appaiate né quanto a petitum né quanto a causa petendi né, infine, quanto ai soggetti. Se ne deve dedurre che, ove ad es. il lavoratore raggiunga, nell’ambito della controversia individuale, una transazione, che comprenda la rinuncia al giudizio, il procedimento promosso dai sindacati ex art. 28 può proseguire, anche se il «bene della vita», fatto valere in quella sede (ad es.: la reintegrazione nel posto di lavoro) non è più attingibile a seguito della rinuncia dell’interessato. In tale prospettiva viene piuttosto valorizzato l’interesse del sindacato al precedente giurisprudenziale favorevole. Il nodo centrale per la corretta identificazione della nozione di comportamento antisindacale riguarda la selezione delle condotte connotate da antisindacalità da quelle semplicemente antagoniste poste in essere dal datore di lavoro. Come sappiamo quest’ultimo è portatore di interessi legittimamente antitetici rispetto alle associazioni sindacali. Per fare un esempio davve-

Comportamenti antisindacali e comportamenti antagonisti

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ro scolastico è evidente che il rifiuto opposto dal datore nei confronti delle richieste contenute nella piattaforma rivendicativa proposta dalla rappresentanza sindacale per il rinnovo del contratto aziendale mai potrà essere considerato antisindacale, rientrando entro la normale dialettica della contrapposizione di interessi fra le parti. Per cercare di cogliere il proprium della antisindacalità si è parlato autorevolmente in dottrina (Giugni) di una illecita opposizione al conflitto (antisindacale) in contrapposizione ad una legittima opposizione che si muova entro il conflitto (in giurisprudenza v. Cass. n. 207/1990). La distinzione esprime con sufficiente esattezza l’idea che fa da sfondo alla protezione dei diritti di libertà assicurata dallo statuto ai lavoratori ed alle loro associazioni. Lo statuto (e l’art. 28) protegge l’interesse ad una libera esplicazione dell’organizzazione sindacale e di tutte quelle attività che sono ad essa strumentali. È dunque l’illegittimo ostacolo frapposto dal datore alla complessa rete di attività strumentali all’affermazione dei diritti di libertà sindacale che assume i connotati della antisindacalità. Tutto quanto è invece estraneo a tale contesto resta sul terreno della mera contrapposizione di interessi, senza tracimare nell’illecito.

4. La condotta antisindacale nel pubblico impiego Il dibattito precedente

Il problema dell’applicabilità dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori alle pubbliche amministrazioni è stato oggetto di un amplissimo dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza già all’indomani della emanazione della legge. L’art. 37 dello statuto, infatti, mentre estendeva tout court agli enti pubblici economici (che svolgessero esclusivamente o prevalentemente attività d’impresa) le disposizioni dell’intera legge, operava una estensione della medesima ai «rapporti di impiego dei dipendenti degli altri enti pubblici» (non economici), salvo che la materia non fosse diversamente regolata da «norme speciali». La difficoltà ad estendere, in particolare, l’art. 28 nasceva, fra l’altro, dalla permanente esistenza della giurisdizione del

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giudice amministrativo sui rapporti d’impiego pubblico e, comunque, dal vincolo derivante dalla vetusta legge sulla abolizione del contenzioso amministrativo del 1865 (che, ancora oggi, costituisce il punto di riferimento per il discrimine fra le due giurisdizioni) che impediva al giudice ordinario di ordinare un facere nei confronti della pubblica amministrazione. La discussione sì è protratta – annoverando anche vari interventi della Corte costituzionale – fino a che il processo di contrattualizzazione del pubblico impiego non è giunto al suo integrale compimento. Attualmente quindi la questione è risolta dall’art. 63, 3° comma del d.lgs. n. 165/2001, che esplicitamente devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative ai comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni. Nell’ambito di tali controversie poi il giudice, per ulteriore, espressa previsione (v. il 2° comma della norma), può adottare tutti i provvedimenti di accertamento costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati.

La situazione attuale

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Le fonti

CAPITOLO II

LE FONTI Sezione I. Concetti generali SOMMARIO: 1. Alle origini della formazione extra-legislativa del diritto del lavoro: fra statualità e socialità. – 2. L’internazionalizzazione delle regole e la globalizzazione versus la regionalizzazione ed il federalismo.

1. Alle origini della formazione extra-legislativa del diritto del lavoro: fra statualità e socialità In una accezione tecnicamente ineccepibile il sistema delle fonti del diritto è tuttora riflesso nell’art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale. Ciò non toglie peraltro che ci si possa riferire al tema delle fonti in un senso più ampio, muovendo da un punto di vista ordinamentale e gettando uno sguardo ai rapporti fra sotto-sistemi giuridici, sempre che l’attributo della giuridicità non venga ristretto alle sole norme di legge e lo si ritenga estensibile alle regole che promanino (anche) dal corpo sociale. È in questa seconda accezione del concetto di «fonte» che si può porre in luce una caratteristica saliente del diritto del lavoro che è la seguente: il diritto del lavoro (ed il diritto sindacale, in specie) è il terreno di elezione della cosiddetta formazione extralegislativa delle regole. Per un lungo arco di tempo infatti il legislatore è stato latitante nel procedimento di regolazione della

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materia. Pur risalendo il fenomeno dell’industrialismo agli albori dell’Ottocento il legislatore ha messo mano ad una prima regolamentazione giuridica (pur sempre settoriale e limitata ad alcune materie) solo alla fine del diciannovesimo secolo. Ciononostante le regole da applicarsi all’interno delle fabbriche sono state elaborate dalle stesse parti in conflitto, attraverso patti negoziali, ad efficacia tendenzialmente generalizzata, stipulati per il tramite di rappresentanti: il riferimento è, all’evidenza, ai contratti collettivi di lavoro, su cui ci soffermeremo ampiamente nel presente capitolo. Per il momento è opportuno ricordare che l’assenza di regole giuridicamente vincolanti non escludeva l’esistenza di conflitti da risolvere, conflitti cui occorreva dare risposte concrete. Allo scopo il legislatore intervenne con una soluzione originale: l’istituzione di una speciale magistratura arbitrale (i Collegi dei probiviri industriali), con l’incarico di dirimere le controversie individuali fra datori di lavoro e lavoratori (l. 15 giugno 1893, n. 295). Per quel che qui interessa i probiviri, non potendo far capo all’applicazione di un inesistente apparato regolativo, decidevano le controversie secondo equità. Si trattava di una particolare specie di equità: di una equità creativa di diritto (non integratrice o suppletiva, secondo i classici riferimenti all’equità negoziale). Ovviamente il loro intervento non era frutto, per così dire, di pura invenzione, ma doveva far tesoro degli assetti regolativi previsti da altre fonti succedanee, come gli usi industriali o le consuetudini locali. Cosicché tale giurisdizione di equità, pur non divenendo partecipe della funzione propriamente legislativa, esercitava un ruolo di supplenza, in attesa che le regole, sgorgate sul terreno sociale, acquisissero il grado di maturazione sufficiente per essere trasferite in formule legali. Non a caso, a scorrere oggi le raccolte di massime dei collegi probivirali si intravvede in filigrana il nucleo minimo dello statuto del lavoro dipendente, così come veniva formandosi nella realtà industriale e che sarebbe stato codificato molti anni più tardi sul piano delle norme di legge.

Le fonti

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Quindi, volendo ragionare di fonti del diritto del lavoro il primo doveroso richiamo va fatto appunto all’equità creatrice. L’eclissi di quest’ultima quale fonte del diritto del lavoro è da ricondurre alla definitiva affermazione del ruolo della norma inderogabile nella regolazione del rapporto. Il diritto del lavoro diviene oggetto, a partire dalle ultime due decadi dell’Ottocento, di giuridificazione ad opera della legge dello stato. Si comincia così a costruire il complesso edificio della normativa lavoristica che costituisce ormai un corpus imponente di regole, i cui profili maggiormente rilevanti costituiscono l’oggetto del corso di studi del diritto del lavoro e del diritto sindacale. Da quel momento la norma inderogabile prende il posto delle fonti succedanee (gli usi, le consuetudini locali, l’equità). L’inderogabilità della norma lavoristica, cui è collegata una (parziale) indisponibilità dei diritti, è sancita – in una delle sue prime espressioni – dall’art. 17 della l. del 1924 sull’impiego privato, è poi riaffermata, in generale dall’art. 2077 cod. civ. ed è riconfermata dall’art. 40 dello statuto dei lavoratori: ritorna dunque (se ve ne fosse bisogno) ad ogni passaggio fondamentale della disciplina lavoristica. Ne deriva un sistema nel quale l’attributo della inderogabilità è sostanzialmente presunto rispetto alle norme del diritto del lavoro, con la conseguenza che il carattere dispositivo (derogabile) delle norme deve essere sancito esplicitamente. Il che è avvenuto, ad es., rispetto alla disciplina del TFR ed, in generale, rispetto al sistema della contrattazione collettiva nel pubblico impiego (su cui v. infra: Sez. V). L’indisponibilità (parziale), invece, scaturisce dall’art. 2113 cod. civ., nella parte in cui dichiara invalide le rinunce o transazioni su diritti prefigurati da norme inderogabili (di legge o di contratto collettivo). Le due categorie concettuali – la prima che allude ad una caratteristica della norma e dunque al rapporto tra le fonti (la norma di legge non è derogabile da parte della norma di autonomia contrattuale), la seconda che pone limiti all’autonomia negoziale – non sono necessariamente connesse sul piano logico, ma lo sono in qualche modo nel diritto

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positivo: ciò è quanto si ricava per l’appunto dalla lettura dell’art. 2113 cod. civ.

2. L’internazionalizzazione delle regole e la globalizzazione versus la regionalizzazione ed il federalismo Le fonti del diritto del lavoro si sono caratterizzate fin dalle origini in funzione della necessità di assicurare un trattamento uniforme ai tutti i lavoratori sul territorio nazionale: il diritto del lavoro si è affermato insomma storicamente come diritto nazionale ed uniforme. La liberalizzazione dell’economia e la sopravvenuta interdipendenza dei mercati (c.d. «globalizzazione») hanno peraltro prodotto effetti significativi anche sul sistema delle fonti della materia. In primo luogo lo stato-nazione è stato posto nell’impossibilità di controllare un mercato del lavoro ormai globalizzato e dunque di elaborare i processi regolativi in modo uniforme. In secondo luogo – e contestualmente – l’attività delle imprese ha avuto modo di espandersi ben oltre i confini di un singolo stato, così favorendo la perdita di identità della disciplina e la frammentazione dello statuto giuridico dei lavoratori. Il che ha generato i ben noti fenomeni di concorrenza al ribasso fra mercati del lavoro (in particolare fra i lavoratori dei paesi industrializzati e quelli dei paesi in via di sviluppo o del terzo e quarto mondo). I rimedi a questo stato di cose – sul piano delle fonti – consistono nel trasferire ad organismi sovra-nazionali la competenza a dettare regole per l’amministrazione del mercato del lavoro. È il caso del diritto dell’UE, che nasce proprio con lo scopo di evitare che alcuni operatori economici possano avvantaggiarsi di costi inferiori nell’acquisizione del lavoro (c.d. dumping sociale). Dove non può operare un diritto sovranazionale vincolante la standardizzazione delle regole viene affidata a strumenti privatistici. Rilevano, in questo ambito concettuale, in particola-

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re, i contratti commerciali internazionali, che regolano i rapporti fra imprese ed al cui interno vengono inserite le cc.dd. clausole sociali, tramite le quali l’impresa che riceve la commessa di lavoro si impegna a rispettare determinati standard di trattamento nei confronti dei propri dipendenti, pena la risoluzione del contratto o altre sanzioni privatistiche. È paradossale peraltro che le clausole sociali siano malviste proprio da coloro che ne avrebbero maggior bisogno e cioè i paesi in via di sviluppo, i quali vi vedono tecniche attraverso cui le potenze industrializzate possono introdurre politiche economiche protezionistiche. Sul piano delle fonti peraltro è da notare che l’aspetto più intrigante delle clausole sociali consiste nel fatto che, per il tramite di tale tecnica, i diritti sociali fondamentali conquistano la scena e rompono il nesso che li lega alla sovranità. Alla materia dei diritti sociali fondamentali è in gran parte dedicata la c.d. Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, inclusa quale fonte del diritto europeo dal nuovo testo del Trattato sull’Unione europea – TUE – art. 6). Si tratta, allo stato, solo di una riaffermazione autorevole di una serie di principi, non ancora giuridicamente vincolante, non essendovi l’unanimità dei consensi dei membri della comunità. Cionondimeno secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, i principi in essa contenuti, per effetto del richiamo operato dall’art. 151, par. 1 del TFUE, ai «diritti sociali fondamentali», possono essere valorizzati dagli stati e dagli organi giurisdizionali statali e comunitari. Fra i diritti sociali di interesse giuslavoristico, elencati nella legge Carta, ricordiamo: a) la «dignità umana», ritenuta inviolabile e che va rispettata e tutelata (art. 1); b) la «libertà professionale» ed il diritto al lavoro (art. 15); c) la «libertà d’impresa» (art. 16); d) l’«eguaglianza», nella sua accezione di eguaglianza formale (art. 20); e) il principio di non discriminazione (art. 21); f) il principio di parità di trattamento fra uomini e donne (anche) in materia di occupazione, lavoro e retribu-

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zione; g) i diritti sindacali (di informazione e consultazione nonché di negoziazione e azione collettiva) (artt. 27-28); h) la tutela contro i licenziamenti ingiustificati (art. 30). Strumenti più blandi per scongiurare la concorrenza al ribasso sono, invece, i cc.dd. «codici di condotta» diretti a garantire il rispetto di regole minime di tutela del lavoro, di cui si usualmente dotano le imprese multinazionali. Si tratta di strumenti evidentemente privi di giuridicità, che si collocano piuttosto nella logica della responsabilità sociale dell’impresa. Le fonti, oltre ad aprirsi alle nuove necessità consistenti nel tentativo di superare i confini degli stati, per attrezzarsi a governare il mercato aperto globale, devono piegarsi altresì a governare fenomeni di particolarismo giuridico. Ciò vale anzitutto per quelle fonti che sono messe in campo per consentire deroghe eccezionali, che consentano di avviare processi di emersione di aree o fasce di lavoratori sottoprotette. Si pensi a quelle tecniche utilizzate per fare emergere l’economia sommersa. Allo scopo vengono realizzate misure che si avvalgono di varie fonti (la legge, la contrattazione collettiva, l’azione amministrativa), con cui si dà luogo a particolari concessioni (sgravi contributivi, aree salariali, salari d’ingresso, patti territoriali, ecc.) in contropartita di un reingresso nell’area dell’economia ufficiale delle imprese che operano nel sommerso. Si tratta, quanto a questi ultimi di strumenti che lasciano intatta la competenza dello stato nella regolazione del diritto del lavoro. A ben diverse prospettive si apre il sistema delle fonti, se si ha riguardo alla riforma dello stato in senso federalista. L’art. 117 della Costituzione (introdotto con la l. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3) ha incrinato il quadro delle certezze acquisite nel sistema precedente, nel cui ambito era indiscutibile che la regolamentazione del diritto del lavoro rientrasse nella competenza statuale. Tale disciplina sembra mettere in dubbio tale certezza, dal momento che, in ciascuna delle tre aree di competenza individuate (competenza esclusiva dello stato, competenza esclusiva delle regioni e competenza concorrente stato-regioni) è rin-

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venibile una materia cui può essere, in qualche modo, ricondotto il diritto del lavoro o una parte di esso. Così: a) nell’ambito della competenza esclusiva dello stato ritroviamo la materia dell’«ordinamento civile» (art. 117, 2° comma, lett. l) e la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, 2° comma, lett. m); b) nell’ambito della competenza concorrente stato-regioni (in cui allo stato spetta solo la determinazione dei principi fondamentali, essendo demandata l’attività di normazione alla potestà regionale) troviamo la materia della «tutela e sicurezza del lavoro». Alla luce di tali indicazioni – generiche e forse contraddittorie – ci si è chiesti quale debba o possa essere la collocazione del diritto del lavoro. Se si ritiene che la materia giuslavoristica sia da considerarsi attinente all’ordinamento civile o, quam minus, che rientri entro la previsione della garanzia di livelli minimi di prestazioni relative ai diritti civili e sociali si valorizza la competenza esclusiva della legge dello stato. Se si assume invece che la materia possa essere collocata entro il concetto di «tutela e sicurezza del lavoro», resterebbe allo stato solo la determinazione dei principi fondamentali, mentre l’attività di produzione legislativa passerebbe alle regioni. Una prospettiva inquietante, ove si avallasse quest’ultima lettura, potrebbe consistere nel ritenere che, ad es., nella delicata materia dei licenziamenti, ferma la fissazione con legge dello stato del «principio fondamentale» secondo cui il licenziamento deve essere necessariamente giustificato, una singola regione possa poi legiferare statuendo, magari per attrarre investimenti, allettati dal minor costo del lavoro, che al licenziamento illegittimo si applichi la sola tutela «obbligatoria» e non quella «reale». Si tratta di una prospettiva – allo stato – puramente teorica, dal momento che l’orientamento interpretativo più diffuso ritiene che la materia lavoristica si collochi entro la nozione di «ordinamento civile» e che l’espressione «tutela e sicurezza del lavoro» evochi piuttosto gli istituti del mercato del lavo-

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ro, per i quali la competenza regionale è già sostanzialmente acquisita. Per quanto possa occorrere tale lettura ha ricevuto anche l’autorevole avallo della Corte costituzionale (v. la sent. 28 gennaio 2005, n. 50).

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Sezione II. Il contratto collettivo SOMMARIO: 1. Le origini e le prime ricostruzioni. – 2. Il contratto collettivo corporativo. – 3. La fase transitoria. – 4. L’assetto costituzionale. – 5. L’inattuazione post-costituzionale e la legge Vigorelli. – 6. Il contratto collettivo di diritto comune: il problema dell’efficacia soggettiva. – 7. Le tecniche di estensione dell’efficacia del contratto collettivo al di fuori del vincolo associativo. – 8. L’inderogabilità del contratto collettivo. – 9. Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti. – 10. Il contratto collettivo: natura, tipologie, soggetti, forma. – 11. Le funzioni del contratto collettivo. – 12. L’efficacia del contratto collettivo nel tempo. – 13. Contratto collettivo e processo: interpretazione e amministrazione del contratto collettivo.

1. Le origini e le prime ricostruzioni Da un punto di vista molto generale il contratto collettivo si può definire come un contratto sottoscritto dalle associazioni sindacali (dei lavoratori e dei datori di lavoro) con lo scopo di dettare regole che troveranno applicazione nei confronti dei rapporti di lavoro dei dipendenti che operano nell’ambito del settore produttivo rappresentato dai soggetti stipulanti. Si tratta di una definizione assai sommaria dal momento che le variabili messe in campo – avendo riguardo ai soggetti, all’ambito di applicazione ed all’oggetto – possono modificare il quadro di riferimento e dunque la definizione. Sul punto torneremo ovviamente approfonditamente nel corso della trattazione che segue. Al momento è opportuno sottolineare che il tratto più saliente del contratto collettivo è il suo caratterizzarsi come contratto «normativo», cioè come un patto diretto a regolare i futuri rapporti di lavoro, secondo una attitudine che è caratteristica della legge più che dell’attività negoziale. È questa sua caratteristica che rende ancora attuale la

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definizione datane nei primi decenni del secolo scorso da Francesco Carnelutti, per il quale il contratto collettivo è un contratto con l’anima della legge. I descritti caratteri sono più che sufficienti a dar conto delle enormi difficoltà incontrate dalla cultura giuridica delle origini nel fornire una adeguata ricostruzione del fenomeno. A questo proposito occorre ricordare che il contratto collettivo su cui riflettevano quei pionieri era prevalentemente il contratto collettivo aziendale, quello cioè stipulato dal datore di lavoro con coalizioni spontanee di lavoratori o con forme embrionali di associazioni sindacali e che doveva avere efficacia al solo interno dell’impresa di riferimento. Tale realtà veniva ricostruita o come una sommatoria di contratti individuali ovvero come un contratto di lavoro per c.d. «complesso» tale da produrre una obbligazione unitaria a carattere collettivo. Un reale progresso nella ricostruzione del fenomeno si ha con la prospettazione del contratto collettivo come una realtà giuridica unitaria fonte di un effetto obbligatorio per il datore di lavoro, che risultava vincolato in virtù dell’impegno assunto nei confronti del gruppo di lavoratori rappresentati dall’associazione sindacale stipulante (Messina, Galizia). Di qui la distinzione concettuale fra contratto collettivo e singoli contratti individuali: alla stregua di tale distinzione le norme del primo sono destinate ad integrare i futuri contratti individuali stipulati dai lavoratori rappresentati. Sennonché, acquisito l’effetto obbligatorio del contratto collettivo sul contratto individuale, restava invece insoluto – essendo in realtà insolubile alla stregua del diritto all’epoca vigente – il problema della c.d. efficacia reale (o inderogabilità) del contratto collettivo su quello individuale. In assenza di una esplicita disposizione legislativa infatti l’eventuale violazione dell’obbligo del datore di applicare il contratto collettivo produceva solo effetti obbligatori (cioè meramente risarcitori), senza che il lavoratore potesse invocare l’applicazione diretta al suo rapporto di lavoro della fonte collettiva. Per attingere a tale risultato era indispensabile l’intervento del legislatore. Ed in effetti furono oggetto di discussione in seno

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al neonato Consiglio superiore del lavoro (istituito con l. 29 giugno 1902, n. 246) varie proposte legislative dirette a regolare il riconoscimento giuridico dei sindacati e la disciplina giuridica del contratto collettivo. Ed anche il focus di tali discussioni ruotò intorno alla questione della efficacia soggettiva ed oggettiva dei contratti collettivi (oltre che al problema della selezione dei soggetti sindacali abilitati a sottoscriverli).

2. Il contratto collettivo corporativo Lo stato liberale non riuscì però a portare a compimento le proposte di legge sul contratto collettivo; della materia invece si appropriò il regime fascista. Abbiamo già ricordato la peculiarità del sistema sindacale del ventennio: il regime interruppe bruscamente lo sviluppo della democrazia industriale e le forme volontarie di evoluzione delle istituzioni sindacali, dando luogo ad una forma di corporativismo autoritario. Al centro della regolamentazione dei fenomeni collettivi si situava la l. 3 aprile 1926, n. 563, che, oltre a bandire, come abbiamo detto a suo tempo, la libertà sindacale, attribuiva ad un solo sindacato di diritto pubblico (sia per i datori che per i lavoratori) la rappresentanza legale di ciascuna categoria produttiva. I soggetti sindacali che potevano ottenere dal governo il riconoscimento legale erano quelli caratterizzati da «sicura fede nazionale», cioè quelli espressione dell’organizzazione sindacale fascista. Le altre organizzazioni sindacali potevano, in astratto, continuare ad esistere come associazioni di mero fatto, ma senza alcun potere effettivo di incidere sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro nelle imprese. Il sindacato unico di diritto pubblico (fascista) aveva per legge la rappresentanza istituzionale dei lavoratori operanti in ciascuna categoria e stipulava contratti collettivi generalmente obbligatori ed in quanto tali inseriti nel sistema delle fonti. La materia trovò poi un assetto definitivo all’interno del codice civile del ’42.

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All’art. 1 delle pre-leggi infatti venivano evocate tra le fonti del diritto le «norme corporative» ed inoltre nel Libro V del medesimo codice agli articoli da 2067 a 2078 veniva data specifica regolamentazione alle procedure di stipulazione e rinnovo dei contratti collettivi, nonché ai rapporti fra contratto collettivo e contratto individuale. L’espressione «norme corporative», di cui all’art. 1 della preleggi, non è un semplice sinonimo dell’espressione «contratto collettivo», ma allude ad un concetto più ampio, ricomprendendo anche le c.d. «sentenze collettive». Occorre ricordare infatti che, dato il regime di repressione penale dello sciopero, poteva avvenire che il rinnovo dei contratti collettivi si protraesse perché le parti non trovavano un accordo per la sottoscrizione di un nuovo patto. Orbene, nel caso in cui le parti non fossero riuscite a stipulare un nuovo patto entro il termine di scadenza del precedente, poteva intervenire la Magistratura del lavoro. Si trattava di sezioni speciali, istituite presso le Corti d’appello, composte da tre giudici togati e due «cittadini esperti nei problemi della produzione e del lavoro» (questi ultimi nominati attraverso un complesso procedimento, nel quale avevano un ruolo determinante i consigli delle corporazioni). La Magistratura del lavoro si incaricava di stabilire le nuove condizioni contrattuali, in sostituzione delle parti. Alla stregua dell’art. 13 della legge del ’26 infatti rientrava nella competenza della Magistratura del lavoro – oltre che la decisione delle controversie di lavoro – anche di giudicare «sulla richiesta di nuove condizioni di lavoro». Il contratto collettivo corporativo era dunque una fonte del diritto in senso classico e, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza dell’epoca, aveva una natura pubblicistica. Tale qualificazione veniva tratta sia dalla circostanza che le associazioni sindacali riconosciute venivano considerate enti pubblici, forniti di supremazia speciale, sia perché al medesimo veniva attribuita efficacia normativa nei confronti di tutti i lavoratori ed i datori di lavoro appartenenti alla categoria produttiva di riferimento, a prescindere dal vincolo di affiliazione sindacale.

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3. La fase transitoria Come abbiamo già ricordato, caduto il fascismo, con il r.d.l. 9 agosto 1943 vennero soppresse le istituzioni del corporativismo, mentre vennero lasciate in vita e commissariate le organizzazioni sindacali di diritto pubblico. La fase transitoria ebbe termine con il d.l.lgt. 23 novembre 1944, n. 369 che dispose lo scioglimento dei sindacati fascisti. Per quel che più ci interessa, in questa fase, l’art. 43 del d.l.lgt. n. 369/1944 mantenne in vigore le norme dei contratti collettivi corporativi, degli accordi economici, delle sentenze della Magistratura del lavoro e delle ordinanze corporative, fatte salve le successive modifiche, al fine di non pregiudicare la posizione dei lavoratori. Veniva in sostanza disposta l’ultrattività dei contratti collettivi corporativi, al solo scopo di consentire il mantenimento di condizioni minime di regolazione dei rapporti di lavoro ed in attesa che le parti sociali, sciolte dai vincoli corporativi, dessero vita ad una libera attività negoziale collettiva. L’idea che faceva da sfondo a tale scelta legislativa si basava sul presupposto che il legislatore sarebbe intervenuto, in tempi ragionevolmente brevi, ad elaborare un sistema tramite il quale anche i contratti collettivi post-corporativi avrebbero potuto acquisire efficacia erga omnes. Sennonché tale previsione – come vedremo ampiamente più oltre – non ebbe effettivo seguito e si pose allora, fin da subito, la questione cruciale dei rapporti fra i contratti collettivi corporativi, divenuti ultrattivi in forza di legge, ed i nuovi contratti collettivi che venivano via via stipulati dalle libere organizzazioni sindacali. Il problema si poneva evidentemente in considerazione della diversa forza giuridica delle due fonti regolative: i contratti collettivi corporativi erano fonti in senso proprio ed erano dunque efficaci ex lege nei confronti di tutti coloro che appartenevano ad una determinata categoria produttiva, i contratti collettivi stipulati successivamente alla caduta dell’ordinamento corporativo invece avevano efficacia esclusivamente nei confronti di coloro che fossero soci delle associazioni sindacali

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stipulanti, secondo le regole privatistiche della rappresentanza negoziale. Di qui la necessità per la dottrina e la giurisprudenza di affrontare e risolvere la complessa questione riguardante la sussistenza del potere delle associazioni sindacali di derogare anche in pejus i contratti corporativi, quale conseguenza di una eventuale attitudine del nuovo contratto collettivo a sostituirsi a pieno titolo alla regolazione contenuta nel vecchio contratto. Su tali questioni si tornerà più avanti quando verrà affrontato il tema della natura degli attuali contratti collettivi, avendo particolare riguardo alle vicende post-costituzionali.

4. L’assetto costituzionale

La seconda parte dell’art. 39 Cost.

Uno snodo centrale per il nostro diritto sindacale e quindi anche per il tema del contratto collettivo è ovviamente costituito dall’assetto regolativo predisposto dalla Costituzione. Abbiamo già evocato la norma-chiave in materia di rapporti sindacali, costituita dall’art. 39. Di tale norma abbiamo illustrato il contenuto del primo comma che prefigura il principio di libertà (di organizzazione) sindacale. La nostra attenzione deve ora spostarsi sulla seconda parte della disposizione costituzionale che è dedicata all’attività di contrattazione collettiva ed alle tecniche di recepimento di questa tra le fonti. Il problema che si presentava ai padri costituenti era anzitutto quello di rifondare il sistema sindacale su basi di libertà, garantendo l’associazionismo collettivo ed il diritto di dare regolazione ai rapporti di lavoro per il tramite di libere scelte negoziali ed organizzative. Sotto questo profilo è pacifico che il primo comma dell’art. 39 Cost. includa, nell’idea di libertà organizzativa delle strutture sindacali, anche il principio di libertà di contrattazione. La seconda pressante questione – di ordine pratico – era quella di consentire anche ai contratti collettivi, stipulati dalle libere associazioni sindacali, il potere di vincolare tutti i soggetti appartenenti ad una determinata categoria produttiva.

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In sostanza ai costituenti stava egualmente a cuore sia la riaffermazione dell’idea di libertà sia l’introduzione di una tecnica che consentisse di rendere efficaci erga omnes i frutti dell’autonomia collettiva, nel nuovo regime di libertà. Sennonché l’affermazione del principio di libertà organizzativa presupponeva e presuppone il pluralismo sindacale, la possibilità cioè che, con riferimento ad una determinata categoria produttiva, possano costituirsi varie associazioni sindacali, tutte – in varia misura – rappresentative della categoria di riferimento. Per essere più chiari il principio di libertà sindacale implica che, avendo riguardo, ad es., alla categoria dei metalmeccanici, più associazioni dichiarino di esserne i soggetti rappresentativi. Il che è quanto si è verificato nel dopoguerra, quando, caduto il sistema corporativo, l’associazionismo sindacale si è gradualmente articolato e diversificato, prevalentemente sulla base di grandi scelte di campo di tipo ideologico (il sindacalismo di ispirazione cristiano-sociale, quello di ispirazione socialcomunista, ecc.). Ed allora, in un contesto siffatto, per i costituenti diveniva indispensabile prefigurare un sistema al cui interno potesse essere coordinato il pluralismo sindacale con la necessità di attribuire efficacia generalizzata ai contratti collettivi di categoria, risolvendo in ipotesi il conflitto tra più contratti collettivi stipulati, per la medesima categoria produttiva, da diverse associazioni sindacali. L’unica soluzione possibile era che si ottenesse un unico contratto collettivo nazionale di categoria efficace erga omnes, risultato questo che, nell’ambito dell’ordinamento corporativo, veniva risolto in termini autoritari con la semplificazione del pluralismo sindacale attraverso il riconoscimento giuridico del sindacato unico di ispirazione fascista. Per addivenire ad una soluzione che consentisse la quadratura del cerchio prevalse un’idea non lontana da quella che aveva fatto da sfondo, ai primi del Novecento, alle discussioni in seno al Consiglio superiore del lavoro: l’idea di affidare solo alle associazioni sindacali «registrate», cioè in qualche modo riconosciute dallo stato, il potere di stipulare contratti collettivi efficaci erga omnes.

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La selezione dei soggetti sindacali: a) la registrazione

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Nacque così la formulazione dell’art. 39, seconda parte che, per comodità espositiva, è qui opportuno riprodurre: «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Come si vede l’obiettivo dell’attribuzione di efficacia generalizzata ai contratti collettivi viene perseguito attraverso un complesso assetto procedurale, la cui articolazione e specificazione viene rimessa alla legge ordinaria. In primo luogo vi è la selezione dei soggetti sindacali abilitati alla contrattazione. Tale selezione avviene sulla base del procedimento di registrazione «presso gli uffici locali o centrali». Si tratta dell’unico vincolo che si impone al sindacato, vincolo che – a riaffermare le prerogative immunitarie dell’attività sindacale a fronte delle ingerenze statali – è formulato in negativo («ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non …»). Condizione per la registrazione – e dunque unico possibile profilo di ingerenza statale negli interna corporis dell’associazione – avrebbe dovuto essere la verifica del carattere democratico dello statuto. La registrazione avrebbe dovuto essere costruita – alla stregua degli orientamenti dottrinali formatisi all’indomani della Costituzione, formulati ovviamente de jure condendo (dato che, come vedremo, non è mai stata emanata una disciplina legale attuativa dell’art. 39 seconda parte Cost.) – come un onere e non come un obbligo per il sindacato. L’allusione a tale ben nota categoria della teoria generale consente di assumere che il sindacato non doveva ritenersi obbligato ad ottenere la registrazione, per poter svolgere la propria attività istituzionale. La registrazione costituiva invece il passaggio indispensabile solo ove l’associazione sindacale avesse inteso partecipare al

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processo di stipulazione di contratti collettivi con efficacia generalizzata. Attraverso la registrazione le associazioni sindacali avrebbero acquisito personalità giuridica, restando aperta la questione (demandata evidentemente alla legge ordinaria) della natura giuridica di tale personalità (se di diritto privato o di diritto pubblico). Sullo sfondo di tale discussione si intravvedono in filigrana le due opposte opzioni di politica del diritto che si contrapposero presso l’Assemblea costituente: da una parte l’idea, che faceva capo alla componente democristiana, che riteneva che si potesse utilizzare l’impianto pubblicistico del sindacato corporativo, provvedendo semmai ad una sua democratizzazione, dall’altra quella della sinistra che faceva leva sulla libertà associativa, sostanzialmente priva di vincoli, se pure in un contesto nel quale fosse comunque garantito un sistema di estensione erga omnes dei frutti dell’autonomia collettiva. Il secondo rilevantissimo passaggio è costituito dalla tecnica utilizzata per semplificare il pluralismo sindacale ed addivenire ad un contratto unico di categoria con efficacia generalizzata. Tale scopo viene attinto non attraverso la riproposizione di un sindacato unico, come nell’ordinamento corporativo, ma attraverso la prefigurazione di una rappresentanza unitaria, composta da tutti i sindacati registrati in proporzione ai loro iscritti. Si tratta di una scelta che esclude l’alternativa di attribuire il potere negoziale al sindacato maggioritario (come avrebbe preferito la sinistra), per ripiegare su di una rappresentanza unitaria al cui interno tutti i sindacati siano rappresentati proporzionalmente al numero degli iscritti, secondo una logica per l’appunto proporzionalistica.

b) la personalità giuridica

c) la rappresentanza unitaria

5. L’inattuazione post-costituzionale e la legge Vigorelli Il sistema delineato dall’art. 39 Cost. non ha mai trovato concreta attuazione nella legislazione post-costituzionale. Dietro tale scelta è facile intravvedere la rottura dell’unità sindacale, maturata con la scissione del 1948. La neo-costituita Cisl,

Le ragioni della inattuazione dell’art. 39

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La legge Vigorelli

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sindacato di ispirazione cristiana, ben presto si dichiarò esplicitamente contraria all’attuazione della norma costituzionale, mentre la Uil rimase in una posizione maggiormente possibilista. Per converso la sola Cgil – almeno per tutto il corso degli anni cinquanta – manifestò l’opzione favorevole all’attuazione dell’art. 39. Non è difficile cogliere le motivazioni che facevano da sfondo a tali atteggiamenti. In primo luogo il meccanismo della registrazione implicava comunque un controllo, per quanto leggero, sugli interna corporis del sindacato e questa era una ragione che, all’evidenza, accomunava gli interessi delle tre associazioni. In secondo luogo e soprattutto la prefigurazione di una «rappresentanza unitaria» si prestava a penalizzare le associazioni sindacali più piccole, ponendo in una evidente posizione di vantaggio la Cgil che poteva vantare un maggior numero di iscritti. A ciò si aggiunga che l’atteggiamento delle confederazioni sindacali era condizionato dal correlativo atteggiamento dei partiti politici, cui gli esponenti di ciascuna facevano capo, con la conseguenza che alla contrapposizione fra la democrazia cristiana e le sinistre faceva da cassa di risonanza la divisione fra i sindacati. Tale contrapposizione ebbe modo di manifestarsi subito, fin dalla prima legislatura (nel 1951), in occasione della discussione parlamentare del progetto di legge Rubinacci (ministro del lavoro dell’epoca) per l’attuazione dell’art. 39, progetto che, per tali ragioni, non giunse mai compimento. La situazione di stallo venuta ad ingenerarsi lasciava drammaticamente scoperto il fronte della garanzia per i lavoratori di minimi inderogabili di trattamento, in un contesto nel quale era assai alta l’evasione contrattuale. Il che condusse le parti sociali ed i loro referenti politici ad ipotizzare soluzioni transitorie che potessero traghettare il sistema verso il nuovo ordinamento sindacale. Fu in questo clima che maturarono le idee che diedero origine alla l. 14 luglio 1959, n. 741 (detta legge Vigorelli dal nome del ministro del lavoro in carica che se ne era fatto promotore). La legge si proponeva l’obiettivo di risolvere in via transito-

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ria il problema dell’estensione erga omnes dei contratti collettivi post-corporativi (e post-costituzionali), nella permanente attesa che, prima o poi, il legislatore provvedesse a dare attuazione al meccanismo procedurale prefigurato dalla seconda parte dell’art. 39 Cost. Sull’opportunità di procedere – data la situazione di elevata evasione contrattuale – all’emanazione della legge fu trovata in Parlamento ed all’interno delle confederazioni sindacali un’ampia maggioranza. L’obiettivo, evocato nella intitolazione della legge, di «garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori» fu perseguito attraverso una tecnica singolare. La legge delegava il governo ad «emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria». Tali norme giuridiche (i decreti legislativi delegati) dovevano necessariamente uniformarsi alle clausole dei contratti collettivi stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge. Il termine che veniva dato al Governo per l’emanazione delle norme era di un anno dall’entrata in vigore della legge (art. 6 l. Vigorelli) e quindi l’intero meccanismo veniva a decadere ai primi di ottobre del 1960. Di fatto il governo provvide a dar corso alla delega emanando una lunga serie di decreti legislativi che recepivano integralmente il contenuto dei contratti collettivi stipulati (come se, in modo figurato, sul documento contenente il contratto collettivo, fosse stato apposto il «timbro» che lo qualificava come decreto legislativo e non più fonte negoziale). La legge poneva una infinita serie di problemi, alcuni affrontati e risolti, in qualche modo, altri lasciati all’interpretazione; ne indichiamo succintamente alcuni (senza affrontarli, dato che la disciplina in questione va considerata, per quel che si dirà subito, un caso di archeologia giuridica): i rapporti fra i contratti corporativi ed i contratti estesi erga omnes; i rapporti fra i vari livelli contrattuali; la successione nel tempo fra contratti di diritto comune e contratti erga omnes; i rapporti fra i contratti, recepiti in decreti legislativi, e la preesistente normativa inderogabile.

I decreti delegati

I problemi conseguenti

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La costituzionalità della legge

La sentenza della Corte cost. n. 106/1962

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Quest’ultimo problema in particolare nasceva dalla circostanza secondo cui, avendo assunto i contratti forza di legge, le «leggi di categoria» si sarebbero sostituite automaticamente alla preesistente legislazione imperativa, procedendo ad abrogarla, in ragione della successione della legge nel tempo (per cui la legge successiva abroga la precedente che regola la medesima materia). La questione veniva risolta in apicibus dall’art. 5 della legge Vigorelli secondo cui le norme delle leggi-contratto non potevano porsi in contrasto «con norme imperative di legge». Su tutti i problemi evocati (e sugli altri ancora di cui non abbiamo parlato) faceva però aggio la questione delle questioni: la conformità del meccanismo ipotizzato dal legislatore rispetto alla procedura prevista dalla seconda parte dell’art. 39 Cost.; in buona sostanza la sua costituzionalità. La legge Vigorelli – nella piena consapevolezza della sua sostanziale eversività rispetto al sistema costituzionale – era infatti concepita come strutturalmente transitoria. Secondo l’art. 7 le leggi-contratto conservavano efficacia fino a che non fossero state sostituite da altri contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, evidentemente in funzione dell’attuazione del meccanismo di cui all’art. 39 Cost. Sennonché alla scadenza del termine annuale, di cui all’art. 6, non si erano realizzate le condizioni politiche per l’introduzione della legge attuativa dell’art. 39 Cost. Il legislatore provvide allora all’emanazione di una nuova disciplina (la l. 1 ottobre 1960, n. 1027) che prorogava di quindici mesi il termine annuale in scadenza. Avvenne così che all’attenzione della Corte costituzionale fu portata la valutazione di legittimità – a fronte dell’art. 39 Cost. – sia della legge Vigorelli che della legge del ’60 di proroga dei suoi effetti. La Corte affrontò le questioni in una sentenza giustamente consegnata alla storia del diritto sindacale nostrano: la sent. n. 106/1962. Con tale decisione la Corte valutò il meccanismo di cui alla legge del ’59 come una palese violazione dell’art. 39 della Costituzionale, spingendosi a qualificarlo come una sorta di «frode»

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costituzionale, data la evidentissima prefigurazione di un meccanismo di estensione erga omnes dei contratti collettivi del tutto alternativo rispetto al sistema delineato dai costituenti. Ad onta di tale premessa peraltro la Corte ritenne però che, dato il carattere dichiaratamente transitorio della legge e la situazione di grave evasione contrattuale alla quale si riprometteva di far fronte, si potesse, per così dire, derubricare l’accusa di incostituzionalità, considerando che lo scopo del legislatore era stato quello di «collegare il regime dei contratti di diritto comune con l’altro dei contratti con efficacia generale, a mezzo di un regolamento transitorio». In questo quadro poteva assumersi la (temporanea) costituzionalità delle legge. Il medesimo ragionamento però conduceva a dichiarare l’incostituzionalità della legge n. 1027 del 1960, che tendeva a far divenire tendenzialmente stabile la «transitorietà». La sentenza pose quindi una pietra tombale su ogni ulteriore tentativo del legislatore di aggirare l’attuazione dell’art. 39 Cost., mediante meccanismi che, per vie diverse ed alternative, intendessero perseguire il medesimo risultato. Ciononostante dei contratti convertiti in decreti delegati la Corte costituzionale ed i giudici di merito continuarono ad occuparsi per molti anni, in ragione dei complessi rapporti di tali fonti sia con il diritto del lavoro preesistente sia con i contratti collettivi corporativi e post-corporativi. Anzi si può dire che l’applicazione giurisprudenziale della legge Vigorelli costituì una fucina di studio, che consentì la puntualizzazione di una lunga serie di questioni concernenti il contratto collettivo come fonte.

6. Il contratto collettivo di diritto comune: il problema dell’efficacia soggettiva La mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione rendeva (e rende) ineludibile la qualificazione del contratto collettivo alla stregua del diritto vigente. La scelta del contesto giuridico al cui interno inquadrare il fenomeno era (ed è) una scelta obbligata: il contratto collettivo non può che ricevere senso

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La rilevanza del vincolo associativo

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e qualificazione nell’ambito del diritto privato. Esso è infatti il mezzo attraverso cui un’attività negoziale posta in essere da soggetti rappresentativi ha modo di estendersi a rapporti-altri. Ci muoviamo quindi entro la più genuina sfera di influenza del diritto delle obbligazioni. Il problema semmai è quello di verificare attraverso quali tecniche sarà possibile adattare schemi giuridici nati per dare ospitalità agli interessi individuali ad un contesto di riferimento in cui i soggetti rappresentativi (i sindacati) si fanno portatori di interessi collettivi ed indistinti; interessi che non costituiscono la mera sommatoria di quelli individuali dei singoli lavoratori rappresentati, ma tendenzialmente pretenderebbero di integrare una funzione egemonica dell’intera categoria rappresentata. È su queste complesse aporie che si è applicata la cultura giuridica post-costituzionale, con risultati in gran parte assestati, anche se mai del tutto appaganti. La prima questione che si presenta all’interprete – anzi la questione delle questioni – è quella diretta a definire l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi. Posto che le rappresentanze sindacali – come abbiamo visto – agiscono o dichiarano di agire per c.d. «in nome e per conto» dei lavoratori e dei datori di lavoro rappresentati, si tratta di chiedersi a quali soggetti sarà giuridicamente estensibile il contratto collettivo. A questa domanda l’art. 39, seconda parte, della Costituzione dava una risposta chiara: una volta definito l’assetto della democrazia sindacale, secondo le regole della registrazione dei sindacati e della costituzione delle rappresentanze unitarie, il contratto collettivo stipulato da tali soggetti avrebbe avuto applicazione egemonica, si sarebbe cioè giuridicamente esteso a tutti i lavoratori (a tutti i rapporti di lavoro) appartenenti alla categoria di riferimento. E dunque il contratto collettivo di lavoro dei metalmeccanici a tutti i metalmeccanici, quello degli edili a tutti gli edili, ecc. Sarebbe stata questa in sostanza la c.d. efficacia erga omnes dei contratti collettivi. In assenza di regolamentazione derivante dal diritto (speciale) del lavoro, la soluzione della questione non può che ricadere entro l’alveo del diritto comune (o diritto privato che dir si voglia).

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In tale ambito l’istituto che meglio si presta ad offrire uno schema al cui interno un soggetto assume impegni in nome e per conto di un altro soggetto è l’istituto della rappresentanza negoziale, regolato dagli artt. 1387 e seguenti del codice civile. In forza di tale schema gli effetti giuridici degli atti realizzati dal rappresentante ricadono nella sfera del rappresentato, venendogli imputati direttamente, in ragione del vincolo rappresentativo. Il presupposto per l’estensione del contratto collettivo passa quindi attraverso il vincolo associativo che lega i soggetti rappresentati (datori di lavoro e lavoratori) ai soggetti rappresentanti (associazioni sindacali). Con una forzatura un po’ semplificante si ritiene (o si finge di ritenere) che sarebbe implicito in tale vincolo un mandato conferito alle associazioni sindacali a rappresentare gli interessi degli affiliati nella stipulazione del contratto collettivo. A rendere ragionevolmente compatibile il modello individuale-privatistico con quello sindacale-collettivo vale l’elaborazione culturale della categoria dell’interesse collettivo, già ricordata, come la sintesi degli interessi dei singoli associati. Per effetto dei descritti ragionamenti alla domanda: «a chi si applica il contratto collettivo?» si deve rispondere: «ai soggetti (datori di lavoro e lavoratori) che siano iscritti alle associazioni sindacali che lo abbiano stipulato».

7. Le tecniche di estensione dell’efficacia del contratto collettivo al di fuori del vincolo associativo È chiaro peraltro che quanto abbiamo riferito riveste una diversa valenza a seconda che si alluda alla posizione del datore di lavoro o a quella del lavoratore. È evidente che quest’ultimo ha uno spiccato interesse all’applicazione del contratto collettivo, dato che esso contiene la disciplina-standard di regolazione del rapporto di lavoro, una disciplina, nella normalità dei casi, di gran lunga più favorevole rispetto a quella che potrebbe spuntare attraverso una trattativa individuale (a meno che il lavoratore in questione non sia un calciatore di grido o un super-manager). Ne consegue che l’iscrizione del lavorato-

Centralità della iscrizione del datore di lavoro

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Tecniche di estensione della efficacia soggettiva del contratto collettivo al datore di lavoro non iscritto

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re all’associazione sindacale è condizione (relativamente) necessaria, ma non sufficiente per ottenere l’effetto dell’applicazione del contratto collettivo al suo rapporto di lavoro. Ciò che conta è invece ed ovviamente che il datore di lavoro sia iscritto all’associazione sindacale stipulante e che quindi il contratto collettivo sia vincolante per quest’ultimo. Quest’ultima affermazione implica quindi la sua reciproca: se il datore di lavoro non è iscritto ad alcuna associazione sindacale il medesimo non è giuridicamente vincolato all’applicazione del contratto collettivo stipulato per la categoria produttiva cui appartiene. In sostanza se un imprenditore metalmeccanico non aderisce alla associazione sindacale di categoria (nel caso la Federmeccanica) non è giuridicamente tenuto all’applicazione del contratto collettivo stipulato da quest’ultima. Il problema può semmai sorgere nel caso in cui il datore di lavoro eserciti più attività (ad es. l’una di natura chimica e l’altra di natura metalmeccanica). In tali situazioni in passato la giurisprudenza, andando un po’ per le spicce, applicava l’art. 2070 cod. civ., secondo cui «se l’imprenditore esercita distinte attività aventi carattere autonomo, si applicano ai rispettivi rapporti di lavoro le norme dei contratti collettivi corrispondenti alle singole attività». Una più matura riflessione ha consentito di prendere atto dell’inapplicabilità della disposizione codicistica, facente corpo con l’ordinamento corporativo. Ne è derivato un sistema nel quale – anche in tali situazioni – si deve dare prevalenza al criterio dell’iscrizione del datore di lavoro all’associazione stipulante, con la conseguenza che se il datore è iscritto ad una sola delle associazioni di categoria (ad es. quella metalmeccanica) sarà tenuto ad applicare il relativo contratto anche ai lavoratori che operano nella diversa categoria (nell’esempio fatto: quella chimica). Così posta la questione, il tema di discussione si sposta pertanto dalla astratta discettazione sull’istituto privatistico che meglio si attaglia a descrivere la vicenda, al più concreto esame delle tecniche attraverso cui riuscire a tenere vincolato il datore di lavoro non iscritto all’applicazione del contratto collettivo di categoria.

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Ed è da questo angolo visuale che il problema è stato affrontato dalla giurisprudenza post-costituzionale, con il supporto della dottrina. La giurisprudenza si è cioè dovuta occupare – almeno alle origini, quando prevaleva, in via di fatto, una diffusa evasione contrattuale – di controversie nelle quali al lavoratore che invocava l’applicazione del contratto collettivo il datore di lavoro opponeva di non essere affiliato all’associazione sindacale di categoria e dunque di non essere giuridicamente obbligato ad applicarlo. È rispetto a tali situazioni che i nostri giudici – a partire dalla Corte di Cassazione – hanno elaborato una nutrita serie di succedanei idonei a tenere vincolato il datore di lavoro, ad onta della sua mancata affiliazione sindacale. A) Il primo e più rilevante meccanismo di estensione del contratto collettivo al di fuori del vincolo associativo affonda le proprie ragioni nella tutela costituzionale del diritto alla retribuzione. L’art. 36 Cost. prevede che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al medesimo ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Al di là dell’indicazione relativa alla proporzionalità – che attiene evidentemente al rapporto di corrispettività che lega la prestazione di lavoro alla controprestazione economica – la definizione include quella di sufficienza, che si riferisce alla soddisfazione di bisogni personali e familiari e che quindi esula da valutazioni strettamente legate alla dimensione negoziale individuale, per attingere piuttosto alla categoria (variabile) del «bisogno». Il problema di fronte al quale si è trovata la giurisprudenza è stato peraltro quello di rinvenire un meccanismo idoneo a determinare quale potesse considerarsi in concreto la giusta retribuzione nell’ambito del contratto individuale di lavoro. In sostanza – posto che l’art. 2099 cod. civ., stabilisce che la «misura» della retribuzione possa essere determinata, se pure in via residuale, dal giudice – la giurisprudenza si è chiesta attraverso quale meccanismo sarebbe stato possibile determinare la giusta

L’applicazione dell’art. 36 Cost.

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retribuzione in relazione ad uno specifico rapporto di lavoro (quale fosse cioè la giusta retribuzione per un operaio edile ovvero per un impiegato metalmeccanico). Orbene è accaduto che i nostri giudici, per rispondere a tale quesito, hanno ritenuto di poter dare attuazione diretta all’art. 36 Cost. Hanno cioè ritenuto tale norma di carattere immediatamente precettivo e non di natura meramente programmatica, come altre norme della Carta costituzionale (a partire dalla fondamentale sent. Cass. n. 461/1952). Il che significa che un lavoratore che lamenti l’inadeguatezza economica del salario corrispostogli può invocare direttamente in sede giudiziaria l’art. 36 Cost., chiedendone al giudice la rideterminazione. Acquisito tale primo dato il secondo e consequenziale quesito riguardava l’individuazione delle fonti concrete di determinazione del giusto salario. Ed è qui che la questione della determinazione delle giusta retribuzione interferisce con quella relativa all’efficacia soggettiva del contratto collettivo. La giurisprudenza ha infatti individuato nelle tariffe salariali contenute nei contratti collettivi di diritto comune (cioè quelli contemporanei, non quelli di matrice corporativa) il parametro di riferimento per la determinazione del giusto salario. Siffatto modo di operare, oltre a corrispondere alle confluenti indicazioni dell’art. 2099 cod. civ. e 36 Cost., costituisce, in qualche misura e con i necessari adattamenti, l’estensione al rapporto di lavoro di un principio, se si vuole brutale, ma realistico: quello – codificato dall’art. 1474 cod. civ. – secondo cui, ove il «prezzo» di un bene non sia fissato dai contraenti, il medesimo può essere determinato dal giudice avendo riguardo al suo valore «di mercato». Ebbene – secondo la giurisprudenza da oltre mezzo secolo – il valore di «mercato» di una determinata prestazione di lavoro (il suo prezzo) è rinvenibile nel contratto collettivo del settore nel cui ambito opera il datore di lavoro. In tal modo il contratto collettivo opera sul concreto rapporto di lavoro – ed avendo riguardo alla determinazione della retribuzione – a prescindere dal vincolo di affiliazione del datore di lavoro all’associazione sindacale stipulante.

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B) Ulteriori tecniche estensive del contratto collettivo sono di matrice più squisitamente privatistica. In primo luogo la giurisprudenza ritiene che il datore di lavoro che, per pratica costante, abbia sempre applicato il contratto collettivo all’interno della propria impresa non possa sottrarsi alla sua applicazione rispetto ad uno specifico rapporto di lavoro. In sostanza viene qui valorizzata la tecnica dell’uso negoziale, nel cui ambito la vincolatività discende da una costante e reiterata applicazione della fonte negoziale collettiva così da ingenerare un affidamento vincolante sulla sua applicazione. Al medesimo risultato si può comunque pervenire valorizzando il comportamento concludente del datore di lavoro, in quanto tale espressivo della sua volontà. Nella stessa logica funziona l’impegno negoziale assunto dal datore di lavoro nell’ambito del contratto individuale di lavoro. Se cioè il datore di lavoro, nella lettera di assunzione, ha operato un esplicito riferimento all’applicazione, al rapporto, del contratto collettivo di settore, non può poi invocare la mancata affiliazione per negarne l’estensione alla specifica relazione di lavoro. C) In altre – e sempre più rilevanti situazioni – è lo stesso legislatore che impone al datore di lavoro l’applicazione del contratto collettivo. Si tratta di tutte quelle ipotesi in cui la concessione di determinati benefici (economici, fiscali, previdenziali, ecc.) è condizionata all’applicazione, da parte del datore di lavoro beneficiario, del contratto collettivo di settore. Il prototipo di tale tecnica è costituito dall’art. 36 dello statuto dei lavoratori. Tale norma fa obbligo agli imprenditori che siano appaltatori di opere pubbliche o destinatari di agevolazioni finanziarie e creditizie concesse dallo stato di «applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona». Come si vede l’estensione soggettiva del contratto collettivo anche a datori di lavoro, in ipotesi, non affiliati al sin-

L’applicazione per pratica costante

L’estensione del contratto collettivo ad opera della legge

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dacato stipulante è qui parte del disegno legislativo di concessione di benefici solo a quelle imprese che garantiscano il rispetto dei diritti dei lavoratori, a partire dall’applicazione degli standard di trattamento previsto nel contratto collettivo. Si tratta di una logica per così dire corrispettiva, in cui la concessione è esplicitamente condizionata all’osservanza delle clausole collettive, la cui violazione è sanzionata con la decadenza dal beneficio o la perdita dell’appalto. Un altro significativo esempio di espansione dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo (confermativa, in qualche modo, dell’orientamento giurisprudenziale che fa leva sull’art. 36 Cost.) è rappresentato dalla scelta legislativa relativa alla determinazione del minimale dovuto per l’adempimento dell’obbligo contributivo da parte del datore di lavoro. Secondo l’art. 1 del d.l. n. 338/1989 infatti «la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni, stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ovvero da accordi collettivi o individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quella prevista dal contratto collettivo». Il che significa che anche i datori di lavoro cui il contratto collettivo non sia soggettivamente estensibile – perché non affiliati all’associazione stipulante – sono obbligati ad osservarlo, quanto meno avendo riguardo alla determinazione del minimale contributivo.

8. L’inderogabilità del contratto collettivo L’illustrazione delle tecniche di individuazione dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo non esaurisce il tema della vincolatività di tale fonte rispetto al contratto individuale di lavoro. Per ottenere tale ineludibile effetto è indispensabile che l’ordinamento sancisca anche la non derogabilità delle clausole contenute nel contratto collettivo ad opera del contratto individuale.

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È questo il problema sul quale si arenarono le riflessioni giuridiche a cavallo fra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo. Infatti, una volta definito l’ambito di efficacia soggettiva del contratto collettivo alla stregua della disciplina della rappresentanza, nessuno potrebbe in astratto impedire alle parti del rapporto individuale, pur iscritte alle associazioni sindacali stipulanti, di disattendere l’impegno contenuto nel mandato loro conferito e decidere, in sede di trattativa individuale, di dare un assetto diverso e meno favorevole per il lavoratore rispetto a quello risultante dalla recezione delle clausole collettive, in applicazione del principio generale della libertà di contratto. Non a caso, come abbiamo ricordato in precedenza, quelle antiche ricostruzioni giungevano, al massimo, al risultato di assumere che la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di applicare il contratto collettivo, che gli fosse soggettivamente estensibile, produceva solo effetti risarcitori per il lavoratore, senza che quest’ultimo potesse invocare l’applicazione diretta al suo rapporto di lavoro della fonte collettiva. Per ottenere tale effetto era indispensabile l’intervento della legge, che sancisse appunto l’inderogabilità (o efficacia oggettiva) del contratto collettivo su quello individuale. All’interno dell’ordinamento corporativo il principio dell’inderogabilità era esplicitamente sancito dalla legge. Da ultimo infatti l’art. 2077, 2° comma, cod. civ. prevedeva che «le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro». Sennonché tale disposizione – pur essendo contenuta materialmente all’interno del codice civile – non può ritenersi compatibile con l’ordinamento sindacale post-costituzionale, essendo legata al sistema sindacale fascista nel cui ambito il contratto collettivo aveva efficacia erga omnes alla stregua del meccanismo che abbiamo descritto a suo tempo. In buona sostanza la norma codicistica non può ritenersi applicabile al contratto collettivo di diritto comune (anche se la giurisprudenza, con atteggiamento carico di pragmatismo, ha di fatto continuato a ritenerla compatibile con il nuovo sistema).

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La teoria del mandato collettivo

I dati interpretativi ricavabili dal nuovo testo dell’art. 2113 cod. civ.

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Ed in effetti nel primo ventennio post-costituzionale la questione è stata oggetto di notevoli discussioni dottrinarie, con la prefigurazione di molteplici ricostruzioni, spesso complesse e sofisticate, per la gran parte tributarie di schemi e concetti proprio del diritto privato. Fra le tante una delle più note è quella risalente al pensiero di Francesco Santoro Passarelli, che si fondava sulla teoria del mandato collettivo. Secondo l’illustre autore l’inderogabilità del contratto collettivo ad opera di quello individuale avrebbe dovuto dedursi dall’art. 1726 del codice civile (ma v. anche l’art. 1723, 2° comma sul mandato «conferito anche nell’interesse del mandatario»). Secondo tale norma il mandato conferito collettivamente da una pluralità di soggetti è derogabile solo ad opera della collettività che lo ha conferito, con la conseguenza che la deroga operata da un singolo datore di lavoro non avrebbe potuto sortire l’effetto della disapplicazione del contratto collettivo. Si tratta, come è facile avvedersi, di una ricostruzione basata su una finzione: si finge di credere che il mandato conferito dai singoli datori di lavoro all’associazione di categoria sia configurabile come un mandato collettivo e si finge conseguentemente di assumere che la deroga individuale non possa essere produttiva di effetti rispetto al vincolo assunto con il mandato. A tagliare corto su ogni possibile discussione astratta – ed a dare sostegno all’atteggiamento empirico della giurisprudenza – è intervenuto comunque il legislatore nel 1973, con la nuova formulazione di una norma del codice civile, all’apparenza eterodossa rispetto al tema che qui ci occupa: l’art. 2113, che disciplina il regime giuridico delle rinunzie e delle transazioni del lavoratore. A prescindere dal contenuto specifico della disposizione ciò che conta ai nostri fini è che la norma stabilisce la limitata rinunciabilità e transigibilità dei diritti prefigurati in «disposizioni inderogabili» contenute nella legge e «nei contratti e accordi collettivi». In tal modo il legislatore mostra di ritenere che anche gli attuali contratti collettivi (non solo quelli corporativi) sono dotati del requisito della inderogabilità ad opera dei contratti individuali.

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9. Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti Fino a questo punto abbiamo esaminato il problema giuridico della qualificazione dei contratti collettivi post-corporativi ed illustrato gli itinerari attraverso cui la riflessione giuridica è riuscita ad affrontare ed, in qualche modo, risolvere i due problemi-chiave della loro efficacia soggettiva ed inderogabilità. Prima di procedere ad esporne gli ulteriori connotati, è indispensabile riprendere il discorso interrotto sull’art. 39 della Costituzione. Abbiamo già ricordato le ragioni che, secondo gran parte dell’opinione, hanno cospirato contro la sua attuazione mediante legge ordinaria. Ora dobbiamo soggiungere che a partire dalla seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso si è diffuso il convincimento, secondo cui non era più nemmeno opportuno adoperarsi per dare sviluppi attuativi concreti al sistema di estensione erga omnes dei contratti collettivi disegnato nella norma costituzionale. Sennonché tale acquisita presa di posizione non ha impedito lo sviluppo della contrattazione collettiva e su un duplice piano. Anzitutto essa si è affermata – e sempre più si caratterizza – sul piano dell’effettività come una fonte regolativa dei rapporti di lavoro che, nei fatti (anche se non sul piano del rigore giuridico), si affianca alla legge nella disciplina dei rapporti di lavoro. Dall’altro e soprattutto ad essa si è riferito lo stesso legislatore che ha, in più occasioni e con varie finalità, utilizzato la contrattazione collettiva, assegnandole funzioni di controllo e regolazione del mercato del lavoro. Basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, che la legge ha rinviato alla fonte succedanea del contratto collettivo: a) per la regolazione dei rapporti di lavoro fuori-standard o atipici che dir si voglia (v. ad es.: artt. 19, 2° comma e 23, 1° comma d.lgs. n. 81/2015, in materia di lavoro a termine); b) per l’individuazione delle prestazioni essenziali in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali (art. 2 della l. n. 146/1990); c) per la gestione delle crisi di impresa con il ricorso alla cassa integrazione guadagni o alle procedure di mobilità e licenziamento collettivo (v. la l. n. 223/1991); d)

Il contratto collettivo come fonte in termini di effettività

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per la regolazione – con efficacia erga omnes – dei rapporti di pubblico impiego (di cui diremo più avanti). Il che corrisponde ad un ruolo oggettivamente pubblico, assunto progressivamente dalle organizzazioni sindacali nell’ultimo trentennio, e che si traduce in un complesso intreccio nel sistema delle fonti, fino ad una sorta di compenetrazione fra l’azione amministrativa pubblica ed il sistema di puro fatto delle relazioni sindacali. Quindi il contratto collettivo si è affermato nella realtà concreta della gestione dei rapporti di lavoro o per forza propria ovvero in ragione dei rinvii volta a volta operati dal legislatore. Tale assetto pone quindi una prima domanda: è sufficiente tutto questo a consentire di annoverare il contratto collettivo tra le fonti in senso proprio, come avveniva nel sistema corporativo e come ancora si legge (anche se all’interno di parentesi quadre) nell’art. 1 delle pre-leggi? Una risposta alla domanda che aspiri al doveroso rigore giuridico non può che essere negativa, sol perché manca una disciplina organica – al di fuori della materia del lavoro pubblico – che disciplini soggetti, oggetti e struttura della contrattazione. Nell’ordinamento peraltro sono disseminati indizi che sembrano orientare verso una risposta positiva. Il più clamoroso di essi è contenuto nella riforma processuale risalente al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. Come vedremo più avanti, secondo il novellato art. 360, n. 3 cod. proc. civ. il ricorso in Cassazione può essere proposto anche «per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro». L’innovazione è moderatamente rivoluzionaria, se solo si pensa che, fino all’entrata in vigore della riforma, i contratti collettivi potevano essere conosciuti dalla Cassazione, in quanto strumenti privatistici, ove nella loro applicazione il giudice di merito avesse violato le norme sull’interpretazione dei contratti contenute negli artt. 1362 e seguenti del codice civile. Oggi invece la riforma processuale consente alla Cassazione un controllo diretto sui contratti collettivi, al pari del controllo sulla legge. L’innovazione se pure – da sé sola – non è idonea a promuovere il contratto collettivo tra le fonti in senso proprio costituisce, cionondimeno, un corposo indice della volontà legislativa di fargli

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compiere un ulteriore e rilevante passo in quella direzione. Da ultimo l’illustrata posizione del contratto collettivo in seno all’ordinamento generale sollecita una ulteriore e definitiva riflessione sulla compatibilità delle scelte legislative indicate, dirette a funzionalizzare il contratto collettivo al raggiungimento di finalità pubblicistiche e/o di rilievo generale, con il quadro delineato dall’art. 39 Cost., che, se pure non attuato, resta pur sempre il parametro di riferimento di ogni operazione legislativa che si proponga di intervenire in materia di contrattazione collettiva. La questione si è posta diverse volte, a partire dagli anni ottanta, avendo riguardo a quella legislazione che affida alla contrattazione collettiva ed in particolare a quella aziendale poteri, come si suol dire, ablativi, cioè derogatori di posizioni di diritto dei lavoratori. In sostanza, in tali casi, il legislatore delega al contratto collettivo aziendale il potere di disporre dei diritti dei lavoratori dell’impresa anche in senso peggiorativo: basti pensare al potere negoziale riconosciuto alle organizzazioni sindacali nel caso di crisi di impresa, cassa integrazione, licenziamenti collettivi, trasferimenti d’azienda, ecc. In tutte queste situazioni i lavoratori dissenzienti e/o non iscritti ai sindacati stipulanti, colpiti da provvedimenti sfavorevoli (licenziamenti, collocazione in cassa integrazione, ecc.), hanno spesso fatto valere in giudizio i profili di illegittimità costituzionale delle relative discipline legali, che, in violazione dell’art. 39 Cost., attribuivano efficacia soggettiva generalizzata ai contratti collettivi aziendali, al di fuori dell’attuazione del meccanismo previsto dalla norma costituzionale. La quadratura del cerchio, con cui si è salvata la permanente rilevanza del parametro costituzionale nei confronti di operazioni legislative di estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, si è avuta con l’intuizione secondo cui il contratto collettivo delegato dalla legge a svolgere le descritte funzioni si limita ad attribuire al datore di lavoro una serie di poteri e/o autorizzazioni dirette a raggiungere l’effetto voluto (la stipulazione del contratto atipico, il licenziamento collettivo, secondo determinati parametri, ecc.), senza attin-

Problemi di costituzionalità dei contratti ablativi

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gere all’efficacia generalizzata cui allude la norma costituzionale. La più compiuta espressione di tale linea di pensiero è rinvenibile nella sent. n. 268/1994 della Corte costituzionale, resa rispetto all’art. 5, 1o comma della l. n. 223/1991 (in materia di licenziamenti per riduzione di personale) nella parte in cui prevede che un accordo sindacale possa determinare criteri di scelta dei lavoratori da licenziare diversi da quelli stabiliti dalla legge. Ha osservato la Corte che la legge non avrebbe attribuito alla contrattazione collettiva alcun potere di disporre la deroga di norme imperative con efficacia erga omnes, ma più riduttivamente di contribuire a procedimentalizzare i poteri unilaterali del datore di lavoro. In buona sostanza il legislatore avrebbe sostituito alla determinazione unilaterale dell’imprenditore, nell’esercizio del proprio potere organizzativo, una determinazione consensuale dei criteri. Ciò acquisito resta da rispondere alla domanda di fondo: fino a che punto si potrà spingere il legislatore nell’opera di attribuzione al contratto collettivo di poteri regolativi tendenzialmente generalizzati, senza tradire l’art. 39 Cost.? Una risposta ragionevole al quesito vuole che il quarto comma dell’art. 39 non è impeditivo di qualsivoglia intervento legislativo che intenda attribuire al contratto collettivo un’efficacia più ampia di quella che gli sarebbe connaturale, sull’erroneo presupposto che la questione dell’efficacia del contratto collettivo non possa essere trattata separatamente da quella dell’organizzazione sindacale. La norma costituzionale si limita invece ad impedire che vengano introdotti modelli negoziali che, per il tramite della efficacia obbligatoria del contratto, attribuiscano un qualche monopolio nella rappresentanza della categoria di riferimento. Resta quindi fermo sia lo spazio per l’attribuzione al contratto collettivo di poteri gestionali, sia lo spazio per una contrattazione libera (senza efficacia generalizzata), ma egualmente accoglibile entro un quadro di riconoscimento legislativo.

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10. Il contratto collettivo: natura, tipologie, soggetti, forma Possiamo ora riprendere il filo del discorso giuridico sugli elementi strutturali del contratto collettivo. Uno dei caratteri essenziali del contratto collettivo consiste nella circostanza che esso è stipulato da soggetti collettivi (le associazioni sindacali). Tali soggetti, in un sistema di libertà sindacale, possono liberamente rappresentare gli interessi dei lavoratori. L’ambito dei soggetti rappresentati sarà a sua volta altrettanto liberamente scelto dall’associazione sindacale (vedremo più avanti come si atteggia il problema della determinazione della categoria di riferimento). Come abbiamo visto il primo comma dell’art. 39 della Costituzione garantisce, all’un tempo, la libertà di organizzazione sindacale ed, implicitamente o come corollario di essa, la libertà di contrattazione. Il contratto collettivo, nell’attuale ordinamento, non è regolato direttamente da specifiche norme di legge, che ne puntualizzano le scansioni procedurali; quindi non può strettamente definirsi un contratto tipico (come avveniva nell’ordinamento corporativo e come avviene, oggi, nel settore del pubblico impiego). Nondimeno può a pieno titolo inserirsi nell’ambito delle lecite manifestazioni di autonomia privata, collocabili sotto l’egida dell’art. 1322, 2° comma, cod. civ., secondo cui i privati possono «concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico». Può quindi essere una questione puramente nominalistica quella di definirlo come contratto nominato – in quanto ad esso la legge fa infinite volte riferimento (come abbiamo accennato in precedenza) – o come contratto atipico (definizione questa spesso contestata da una parte della cultura giuridica). Resta fermo che, mai come in questo caso (la questione si porrà in modo analogo per lo sciopero), vi è una stretta interazione fra dato sociale (l’esistenza nei fatti dei contratti collettivi, per come si presentano nella realtà) e dato giuridico (le norme di legge che ad essi fanno rinvio). Questa necessaria interazione fra dato sociale e dato giuridi-

Libertà sindacale e libertà di contrattazione

Tipicità del contratto collettivo

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Il contratto collettivo nazionale di lavoro: il problema della categoria

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co non muta quale che sia il grado di specificità della definizione di contratto collettivo che è contenuto nella norma che ad esso fa rinvio. Nel corso degli anni infatti le «clausole di rinvio» previste dalla legge sono passate dal mero richiamo del contratto collettivo tout court, ad una più precisa individuazione dei soggetti stipulanti (dai «sindacati maggiormente rappresentativi» ai «sindacati comparativamente più rappresentativi») o del livello di stipulazione (contratti nazionali o aziendali). Negli uni come negli altri casi il rinvio legislativo è ancorato su solide basi di tipicità sociale. Una importante differenziazione fra i contratti collettivi è quella che guarda al loro ambito di riferimento. Anche se il progenitore del contratto collettivo è nato su base aziendale, quando alle origini delle lotte operaie, i lavoratori di una determinata impresa sono riusciti ad imporre al loro datore – proprio per il tramite del contratto collettivo (o concordato di tariffa) – condizioni migliori rispetto a quelle imposte unilateralmente e singolarmente dal «padrone», non vi è dubbio che il prototipo della categoria sia il contratto collettivo nazionale di lavoro. È ad esso che fa riferimento la seconda parte dell’art. 39 Cost., con l’intento di dettare le regole affinché tale contratto possa acquisire efficacia erga omnes. Il contratto collettivo nazionale è quello che consente la predisposizione di un trattamento omogeneo sull’intero territorio nei confronti di tutti i lavoratori che operano all’interno di una medesima categoria produttiva. Esso ha quindi una funzione perequativa e tendenzialmente egualitaristica, in contrapposizione a spinte puramente aziendaliste, che tenderebbero a far perno sulla contrattazione d’impresa. In sostanza, attraverso il contratto nazionale di categoria, a ciascun lavoratore, ad es., metalmeccanico è tendenzialmente assicurato il medesimo trattamento minimo, quale che sia l’impresa presso la quale opera e la località nella quale si trovi l’impresa. Una questione cruciale legata al campo di applicazione del contratto nazionale è quella che fa capo alla determinazione della categoria produttiva. Abbiamo ricordato a suo tempo che il

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sindacato ben presto comprese che fosse necessario strutturarsi sulla base dell’organizzazione produttiva delle imprese e non in ragione del «mestiere» esercitato dai singoli lavoratori (il sindacato «di fabbrica» in contrapposizione al sindacato di «mestiere»). Il problema è ora quello di definire più puntualmente i criteri distintivi delle singole «categorie» produttive. Poiché non è scritto nel libro della natura quali imprese debbano appartenere alla categoria metalmeccanica e quali a quella edile (e via distinguendo), è indispensabile segnare una regolamentazione di confini tra i contratti collettivi, in relazione al loro ambito di estensione. Nel sistema corporativo la categoria veniva determinata – come voleva l’art. 2070, 1° comma, cod. civ. – in funzione dell’«attività effettivamente esercitata dall’imprenditore». La categoria era quindi, in qualche misura, un a priori rispetto all’azione ed alla contrattazione sindacale ed obbediva ad un criterio meramente «merceologico». Nel sistema di libertà sindacale viceversa siffatta tecnica non potrebbe affermarsi senza ledere le prerogative delle parti collettive che devono essere invece lasciate libere di determinare l’ambito di riferimento e dunque il campo di applicazione dei patti che vengono sottoscritti. Ne deriva che sono le parti stesse che, di volta in volta (cioè ad ogni scadenza contrattuale), sono libere di ridefinire tale ambito, che può anche estendersi fino a ricomprendere attività produttive che non rientrerebbero naturalisticamente entro l’ambito tradizionale di riferimento del relativo settore economico. Un esempio tratto dall’esperienza del settore bancario può essere illuminante. È ben noto che a partire dagli anni ottanta il settore bancario ha subito una significativa trasformazione, che ha condotto gli istituti di credito a non occuparsi più esclusivamente della tradizionale e storica attività di intermediazione creditizia, per estendere il proprio ambito di interesse alle cc. dd. attività «parabancarie», cioè affini a quella bancaria, ma da questa distinte (ad es.: il leasing, il factoring, ecc.). Al fine di svolgere tali attività gli istituti di credito hanno spesso creato delle società ad hoc, ovviamente legate alla banca capogruppo da vincoli di collegamento e controllo.

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Il contratto aziendale

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Orbene la contrattazione collettiva del settore bancario a partire dagli anni novanta ha risentito del mutamento del quadro di riferimento economico ed ha proceduto ad una rivisitazione del tradizionale campo di applicazione. Ne è risultato un sistema nel quale l’ambito di applicazione del contratto viene definito con riferimento ad un’area contrattuale assai più ampia di quella strettamente legata all’attività bancaria. Si legge infatti nei contratti collettivi del settore (l’esempio è tratto dal CCNL del 2005) che essa si applica «ai dipendenti delle imprese creditizie, finanziarie ed ai dipendenti delle imprese controllate che svolgono attività creditizia, finanziaria ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 385/1993, o strumentale, ai sensi degli artt. 10 e 59 del medesimo decreto». Come si vede le parti hanno esteso l’area contrattuale fino a ricomprendere società che non si occupano di attività strettamente creditizia (come quelle che svolgono attività strumentale ad essa), ma che sono sottoposti alla medesima regolamentazione pattizia sol perché controllate da imprese propriamente bancarie. L’esempio ci consente pertanto di concludere riassuntivamente che il contratto collettivo è riferibile alla categoria dei bancari (o dei metalmeccanici o dei chimici) non necessariamente perché l’attività esercitata dai datori di lavoro destinatari sia obiettivamente riconducibile al settore economico di riferimento, ma perché in quanto tale viene qualificato dalle parti contraenti, che possono ampliare o restringere la categoria, secondo la loro libera volontà. Distinta dalla questione dell’individuazione del campo di applicazione del contratto, e da non confondere con questa, è la questione della possibile compresenza, per una stessa categoria produttiva, di più contratti collettivi, stipulati da organizzazioni sindacali diverse. È questo il problema della efficacia soggettiva del contratto collettivo, che abbiamo esaminato in precedenza. All’estremo opposto va menzionato il contratto aziendale, che è quello stipulato all’interno di una singola impresa ed ha come parti stipulanti, da un lato, il datore di lavoro e, dall’altro, o le rappresentanze sindacali aziendali o rappresentanze a livello territoriale. Il relativo campo di applicazione è, all’evidenza,

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delimitato all’impresa stipulante (anche se questa, in astratto, può avere una estensione assai ampia: pensiamo ad una multinazionale) e quindi ai lavoratori dipendenti da questa. Vedremo più avanti che, in taluni momenti della nostra storia sindacale, sono state elaborate, al massimo livello negoziale (quello interconfederale, su cui v. infra), una serie di regole di coordinamento dei vari livelli contrattuali (e segnatamente dei rapporti fra contratto nazionale e contratto aziendale), allo scopo di definire i relativi ambiti di competenza e coordinare le politiche salariali. Dal punto di vista giuridico comunque il problema più rilevante è quello dell’efficacia soggettiva del contratto aziendale. Tradizionalmente i contratti aziendali acquisitivi sono stati considerati dalla giurisprudenza efficaci nei confronti di tutti i lavoratori dell’impresa sulla base di varie argomentazioni (l’indivisibilità del trattamento assicurato dal datore, l’obbligo datoriale di assicurare l’uniformità del trattamento, ecc.), mentre su quelli cc.dd. ablativi abbiamo già detto pagine addietro. Tutte le teorie messe in campo hanno però sempre incontrato difficoltà nel dare acconcia sistemazione al problema in presenza di una o più rappresentanze sindacali dissenzienti, problema rispetto al quale è stato proposta da più parti l’adozione del criterio di maggioranza. Tale soluzione ha trovato attuazione nell’Accordo interconfederale 28 giugno 2011, stipulato, come vedremo più avanti, dopo lo strappo dell’Accordo «separato» – per l’assenza della CGIL – del 22 gennaio 2009. Le disposizioni dell’A.I. del 2011 sono oggi contenute nel testo Unico sulla rappresentanza, sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL il 10 gennaio 2014. Si prevede, infatti, che i contratti collettivi aziendali sono efficaci erga omnes se sono approvati dalla maggioranza semplice dei componenti delle r.s.u. In mancanza di r.s.u. l’accordo ha la medesima efficacia se è approvato dalle r.s.a. costituite nell’ambito delle organizzazioni sindacali maggioritarie nell’impresa, alla stregua dei dati risultanti dalle deleghe relative al versamento dei contri-

Il problema dell’efficacia soggettiva del contratto aziendale

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Diritto sindacale

buti sindacali. In quest’ultima situazione l’accordo può essere sottoposto a referendum fra i lavoratori, se viene richiesto, entro dieci giorni dalla sottoscrizione, da almeno una organizzazione sindacale aderente alle confederazioni firmatarie del T.U. del 2014 o dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità del referendum è necessaria la partecipazione di almeno il 50% più uno dei dipendenti. Ad eliminare ogni dubbio sulla questione dell’efficacia generalizzata dei contratti aziendali – sollevandone però molti altri e rilevantissimi, come vedremo più avanti – è comunque intervenuto il legislatore con l’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito con l. 14 settembre 2011, n. 148), nell’ambito della manovra finanziaria varata nell’agosto 2011 ed innescata dalla grave crisi della moneta unica. Secondo tale disposizione i contratti collettivi aziendali o territoriali, sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti nell’impresa, hanno il potere di realizzare specifiche intese (dirette a creare maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività) con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati. Tale efficacia erga omnes è peraltro condizionata alla sottoscrizione «sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali». È presumibile che la norma (di non facile lettura interpretativa) intenda riferirsi alla contrattazione aziendale e che alluda alla possibilità di attribuire efficacia erga omnes ai contratti aziendali che siano stati stipulati entro l’ambito definito dall’Accordo interconfederale 28 giugno 2011. Resta peraltro aperta la discussione circa la sua legittimità costituzionale sotto molteplici profili (v. qualche considerazione infra, Sez. IV – par. 1).

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Più in generale occorre osservare che vi è una tendenza legislativa più ampia diretta a valorizzare il contratto collettivo aziendale. Basti pensare alle previsioni che introducono sgravi e benefici contributivi nel caso in cui la contrattazione aziendale introduca misure di welfare aziendale o premi di produttività basati su regole stabilite con il coinvolgimento dei lavoratori (v. la legge n. 208/2015, art. 1, commi 182-190 e successivamente l’art. 55 del d.l. n. 50/2017, convertito con modificazioni nella legge 21 giugno 2017, n. 96). Nella medesima logica va collocato quanto prevede l’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015. Il decreto legislativo si inserisce nel complesso di interventi definito comunemente Jobs Act con il quale sono stati sottoposte ad una sorta di maquillage le principali tipologie contrattuali lavoristiche (lavoro a termine, a tempo parziale, intermittente – poi modificato – somministrazione di lavoro, apprendistato, etc.). Orbene secondo la disposizione richiamata «salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria». In sostanza, mercé tale previsione, (anche) alla contrattazione aziendale sono dati innumerevoli poteri nell’amministrazione dei vari contratti di lavoro; così ad es. la contrattazione aziendale potrà regolare le ipotesi di svolgimento di lavoro supplementare nel part-time o introdurre deroghe alla durata complessiva dei vari rapporti di lavoro a termine con il medesimo datore di lavoro o, ancora, regolare il diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni a termine e via dicendo. La massima espressione della contrattazione collettiva è l’accordo interconfederale, che è un contratto collettivo stipulato dalle confederazioni sindacali, cioè da quei soggetti che, come abbiamo visto a suo tempo, rappresentano l’insieme dei lavoratori, da una parte, e delle imprese, dall’altra, appartenenti a tutte le categorie produttive (o a larga parte di esse: come ad es. le con-

La valorizzazione del contratto aziendale in leggi recenti

L’accordo interconfederale

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Gli accordi triangolari e la negoziazione legislativa

Diritto sindacale

federazioni del settore industriale, quelle del settore commerciale, ecc.). Si tratta di contratti che regolano assetti normativi che riguardano la generalità dei lavoratori dipendenti, senza distinzioni di settori. Nella storia del diritto del lavoro possono ricordarsi a titolo esemplificativo: l’a.i. sui licenziamenti ind., sui lic. coll., sulle commissioni interne, ecc. Tali contratti trovano quindi applicazione nei confronti dei lavoratori appartenenti a tutti i settori produttivi o a settori produttivi specifici nella loro interezza (come avviene per gli a.i. del settore industriale). Problemi ricognitivi ed interpretativi più complessi si pongono per i cosiddetti Accordi triangolari fra governo e parti sociali (rappresentanti delle grandi confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro). Ci troviamo, rispetto ad essi, nell’ambito del fenomeno definito come concertazione sociale. A partire dagli anni settanta – in occasione della prima grande crisi economica che colpì l’occidente industriale – si pose il problema per i governi di coinvolgere anche le parti sociali nelle scelte, necessariamente dolorose, di politica economica (misure fiscali, tagli dei salari, ecc.). In tali accordi il governo – anche se può apparirlo dall’esterno – non assume né può assumere la veste di parte negoziale in senso propriamente giuridico, ma si limita a trattare con le parti sociali per ottenerne l’assenso sulle misure da adottare, assumendo, per parte sua, impegni in contropartita (in regime di scambio politico). In attuazione di tali tecniche concertative negli anni ottanta e novanta è spesso accaduto che una serie di interventi legislativi in materie di interesse lavoristico (o più in generale di politica economica) sia stata per così dire concordata con le parti sociali e/o anticipata da accordi interconfederali. Basti pensare all’accordo 14 febbraio 1984 (stipulato nell’opposizione della Cgil), recepito dal Governo nel d.l. 15 febbraio 1984, n. 10, successivamente reiterato e convertito in legge, sul blocco di alcuni punti dell’indennità di contingenza, al Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 (di cui si dirà più oltre), con cui le parti sociali venivano coinvolte sulla politica dei redditi (nella prospettiva dell’ingresso dell’Italia nella moneta unica) o ancora al Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 22 dicembre 1998 o al Patto per l’Italia del 2002,

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o, infine, all’Accordo del 22 gennaio 2009 (sottoscritto fra governo e parti sociali, con l’esclusione della CGIL). Dal punto di vista giuridico è evidente che gli accordi concertativi pongono delicate questioni di legittimità costituzionale che investono sia il ruolo delle associazioni sindacali nel nostro ordinamento sia, soprattutto, la forma di governo del paese. Di tali problemi si è più volte interessata la Corte costituzionale, che ha sempre optato per la legittimità costituzionale delle leggi frutto degli accordi, anche se non ha mancato di formulare moniti nei confronti del legislatore. Di particolare rilievo in relazione agli sviluppi del neo-contrattualismo è la sent. n. 34/1985 della Corte, pronunziatasi sulla legittimità della l. n. 219/1984 di conversione del decreto-legge che faceva capo all’accordo del 14 febbraio 1984, contenente il parziale blocco di alcuni punti di contingenza. Secondo la Corte infatti è da mettere in dubbio che siffatta tecnica, pur non essendo in contrasto con la Costituzione, possa farsi rientrare «nel quadro tipizzato dall’art. 39, dal momento che le organizzazioni sindacali non sono in tale campo separate dagli organi statali di governo, bensì cooperano con essi». La Corte ne fa derivare che gli interessi pubblici coinvolti devono perciò essere regolati dalla legge. Diversamente infatti – è ancora il pensiero della Corte – «ne sarebbe alterata la vigente forma di governo; mentre la contrattazione collettiva ne risulterebbe, in difetto dell’ordinamento sindacale previsto dall’art. 39, ancora più estesa e garantita che in base all’inattuato 4° comma dell’articolo stesso». Definito in generale il tema dell’ambito di applicazione delle principali specie di contratti collettivi, risulta consequenziale la questione della individuazione dei soggetti stipulanti. In assenza di una regolamentazione legislativa specifica (come avviene nel settore del pubblico impiego) i soggetti muteranno a seconda della fonte regolativa. Così: il contratto collettivo nazionale di lavoro vedrà come parti contrapposte le organizzazioni sindacali di categoria, il contratto aziendale l’impresa e le rappresentanze territoriali o aziendali dei lavoratori e l’accordo interconfederale le contrapposte confederazioni. Anche per quan-

I soggetti

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La forma

Diritto sindacale

to riguarda i soggetti vale comunque il criterio della rappresentanza volontaria e della libertà negoziale, cosicché anche la composizione delle rispettive rappresentanze è rimessa, a sua volta, alla libera negoziazione. Di recente si è assistito ad un progressivo avvicinamento del settore privato al settore pubblico. Infatti per effetto degli accordi interconfederali del 2011 e del 2013 (A.I. del 28 giugno 2011 e Protocollo del 31 marzo 2013) oggi confluiti nel Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, si prevede che, nell’ambito di applicazione del c.c.n.l., siano ammesse alla contrattazione le federazioni (firmatarie del T.U. del 2014, dell’A.I. del 2011 e del Protocollo del 2013) che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) ed il dato elettorale (percentuale di voti ottenuti sui voti espressi), come risultante dalla ponderazione effettuata dal CNEL. I contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle oo.ss. che rappresentino almeno il 50% + 1 della rappresentanza, come sopra individuata, e previa consultazione dei lavoratori a maggioranza semplice, sono – secondo il T.U. – «efficaci ed esigibili». La natura normativa del contratto collettivo ne presuppone ovviamente la forma scritta. Peraltro, a rigore, dal punto di vista giuridico, in assenza di una regolamentazione specifica, deve ritenersi che, anche rispetto al contratto collettivo, valga il principio di libertà di forma, sancito dagli art. 1350 e seguenti del codice civile. Il problema che – espresso in termini semplicistici – può apparire specioso, ha un suo spazio applicativo con riferimento al contratto aziendale. Rispetto a quest’ultimo la giurisprudenza più recente ne ha ammesso la stipulazione anche solo verbale (fatti salvi gli ovvi problemi di prova), deducibile da un comportamento concludente ovvero – anche se la questione si avventura su di un crinale più scivoloso – da un uso negoziale. Un problema cruciale rispetto agli attuali contratti collettivi è quello della loro pubblicizzazione e diffusione. Non essendo infatti più in vigore l’art. 2072 cod. civ. che regolava le tecniche di deposito e pubblicazione dei contratti collettivi

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corporativi vi è un oggettivo problema di reperimento di testi dei contratti dotati di una qualche «ufficialità».

11. Le funzioni del contratto collettivo La principale funzione del contratto collettivo è quella di dettare le norme che dovranno regolare i rapporti di lavoro dei dipendenti appartenenti all’area o settore cui il contratto si riferisce. È questa la cosiddetta funzione normativa, quella che esprime meglio l’attitudine del contratto collettivo a regolare relazioni giuridiche (quelle fra lavoratori e datori di lavoro) esterne rispetto alle parti contraenti. È per questa caratteristica attitudine del contratto collettivo che fu elaborata la definizione di «contratto con l’anima della legge», proprio allo scopo di esprimere l’idea che il contratto collettivo opera sul contratto individuale di lavoro dall’esterno, al pari della legge. Il contratto collettivo dispensa quindi, per datori e lavoratori, diritti ed obblighi, integrando e completando (sulla base della regola dell’inderogabilità) il trattamento previsto dalla legge. Del resto è quella descritta la caratteristica essenziale della contrattazione collettiva, quella che meglio risponde alle sue origini storiche. Il contratto collettivo nacque infatti per superare la disparità di forza negoziale fra datore di lavoro e lavoratori sul piano individuale, attribuendo ai soggetti esponenziali della collettività dei lavoratori (i sindacati) il potere di correggere quello squilibrio. In questa sua veste – ed in astratto – l’azione che si realizza nella contrattazione collettiva potrebbe porsi in contrasto con le discipline antimonopolistiche sancite, in particolare, a livello europeo, per garantire la libera concorrenza. Il contratto collettivo, in questa chiave, attribuirebbe alle associazioni sindacali contrapposte una sorta di monopolio nella regolazione dei rapporti di lavoro. Sennonché è dai tempi del Trattato di Versailles (e v. anche la dichiarazione di Filadelfia del 1944) che è assodato che «il lavoro non è una merce», nel senso che se ne deve negare la sua natura mercantile. Ne deriva che le organizzazioni sindacali devono, istituzio-

La funzione normativa

Contratto collettivo e libertà di concorrenza

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La funzione obbligatoria

La «giustiziabilità» dei due diversi tipi di clausole

Diritto sindacale

nalmente, ritenersi esentate dalla disciplina antitrust, in quanto enti «non commerciali». Alla funzione normativa si usa contrapporre la c.d. funzione obbligatoria. La definizione allude alla circostanza che alcune clausole del contratto collettivo non sono destinate a regolare i rapporti di lavoro dei soggetti rappresentati, ma sono piuttosto dirette ad introdurre un assetto regolativo che riguarda gli stessi soggetti stipulanti. A titolo esemplificativo possiamo collocare in questo ambito le clausole che riguardano i cosiddetti diritti di informazione, con cui il datore di lavoro è onerato di informare le organizzazioni sindacali, a determinate scadenze, in ordine a nuovi investimenti o al ricorso al decentramento produttivo o quelle che regolano il sistema dei permessi sindacali. I due diversi tipi di clausole hanno effetti diversificati in relazione alla loro «giustiziabilità» ed alla legittimazione attiva. La violazione di una clausola della parte normativa (ad es. in materia di ferie, di trattamento economico, ecc.), insistendo essa sul rapporto individuale di lavoro, abiliterà il lavoratore interessato a proporre una controversia individuale. Viceversa in caso di violazione di una clausola della parte obbligatoria i soggetti legittimati all’azione saranno i destinatari del diritto, cioè le parti stipulanti o i soggetti sindacali indicati dal contratto rispetto allo specifico diritto violato. Semmai la vera questione, in caso di violazione delle clausole obbligatorie, attiene all’assetto della nostra giustizia del lavoro, cioè alla verifica degli strumenti processuali predisposti dall’ordinamento. Su questo piano non possiamo non ricordare che l’ordinamento processuale lavoristico predispone una procedura specifica per le sole controversie individuali di lavoro (v. gli artt. 409 e ss. cod. proc. civ.), ma non per quelle che coinvolgono soggetti collettivi (come avveniva nell’ordinamento corporativo). Ne deriva che, in particolare nel caso in cui la violazione del diritto sindacale sia posta in essere dall’associazione datoriale, alle organizzazioni dei lavoratori residuerebbe la sola possibilità di ricorrere al giudice ordinario, per far valere l’inadempimento contrattuale della controparte ed ottenere

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il risarcimento dei danni. Si tratta peraltro di uno strumento quasi mai utilizzato dai sindacati, cui sta evidentemente a cuore la correttezza dei rapporti sindacali, più che le ricadute patrimoniali della violazione. Ove viceversa il vulnus sia stato messo in atto dal datore di lavoro può esservi spazio per l’attivazione del procedimento per la repressione dell’attività antisindacale, di cui abbiamo parlato pagine addietro. Ragionando di funzioni del contratto collettivo non si può trascurare il riferimento, già ricordato, alla c.d. funzione gestionale, che riguarda sostanzialmente il contratto aziendale. Quest’ultimo potrà infatti sia atteggiarsi, al pari del contratto nazionale, quale dispensatore di diritti ai dipendenti dell’impresa, sia contenere una disciplina ablativa di diritti, come avviene nel caso dei contratti che gestiscono le crisi aziendali, dettando le condizioni per procedere a licenziamenti, riduzioni di orario, sospensioni, ecc. Sembra ragionevole assumere che non debba parlarsi, in questo caso, di un tipo autonomo di contratto collettivo, ma solo di una diversa funzione cui il medesimo modello negoziale può assolvere. Collegata al tema delle funzioni del contratto collettivo è la questione se la stipulazione del contratto collettivo costituisca un momento di tregua nel conflitto sindacale, tale da impedire, nel corso della sua vigenza, il ricorso ad azioni di sciopero da parte dei lavoratori. In sostanza ci si chiede se costituisca una sorta di clausola implicita del contratto l’obbligazione di pace o di tregua sindacale. Questa in effetti era la tesi più risalente, che considerava il dovere di pace come un effetto naturale del contratto collettivo, essendo caratteristica peculiare di quest’ultimo quella di comporre il conflitto fra le parti, sospendendo gli atti di belligeranza. Una più matura riflessione ha condotto a ritenere condivisibilmente che la prefigurazione di una clausola «implicita» di tal genere comporta, quanto meno, l’introduzione di un elemento valutativo estraneo alla volontà delle parti, così come si è espressa nel documento negoziale. Sotto altro profilo la presunzione che così si delineerebbe sarebbe fortemente discutibile

La c.d. funzione gestionale

L’obbligo di pace sindacale e il dovere di influenza

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Diritto sindacale

anche in relazione all’esercizio del diritto di sciopero che è costituzionalmente tutelato. Sembra quindi sostanzialmente acquisito che la clausola di tregua debba essere esplicitamente pattuita e presumibilmente si debba intendere riferita alle sole materie sulle quali è intervenuto l’accordo, senza poter interferire sul potere sindacale di aprire altri e diversi fronti di contestazione. Nel caso in cui la clausola di tregua sia effettivamente pattuita, la medesima potrà impegnare le sole associazioni firmatarie, senza costituire per i singoli lavoratori fonte di un obbligo di astensione dallo sciopero. La clausola accede infatti alla parte obbligatoria del contratto e non a quella normativa ed è sanzionabile solo nella sfera dei rapporti intersindacali. È quella descritta, del resto, la tecnica usualmente utilizzata quando si intende mettere in campo «procedure di raffreddamento» del conflitto, come è avvenuto con il Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 e come oggi regolato dal T.U. sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, parte IV (sul punto torneremo più oltre). Infine mette conto ricordare il c.d. dovere di influenza, che attiene agli impegni assunti dalle organizzazioni sindacali di influire sugli associati per tener fede ai patti, dando corso all’applicazione effettiva del contratto. Si tratta ovviamente di un dovere sprovvisto di giuridicità, che ha solo un significato di tipo politico.

12. L’efficacia del contratto collettivo nel tempo L’efficacia nel tempo ed il recesso

I contratti collettivi possono essere stipulati a tempo determinato o a tempo indeterminato. In quest’ultimo caso la giurisprudenza ammette il potere delle parti di recedere, in applicazione dell’art. 1373, 2° comma, cod. civ., dando un congruo preavviso all’altra parte (la congruità del preavviso deve essere proporzionale al tempo di durata del contratto). Il recesso, secondo i principi, non ha efficacia retroattiva. Alla scadenza del termine o a seguito del recesso dal con-

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tratto a tempo indeterminato (decorso il periodo di preavviso) il contratto collettivo non produce più effetti vincolanti per le parti. Il che, almeno in astratto, comporta l’esistenza di un vuoto normativo, rispetto alla regolazione dei rapporti di lavoro, non essendo applicabile agli attuali contratti collettivi la regola della ultrattività sancita dall’art. 2074 cod. civ. rispetto ai contratti corporativi. L’unica forma di ultrattività è prevista, come abbiamo ricordato a suo tempo, proprio per i contratti corporativi dall’art. 43 del d.l.lgt. 23 novembre 1944, n. 369. Nei fatti la questione è sdrammatizzata dalla diffusa previsione – almeno per quanto riguarda i contratti collettivi di categoria – di clausole che ne sanciscono l’ultrattività fino all’entrata in vigore della nuova regolamentazione pattizia. Per converso scarso seguito ha avuto, nella riflessione giuridica, quella teoria che, per ovviare al vuoto normativo, assumeva che le clausole del contratto collettivo scaduto avrebbero continuato ad avere vigenza in ragione della loro incorporazione nei contratti individuali dei lavoratori destinatari. Si tratta di un’opinione minoritaria che, a tacer d’altro, si pone in conflitto con la libertà delle parti contrattuali collettive di riscrivere ab ovo il contenuto del contratto collettivo (anche in senso peggiorativo), senza essere vincolate dalle pattuizioni pregresse. Va detto che il Protocollo Ciampi-Giugni del ’93, di cui si dirà più avanti, ha affrontato il problema dell’ultrattività, limitandosi a prevedere, nelle more del rinnovo contrattuale, il diritto per il lavoratore ad un’indennità di vacanza contrattuale, di cui ha regolato misura e struttura. In linea generale – ed in mancanza di specifiche pattuizioni – il contratto collettivo non può avere efficacia retroattiva. Anche sul punto risulta inapplicabile all’attuale ordinamento l’art. 11, 2° comma delle disposizioni sulla legge in generale, che prevedeva che i contratti collettivi corporativi potevano stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla loro pubblicazione, purché non anteriore alla loro stipulazione. Va detto che peraltro, in via di fatto, spesso nei contratti di categoria sono previste clausole retroattive, con lo scopo di riagganciare e saldare la nuova disciplina a quella precedente.

La teoria della incorporazione

L’efficacia retroattiva

134 I cosiddetti diritti quesiti

Diritto sindacale

Sullo sfondo della questione della retroattività del contratto collettivo si agita quello della resistenza dei c.d. diritti quesiti, cioè di diritti che si assumono entrati nel patrimonio individuale di ciascun lavoratore, per effetto del precedente contratto collettivo, e che non potrebbero più uscirne. La questione fa il paio, essendone una logica implicazione, con la teoria dell’incorporazione, di cui abbiamo riferito poco più sopra. Ne deriva che, nella medesima logica del rispetto dell’autonomia e della libertà negoziale dei contraenti collettivi, deve escludersi ogni rilevanza a diritti individuali intangibili. L’unica eccezione, usualmente ammessa dalla giurisprudenza, è quella che riguarda rapporti e situazioni già definite. Una esemplificazione può chiarire le differenze fra le mere aspettative ed i veri e propri diritti quesiti. Pensiamo ad un contratto collettivo aziendale che regoli un sistema di previdenza integrativa, statuendo le condizioni di accesso al pensionamento, l’entità delle pensioni integrative, ecc. Può un nuovo contratto collettivo aziendale disporre retroattivamente condizioni di accesso al pensionamento meno favorevoli rispetto a quelle previste dal precedente? La risposta più ragionevole assume che il nuovo contratto possa incidere retroattivamente sulla posizione di quei soggetti che non hanno ancora maturato, secondo il vecchio sistema, il diritto al pensionamento, mentre non può intaccare – essendo una situazione giuridica ormai esaurita – la posizione di chi sia già in pensione, secondo le vecchie regole.

13. Contratto collettivo e processo: interpretazione e amministrazione del contratto collettivo I criteri di interpretazione dei contratti collettivi

Il contratto collettivo, in ragione della sua natura privatistica, va interpretato utilizzando i criteri ermeneutici dettati dal codice civile per l’interpretazione dei contratti (artt. 1362 e ss.). Secondo l’art. 1362 essenziale nell’attività interpretativa è l’indagine sulla «comune intenzione delle parti», senza «limitarsi al senso letterale delle parole» e per attingere a tale scopo

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«si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto». È questa la cosiddetta interpretazione soggettiva, che fa dunque leva sull’intenzione dei contraenti suffragata dal loro comportamento. La giurisprudenza invece fa tradizionalmente riferimento proprio al senso letterale delle espressioni, assumendo che la chiarezza del dettato contrattuale è tale da escludere il ricorso all’interpretazione oggettiva. Più sensibile alla specificità del contratto collettivo è la dottrina che, al contrario, pone al centro dell’attività interpretativa i criteri oggettivi, previsti dagli artt. 1363, 1367, 1369 cod. civ. e fra essi valorizza anzitutto quello che impone di tener conto che «le clausole … si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto» (art. 1363). È quasi ovvio infatti il rilievo secondo cui ciascuna clausola del contratto collettivo è il frutto di una specifica negoziazione, in cui l’una concessione può costituire il contraltare della negazione di altre e diverse rivendicazioni, cosicché l’intera struttura si regge su un equilibrio complessivo. Altrettanto rilevante in chiave oggettiva è altresì il ricorso al criterio di cui all’art. 1369 cod. civ., secondo cui «le espressioni che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto». In alcune decisioni di legittimità tale criterio è stato utilizzato per valorizzare il principio di «coerenza» delle norme collettive rispetto alla disciplina legale, in qualche modo contribuendo ad un processo di adeguamento della disciplina pattizia rispetto a quella legale, così scongiurando un significato di questa in contrasto con la legge. Un limite estremo al processo interpretativo del contratto collettivo è costituito dal divieto di analogia, già contenuto nell’art. 13 delle disposizioni sulla legge in generale e ciò nella doppia accezione di analogia esterna (applicazione della clausola di un contratto ad un diverso contratto) ed analogia interna (estensione del significato di una clausola al di fuori dei casi espressamente previsti). La spiegazione è piuttosto ovvia:

Il divieto di analogia

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Il contratto collettivo nel processo

Diritto sindacale

un contratto collettivo, ciascun contratto collettivo è il frutto di una specifica negoziazione, in cui l’attribuzione di un diritto con riferimento ad un determinato istituto è o può essere compensata dalla negazione di un altro e diverso diritto rispetto ad un altro istituto (ad es.: più giorni di ferie c. l’eliminazione di un premio). Al contrario, ove si potesse estendere la clausola di un contratto collettivo ad un altro e diverso settore, si stravolgerebbe il delicato equilibrio su cui si regge il contratto. Una logica inferenza della natura privatistica del contratto collettivo è che, nell’ambito del processo, la sua interpretazione costituisce tipica espressione dei poteri del giudice di merito. Quale corollario di tale scontata affermazione la Cassazione ha sempre ritenuto di non poter conoscere direttamente i contratti collettivi, ma di doversi limitare a valutare la congruenza del ragionamento del giudice di merito e quindi per vizio di motivazione (art 360, n. 5, cod. proc. civ.) o per violazione dei canoni di interpretazione dei contratti. Tale atteggiamento – lo si ripete: perfettamente aderente ai principi che governano il processo civile – faceva sì che sull’interpretazione della medesima clausola contrattuale (ad es. del contratto dei metalmeccanici) la Cassazione avallasse due letture opposte, sol perché i ragionamenti dei due diversi giudici di merito fossero esenti da contraddizioni ed illogicità; il tutto con grave attentato ad un minimo di certezza delle relazioni giuridiche. Il d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40 ha modificato tale regime, introducendo due regole fortemente innovative. a) In primo luogo è stato modificato l’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., stabilendosi che la sentenza di merito è ricorribile in cassazione anche per «violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi e accordi nazionali di lavoro». La Cassazione può quindi conoscere direttamente dei contratti collettivi (ovviamente solo di quelli nazionali e non di quelli aziendali o comunque di minor livello), pur continuando ad utilizzare i medesimi criteri ermeneutici previsti dal codice civile, non implicando la riforma processuale una completa equiparazione dei contratti alle

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norme di legge. Il che consente di superare – ci pare meritoriamente – le incertezze legate all’avallo di difformi letture interpretative, consentito dal precedente assetto (per una recente riconferma del principio della conoscibilità diretta del contratto collettivo v.: Cass., 5533/2016). b) Nella medesima logica di garantire una uniforme applicazione delle regole pattizie il d.lgs. n. 40/2006 ha esteso ai contratti collettivi del settore privato una regola già prevista per il settore pubblico. Con il nuovo testo dell’art. 420-bis cod. proc. civ. infatti si è stabilito che quando per la definizione di una controversia di lavoro sia necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale di lavoro rilevante per la soluzione della controversia, il giudice decide con sentenza non definitiva la questione ed impartisce i provvedimenti necessari per la prosecuzione della causa. La sentenza è impugnabile solo con ricorso per cassazione da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza del giudice di merito. Il ricorso per cassazione sospende il giudizio. Per converso se la sentenza del giudice di merito che risolve la questione pregiudiziale non viene impugnata, passa in giudicato ed in processo prosegue. In caso di impugnazione e di accoglimento del ricorso la causa è restituita al giudice di merito, davanti al quale ciascuna parte potrà riassumerla; l’estinzione del giudizio (per omessa riassunzione o per altre ragioni) non fa venir meno gli effetti della pronuncia della Cassazione, che quindi resta un punto fermo anche per futuri giudizi fra le parti. La ratio dell’innovazione è trasparente. Da una parte, suo tramite, sarà possibile un intervento immediato della Cassazione nel processo (tant’è che si è ritenuto in via interpretativa che il ricorso pregiudiziale non sia ammissibile in grado d’appello), così anticipandosi i tempi di definizione della questione pregiudiziale; dall’altra si esalta la nomofilachia, caratteristica del giudizio di Cassazione, il cui intervento – in applicazione della riforma circa la conoscibilità diretta dei contratti collettivi – può garantire l’uniforme applicazione del diritto e semplificare la solu-

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L’amministrazione del contratto collettivo

La conoscibilità dei contratti collettivi

Diritto sindacale

zione delle controversie seriali che abbiano al centro un problema di interpretazione di un contratto collettivo. Intorno al tema dell’interpretazione si colloca poi quel complesso di attività che le stesse parti pongono in essere per agevolare la soluzione delle controversie (anche collettive) che possono sorgere intorno alla lettura ricostruttiva del documento negoziale. Si tratta dell’attività nota come amministrazione del contratto collettivo. Essa si può realizzare o con la redazione di note o chiarimenti a verbale, in calce a singole clausole, che forniscono una sorta di interpretazione autentica che le parti intendono dare delle singole espressioni ovvero con la costituzione di comitati paritetici fra le parti negoziali cui può essere affidata la soluzione della controversia interpretativa fino alla prefigurazione di vere e proprie forme di arbitrato su controversie collettive interpretative, che, in quanto tale, sembra sottratto ai limiti posti in materia arbitrale rispetto alle controversie individuali di lavoro. Da ultimo occorre ricordare, come abbiamo già visto, che – ad onta delle recenti riforme ed in qualche modo in contrasto con le medesime – resta il problema della conoscibilità dei contratti collettivi, non essendo oggetto di regolamentazione alcuna procedura per la pubblicazione ed il deposito dei contratti collettivi. Ne consegue che, a fini processuali, il contratto collettivo è collocato tra i «fatti» suscettibili di essere provati. Ne dovrebbe conseguire ulteriormente che la parte che lo invoca in giudizio abbia un onere di esibizione. Peraltro tale affermazione è spesso discutibilmente contraddetta da quella giurisprudenza (normalmente di merito) che attribuisce al giudice del lavoro un potere di ricerca ed acquisizione della verità materiale, al di fuori di preclusioni e decadenze processuali. Di qui la rivendicazione di un potere di acquisizione d’ufficio del contratto collettivo. Una interessante innovazione, se non in materia di pubblicità, quanto meno di maggiore circolazione dei testi dei contratti collettivi aziendali o territoriali è prevista dall’art. 14 del d.lgs. n. 151/2015 (c.d. decreto sulla “semplificazione” emanato a se-

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guito della delega di cui alla l. n. 183/2014). Infatti con tale disposizione si condiziona l’attivazione dei benefici contributivi o fiscali e le altre agevolazioni connesse con la stipula di contratti collettivi aziendali o territoriali alla circostanza «che tali contratti siano depositati in via telematica presso la Direzione territoriale del lavoro competente, che li mette a disposizione, con le medesime modalità, delle altre amministrazioni ed enti pubblici interessati».

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Sezione III. I rapporti tra le fonti SOMMARIO: 1. Contratto collettivo e contratto individuale. – 2. Il contratto collettivo e la legge. – 3. Rapporti fra contratti collettivi.

1. Contratto collettivo e contratto individuale

L’inderogabilità

Abbiamo già ricordato che una caratteristica essenziale del contratto collettivo di lavoro è il connotato della sua non derogabilità ad opera del contratto individuale. In sostanza l’ordinamento considera l’autonomia individuale del tutto insufficiente a regolare le obbligazioni che nascono dal rapporto di lavoro. La ragione di tale disfavore è ben nota ed evidente. Il lavoratore è considerato un «contraente debole» e dunque l’integrazione del contratto dall’esterno, ad opera di discipline inderogabili di tutela, ha proprio la funzione di riequilibrare tale debolezza. Il complessivo assetto regolativo del rapporto è dunque solo in parte (minima) dettato dai contraenti, risultando dall’agire combinato, oltre che dell’autonomia individuale, altresì dell’intervento della legge e di quello della contrattazione collettiva. La legge e la contrattazione collettiva stabiliscono dei minimi di trattamento (normativo ed economico), cui le parti non possono in alcun modo derogare in pejus. Così, ad es., è la legge che prevede inderogabilmente il punto di equilibrio nell’individuazione della prestazione pretendibile dal datore di lavoro (art. 2103 cod. civ.), ed è ancora la contrattazione collettiva che – a sua volta entro i limiti inderogabili posti dalla legge – determina l’estensione e la durata della giornata lavorativa o individua altri aspetti quantitativi del rapporto, sovente su delega della legge (durata del periodo di comporto, durata mas-

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sima del patto di prova, ecc.) o definisce l’entità della retribuzione. Si tratta quindi di una inderogabilità unidirezionale, che è compatibile con trattamenti più favorevoli per il prestatore di lavoro previsti nel contratto individuale. Il meccanismo attraverso il quale le norme inderogabili (della legge e del contratto collettivo) agiscono sulla pattuizione privatistica è quello classico della nullità parziale, regolata dall’art. 1419 cod. civ., con il corollario della sostituzione di diritto delle clausole nulle con le norme imperative (e v. anche l’art. 1339 cod. civ., che regola l’inserzione automatica di clausole imposte dalla legge). Ovviamente il contratto individuale potrà disporre deroghe migliorative rispetto a quelle previste dal contratto collettivo. Un problema legato alle deroghe in melius è peraltro quello di verificare in qual modo debba operarsi la comparazione fra i trattamenti assicurati dal contratto individuale e dal contratto collettivo. Può infatti non essere semplice individuare quale delle due fonti assicura il trattamento più favorevole. Nulla quaestio evidentemente se – a parità di regolamentazione – il contratto individuale contiene un solo istituto (per esempio la durata delle ferie) che si presenta maggiormente vantaggioso per il lavoratore. In tal caso prevarrà ovviamente la fonte individuale. La questione è più complessa nel caso in cui le due fonti presentino vantaggi e svantaggi, variamente intersecati (ad es.: una più favorevole durata delle ferie, nel contratto individuale, ma una meno favorevole durata del periodo di comporto). In relazione a tali problematiche si contrappongono tradizionalmente varie opinioni: una fa leva su un raffronto operato fra le singole clausole (c.d. teoria del cumulo), un’altra sposta il confronto sul piano dei singoli istituti contrattuali (ad es.: le ferie, l’orario, ecc.), una terza (c.d. teoria del conglobamento) – obiettivamente la più complessa da un punto di vista applicativo – pretenderebbe di operare un raffronto globale tra le varie previsioni, intendendo in qualche modo soppesare i due contratti nel loro insieme per scegliere, all’esito di tale operazione, quello più favorevole.

La comparazione fra i trattamenti

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Si tratta di soluzioni – tutte plausibili e ragionevoli – che però assai spesso si scontrano con la volontà delle parti contrattuali collettive che usualmente introducono le cosiddette clausole di inscindibilità, attraverso le quali segnalano che il «pacchetto» contrattuale va preso nel suo insieme e non può essere oggetto di una parcellizzazione che consenta di estrapolare la regolamentazione di singoli istituti.

2. Il contratto collettivo e la legge

Le eccezioni alla inderogabilità unilaterale

Una gerarchia analoga rispetto a quella che si pone fra contratto collettivo e contratto individuale è quella che si ha fra la legge ed il contratto collettivo. Anche il contratto collettivo non può derogare in pejus rispetto alle previsioni minime contenute nella legge. Anzi la descritta gerarchia delle fonti ha, per lungo tempo, costituito il presupposto perché si affermasse una sorta di inversione dei rapporti fra autonomia (individuale e/o collettiva) ed eteronomia nella costruzione del regolamento del rapporto di lavoro: l’inderogabilità sarebbe in qualche modo l’attributo naturale della norma lavoristica, assistita da una rigida presunzione. L’affermazione è in gran parte ancora condivisibile, anche se – a partire dalla fine degli anni settanta e nell’ambito della legislazione dell’emergenza – la legge, in talune situazioni e per specifiche finalità di ordine pubblico economico, ha mutato la direzione dell’inderogabilità, assumendo il ruolo di disciplina dei massimi (e non dei minimi) di trattamento, ed impedendo così sia all’autonomia individuale che a quella collettiva di prefigurare deroghe in senso più favorevole ai lavoratori. Un significativo esempio di tale nuova tecnica risale alla legislazione della metà degli anni settanta con cui, per sopperire alle conseguenze della prima grave crisi del sistema industriale, che aveva provocato seri problemi inflattivi, furono disposti vari interventi limitativi dei cc.dd. automatismi retributivi (indennità di contingenza, indennità di anzianità, ecc.). In questo

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contesto la legge stabilì, fra l’altro, che i contratti collettivi non potessero prevedere forme di indicizzazione del salario diverse da quella in atto nel settore industriale e, per quel che più ci interessa, che «le norme regolamentari o le clausole contrattuali che [avessero disposto] in contrasto … [fossero] nulle di diritto» (v. l’art. 4, 2° comma della l. 31 marzo 1977, n. 31). In buona sostanza la legge interveniva sul salario contribuendo ad un suo ridimensionamento ed impediva alle parti sociali di stabilire, nella contrattazione collettiva, condizioni di miglior favore. Di qui l’affermazione secondo cui – per quelle materie – la legge non si poneva come regolamentazione minima, liberamente derogabile in melius dai contratti collettivi, bensì come regolamentazione massima ed in quanto tale immodificabile. Rispetto all’assetto legislativo così descritto si poneva peraltro un problema di costituzionalità per violazione del primo comma dell’art. 39 Cost., in ragione di una possibile violazione della libertà sindacale sub specie di libertà di contrattazione. Sennonché la Corte costituzionale (con le sentt. nn. 141 e 142 del 1980) respinse le questioni di costituzionalità, argomentando, in modo forse un po’ formalistico, dall’inesistenza – in un contesto di inattuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. – di un potere normativo autonomo delle parti sociali; di qui l’impossibilità di ipotizzare «un conflitto tra attività normativa dei sindacati e attività legislativa del Parlamento», per definizione poste su piani diversi. Un analogo – e forse ancor più radicale – atteggiamento legislativo si ripropose qualche anno più tardi con la legge 12 giugno 1984, n. 219, che stabilì autoritativamente l’entità dell’indicizzazione del salario (il numero di cc.dd. scatti), ancora una volta impedendo alla contrattazione collettiva l’introduzione di trattamenti più favorevoli. Anche in questo caso la Corte costituzionale (sent. n. 34/1985) riconfermò la propria opzione interpretativa sui rapporti fra legge ed attività di contrattazione collettiva, negando la violazione dell’art. 39 Cost. (ne abbiamo parlato anche in precedenza a proposito della negoziazione legislativa). Si tratta di una presa di posizione condivisibile, anche se for-

Problemi di costituzionalità

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Altre forme di integrazione fra legge e contratto collettivo

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se meritevole di una diversa motivazione. È possibile sostenere infatti che, in determinate situazioni di emergenza economica, il legislatore ben possa intervenire anche su materie che sono normalmente affidate alla contrattazione collettiva, senza violare le prerogative sindacali. L’intervento ablativo si appunterebbe non sull’attività sindacale in sé, bensì sugli atti che da tale fonte scaturiscono. La legittimità di tali interventi potrebbe essere inoltre rafforzata dal rilievo costituzionale dei valori che il legislatore intende proteggere: ad es., nel caso della perequazione dei sistemi di indicizzazione, la parità di trattamento fra le varie categorie di lavoratori. Di qui l’idea di ritenere funzionalmente limitabile il contenuto del contratto collettivo solo ad opera di norme di rango almeno pari a quella che legittima l’assunzione nell’ordinamento dell’autonomia collettiva come valore protetto (nel caso l’art. 3 Cost.). In tal modo l’autonomia collettiva, lungi dall’essere limitata, viene incanalata verso la realizzazione di taluni preminenti valori costituzionali, rafforzandone l’operatività all’interno dei rapporti privati. La legislazione dei «massimi» non costituisce l’unica modalità nuova di relazione fra legge e contratto collettivo. La legislazione più recente propone infatti altre forme di integrazione, delle quali forniamo alcune esemplificazioni. In alcune situazioni la legge si pone in posizione succedanea rispetto al contratto: è il caso dei criteri di scelta in materia di licenziamenti collettivi, la cui determinazione è demandata, in prima battuta, alle parti collettive e, solo in mancanza di determinazione pattizia, alle regole legali (art. 5, l. n. 223/1991). In altre il contratto collettivo ha un potere di integrazione della previsione legislativa, con l’avvertenza però che, in caso di mancato accordo, la materia viene regolata da un’autorità amministrativa (ad es.: il Ministero del lavoro, in materia di orario di lavoro: v. l’art. 17, d.lgs. n. 66/2003) o da un’autorità indipendente (la Commissione di garanzia per la determinazione delle prestazioni indispensabili in occasione di sciopero nei servizi pubblici essenziali: art. 2 della l. n. 146/1990) o dall’autonomia individuale (art. 6, 2° e 4° comma del d.lgs. n. 81/2015 in materia di lavoro a tempo parziale).

Le fonti

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In altre ancora alla contrattazione collettiva è conferito un potere di deroga. È il caso, ad es., del lavoro a tempo determinato quanto alla durata massima dei rapporti (art. 19, 2° comma del d.lgs. n. 81/2015) o della somministrazione, quanto a numero di contratti a tempo indeterminato o determinato (art. 31, 1° e 2° comma del d.lgs. n. 81/2015). Un inedito e davvero stravolgente modello di rapporti fra contratto collettivo e legge è ora prospettato dall’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con l. 14 settembre 2011, n. 148, di cui abbiamo già riferito in precedenza a proposito della attuale latitudine del contratto collettivo aziendale. La norma (intitolata curiosamente «sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità»), introduce una serie di principi rivoluzionari per il nostro diritto sindacale e per l’intero diritto del lavoro. Abbiamo già detto che essa attribuisce ai contratti collettivi aziendali o territoriali, sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti nell’impresa, il potere di realizzare specifiche intese (dirette a creare maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività), attribuendo ad esse efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati. Dobbiamo ora aggiungere che l’ambito di competenza di tali intese è estremamente ampio ed ha riguardo alla regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continua-

L’art. 8 della l. n. 148/2011

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tive a progetto e le partite IVA (sic!), alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. Per quel che più conta tali intese aziendali o territoriali possono derogare – evidentemente in pejus – alle disposizioni di legge ed alle clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro che disciplinano le materie richiamate. L’unico limite è costituito dal «rispetto della Costituzione», nonché dei vincoli derivanti dalle normative europee e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Ciò posto è quasi inutile rimarcare che, con una disposizione introdotta approfittando dell’urgenza deliberativa indotta dalla gravissima crisi finanziaria dell’estate 2011, si è provveduto a rivoluzionare alcuni cardini fondamentali della disciplina giuslavoristica. Per tacer d’altro la norma pone, intanto, qualche problema di costituzionalità con riferimento all’art. 39 Cost., che attribuisce il potere di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes alle rappresentanze unitarie delle organizzazioni sindacali nazionali, in proporzione agli iscritti. E ricordiamo che rispetto a tali patti non può valere il ragionamento proposto dalla Corte costituzionale con riferimento ai c.d. contratti gestionali, trattandosi di contratti inequivocabilmente «normativi». Inoltre la medesima rimette in discussione l’intera filiera della gerarchia delle fonti, attribuendo al contratto aziendale facoltà derogatorie anche delle norme di legge oltre che di quelle del contratto nazionale, con una potenziale riscrittura – sia pure a livello aziendale o territoriale – dell’intero diritto del lavoro, ivi comprese materie di grande rilevanza sociale, come le mansioni e l’inquadramento del personale, l’assunzione a ter-

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mine o a tempo parziale, la qualificazione del rapporto, l’orario di lavoro, la somministrazione ed il licenziamento. Come dire che si tratta di un allargamento dei poteri del contratto periferico talmente ampio da ribaltare l’usuale direzione della gerarchia: i contraenti periferici divengono padroni della disponibilità delle regole lavoristiche e prendono il posto del legislatore nella loro riscrittura. La radicalità della previsione rimette inoltre in discussione anche la dinamica e la statica delle obbligazioni che nascono dal contratto di lavoro subordinato. Infatti è seriamente prospettabile il dubbio che attribuire alla contrattazione decentrata il potere di modificare, in chiave derogatoria, la disciplina del rapporto di lavoro significa incidere sul tipo normativo e dunque attribuire ad essa un potere di disposizione sul tipo. Si intacca così l’idea della rigidità del tipo, consentendo in sede periferica la costruzione di contratti di lavoro cui sia solo parzialmente estensibile la disciplina del diritto del lavoro. Il legislatore può di certo e legittimamente ridisegnare la sagoma del contratto di lavoro, adeguandone contenuti e tutele alle mutate esigenze economiche, ma tale operazione deve potersi inserire in un disegno razionale di riscrittura del tipo e/o attuarsi per il tramite della costruzione di sottotipi dotati di sufficiente autonomia concettuale. Ciò che invece è inibito (anche) al legislatore è quanto si è preteso con l’art. 8 della l. n. 148/2011 e cioè la polverizzazione della disciplina e quindi del tipo in una serie indefinita di contratti di lavoro «minori» o a «minore tutela», al di fuori di ogni possibile pianificazione razionale, con un ulteriore effetto di frammentazione del mercato del lavoro, con buona pace del principio di eguaglianza. Infine desta non poche perplessità l’idea che la contrattazione derogatoria possa essere sottoscritta da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative anche solo sul piano territoriale, idea in contrasto con il tradizionale riferimento alla rappresentatività su base nazionale e che offre la sponda a sindacati scarsamente rappresentativi e, presumibilmente, compiacenti.

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3. Rapporti fra contratti collettivi

Rapporti fra contratti collettivi di diversa natura

La questione dei rapporti fra contratti collettivi si è posta (e si pone) in ragione fondamentalmente di due circostanze: la diversa natura dei contratti collettivi e – all’interno del medesimo modello contrattuale (ad es. i contratti di diritto comune) – il diverso livello a cui i contratti si collocano. Quanto al primo aspetto del problema abbiamo già ricordato più volte che l’art. 43 del d.lgs.lgt. n. 369/1944 mantenne in vita i contratti collettivi corporativi, «salvo successive modifiche». Su quest’ultimo concetto si aprì un’ampia discussione, assumendosi da una parte che le modifiche avrebbero potuto provenire solo da contratti pari-ordinati a quelli corporativi, cioè costituenti fonti del diritto in senso proprio. In questa accezione si negava quindi la possibilità che i contratti collettivi di diritto comune potessero introdurre legittimamente «modifiche». La tesi più seguita, fin da subito (le prime decisioni della Cassazione risalgono ai primi anni cinquanta), si orientò invece nel senso che anche i contratti non efficaci erga omnes potessero derogare quelli corporativi. In questa direzione si espresse anche la Corte costituzionale con la sent. n. 1/1962. È dunque acquisito il principio della piena sostituibilità, con deroghe sia migliorative che peggiorative, del contratto collettivo corporativo ad opera di quello di diritto comune. Ulteriori problemi si posero con riferimento ai rapporti fra i contratti collettivi recepiti in decreti delegati, ai sensi della l. n. 741/1959 (c.d. l. Vigorelli), ed i contratti di diritto comune. La questione era regolata dall’art. 7 della legge del ’59. Da una parte si prevedeva la prevalenza dei contratti recepiti in decreti delegati rispetto a quelli di diritto comune stipulati anteriormente, salvo che questi ultimi contenessero «condizioni, anche di carattere aziendale, più favorevoli ai lavoratori». Dall’altra si assumeva (secondo comma dell’art. 7) che i contratti recepiti in decreti avrebbero potuto essere derogati solo da contratti successivi con efficacia erga omnes. Questa era però la parte della disciplina che cadde sotto la mannaia della Corte costituzionale, perché in contrasto con l’art. 39 della Costituzione, come abbiamo visto in precedenza.

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Quanto infine ai rapporti fra contratti recepiti in decreti delegati e contratti di diritto comune successivi si aprì una discussione, mai definitivamente risolta. Il punto fermo – e ragionevolmente stabile di tale discussione – postula che i contratti di diritto comune successivi possono introdurre modifiche esclusivamente migliorative rispetto a quelli recepiti in decreto. La discussione è restata viceversa aperta con riferimento ai criteri attraverso i quali verificare la natura «migliorativa» delle condizioni poste dal contratto successivo. In argomento sono spesso stati utilizzati i medesimi parametri usualmente adoperati per confrontare i trattamenti del contratto collettivo e del contratto individuale (su cui abbiamo già detto in precedenza). Venendo al secondo ordine di questioni – quello che riguarda i rapporti fra contratti della medesima natura – costituisce principio acquisito quello secondo cui, nella successione fra contratti collettivi di diritto comune pari-ordinati (di categoria e/o di livello più basso) le nuove pattuizioni si sostituiscono integralmente alle precedenti, fatte salve diverse indicazioni dei contraenti. Una questione più complessa si apre quando il problema si ponga fra contratti collettivi di diverso livello (ad es. fra contratto di categoria e contratto aziendale). Il dibattito sul tema si è acceso a partire dalla seconda metà degli anni settanta, quando il sistema contrattuale si era ormai articolato in un pluralismo regolativo che spesso non prevedeva norme di raccordo fra le varie fonti negoziali. Ne è seguito un dibattito molto articolato che ha messo in campo non poche opzioni per addivenire ad una soluzione plausibile. La questione si pone fondamentalmente avendo riguardo all’esistenza di deroghe peggiorative contenute nella fonte di minor livello (normalmente il contratto aziendale) a fronte di quella maggiore (il contratto nazionale). Per fare una esemplificazione banale: il contratto nazionale prevede che il lavoratore ha diritto a godere di 25 giorni di ferie annuali e quello aziendale invece a 20 giorni (o viceversa): di qui il quesito su quale delle due fonti debba avere la prevalenza nella regolamentazione del singolo rapporto di lavoro.

Rapporti fra contratti collettivi di diverso livello

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Le più risalenti impostazioni escludevano l’esistenza di un potere derogativo del contratto aziendale nei confronti di quello nazionale. Esse traevano argomento anzitutto dall’art. 2077 cod. civ., che regola i rapporti fra contratto individuale e contratto collettivo, vietando le deroghe peggiorative; un altro filone di pensiero faceva invece leva sul principio di gerarchia che dovrebbe governare i rapporti fra le parti collettive contraenti e conseguentemente fra i prodotti negoziali realizzati; un altro ancora richiamava il principio del favor, assumendo la prevalenza – sempre e comunque – della fonte che prevedeva il trattamento più favorevole per il lavoratore. Più avanti peraltro – siamo già negli anni ottanta – tali originarie ricostruzioni del fenomeno vennero abbandonate, per essere sostituite da altre prospettive che facevano leva su criteri diversi: l’applicazione al problema dei rapporti fra contratti di diverso livello del criterio della successione dei contratti collettivi nel tempo, con la conseguente prevalenza del contratto più recente ovvero la prevalenza del contratto aziendale, in virtù di una sorta di revoca implicita del mandato già conferito per l’approvazione di quello nazionale. Come si vede la questione dei rapporti fra contratti di diverso livello è lo specchio fedele del nostro diritto sindacale: l’immagine che se ne ritrae è quella di un sistema in cui ciascun tassello è perennemente suscettibile di revisione e ciascuna ricostruzione, per quanto possa ritenersi complessivamente plausibile, si basa su una più o meno accentuata serie di «finzioni» giuridiche, che cercano di aggirare il vuoto regolativo. Un punto di approdo, dotato di maggiore forza di convincimento, è maturato quando la giurisprudenza, sulla scorta di una approfondita riflessione dottrinale, ha trasferito il focus del problema dal piano dei rapporti fra i soggetti negoziali a quello degli atti, ragionando del confronto in termini di rapporto/conflitto fra norme che regolano il contratto individuale. È stato così valorizzato il criterio di «specializzazione», criterio che dovrebbe dare la prevalenza alla fonte regolativa maggiormente vicina o maggiormente corrispondente alla concreta situazione locale o aziendale.

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Anche tale ricostruzione peraltro presuppone necessariamente che vi sia un collegamento (soggettivo) fra i contratti in conflitto e non è idoneo a dare risposta al problema, nel caso in cui i soggetti del contratto aziendale sono estranei all’associazione che ha stipulato quello nazionale. È anche per questa ragione che gli orientamenti giurisprudenziali più recenti tendono ad approfondire la ricerca sui criteri ordinatori che siano forniti dalle stesse parti contraenti, considerando come eccezionali gli interventi dall’esterno. Una prima parziale sdrammatizzazione del problema ha fatto seguito alla stipulazione del Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993, che ha regolato anche le clausole di rinvio fra contratti collettivi. Successivamente la materia ha formato oggetto di parziale regolazione negli Accordi interconfederali 22 gennaio 2009 e 28 giugno 2011, nel Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 nonché in maniera assai più radicale nell’art. 8 della l. n. 148/2011 (di cui abbiamo già parlato in precedenza e su cui torneremo più avanti: in questo capitolo – Sez. IV – par. 1).

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Sezione IV. La contrattazione collettiva in Italia ed il dialogo sociale europeo SOMMARIO: 1. La contrattazione collettiva in Italia: breve profilo evolutivo. – 2. Il dialogo sociale europeo e la recezione delle direttive attraverso il contratto collettivo.

1. La contrattazione collettiva in Italia: breve profilo evolutivo Acquisite le coordinate giuridiche entro le quali si muove il contratto collettivo può essere più agevole ripercorrere le stagioni che hanno caratterizzato l’evoluzione della contrattazione collettiva in Italia nella fase post-costituzionale. Le difficile condizioni economiche dell’immediato dopoguerra favoriscono la centralizzazione contrattuale. Nel corso degli anni cinquanta domina il contratto collettivo nazionale di categoria. Esso soddisfa sia l’interesse delle organizzazioni sindacali, in funzione della determinazione di un trattamento minimo standardizzato per tutti i lavoratori sul piano nazionale sia quello delle organizzazioni imprenditoriali che potevano garantire alle imprese una rappresentanza che le liberasse da obblighi di negoziazione a livello locale. I limiti della contrattazione centralizzata erano peraltro evidenti: come gli abiti confezionati in serie, non potevano assicurare la valorizzazione delle specificità di ciascuna impresa e di ciascun sotto-settore produttivo (si pensi ad es. alla categoria metalmeccanica che ha sempre ricompreso lavorazioni molto distanti fra loro, quanto a tecnologia e specializzazione). Le migliorate condizioni economiche, a partire dalla fine degli anni cinquanta, favorirono una riapertura del dialogo a li-

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vello aziendale, ancora una volta venendo valorizzato il duplice interesse dei rappresentanti dei lavoratori, che vi vedevano la possibilità di spuntare – specie nelle imprese più «ricche» – migliori livelli salariali, e delle imprese, che potevano garantirsi una regolamentazione maggiormente ritagliata sulle loro specifiche esigenze. All’apertura del nuovo decennio, ed all’esito di un periodo caratterizzato da vivaci conflitti sindacali, venne sottoscritto il 5 luglio 1962, un Accordo fra le federazioni dei lavoratori metalmeccanici e le associazioni datoriali Intersind ed Asap (che all’epoca rappresentavano le imprese a partecipazione statale). All’accordo, che fece da battistrada, seguirono analoghe intese per i metalmeccanici privati e le altre categoria industriali. Tale accordo metteva ordine fra i livelli contrattuali ed istituiva la c.d. contrattazione articolata. Un aspetto fra i più discussi dell’accordo fu quello che imponeva alle organizzazioni dei lavoratori l’obbligo di tregua sindacale, consistente nell’impegno ad astenersi dal promuovere azioni dirette «a modificare, integrare, innovare quanto [aveva] formato oggetto di accordi ai vari livelli». Una significativa svolta nelle relazioni sindacali si verifica negli anni a cavallo fra i settanta ed i settanta: il ben noto «autunno caldo» del 1969 inaugura una stagione di aperta conflittualità (da qualcuno definita conflittualità permanente), caratterizzata da una rottura di ogni relazione fra livelli contrattuali, con la continua riapertura di fronti di discussione e contestazione. In particolare si afferma l’idea che in sede locale si possa ridiscutere ex novo ogni tema rilevante, senza limiti che potessero derivare dalla sottoscrizione del contratto nazionale. Quanto ai contenuti della contrattazione è degno di menzione l’allargamento di interesse verso i temi dell’organizzazione del lavoro e della salute in fabbrica. La grave crisi economica della prima metà degli anni settanta – cui abbiamo più volte fatto riferimento – rese indispensabile, al fine di predisporre strumenti omogenei per tutti i lavoratori, un riaccentramento delle politiche contrattuali, pur mantenendosi l’autonomia fra i vari livelli. Un ruolo privilegiato svolsero in questi anni gli accordi interconfederali, che costitui-

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Il Protocollo Ciampi-Giugni 23 luglio 1993

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rono sovente la base per l’emanazione di interventi legislativi in qualche misura concordati con le parti sociali: basti ricordare, a titolo esemplificativo, la materia della indicizzazione del salario. Un primo tentativo di razionalizzazione del sistema contrattuale, proprio allo scopo di governare la politica dei redditi (cioè il controllo ed il calmieramento dell’andamento dei salari da parte del potere pubblico, per evitare l’insorgere di fenomeni inflattivi), è costituito dal Protocollo Scotti 22 gennaio 1983, che cercò di rafforzare i rapporti di gerarchia fra i contratti collettivi, introducendo, fra l’altro, il divieto di riproposizione nella contrattazione di livello aziendale di materie già trattate e definite nel contratto nazionale. In linea di continuità con le strategie politiche di controllo dei redditi, in vista dell’ingresso del nostro paese nell’area della moneta unica, si giunse (sotto la presidenza del Consiglio di C.A. Ciampi ed essendo ministro del lavoro Gino Giugni) all’elaborazione di un Protocollo sulla politica dei redditi, l’occupazione, gli assetti contrattuali e le politiche del lavoro, che ebbe la luce il 23 luglio 1993. Il Protocollo – per raggiungere i fini indicati e per quanto qui interessa – conteneva una disciplina di razionalizzazione delle relazioni industriali ed un nuovo e più razionale assetto della struttura contrattuale. Per quanto riguarda gli assetti contrattuali si prevedevano due livelli di contrattazione: il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria ed un secondo livello di contrattazione, aziendale o alternativamente territoriale, laddove previsto, a seconda dello specifico settore. La durata del contratto nazionale di categoria era quadriennale per la parte normativa e biennale per la parte retributiva. Essendo infatti stati aboliti i sistemi di indicizzazione del salario, il contratto nazionale di categoria costituiva l’unica possibile fonte di adeguamento del salario alle dinamiche del costo della vita; di qui la necessità di una frequenza più ravvicinata per la revisione dei relativi assetti. Peraltro la dinamica degli effetti economici del contratto

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deve essere coerente con i tassi di inflazione programmata assunti come obiettivo comune, dovendo le parti tener conto «delle politiche concordate nelle sessioni di politica dei redditi e dell’occupazione, dell’obiettivo mirato della salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni, delle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro, del raffronto competitivo e degli andamenti specifici del settore». Per il Protocollo, in sede di rinnovo biennale dei minimi contrattuali, ulteriori punti di riferimento del negoziato dovevano essere costituiti «dalla comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva intervenuta nel precedente biennio, da valutare anche alla luce di eventuali variazioni delle ragioni di scambio del paese, nonché dell’andamento delle retribuzioni». L’ambito di competenza del contratto decentrato (anch’esso di durata quadriennale) era fissato dal contratto nazionale, che stabilisce anche i tempi di stipulazione, «secondo il principio dell’autonomia dei cicli negoziali, le materie e le voci nelle quali essa si articola». A questo scopo le parti dovevano valutare «le condizioni dell’impresa e del lavoro, le sue prospettive di sviluppo anche occupazionale, tenendo conto dell’andamento e delle prospettive della competitività e delle condizioni essenziali di redditività». Si prevedeva altresì che, nel corso della vigenza del contratto di secondo livello venissero svolte procedure di informazione, consultazione, verifica o contrattazione per la gestione degli effetti sociali connessi alle trasformazioni aziendali quali le innovazioni tecnologiche, organizzative e i processi di ristrutturazione che influiscono sulle condizioni di sicurezza, di lavoro e di occupazione, anche in relazione alla legge sulle pari opportunità. L’ambito di interesse della contrattazione di secondo livello era comunque in linea di massima dedicato, secondo il Protocollo, alle «materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del contratto nazionale di categoria». E, sempre nella logica di contenere l’inflazione, si prevedeva che le erogazioni pattuite a livello di contrattazione decentrata dovessero essere strettamente correlate «ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aven-

La competenza del contratto decentrato

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Le procedure per il rinnovo dei contratti collettivi

L’indennità di vacanza contrattuale

Diritto sindacale

do come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività … nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa». In sostanza alla contrattazione decentrata era assegnata la funzione di regolare i salari di produttività e/o per obiettivi. Un contributo essenziale veniva dato dal Protocollo alla definizione delle procedure negoziali di rinnovo dei contratti collettivi. Si trattava di una serie di indicazioni che facevano tesoro – fissandole in un accordo – delle regole acquisite in via di prassi nell’ambito delle relazioni industriali. Era in primo luogo lo stesso contratto collettivo nazionale di lavoro che era incaricato di definire le procedure per la presentazione delle piattaforme contrattuali nazionali, aziendali o territoriali, nonché i tempi di apertura dei negoziati «al fine di minimizzare i costi connessi ai rinnovi contrattuali ed evitare periodi di vacanze contrattuali». Le piattaforme contrattuali per il rinnovo dei contratti nazionali – costituenti il documento riassuntivo delle richieste (normalmente) provenienti dalle associazioni sindacali dei lavoratori – dovevano essere presentate «in tempo utile per consentire l’apertura delle trattative tre mesi prima della scadenza dei contratti». Rilevante è la previsione secondo cui nei tre mesi antecedenti e per il mese successivo alla scadenza, le parti non avrebbero potuto assumere iniziative unilaterali né procedere ad azioni dirette. Si tratta di un periodo durante il quale deve essere garantito il raffreddamento del conflitto collettivo, senza quindi il ricorso allo sciopero. La violazione della tregua nel periodo di raffreddamento comportava come conseguenza, a carico della parte che vi avrà dato causa, l’anticipazione o lo slittamento di tre mesi del termine a partire dal quale decorre l’indennità di vacanza contrattuale. Quest’ultima costituisce una notevole innovazione introdotta dal Protocollo. Al fondo vi è sempre il problema della abolizione dei meccanismi di indicizzazione del salario, che, come abbiamo detto, scaricano sui rinnovi contrattuali tutto il peso

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dell’aggiornamento delle retribuzioni al costo della vita. In siffatto contesto è evidente l’interesse delle organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro di rallentare il corso delle trattative, per procrastinare la decorrenza degli aumenti retributivi. Proprio allo scopo di evitare atteggiamenti dilatori il Protocollo prevedeva che, dopo un periodo di vacanza contrattuale di tre mesi dalla data di scadenza del contratto nazionale, ai lavoratori destinatari del contratto non ancora rinnovato, dovrà essere corrisposta, a partire dal mese successivo ovvero dalla data di presentazione delle piattaforme ove successiva, l’indennità di vacanza contrattuale, regolata con un meccanismo «unico per tutti i lavoratori». L’importo dell’indennità era pari al 30 per cento del tasso di inflazione programmato, applicato ai minimi retributivi contrattuali vigenti. Decorsi sei mesi di vacanza contrattuale l’importo in questione è elevato al 50 per cento dell’inflazione programmata. L’indennità di vacanza contrattuale cessava di essere erogata una volta stipulato l’accordo di rinnovo del contratto. Complessivamente il Protocollo Ciampi-Giugni ha costituito il più compiuto tentativo di dare un quadro di regole apprezzabilmente certe e condivise alle relazioni industriali. Il suo limite è ovviamente costituito dallo strumento giuridico messo in campo – un contratto di diritto privato – per attingerne gli scopi. Non a caso il Protocollo ha prodotto effetti positivi fino a che è durata la condivisione socio-politica della sua necessità da parte degli stessi protagonisti. Ha invece perso mordente quando è mutato il quadro politico-sindacale di riferimento. Del resto ad uno strumento negoziale non si può chiedere di più, potendo la sua eventuale violazione produrre esclusivamente conseguenze sul piano dei rapporti interni alle associazioni sindacali di riferimento. Per dirla in chiaro, ove una associazione sindacale territoriale, pur aderente a quella confederale che ha stipulato il Protocollo, sottoscrivesse un contratto decentrato, in violazione delle regole del Protocollo, non sarebbero invocabili strumenti giuridici cogenti per dichiarare la nullità e/o invalidità del contratto sottoscritto. Al più l’organizzazione

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L’accordo quadro 22 gennaio 2009

Diritto sindacale

dissenziente potrebbe subire conseguenze derivanti dalla violazione delle regole interne dell’associazione. In realtà il vero problema oggetto di discussione resta l’ambito di competenza del contratto aziendale nel rapporto con quello nazionale. Gli imprenditori tendono a favorire la contrattazione decentrata a discapito di quella nazionale, perché assumono che è solo in sede aziendale che possono essere verificate l’efficienza e la produttività del lavoro, laddove, in sede nazionale, la standardizzazione dei trattamenti potrebbe produrre la penalizzazione delle imprese più esposte alla concorrenza internazionale. A tale atteggiamento si contrappone quello di uno dei sindacati storicamente più rappresentativi (la Cgil), che non ha mai fatto mistero di privilegiare il livello nazionale, quale baluardo per garantire l’uniformità di trattamento fra i lavoratori della medesima categoria e la salvaguardia delle fasce più deboli della popolazione lavorativa. Sull’argomento si è aperta, fra il 2010 ed il 2011, una partita nella quale si gioca buona parte dell’avvenire del diritto del lavoro, almeno di quello «classico» centrato sul contratto collettivo nazionale e sulla gerarchia delle fonti cadenzata sul principio di inderogabilità che caratterizza verticalmente i rapporti fra di esse. Uno dei frutti di tale scontro-confronto fra le parti sociali sul tema della contrattazione è stato l’Accordo quadro fra Governo, Cisl, Uil e le principali associazioni datoriali italiane (non sottoscritto però dalla Cgil) del 22 gennaio 2009. Il tentativo ambizioso dell’accordo è quello di addivenire, fra l’altro, ad una regolamentazione unitaria degli assetti della contrattazione fra settore pubblico e settore privato; lo scopo attinto ne costituisce altresì il limite data la profonda distanza che separa i due settori, sul piano dei contenuti, dei presupposti e delle finalità dell’azione contrattuale. In particolare l’accordo fa propria un’idea – cara alle politiche del lavoro del centro-destra (v. il Libro bianco sul lavoro del 2001) – di un più marcato decentramento contrattuale, consentendo al contratto aziendale poteri derogatori rispetto a quello nazionale, se pure «in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea».

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Fra le più salienti previsioni si segnala: a) la permanente articolazione del sistema su due livelli (nazionale e decentrataaziendale); b) l’articolazione delle competenze, assegnandosi al contratto nazionale il mantenimento del potere d’acquisito del salario ed a quello decentrato la retribuzione legata alla produttività; c) la sostituzione, per i rinnovi, del tasso di inflazione programmata con un nuovo indice denominato IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia); d) la durata triennale sia del CCNL che del contratto decentrato; e) la copertura economica in caso di tardività nei rinnovi; f) la possibilità di deroghe anche peggiorative (a livello territoriale o aziendale) in situazione di crisi. Come si vede complessivamente l’accordo denuncia una filosofia di base assai lontana da quella che caratterizzava il Protocollo Ciampi-Giugni. Mentre in quest’ultimo prevaleva l’obiettivo della lotta all’inflazione e la stabilizzazione finanziaria, nel patto più recente si utilizza lo strumento della contrattazione per ottenere maggiore produttività e consentire conseguentemente la crescita salariale. Sui complessi e delicati equilibri delle relazioni industriali è però intervenuta la vicenda che ha interessato gli stabilimenti del gruppo Fiat, all’esito della quale la storica casa automobilistica torinese, per assicurarsi una gestione del lavoro meno costosa di quella risultante dall’applicazione del contratto nazionale (e valorizzare al meglio gli impianti), ha costituito una nuova società, che non si è affiliata all’associazione sindacale nazionale dei datori di lavoro del settore (Federmeccanica), ottenendo mano libera nella sottoscrizione di un contratto aziendale, stipulato però senza la partecipazione dell’organizzazione sindacale di settore aderente alla CGIL (la FIOM). Un tentativo di ricucitura dello strappo si è avuto con l’accordo interconfederale 28 giugno 2011, che ha segnato una ritrovata unità sindacale delle tre grandi confederazioni e con il quale, riconfermato il ruolo del contratto nazionale, si è assunto come obiettivo comune quello di «favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello per cui vi è la necessità di promuoverne l’effettività e di garantire

L’accordo interconfederale 28 giugno 2011

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L’art. 8 della l. n. 148/2011

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una maggiore certezza alle scelte operate». Il senso è quello di consentire, attraverso una più rigorosa certificazione della rappresentatività dei soggetti abilitati alla stipulazione del contratto aziendale (rispetto alla quale è stata posta la soglia di rappresentatività del 5% dei lavoratori della categoria), l’efficacia generalizzata di quest’ultimo nei confronti di tutti i dipendenti dell’impresa. Nel merito poi si prevede che i contratti aziendali possano definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti nazionali, pur sempre «nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali». Infine con clausola ad hoc si prevede che, in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano l’ambito delle materie della contrattazione decentrata, i contratti già sottoscritti con le rappresentanze sindacali d’intesa con le organizzazioni sindacali firmatarie, al fine di gestire situazioni di crisi aziendali o in presenza di investimenti significativi, possono definire modifiche ai contratti nazionali (anche con riferimento alla prestazione lavorativa, agli orari ed all’organizzazione del lavoro) e le relative intese acquistano efficacia generalizzata. È evidente in quest’ultima previsione il riferimento agli accordi aziendali sottoscritti dalla Fiat, rispetto ai quali l’accordo intenderebbe costituire una sorta di sanatoria ex post. Tali previsioni sono state trasfuse nel Testo Unico sulla rappresentanza sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL il 10 gennaio 2014 (v. in particolare, la Parte III). Sennonché, mentre su questa delicata materia era ancora aperta la discussione circa la vincolatività e l’efficacia giuridica delle nuove previsioni, su tutti si è abbattuta la mannaia della previsione di cui all’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con legge 14 settembre 2011, n. 148, provvedimento emanato in tutta fretta a ferragosto del 2011, sotto la pressione della grave situazione economica italiana ed internazionale. Abbiamo già riferito dei contenuti della disposizione in ordine alla efficacia generalizzata del contratto aziendale ed al radicale potere derogatorio che essa propone (v. retro, in questo capitolo: Sez. II, par. 10 e Sez. III, par. 2).

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Per quanto qui ci interessa in ordine ai rapporti fra contratto nazionale e contrattazione decentrata – nelle ampie materie già ricordate a suo tempo – le intese aziendali o territoriali possono derogare anche in pejus alle disposizioni di legge ed alle clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro che disciplinano le materie richiamate, con il solo limite costituito dal «rispetto della Costituzione», nonché dei vincoli derivanti dalle normative europee e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Non vi è quindi una materia delegata alla contrattazione aziendale nel quadro di quelle regolate dal contratto nazionale, ma pressoché ogni aspetto della disciplina lavoristica è liberamente contrattabile a livello aziendale. La norma dell’agosto-settembre 2011 introduce inoltre una sorta di sanatoria per i contratti aziendali stipulati dalla Fiat, attribuendo efficacia erga omnes anche ai «contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011», a condizione che siano stati approvati con votazione a maggioranza dei lavoratori.

2. Il dialogo sociale europeo e la recezione delle direttive attraverso il contratto collettivo Un primo (vago e generico) interesse verso lo sviluppo della contrattazione collettiva nel contesto europeo rimonta alle origini della CE, quando (era il 1961) fu incaricata una commissione di esperti allo scopo di prospettarne l’opportunità e discutere i problemi giuridici conseguenti. Le proposte che ne seguirono provarono a costruire un sistema negoziale strutturato, ma dovettero prendere atto delle notevoli difficoltà che incontrava la regolamentazione della materia. Difficoltà in buona sostanza riducibili ad una: l’estrema varietà di assetti giuridici dei vari Paesi europei rispetto al sistema della contrattazione collettiva, avendo riguardo fondamentalmente al loro differente grado di forza giuridica. Più in generale peraltro alle organizzazioni esponenziali di interessi l’Unione assegna un ruolo – al pari di quanto avviene

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Il dialogo sociale

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nei singoli stati – nelle politiche di concertazione in materia sociale. Ovviamente la mancanza di associazioni sindacali europee, radicate e strutturate, impedisce a queste ultime di svolgere compiti propositivi nei confronti delle istituzioni rappresentative. Ciononostante il Trattato istitutivo della CE (oggi TFUE) prefigura le modalità di svolgimento ed articolazione del dialogo sociale. Secondo l’art. 154 TFUE, anzitutto, la Commissione ha il compito di «promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario e prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti». Allo scopo essa, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, consulta le parti sociali sul possibile orientamento di un’azione comunitaria. All’esito di tale prima indagine, ove confermi l’interesse per la specifica azione comunitaria, la Commissione procede a consultare le parti sociali «sul contenuto della proposta prevista», sulla quale queste ultime trasmettono alla Commissione un parere o, se opportuno, una raccomandazione. La procedura di consultazione – destinata a produrre un accordo – sospende l’attività legislativa per nove mesi (prorogabili su intesa fra le parti). La questione di maggior rilievo – nel caso in cui sia effettivamente raggiunto un accordo – è ovviamente quella della sua traduzione attuativa nell’ambito comunitario. A questo proposito l’art. 155 TFUE delinea due possibili tecniche procedurali: (a) l’attuazione «secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri» ovvero (b) a seguito di una richiesta congiunta delle parti firmatarie «in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione» (per prassi: una direttiva). Quest’ultima opzione peraltro si impone nei casi in cui l’accordo riguardi le materie di cui all’art. 153 TUE, che include, fra l’altro, la sicurezza e le condizioni del lavoro, l’informazione e consultazioni dei lavoratori, la parità fra uomini e donne, la rappresentanza e difesa collettiva degli interessi, ecc., ma esclude la retribuzione, il diritto di sciopero e la serrata.

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Le due tecniche appaiono, allo stato, dotate di scarsa effettività. La prima consegna, in buona sostanza, agli stati sovrani la potestà di regolamentare la materia dell’accordo. La seconda presuppone comunque la formulazione di una proposta della Commissione al Consiglio, dimostrando che la procedura si appaia alle tecniche di negoziazione legislativa di cui abbiamo parlato in precedenza. Un ultimo cenno va operato infine alla possibilità che le direttive comunitarie siano attuate nell’ordinamento statale per il tramite della contrattazione collettiva. Secondo l’art. 153, par. 3, TFUE ciascuno stato membro può affidare può «affidare alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive». In tal caso lo stato membro interessato «deve prendere le misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti da detta direttiva». Quest’ultima disposizione rende evidente che condizione per la recezione della direttiva attraverso contratto collettivo è che, nell’ambito dell’ordinamento dei singoli stati, il contratto collettivo abbia efficacia erga omnes, condizione questa, allo stato, non realizzata nel nostro ordinamento. De jure condendo costituisce oggetto di discussione – per il momento solo teorica – la questione se l’eventuale introduzione, tramite legge ordinaria, al solo scopo di recepire le direttive, di un meccanismo di estensione erga omnes dei contratti collettivi, alternativo rispetto a quello previsto dall’art. 39 Cost., si ponga in violazione di quest’ultima norma. La discussione è aperta.

L’attuazione delle direttive tramite contratto collettivo

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Sezione V. Il contratto collettivo nel pubblico impiego SOMMARIO: 1. Premessa e rinvio. – 2. Il sistema della contrattazione collettiva nel settore pubblico. – 3. Le parti della contrattazione collettiva. – 4. Le procedure di contrattazione. – 5. Sguardo d’insieme e problemi di costituzionalità. – 6. L’interpretazione dei contratti collettivi pubblici.

1. Premessa e rinvio All’esito della riforma degli anni novanta si è completata la traiettoria di contrattualizzazione del lavoro pubblico, ormai sottoposto – tranne tassative eccezioni – al diritto del lavoro privato. Per la ricostruzione storica dell’evoluzione normativa che ha condotto dal «rapporto organico» al «rapporto di lavoro subordinato» rinviamo alla trattazione contenuta nel testo che si occupa del contratto individuale di lavoro. Qui ci limitiamo a ripercorrere l’ultima fase della traiettoria. La svolta verso la riforma radicale matura negli anni novanta ed è da ricondurre fondamentalmente alle leggi di delegazione n. 421/1992 (per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego e di finanza territoriale), n. 59/1997 (di più generale riforma della pubblica amministrazione) e n. 127/1997 (per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo). In attuazione di tali deleghe la normativa-base è ora costituita dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (più volte integrato e modificato nel corso degli anni e fondamentalmente, da ultimo, dai dd.lgs. nn. 80 e 387/1998). Con il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 la materia è stata infine raccolta in una sorta di testo unico («nor-

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me generali nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»). Le finalità della riforma (art. 1) rispondono alle esigenze di accrescere l’efficienza delle pubbliche amministrazioni, razionalizzare il costo del lavoro pubblico e realizzare l’uniformità di trattamento fra dipendenti pubblici e privati, per la migliore utilizzazione del personale. Lo statuto giuridico del pubblico dipendente è di regola il medesimo di quello del lavoratore privato e le eccezioni a siffatta regola hanno carattere di tassatività ed altresì che la fonte di regolamentazione del medesimo è costituita da un contratto di lavoro privatistico. Significativo, a questo proposito, è che il legislatore abbia modificato (con il d.lgs. n. 80/1998) il precedente testo che poneva come limite all’estensione della disciplina privatistica il fine del perseguimento degli interessi generali dell’organizzazione amministrativa. Oggi deve quindi ritenersi che gli atti di gestione del rapporto non vanno riguardati quali atti amministrativi, ma secondo lo schema generale dei poteri negoziali che si incardinano nel contratto di lavoro. Fondamentale è il principio, sancito dall’art. 2, 2° e 3° comma del d.lgs. n. 165/2001, secondo cui i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici «sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, del Titolo II, del Libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le disposizioni del presente decreto» e sono «regolati contrattualmente». Ciò posto quel che qui ci interessa è che la riforma ha profondamente inciso sul piano delle fonti di regolamentazione del rapporto. L’art. 2, 1° comma, lett. c) della l. n. 421/1992 (la legge di delegazione) stabilisce la ripartizione di confini fra legge e contrattazione collettiva circa le rispettive competenze. Restano conferite alla norma di legge (riserva di legge): 1) le responsabilità giuridiche dei singoli operatori nell’espletamento delle procedure amministrative; 2) la determinazione degli organi, degli uffici e dei modi di conferimento della titolarità dei medesimi; 3) i principi fondamentali di organizzazione degli uffici; 4) i procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro; 5) i ruoli e le dotazioni organiche; 6) le garanzie

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della libertà di insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca; 7) la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici. La restante materia (e segnatamente quella retributiva) rientra invece nella competenza della contrattazione collettiva. Secondo l’art. 40, 1° comma del d.lgs. n. 165/2001 infatti «la contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali». Il contratto collettivo costituisce quindi una fonte diretta di regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico, senza la necessità di essere recepito in un atto regolamentare, che ne possa condizionare l’efficacia. I poteri derogatori del contratto collettivo rispetto a disposizioni di legge, regolamento o statuto, previsti incondizionatamente dalla riforma originaria sono stati peraltro drasticamente ridotti dalla c.d. Riforma Brunetta (l. 4 marzo 2009, n. 15 e successivo d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150), che li ha condizionati ad una esplicita previsione della legge. Viene così, in qualche modo, riproposta una nuova centralità della legge (e, per il suo tramite, dell’atto amministrativo) nella regolazione dei rapporti di lavoro pubblico.

2. Il sistema della contrattazione collettiva nel settore pubblico L’assegnazione di un ruolo privilegiato di fonte al contratto collettivo nel settore pubblico presupponeva necessariamente una rigorosa regolamentazione delle procedure e dei soggetti abilitati. A differenza del settore privato, infatti, da una parte le pubbliche amministrazioni datrici di lavoro hanno vincoli di spesa da rispettare doverosamente, laddove nel settore privato le concessioni economiche sono legate all’andamento generale del mercato. Inoltre il contratto collettivo deve poter assicurare ai pubblici impiegati, su tutto il territorio nazionale, condizioni omogenee

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di trattamento (art. 45, 2° comma, d.lgs. n. 165/2001), le sole idonee a garantire «il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione», secondo la dizione dell’art. 97 Cost. Di qui la necessità di una regolamentazione dettagliata di tutti i profili dell’attività contrattuale. In primo luogo occorre far cenno alla struttura della contrattazione. Il contratto collettivo che corrisponde al contratto di categoria del settore privato) è il contratto nazionale di comparto. La più recente riforma stabilisce che le parti possono definire «fino a un massimo di quattro comparti di contrattazione collettiva nazionale, cui corrispondono non più di quattro separate aree per la dirigenza». Inoltre, nell’ambito dei comparti di contrattazione, possono essere costituite apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità. È la contrattazione collettiva che regola i livelli contrattuali ed i rapporti fra questi. Essa è abilitata a disciplinare, al pari del settore privato, la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi. La durata viene stabilita in modo che vi sia coincidenza fra la vigenza della disciplina giuridica e di quella economica. In applicazione dell’Intesa 30 aprile 2009, applicativa al settore pubblico dell’Accordo quadro 22 gennaio 2009 (che ha lo scopo, come abbiamo già visto, di rendere omogenea la contrattazione nei settori pubblico e privato) la durata dei contratti (di primo e secondo livello) è sempre triennale. Sul piano dei contenuti la contrattazione decentrata, pur consentendo alle pubbliche amministrazioni un certo margine di autonomia regolativa, deve anzitutto rispettare «i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione» e comunque assicurare adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici. A quest’ultimo fine deve destinare al «trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato». Inoltre anche l’ambito di competenza della contrattazione decentrata è definito dal contratto collettivo nazionale.

Il contratto nazionale di comparto

La contrattazione decentrata

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La nullità delle clausole del contratto collettivo decentrato

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Peraltro la più recente riforma del 2009 dà nuovamente respiro ad una – sia pur provvisoria – competenza regolativa unilaterale delle pubbliche amministrazioni, relativamente alle materie della contrattazione decentrata. Si prevede infatti – anche se al solo scopo di «assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica» – che, qualora non si raggiunga l’accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, «l’amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione». Infine – ed è qui una ulteriore profonda differenza rispetto al settore privato – il sistema dei rapporti gerarchici fra contratto nazionale di comporto e contrattazione decentrata è rafforzato dalla sanzione di nullità che colpisce le clausole dei «contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione». Tali clausole sono nulle e vengono sostituite di diritto da quelle del contratto nazionale. Inoltre, ove venga accertato il superamento dei vincoli finanziari da parte della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica o del Ministero dell’economia e delle finanze è fatto obbligo di recupero nell’ambito della sessione negoziale successiva. Queste ultime previsioni si applicano a decorrere dalle sessioni contrattuali successive all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009.

3. Le parti della contrattazione collettiva

La rappresentanza dei lavoratori

Il sistema della contrattazione collettiva nel settore pubblico prevede poi una rigorosa regolamentazione dei soggetti abilitati a stipularla. Viene qui realizzato un sistema nel quale, sul versante dei lavoratori, si affida al sindacato rappresentativo il potere negoziale e si sanciscono le regole della individuazione della rappre-

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sentatività, allo scopo di pervenire alla stipulazione di contratti collettivi nazionali che hanno per legge efficacia erga omnes. Per quanto riguarda la contrattazione nazionale, secondo l’art. 43 del d.lgs. n. 165/2001, vengono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al 5 per cento, considerando a tal fine la media tra il dato associativo e il dato elettorale. Il dato associativo è espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito considerato. Il dato elettorale è espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale, rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato. È prevista inoltre la partecipazione alla contrattazione collettiva nazionale per il relativo comparto o area anche delle confederazioni, cui siano affiliate le organizzazioni sindacali ammesse alla contrattazione. Prima della sottoscrizione dei contratti si deve verificare che le organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno il 51 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell’area contrattuale o almeno il 60 per cento del dato elettorale nel medesimo ambito. Soggetti dei contratti collettivi integrativi, dal lato dei lavoratori, sono le rappresentanze sindacali unitarie (di cui abbiamo già riferito in precedenza). Tale rappresentanza non è però esclusiva, dal momento che esse possono essere affiancate dai rappresentanti sindacali firmatari dei contratti di comparto. La materia, che è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva, è stata regolata da un accordo-quadro del 1998 che ha previsto che, per quanto riguarda le RSU, queste ultime debbano decidere a maggioranza. Per quanto riguarda invece le pubbliche amministrazioni la legge ha istituito un soggetto ad hoc, l’ARAN (l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni). La sua composizione è stata modificata con la più recente riforma. Ne costituiscono gli organi il presidente ed il collegio di indirizzo e controllo. Il primo è nominato con decreto del Presidente del-

La rappresentanza delle p.a.: l’ARAN

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Diritto sindacale

la Repubblica, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione previo parere della Conferenza unificata. Il Presidente rappresenta l’agenzia ed è scelto fra esperti in materia di economia del lavoro, diritto del lavoro, politiche del personale e strategia aziendale, anche estranei alla pubblica amministrazione, dura in carica quattro anni e può essere riconfermato per una sola volta. Il collegio di indirizzo e controllo è costituito da quattro componenti scelti tra esperti di riconosciuta competenza in materia di relazioni sindacali e di gestione del personale. Due di essi sono designati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta, rispettivamente, del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione e del Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri due, rispettivamente, dall’ANCI e dall’UPI e dalla Conferenza delle Regioni e delle province autonome. Il collegio coordina la strategia negoziale e ne assicura l’omogeneità, assumendo la responsabilità per la contrattazione collettiva e verificando che le trattative si svolgano in coerenza con le direttive contenute negli atti di indirizzo. Nell’esercizio delle sue funzioni il collegio delibera a maggioranza, su proposta del presidente. Il collegio dura in carica quattro anni e i suoi componenti possono essere riconfermati per una sola volta. L’ARAN ha la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni ed «esercita a livello nazionale, ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e alla assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi». Inoltre ad essa possono far capo le singole amministrazioni per l’assistenza nella contrattazione collettiva decentrata. Essa ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotata di autonomia organizzativa e contabile nei limiti del proprio bilancio. Il suo ruolo – operando essa in regime di rappresentanza legale – non è appaiabile a quello delle associazioni datoriali del settore privato (formate per adesione volontaria) né a quelle delle cosiddette autorità indipendenti, essendo la sua azione condizionata agli indirizzi ed agli impulsi che le vengono dati dai Comitati di settore.

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Attraverso tale forma di rappresentanza è possibile che il contratto collettivo sia immediatamente estensibile alle amministrazioni destinatarie, senza la mediazione di alcun atto amministrativo di recezione. Per altro verso l’individuazione di un unico soggetto rappresentativo consente un più agevole coordinamento fra le politiche contrattuali dei vari comparti della p.a. L’ARAN non ha la rappresentanza necessaria delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, che possono invece avvalersi, per la contrattazione collettiva di loro competenza, di agenzie tecniche istituite con legge regionale o provinciale e, solo in subordine, dell’assistenza dell’ARAN.

4. Le procedure di contrattazione L’attività contrattuale è preceduta dagli «atti di indirizzo» che sono emanati dai Comitati di settore prima di ogni rinnovo contrattuale. Si tratta, quanto a questi ultimi, di organismi costituiti dalle pubbliche amministrazioni, per il tramite delle loro istanze associative (ANCI, UPI, conferenza dei presidenti degli enti pubblici, ecc.). Gli atti di indirizzo, emanati dai rispettivi comitati di settore, sono sottoposti al Governo che può esprimere le sue valutazioni per quanto attiene agli aspetti riguardanti la compatibilità con le linee di politica economica e finanziaria nazionale. Gli atti di indirizzo sono preceduti, per l’amministrazione statale, dalla quantificazione, da parte del ministero del tesoro, in coerenza con i parametri previsti dagli strumenti di programmazione e di bilancio, dell’onere derivante dalla contrattazione collettiva nazionale a carico del bilancio dello Stato, con disposizione da inserire nella legge finanziaria. Analoga procedura si segue per determinare gli eventuali oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato per la contrattazione integrativa delle amministrazioni dello Stato. Per le ulteriori amministrazioni gli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale sono determinati a carico dei rispettivi bilanci.

Gli atti di indirizzo

172 Le trattative e l’ipotesi d’accordo

I controlli

Diritto sindacale

Esaurita la fase preliminare inizia la vera e propria trattativa negoziale fra le parti, nel corso della quale l’ARAN è tenuta ad informare costantemente i comitati di settore e il Governo sullo stato di avanzamento delle intese. All’esito delle trattative viene sottoscritta una ipotesi di accordo e si apre il procedimento di perfezionamento e chiusura del contratto. L’ipotesi di accordo viene trasmessa dall’ARAN, corredata dalla prescritta relazione tecnica, ai comitati di settore ed al Governo entro 10 giorni dalla data di sottoscrizione. Per le amministrazioni statali il comitato di settore esprime il parere sul testo contrattuale e sugli oneri finanziari diretti e indiretti a carico dei bilanci delle amministrazioni interessate. Per le altre amministrazioni il parere è espresso dal Presidente del Consiglio dei Ministri, tramite il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. È evidente, nella descritta articolazione, il ruolo subalterno dell’Aran che, in quanto organo tecnico, non può farsi carico di decisioni politiche che spettano agli organi di governo della p.a. Acquisito il parere favorevole sull’ipotesi di accordo, nonché la verifica da parte delle amministrazioni interessate sulla copertura degli oneri contrattuali, il giorno successivo l’ARAN trasmette la quantificazione dei costi contrattuali alla Corte dei conti. A quest’ultima è assegnata una funzione di controllo dell’attendibilità dei costi e della loro compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio. È previsto un termine stretto di quindici giorni per il controllo, trascorso il quale la certificazione si intende effettuata positivamente. L’esito della certificazione viene comunicato dalla Corte all’ARAN, al comitato di settore e al Governo. Se la certificazione è positiva, il presidente dell’ARAN sottoscrive definitivamente il contratto collettivo. Nell’ambito del controllo della Corte dei Conti può peraltro aprirsi un sub-procedimento, potendo quest’ultima acquisire elementi istruttori e valutazioni sul contratto collettivo, consultando una commissione di consulenza, composta da tre esperti in materia di relazioni sindacali e costo del lavoro individuati

Le fonti

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dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, tramite il Capo del Dipartimento della funzione pubblica di intesa con il Capo del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, nell’ambito di un elenco definito di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. Se l’ipotesi di accordo non passa il vaglio della Corte dei Conti, le parti contraenti non possono procedere alla sottoscrizione definitiva dell’ipotesi di accordo e il Presidente dell’ARAN, d’intesa con il comitato di settore, che può dettare indirizzi aggiuntivi, provvede alla riapertura delle trattative ed alla sottoscrizione di una nuova ipotesi di accordo, adeguando i costi contrattuali alle indicazioni delle certificazioni. In seguito alla sottoscrizione della nuova ipotesi di accordo si riapre la procedura di certificazione che abbiamo descritto. La legge prevede peraltro che, in caso di certificazione non positiva limitata a singole clausole contrattuali, l’ipotesi d’accordo può essere sottoscritta definitivamente ferma restando l’inefficacia delle clausole contrattuali non positivamente certificate. Per quanto riguarda i controlli relativi alla contrattazione integrativa, essi – relativamente alla compatibilità dei costi della contrattazione collettiva integrativa con i vincoli di bilancio e quelli derivanti dall’applicazione delle norme di legge, con particolare riferimento alle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori – vengono effettuati dal collegio dei revisori dei conti, dal collegio sindacale, dagli uffici centrali di bilancio o dagli analoghi organi previsti dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni interessate. Il procedimento si conclude con la pubblicazione del contratto nella gazzetta ufficiale. Nella più recente riforma del 2009 è stato introdotto un meccanismo appaiabile all’indennità di vacanza contrattuale di cui al Protocollo Ciampi-Giugni del 1993. Si prevede infatti (art. 47-bis) che, decorsi sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge finanziaria che dispone in materia di rinnovi dei contratti collettivi per il periodo di riferimento, gli incrementi previsti per il trattamento stipendiale possono essere ero-

L’erogazione provvisoria degli incrementi retributivi

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Diritto sindacale

gati in via provvisoria previa deliberazione dei rispettivi comitati di settore, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative, salvo conguaglio all’atto della stipulazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Resta inoltre fermo che, in ogni caso, a decorrere dal mese di aprile dell’anno successivo alla scadenza del contratto collettivo nazionale di lavoro, ove non sia stato rinnovato il contratto e/o erogati gli incrementi provvisori, è riconosciuta ai dipendenti dei rispettivi comparti di contrattazione una copertura economica che costituisce un’anticipazione dei benefici complessivi che saranno attribuiti all’atto del rinnovo contrattuale. La misura e le modalità di tale anticipazione devono essere definite dai contratti nazionali e devono rispettare i limiti previsti dalla legge finanziaria in sede di definizione delle risorse contrattuali.

5. Sguardo d’insieme e problemi di costituzionalità Descritte, per grandi linee, le caratteristiche essenziali del contratto collettivo nel pubblico impiego resta il problema cruciale della sua natura giuridica e del suo inserimento nel sistema delle fonti, anche in relazione ai vincoli alla contrattazione previsti dall’art. 39 Cost. Si tratta di un contratto che, come abbiamo visto, esplica direttamente la propria efficacia nei confronti dei rapporti di pubblico impiego, senza la mediazione di atti di recepimento, essendo le pubbliche amministrazioni obbligate a darvi applicazione in sede di stipulazione dei contratti individuali. L’efficacia diretta è poi confermata dall’altrettanto obbligatorio rispetto della parità di trattamento, quale garanzia del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa. Le due precedenti affermazioni hanno come logica inferenza che il contratto collettivo pubblico si applica a prescindere dall’iscrizione e/o adesione del singolo lavoratore al sindacato e dunque anche al di fuori della regola dell’iscrizione all’associazione sindacale che lo ha stipulato. Esso agisce per forza propria e non in funzione di una forma di rappresentanza privatistica.

Le fonti

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Sotto il descritto profilo il contratto collettivo pubblico si allontana dalla struttura e dalle caratteristiche del contratto collettivo (privatistico) di diritto comune e – per quel che più conta – pone la questione della sua compatibilità con il profilo delineato dall’art. 39 Cost. Sul punto si è pronunziata, a più riprese, la Corte costituzionale (in particolare con la sent. n. 309/1997), che ha salvato la costituzionalità complessiva della riforma estendendo, in qualche modo, al contratto collettivo pubblico un ragionamento analogo a quello già elaborato a proposito dei cosiddetti contratti gestionali del settore privato. Secondo la Corte infatti non può porsi un problema di incompatibilità con l’art. 39 perché l’efficacia erga omnes del contratto collettivo pubblico non discende direttamente dalla sua natura intrinseca, ma «si colloca sul diverso piano delle conseguenze che derivano per un verso dal vincolo di conformarsi imposto alla pubblica amministrazione, e, per l’altro, dal legame che avvince il contratto individuale al contratto collettivo»; per il lavoratore l’obbligo discende dal rinvio al contratto collettivo (necessariamente) contenuto nel contratto individuale. Che questa pronuncia avalli una concezione privatistica del contratto collettivo pubblico (come sembra ritenere buona parte dell’opinione) o ne sottolinei i profili di specialità è e resta questione aperta. Quel che semmai può essere rilevante rimarcare è che – come che lo si riguardi – il contratto di lavoro pubblico ha spiccati tratti di «inautenticità» che gli derivano dalla strutturale disomogeneità di funzioni rispetto a quello del settore privato. Quest’ultimo è infatti centrato su una logica acquisitiva, mentre l’altro ha la funzione di calmierare l’impiego nell’ambito della pubblica amministrazione, garantendo la parità di trattamento, ma essendo costretto entro i vincoli di bilancio. Il che illumina il suo dato più caratteristico: una sorta di interiorizzazione (per il sistema e per le parti negoziali) della funzionalizzazione al perseguimento dell’interesse pubblico, che l’allontana – volente o nolente – dalla temperie che si respira nell’ambito della

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Diritto sindacale

contrattazione nel settore privato, che è invece espressione di libertà negoziale. Insomma se si vuole mantenere ferma la natura privatistica (anche) del contratto collettivo pubblico occorre rassegnarsi all’idea che comunque esso sia portatore di notevoli profili di specialità.

6. L’interpretazione dei contratti collettivi pubblici

Il procedimento per l’interpretazione autentica

In primo luogo va detto che anche per i contratti collettivi del pubblico impiego valgono i criteri ermeneutici previsti per i contratti privatistici dal codice civile (artt. 1362 e ss.), per l’esposizione dei quali rinviamo alla precedente trattazione (v. retro: Sez. II, par. 13). È quasi ovvio peraltro aggiungere che, per le ragioni già indicate, qui la funzione uniformatrice dell’interpretazione è esaltata dall’obbligo di pari trattamento fra dipendenti pubblici e dalle garanzie previste dall’art. 97 Cost. Nell’ambito della contrattazione nel pubblico impiego poi il legislatore ha introdotto due fondamentali innovazioni, successivamente (con la l. n. 40/2006) estese anche al settore privato, consistenti: a) nell’ammissibilità del ricorso in cassazione anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi e b) la risoluzione in via pregiudiziale delle questioni concernenti l’efficacia, la validità e l’interpretazione dei contratti collettivi. Quanto alle strutture dei due procedimenti non possiamo che rinviare a quanto abbiamo esposto in precedenza. Qui ed ora dobbiamo limitarci a porre in luce le specificità che caratterizzano l’ambito del contratto collettivo pubblico. Va anzitutto rilevato che, nel settore pubblico, viene dato maggiore spazio alle parti negoziali nel procedimento di interpretazione autentica del contratto. Infatti quando insorgano controversie sull’interpretazione dei contratti collettivi (si deve intendere sul piano stragiudiziale), le parti che li hanno sottoscritti si incontrano per definire consensualmente il significato delle clausole controverse. Ove sopraggiunga l’accordo, questo va

Le fonti

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validato con le usuali procedure negoziali e l’interpretazione autentica ha efficacia retroattiva, sostituendosi alla precedente sin dall’inizio della vigenza del contratto. Ove l’accordo non comporti oneri aggiuntivi e non vi sia divergenza sulla loro valutazione, il parere del Presidente del Consiglio dei Ministri è espresso tramite il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (quest’ultima attività concertativa è stata introdotta dalla riforma del 2009, per evidenti ragioni di controllo della spesa). Analoga previsione vale per l’incidente interpretativo che insorga all’interno del processo. In questo caso il giudice, con ordinanza non impugnabile, nella quale indica la questione da risolvere, fissa una nuova udienza di discussione non prima di centoventi giorni e dispone la comunicazione dell’ordinanza, del ricorso introduttivo e della memoria difensiva all’ARAN. Nei successivi trenta giorni l’ARAN convoca le organizzazioni sindacali firmatarie per verificare la possibilità di un accordo sull’interpretazione autentica del contratto o accordo collettivo, ovvero sulla modifica della clausola controversa. All’accordo sull’interpretazione autentica o sulla modifica della clausola si applicano le medesime regole già viste in precedenza. Il testo dell’accordo è trasmesso, a cura dell’ARAN, alla cancelleria del giudice procedente, la quale provvede a darne avviso alle parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Decorsi novanta giorni dalla comunicazione, in mancanza di accordo, la procedura si intende conclusa. Se non interviene l’accordo sull’interpretazione autentica o sulla modifica della clausola controversa, il giudice decide con sentenza sulla sola questione interpretativa e su tale decisione si apre il procedimento già descritto in relazione ai contratti collettivi del settore privato. Rilevante è comunque la previsione secondo cui, in pendenza del giudizio davanti alla Corte di cassazione, possono essere sospesi i processi la cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi. È un’ulteriore conferma

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Diritto sindacale

della funzione nomofilattica ed uniformatrice della pronuncia sull’interpretazione della clausola. Mette conto infine rilevare che l’ARAN e le organizzazioni sindacali firmatarie possono intervenire nel processo, anche oltre il termine previsto dall’art. 419 cod. proc. civ., e sono legittimate, a seguito dell’intervento, alla proposizione dei mezzi di impugnazione delle sentenze che decidono una questione interpretativa. Possono, anche se non intervenute, presentare memorie nel giudizio di merito ed in quello per cassazione.

L’autotutela e il conflitto collettivo

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CAPITOLO III

L’AUTOTUTELA E IL CONFLITTO COLLETTIVO

Sezione I. Concetti generali SOMMARIO: 1. Le alterne vicende giuridiche dello sciopero. – 2. La Costituzione repubblicana e lo sciopero. – 3. Il diritto di sciopero: natura e titolarità. – 4. Sciopero e rapporto di lavoro. – 5. La legittimità dello sciopero in relazione alle sue modalità. – 6. La legittimità dello sciopero in relazione alle sue finalità. – 7. L’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. – 8. La determinazione delle prestazioni indispensabili ad opera dei contratti collettivi. – 9. La Commissione di garanzia. – 10. La precettazione ed il ruolo delle associazioni degli utenti. – 11. Le altre forme di lotta sindacale. – 12. La serrata.

1. Le alterne vicende giuridiche dello sciopero L’espressione sciopero designa il rifiuto della prestazione da parte di chi vi è obbligato, con lo scopo di premere sulla controparte per ottenere condizioni più favorevoli. Allude all’idea di conflitto, di «ragion fattasi», ma non è il conflitto storicamente conosciuto come tumulto, sommossa, rivolta o, addirittura, rivoluzione. Ha un’accezione più ristretta che è – ancora una volta – legata a filo doppio all’industrialismo. Presuppone l’esistenza di una relazione giuridica caratterizzata dalla condizione di subordinazione del lavoratore e dall’in-

Fenomeno sociale e fenomeno giuridico

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La fase della espressione dello sciopero

Il codice Zanardelli e il periodo della tolleranza

Diritto sindacale

serimento all’interno di una organizzazione etero-diretta. La prestazione che viene rifiutata deve essere oggetto di un obbligo giuridico e non di un obbligo morale (pensiamo allo sciopero dalle prestazioni sessuali delle mogli ateniesi, raccontato nella Lisistrata di Aristofane). Ma lo sciopero non è solo un fenomeno giuridico interno ad una relazione contrattuale, ma ha, evidentemente, nella storia delle società industriali, un significato assai più ampio e profondo. Lo sciopero è stato al centro di visioni politiche ispirate al conflitto di classe, con varianti che da strumento di puro rivendicazionismo sindacale ne fanno l’epicentro di movimenti di emancipazione sociale (basti pensare alla traiettoria che va dal marxismo al sindacalismo rivoluzionario). Vedremo come la Costituzione repubblicana abbia in parte fatto propria una visione in cui lo sciopero è strumento privilegiato della sola classe lavoratrice, in una sequenza diretta alla rimozione degli ostacoli che l’art. 3, 2° comma immagina si parino davanti ai lavoratori. Ricostruiamo ora un breve profilo storico dell’atteggiamento dello stato nei confronti dello sciopero. Abbiamo già ricordato che i conflitti sociali che hanno fatto seguito all’industrialismo sono stati per lungo tempo oggetto di repressione da parte degli stati. In particolare il codice penale sardo del 1859 (esteso al resto del paese dopo l’unità, con l’eccezione della Toscana) incriminava penalmente ogni forma di coalizione sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, diretta a «sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa». Nella repressione penale vi era ovviamente l’eco dell’ideologia della rivoluzione francese, fondata sull’individualismo proprietario e sull’abbattimento di ogni vincolo alla libera circolazione dei beni (come avveniva in passato attraverso le corporazioni). Con il codice Zanardelli del 1889 si affermò invece un periodo di tolleranza penale. La repressione infatti si indirizzava, non alle forme di lotta sociale in sé (sciopero e serrata), ma alle eventuali violenze o minacce che vi fossero connesse e che fossero impeditive della libertà di lavoro (v. gli artt. 165-166). Pe-

L’autotutela e il conflitto collettivo

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raltro il superamento della repressione penale dello sciopero non impediva che esso costituisse un inadempimento contrattuale, restando quindi in vita la responsabilità contrattuale del lavoratore. In sostanza lo sciopero non era più un reato, ma non costituiva nemmeno un diritto, potendo qualificarsi come una mera libertà. Il conflitto collettivo – come del resto il fenomeno sindacale in genere – non furono peraltro mai oggetto di intervento normativo nel corso del primo ventennio del Novecento e fino all’avvento del fascismo. Come abbiamo ricordato a suo tempo il corporativismo autoritario introdotto dal fascismo si caratterizzò per la soppressione della libertà sindacale e – per quanto ora interessa – per la repressione penale dello sciopero e della serrata. Il codice penale Rocco del 1930 fece proprie le previsioni della 1. 3 aprile 1926, n. 563 ed introdusse agli articoli da 502 a 508 una serie di delitti «contro l’economia pubblica», in sostanza vietando tutte le fattispecie di sciopero e serrata, quale che fosse la loro finalità (per ragioni contrattuali o non contrattuali, di coazione alla pubblica autorità, di solidarietà, di protesta, il boicottaggio, il sabotaggio, ecc.). Inoltre agli artt. 330 e 333 vietò gli scioperi nell’ambito del lavoro pubblico, introducendo i reati di interruzione di pubblico servizio e di abbandono individuale di pubblico servizio, ufficio o lavoro (considerati reati «contro la pubblica amministrazione»). Caduto il fascismo, la soppressione delle istituzioni del corporativismo, sancita con il r.d.l. 9 agosto 1943, non si estese alle norme incriminatrici penali dello sciopero e della serrata contenute nel codice Rocco. Tale scelta legislativa ha comportato come conseguenza che, dopo l’entrata in vigore della carta costituzionale, è stata la Corte costituzionale a valutare – volta a volta – la permanente legittimità di tali norme rispetto al nuovo sistema che, come vedremo subito, ruota intorno all’idea che lo sciopero costituisce un diritto. Anzi si può forse dire che, nella latitanza del legislatore repubblicano (almeno fino alla l. n. 146/1990 in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali), la collocazione dello sciopero nell’ordinamento sia il frutto

Il corporativismo fascista e la repressione penale

Il dopoguerra

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Diritto sindacale

dell’intervento – se non creativo, certamente di supplenza – dei giudici della Consulta e di quelli ordinari.

2. La Costituzione repubblicana e lo sciopero Lo sciopero come diritto

L’art. 40 Cost. completa il disegno diretto a garantire la libertà sindacale, già prefigurato nell’art. 39, statuendo che «il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Lo sciopero viene dunque qualificato come un diritto, perdendo il connotato della mera libertà che aveva caratterizzato l’ordinamento dello stato liberale ed, a maggior ragione, superando l’idea, propria dello stato totalitario, che potesse costituire un reato. Le conseguenze giuridiche dell’affermazione costituzionale possono essere apprezzate in due direzioni. Da una parte essa vincola lo stato a non introdurre sanzioni penali nei confronti dello sciopero (fatte salve evidentemente situazioni eccezionali e residualissime). Dall’altra autorizza i lavoratori ad astenersi dalla prestazione, in occasione dello sciopero, senza subire conseguenze negative sul piano del rapporto di lavoro (a parte la trattenuta retributiva). A ciò si aggiunga che, a seguito dell’emanazione dello statuto dei lavoratori, la posizione dello sciopero nell’ordinamento è uscita ancor più rafforzata, dal momento che ogni forma di attentato datoriale al suo legittimo esercizio può costituire comportamento antisindacale, in quanto tale contestabile da parte delle organizzazioni sindacali attraverso il procedimento di cui all’art. 28 (su cui v. retro, Cap. I, Sez. VII). In buona sostanza l’eventuale sanzione disciplinare adottata dal datore di lavoro nei confronti di uno scioperante è doppiamente perseguibile: dal lavoratore in quanto illegittimo esercizio del potere disciplinare e dalle organizzazioni sindacali quale attentato alla libertà sindacale nell’impresa. Il riconoscimento dello sciopero come diritto, oltre ad essere legata a doppio filo, come abbiamo detto, alla tutela costituzionale della libertà sindacale, aspira, nella prospettiva dei pa-

L’autotutela e il conflitto collettivo

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dri costituenti, ad una missione più alta. Nel complessivo disegno della Costituzione vi è un’idea di riscatto delle classi sociali svantaggiate attraverso una serie di strumenti di riequilibrio dei poteri di fatto che ne impediscono l’elevazione e divengono fattori di diseguaglianza. In questa logica lo sciopero si colloca fra gli strumenti prefigurati dalla seconda parte dell’art. 3 Cost., che impegna la repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono … l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Come si vede il principio di eguaglianza sostanziale non prende come generico punto di riferimento i «cittadini», ma attribuisce proprio ai lavoratori un ruolo privilegiato nella partecipazione al governo della società. La norma, all’un tempo, prende atto di uno svantaggio e si preoccupa di porvi rimedio, pungolando l’attività legislativa. Lo sciopero, in questo quadro, diviene uno strumento privilegiato in funzione di riequilibrio delle diseguaglianze di fatto, non solo sul piano del rapporto di lavoro, ma anche sul piano più generale dei rapporti socio-politici (si pensi agli scioperi di protesta o politici tout court). All’obiezione secondo cui ai soli lavoratori dipendenti viene concessa un’arma ulteriore rispetto ai restanti cittadini, si usa tradizionalmente rispondere che tale privilegio costituisce la logica inferenza della posizione di minorità e svantaggio in cui si colloca la classe lavoratrice. Tocchiamo con l’art. 40 il cuore dello stato socialmente impegnato, modello statuale che si afferma in Europa (almeno in quella al di qua della cortina di ferro) nel secondo dopoguerra e prende il posto dello stato liberale, in cui il governo dei rapporti economici è lasciato alla libera regolazione del mercato, senza interventi esterni. Costituisce una logica conseguenza del descritto assetto che la serrata, cioè lo strumento di lotta sindacale dei datori di lavoro (consistente nel «serrare», cioè chiudere la fabbrica per impedire lo svolgimento della prestazione di lavoro), non venga presa in considerazione dalla carta costituzionale. Essa quindi, nel nostro ordinamento, va considerata una mera libertà, as-

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Lo sciopero e l’ordinamento europeo

Diritto sindacale

sumendo quella posizione che aveva lo sciopero nell’ambito dello stato liberale. L’art. 40 peraltro rinvia alla legge la regolazione dei limiti del diritto di sciopero. Peraltro il legislatore nel sessantennio post-costituzionale si è astenuto dall’intervenire in materia, fatta esclusione per la l. n. 146/1990, che regola l’esercizio dello sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. La definizione di tale diritto e, soprattutto, dei suoi limiti di esercizio è il frutto dell’opera di supplenza della giurisprudenza (ordinaria e costituzionale) che si è fatta carico di circoscriverlo e stabilirne la regolamentazione di confini rispetto all’iniziativa economica privata. Sulla questione – evidentemente centrale – torneremo più avanti. Le basi fondanti del diritto possono comunque farsi risalire già alla sent. n. 29/1960 della Corte costituzionale che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 502 cod. pen. (sciopero per fini contrattuali), fissò alcuni principi di grande rilievo. In primo luogo la Corte si pronuncio per l’immediata precettività della norma costituzionale, rintuzzando l’idea che essa costituisse un semplice programma per il futuro legislatore, secondo l’equazione per cui in assenza di una legge regolativa lo sciopero non si sarebbe potuto esercitare. Inoltre la medesima segnalò lo stretto collegamento esistente fra gli artt. 39 e 40 Cost., in funzione di garanzia a tutto tondo della libertà di azione sindacale, in contrapposizione al sistema corporativo nel cui ambito il reato di sciopero era il simmetrico contraltare della repressione della libertà organizzativa del sindacato. Semmai una revisione delle idee correnti ed ormai ampiamente acquisite nel nostro ordinamento potrebbe venire dall’ordinamento europeo che – nella logica di una nuova riaffermazione della libera circolazione di merci e uomini – ripropone la contrapposizione fra sciopero e libertà economiche (di concorrenza, di stabilimento, ecc.). Ne costituiscono una spia inquietante alcune recenti prese di posizione della Corte di Giustizia dell’UE, da noi oggetto di discussioni molto accese, che hanno riaffermato la prevalenza della libertà d’impresa sul diritto di

L’autotutela e il conflitto collettivo

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sciopero. Nel caso deciso con la sentenza Viking Line (C-438/05, 11 dicembre 2007) è stato giudicato illegittimo lo sciopero indetto dalle organizzazioni sindacali finlandesi per protestare contro la decisione di una compagnia di traghetti finlandesi di battere bandiera dell’Estonia, allo scopo di applicare ai propri dipendenti i trattamenti meno favorevoli dei lavoratori estoni.

3. Il diritto di sciopero: natura e titolarità Una teoria risalente, diffusa all’indomani della Costituzione e che si deve a F. Santoro Passarelli, qualifica lo sciopero come diritto potestativo. Essa si colloca all’interno di una concezione privatistica dello sciopero che guarda fondamentalmente agli effetti di questo sul rapporto di lavoro e ne circoscrive l’ambito di incidenza. Si tratta di un’affermazione che implica una restrizione nello spettro di rilevanza dello sciopero: sarà legittimo solo lo sciopero che si rivolga nei confronti del datore di lavoro, sospendendo l’adempimento delle obbligazioni convenute nel contratto individuale di lavoro. Per converso diverrebbero automaticamente illegittime tutte le forme di sciopero che non abbiano come destinatario quest’ultimo (politico, di solidarietà, ecc.). In buona sostanza secondo questa ricostruzione ciò che conta, ai fini della legittimità dello sciopero, è che la pretesa fatta valere rientri nella disponibilità del datore di lavoro, nel senso che quest’ultimo possa darvi corso con il suo comportamento (ad es. la richiesta di un aumento contrattuale). Le rivendicazioni estranee a tale disponibilità renderebbero, per ciò solo, illegittimo lo sciopero, ricadendo al di fuori della fattispecie protetta dalla norma costituzionale e costituendo un inadempimento contrattuale. Altre ricostruzioni, maggiormente aderenti all’impianto complessivo della carta costituzionale, lo hanno qualificato come diritto assoluto della persona, valorizzando il nesso di collegamento, già rilevato, fra principio di eguaglianza sostanziale, protezione della libertà sindacale e sciopero (Mengoni). Tutto sommato la prospettazione ricostruttiva maggiormen-

La natura del diritto di sciopero

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La titolarità del diritto di sciopero

Diritto sindacale

te aperta e più aderente al fenomeno sociale è quella che qualifica lo sciopero come fatto giuridico (Scognamiglio), recuperando in tal modo una indispensabile dimensione di effettività. Lo sciopero è in effetti un’entità giuridicamente non definibile secondo criteri astratti e pre-confezionati, ma risente del mutevole assetto dei rapporti sociali. Qualificarlo come fatto costituisce il miglior modo per lasciare aperto il flusso regolativo e l’osmosi reciproca fra dato sociale e dato giuridico. Una interessante applicazione di quest’idea – oltre che sul terreno della individuazione dei limiti dello sciopero, come vedremo – la si ha a proposito del problema della titolarità del diritto di sciopero. La vulgata tradizionale vuole che la titolarità appartenga al lavoratore singolo, anche se il suo esercizio deve essere collettivo. Peraltro quest’ultima affermazione è attenuata dalla considerazione secondo cui, in ipotesi, anche lo sciopero attuato da un solo lavoratore potrebbe in astratto essere considerato legittimo. In sostanza l’esercizio collettivo è solo una indicazione tendenziale, che descrive il fenomeno secondo criteri di normalità, non certo una rigida condizione vincolante. Se si dovessero applicare in modo meccanicistico le idee appena descritte si dovrebbe ritenere che costituisce legittimo esercizio del diritto di sciopero l’astensione di un singolo lavoratore, a titolo di protesta individuale, del tutto svincolata da un contesto rivendicativo (tendenzialmente) collettivo. Posto che così non può essere, l’idea che lo sciopero costituisca un fatto giuridico ci consente di recuperare la dimensione sociale del fenomeno. Lo sciopero (tranne la rara situazione degli scioperi improvvisi, che comunque costituiscono normalmente la reazione ad eventi particolarmente traumatici: si pensi allo sciopero improvvisato spontaneamente in occasione di un grave infortunio sul lavoro) non è un fenomeno che germina sul terreno sociale in modo solipsistico, ma si inserisce necessariamente all’interno di un quadro di lotta rivendicativa, normalmente guidata dalle organizzazioni sindacali. La sua attivazione presuppone usualmente che siano state avanzate delle proposte rivendicative, che su di esse si siano aperte trattative

L’autotutela e il conflitto collettivo

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fra le parti e che, nel corso delle trattative, i sindacati abbiano inteso avvalersi, come arma di pressione, del ricorso allo sciopero. Il che implica ulteriormente il passaggio attraverso una serie di fasi, alcune interne all’associazione sindacale (decisione del ricorso allo sciopero nell’ambito degli organi direttivi delle associazioni), altre esterne (confronto con le assemblee dei lavoratori), fino alla pubblicizzazione della proclamazione dello sciopero con l’indicazione delle sue modalità (giorni, ore, ecc.) ed infine alla sua effettuazione. Orbene, se questa è la sequenza social-tipica che caratterizza lo sciopero, è più che evidente che è abbastanza riduttivo ragionare di una titolarità puramente individuale. Più corretto è assumere che il fatto-sciopero sia qualificabile come tale – e come tale ricondotto alla dimensione di un diritto del singolo lavoratore – in quanto esso si inserisca in un procedimento in cui (in modo più o meno ampio, a seconda delle circostanze) sia riconoscibile la sequenza rivendicativa appena descritta, sia pure ridotta allo stato embrionale. Altra e diversa questione è se si possa invece ricondurre la titolarità dello sciopero direttamente in capo all’associazione sindacale (e non al singolo lavoratore). Si tratta di un’idea che, respinta definitivamente a partire dagli anni settanta del Novecento, si ripropone ciclicamente, con lo scopo di limitare il ricorso spontaneistico a forme di lotta fuori dal controllo sindacale. Sennonché vi è da dire che il nostro ordinamento non autorizza tale conclusione. La titolarità individuale dello sciopero costituisce infatti, nell’ambito costituzionale, non solo un baluardo a difesa della posizione del singolo lavoratore, ma anche un modo per fornire strumenti di autotutela anche alle organizzazioni sindacali minoritarie. Quanto infine ai soggetti titolari del diritto di sciopero il continuum posto in luce fra principio di eguaglianza sostanziale, tutela della libertà sindacale e tecniche di autotutela ne fanno strumento privilegiato della categoria dei lavoratori subordinati. Ciononostante la giurisprudenza ha, nel tempo, esteso la titolarità dello sciopero anche a favore di altri soggetti collocati in una analoga posizione di sottoprotezione sociale.

I lavoratori titolari del diritto di sciopero

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Diritto sindacale

Una prima presa di posizione si deve alla Corte costituzionale, con la sent. n. 222/1975. La sentenza si pronunciò sulla legittimità del reato di serrata di protesta degli esercenti piccole industrie e commerci, cioè dei piccolissimi imprenditori privi di personale alle proprie dipendenze (art. 506 cod. pen.). La Corte ritenne incostituzionale la norma penale, argomentando dalla circostanza che la serrata di tali soggetti, non potendo rivolgersi nei confronti dei lavoratori, avrebbe dovuto ricevere la medesima protezione costituzionale garantita allo sciopero, quale strumento di riequilibrio a favore di soggetti che, vivendo del proprio lavoro, non possono essere qualificati come datori di lavoro. Una ulteriore estensione della titolarità dello sciopero al di fuori dell’area della subordinazione è venuta dalla giurisprudenza della Cassazione che (a partire dalla fine degli anni settanta) l’ha riconosciuta a favore dei lavoratori parasubordinati (il cui prototipo è previsto dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ.): all’epoca si trattava dei medici convenzionati con il servizio sanitario nazionale. La giurisprudenza successiva si è peraltro rifiutata di procedere ad ulteriori allargamenti della titolarità dello sciopero: essa è stata così negata ai piccoli imprenditori con uno o due dipendenti (v. Corte cost. n. 53/1986). Alla stessa stregua si è esclusa l’estensione della tutela costituzionale di cui all’art. 40 all’astensione dalle udienze degli avvocati, anche se il fenomeno è stato ricondotto alla libertà associativa tutelata dall’art. 18 Cost. (in argomento v. comunque quanto si dirà nell’ambito della trattazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali).

4. Sciopero e rapporto di lavoro Sciopero e retribuzione

Lo sciopero costituisce sì una legittima sospensione del rapporto di lavoro, cui il datore non può reagire con alcun tipo di ritorsione, ma si realizza, al tempo stesso, attraverso un rifiuto della prestazione dovuta ex contractu. Ne deriva che in conseguenza dell’astensione il lavoratore perde la retribuzione, in ra-

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gione della corrispettività delle prestazioni che caratterizza i contratti cosiddetti sinallagmatici. Questa affermazione fondamentale va meglio precisata in relazione alla complessità dell’istituto retributivo ed ai caratteri dell’obbligazione di lavoro. Non a caso sulla questione si è stratificato un articolato dibattito giurisprudenziale, del quale possiamo qui riferire solo per sommi capi. In primo luogo la giurisprudenza ritiene che l’effetto della sospensione della retribuzione si estende anche agli elementi accessori e/o differiti della medesima (tredicesima mensilità, le eventuali ulteriori mensilità aggiuntive, ecc.), che devono essere ridotti in misura proporzionale alle giornate di sciopero, salvo che sia diversamente disposto dalla contrattazione collettiva. Un discorso analogo vale per le ferie, anch’esse ridotte proporzionalmente alla durata dello sciopero. Non dissimile è il trattamento delle giornate di festività infrasettimanale, con la precisazione, peraltro che la perdita della retribuzione non può estendersi alla retribuzione del giorno di riposo compensativo fissato dal datore di lavoro in altro giorno non festivo della settimana. Quanto alla malattia sembra invece prevalere l’opinione contraria alla decurtazione. In questo caso si assume che la posizione del lavoratore assente per malattia riceva una speciale protezione dall’ordinamento (art. 2110 cod. civ.), tale da prevalere su altre ragioni di assenza dal lavoro. A ciò si aggiunga – nella medesima prospettiva – che, sul piano del singolo rapporto di lavoro sospeso per malattia, non possono incidere altre e diverse ragioni di impossibilità che riguardano la posizione degli altri dipendenti dell’impresa che sono in sciopero. Diversa e più complessa è la questione degli effetti degli scioperi di durata inferiore alla giornata sul trattamento retributivo. Il problema si interseca con quello – che tratteremo a proposito delle cosiddette forme anomale di sciopero – della proficuità della prestazione offerta dal lavoratore. In pratica se la (parziale) prestazione offerta è proficuamente utilizzabile dal datore, la trattenuta retributiva sarà limitata alle ore di scio-

Sciopero e sospensione del rapporto

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pero; in caso contrario (non proficuità della prestazione) la trattenuta coprirà l’intera giornata. Infine ricordiamo che, per giurisprudenza consolidata, la sospensione del rapporto per sciopero non incide sull’esercizio dei diritti sindacali. Ciò vale in particolare in relazione al diritto di assemblea, che può essere liberamente esercitato anche da parte dei lavoratori scioperanti.

5. La legittimità dello sciopero in relazione alle sue modalità Legittimità e liceità dello sciopero

Le affermazioni secondo cui un determinato sciopero «è legittimo» o «è illegittimo» sono cariche di una ambiguità che è bene qui dissipare in via preliminare. Occorre anzitutto distinguere il piano sul quale dovrebbe collocarsi tale «illegittimità». Lo sciopero infatti può essere valutato in relazione alle modalità con le quali viene effettuato (a scacchiera, a singhiozzo, articolato, ecc.) ovvero alle finalità che intende perseguire (economico-professionale, di solidarietà, politico, ecc.). Nel primo caso ragioniamo di una illegittimità che accede alle sue forme di esercizio e ci chiediamo se tali forme siano conformi al dettato costituzionale che rinvia alla legge la determinazione dei suoi limiti. Nel secondo ci chiediamo se rientrino nella nozione di sciopero protetta dall’art. 40 Cost., ad es., astensioni dal lavoro che rivendichino una pretesa che non entra nella disponibilità del datore di lavoro. Ancora la legittimità dello sciopero può essere predicata avendo riguardo alle conseguenze dell’astensione dal lavoro sul rapporto di lavoro, quindi sul piano civilistico, ovvero alla possibilità che quella specifica forma di sciopero ricada (ancora) entro un ambito di rilevanza penale (come in parte avviene, come vedremo, per lo sciopero politico). Nel primo caso dovremmo continuare a riferirci al prototipo della «illegittimità», laddove nel secondo sarebbe forse maggiormente preciso il richiamo alla categoria della «illiceità». Sarà quindi necessario, nel corso della trattazione che segue,

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di volta in volta precisare l’ambito in cui va apprezzata la conformità dello sciopero alla fattispecie tipica. Ciò posto, in relazione alle modalità del suo esercizio, possiamo distinguere lo sciopero come astensione totale e continuativa dal lavoro per una determinata frazione di tempo (lo sciopero proclamato per un’intera giornata di lavoro da tutti i dipendenti dell’impresa) da forme diverse di articolazione dell’astensione, che, per distinguerle dalla prima, vengono tradizionalmente definite anomale. Per ricordare le più diffuse specie di sciopero articolato evochiamo lo sciopero a singhiozzo, che consiste in un’astensione frazionata nel tempo ad intervalli più o meno regolari e lo sciopero a scacchiera, in cui i reparti dell’impresa scioperano alternativamente. Si tratta di tecniche di astensione che incidono in modo assai più pregnante sull’organizzazione produttiva dell’impresa e che si prestano ad amplificare il danno subito da quest’ultima in conseguenza dello sciopero. Come abbiamo ricordato l’assenza di una legge regolativa ha caricato la giurisprudenza della responsabilità di rinvenire i limiti di tali forme di astensione dal lavoro. Sul punto va detto subito che la giurisprudenza, almeno nel primo ventennio successivo all’entrata in vigore della Costituzione, è stata molto severa nei confronti di tali forme di lotta, subendo le rampogne di una parte dell’opinione giuridica, che vi ha ravveduto una singolare insensibilità nei confronti dei fenomeni collettivi (contrapposta all’apertura «paternalistica» in materia retributiva). È presumibile che si tratti di una critica ingenerosa: l’insensibilità verso i fenomeni collettivi è probabilmente da valutarsi alla luce della biografia e della formazione culturale dei giudici del primo ventennio post-costituzionale, appartenenti ad una generazione cresciuta all’interno di un regime, a dir poco, diffidente verso le forme di autotutela collettiva. Non a caso, come vedremo, a partire dagli anni settanta si affermerà un ben diverso atteggiamento interpretativo. Come che sia nei due decenni successivi alla costituzione prevale l’idea che per sciopero debba intendersi l’astensione collettiva e continuativa dal lavoro di tutti i dipendenti dell’impresa.

Le cosiddette forme anomale di sciopero

La cosiddetta tecnica definitoria

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La teorica del c.d. danno ingiusto e la sent. n. 711/1980 della Cassazione

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Ne deriva che vengono considerate illegittime tutte le forme di sciopero le cui caratteristiche si distacchino dal prototipo. A fronte di tale valutazione è stato relativamente semplice contrapporre che essa si basava su di una visione preconfezionata di sciopero. Veniva cioè utilizzata una tecnica definitoria sostanzialmente creata dalla giurisprudenza e non fondata su alcun riscontro positivo. Per contro – accedendo alla qualificazione dello sciopero come fatto giuridico – poteva recuperarsi l’idea che gli elementi di valutazione dello sciopero dovessero essere dedotti dalla stessa realtà effettuale. La nozione di sciopero è in pratica quella che può ritrarsi dalla realtà effettuale per come essa si realizza in concreto, una nozione che può e deve adattarsi alla dinamica mutevolezza dei fenomeni sociali. Un ulteriore ostacolo rispetto alla valutazione di legittimità dello sciopero articolato è venuto da quella corrente di pensiero che ha attribuito a tale forma di astensione collettiva la responsabilità di causare al datore di lavoro un danno ingiusto ed ulteriore rispetto a quello causato dallo sciopero-standard. La prospettiva ragiona assumendo che lo sciopero debba causare un danno proporzionato al sacrificio imposto al lavoratore con la perdita della retribuzione. Gli scioperi articolati, viceversa, romperebbero questo equilibrio – definito corrispettività dei sacrifici – ed infliggerebbero al datore un danno supplementare, in quanto tale illegittimo. Anche tale linea di pensiero è stata smentita dalla giurisprudenza a partire dagli anni ottanta, sulla base del presupposto secondo cui la causazione di un danno costituisce un effetto caratteristico dello sciopero, senza che possa distinguersi in concreto l’entità delle conseguenze dannose, comunque ricomprese nel fenomeno sociale. Del resto ai lavoratori scioperanti non possono essere imposti gli obblighi di correttezza e buona fede, che accedono al momento esecutivo della prestazione e non si estendono alla fase di sciopero, durante la quale il rapporto di lavoro è giuridicamente sospeso. Semmai sugli scioperanti può incombere esclusivamente il generico neminem laedere, caratteristico della responsabilità extra-contrattuale e che comporta che la loro manifestazione sia

L’autotutela e il conflitto collettivo

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tale da non ledere l’interesse del datore alla conservazione dell’organizzazione materiale dell’impresa, al momento della ripresa dell’attività produttiva. Un punto di svolta nella giurisprudenza della Cassazione è costituito dalla sent. n. 711/1980 che ha fatto proprie le idee appena descritte in materia di irrilevanza dell’entità del danno. La Corte in tale importante decisione ha segnalato che lo sciopero non ha altri limiti, se non quelli che si rinvengono in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quanto meno paritario, quali il diritto alla vita e all’incolumità personale, nonché la libertà dell’iniziativa economica. La medesima ha inoltre distinto – ai fini di una valutazione di legittimità dello sciopero – fra danno alla produzione e danno alla produttività. Con il primo viene messa in discussione semplicemente la possibilità di ricavare dalla produzione un risultato utile, con il secondo viene invece inibita la potenzialità produttiva dell’impresa: di qui la legittimità della prima forma di sciopero e l’illegittimità della seconda. Si tratta di una svolta giurisprudenziale di grande rilievo, a misura che respinge l’idea di una possibile distinzione quantitativa fra i danni, in astratto, arrecabili a seguito di uno sciopero articolato, ripiegando sull’individuazione di una diversa qualità delle conseguenze dannose. Inutile aggiungere peraltro che, al di là della condivisibile opzione di principio, si tratta comunque di un criterio di non facile gestione in concreto. È nel quadro di idee appena descritto che va valutato il problema degli effetti degli scioperi articolati sui rapporti di lavoro degli scioperanti nonché dei lavoratori non scioperanti la cui prestazione sia in qualche modo collegata a quella degli scioperanti. Un primo problema è quello che riguarda gli scioperi a singhiozzo, nel caso in cui si susseguano prestazioni ed astensioni in sequenza molto cadenzata: ad es. un quarto d’ora di sciopero, seguito da un quarto d’ora di lavoro, nell’arco di una intera giornata o di un intero turno. Il quesito che si pone in questi casi è se sia retribuibile la prestazione resa negli intervalli lavorati.

Gli effetti dello sciopero articolato sul rapporto di lavoro

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Lo sciopero negli impianti a ciclo continuo

Diritto sindacale

Un ulteriore problema è quello che si pone con riferimento alla permanenza del diritto alla retribuzione per i lavoratori non scioperanti, in caso di sciopero articolato: pensiamo alla classica situazione di sciopero da parte dei lavoratori dell’impianto a monte e di presenza al lavoro dei dipendenti dell’impianto a valle. In ambedue i casi la giurisprudenza tende ad utilizzare il canone della proficuità della prestazione offerta, per sceverare la permanenza dell’obbligo retributivo. In pratica – semplificando al massimo – se la prestazione offerta dai lavoratori nell’intervallo fra due fasi di uno sciopero a singhiozzo ovvero quella offerta dai lavoratori non scioperanti dell’impianto a valle rispetto a quello in cui si effettua l’astensione sono utilizzabili dal datore i lavoratori hanno diritto alla controprestazione retributiva, in caso contrario non vi avranno diritto. Infine un cenno va operato alle forme di esercizio dello sciopero negli impianti a ciclo continuo. Si tratta di quegli impianti che (come gli altiforni nell’industria siderurgica) la cui attività non può mai essere interrotta, per ragioni di sicurezza o per ragioni produttive (ad es. l’altoforno richiede, dopo lo spegnimento, tempi lunghissimi – nell’ordine di vari mesi – per la ripartenza). Rispetto a tali peculiari forme di organizzazione della produzione spesso la contrattazione collettiva prevede il ricorso all’istituto della comandata, che consiste nell’imporre ad un certo numero di lavoratori di astenersi dallo sciopero rimanendo a presidio degli impianti. In assenza di previsioni negoziali si riconosce usualmente al datore di lavoro il potere di imporre unilateralmente le misure di cautela necessarie allo scopo.

6. La legittimità dello sciopero in relazione alle sue finalità Lo sciopero può esercitarsi da parte dei lavoratori per raggiungere le più diverse finalità. Lo sciopero che maggiormente risponde ad una visione del fenomeno come mezzo di lotta diretto ad ottenere migliore con-

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dizioni di lavoro è quello che si usa definire economico-professionale. I lavoratori possono peraltro prefiggersi finalità che esulano da una rivendicazione immediatamente riconducibile alla loro posizione economica; può accadere cioè che essi scioperino a sostegno della lotta di altri lavoratori, occupati in altre imprese o in settori produttivi diversi: è questo lo sciopero di solidarietà. Ancora. Le finalità dello sciopero possono essere ancora più ampie, intendendo i promotori esercitare una pressione non sulla controparte datoriale ma sulle istituzioni (il governo, il parlamento), al fine di rivendicare l’adozione di determinate misure legislative o per opporsi alla loro emanazione. In questo caso si parla di sciopero politico, fenomeno che può, sua volta, ulteriormente distinguersi in sciopero economico-politico, nel caso in cui le rivendicazioni – si pure indirettamente – tocchino gli interessi economici dei lavoratori e sciopero puramente politico quando si rivolgano contro decisioni che riguardano il governo generale del paese (ad es: la stipulazione di trattato internazionale, un intervento militare, ecc.). Ciò posto occorre soggiungere che, in linea di massima, le finalità dello sciopero dovrebbero rimanere estranee ad un suo possibile vaglio di legittimità. Sulla materia peraltro vanno segnalati alcuni interventi della Corte costituzionale che è stata indotta a pronunciarsi sulle norme incriminatrici penali dello sciopero (artt. 502 e ss.) che, al fine di graduare le pene, distinguevano fra le varie forme di sciopero in relazione alle loro finalità. Abbiamo già ricordato, pagine addietro, la sent. Corte cost. n. 29/1960 che si pronunciò (e non poteva fare altrimenti) per l’illegittimità costituzionale dell’art. 502 cod. pen., che sanzionava lo sciopero per fini contrattuali. Più interessanti sono le indicazioni che vengono da altre pronunce della Corte. Ciò vale anzitutto per la sent. n. 123/1962 che dichiarò l’illegittimità costituzionale (parziale) dell’art. 505 cod. pen., che incriminava lo sciopero di solidarietà. In tale decisione la Corte ritenne di circoscrivere la legittimità dello sciopero a quelle sole situazioni in cui vi fosse una qualche connessione o affinità fra

Lo sciopero di solidarietà

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Lo sciopero politico

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gli interessi degli scioperanti e quelli della categoria con la quale avevano solidarizzato. Successivamente, con la sent. n. 290/1974, i giudici della Consulta hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 503 cod. pen. che incriminava lo sciopero politico (sciopero per fini non contrattuali), con un importante distinguo. Per la Corte resta perseguibile penalmente lo sciopero diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il regolare funzionamento delle istituzioni democratiche. Si tratta di due ipotesi profondamente diverse: mentre la prima, alludendo a scioperi per così dire rivoluzionari, è di difficile verificabilità, la seconda può prestarsi ed interpretazioni particolarmente incerte, ove intendesse limitare le legittime forme di manifestazione collettiva del dissenso rispetto agli organi istituzionali, in quanto tali tutelate dalla libertà di manifestazione del pensiero. Resta comunque acquisito che, rispetto allo sciopero politico, può parlarsi di un’area di protezione in quanto diritto ed una più ristretta e residuale area di mera libertà. Le ricadute giuridiche della sentenza comportano che, nella sfera di residua rilevanza penale, lo sciopero politico non possa in astratto qualificarsi come diritto, con la conseguenza che il datore ben potrebbe procedere disciplinarmente nei confronti degli scioperanti. Anche tale conclusione – rigorosa dal punto di vista giuridico-formale – è di difficile coordinamento con il sistema. Ciò vale in particolare per l’art. 28 dello statuto dei lavoratori che ci invita a vagliare non solo la legittimità astratta dei comportamenti datoriali, ma anche la loro concreta antisindacalità. In sostanza e per dirla in chiaro: come si potrà negare la natura antisindacale della reazione del datore di lavoro che licenzia un lavoratore che ha partecipato ad uno sciopero politico? Con una successiva sentenza (la n. 165/1983) la Corte costituzionale ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 504 cod. pen. nella parte in cui punisce lo sciopero che ha lo scopo di costringere l’autorità a dare o ad omettere un provvedimento o lo scopo di influire sulle deliberazioni di essa, estendendo a tale sciopero i medesimi limiti riguardanti lo sciopero

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politico (il sovvertimento dell’ordinamento costituzionale o la limitazione del libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare).

7. L’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali Come abbiamo già accennato, se si escludono interventi destinati a particolari categorie di lavoratori, occupati in settori nevralgici (addetti agli impianti nucleari: d.p.r. n. 185/1964; controllori di volo: l. n. 242/1980; militari e personale di polizia) l’unico intervento legislativo in materia di limiti all’esercizio del diritto di sciopero è da ricondurre alla l. 12 giugno 1990, n. 146 nel settore dei servizi pubblici essenziali (modificata ed integrata con la l. n. 83/2000). La necessità dell’intervento legislativo è scaturita dalla ovvia constatazione secondo cui nell’ambito del settore nevralgico dei servizi essenziali (la scuola, la sanità, i trasporti, ecc.) alla normale dialettica sindacale fra le parti del rapporto di lavoro si aggiunge e sovrappone la presenza degli utenti, i destinatari dei servizi, che, insieme alle imprese, subiscono le conseguenze sfavorevoli dell’astensione dal lavoro. E l’impellenza della regolamentazione è stata imposta dal crescente spostamento del fulcro del conflitto collettivo dal tradizionale settore industriale a quello dei servizi, a sua volta conseguenza della c.d. terziarizzazione dell’economia. Prima del ’90 la materia era regolata dagli artt. 330 e 333 cod. pen. (ora abrogati dalla legge del ’90) che prefiguravano i reati di abbandono collettivo ed abbandono individuale di un pubblico servizio, norme che erano state oggetto di interventi correttivi della Corte costituzionale, che aveva cercato di riadattarne il contenuto al sistema post-costituzionale. Nel corso degli anni ottanta, anche allo scopo di evitare o procrastinare l’intervento della legge, richiesta da più parti allo scopo di salvaguardare i diritti degli utenti, le associazioni sindacali elaborarono dei codici di autoregolamentazione, che peral-

I precedenti

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La l. n. 146/1990

I servizi pubblici essenziali

Diritto sindacale

tro si dimostrarono di scarsa effettività, perché lasciavano mano libera alle organizzazioni dissenzienti, che erano spesso le più combattive. Si giunse così – con il sostanziale consenso del sindacalismo confederale – all’emanazione della l. n. 146/1990. È bene fugare subito l’impressione che la legge sottoponga a divieti l’esercizio dello sciopero nell’ambito dei servizi essenziali. Essa utilizza piuttosto una tecnica diretta a stimolare una regolamentazione proveniente dalle stesse parti in conflitto, fornendo una cornice al cui interno tali regole devono essere collocate ed introducendo una sorta di arbitro della congruità delle regole a raggiungere il fine proposto e della loro corretta amministrazione (la Commissione di garanzia). Andando con ordine, la legge si propone di «contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati». In questa chiave delinea anzitutto la nozione di servizi pubblici essenziali (art. 1, 1° comma), che sono quelli diretti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione. Allo scopo la legge (art. 1, 2° comma) contiene un lungo elenco di servizi, raggruppati in relazione ai diritti tutelati, che deve però considerarsi aperto anche all’estensione a nuove situazioni sociali meritevoli di considerazione. Vengono richiamati: a) per ciò che concerne la tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona, dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico: la sanità; l’igiene pubblica; la protezione civile; la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali, tossici e nocivi; le dogane, limitatamente al controllo su animali e su merci deperibili; l’approvvigionamento di energie, prodotti energetici, risorse naturali e beni di prima necessità, nonché la gestione e la manutenzione dei relativi impianti, limitatamente a quanto attiene alla sicurezza degli stessi; l’ammini-

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strazione della giustizia, con particolare riferimento a provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione; i servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali; l’apertura al pubblico di musei e luoghi della cultura (si tratta, quanto a quest’ultima, di una previsione aggiunta dal d.l. 20 settembre 2015 n. 146, in seguito alle polemiche per la chiusura del Colosseo a causa di un’assemblea sindacale); b) quanto alla tutela della libertà di circolazione: i trasporti pubblici urbani ed extraurbani autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e quelli marittimi limitatamente al collegamento con le isole; c) quanto all’assistenza e la previdenza sociale, nonché gli emolumenti retributivi o comunque quanto economicamente necessario al soddisfacimento delle necessità della vita attinenti a diritti della persona costituzionalmente garantiti: i servizi di erogazione dei relativi importi anche effettuati a mezzo del servizio bancario; d) quanto all’istruzione: l’istruzione pubblica, con particolare riferimento all’esigenza di assicurare la continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami, e l’istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di istruzione; e) per quanto riguarda la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e l’informazione radiotelevisiva pubblica. Negli ambiti descritti il diritto di sciopero può essere esercitato nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità di protezione del contenuto essenziale dei diritti individuati. Allo scopo vi è una scansione procedurale che risulta dall’intreccio fra previsioni dirette della legge (poche) e regolamentazione affidata alle parti sociali (la massima parte). La legge impone anzitutto alla contrattazione collettiva di prevedere procedure di raffreddamento e di conciliazione, obbligatorie per entrambe le parti, da esperire prima della procla-

Le procedure di raffreddamento

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Il preavviso e la comunicazione scritta della proclamazione

La revoca e l’effettoannuncio

Diritto sindacale

mazione dello sciopero. Nel caso in cui non intendano adottare le procedure previste da accordi o contratti collettivi, le parti possono richiedere che il tentativo preventivo di conciliazione si svolga presso la prefettura o presso il comune nel caso di scioperi nei servizi pubblici di competenza dello stesso e salvo il caso in cui l’amministrazione comunale sia parte, se lo sciopero ha rilievo locale, e presso il Ministero del lavoro, se lo sciopero ha rilievo nazionale. In sostanza una prima misura di contenimento degli effetti del conflitto sta nell’imporre alle parti un momento di ripensamento, diretto alla composizione della controversia per scongiurare il ricorso allo sciopero, che viene considerato un estremo rimedio. Esperite le procedure di raffreddamento e/o conciliazione i soggetti sindacali possono proclamare lo sciopero, ma sono onerati del rispetto di un preavviso minimo di dieci giorni nonché dell’obbligo di comunicare per iscritto, nel termine di preavviso, la durata, le modalità di attuazione e le motivazioni, dell’astensione collettiva dal lavoro. La comunicazione deve essere data sia alle amministrazioni o imprese che erogano il servizio, sia all’apposito ufficio costituito presso l’autorità competente ad adottare l’ordinanza di precettazione (di cui si dirà più oltre). La funzione del preavviso è quella di consentire alle amministrazioni o imprese erogatrici di predisporre le misure indispensabili, che devono necessariamente garantire e di comunicare – almeno cinque giorni prima dello sciopero – agli utenti l’elenco dei servizi garantiti, risultanti dagli accordi fra le parti nonché la pronta riattivazione del servizio, quando l’astensione dal lavoro sia terminata. Pure rilevante è la previsione secondo cui, salvo che sia intervenuto un accordo tra le parti ovvero vi sia stata una richiesta da parte della Commissione di garanzia o che sia stata imposta dall’autorità competente ad emanare l’ordinanza di precettazione, la revoca spontanea dello sciopero proclamato, dopo che è stata data informazione agli utenti del servizio, costituisce una «forma sleale di azione sindacale» e viene valutata dalla Commissione di garanzia ai fini dell’irrogazione delle sanzioni previste dalla legge. Viene qui in evidenza quello che, nella

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prassi sindacale, si definisce «effetto-annuncio», con il quale i soggetti agenti si assicurano gli effetti negativi dell’astensione (per l’utenza e la controparte), senza poi darvi effettivamente corso, in ragione della pubblicità che viene data all’astensione (si pensi ad uno sciopero nei trasporti, annunciato e successivamente revocato). È in sostanza un modo per responsabilizzare le parti promotrici e cercare di limitare il ricorso allo sciopero ai casi in cui si presenti come indifferibile. Le disposizioni relative al preavviso minimo ed all’indicazione della durata non si applicano peraltro nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori. Ulteriore limite, la cui individuazione è ulteriormente rinviata agli accordi fra le parti, è costituito dalla necessaria indicazione di intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo, quando ciò sia necessario ad evitare che, per effetto di scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidono sullo stesso servizio finale o sullo stesso bacino di utenza, sia oggettivamente compromessa la continuità dei servizi pubblici. Tale regola è stata meglio definita attraverso varie delibere della Commissione di garanzia, che ha imposto alle parti sociali di prefigurare regole dirette ad evitare: a) che uno stesso soggetto promotore possa proporre, nel medesimo servizio, uno sciopero prima che sia decorso un certo lasso di tempo dal precedente; b) che due diversi soggetti promotori possano proclamare, senza il rispetto di un intervallo minimo, due scioperi in sequenza nel medesimo settore.

8. La determinazione delle prestazioni indispensabili ad opera dei contratti collettivi Ciò posto il punto-chiave della legge sta nel rinvio ai contratti collettivi della determinazione delle prestazioni indispensabili che devono adottare misure che «possono disporre l’asten-

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L’efficacia erga omnes dei contratti collettivi

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sione dallo sciopero di quote strettamente necessarie di lavoratori tenuti alle prestazioni ed indicare, in tal caso, le modalità per l’individuazione dei lavoratori interessati ovvero possono disporre forme di erogazione periodica», oltre al rispetto degli intervalli minimi di cui si è detto. La regolamentazione dettata dai contratti collettivi (e/o come vedremo dalla Commissione di garanzia) si impone come regola vincolante nei confronti sia dei soggetti che promuovono lo sciopero o che vi aderiscono, sia dei lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, sia delle amministrazioni e delle imprese erogatrici dei servizi. Per i lavoratori autonomi ed i professionisti (anch’essi soggetti al rispetto della legge) l’astensione collettiva è esercitata nel rispetto di codici di autoregolamentazione, adottati dalle associazioni o dagli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, in funzione del contemperamento dell’astensione con i diritti della persona costituzionalmente tutelati. I contratti collettivi in questione hanno – e non possono non avere – efficacia erga omnes; il che ripropone, ancora una volta, la questione della compatibilità della previsione con l’art. 39 Cost. Gli itinerari proposti per salvare la legittimità costituzionale della disposizione – ed in buona sostanza l’intera architettura della legge – sono stati vari. La corte costituzionale (v. la sent. n. 344/1996) ne ha salvato la costituzionalità, utilizzando, mutatis mutandis, gli argomenti già fatti propri con riferimento alle ipotesi di rinvio al contratto collettivo nella legislazione sulle crisi aziendali. Come abbiamo ricordato a suo tempo in tali situazioni la Corte ha ritenuto che il focus della scelta legislativa non fosse nella costruzione di procedure di estensione del contratto collettivo alternative a quella prevista dall’art. 39, ma nella limitazione dei poteri datoriali. Alla stessa stregua nella l. n. 146/1990 il rinvio al contratto collettivo ha la funzione di imporre ai lavoratori l’esecuzione della prestazione, quale conseguenza del regolamento risultante dal contratto collettivo, mediato dall’esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro. In modo più convincente può ritenersi che la vincolatività

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generalizzata del contratto collettivo derivi in questo caso dal suo inserimento in un procedimento più ampio, nel quale vengono contemperate le esigenze dei lavoratori e quelle degli utenti dei servizi, e che si avvale anche dell’intervento di un’autorità imparziale, che, alla stregua della più recente riforma, può anche sostituirsi alle parti nella individuazione delle prestazioni indispensabili o comunque valutare quelle da queste introdotte. Ne deriva che l’efficacia erga omnes della regolamentazione prefigurata dalla delibera della Commissione non può che presupporre una analoga efficacia della contrattazione collettiva.

9. La Commissione di garanzia Un ruolo essenziale di controllo e promozione degli scopi della legge del ’90 è esercitato dalla Commissione di garanzia. Si tratta di un soggetto annoverabile fra le autorità amministrative indipendenti, composta da nove membri, scelti, su designazione dei Presidenti della Camera e del Senato, tra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali, e nominati con decreto del Presidente della Repubblica; essa può avvalersi della consulenza di esperti di organizzazione dei servizi pubblici essenziali interessati dal conflitto, nonché di esperti che si siano particolarmente distinti nella tutela degli utenti. Ad accentuare l’indipendenza della Commissione si prevede che non possono farvi parte i parlamentari e le persone che rivestano altre cariche pubbliche elettive, ovvero cariche in partiti politici, in organizzazioni sindacali o in associazioni di datori di lavoro, nonché coloro che abbiano comunque con tali organismi ovvero con amministrazioni od imprese di erogazione di servizi pubblici rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza. Essa dura in carica sei anni ed i suoi membri possono essere confermati una sola volta. Il principale compito della Commissione è quello di valutare l’idoneità delle misure previste negli accordi ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati.

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Nel caso in cui la valutazione della Commissione sia negativa, quest’ultima formula una proposta sulla quale le parti sono onerati a pronunciarsi. Su questo punto il testo originario della legge del ’90 conteneva una lacuna, dal momento che nulla prevedeva nel caso di omesso adeguamento delle parti all’invito della Commissione. Con la novella contenuta nella l. n. 83/2000 i poteri di quest’ultima sono stati rafforzati ulteriormente, prevedendosi ora che, se la proposta non viene accettata, è la Commissione stessa a predisporre, con una propria delibera, le regole dell’esercizio del diritto di sciopero. La delibera resta provvisoria, nel senso che potrà essere sostituita dalla ulteriore nuova negoziazione fra le parti, che abbia passato il vaglio della Commissione. In tal modo la legge lascia alla contrattazione collettiva il ruolo di fonte primaria di regolazione dello sciopero, ma garantisce che, in caso di resistenze o situazioni di stallo, una regolamentazione autoritativa comunque vi sia. La Commissione ha poi compiti ulteriori, fra i quali segnaliamo quelli di: a) esprimere il proprio giudizio sulle questioni interpretative o applicative dei contenuti degli accordi o codici di autoregolamentazione; b) assumere – ricevuta la comunicazione della programmazione dello sciopero – informazioni o convocare le parti in apposite audizioni, per verificare se sono stati esperiti i tentativi di conciliazione e se vi sono le condizioni per una composizione della controversia; c) segnalare preventivamente ai soggetti interessati eventuali violazioni delle disposizioni relative al preavviso, alla durata massima, all’esperimento delle procedure preventive di raffreddamento e di conciliazione, ai periodi di franchigia, agli intervalli minimi tra successive proclamazioni, e ad ogni altra prescrizione riguardante la fase precedente all’astensione collettiva, con il conseguente potere di invitarli a riformulare la proclamazione in conformità alla legge e agli accordi o codici di autoregolamentazione differendo l’astensione dal lavoro ad altra data;

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d) rilevare l’eventuale concomitanza tra interruzioni o riduzioni di servizi pubblici alternativi, che interessano il medesimo bacino di utenza, per effetto di astensioni collettive proclamate da soggetti sindacali diversi, con il potere di invitare i soggetti la cui proclamazione sia stata comunicata successivamente in ordine di tempo a differire l’astensione collettiva ad altra data; e) segnalare all’autorità competente le situazioni nelle quali dallo sciopero o astensione collettiva può derivare un imminente e fondato pericolo di pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati. Altrettanto rilevanti sono i poteri della Commissione in materia sanzionatoria. Un primo ordine di sanzioni fa seguito al potere di controllo sul comportamento delle parti di un conflitto. Nel caso in cui la Commissione rilevi inadempienze o violazioni di obblighi legali o contrattuali ovvero la segnalazione delle violazioni avvenga su istanza di parte (ad es. delle associazioni degli utenti), apre un procedimento disciplinare a loro carico. L’apertura del procedimento viene notificata alle parti, che hanno trenta giorni per presentare osservazioni e per chiedere di essere sentite. Decorso tale termine e comunque non oltre sessanta giorni dall’apertura del procedimento, la Commissione formula la propria valutazione e, se valuta negativamente il comportamento, tenuto conto anche delle cause di insorgenza del conflitto, delibera le sanzioni, indicando il termine entro il quale la delibera deve essere eseguita. Il potere sanzionatorio della Commissione può inoltre rivolgersi nei confronti delle organizzazioni dei lavoratori che proclamano uno sciopero o ad esso aderiscono in violazione delle disposizioni della legge. In tal caso la Commissione può disporre: a) la sospensione dei permessi sindacali retribuiti; b) il diritto alla percezione dei contributi sindacali comunque trattenuti dalla retribuzione, che in tal caso dovranno essere versati ad un apposito fondo presso l’INPS; c) l’esclusione dalle trattative per un periodo di due mesi dalla cessazione del comportamento. Ovviamente tale potere è esercitato proporzionalmente alla

Le sanzioni

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gravità dell’infrazione e dell’eventuale recidiva. Nel caso in cui tali sanzioni non risultino applicabili, perché le organizzazioni sindacali che hanno promosso lo sciopero o vi hanno aderito non fruiscono dei benefici di ordine patrimoniale indicati (permessi, raccolta dei contributi, ecc.) la Commissione di garanzia delibera in via sostitutiva una sanzione amministrativa pecuniaria a carico di coloro che rispondono legalmente per l’organizzazione sindacale responsabile. La sanzione viene applicata con ordinanza-ingiunzione della direzione provinciale del lavoro-sezione ispettorato del lavoro. Possono altresì essere soggetti a sanzioni disciplinari anche i lavoratori singoli, nel caso in cui si astengano dal lavoro in violazione della legge, richiesti dell’effettuazione delle prestazioni indispensabili, non prestino la propria consueta attività. Tali sanzioni devono – secondo i principi generali in materia di esercizio del potere disciplinare – essere proporzionate alla gravità dell’infrazione, con esclusione delle misure estintive del rapporto o di quelle che comportino mutamenti definitivi. In caso di sanzioni disciplinari di carattere pecuniario, il relativo importo è versato dal datore di lavoro all’INPS. Si tratta, quanto a quello qui descritto, di un potere appaiabile a quello disciplinare, anche se esso viene esercitato e deliberato dalla Commissione di garanzia, rispetto alla quale il datore di lavoro ha solo l’obbligo di darvi esecuzione. Infine la legge prevede un apparato sanzionatorio anche nei confronti dei dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche e dei legali rappresentanti delle imprese e degli enti che erogano i servizi pubblici, nel caso in cui non osservino le disposizioni relative alle prestazioni indispensabili o le indicazioni della Commissione o che non prestino correttamente l’informazione agli utenti. A costoro vengono irrogate sanzioni amministrative pecuniarie di varia entità a seconda della gravità della violazione, dell’eventuale recidiva, dell’incidenza di essa sull’insorgenza o sull’aggravamento di conflitti e del pregiudizio eventualmente arrecato agli utenti. Alla medesima sanzione sono soggetti le associazioni e gli or-

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ganismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, in solido con i singoli lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che aderendo alla protesta si siano astenuti dalle prestazioni, in caso di violazione dei codici di autoregolamentazione. L’accentramento del potere sanzionatorio nelle mani della Commissione di garanzia, con lo spettro di destinatari indicato, determina come conseguenza la possibilità per i destinatari di impugnazione delle relative delibere davanti al giudice del lavoro (v. l’art. 20-bis della legge).

10. La precettazione ed il ruolo delle associazioni degli utenti La legge del ’90 ha poi rivisitato l’istituto della precettazione, già regolato dal testo unico di pubblica sicurezza che attribuisce al Prefetto il potere eccezionale di adottare ordinanze «di carattere contingibile ed urgente in materia di edilizia, polizia locale ed igiene, per motivi di sanità o di sicurezza pubblica». Il potere prefettizio di intervento in materia di sciopero era quindi un interno al più generale potere di intervento in occasioni eccezionali in cui sia messa a repentaglio, per quel che ci interessa, la sanità e la sicurezza pubblica. Esso era di discutibile costituzionalità rispetto all’art. 40 Cost. ed in materia era già intervenuta la Corte costituzionale (v. la sent. n. 4/1977) che ne aveva circoscritto l’esercizio. Secondo la regolamentazione attuale la precettazione è un provvedimento dell’autorità amministrativa nel caso in cui sussista il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati, pericolo derivante dall’interruzione o dalla alterazione del funzionamento dei servizi pubblici, conseguente all’esercizio dello sciopero o a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori. In tali situazioni, su segnalazione della Commissione di garanzia ovvero, nei casi di necessità e urgenza, di propria iniziativa, informando previamente la Commissione di garanzia, il Presi-

L’ordinanza

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dente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato, se il conflitto ha rilevanza nazionale o interregionale, ovvero, negli altri casi, il prefetto, informati i presidenti delle regioni, invitano le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di pericolo, esperiscono un tentativo di conciliazione, da esaurire nel più breve tempo possibile, e se il tentativo non riesce, adottano con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati. L’ordinanza può avere vario contenuto: a) può disporre il differimento dell’astensione collettiva ad altra data, anche unificando astensioni collettive già proclamate, la riduzione della sua durata; b) può prescrivere l’osservanza da parte dei soggetti che la proclamano, dei singoli che vi aderiscono e delle amministrazioni o imprese che erogano il servizio, di misure idonee ad assicurare livelli di funzionamento del servizio pubblico compatibili con la salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. L’ordinanza deve tener conto dell’eventuale proposta, in ordine alle misure da adottare, della Commissione di garanzia ed è adottata non meno di quarantotto ore prima dell’inizio dell’astensione collettiva, salvo che sia ancora in corso il tentativo di conciliazione o vi siano ragioni di urgenza, e deve specificare il periodo di tempo durante il quale i provvedimenti dovranno essere osservati dalle parti. Essa viene portata a conoscenza dei destinatari mediante comunicazione da effettuare, a cura dell’autorità che l’ha emanata, ai soggetti che promuovono l’azione, alle amministrazioni o alle imprese erogatrici del servizio ed alle persone fisiche i cui nominativi siano eventualmente indicati nella medesima, nonché mediante affissione nei luoghi di lavoro, da compiere a cura dell’amministrazione o dell’impresa erogatrice. Dell’ordinanza viene altresì data notizia mediante adeguate forme di pubblicazione sugli organi di stampa, nazionali o locali, o mediante diffusione attraverso la radio e la televisione. Il provvedimento è suscettibile di impugnazione giudiziale da parte dei destinatari (sia i datori che i lavoratori) che vi abbiano interesse, mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale, nel termine di sette giorni dalla sua comunicazione

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o, rispettivamente, dal giorno successivo a quello della sua affissione nei luoghi di lavoro. La proposizione del ricorso non sospende l’immediata esecutività dell’ordinanza. In presenza di fondati motivi il tribunale amministrativo regionale può sospendere il provvedimento impugnato anche solo in parte. L’inosservanza da parte dei singoli prestatori di lavoro, professionisti o piccoli imprenditori delle disposizioni contenute nell’ordinanza di precettazione punita con una sanzione amministrativa pecuniaria. Rispetto ai preposti al settore nell’ambito delle amministrazioni, degli enti o delle imprese erogatrici di servizi (che sono quindi destinatari degli obblighi previsti dall’ordinanza di precettazione) si prevede anche la sanzione amministrativa della sospensione dall’incarico, per un periodo non inferiore a trenta giorni e non superiore a un anno. Infine una novità assoluta contenuta nella novella del 2000 è l’attribuzione di un ruolo significativo alle associazioni degli utenti, riconosciute ai fini della l. 30 luglio 1998, n. 281 (che regola le facoltà e i diritti attribuiti alle associazioni, che rispondo a determinati requisiti di rappresentanza e che abbiano per scopo quello della tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti). Tali associazioni sono legittimate ad agire in giudizio ai sensi dell’art. 3, della legge del 1989, in deroga alla procedura di conciliazione, anche al solo fine di ottenere la pubblicazione, a spese del responsabile, della sentenza che accerta la violazione dei diritti degli utenti. Si tratta, sul piano processuale di una corposa eccezione alla regola che radica l’interesse ad agire alla possibilità di ottenere dal processo un «bene della vita» chiaramente identificabile e palpabile ed aprire, quindi, alla tutela giudiziale degli interessi collettivi. Tale azione può rivolgersi anzitutto nei confronti delle organizzazioni sindacali responsabili, quando lo sciopero sia stato revocato dopo la comunicazione all’utenza (è la situazione dell’effetto-annuncio) e quando venga effettuato nonostante la delibera di invito della Commissione di garanzia di differirlo e da ciò consegua un pregiudizio al diritto degli utenti di usufruire con certezza dei servizi pubblici.

Il ruolo delle associazioni degli utenti

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Diritto sindacale

La medesima può altresì svolgersi nei confronti delle amministrazioni, degli enti o delle imprese che erogano i servizi essenziali, nel caso in cui non vengano fornite adeguate informazioni agli utenti e da ciò consegua un pregiudizio al diritto degli utenti di usufruire dei servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

11. Le altre forme di lotta sindacale

L’occupazione d’azienda e il blocco delle merci

Le lotte sindacali non sempre si svolgono secondo gli stilemi caratteristici dello sciopero come astensione collettiva dal lavoro. Talvolta, in relazione alla specificità delle rivendicazioni e dei momenti conflittuali, si realizzano attraverso tecniche diverse. Pur tenendo presente che in materia ogni tentativo di classificazione può risultare approssimativo possiamo isolare alcune tipologie di lotta che si realizzano senza che i lavoratori abbandonino il posto di lavoro, come avviene per lo sciopero. Ciò vale anzitutto per l’occupazione dell’azienda, forma di protesta legata a condizioni di lotta particolarmente virulente, in presenza di forte tensioni sociali. Essa può consistere o nella permanenza pura e semplice dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro o, addirittura, nella pretesa dei medesimi di continuare a svolgere l’attività produttiva. Si tratta, come è evidente, di forme di lotta sindacale che mettono in discussione il diritto di proprietà del datore rispetto ai beni aziendali ed incidono sulla sua libertà economica. In materia rileva l’art. 508 cod. pen. che individua la fattispecie dell’arbitraria invasione ed occupazione di aziende agricole o industriali. La norma è stata ritenuta compatibile con il nostro sistema giuridico dalla sent. n. 220/1975 Corte cost. che ne ha negato l’assimilabilità allo sciopero, ravvedendovi piuttosto un attentato alla libertà di lavoro garantita dall’art. 4 Cost. Sul piano civilistico invece in casi del genere la giurisprudenza ammette usualmente l’esperibilità delle azioni a tutela del possesso (spoglio o manutenzione). Problematiche simili pongono quelle forme di protesta che si

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realizzano attraverso il blocco delle merci dirette all’impresa o in uscita dall’impresa. Anche in questo caso – salvo che ricorrano gli estremi del reato di violenza privata, se attuato con violenza o minaccia – sembrano esperibili i rimedi possessori. Altre forme di lotta meno virulente, caratterizzate dalla permanenza nel posto di lavoro, sono quelle in cui i lavoratori svolgono la loro attività lavorativa, negando però almeno parzialmente la loro prestazione. Tali forme possono consistere nell’astensione dallo svolgimento di parte delle mansioni ovvero nel rifiuto del lavoro straordinario, nel rallentamento della produzione (sciopero del rendimento), nella non collaborazione (con l’astensione dalle prestazioni accessorie) fino al vero e proprio ostruzionismo, che si realizza attraverso un applicazione pedissequa (e quindi ostruzionistica) dei regolamenti. Si tratta di forme di lotta che non possono farsi rientrare entro lo specchio protettivo dell’art. 40 Cost. Sul piano civilistico – a seconda delle concrete modalità – possono essere qualificate come inadempimenti contrattuali. Trattandosi genericamente di forme di non collaborazione il comportamento dei lavoratori si presta ad essere negativamente stigmatizzato alla luce dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (artt. 1374 e 1375 cod. civ.). Una esemplificazione relativa all’ostruzionismo, con l’applicazione pedante dei regolamenti, può chiarire i termini del problema. In tali situazioni la correttezza del comportamento dei lavoratori, che si attengono pedissequamente a regole scritte, è solo apparente. Basti pensare che la prestazione di lavoro non può essere fissata, se non in modo molto approssimativo, entro confini rigidi e rigorosi; essa deve essere costantemente adeguata al raggiungimento dell’interesse del creditore di lavoro. In questa chiave il parametro della correttezza dell’adempimento della prestazione del lavoratore non è tanto la (eventuale) regolamentazione scritta, quanto quella che si è concretamente realizzata sul piano attuativo e che può essersi discostata, per ragioni di correttezza, dalle regole prefigurate in astratto. È dunque alla prestazione effettiva, specie se questa si è svolta per lungo tempo in un determinato modo, che è necessario far capo per valutare il corretto adem-

Forme di non collaborazione

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pimento della prestazione. Con la conseguenza che la prestazione che si discosti da quella fissata con un comportamento reiterato dei lavoratori costituisce inadempimento contrattuale.

12. La serrata La serrata come libertà

La serrata è la forma di lotta sindacale del datore di lavoro che consiste nel chiudere lo stabilimento rifiutando la prestazione di lavoro offerta dai lavoratori. Abbiamo già ricordato la scelta pienamente consapevole operata dai padri costituenti e consistente nel non equiparare i due strumenti di autotutela sindacale delle parti contrapposte. Alla luce di questa indicazione mentre lo sciopero viene qualificato come diritto, la serrata nemmeno viene evocata nella carta costituzionale, con la conseguenza che essa viene pacificamente qualificata come una mera libertà. Le motivazioni di tale scelta sono state diffusamente richiamate in precedenza e consistono fondamentalmente nel rifiuto di adottare un criterio di «parità delle armi» fra i contendenti, per prendere atto della disparità di potere fra lavoratori ed imprese, disparità rispetto alla quale il riconoscimento del diritto di sciopero costituisce un parziale fattore di riequilibrio. In coerenza con la qualificazione della serrata in chiave di libertà la Corte costituzionale, con la sent. n. 29/1960, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 502 cod. pen. che puniva la serrata per fini contrattuali. Un diverso atteggiamento assunse invece la Corte con riferimento all’art. 505 cod. pen. che punisce la serrata di solidarietà o di protesta. Con la sent. n. 141/1967 ritenne che esulassero dalla sfera della libertà di serrata i comportamenti estranei alle relazioni di lavoro, come, per l’appunto, quelli che sono posti in essere a scopo di solidarietà o di protesta, in quanto tali estranei alla normale dialettica sindacale. È oggetto di discussione se tali principi possano essere estesi anche alla serrata per fine politico (art. 503 cod. pen.) e a quella di coazione alla pubblica autorità (art. 504 cod. pen.).

L’autotutela e il conflitto collettivo

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Quanto alle conseguenze civilistiche, non potendo qualificarsi la serrata come diritto, è evidente che essa comporta il rifiuto della prestazione offerta dai lavoratori e va quindi apprezzata come inadempimento contrattuale. Più precisamente essa va inquadrata entro lo schema della mora del creditore (artt. 1206 e ss. cod. civ.), che implica che il creditore che rifiuti, senza giusto motivo, la prestazione offerta dal debitore è obbligato al risarcimento dei danni. Si ritiene usualmente che il risarcimento dei danni debba consistere nelle retribuzioni perdute dai lavoratori per effetto del rifiuto di accettarle, anche se gli itinerari concettuali per giungere a tale conclusione non sono sempre univoci. Una ipotesi particolare di serrata è quella che il datore attua per ritorsione nei confronti di quelle forme anomale di sciopero che abbiamo esaminato in precedenza (sciopero a singhiozzo, a scacchiera, ecc.). In tali casi, come abbiamo visto, viene in evidenza il diritto del datore di rifiutare la prestazione dai lavoratori, ad es., negli intervalli tra due fasi di uno sciopero a singhiozzo ovvero dai dipendenti occupati nel reparto a valle se lo sciopero si è svolto nel reparto a monte. La giurisprudenza tende ad affrontare il problema alla luce della proficuità della prestazione offerta. In sostanza se la prestazione offerta dai lavoratori può essere ritenuta utilizzabile dall’impresa il rifiuto della prestazione (cioè la serrata) va considerato illegittimo. Ovviamente la delicatezza della valutazione sta nella considerazione secondo cui la prestazione che abilita al rifiuto è quella inutilizzabile in toto, non quella solo meno conveniente, giacché, in quest’ultimo caso, si entrerebbe entro gli effetti legittimi dello sciopero (che sono quelli di causare comunque un danno all’impresa). Infine – a prescindere da queste ultime considerazioni – la serrata di ritorsione può essere apprezzata (e spesso viene apprezzata dalla giurisprudenza) nella chiave della condotta antisindacale del datore di lavoro.

Le conseguenze della serrata sul rapporto di lavoro

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