Diritto commerciale. Diritto dell'impresa [Vol. 1, 2 ed.] 8892109219, 9788892109216

"L'opera esce, in questa sua seconda edizione (la terza, se si considera la ristampa aggiornata edita nel 2014

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Diritto commerciale. Diritto dell'impresa [Vol. 1, 2 ed.]
 8892109219, 9788892109216

Table of contents :
Copertina
quartino
00 Indice [V-XVI]
00a Indice autori [XVII-XVIII]
00b Prefazione [XIX-XXIV]
00c Note per il lettore [XXV-XXVI]
00d Elenco opere [XXVII-XXX]
00e Elenco abbreviazioni [XXXI-XXXVI]
01 Introduzione - Cian [1-24]
02 Sez I par 1-5 - Cetra [25-106]
03 Sez II par 6 - Cetra [107-122]
04 Sez III par 7-8 - Cetra [123-140]
05 Sez III par 9-10 - Cian [141-170]
06 Sez IV par 11-19 - Sarti [171-322]
07 Sez V par 20 - Santagata [323-348]
08 Sez VI par 21 - Cian [349-365]
09 Sez VI par 22 Sciarrone Alibrandi [366-388]
10 Indice analitico [389-400]

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DIRITTO COMMERCIALE I. Diritto dell’impresa

In copertina: Certificato azionario portoghese, disegno di Rafael Bordalo Pinheiro, XIX sec.

A. Cetra - M. Cian - A. Daccò - M. De Acutis - E. Ginevra A. Mirone - L. Pisani - P.M. Sanfilippo - R. Santagata D. Sarti - A. Sciarrone Alibrandi - M. Sciuto

Diritto commerciale a cura di

Marco Cian

I. Diritto dell’impresa

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0921-6

Stampa: Stamperia Artistica Nazionale S.p.A. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Indice Sommario

PIANO DELL’OPERA VOLUME I Diritto dell’impresa

VOLUME II Diritto della crisi d’impresa

VOLUME III Diritto delle società

VOLUME IV Diritto del sistema finanziario

V

VI

Indice Sommario

Indice Sommario

VOLUME I

Diritto dell’impresa

VII

VIII

Indice Sommario

Indice Sommario

IX

INDICE

pag. INDICE DEGLI AUTORI

XVII

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

XIX

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

XXI

NOTE PER IL LETTORE

XXV

ELENCO DELLE OPERE GENERALI CITATE ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

XXVII XXXI

INTRODUZIONE IL DIRITTO COMMERCIALE. NOZIONE, STORIA, FONTI (M. CIAN) I. II. III. IV.

La nascita e l’affermazione del diritto commerciale: cenni storici Il contenuto del diritto commerciale e le traiettorie del suo sviluppo nell’era moderna Il problema dell’autonomia del diritto commerciale dal diritto civile Le fonti

3 9 18 20

SEZIONE PRIMA LA FATTISPECIE “IMPRESA” § 1. I. II.

La nozione d’impresa (A. CETRA) La relatività della nozione d’impresa L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata 1. L’attività produttiva 2. La professionalità 3. L’organizzazione 4. L’economicità 5. La completezza della nozione di impresa

25 28 29 29 31 33 35 40

X

Indice Sommario

pag. § 2. I. II. III.

IV. V.

§ 3. I. II. III. § 4. I. II.

§ 5. I.

II.

Le categorie di impresa (A. CETRA) L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza normativa L’impresa agricola La piccola impresa 1. La nozione di piccola impresa nel codice civile 2. La piccola impresa nella legge fallimentare 3. Il problema dell’impresa artigiana 4. La piccola-media impresa nella legislazione speciale L’impresa commerciale Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla disciplina applicabile 1. L’impresa pubblica 2. L’impresa privata 3. L’impresa sociale

44 44 48 54 54 57 60 62 63 67 67 72 75

L’impresa e le professioni intellettuali (A. CETRA) Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali L’art. 2238. Conclusioni Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della fattispecie. La nozione di impresa comunitaria

78 78 81

L’inizio e la fine dell’impresa (A. CETRA) L’inizio dell’impresa 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione La fine dell’impresa 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione 2. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l.fall. (rinvio)

88 88 88 90 90

L’imputazione dell’impresa (A. CETRA) Il criterio di imputazione 1. La mancanza di un criterio esplicito di imputazione: la soluzione interpretativa 2. L’impresa dell’incapace I casi problematici di imputazione 1. I casi di imputazione incerta 2. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista) 3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto 4. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa

94 95

INTRODUZIONE ALLE SEZIONI II-VII (A. CETRA)

84

91

95 96 97 97 98 101 103

107

Indice Sommario

XI

pag.

SEZIONE SECONDA LA PUBBLICITÀ DI IMPRESA § 6. I. II. III. IV.

Il registro delle imprese (A. CETRA) Caratteristiche generali La sezione ordinaria e le relative iscrizioni Le sezioni speciali e le relative iscrizioni Il deposito. Le indicazioni negli atti e nella corrispondenza

111 112 112 118 121

SEZIONE TERZA ORGANIZZAZIONE E “CIRCOLAZIONE” DELL’IMPRESA § 7. I. II. III. IV. § 8. I.

II. § 9. I.

II.

La documentazione di impresa (A. CETRA) Le scritture contabili obbligatorie Il bilancio di esercizio Le formalità di tenuta delle scritture contabili La conservazione delle scritture contabili. L’utilizzo come mezzi di prova

123 124 127 129

I collaboratori di impresa (A. CETRA) I collaboratori interni 1. La disciplina generale 2. L’institore 3. Il procuratore 4. I commessi I collaboratori esterni: cenni

131 132 133 134 137 138 138

La “circolazione” dell’impresa: il trasferimento dell’azienda (M. CIAN) La nozione di azienda 1. La composizione del complesso aziendale 2. Il ramo d’azienda 3. La natura giuridica dell’azienda; la c.d. “proprietà” dell’azienda Il trasferimento dell’azienda 1. Natura e causa del negozio di trasferimento 2. L’oggetto del negozio 3. Ambito di applicabilità della disciplina speciale 4. La forma e la pubblicità del contratto 5. Il divieto di concorrenza 6. La successione nei contratti 7. Crediti e debiti inerenti all’azienda

141 142 142 144 145 147 147 148 149 150 152 155 159

129

XII

Indice Sommario

pag. III.

IV.

Usufrutto e affitto dell’azienda 1. Usufrutto 2. Affitto Altre vicende circolatorie e giudiziarie interessanti l’azienda

§ 10. Il ricambio generazionale nell’impresa: i patti di famiglia (M. CIAN)

161 162 163 164 166

SEZIONE QUARTA L’IMPRESA NEL MERCATO Capo Primo MERCATO E CONCORRENZA § 11. Le regole di lealtà imprenditoriale (D. SARTI) I. La concorrenza sleale 1. Fonti e sistema 2. Interessi imprenditoriali e interessi dei consumatori 3. I soggetti. Il rapporto di concorrenza 4. Le fattispecie confusorie 5. La denigrazione 6. L’appropriazione di pregi 7. I princìpi di correttezza professionale 8. Sanzioni e processo II. Le pratiche commerciali 1. Funzione, presupposti e struttura della disciplina 2. La clausola generale di divieto di pratiche commerciali scorrette 3. Le pratiche ingannevoli 4. Le pratiche aggressive 5. Il sistema sanzionatorio III. La pubblicità ingannevole e comparativa 1. La pubblicità ingannevole nei rapporti fra professionisti 2. La pubblicità comparativa 3. Il sistema sanzionatorio § 12. I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII.

La disciplina antitrust (D. SARTI) I fondamenti economici della disciplina. Antitrust e regolamentazione Antitrust europeo e antitrust nazionale: fonti e autorità I soggetti Effetti restrittivi e mercato rilevante Le pratiche restrittive della concorrenza. Le intese: nozione Le tipologie di intese vietate Le esenzioni al divieto di intese La posizione dominante

172 173 173 174 175 178 180 182 183 186 187 187 188 189 191 191 192 193 194 196 197 197 198 200 201 202 204 204 206

Indice Sommario

XIII

pag. IX. X. XI. XII.

Gli abusi di posizione dominante Le concentrazioni Profili procedimentali e sanzionatori Cenni alle regolamentazioni di settore

207 210 214 216

§ 13. I. II. III. IV.

I diritti di proprietà industriale: profili generali (D. SARTI) La nozione di proprietà industriale Proprietà industriale e proprietà intellettuale Le azioni a difesa della proprietà industriale Fonti e sistema

218 218 219 220 221

§ 14. I segni distintivi: profili generali (D. SARTI) I. La funzione distintiva 1. Il concetto di “distinzione” 2. Il problema della funzione distintiva giuridicamente protetta II. Presupposti e ambito di protezione dei segni distintivi 1. Capacità distintiva 2. Confondibilità 3. Usi potenziali e registrazione del segno

223 224 224 224 225 225 226 227

§ 15. La ditta e l’insegna (D. SARTI) I. La ditta: nozione e funzione 1. Ditta e marchio d’impresa 2. Ditta, ragione e denominazione sociale 3. La formazione della ditta II. Requisiti e tutela della ditta 1. Requisiti 2. Tutela III. Vicende della ditta 1. Trasferimento 2. Cessazione del diritto IV. L’insegna V. Ragione e denominazione sociale

228 229 229 230 231 232 232 234 235 235 236 236 238

§ 16. I. II. III. IV.

239 240 240 241 242 242 243 244 244 244 246 248

V.

I marchi e i nomi a dominio; le indicazioni geografiche (D. SARTI) La funzione giuridicamente protetta del marchio Il marchio non registrato Le fonti della disciplina del marchio registrato Caratteristiche generali del marchio 1. Tipologie di marchi 2. Il principio di estraneità del marchio al prodotto 3. Marchi individuali e marchi collettivi (rinvio) Requisiti del marchio: impedimenti assoluti 1. La capacità distintiva 2. Il problema dei marchi di forma 3. Il carattere non ingannevole

XIV

Indice Sommario

pag. 4.

Ordine pubblico, buon costume, convenzioni internazionali, buona fede VI. Requisiti del marchio: impedimenti relativi 1. Novità e conflitti con segni registrati 2. Novità e conflitti con segni non registrati 3. Conflitti con altre tipologie di diritti VII. Il procedimento di registrazione 1. Il procedimento nazionale 2. La registrazione internazionale 3. La registrazione del marchio UE VIII. L’estensione della tutela 1. Il divieto di utilizzazioni confusorie 2. Il divieto di uso di segni identici per prodotti o servizi identici 3. La tutela allargata della rinomanza 4. Gli atti di contraffazione; commercio del prodotto e principio di esaurimento 5. Limitazioni degli effetti del marchio IX. Cessioni e licenze di marchio 1. Il trasferimento del marchio 2. La licenza di marchio 3. Costituzione di altri diritti reali X. Nullità e decadenza del marchio 1. Sistema e nozioni 2. Le cause di nullità 3. La convalida del marchio 4. La decadenza per non uso 5. La decadenza per ingannevolezza 6. La decadenza per volgarizzazione 7. Dichiarazione ed effetti di nullità e decadenza XI. I nomi a dominio XII. I segni distintivi collettivi 1. Il marchio collettivo 2. Le indicazioni geografiche

260 262 263 263 265 267 268 268 268 269 270 271 272 273 274 276 276 277

§ 17. Tecnologia e design (D. SARTI) I. I brevetti d’invenzione 1. Le fonti della disciplina 2. La nozione di invenzione 3. Requisiti di brevettabilità 4. Diritto alla brevettazione e procedimento 5. L’estensione della tutela 6. Cessioni e licenze di brevetto 7. Nullità e decadenza del brevetto

280 280 280 281 283 288 293 296 298

248 249 249 251 252 253 253 254 255 256 256 257 258

Indice Sommario

XV

pag. II. III.

I modelli di utilità I modelli e disegni industriali

300 301

Capo Secondo MERCATO E CONTRATTI D’IMPRESA § 18. L’attività contrattuale dell’impresa (D. SARTI) I. La categoria dei contratti di impresa II. I princìpi “speciali” dei contratti d’impresa 1. La continuità dell’attività economica 2. L’organizzazione seriale dei rapporti 3. La valutazione di meritevolezza del contratto e le clausole generali 4. Contratti d’impresa e commercio internazionale § 19. I. II. III. IV.

La tutela delle controparti contrattuali deboli (D. SARTI) L’abuso di dipendenza economica La disciplina del franchising I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali I contratti con i consumatori 1. Funzione e presupposti della disciplina 2. Le clausole vessatorie 3. I rimedi: nullità di protezione e azione inibitoria 4. Informazioni precontrattuali e contratti a distanza

304 304 306 306 307 308 309 311 311 313 315 317 317 319 320 321

SEZIONE QUINTA LA COOPERAZIONE TRA IMPRENDITORI § 20. La cooperazione tra imprenditori (R. SANTAGATA) I. Strumenti di cooperazione ed integrazione tra imprese II. Le forme di cooperazione inderogabilmente “strutturate”. I consorzi 1. Le disposizioni generali dei consorzi 2. Le regole specifiche dei consorzi con attività esterna 3. Le società consortili 4. Le imprese comuni “cooperative” 5. Il gruppo europeo di interesse economico III. Le forme di cooperazione potenzialmente “flessibili” 1. Il contratto di rete 2. Le associazioni temporanee di imprese

323 323 324 326 331 334 337 338 341 341 344

XVI

Indice Sommario

pag.

SEZIONE SESTA GLI STRUMENTI DI MOBILIZZAZIONE DELLA RICCHEZZA. PRINCIPI FONDAMENTALI INTRODUZIONE (M. CIAN)

349

§ 21. I. II. III.

350 351 354 357 357 359

I titoli di credito cartacei ed elettronici (M. CIAN) La nozione di titolo di credito La fattispecie titolo di credito I principi cartolari 1. Le leggi di circolazione dei titoli 2. L’autonomia reale 3. L’autonomia obbligatoria. La letteralità. Astrattezza e causalità dei titoli 4. La legittimazione cartolare attiva e passiva

§ 22. La circolazione del denaro: gli strumenti di pagamento (A. SCIARRONE ALIBRANDI) I. Dalla circolazione di denaro contante all’utilizzo di strumenti di pagamento “sostitutivi” e “alternativi” II. Gli strumenti di pagamento sostitutivi: l’assegno bancario e circolare 1. I titoli cambiari: profili generali 2. La cambiale: cenni 3. L’assegno bancario 4. L’assegno circolare III. Gli strumenti di pagamento “alternativi” al denaro contante 1. Una ricognizione degli strumenti “alternativi” 2. La disciplina dei servizi di pagamento: il d.lgs. 11/2010 (linee di fondo)

INDICE ANALITICO

360 363 366 366 370 371 373 375 380 381 381 383

389

Indice degli Autori

XVII

INDICE DEGLI AUTORI

ANTONIO CETRA, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. MARCO CIAN, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Padova. ALESSANDRA DACCÒ, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Milano - Bicocca.

MAURIZIO DE ACUTIS, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Padova.

ENRICO GINEVRA, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Bergamo.

AURELIO MIRONE, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Catania.

LUCA PISANI, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. PIERPAOLO M. SANFILIPPO, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Catania.

RENATO SANTAGATA, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università “Parthenope” di Napoli.

DAVIDE SARTI, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Ferrara. ANTONELLA SCIARRONE ALIBRANDI, Professore ordinario di Diritto dell’economia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. MAURIZIO SCIUTO, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università degli Studi di Macerata.

XVIII

Indice degli Autori

XIX

Prefazione alla prima edizione

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE L’opera esce, in questa sua seconda edizione (la terza, se si considera la ristampa aggiornata edita nel 2014), profondamente rinnovata nella struttura. Essa si sviluppa infatti ora in quattro volumi, essendosi articolato in una coppia di tomi distinti ciascuno dei due volumi dell’edizione originaria: al libro dedicato al Diritto dell’impresa fa seguito quello, adesso autonomo, concernente il Diritto della crisi d’impresa; al volume di Diritto delle società se ne accompagnerà infine un quarto, sui temi del diritto del sistema finanziario. Questa articolazione ha consentito di approfondire adeguatamente quelle parti (il diritto industriale, ora arricchito da un nuovo capitolo in tema di invenzioni, disegni e modelli e dal robusto ampliamento del capo dedicato alla contrattazione d’impresa; e poi il diritto della crisi, quello dei sistemi finanziari) che, nella precedente edizione, per necessità di cose si erano dovute presentare in forma sintetica. Ha permesso altresì di dare ancora maggiore completezza di esposizione e di richiami alle Sezioni (componenti il diritto dell’impresa e delle società) cui già si era riservato ampio spazio sin dall’origine, con ciò perseguendo ulteriormente l’obiettivo che aveva animato curatore e autori nel dare vita all’opera. Sin dal suo concepimento, infatti, essa ha avuto l’ambizione di offrire, sia pure nelle forme brevi di una trattazione in pochi volumi, una presentazione quanto più possibile esaustiva della materia del diritto commerciale in tutti gli ambiti che gli appartengono. Ancor più di prima, dunque, l’opera si rivolge oggi non solo allo studente universitario (che potrà trovarvi tanto una prima illustrazione ragionata dei principi fondamentali della materia, quanto una esposizione curata dei suoi profili di dettaglio e problematici), ma anche allo studioso e al professionista, che vogliano orientarsi e raccogliere indicazioni sintetiche, ma già complete, su uno specifico tema di ricerca; e in questa direzione si è curato non solo l’aggiornamento, ma anche l’arricchimento dei riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, con una nuova, particolare attenzione agli orientamenti notarili, che tanta importanza vanno acquisendo nella formazione del diritto vivente e nel dibattito dottrinale. Si sono invece mantenuti e, semmai, affinati l’impianto generale del testo e le tecniche espositive, per la presentazione dei quali dunque rinvio alla Prefazione alla prima edizione, che viene pubblicata nelle pagine che seguono. Debbo qui solo ribadire che l’opera, pur essendo il frutto dell’impegno, appassionato e attento, di autori diversi, è il risultato di un costante confronto tra i medesimi, sul piano dei contenuti, ed esprime un pensiero integralmente condiviso, su quello degli obiettivi che la animano. Padova, luglio 2017 MARCO CIAN

XX

Prefazione alla prima edizione

Prefazione alla prima edizione

XXI

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Un nuovo manuale di Diritto commerciale non si giustificherebbe, se non nascesse dalla convinzione, propria del suo curatore e dei suoi autori, della necessità di ripensare la materia, alla luce delle tendenze evolutive che ne caratterizzano la moderna parabola storica e che si riflettono nel suo corpus normativo; tendenze che, specialmente in questi anni recenti, sembrano accentuare in misura sempre crescente quell’autonomia dello ius mercatorum dallo ius civile, attorno a cui si agitò il pensiero dei padri della scienza giuscommercialistica alle soglie dell’entrata in vigore del nuovo Codice e che oggi si ripropone in termini e da prospettive certamente diverse, ma non meno insistentemente. Una necessità di ripensamento, questa, che è anche opportunità di risistemazione di una materia che vede sempre più nel mercato e nella sua tutela il nucleo da cui si irraggiano, o, se si preferisce, verso cui tendono gli istituti che la compongono, e che allora – per effetto di questo nesso inscindibile – al mercato, ai suoi assetti e ai suoi mutamenti si adegua incessantemente, rivelando una straordinaria mobilità e una preziosa capacità di adattamento a istanze della realtà economica e sociale che la storia di oggi ci insegna in continuo divenire. Mutano così rapidamente (certo, con interventi normativi talvolta discontinui, tardivi, destrutturati, ma non per questo meno sintomatici dei tempi che cambiano) non solo le regole, ma le categorie, le logiche, le prospettive su cui la disciplina dell’impresa, delle società e delle procedure concorsuali è costruita: la prima, che evolve sempre più marcatamente in un diritto delle attività produttive globalmente considerate; la seconda, che accoglie ormai copiosamente fenomeni certamente lontani dal modello societario di matrice tradizionale, neutralizzandone alcuni caratteri fondamentali (la connotazione causale, la correlazione partecipazione – rischio d’impresa), per erigere l’istituto a struttura organizzativa per l’esercizio delle attività produttive, del tutto polivalente; la terza, che integra sempre più intensamente la finalità satisfattiva e liquidatoria con obiettivi macro e microeconomici diversi, sacrificando anzi talvolta la prima sull’altare dei secondi. In questo scenario, d’altra parte, neppure l’ambizione di proporre una risistemazione della materia al passo coi tempi giustificherebbe un nuovo manuale, se sfociasse in una presentazione puramente istituzionale della medesima e non si accompagnasse invece alla volontà di approfondire (nella misura in cui le dimensioni di un manuale lo consentono) i temi e i problemi che ne rappresentano la sostanza viva e pulsante per il ricercatore e per l’interprete. Lo spirito che ha animato il curatore e gli autori nel preparare l’opera è dunque quello di studiosi raccoltisi per proporre una lettura del sistema giuscommercialistico e dei suoi diversi istituti moderna e quanto più puntuale possibile, rivolgendosi non soltanto allo studente che si accinge al suo apprendimento (cui si offre un quadro ri-

XXII

Prefazione alla prima edizione

costruttivo di base, che si spera chiaro, ordinato e ragionato), ma anche a chi tale sistema e i suoi elementi principali ben conosce e cerca spunti di riflessione, riferimenti, approfondimenti per la propria attività professionale o di ricerca. Il Manuale che qui si presenta al giudizio dei lettori, conseguentemente, propone un duplice livello di lettura, puntualmente evidenziato dal duplice corpo di carattere in cui ciascuna parte è redatta: a) una presentazione istituzionale della materia (corrispondente a circa 7-800 pagine tra i due volumi, composte da tutte le unità di commento scritte in corpo grande, leggibili in modo del tutto autonomo dagli approfondimenti in corpo piccolo), sufficiente per una adeguata preparazione di base, attenta all’inquadramento sistematico degli istituti e all’illustrazione delle loro finalità, sensibile all’esigenza di calare la disciplina nel contesto socioeconomico presente e corredata da numerosi esempi chiarificatori; una presentazione istituzionale rivolta dunque allo studente, che ad essa voglia limitarsi, o al lettore che ricerchi esclusivamente le nozioni fondamentali di una certa disciplina; b) una trattazione approfondita di ciascun istituto (ricavabile dall’intero corpus dei due volumi), che dà conto degli interrogativi teorici e dei problemi applicativi suscitati dalla disciplina, coniugando la completezza con la sintesi richiesta dalla natura comunque manualistica dell’opera, e con il corredo di un apparato bibliografico e giurisprudenziale puntuale e analitico, funzionale a consentire allo studioso e all’operatore, quando una determinata questione non possa venire trattata diffusamente, per economia di spazi, di trovare comunque adeguati rinvii per il suo più compiuto approfondimento. Dal punto di vista redazionale, si è scelta una paragrafazione articolata, per così dire ad albero, affinché la lettura possa esserne guidata passo dopo passo, facilitando anche la comprensione e la memorizzazione di ciascun argomento; a questo stesso scopo, si è fatto diffusamente uso del neretto, per evidenziare il nucleo tematico di ciascuna unità di commento e richiamare dunque anche visivamente il tema di volta in volta trattato, così come del corsivo (neretto e non), per sottolineare i passaggi centrali della singola trattazione, al fine di un migliore e più facile apprendimento da parte dello studente. Sotto il profilo contenutistico, alcune scelte vanno motivate. L’ambizione di proporre una risistemazione della materia attorno al fenomeno dell’agire produttivo e della sua organizzazione e secondo la logica primaria della protezione del mercato ha indotto subito ad abbandonare l’idea di una trattazione comprensiva di tutto ciò che per tradizione si usa ricondurre alla manualistica giuscommercialistica, per prediligere invece una selezione di tipo funzionale, più strettamente collegata a quella linea di risistemazione. Per tale ragione, per alcune materie si è rinunciato alla catalogazione consueta (così, ai contratti d’impresa non è dedicata una sezione appositamente rivolta ad esaminarne i diversi tipi tradizionalmente – ma secondo una prospettiva ormai superata dai tempi – classificati come contratti commerciali e si è preferito invece illustrare dall’un lato, nella parte dedicata all’azione dell’impresa nel mercato, il concetto generale di “contratti d’impresa” e la sua funzione sistematica e interpretativa, nonché trattare, dall’altro lato, nella parte dedicata ai bisogni finanziari dell’impresa e specie dell’impresa societaria, le formule contrattuali tipiche del suo approvvigionamento); di altre materie, infine, si sono scelte una

Prefazione alla prima edizione

XXIII

sistemazione e una presentazione più attente ai profili funzionali degli istituti e più sintetiche nella trattazione delle relative discipline (così, titoli di credito cartacei ed elettronici e strumenti di pagamento sono stati raccolti in un’unica sezione, intitolata alla mobilizzazione della ricchezza e intesa ad illustrare le logiche che presiedono ai relativi fenomeni, in quanto centrali alle dinamiche economiche e finanziarie, dove se ne presentano i principi fondamentali, senza soffermarsi sui singoli profili regolamentari). Da ultimo, non può essere sottaciuto il fatto che l’opera, pur essendo in ciascuna sua parte il frutto esclusivo dello sforzo esegetico e dell’impegno di un singolo autore, vede la luce dopo un confronto costante e un lungo scambio di idee fra tutti i suoi artefici; non si è rinunciato alla libertà di ognuno di esporre, per ciascun tema, il proprio orientamento personale, perché un manuale che abbia l’ambizione sopra descritta non può appiattirsi su una linea di neutralità o di ortodossia a tutti i costi; ci si è però sforzati – consapevoli specialmente dell’esigenza, che lo studente ha, di ricevere indicazioni chiare, ordinate e non ambigue – di assicurare il pieno coordinamento delle diverse parti, a livello istituzionale, pur offrendo al lettore più sensibile, che voglia avventurarsi nell’approfondimento della materia, l’opportunità di trovare quegli spunti, quelle considerazioni e riflessioni di maggior complessità, che costituiscono il sale della scienza giuscommercialistica. Nell’affidare dunque il Manuale al giudizio dei lettori, consapevoli che ogni proposta ricostruttiva e interpretativa, cui non ci si è mai sottratti nel costruirlo passo dopo passo, pagina dopo pagina, si espone alla critica serrata e severa degli studiosi, degli operatori e degli studenti, ci auguriamo che esso possa almeno incontrare la benevolenza di tutti loro, per l’impegno che, nessuno escluso, i suoi autori hanno profuso in questi anni dedicati alla sua preparazione, e per la passione e l’entusiasmo con cui ciascuno di loro ha raccolto la sfida. Padova, giugno 2013 MARCO CIAN

XXIV

Prefazione alla prima edizione

Note per il lettore

XXV

NOTE PER IL LETTORE

1) Le parti del testo redatte in corpo grande possono essere lette in sequenza, tralasciando tutte le parti riprodotte in corpo piccolo, nonché le note a piè di pagina, senza che ne venga pregiudicata la comprensibilità dell’argomento di volta in volta trattato. Il testo in corpo grande offre una presentazione istituzionale degli istituti e della relativa disciplina; i testi in corpo piccolo sono dedicati agli approfondimenti, con un adeguato corredo di riferimenti bibliografici e giurisprudenziali. 2) Gli articoli citati senza indicazione del testo normativo a cui appartengono si intendono generalmente riferiti al Codice civile. 3) Per i riferimenti bibliografici e giurisprudenziali ci si è avvalsi dei tradizionali criteri di citazione; nelle pagine introduttive del volume viene in ogni caso riportato l’elenco delle abbreviazioni utilizzate. 4) Nell’Elenco delle opere generali sono indicati i Manuali, i Commentari, i Trattati e le opere collettanee più frequentemente citati, con l’indicazione della relativa abbreviazione, cui si è fatto ricorso nelle note bibliografiche a piè di pagina. In caso di pluralità di autori di un singolo Manuale, Commentario (con l’eccezione dei Commentari generali al codice civile) o Trattato breve, si è utilizzato il seguente criterio di citazione: AUTORE/Curatore o AUTORE/Opera, dove Curatore e Opera rinviano alle abbreviazioni riportate nell’Elenco delle opere generali. 5) In apertura di ogni Sezione o Paragrafo viene indicata la principale letteratura di riferimento (Letteratura), dedicata ai temi trattati all’interno della medesima Sezione o Paragrafo; i riferimenti bibliografici a contributi aventi carattere più specifico sono invece contenuti nelle sole note a piè di pagina. 6) Nelle note bibliografiche, quando riferite a Manuali, ci si è limitati a indicare l’Autore (secondo il criterio di abbreviazione riportato nell’Elenco delle opere generali), senza indicazione del numero del volume, né della pagina. Quando, in nota, viene richiamata un’opera menzionata per esteso nella Letteratura di cui al punto 5, ci si è limitati ad indicare il nome dell’autore e il titolo dell’opera, in forma accorciata, con indicazione del numero di pagina cui il richiamo si riferisce; quando invece l’opera non è tra quelle indicate nella Letteratura, essa viene menzionata per esteso nella nota in cui viene per la prima volta citata all’interno del Paragrafo (§) e successivamente citata in forma abbreviata. 7) L’uso del neretto tondo segnala il tema trattato nelle singole unità di commento. L’uso del neretto corsivo o del corsivo segnala l’importanza di un determinato concetto o passaggio argomentativo.

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Note per il lettore

Elenco delle opere generali citate

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ELENCO DELLE OPERE GENERALI CITATE

MANUALI

Buonocore CAMPOBASSO

COTTINO

Dir. fall. - Man. breve Dir. impr. - Man. Breve Dir. ind. FERRARA-CORSI FERRI GALGANO GAMBINO GHEZZI-OLIVIERI GUGLIELMUCCI JAEGER-DENOZZATOFFOLETTO LIBONATI MONTANARI-PEDERZINI

BUONOCORE (a cura di), Manuale di diritto commerciale 13, Torino, 2016 CAMPOBASSO, Diritto commerciale (Diritto dell’impresa 7, Torino, 2013; Diritto delle società 9, Torino, 2015; Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali 5, Torino, 2013) COTTINO, Diritto commerciale (L’imprenditore 4, Padova, 2000; Diritto societario 2, a cura di Cagnasso, Padova, 2011) AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve 2, Milano, 2013 AA.VV., Diritto delle imprese. Manuale breve, Milano, 2012 AA.VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza 5, Torino, 2016 FERRARA-CORSI, Gli imprenditori e le società 15, Milano, 2011 FERRI, Manuale di diritto commerciale 15, Torino, 2016 GALGANO, Diritto commerciale (L’imprenditore 13, Bologna, 2011; Le società 18, Bologna, 2012) GAMBINO, Impresa e società di persone 4, Torino, 2013 GHEZZI-OLIVIERI, Diritto antitrust, Torino, 2013 GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare 8, Torino, 2017 JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO, Appunti di diritto commerciale 7, Milano, 2010 LIBONATI, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009 MONTANARI-PEDERZINI, L’imprenditore e il mercato. Imprenditore, procedure concorsuali, contratti commerciali 2, Torino, 2016

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Elenco delle opere generali citate

NIGRO-VATTERMOLI PRESTI-RESCIGNO SPADA TEDESCHI VANZETTI-DI CATALDO

NIGRO-VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali 3, Bologna, 2014 PRESTI-RESCIGNO, Corso di diritto commerciale 7, Bologna, 2015 SPADA, Diritto commerciale (Parte generale. Storia, lessico e istituti 2, Padova, 2009; Elementi 2, Padova, 2009) TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006 VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale 7, Milano, 2012

TRATTATI, COMMENTARI E OPERE COLLETTANEE

Tr. Alpa-Patti Tr. Buonocore Tr. Cicu-Messineo Tr. CNN Tr. Colombo-Portale Tr. Cottino Tr. Galgano Comm. GabrielliSantosuosso Giur. Sist. Bigiavi Tr. Iudica-Zatti L. amic. Campobasso Maffei Alberti l. fall. Maffei Alberti soc. Niccolini-Stagno d’Alcontres

Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da Alpa e Patti, Padova Trattato di diritto commerciale, diretto da Buonocore, Torino Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, e continuato da Schlesinger, Milano Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del notariato, diretto da Perlingieri, Napoli Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, Torino Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, Padova Commentario del codice civile diretto da Enrico Gabrielli, Delle società. Dell’azienda. Della concorrenza, a cura di Santosuosso, Torino, 2014-2015 Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, Torino, 2006-2007 Commentario breve alla legge fallimentare 6, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2013 Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2005 Società di capitali, Commentario a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004

Elenco delle opere generali citate

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Nigro-Sandulli-Santoro La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, Sandulli, Santoro, voll. I-II-III, Torino, 2010 Tr. Rescigno Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, Torino Tr. Sacco Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino Il codice civile, Commentario, diretto da Schlesinger, Milano Comm. Schlesinger Comm. Scialoja-Branca Commentario del codice civile, già diretto da Scialoja, Branca, Galgano, e continuato da De Nova, Bologna-Roma Tr. Vassalli Trattato di diritto civile italiano, diretto da Vassalli, Torino Tr. Vassalli-LuisoTrattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Gabrielli diretto da Fr. Vassalli, Luiso e Gabrielli, Torino Studi Zanarone Il diritto delle società oggi, Innovazioni e persistenze. Studi in onore di Giuseppe Zanarone, diretto da Benazzo, Cera e Patriarca, Torino, 2011

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Elenco delle opere generali citate

Elenco delle abbreviazioni

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ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

ABI ABF AGCM AGE agg. AIDA App. ArchCiv ArchGiur art. Ass BBanchieri BBTC BdI BEEU BImpSoc Boll. c.app.pubbl. c.ass. c.c. c.comm. c.cons. C.Conti C.Cost. c.p.c. c.p.i. Cass. CBE cfr. CG c. in l. CE CEE

Associazione bancaria italiana Arbitro bancario finanziario Autorità garante della concorrenza e del mercato Analisi giuridica dell’economia aggiornamento Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo Appello Archivio Civile Archivio Giuridico articolo Le assicurazioni Banche e banchieri Banca, borsa e titoli di credito Banca d’Italia Brevetto Europeo con Effetto Unitario Banca, impresa e società Bollettino codice degli appalti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) codice civile codice di commercio codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) Corte dei Conti Corte Costituzionale Codice procedura civile codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) Suprema Corte di Cassazione Convenzione sul Brevetto Europeo confronta Corte di giustizia delle Comunità europee/dell’Unione europea convertito in legge Comunità europea Comunità economica europea

XXXII circ. co. comb. disp. Cons.St. Cost. Contr ContrImp ContrImpE CorrGiur CorrMerito Cost. CSD CUP DannoResp DBanc DBancaMercFin DFall DGiur DGAgrAmb DigIt DInd dir. d.l. d.lgs. d.lgs.C.provv.St. d.l.lgt d.m. d.p.c.m. d.p.r. D4, sez comm (o sez civ) disp.att. disp.prel. disp.trans. DizDPriv DLav EncD EncGiur es. EUIPO EuDPriv EPO Fall FAmm FAmm-Cons.St.

Elenco delle abbreviazioni

circolare comma combinato disposto Consiglio di Stato Costituzione della Repubblica italiana I Contratti Contratto e impresa Contratto e impresa/Europa Corriere giuridico Corriere del merito Costituzione Central Securities Depository Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale Danno e responsabilità Diritto bancario Diritto della banca e del mercato finanziario Diritto fallimentare e delle società Diritto e giurisprudenza Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente Digesto italiano Il diritto industriale direttiva decreto legge decreto legislativo decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato Decreto legislativo luogotenenziale decreto ministeriale decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri decreto del Presidente della Repubblica Digesto delle discipline privatistiche, Quarta edizione, sezione commerciale (o sezione civile) disposizioni di attuazione disposizioni sulla legge in generale disposizioni transitorie Dizionario del diritto privato Diritto del lavoro Enciclopedia del diritto Enciclopedia giuridica italiana Treccani esempio European Union Intellectual Property Office Europa e diritto privato European Patent Office Il fallimento e le altre procedure concorsuali Foro amministrativo Foro amministrativo – Consiglio di Stato

Elenco delle abbreviazioni

FAmm-TAR FIt FNap FPad Fisco GADI GBanc GComm GDInd GIt Giust civ Giustit GMerito GPiem GTosc GU GUCE GUUE IDP Imp Jus iusexplorer l. l.ass. l.at. l.camb. l.cost. l.fall. Mass. MEF MiSE NDFall NDSoc NGCC NLCC Not Not. Camp. Not. Mi. Not. Triv. NovD NRDComm ord. ODC ODCC PAD par.

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Foro amministrativo – Tribunali amministrativi regionali Foro italiano Foro napoletano Foro padano Il fisco Giurisprudenza annotata di diritto industriale Giurisprudenza bancaria Giurisprudenza commerciale Giurisprudenza del diritto industriale Giurisprudenza italiana Giustizia civile Giustizia italiana Giurisprudenza di merito Giurisprudenza piemontese Giurisprudenza toscana Gazzetta ufficiale Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea Istituto di pagamento L’impresa Jus www.iusexplorer.it (banca dati on line) Legge legge assegno (r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736) legge antitrust legge cambiaria (r.d. 14 dicembre 1933, n. 1669) legge costituzionale legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) Massimario Ministero dell’Economia e delle Finanze Ministero dello Sviluppo economico Nuovo diritto fallimentare Nuovo diritto delle società La nuova giurisprudenza civile commentata Le nuove leggi civili commentate Notariato Massime del Comitato della Regione Campania Massime del Consiglio Notarile di Milano Orientamenti del Comitato Triveneto dei notai Novissimo Digesto italiano (ed. Utet) Nuova rivista di diritto commerciale Ordinanza Orizzonti del diritto commerciale Osservatorio del diritto civile e commerciale Payment Accounts Directive paragrafo

XXXIV PCT PISP pr. provv. PSD Racc RassDCiv RCritDPriv r.d. RDCiv RDComm RDImp RDInd RDIntPrivProc r.d.l. RDP RDProc RDSoc RDTrib RDMC reg. REsForz RGEdilizia RGSard RID RItEcon RMUE RNot RSoc RTDP RTrim s./ss. SEPA sez. SISCO Soc StI StOe SU TAR TFUE Tr.CE Trib. TRIPs

Elenco delle abbreviazioni

Patent Cooperation Treaty Payment Initiation Service Provider previgente provvisorio Payment service directive Raccolta della giurisprudenza della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado Rassegna di diritto civile Rivista critica di diritto privato regio decreto Rivista di diritto civile Rivista di diritto commerciale Rivista di diritto dell’impresa Rivista di diritto industriale Rivista di diritto internazionale privato e processuale regio decreto legge Rivista di diritto privato Rivista di diritto processuale Rivista di diritto societario Rivista di diritto tributario Regolamento sui disegni e modelli comunitari regolamento Rivista di esecuzione forzata Rivista giuridica dell’edilizia Rivista giuridica sarda rapporti interbancari diretti Rivista italiana degli economisti Regolamento sul marchio dell’Unione europea Rivista del notariato Rivista delle società Rivista trimestrale di diritto pubblico Rivista trimestrale di diritto e procedura civile seguente/seguenti Single Europe Payment Area sezione Società italiana di studi concorsuali Le società Studium iuris Studium oeconomiae sezioni unite Tribunale amministrativo regionale Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea Trattato istitutivo della Comunità europea Tribunale Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights

Elenco delle abbreviazioni

Trusts TU TUB TUF TUIR UAMI UE UEB UIBM VNot WIPO WTO

XXXV

Trusts e attività fiduciaria testo unico Testo Unico Bancario (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385) Testo Unico della Finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) Testo Unico delle Imposte sui Redditi (d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917) Ufficio di armonizzazione a livello di mercato interno Unione europea Ufficio europeo brevetti Ufficio italiano Brevetti e Marchi Vita notarile World Intellectual Property Organization World Trade Organisation

XXXVI

Elenco delle abbreviazioni

CIAN – Il diritto commerciale. Nozione, storia, fonti

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INTRODUZIONE

IL DIRITTO COMMERCIALE. NOZIONE, STORIA, FONTI SOMMARIO: I. La nascita e l’affermazione del diritto commerciale: cenni storici. – II. Il contenuto del diritto commerciale e le traiettorie del suo sviluppo nell’era moderna. – III. Il problema dell’autonomia del diritto commerciale dal diritto civile. – IV. Le fonti.

LETTERATURA: ANGELICI, La lex mercatoria e il problema dei codici di commercio, GComm, 2010, I, 361; ASCARELLI, Corso di diritto commerciale3, Milano, 1962; BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, Milano, 2000; ID., Le nuove frontiere del diritto commerciale, Napoli, 2006; ID., Presentazione, Tr. Buonocore, I/1, 2001; BUTTARO, L’autonomia del diritto commerciale, RDComm, 2002, I, 421; G. CIAN, Contratti civili, contratti commerciali e contratti d’impresa: valore sistematico-ermeneutico delle classificazioni, RDCiv, 2004, I, 849; ID., Diritto civile e diritto commerciale oltre il sistema dei codici, RDCiv, 1974, I, 523; M. CIAN, Le antiche leggi del commercio, Bologna, 2016; COSTI, Le nuove frontiere del diritto commerciale di Vincenzo Buonocore, BBTC, 2009, I, 365; COTTINO, Introduzione al trattato, Tr. Cottino, I, 2001; DALMARTELLO, I contratti delle imprese commerciali3, Padova, 1962; DI CATALDO-SANFILIPPO (a cura di), Le fonti private del diritto commerciale, Milano, 2008; FERRI, voce Diritto commerciale, EncD, XII, 1964; GALGANO, Lex mercatoria5, Bologna, 2010; GOLDSCHMIDT, Storia universale del diritto commerciale (tr. it.), Torino, 1913; LEVI, La commercializzazione del diritto privato: il senso dell’unificazione, Milano, 1996; LIBERTINI, Diritto civile e diritto commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia, RSoc, 2013, 1; LIBONATI, La categoria del diritto commerciale, RSoc, 2002, 1 ss.; MONTALENTI, Il diritto commerciale dalla separazione dei codici alla globalizzazione, in Impesa, società di capitali, mercati finanziari, Torino, 2017, 3 MOSSA, I problemi fondamentali del diritto commerciale, RDComm, 1926, I, 233; OPPO, I contratti d’impresa tra codice civile e legislazione speciale, RDCiv, 2004, I, 841; ID., Principi, Tr. Buonocore, I/1, 2001; PADOA SCHIOPPA, Saggi di storia del diritto commerciale, Milano, 1992; PORTALE, Diritto privato comune e diritto privato dell’impresa, in 1882-1982. Cento anni dal codice di commercio, Milano, 1984, 227; ID., Il diritto commerciale italiano alle soglie del XXI secolo, RSoc, 2008, 1; SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti3, Torino, 1998; TETI, Codice civile e regime fascista, Milano, 1990; VALERI, Autonomia e limiti del nuovo diritto commerciale, RDComm, 1943, I, 21; ID., Il codice di commercio, RDComm, 1945, I, 11.

Per diritto commerciale si intende l’insieme delle norme di diritto privato che disciplinano specificamente le attività produttive e il loro esercizio. Al centro del fenomeno economico, motore della vita sociale di ogni comunità sviluppata, sta l’attività creatrice di nuova ricchezza, produttrice, cioè, di utilità capaci di soddisfare un bisogno umano ed a cui la comunità attribuisce valore economico: è attività che genera nuovi beni (anticamente solo materiali, dai prodotti agricoli a

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Introduzione

quelli tessili, oggi sempre più sofisticati e complessi, e persino immateriali e virtuali), che eroga servizi (dal trasporto, alla custodia di merci, dall’assicurazione ai servizi intellettuali del legale o del medico), che degli uni e degli altri promuove la circolazione (interponendosi tra produttore e utilizzatore finale). A questo fenomeno consustanziale al vivere comunitario degli esseri umani, che nella civiltà moderna appare tanto imponente e di dimensioni ormai planetarie e che attraversa con le sue ramificazioni e la sua capillare presenza nel tessuto sociale la vita di ogni persona (dalla nascita al corteo battesimale, dal banchetto nuziale alla morte, come sottolineava suggestivamente cent’anni orsono il padre della scienza commercialistica italiana, Cesare Vivante), è dedicato in ogni ordinamento un copioso complesso di norme giuridiche. E non potrebbe essere diversamente. L’attività produttiva è una manifestazione dell’agire umano, socialmente rilevante, caratterizzata da una profonda complessità, che si snoda e si sviluppa nel tempo e nello spazio e che, attraverso l’intreccio dei rapporti sociali, dà vita a relazioni svariate, del contenuto e della natura più diversi, con ogni altro attore della comunità (relazioni con chi dispone del capitale finanziario, con chi fornisce gli strumenti e i mezzi di produzione, con chi presta la propria opera collaborativa, con chi acquista i beni o i servizi); è inoltre un’attività che, assai frequentemente, viene esercitata non da un individuo isolato, ma da organismi appositamente costituiti (le società), capaci di raccogliere finanziamenti cospicui e partecipate da gruppi più o meno numerosi di investitori. Nelle proprie dinamiche, l’attività produttiva è un fenomeno che si colloca fondamentalmente sul piano dei rapporti interprivatistici tra le persone; sotto molti aspetti, tuttavia, il diritto civile, ossia il diritto comune delle obbligazioni e dei contratti (libro IV del codice) e il diritto degli enti associativi (libro I), non è idoneo a mettere in campo una regolazione né adeguata né sufficiente. L’esigenza di tutelare altri, specifici interessi anima l’intervento della legge in questa materia: l’interesse ad una contesa sana e benigna tra i concorrenti, l’interesse alla trasparenza e alla correttezza nella gestione dell’attività, quello del risparmio diffuso e del credito alla solidità delle iniziative finanziate, per finire con l’interesse dei consumatori ad un rapporto equilibrato e leale con la propria controparte; e, per gli organismi produttivi, l’interesse a regolare i rapporti interni (tra i soci) ed esterni (tra costoro e i terzi) secondo logiche capitalistiche, del tutto diverse dalle logiche ideali che ispirano la disciplina delle associazioni e delle fondazioni nel diritto civile. D’altro canto, l’attività produttiva interseca fatalmente anche momenti della vita sociale a rilevanza prettamente collettiva: e così del loro esercizio l’ordinamento si occupa pure sotto il profilo tributario (con la tassazione dei redditi d’impresa), sotto quello dei servizi pubblici fondamentali (con i regimi speciali per i soggetti operanti in questi settori – televisivo, dell’energia, ecc. –), della tutela dell’ambiente, e via dicendo. Anche il diritto pubblico, dunque, in molte delle sue branche, si interessa delle attività economiche, con norme ed istituti più o meno complessi, ad esse specificamente dedicate. Nel diritto commerciale, tuttavia, confluiscono esclusivamente gli istituti e le disposizioni privatistiche. Si tratta di una delimitazione che riposa senza dubbio su ragioni storiche (infra, I), ma che ha ancora oggi un importante significato non solo scientifico e didattico, ma anche nella ricostruzione sistematica, e quindi nell’inter-

CIAN – Il diritto commerciale. Nozione, storia, fonti

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pretazione giuridica, degli istituti: Il diritto commerciale disciplina infatti l’azione imprenditoriale nel mercato e gli istituti che lo compongono sono accomunati dalla tensione a regolare le dinamiche dei rapporti che si svolgono nel mercato; esso dunque è, in primo luogo, un sistema normativo distinto dalle norme pubblicistiche, che, anche quando si rivolgono alle attività economiche, lo fanno secondo logiche proprie (la logica dell’intervento autoritativo, ad es., nella creazione delle autorità di vigilanza come Consob o Banca d’Italia) o perseguendo finalità proprie (di pubblico interesse e di garanzia di un adeguato soddisfacimento dei bisogni collettivi, come ad es. nella disciplina della concessione dei servizi essenziali); in secondo luogo, esso è, anche all’interno della macrofamiglia del diritto privato, un ordinamento speciale, ispirato e retto da principi autonomi, poggianti sulle specificità delle attività economiche, rispetto alle ordinarie relazioni privatistiche tra i componenti della comunità.

I. La nascita e l’affermazione del diritto commerciale: cenni storici Gli storici insegnano che il diritto commerciale è il frutto del genio italiano ed europeo dell’epoca tardomedievale. Nel Vicino Oriente antico, in Grecia e nell’Impero romano esistevano attività produttive (agricole ed artigianali) e traffici locali e a lunga distanza, ma – secondo l’opinione comune – non esisteva un diritto commerciale, cioè un corpo articolato di norme specificamente rivolto alla loro disciplina e distinto da quello destinato a regolare i rapporti non commerciali: le relazioni giuridiche nascenti da tali attività erano soggette al diritto civile e, se norme speciali, anche di particolare interesse, non mancavano 1, queste non raggiunsero mai una numerosità e un grado di organicità tali da poterle erigere a sistema 2. Le ricerche che pure si sono sforzate di enucleare, specie nelle poleis greche, un sistema siffatto (che avrebbe avuto ad oggetto principalmente il commercio marittimo e che, frutto delle consuetudini osservate in tutto il Mediterraneo, avrebbe trovato applicazione generalizzata, oltre i confini delle singole città-stato) 3 non sono bastate a far retrodatare l’atto di nascita della nostra materia, che la storiografia predominante continua a collocare dopo l’anno Mille d.C. È in quest’epoca che l’Europa esce progressivamente dall’oscurità e dalla stagnazione che avevano caratterizzato i secoli successivi alla caduta dell’Impero romano d’occidente e

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CIAN, Le antiche leggi, passim. SANTARELLI, Mercanti, 50 ss.; COTTINO, Introduzione, 3 ss.; GOLDSCHMIDT, Storia, 41 ss.; GALGANO, Lex, 26 ss.; BIANCHINI, voce Diritto commerciale nel diritto romano, D4, sez comm, IV, 1989, 320 ss.; ROCCO, Principi di diritto commerciale, Torino, 1928, 4 ss. L’assunto dell’inesistenza di un sistema di leggi commerciali nelle culture premedievali ha confinato però nell’ombra anche gli elementi di modernità che i relativi ordinamenti in realtà contenevano: l’idea fondante del diritto commerciale (esigere la produzione e gli scambi una regolazione differenziata per la specialità degli interessi implicati) era tutt’altro che assente, persino nelle più antiche culture mesopotamiche; v. diffusamente CIAN, Le antiche leggi. 3 PAOLI, L’autonomia del diritto commerciale nella Grecia classica, RDComm, 1935, I, 36 ss. Anche rispetto all’ordinamento giuridico romano si è affacciata in dottrina l’idea della ricostruibilità di un sistema del diritto commerciale in senso proprio: CERAMI-PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico3, Torino, 2010; DI PORTO, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, III, Napoli, 1997, 413 ss.; ID., Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica (II sec. A.C.-II sec. D.C.), Milano, 1984. 2

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Introduzione che l’economia perde il suo carattere eminentemente rurale e curtense, affrancandosi dal sistema feudale e sviluppando un vasto movimento di commerci sempre più fiorente e di respiro internazionale. È, in Italia, l’epoca dei Comuni, all’interno dei quali una nuova classe sociale, quella dei mercanti, fa la sua comparsa nel gran teatro del mondo, acquisendo un’importanza sociale, un’influenza politica e ricchezze vieppiù crescenti 4. Siamo nei secoli XI-XIII: i centri urbani si risvegliano e si sviluppano, i traffici animano la vita comunitaria, la cultura rifiorisce e getta le fondamenta di quei monumenti che, nel campo dell’arte, dalla letteratura alla pittura, illustreranno l’alba della nuova era ed eserciteranno un’influenza continua nei secoli a venire. A propria difesa, per la protezione e la promozione delle proprie iniziative, i mercanti si riuniscono nelle Corporazioni di arti e mestieri, associazioni di categoria per la verità sempre esistite, ma che in quest’epoca assumono un’importanza mai prima di allora avuta (famose e potenti le Arti, a Firenze, ed in particolare quella dei lanaioli) e che in alcuni centri acquisiscono anche un ruolo politico e non solo economico fondamentale 5. È al loro interno che, secondo gli storici, si getta il seme del diritto commerciale. I mercanti hanno esigenze e interessi che il diritto comune (il corpus iuris romano, avente all’epoca valore universale, e i precetti del diritto canonico, che guidano la vita sociale non meno di quella spirituale) non è in condizione di soddisfare, a causa del formalismo che lo caratterizza e dell’estraneità dei suoi principi informatori alle dinamiche degli affari: è allora nella pratica del commercio che, attraverso la formazione progressiva di usi osservati dai mercanti nei loro rapporti, si crea un complesso di regole di portata e numero sempre crescenti, consuetudini inizialmente non scritte, che poi vengono raccolte e codificate negli Statuti delle Corporazioni, i quali disciplinano minuziosamente l’esercizio delle rispettive attività. A questi usi e a questa disciplina sono vincolati i mercanti iscritti alla Corporazione, i cui consoli ne garantiscono l’applicazione, esercitando nei confronti degli associati il potere giudiziario. Il diritto commerciale nasce dunque come diritto di classe, autonomo sia sul piano delle fonti, diritto creato dagli stessi mercanti nel proprio interesse, sia sotto il profilo dei destinatari e della potestà giurisdizionale, in quanto destinato a regolare i rapporti tra i mercanti medesimi e ad essere applicato ed imposto da giudici speciali di loro emanazione. La sua autonomia rispetto allo ius civile risalta nella novità delle soluzioni giuridiche e nella sua vocazione ad essere un diritto di applicazione sovranazionale, espressione dell’universalità delle esigenze mercantili e dell’estensione territoriale dei traffici. È così che il diritto commerciale contribuisce a superare il formalismo nella conclusione del contratto, tipico del diritto romano, ma inaccettabile in un mercato che esige speditezza e libertà di forme; che il diritto commerciale sovverte il divieto canonico di prestare a interessi (nummus non parit nummos), che affondava le proprie radici nella Bibbia e che, eticamente comprensibile se il denaro è destinato ad aiutare un debitore bisognoso, non ha ragion d’essere quando chi lo riceve a prestito intende investirlo in un’iniziativa economica per trarne un profitto. È così che, inoltre, si getta il seme di istituti e rapporti negoziali innovativi e moderni, come il contratto di assicurazione (che nasce, sembra, nel commercio marittimo, mediante l’attribuzione preventiva di una somma di denaro pari al valore del carico trasportato, a favore del capitano della nave − l’indennizzo, versato in anticipo per il caso di naufragio o perdita della merce −, e la restituzione della stessa somma, con una maggiorazione − il premio riconosciuto all’assicuratore −, in caso contrario), la cambiale (che nasce nei rapporti ex causa cambii, in cui il mercante che si accinge ad un viaggio con-

4 SANTARELLI, Mercanti, 35 ss.; GOLDSCHMIDT, Storia, 79 ss.; PIERGIOVANNI, voce Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno, D4, sez comm, IV, 1989, 335 ss. 5 Per i profili giuridici v. PADOA SCHIOPPA, Saggi, 15 ss.

CIAN – Il diritto commerciale. Nozione, storia, fonti

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segna del denaro ad un terzo, il quale si confessa suo debitore, rilasciandogli un documento in cui si impegna a consegnargli, per mezzo del proprio corrispondente nel paese di destinazione, una somma equivalente a quella ricevuta, in valuta locale), le società (le compagnie di mercanti e l’accomandita, più tardi le grandi società anonime), nei secoli successivi la borsa 6. In questa prima fase, al centro della scena economica sta l’attività di intermediazione nella circolazione delle merci. L’attività di produzione è svolta a livello ancora elementare, nelle botteghe, da numerosissimi, piccoli artigiani che si avvalgono dell’aiuto dei familiari o di pochi apprendisti; sono i mercanti, invece, ossia coloro che acquistano dagli artigiani per rivendere al minuto, i veri protagonisti della vita economica, la cui attività assume talvolta dimensioni comparabili con quelle delle strutture distributive moderne, che investono capitali ingenti in ardite operazioni e si arricchiscono esponenzialmente, che espandono la propria attività in territori sempre più vasti. La frammentaria galassia degli artigiani (alla produzione della lana e delle pelli che il mercante rivende contribuiscono tessitori, tintori, lavatori, conciatori, pettinatori, tiratori, filatori, ecc.) resta loro subalterna, economicamente, socialmente ed organizzativamente. È l’apogeo del commercio ed è per questo che il sistema normativo nascente si chiama “diritto commerciale” (ius mercatorum). È un diritto che non risponde ad interessi locali, ma territorialmente universali come universale è il commercio, ed è per tale motivo che le soluzioni consuetudinarie che in esso si formano vengono rapidamente accolte in tutta Europa: il seme attecchisce ovunque giungano i mercanti. Ed è un diritto che, non solo per il crescente peso politico e comunitario del ceto di cui è espressione, tende ad estendere il proprio raggio d’azione oltre la ristretta cerchia dei suoi originari destinatari: esso offre infatti soluzioni giuridiche efficienti e moderne, meglio adatte dello ius civile ad una società animata da una propensione al progresso che ormai coinvolge ogni classe ed ogni aspetto della vita cittadina; il diritto commerciale è un diritto di fonte elitaria, ma non classista. Per entrambe queste ragioni, progressivamente, se ne afferma sul piano soggettivo l’applicabilità (con assoggettamento alla giurisdizione consolare) ad ogni mercante, indipendentemente dall’appartenenza o meno alla Corporazione, e poi anche nei rapporti tra un mercante ed un terzo. L’attrazione è graduale, ma irresistibile. Sul piano oggettivo, inoltre, principi inizialmente operanti solo nelle relazioni commerciali, come quello dell’onerosità dei prestiti di denaro o della libertà delle forme contrattuali, nel tempo si generalizzano e sovvertono, anche per i rapporti prettamente civili, gli antichi dogmi. La carica delle novità portate o corroborate dallo ius dei mercanti è dirompente. A partire dal XVI-XVII secolo lo scenario muta profondamente 7. Politicamente, il rafforzamento degli Stati nazionali fa emergere la tendenza all’accentramento del potere legislativo e all’attrazione delle iniziative mercantili sotto il controllo statale; socialmente, i centri propulsori dell’economia si spostano nel nord dell’Europa e le rotte dei traffici valicano i confini del Mediterraneo e dell’Europa cristianizzata per aprirsi ai territori d’oltremare, dove sono spagnoli e portoghesi, inglesi e olandesi a dominare. Nel contenuto, il diritto commerciale perfeziona i modelli formatisi per via consuetudinaria nei secoli precedenti, ma soprattutto elabora nuovi, complessi istituti. Nelle Compagnie coloniali, entità che sorgono per concessione statale, cui è accordato il beneficio della responsabilità limitata e che raccolgono capitali ingentissimi tra investitori d’ogni sor-

6 Cfr. ampiamente COTTINO, Introduzione, 39 ss.; ASCARELLI, Corso, 8 ss.; GOLDSCHMIDT, Storia, 188 ss. 7 GALGANO, Lex, 77 ss.; ASCARELLI, Corso, 27 ss.; SPADA.

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Introduzione ta per amministrare i commerci transoceanici, si sono viste le progenitrici delle moderne società per azioni (la Compagnia olandese delle Indie orientali nasce nel 1602): organizzazioni potentissime (fornite persino di una propria milizia), in cui si intrecciano interessi economici e politici, ambizioni di profitto ed espansionistiche. Con l’accrescersi degli investimenti finanziari e il conseguente bisogno di una rapida circolazione della ricchezza si sviluppano le borse, luoghi in cui si concentrano gli scambi di merci e di partecipazioni nelle grandi imprese mercantili. Questo secondo periodo è però, per il diritto commerciale, una fase di rottura rispetto all’epoca comunale soprattutto sul piano delle fonti: lo stato nazionale accentra su di sé il potere legislativo e la produzione normativa diviene, anche nel nostro settore, una produzione statale; nel 1673 la Francia di Luigi XIV e di Colbert emana l’Ordonnance du commerce (il c.d. Code Savary), cui segue, dopo pochi anni, quella della marina. Il diritto commerciale resta un diritto speciale, destinato a regolare l’attività dei commercianti, ma non è più un diritto di fonte elitaria. È l’avvio dell’opera di codificazione, che culminerà nei secoli successivi e che ancora informa gli ordinamenti di civil law. Anche la dottrina giuridica progredisce nei secoli e si dedica con piglio sempre più sistematico allo studio del diritto commerciale. Se già nei primi tempi non mancano esempi di opere a carattere peraltro spiccatamente empirico e casistico, piace ricordare che il primo, organico Trattato riservato alla nostra materia risale alla metà del ’500, il Tractatus de mercatura dell’anconetano Benvenuto Stracca 8. Il diciottesimo è il secolo della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese. La prima muta per sempre lo scenario economico: la produzione assume le forme di una produzione di massa e l’industria soppianta il commercio come protagonista del mercato; si affermano nuove esigenze e si disvelano nuovi interessi, che guideranno la maturazione del sistema legislativo sino al nostro secolo. La rivoluzione francese agisce invece sulla concezione stessa del diritto commerciale come diritto di classe. L’abolizione di ogni forma di privilegio e di distinzione tra ceti sociali, l’affermazione incontrastata del principio di libertà – che è, rispetto alle attività produttive, libertà di iniziativa economica – portano ad un rovesciamento sostanziale del sistema commercialistico, il quale, da corpus normativo costruito su basi soggettive, cioè imperniato sulla figura e sulla disciplina di una determinata categoria di soggetti (gli industriali e i commercianti), diventa un sistema a base oggettiva, a cardine del quale è posto l’atto di commercio, fattispecie comportamentale, cui è riservata una disciplina speciale a prescindere dalla natura dei soggetti che la pongono in essere. Il mutamento è radicale e non solo di prospettiva. Nei secoli precedenti, la mercatura era riservata a coloro che ottenevano l’associazione alla Corporazione, ed ancora l’Ordonnance colbertiana, nel XVII secolo, precisava le condizioni soggettive (di età, di apprendistato presso un mercante), alle quali era subordinata l’autorizzazione all’esercizio del commercio; e il diritto commerciale, con i suoi Tribunali speciali, era un ordinamento rivolto esclusivamente a chi entrava a far parte della relativa categoria. Ora esso diviene un diritto che regola un certo tipo di atto, da chiunque compiuto; così, l’acquisto di una merce per la sua lavorazione e la successiva rivendita è soggetto a questo diritto, anche se compiuto occasionalmente da chi non si occupi per professione della produzione e dell’intermediazione nel traffico dei beni. È il Code de commerce napoleonico (1807) a consacrare il passaggio al nuovo modello, cui nei decenni successivi si ispirerà l’opera di codificazione del giovane stato unitario italiano.

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COTTINO, Introduzione, 91 ss.; PIERGIOVANNI, voce Diritto commerciale, 342 ss.

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L’800 è infatti il secolo delle grandi codificazioni. La Germania e l’Italia vi giungeranno, a causa della frammentazione politica che contraddistingueva i loro territori, più tardi rispetto allo stato francese, ma nella seconda metà del secolo il processo è compiuto anche in questi paesi. Il primo Codice di commercio dell’Italia unita (che affianca il Codice civile) risale al 1865, ma fu presto sostituito da un secondo Codice, del 1882. Anche quest’ultimo è imperniato sul concetto di atto di commercio e configura il diritto commerciale come un sistema a matrice oggettiva 9. L’art. 3 enumera (in una elencazione non tassativa) ventiquattro tipi di atto, dalla compera di derrate o di merci a scopo di rivendita, alla stessa loro rivendita, dalle operazioni di banca alle cambiali, alle assicurazioni, dalle imprese di fabbriche e di costruzioni a quelle di spettacoli pubblici; la figura del commerciante è definita solo per derivazione, essendo tale colui che “per professione abituale” compie atti di commercio (art. 8). La portata applicativa del sistema speciale è assai ampia, poiché vi sono assoggettati tutti i contratti del commerciante che non attengano essenzialmente alla sua vita civile (art. 4) e perché, se un atto è commerciale per una sola delle parti (la rivendita di beni, da parte del dettagliante al consumatore finale), alla legge speciale restano comunque assoggettate entrambe (art. 54). Il diritto dei commercianti finisce così per assumere una dimensione ed un ruolo preponderanti, poiché, come rilevava con toni accesi ed inquieti Cesare Vivante, non vi era momento e passo della vita di un uomo che non vi fosse sottoposto. Sul piano del contenuto, la contrapposizione tra questa legge e il diritto civile era evidente e palpabile: nelle fattispecie regolate, poiché lo stesso tipo di atto riceveva un trattamento giuridico diverso, rispettivamente dal codice civile e da quello di commercio, a seconda del contesto in cui si inseriva (e così vi erano una vendita civile ed una vendita commerciale, le società commerciali e quelle civili); nei principi normativi, poiché per i contratti commerciali e per le relative obbligazioni operavano regole non coincidenti con quelle civili (ad es., gli obbligati civilmente non erano tenuti in solido se non per patto espresso, mentre la solidarietà era presunta nelle obbligazioni commerciali); nelle fonti, poiché il diritto civile poteva operare nella materia del commercio solo se nulla disponevano le leggi commerciali, eventualmente applicate anche per analogia, o, in loro mancanza, gli usi mercantili 10. Nel frattempo, alla fine del secolo, vennero aboliti i Tribunali speciali: l’oggettivazione dello ius mercatorum è un processo compiuto. Animava gli studi giuridici italiani, in quell’epoca e specie nei primi decenni del ventesimo secolo, una riflessione profonda sul valore e sull’opportunità di una distinzione tra due codici e tra due diritti. Lo stesso Cesare Vivante caldeggiò inizialmente l’unificazione dei sistemi, persuaso che un diritto votato alla difesa del commercio, ispirato ai principi di una competizione economica serrata e con regole severe a tutela del credito (la solidarietà passiva, il rigore nei termini di adempimento, ecc.), e dunque sbilanciato a favore del ceto imprenditoriale, dovesse trovare, nella fusione con il diritto civile, un equilibrio maggiore, una sensibilità più spiccata nei confronti dei consumatori, un più sapiente compromesso

9 Si è peraltro rilevato come la funzione del sistema fosse quella di regolare, più che i singoli atti, isolatamente considerati, l’attività del commerciante nel suo complesso: AULETTA, L’impresa dal codice di commercio del 1882 al codice civile del 1942, in 1882-1982. Cento anni dal codice di commercio, Milano, 1984, 75 ss. 10 Sulla nascita del codice di commercio v. PADOA SCHIOPPA, La genesi del codice di commercio del 1882, in 1882-1982. Cento anni, cit., 3 ss. La dicotomia tra i due sistemi è stata per la verità da taluno svalutata, almeno sotto il profilo del rango delle rispettive fonti: cfr. G. CIAN, Diritto civile, 537 ss.

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Introduzione anche con le esigenze solidaristiche della comunità sociale 11. Altre voci si levarono invece a difesa del dualismo e lo stesso Vivante, in seguito, ritornò sulle sue posizioni 12. Nei primi decenni del ’900, d’altra parte, sul piano politico l’orientamento sembrava del tutto favorevole alla conservazione dei due sistemi, tanto che si lavorò a più riprese ai progetti per un nuovo codice di commercio. La storia, però, prese una strada diversa. Nel 1942 venne varato il nuovo codice civile, e la materia del commercio trovò posto al suo interno, occupandone il quinto libro dedicato al “Lavoro”. Almeno in Italia (altri paesi come la Germania e la Francia tuttora conservano la distinzione) la stagione della doppia codificazione si chiuse così. Le ragioni dell’unificazione, in qualche modo repentina, sono state ricollegate all’ideologia politica fascista dell’epoca, la quale cercava, attraverso la riconduzione ad unità sotto il segno del lavoro, di comporre i conflitti di classe nel nome di una nuova pace sociale: anche l’imprenditore doveva essere visto come un lavoratore ed il suo profitto come la ricompensa dell’opera che egli prestava 13. È certo peraltro, come dimostra il dibattito che aveva animato la scuola commercialistica nei decenni precedenti, che anche ragioni sociali ed economiche più profonde influirono sull’esito del processo di riforma: la logica del dualismo normativo − un diritto per il vivere civile e per la proprietà fondiaria, un altro per il commercio − usciva compromessa dall’industrializzazione e dalla massificazione dei processi produttivi, che aveva portato ad una penetrazione capillare del sistema economico in quello sociale: come rilevava Tullio Ascarelli, il superamento della dicotomia che, nel passato, aveva contrapposto l’agricoltura all’industria e al commercio, i ceti nobiliari a quelli mercantili, è il portato della produzione industriale di massa, che, a mano a mano che permea la vita tutta della comunità sociale, non esige più l’introduzione di istituti normativi speciali, collaterali a quelli tradizionali, ma determina una trasformazione di tutta la struttura sociale e dunque di tutti gli istituti giuridici che vi presiedono 14. L’unificazione dei codici non rappresentò, proprio per queste ragioni, un’operazione di mero maquillage, una semplice concentrazione entro un solo testo normativo, cioè, di istituti e discipline destinati a rimanere comunque distinti sul piano del contenuto e dell’ambito di applicazione. Scompare la figura dell’atto di commercio e soprattutto ne scompare la disciplina: il diritto delle obbligazioni è ormai retto da principi uniformi, che prescindono dalla natura del negozio che dell’obbligazione è fonte. E tuttavia l’unificazione non è avvenuta attraverso la cancellazione della disciplina speciale e l’attrazione dei negozi commerciali entro l’ambito di applicazione dello ius civile; è coincisa, all’opposto, con la generalizzazione proprio dei principi di diritto speciale e con il loro affermarsi quali nuovi principi comuni privatistici: da quelli antichi, come la naturale onerosità dei prestiti di denaro, a quelli che ancora nei codici ottocenteschi contrapponevano lo ius mercatorum a quello civile (la solidarietà passiva, il carattere fruttifero dei debiti pecuniari liquidi ed esigibili, ecc.). È il fenomeno della commercializzazione del diritto privato.

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VIVANTE, Introduzione al Trattato di diritto commerciale5, I, Milano, 1922, 7 ss. VIVANTE, L’autonomia del diritto commerciale e i progetti di riforma, RDComm, 1925, I, 572 ss.; MOSSA, Per il nuovo codice di commercio, ivi, 1928, I, 16 ss.; ROCCO, Principi, cit., 64 ss.; tra gli studi dell’epoca cfr. anche ASQUINI, Codice di commercio, codice dei commercianti o codice unico di diritto privato?, RDComm, 1927, I, 507 ss.; sul dibattito del tempo v. amplius TETI, Codice civile; COTTINO, Introduzione, 383 ss. 13 SPADA; AULETTA, L’impresa, cit., 82 s.; GALGANO, Lex, 132. Sull’unificazione v. TETI, Codice civile; RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, Milano, 2003; ASCARELLI, Corso, 93 ss.; FERRARA-CORSI; ASQUINI, voce Codice di commercio, EncD, VII, 1960, 251 ss. 14 ASCARELLI, Corso, 122 ss. 12

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Permane tuttavia, all’interno del codice del 1942, una disciplina dell’organizzazione d’impresa, così come permangono, al di fuori di esso, una disciplina delle crisi d’impresa, una della concorrenza, una delle privative industriali e via discorrendo; il che non ha sopito le discussioni sull’autonomia o meno, ancor oggi e seppure su piani diversi dal passato, del diritto commerciale sotto il profilo giuridico, cioè dell’erigibilità a sistema indipendente del complesso di norme dedicate all’impresa, tuttora sussistenti: l’unicità del testo legislativo rappresenta infatti, di per sé, un dato solo formale, che non pregiudica la questione sostanziale della compresenza di due corpi normativi distinguibili, questione che deve essere risolta su altre basi: la pregnanza e l’organicità dell’uno rispetto all’altro, l’enucleabilità di principi ispiratori differenziati e la riscontrabilità di obiettivi legislativi distinti, che possano influire sull’attività di interpretazione dei rispettivi istituti e di integrazione delle lacune (infra, III). E così l’antico spirito del diritto commerciale si perpetua, riproponendo in forme nuove interrogativi ineluttabili, segno di una vitalità inestinguibile e dell’intreccio del pensiero giuridico con i grandi temi del vivere sociale e, insomma, della civiltà umana.

II. Il contenuto del diritto commerciale e le traiettorie del suo sviluppo nell’era moderna Il diritto commerciale, si è detto, è il diritto privato delle attività produttive, ossia quel complesso di istituti e di norme dedicati alla disciplina dei profili privatistici di queste attività. Al centro del sistema sta il concetto di impresa. Questa è definita nell’art. 2082: è l’attività economica organizzata svolta professionalmente, diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi: dunque sia l’attività di chi crea nuovi beni per destinarli al mercato (il produttore), o offre servizi (di trasporto, custodia, ecc.), sia quella di chi media nella circolazione degli uni o degli altri (il rivenditore al dettaglio, l’agente di viaggi, ecc.). Le esigenze che muovono il legislatore ad apprestare una disciplina specifica dedicata a questo aspetto della vita sociale sono state già evidenziate: la tutela del credito, la stabilità dell’impresa, la sicurezza del traffico giuridico, la genuinità della competizione economica, l’equilibrio nei rapporti d’affari; obiettivi il cui perseguimento promuove lo sviluppo del benessere collettivo ed il progresso sociale, e riassumibili, in definitiva, in uno: la tutela del mercato, da tutte le sue angolature. L’attività d’impresa è un complesso, distribuito e articolato nel tempo, di atti materiali e giuridici, ciascuno dei quali conserva naturalmente la propria individualità. Ma è proprio il coordinamento e la finalizzazione di ognuno di essi entro la cornice dell’iniziativa economica globalmente considerata a far affiorare quegli interessi, cui il diritto privato comune non attende, e a sollecitare dunque la sensibilità del legislatore verso una loro specifica tutela. Basta pensare alla protezione del creditore, per la quale, al cospetto di un rapporto obbligatorio isolato (non commerciale, cioè), sono sufficienti per il caso dell’inadempimento gli strumenti negoziali e coercitivi offerti dal diritto civile sostanziale e processuale (la cui attivazione è affidata all’iniziativa dello stesso creditore), mentre, in presenza di un’impresa in crisi, alla luce del fatto che un’attività di questo tipo si innerva in un più ampio tessuto economico e che attorno ad essa può ruotare una moltitudine di

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Introduzione

creditori, parte dei quali pure contribuiscono a comporre con la propria attività il contesto produttivo di riferimento (finanziatori, fornitori, dipendenti, clienti), si impone la necessità di predisporre strumenti preventivi e rimediali più incisivi e diversi, al fine di garantire la conservazione dei valori imprenditoriali eventualmente ancora presenti, nonostante la crisi, e di evitare che questa si propaghi per contagio nel sistema economico: di qui la disciplina delle procedure concorsuali, che conducono, sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, alla liquidazione del patrimonio dell’imprenditore in crisi per la soddisfazione ordinata, proporzionale e collettiva dei suoi creditori, oppure al risanamento dell’impresa per la salvaguardia del patrimonio produttivo e della stabilità occupazionale. Sul fronte contrattuale, se il principio della libertà di autodeterminazione dei contraenti può esplicarsi con pienezza nei rapporti puramente civili, nelle relazioni d’affari si manifesta invece l’esigenza di garantire un ordinato sviluppo delle dinamiche comportamentali e l’effettività delle dinamiche competitive: di qui il divieto dei comportamenti anticoncorrenziali e la disciplina di tutela del consumatore. E così via.

Il diritto dell’impresa non costituisce però una disciplina organica e completa dell’attività: non esiste cioè un corpus normativo dedicato, che copra con regole speciali ogni profilo privatistico del suo esercizio. L’attività produttiva, infatti, si svolge per molti aspetti sotto l’egida del diritto privato e dei suoi principi comuni. Per meglio dire, i singoli atti in cui l’attività è scomponibile sono tendenzialmente disciplinati dal diritto privato comune: il contratto di compravendita per mezzo del quale l’imprenditore acquista il furgone destinato al trasporto delle merci, ad es., è soggetto alla disciplina generale dei contratti e alla disciplina generale della compravendita, contenute nel quarto libro del codice civile; il pagamento, da parte del cliente, del corrispettivo pattuito per il suo trasporto in ferrovia è soggetto alla disciplina generale delle obbligazioni, contenuta anch’essa nel medesimo libro del codice. Uno è infatti, oggi, il diritto delle obbligazioni e dei contratti, diritto che presiede alla formazione, all’esecuzione, alle vicende dei rapporti giuridici tanto civili quanto commerciali; ogni singolo momento dell’esercizio dell’impresa è dunque retto essenzialmente dallo ius civile. Il diritto commerciale, mosso dall’esigenza di proteggere i peculiari interessi che, come si è evidenziato, nascono quando i singoli atti non si configurano come accadimenti giuridici isolati, ma si intrecciano e vengono coordinati nel quadro di una iniziativa produttiva complessa e unitaria (si compenetrano, dunque, in una attività), interviene (ad integrazione, ma talvolta anche in deroga, rispetto alla disciplina privatistica generale) per regolare quei profili dell’attività, in relazione ai quali più stringenti si fanno le esigenze di protezione e di promozione del mercato. Si può dire che il diritto civile guarda all’atto giuridico e al rapporto in quanto tali, il diritto commerciale guarda invece all’attività (introducendo ad es. doveri comportamentali relativi ad essa, come l’obbligo di informazione al mercato o di tenuta delle scritture contabili), o all’atto in quanto elemento dell’attività (si pensi all’invalidità delle clausole vessatorie per mezzo della quale è imposto, a tutela del consumatore, un equilibrio contrattuale non assicurato dalla disciplina generale dei contratti, e che si giustifica in ragione del fatto che il rapporto esprime, per l’altro contraente, le modalità di declinazione delle relazioni commerciali inerenti alla sua attività).

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Si delinea così un diritto dell’impresa (o statuto dell’imprenditore), complesso di istituti e di disposizioni destinati a chiunque intraprenda un’iniziativa economica avente le caratteristiche definite nell’art. 2082. E si disciplinano essenzialmente: a) l’informazione al mercato dei dati salienti dell’attività, attraverso la loro pubblicazione nel registro delle imprese; b) l’organizzazione e la circolazione dell’apparato produttivo; c) le dinamiche relazionali e competitive nel mercato; d) la crisi dell’impresa. Il terzo di questi nuclei tematici richiede una precisazione. Esso comprende il diritto della concorrenza, ma vi si può ricondurre anche il tema della contrattazione d’impresa. Si è detto, per la verità, che il codice del 1942, abbandonando il sistema delle codificazioni ottocentesche, non ha accolto la figura degli atti di commercio, né ha dedicato ai rapporti negoziali dell’imprenditore principi autonomi rispetto a quelli del diritto civile: nell’esercizio della propria attività, il professionista attinge, come il comune cittadino, ai tipi contrattuali indifferentemente regolati, l’uno di seguito all’altro, nel quarto libro del codice, e, come costui, resta soggetto interamente alla disciplina generale pure codificata nello stesso libro (se si eccettua qualche sporadica norma speciale: artt. 1330, 1368, 1722 n. 4). In questo quadro, l’espressione “contratti d’impresa” parrebbe rappresentare solo un omaggio alla tradizione. È vero che, nel vasto panorama di negozi tipizzati nel codice, ve ne sono alcuni che presuppongono, di fatto o ex lege, il carattere imprenditoriale di una delle parti (ad es. l’assicurazione, il deposito, il trasporto), e che la prassi commerciale internazionale ha elaborato figure atipiche ormai standardizzate e di ordinario impiego nelle attività economiche (leasing, franchising, ecc.); la loro riconduzione ad una categoria unitaria ed autonoma, peraltro, non avrebbe sotto questo profilo altro significato che quello di una ricognizione della realtà sociale e di una classificazione fondata su criteri empirici e descrittivi. Le moderne tendenze legislative e applicative inducono tuttavia ad un ripensamento di questa posizione. Vanno invero emergendo sempre più diffusamente principi e concetti, calibrati sulle dinamiche economiche, che si discostano dai principi e dai concetti propri del diritto civile (dallo “squilibrio” tra le parti, alla “dipendenza economica”, all’astrattezza negoziale), attorno a cui una logica ispiratrice, se non un vero e proprio sistema dei contratti d’impresa, può forse essere ricostruita. È in questo quadro che si inserisce, in particolare, l’assai ampio corpus normativo che, su impulso dell’Unione europea, è venuto formandosi a presidio dei rapporti tra professionista e consumatore (oggi raccolto nel Codice del consumo, d.lgs. 206/2005, a latere del quale si pongono ulteriori discipline di settore, che regolano i contratti tipici attraverso cui talune categorie di imprenditori erogano alla clientela i propri servizi, come la disciplina sui contratti bancari, contenuta nel Testo Unico Bancario, d.lgs. 385/1993, e quella sui contratti per la prestazione di servizi finanziari, contenuta nel Testo Unico della Finanza, d.lgs. 58/1998). L’insieme è molto eterogeneo, ma risponde ad una logica univoca: quella di proteggere il contraente debole. La produzione di massa ha determinato infatti un fenomeno che costituisce ormai lo standard dell’accesso ai prodotti e ai servizi del mercato da parte dei clienti: la contrattazione parimenti di massa, con contenuti negoziali imposti, preconfezionati dal professionista e insuscettibili di qualsiasi tipo di trattativa con la controparte. In tale scenario, questa articolata disciplina costruisce la protezione del contraente fondamentalmente attorno a due poli costanti: la trasparenza (che combatte le asimmetrie informative tra le parti) e l’equilibrio delle prestazioni (che supera il principio della libera estrinsecazione dell’autonomia negoziale). Specialmente (ma non solo) da questo punto di vista, sembra dunque possibile erigere a categoria i contratti commerciali (o del professionista) e ricostruirne un nucleo normati-

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Introduzione vo speciale, collaterale al sistema civilistico generale e riconducibile alla sfera del diritto commerciale, in quanto finalizzato ad assicurare il buon ordinamento dei rapporti nelle attività produttive e la protezione delle parti deboli del mercato 15.

Al diritto dedicato all’impresa si affianca l’altro grande corpus che forma il diritto commerciale: la disciplina delle società. L’attività produttiva può essere esercitata in proprio da una singola persona fisica; numericamente, le imprese individuali sono ancora molto diffuse nel nostro paese. Sempre più spesso, tuttavia, essa fa capo a strutture organizzative, più o meno complesse, che assurgono al rango di organismi di diritto privato, dotati di una propria sfera di autonomia giuridica e patrimoniale: le società. Qui il legislatore interviene in modo organico, disciplinando con un copioso corpo di disposizioni e di leggi la costituzione e le sorti di questi organismi, i meccanismi interni del loro funzionamento ed i rapporti con i terzi. Nuovamente, le esigenze di una regolazione speciale, che si discosti da quella degli organismi di diritto privato di cui si occupa il diritto delle persone (I libro del codice civile), nascono dal carattere speculativo e patrimoniale dell’interesse che muove gli operatori economici (diverso dunque dal movente ideale che caratterizza associazioni e fondazioni), un interesse che attiva dinamiche non suscettibili di essere adeguatamente regolate dal diritto delle persone. È a Lorenzo Mossa, uno dei maestri del diritto commerciale del primo Novecento, che si deve la messa a fuoco della nozione di impresa come fulcro della nostra materia 16. Va posto però subito in evidenza che lo statuto sopra illustrato è in realtà calibrato esclusivamente sull’impresa commerciale medio-grande, non sull’attività produttiva in generale. Al vertice dell’ordinamento, infatti, viene delineata una triplice partizione, che isola, tra le attività economiche, quelle commerciali di medio-grandi dimensioni e ad esse eminentemente destina il corpus normativo giuscommercialistico e in particolare il diritto dell’impresa (mentre le società sono in linea di principio aperte a tutte le attività produttive), separandovi: a) le professioni intellettuali; b) le imprese agricole; c) le piccole imprese. Le ragioni di questa focalizzazione sono di carattere storico e affondano le loro 15 L’inerenza di questa disciplina, e specie di quella relativa ai rapporti con i consumatori, al diritto commerciale piuttosto che al diritto civile è peraltro discussa e resta comunque di relativo valore pratico: cfr. G. CIAN, Contratti, 859 s.; OPPO, Principi, 69 ss.; ID., I contratti, 844 ss.; BUONOCORE, Presentazione, 8 ss. La figura dei contratti d’impresa è tornata in auge, nella nostra dottrina, specie grazie al contributo di DALMARTELLO, I contratti (dello stesso v. anche la voce Contratti d’impresa, EncGiur, 1988); e v. poi BUONOCORE, Contrattazione d’impresa; ID., Le nuove frontiere, 69 ss.; SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, Milano, 2002; CAPO, Attività d’impresa e formazione del contratto, Milano, 2001; ID., voce Contratti d’impresa (evoluzione recente), EncGiur, 2008; BIANCHINI, La contrattazione d’impresa tra autonomia contrattuale e libertà di iniziativa economica, I-II, Torino, 2012-2013. 16 MOSSA, I problemi, 243 ss.; ID., Per il nuovo codice di commercio, RDComm, 1928, I, 16 ss. Va osservato che Mossa scriveva sotto il vigore di un codice fondato sul sistema oggettivo (supra, I); ma, nella sua concezione, la nozione di atto di commercio era funzionale alla regolamentazione dell’impresa, mentre gli atti isolati, non coordinati in attività, sarebbero stati da considerare ai margini del diritto commerciale. E sull’impresa come centro nevralgico della materia v. poi, fra i molti, FERRI, voce Diritto commerciale, 925 s.; LIBONATI, La categoria, 20 s.; BUONOCORE, Presentazione, 22 ss.

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radici nel contesto socio-economico nel quale il legislatore del 1942 era chiamato a calare la disciplina che andava coniando: le tre sottoclassi sostanzialmente sottratte al diritto commerciale rappresentavano infatti, all’epoca, attività che, per la loro natura o la loro dimensione, non sollecitavano le istanze di protezione del mercato (del mercato del credito, della concorrenza, ecc.) con la stessa intensità con cui queste venivano sollecitate dalle imprese commerciali medio-grandi; erano, in altre parole, iniziative economiche il cui svolgimento poteva restare adeguatamente soggetto, in linea di massima, alla disciplina civilistica comune. I tempi tuttavia mutano repentinamente e i decenni seguiti all’emanazione del codice civile hanno inciso in profondità sullo scenario del 1942: l’agricoltura si è in certi casi affrancata dalla proprietà terriera (basta pensare alle coltivazioni in serra o agli allevamenti in batteria) e ha assunto dimensioni industriali, la professione intellettuale presenta talvolta una complessità notevole (vi sono studi con sedi delocalizzate in molte città, personale tecnico numerosissimo, una strumentazione raffinata e costosa). Insomma, le attività un tempo “minori” vanno accostandosi potenzialmente sempre più all’impresa commerciale, nelle dimensioni e nel modo del loro svolgimento, così da sollecitare le esigenze di tutela del mercato in misura equivalente ad essa: si rivolgono al sistema creditizio e attingono a capitali esterni per finanziarsi, si pongono tra loro in una dialettica di forte concorrenzialità che muove interessi economici rilevanti (si pensi al valore che hanno certe denominazioni d’origine per i prodotti agricoli, come “Parmigiano”), si dotano di apparati produttivi considerevoli, instaurano con la clientela rapporti standardizzati e spersonalizzati, di tenore analogo a quelli tipici della contrattazione imprenditoriale di massa. L’ordinamento non rimane insensibile al mutare del quadro socioeconomico. Si fa dunque strada sempre più significativamente una tendenza all’allargamento dell’ambito di applicazione del diritto dell’impresa, alla progressiva attrazione delle imprese agricole e delle professioni intellettuali sotto la disciplina dell’impresa commerciale, a causa di quella che si potrebbe definire la “commercializzazione”, nei fatti, di queste attività. È una tendenza in divenire, beninteso, talvolta restia a tradursi in una piena equiparazione normativa, una tendenza che ad oggi presenta un grado non troppo elevato di concretizzazione, sia per la tradizionale, non immediata reattività del legislatore, sia per le resistenze politiche e corporative a rinunciare ai privilegi e all’identità del proprio ruolo professionale. Ma è uno dei fils rouges del moderno diritto commerciale, una prospettiva da cui non si può prescindere ormai di guardare al diritto dell’impresa. Tra le attività produttive, quelle concepite dal codice del 1942 senz’altro come le più distanti dall’impresa commerciale erano e sono le professioni intellettuali (dell’avvocato, notaio, architetto, ingegnere, ecc.): attività che di per sé rispondono a tutti i requisiti dell’art. 2082, ma che, per una precisa scelta legislativa (art. 2238), restano sottratte alla disciplina dell’impresa. Come si è osservato, è una dicotomia che affonda le proprie radici nel passato, quando professioni liberali e mercatura erano percepite come attività del tutto diverse e irriducibili ad unità, le une basate quasi esclusivamente sulla capacità e lo sforzo intellettuale di un uomo, le altre sul capitale, sulla produttività di un apparato aziendale, sull’opera di coordinamento, organizzazione e gestione di uno o più commercianti. Se l’epoca moderna ne ha peraltro determinato

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un sensibile ravvicinamento, la disapplicazione della disciplina dell’impresa finisce ormai per tradursi in un privilegio per le attività liberali (ad es., il professionista non è soggetto alle procedure concorsuali). Ecco allora che, almeno sotto alcuni profili, la riduzione ad unità delle attività commerciali e di quelle intellettuali si compie, per opera dello stesso legislatore o di chi il diritto è chiamato ad interpretare ed applicare, sotto la nozione unitaria di “attività economica” e di “professionista”: così la disciplina a tutela della concorrenza viene costantemente applicata, dalle autorità nazionali e comunitarie, sia agli imprenditori che a chi svolge un’attività liberale; così tutti gli istituti a protezione dei consumatori operano nei rapporti con i “professionisti” genericamente intesi e non solo nei rapporti con gli imprenditori; e i modelli organizzativi societari sono accessibili anche per l’esercizio di attività intellettuali (con una disciplina specifica per alcune di esse, come nella società tra avvocati e nella società di revisione). Permane ancora, sotto ogni altro aspetto, l’estraneità della professione liberale alla disciplina dell’impresa, segno che quella commercialistica è materia dai confini mobili e, nel tempo, mutevoli. Ma le tendenze legislative e interpretative recenti consentono di affermare, senza azzardi e senza eccessi, che oggi il diritto commerciale è, almeno in prospettiva, sempre più il diritto (privato) delle attività produttive in senso ampio e sempre meno il diritto delle sole imprese. Pur compresa nella nozione generale di impresa, anche l’attività agricola, come si è detto, resta distinta da quella commerciale e sottratta al nucleo fondamentale del relativo statuto. Storicamente, il diritto commerciale nacque come disciplina del commercio, contrapposta al diritto della società curtense, del cives e della proprietà fondiaria. Commercio (e industria, a mano a mano che la produzione si trasformava da fenomeno artigianale, qual era ancora nell’età comunale, in fenomeno di più larga scala, a dimensione industriale e di massa) e agricoltura erano e rimasero sempre divisi sia dal punto di vista sociale (il primo animato dalla borghesia, la seconda sotto il vessillo nobiliare e dei proprietari terrieri), sia da quello regolamentare, oggetto dello ius mercatorum l’uno, ricondotta nell’alveo dello ius civile l’altra. Questa contrapposizione era evidente anche nel Codice di commercio del 1882, che trascurava del tutto l’attività agricola, e agitò la dottrina dei primi del ’900, quando nella controversa ipotesi di un’unificazione dei codici si vide il mezzo per la fusione, sotto il profilo del trattamento giuridico, dei due grandi motori dell’economia nazionale 17. Il legislatore del 1942 scelse una soluzione di compromesso, fortemente sbilanciata, peraltro, in ossequio alla tradizione. Al vertice del sistema veniva sì introdotta la figura generale dell’imprenditore, con la comprensione al suo interno di quello agricolo (art. 2135), ma al relativo statuto non veniva assegnato un ruolo altrettanto centrale: è vero che, alla base, stava l’idea che, attraverso questa generalizzazione, ogni attività economica dovesse restare assoggettata all’ordinamento corporativo dell’epoca (v. artt. 2084 ss.), ma il cuore della disciplina commercialistica (dalla pubblicità nel registro delle imprese alla contabilità d’impresa e alle procedure concorsuali) pulsava soltanto per l’imprenditore commerciale non piccolo, la pregnanza

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ASQUINI, Codice, cit., 507 ss.

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del cui statuto superava di gran lunga quella dello statuto generale, circoscritto, fondamentalmente, alla disciplina sulla concorrenza sleale e, in parte, sulla circolazione dell’azienda. Al punto che, scomparso quasi subito (nel 1943) il sistema corporativo, vi fu nei decenni successivi, a fronte di chi difese comunque il portato della categoria generale, chi attribuì per contro alla nozione di imprenditore agricolo (e di piccolo imprenditore commerciale) un valore sostanzialmente negativo, di sottrazione della relativa attività al diritto commerciale e di riconduzione sotto l’egida del diritto civile 18. Si trattava di una scelta, ancora nel 1942, comprensibile: la coltivazione della terra, così legata ad un fattore produttivo quasi esclusivo e dipendente dalle variabili climatiche, aveva caratteristiche ontologicamente diverse dall’attività industriale e mercantile. Come si è detto, i decenni successivi hanno in parte mutato questo scenario e testimone attento ne è stato lo stesso legislatore, che nel 2001 ha introdotto una nuova, più moderna nozione di imprenditore agricolo, sganciandone l’attività dalla necessità del radicamento nell’elemento naturale – la terra – che dagli albori dell’età dell’uomo ne costituiva il fattore essenziale (art. 2135). In questo scenario, la distinzione tra imprenditore commerciale e agricolo ha finito per perdere parte delle sue ragioni fondanti; essa permane tuttora, e tuttora con un impatto notevolissimo sul rispettivo trattamento giuridico; ma una tendenza a spostare i confini delle categorie si avverte anche qui, con l’estensione, ad es., dei principi che presidiano l’informazione al mercato anche all’imprenditore agricolo: il quale è oggi tenuto ad iscriversi non meno di quello commerciale nel registro delle imprese, e con identiche conseguenze 19. E anche l’ordinamento delle crisi d’impresa comincia ad allargare il proprio raggio d’azione, non ancora assoggettando globalmente alle procedure concorsuali professionisti diversi dall’imprenditore commerciale, ma estendendo loro istituti tipici della gestione delle crisi, sintomo della percezione che le esigenze di protezione del mercato e del credito trascendono ormai i confini dell’impresa commerciale. Lo sguardo al passato mostra come il diritto commerciale non costituisca un sistema rigido, eretto su inamovibili fondamenta. Esattamente Tullio Ascarelli lo definiva una categoria storica, non ontologica 20. Esso esiste ed ha ragion d’essere, in un dato ordinamento e in un dato momento storico, in quanto e nella misura in cui il mercato si faccia portavoce di determinate istanze, non adeguatamente recepite dall’ordinamento privatistico generale, e abbia la forza per farle accogliere attraverso la coniazione di una disciplina speciale. È un diritto che cambia, che risente dei mutamenti dello spirito sociale (si pensi alla secolare storia dell’onerosità dei prestiti pecuniari, nella quale dallo 18

Cfr. ASCARELLI, Corso, 129 ss.; G. CIAN, Diritto civile, 545. Per la verità non si può dire che queste tendenze legislative procedano con grande rispetto della logica e del quadro sistematico di riferimento: nell’equiparare gli effetti dell’iscrizione dell’imprenditore agricolo all’iscrizione di quello commerciale, la riforma del 2001 ha trascurato il fatto che, per quest’ultimo, gli effetti sono diversi a seconda delle dimensioni della sua attività (piccolo imprenditore; imprenditore medio-grande), cosicché oggi, paradossalmente, l’iscrizione del piccolo imprenditore agricolo (il coltivatore diretto del fondo) produce, a differenza del piccolo commerciante, gli stessi effetti dell’iscrizione della grande impresa industriale. Ma il legislatore negli anni recenti sembra costantemente sfidare l’interprete, sensibile non solo per ragioni estetiche alla geometria del sistema, a scrutare nell’arcana logica dei suoi interventi. 20 ASCARELLI, Corso, 79 ss. 19

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Introduzione

ius mercatorum è uscito un principio nato in esso, mai poi accettato come canone generale e perciò assorbito nel diritto civile: supra, I), che si adatta alle trasformazioni della realtà economica (quanto si è visto a proposito delle professioni intellettuali e dell’impresa agricola ne è la prova), che riceve linfa e impronta, infine, dalle convinzioni e dalle idee che animano il pensiero politico e sociale, e ne segue le sorti. Per questa ragione, d’altra parte, definirne la struttura si può, ma la definizione conserva un valore relativo, non assoluto. Quanto ai suoi confini, si è osservato come alle attività produttive siano dedicati anche istituti appartenenti al diritto pubblico (tributario, amministrativo, penale), che non sono riconducibili alla nostra materia; ed estranee vi restano anche altre componenti, pur privatistiche, dell’attività, come il diritto del lavoro. Questa tracciatura di confini presenta aspetti certamente convenzionali, ma risponde ad una logica indiscutibile, ormai ben compresa, giacché le norme di diritto pubblico hanno finalità diverse dalla protezione del mercato, pur quando riguardano le attività produttive; e lo stesso vale per il diritto del lavoro, che, pur disciplinando un rapporto negoziale normalmente inserito nel contesto di un’attività di questo tipo, persegue obiettivi di solidarietà e di equilibrio sociali, di tutela della persona e della sua libertà. È certo però che talvolta un intreccio non manca, tra disciplina pubblicistica e privatistica dell’attività, ed entrambe convergono verso la realizzazione di uno scopo unitario, ciascuna dal proprio punto di vista, con la propria forza ed i propri strumenti coercitivi. Il fenomeno è oggi evidente specie là dove si è dato vita ad Autorità indipendenti, chiamate a presidiare un certo settore economico e dotate all’uopo di poteri incisivi, di natura amministrativa: la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), la Banca d’Italia, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), tra le altre, giocano oggi un ruolo fondamentale nella vigilanza e nella stessa regolazione del mercato, avendo potestà normative settoriali di sempre maggiore pregnanza (infra, IV). Diritto pubblico e privato muovono così insieme le proprie pedine, quando non si vuole lasciare la difesa degli interessi economici alla sola iniziativa individuale (l’attivazione dei rimedi e degli strumenti di tutela di diritto privato è rimessa per definizione alla disponibilità dei singoli) e si ritiene necessario garantire altresì un presidio collettivo, che risponda ad un interesse più generale e che si attivi a prescindere dall’iniziativa privata: uno dei settori in cui ciò si percepisce nitidamente è quello della protezione del consumatore, in cui tutela privatistica (affidata a quest’ultimo) e poteri sanzionatori dell’AGCM si combinano per colpire con maggiore efficacia le pratiche commerciali scorrette dei professionisti. La parte generale della nostra materia è composta da disposizioni applicabili indipendentemente dal tipo di attività svolta. Una suddivisione classica ripartisce e riconduce i diversi istituti al diritto dell’impresa (con le sue aperture ai professionisti non imprenditori), al diritto delle società, al diritto industriale (con la disciplina della concorrenza e delle privative industriali), al diritto della crisi d’impresa. Il moderno diritto commerciale si articola peraltro anche in un complesso sempre più ricco di discipline speciali, dedicate a singole attività, la cui rilevanza nel tessuto economico e sociale esige un intervento regolatore diretto e puntuale; è qui, tra l’altro, che la pregnanza dell’interesse collettivo conduce spesso a quella contaminazione

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fra strumenti di diritto privato e presidi pubblicistici, di cui si è parlato. La loro proliferazione è inarrestabile e moltissimi comparti ne sono coinvolti. Un’elencazione di queste discipline di settore, assolutamente eterogenee nelle dimensioni e nel contenuto, sarebbe del tutto inutile; ma almeno quelle dedicate all’attività assicurativa (con il Codice delle assicurazioni private: d.lgs. 209/2005) e bancaria (con il Testo unico bancario) e ai mercati finanziari (con il Testo unico della finanza e i suoi regolamenti attuativi) vanno menzionate: discipline storicamente importanti e ormai ricchissime, che creano un vero e proprio statuto speciale dell’attività a cui sono rivolte. Tali segmenti normativi hanno assunto un ruolo centrale per l’intreccio ormai profondo tra l’economia finanziaria e quella reale, che caratterizza i sistemi economici moderni e dunque per la loro trasversalità rispetto ad ogni altro settore produttivo. Per tale motivo ad essi viene dedicato un apposito volume dell’opera. Non è solo nella specializzazione e nella progressiva apertura verso fenomeni sociali ad esso originariamente estranei che si misura la modernità del diritto commerciale e che se ne colgono le tendenze evolutive, ma anche nello spostamento dei baricentri interni al suo sistema, nel mutare, insomma, del peso specifico che le sue diverse componenti assumono nei diversi contesti storici e sociali entro cui esso opera. Il diritto dell’impresa e la disciplina societaria rappresentano l’anima antica di questa materia e non si può certo dire che il loro ruolo, come presidio e come motore della vita economica della nazione, sia in quest’epoca storica ridimensionato. Ma la parabola del progresso non si arresta e molto va cambiando negli scenari dell’antica industria e dell’ancor più antico commercio: la finanza, lo si è detto, acquisisce peso e funzioni sempre più importanti e penetra nelle realtà produttive e nella stessa vita sociale rivoluzionando gli equilibri e le regole del gioco; i beni “immateriali” − dai fattori della produzione come marchi, brevetti, domain names, ai prodotti finanziari − crescono esponenzialmente di valore, fino a muovere essi soli, nel bene e nel male, le più grandi realtà industriali, estesi interessi collettivi. È l’era della società postindustriale 21. E non meno delle branche tradizionali, il diritto dei sistemi finanziari e il diritto industriale animano le aule dei Tribunali, orientano la vita sociale e sono alla base di scelte politiche decisive per le sorti dell’economia del paese. Non per questo i settori più antichi del diritto commerciale possono adagiarsi sulle vestigia dell’opera secolare che li ha prodotti. La materia nel suo complesso è una materia in continuo sviluppo, in un moto di maturazione ed affinamento che al giorno d’oggi ha assunto un carattere quasi quotidiano, tanto rapidi sono i mutamenti della tecnologia e degli scenari economico-finanziari. Il diritto commerciale, in ogni sua manifestazione, è presidio e motore della vita sociale: presidio, perché un mercato senza regole, o un mercato che sappia autoregolarsi e separare il seme maturo dalla gramigna, è un’utopia che la storia in più occasioni ha smascherato; motore, perché esso ha il compito di non soffocare l’economia e di promuoverne, con regole adatte ed efficienti, la crescita spontanea per il benessere comune. L’importanza di un adeguato quadro normativo (per attrarre capitali, per incentiva-

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GALGANO, Lex, 239 ss.

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Introduzione

re gli investimenti, per assicurare una tutela efficiente dei diritti, per dare certezza alle situazioni giuridiche) è, da questo punto di vista, fondamentale. Perciò il diritto commerciale deve costantemente aggiornarsi, e prova inoppugnabile ne sono, per restare agli anni recenti, l’ampia riforma italiana volta a modernizzare il diritto societario (del 2003), e, al di qua e al di là dell’Atlantico, gli interventi riformatori scaturiti dalle devastanti crisi che hanno colpito i mercati finanziari mondiali dall’inizio del millennio.

III. Il problema dell’autonomia del diritto commerciale dal diritto civile Il diritto commerciale nasce come corpus normativo autonomo dal diritto civile, retto da principi, formato da norme, contrapposti ai principi e alle norme di questo (supra, I). Per secoli la sua autonomia e la contrapposizione hanno avuto un’evidenza anche topografica: una era la legislazione civile, altra quella commerciale (anche nelle fonti, inizialmente consuetudinarie per lo ius mercatorum), una la giurisdizione civile, altra quella commerciale. Anche l’avvento della stagione che ha condotto alle grandi codificazioni europee non mutò lo scenario: l’Italia unita, come si è osservato, si dotò nell’Ottocento di un Codice civile e di un distinto Codice di commercio, ispirandosi al modello francese ed allineandosi a una tendenza che anche l’altro grande ordinamento di civil law, quello tedesco, assecondò. Il Novecento condusse tuttavia ad un bivio e le sorti dei tre grandi sistemi giuridici dell’Europa continentale si divisero: Francia (dove restano ancora in vigore i due codici napoleonici) e Germania conservarono il dualismo, l’Italia nel 1942 scelse la strada dell’unificazione dei codici. Se gli storici del diritto insegnano che su questa scelta molto influì, come si è detto, l’ideologia del regime, è certo però che essa non emerse dal nulla, ma rappresentò l’esito di un animato confronto che aveva agitato il pensiero giuridico e politico nei decenni precedenti (supra, I): poteva ancora giustificarsi un diritto autonomo per l’industria e il commercio, un diritto secolare percepito come di classe, nel mutato scenario economico del primo Novecento? La scomparsa del Codice di commercio e l’assorbimento della sua disciplina nel nuovo codice unitario non hanno sopito la polemica, ma ne hanno mutato i termini. Il diritto commerciale resta, oggi, un sistema giuridico autonomo e distinguibile dal diritto civile, o i suoi istituti e le sue norme debbono ritenersi ormai assorbiti in un sistema privatistico unitario e indifferenziato? L’avere definito come appartenenti al diritto commerciale alcune materie (supra, II), caratterizzate dal costituire la disciplina delle attività produttive, di per sé non significa nulla: la nozione “diritto commerciale” potrebbe rivestire carattere meramente descrittivo e la raccolta attorno ad essa di quelle materie potrebbe rappresentare una mera catalogazione di comodo, una classificazione utile solo per ordinare gli studi e le competenze scientifiche secondo una logica di coerenza per argomenti, ma nulla più. In altre parole, la circostanza che una o più disposizioni siano destinate ad operare solo al verificarsi di un determinato presupposto (l’esercizio di un’impresa) non ne fa di per sé un sistema giuridicamente autonomo. D’altra parte, e per contro, l’appartenere le disposizioni regolatrici delle materie classificate come commercialistiche ad un testo normativo che ospita anche materie diverse (dalla famiglia alle successioni, alle obbligazioni in genere) non comporta necessariamente la fusione delle une e delle altre in un sistema giuridicamente unitario. La collocazione topografica delle norme è, in altre parole, di per sé irrilevante e tanto più lo è oggi, avendo ormai perduto il codice civile la centralità che aveva un tempo, affiancato da una costellazione infinita e proliferante di leggi speciali (che spesso prendono esse stesse il nome di “codice”, per il fatto di trattare esaustivamente un determinato settore: e così ecco il Codice

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della proprietà industriale, il Codice delle assicurazioni, il Codice del consumo) e di disposizioni di rango secondario tutt’altro che marginali. È su altre basi, dunque, che si deve valutare se persista o meno ancora un’indipendenza del diritto commerciale dal diritto civile 22. Di una determinata branca dell’ordinamento sembra predicabile l’autonomia se essa risulta innanzitutto composta da un considerevole numero di disposizioni, tale da rappresentare una disciplina articolata e complessa, regolatrice di una specifica materia; non si tratta di un presupposto di carattere meramente quantitativo, giacché solo l’ampiezza e la pervasività possono conferire a un dato insieme di precetti quell’impianto sistematico, quella natura di corpo normativo retto da principi unitari capaci di presiedere l’intera materia regolata, che dà senso all’interrogativo sulla sua erigibilità a sistema giuridico autonomo. Ma la grandezza non è un criterio sufficiente: è necessario altresì che l’aggregato normativo sia ricostruibile attorno ad uno o più postulati fondamentali, a principi, per l’appunto, speciali, differenziati se non contrapposti rispetto al sistema generale. L’autonomia, in tal caso, si manifesta principalmente sul piano dell’interpretazione e dell’integrazione delle lacune, che da quei postulati e da quei principi vengono guidate. È quanto può essere in effetti predicato del diritto commerciale: la tutela e la promozione del mercato, dalle diverse angolature e sui diversi fronti su cui l’ordinamento interviene, non rappresentano solo il movente storico del legislatore, ma vengono costruendo un’architettura normativa completa, che in esse trova le proprie fondamenta, e si irradiano attraverso l’intero sistema speciale, formando attorno al fenomeno delle attività produttive categorie, concetti giuridici e principi di vertice, indipendenti da quelli propri del diritto civile. Così è, ad es., per tutto il fascio di disposizioni che, superando il principio dell’autonomia contrattuale, pongono limiti al contenuto dei negozi, a tutela dell’equilibrio tra le parti o della libertà di concorrenza; o per le norme societarie che, al fine di dare certezza ai rapporti giuridici, deviano dai principi generali sull’invalidità e l’inefficacia degli atti; così, ancora, per istituti e figure contrattuali (come il contratto autonomo di garanzia, gli strumenti finanziari derivati), che si impongono con la forza della loro diffusione e trovano infine accoglimento all’interno dell’ordinamento, per la via del riconoscimento giurisprudenziale o della stessa legge, nonostante la contrarietà alle logiche fondamentali del sistema privatistico. È chiaro che si tratta di un’autonomia avente connotati e pregnanza molto diversi, rispetto a quelli che caratterizzarono il diritto commerciale nei secoli passati. Unico è oggi il sistema delle fonti (per quanto grande sia il rilievo che nella nostra materia assumono oggigiorno i provvedimenti delle Autorità indipendenti – Consob, Banca d’Italia, ecc. – e persino le consuetudini, nei rapporti internazionali – infra, IV –, la gerarchia delle fonti normative coincide con quella del diritto civile), unica la giurisdizione, unica la disciplina, sotto svariati aspetti, delle attività produttive e civili; d’altra parte, l’ordinamento giuscommercialistico attinge pur sempre significativamente a numerose categorie civilistiche. Ma di autonomia è comunque lecito parlare. 22 L’unificazione dei codici, come si è detto, non ha affatto spento il dibattito ed anzi nella moderna dottrina commercialistica forte è ancora la voce, certo partigiana ma non ingiustificata (come si vedrà), dell’autonomia, che si levò contro la cancellazione del codice di commercio, negli anni Quaranta del secolo scorso, e che attraversa i decenni traendo alimento e vigore dal dilagante ruolo delle nostre discipline nella vita sociale, dalla loro capacità di rinnovamento e dalla loro manifesta sensibilità ai bisogni mutevoli della scena economica: v. BUONOCORE, Presentazione, 22 ss.; CAMPOBASSO; BUTTARO, L’autonomia, 421 ss.; VALERI, Autonomia, 21 ss.; tra i civilisti G. CIAN, Diritto civile, 523 ss. Non meno autorevole è tuttavia la posizione contraria: OPPO, Principi, 36 s.; FERRI, voce Diritto commerciale, 924 ss.; ASCARELLI, Corso, 127; Per una posizione più dialettica v. ANGELICI, La lex mercatoria, 371 ss.; cfr. anche, attentamente, PORTALE, Diritto privato, 227 ss.; ID., Il diritto commerciale, 1 ss., e Tra responsabilità della banca e “ricommercializzazione” del diritto commerciale, Jus, 1981, 148 ss., nonché DELLE MONACHE, “Commercializzazione” del diritto civile (e viceversa), RDCiv, 2012, I, 489 ss.

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Introduzione In questi termini, può dunque affermarsi che il diritto commerciale costituisce, all’interno dell’ordinamento privatistico, un sistema giuridico speciale e separato, sebbene non autosufficiente, rispetto al diritto civile.

IV. Le fonti Anche sul piano delle fonti, la storia del diritto commerciale è segnata da epoche separate tra loro da profondi cambiamenti. Lo ius mercatorum nasce fondamentalmente su basi consuetudinarie, attraverso la formazione di usi osservati dai mercanti di ogni paese. La prima redazione scritta consistette nella raccolta di questi usi da parte delle Corporazioni mercantili medievali. Successivamente furono i nascenti Stati nazionali ad arrogarsi il compito di legiferare in materia; e l’Ottocento vide in tutta Europa l’elaborazione delle grandi codificazioni (supra, I). In Italia, il vigente Codice civile aveva, quando venne emanato, certamente un ruolo centrale nella disciplina delle attività produttive; un ruolo che tuttavia già allora era tutt’altro che esclusivo, se solo si pensa che, coeva ad esso e distinta, fu la legge regolatrice del fallimento e delle altre procedure concorsuali (r.d. 267/1942, ancora vigente e meglio noto come “legge fallimentare”). Lo scenario attuale è ancora più composito. Il Codice conserva buona parte dello statuto dell’imprenditore (artt. 2082 ss.: qui si trovano i principi sull’informazione al mercato e sono regolate la circolazione dell’azienda, la concorrenza sleale, la cooperazione tra imprenditori) e la disciplina delle società (artt. 2247 ss.). Ma leggi speciali sempre più numerose e complesse vi si affiancano. La normativa antitrust sulle intese e le pratiche restrittive della concorrenza è contenuta nella l. 287/1990; la regolamentazione dei segni distintivi e delle invenzioni industriali è affidata al Codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005); la tutela dei consumatori al Codice del consumo (d.lgs. 206/2005); l’attività bancaria è soggetta al Testo unico bancario (d.lgs. 385/1993), il settore finanziario al Testo unico della finanza (d.lgs. 58/1998); della legge fallimentare si è detto. E si tratta soltanto delle leggi speciali principali. Il quadro è poi arricchito da una sempre più intensa produzione normativa di rango secondario, sia governativa, sia da parte delle diverse Autorità indipendenti create negli anni e dotate di un capillare potere legislativo, ad esse affidato in considerazione del tecnicismo che la disciplina di settore frequentemente presenta. Si tratta di provvedimenti tutt’altro che marginali, ché, anzi, nei relativi ambiti spesso la disciplina primaria si limita a porre i principi generali, devolvendo a quella secondaria il compito di darne attuazione. Questo schema piramidale è evidentissimo in alcuni comparti, come quello finanziario, in cui l’attività legiferante della Consob e della Banca d’Italia ha assunto una dimensione ed un peso fondamentali. Si è suggestivamente parlato, in proposito, di avvento di una sorta di tecno-democrazia, di preponderanza delle autorità tecnocratiche su quelle politiche espressione della democrazia rappresentativa 23. 23

GALGANO, Lex, 250 ss.

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In questa stessa direzione muove un’altra tendenza del moderno diritto commerciale. Compiti di tipo regolamentare sono riconosciuti anche ad organismi di diritto privato e a gruppi coordinati di enti privati: sempre nel settore finanziario, ad es., sono le società di gestione dei mercati che predispongono i regolamenti di ammissione e negoziazione negli stessi dei valori mobiliari (come i regolamenti del mercato azionario o obbligazionario di Borsa Italiana s.p.a.); e sempre più diffusi e rilevanti sono i Codici di autodisciplina, che le società o i soggetti operanti in un determinato ambito si danno autonomamente, al fine di garantire un certo standard nell’esercizio della loro attività (come il Codice di autodisciplina delle società quotate, volto a rafforzare la trasparenza e la correttezza della gestione). Per la verità non si tratta, in questi casi, di precetti normativi: i regolamenti appaiono piuttosto rivestire il carattere di condizioni generali di contratto ed anche i Codici di condotta hanno natura negoziale. Ma l’intreccio con il sistema normativo di riferimento è forte (è la legge che spesso li richiama e riconosce loro uno speciale valore; e i codici di autodisciplina giocano un ruolo essenziale come parametri di valutazione della correttezza e dunque della legalità dell’azione, da parte di chi opera nel relativo settore) ed essi traducono in atto la propensione del legislatore commerciale ad affidare ai tecnici, anche in queste forme di tipo privatistico, il compito di dettare le regole del gioco nelle aree più critiche.

Non meno rilevante è oggi la dimensione internazionale del diritto commerciale. La nostra materia è un ordinamento che nacque al di sopra dei confini politici che dividevano un tempo l’Europa e le sue regioni, ancor più di quanto la dividano oggi. L’esigenza di una uniformazione legislativa tra gli Stati è particolarmente pressante nella vita economica e le sollecitazioni a procedere in questa direzione crescono proporzionalmente all’intensità degli scambi transfrontalieri e all’espansione delle attività produttive oltre i confini delle nazioni. Ampi settori del diritto commerciale sono stati dunque e sono tuttora terreno di elezione per la stipulazione di accordi internazionali, diretti a rendere omogenee le discipline statali. Così, a partire dalla fine dell’Ottocento e lungo tutto l’arco del secolo successivo, svariate convenzioni, ratificate dall’Italia, hanno segnato l’evoluzione del diritto industriale, sia nella disciplina della concorrenza, sia nella tutela dei diritti di proprietà intellettuale e industriale. È tuttavia soprattutto il diritto comunitario (meglio, oggi: diritto dell’UE) che ha impresso un’accelerazione decisiva all’armonizzazione degli ordinamenti europei. La normativa dell’Unione agisce, nei diversi settori che interessano l’economia, secondo due distinte linee d’azione. a) In alcuni casi essa regola direttamente la materia e interviene con i propri organi per garantire l’osservanza delle sue norme, a volte affiancandosi e coordinandosi con le omologhe discipline nazionali, a volte avocando esclusivamente a sé il compito di legiferare sull’argomento. Il TFUE si occupa così direttamente, coesistendo con le discipline antitrust nazionali, dei comportamenti restrittivi della concorrenza che abbiano rilevanza comunitaria e un regolamento dell’Unione suddivide tra la Commissione e le autorità statali (l’AGCM, per l’Italia) le competenze a conoscere dei medesimi e ad irrogare le relative sanzioni. Accanto ai marchi nazionali, regolati dal diritto dei singoli paesi, sono disciplinati, da un apposito regolamento, i marchi dell’UE, che assicurano una protezione coestesa al territorio dell’Unione. Il coordinamento, in tutte queste ipotesi, è facilitato dalla piena simmetria e dalla sostanziale omogeneità tra i due livelli disciplinari. Viceversa, le indicazioni geografiche dei prodotti agricoli

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Introduzione

(d.o.p., i.g.p.), che muovono oggigiorno valori economici elevatissimi, ricevono un trattamento unico, da parte di un regolamento comunitario. b) In altri casi, l’Unione si limita a promuovere e favorire l’armonizzazione degli ordinamenti nazionali, attraverso l’emanazione di direttive la cui attuazione è affidata ai legislatori dei singoli paesi. Di particolare rilievo, in questa direzione, è l’opera svolta sul piano del diritto societario, e delle società di capitali in particolare, ormai profondamente influenzato dal diritto europeo, il quale, peraltro, interviene talora in questo settore anche attraverso una normazione diretta (a due regolamenti comunitari si deve l’introduzione dei nuovi modelli della società europea e della società cooperativa europea). Ma non meno importanti sono le direttive che hanno generato l’intero apparato di norme a tutela dei consumatori e, sulla stessa lunghezza d’onda in quanto dirette a presidiare la trasparenza e l’equilibrio dei rapporti tra i contraenti, quelle dedicate al settore della prestazione dei servizi finanziari. Non meno significativo, di conseguenza, è il ruolo giocato in moltissimi ambiti dalla giurisprudenza UE. La dimensione internazionale degli scambi commerciali e dunque del relativo diritto, sotto il profilo delle fonti, si misura però anche su un altro fronte, su cui agisce, come motore vivo della formazione in chiave moderna di un nuovo diritto sovranazionale del commercio, l’opera incessante dei collegi arbitrali internazionali. A questi sono infatti frequentemente devolute le controversie nascenti da rapporti tra professionisti residenti in paesi diversi ed essi ne conoscono senza essere vincolati alle leggi di un determinato stato; nell’individuazione dell’ordinamento sostanziale regolatore del rapporto, pertanto, gli arbitri sono sciolti dalle disposizioni nazionali di diritto internazionale privato e tenuti a rispettare soltanto l’eventuale scelta della legge applicabile compiuta dai contraenti. In assenza di scelta, non è raro così che essi, quando il richiamo di un qualsiasi ordinamento statale appaia contrario al volere implicito delle parti o irragionevole nel quadro del loro rapporto, invochino principi consuetudinari, usi ascritti al commercio internazionale quale fonte regolatrice del medesimo. L’emersione e la formulazione in via arbitrale di tali principi è un fenomeno che in questi decenni ha assunto dimensioni importanti, dando vita a quella che, evocativamente, si definisce la nuova lex mercatoria 24, il cui prestigio e ruolo vanno crescendo nella stessa misura in cui si sviluppano quantitativamente e qualitativamente i mercati e non si tratta di prassi isolate, ma di un sistema di principi contrattuali via via più compiuto e consolidato. È, per definizione, un sistema che non conosce confini, generato dalla e nella giurisprudenza, che può certo avere l’apparenza di un insieme di precetti concreti ispirati dall’equità, dall’applicazione incerta e mobile, ma cui si tributa un’attenzione sempre maggiore da parte del mondo economico e giuridico, e che ha meritato già autorevoli compilazioni (aventi di per sé efficacia meramente ricognitiva della realtà, non normativa) da parte di Organizzazioni internazionali come l’UNIDROIT (Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato). L’elaborazione di questo nuovo diritto consuetudinario si inserisce d’altra parte in un più ampio, prezioso movimento, in cui la prassi e la quotidianità degli scambi che si intrec24

Cfr. MARRELLA, La nuova lex mercatoria, Tr. Galgano, XXX, 2003; ANGELICI, La lex mercatoria, 361 ss.; GALGANO, Lex, 239 ss.; ID., voce Lex mercatoria, EncD, Agg. V, 2001, 721 ss.; DAVID, Il diritto del commercio internazionale: un nuovo compito per i legislatori nazionali o una nuova lex mercatoria?, RDCiv, 1976, I, 577 ss.; MAZZOLETTI, Gli usi contrattuali e la nuova lex mercatoria, GComm, 2007, I, 519 ss.

CIAN – Il diritto commerciale. Nozione, storia, fonti

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ciano incessantemente su scala planetaria concorrono a plasmare i moderni istituti della materia commercialistica, con gli strumenti stessi del proprio operare: nuovi canoni, nuove regole e nuovi contratti (si pensi al leasing, al franchising, al contratto autonomo di garanzia) nascono in essa e, pur non godendo evidentemente di per sé di alcuna valenza normativa, si impongono con la forza della loro frequenza e delle necessità del commercio: trovando poi accoglienza anche nelle legislazioni nazionali (come è accaduto nel nostro paese con il franchising) e consacrazione da parte dei giudici interni (come per il contratto autonomo di garanzia), che li recepiscono così come la prassi vivente li ha di fatto canonizzati. In questa parabola del nostro diritto non può che evocarsi l’antico ius dei mercanti medievali, che nacque, in qualche modo, in forme non diverse, nella prassi che rifiutava di assoggettarsi al diritto comune, nella voce dei consoli delle Corporazioni mercantili, che giudicavano delle controversie tra i loro associati, e dette origine a questa storia quasi millenaria, che per certi versi torna così, nel mutare dei tempi, alle proprie antiche origini.

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Introduzione

[§ 1]

CETRA – La nozione d’impresa

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SEZIONE PRIMA

LA FATTISPECIE “IMPRESA” SOMMARIO: § 1. La nozione d’impresa. – § 2. Le categorie di impresa. – § 3. L’impresa e le professioni intellettuali. – § 4. L’inizio e la fine dell’impresa. – § 5. L’imputazione dell’impresa.

§ 1. LA NOZIONE D’IMPRESA SOMMARIO: I. La relatività della nozione d’impresa. – II. L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata. – 1. L’attività produttiva. – 2. La professionalità. – 3. L’organizzazione. – 4. L’economicità. – 5. La completezza della nozione di impresa.

LETTERATURA: AFFERNI, Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973; ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002; ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962; ASQUINI, Profili dell’impresa, RDComm, 1943, I, 135; BIGIAVI, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 2001; BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960; BUONOCORE, L’impresa, Tr. Buonocore, I/2.I, 2002; CAPO, La piccola impresa, Tr. Buonocore, I/2.III, 2002; CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974; CAVAZZUTI, voce Rischio d’impresa, EncD, III Agg., 1999; CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003; CORSI, Diritto dell’impresa2, Milano, 2003; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione2, Comm. Scialoja-Branca, 1968; FERRO-LUZZI, L’impresa, in AA.VV., L’impresa, Milano, 1985, 8; ID., Lezioni di diritto bancario3, I, Parte generale, Torino, 2012; FANELLI, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972; GALGANO, L’imprenditore, Tr. Galgano, II, 1978; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990; GHIDINI, Lineamenti del diritto dell’impresa2, Milano, 1978; GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggi sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998; JAEGER, La nozione d’impresa dal codice allo statuto, Milano, 1985; LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999; MARASÀ, Contratti associativi e impresa, Padova, 1995; MAZZONI, L’impresa tra diritto ed economia, RSoc, 2008, 649; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966; MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942; NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, Tr. Rescigno, 15**2, 2001; OLIVIERI-PRESTI (a cura di), Cinquanta sfumature di impresa, AGE, 1/2014; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PIRAS, Nuove forme di organizzazione dell’attività di impresa, GComm, 1980, I, 70; RAVÀ, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949; RIVOLTA, Gli atti di impresa, in Le ragioni del diritto. Studi in onore di Mengoni, II, Diritto del lavoro - Diritto commerciale, Milano, 1995, 1615; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, Tr. Rescigno, 15**2, 2001; SPADA, Note sull’argomentazione giuridica in tema di impresa, Giust civ, 1980, I, 2270; ID., voce Impresa, D4, sez comm, 1992; TANZI, Godimento del bene produttivo e impresa, Milano, 1998; TERRANOVA, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, RDComm, 2009, I, 1.

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SEZ. I – La fattispecie “impresa”

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Nell’iniziare un testo di diritto positivo, qual è senz’altro un testo di diritto commerciale, sembra opportuno partire dall’individuazione della fattispecie, cioè del destinatario o referente dell’esperienza normativa (cioè, della disciplina) che ne rappresenta l’oggetto. In quest’ottica, è evidente che la fattispecie dev’essere ricercata e/o inferita guardando al corpo di norme che quell’esperienza compongono. E accingendoci alla loro identificazione, giova subito constatare che nell’ordinamento giuridico italiano, a differenza di altri, tali norme – quanto meno per la parte più importante che sarà oggetto di trattazione in questa sede – sono contenute, non già in un codice di commercio (cioè, in una legge organica tematicamente uniforme), bensì nel codice civile (cioè, in una legge organica tematicamente molteplice) e, esattamente, nel libro V (intitolato Del lavoro). Più in particolare, la parte che interessa comincia dal titolo II (intitolato Del lavoro nell’impresa), che si apre con l’art. 2082 (rubricato Imprenditore), che recita: “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Stando al tenore letterale dell’art. 2082, la conclusione che se ne dovrebbe trarre è di riconoscere il presupposto di vertice dell’esperienza normativa riguardata nella figura di un soggetto, ossia nell’imprenditore 1. Del resto, una siffatta conclusione apparirebbe pienamente in linea con la struttura del testo normativo che racchiude il diritto commerciale. Ed invero, tale testo, contenendo perlopiù la regolamentazione giuridica dei rapporti tra persone, presenta una struttura antropocentrica, atteso che non può non essere un soggetto (l’uomo) l’a priori del sistema giuridico dei privati. Ed è agevole constatare come il soggetto sia al centro di tutto il sistema di valori che informa il materiale normativo contenuto nei primi quattro libri del codice civile: dalle norme sull’individuo e sulla sua famiglia (contenute nel libro I intitolato Delle persone e della famiglia) a quelle sui comportamenti leciti o dovuti rispetto al referente oggettivo costituito dai beni (contenute nel libro III intitolato Della proprietà); a quelle, ancora, sul potere di disporre dei propri interessi patrimoniali culminanti nell’atto di autonomia negoziale (contenute nel libro IV intitolato Delle obbligazioni); a quelle, infine, sulle successioni per causa di morte (contenute nel libro II intitolato Delle successioni) 2. Tuttavia, è stato dimostrato ormai da tempo che la suddetta conclusione è senz’altro inesatta, atteso che non è un soggetto il punto dal quale muove e si sviluppa il diritto commerciale, in funzione delle sue caratteristiche e delle sue esigenze 3. 1 Sulle ragioni che possono aver indotto ad una conformazione su base soggettiva della disposizione contenuta nell’art. 2082, da ultimo, TERRANOVA, L’impresa, 34 s. 2 In questi termini FERRO-LUZZI, Lezioni, I, 21 ss. 3 Per il superamento dell’impostazione “a soggetto”, cioè dell’idea di vedere nella figura dell’imprenditore il termine di riferimento del diritto commerciale o, quanto meno, della parte relativa al diritto dell’impresa, FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 1971, 128 ss. e 188 ss.; ID., L’impresa, 15 ss. E v., anche, ANGELICI, I, 22 ss.; ID., Sull’insegnamento di Paolo Ferro-Luzzi, BBTC, 2013, I, 121 ss.; SPADA, Note, 2270 ss.; ID., voce Impresa, 36 ss.; ID., La rivoluzione copernicana (quasi una recensione tardiva ai Contratti associativi di Paolo Ferro-Luzzi), RDCiv, 2009, II, 145 ss.; ID.; NIGRO, Imprese, 597 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 534 ss.; CORSI, Diritto, 3 ss. e 10 ss. Ma già, seppur attribuendo ad un siffatto superamento una diversa valenza normativa, MOSSA, Trattato, I, 162 ss.; ASCARELLI, Corso, 145 ss.; e v., anche, PANUCCIO, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 160 ss.

[§ 1]

CETRA – La nozione d’impresa

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Bisogna risalire agli albori dell’esperienza normativa considerata per riscontrare una regolamentazione strutturata su base soggettiva. Infatti, il diritto commerciale nasce, come si è visto, su impulso della casta dei mercanti, che si era fatta istante della pretesa di approntare un sistema di regole che risultasse per molti versi speciale e derogatorio rispetto al diritto dei privati: ad un diritto, cioè, che, in quanto incentrato sul riconoscimento e sulla tutela della proprietà, era incapace di adattarsi alle esigenze connaturate alle iniziative da questi poste in essere: iniziative finalizzate a far circolare (e non invece a conservare) qualcosa o a produrre qualcosa da vendere (e non invece da consumare). Sicché questo nuovo diritto era destinato esclusivamente ai soggetti che appartenevano alla casta dei mercanti ed era quindi subordinato ad una qualifica soggettiva, che si conseguiva con l’ingresso nelle corporazioni: ingresso riservato a coloro che svolgevano le arti e i mestieri per professione abituale e formalizzato attraverso una dichiarazione solenne di adesione (la professio) sigillata dall’iscrizione nella matricola mercatorum. Con il passare del tempo, man mano, cioè, che l’economia mercantile e produttiva diventa centrale nella vita sociale, viene meno tuttavia la ragione per la quale il diritto dei mercanti doveva essere considerato un diritto di casta. In particolare, si prende atto che esso è anzitutto il diritto dei traffici mercantili, cioè un diritto approntato per le esigenze e le caratteristiche di questi ultimi e dei diversi interessi che vi sono sollecitati e coinvolti. Specialmente in seguito alla rivoluzione francese, come pure si è detto, la sua applicazione resta subordinata esclusivamente al concreto svolgimento del fenomeno produttivo 4. In altre parole, il diritto dei mercanti passa dall’essere un diritto organizzato su base soggettiva ad un diritto organizzato su base oggettiva; da un diritto di una categoria di soggetti, finalizzato a riconoscere e tutelare le relative esigenze, ad un diritto di un fenomeno commerciale e produttivo, finalizzato a disciplinare il suo svolgimento ed a contemperare i diversi interessi coinvolti. Pertanto, il suo presupposto di vertice non è più rappresentato dall’appartenenza ad una certa categoria soggettiva o da una qualifica formale attribuita ad un soggetto ma dallo stesso fenomeno commerciale e produttivo, descritto in termini oggettivi dal dato normativo come modello comportamentale. Cosa che avviene sin dalla prima legge organica, rappresentata dal Code de commerce francese del 1807, dove il fenomeno testé menzionato viene descritto come acte de commerce (art. 631) 5. Si è visto poi che il Code de commerce ha influenzato anche le legislazioni di altri paesi, tra le quali la legislazione italiana: a partire dal codice di commercio del 1865 (artt. 2 e 3), per passare al codice di commercio del 1882 (art. 3), fino ad arrivare al codice civile del 1942 (art. 2082) 6.

Ed invero, la norma di apertura dell’esperienza normativa riguardata definisce, più che l’imprenditore, il fenomeno che l’imprenditore pone in essere, in modo, però, da isolarlo idealmente da esso. Cioè, descrive in termini oggettivi un suo comportamento, che si sostanzia in un’attività, qualificata come produttiva, a sua volta triplicemente qualificata dai requisiti di organizzazione, professionalità ed economicità, che prende il nome di impresa. Questo al fine di rendere l’impresa per il diritto commerciale ciò che è il soggetto per il diritto privato, ossia di collocare l’impresa al vertice del sistema del diritto commerciale ed assumere la stessa quale referente della disciplina corrispondente.

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Al riguardo, SPADA; ID., voce Impresa, 33 ss. Al riguardo, sempre, SPADA; ID., voce Impresa, 33 s. 6 Al riguardo, BRACCO, L’impresa, 26 ss.; ASCARELLI, Corso, 62 ss. 5

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SEZ. I – La fattispecie “impresa”

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Infatti, come sarà agevole constatare, il dato normativo appronta la disciplina proprio muovendo dall’impresa, come attività oggettivamente considerata: disciplina che allora è la disciplina dell’impresa. Si noterà che tale disciplina è dettata in funzione delle caratteristiche e delle peculiarità proprie dell’impresa: in particolare, essa stabilisce le regole comportamentali alle quali occorre attenersi nel suo svolgimento, in modo da pervenire ad un giusto equilibrio o contemperamento tra i diversi interessi che ne sono coinvolti, nel suo interno (titolare, soci) e nei rapporti esterni che da essa hanno origine (creditori e, per certi aspetti, lavoratori, destinatari della produzione), risolvendo, cioè, eventuali situazioni di conflitto 7.

I. La relatività della nozione d’impresa Conviene sin da subito precisare che la nozione di impresa oggetto di studio in questa sede non rappresenta l’unica nozione di impresa contemplata dall’ordinamento. Essa è soltanto una delle nozioni, in particolare la nozione che serve a determinare in termini generali e astratti quali sono i fenomeni che devono essere assoggettati al corpo di norme che nel loro insieme costituiscono nell’ordinamento nazionale lo statuto delle attività produttive qualificabili come imprese. Pertanto, si tratta di una nozione relativa 8. Una nozione diversa, o quanto meno parzialmente diversa, la si può riscontrare al vertice di altre esperienze normative. Così è, prima di tutto, al di fuori del diritto commerciale. Spicca la nozione contenuta nell’art. 55 TUIR, finalizzata ad individuare i fenomeni produttivi idonei a produrre redditi da assoggettare al regime di imposizione c.d. dei redditi di impresa (artt. 56 ss. TUIR), con riguardo ai quali non sono necessari alcuni dei requisiti qualificativi richiesti dalla nozione oggetto di attenzione da parte del codice civile 9. Ma anche all’interno della nostra materia, emergono nozioni alternative. Possiamo ricordare la nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria (specialmente, dalla Corte di Giustizia), diretta ad individuare i fenomeni produttivi soggetti alla disciplina contenuta nei testi normativi comunitari e, in particolare, nel TFUE (artt. 101 ss., contenenti la disciplina antitrust), con riguardo ai quali i requisiti qualificativi richiesti dalla nozione dell’ordinamento domestico o non sono necessari (la professionalità

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FERRO-LUZZI, L’impresa, 19 ss.; ID., Lezioni, I, 45 ss.; CORSI, Diritto, 12 ss. e 25 ss. In termini generali, sulla relatività della nozione di impresa, OPPO, Scritti, I, 60 ss.; SPADA, L’incognita “impresa” dal codice allo statuto, nel libro di Pier Giusto Jaeger, GComm, 1985, I, 753 ss.; MAZZONI, L’impresa, 662 ss.; TERRANOVA, L’impresa, 6 ss.; CAMPOBASSO; PRESTI-RESCIGNO; e sulla sua derivazione dalla nozione economica (pur sottolineandone le differenze), ASQUINI, Profili, 136 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese, 25 ss.; GENOVESE, La nozione, 3 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 51 ss. 9 Sul punto, in termini generali, FANTOZZI, Il diritto tributario3, Torino, 2004, 841 ss.; DE MITA, Principi di diritto tributario6, Milano, 2011, 191 s.; ZIZZO, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte italiane11, Padova, 2016, 243 ss.; più nello specifico, POLANO, Attività commerciale e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, 27 ss. e 67 ss. 8

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CETRA – La nozione d’impresa

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o l’organizzazione) o assumono un significato diverso (l’economicità) 10; in un senso ancora più estensivo, la giurisprudenza europea accoglie nella nozione di impresa comunitaria, ai medesimi fini, anche le professioni intellettuali, che per diritto interno, come si è detto e come meglio vedremo, rimangono invece distinte; con ciò segnando un passo verso quel progressivo ravvicinamento di tutti i fenomeni produttivi, in atto nel moderno sviluppo del diritto commerciale, e di cui si è parlato (e v. meglio infra, § 3.III). Ci sono poi ulteriori nozioni che rappresentano delle specificazioni della nozione generale del diritto interno: in esse vengono messi in rilievo, con un significativo grado di dettaglio, alcuni aspetti necessariamente trascurati dalla figura di base. In particolare, il riferimento è alle nozioni di impresa bancaria (artt. 10 e 11 TUB) e di impresa di investimento (art. 1, co. 1, lett. f-h, TUF), poste al vertice della disciplina bancaria e finanziaria 11. In definitiva, possiamo senz’altro affermare che quella di impresa è una nozione a geometria variabile, che cambia in funzione della disciplina che deve trovare applicazione e, quindi, delle esigenze e della tipologia di interessi sottostanti alla specifica disciplina.

II. L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata 1. L’attività produttiva L’art. 2082 descrive l’impresa in termini di attività e la qualifica, poi, come produttiva: a) L’attività può essere immaginata come un modello comportamentale costituito da tanti singoli comportamenti, che rilevano sul piano normativo, non in quanto tali (pur potendo presentare ognuno di essi attitudine ad essere regolato sul piano giuridico anche nella propria individualità; ad es. la stipulazione di un contratto, o un pagamento; altri comportamenti invece, come l’azione materiale di confezionamento dei prodotti, non rilevano giuridicamente nella loro individualità), bensì nel loro insieme (cioè, come accadimento considerato unitariamente) 12. E ciò in ragione del fatto che essi rappresentano una sequenza coordinata strutturalmente e funzionalmente, ossia teleologicamente orientata al raggiungimento di un determinato scopo (o risultato programmato). b) L’attività si presta ad essere qualificata a seconda della natura del suo scopo (o risultato che mira a raggiungere). Sicché, atteso che qui interessa l’attività produttiva, 10

Sul punto, v., sin d’ora, FRANCESCHELLI, Imprese, 341 ss.; AFFERNI, La nozione comunitaria di impresa, Tr. Galgano, II, 1978, 134 ss.; VERRUCOLI, La nozione di impresa nell’ordinamento comunitario e nel diritto italiano: evoluzione e prospettive, in VERRUCOLI (a cura di), La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, Milano, 1977, 398 ss.; GRISOLI, voce Impresa comunitaria, EncGiur, XVIII, 3 ss. 11 Sulla nozione di impresa bancaria e finanziaria, AA.VV., Diritto della banca e del mercato finanziario, I, I soggetti, Bologna, 2000, 30 ss. e 110 ss.; COSTI, L’ordinamento bancario5, Bologna, 2012, 201 ss.; ID., Il mercato mobiliare10, Torino, 2016, 121 ss. 12 In luogo di molti, AULETTA, voce Attività, EncD, III, 985 ss.; ASCARELLI, Corso, 147 ss.; OPPO, Scritti, I, 266 ss.; SPADA.

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la relativa sequenza comportamentale dev’essere orientata al perseguimento di un risultato socialmente riconoscibile come produttivo. Ciò significa che tale sequenza dev’essere rivolta a produrre un’utilità che prima non c’era, quindi ad incrementare il livello di ricchezza complessiva rispetto allo status quo ante. E ciò attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi: dando vita ad un bene materiale attraverso un procedimento di trasformazione fisico-tecnica di materie prime (ad es., automobili), o ad un bene intangibile attraverso l’elaborazione di dati digitali (ad es., software), o offrendo un servizio (ad es. di trasporto, o di banca) e collocando i beni e i servizi prodotti sul mercato; oppure, ancora, mediando nella loro circolazione (agenzie, dettaglianti ecc.). Se allora soltanto i fenomeni che si presentano nella forma dell’attività produttiva interessano in questa sede, si può sin da subito individuare un primo gruppo di fenomeni estranei ai nostri interessi: quelli che si presentano nella forma dell’attività non produttiva, ossia dell’attività di godimento. Essa può essere immaginata come una sequenza di comportamenti finalizzati ad un risultato non produttivo, vale a dire a trarre le utilità d’uso o di scambio di qualcosa che già si ha, pertanto senza dar luogo ad alcun incremento di ricchezza preesistente. In altre parole, si tratta del modo attraverso il quale si concretizza essenzialmente l’esercizio del diritto soggettivo su un certo bene 13. Tuttavia, giova subito precisare che la distinzione tra l’attività produttiva e l’attività di godimento è agevole solo in teoria, cogliendosi essenzialmente sul piano dell’orientamento teleologico dei segmenti comportamentali da cui sono costituite: a seconda, cioè, che il risultato perseguito possa essere apprezzato come creazione di nuova utilità o meno. Non è però sempre agevole distinguere in concreto quando abbiamo a che fare con il primo o il secondo tipo di fenomeno. È indubitabile che si tratta di attività di godimento allorché il proprietario di un immobile lo abiti o lo dia in locazione a terzi (utilità d’uso) oppure lo ceda sul mercato (utilità di scambio). Ed è parimenti indubitabile che si tratta di attività produttiva allorché il medesimo proprietario utilizzi l’immobile per farci un albergo o un residence (produzione di servizi). Ma la qualificazione del fenomeno diventa meno certa allorché sempre lo stesso proprietario loca ai turisti le singole camere dell’immobile, ciò in quanto non è chiaro se in un tale comportamento prevale il fine dello sfruttamento delle utilità d’uso proprie dell’immobile (la percezione dei frutti civili) ovvero il fine della creazione di un servizio connesso con l’affitto delle camere 14. In linea di massima, il criterio orientativo dovrebbe essere dato dalla presenza o meno di utilità offerte in aggiunta all’uso del bene (ad es., la pulizia della camera, il cambio della biancheria, la colazione), ma è chiaro che possono profilarsi in concreto situazioni di non agevole qualificazione. Può anche accadere che il comportamento si appunti su un bene c.d. produttivo (in senso stretto), vale a dire su un bene che per sua naturale inclinazione consenta di trarre le sue utilità d’uso in forma produttiva (come ad es., la terra, le cave, le miniere, le torbiere). In questi casi, è di tutta evidenza che l’attività di godimento è inequivocabilmente diversa

13

In termini generali, TANZI, Godimento, 109 ss.; OPPO, Scritti, I, 274 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 417. 14 Con riferimento ad una tale vicenda, propendendo per la qualificazione dell’attività come produttiva, Cass. 12-6-1984, n. 3493, FIt, 1984, I, 2773.

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CETRA – La nozione d’impresa

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da un’attività produttiva solo quando il godimento è indiretto, cioè si realizza per il tramite della concessione in affitto del bene ad un terzo. Invece, il godimento si sostanzia in una vera e propria attività produttiva, quando il godimento è diretto, cioè quando il titolare ne mantiene la relativa conduzione e percepisce direttamente le conseguenti utilità d’uso. Basti pensare al proprietario di un terreno che lo coltiva, al fine di trarne i relativi frutti: ebbene, fa attività di godimento o attività produttiva? 15 Si prenda ancora il caso del comportamento rapportato al bene denaro. Esso è senz’altro attività di godimento quando si sostanzia nell’uso di questo denaro, spendendolo nell’acquisto di beni. Ma la conclusione non è altrettanto sicura allorché si risparmia quel denaro e, in particolare, quando il risparmio assume le fattezze di forme elaborate di investimento. Si pensi, anzitutto, all’ipotesi in cui esso venga impiegato nel trading su strumenti finanziari secondo i criteri di ripartizione del rischio (servizi di investimento, spesso posti in essere da apposite società) oppure quando viene utilizzato per concedere dei prestiti ad altri soggetti (servizi di finanziamento, pure erogati da apposite società); quando gli importi investiti e la complessità e l’intensità dell’attività svolta raggiungono dimensioni importanti, è corretto ravvisare l’esistenza di un’attività produttiva. Si pensi poi al caso in cui il denaro viene utilizzato per effettuare un investimento in un’impresa, che attribuisce il controllo sulla stessa; quando l’investitore non si limita a trarre le rendite finanziarie dell’investimento e ad esercitare i relativi diritti, ma svolge un’opera di direzione e coordinamento dell’impresa controllata, si può ben dubitare che ci si mantenga nell’alveo delle attività di godimento 16.

Tuttavia, benché non sia sempre facile e immediato discernere quando si tratti di attività produttiva o di attività di godimento, risulta utile insistere su tale distinzione solo quando l’eventuale attività produttiva possa annoverarsi tra i fenomeni che qui interessano, cioè possa configurarsi alla stregua di un’impresa. Infatti, giova precisare che non tutte le attività produttive sono delle imprese: tra le prime e le seconde intercorrendo un rapporto di genus a species. È un’impresa solo l’attività produttiva che presenta i tre attributi prescritti dall’art. 2082, di professionalità, organizzazione e economicità, sui quali qui di seguito ci si deve soffermare.

2. La professionalità Anzitutto, un’attività produttiva, per poter essere qualificata come impresa, deve soddisfare il primo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire quello della professionalità. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano della frequenza relati-

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Il quesito è stato lasciato non a caso aperto essendo la sua risposta affatto controversa (BONFANTECOTTINO, L’imprenditore, 418; BUONOCORE, L’impresa, 66 s.; FERRARA-CORSI; CAMPOBASSO). Tuttavia, la risposta che merita di essere ricordata si lega al nome di TANZI, Godimento, 106 ss., 250 ss. e 393 ss., ad avviso del quale l’attività è di godimento se può essere considerata espressione dell’esercizio del diritto di proprietà sul bene: cosa che accade quando ci si limita a sfruttare la capacità produttiva del bene medesimo, cioè a trarre e a percepire le utilità che derivano dalla sua normale utilizzazione; invece, l’attività è produttiva se non è specificazione dell’esercizio del diritto reale: cosa che accade quando ci si adopera per accrescere artificialmente la capacità produttiva del bene, al fine di ottenere utilità ulteriori rispetto a quelle che derivano dalla sua normale utilizzazione, tipicamente nella prospettiva di assecondare un’esigenza di mercato. 16 Con riferimento ad una tale vicenda, propendendo per la qualificazione dell’attività come produttiva, Cass. 13-3-2003, n. 3724, Giust civ, 2003, I, 1198.

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va al suo svolgimento, richiedendo che essa abbia luogo in maniera abituale, stabile e reiterata, in definitiva non occasionale o sporadica 17. Peraltro, se è agevole e immediato definire a livello teorico quando l’attività può considerarsi esercitata professionalmente, lo stesso non può dirsi dal punto di vista pratico e concreto. Al riguardo, può essere utile e opportuno ricordare alcune conclusioni che possono ritenersi ormai acquisite. i) In primo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di esclusività, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui un’attività produttiva non costituisca l’unica attività svolta da parte di chi la pone in essere. A titolo d’esempio, s’immagini un soggetto che di giorno gestisce un punto di ristoro e poi di sera va ad insegnare aerobica in una palestra. Oppure, un soggetto che di giorno gestisce una tavola calda e di sera gestisce un pub. In termini più generali, è senz’altro possibile che un soggetto svolga un’attività produttiva qualificabile come impresa e un’attività produttiva di tipo differente; così come che un soggetto svolga due (o più) attività produttive entrambe qualificabili come imprese 18. ii) In secondo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di continuità, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia svolta in modo non continuativo, cioè sia caratterizzata da interruzioni, in un lasso di tempo considerato. Tuttavia, si precisa che le interruzioni devono essere legate, non già all’arbitrio di chi svolge l’iniziativa, bensì alle esigenze naturali del ciclo produttivo sottostante, sicché l’attività interrotta ricomincia dopo un certo periodo, per poi interrompersi nuovamente, secondo un intervallo pressoché costante. A titolo di esempio, si pensi alle attività stagionali, come la gestione di un impianto sciistico o di uno stabilimento balneare 19. iii) Infine, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di pluralità di risultati prodotti, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia finalizzata alla realizzazione di un unico affare. Infatti, non è detto che l’“occasionalità” dell’affare debba sottendere sempre l’occasionalità dell’attività. In particolare, ciò non accade quando l’affare si presenta complesso e si presta ad essere realizzato attraverso un’iniziativa che non può essere improvvisata, cioè non può essere posta in essere da chiunque, poiché richiede un minimo di retroterra organizzativo, acquisito in ragione dell’esperienza maturata nel settore in cui l’affare si colloca. A titolo d’esempio, si pensi al caso in cui il risultato della produzione sia un’opera complessa, quale può essere considerata una grande struttura (un ponte, una strada, ecc.), che si realizza attraverso un’attività produttiva che non può essere improvvisata, nel senso che non può attuarsi senza un minimo di apparato organizzativo, che è proprio di colui che ha una certa esperienza nel settore di quelle produzioni. Invece, 17

In questo senso, in modo pressoché unanime, in luogo di molti, BIGIAVI, La professionalità, 9 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese, 96 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 139 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 423 s. Da ultimo, v. anche le considerazioni di TERRANOVA, L’impresa, 9 s. 18 In questo senso, tra gli altri, SPADA, voce Impresa, 49; CAMPOBASSO; Trib. Torino, 4-7-1980, Fall, 1981, 762; con specifico riferimento all’esercizio contestuale di due imprese, COSTI, La titolarità di più imprese, ArchGiur, 1964, 96 ss. 19 In questo senso, tra gli altri, FERRARA-CORSI; GALGANO; PRESTI-RESCIGNO.

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l’“occasionalità” dell’affare sottende l’occasionalità dell’attività quando si tratta di un affare semplice, che si presta ad essere attuato attraverso un’iniziativa che può essere anche improvvisata e, di conseguenza, posta in essere da chiunque. A titolo di esempio, si pensi ad un soggetto che compra una partita di merce all’ingrosso, con l’intenzione di rivenderla al dettaglio e guadagnare la differenza (auspicabilmente positiva) tra il prezzo di acquisto e il prezzo di vendita 20. Ne consegue che un’attività produttiva che difetti del requisito di professionalità è estranea ai nostri interessi, trattandosi di un’iniziativa occasionale, ossia posta in essere in modo episodico e sporadico.

3. L’organizzazione Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, deve soddisfare il secondo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire quello dell’organizzazione. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano dei mezzi impiegati nel suo svolgimento, richiedendo che essa sia esercitata, non solo (o non tanto) con la capacità lavorativa di chi la pone in essere, ma anche (o piuttosto) con l’ausilio di (altri) fattori produttivi 21. I fattori impiegabili nel processo produttivo possono essere i più vari. Essi sono sostanzialmente riconducibili alle due categorie fondamentali, individuate dalla scienza economica: il lavoro e il capitale. Con il primo si allude alla forza lavoro acquisita sul mercato del lavoro, a prescindere dal titolo al quale l’acquisizione è avvenuta (rapporto di lavoro subordinato, coordinato e continuativo, occasionale, volontario, ecc.) 22. Con il secondo si allude a qualunque entità materiale o immateriale, a prescindere dal titolo che ne consente di avere la disponibilità (proprietà, usufrutto, uso, locazione, leasing, ecc.) 23. Peraltro, non è necessario che le due tipologie di fattori produttivi ricorrano congiuntamente. Se è normale che esse si combinino tra di loro, non è da escludere che determinati processi possano richiedere esclusivamente il fattore lavoro (processi produttivi cc.dd. labour intensive) o il fattore capitale (processi produttivi cc.dd. capital intensive) 24. 20 In questo senso, JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO; LIBONATI. Nella prospettiva di valutare il requisito della professionalità alla luce dell’apparato organizzativo destinato all’iniziativa, FRANCESCHELLI, Imprese, 96 ss.; AFFERNI, Gli atti, 279 ss. 21 In questo senso, FRANCESCHELLI, Imprese, 99 ss.; CASANOVA, Impresa, 23; OPPO, Scritti, I, 243 ss. e 281 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 424 s.; NIGRO, Imprese, 648 ss. Nel senso invece della non essenzialità dei fattori produttivi (diversi dal lavoro proprio), BIGIAVI, Sulla nozione di piccolo imprenditore, DFall, 1942, II, 177 ss.; ID., La “piccola impresa”, 92 ss.; cui adde, tra gli altri, GALGANO; ed anche BIONE, L’impresa, 102 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 162. 22 Il punto è sottolineato in particolare da BUONOCORE, L’impresa, 120 ss. Nel senso dell’idoneità del volontariato ad acquisire lavoro nell’organizzazione imprenditoriale, da ultimo, OCCHINO, Volontariato, diritto e modelli organizzativi, Milano, 2012, 57 ss. 23 Il punto è sottolineato in particolare da CORSI, Diritto, 14. 24 In questo senso, confutando l’idea che l’organizzazione d’impresa presupponga sempre lavoro altrui, BIGIAVI, La “piccola impresa”, 49 ss. Più di recente, FRANCESCHELLI, Imprese, 93 s.; JAEGERDENOZZA-TOFFOLETTO; FERRARA-CORSI; CAMPOBASSO; PRESTI-RESCIGNO.

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Alla luce di quanto precede, dovrebbe essere allora evidente qual è il ruolo del titolare di un’attività produttiva organizzata. Il suo ruolo è quello, non tanto di partecipare attivamente nel processo produttivo (il che comunque non è escluso), quanto piuttosto di svolgere un’opera di organizzazione: un’opera, cioè, che consiste nello stabilire un ordine funzionale e strutturale dei fattori produttivi ai quali fa ricorso, approntandoli all’impiego nel processo produttivo 25. Una tale opera è legata alla natura dei fattori utilizzati in concreto 26: essa, con riferimento al lavoro, consiste nello stabilire un ordine funzionale finalizzato a definire chi decide cosa e chi esegue ciò che altri hanno deciso; con riferimento al capitale, consiste nella preparazione degli elementi necessari all’utilizzo nel processo produttivo. Peraltro, va detto che l’opera di organizzazione non deve necessariamente manifestarsi nella realizzazione di un apparato organizzativo tangibile. A titolo di esempio, basti pensare alle attività di investimento nella loro configurazione più elementare, che si sostanziano nella raccolta di una certa quantità di denaro e nel successivo impiego in strumenti finanziari secondo opportuni criteri di ripartizione del rischio; oppure alle attività che si svolgono esclusivamente attraverso la rete internet, come le tante iniziative di mediazione virtuale, che ormai mettono in contatto venditori e compratori di qualunque tipo di bene, ivi compreso il denaro (raccolta di denaro da chi ne ha in eccesso e vuole risparmiarlo in modo remunerativo e offerta di denaro a chi ne ha bisogno e chiede credito) e articolati servizi finanziari (my-way; 4-you) e assicurativi (direct line) 27. D’altra parte, giova precisare che il ruolo del titolare nell’ambito della sua iniziativa dev’essere comunque almeno minimamente riconducibile ad un’attività di organizzazione. Se manca questo profilo (e, quindi, l’eterorganizzazione), se, cioè, il ruolo del titolare si esaurisce in un’attività meramente esecutiva (e, quindi, nell’autorganizzazione), rappresentando il suo lavoro personale il fattore produttivo non solo necessario ma anche sufficiente, in quanto unico fattore impiegato nel processo produttivo, allora l’iniziativa non è qualificabile come impresa bensì come lavoro autonomo. Il lavoro autonomo è un’attività produttiva che si caratterizza per essere svolta esclusivamente con l’intervento esecutivo di chi la pone in essere. Cioè, un’attività nella quale il lavoro personale può considerarsi, non solo necessario, ma anche sufficiente per il compimento dell’intero processo produttivo. Il lavoro autonomo è un fenomeno produttivo che di per sé rileva sul piano normativo. Esso è definito dall’art. 2222, il quale recita: “quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza 25 In questo senso, SPADA; WEIGMANN, L’impresa nel codice civile del 1942, in OLIVIERI-PRESTI (a cura di), Cinquanta sfumature di impresa, 18 ss. 26 Pur con diverse argomentazioni, sottolineano che l’opera organizzativa è legata al tipo di fattori produttivi utilizzati, RAVÀ, La nozione, 35 ss.; ASCARELLI, Corso, 178; SPADA, voce Impresa, 47 s.; CAMPOBASSO. 27 Il punto è sottolineato in particolare da SPADA; ID., Domain names e dominio dei nomi, RDCiv, 2000, I, 721 s., il quale mette in rilievo come la telematica affranca dal bisogno di un ordine strutturale e funzionale di cose e persone nella produzione di beni e servizi.

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vincoli di subordinazione nei confronti del committente si applicano le norme di questo capo”. Da tale norma si desume che il lavoro autonomo può dirsi integrato allorché la produzione è posta in essere: verso un corrispettivo, ossia a titolo oneroso; da un soggetto che opera senza vincoli di subordinazione, cioè in proprio; con il lavoro prevalentemente proprio. E gli esempi di iniziative riconducibili alla definizione appena richiamata sono i più vari: basti pensare all’imbianchino, all’idraulico, all’elettricista, ecc. Giova osservare che il fatto che il dato normativo richieda che la prestazione debba essere realizzata con il lavoro prevalentemente proprio potrebbe risultare una contraddizione rispetto a quanto si è detto più sopra, cioè che il lavoro autonomo si caratterizza per la circostanza che il lavoratore debba utilizzare soltanto il suo lavoro personale. Con riguardo al termine “prevalentemente” può tuttavia considerarsi pressoché acquisito che esso sia da intendersi nel senso che il soggetto possa utilizzare o fattori necessari per esternare la propria capacità lavorativa (si pensi al pennello utilizzato dall’imbianchino o alla pinza, alla tenaglia o al cacciavite utilizzati dall’elettricista o dall’idraulico); oppure fattori neutri, ossia inespressivi, ai fini della qualificazione del fenomeno: fattori, cioè, che possono essere impiegati in ogni attività, anche non produttiva (si pensi al telefono o anche al computer, che, in virtù della loro diffusione, possono senz’altro essere considerati fattori privi di capacità qualificativa) 28.

4. L’economicità Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, deve infine soddisfare il terzo ed ultimo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire quello dell’economicità. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano del metodo che dev’essere seguito nel suo svolgimento. Tale requisito, a differenza degli altri due precedentemente esaminati, è stato a lungo controverso, nel senso che è stata a lungo incerta (e, ad onor del vero, ancora non del tutto pacifica) l’identificazione del metodo cui allude 29. Secondo un primo orientamento, che soprattutto in passato riscuoteva grande seguito, specialmente da parte di chi era dell’idea che l’economicità fosse un requisito “inautonomo” dalla (e, quindi, un rafforzativo della) professionalità (intesa in senso pregnante, come occupazione remunerativa), il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo lucrativo (se non proprio del tornaconto), cioè un metodo che tende a far conseguire un margine di profitto 30 (o il maggior profitto possibile 31). Pertanto, secondo quest’orientamento, un fenomeno produttivo per potersi

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In questi termini, sottolineando che si tratta di lavoro autonomo fin quando non può ritenersi superata la soglia di semplice autorganizzazione del proprio lavoro, CAMPOBASSO. Peraltro, resta incerto quale sia il livello di eterorganizzazione necessario ad integrare un fenomeno imprenditoriale: sul punto, anche per una sintesi del dibattito, BUONOCORE, L’impresa, 114 ss. 29 Per una sintesi del dibattito, LOFFREDO, Economicità, 3 ss. e 207 ss.; MARASÀ, Impresa, scopo di lucro ed economicità, in OLIVIERI-PRESTI (a cura di), Cinquanta sfumature di impresa, 33 ss. Per una recente rivisitazione del problema, TERRANOVA, L’impresa, 54 ss. 30 In questo senso, tra gli altri, ASCARELLI, Corso, 189 ss.; DE MARTINI, Corso, 103 ss.; BONFANTECOTTINO, L’imprenditore, 435 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 71 ss.; FERRARA-CORSI; BUTTARO; FERRI. In giurisprudenza, Cass. 9-12-1976, n. 4577, GComm, 1977, II, 626; Cass. 3-12-1981, n. 6395, GIt, 1982, I, 1, 1276; Trib. Gorizia, 18-11-2011, Fall, 2012, 722. 31 In questo senso, GENOVESE, La nozione, 27 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 129 ss.

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qualificare come impresa dev’essere un’attività lucrativa (oltre che professionale e organizzata): un’attività nella quale i prezzi di cessione dell’oggetto della produzione (cc.dd. prezzi-ricavo) devono essere fissati ex ante (oltre che in funzione di quella che può essere la ragionevole capacità di assorbimento da parte del mercato della produzione offerta) in modo non solo da consentire di recuperare i costi sostenuti nel corso del processo produttivo (cc.dd. prezzi-costo), ma anche di conseguire un margine di profitto (se non addirittura il maggior profitto possibile), a prescindere, poi, dalla destinazione impressa al profitto così ottenuto: se una destinazione interessata al titolare dell’iniziativa o, nel caso di impresa collettiva, ai suoi partecipanti (come i soci in una società) ovvero una destinazione disinteressata a soggetti differenti (come avviene normalmente in un’associazione o fondazione o in una società caratterizzata dalla presenza di una clausola non lucrativa). Naturalmente, in questa prospettiva, non è rilevante che il profitto sia in concreto conseguito, ma soltanto che se ne persegua la realizzazione; è per questo che la valutazione se ricorra o no il requisito in esame deve essere compiuta ex ante, cioè in base al programma di ricavi e proventi che orienta l’attività, non in base ai risultati realmente maturati (che potrebbero anche essere negativi, quando, ad es., il prodotto proposto non incontrasse il favore del mercato). Secondo un diverso orientamento, che attualmente può considerarsi prevalente, anche in seguito all’acquisita consapevolezza che l’economicità sia un requisito autonomo (e, quindi, ulteriore) rispetto alla professionalità, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo economico in senso stretto, cioè un metodo che tende ad assicurare il pareggio tra ricavi e costi, essendo del tutto eventuale e, comunque, irrilevante il profitto 32. Pertanto, secondo quest’orientamento, un fenomeno produttivo si qualifica come impresa se è un’attività economica, non necessariamente lucrativa: un’attività nella quale i prezzi di vendita devono essere fissati ex ante (oltre che in funzione di quella che può essere la ragionevole capacità di assorbimento da parte del mercato della produzione offerta) in modo da consentire almeno di coprire i costi relativi all’acquisto dei diversi fattori variamente impiegati nel processo produttivo sottostante, ossia di recuperare attraverso i ricavi della vendita dei beni e dei servizi i costi di produzione sostenuti, restando invece superfluo l’obiettivo di una differenziazione in senso positivo tra ricavi e costi. In altre parole, affinché un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa, è sufficiente che il titolare sia in grado di riprendere dal mercato – e sempre che il mercato risponda assorbendo la produzione offerta (infatti anche in questa prospettiva la valutazione va compiuta in base al programma di ricavi, non alla luce di quelli realmente conseguiti) – l’investimento di capitali risultato necessario per lo svolgimento del processo produttivo e che, di conseguenza, sia nelle condizioni di disporre, anche attraverso il ricorso al credito, di quanto occorre per rinnovare gli investimenti che sono richiesti, nell’ottica di una prosecuzione regolare dell’iniziativa, senza ulteriori interventi da parte di terze

32 In questo senso, tra gli altri, FRANCESCHELLI, Imprese, 103 s.; OPPO, Scritti, I, 243 e 275 s.; SPADA, voce Impresa, 50 ss.; LOFFREDO, Economicità, 80 ss.; MARASÀ, Impresa, cit., 35 ss.; GALGANO; CAMPOBASSO. In giurisprudenza, Cass. 2-3-1982, n. 1282, FIt, 1982, I, 1596; Cass. 2-3-2003, n. 16435, ArchCiv, 2004, 1100. Intermedia è la posizione di chi, pur ritenendo superfluo il metodo lucrativo, ritiene comunque necessario il perseguimento di un fine lato sensu egoistico: BIGIAVI, La professionalità, 43 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 28 ss.

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economie (cioè di economie ulteriori rispetto all’intervento iniziale o interventi normalmente imposti da esigenze di crescita dell’iniziativa). Deve trattarsi di un’iniziativa che sia, dunque, programmata per essere in grado di mantenersi in equilibrio economico e, quindi, in equilibrio finanziario, preservando, così, quanto meno nel lungo periodo, l’autonomia da altre economie 33. Questa seconda interpretazione del requisito dell’economicità è senz’altro preferibile per un concorso di ragioni. Al riguardo, giova muovere dal rilievo che, accedendo all’interpretazione che intende l’economicità come sinonimo di lucratività, il fenomeno normativamente rilevante (cioè, l’impresa) sarebbe più circoscritto rispetto a quello che risulterebbe accedendo all’interpretazione più letterale del criterio. Infatti, è di tutta evidenza che, nel primo caso, un’attività produttiva potrebbe configurarsi come impresa soltanto quando si prefiggesse di conseguire un margine di profitto (eventualmente nel suo livello massimo) e non se si limitasse a recuperare invece attraverso i ricavi i costi di produzione. Una simile restrizione non sembra tuttavia trovare giustificazione. Ciò in quanto essa avrebbe come conseguenza quella di rendere estranei alla fattispecie – e, quindi, sottrarre alla disciplina che a quella fattispecie si riferisce (ossia, la disciplina dell’impresa: vale a dire, il diritto commerciale) – una serie di fenomeni che sollecitano interessi, se non pienamente coincidenti, quanto meno non molto diversi rispetto a quelli sollecitati dai fenomeni che si realizzano secondo il metodo lucrativo. Ed invero, occorre considerare che un qualsiasi fenomeno produttivo, a prescindere dal metodo che ne informa lo svolgimento, necessita ex ante degli investimenti per acquisire i fattori produttivi da impiegare nel corso del suo processo produttivo, investimenti che possono essere sostenuti nella misura in cui si disponga di sufficienti risorse finanziarie, acquisite o a titolo di capitale proprio (cioè, senza vincolo di restituzione) o a titolo di capitale di credito (cioè, con vincolo di restituzione). Ora, il fatto che il fenomeno produttivo si svolga secondo un metodo economico (lucrativo o meramente economico, non importa), significa essenzialmente che tale fenomeno si prefigge di appagare le istanze di coloro che soddisfano le sue esigenze finanziarie, per il tramite della collocazione della propria produzione sul mercato: attraverso la vendita dei beni o servizi prodotti o la rivendita dei beni acquistati, riuscendo così a recuperare le risorse finanziarie necessarie per assecondare le pretese dei finanziatori. È perciò evidente che nel fenomeno produttivo in questione le pretese di tutti coloro che lo finanziano – a prescindere dal titolo con cui il finanziamento è avvenuto – sono esposte al rischio che l’iniziativa non riesca ad ottenere dal mercato le suddette risorse. Sono esposte cioè al rischio che l’offerta della produzione non trovi riscontro nella domanda dei destinatari di quella produzione: con il che realizzandosi ricavi inferiori ai costi, che portano ad uno squilibrio economico (perdita), il quale, a lungo andare, si riflette, squilibrandola, sulla situazione finanziaria e patrimoniale, provocando, in definitiva, uno stato di dissesto. In altre parole, tutti coloro che finanziano un’iniziativa produttiva autonoma da terze economie, che pretende di sopravvivere attraverso il collocamento della propria produzione sul mercato e di ottenere le risor-

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LIBONATI; SPADA.

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se necessarie a remunerare i fattori produttivi impiegati, sono esposti al rischio di mercato (che è la configurazione tipica del rischio di impresa): al rischio di non riuscire a soddisfare le proprie legittime aspettative originate dall’operazione finanziaria posta in essere, se il mercato non assorbe (quanto meno una parte del)la produzione offerta 34. È allora evidente che in un fenomeno produttivo economico, a prescindere dal metodo che ne informa lo svolgimento, ricorre il presupposto che rende congruo l’assoggettamento al diritto dell’impresa: il fatto che tali fenomeni si interfaccino con il mercato, cioè cerchino di acquisire dal mercato le risorse necessarie per soddisfare le istanze di coloro che li finanziano e, quindi, siano esposti al rischio che il mercato non consenta la relativa acquisizione o, quanto meno, un’acquisizione sufficiente. Di conseguenza, devono essere governati dal diritto dell’impresa – devono, cioè, svilupparsi nell’osservanza delle regole comportamentali imposte dall’ordinamento proprio con l’obiettivo di soddisfare quelle istanze – non solo i fenomeni che si svolgono con metodo lucrativo, ma anche quelli che si svolgono con metodo meramente economico 35. Del resto, una simile conclusione ha trovato talvolta avallo nello stesso dato normativo, il quale, soprattutto in passato, qualificava, non a caso, come “impresa” iniziative che non devono essere necessariamente svolte con un metodo lucrativo (e men che meno del tornaconto), tra le quali basti ricordare le iniziative mutualistiche e le iniziative economiche degli enti pubblici 36. Alla luce di quanto precede, si può dedurre che il fenomeno produttivo che difetti dell’economicità si configura come attività di erogazione: attività, quest’ultima, che si caratterizza per cedere i beni o servizi prodotti (o i beni acquistati) a prezzi che non riescono a recuperare nemmeno i costi sostenuti per il loro ottenimento (o acquisto) o, addirittura, gratuitamente: un’attività, cioè, che, in definitiva, dà luogo ad un vero e proprio trasferimento di ricchezza da chi produce a vantaggio dei destinatari della produzione. Pertanto, questi fenomeni, non riuscendo e non tendendo neppure a recuperare attraverso i ricavi (peraltro eventuali) i costi sostenuti per la produzione, presentano l’attitudine ad esaurire le risorse messe a disposizione inizialmente a copertura degli investimenti necessari per realizzare il processo produttivo (che, non a caso, sono risorse acquisite a titolo diverso dal credito, peraltro non solo senza pretese restitutorie, ma neanche di remunerazione), sicché l’iniziativa posta in essere sarà costretta ad arrestarsi, a meno che non ci sia-

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In questo senso, le chiare pagine di FRANCESCHELLI, Imprese, 33 ss. Nello stesso senso, sottolineando che quale che sia il metodo di gestione (lucrativo o meramente economico), c’è sempre il rischio che il risultato non si verifichi, CAVAZZUTI, voce Rischio d’impresa, 1094 ss. 35 In questo senso, sottolineando come non solo nelle iniziative lucrative ma anche in quelle non lucrative ci sono interessi meritevoli di una tutela della stessa intensità, CETRA, L’impresa, 48. Ma già, nell’ottica di vedere nell’economicità un “imperativo” della disciplina dell’impresa, seppur ad altro proposito, SPADA, L’incognita, cit., 757 s.; ANGELICI, I, 33 s. Più in generale, sull’idea che la disciplina dell’impresa risenta della naturale destinazione al mercato della produzione, FANELLI, Introduzione, 52 ss.; GHIDINI, Lineamenti, 89 ss. e 132 ss. 36 Sul punto, in luogo di molti, BUONOCORE, L’impresa, 64 s. e 71 ss.; MARASÀ, Impresa, cit., 36 ss.; GALGANO; CAMPOBASSO.

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no nuove iniezioni di risorse da parte di terze economie. Si tratta, cioè, di una tipologia di iniziative che tendono ad esaurirsi al termine di qualche ciclo produttivo o altrimenti riescono a proseguire in quanto sostenute da terze economie. Ed invero, tali fenomeni si riscontrano essenzialmente nel mondo non profit, dove infatti una parte (forse la maggior parte e, comunque, la parte più importante) delle iniziative, presenti perlopiù nei settori a spiccata rilevanza sociale (assistenza sociale, assistenza sanitaria, assistenza socio-sanitaria, prevenzione della dispersione scolastica, ecc.), opera secondo un metodo erogativo, cioè cedendo i beni o i servizi prodotti sotto costo o gratuitamente. Queste iniziative sono riconducibili essenzialmente alle associazioni di volontariato. Non a caso, queste operano grazie all’apporto rappresentato dal lavoro dei volontari, che non solo è spontaneo ma anche privo di remunerazione. Ad esso si aggiunge qualche forma di apporto di risorse di altra natura, principalmente finanziarie, a titolo di donazione disinteressata. Questi fenomeni, pur essendo fenomeni produttivi, sono tuttavia senz’altro estranei ai fenomeni che qui interessano.

D’altra parte, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa quell’attività che viene svolta, stabilendo inizialmente un livello dei prezzi-ricavo senz’altro insufficiente a coprire i costi di produzione, di conseguenza sapendo di pervenire ad una perdita, ove tuttavia il differenziale negativo tra ricavi e costi non è casuale, ma è fissato in funzione dell’impegno assunto ex ante da qualcuno di coprire tale differenziale. In altre parole, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa quell’attività che viene svolta secondo una logica di perdita programmata 37. Nel senso che siffatta logica possa ritenersi compatibile con un criterio di economicità depone la circostanza che l’impegno a coprire il differenziale negativo per ogni unità di prodotto o servizio venduto è un elemento di cui si tiene conto nella fissazione del prezzo, trattandosi di un impegno vincolante da parte di chi ha assunto quest’ultimo. Un simile impegno si sostanzia nell’obbligo di corrispondere una parte del (o anche tutto il) prezzo: la parte che non viene corrisposta dal destinatario del bene o del servizio. Siffatte situazioni ricorrono nel mondo non profit, nel quale non sono rare le iniziative che producono servizi (generalmente servizi alla persona), che vengono ceduti ad un utente, senza che lo stesso corrisponda l’intero prezzo, ma con la possibilità per l’erogatore del servizio di accreditarsi per incassare la differenza tra il prezzo del servizio stesso e il prezzo (eventualmente) pagato dall’utente, nei confronti di qualcuno che si è impegnato ex ante in questo senso (generalmente un ente pubblico), talvolta a seguito della presentazione di un apposito voucher (incorporante l’impegno in questione), che l’utente ha rilasciato nel momento in cui ha usufruito del servizio 38. Situazioni non diverse si riscontrano anche nelle iniziative mutualistico-consortili, specialmente in quelle che assumono la forma giuridica del consorzio, le quali 37

Per i termini generali della questione, CETRA, L’impresa, 46 s., nt. 22. Sul punto, MARASÀ, Contratti, 5 e 168. E v., anche, PERRINO, Esercizio indiretto dell’impresa “scolastica”, associazione e fallimento, GComm, 1992, II, 77 ss. Sul ricorso ai vouchers quali forme di finanziamento dei soggetti del terzo settore cui è affidata la gestione dei servizi sociali ex l. 11 novembre 2000, n. 328 e delle imprese sociali, BELTRAMETTI, Vouchers. Presupposti, usi e abusi, Bologna, 2004, 7 ss.; FREGO LUPPI, Art. 17, Il sistema integrato dei servizi sociali2, a cura di Balboni-Baroni-Mattioni-Pastori, Milano, 2007, 392 ss. 38

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producono servizi a favore degli imprenditori facenti parte del sodalizio, che inizialmente cedono sottocosto o gratuitamente, per poi recuperare quanto necessario per coprire i costi di produzione attraverso i cc.dd. contributi consortili 39.

5. La completezza della nozione di impresa L’esegesi appena conclusa dell’art. 2082 ha permesso di individuare quali siano i fenomeni produttivi che il dato normativo qualifica come impresa, ossia i fenomeni giuridicamente rilevanti in quanto destinatari di una certa disciplina. Ai fini della riconducibilità di un fenomeno produttivo alla fattispecie il riscontro deve arrestarsi alla verifica della sussistenza in concreto degli elementi contenuti in questa descrizione normativa: nel senso che non deve spingersi nell’accertare se ricorrano elementi che il dato normativo non richiede esplicitamente, abbiano carattere oggettivo o soggettivo (cioè, legati alle intenzioni di chi pone in essere il fenomeno oggetto di qualificazione). Altrimenti detto, il modello comportamentale descritto dal dato normativo non può essere arricchito di elementi oggettivi qualificanti non richiesti dalla norma stessa, né può essere inquinato da elementi intenzionali di chi pone in essere materialmente il fenomeno. Il modello comportamentale descritto dalla norma è perciò esaustivo: contiene gli elementi non solo necessari ma anche sufficienti che devono caratterizzare un certo “fatto” affinché esso possa considerarsi giuridicamente come “impresa”. In quest’ottica, ci si può sbarazzare agevolmente di due (pseudo) questioni che affiorano tradizionalmente nel dibattito sulla fattispecie: se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa nel caso in cui la produzione non sia destinata ad essere collocata sul mercato (c.d. impresa per conto proprio) o nel caso in cui tale fenomeno si sia svolto senza osservare le condizioni richieste dalla legge per la sua iniziazione (c.d. impresa illegale) o persegua direttamente o indirettamente una finalità illecita (c.d. impresa immorale o mafiosa). È agevole a questo punto affermare che tanto nel primo quanto nel secondo caso la conclusione non può che dipendere dal riscontro che il fenomeno posto in essere sia riconducibile a quello astrattamente descritto dall’art. 2082, ossia sia un fenomeno produttivo che presenta le tre caratteristiche oggettive di professionalità, organizzazione ed economicità: nel caso affermativo, si tratta di un’impresa; nel caso contrario, no. In ogni caso, a poco rilevano la destinazione impressa alla produzione ottenuta o l’osservanza di regole ulteriori o le finalità perseguite attraverso l’iniziativa. Con riferimento alla prima questione il punto è se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa anche quando il risultato della produzione non venga destinato al mercato (e rimanga invece nella disposizione di chi ha dato luogo alla stessa). È evidente che si tratta di ipotesi con rilevanza pratica marginale. Possono essere rappresentate, ad es., dall’agricoltore che coltiva il terreno ottenendo una produzione che utilizza per l’auto-consumo o per le esigenze della propria famiglia o il proprietario di un ter-

39 SPADA, Funzione e organizzazione consortile tra legge e prassi contrattuale, RDImp, 1990, 252; VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, Tr. Galgano, IV, 1981, 339.

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reno che costruisce in economia (cioè organizzando egli stesso la manovalanza e acquistando i materiali necessari) un edificio che adibisce a sua abitazione personale. Ora, decidere se in questi casi c’è o meno un’impresa è un riscontro che occorre fare verificando appunto e solo che il fenomeno produttivo realizzato soddisfi i tre requisiti di professionalità, organizzazione ed economicità richiesti dal dato normativo. E con riferimento ad entrambi gli esempi appena fatti, non sembra remota la possibilità che possano esserci i requisiti della professionalità e dell’organizzazione; soltanto sull’economicità si è a volte dubitato. Invero, si è sostenuto che il requisito di economicità non poteva accertarsi in assenza di un’operazione di scambio, atteso che in tal caso non avrebbe senso verificare se i ricavi coprono (e, eventualmente, superano) i costi, non essendovi alcun ricavo 40. Tuttavia, si è replicato che il requisito poteva essere accertato, sostituendo il ricavo con il risparmio di spesa, nell’ottica di ritenere che quest’ultimo sia una particolare configurazione del primo 41. In questa prospettiva, non si possono avere esitazioni a ricondurre il fenomeno a quello normativamente rilevante. Ed invero, non può in alcun modo rilevare il fatto che la produzione non abbia la sua naturale destinazione di mercato, atteso che la produzione richiede comunque investimenti, ai quali si associa un’esigenza finanziaria, che in parte può essere soddisfatta a titolo di credito (cioè, con capitali acquisiti con vincolo di restituzione). Sicché, gli interessi sollecitati durante la fase di produzione non possono avere una tutela differente a seconda della destinazione impressa o che s’intenda imprimere ai beni ottenuti: se al mercato o al consumo personale. Ritenere il contrario equivarrebbe a introdurre nella fattispecie un elemento ulteriore che il dato normativo non richiede o far dipendere l’integrazione della fattispecie da un elemento soggettivo quale la scelta su come destinare l’oggetto della produzione. D’altra parte, la logica dell’autosostentamento dell’attività e della capacità di ripagare le esigenze finanziarie con i ricavi è rispettata, atteso che i beni realizzati (l’abitazione) o il denaro risparmiato grazie all’autoproduzione sono valori (assimilabili a ricavi, come si è detto) eventualmente utilizzabili per il soddisfacimento delle pretese dei finanziatori. Con riferimento alla seconda questione il punto è se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa anche se è illecito: altrimenti detto, se anche un’attività illecita possa considerarsi impresa (che allora sarebbe impresa illecita). Al riguardo, giova anzitutto precisare che con il sintagma “impresa illecita” si identificano due tipologie di fenomeni produttivi. Una prima tipologia è quella dell’impresa illegale. Essa ricorre tutte le volte in cui un’attività produttiva inizia senza chiedere o ottenere le autorizzazioni per essa previste, generalmente rilasciate da un’autorità amministrativa. Ad es., si pensi all’attività bancaria o, più in generale, all’attività di investimento finanziario: le quali possono cominciare solo dopo che hanno ottenuto l’autorizzazione dall’autorità amministrativa competente (Banca d’Italia: art. 14 TUB; Consob: art. 19 TUF). Una seconda tipologia è quella dell’impresa immorale. Essa ricorre tutte le volte in cui un’attività produttiva è finalizzata a realizzare un bene o a prestare un servizio contrario a valori basilari dell’ordinamento: basti pensare ad un’attività di produzione di sostanze stupefacenti o ad una attività di servizi di accompagnamento per signori altolocati con signorine di bella presenza e di generose concessioni (c.d. servizio di escort). Per vero, questa seconda tipologia si distingue a sua volta da una sotto categoria, che è qualificata in letteratura come impresa mafiosa. Essa si identifica con un’attività produttiva, di per sé regolare e 40 41

In questo senso, BONFANTE-COTTINO, 420 s.; GALGANO; AULETTA-SALANITRO. In questo senso, soprattutto, OPPO, Scritti, I, 61 s.; SPADA, voce Impresa, 53.

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lecita, che appoggia e sostiene un più ampio disegno criminoso. Un esempio potrebbe essere la creazione e la gestione di un ristorante, col fine precipuo di riciclare del denaro proveniente da attività illecite 42. Ebbene, anche in questi casi la qualificazione del fenomeno posto in essere è legata soltanto alla riconducibilità dello stesso al modello comportamentale generale e astratto descritto dal dato normativo. Il che deve senz’altro ritenersi con riferimento ai fenomeni che rientrano nella c.d. impresa illegale, atteso che subordinare l’integrazione della fattispecie al soddisfacimento di un ulteriore adempimento di ordine formale (la richiesta dell’autorizzazione) vorrebbe dire arricchire le condizioni minime alla cui ricorrenza il dato normativo subordina la disciplina dell’impresa. Con la conseguenza che sarebbe lasciato alla volontà di chi pone in essere il fenomeno decidere se integrare o meno quelle condizioni (attraverso, appunto, la richiesta dell’autorizzazione) e, quindi, precostituire il presupposto di applicazione della disciplina dell’impresa: il che è a dir poco inaccettabile, finendo per condizionare alla sua volontà l’applicazione di una disciplina che non tutela soltanto il suo interesse. Del resto, una tale conclusione può dirsi ormai ampiamente acquisita a proposito della banca illegale (o banca di fatto). In particolare, si ritiene che, se si svolge un’attività bancaria, cioè la raccolta di risparmio tra il pubblico e la concessione del credito, senza chiedere (o ottenere) la necessaria autorizzazione alla (dalla) Banca d’Italia, la conseguenza non possa essere la sottrazione del fenomeno alla disciplina sua propria (e in particolare alla disciplina relativa alla soluzione di un’eventuale insolvenza), bensì soltanto la punizione della condotta illecita (cioè, il fatto di aver svolto un’attività senza chiedere le necessarie autorizzazioni), con l’applicazione delle relative sanzioni amministrative e penali (art. 131 TUB) 43. Ma a conclusioni non diverse deve giungersi anche con riferimento ai fenomeni che rientrano nell’impresa immorale (e, a fortiori, mafiosa), atteso che subordinare l’integrazione della fattispecie ad un giudizio di valore dell’oggetto della produzione o alle finalità remote perseguite dall’iniziativa significherebbe rendere troppo incerto il presupposto di applicazione di una disciplina alla quale è affidato il congruo contemperamento di diversi interessi in gioco. Ed invero, anche attività finalizzate alla produzione di sostanze stupefacenti o attività finalizzate allo sfruttamento della prostituzione possono essere caratterizzate da un processo produttivo che sollecita interessi tipici di un qualsiasi fenomeno produttivo e, in particolare, il credito alla produzione: interessi che pertanto meritano tutela a prescindere dalle valutazioni in ordine all’oggetto della produzione o alle finalità perseguite attraverso lo svolgimento di quell’iniziativa 44. In altri termini, anche le attività che perseguono un fine immorale o appoggiano un più 42

Sulle tipologie di impresa illecita, per tutti, SACCÀ, Impresa individuale e societaria illecita, Milano, 1988, 11 ss.; ID., Contributo allo studio del contenuto e dei limiti della nozione di neutralità dell’attività d’impresa, Milano, 2005, 23 ss. 43 In questo senso, in dottrina, MARTORANO, L’impresa bancaria non autorizzata, Impresa e società. Scritti in memoria di Graziani, III, Napoli, 1967, 1072 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 27 s.; OPPO, Scritti, I, 251 s.; SACCÀ, Impresa, cit., 20 ss.; in giurisprudenza, Cass. 1-7-1969, n. 2410, FIt, 1969, I, 2886. Nello stesso senso, con riferimento all’attività finanziaria non autorizzata, SALAMONE, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 61 ss. 44 In questo senso, sottolineando che il comportamento imprenditoriale è un fatto che l’ordinamento regola a prescindere dall’illecito di chi si comporta e di chi ha contatti con questo, SPADA. Per l’analoga conclusione, pur con differenti argomentazioni, BRACCO, L’impresa, 192; PANUCCIO, Note in tema di impresa illecita (per una teoria delle anomalie dell’impresa), Impresa e società. Scritti in memoria di Graziani, III, Napoli, 1967, 1216 ss. (poi riaffermata in ID., Teoria, cit., 109 ss.); BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 444 s.; LIBONATI. Con specifico riferimento all’impresa mafiosa, ALAGNA, Impresa illecita e impresa mafiosa, ContrImp, 1991, 159 ss.; SACCÀ, Contributo, cit., 53 ss.

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ampio disegno criminoso possono senz’altro qualificarsi come imprese sul piano normativo. L’assoggettamento alla relativa disciplina soffre, tuttavia, una importante eccezione: non si applica quella parte di disciplina che è predisposta a tutelare gli interessi di chi svolge l’iniziativa (da identificarsi, più che altro, nella parte “industriale” del diritto commerciale: v., infra, §§ 13 ss.). È evidente infatti che non sarebbe giustificabile consentire a chi svolge un’attività apprezzabile come immorale o a sostegno di un progetto criminoso di beneficiare dell’applicazione degli istituti che sono disposti per tutelare specificamente il suo interesse e, in particolare, la sua posizione sul mercato (ad es., gli istituti dei segni distintivi e della concorrenza): questo alla luce di un principio immanente nell’ordinamento per cui nessun soggetto può trarre una qualsiasi forma di vantaggio dalla commissione di un illecito 45.

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In questo senso, tra gli altri, OPPO, Scritti, I, 252 s. e 270 s.; CAMPOBASSO.

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§ 2. LE CATEGORIE DI IMPRESA SOMMARIO: I. L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza normativa. – II. L’impresa agricola. – III. La piccola impresa. – 1. La nozione di piccola impresa nel codice civile. – 2. La piccola impresa nella legge fallimentare. – 3. Il problema dell’impresa artigiana. – 4. La piccola-media impresa nella legislazione speciale. – IV. L’impresa commerciale. – V. Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla disciplina applicabile. – 1. L’impresa pubblica. – 2. L’impresa privata. – 3. L’impresa sociale.

LETTERATURA: AA.VV., La legge-quadro per l’artigianato, GComm, 1987, I, 690; ALESSI-PISCIOTTA, L’impresa agricola2, Comm. Schlesinger, 2010; ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002; ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962; BIGIAVI, La “piccola impresa”, Milano, 1947; BIONE, L’impresa ausiliaria, Padova, 1972; ID., L’imprenditore agricolo, Tr. Galgano, II, 1978; ID., voce Piccolo imprenditore, EncGiur, XXV, 2006; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 2001; BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960; BUONOCORE, L’impresa, Tr. Buonocore, I/2.1, 2002; CAPO, La piccola impresa, Tr. Buonocore, I/2.III, 2002; CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974; CAVAZZUTI, Le piccole imprese, Tr. Galgano, II, 1978; CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003; ID., Impresa, sistema e soggetti, Torino, 2008; CIRENEI, Le imprese pubbliche, Milano, 1983; COLUSSI, voce Impresa collettiva, EncGiur, XVI, 1989; CORSI, Diritto dell’impresa2, Milano, 2003; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983; FANELLI, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione, Comm. Scialoja-Branca, 1968; FERRO-LUZZI, Alla ricerca del piccolo imprenditore, GComm, 1980, I, 37; ID., L’impresa, in AA.VV., L’impresa, Milano, 1985, 8; ID., Lezioni di diritto bancario3, I, Parte generale, Torino, 2012; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972; GALGANO, L’imprenditore, Tr. Galgano, II, 1978; GATTI, voce Piccola impresa, EncD, XXXIII, 1983, 758; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990; GHIDINI, Lineamenti del diritto dell’impresa2, Milano, 1978; GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggi sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998; JAEGER, La nozione d’impresa dal codice allo statuto, Milano, 1985; MARASÀ, Contratti associativi e impresa, Padova, 1995; MARTUCCI, Profili di diritto singolare dell’“impresa”, Milano, 2013; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966; MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942; NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, Tr. Rescigno, 15**2, 2001; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PIRAS, Nuove forme di organizzazione dell’attività di impresa, GComm, 1980, I, 70; RAVÀ, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949; RIVOLTA, La teoria giuridica dell’impresa e gli studi di Giorgio Oppo, RDCiv, 1987, I, 203; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, Tr. Rescigno, 15**2, 2001; ROVERSI-MONACO, L’attività economica pubblica, Tr. Galgano, I, 1977; SPADA, voce Impresa, D4, sez comm, 1992.

I. L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza normativa La nozione di impresa che si è appena esaminata ricomprende un qualsiasi fenomeno produttivo che presenti i tre requisiti di professionalità, organizzazione e economicità.

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Tale nozione introduce nel sistema una marcata discontinuità rispetto al sistema previgente del codice di commercio del 1882: non solo perché descrive un fenomeno produttivo in termini di attività (art. 2082) e non invece di atto di commercio (art. 3 c.comm. 1882), con il che escludendo dalla fattispecie fenomeni che si sostanziano in singoli atti (cfr. art. 3, nn. 4, 5, 15, 18) o in un insieme di atti non unitariamente orientati sul piano teleologico (cfr. art. 3, nn. 1, 3, 11, 12, 22, 23); quanto piuttosto perché colloca al vertice del diritto commerciale un fenomeno omnicomprensivo (art. 2082), laddove invece al vertice del diritto commerciale contenuto nel codice di commercio erano espressamente esclusi i fenomeni di natura agricola e artigiana (art. 5 c.comm.). La ragione di questo ampliamento del fenomeno normativamente rilevante si coglie nel già ricordato tentativo, perseguito dal legislatore storico del 1942, di assoggettare ogni iniziativa produttiva (a prescindere, cioè, dalla natura e purché caratterizzata da un minimo di organizzazione imprenditoriale) ad un nucleo di regole comuni, vale a dire alle regole contenute negli artt. 2084-2093: a regole perlopiù programmatiche che si limitano ad enunciare un principio e a rinviarne la relativa attuazione ad altra legge ordinaria e, soprattutto, alle norme corporative. Più precisamente, l’intento era essenzialmente quello di far sì che tutte le iniziative imprenditoriali informassero, non solo l’indirizzo della produzione (cfr. 2085), ma anche il concreto svolgimento della stessa (art. 2088), ai principi dell’ordinamento corporativo e, di conseguenza, restassero esposte, nel caso di inosservanza dei relativi obblighi, a severe sanzioni (artt. 2089 ss.) 1. La ragione, quanto meno principale, che aveva indotto il legislatore storico a uniformare gran parte delle attività produttive (cioè, quelle triplicemente qualificate dagli attributi esaminati) nella nozione d’impresa è venuta meno con la soppressione dell’ordinamento corporativo (r.d.l. 921/1943 e d.l.lgt. 287/1944), circostanza, quest’ultima, che ha fatto perdere agli artt. 2084-2093 gran parte della loro importanza e consistenza. E così l’impresa, quale fenomeno omnicomprensivo, sembra aver smarrito il suo pendant sul piano del diritto positivo 2. In particolare, l’impresa in quanto tale non pare assoggettata (più) ad un corpo organico di regole che costituiscano uno statuto. In realtà, nel corso del tempo non sono mancati tentativi riformatori, diretti a colmare il vuoto derivante dall’abrogazione dell’ordinamento corporativo attraverso uno statuto dell’impresa che ispirasse le relative iniziative ai principi economici fondamentali dell’ordinamento racchiusi nella Costituzione (parte I, titolo III) e, al tempo stesso, desse attuazione alle corrispondenti norme programmatiche (cfr., ad es., artt. 35, 41 e 46 Cost.) 3. 1

Sul punto, pur con diverse sfumature di pensiero, le ricostruzioni di BRACCO, L’impresa, 110 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese, 238 ss.; GALGANO, L’imprenditore, 24 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 45 ss.; COTTINO; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 382 ss.; WEIGMANN, L’impresa nel codice civile del 1942, AGE, 1/2014, 7 ss. 2 Non a caso, FERRO-LUZZI, L’impresa, 26 e 30; ID., Lezioni, 30, considera la nozione generale di impresa una trappola “sistematica” o “metodologica”, nella quale è incappata gran parte della dottrina, la quale è stata indotta a concentrare i propri sforzi ricostruttivi nella ricerca del risvolto normativo di tale nozione ormai non più esistente. 3 Sul punto, BRACCO, L’impresa, 283 ss.

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Il tentativo senz’altro più importante è da ascriversi ad una commissione ministeriale appositamente costituita e presieduta da Giuseppe Ferri, la quale aveva elaborato uno statuto dell’impresa, tuttavia mai tradotto in legge. Solo di recente, su impulso di una comunicazione della Commissione europea [Com. 394/2008 dal titolo “Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la piccola impresa (Uno small business act per l’Europa)”], è stato emanato uno statuto delle imprese (l. 180/2011), con il proposito di dare attuazione agli artt. 35 e 41 Cost. e, in particolare: – favorire e facilitare la nascita delle imprese e consentire il relativo sviluppo nelle dinamiche competitive del mercato interno e internazionale (art. 16), anche attraverso gli strumenti dell’associazionismo e della cooperazione (artt. 3 e 4); – semplificare il quadro normativo generale (art. 6) e i rapporti con la pubblica amministrazione (artt. 7, 8, 9 e 11), con specifico riferimento alla partecipazione agli appalti pubblici (art. 12 e 13); – promuovere l’inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello svolgimento dell’attività di impresa (art 14). Tuttavia, così come il progetto Ferri non si riferiva all’impresa ex art. 2082 ma (quanto meno precipuamente) ad una categoria (l’impresa medio-grande), anche lo statuto emanato dalla l. 180/2011 non si indirizza a tutte le imprese ma (essenzialmente) ad alcune categorie: alle micro, piccole e medie imprese, come definite dalla racc. 361/2003 e (tra queste) alle imprese partecipate in prevalenza da donne o da giovani di età non superiore a 35 anni.

In realtà, secondo l’opinione tradizionalmente consolidata, l’impresa in quanto tale risulterebbe (ancora) destinataria di uno statuto, il c.d. statuto generale dell’impresa, costituito da tutti quegli istituti che hanno come ambito di applicazione l’impresa non altrimenti qualificata. In particolare, si tratta degli istituti dell’azienda (artt. 2555-2562), della concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620 e l. 287/1990) e dei segni distintivi (artt. 2563-2574 e c.p.i.) 4. Inoltre, all’impresa in quanto tale si applicano anche delle disposizioni sparse, che si trovano qua e là nella sistematica del codice civile, tra le quali giova ricordare, ad es., l’art. 230-bis relativo alla c.d. impresa familiare, l’art. 1368, co. 2, relativo ai criteri di interpretazione del contratto, ecc. Tuttavia, se si guarda con attenzione agli istituti appena menzionati ci si accorge, da un lato, che alcuni di essi (l’azienda) non sono integralmente applicabili all’impresa in quanto tale (cfr. artt. 2556, 2557, 2558, co. 1, 2559, co. 1, 2560, co. 2); dall’altro, che altri (la concorrenza, nella parte dell’antitrust e i segni distintivi, nella parte dei marchi) si applicano anche a fenomeni produttivi diversi dall’impresa, o per scelta del legislatore (le professioni intellettuali) o per difetto di uno dei requisiti richiesti dall’art. 2082 (il lavoro autonomo).

Si intuisce però immediatamente che l’impresa, quale fenomeno omnicomprensivo, è in realtà destinataria più che altro di singole disposizioni 5, che nell’insieme costituiscono una disciplina poco organica e molto frammentaria, senz’altro non esaustiva dell’attuale portata del diritto commerciale, quale complesso organico di norme qualificabili a stregua di statuto. 4 5

Per tutti, FRANCESCHELLI, Imprese, 238 ss.; CAMPOBASSO. Il punto è sottolineato dallo stesso FRANCESCHELLI, Imprese, 240 ss.

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Ed invero, il codice attuale, se, da un lato, tratteggiava per le ragioni sopra chiarite una nozione unitaria di impresa, dall’altro enucleava ed enuclea da tale nozione due sottofattispecie alle quali voleva applicabili (oltre all’ordinamento corporativo, all’inizio) le sole norme appena passate in rassegna 6; per destinare invece ben altri e più pregnanti istituti ad una diversa e più importante sottoclasse e ciò sul presupposto che non tutti i fenomeni produttivi rientranti nella nozione generale di impresa dovessero essere assoggettati alla stessa disciplina e, segnatamente, che ve ne fossero alcuni rispetto ai quali l’applicazione di tutto il corpo organico di norme che costituisce il diritto commerciale fosse eccessivo e, comunque, inutile rispetto alle finalità precipuamente perseguite 7. I fenomeni imprenditoriali cui si attribuiva e si attribuisce questa più ristretta rilevanza normativa sono due e sono individuati: – il primo, guardando alla natura della produzione e, in quest’ottica, enucleando dalla nozione generale di impresa l’impresa agricola; – il secondo, guardando alla dimensione dell’organizzazione e, in quest’ottica, enucleando dalla nozione generale di impresa la piccola impresa. Si isola in questo modo all’interno di questa nozione la figura dell’impresa commerciale non piccola: la quale è la (sola) destinataria del diritto dell’impresa nella sua interezza e soggetta dunque, essa sì, ad una disciplina organica e strutturata in forma di statuto. Peraltro, è agevole notare che l’impresa agricola e la piccola impresa corrispondono grosso modo alle due tipologie di fenomeni che erano estranei al fenomeno normativamente rilevante collocato al vertice del codice di commercio e che continuano ad essere estranee all’ambito di applicazione di una disciplina che grosso modo ricalca quella contenuta nel codice di commercio 8. Si tratta di una disciplina costituita da istituti precipuamente finalizzati alla tutela degli interessi di coloro che finanziano l’iniziativa imprenditoriale e, in particolare, ad assicurare un’adeguata composizione di tali finanziatori rispetto al rischio di impresa. In altre parole, si tratta di regole (l’obbligo di tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali, ecc.) dirette a tutelare il credito alla produzione, riservate ai fenomeni imprenditoriali in cui questa forma di finanziamento ricorre in maniera più intensa: ai fenomeni, appunto, rappresentati dalle imprese commerciali non piccole.

6 Non manca chi parla di sottofattispecie a rilevanza negativa sul piano normativo, per mettere l’accento sul fatto che si tratta di fenomeni imprenditoriali sottratti da un corpo organico di regole qualificabili in termini di statuto: tra gli altri, SPADA; ID., voce Impresa, 63 ss.; ANGELICI, I, 25 ss.; ma, sostanzialmente, già, G. CIAN, Diritto civile e diritto commerciale oltre il sistema dei codici, RDCiv, 1974, I, 534 ss. Altri invece hanno escluso che queste sottofattispecie fossero imprese in senso tecnico, proprio per rimarcare la parziarietà e frammentarietà di disciplina cui sono assoggettate: con specifico riferimento all’impresa agricola, FERRI, L’impresa agraria è impresa in senso tecnico?, in Atti del terzo congresso nazionale di diritto agrario. Palermo 19-23 ottobre 1952, Milano, 1954, 394 ss.; ID.; con riferimento anche alla piccola impresa, BRACCO, L’impresa, 123 ss. e 138 ss. 7 Per tutti, GHIDINI, Lineamenti, 77 ss.; OPPO, Scritti, I, 63 ss. e 195 ss. 8 Infatti, non manca chi sottolinea che l’accennato cambiamento del presupposto di vertice, cui si è parlato all’inizio del paragrafo, risulta più apparente che reale (così, DE MARTINI, Corso, 36 s.) o per molti versi artificioso (così, FERRARA-CORSI), essendo dettato da ragioni tramontate all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile e non più ripristinate con l’avvento dell’ordinamento repubblicano.

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II. L’impresa agricola La nozione di impresa agricola si desume dall’art. 2135, il quale la descrive come attività di coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse: tradizionalmente, si suole qualificare le prime come attività agricole essenziali mentre le seconde come attività agricole per connessione. Anzitutto, occorre soffermarsi sulla ragione della scelta di attribuire all’impresa agricola rilevanza normativa più ristretta, cioè di escluderla dal novero dei fenomeni imprenditoriali destinatari della disciplina dell’impresa nella sua interezza e, soprattutto, della parte posta a tutela del credito alla produzione. La ragione può cogliersi probabilmente, come si è già osservato, considerando il fenomeno in questione nel momento in cui detta scelta è avvenuta. Tale fenomeno si caratterizzava per avere un processo produttivo incentrato essenzialmente sul fondo: si trattava di un’attività in cui il fattore produttivo principale era rappresentato dalla terra e il cui esercizio si compenetrava con l’esercizio del diritto di proprietà sul fondo, atteso che l’imprenditore era normalmente il proprietario di questo 9. In particolare, l’impresa agricola si sostanziava nello sfruttamento del fondo attraverso la sua messa a coltura e/o la sua utilizzazione come luogo di allevamento del bestiame, attività alla quale poteva aggiungersene una ulteriore di trasformazione e/o commercializzazione di prodotti provenienti dalla coltivazione o dall’allevamento, sempre che quest’ultima attività rientrasse nel normale esercizio dell’agricoltura (cioè, un’attività che costituiva il tipico prolungamento dello sfruttamento del fondo in un determinato momento storico e in una determinata area geografica) e/o risultasse economicamente subordinata alla prima (cioè, un’attività secondaria rispetto allo sfruttamento del fondo) 10. È allora ragionevole ritenere che il legislatore del 1942 (in perfetta continuità rispetto al legislatore precedente) si sia orientato nel senso di assoggettare l’impresa agricola ad una disciplina di portata più circoscritta, sul presupposto che essa non presentava particolari esigenze di investimento in fattori produttivi necessari per lo svolgimento del processo produttivo sottostante, poiché quei fattori coincidevano in 9

IRTI, Proprietà e impresa agricola, Napoli, 1965, 1 ss. e 89 ss.; G.B. FERRI, Proprietà produttiva e impresa agricola2, Torino, 1996, 11 ss. e 47 ss. 10 Sul fenomeno produttivo sottostante alla versione originaria della nozione di impresa agricola, v., con riguardo alle attività essenziali, sottolineando, in particolare, la centralità del fondo nel relativo processo produttivo, FERRI; ID., L’impresa agraria, cit., 397 s.; MINERVINI, L’imprenditore, 53 s.; FRANCESCHELLI, Imprese, 220 ss.; DE MARTINI, Corso, 158 ss.; GENOVESE, La nozione, 82 ss.; COTTINO; nello stesso senso, ma rimarcando l’autonomia dall’esercizio del diritto di proprietà sul fondo sul quale potrebbe anche non esserci tale diritto, CASANOVA, Impresa, 105 ss.; con riguardo alle attività per connessione, sottolineando, in particolare, la concorrenza del criterio di normalità e di subordinazione economica, RAVÀ, La nozione, 88 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese, 228 ss.; nel senso, invece, di ritenere i due criteri alternativi e, segnatamente, il primo (la normalità) riservato alle attività connesse “tipiche” (cioè, quelle menzionate nell’art. 2135, co. 2, testo originario) mentre il secondo (la subordinazione economica) alle attività connesse “atipiche” (cioè, diverse da quelle menzionate nell’art. 2135, co. 2, testo originario), MASI, Le attività connesse, in Manuale di diritto agrario italiano, a cura di Irti, Torino, 1978, 97 ss. e 104 ss.; NIGRO, Imprese, 619 s.; o nel senso di far entrare in gioco la normalità laddove non può essere rispettata la subordinazione economica, BIONE, L’impresa, 114 ss. e 125 ss.; ID., L’imprenditore, 502 ss.

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larga parte con il fondo, ossia con un bene che già si possedeva, in quanto bene di proprietà. Né investimenti significativi potevano essere richiesti dall’attività di trasformazione o di commercializzazione di prodotti, dato il suo carattere tipicamente accessorio e secondario rispetto all’attività principale di coltivazione e/o di allevamento 11. Pertanto, le esigenze finanziarie sollecitate dal processo produttivo sottostante l’impresa agricola apparivano tendenzialmente minime e, quindi, minimo poteva immaginarsi il ricorso al credito alla produzione, tanto da non giustificare l’assoggettamento dell’iniziativa ad una disciplina che impone regole comportamentali finalizzate a comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di impresa. D’altra parte, non può essere trascurato che l’eventuale finanziamento alla produzione veniva acquisito attraverso operazioni che consentivano al creditore di attivare forme di autotutela, cioè forme di tutela contemplate dal diritto privato classico per la salvaguardia del credito, rappresentate perlopiù dall’ottenimento di garanzie (reali): da ipoteche sul fondo (tipicamente, nel credito fondiario) o da privilegio su bestiame, merci, scorte, materie prime, macchine, attrezzi e altri beni, comunque acquistati con il finanziamento concesso (tipicamente, nel credito agrario) 12. Sta di fatto che, nell’ambito di una più ampia riforma di modernizzazione del settore agricolo (d.lgs. 228/2001), la versione originaria dell’art. 2135 è stata integrata di due commi (il co. 2 e 3), che descrivono, rispettivamente, che cosa siano le attività agricole essenziali (co. 2) e le attività agricole per connessione (co. 3). Ai sensi dell’art. 2135, co. 2, per attività essenziali si intendono le attività dirette alla cura dello e allo sviluppo di un ciclo biologico (o di una sua fase necessaria) di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque (dolci, salmastre o marine). Ai sensi dell’art. 2135, co. 3, per attività connesse si intendono comunque le attività di conservazione, manipolazione, trasformazione e commercializzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalle attività agricole essenziali, nonché le attività dirette alla produzione e alla fornitura di beni o servizi ottenuti mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola 13. È allora di tutta evidenza che ne è fuoriuscita una nozione di impresa agricola decisamente più ampia di quella immaginata dal legislatore storico del ’42 e considerata tale dalla dottrina commercialistica e dalla giurisprudenza prevalente 14.

11 Sulle ragioni alla base del trattamento normativo dell’impresa agricola, ampiamente, IANNARELLI(VECCHIONE), L’impresa agricola, Tr. Buonocore, I/2.II, 92 ss. spec. 114 ss.; e v., anche, GERMANÒ, Sul perché dello speciale “statuto” dell’impresa agricola: una ricerca sulla dottrina italiana, in Impresa agricola e impresa commerciale: le ragioni di una distinzione, a cura di Mazzamuto, Napoli, 1992, 205 ss. E v., anche, la rassegna di MASI, L’impresa agricola: tra diritto agrario e impresa commerciale, RDCiv, 1983, II, 479 ss. e 485 ss. 12 Al riguardo, le chiare considerazioni di OPPO, Credito agrario ad imprese commerciali?, in Scritti giuridici, V, Padova, 1992, 72 ss. E v., anche, GHIDINI, Lineamenti, 77 ss. 13 In termini generali, sulle attività essenziali ed attività connesse, (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, cit., 233 ss. e 306 ss.; (ALESSI-)PISCIOTTA, L’impresa, 113 ss. e 147 ss. 14 Infatti, la riforma del 2001 ricordata nel testo accoglie la nozione di impresa agricola dominante tra

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Giova precisare che la nozione codicistica di impresa agricola è da considerarsi del tutto autonoma e, quindi, non integrata dalla nozione di imprenditore agricolo professionale (= iap) stabilita dall’art. 1 d.lgs. 99/2004, la quale mira ad individuare tra i titolari di imprese agricole quelli che si occupano dell’iniziativa come professione principale, dedicando all’impresa almeno il 50% del loro tempo lavorativo e riuscendo a trarre dall’impresa almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro (ai fini della qualificazione iap gli stessi requisiti sono richiesti anche ai soci di una società di persone o cooperativa o agli amministratori di una società di capitali, requisiti che peraltro consentono alla stessa società di assumere la qualifica di iap, nel caso in cui il proprio atto costitutivo preveda quale oggetto sociale esclusivo una o più attività rientranti nella nozione di impresa agricola descritta dall’art. 2135). Infatti, le due nozioni sono strumentali rispetto a finalità profondamente diverse: la prima per selezionare i fenomeni produttivi da sottrarre all’applicazione integrale del diritto dell’impresa; la seconda per selezionare i titolari di un’impresa agricola che possono beneficiare delle misure agevolative previdenziali e finanziarie di incentivazione all’agricoltura, previste dalla legislazione nazionale e, prima ancora, dalla legislazione comunitaria.

a) Quanto alle attività agricole essenziali, invero, se nella costanza della versione originaria della norma in esame poteva ritenersi che vi rientrassero soltanto quelle di coltivazione e di allevamento di bestiame che avevano luogo sul fondo (non invece tutte quelle colture o allevamenti fuori fondo, come le coltivazioni artificiali o in laboratorio – ad es., l’ortoflorivivaismo; la funghicoltura – gli allevamenti in batteria o di animali da cortile – ad es., di pollame –) 15, oggi questa conclusione non è più sostenibile, perché il dato normativo stabilisce espressamente che un’attività di coltivazione o di allevamento utilizza o può utilizzare il fondo. Con la conseguenza che il fondo è passato dall’essere fattore produttivo essenziale a fattore produttivo eventuale e, quindi, non più elemento costitutivo o caratterizzante della fattispecie 16. Nella nuova nozione di impresa agricola l’elemento costitutivo o caratterizzante è rappresentato dalla cura e dallo sviluppo di un ciclo (o di una parte di un ciclo) biologico (animale o vegetale), sicché può essere qualificata come impresa agricola qualunque attività che si sostanzia in tale cura o tale sviluppo 17.

gli studiosi di diritto agrario (tra i quali, LAZZARA, Impresa agricola, Comm. Scialoja-Branca, 1981, 42 ss. e 55 ss.; CARROZZA, Lezioni di diritto agrario, Milano, 1998, 10 ss.; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, Tr. Rescigno, 15**2, 454 ss.) e capace di ricomprendere tutta una serie di ipotesi di coltivazioni fuori fondo contemplate dalla legislazione speciale (sulle quali, prospettando l’attitudine ad incidere, ampliandola, sulla nozione originaria di impresa agricola, RIVOLTA, Sull’impresa agricola: vitalità ed espansione di una fattispecie codicistica, RDCiv, 1989, I, 559 ss.): sul punto, GALLONE, Impresa agricola. Art. 2135-2140, Comm. Scialoja-Branca, 2003, 25 ss. 15 Per un quadro di sintesi, BIONE, L’imprenditore, 473 ss. Infatti, proprio alla luce della centralità del fondo nel processo produttivo veniva interpretato il lemma “bestiame”, ricomprendendovi soltanto le specie bovine, suine, equine e caprine (ossia, animali da macello, da lavoro, da latte e da lana) ed escludendovi invece le altre specie e, in particolare, gli animali da cortile (ossia, gallinacei e conigli) (sul punto, CASANOVA, Impresa, 106; DE MARTINI, Corso, 159 s.). Peraltro, era controverso se potessero ricomprendersi allevamenti diversi come quello dei cavalli da corsa e dei cani da razza (per un quadro di sintesi, (ALESSI-)PISCIOTTA, L’impresa, 136 ss.). 16 In questo senso, tra gli altri, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 468 ss.; GALGANO; CAMPOBASSO; GAMBINO; BUONOCORE/Buonocore; PRESTI-RESCIGNO. 17 Ex multis, anche per altri riferimenti, BUONOCORE, Il “nuovo” imprenditore agricolo, l’imprenditore

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Ne consegue che iniziative, che in passato non potevano qualificarsi come impresa agricola (in quanto, appunto, avvenivano fuori fondo), oggi devono qualificarsi senz’altro come imprese agricole (anche se avvengono fuori dal fondo). Gli esempi possono essere più vari. Basti ricordare che sono ormai senz’altro imprese agricole le attività ortoflorivivaiste che si realizzano in strutture specializzate (le serre) o le attività di funghicoltura che pure si realizzano in strutture specializzate (le serre, i laboratori) o gli allevamenti di pollame in batteria 18. Così come lo sono le attività di acquacoltura (art. 3, d.lgs. 4/2012), cioè le attività che si prefiggono di curare o sviluppare un ciclo biologico di animali che vivono nell’acqua (pesci, crostacei, molluschi, ecc.) 19. Invece, di per sé non è un’impresa agricola la c.d. impresa ittica, come definita dall’art. 4, co. 1, d.lgs. 4/2012, cioè l’attività di pesca professionale, diretta alla ricerca di organismi acquatici viventi, alla cala, alla posa al traino e al recupero di attrezzature da pesca, al trasferimento, alla conservazione, alla trasformazione a bordo della cattura, al trasbordo, alla messa in gabbia, all’ingrasso e allo sbarco di pesci prodotti dalla pesca (art. 2, d.lgs. 4/2012): quindi, all’evidenza, non alla cura o allo sviluppo di un ciclo biologico. Ed è da escludersi che un’equiparazione tra le due fattispecie – quanto alle parti del diritto dell’impresa applicabili – sia disposta dal dato normativo, laddove all’art. 4, co. 4, d.lgs. 4/2012 stabilisce che “fatte salve le più favorevoli disposizioni di legge di settore, all’imprenditore ittico si applicano le disposizioni previste per l’imprenditore agricolo”: infatti, tale norma è da intendersi solo nel senso che nei confronti del primo trova applicazione la normativa speciale di agevolazione stabilita per il secondo 20.

b) L’ampliamento della nozione si coglie soprattutto sul versante delle attività connesse. Ed invero, queste non si identificano più soltanto con le attività tipicamente poste in essere da un agricoltore o da un allevatore in un determinato momento storico o in una certa area geografica e/o subordinate sul piano economico alle attività essenziali. Il dato normativo stabilisce che sono comunque connesse tutte le attività che utilizzano come materia prima prevalente (e non esclusiva, una parte della quale potendo essere allora acquisita sul mercato) i prodotti derivanti dall’attività di coltivazione e/o di alleittico e l’eterogenesi dei fini, GComm, 2002, I, 5 ss.; CASADEI, Artt. 1-2, I tre “decreti orientamento”: della pesca e acquacoltura, forestale e agricola. Commentario sistematico, a cura di Costato, NLCC, 2001, 730 ss.; GALLONE, Impresa agricola, cit., 52 ss.; (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, cit., 246 ss.; ALESSI(PISCIOTTA), L’impresa, 26 ss. 18 In questo senso, rimarcando che l’art. 2135, co. 2 non si limita ad esplicitare bensì ad innovare la nozione originaria di impresa agricola, Cass. 5-12-2002, n. 17251, FIt, 2003, I, 452 (con riferimento ad un’attività ortoflorivivaista); Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9-4-2002 (ined.) (con riferimento ad un’attività di funghicoltura e floricoltura al chiuso effettuata mediate serre coperte e riscaldate); Trib. Agrigento, 14-4-2003, GIt, 2004, 1431 (con riferimento all’attività di trasformazione di ortaggi); Cass. 2-12-2002, n. 17042, FIt, 2002, I, 3530 (con riferimento ad un’attività di allevamento di polli in batteria). 19 PRESTI-RESCIGNO. 20 Invece, è dubbio il significato dell’equiparazione all’impresa agricola prevista dall’art. 8, d.lgs. 227/2001, con riguardo alle cooperative ed i loro consorzi che forniscono in via principale, anche nell’interesse dei terzi, servizi nel settore selviculturale, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali (e, in particolare, se essa sia disposta anche al fine di individuare fenomeni produttivi da sottrarre al diritto dell’impresa): sul punto, tra gli altri, BUONOCORE, Il “nuovo”, cit., 20 ss.; ID., L’impresa, 564 s.; ALESSI(-PISCIOTTA), L’impresa, 89 s. e 225 ss.

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vamento di animali esercitata dal medesimo soggetto, pertanto a prescindere dal fatto che le prime restino subordinate rispetto all’attività essenziale dallo stesso svolta o costituiscano qualcosa di normale nell’agricoltura (latamente intesa) 21. La nozione si fonda dunque su un duplice presupposto di connessione per l’oggetto e per il soggetto, che devono ricorrere congiuntamente. Pertanto, oggi sono attività agricole per connessione tutte le attività di manipolazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti che provengono prevalentemente dall’attività agricola essenziale, anche nel caso in cui per il tramite di queste attività si realizzi la parte principale se non proprio l’intero risultato economico dell’iniziativa. Ad es., esercita senz’altro attività agricola per connessione il produttore di uva che anziché vendere (tutta) la stessa sul mercato ortofrutticolo la utilizza (in parte o in tutto, eventualmente aggiungendovene un’altra minor parte acquistata sul mercato) per trasformarla in vino e vendere il vino così ottenuto. Parimenti, il produttore di olive che anziché vendere (tutte) le stesse nel mercato ortofrutticolo le utilizza (in parte o in tutto, eventualmente aggiungendovene un’altra minor parte acquistata sul mercato) per trasformarle in olio e vendere il prodotto così ottenuto. A parziale correzione del criterio della connessione soggettiva, va poi precisato che esso può in alcuni casi mancare, da un punto di vista formale, senza che con questo l’attività svolta perda il proprio carattere agricolo. Il che accade nelle cooperative tra imprenditori agricoli e nei loro consorzi, se svolgono un’attività di cui all’art. 2135 utilizzando prevalentemente prodotti dei soci o se forniscono beni e servizi diretti alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico prevalentemente ai soci. Basti pensare ad una cooperativa che produce e commercializza olio utilizzando prevalentemente le olive prodotte dai soci nonché servizi di disinfestazione periodica antiparassitaria specifici per gli alberi di ulivo che si rivolge prevalentemente ai soci. Pur essendo la cooperativa (o il suo consorzio) un soggetto giuridico formalmente diverso da coloro che esercitano l’attività agricola principale (i soci/consorziati), si reputa sufficiente il collegamento sostanziale e la connessione per l’oggetto dell’attività. Viceversa, non è mai attività agricola l’attività in cui manchi la connessione oggettiva, cioè in cui un soggetto svolge un’attività di manipolazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti che non provengono prevalentemente dalla sua (eventuale) attività agricola essenziale bensì sono acquisitati sul mercato. Si pensi al produttore che compra (gran parte del)la frutta sul mercato (eventualmente integrandola con una parte di sua produzione) per fabbricare marmellate. O al produttore che compra (gran parte de)i pomodori sul mercato (eventualmente integrandoli con una parte di sua produzione) per fabbricare sughi per la pasta. Infatti, non può essere trascurato che le attività connesse sono fenomeni produttivi che, isolatamente considerati e riguardati di per sé soli, non potrebbero essere qualificati come agricoli, atteso che non rientrano tra le attività descritte sub a), e lo diventano solo in quanto in concreto svolti in connessione, secondo i criteri legali menzionati, con un’attività agricola essenziale.

Inoltre, sono comunque connesse le attività di produzione e di fornitura di beni e servizi ottenuti impiegando principalmente le attrezzature o le risorse che costituiscono l’azienda agricola dello stesso soggetto, a prescindere, ancora una volta, dalla circo-

21 Sulle attività connesse aventi ad oggetto i prodotti agricoli e sul criterio di prevalenza ai fini della loro identificazione, per tutti (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, cit., 306 ss.

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stanza che tale attività resti subordinata all’attività essenziale o costituisca qualcosa di normale nell’agricoltura (latamente intesa) 22. Il riferimento è principalmente alle attività di agriturismo, le quali sono qualificate come imprese agricole se le strutture di recezione degli ospiti per offrire loro servizi di ristorazione o finanche alberghieri sono le strutture che compongono l’azienda agricola. Occorre tuttavia segnalare che la l. 96/2006 demanda alla legislazione regionale la fissazione dei limiti entro i quali deve mantenersi l’attività agrituristica al fine di conservarsi come attività connessa, in particolare assicurando che la somministrazione di alimenti e bevande si realizzi con una quota significativa di prodotto della propria azienda o delle aziende della zona (art. 4). La stessa legge individua le tipologie di iniziative attraverso le quali l’attività agrituristica può manifestarsi in concreto (art. 2, co. 3). Inoltre, escludendo che l’impresa ittica sia equiparata all’impresa agricola anche ai fini che qui interessano (v. supra), si deve escludere altresì che siano attività agricole per connessione le attività elencate dall’art. 2, co. 2-bis lett. a e b, d.lgs. 4/2014 (in particolare, trasformazione e commercializzazione dei prodotti della pesca).

Ora, dovrebbe essere evidente che in seguito ad un siffatto ampliamento della nozione di impresa agricola, si apre la fattispecie ad una serie di fenomeni, in relazione ai quali non può riscontrarsi l’accennato presupposto che ne giustificava la rilevanza negativa sul piano normativo e la sottrazione dall’ambito di applicazione di buona parte del diritto dell’impresa. Infatti, giova considerare che, se l’impresa agricola non è più connotata sul piano della fattispecie da un processo produttivo che si incentra sul fondo e dalla necessaria subordinazione economica delle eventuali attività diverse, non è raro che le iniziative corrispondenti, potendo realizzarsi in strutture molto sofisticate e costose nonché sostanziarsi in attività produttive e commerciali che richiedono non trascurabili investimenti, presentino significative esigenze finanziarie, le quali vengono coperte attraverso un sempre più consistente ricorso al capitale di credito. Sicché, desta non poche perplessità il risultato che ne deriva: consentire a qualche iniziativa imprenditoriale, che soddisfa le proprie esigenze finanziarie ricorrendo al credito alla produzione in maniera non marginale e anzi nella stessa misura di altre, di beneficiare di un trattamento normativo differente: con buona pace del contemperamento degli interessi in gioco 23! Né si può provare a giustificare questo risultato adducendo che esso costituisca un favor necessario verso il titolare delle iniziative imprenditoriali agricole, le quali, impuntandosi sulla cura e sullo sviluppo di un ciclo biologico, sono esposte ad un rischio ulteriore rispetto ad un’iniziativa imprenditoriale di diversa natura: non solo al rischio di impresa ma anche al rischio naturale insito al ciclo biologico 24. Al riguardo, è ragionevole ritenere che se il risultato produttivo e,

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Sulle attività connesse aventi ad oggetto la fornitura di servizi, ancora (IANNARELLI)-VECCHIONE, L’impresa, cit., 318 ss. 23 In proposito, da ultimo, MOZZARELLI, Impresa (agricola) e fallimento, in AGE, 1/2014, 94 ss.; RONDINONE, L’imprenditore agricolo esercente attività commerciale nel nuovo diritto concorsuale, RDComm, 2014, I, 470 ss.; DALMARTELLO(-SACCHI-SEMEGHINI), I presupposti del fallimento, Giur. Sist. Bigiavi, 2016, 139 ss. 24 Infatti, la rilevanza normativa riservata all’impresa agricola è stata considerata come una forma di

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di conseguenza, economico di un’iniziativa appare molto più incerto rispetto ai corrispondenti risultati di iniziative di diversa natura, occorrerebbe approntare meccanismi di tutela più efficaci e penetranti, non invece eliminarne addirittura la presenza 25. Viceversa, all’ampliamento dell’impresa agricola sul piano della fattispecie non si è accompagnato un contestuale adeguato ampliamento della disciplina. Il fatto che nell’impresa agricola siano stati ricompresi fenomeni produttivi cc.dd. “industrializzati” avrebbe dovuto indurre a considerare ormai superata la sua originaria rilevanza normativa e applicabile il diritto dell’impresa nella sua interezza 26. Invece, gli interventi sul piano della disciplina sono stati parziali e senz’altro insufficienti, attenendo soltanto a profili di pubblicità di impresa e, in particolare, assoggettando le informazioni relative all’organizzazione dell’impresa per le quali è prescritto l’obbligo di pubblicità ad efficacia dichiarativa (v., infra, § 6.III).

III. La piccola impresa 1. La nozione di piccola impresa nel codice civile La nozione di piccola impresa si desume dall’art. 2083, il quale la descrive come un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia di quest’ultimo e la specifica poi nelle figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, dell’artigiano e del piccolo commerciante. La scelta di attribuire alla piccola impresa rilevanza normativa più ristretta può cogliersi agevolmente nelle caratteristiche che connotano il relativo processo produttivo e, in particolare, nella circostanza che tale processo debba essere organizzato prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia, ossia debba incentrarsi essenzialmente sul fattore produttivo rappresentato dal proprio lavoro e dal lavoro dei propri familiari: quindi, su un fattore produttivo di cui – non

privilegio accordato al titolare in ragione della contestuale esposizione ad un doppio rischio (c.d. teoria del doppio rischio): al rischio d’impresa, come qualsiasi iniziativa economica e al rischio ambientale, in ragione del fatto che l’iniziativa doveva svolgersi sul fondo (così, GALGANO, voce Imprenditore commerciale, D4, sez comm, VII, 27; NIGRO, Imprese, 622 s. e 767 s.); rischio quest’ultimo poi tramutato in rischio insito al ciclo biologico con la nuova nozione di impresa agricola: tra gli altri, GAMBINO; ma già GENOVESE, La nozione, 80 s.; CARROZZA, Lezioni, 19 ss. 25 E v., infatti, le chiare considerazioni di IANNARELLI(-VECCHIONE), L’impresa, cit., 120 ss. e di GLIOZZI, L’imprenditore, 178 ss. Nel senso del testo, anche, NIGRO-VATTERMOLI. Non a caso, sottolineano l’inutilità di mantenere un’autonoma nozione di impresa agricola ai fini normativi di cui si è detto nel testo, ALESSI(-PISCIOTTA), L’impresa, 80 ss.; finanche prospettando una riduzione teleologica della nozione di impresa agricola ai fini dell’individuazione del presupposto delle procedure concorsuali (nel senso di ricomprendere le imprese agricole caratterizzate da un ciclo produttivo tipicamente industriale e da una struttura finanziaria propriamente commerciale), DALMARTELLO(-SACCHI-SEMEGHINI), I presupposti, cit., 140 ss. Diversamente, invece, escludendo l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l.fall., nella parte in cui non annovera l’impresa agricola nell’ambito di applicazione del fallimento e del concordato preventivo, C.Cost., 20-4-2012, n. 104, Fall., 2012, 1174. 26 Al riguardo, v., ancora, MOZZARELLI, Impresa, cit., 97 ss.; RONDINONE, L’imprenditore, cit., 456 ss. e 485 ss.

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diversamente da quel che si verificava nell’impresa agricola con il fondo di proprietà – già si dispone, senza bisogno di doverlo acquisire da terzi. In quest’ottica, appare evidente che la piccola impresa – esattamente come l’impresa agricola prefigurata dal legislatore storico del ’42 – risulta come un fenomeno produttivo nel quale le esigenze di investimento attengono essenzialmente a fattori produttivi secondari, cioè ai fattori produttivi diversi dal lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia: perciò si dovrebbero manifestare esigenze finanziarie non significative e, quindi, non significativo dovrebbe essere l’eventuale ricorso al credito alla produzione. Di conseguenza, nella piccola impresa – esattamente come nell’impresa agricola prefigurata dal legislatore storico del ’42 – non è sembrato necessario l’assoggettamento al diritto dell’impresa nella sua interezza e, in particolare, alla parte corrispondente alle regole finalizzate a comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di impresa 27. Giova subito precisare che la piccola impresa è pur sempre un’impresa e, come qualunque impresa, deve risultare un’attività organizzata, ossia deve avere un minimo di eterorganizzazione, sebbene nell’organizzazione debba prevalere il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia. Il che significa che nel sottostante processo produttivo devono essere comunque impiegati anche altri fattori produttivi, rappresentati dal capitale o dal lavoro altrui, e non soltanto dal lavoro del titolare 28. In quest’ottica, è perciò evidente la differenza tra piccola impresa e lavoro autonomo e, in particolare, tra i due concetti di prevalenza richiamati in termini pressoché identici dalle due norme definitorie (artt. 2083 e 2222). La piccola impresa è un fenomeno produttivo nel quale il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia figura come fattore produttivo necessario ma non sufficiente. Invece, il lavoro autonomo è un fenomeno produttivo nel quale il lavoro del titolare (e solo del titolare) figura come fattore produttivo necessario e sufficiente, nel senso che è l’unico fattore produttivo impiegato nel relativo processo, pur con l’ausilio di altri elementi (pennello, pinza, tenaglia, cacciavite, telefono, ecc.) che però non sono dei veri e propri fattori produttivi (v. supra, § 1.II.3).

Si ritiene che la prevalenza vada accertata non tanto in senso quantitativo, cioè verificando che il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia valga di più in termini economici rispetto agli altri fattori (lavoro altrui e/o capitale) impiegati nel processo produttivo 29; quanto piuttosto in senso qualitativo, cioè verificando che il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia costituisca un 27

Al riguardo, le chiare considerazioni di AULETTA, L’impresa dal codice di commercio del 1882 al codice civile del 1942, in 1882-1982. Cento anni dal codice di commercio, Milano, 1984, 75 ss. Diverse nozioni di piccola impresa sono invece stabilite per altri effetti di legge: per un quadro d’insieme, v., da ultimo, STANGHELLINI, La piccola impresa, oppure «in memoria del piccolo imprenditore», AGE, 1/2014, 104 ss. 28 Il punto può considerarsi pressoché pacifico (in luogo di molti, BIGIAVI, La “piccola impresa”, 1 ss.; CASANOVA, Impresa, 142 ss.; DE MARTINI, Corso, 120 s.; GENOVESE, La nozione, 172 s.; CAPO, La piccola impresa, 9), sebbene non manchi chi si dimostri di avviso contrario, ritenendo superfluo il requisito dell’organizzazione nell’impresa (GALGANO; GLIOZZI, L’imprenditore, 162). 29 In questo senso, invece, la dottrina più risalente: BIGIAVI, La “piccola impresa”, 41 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 66 s.; ma ancora, GLIOZZI, L’imprenditore, 163 ss.; Trib. Torino, 15-6-1991, Fall, 1991, 203; Trib. Milano, 7-11-1996, Fall, 1997, 431.

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fattore essenziale e imprescindibile nel processo produttivo sottostante 30. Ciò vuol dire che tale lavoro non può essere sostituito in tutto e per tutto dall’apparato organizzativo e, quindi, rappresenta un fattore infungibile rispetto a questo e agli altri fattori produttivi impiegati. In altri termini, vuol dire che senza l’intervento di siffatto lavoro il processo produttivo non potrebbe o completarsi (se non proprio iniziare) o pervenire ad un certo specifico risultato produttivo (un certo bene o servizio) 31. Dovrebbe essere allora evidente la distinzione tra piccola impresa e impresa (non piccola o medio-grande). Si ha la prima tutte le volte che il titolare (e gli eventuali componenti della famiglia) è (sono) chiamato(i) a svolgere un ruolo esecutivo che caratterizza e connota il sottostante processo produttivo. Si ha la seconda tutte le volte che il titolare può non avere alcun ruolo esecutivo nell’iniziativa, in quanto pienamente surrogabile dall’apparato aziendale, e limitarsi a svolgere un ruolo, questo sì imprescindibile e indefettibile, di carattere organizzativo, approntando i diversi fattori produttivi secondo l’ordine funzionale e strutturale richiesto da un efficiente impiego nel processo produttivo. Alcuni esempi possono chiarire tale distinzione. Si prenda il caso del trasportatore. Il trasportatore è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la produzione del servizio di trasporto. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo, dovendosi affiancare quanto meno all’automezzo strumentale alla realizzazione del servizio. È però il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento il servizio non si produce. Invece, il trasportatore non è più titolare di una piccola impresa nel momento in cui decida di assumere stabilmente un’altra persona con mansioni di autista. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere senz’altro sostituito dal lavoro del dipendente. Si prenda ancora il caso del sarto. Il sarto è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la confezione di tutti gli abiti dei clienti. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo, dovendosi affiancare quanto meno ai macchinari minimi necessari nelle diverse fasi della lavorazione. È però il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento la confezione non si produce. Invece, il sarto non è più titolare di una piccola impresa nel momento in cui decida di assumere stabilmente uno o più dipendenti che siano in grado di svolgere l’intero processo produttivo di confezione dei vestiti. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere surrogato dall’organizzazione (lavoro altrui), ormai capace di sviluppare dall’inizio alla fine il processo produttivo.

Accedendo a quest’ultima accezione del concetto di prevalenza, resta dubbio se si tratti di un criterio impiegabile soltanto quando l’impresa fa capo ad una persona fisica o anche quando fa capo ad un soggetto di diversa natura, cioè un ente collettivo e, in particolare, una società 32. 30 In questo senso, tra gli altri, FRANCESCHELLI, Imprese, 181 ss.; GATTI, voce Piccola impresa, 762; GENOVESE, La nozione, 182 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 490; CAPO, La piccola impresa, 63 ss. e 72 ss.; CAMPOBASSO; PRESTI-RESCIGNO; Cass. 28-3-2000, n. 3690, Fall, 2001, 622. 31 In questi termini, FERRO-LUZZI, Alla ricerca, 43 ss.; ma già, BRACCO, L’impresa, 175 s.; FRANCESCHELLI, Imprese, 193. 32 Nel primo senso, FRANCESCHELLI, Imprese, 211 ss.; GENOVESE, La nozione, 185 ss. Nel secondo, invece, pur nella difformità delle conclusioni in ordine alla concreta configurabilità della piccola impresa societaria, BIGIAVI, La “piccola impresa”, 152 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 74 s.; FERRO-LUZZI, Alla

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Giova osservare che, sebbene il criterio appaia attagliato senz’altro alla persona fisica, non sembra potersi escludere per ciò stesso che possa trovare applicazione nelle imprese di altri soggetti e, in particolare, delle società. In questi ultimi contesti, il problema sarà semmai quello di applicare concretamente detto criterio e, anzitutto, di individuare qual è il lavoro che deve prevalere sugli altri fattori produttivi (lavoro altrui e capitale). Quanto meno nelle società a ristretta compagine sociale si potrebbe ritenere che il lavoro che debba prevalere è il lavoro dei soci, con la conseguenza che si potrà parlare di piccola impresa (societaria) se il lavoro dei soci (non importa se di tutti o di alcuni) prevale sul lavoro altrui e sul capitale 33. Più incerto è invece se nelle società ad ampia base sociale possa ancora farsi riferimento al lavoro dei soci, atteso che alla qualifica formale di piccola impresa che ne potrebbe derivare potrebbe non corrispondere una piccolezza oggettiva dell’attività esercitata, tale da giustificare la non applicazione del diritto dell’impresa per mancanza di significative esigenze di tutela degli interessi coinvolti 34.

2. La piccola impresa nella legge fallimentare Se il concetto di prevalenza deve intendersi nell’accezione che si è illustrata nel paragrafo precedente, è evidente che la valutazione se la prevalenza ricorra in concreto, cioè se il lavoro del titolare sia preminente rispetto agli altri fattori produttivi, non è sempre agevole e, quindi, non è sempre agevole tracciare una linea di confine tra le piccole imprese e le imprese (non piccole o medio-grandi). Per questa ragione, al criterio di prevalenza ora esaminato si affianca un criterio quantitativo, quindi di più immediata e oggettiva applicazione, ove occorra individuare i fenomeni produttivi passibili di applicazione di un istituto affatto particolare che compone lo statuto predisposto all’indirizzo dell’impresa, vale a dire le procedure concorsuali. Ciò in quanto, allorché si tratti di decidere sull’apertura di una procedura concorsuale, non solo occorre ridurre il più possibile le incertezze in merito alla sussistenza del presupposto, anche in conseguenza degli effetti che dall’apertura della procedura possono derivare, ma occorre essere pure abbastanza tempestivi, per

ricerca, 48 ss.; GATTI, voce Piccola impresa, 763; MASI, “Piccole società” e statuto dell’imprenditore, in Studi in onore di Cottino, I, Padova, 1997, 303 ss. e 310 ss.; COTTINO-BONFANTE, L’imprenditore, 504 s.; CAPO, La piccola impresa, 138 s. 33 In questo senso, sul presupposto di poter misurare la prevalenza in base al criterio stabilito dal combinato disposto artt. 2, co. 1 e 3, co. 2, l. 443/1995 (legge-quadro sull’artigianato) ai fini della qualificazione come artigiana di una società, GATTI, voce Piccola impresa, 763. E ciò probabilmente nel tentativo di generalizzare una risalente (e per molti versi non più attuale) posizione della C.Cost. secondo cui una società artigiana può essere piccola impresa (cfr., con riferimento ad un contesto normativo non più attuale, C.Cost. 23-7-1991, n. 368 e già in obiter dictum C.Cost. 6-2-1991, n. 54, entrambe GComm, 1993, II, 5). D’altra parte, nel senso che se si ritiene che una società sia una piccola impresa non può ulteriormente indugiarsi ad estendere questa conclusione a qualunque società, quale che sia, cioè, l’oggetto sociale (purché non agricolo), BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 505 s. Nello stesso senso, Cass. 28-9/210-2004, n. 20640, GComm, 2005, II, 237. 34 In questo senso, seppur con considerazioni riferite ad un contesto non societario, CETRA, L’impresa, 67 s., nt. 65.

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evitare che la gestione concorsuale cominci troppo tardi e non sia in grado di perseguire efficacemente l’intento compositorio degli interessi in gioco 35. In particolare, l’art. 1, co. 2, l.fall. esclude l’apertura delle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo nei confronti (dei titolari) delle imprese 36 che si attestino al di sotto di tre parametri: due di carattere patrimoniale (l’esposizione debitoria e l’attivo patrimoniale) e uno di carattere reddituale (i ricavi lordi) 37. Più in dettaglio i tre parametri sono i seguenti: 1. l’esposizione debitoria complessiva sussistente al momento di apertura della procedura concorsuale non superiore a 500 mila euro; 2. l’attivo patrimoniale nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 300 mila euro; 3. i ricavi lordi nei tre esercizi precedenti non superiori per ogni esercizio a 200 mila euro. Soprattutto la seconda e la terza soglia dimensionale sollevano non pochi problemi con riguardo alla loro esatta identificazione. Ad es., con riferimento all’attivo patrimoniale è dubbio se tale grandezza 38 debba essere calcolata a valori contabili (che talvolta non rispecchiano più il valore delle entità valutate) o a valori effettivi (che peraltro coincidono con i valori contabili se l’impresa redige il bilancio d’esercizio secondo i principi contabili internazionali); oppure se debba ricomprendere anche beni attualmente di terzi ma nella piena disponibilità dell’impresa e che verosimilmente nel prossimo futuro diventeranno beni dell’impresa (i beni condotti in leasing) 39. Con riferimento ai ricavi lordi è dubbio se tale grandezza debba computare soltanto i ricavi della gestione caratteristica (o al più della gestione finanziaria) o qualunque componente positivo di reddito (quindi anche straordinario) 40.

35 Sull’efficacia del criterio quantitativo, v., però, i rilievi di TERRANOVA, Che cosa resta del piccolo imprenditore?, RDComm, 2010, I, 733 s. e 758 ss. 36 La norma si riferisce senz’altro alle imprese a prescindere se individuali o collettive, con il che facendo perdere gran parte dell’importanza agli interrogativi che ruotano attorno al se una società possa essere qualificata come piccola impresa: per tutti, ALLECA, La piccola impresa societaria e la riforma del fallimento, RDComm, 2006, I, 461 ss.; CAVALLI, I presupposti del fallimento, Tr. Cottino, XI.2, 2010, 49. 37 Per un quadro d’insieme, NIGRO, I soggetti delle procedure concorsuali, Tr. Vassalli-Luiso-Gabrielli, I, 86 ss.; DALMARTELLO(-SACCHI-SEMEGHINI), I presupposti, cit., 158 ss. 38 Da identificarsi (quanto meno) negli elementi desumibili dall’elenco di cui all’art. 2424 c.c.: in questo senso, Cass. 29-7-2009, n. 17553 e Cass. 29-10-2010, n. 22146, entrambe GComm, 2011, II, 486 e 1406. 39 Per l’affermativa, TEDESCHI; POTITO(-SANDULLI)/Nigro-Sandulli-Santoro, art. 1, 27; Trib. Milano, 30-3-2007 (ined.); sottolineando che il superamento della soglia non può dipendere dal criterio di valutazione utilizzato, Trib. Terni, 4-7-2011, Fall., 2011, 1247. Per la negativa, quanto meno per le imprese che adottano i principi contabili nazionali, M. CAMPOBASSO, Il piccolo imprenditore… da una riforma all’altra, in Temi del nuovo diritto fallimentare, Torino, 2009, 11; CINCOTTI, L’accertamento della «dimensione dell’impresa» nel procedimento prefallimentare, GComm, 2011, II, 1414. 40 Nel primo senso, M. CAMPOBASSO, Il piccolo imprenditore, cit., 13 s.; Cass. 14-10-2014, n. 21676, GComm, 2015, I, 943. Nel secondo senso, FORTUNATO/Iorio-Fabiani 2007, art. 1, 67; COLOMBO, L’esenzione dalle procedure concorsuali per ragioni dimensionali, Fall, 2008, 630; e, sostanzialmente, ritenendo che sia possibile escludere soltanto i ricavi del tutto straordinari, quali le plusvalenze da realizzo e, eventualmente, da valutazione e le sopravvenienze attive, POTITO(-SANDULLI)/Nigro-Sandulli-Santoro, art. 1, 28.

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Ebbene, la norma fallimentare sembra stabilire una presunzione di piccolezza, nel senso che presume sia piccola impresa quella che si attesta al di sotto di tutti e tre i parametri ricordati. E se così è, ne consegue che la norma stabilisce implicitamente pure una presunzione di grandezza, nel senso che presume non sia piccola impresa quella che supera anche uno solo dei tre parametri ricordati. Resta invece da chiarire se le due presunzioni testé menzionate siano assolute o relative: incertezza, quest’ultima, riconducibile alla più generale incertezza che ruota attorno al rapporto che deve intercorrere tra i criteri di determinazione della dimensione dell’impresa contenuti nell’art. 1, co. 2, l.fall. e nell’art. 2083: si tratta di verificare se il rapporto si configura come alternativo oppure complementare. Al riguardo, l’opinione pressoché unanime riconosce alla presunzione di piccolezza il carattere di presunzione assoluta, ritenendo che se l’impresa si attesta al di sotto dei tre parametri dimensionali ricordati essa è senz’altro un’impresa non fallibile (quindi, senz’altro piccola) 41. Invece, non altrettanto pacifica è la conclusione che attiene alla presunzione di grandezza. L’opinione senz’altro prevalente è orientata a riconoscere anche ad essa il carattere di presunzione assoluta, muovendo dal presupposto che la norma fallimentare abbia approntato dei criteri di determinazione della dimensione dell’impresa del tutto autonomi e autosufficienti e, quindi, alternativi rispetto al criterio di prevalenza di cui all’art. 2083 42. Tuttavia, non mancano opinioni contrarie: vi è chi ritiene che la norma fallimentare stabilisca un criterio di determinazione della dimensione dell’impresa complementare al criterio individuato dall’art. 2083 e che il trait d’union tra le due norme (e i relativi criteri) sia rappresentato dall’art. 2221: il quale esclude espressamente i piccoli imprenditori (da individuarsi ai sensi dell’art. 2083) dalle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo 43. In quest’ottica, se anche una (o più) soglia(e) dimensionale(i) venisse(ro) superata(e), la conseguente presunzione di grandezza potrebbe venire rovesciata dimostrando attraverso il criterio della prevalenza che l’impresa in questione è comunque una piccola impresa 44. Rinviando alla parte dedicata alle procedure concorsuali ogni approfondimento sul punto, giova sin d’ora segnalare che quest’ultima opinione risulta tutt’altro che peregrina. Ciò solo che si consideri che il legislatore che attribuiva la delega per la riforma delle procedure concorsuali fissava tra gli altri principi quello di “semplificare la disciplina [del fallimento] attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto” (art. 1, co. 6, lett. a, n. 1, l. 80/2005): obiettivo, quest’ultimo, che sembra essersi un po’ perso per strada lungo il travagliato percorso che ha portato alla “nuova” legge fallimentare e, soprattutto, quando le soglie dimensionali dell’impresa son passate dall’essere alternative (cfr. art. 1, co. 2, l.fall. nella versione riscritta dall’art. 1, d.lgs. 5/2006) a complementari, dovendo i requisiti sussistere congiuntamente 45.

41 In questo senso, tra gli altri, MARASÀ, Il presupposto soggettivo del fallimento, RDComm, 2008, I, 1118 s.; IBBA, Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, Torino, 2009, 7 s.; CAVALLI, I presupposti, cit., 47 s.; STANGHELLINI, La piccola impresa, cit., 112 s.; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve; ID./Dir. fall. - Man. breve; CAMPOBASSO; NIGRO-VATTERMOLI; GUGLIELMUCCI. 42 V. gli Autori citati nella nota precedente e, sostanzialmente, TERRANOVA, Che cosa resta, cit., 743 s. 43 In questo senso, in particolare, FERRI jr., In tema di piccola impresa fra codice civile e legge fallimentare, RDComm, 2007, I, 749 ss.; con diversa argomentazione, ID., Sovraindebitamento, piccoli imprenditori e imprese piccole, RDComm, I, 2012, 435 ss.; (BONFATTI-)CENSONI; in senso dubitativo, SPADA. 44 V., ancora, FERRI jr., In tema, cit., 748 ss.; ID., Sovraindebitamento, cit., 442 s.; (BONFATTI-)CENSONI. 45 Infatti, la riformulazione dell’art. 1, co. 2, l.fall, sostituendo le due soglie alternative (rappresentate

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È perciò evidente che deporrebbe senz’altro nel senso del perseguimento del suddetto obiettivo consentire al titolare di un’iniziativa imprenditoriale di sottrarsi all’apertura delle procedure concorsuali, se, pur nel superamento di una (o più) soglia(e) dimensionale(i), potesse dimostrare la piccolezza della sua iniziativa attraverso il criterio di prevalenza di cui all’art. 2083 46.

3. Il problema dell’impresa artigiana La piccola impresa è specificata poi nelle tre figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, del piccolo commerciante e dell’artigiano, cioè in tre figure che nella tipologia della realtà del tempo del legislatore storico del ’42 potevano considerarsi espressione di fenomeni produttivi caratterizzati dalla prevalenza del lavoro del titolare sugli altri fattori produttivi 47. Se con riferimento alla prima e alla seconda figura non è necessario indugiare oltre, con riferimento alla terza, invece, qualche parola occorre spenderla ancora, atteso che la figura dell’impresa artigiana è, non solo menzionata, ma anche definita dall’ordinamento e, precisamente, dalla l. 443/1985 (c.d. legge-quadro per l’artigianato). In particolare, nella legge appena richiamata la nozione di impresa artigiana si può cogliere leggendo il combinato disposto degli artt. 3 e 2. Ai sensi di queste due norme, l’impresa artigiana è, anzitutto, un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, o prestazione di servizi, con l’eccezione delle produzioni agricole, dei servizi commerciali e di intermediazione e della somministrazione al pubblico di alimenti e bevande (art. 3, co. 1); è, poi, un’attività produttiva nella quale il titolare o, nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di una società commerciale (con l’eccezione delle sole società azionarie), la maggioranza dei soci – o, se la compagine sociale è composta da soli due soci, da uno solo di questi – svolge in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo (artt. 2, co. 1 e 3, co. 2). Dunque, la nozione di impresa artigiana contenuta nella legge-quadro ricorre proprio all’aggettivazione su cui si fonda l’art. 2083. Sicché, è naturale chiedersi in che senso tale la prima dalla media dell’ammontare degli investimenti aziendali nell’ultimo triennio, la seconda dalla media dell’ammontare dei ricavi lordi nell’ultimo triennio) con le tre soglie complementari (peraltro computate su valori puntuali relativi ad ogni singolo anno del triennio considerato) di cui nel testo, è stata fatta, tra l’altro, per contenere il crollo dei fallimenti che era conseguito con il primo criterio di determinazione della dimensione dell’impresa, tanto da indurre a dubitare che un siffatto ampliamento dell’area di non fallibilità corrispondesse alle reali intenzioni del legislatore delegante (sul punto, tra gli altri, M. CAMPOBASSO, Il piccolo imprenditore, cit., 7; IBBA, Il presupposto soggettivo, cit., 5 s.; NIGRO-VATTERMOLI). 46 In quest’ottica, il rapporto tra la norma codicistica e la norma fallimentare si ricomporrebbe negli stessi termini nei quali era stato identificato con riferimento al criterio di determinazione della grandezza dell’impresa contenuta nella versione originaria della norma fallimentare: FRANCESCHELLI, Imprese, 182 ss. Non esclude questa conclusione, SPADA. Nel senso invece che il criterio di prevalenza di cui alla norma codicistica manterrebbe rilevanza centrale e quindi le soglie dimensionali di cui all’art. 1, co. 2, l.fall. entrerebbero in gioco una volta accertato che in applicazione del primo criterio non si tratti di piccola impresa, Trib. Salerno, 7-4-2008, Fall, 2008, 939. 47 Infatti, è stato ampiamente dimostrato che il criterio di prevalenza rappresenta criterio generale e comune e che le tre figure menzionate dall’art. 2083 rappresentano casi particolari di piccole imprese: CAVAZZUTI, Le piccole imprese, 569 s.; ma già, BIGIAVI, La “piccola impresa”, 41 ss. E ciò può considerarsi pressoché pacifico: tra gli altri, DE MARTINI, Corso, 122 ss.; GENOVESE, La nozione, 174 ss.; CAPO, La piccola impresa, 48 ss.; GALGANO; CAMPOBASSO.

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lavoro debba risultare prevalente. Invero, se il concetto di prevalenza cui allude la leggequadro fosse non diverso dal concetto di prevalenza già esaminato a proposito dell’art. 2083, si potrebbe dedurre che l’impresa artigiana definita nella prima costituisca ancora oggi una specificazione della piccola impresa. Viceversa, se si assumesse che i due concetti di prevalenza sono diversi, bisognerebbe accertare qual è la relazione che intercorre tra impresa artigiana ai sensi della legge speciale e piccola impresa. In quest’ottica, sembra necessario andare oltre nell’esame della legge-quadro e, in particolare, soffermarsi sull’art. 4. Tale norma stabilisce i limiti dimensionali che può assumere l’impresa artigiana, ossia i limiti entro i quali il sottostante processo produttivo può servirsi di lavoro altrui: limiti che sono fissati a seconda della tipologia di iniziativa. In particolare, ai sensi dell’art. 4, l’impresa artigiana può servirsi delle prestazioni d’opera di personale dipendente, diretto personalmente dal titolare o dai soci, sempre che non superino, ad es., nelle imprese che non lavorano in serie, le 18 unità, o, nelle imprese operanti nei settori delle lavorazioni artistiche tradizionali e nell’abbigliamento su misura, le 32 unità. A questo punto si può senz’altro dubitare che il concetto di prevalenza sia utilizzato dalla legge-quadro nella medesima accezione dell’art. 2083 48. Si prendano alcuni degli esempi già fatti supra, III.1. Il trasportatore che decide di assumere stabilmente un’altra persona con mansioni di autista, magari al fine di affidargli la guida del mezzo tutte le volte che non può o non vuole farlo lui personalmente, è senz’altro un artigiano ai sensi della legge-quadro, anche se – si è visto – non è titolare di una piccola impresa. Il sarto che decide di assumere stabilmente uno o più dipendenti, che abbiano l’abilità professionale per curare interamente la confezione dei vestiti dei clienti (o quanto meno di qualcuno di questi), è senz’altro un artigiano per la medesima legge-quadro, anche se – si è visto – non è titolare di una piccola impresa. E una conferma di questa conclusione può cogliersi nell’ultimo inciso dell’art. 3, co. 2. Questa disposizione stabilisce che un’impresa, per potersi qualificare come artigiana, dev’essere sempre caratterizzata da un processo produttivo nel quale il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Tuttavia, tale disposizione non distingue il lavoro a seconda della fonte di provenienza, cioè se si tratti di lavoro del titolare, dei soci o dei terzi. In altre parole, essa richiede solo che il sottostante processo produttivo si connoti per essere labour intensive 49 (fermo restando che comunque il numero dei dipendenti deve rimanere contenuto nei limiti sopra enunciati). Ne consegue che la prescrizione secondo cui il lavoro del titolare dell’impresa artigiana o della maggioranza dei soci della società artigiana deve essere prevalente è da intendersi probabilmente in un senso del tutto sganciato da qualsivoglia riferimento al processo produttivo: nel senso che siffatto lavoro debba rappresentare l’occupazione principale del titolare o della maggioranza dei soci, cioè debba essere l’impiego che assorbe la parte più importante della loro vita lavorativa. Alla luce di quanto precede, se ne può dedurre che l’impresa artigiana nell’attuale tipologia della realtà è fenomeno più ampio rispetto al fenomeno che si configurava ai tempi in cui il codice civile è stato scritto: un’impresa artigiana può essere una piccola impresa ma può essere anche eccedente la piccola impresa 50.

48 Nello stesso senso, tra gli altri, ALLEGRI, Impresa artigiana e legislazione speciale, Milano, 1990, 56 s. spec. 137 ss.; GENOVESE, La nozione, 198 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 496 ss.; CAPO, La piccola impresa, 104; BIONE, voce Piccolo imprenditore, 4. Diversamente, invece, PAVONE LA ROSA, Artigiani, società artigiane e “statuto” dell’imprenditore commerciale, GComm, 1997, I, 648 s. 49 Sul punto, molto chiaramente, CAMPOBASSO. 50 In questo senso, MASI, La legge quadro sull’artigianato e diritto privato, DLav, 1987, I, 247; SPADA;

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D’altra parte, una simile conclusione può considerarsi ormai ampiamente acquisita anche dalla giurisprudenza, la quale costantemente afferma che l’artigiano diventa un normale imprenditore quando imprima alla sua attività i caratteri propri dell’ordinaria impresa industriale, a struttura capitalistica, costituendo una base di intermediazione speculatoria e facendo assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto: preposizione, quest’ultima, che vale a sottolineare il mutamento quantitativo e qualitativo che si verifica nell’organizzazione dell’impresa, la quale cessa di essere il supporto per la esplicazione dell’attività dell’artigiano, cioè per una produzione che rechi l’impronta della sua personale abilità, e realizza, invece, una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva e in cui l’opera del titolare non è più essenziale né principale con la conseguenza che non si è in presenza di un piccolo imprenditore 51. Del resto, la legge-quadro non ha definito l’impresa artigiana con l’obiettivo di rimodulare il perimetro dei fenomeni produttivi cui attribuire rilevanza normativa più ristretta rispetto alla disciplina dell’impresa. La legge-quadro ha definito l’impresa artigiana solo al fine di selezionare i fenomeni che possono beneficiare degli incentivi previsti a favore dell’artigianato e, in particolare, delle agevolazioni previdenziali e creditizie 52. In quest’ottica, la legge-quadro è un provvedimento che dà attuazione al principio costituzionale, secondo cui la Repubblica provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato (art. 45, co. 2, Cost.) 53.

4. La piccola-media impresa nella legislazione speciale Nella stessa prospettiva della legge-quadro per l’artigianato, vanno inquadrati, anche, i più recenti provvedimenti contenenti varie definizioni di piccole e medie imprese (PMI): non per rimodulare il perimetro dei fenomeni produttivi cui attribuire rilevanza normativa più ristretta rispetto alla disciplina dell’impresa, ma per individuare fenomeni destinatari di agevolazioni di diverso tipo. Tra questi provvedimenti possono essere ricordati: a) il d. Ministero delle attività produttive del 18-4-2005, che, in attuazione della racc. 361/2003, definisce le micro, piccole e medie imprese – distinguendole in funzione del numero di occupati, fatturato o, in alternativa, attivo patrimoniale –, al fine di individuare i fenomeni ammessi ad ottenere aiuti pubblici consentiti dalla legislazione europea in materia antitrust; b) l’art. 2435-ter, che definisce le micro imprese, al fine di individuare i fenomeni che possono redigere il bilancio d’esercizio ulteriormente semplificato rispetto al bilancio in forma abbreviata (art. 2435-bis); c) l’art. 4, co. 1, d.l. 3/2015, che definisce le piccole-medie imprese innovative, al fine

ID., Imprenditore e impresa artigiana fra codice e legislazione speciale, GComm, 1987, I, 711 ss.; BIONE, voce Piccolo imprenditore, 4. 51 È questa la posizione consolidata della Cass. già sotto l’ègida della precedente l. 860/1956: Cass. 14-3-1962, n. 519, GIt, 1962, I, 1, 809; Cass. 15-10-1981, n. 5403, GComm, 1982, II, 11; più di recente: Cass. 5-3-1987, n. 2310, Fall, 1987, 938; Cass. 20-9-1995, n. 9976, Fall, 1996, 244. 52 Sulle quali, in luogo di molti, ALLEGRI, Impresa artigiana, cit., 101 ss. Nello stesso senso, v., anche, PRESTI-RESCIGNO. Peraltro, non è più revocabile in dubbio che la legge-quadro definisca l’impresa artigiana anche ai fini di individuare la tipologia di imprese che beneficiano del privilegio generale sui beni mobili a favore dei crediti per corrispettivi di servizi prestati e dalla vendita di manufatti (art. 2751-bis, n. 5, come modificato dall’art. 36 d.l. 5/2012). 53 In questi termini, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 496.

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di individuare i fenomeni beneficiari delle agevolazioni previste per le imprese start-up innovative (art. 25 d.l. 179/2012); d) l’art. 1, co. 1, lett. w-quater, TUF, che definisce le piccole-medie imprese emittenti azioni quotate, al fine di individuare i fenomeni che possono derogare o semplificare alcuni obblighi dello statuto delle società quotate (v., ad es., art. 106, comma 1-ter, TUF).

IV. L’impresa commerciale La nozione generale di impresa depurata dell’impresa agricola e della piccola impresa dovrebbe residuare nella specie di impresa destinataria del diritto commerciale nella sua interezza e organicità. Questa categoria di impresa è l’impresa commerciale (non piccola, o medio grande). A differenza delle due categorie appena studiate, con riferimento all’impresa commerciale non si rinviene una norma che contenga la relativa nozione. Infatti, la norma dalla quale parrebbe potersi desumersi siffatta nozione, l’art. 2195, non è una norma definitoria, bensì una norma di disciplina, una norma, cioè, che contiene un primo precetto comportamentale (l’obbligo di pubblicità) all’indirizzo di chi pone in essere un comportamento che si sostanzia in una delle seguenti attività: 1. un’attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi; 2. un’attività intermediaria nella circolazione di beni; 3. un’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria; 4. un’attività bancaria o assicurativa; 5. un’attività ausiliaria alle precedenti. Sono allora queste le attività produttive che esemplificano l’impresa commerciale, dalle quali occorre enucleare una nozione più generale. Al riguardo, giova premettere che può ritenersi ormai ampiamente acquisito che siano le attività di cui ai punti sub 1 e 2 che racchiudono la nozione di impresa commerciale, atteso che le altre attività enunciate nei successivi punti sub 3, 4 e 5 costituiscono delle specificazioni delle prime 54. Ed invero, è di tutta evidenza che l’attività di trasporto sia un’attività di produzione di un servizio; così come l’attività assicurativa (infatti, l’assicuratore presta il servizio di accollarsi un rischio specifico cui è esposto l’assicurato: ciò acquisendo anzitutto del risparmio dall’assicurato in forma di premio e impegnandosi poi a restituirlo all’assicurato o a un terzo o a titolo di risarcimento di un danno prodotto da un sinistro o pagando un capitale o una rendita al verificarsi di un evento che attiene alla vita umana: cfr. art. 1882); e lo stesso dicasi per le attività ausiliarie, ossia per le attività di supporto a quelle precedentemente elencate (ad es., l’attività di pubblicità, di commissione, di concessione, di mediazione, ecc.). Invece, l’attività bancaria può essere considerata, non solo come un’attività di produzione di un servizio (tipicamente, il servizio di trasformare il risparmio raccolto in moneta bancaria o il servizio di concessione di credito), ma anche come un’attività di circola-

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In questi termini, tra gli altri, BUONOCORE, L’impresa, 478 e 480, CAMPOBASSO; PRESTI-REGALGANO.

SCIGNO;

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zione di un bene, seppure un bene affatto particolare qual è il denaro, raccogliendo quest’ultimo dal pubblico dei risparmiatori ed erogando lo stesso in forma di credito (cfr. art. 10, co. 1, TUB) 55.

Pertanto, l’impresa commerciale è un’attività di produzione di beni e di servizi che si qualifica come industriale e/o un’attività di circolazione di beni che si qualifica come intermediaria. Cioè, un’attività di produzione di beni e servizi e/o di circolazione di beni che si distingue dalle produzioni di beni e servizi e/o circolazioni di beni ricomprese nella nozione generale di impresa per il fatto di essere, la prima (produzione di beni e servizi) industriale, la seconda (circolazione di beni) intermediaria. Se ne deduce che i tratti identificativi dell’impresa commerciale sono racchiusi nei requisiti di industrialità e di intermediarietà, sui quali allora occorre soffermarsi. L’interpretazione di questi due requisiti è stata a lungo controversa e, in particolare, al riguardo, sono state avanzate due differenti opzioni interpretative. a) Secondo una prima interpretazione, i requisiti di industrialità e intermediarietà sarebbero da intendersi in un’accezione strettamente letterale o, se si vuole, storica: l’industrialità alluderebbe al processo produttivo inaugurato con la rivoluzione industriale a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo; l’intermediarietà alluderebbe alle attività classicamente commerciali di acquisto (all’ingrosso) per la rivendita (al dettaglio). Sicché, l’attività sarebbe industriale solo se si tratti di attività automatizzata o che si sostanzia nella trasformazione fisico-tecnica della materia; l’attività sarebbe intermediaria solo se si tratti di attività originata da un acquisito di qualcosa per la rivendita 56. Dunque, accedendo a questa interpretazione si perviene ad una nozione di impresa commerciale in positivo, non diversa da quelle già esaminate (artt. 2082, 2135, 2083). In particolare, essa si riferirebbe a tutti i fenomeni produttivi caratterizzati dal processo produttivo anzidetto (cioè, automatizzato o che dà luogo alla trasformazione fisico-tecnica della materia) o diretti alla circolazione dei beni attraverso un prioritario acquisto e una successiva rivendita (cioè, di intermediazione commerciale). Ne consegue che chi propone l’interpretazione appena illustrata circoscrive l’impresa commerciale ai fenomeni anzidetti, senza escludere che vi possano essere ulteriori fenomeni produttivi che, pur non avendo natura agricola, non avrebbero nemmeno natura commerciale. In quest’ottica, la nozione generale di impresa si articolerebbe, in base alla sua natura, non solo nell’impresa agricola, da un lato, e nell’impresa commerciale, dall’altro, ma a questa coppia di categorie se ne aggiungerebbe una terza che è invalso qualificare come impresa civile 57.

55 Sul punto, le pronunce rese in occasione della vicenda nota come “caso Giuffrè”: Trib. Bologna, 10-3-1961, RDComm, 1961, II, 221; App. Bologna, 12-6-1962, RDComm, 1963, II, 56; Cass. 8-4-1965, n. 611, FIt, 1965, I, 1034. 56 Per questo senso, pur nella diversità delle argomentazioni e delle sfumature di pensiero, OPPO, Scritti, I, 178 ss. e 194 ss.; DE MARTINI, Corso, 144 ss. e 147 ss.; RIVOLTA, La teoria, 227; e più ampiamente, sottolineando, in particolare, che l’industrialità alluda ad un processo produttivo fondato sulla trasformazione fisico-tecnica della materia, ID., Sull’impresa agricola, cit., 554 ss. 57 Pervengono a questa conclusione, OPPO, Scritti, I, 196 ss.; condiviso da RIVOLTA, La teoria, 229;

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Sulla base di queste premesse i seguenti fenomeni imprenditoriali sono stati considerati imprese civili: a) le imprese artigiane, sul presupposto che il sottostante processo produttivo non possa qualificarsi industriale, in quanto mai interamente automatizzato, neanche per le eventuali lavorazioni in serie (cfr. art. 4, co. 1, n. 2, l. 443/1985); b) le imprese primarie e le imprese di pubblici spettacoli, sempre sul presupposto che il sottostante processo produttivo non possa qualificarsi come industriale, in quanto non dà luogo ad una trasformazione fisico-tecnica della materia, ma si limita a sfruttare risorse che si trovano in natura (come le pietre estratte dalle cave; il gas estratto dai giacimenti; il calore solare sfruttato a fini energetici; il vento sfruttato a fini energetici; ecc.) o risorse che rientrano nelle abilità umane (la capacità di recitare); c) le imprese finanziarie, sul presupposto che facciano circolare il denaro non in modo intermediario, limitandosi a raccogliere risparmio da collocare in opportune soluzioni di investimento o a concedere credito utilizzando denaro appartenente al patrimonio personale del titolare; d) le agenzie matrimoniali, le agenzie di collocamento o il mediatore di prodotti agricoli, sul presupposto che si tratti di attività ausiliarie ad iniziative che non rientrano nell’elenco di cui all’art. 2195, co. 1, nn. 1-4, peraltro non necessariamente imprenditoriali (il matrimonio; il lavoro).

L’interpretazione appena riferita è stata oggetto di numerose critiche, mosse anche da parte di chi ne ha sottolineato l’inappuntabilità sul piano dell’argomentazione che la sorregge. E la principale ragione di simili critiche è senz’altro da ricondurre alle incertezze che caratterizzerebbero l’impresa civile con riferimento alla rilevanza normativa: il problema concerne l’individuazione della disciplina che ad essa sarebbe applicabile 58. Al riguardo, prevale, tra chi ne ammette la configurabilità, l’idea che l’impresa civile abbia una rilevanza normativa non diversa dalla rilevanza riconosciuta all’impresa agricola e alla piccola impresa, sull’assunto che quanto meno una parte degli istituti che compongono la disciplina dell’impresa si riferisca espressamente alla sola impresa commerciale. In quest’ottica, i fenomeni produttivi ricompresi nell’impresa civile sarebbero assoggettati al diritto commerciale in modo parziale e frammentario. E tuttavia mancherebbero valide ragioni – come quelle alla base della scelta di attribuire analoga rilevanza normativa all’impresa agricola e alla piccola impresa – atte a giustificare una simile rilevanza normativa 59. Ed invero, è agevole constatare che in molti, se non in tutti, gli esempi di impresa civile più sopra individuati si riscontrano fenomeni produttivi nei quali gli investimenti richiesti dal processo produttivo sono assecondati, quanto meno tipicamente, non solo attraverso il capitale proprio ma anche attraverso il capitale di credito. Cioè, sono fenomeni che sollecitano il credito alla produzione in misura non inferiore, anzi talvolta ben superiore (si pensi ad alcune attività primarie), rispetto ad un fenomeno produttivo senz’altro riconducibile all’impresa commerciale (si pensi ad un supermercato).

ID., Sull’impresa agricola, cit., 551 ss.; DE MARTINI, Corso, 165 ss.; e dottrina più risalente: tra gli altri, SALIS, L’imprenditore civile, DGiur, 1948, I, 1 ss. e 97 ss.; LA LUMIA, Corso di diritto commerciale, Milano, 1950, 122; CASANOVA, Impresa, 119 ss. 58 In questi termini, SPADA; ID., voce Impresa, 64 s. 59 Per quest’ordine di idee, ancora, SPADA; ID., voce Impresa, 64 s.

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Sicché, apparirebbe poco congruo assoggettare i fenomeni che si vorrebbero far rientrare nell’impresa civile ad un trattamento normativo deteriore rispetto a quello riservato alle imprese commerciali, atteso che gli interessi in gioco nei primi e nelle seconde non giustificano una simile diversità. E ciò soprattutto laddove un tale risultato non sia inequivocabilmente stabilito dal dato normativo ma sia frutto di una scelta interpretativa sui requisiti di industrialità e di intermediarietà di cui all’art. 2195, co. 1, nn. 1 e 2 60. b) Pertanto, proprio nella prospettiva di evitare il suddetto risultato, l’opinione prevalente è ormai orientata nel senso di interpretare in altro modo i due requisiti appena menzionati, in particolare attribuendo al primo (all’industrialità) il significato di non agricolo e al secondo (all’intermediarietà) il significato di scambio 61. In quest’ottica, si perviene ad una nozione di impresa commerciale residuale, diversa, perciò, rispetto alle altre già esaminate (artt. 2082, 2135 e 2083), atteso che si configura nozione in grado di assorbire tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione della loro natura, non possono qualificarsi come agricoli (benché si debba poi riconoscere rilevanza normativa positiva piena – cioè di assoggettamento al diritto d’impresa nella sua interezza – solo a quelli che non siano piccole imprese). Ed invero, se si accede a questa seconda interpretazione è agevole notare che non possono esservi fenomeni imprenditoriali che, riguardati sotto il profilo della loro natura, non siano riconducibili o all’impresa agricola o all’impresa commerciale. In altri termini, in base alla natura, un fenomeno imprenditoriale è o un’impresa agricola o un’impresa commerciale, non residuando invece alcuno spazio per l’ulteriore categoria dell’impresa civile 62. Infatti, nell’accezione interpretativa dei due requisiti di industrialità e intermediarietà che si è appena illustrata, è agevole constatare che gli esempi più sopra ricordati esprimerebbero fenomeni produttivi che sono senz’altro qualificabili come imprese commerciali, sostanziandosi nella produzione di un bene o servizio attraverso un processo produttivo che non ruota attorno alla cura di un ciclo biologico animale o vegetale (imprese artigiane, imprese primarie, imprese di pubblici spettacoli, agenzie matrimoniali, agenzie di collocamento, mediatore di prodotti agricoli) ovvero nello scambio di un bene (imprese finanziarie).

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In questi termini, sottolineando che alcune delle pretese imprese civili erano sicuramente commerciali sotto l’abrogato codice di commercio e che nulla induce a pensare che con il passaggio al codice civile si sia voluta restringere l’area della commercialità, NIGRO, Imprese, 606 ss. 61 Pervengono a questa conclusione, tra gli altri, ASCARELLI, Corso, 262 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 45 s.; FRANCESCHELLI, Imprese, 81 ss. e 200; GENOVESE, La nozione, 68 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 513 ss.; GALGANO; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve; CAMPOBASSO. In giurisprudenza, già, Trib. Bologna, 10-3-1961, cit.; più di recente, Trib. Milano, 21-4-1997, GComm, 1998, II, 625. 62 In questi termini, sottolineando che l’impresa delineata dall’art. 2082 possa distinguersi, in base alla natura, in agricola o commerciale e tertium non datur, ASQUINI, Profili dell’impresa, Scritti giuridici, III, Padova, 1961, 134; evocando i lavori preparatori del V libro del codice civile, GENOVESE, L’artigiano e le attività commerciali, RDComm, 1968, I, 183 ss.

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V. Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla disciplina applicabile Acquisito che la categoria d’impresa destinataria del diritto commerciale nella sua interezza è rappresentata dall’impresa commerciale (non piccola), resta adesso da vedere se tale categoria di impresa debba essere articolata in ulteriori sottocategorie, nel senso che la disciplina che ad essa si riferisce possa risentire di altri elementi e, in particolare, della forma giuridica rivestita dall’impresa. In questa prospettiva, l’impresa commerciale può essere classificata nelle categorie dell’impresa pubblica e dell’impresa privata.

1. L’impresa pubblica Cominciando dalla prima, conviene muovere dalla premessa che l’espressione impresa pubblica fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura commerciale esercitato da o riconducibile ad un soggetto di diritto pubblico (= ente pubblico) 63. In particolare, un’attività commerciale può costituire oggetto esclusivo o principale di un ente pubblico, che allora si è soliti qualificare come ente pubblico economico; ma può essere anche un’iniziativa secondaria di un ente pubblico, che allora si è soliti qualificare come ente pubblico non economico. Infine, è possibile che un ente pubblico detenga il controllo di una società (società a controllo pubblico, che si possono definire anche come società in mano pubblica). a) L’ente pubblico economico è un ente che si prefigge di perseguire il suo fine istituzionale (principalmente) attraverso un’attività commerciale (fine istituzionale che potrebbe coincidere con lo stesso esercizio dell’iniziativa). Si tratta di una conformazione dell’impresa pubblica che in passato assumeva grande importanza, riscontrandosi nei principali settori dell’economia italiana (bancario, assicurativo, trasporti, energetici, telecomunicazioni, ecc.), ma che ormai assume una dimensione senz’altro più circoscritta, residuando perlopiù nei mercati in regime di monopolio legale (tabacchi, giochi e scommesse) e in qualche mercato a rilevanza locale 64. La ragione di questo mutamento sta nel fatto che gran parte degli enti pubblici economici, specie quelli a rilevanza nazionale, sono stati interessati da un processo di privatizzazione, che ne ha comportato la “trasformazione” in società (di capitali). Pertanto, all’esito di tale processo, la forma giuridica dell’impresa, ossia il suo soggetto giuridico, non è più un soggetto di diritto pubblico, essendo diventato un soggetto 63 In luogo di molti, GIANNINI, Le imprese pubbliche in Italia, RSoc, 1958, 234 ss.; OTTAVIANO, voce Impresa pubblica, EncD, XX, 670 ss.; ROVERSI-MONACO, L’attività economica pubblica, 386 ss.; CIRENEI, Le imprese, 111 ss. e 122 ss. 64 Per un quadro di sintesi, v. i saggi raccolti in MARCHETTI, Le privatizzazioni in Italia. Saggi, leggi e documenti, Milano, 1995, 1 ss. e in MARASÀ, Profili giuridici delle privatizzazioni, Torino, 1998, 1 ss. Più di recente, FRENI, Le trasformazioni degli enti pubblici, Torino, 2004, 15 ss.; IBBA, Il tramonto delle partecipazioni pubbliche?, in Studi in ricordo di Jaeger, Milano, 2011, 353 ss.; MARTUCCI, Profili, 20 ss.

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privato, rappresentato, appunto, dalla società risultante dalla “trasformazione”. Solo il soggetto economico rimane di diritto pubblico, atteso che le società risultanti dalla “trasformazione” figurano come società in mano pubblica, in quanto le relative partecipazioni sociali sono attribuite ad un ente pubblico (rappresentato dallo stato o da altro ente pubblico territoriale). Ragion per cui si suole qualificare il descritto processo con l’espressione di privatizzazione in senso formale 65. Sebbene diverse società risultanti dalla “trasformazione” degli enti pubblici economici siano ancora in mano pubblica (nel senso che il relativo processo di privatizzazione si è arrestato al livello formale, atteso che, se non l’intera, quanto meno la partecipazione di controllo appartiene ad un ente pubblico: stato o altro ente pubblico territoriale), per molte di queste società vi è stata anche una successiva fase di privatizzazione sostanziale, atteso che, se non l’intera, quanto meno la partecipazione di controllo è stata trasferita ai privati. Un tale ulteriore sviluppo del processo di privatizzazione è stato agevolato dal d.l. 332/1994 c. in l. 474/1994 (recante norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello stato e di altri enti pubblici in società per azioni) 66. Questo provvedimento normativo prevede anzitutto le modalità attraverso le quali il pacchetto azionario di controllo possa esser ceduto sul mercato. In linea di principio, queste modalità devono essere ispirate al principio di trasparenza e di non discriminazione, finalizzate anche alla diffusione dell’azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali (art. 1, co. 2). In questa prospettiva, le modalità devono essere in grado di creare vere e proprie public companies e, in particolare, si sostanziano nell’effettuare la vendita in una o più tranches del pacchetto azionario di controllo attraverso la tecnica dell’offerta pubblica di vendita (= o.p.v.): si tratta di offrire ad un pubblico indistinto di soggetti (genericamente, al mercato) le azioni oggetto di vendita, a condizioni prefissate, non suscettibili di modificazione per tutto il corso dell’offerta e non discriminatorie, dando tutte le informazioni necessarie per consentire all’oblato di decidere se effettuare o meno l’investimento proposto (cfr. art. 1, co. 1, lett. t, TUF e infra, nel secondo volume) 67. D’altra parte, per cercare di mantenere un adeguato livello di diffusione dell’azionariato anche in seguito alla vendita del pacchetto di controllo, è possibile introdurre negli statuti delle società privatizzande operanti in alcuni settori strategici particolarmente importanti nel palinsesto economico complessivo (difesa e sicurezza nazionale; energia; trasporti; comunicazioni; altri servizi pubblici; banche; assicurazioni) clausole che stabiliscano limiti massimi al possesso azionario per ogni socio (salvo che tali limiti non vengano superati in conseguenza di un’offerta pubblica di acquisito: = o.p.a.: cfr. art. 1, co. 1, lett. v, TUF e infra, nel secondo volume) (art. 3, co. 1), senza che tali clausole possano essere modificate per un periodo di tre anni dalla loro introduzione (art. 3, co. 3) 68. Una simile modalità di vendita del pacchetto di controllo è stata utilizzata, ad es., nelle privatizzazioni di Telecom, Eni, Enel, Banca Nazionale del Lavoro, ecc. 65

IBBA, La tipologia delle privatizzazioni, GComm, 2001, I, 464 ss.; PAVONE LA ROSA, La costituzione delle società per azioni nelle procedure di privatizzazione, GComm, 2003, I, 5 ss. 66 Ex multis, BONELLI, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche, Milano, 1996, 7 ss.; ID., Il codice delle privatizzazioni nazionali e locali, Milano, 2001, 53 ss. 67 Sul punto, BONELLI, Le privatizzazioni, cit., 14 ss. 68 Sulle clausole di cui nel testo, JAEGER, Privatizzazioni; “Public Companies”; problemi societari, GComm, 1995, I, 10; LIBONATI, La faticosa “accelerazione” delle privatizzazioni, GComm, 1995, I, 35 s.; CALVOSA, La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, Milano, 1999, 75 ss.

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In alternativa all’o.p.v. è possibile effettuare la vendita del pacchetto di controllo attraverso una trattativa privata (art. 1, co. 3), con l’obiettivo di cercare uno o più acquirenti che presentino determinate caratteristiche e attitudini imprenditoriali, in grado di dare sicurezza in merito alla continuità ed alla correttezza della gestione, anche con l’impegno di non cedere la partecipazione acquistata per un determinato periodo di tempo (creando così un nucleo stabile di azionisti) 69. Una tale modalità di vendita del pacchetto di controllo è stata utilizzata nella privatizzazione di Alitalia. Tuttavia, alcune società operanti nel settore della difesa e della sicurezza nazionale così come alcune società che detengono attivi strategici (reti, impianti, beni e rapporti di rilevanza strategica) nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni anche se privatizzate non recidono completamente i rapporti con lo stato. Infatti, nei confronti di tali società, quale che sia la composizione della loro compagine sociale, lo stato può esercitare i poteri speciali attribuiti dagli artt. 2 e 3, d.l. 21/2012 c. in l. 56/2012 70: in particolare, nei confronti delle società operanti nel settore della difesa e della sicurezza nazionale (individuati con d.p.c.m. 108/2014) i poteri di cui all’art. 1, co. 1 (veto sull’assunzione di alcune decisioni amministrative e assembleari; veto sull’ingresso di alcuni soggetti in società; imposizione di specifiche condizioni agli acquirenti di partecipazioni rilevanti) da esercitarsi con il procedimento di cui all’art. 1, co. 4 e 5; nei confronti delle società detentrici di attivi strategici nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni (individuati con d.p.r. 85/2014) i poteri di cui all’art. 2, co. 3 e 6 (veto sull’assunzione di alcune decisioni amministrative e assembleari; imposizioni di specifiche condizioni agli acquirenti non europei di partecipazioni rilevanti) da esercitarsi con il procedimento di cui all’art. 2, co. 2, 4 e 5. Detti poteri – che non sono previsti esclusivamente dall’ordinamento italiano ma che si trovano in pressoché tutti gli ordinamenti nei quali sono intervenuti analoghi provvedimenti di agevolazione delle privatizzazioni – dovrebbero consentire di salvaguardare la correttezza gestoria anche in seguito alla privatizzazione, in particolare evitando che i nuovi titolari (di diritto o di fatto) del potere gestorio antepongano i propri personali interessi agli interessi di natura pubblica o generale che dovrebbero continuare a connotare l’interesse di queste società.

b) Le società a controllo pubblico (oggi regolate dal d.lgs. 175/2016) sono comuni società di capitali, caratterizzate dal fatto che la partecipazione di controllo è detenuta da un ente pubblico (si pensi ad una casa da gioco comunale). Tra queste vi so69

Sul punto, BONELLI, Le privatizzazioni, cit., 49 ss. Tali poteri sostituiscono i poteri speciali che dovevano essere introdotti con apposita clausola statutaria prima della privatizzazione delle società operanti in analoghi settori strategici ai sensi dell’art. 2, co. 1, d.l. 332/1994 (c.d. golden share) (sui quali, COSTI, Privatizzazioni e diritto delle società per azioni, GComm, 1995, I, 80 ss.; VANONI, Le società miste quotate in mercati regolamentati (dalla “golden share” ai fondi sovrani), in Le società “pubbliche”, a cura di Ibba-Malaguti-Mazzoni, Torino, 2011, 197 ss. e 203 s.; sulle differenze tra la nuova e la vecchia versione dei poteri speciali, ARDIZZONE-VITALE, I poteri speciali dello Stato nei settori di pubblica utilità, GComm, 2013, I, 920 ss.), i quali avevano sollevato non pochi problemi di compatibilità con il diritto comunitario e, in particolare, con il principio di libera circolazione dei capitali nell’Unione europea ex art. 63 TFUE (al riguardo, ex multis, BALLARINO-BELLODI, La Golden Share nel diritto comunitario. A proposito delle recenti sentenze della Corte comunitaria, RSoc, 2004, 2 ss.; MUCCIARELLI, La sentenza Volkswagen e il pericolo di una “convergenza” forzata tra gli ordinamenti societari, GComm, 2009, II, 273 ss.). Nel senso della piena compatibilità tra l’attuale disciplina italiana e il principio di libera circolazione dei capitali, LAMANDINI, Golden share e libera circolazione dei capitali in Europa e in Italia, GComm, 2015, I, 687 ss.; v., anche, ARDIZZONE-VITALI, I poteri speciali dello Stato, cit., 931 ss. 70

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no società a partecipazione interamente pubblica, nelle quali tra l’ente-socio e la società intercorre una relazione talmente intensa da poter essere qualificata interorganica più che intersoggettiva (nel senso che la gestione è per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dall’ente pubblico sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile): si parla in tal caso di società in house 71. c) L’ente pubblico non economico è invece un ente che realizza i molteplici fini istituzionali attraverso un’azione dalla conformazione assai variegata, che si articola in numerose iniziative (anche produttive), le quali tipicamente non presentano i caratteri dell’impresa (soprattutto per difetto del requisito di economicità), ma che talvolta possono essere vere e proprie imprese (svolgendosi in regime di economicità). L’esempio più importante è rappresentato senz’altro dagli enti pubblici locali (comuni e regioni), nei quali non è raro riscontrare, a fianco alle tipiche attività amministrative, anche una o più attività commerciali. In una di queste tre forme, dunque, un ente pubblico può, direttamente o per il tramite di una società, esercitare un’attività economica. L’oggetto di questa può essere il più vario e può consistere anche nella fornitura di un servizio pubblico. I servizi pubblici che possono assumere le fattezze dell’attività commerciale si distinguono in servizi c.d. a rilevanza economica (che è possibile fornire con l’obiettivo di realizzare un margine di profitto e per i quali è perciò possibile immaginare un mercato concorrenziale di riferimento: tipicamente, i servizi pubblici nei settori energetici come il gas, la luce, l’acqua) e i servizi c.d. privi di rilevanza economica (fornibili solo con l’obiettivo di copertura dei costi e per i quali non è perciò immaginabile un mercato concorrenziale di riferimento: tipicamente, i servizi sociali, i quali potrebbero essere anche prestati a condizioni di erogazione, cioè sottocosto o a prezzi politici, ma allora non integrerebbero un’attività d’impresa). In secondo luogo, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale anche iniziative non qualificabili come servizi pubblici (si pensi alle numerose finanziarie regionali o alle case da gioco comunali). Ora, la gestione dei servizi a rilevanza economica non può essere effettuata direttamente dall’ente pubblico ma dev’essere affidata necessariamente ad una società in house. Invece, la gestione dei servizi privi di rilevanza economica è lasciata alla discrezionalità dell’ente pubblico e può essere da quest’ultimo affidata o ad una società in house o ad un’autonomia funzionale con soggettività giuridica (l’azienda speciale, che si sostanzia in un vero e proprio ente pubblico economico) o priva di soggettività giuridica (in sostanza, l’attività è esercitata direttamente dall’ente pubblico non economico, o nelle forme dell’istituzione, ovvero in economia 72). Infine, la gestione del-

71 Sul c.d. “controllo analogo” e sulle società in house, COSSU, Le S.r.l. in house providing per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica nel diritto comunitario e nazionale, in Le società “pubbliche”, cit., 244 ss. e 266 ss.; nonché le rassegne di OCCHILUPO, Le società in house, GComm, 2008, II, 525 ss., spec. 535 ss., e di CODAZZI, Società in house providing, GComm, 2016, II, 953 ss., spec. 957 ss. 72 L’istituzione si caratterizza per avere una specifica dotazione patrimoniale stabilmente destinata a servizio dell’iniziativa che ad essa fa capo, dotazione che invece manca nel caso in cui l’iniziativa venga esercitata in economia.

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le altre iniziative imprenditoriali rimane sempre nella discrezionalità dell’ente pubblico, che può orientarsi a favore o della società in mano pubblica o dell’autonomia funzionale con o priva di soggettività giuridica 73. Pertanto, alla luce di quanto precede, l’impresa pubblica può presentarsi nella forma della società pubblica (impresa-società), dell’ente pubblico economico (impresa-ente) o all’interno del contesto organizzativo di un ente pubblico non economico (impresa-organo) 74. Ciò acquisito, passiamo allora a vedere quali siano le implicazioni sul piano della disciplina applicabile. i) Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto privato, cioè la società, l’applicazione della disciplina dell’impresa dovrebbe avvenire in maniera non diversa da una qualsiasi altra società (v., infra, nel terzo volume) 75. Infatti, non sembra che l’eventuale rilevanza generale degli interessi serviti dall’iniziativa ovvero la natura pubblica del soggetto economico siano motivi sufficienti per giustificare un’applicazione differente e, in particolare, deteriore, cioè priva di uno o più istituti in cui si articola quella disciplina 76. ii) Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto pubblico, cioè l’ente pubblico, occorre muovere dall’art. 2093, il quale dispone, nei riguardi degli enti inquadrati nelle associazioni professionali – gli attuali enti pubblici economici – l’applicazione delle disposizioni contenute nel libro V e, nei riguardi degli enti non inquadrati – gli attuali enti pubblici non economici – l’applicazione delle disposizioni del libro V limitatamente alle imprese da essi esercitate. Pertanto, ai sensi della norma appena menzionata, non sembra che la forma pubblica dell’impresa possa incidere significativamente sulla disciplina operante. Sennonché, questa conclusione dev’essere valutata alla luce degli artt. 2201 e 2221, i quali, riferendosi specificamente agli enti pubblici che esercitano un’impresa, stabiliscono, il primo, che gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale sono soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese; il secondo, che gli enti pubblici sono esclusi dalle procedure del fallimento e del concordato preventivo. Se ne deduce che solo gli enti pubblici economici e, quindi, non gli enti pubblici non economici, devono adempiere all’obbligo di pubblicità; mentre qualunque ente pubblico, economico e non, è sottratto al fallimento ed al concordato preventivo 77. La ratio delle disposizioni appena ricordate può cogliersi senz’altro nell’esigenza di 73

Sulle forme di gestione dei servizi privi di rilevanza economica, PIPERATA, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano, 2005, 292 ss. e 297 ss.; CETRA, La trasformazione dell’ente pubblico, in Le società “pubbliche”, cit., 173 ss. 74 La tripartizione è di GIANNINI, Le imprese pubbliche, cit., 234 ss., 249 ss. e 264 ss. 75 Tuttavia, sulle non poche regole di diritto singolare che trovano applicazione in tali società, v., da ultimo, MARTUCCI, Profili, 91 ss., 131 ss. 76 Come invece ha talvolta ritenuto la giurisprudenza, soprattutto nel momento di decidere l’apertura di una procedura concorsuale: per un quadro di sintesi, FIORANI, Società “pubbliche” e fallimento, GComm, 2012, I, 532 ss.; MONTONATO, Ammissibilità alla procedura di amministrazione straordinaria di una società totalmente partecipata esercente un servizio pubblico essenziale, RDS, 2014, 245 ss. La questione può peraltro ritenersi superata alla luce di quanto disposto dall’art. 14, co. 1, d.lgs. 175/2016, il quale dispone espressamente l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica in stato di insolvenza alle procedure concorsuali. 77 Nel senso del testo, in luogo di molti, FRANCESCHELLI, Imprese, 119 s.; CIRENEI, Le imprese, 160 ss.; GENOVESE, La nozione, 221 ss.

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[§ 2]

adeguare le modalità di applicazione del diritto dell’impresa alla forma giuridica pubblica rivestita dalla stessa. In particolare, la prima norma (art. 2201) esenta l’impresa-organo dalla pubblicità d’impresa, muovendo dal duplice presupposto, da un lato, che tale iniziativa sia assoggettata ad altra forma di pubblicità, ritenuta – a torto o a ragione – dal legislatore storico del ’42 del tutto equivalente rispetto alla pubblicità che si realizza tramite l’iscrizione nel registro delle imprese; dall’altro, che sia eccessivo assoggettare l’ente pubblico non economico al sistema di controlli che tipicamente precedono l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 2189, co. 2: v. infra, § 6) 78. La seconda norma (art. 2221) esenta tutti gli enti pubblici dal fallimento e dal concordato preventivo, non già perché un soggetto di diritto pubblico non possa essere insolvente, bensì perché per gli enti pubblici esistono rimedi specificamente approntati per risolvere e superare l’eventuale insolvenza: per gli enti pubblici economici la liquidazione coatta amministrativa; per gli enti pubblici non economici appositi sistemi di diritto pubblico interno e internazionale 79. Ne consegue che le due norme in questione contengono disposizioni la cui ratio non eccede il particolare contesto al quale si riferiscono. Pertanto, esse sono da intendersi come eccezionali, dunque suscettibili di applicazione nei limiti tracciati dal loro tenore letterale 80. Dal che discende l’importante corollario che nei confronti dell’impresa pubblica tro-

va applicazione tutta la parte della disciplina dell’impresa per la quale non è stabilito diversamente (v. infra, §§ 6 ss.) 81.

2. L’impresa privata Passando all’impresa privata, conviene anzitutto precisare che con questa espressione si fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale, che assume la forma giuridica di diritto privato: vale a dire, la persona fisica (impresa individuale), la società (impresa societaria) o un altro ente privato non societario (impresa collettiva non societaria). a) Se l’impresa assume la forma individuale, sembra che non si verifichino particolari ripercussioni con riguardo alla disciplina applicabile, ulteriori, cioè, rispetto a quelle già viste studiando le categorie di impresa enucleate in ragione della natura e della dimensione.

78 In questo senso, già, PAVONE LA ROSA, Il registro delle imprese. Contributo alla teoria della pubblicità, Milano, 1954, 224, nt. 2; OTTAVIANO, voce Impresa pubblica, cit., 675; più di recente, CIRENEI, Le imprese, 167. Nel senso, invece, che la pubblicità debba trovare comunque applicazione nei confronti dell’impresa-organo, COSTI, Fondazione e impresa, RDCiv, 1968, I, 34 ss.; più di recente, NIGRO, Imprese, 666 s. 79 In questo senso, tra gli altri, GHIDINI, Lineamenti, 71; AULETTA, L’impresa, cit., 86 s. 80 MINERVINI, L’imprenditore, 210 ss.; GENOVESE, La nozione, 214 ss.; NIGRO, Imprese, 642 ss.; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve; CAMPOBASSO. 81 Diversamente, invece, ritenendo che dall’esenzione dalla pubblicità commerciale per gli enti pubblici non economici possa desumersi una più generale esenzione dalla disciplina specifica per le imprese commerciali, BIGIAVI, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, 40; adde, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 520; GALGANO. Perviene ad analoga conclusione, sul presupposto che l’impresa degli enti pubblici non economici rappresenti un caso di impresa senza imprenditore, FERRI.

[§ 2]

CETRA – Le categorie di impresa

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b) Se l’impresa assume la forma societaria, sembra potersi replicare la medesima conclusione. Con la precisazione tuttavia che se si tratta di società cc.dd. di forma commerciale (società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società a responsabilità limitata e società azionarie) e cooperative la disciplina della forma giuridica – vale a dire di una forma approntata sul presupposto di essere utilizzata quale veste giuridica delle attività commerciali – implementa sempre alcune regole mutuate dalla disciplina dell’impresa commerciale: in particolare, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili (artt. 2302, 2315, 2478, co. 1, 2421 e 2454, questi ultimi da intendersi richiamati per le cooperative dall’art. 2519) e l’obbligo di pubblicità (artt. 2296, co. 1, 2315, 2463, co. 3, 2330, co. 1, 2454 e 2523, co. 1). Con la conseguenza che se una società di forma commerciale o cooperativa viene impiegata, come è possibile, per un’attività agricola (o, ove se ne ammetta la configurabilità, per una piccola impresa: v. supra, III.1) troveranno comunque applicazione le suddette regole della disciplina dell’impresa commerciale (non invece – ça va sans dire – la parte restante di quella disciplina), in quanto regole della forma giuridica 82. Va peraltro segnalata la presenza di società (tipicamente, di capitali o cooperative) destinatarie, soprattutto in ragione delle peculiarità dell’iniziativa svolta, di uno «statuto speciale», che può talvolta derogare (non solo al diritto societario ma anche) alla disciplina dell’impresa: è il caso, ad es., delle società che danno forma giuridica ad imprese start-up innovative (come definite dall’art. 25, co. 2, d.l. 179/2012) o ad incubatori di start-up innovative (come definititi dall’art. 25, co. 5, d.l. 179/2012), le quali, seppur limitatamente al periodo di un quinquennio dalla loro costituzione, sono esonerate dal fallimento e dal concordato preventivo (art. 31, co. 1 e 4, d.l. 179/2012).

c) Se l’impresa assume la forma di un ente privato non societario (gruppo europeo di interesse economico, consorzio tra imprenditori con attività esterna, rete d’impresa, associazione o fondazione del libro I), la conclusione è meno immediata. Ciò in quanto nella sistematica del codice civile manca qualsiasi riferimento in merito all’applicazione della disciplina dell’impresa nei confronti degli enti non societari, che invece si limita a considerare le sole varianti dell’impresa pubblica, impresa individuale e impresa societaria. Peraltro, la circostanza che il legislatore abbia serbato il più assoluto silenzio in proposito ha indotto per lungo tempo a dubitare della stessa ammissibilità dell’impresa collettiva non societaria 83. Tuttavia, può ritenersi ormai pressoché acquisito che un ente non societario possa esercitare un’impresa e che l’impresa possa essere il suo oggetto esclusivo, principale o secondario. In altri termini, può ritenersi acquisito che un ente non societario – non diversamente da una società – possa esercitare un’impresa per il perseguimento del suo fine istituzionale 84. È in effetti fenomeno sempre più frequente che in particolare un’associazione o

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Il riferimento è a OPPO, Scritti, I, 128 ss. e 146 ss. Per un quadro di sintesi, TIDU, Associazione e impresa, RDCiv, 1986, II, 501 ss. e 507 ss. 84 Sul punto, PIRAS, Nuove forme, 76 ss.; per altri riferimenti, CETRA, L’impresa, 42 ss. 83

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[§ 2]

una fondazione si trovi ad esercitare un’impresa, che può costituire il suo oggetto esclusivo, principale o secondario. Può accadere che tali enti esercitino un’impresa in quanto modalità diretta e immediata per realizzare il proprio scopo istituzionale. A titolo di esempio, si possono ricordare le fondazioni che gestiscono teatri; o le fondazioni che gestiscono collegi universitari, ospedali, case di cura; o, ancora, le associazioni che producono servizi di assistenza alle persone anziane o disabili; oppure le associazioni sportivo-dilettantistiche che gestiscono scuole sportive o organizzano pubblici spettacoli. Inoltre, si possono ricordare le associazioni culturali che gestiscono un punto vendita di oggetti correlati con il fine istituzionale perseguito (ad es., un’associazione che promuove la lettura e lo studio della letteratura italiana del ’900 gestisce una libreria specializzata sugli autori del ’900; un’associazione che promuove la passione per la musica classica gestisce una negozio di musica di quel genere, ecc.); e così via. Ma non è raro che siffatti enti esercitino un’impresa anche se in rapporto mediato e indiretto rispetto al proprio scopo istituzionale. A titolo di esempio, basti pensare all’associazione sportiva, culturale o ricreativa che gestisce un punto di ristoro o ad una fondazione filantropica che esercita un’attività commerciale per procacciarsi i mezzi finanziari da destinare a sostegno delle proprie finalità statutarie. In quest’ottica, è lasciato all’interprete (teorico e pratico) il compito di risolvere la questione relativa all’applicazione del diritto d’impresa nei contesti adesso in esame. E il profilo maggiormente controverso attiene all’applicazione della disciplina dell’impresa proprio alle associazioni e fondazioni del libro I. Una prima corrente di pensiero, muovendo dalla constatazione che i fenomeni imprenditoriali adesso riguardati siano assimilabili alla impresa pubblica e, in particolare, condividano con quest’ultima il carattere non speculativo e l’essere a servizio di interessi generali e collettivi, prospetta l’applicazione del diritto dell’impresa in maniera non diversa da come è stabilita per l’ente pubblico e, quindi, a seconda che l’associazione o la fondazione eserciti l’impresa in via esclusiva o principale oppure solo in via secondaria 85. Tuttavia, una simile conclusione non si presta ad essere condivisa, alla luce di quanto affermato supra (v. 1), soprattutto laddove si è detto che le particolari modalità di applicazione del diritto dell’impresa nei confronti dell’impresa pubblica rappresentano nient’altro che un adattamento alla forma giuridica pubblica rivestita, sicché non si giustificherebbero in un contesto differente. In particolare, non si giustificherebbe l’esonero dall’obbligo di pubblicità nei confronti delle associazioni e fondazioni che esercitano un’impresa secondaria, atteso che non esiste un sistema di pubblicità reputato equivalente al registro delle imprese; così come non si giustificherebbe la sottrazione alle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo, nei confronti di tutte le associazioni e fondazioni, atteso che l’eventuale insolvenza resterebbe affidata a meccanismi inadeguati quali quelli del diritto comune 86.

Può in definitiva considerarsi ormai prevalente l’idea che la disciplina dell’impresa

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In questo senso, BIGIAVI, La professionalità, 86 ss.; adde, tra gli altri, GALGANO, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati2, Comm. Scialoja-Branca, 1978, 88 ss. e 99 ss. In giurisprudenza, seppur in obiter dictum, Cass. 18-9-1993, n. 9589, Fall, 1994, 156. 86 In questo senso, CETRA, L’impresa, 62 ss. e 68 ss.

[§ 2]

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debba trovare applicazione nella sua interezza nelle associazioni e nelle fondazioni che esercitano un’attività commerciale, quale che sia la posizione o il ruolo assunto da quest’ultima (cioè, se attività esclusiva o principale oppure solo secondaria) 87. 3. L’impresa sociale Una conferma della conclusione che precede sembra cogliersi dalla recente disciplina dell’impresa sociale. Il d.lgs. 112/2017 (che sostituisce, con alcune novità, il precedente d.lgs. 155/2006) utilizza l’espressione “impresa sociale” per qualificare tutti gli enti privati, ivi inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del c.c., che esercitano un’attività di impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività (art. 1, co. 1). L’impresa di interesse generale s’identifica con due tipologie di fenomeni imprenditoriali (ex art. 2082). Un primo tipo di fenomeni sono quelli rappresentati dalle attività produttive di beni e servizi di utilità sociale, tali essendo i beni e i servizi prodotti e scambiati nei settori elencati nell’art. 2, co. 1, quali l’assistenza sociale, sanitaria o socio-sanitaria, l’educazione, la tutela dell’ambiente, la valorizzazione del patrimonio culturale, ecc. Un secondo tipo di fenomeni sono quelli rappresentati dalle attività che, a prescindere dal loro oggetto, utilizzano nel proprio processo produttivo fattore lavoro proveniente in misura non inferiore al 30% del lavoro complessivo da lavoratori molto svantaggiati ai sensi dell’art. 2, n. 99, reg. 651/2014 (cioè, privi da almeno 24 mesi di impiego regolarmente retribuito o privi da almeno 12 mesi di impiego regolarmente retribuito, rientranti nella categoria dei lavoratori svantaggiati di cui all’art. 2, n. 4, lett. b-g, del medesimo reg.) e/o lavoratori disabili ai sensi dell’art. 112, co. 2, d.lgs. 50/2016 e/o persone beneficiarie di protezione internazionale ai sensi del d.lgs. 251/2007 e/o persone senza fissa dimora, che versino in una condizione di povertà, tale da non poter reperire e mantenere un’abitazione in autonomia (art. 2, co. 4) 88. Si tratta di iniziative che per lungo tempo sono state appannaggio esclusivo dell’intervento pubblico: solo lo Stato o altri enti pubblici locali operavano nei settori a rilevanza sociale più sopra menzionati o si preoccupavano dell’inserimento nel mondo del lavoro dei soggetti svantaggiati o disabili. Tuttavia, per diverse ragioni (tra le quali, anzitutto, i problemi di finanza pubblica), l’intervento pubblico è in corso di progressiva sostituzione con l’intervento privato. Quest’ultimo è improntato non più soltanto a logiche erogative (cioè, caratterizzato dalla cessione gratuita o sottocosto dei beni e servizi prodotti), bensì anche a logiche economiche (cioè, caratterizzato dalla cessione dei beni e servizi a condizioni che

87 Per questa conclusione, in luogo di molti, MINERVINI, L’imprenditore, 220; COSTI, Fondazione, cit., 24 ss.; GATTI, L’impresa collettiva non societaria e la sua disciplina fallimentare, RDComm, 1980, I, 108 ss.; FARENGA, Esercizio di impresa commerciale da parte di enti privati diversi dalle società e fallimento, DFall, 1981, I, 222 ss.; COLUSSI, voce Impresa collettiva, EncGiur, XVI, 5; CAMPOBASSO, Associazioni e attività di impresa, RDCiv, 1994, II, 589 ss.; ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 176 ss.; MARASÀ, Contratti associativi e impresa, 146 s. e 173 s.; CETRA, L’impresa, 68 ss.; in giurisprudenza, da ultimo, App. Venezia, 20-7-2015 (ined.); App. Genova, 14-12-2013 (ined.); Trib. Gorizia, 18-11-2011, Fall, 2012, 722; Trib. Milano, 28-10-2011, Fall, 2012, 78; Trib. Alba, 25-3-2009, Fall, 2009, 1427. 88 I fenomeni imprenditoriali qualificabili come impresa sociale sono stati ampliati dal d.lgs. 112/2017 rispetto a quelli del previgente d.lgs. 155/2006. Su questi ultimi, v. BUCELLI, Art. 2, in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 79 ss.

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SEZ. I – La fattispecie “impresa”

[§ 2]

consentono di recuperare quanto meno i costi dei fattori produttivi impiegati nel sottostante processo produttivo), sostanziandosi allora in una vera e propria iniziativa imprenditoriale 89. L’intervento privato può avvenire con qualunque forma giuridica privata (art. 1, co. 1 e 2), gravata dall’onere di inserire nel proprio statuto una clausola non lucrativa confezionata ai sensi dell’art. 3 90: clausola che impone all’ente privato di svolgere l’iniziativa senza dar luogo ad alcuna produzione di utili ovvero di destinare gli eventuali utili prodotti allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio. Una quota inferiore al 50% può essere, peraltro, eterodestinata a favore di enti del c.d. “terzo settore”, diversi dalle imprese sociali (art. A, co. 1, d.lgs. 117/2017), al fine di promuovere specifici progetti di utilità sociale, oppure, nelle sole società, utilizzata per aumentare gratuitamente il capitale sociale o per distribuire dividendi, nei limiti di rendimento stabiliti dall’art. 3, co. 3 91. In questa prospettiva, è di tutta evidenza che le imprese sociali possono essere (oltre che, per l’appunto, società) associazioni e fondazioni del libro I (che sono enti senza scopo di lucro), nelle quali l’impresa di interesse generale deve figurare come oggetto esclusivo o principale (art. 1, co. 1); imprese sociali possono essere anche enti ecclesiastici (che pure sono enti senza scopo di lucro), nei quali l’impresa di interesse generale deve figurare necessariamente come attività secondarie (art. 1, co. 3) (atteso che l’attività principale degli enti ecclesiastici dev’essere attività religiosa o di culto) 92. Il d.lgs. 112/2017 (non diversamente dal previgente d.lgs. 155/2006) stabilisce alcuni profili di disciplina dell’impresa sociale, i quali possono essere suddivisi idealmente in due gruppi: da un lato, ci sono regole dettate sul presupposto che l’iniziativa svolta ha carattere sociale e si svolge nell’ambito di settori socialmente rilevanti (come l’obbligo di improntare il rapporto sociale a principi di non discriminazione: art. 8; l’obbligo di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività: art. 11); dall’altro, ci sono regole dettate sul presupposto che l’iniziativa posta in essere è un’impresa, tipicamente non agricola e, quindi, di natura commerciale (l’obbligo di pubblicità commerciale: art. 5; l’obbligo di tenuta delle scritture contabili: art. 9; l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza: art. 14). In questa sede, l’attenzione verrà concentrata esclusivamente sulle regole del secondo tipo e, segnatamente, sull’applicazione delle stesse nei confronti degli enti che svolgono l’impresa di interesse generale. Al riguardo, si può anzitutto constatare che tanto l’obbligo di pubblicità quanto l’obbligo di tenuta delle scritture contabili trovano applicazione, senza distinzione, nei confronti di tutti gli enti che esercitano l’impresa: non solo, cioè, nei confronti degli enti che la esercitano in via esclusiva o principale (le associazioni e le fondazioni), ma anche nei con-

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Sul punto, anche per i riferimenti, CETRA, L’impresa, 4 ss. e 13 ss. Si tratta di un onere, nel senso che nulla esclude che enti privati e, in particolare, le società, esercitino un’impresa negli stessi settori di interesse generale ex art. 2, co. 1, ma senza rispettare i requisiti del d.lgs. 112/2017: senza, perciò, assumere la qualifica di imprese sociali e, quindi, rinunciando ai benefici economici e fiscali di cui all’art. 18. 91 Il d.lgs. 112/2017 attenua, perciò, il rigore della clausola non lucrativa, superando qualsiasi dubbio in ordine all’ammissibilità delle imprese sociali in forma societaria (dubbi che, invece, erano stati sollevati, sotto la vigenza del d.lgs. 155/2006, da CETRA, Impresa, 148 s., nt. 2. In generale, sulle caratteristiche della clausola non lucrativa imposta dall’art. 3 d.lgs. 155/2006, CAPECCHI, Art. 3, La nuova disciplina dell’impresa sociale, cit., 116 ss.; FICI, Art. 3, in Commentario al decreto sull’impresa sociale (d.lgs. 24 marzo 2006, 155), a cura di Fici-Galletti, Torino, 2007, 41 ss.). 92 Sul punto, anche per gli altri riferimenti, FUSARO-COEN-FUCCILLO, Art. 1, in La nuova disciplina dell’impresa sociale, 19 ss., 37 ss. e 49 ss. 90

[§ 2]

CETRA – Le categorie di impresa

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fronti degli enti che la esercitano in via secondaria (ossia, gli enti ecclesiastici) 93. Per contro, la conclusione non è altrettanto immediata per l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza, atteso che, in prima battuta, si dispone la liquidazione coatta amministrativa all’indirizzo di tutte le organizzazioni che esercitano l’impresa, salvo, poi, aggiungere che tale disposizione non si applica agli enti ecclesiastici (art. 14, co. 6). È evidente la ragione per cui la procedura concorsuale prescelta sia la liquidazione coatta amministrativa, ragione non diversa da quella che è tipicamente alla base di tale scelta tutte le volte che viene operata, vale a dire per via della presenza di un sistema di eterocontrollo pubblicistico. Ed invero, attraverso la liquidazione coatta, l’autorità amministrativa deputata al controllo sugli enti che esercitano la tipologia di impresa in questione (il Ministero del lavoro e delle politiche sociali) mantiene il suo potere (che, di conseguenza, non passa all’autorità giudiziaria) anche nel corso della gestione della crisi dell’impresa. E ciò con il preciso obiettivo di propiziare la soluzione della crisi, senza trascurare gli interessi generali, a spiccata colorazione pubblicistica, a vario titolo sollecitati da un’iniziativa a rilevanza sociale (i finanziatori esterni a titolo di liberalità; i beneficiari dei beni e servizi resi; i lavoratori svantaggiati e/o disabili eventualmente impiegati nell’impresa; ecc.): più precisamente, in modo da contemperare questi ultimi interessi con gli altri tipicamente coinvolti da un’iniziativa di natura imprenditoriale (i finanziatori esterni con vincolo di restituzione; i fornitori di materie prime; gli altri lavoratori; ecc.), senza correre il rischio che ai primi venga riservata una posizione deteriore rispetto ai secondi e, in particolare, a vantaggio dei creditori. Invece, potrebbe non essere altrettanto evidente la ragione dell’esenzione disposta all’indirizzo degli enti ecclesiastici, con il rischio di generare equivoci. Essa è da intendersi come esenzione dalla procedura di liquidazione coatta amministrativa, data l’incompatibilità tra quest’ultima procedura concorsuale (che è una procedura con finalità estintiva) e l’ente ecclesiastico (sulle cui vicende estintive l’ordinamento italiano non può in alcun modo disporre). Viceversa, essa non può intendersi come esenzione più generale dalle procedure concorsuali, solo che si ricordi che un ente ecclesiastico è assoggettato all’ordinamento statuale per tutte le attività diverse da quelle di religione e di culto poste in essere. Sicché, anche l’ente ecclesiastico sarà assoggettato alla disciplina delle procedure concorsuali in caso di insolvenza, benché, nel caso di specie, esclusivamente alle procedure prive di finalità estintiva (quindi, tipicamente, al fallimento) 94.

93 Sul punto, anche per altri riferimenti, FUSARO, Art. 5 e BAGNOLI, Art. 10, in La nuova disciplina dell’impresa sociale, 169 ss. e 241 ss. 94 Per questa conclusione, CETRA, Impresa, 197 ss.; TERRANOVA, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali: spunti per una discussione, in RDComm, 2014, I, 308 s. Diversamente, GALLETTI, Art. 15, Commentario al decreto sull’impresa sociale (d.lgs. 24 marzo 2006, 155), a cura di Fici-Galletti, Torino, 2007, 216 ss.; ritenendo, invece, che gli enti ecclesiastici siano assoggettabili alle sole procedure concordatarie, LEOZAPPA, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, in RDComm, 2014, I, 336 ss.

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§ 3. L’IMPRESA E LE PROFESSIONI INTELLETTUALI SOMMARIO: I. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali. – II. L’art. 2238. Conclusioni. – III. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della fattispecie. La nozione di impresa comunitaria.

LETTERATURA: AFFERNI, voce Professioni III) Professioni intellettuali - Diritto commerciale, EncGiur, XVIII, 1989; FARINA, Esercizio di professione intellettuale ed organizzazione ad impresa, in Impresa e società. Scritti in memoria di Graziani, V, Napoli, 1967, 2089; GUIZZI, Il concetto di impresa tra diritto comunitario, legge antitrust e codice civile, RDComm, 1993, I, 279; IBBA, Professione intellettuale e impresa, RDCiv, 1982, II, 353 e 558; 1983, II, 331; 1985, II, 53; ID., La categoria “professione intellettuale”, in AA.VV., Le professioni intellettuali, Torino, 1987, 1; ID., Professioni intellettuali e diritto commerciale, ivi, 267; MUSOLINO, Contratto d’opera professionale2, Comm. Schlesinger, 2014; SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società nell’esercizio delle professioni intellettuali, Milano, 1974.

I. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali Nell’economia moderna vi è un altro, importante fenomeno produttivo, che per tradizione storica è sempre rimasto ai margini del perimetro della fattispecie imprenditoriale: le professioni intellettuali. Esse si sostanziano nella produzione di servizi professionali: l’assistenza, la rappresentanza e la difesa in giudizio (servizio professionale prodotto dall’avvocato); la progettazione di un immobile (servizio professionale prodotto dall’ingegnere); il design degli interni di un’abitazione (servizio professionale prodotto dall’architetto); la diagnosi di una malattia e la prescrizione della relativa cura (servizio professionale prodotto dal medico), ecc. Si distinguono in professioni protette e in professioni non protette: le prime (del medico, dell’avvocato, del commercialista ecc.) sono regolate da una propria specifica disciplina e richiedono il conseguimento di un titolo abilitativo perché le si possa esercitare; le seconde (dell’analista di mercato, del consulente informatico ecc.) non hanno una propria specifica disciplina e sono liberamente esercitabili. Alle une e alle altre è poi dedicata una disciplina generale, contenuta nel capo II del titolo III del libro V del codice civile (artt. 2229 ss.), inderogabile per le prime 1. Ai nostri fini, interessa, non tanto soffermarsi sulla disciplina (specifica o generale) testé menzionata, quanto piuttosto comprendere se a questa disciplina possa aggiungersi quella dell’impresa. 1

Per un quadro d’insieme sulla disciplina delle professioni intellettuali, LEGA, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 119 ss. e 477 ss.; più di recente, MUSOLINO, Contratto d’opera, 3 ss. e 47 ss.

[§ 3]

CETRA – L’impresa e le professioni intellettuali

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Occorre muovere dalla premessa che anche le professioni intellettuali, come l’impresa, sono fenomeni produttivi che si presentano nella forma dell’attività produttiva, vale a dire sono immaginabili come una successione di comportamenti, coordinati strutturalmente e funzionalmente, ossia teleologicamente orientati rispetto al raggiungimento di un determinato risultato socialmente apprezzabile in termini di prestazione professionale. In quest’ottica, ai fini che qui interessano, bisogna verificare innanzitutto se tra i due fenomeni produttivi vi sia o meno coincidenza sul piano ontologico, ossia se le professioni intellettuali presentino le tre caratteristiche (professionalità, organizzazione, metodo economico) proprie dell’impresa. Infatti, se non c’è coincidenza, il discorso finisce qui. Invece, se c’è coincidenza, bisogna verificare qual è il trattamento normativo delle professioni intellettuali e, in particolare, se sono assoggettate o meno alla disciplina dell’impresa 2. a) Giova muovere dalla constatazione che le professioni intellettuali sono un fenomeno produttivo che, di per sé, può dirsi integrato già quando viene reso un singolo servizio professionale 3. Sicché, se un soggetto si limita a svolgere la professione intellettuale di tanto in tanto, producendo singoli servizi professionali (si pensi al professore universitario in materie giuridiche che una o un paio di volte l’anno patrocina in giudizio una controversia), si realizza un fenomeno che costituisce specificazione dell’attività produttiva occasionale, quindi dell’attività che non è esercitata “professionalmente” ex art. 2082. Nondimeno, l’ipotesi più frequente è quella di un soggetto che svolge la professione intellettuale a tempo pieno, non, cioè, sporadicamente o occasionalmente, producendo servizi professionali in maniera sistematica e continuativa (si pensi a chi fa l’avvocato quale occupazione principale). In tal caso, è evidente che si realizza un fenomeno che è un’attività esercitata “professionalmente” ex art. 2082 e, quindi, sotto il profilo riguardato, assimilabile all’impresa. b) Occorre ancora constatare che le professioni intellettuali possono essere un’attività produttiva che si sviluppa attraverso il solo lavoro del professionista. Anzi, può essere non casuale il fatto che le professioni intellettuali siano state collocate nel capo II del titolo III del libro V del codice, ossia come caso particolare di lavoro autonomo. Evidentemente, il legislatore del ’42 aveva presente un fenomeno di questo tipo, cioè un fenomeno che condivideva con il lavoro autonomo in senso stretto la circostanza di svilupparsi attraverso il solo lavoro del titolare: sebbene, nel primo caso, lavoro speculativo-intellettivo; nel secondo, lavoro manuale. In altre parole, la collocazione delle professioni intellettuali nella sistematica del codice induce a pensare che il legislatore del ’42 facesse riferimento ad un’attività produttiva in cui il lavoro (speculativo intellettuale) del professionista fosse, non solo necessario, ma an2

L’impostazione è adottata in particolare da FARINA, Esercizio, 2096 ss. Successivamente, anche da GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggio sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998, 174 ss.; BUONOCORE, L’impresa, Tr. Buonocore, I/2.I, 2002, 129 ss. e 551. 3 In questo senso, MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli, 1985, 42 s. e 115 ss. E v., anche, BUSSOLETTI, Le società di revisione, Milano, 1985, 118 ss. IBBA, La categoria, 12 s.

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che sufficiente, pertanto, ad un’attività produttiva non qualificabile come “organizzata” ex art. 2082 4. Le professioni quali prefigurate dal legislatore del ’42 non esauriscono peraltro le fattezze che le stesse possono assumere nell’attuale tipologia della realtà. Anzi, al giorno d’oggi è senz’altro più verosimile che il professionista si avvalga di veri e propri fattori produttivi: si pensi ad un avvocato che ha una segretaria o dei collaboratori; o ad un ingegnere o ad un architetto che utilizzano un programma di progettazione particolarmente sofisticato e costoso che consente loro di elaborare diversi progetti in tempi rapidi; o ad un medico che utilizza macchinari molto sofisticati e costosi che gli consentono di pervenire a diagnosi in termini più oggettivi. Pertanto, dall’attuale tipologia della realtà emerge che la professione (non deve ma) può essere un’attività “organizzata” nell’accezione di cui all’art. 2082. Se ciò accade, si può ulteriormente accertare se il lavoro del professionista è o meno prevalente rispetto agli altri fattori, ossia qual è la dimensione dell’organizzazione impiegata nell’attività professionale: in altri termini, se l’organizzazione resta o meno al di sotto del livello di piccolezza segnato dall’art. 2083 5. In quest’ottica, è agevole rendersi conto che le professioni intellettuali possono assumere fattezze diverse anche sotto questo profilo. Ed invero, se ci sono alcuni casi in cui il lavoro del professionista può dirsi comunque preminente rispetto agli altri fattori (che di conseguenza restano ancillari), ci sono altri casi in cui esso può essere senz’altro sostituito dall’organizzazione, fino a rendere, cioè, l’intervento esecutivo del professionista pressoché irrilevante. Si pensi al grande studio legale caratterizzato dalla presenza di decine di collaboratori, in grado di assistere il cliente in tutto e per tutto; o allo studio di un medico ematologo dotato di macchinari in grado di effettuare l’intera analisi del prelievo sanguigno e di pervenire a una diagnosi che il più delle volte egli si limita a confermare: in altri termini, ai casi in cui l’attività professionale può senz’altro realizzarsi, anche a prescindere dalla presenza o dalla concreta partecipazione del professionista. Ebbene, in queste ultime ipotesi, la dimensione dell’organizzazione impiegata nell’attività professionale è al di sopra del livello di piccolezza tracciato dall’art. 2083: l’attività professionale, in ragione della sua natura non agricola, è pertanto potenzialmente analoga all’impresa commerciale (non piccola o mediogrande) 6.

4 In questo senso, GRAZIANI, L’impresa e l’imprenditore2, Napoli, 1959, 26; BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960, 124 s. FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972, 82 s. e 84 s. Altri riferimenti alla dottrina parimenti orientata in IBBA, Professione intellettuale, 373 s. 5 Nel senso che le professioni intellettuali possono essere assimilate al più alle piccole imprese, seppur con diverse argomentazioni, RAVA, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949, 72 ss.; FERRARA jr., La teoria giuridica dell’azienda2, Ristampa, Milano, 1982, 72 ss.; ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962, 158; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 23 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974, 24; AFFERNI, voce Professioni, 3. Altri riferimenti sempre in IBBA, Professione intellettuale, 374 ss. 6 In questo senso, GALGANO; ID., voce Imprenditore, D4, sez comm, VII, 5 s.; CAMPOBASSO. Diversamente, invece, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 23 ss., secondo il quale anche qualora la prestazione del servizio si avvalga di un’organizzazione imprenditoriale sussisterebbe comunque una diversità ontologica rispetto all’impresa da ricercarsi nell’unicità del servizio reso.

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c) Infine, occorre constatare che le professioni intellettuali sono senz’altro un’“attività economica” ex art. 2082. Anzi, non bisogna avere troppa immaginazione per rendersi conto che si tratta normalmente di un’attività lucrativa, in cui, cioè, il servizio è ceduto ad un prezzo (ben) superiore rispetto al costo sostenuto (benché non sia per nulla agevole quantificare qual è il costo dell’attività intellettuale) 7. Pertanto, alla luce di quanto precede, la professione intellettuale è un attività produttiva che ormai può presentare tutti e tre i requisiti dell’art. 2082 e, in particolare, può trattarsi di un fenomeno analogo all’impresa non piccola e, in ragione della sua natura (evidentemente non agricola), all’impresa commerciale. Sicché, se può esservi coincidenza di fatto tra i due fenomeni, al ricorrere di una siffatta coincidenza bisogna allora vedere quali sono le implicazioni che conseguono sul piano della disciplina applicabile.

II. L’art. 2238. Conclusioni Sebbene non manchi chi sia dell’avviso che ove le professioni intellettuali siano organizzate in forma d’impresa debbano essere assoggettate alla relativa disciplina 8, l’opinione senz’altro prevalente milita in senso contrario, sul presupposto che una diversa conclusione sarebbe preclusa dalla disposizione contenuta nell’art. 2238, co. 1 9. Infatti, l’art. 2238, co. 1 subordina l’applicazione delle disposizioni contenute nel titolo II (comprendenti lo statuto dell’impresa commerciale) alla condizione che l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa. Questa condizione viene intesa come allusiva all’ipotesi in cui la professione rappresenti un fattore produttivo di una più ampia attività organizzata in forma d’impresa, in cui, cioè, il servizio professionale sia realizzato a favore di o confluisca in un’attività imprenditoriale. A titolo di esempio, s’immagini un ingegnere o un architetto che fanno progetti in seno alla propria impresa edile (che è un’attività che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di più complesso); o il medico che

7 In questo senso, per tutti, CAMPOBASSO. Tuttavia, la sussistenza del requisito di economicità è stato a lungo controversa e, essenzialmente, negata sulla base di diverse motivazioni (PORZIO, Il farmacista imprenditore, DGiur, 1967, 379; BIONE, L’impresa ausiliaria, Padova, 1972, 108 ss., testo e nt. 62 e 65, secondo i quali il carattere economico e, specialmente, lucrativo del servizio passa in secondo piano in considerazione del fatto che il servizio professionale è anzitutto un servizio alla collettività; SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 35 ss., secondo il quale il carattere economico e, specialmente, lucrativo del servizio è finalizzato ad assicurare un’etica adeguata del servizio). E nel senso che l’economicità sarebbe diversa nell’impresa e nelle libere professioni, sul presupposto che solo nella prima ma non nelle seconde vi sarebbe un vincolo normativo dell’agire economico, LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999, 122 ss. 8 Per questa conclusione, soprattutto, FARINA, Esercizio, 2110 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, cit., 176 s.; BUONOCORE, L’impresa, cit., 129 ss.; sostanzialmente, AFFERNI, voce Professioni, 4 s.; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, 52 ss. 9 ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 170; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983, 146; SPADA; ID., voce Impresa, D4, sez comm, VII, 54 s.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 2001, 448 ss.; LIBONATI; CAMPOBASSO; PRESTI-RESCIGNO.

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presta assistenza all’interno della propria clinica (che è sempre un’attività che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di più complesso) 10. Pertanto, alla luce di una siffatta interpretazione dell’art. 2238, co. 1, se ne deve dedurre che non troverà applicazione il titolo II nei casi in cui (invece) l’attività produttiva si esaurisca nella realizzazione di un servizio professionale, cioè nei casi in cui si tratti di una prestazione intellettuale tout court. La norma in esame traccia, dunque, un confine dell’ambito di applicazione della disciplina dell’impresa, tenendo fuori da quest’ambito le professioni intellettuali comunque esse si configurino, a prescindere, cioè, dalle modalità di realizzazione della prestazione. Il richiamo a tale disciplina, che essa opera quando ricorra la condizione summenzionata, vale in sostanza a confermare quanto già si potrebbe dedurre dai principi: che, se un professionista esercita al contempo un’attività d’impresa (producendo beni o servizi commerciali), la circostanza che il servizio professionale erogato sia compenetrato in quest’ultima non fa venir meno, rispetto ad essa, l’applicazione del diritto dell’impresa. Ma proprio la fissazione di quella condizione vale viceversa ad escludere l’operatività del diritto dell’impresa, quando il professionista si limiti ad erogare il puro e semplice servizio professionale. Il che poteva avere un senso al tempo in cui la norma è stata scritta, ma appare oggi averne molto meno, se si considera che le attuali professioni intellettuali possono essere fenomeni in tutto e per tutto coincidenti con l’impresa 11. Ne consegue che l’art. 2238, co. 1, è da intendersi come una norma che costituisce una sorta di privilegio a favore di una figura soggettiva o di una categoria di soggetti, privilegio del quale può beneficiare solo chi integra tale figura soggettiva o appartiene alla relativa categoria 12. Ed invero, si tratta di soggetti comunque sottratti alla disciplina dell’impresa in quanto tali e perché tali, anche, cioè, qualora essi pongano in essere un fenomeno che in sé considerato non avrebbe ragione di andare esente da detta disciplina 13. Va però osservato che la legge non enuncia le professioni intellettuali: non vi è cioè una definizione della fattispecie, il che richiede di ricostruirne i confini in via interpretativa. Gli esempi sopra riportati (medico, avvocato, notaio ecc.) rappresentano figure intuitivamente, e per tradizione secolare, riconducibili ad essa; ma non sempre l’intuito e la tradizione soccorrono, perché la realtà economica presenta figure di più incerta collocazione (ad es. il farmacista), o del tutto innovative (si pensi al dietista, o 10 Per questa interpretazione dell’art. 2238 gli A. citati nella nota precedente. Per un quadro di sintesi del dibattito sorto attorno ad una norma, definita tra le più oscure dell’intero codice (SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 9 ss.), IBBA, Professioni intellettuali, 315 ss.; MUSOLINO, Contratto d’opera, 727 ss. e 732 ss. 11 Sottolineano la non più attuale giustificazione dell’esonero delle libere professioni dal diritto dell’impresa, tra gli altri, SPADA; ID., voce Impresa, cit., 54 s.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 450; GALGANO; PRESTI-RESCIGNO; in senso dubitativo, CAMPOBASSO. Nello stesso senso, rimarcando, tuttavia, che un siffatto esonero non possa più intendersi a stregua di privilegio, atteso che preclude alle libere professioni l’opportunità di beneficiare di parti della disciplina dell’impresa che sarebbero utilissime anche nelle attività libero-professionali, RESCIGNO, «Per scelta del legislatore»: professioni intellettuali, impresa e società, AGE, 1/2014, 199 ss. 12 SPADA; ID., voce Impresa, 54; GALGANO; CAMPOBASSO. 13 In questi termini, ancora, SPADA.

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al wedding planner). Neppure l’esistenza di requisiti abilitativi per l’esercizio di un’attività costituisce un elemento dirimente sufficiente, perché nulla esclude che simili requisiti siano richiesti per l’erogazione di servizi da qualificarsi come commerciali (per tacere del fatto che la classificazione di tutte le attività produttive non bisognose di requisiti d’accesso richiederebbe comunque un diverso indicatore). All’uopo, bisogna allora far ricorso ad un criterio oggettivo, criterio che viene ravvisato nella circostanza che nello svolgimento dell’attività e nella cessione del servizio che ne deriva venga utilizzata una particolare tipologia di contratti, ossia il contratto d’opera intellettuale. Un contratto, quest’ultimo, che sul piano della fattispecie è connotato dai requisiti di cui agli artt. 2230 e 2232: vale a dire, da un minimo di intellettualità nello sforzo professionale profuso nella produzione del servizio e da un minimo di personalità nella prestazione 14. Tale criterio richiede peraltro alcune precisazioni. Se la produzione del servizio è soggetta al possesso di un titolo abilitativo, il parametro dell’intellettualità è sufficiente: nel senso che l’attività è da qualificarsi per ciò solo come professione intellettuale e lo strumento giuridico attraverso cui si eroga il servizio non può che essere il contratto d’opera professionale, con il che è integrato per definizione anche l’elemento della personalità (il professionista interviene e deve intervenire personalmente nel processo produttivo). Se la produzione del servizio è libera, il parametro dell’intellettualità è necessario, ma non sufficiente. Il soggetto agente potrebbe infatti ricorrere, per l’erogazione, sempre al contratto d’opera professionale, allora impegnandosi a prestare un servizio caratterizzato dal suo intervento personale; ma potrebbe anche affidarne interamente l’erogazione ad un apparato organizzativo, senza intervenire dunque nel relativo processo produttivo, ricorrendo allora alla diversa figura del contratto d’appalto. In tal caso, dunque, sono decisive le concrete modalità di produzione. Solo nel primo caso la sua attività sarebbe qualificabile come professione intellettuale, configurando, invece, nel secondo, una impresa commerciale a tutti gli effetti 15. In quest’ottica, ad es., è ormai pressoché pacifico che il farmacista non sia un professionista intellettuale, in quanto il mezzo negoziale utilizzato nei rapporti con il mercato è un contratto non più qualificabile come contratto d’opera intellettuale, difettando, essenzialmente, del requisito dell’intellettualità 16. Con la conseguenza che il farmacista pone in

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Così, SPADA; e, sostanzialmente, sull’assunto che gli artt. 2229 ss. sono, non tanto la normativa di un contratto, quanto piuttosto di un’attività, che costituisce lo statuto del professionista intellettuale, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 30 ss.; riferendosi invece al carattere eminentemente intellettuale dei servizi prestati, CAMPOBASSO. 15 Così, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 30 ss.; GALGANO. In quest’ottica, non manca chi comincia a qualificare come imprenditoriali le attività creative ed artistiche (BERTANI, Impresa culturale e diritti esclusivi, Milano, 2000, 61 ss.), tradizionalmente annoverate tra le professioni intellettuali (in luogo di molti, ASCARELLI, Corso, cit., 168 s.; ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, cit., 241 ss.; SPADA, voce Impresa, cit., 53 s.; CAMPOBASSO), adducendo che l’autore o l’artista utilizza schemi contrattuali che non possono essere qualificati o ricondotti al contratto d’opera intellettuale. In generale, sul contratto d’opera intellettuale, da ultimo, MUSOLINO, Contratto d’opera, 117 ss. e 147 ss. 16 In dottrina, per tutti, PORZIO, Il farmacista imprenditore, cit., 373 ss. In giurisprudenza, da ultimo, Cass. 3-8-2007, n. 17116, VNot, 2007, II, 794.

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essere un’attività che è senz’altro un’impresa commerciale, la quale sarà assoggettata alla relativa disciplina nel caso in cui essa non sia una piccola impresa. Non è per contro agevole comprendere quale sia il livello al di sotto del quale può considerarsi mancante il requisito della personalità, al riguardo ritenendosi sufficiente anche la mera assunzione di paternità del servizio (cioè, ad es., sottoscrivendo un documento da altri concretamente realizzato) 17.

III. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della fattispecie. La nozione di impresa comunitaria La conclusione riferita poc’anzi in merito all’assoggettamento delle professioni intellettuali alla disciplina dell’impresa e il conseguente privilegio che si configura in capo ai professionisti intellettuali sembrano presentare tuttavia qualche segno di cedimento. Infatti, l’esenzione delle professioni intellettuali dalla disciplina dell’impresa non può affermarsi più con riferimento ad ogni istituto che costituisce quella disciplina e, in particolare, alla parte relativa all’antitrust. Come si vedrà, la disciplina antitrust individua precetti comportamentali destinati agli operatori economici, diretti ad evitare che questi ultimi, attraverso accordi reciproci o abusando della posizione di potere acquisita, modifichino la struttura di mercato, determinando il passaggio da un modello concorrenziale ad un modello oligopolistico o monopolistico, ovvero traggano eccessivo vantaggio da un mercato che ha assunto la forma oligopolistica o monopolistica. Tale disciplina si riferisce ad operatori economici qualificati come “imprese” (cfr. l. 287/1990). Peraltro, ai sensi dell’art. 1, co. 4, l. 287/1990 l’interpretazione delle norme che costituiscono la disciplina in questione dev’essere effettuata in base ai principi dell’ordinamento dell’Unione europea in materia di concorrenza. E un siffatto criterio interpretativo dev’essere utilizzato anche per l’identificazione dei destinatari dei precetti comportamentali, vale a dire le imprese, che allora devono individuarsi nei fenomeni qualificabili come imprese secondo l’ordinamento europeo, cioè i fenomeni che rientrano nella nozione di impresa comunitaria 18. Giova osservare che l’ordinamento europeo non contiene una norma che stabilisce la nozione di impresa. Si tratta di una nozione di matrice giurisprudenziale, cioè frutto dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. E si tratta di una nozione che fa riferimento a fenomeni senz’altro diversi da quelli che sottendono alla nozione d’impresa che abbiamo esaminato nelle pagine che precedono, per certi versi più ampia (cioè, ricomprendendo più fenomeni) per certi versi più stretta (cioè, ricomprendendone meno). Più in particolare, si tratta di una nozione che (come tutte le nozioni di impresa: v., su-

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MUSOLINO, Contratto d’opera, 267 ss. E v., anche, VISCUSI, La società tra avvocati: il regime della responsabilità patrimoniale, professionale e disciplinare, in Le società tra avvocati, a cura di De Angelis, Milano, 2003, 209 s. 18 In luogo di molti, anche per gli altri riferimenti, ALESSI(-OLIVIERI), La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino, 1991, 12 ss.; GIANNELLI, Impresa pubblica e privata nella legge antitrust, Milano, 2000, 82 ss.

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pra, § 1.I) è inferita dall’interprete (al pari di quelle stabilite direttamente dal dato normativo) nell’ottica di fissare il presupposto per l’applicazione di una certa disciplina. È perciò una nozione funzionale all’applicazione di una certa disciplina, vale a dire in questo caso la disciplina (europea) della concorrenza (cfr. titolo VII, capo 1 del TFUE e reg. 139/2004) 19. In questa prospettiva, va da sé che una siffatta nozione di impresa debba alludere ad un fenomeno produttivo che abbia un certo impatto sul mercato, ossia che possa avere un mercato di riferimento, nel quale sia possibile tenere condotte che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza 20. In quest’ottica, è evidente che un fenomeno produttivo che abbia la suddetta caratteristica può anche essere un fenomeno produttivo privo dei requisiti che ne consentono la qualificazione come impresa ex art. 2082 21. i) Si consideri un’attività produttiva priva del requisito della professionalità, cioè un’attività occasionale. Anche l’attività occasionale può avere un mercato di riferimento, nel quale il titolare della stessa potrebbe assumere condotte in grado di incidere in senso restrittivo sul gioco della concorrenza. Un esempio potrebbe essere rappresentato dal licenziante di marchi (= soggetto che consente ad altri di utilizzare uno o più dei suoi marchi regolarmente registrati attraverso una licenza) o dal licenziante di brevetti (= soggetto che consente ad altri di sfruttare una o più delle sue invenzioni attraverso una licenza), cioè soggetti che svolgono un’attività tendenzialmente occasionale, ossia non reiterabile, che tipicamente si esaurisce una volta accordata la licenza. Ebbene, essi potrebbero subordinare il rilascio della licenza all’applicazione di condizioni non eque o discriminanti tra i diversi contraenti, con il rischio di incidere in senso restrittivo sulla concorrenza del mercato dei prodotti o dei servizi contrassegnati dal marchio o realizzati con il procedimento brevettato 22. ii) Parzialmente diverso è invece il discorso che riguarda un’attività produttiva priva del requisito di economicità, cioè un’attività di erogazione. È evidente che una tale attività non ha alcun impatto sul mercato perché per essa non può essere immaginato un mercato di riferimento, con la conseguenza che non rientra nella nozione ora in esame. Tuttavia, occorre precisare che neanche l’attività meramente economica, cioè che si svolge con un metodo che consente di pervenire al pareggio tra ricavi e costi, sembra potersi considerare come fenomeno rientrante nella nozione ora in esame. La ragione di siffatta conclusio-

19 In questi termini, VENEZIA, in CASSOTTANA-NUZZO, Lezioni di diritto commerciale comunitario2, Torino, 2006, 268; LIBERTINI(-MAZZAMUTO), L’impresa e le società, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di Castronovo-Mazzamuto, III, Milano, 2007, 22 ss.; GIANNELLI, voce Impresa comunitaria, EncGiur, XVIII, 2 s.; MAZZONI, La nozione di impresa nel diritto antitrust, in 20 anni di antitrust. L’evoluzione della autorità garante della concorrenza e del mercato, I, a cura di Rabitti Bedogni-Barucci, Torino, 2010, 496 ss. 20 Il punto è sottolineato dalla Corte di Giustizia a partire dal caso Hofner (CG 23-4-1990, C-41/90). Per l’evoluzione della giurisprudenza della Corte sulla nozione di impresa, VENEZIA, in CASSOTTANANUZZO, Lezioni, cit., 271 ss.; e, soprattutto, DE DOMINICIS, Concorrenza e nozione di impresa nella giurisprudenza comunitaria, Napoli, 2005, 70 ss. e 161 ss. 21 Il punto è molto ben dimostrato da GUIZZI, Il concetto di impresa, 285 ss. e 298 ss. 22 Gli esempi emergono dalla giurisprudenza europea. V. Commissione, 2-12-1975, n. 76/29/CEE (caso AOIP v. Beyrard), che ha qualificato impresa il licenziante di un brevetto che ha subordinato il rilascio della licenza alla condizione di esclusività, divieto di esportazione dei prodotti nei paesi in cui il licenziante ha già rilasciato analoga licenza, pagamento del canone anche in caso di non utilizzazione del brevetto, ecc.; Commissione, 10-1-1979, n. 79/86/CEE (caso Vaessen v. Moris), che ha qualificato impresa il licenziante di un brevetto che ha subordinato il rilascio della licenza alla condizione che il licenziatario acquistasse esclusivamente dal licenziante alcune delle materie prime utilizzate nel procedimento brevettato.

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ne non si rinviene nel fatto che non sia immaginabile un mercato di riferimento (si pensi, ad es., al mercato dei beni e dei servizi di utilità sociale). Il motivo è che pare difficile pensare che nel relativo mercato possano realizzarsi i tipici comportamenti rilevanti per la disciplina antitrust (le intese; l’abuso di posizione dominante): comportamenti, questi ultimi, tipicamente prefigurabili solo nei confronti di chi cerchi di accrescere il proprio profitto, a scapito degli operatori concorrenti e, in ultima istanza, degli utenti finali dei beni e servizi 23. Sicché, sembra ragionevole ritenere che le attività economiche che rientrano nella nozione comunitaria di impresa siano, in realtà, delle vere e proprie attività lucrative 24, cioè attività che si svolgono con metodo lucrativo, a prescindere, poi, dalla destinazione che all’utile conseguito si voglia o si debba imprimere: se egoistica o se altruistica 25. iii) Occorre ancora precisare che non dev’esserci necessariamente corrispondenza biunivoca tra i fenomeni produttivi che rientrano nella nozione comunitaria di impresa e una figura soggettiva. In altri termini, i primi non devono essere necessariamente riferiti ad un soggetto. Un fenomeno è qualificabile come impresa se ha impatto sul mercato ed anche se non è riconducibile ad un centro autonomo di imputazione. In quest’ottica, la Corte di Giustizia attribuisce la qualifica di impresa all’attività di gruppo nel suo insieme, quindi all’attività che le singole componenti del gruppo svolgono all’esterno dello stesso, senza considerare l’attività che viene svolta solo all’interno del gruppo medesimo 26.

Ebbene, nella nozione di impresa comunitaria rientrano senz’altro fenomeni esclusi dalla nozione interna di impresa e, quindi, ai sensi dell’art. 1, co. 4, l. 287/1990 si considerano nell’ambito di applicazione della legge antitrust fenomeni estranei alla fattispecie descritta nell’art. 2082. In particolare, nella prima nozione rientrano tutti i fenomeni compresi nel titolo III del libro V del codice civile, vale a dire sia il lavoro autonomo sia le professioni intellettuali. Peraltro, con riguardo al lavoro autonomo una tale conclusione è ormai finanche codificata dal dato normativo, in particolare nell’art. 3, co. 2, d.lgs. 30/2006, il quale dispone espressamente l’equiparazione tra il lavoro autonomo e l’impresa, ai fini della disciplina sulla concorrenza 27. Invece, con riguardo alle professioni intellettuali la conclusione è acquisita solo a

23 In realtà, tali comportamenti possono essere realizzati anche da associazioni di imprese prive di finalità speculative ma che vengono posti in essere per avvantaggiare quanto meno indirettamente le imprese che vi aderiscono: CG 31-10-1974, C-71/74. 24 Dello stesso avviso, GIANNELLI, Impresa pubblica, cit., 142 ss. e 179 ss. 25 Nel senso che lo scopo di un ente sia irrilevante ai fini dell’applicazione della disciplina antitrust, MARCHETTI, Spunti su enti non profit e disciplina del mercato, in Studi in onore di Cottino, I, Padova, 1997, 102 ss. 26 Per i riferimenti, VENEZIA, in CASSOTTANA-NUZZO, Lezioni, cit., 269; GIANNELLI, voce Impresa comunitaria, cit. 6, che, tra l’altro, sottolineano come la Corte di Giustizia neghi la qualifica di impresa nel caso in cui le componenti di un gruppo non godano di autonomia decisionale e, quindi, non possano entrare in concorrenza tra di loro (non esitando a riconoscerla, invece, laddove le componenti del gruppo mantengano la loro autonomia decisionale e gestionale). 27 E nella giurisprudenza europea, v. Commissione, 26-5-1978, n. 78/516/CEE, che ha qualificato impresa i cantanti d’opera che avevano accordato un’esclusiva ad una società di produzioni cinematografiche e televisive bavarese, impedendo che lo spettacolo in cui alcuni di essi erano protagonisti fosse trasmesso da una società di produzioni cinematografiche e televisive italiana.

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livello interpretativo 28 e, in particolare, a seguito dell’elaborazione giurisprudenziale 29, la quale non esita ad assoggettare le professioni intellettuali al diritto antitrust 30: in tal modo reputando gli ordini professionali come associazioni tra imprese; gli esami di abilitazione all’esercizio delle professioni come barriere all’entrata sul mercato; le tariffe professionali obbligatorie come intese 31: tariffe che invero sono state eliminate (art. 9, co. 1, d.l. 1/2012 e art. 10, co. 12, l. 183/2011) dopo esser state private dell’efficacia vincolante sul piano contrattuale (art. 2, co. 1, lett. a, l. 248/2006).

28 GALGANO, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, ContrImpE, 1997, 2 ss.; RESCIGNO, Per scelta del legislatore, cit., 195 ss. 29 V., però, l’art. 3, co. 5, d.l. 138/2011, che dispone all’indirizzo degli ordini professionali l’obbligo di garantire l’accesso alle professioni regolamentate e l’esercizio delle stesse secondo principi di libera concorrenza, assicurando la presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale e la pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativa ai servizi offerti. E, in attuazione di questi principi, sollecita l’emanazione di uno o più regolamenti di riforma delle libere professioni. 30 Diversamente, invece, con riguardo all’applicazione della disciplina sulla concorrenza sleale, Trib. Torino, 24-2-2010, in Git, 2010, 2087; nel senso dell’applicabilità v., però, CG 18-6-1998, ivi, 1999, 555. 31 Per le conclusioni ricordate nel testo, con riferimento a vari ordini professionali, App. Torino, 117-1998, GComm, 1999, II, 302 (ordine degli avvocati); App. Milano, 29-9-1999, DInd, 1999, 338 (consulenti del lavoro); Tar Lazio, 28-1-2000, GComm, 2000, II, 640 (dottori commercialisti e ragionieri); AGCM, 13-3-2013, n. 24275, Boll., 2-4- 2013, 25 (consiglio notarile). Per altri riferimenti, MAIN, Libere professioni e concorrenza, AGE, 1/2005, 21 ss.

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§ 4. L’INIZIO E LA FINE DELL’IMPRESA SOMMARIO: I. L’inizio dell’impresa. – 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione. – II. La fine dell’impresa. – 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione. – 2. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l.fall. (rinvio).

LETTERATURA: AFFERNI, Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973; BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969); IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, RSoc, 2008, 936; JAEGER, Note critiche sull’inizio dell’impresa commerciale, RSoc, 1966, 756; JORIO, Osservazioni in tema di società, inizio dell’impresa commerciale e fallimento, RDCiv, 1968, I, 50; ID., Gli articoli 10 e 11 della legge fallimentare e le società commerciali, RSoc, 1969, 288; NIGRO, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, Tr. Colombo-Portale, 9**, 1993; RAGUSA MAGGIORE, La cessazione dell’impresa commerciale e il fallimento (art. 10 l.fall.), RDCiv, 1977, I, 172; SANTAGATA, Fallimento di società cancellata dal registro delle imprese, RSoc, 1968, 328.

Esauriti i problemi concernenti l’inquadramento della fattispecie, bisogna spostare adesso l’attenzione sul problema relativo all’individuazione del c.d. inizio e della c.d. fine dell’impresa: sulla questione relativa al momento a decorrere dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa e, specularmente, al momento che segna il termine dell’applicazione della medesima disciplina: in altre parole, l’ambito temporale, iniziale e finale, della disciplina che sarà studiata più avanti.

I. L’inizio dell’impresa 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione Con l’espressione inizio dell’impresa si suole dunque far riferimento al momento dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Tale momento dev’essere accertato necessariamente secondo un criterio di effettività, vale a dire dev’essere identificato nel momento in cui nella realtà concreta si verifica un fenomeno produttivo qualificabile come impresa 1. Esso prescinde invece da qualunque tipo di adempimento formale si associ allo svolgimento dell’impresa, come, ad es., l’iscrizione nel registro delle imprese o l’autorizzazione o la licenza per lo svolgimento di specifiche attività. Infatti, simili formalità finirebbero per “inquinare” con elementi soggettivi il presupposto di applicazione di una disciplina che deve ri-

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Per questa conclusione, pressoché pacifica con riferimento all’impresa esercitata da una persona fisica o che non costituisca oggetto esclusivo o principale di un ente collettivo, GALGANO; CAMPOBASSO; BUONOCORE/Buonocore; PRESTI-RESCIGNO.

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posare sempre su parametri oggettivi 2: in altre parole, finirebbero per far dipendere dalla volontà del soggetto che è tenuto ad assolvere a tali adempimenti l’applicazione di una disciplina che tutela anche altri soggetti. D’altra parte, non sembra che il discorso possa differenziarsi a seconda che l’impresa sia esercitata da una persona fisica oppure da una società (o da altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva). In particolare, non sembra che possa essere condivisa l’idea secondo cui l’inizio dell’impresa societaria (o di altro ente) debba considerarsi anticipato al momento della costituzione della società (o dell’altro ente), a prescindere, cioè, dalla circostanza che si sia cominciato a svolgere in concreto l’oggetto sociale (quindi, l’impresa) 3. Basti considerare che, in quanto tale, la costituzione della società è in realtà una mera dichiarazione di intenti rispetto all’inizio dell’impresa o, più precisamente, l’approntamento della veste giuridica dell’impresa, che, di per sé, non giustifica l’applicazione della disciplina dell’impresa in assenza del fenomeno che dovrebbe rivestire 4. Meno certo è invece se l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase di organizzazione, cioè sin dall’approntamento dei fattori produttivi destinati alla successiva attività produttiva, ovvero debba posticiparsi alla fine di questa fase. Ed invero, non manca chi distingue tra l’attività di organizzazione e l’attività dell’organizzazione e associa l’inizio dell’impresa solo all’esercizio di quest’ultima 5. Si tratta peraltro di una demarcazione agevole da tracciare solo in teoria e difficile da accertare in pratica. Ciò in quanto non è semplice fissare uno spartiacque tra la fase di preparazione del complesso produttivo e l’attività produttiva in senso stretto. Senza considerare che, nel corso della prima, vengono in considerazione i tipici interessi coinvolti nella seconda e, soprattutto, i finanziatori a titolo di credito. E forse vengo-

2 Per tutti, SPADA, voce Impresa, D4, sez comm, VII, 60. E per altri riferimenti, anche giurisprudenziali, IANNELLI, L’impresa, Giur. Sist. Bigiavi, 1987, 67 ss. 3 In questo senso, invece, seppur con percorso argomentativo non coincidente, CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974, 169; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983, 281 s.; NIGRO, Le società per azioni, 230 ss.; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve. Nello stesso senso, la giurisprudenza pressoché unanime: da ultimo, Cass. 6-12-2012, n. 21991, Fall., 2013, 993; Cass. 28-42005, n. 8849, ivi, 2005, 1373; per i riferimenti più risalenti, IANNELLI, L’impresa, cit., 69 ss. 4 In questi termini, tra gli altri, JAEGER, Note, 765 ss.; JORIO, Osservazioni, 78 s.; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972, 131 ss. e 160 ss.; GALGANO; CAMPOBASSO. Condivide la conclusione anche SPADA, voce Impresa, cit., 60 s., il quale, tuttavia, precisa che la questione relativa all’inizio dell’impresa (societaria) non può esser affrontata in modo normativamente unitario bensì nell’ottica di una scomposizione della disciplina dell’impresa accertando per quali istituti abbia senso un’applicazione sin dal momento della costituzione della società e quali invece presuppongano l’avvio dell’iniziativa. 5 In questo senso, ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 267; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 33 s.; e, soprattutto, FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, cit., 99 ss. e 129 ss., cui si deve la distinzione tra atti di organizzazione e atti dell’organizzazione. In quest’ottica, si ritiene che completata la fase organizzativa del complesso produttivo anche un solo atto sarà sufficiente a segnare l’inizio dell’impresa, mentre in mancanza della fase di organizzazione sola la ripetizione nel tempo di atti omogenei e funzionalmente coordinati permetterà di qualificare l’attività non occasionale bensì come professionalmente esercitata. Più di recente, OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992, 312 s.

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no in considerazione in misura finanche più consistente, atteso che in questo momento si realizza la parte più significativa degli investimenti: basti pensare agli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari, ecc.) 6. Sicché, sembrerebbe non congruo escludere il credito che è stato concesso in questa fase dai sistemi di tutela predisposti dal diritto dell’impresa a favore del credito alla produzione (quali, ad es., le procedure concorsuali) 7. Tutt’al più, si potrà escludere che l’inizio dell’impresa possa aversi già a seguito dell’elaborazione di un semplice programma produttivo, o del compimento di singoli atti di organizzazione e, di conseguenza, si potrà ritenere necessaria l’esecuzione di una serie di atti, coordinati tra loro e volti ad organizzare un’attività produttiva, che abbia assunto fisionomia unitaria e finalità non equivoche 8.

II. La fine dell’impresa 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione Con l’espressione fine dell’impresa si suole fare riferimento – come anticipato – al momento al cui verificarsi cessa di trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Esattamente come l’inizio anche la fine dell’impresa dev’essere accertata secondo un criterio di effettività, ossia dev’essere identificata nel momento in cui nella realtà concreta viene meno il fenomeno produttivo qualificabile come impresa, senza che possano aver rilievo, quanto meno generalmente, gli eventuali adempimenti formali obbligatori 9. Se con riferimento all’inizio può dubitarsi sul se possa sussistere l’impresa (e così trovare applicazione la sua disciplina) sin dalla fase di organizzazione, con riferimento alla fine si deve invece sicuramente escludere che, per il venir meno dell’impresa (e dunque dell’applicazione della sua disciplina), occorra attendere la fase di disgregazione del complesso produttivo, cioè la liquidazione: fase nella quale si monetizzano tutti i beni costituenti il complesso aziendale e si risolvono tutti i rapporti pendenti (sia creditori che debitori) 10.

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Così, CAMPOBASSO. Per queste ragioni, ritengono che l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase dell’organizzazione, AFFERNI, Gli atti, 111 ss. e 260 ss.; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, 50 s.; BUONOCORE, L’impresa, Tr. Buonocore, I/2.I, 2002, 104 ss. Sostanzialmente in questo senso anche SPADA, voce Impresa, cit., 62, il quale, tuttavia, rimarca sempre l’esigenza di verificare, con riferimento ai singoli istituti che costituiscono la disciplina dell’impresa, la congruità di una loro applicazione sin dalla fase organizzativa (il punto è sottolineato successivamente pure da ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002, 51): esigenza quest’ultima che sembra essere colta dalla giurisprudenza, la quale non esita ad applicare alcuni profili della disciplina sin dalla fase di organizzazione mentre si dimostra molto più incerta per altri (per un quadro di sintesi, IANNELLI, L’impresa, cit.,72 s.). 8 Così, NOTARI/Dir. impr. - Man. breve; PISCITELLO/Dir. fall. - Man. breve. 9 Per questa conclusione, con specifico riferimento all’impresa esercitata da una persona fisica, GALGANO; CAMPOBASSO; BUONOCORE/Buonocore; PRESTI-RESCIGNO. 10 Nel senso che di fine dell’impresa non possa parlarsi fin tanto che anche in fase di liquidazione 7

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Del resto, non può trascurarsi che la liquidazione è una fase non essenziale nell’impresa, nel senso che questa potrebbe cessare anche a prescindere da una formale liquidazione. La liquidazione è più che altro una fase che attiene all’eliminazione dell’ente attraverso il quale si esercita l’impresa, cioè all’eliminazione del centro autonomo di imputazione al quale l’impresa si riferisce. In particolare, la liquidazione è una fase obbligatoria della società (e di ogni altro ente collettivo) 11. È allora evidente che i problemi sulla fine dell’impresa e sulla fine dell’ente che esercita l’impresa riposano su piani diversi. Sicché, non può escludersi che l’impresa di una società (o di altro ente) possa cessare anche prima della fine della società (o dell’altro ente), che invece sopravvive fintanto che non è liquidata(o) e, successivamente, estinta(o) attraverso la sua cancellazione dal registro delle imprese (o analoga formalità) 12. E così come si è escluso che l’inizio dell’impresa societaria (o di altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva) possa essere anticipato al momento della costituzione, parimenti si deve escludere che la fine dell’impresa societaria (o di altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva) possa essere posticipata al momento dell’estinzione 13.

2. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l.fall. (rinvio) Tutto quanto precede presenta, tuttavia, una significativa eccezione con riferimento ad uno degli istituti nei quali si scompone la disciplina dell’impresa: le procedure concorsuali. Infatti, la fine dell’impresa non comporta di per sé il venir meno della possibilità vengono compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere durante l’esercizio dell’impresa, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 2001, 555; BUONOCORE, L’impresa, cit., 170 ss. e la giurisprudenza pressoché unanime: Cass. 9-8-2002, n. 12113, Giust civ, 2002, I, 3077; Cass. 3-11-1989, n. 4599, GIt, 1990, I, 1, 320; Trib. Napoli, 14-11-1997 e 16-12-1998, FNap, 1999, 45 e altri riferimenti in IANNELLI, L’impresa, cit., 76 s. 11 Sottolineano che la fine dell’impresa (individuale) e liquidazione non siano sinonimi e, in particolare, che la prima possa prescindere dalla seconda, JORIO, Gli articoli, 311 ss.; BUONOCORE, Fallimento, 239 ss. e 248 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 555; CAMPOBASSO. In giurisprudenza, rimarcando che la liquidazione è una fase della società, Cass. 8-1-1999, n. 89, GIt, 1999, I, 1, 560; Trib. Roma, 17-2-1992, Fall, 1992, 75; App. Catania, 18-1-1997, GIt, 1997, I, 2, 345. 12 Per questa conclusione, muovendo dal presupposto che la fine dell’impresa debba essere accertata in maniera non diversa nelle imprese individuali e societarie e, in particolare, che la fine dell’impresa e la liquidazione vadano tenute distinte anche nelle imprese societarie, BUONOCORE, Fallimento, 265 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit.,556. 13 Diversamente orientata è invece la dottrina che è dell’avviso che l’inizio dell’impresa societaria debba decorrere dal momento della costituzione e che, simmetricamente, posticipa la fine dell’impresa all’estinzione della società: SANTAGATA, Fallimento, 331 ss.; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve e per gli altri riferimenti v., supra, nt. 3. Finanche più radicale è la posizione della giurisprudenza (avallata dalla Corte Costituzionale: C.Cost. 20-5-1998, n. 180, GComm, 2000, II, 281), per la quale la fine dell’impresa societaria non si avrebbe neanche con l’estinzione della società bensì con l’estinzione di tutti i rapporti: tra le altre, Cass. 9-3-1996, n. 1876, DFall, 1996, II, 191; Trib. Torino, 19-4-1994, Fall, 1994, 1297. Si tratta tuttavia di una soluzione finalizzata essenzialmente a rendere sempre possibile l’apertura delle procedure concorsuali nei confronti delle società (PRESTI-RESCIGNO), che perciò ha perso gran parte della sua attualità, come si vedrà or ora nel testo, alla luce della recente riformulazione dell’art. 10 l.fall.

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di aprire una procedura concorsuale: possibilità che residua ancora per l’anno successivo alla cessazione, a condizione che lo stato di insolvenza sia antecedente alla cessazione dell’iniziativa o si sia verificato nell’anno successivo (art. 10 l.fall.). È di tutta evidenza la ragione di questa prorogatio. In tal modo, si impedisce al titolare dell’impresa di sfuggire alla soluzione concorsuale dell’insolvenza attraverso una cessazione ex abrupto della sua iniziativa e, nel contempo, si consente ai creditori o, eventualmente, al pubblico ministero di chiedere l’apertura della procedura concorsuale anche in questa eventualità 14. Meno evidente è la ragione per cui il termine dell’anno debba decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese e non invece dalla effettiva cessazione dell’attività (art. 10, co. 1, l.fall.). Si può ritenere che uno dei motivi che hanno indotto ad ancorare il dies a quo all’adempimento di tale formalità sia senz’altro quello di semplificare l’accertamento dell’ambito temporale di assoggettabilità dell’impresa alle procedure concorsuali. Infatti, una simile formalità può essere immaginata come una presunzione dell’effettiva cessazione dell’attività 15. In quest’ottica, tuttavia, non è chiaro il motivo per cui la presunzione sia superabile nel solo caso di impresa individuale e di cancellazione d’ufficio di un ente e solo su iniziativa dei creditori o del pubblico ministero (art. 10, co. 2, l.fall.): i quali avranno interesse a dimostrare che al dato formale della cancellazione non ha fatto seguito l’interruzione effettiva dell’iniziativa. Probabilmente, il motivo può ravvisarsi nel tentativo di creare un meccanismo capace di incentivare un corretto adempimento dell’obbligo di pubblicità d’impresa da parte del suo titolare. Peraltro, resta incerto se decorre e, nell’affermativa, da quando decorre il termine dell’anno per le imprese che abbiano omesso di adempiere all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (benché le imprese “non pubblicizzate” dovrebbero essere in prospettiva sempre di meno: v., infra, § 6.II). Al riguardo, si ritiene, da taluno, che l’omessa iscrizione possa essere sostituita dalla conoscenza effettiva da parte dei terzi della cessazione dell’impresa o dalla sua conoscibilità (laddove della cessazione dell’impresa si sia fatta comunque pubblicità con mezzi idonei) 16; da altri, invece, che l’omessa iscrizione precluda il decorso del termine dell’anno (salvo un adempimento tardivo e finalizzato alla cancellazione) 17: conclusione, quest’ultima, che si lascerebbe preferire, ove si condividesse l’idea, 14

Per tutti, PISCITELLO/Dir. fall. - Man. breve. In questi termini, PISCITELLO/Dir. fall. - Man. breve. 16 In questo senso, in dottrina, NIGRO-VATTERMOLI; PISCITELLO/Dir. fall. - Man. breve; in giurisprudenza, in particolare escludendo che le imprese “non pubblicizzate” possano restare esposte alle procedure concorsuali senza limiti di tempo, sul presupposto che ciò contrasterebbe con l’esigenza (rimarcata anche da C.Cost. 21-7-2000, n. 319, GComm, 2001, II, 5 e 7-11-2001, n. 361, GComm, 2002, II, 563) di contemperare gli opposti interessi dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, Cass. 8-11-2013, n. 25217, GComm, 2015, II, 73; Cass. 28-8-2006, n. 18618, DFall, 2008, II, 245; App. Lecce, 26-6-2009, Fall, 2010, 1416; seppur in obiter dictum, App. Torino, 19-2-2008, Fall, 2008, 807; con specifico riferimento ad enti non societari, da ultimo, Cass. 13-7-2011, n. 15428, Fall, 2011, 1407; Trib. Gorizia, 18-112011, ivi, 2012, 722. 17 In questo senso, in dottrina, IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, RSoc, 2008, 943 ss.; ID., Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a cura di Ibba, Torino, 2009, 12 s.; SPERANZIN, Il fallimento della società estinta, in Temi del nuovo diritto fallimentare, a cura di Palmieri, Torino, 2009, 143; PERRINO/Nigro-Sandulli-Santoro, sub Artt. 10-11, 138 s.; CAMPOBASSO; in giurisprudenza, in particolare sottolineando l’inoperatività del principio di effettività per le società di fatto o irregolari e per gli imprenditori individuali (sia iscritti che non iscritti), Trib. Na15

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poc’anzi prospettata, di vedere nella disposizione dell’art. 10 l.fall. un meccanismo capace di incentivare l’adempimento della pubblicità d’impresa: idea che invero sembra tutt’altro che peregrina dopo che la pubblicità d’impresa è stata elevata ad obbligo prodromico rispetto alle altre formalità, anche di carattere fiscale e previdenziale, che precedono l’avvio di un’impresa (art. 9, d.l. 7/2007 c. in l. 40/2007) (v., infra, § 6.II).

poli, 21-4-2010, Fall, 2010, 1418; qualificando la cancellazione dal registro delle imprese presunzione assoluta per il debitore, App. Reggio Calabria, 21-1-2010, ivi, 2010, 1415; con riferimento ad una società, Trib. Milano, 28-5-2004, BBTC, 2006, II, 380.

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§ 5. L’IMPUTAZIONE DELL’IMPRESA SOMMARIO: I. Il criterio di imputazione. – 1. La mancanza di un criterio esplicito di imputazione: la soluzione interpretativa. – 2. L’impresa dell’incapace. – II. I casi problematici di imputazione. – 1. I casi di imputazione incerta. – 2. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista). – 3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto. – 4. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa.

LETTERATURA: ASCARELLI, Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955; ID., Problemi giuridici, II, Milano, 1959; AULETTA, voce Attività, EncD, III, 1959; ID., voce Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale, EncD, VI, 1960, 72; BIGIAVI, Fallimento dei soci sovrani, pluralità di imprenditori occulti, confusione di patrimoni, GIt, 1954, I, 2, 691; ID., L’imprenditore occulto, Padova, 1954; ID., L’imprenditore occulto nella società di capitali e il suo fallimento “in estensione”, GIt, 1959, I, 2, 149; ID., Responsabilità illimitata del socio tiranno, FIt, 1960, I, 1180; ID., Difesa dell’“imprenditore occulto”, Padova, 1962; ID., “Imprese” di finanziamento come surrogati del “socio tiranno” - imprenditore occulto (studio giurisprudenziale), in Studi in memoria di Graziani, I, Napoli, 1967, 79; BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969); COLUSSI, Capacità e impresa, I, L’impresa individuale, Padova, 1974; FARINA, L’acquisto della qualità di imprenditore, Padova, 1985; GALGANO, voce Imprenditore occulto e società occulta, EncGiur, XVI, 1989; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PAVONE LA ROSA, La teoria dell’“imprenditore occulto” nell’opera di Walter Bigiavi, RDCiv, 1967, I, 623; SPADA, voce Impresa, D4, sez comm, VII, 1992.

Rimane ancora da vedere a chi si imputa l’impresa, cioè chi è il referente soggettivo dell’impresa, vale a dire il soggetto tenuto ad adempiere ai diversi obblighi comportamentali in cui la disciplina dell’impresa si scompone, con l’obiettivo di assicurare che l’iniziativa imprenditoriale si produca secondo il paradigma comportamentale giudicato capace di assicurare il più adeguato contemperamento tra i diversi interessi sollecitati. Altrimenti detto, si tratta di comprendere chi è l’imprenditore in senso giuridico. Comprendere chi sia l’imprenditore in senso giuridico postula, preliminarmente, appurare quale sia il criterio di imputazione di un fenomeno che nella legge è descritto in termini di attività, cioè il criterio che consenta di attribuire ad una sfera giuridica soggettiva un’attività oggettivamente considerata, quale è l’impresa. Questione, quest’ultima, che si presenta affatto problematica, dato che nell’ordinamento italiano manca, quanto meno in forma esplicita, un siffatto criterio di imputazione, che allora dev’essere ricavato, o esplicitato, in via interpretativa.

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I. Il criterio di imputazione 1. La mancanza di un criterio esplicito di imputazione: la soluzione interpretativa L’impresa necessita di essere ricondotta ad una sfera giuridica soggettiva. Ciò in quanto la relativa disciplina, ossia l’insieme degli obblighi comportamentali ai quali deve informarsi il concreto svolgimento del fenomeno, deve avere un referente soggettivo, cioè un soggetto sul quale essi gravino. Tale soggetto è colui al quale si imputa l’impresa, vale a dire l’imprenditore in senso giuridico 1. L’individuazione del soggetto al quale si imputa l’impresa è tuttavia, come si è detto, una questione affatto problematica. Al riguardo, giova ricordare che i principali orientamenti che si contendono il campo sono due: da un lato, c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio formale o della spendita del nome nello svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditore colui che svolge l’impresa a suo nome; dall’altro, c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio sostanziale o dell’interesse perseguito nello svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditore colui nel cui interesse l’impresa è svolta. In quest’ottica, è evidente che la questione relativa all’imputazione appare risolta senza particolare contrasto di opinioni allorché l’impresa venga svolta in nome e per conto di uno stesso soggetto, cioè quando l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito convergono sulla stessa sfera soggettiva, concludendo che l’impresa si imputa a tale soggetto che è, quindi, l’imprenditore 2. Ad es., se una persona fisica svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non v’è dubbio che essa sia l’imprenditore; se una società o un ente pubblico svolgono l’impresa a proprio nome e nel proprio interesse non v’è dubbio che siano essi stessi l’imprenditore; e così via. Peraltro, una siffatta conclusione prescinde dalla circostanza che il soggetto con riferimento al quale si riscontra la ricorrenza dell’elemento formale e dell’elemento sostanziale eserciti materialmente l’impresa 3. Ed invero, l’imprenditore può affidare l’esercizio dell’impresa ad uno o più altri soggetti (i quali eseguono tale incarico in nome e per conto del primo). Ipotesi, quest’ultima, non certo infrequente specie nelle imprese non piccole, dove l’esercizio concreto dell’iniziativa è affidato all’organizzazione e, in particolare, alla componente personale dell’apparato organizzativo dell’impresa: vale a dire, ai collaboratori d’impresa. Talvolta, l’imprenditore è addirittura obbligato ad affidare l’esercizio dell’impresa ad un altro o più altri soggetti (i quali eseguono sempre tale incarico in nome e per conto del primo). Ipotesi, quest’ultima, che si concretizza allorché l’imprenditore non

1 Il termine imprenditore è usato in questa accezione da SPADA, Note sull’argomentazione giuridica in tema di impresa, Giustciv, 1980, I, 2270 s.; ID., L’incognita “impresa” dal codice allo statuto, nel libro di Pier Giusto Jaeger, GComm, 1985, I, 751 s.; ID., voce Impresa, 73 s. 2 In questi termini, molto chiaramente, SPADA. 3 Sul punto, ancora, SPADA. Più in generale, RIVOLTA, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, 44 ss.; BUONOCORE, L’impresa, Tr. Buonocore, I/2.I, 2002, 206 ss.

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abbia capacità di agire e, quindi, non possa compiere in prima persona i diversi atti di disposizione del patrimonio tipicamente connaturati all’esercizio di un’impresa. Pertanto, se un soggetto non ha la capacità di agire, vuoi perché non l’ha ancora acquisita (il minore) vuoi perché non la può acquisire o l’ha persa in tutto (l’interdetto) o in parte (l’inabilitato), deve necessariamente affidare l’esercizio dell’impresa al suo sostituto legale: vale a dire al tutore o al curatore, per poi eventualmente riassumere l’esercizio una volta che abbia (ri)conseguito tale capacità.

2. L’impresa dell’incapace L’impresa dell’incapace è assoggettata ad una particolare disciplina, che risente della disciplina più generale riguardante la cura dei suoi interessi patrimoniali 4. In linea di massima, l’incapace non può da solo curare i propri interessi patrimoniali ma deve farsi coadiuvare dal rappresentate legale. In via generale, è noto che l’incapace totale (minore o interdetto) non può né gestire il patrimonio né compiere atti di disposizione. La gestione, che si sostanzia nel compimento di atti di ordinaria amministrazione, è affidata interamente al tutore mentre il compimento degli atti di disposizione, che si sostanziano nel compimento di atti di straordinaria amministrazione, può essere posta in essere dal tutore, previa autorizzazione del giudice tutelare, il quale deve accertare, per ogni singolo atto da autorizzare, la necessità o l’evidente utilità per il sostituito (art. 320, co. 3). L’incapace parziale (inabilitato) può invece limitarsi a gestire il patrimonio (cioè, fare l’amministrazione ordinaria) (art. 394, co. 1) mentre deve richiedere al giudice tutelare (art. 394, co. 3) o al tribunale (comb. disp. artt. 394, co. 3 e 375), che rilasciano, previo consenso del curatore, l’autorizzazione per gli atti di disposizione del patrimonio (cioè gli atti di amministrazione straordinaria). Appare perciò evidente che la gestione del patrimonio dell’incapace è, in generale, una gestione essenzialmente di stampo conservativo, che mira al mantenimento dell’integrità del patrimonio e relega il compimento di atti di disposizione dello stesso a ipotesi marginali e del tutto eventuali, previa valutazione dell’opportunità rispetto all’interesse dell’incapace medesimo al compimento del singolo atto (c.d. sistema di autorizzazione atto per atto). Pertanto, una gestione improntata a questi principi risulta sostanzialmente incompatibile con la presenza di un’impresa commerciale, la quale, quanto meno tipicamente, non si presta ad una gestione di tipo conservativo (non foss’altro per via del fisiologico susseguirsi di atti di disposizione del patrimonio che essa richiede). Si comprende allora la ragione per cui la disciplina della cura degli interessi patrimoniali dell’incapace sia caratterizzata da un generale divieto di iniziare un’attività di impresa e contempli solo la possibilità di continuare un’impresa eventualmente sopravvenuta, tipicamente in seguito all’acquisizione di un’azienda per successione o per donazione (ovvero quando l’impresa preesista ad uno stato di capacità sopravvenuta): nel qual caso, infatti, rischierebbe di essere troppo lesivo degli interessi dell’incapace imporre che l’impresa, pur postulando una gestione non conservativa, debba cessare o debba essere ceduta (attraverso la cessione dell’azienda) 5.

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Al riguardo, in termini generali, AULETTA, voce Capacità, 72 ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 31 ss.; CAPOZZI, Incapaci e impresa, Milano, 1992, 23 ss.; CORSI, Il concetto di amministrazione nel diritto privato, Milano, 1974, 164 ss. 5 Sulla ratio del divieto di iniziare e dell’autorizzazione a continuare l’impresa, v., anche per altri ri-

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Tuttavia, la continuazione dell’impresa dev’essere autorizzata dal tribunale su parere del giudice tutelare (art. 320, co. 5), alla condizione che sia evidentemente utile per l’interesse dell’incapace il mantenimento o la prosecuzione della stessa (si pensi al caso di un’impresa che versa in condizioni floride sul piano economico-patrimoniale e al beneficio che in prospettiva ne potrebbe trarre un minore che ha conseguito per successione o per donazione la relativa azienda) 6. Se la continuazione è autorizzata, nel caso di incapacità totale, l’impresa viene gestita dal tutore, il quale può compiere tutti gli atti che rientrano nella relativa gestione, senza distinzione fra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione (il tutore dovrà farsi autorizzare solo per compiere qualcosa che esula dalla normale gestione dell’impresa, come, ad es., l’alienazione dell’azienda o la cessazione o il cambiamento dell’oggetto dell’attività) 7; nel caso di incapacità parziale, l’impresa può essere affidata allo stesso incapace, seppur con l’assistenza del curatore, eventualmente coadiuvato da un institore nominato in sede di rilascio dell’autorizzazione (art. 425) 8.

II. I casi problematici di imputazione 1. I casi di imputazione incerta La questione relativa all’imputazione dell’impresa si profila invece in tutta la sua problematicità, allorché l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito si riscontrano in capo a soggetti diversi, tipicamente nell’ipotesi – non l’unica ma senz’altro la più ricorrente nella pratica – in cui un soggetto (Tizio) esercita l’impresa a suo nome per perseguire l’interesse di un altro soggetto (Caio). In quest’eventualità, è controverso se ai fini dell’imputazione dell’impresa si debba considerare l’elemento formale o, viceversa, l’elemento sostanziale e, quindi, nel

ferimenti, PORZIO, L’impresa commerciale del minore, RDCiv, 1962, I, 373 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974, 246 ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 66 ss.; CORSI, Il concetto di amministrazione, cit., 164 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 2001, 545 s.; CAMPOBASSO; GALGANO. 6 Sulla valutazione del tribunale in punto di autorizzazione, gli AA. citati alla nt. precedente. 7 In questo senso, PORZIO, L’impresa commerciale del minore, cit., 388; CORSI, Il concetto di amministrazione, 168; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit.,346; CAMPOBASSO, I; Cass. 5-6-2007, n. 13154, Giust it, 2008, 52. Nel senso invece che resterebbe l’autorizzazione atto per atto per tutto quanto eccede l’amministrazione ordinaria, COLUSSI, Capacità e impresa, 94 ss. E v., anche, RAGUSA MAGGIORE, Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale e fallimento, DFall, 1980, I, 98 ss. 8 Tuttavia, è controverso fino a che punto debba spingersi l’assistenza del curatore e, in particolare, se debba compiere congiuntamente con l’incapace tutti gli atti di impresa (in questo senso, ad es., CASANOVA, Impresa e azienda, cit., 253 s.; CAPOZZI, Incapaci e impresa, cit., 199 ss.) o se debba limitarsi a dare il consenso per i soli atti d’impresa che eccedono l’ordinaria amministrazione (in questo senso, ad es., COLUSSI, Capacità e impresa, 197 ss.) o per i soli atti di straordinaria amministrazione che esulano dall’esercizio dell’impresa ai fini dell’autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale (in questo senso, per esempio, BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960, 306 ss.; GALGANO). Peraltro, è controverso il rapporto tra incapace e l’eventuale institore e, in particolare, se il rapporto tra le due figure sia complementare (in questo senso, ad es., BELVISO, L’institore, I, Napoli, 1966, 40 ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 199 ss.) o alternativo (in questo senso, ad es., CASANOVA, Impresa e azienda, cit., 255 s.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 549).

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caso prospettato testé, se la qualifica di imprenditore venga acquisita dal primo (Tizio) o dal secondo (Caio) soggetto.

2. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista) L’orientamento quanto meno sino a ieri e forse ancora oggi prevalente è dell’avviso che l’elemento decisivo ai fini dell’imputazione dell’impresa debba individuarsi nella spendita del nome, ritenendo che l’impresa si imputa al soggetto il cui nome viene speso nello svolgimento della stessa 9. Una tale conclusione riposa sull’assunto che, a fronte della mancanza nell’ordinamento di un criterio di imputazione dell’attività, si possa porre rimedio attraverso il ricorso al criterio previsto dall’ordinamento per l’imputazione degli atti giuridici, posto che l’attività è in fin dei conti un insieme di atti giuridici, seppur teleologicamente orientati al raggiungimento di uno scopo (o risultato programmato). Pertanto, poiché quest’ultimo criterio è rappresentato dalla spendita del nome, risultando invece irrilevante l’interesse perseguito (cfr. art. 1705, co. 1), allora – se ne deduce – secondo tale criterio dovranno imputarsi anche gli atti che costituiscono l’attività e, quindi, in definitiva, dovrà imputarsi l’attività medesima (dunque, l’impresa) 10. Una tale conclusione ha sicuramente il pregio della semplicità e della immediatezza nell’individuazione dell’imprenditore. Tuttavia, la conclusione che l’impresa si imputi secondo il criterio formale si espone ad una serie di rilievi critici. Anzitutto, non può non destare perplessità il postulato dal quale prende le mosse la suddetta opinione, cioè l’assunto che l’attività è costituita da un insieme di atti giuridici, che equivale un po’ a dire che la casa è formata da un insieme di mattoni. Infatti, si è avuto già modo di precisare (v., supra, § 1.II.1) che nel diritto commerciale non rilevano i singoli comportamenti da cui l’attività è costituita, pur potendo essi rilevare nell’ambito di altre branche dell’ordinamento (ad es., nel diritto privato; nel diritto del lavoro; ecc.), ma rileva l’attività come fenomeno unitario nel suo insieme e, in particolare, rileva, per quello che qui interessa, il fenomeno imprenditoriale. In secondo luogo, desta perplessità anche l’idea di fondo che è alla base della relativa ricostruzione, cioè che la sistemazione degli interessi in gioco (in particolare, quelli dei creditori dei due soggetti: chi spende il nome e colui per conto del quale l’attività è svolta) debba avvenire secondo il principio dell’affidamento. Sicché, i creditori del soggetto che svolge l’impresa a proprio nome potrebbero essere garantiti dal solo patrimonio sul quale hanno fatto affidamento e non da altri, così come i creditori del soggetto nel cui interesse è

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Per questa conclusione, in luogo di molti, ASCARELLI, Problemi giuridici, 433 ss., 461 ss., 476 ss. e 512 ss.; ID., Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 232 ss.; BRACCO, L’impresa, cit., 198 ss. e 207; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 49 s. e 164 ss.; RIVOLTA, L’esercizio, cit., 234 ss.; ID., Gli atti d’impresa, Le ragioni del diritto, in Studi in onore di Mengoni, II, Diritto del lavoro - Diritto commerciale, Milano, 1995, 1646 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, cit., 46 ss. e 54 ss.; OPPO, Scritti, I, 257 ss. e 289 ss.; CAMPOBASSO; FERRARA-CORSI; LIBONATI; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve; PRESTI-RESCIGNO. 10 È questa l’argomentazione tipicamente addotta a sostegno della conclusione di cui nel testo dagli AA. citati alla nt. precedente.

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svolta l’impresa non condividerebbero la garanzia patrimoniale del loro debitore con altri. Una simile sistemazione degli interessi presuppone peraltro che l’ordinamento tuteli il credito alla produzione con la stessa intensità del credito al consumo: il che però costituisce un assioma tutt’altro che incontestabile.

D’altra parte, non può essere trascurato che la conclusione più sopra riferita rende agevoli alcune forme di abuso. Si supponga che il soggetto che svolge l’impresa a proprio nome sia un nullatenente, che non ha, cioè, niente o molto da perdere nel caso in cui l’iniziativa non vada a buon fine, e si presti allora a fungere da prestanome nello svolgimento di un’impresa per conto di un altro soggetto, il quale invece ha interesse a non esporre il suo patrimonio al rischio di impresa. In quest’eventualità (non certo infrequente nella pratica), è evidente che, se l’iniziativa non va effettivamente a buon fine, il peso economico dell’insolvenza è destinato a gravare pressoché integralmente su coloro che hanno finanziato l’iniziativa a titolo di credito. Da un lato, il patrimonio del prestanome non contiene sostanze patrimoniali sufficienti per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, sicché l’azione esecutiva promossa dai creditori (e, successivamente, in loro vece, dalla procedura concorsuale di fallimento) è destinata a restare fine a se stessa. Dall’altro, il patrimonio del dominus non può essere aggredito dai creditori del prestanome (e, successivamente, in loro vece, dal fallimento del prestanome), a meno che tali creditori (che sono poi i creditori d’impresa) vantino nei confronti del dominus una qualche forma di garanzia diretta nei suoi confronti. Deve tuttavia escludersi realisticamente che gran parte di essi (perlopiù coincidenti con i piccoli fornitori e i lavoratori) sia stata in grado di farsi rilasciare dal dominus una garanzia a tutela del credito. La qual cosa può immaginarsi semmai solo con riferimento ai creditori caratterizzati da una forza significativa sul piano della contrattazione (perlopiù coincidenti con i grandi fornitori e le banche). Peraltro, questi creditori, nel momento in cui vanno ad escutere la garanzia, devono sperare comunque di trovare il patrimonio del dominus ancora capiente. In caso contrario, essi devono cercare di ricostruire lo stesso attraverso i blandi mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale previsti dal diritto comune (artt. 2900 ss.). A questo stato di cose la giurisprudenza cerca di porre rimedio attraverso la figura dell’impresa fiancheggiatrice. Infatti, è orientamento diffuso quello secondo cui il dominus dell’iniziativa in questione possa acquisire a sua volta la qualifica di imprenditore e, quindi, essere assoggettato alla disciplina dell’impresa, se si accerta che tale soggetto ha posto in essere un comportamento, nei rapporti intercorsi con il prestanome, che in sé considerato possa qualificarsi come impresa: un’impresa che allora fiancheggia l’iniziativa svolta dal prestanome (da qui, impresa fiancheggiatrice). Giova osservare che nei casi come quello prefigurato poc’anzi il dominus da dietro le quinte normalmente dirige e coordina e, per certi versi, finanzia il prestanome. In particolare, gli impartisce istruzioni sul contegno da tenere nello svolgimento dell’iniziativa, gli mette a disposizione capitali, sia in forma di mezzi finanziari da utilizzare nell’iniziativa sia in forma di garanzie rilasciate a favore di qualche creditore (per crediti di fornitura o per finanziamenti). Ebbene, l’orientamento giurisprudenziale in esame ritiene che questa azione di dire-

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zione (specie se si traduca nel coordinamento delle attività di più prestanomi) produca di per sé una utilità economica, distinta da quella prodotta dalle attività fiancheggiate, e costituisca perciò essa stessa, quando in concreto risulti triplicemente qualificata dai requisiti della professionalità, organizzazione ed economicità, una impresa (impresa a sé stante, dunque, diversa da quelle fiancheggiate anche per l’utilità prodotta); anche al dominus andrebbe allora riconosciuta la qualifica di imprenditore, con il conseguente suo assoggettamento alla disciplina dell’impresa, ivi compresa l’esposizione alle procedure concorsuali 11. Peraltro, è agevole constatare che una siffatta ricostruzione appronta un rimedio solo parziale al problema più sopra rilevato. Infatti, anche il fallimento del dominus consente soltanto ai (pochi) creditori che da lui avevano ottenuto una garanzia di beneficiare di una tutela più marcata: ciò in quanto essi possono contare su un patrimonio ricostruito per il tramite dei meccanismi propri della procedura concorsuale e, in particolare, delle azioni revocatorie fallimentari (artt. 64 ss. l.fall.), normalmente più efficaci dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale previsti dal diritto comune (artt. 2900 ss.). Invece, il suo fallimento è del tutto irrilevante per gli altri (molti) creditori che non hanno alcun titolo per potersi insinuare nel suo patrimonio personale 12. Senza trascurare che non è sempre agevole dimostrare che il comportamento posto in essere dal dominus possa essere qualificato alla stregua di un’impresa, tanto che frequentemente si perviene a risultati affatto contrastanti. In particolare, non è raro che per alcuni giudici un certo comportamento venga qualificato alla stregua di un’impresa mentre per altri quel medesimo comportamento non si presti ad essere apprezzato negli stessi termini 13. Sintomatico, a tale proposito, è il famoso caso Caltagirone. Tre fratelli avevano dato vita ad un’impresa operante nel settore immobiliare che avevano articolato su ben 158 società di capitali. I tre avevano tenuto una condotta che si sostanziava nell’esercitare la direzione e coordinamento di tali società nonché nel provvedere alle relative esigenze finanziarie: in particolare, i tre richiedevano i finanziamenti al mondo bancario che facevano confluire in casse comuni e che poi intermediavano alle diverse società, a seconda delle specifiche esigenze dell’una o dell’altra. Sennonché, l’iniziativa è entrata in crisi ed ha provocato lo stato di insolvenza in tutte le società del gruppo, le quali sono state tutte dichiarate fallite. Ebbene, i giudici di prime cure, come anche i giudici di appello, hanno ritenuto che il comportamento posto in essere dai tre fosse qualificabile alla stregua di un’impresa e, dopo aver accertato il loro personale stato di insolvenza, hanno dichiarato il fallimento degli stessi. Successivamente, la Corte di Cassazione si è dimostrata di avviso opposto, revocando di conseguenza la procedura concorsuale dei tre fratelli 14. 11

Per questa conclusione, sul presupposto di non potersi affrancare dal criterio formale di imputazione dell’impresa, Cass. 13-3-2003, n. 3724, Giust civ, 2003, I, 1198; Cass. 9-8-2002, n. 12113, Soc, 2003, 27; App. Bologna, 23-5-2007, Soc, 2008, 316; Trib. Napoli, 8-1-2007 e Trib. Vicenza, 23-11-2006, Fall, 2007, 407. 12 Il punto è molto ben sottolineato da SPADA. Tuttavia, nel senso che anche questi altri creditori potrebbero (almeno indirettamente) beneficiare del rimedio dell’impresa fiancheggiatrice, sul presupposto che il prestanome (e, successivamente, in sua vece, il relativo fallimento), potrebbe esercitare nei confronti del dominus (e, quindi, insinuarsi al passivo del relativo fallimento) un’actio mandati contraria (art. 1720), finalizzata a recuperare le spese sostenute nell’esercizio dell’impresa a quest’ultimo sostanzialmente riconducibile, CAMPOBASSO. 13 E v., nell’ambito di una stessa vicenda (caso Caltagirone), Trib. Roma, 3-7-1982, DFall, II, 1610, che ha ritenuto che un certo comportamento fosse qualificabile come impresa e Cass. 26-2-1990, n. 1439, GComm, 1990, II, 366, che ha invece escluso che la medesima condotta integrasse i requisiti dell’art. 2082 c.c. 14 Per una più analitica descrizione della vicenda e per una sintesi del dibattito sorto attorno alla (teo-

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3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto Proprio in ragione delle accennate perplessità e del segnalato pericolo di inadeguata sistemazione degli interessi in gioco, non manca chi si affranca dalla ricostruzione esposta più sopra e propende per l’idea che l’impresa debba imputarsi secondo un criterio che si riferisca al fenomeno in quanto tale e non alle singole frazioni in cui lo stesso si scompone 15. Nel solco di questa corrente di pensiero, sono state proposte diverse ricostruzioni, tutte volte a dimostrare che l’impresa si deve imputare a prescindere dall’imputazione dei singoli atti giuridici e, quindi, dal nome speso nello svolgimento della stessa. Tra queste, quella senz’altro più importante è la teoria dell’imprenditore occulto, elaborata e strenuamente difesa a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo appena trascorso da Walter Bigiavi 16. Essa (peraltro, non diversamente dalle altre teorie che si collocano nella medesima corrente di pensiero) muove da un presupposto di fondo: dall’assunto, cioè, che nell’ordinamento vi sia una inscindibile relazione biunivoca tra potere e rischio, tanto che chi ha la direzione di un’iniziativa economica e, nello specifico, imprenditoriale, non può sottrarsi alle relative conseguenze sul piano patrimoniale e non essere quindi responsabile delle obbligazioni che sorgono durante il suo svolgimento 17. Più d’uno sarebbero i dati normativi dai quali emergerebbe tale relazione potererischio. Un primo sarebbe rappresentato dall’art. 2208. Questo articolo sancisce la responsabilità patrimoniale dell’imprenditore per tutti gli atti pertinenti all’esercizio della sua impresa, a prescindere dalla circostanza che per il compimento degli stessi si sia speso il suo nome o il nome del collaboratore preposto che li ha posti in essere in concreto: vale a dire, l’institore (v., infra, § 8.II). Un’altra serie di dati normativi si troverebbe nella disciplina delle società di persone

ria della) impresa fiancheggiatrice, RONDINONE, Esercizio della direzione unitaria ed acquisto della qualità di imprenditore commerciale, GComm, 1990, II, 397 ss. e 415 ss.; ID., Tecniche di coinvolgimento di domini e holders nel fallimento delle imprese eterodirette e “superamento” della spendita del nome, RSoc, 2015, 1078 ss. 15 Per questa impostazione, molto chiaramente, FARINA, L’acquisto, 53 ss., 126 ss. e 162 ss. 16 BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 18 ss.; ID., Responsabilità illimitata, 1180 ss.; ID., L’imprenditore occulto nella società di capitali, 149 ss.; ID., Difesa dell’“imprenditore occulto”, 46 ss.; ID., “Imprese” di finanziamento, 79 ss. 17 V., in particolare, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 30 s. e 50 ss.; ID., Ingerenza dell’accomandante, accomandante occulto, accomandita occulta, RDCiv, 1959, II, 146 ss. e 159 ss.; ID., Difesa dell’“imprenditore occulto”, 71 ss. e 119 ss. La relazione tra potere e rischio è sottolineata anche da chi ha nel tempo ripreso e ulteriormente sviluppato la teoria dell’imprenditore occulto, tra i quali, anzitutto, PAVONE LA ROSA, La teoria, 632 ss. e 652 ss.; BUONOCORE, Fallimento, 65 ss. e 112 ss.; ID., voce Imprenditore (dir. priv.), EncD, XX, 525 s.; COTTINO; pur senza accoglierla pienamente, GALGANO; ID., L’imputazione dell’attività di impresa, Tr. Galgano, II, 1978, 110 ss.; ID., voce Imprenditore occulto e società occulta, 3 s. A prescindere dalla teoria dell’imprenditore occulto, l’inscindibilità tra potere e rischio è sottolineata, tra gli altri, da FERRI; FARINA, L’acquisto, 131 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972, 33 s., 43 ss. e 141 ss.; ma già, MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Roma-Milano-Napoli, 1942, 202 ss.

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(cfr., ad es., artt. 2267, co. 1, 2291, 2320, 2318, 2317, co. 2). In particolare, si ritiene che da essi emerga inequivocabilmente che i soci di una società di persone sono investiti della carica di amministratore, in quanto personalmente e illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, e che invece i soci privi di poteri di amministrazione sono anche privi della responsabilità personale e illimitata.

Pertanto, assumendo come dato di partenza detta relazione, viene dedotto che il dominus di un’iniziativa imprenditoriale debba essere senz’altro responsabile per le obbligazioni sorte nel corso dello svolgimento di un’impresa per suo conto da parte di un prestanome (quanto meno in solido con quest’ultimo) 18. Sulla base di questa conclusione la teoria dell’imprenditore occulto cerca di dimostrare che un dominus, non solo è responsabile per le obbligazioni predette, ma acquista anche la qualifica di imprenditore: di conseguenza, è assoggettato alla disciplina dell’impresa e, soprattutto, in caso di insolvenza, alle procedure concorsuali. Questo ulteriore decisivo passaggio avrebbe trovato riscontro normativo nell’art. 147 l.fall., versione originaria: dal quale, appunto, sarebbe stato possibile cogliere il principio generale secondo cui l’impresa si imputa a prescindere dal nome speso nello svolgimento della stessa ma in funzione dell’interesse perseguito. In particolare, l’art. 147 l.fall., v.o. si riferiva (e si riferisce tuttora) al caso del fallimento di una società con soci illimitatamente responsabili e stabiliva (come pure oggi), in conseguenza del fallimento della società, come la responsabilità personale e illimitata dei soci debba trovare attuazione nell’ambito della procedura concorsuale: segnatamente, disponeva e dispone che tale responsabilità trovi attuazione attraverso il fallimento in estensione dei soci personalmente e illimitatamente responsabili, cioè con il fallimento personale in proprio di questi ultimi soggetti 19. Una simile regola veniva (e viene) poi specificata con riferimento all’ipotesi in cui la società abbia nella sua compagine sociale un socio occulto, stabilendo che se, dopo il fallimento della società, si accerta, attraverso opportuni indizi (ad es., sistematica ingerenza della gestione della società; operazioni di finanziamento a favore della società; ecc.), l’esistenza di un ulteriore socio (e, quindi, che il rapporto sociale si estende al di là della cerchia dei soci palesi), allora il fallimento della società dev’essere dichiarato anche nei confronti di quest’ultimo (art. 147, co. 4). In altre parole, il fallimento della società (palese) viene esteso anche nei confronti di un eventuale socio occulto, che così viene equiparato sul piano normativo ai soci palesi. Ebbene, la teoria dell’imprenditore occulto prende spunto da questa disposizione per dimostrare l’irrilevanza del criterio della spendita del nome, ai fini dell’imputazione dell’impresa. In particolare, si afferma che il trattamento normativo riservato dall’art. 147 alla società palese con socio occulto non possa non essere replicato anche alla società occulta, cioè ad una società i cui soci tranne uno sono occulti e, di conseguenza, con essi resta occulto anche lo stesso rapporto sociale. La conclusione riposa sull’assunto che la società palese con socio occulto si distingua dalla società occulta solo in ragione di un elemento quantitativo,

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Per questa conclusione, pur con argomentazioni non coincidenti, già, MOSSA, L’impresa corporativa, cit., 190 s.; più di recente, FERRI; e, soprattutto, sottolineando che la responsabilità del dominus attiene al saldo della gestione e non ai singoli atti in cui la gestione si articola, FARINA, L’acquisto, 86 ss. e 98 ss. 19 Sul fallimento in estensione, quale meccanismo cui tradizionalmente nel diritto italiano è affidata l’attivazione della responsabilità personale e illimitata dei soci di una società fallita, NIGRO, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974, 517 ss. e 529 ss.

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vale a dire del numero dei soci che costituiscono le rispettive compagini sociali: nel senso che, nel primo caso (società palese), la società è costituita da tre soci, di cui due palesi (e con essi è palese anche la società) ed uno occulto; nel secondo caso (società occulta), la società è invece costituita da due soci, di cui uno palese (che allora esercita l’impresa a suo nome e appare come un imprenditore individuale) e un altro occulto (e con esso resta occulta anche la società). Di conseguenza, sarebbe inammissibile un diverso trattamento normativo delle due realtà societarie esclusivamente per ragioni di questo tipo: in ragione del numero dei soci che costituisce la compagine sociale 20. Pertanto, se da quanto precede discende che la società occulta assume la qualifica di imprenditore con conseguente assoggettamento alla disciplina dell’impresa (ivi comprese le procedure concorsuali), è evidente – si sostiene – che risulta normativamente confermato l’assunto iniziale: ossia, che l’imputazione dell’impresa prescinde dalla spendita del nome ed è piuttosto legata all’interesse perseguito 21.

4. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa La conclusione cui perviene la teoria dell’imprenditore occulto appare sorretta da un percorso argomentativo che non resta immune da critiche e, non a caso, essa ha avuto nel corso del tempo un’accoglienza tutt’altro che lusinghiera nella giurisprudenza teorica e pratica 22. Nondimeno, non può essere ormai trascurato che tale conclusione è stata parzialmente sugellata dal dato normativo e, in particolare, dagli artt. 24, co. 1, d.lgs. 270/1999 e, soprattutto, 147, co. 5, l.fall. 23. Entrambe queste disposizioni si riferiscono all’ipotesi di un’impresa individuale per la quale sia stato accertato giudizialmente lo stato di insolvenza: nel primo caso, quale accertamento prodromico all’apertura dell’amministrazione straordinaria delle 20

In questi termini, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 12 ss.; ID., Difesa dell’“imprenditore occulto”, 42 ss. In questi termini, ancora, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 18 ss.; ID., Difesa dell’“imprenditore occulto”, 48 ss. 22 In particolare, la dottrina, oltre a contestare il postulato da cui muove la teoria dell’imprenditore occulto (cioè, la relazione tra potere e rischio), ravvisa, quale principale punto debole dell’argomentazione che la sorregge, l’assunto secondo cui tra società palese con soci occulti e società occulta vi sia soltanto una differenza quantitativa nel numero di soci che costituiscono la compagine sociale (esemplarmente, tre soci nella prima e solo due nella seconda), con il che trascurando la profonda differenza qualitativa (e gli inevitabili corollari che ne discendono in punto di imputazione dell’impresa) che deriva dal fatto che nella prima resta occulta solo la partecipazione sociale mentre nella seconda resta occulto tutto il rapporto sociale (ASCARELLI, Problemi giuridici, 435 s., 458 ss., 479 ss.; ID., Corso, cit., 234 s.; MINERVINI, L’imprenditore, cit., 161 s.; RIVOLTA, Gli atti d’impresa, cit., 1654 s.; CASANOVA, Impresa e azienda, cit., 48 s.; CAMPOBASSO; LIBONATI; NOTARI/Dir. impr. - Man. breve). Invece, la giurisprudenza si è spinta non di rado fino al punto di riconoscere alla società occulta la qualifica di imprenditore (tra le altre, Cass. 26-3-1997, n. 2700, Fall, 1997, 1009; Cass. 30-1-1995, n. 1006, Fall, 1995, 919; Cass. 15-3-1995, n. 2981, GIt, 1996, I, 1, 78) mentre è stata univoca nel rifiutare il passaggio successivo verso il riconoscimento della medesima qualifica al dominus persona fisica (tra le altre, Cass. 19-2-1999, n. 1396, Fall, 1999, 1342 e, per altri riferimenti, IANNELLI, L’impresa, Giur. Sist. Bigiavi, 1987, 105 ss.): posizione, quella giurisprudenziale, che sembra trovare riscontro anche in dottrina, GALGANO, L’imputazione, cit., 115; ID., voce Imprenditore occulto e società occulta, 4. Per un quadro di sintesi, v., da ultimo, RONDINONE, Tecniche, cit., 1060 ss. 23 Il punto è sottolineato da BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 575 s.; RONDINONE, Tecniche, cit., 1067 ss. 21

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SEZ. I – La fattispecie “impresa”

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grandi imprese in stato di insolvenza (artt. 27 ss., d.lgs. 270/1999); nel secondo caso, quale condicio sine qua non per la dichiarazione di fallimento (art. 5, co. 1, l.fall.). In entrambe le norme si dispone che, se dopo la dichiarazione di insolvenza (e, quindi, di fallimento) emerge, attraverso opportuni indizi, che l’imprenditore dichiarato insolvente (e, eventualmente, fallito) sia in realtà legato ad un altro soggetto da un rapporto di società, in cui tanto il primo quanto il secondo sono soci illimitatamente responsabili, allora gli effetti della dichiarazione di insolvenza (e, quindi, eventualmente, il fallimento) devono estendersi anche nei confronti del soggetto successivamente scoperto. In altre parole, le disposizioni richiamate contemplano l’ipotesi in cui un’impresa all’apparenza individuale venga esercitata per conto di una società occulta. Non sembra dunque più revocabile in dubbio che un’impresa esercitata per conto di una società occulta debba imputarsi proprio ad essa, restando irrilevante il fatto che l’attività fosse stata svolta senza spenderne il nome. A questo punto, non sembra più neanche azzardato verificare se, in base agli stessi dati normativi, sia possibile generalizzare la conclusione anche con riferimento a casi in cui un’impresa sia esercitata per conto di un soggetto diverso da una società, parimenti rimasto occulto 24. Il che è quanto dire che bisogna accertare se tali dati normativi debbano considerarsi come norme eccezionali (e, quindi, applicabili solo alla fattispecie contemplata) o possano invece essere intesi come norme che esprimono un principio più generale (e, quindi, estensibili in via interpretativa ad altri analoghi contesti) 25. La questione è tutt’altro che agevole e non può essere compiutamente affrontata e risolta in questa sede. Sembra tuttavia opportuno a chi scrive condividere con il lettore la preferenza per la seconda alternativa, dunque per l’idea secondo cui si può ravvisare nelle norme in questione un criterio di imputazione dell’impresa di portata più generale. Ed invero, sostenere il contrario, sostenere, cioè, che l’imputazione dell’impresa prescinda dal nome speso e si leghi all’interesse perseguito solo quando tale interesse è di una società, equivarrebbe a sostenere che la sistemazione degli interessi sollecitati dall’impresa debba essere diversa a seconda che il soggetto che ha speso il nome abbia perseguito anche un interesse altrui (quello del socio occulto) o solo un interesse altrui (quello del dominus); in altre parole, a seconda del tipo di rapporto che lega il primo al secondo soggetto: se un contratto di società o un contratto di interposizione; insomma, a seconda di quanto hanno convenuto tra di loro il primo e il secondo soggetto. Conclusione che sembra francamente inaccettabile nell’ambito di un sistema

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Ed invero, come si è già ricordato (v., supra, nt. precedente), una delle critiche alla teoria dell’imprenditore occulto insisteva proprio sul tentativo di equiparare la società palese con soci occulti alla società occulta, sicché una volta che quest’ultima è stata consacrata sul piano normativo diventa senz’altro più agevole passare da questa ad altre fattispecie di dominus rimasti occulti (JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO; SPADA, Patrimonio aziendale ed interposizione nell’esercizio dell’impresa, oggi, AGE, 1/2014, 29 ss.; v. però le perplessità sulla possibilità di qualificare la società occulta come società in senso tecnico avanzate a suo tempo da ASCARELLI, Corso, cit., 240 s.). 25 Nel primo senso, CAMPOBASSO.

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CETRA – L’imputazione dell’impresa

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normativo nel quale il presupposto per la relativa applicazione è fondato – per le ragioni già illustrate – rigorosamente su dati oggettivi necessariamente sottratti alla discrezionalità delle parti in causa. Ciò senza trascurare che la preferenza per la seconda alternativa è avallata anche dall’esigenza di arginare le modalità improprie di esercitare l’impresa in regime di responsabilità limitata, con l’inevitabile trasferimento ultra modum del rischio di impresa nei confronti dei creditori. L’ordinamento ammette infatti la possibilità di esercitare un’impresa senza esporre il proprio patrimonio personale al rischio di impresa; ma per realizzare questo obiettivo occorre servirsi, non già di un prestanome, magari nullatenente, ma delle strutture ad hoc messe a disposizione dall’ordinamento 26. Come sarà visto a suo tempo, il diritto societario mette a disposizione dei privati due strutture attraverso le quali è possibile esercitare, anche individualmente, un’impresa in regime di limitazione di rischio: la società a responsabilità limitata e la società per azioni. Tuttavia, tali strutture impongono di esercitare l’attività secondo determinate regole comportamentali, che sono, essenzialmente, regole di organizzazione patrimoniale e di pubblicità: regole, cioè, che possono essere considerate le condizioni minime in presenza delle quali l’ordinamento consente lo svolgimento di un’iniziativa imprenditoriale in regime di limitazione di rischio e che, perciò, non possono essere eluse o pretermesse attraverso l’utilizzo di forme giuridiche non approntate per questi scopi 27. D’altra parte, ad una tale conclusione perveniva anche la dottrina che ha sviluppato la teoria dell’imprenditore occulto, la quale era dell’avviso che se un soggetto vuole esercitare un’impresa a responsabilità limitata deve farlo diventando socio sovrano di una società, quindi per il tramite di una società. Tale dottrina si affrettava a precisare che il socio sovrano deve esercitare l’iniziativa osservando le regole comportamentali prescritte nel tipo societario prescelto. Se invece non osserva queste regole, cioè usa la società come “cosa propria”, “togliendo e mettendo, facendo e disfacendo e infischiandosene più o meno allegramente delle norme di diritto societario”, allora si trasforma in socio tiranno. Ed il socio tiranno non usa ma abusa della società ed è assimilabile al dominus che si serve di un prestanome nullatenente. Il socio tiranno acquisisce perciò la qualifica di imprenditore: è, in altri termini, un imprenditore occulto 28.

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Per considerazioni sostanzialmente analoghe BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 576 ss.; JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO; SPADA. E v. anche le considerazioni in chiave storica di MONTALENTI, Persona giuridica, gruppi di società, corporate governance. Studi in tema di società per azioni, Padova, 1999, 53 ss. 27 Così, SPADA; ID., Patrimonio, cit., 29 ss. 28 Così, BIGIAVI, Fallimento di soci sovrani, 697; ID., L’imprenditore occulto nelle società di capitali, 153; ID., Responsabilità, 1181; più in generale, ID., “Imprese” di finanziamento, 80 ss. Nella prospettiva di Bigiavi, resterebbe comunque da comprendere quando in concreto le condotte di cui si parla nel testo possano essere qualificate come fenomeno di tirannia, esponendo, quindi, chi le pone in essere a responsabilità per le obbligazioni di impresa (sul punto, ricostruendo la questione in termini di abuso della persona giuridica, GALGANO, Delle persone giuridiche 2, Comm. Scialoja-Branca, 2006, 42 ss.; più in generale, sull’abuso della persona giuridica, ZORZI, Abuso della personalità giuridica: tecniche sanzionatorie a confronto, Padova, 2002, 1 ss.) e quando, invece, rappresentino un illecito gestorio sanzionabile con la responsabilità per danni (eventualmente, nella variante della responsabilità da direzione e coordinamento non conforme ai principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale: sulla quale, da ultimo, VALZER, La responsabilità da direzione e coordinamento di società, Torino, 2011, 35 ss.). In proposito, v., adesso, RONDINONE, Tecniche, cit., 1085 ss.

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SEZ. I – La fattispecie “impresa”

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CETRA – Introduzione Sez. II-VII

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INTRODUZIONE ALLE SEZIONI II-VII

Passando ad individuare e ad analizzare la disciplina del fenomeno produttivo normativamente rilevante descritto nelle pagine che precedono, va precisato che si tratta di una disciplina che si articola in una pluralità di istituti, che vanno guardati, non già come autonomi e indipendenti, bensì come connessi e complementari tra loro. Infatti, tali istituti, anche se nel prosieguo verranno descritti singolarmente, nella loro individualità e specificità, costituiscono i punti di forza di uno statuto unitario del fenomeno produttivo organizzato in forma di impresa. In particolare, questi istituti rappresentano l’insieme delle regole comportamentali che governano l’agire imprenditoriale, non nei singoli accadimenti isolati in cui lo stesso si scompone, ma nel complesso dei medesimi, dunque degli accadimenti che formano l’iniziativa economica globalmente considerata: regole precipuamente finalizzate ad assicurare che lo stesso si sviluppi sul mercato con il giusto contemperamento tra gli interessi, spesso contrapposti, dell’imprenditore e degli altri soggetti a diverso titolo sollecitati. Le regole comportamentali che costituiscono lo statuto suddetto si appuntano sui seguenti principali profili del fenomeno produttivo. a) In primo luogo, ci sono le regole che dispongono la pubblicità dell’organizzazione di impresa e mirano a presentare l’organizzazione medesima al mercato. In particolare, gli obblighi di pubblicità assicurano trasparenza e informazione degli elementi minimi identificativi l’organizzazione di impresa, nonché di vicende, circostanze e fatti ulteriori. Ciò con l’obiettivo di assecondare l’interesse conoscitivo degli operatori di mercato, senza che essi debbano informarsi in occasione dei singoli contatti con l’impresa, e, nel contempo, l’interesse dell’imprenditore a che le relative informazioni siano conosciute, senza che egli debba accertare la conoscenza (o la scusabilità dell’eventuale ignoranza) caso per caso. b) In secondo luogo, ci sono le regole che disciplinano l’organizzazione che costituisce l’apparato produttivo imprenditoriale e mirano ad assicurare che essa sia un’organizzazione efficiente. In quest’ottica, si prevedono tre gruppi di disposizioni e, in particolare: quelle relative all’aspetto documentale; quelle relative all’aspetto personale; quelle relative all’aspetto materiale. b1) Più precisamente, le disposizioni relative alla documentazione di impresa (aspetto documentale) sono finalizzate a creare il presupposto per una conduzione razionale e consapevole dell’iniziativa e, quindi, per tutelare, seppur indirettamente, i terzi sull’attitudine a far fronte agli impegni assunti secondo la normale alea del rischio di impresa.

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Introduzione Sez. II-VII

b2) Le disposizioni relative ai collaboratori interni di impresa (aspetto personale) sono finalizzate a far sì che l’articolazione del procedimento decisionale sia disposto commisurando al potere decisorio attribuito ai diversi centri decisionali il potere di rappresentanza, di modo che quest’ultimo risulti essere normalmente esistente e senza limiti in capo a chi interfaccia l’impresa con il mercato e, quindi, eviti ai singoli operatori di dover accertare caso per caso l’effettiva sussistenza di quei poteri. b3) Le disposizioni relative all’azienda (aspetto materiale) sono finalizzate ad assecondare le esigenze di cambiamento della titolarità o della disponibilità della stessa senza però compromettere l’efficienza dell’apparato produttivo e la consistenza della garanzia patrimoniale a tutela di chi ha fatto credito all’impresa. È alla stessa disciplina dell’organizzazione che può essere ricondotto anche il grande corpus di norme dedicato alle forme di esercizio collettivo dell’impresa (o alla titolarità “metaindividuale” dell’impresa), ossia il diritto delle società, che nella presente opera verrà trattato nel terzo volume.

c) In terzo luogo, ci sono le regole che disciplinano l’attività imprenditoriale e mirano a tutelare la genuinità della competizione economica che discende dalla presenza dell’impresa sul mercato, a disciplinare i modi delle relazioni contrattuali che essa instaura operando sul mercato, nonché le forme delle interazioni che essa tesse con gli altri operatori; infine a promuovere e regolare la circolazione della ricchezza mobiliare e dei rapporti finanziari. c1) Nel primo profilo rientrano le disposizioni riguardanti la concorrenza. Esse precludono, anzitutto, accordi o operazioni tra imprese in grado di incidere sulla forma di mercato, facendola passare da una forma concorrenziale a una forma oligopolistica o monopolistica; in secondo luogo, l’abuso dell’eventuale posizione dominante acquisita; infine, condotte concorrenziali contrarie ai principi di correttezza professionale a scapito di altre imprese concorrenti. A questo gruppo appartiene poi la disciplina delle privative industriali, che permette all’impresa di posizionarsi sul mercato rendendosi riconoscibile per mezzo dell’uso di segni distintivi esclusivi o collocando prodotti o servizi realizzati per mezzo dell’impiego di tecniche industriali o estetiche esclusive. c2) Nel secondo profilo rientrano le disposizioni riguardanti la contrattazione d’impresa. Esse stabiliscono principi comuni, in parte diversi da quelli validi in ambito extraimprenditoriale, relativi alla formazione e allo sviluppo delle vicende contrattuali, col fine, in special modo, di mitigare gli eventuali squilibri che possono crearsi nei contratti con operatori economici non imprenditoriali o anche con altri imprenditori. c3) Nel terzo profilo rientrano le disposizioni riguardanti le cooperazioni e integrazioni tra imprese. Esse consentono alle imprese di stipulare le collaborazioni e le unioni necessarie ad assumere la dimensione ottimale nel mercato di riferimento, consentendo di svolgere in modo accentrato una o più fasi delle rispettive iniziative o di procurarsi i fattori produttivi o le competenze tecnologiche necessarie a condizioni più vantaggiose e, quindi, abbattere i costi unitari di produzione. c4) Nel quarto profilo rientrano le disposizioni riguardanti gli strumenti che consentono la circolazione della ricchezza mobiliare e, più in generale, dei rapporti finanziari nel modo più celere e sicuro possibile.

CETRA – Introduzione Sez. II-VII

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d) Lo statuto si completa con la disciplina della crisi di impresa, finalizzata alla soluzione e al superamento dello stato di insolvenza, cioè dell’incapacità di far fronte regolarmente alle obbligazioni sorte nel corso dello svolgimento dell’attività imprenditoriale. Si tratta di una disciplina approntata sul presupposto che nell’impresa il ricorso al credito sia sistematico (e non occasionale) e, di conseguenza, che si abbiano molteplici (e non sporadici) rapporti obbligatori, tutti inadempiuti o non regolarmente adempiuti, che attendono di essere soddisfatti coattivamente all’insegna del principio della par condicio creditorum: questo attraverso la sostituzione delle procedure esecutive individuali con le procedure concorsuali, cioè con procedure aperte su tutto il patrimonio dell’imprenditore (e non su singole parti di esso) e nell’interesse di tutti i creditori (e non dei soli creditori agenti). Si è già detto nell’Introduzione del volume e nella Sezione precedente che questo statuto venne in origine pensato fondamentalmente per l’impresa commerciale non piccola. È misurandolo su tale fattispecie che se ne può vedere l’organicità, l’articolazione e la compiutezza. Ma si è anche detto che, specie nell’epoca più recente, la distinzione tra questa figura e le altre attività comunque produttive (imprese agricole; piccole imprese; professioni intellettuali) va sempre più sfumando nella realtà economica, tanto da assistere ad una progressiva estensione, sebbene ancora ben lontana dal risultare compiuta, della disciplina della prima alle altre attività. Si vedrà dunque che gli istituti che ci accingiamo ad esaminare hanno ambiti di applicazione tra loro non sempre coincidenti: tutti si applicano all’impresa commerciale non piccola; alcuni già oggi sono estesi a tutte le imprese; altri anche alle professioni intellettuali. Ciò non deve stupire. Non è, questo, il segno di un legislatore ondivago e scarsamente sensibile alla costruzione di un sistema; è, invece, la testimonianza di un percorso di evoluzione e ammodernamento del diritto dell’impresa, non ancora compiuto ma tuttora in essere; è la prova della capacità di adattamento del diritto commerciale ai cambiamenti della realtà economica; in definitiva, della sua vitalità.

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Introduzione Sez. II-VII

[§ 6]

CETRA – Il registro delle imprese

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SEZIONE SECONDA

LA PUBBLICITÀ DI IMPRESA SOMMARIO: § 6. Il registro delle imprese.

§ 6. IL REGISTRO DELLE IMPRESE SOMMARIO: I. Caratteristiche generali. – II. La sezione ordinaria e le relative iscrizioni. – III. Le sezioni speciali e le relative iscrizioni. – IV. Il deposito. Le indicazioni negli atti e nella corrispondenza.

LETTERATURA: AFFERNI, Il registro delle imprese, Tr. Galgano, II, 1978; BARACHINI, La pubblicità commerciale dopo l’istituzione del registro delle imprese, GComm, 1996, I, 231; BOCCHINI, Trasparenza e pubblicità nell’attività di impresa, in AA.VV., Trasparenza e pubblicità nell’attività di impresa, Milano, 1996, 3; ID., Il registro delle imprese. Primi problemi, GComm, 1997, I, 811; ID., voce Pubblicità delle imprese, EncGiur, XXV, 1998; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione 2, Comm. Scialoja-Branca, 1968; GHIDINI, Il registro delle imprese, Milano, 1943; IBBA, La pubblicità delle imprese2, Padova, 2012; MARASÀ-IBBA, Il registro delle imprese, Torino, 1997; NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, Tr. Rescigno, 15**2, 2001; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PAVONE LA ROSA, Il registro delle imprese. Contributo alla teoria della pubblicità, Milano, 1954; ID., Il registro delle imprese, Tr. Buonocore, I/4, 2001; RAGUSA MAGGIORE, Il registro delle imprese3, Comm. Schlesinger, 2002.

La disciplina dell’impresa contempla un obbligo di pubblicità, finalizzato ad assicurare un minimo di trasparenza informativa su alcuni fatti o atti previsti espressamente dal dato normativo e, in particolare, su alcuni profili e su alcune vicende che riguardano l’organizzazione di impresa. Si tratta di un obbligo pubblicitario minimo, che mira a contemperare due diverse esigenze, per certi versi contrapposte: da un lato, l’esigenza dell’imprenditore di poter contare sulla certezza legale che talune informazioni possano considerarsi conosciute da parte dei terzi con i quali entra in contatto, non essendo sempre facile un puntuale accertamento caso per caso della conoscenza o dell’ignoranza delle stesse, e della scusabilità o inescusabilità di quest’ultima, nei riguardi di tutti questi soggetti; dall’altro, l’esigenza dei terzi e, più in generale, del mercato di poter fruire concretamente di talune informazioni inerenti l’impresa. In quest’ottica, al fine di fissare il punto di equilibrio tra tali esigenze, l’obbligo pubblicitario è informato al principio

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SEZ. II – La pubblicità di impresa

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di tipicità, in forza del quale le informazioni da sottoporre a pubblicità sono tutte quelle ma soltanto quelle per le quali la legge impone siffatto obbligo pubblicitario 1. Ad un tale obbligo si adempie attraverso il registro delle imprese.

I. Caratteristiche generali La pubblicità di impresa ruota dunque attorno all’istituto del registro delle imprese, un registro pubblico (art. 2188, co. 3) previsto dal legislatore del ’42 con la funzione di fungere da collettore dei fatti e degli atti di impresa per i quali è prescritto un obbligo di pubblicità (art. 2188, co. 1), che tuttavia è rimasto latente fino alla metà degli anni novanta del secolo appena trascorso 2. Infatti, esso è stato istituito dall’art. 8, l. 580/1993 ed è stato successivamente attuato con il d.p.r. 581/1995, più volte modificato e, soprattutto, semplificato con il d.p.r. 558/1999. In particolare, il registro delle imprese è affidato alla gestione delle camere di commercio di ogni provincia e, specificamente, alla persona del segretario generale o ad altro soggetto con funzioni dirigenziali, che funge da conservatore (art. 8, co. 4, l. 580/1993), sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale (c.d. giudice del registro) (art. 2188, co. 2), che funge da organo giudiziale competente di prime cure per le controversie concernenti i procedimenti di iscrizione e di deposito 3. Il registro delle imprese è tenuto secondo tecniche informatiche (art. 8, co. 6, l. 580/1993). Esso si presenta nella forma di una “banca dati” di tutte le imprese (e le forme giuridiche) soggette all’obbligo di iscrizione e, con riferimento ad ognuna di esse, di tutti i fatti o gli atti per cui la legge impone l’obbligo di pubblicità. È consultabile tramite terminale. È disponibile in tempo reale su internet sul portale della camera di commercio. Un simile “contenitore informatico” si articola in sezioni: una sezione ordinaria e diverse sezioni speciali.

II. La sezione ordinaria e le relative iscrizioni La sezione ordinaria raccoglie un po’ l’eredità del registro delle imprese approntato dal legislatore del ’42. Infatti, tale sezione è destinata ad accogliere le imprese

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Al riguardo, da ultimo, IBBA, La pubblicità legale delle imprese, AGE, 1/2014, 55 ss. Infatti, l’entrata in funzione del registro delle imprese era stata subordinata all’emanazione di un apposito d.p.r. (= regolamento di attuazione) (cfr. art. 99 disp. att. c.c.), nelle more del quale è stata procrastinata – a stregua di regime transitorio – la vigenza dei preesistenti registri di cancelleria presso il tribunale, riservati pressoché esclusivamente alle società commerciali e ai consorzi con attività esterna: per un quadro di sintesi, anche sulle implicazioni che tale regime transitorio ha avuto sulla pubblicità, AFFERNI, Il registro, 203 ss.; BARACHINI, La pubblicità, 233 ss.; (MARASÀ-)IBBA, Il registro, 1 ss.; RAGUSA MAGGIORE, Il registro, 30 ss. 3 In generale, sull’organizzazione del registro delle imprese, BOCCHINI, voce Pubblicità delle imprese, 5 s.; (MARASÀ-)IBBA, Il registro, 41 ss.; PAVONE LA ROSA, Il registro (2001), 15 ss. 2

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CETRA – Il registro delle imprese

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commerciali non piccole, le forme giuridiche commerciali (le società commerciali e le cooperative) e le altre forme giuridiche (gli enti pubblici economici, i consorzi) per le quali il codice civile (sin dalla versione originaria) prevede un obbligo di iscrizione, con l’aggiunta di due forme giuridiche, una di fonte europea l’altra di fonte interna, di recente istituzione (il gruppo europeo di interesse economico e la rete di impresa con fondo comune). In particolare, devono provvedere all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese (art. 7, co. 2, lett. a, d.p.r. 581/1995): i titolari di imprese commerciali non piccole (artt. 2195 e 2202); le società commerciali e le cooperative (art. 2200); le società straniere che hanno in Italia la sede amministrativa ovvero l’oggetto principale della loro attività (art. 25, co. 1, l. 218/1995); gli enti pubblici economici (art. 2201); i consorzi tra imprenditori con attività esterna (art. 2612); i gruppi europei di interesse economico con sede in Italia (artt. 7, par. 1, reg. 2137/1985 e 3, co. 1, d.lgs. 240/1991); le reti di impresa con fondo comune e che intendono acquisire soggettività giuridica (art. 3, co. 4-quater, d.l. 5/2009) 4. L’iscrizione deve avvenire attraverso la presentazione di una domanda – che nelle società (e negli altri enti che esercitano l’impresa in via esclusiva) coincide con l’atto costitutivo – dalla quale devono risultare le informazioni oggetto dell’obbligo di pubblicità secondo la legge 5.

In via generale, le informazioni sono quelle relative agli elementi dell’assetto organizzativo strutturale dell’impresa stabilite dall’art. 2196, co. 1 e cioè: le generalità dell’imprenditore; l’eventuale ditta; l’oggetto dell’impresa; la sede dell’impresa; gli eventuali institori e procuratori. Ad esse si è aggiunta di recente la posta elettronica certificata (art. 5, co. 1 e 2, d.l. 179/2012), inizialmente richiesta per le sole società (art. 16, co. 6, l. 2/2009).

4 In generale, sui soggetti tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria, MARASÀ(-IBBA), Il registro, 52 ss. Ai soggetti indicati nel testo sono da aggiungersi senz’altro le associazioni e le fondazioni che esercitano un’impresa commerciale, peraltro a prescindere dalla circostanza che l’impresa sia oggetto esclusivo, principale o solo secondario (v., supra, § 2.V.2): sul punto, CETRA, Impresa, sistema e soggetti, Torino, 2008, 98 ss. Invece, può considerarsi pressoché pacifico che gli enti pubblici non economici non siano destinatari dell’obbligo di pubblicità (ex multis, seppur con argomentazioni non identiche, PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 289 ss.; ID., Il registro (2001), 179 s.; FERRI, Delle imprese, 82 s.), anche se non manca chi afferma la sussistenza di un simile obbligo, sia pure da adempiersi limitatamente agli elementi identificanti l’organizzazione delle imprese da loro esercitate: NIGRO, Imprese commerciali, 666 s.; adde MARASÀ(-IBBA), Il registro, 66. 5 Sull’iscrizione su domanda, per tutti, MARASÀ(-IBBA), Il registro, 139 ss. Essa deve conformarsi alla modulistica informatica di cui al d.d. Ministero dello Sviluppo Economico del 18-10-2013. Nel caso in cui l’iscrizione non venga richiesta dall’interessato essa può essere disposta anche d’ufficio (art. 2190). Sull’iscrizione d’ufficio, per tutti, ancora, (MARASÀ-)IBBA, Il registro, 188 ss. Tuttavia, l’iscrizione d’ufficio è ipotesi assai rara nella pratica, peraltro escludendosi che possa essere disposta per le iscrizioni di società di capitali subordinate al controllo di legalità (sul punto, PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 585 s.; ID., Il registro (2001), 33 s.). Nelle società l’iscrizione di cui nel testo viene eseguita per il tramite dell’iscrizione dell’atto costitutivo e, quindi, la pubblicità dell’impresa è assorbita dalla pubblicità della forma giuridica che riveste l’impresa medesima (PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 294 ss.; OPPO, Scritti, I, 122 ss.; BOCCHINI, La pubblicità delle società commerciali. Il procedimento, Napoli, 1971, 176 ss.).

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SEZ. II – La pubblicità di impresa

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Nelle società gli elementi organizzativi d’impresa contemplati dall’art. 2196, co. 1 sono contenuti nell’atto costitutivo 6. Non a caso, come sarà visto a suo tempo, il contenuto minimo dell’atto costitutivo della società in nome collettivo combacia proprio con gli elementi menzionati dall’art. 2196, co. 1 (generalità della società e dei soci; la ragione sociale; l’oggetto sociale; la sede sociale: cfr. art. 2295). Gli elementi organizzativi di impresa corrispondono normalmente ad alcuni degli elementi organizzativi della società (ad es., la ragione o la denominazione sociale; l’oggetto sociale; la sede sociale). Comunque, non può escludersi che tra i due nuclei di elementi organizzativi possa esservi una qualche differenza (ad es., una ragione o denominazione sociale diversa dalla ditta; o una sede sociale diversa dalla sede dell’impresa): nel qual caso gli elementi di impresa e gli elementi della società dovranno figurare separatamente nell’atto costitutivo 7.

Alle informazioni appena menzionate se ne aggiungono di ulteriori nel corso dello svolgimento dell’iniziativa e che variano a seconda del contesto soggettivo di riferimento (a titolo di esempio, si può ricordare l’eventuale autorizzazione alla continuazione dell’impresa di un incapace: art. 2198; l’eventuale procura rilasciata all’institore o al procuratore: art. 2206; (l’estratto del)la sentenza dichiarativa di fallimento: art. 17 l.fall.) 8. L’iscrizione dev’essere richiesta entro il termine di trenta giorni dall’inizio dell’impresa 9 o dal verificarsi del fatto o dell’atto oggetto di pubblicità (ad es., l’istituzione 6

Sul punto, evidenziando un parallelismo tra le indicazioni richieste dall’art. 2196 e le indicazioni che devono essere inserite nell’atto costitutivo di una società, CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974, 226; più di recente, NIGRO, Imprese commerciali, 672. 7 Al riguardo, da ultimo, STELLA RICHTER jr., Forma e contenuto dell’atto costitutivo della società per azioni, Tr. Colombo-Portale, 1*, 2004, 207 ss. e 228 ss. 8 Un’informazione specifica dev’essere, poi, data nel caso di istituzione di sedi secondarie (art. 2197). Nel caso in cui un’impresa istituisca una sede secondaria (italiana o estera) dotata di rappresentanza stabile (cioè, con un institore), deve iscrivere la sede non solo nel registro delle imprese nel quale essa stessa è iscritta (art. 2197, co. 1 e 4) ma anche, nel caso in cui tale articolazione organizzativa sia collocata in una provincia diversa dalla sede principale, nel registro delle imprese competente per quella provincia (art. 2197, co. 2). Peraltro, anche le sedi secondarie di società estere con rappresentanza stabile in Italia devono essere iscritte nella sezione ordinaria del registro delle imprese competente per l’ambito territoriale nel quale si sono insediate (artt. 2197, co. 3 e 2508, co. 1). In generale, sugli obblighi di pubblicità relativi alla sede, con riferimento alla sede (italiana o estera) di impresa italiana, PORZIO, La sede dell’impresa, Napoli, 1970, 126 ss.; MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli, 1985, 158 ss. e 179 ss.; con riferimento alla sede (italiana) di impresa straniera, VELLA, La sede secondaria estera nella struttura organizzativa dell’impresa, in AA.VV., L’integrazione tra imprese nell’attività internazionale, Torino, 1995, 43 ss.; ENRIQUES, Delle società costituite all’estero, Comm. Scialoja-Branca, 2009, 53 ss. 9 Tuttavia, tale termine dev’essere adesso coordinato con quanto disposto dall’art. 9, d.l. 7/2007, il quale, introducendo la comunicazione unica per l’impresa (nella prospettiva della c.d. “impresa in un giorno”), attuata con d.p.c.m. 39344/2009, anticipa la richiesta di iscrizione nel registro a prima formalità del procedimento formativo di un’impresa, rendendo la stessa prodromica rispetto ad altre formalità dell’iter, perlopiù di carattere fiscale e previdenziale, che peraltro devono essere espletate dallo stesso registro delle imprese (per conto dell’impresa che ha fatto la comunicazione). In particolare, la comunicazione unica vale quale assolvimento di tutti gli adempimenti amministrativi previsti per poter effettuare l’iscrizione nonché per l’ottenimento del codice fiscale e della partita i.v.a. (art. 9, co. 2, d.l. 7/2007). Se ne deduce che la richiesta di iscrizione nel registro delle imprese dovrebbe ormai anticipare e non seguire il concreto avvio dell’iniziativa imprenditoriale e, comunque, avvenire ben prima dei trenta giorni previsti dalle norme codicistiche.

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di una sede secondaria, la modifica dei fatti o degli atti già pubblicati, ecc.) (art. 2196). Peraltro, una tempistica differente è stabilita con riferimento all’obbligo di pubblicità delle società di capitali (cfr. art. 2329) 10. L’iscrizione è subordinata ad un controllo finalizzato ad accertare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’iscrizione (art. 2189, co. 2). Si tratta del controllo volto a verificare, in primo luogo, il rispetto del già ricordato principio di tipicità, cioè che sia un’iscrizione prescritta dalla legge, in secondo luogo, la regolarità formale della domanda con cui si chiede l’iscrizione 11. Tale controllo è esercitato normalmente dall’ufficio del registro (art. 2189, co. 2) tuttavia è stato devoluto recentemente al pubblico ufficiale (ad es., al notaio) per le iscrizioni richieste dalle imprese diverse dalle società azionarie che siano costituite sulla base di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata (dovendo allora il conservatore procedere all’iscrizione immediata: art. 20, co. 7-bis, d.l. 91/2014). Secondo alcuni il controllo dell’ufficio del registro dovrebbe essere un controllo di legalità formale e sostanziale. In particolare, dovrebbe attenere, in ogni caso, all’esistenza e alla veridicità del fatto o dell’atto per cui si chiede iscrizione (legalità formale) e, ove si tratti di un atto, alla validità dell’atto medesimo (legalità sostanziale) 12. La dottrina prevalente esclude tuttavia che il controllo dell’ufficio debba spingersi addirittura fino alla legalità sostanziale, in particolare adducendo che una tale tipologia di controllo è assicurata già dalle verifiche effettuate da altri soggetti (ad es., dal notaio) con la conseguenza che non necessita di replica in sede di registro delle imprese 13. C’è poi da chiedersi se i terzi possano invocare un fatto o un atto iscritto inesistente o non corrispondente al vero o un atto iscritto non valido. Questione, quest’ultima, che è stata affrontata nella prospettiva di verificare se e, nell’affermativa, quanto è tutelabile l’affidamento che incolpevolmente i terzi possono aver riposto in ciò che risulta dal registro delle imprese 14: tutela che può dipendere da una combinazione di fattori, tra i quali: la na-

10 In generale, sul procedimento di iscrizione, IBBA, La pubblicità, 23 ss. e 50 ss. Sull’obbligo di pubblicità delle società di capitali, DONATIVI, La pubblicità legale delle società di capitali. Tensioni evolutive e nuove fattispecie, Milano, 2006, 82 ss. e 224 ss. 11 Sul controllo di cui nel testo e, in particolare, sulla conclusione, pressoché pacifica, secondo cui esso sia quanto meno un controllo di tipicità e di regolarità formale, in luogo di molti, DONATIVI, I poteri di controllo dell’ufficio del registro delle imprese, Napoli, 1999, 44 ss. e 115 ss.; RAGUSA MAGGIORE, Il registro, 89 ss. 12 In questo senso, in dottrina, PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 597 ss.; ID., Il registro (2001), 46 ss.; in giurisprudenza, Trib. Napoli, 9-2-2000, Giust civ, 2000, I, 541; Trib. Milano, 3-7-1997 e 21-3-1997, GComm, 1998, II, 625. 13 Infatti, la dottrina prevalente è dell’avviso che il controllo dell’ufficio debba rimanere nei limiti della legalità formale: in questo senso, già, GHIDINI, Il registro, 25; FERRI, Delle imprese, 17 ss.; più di recente, tra gli altri, MARASÀ(-IBBA), Il registro, 144 ss.; BOCCHINI, Il registro, 826 ss.; NIGRO, Imprese commerciali, 685 s.; IBBA, La pubblicità, 67 ss.; RESCIO/Dir. impr. - Man. breve; nello stesso senso, in giurisprudenza, Trib. Foggia, 6-5-1997, GComm, 1998, II, 56 ss. Ne deriva che l’ufficio, in sede d’iscrizione, non potrà rilevare eventuali vizi sfuggiti al controllo notarile né, successivamente, potrà disporre la cancellazione d’ufficio a titolo di correttivo di una precedente iscrizione di un atto viziato: sul punto, DONATIVI, La riforma dell’omologazione: profili istruttori e procedimentali, RSoc, 2001, 1058 ss. 14 Per tale ricostruzione, pur nelle diverse sfumature di pensiero, OPPO, Scritti, I, 109 ss.; PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 167 ss. e 193 ss.; più di recente, AFFERNI, Il registro, 177 ss. e 206 ss.; IBBA, Iscri-

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tura del fatto iscritto; la conoscibilità del vizio dell’atto; l’ampiezza del controllo che precede l’iscrizione; l’eventuale coinvolgimento di altri terzi 15.

Peraltro, se l’iscrizione avviene senza che ricorrano le condizioni è possibile porre rimedio attraverso la cancellazione d’ufficio, che è ordinata dal giudice del registro con decreto, sentito l’interessato (art. 2191). In altre parole, il giudice del registro, nella sua attività di vigilanza, pone rimedio in tal modo ad un eventuale errore commesso in sede di iscrizione 16. La cancellazione d’ufficio di cui all’art. 2191 è un provvedimento finalizzato a porre rimedio ad un’iscrizione disposta in difetto delle condizioni previste dalla legge. Essa è da tenersi distinta da un’altra cancellazione d’ufficio che invece è stabilita per far venir meno un’iscrizione avvenuta regolarmente, ma con riferimento alla quale sono venute meno le condizioni di permanenza. Si tratta della cancellazione che può essere disposta all’indirizzo di imprese e società in ordine a cui si ha una presunzione di inattività e che ha come obiettivo quello di eliminare dal registro delle imprese iniziative non più operanti (cioè, di far “pulizia” del registro delle imprese). In particolare, tali provvedimenti di cancellazione possono essere recapitati all’indirizzo delle imprese individuali e delle società di persone ai sensi del d.p.r. 247/2004, alle condizioni stabilite, rispettivamente, dagli artt. 2, co. 1 (decesso e irreperibilità dell’imprenditore; mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi) e 3, co. 1 (irreperibilità presso la sede sociale; mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi; mancanza del codice fiscale; mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi; decorrenza del termine di durata); all’indirizzo delle società di capitali ai sensi dell’art. 2490, co. 6, alle condizioni ivi stabilite (mancata presentazione del bilancio d’esercizio per oltre tre anni consecutivi).

Restano ancora da vedere gli effetti che si associano all’iscrizione. Anzitutto, l’iscrizione ha un’efficacia dichiarativa, in forza della quale, una volta che si perfeziona, essa determina una presunzione di conoscenza del fatto o dell’atto per il quale la legge prescrive l’obbligo di pubblicità, con il che la relativa informazione si considera conosciuta senza bisogno di accertare che lo sia in concreto. Ad es., dopo che è stato iscritto il trasferimento della sede dell’impresa, ogni dichiarazione recettizia inviata dai terzi presso la vecchia sede (il recesso da un contratto di fornitura periodica di surgelati) rimane inidonea a produrre i propri effetti, in quanto non indirizzata correttamente al suo destinatario, a prescindere dal fatto che il mittente ignorasse in concreto il mutamento di sede. Inizialmente, una tale presunzione era assoluta sin da subito con riferimento a tutti i fatti o gli atti iscritti (art. 2193, co. 2), senza possibilità alcuna per i terzi di eccepire la propria ignoranza ancorché incolpevole. Successivamente, il diritto europeo ha imposto di rendere siffatta presunzione relativa per i primi quindici giorni di iscrizione con riferimento ai soli fatti o atti delle società di capitali, in particolare consentendo

zione nel registro delle imprese e difformità fra situazione iscritta e situazione reale, RSoc, 2013, 880 ss. e 887 ss. 15 Così, (MARASÀ-)IBBA, Il registro, 218 s.; al riguardo, anche, IBBA, Iscrizione, cit., 889 s. 16 Sulla cancellazione d’ufficio, per tutti, (MARASÀ-)IBBA, Il registro, 197 ss.

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ai terzi in questo lasso di tempo di superare la presunzione di conoscenza dimostrando l’impossibilità ad acquisire l’informazione oggetto di iscrizione (art. 2448, co. 2). La presunzione diventa poi assoluta dal sedicesimo giorno (art. 2448, co. 1). Peraltro, è da escludersi che all’iscrizione possa associarsi la presunzione di conoscenza nel caso in cui la stessa sia stata disposta in un registro territorialmente non competente o per errore in una sezione speciale dello stesso registro 17.

Per contro, nell’ipotesi in cui l’iscrizione obbligatoria sia stata omessa, si verifica una presunzione di ignoranza dei fatti o degli atti che avrebbero dovuto essere iscritti. Ad es., la mancata iscrizione del trasferimento della sede d’impresa fa sì che tutte le dichiarazioni recettizie inviate dai terzi presso la vecchia sede producano i propri effetti ex art. 1335, come se fossero state indirizzate al destinatario presso la sua attuale sede effettiva. La presunzione è sempre relativa e può essere superata dall’imprenditore, se dimostra che, nonostante l’omissione della pubblicità, il fatto o l’atto da pubblicare era comunque conosciuto (e non semplicemente conoscibile) da parte del terzo (art. 2193, co. 1) 18: prova, in verità, il più delle volte difficile da rendere. Una questione di grande interesse teorico e pratico è se l’efficacia dichiarativa presupponga l’esistenza del fatto o la validità dell’atto oggetto di iscrizione. A questo proposito, si è osservato che l’efficacia dichiarativa consente di opporre la fattispecie iscritta nella sua effettiva consistenza e nei limiti in cui questa risulti dall’iscrizione: con la conseguenza che l’iscrizione, da un lato, consentirà di opporre un fatto solo se effettivamente esistente, ossia nei limiti in cui quel che è stato dichiarato e iscritto trovi corrispondenza nella realtà, dall’altro, consentirà di opporre un atto invalido senza precludere la possibilità di far valere il relativo vizio da chi può e vuole giovarsi dello stesso 19. Infine, è opportuno segnalare che l’efficacia dichiarativa può essere fatta valere solo nei rapporti in cui sia coinvolto il soggetto al quale è direttamente riconducibile il fatto o l’atto sottoposto a registrazione e non invece nei rapporti intercorrenti tra soggetti terzi rispetto a quest’ultimo 20.

17 Sulla presunzione di conoscenza, anche per la dimostrazione che essa non si produce nel caso di iscrizione in un registro territorialmente non competente o, per errore, in una sezione speciale, MARASÀ(IBBA), Il registro, 215; IBBA, La pubblicità, 93 ss. e 95 ss. 18 Sulla presunzione di ignoranza, anche per la dimostrazione della coincidenza soggettiva fra chi subisce la presunzione e chi può giovarsi della stessa, PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 133 ss. e 154 ss. 19 In questi termini, (MARASÀ-)IBBA, Il registro, 217 s. Ma già nel senso che l’opposizione è prospettabile solo se il fatto iscritto esiste effettivamente, PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 126 s. 20 Sul punto, per tutti, FERRI, Delle imprese, 31 s. D’altra parte, una simile conclusione può essere considerata l’immediata conseguenza del fatto che il legislatore del ’42 ha concepito la pubblicità d’impresa affidata al registro delle imprese proprio nella prospettiva dei singoli rapporti giuridici che maturano nel contesto imprenditoriale (in questo senso, tra gli altri, GHIDINI, Il registro, 6 ss. e 51 ss.; PAVONE LA ROSA, Il registro (1954), 133 s. e 158 ss.; più di recente, BARACHINI, La pubblicità commerciale, 232 e 270; NIGRO, Imprese commerciali, 658 ss.), cioè una pubblicità che mira precipuamente a tutelare l’interesse del “terzo contraente o [del] terzo creditore, che è poi, quasi sempre, un terzo operatore economico e, molto spesso, un terzo imprenditore, che è, o può entrare, in rapporto giuridico con l’imprenditore” (così, BOCCHINI, Strumenti di pubblicità dell’impresa e informazione societaria, in Lo statuto dell’impresa. Atti del convegno, Milano, 1986, 156).

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All’efficacia dichiarativa si aggiunge talvolta un’efficacia normativa, nel senso che talvolta l’obbligo pubblicitario costituisce condizione per rendere applicabile una certa disciplina o un certo regime giuridico 21. Ad es., l’iscrizione di una società commerciale di persone (società in nome collettivo e società in accomandita semplice) rappresenta una condizione per rendere applicabile alla società la disciplina della società (in nome collettivo o in accomandita semplice) regolare. Invece, in difetto dell’iscrizione, la disciplina che si applica alla società (collettiva o in accomandita) è differente e, in particolare, è quella della società (collettiva o in accomandita) irregolare (v., infra, nel secondo volume). Dall’efficacia normativa si suole distinguere poi l’efficacia costitutiva, efficacia tradizionalmente riconosciuta all’iscrizione delle società di capitali nonché ad alcune decisioni sociali di queste ultime società (le decisioni modificative dell’atto costitutivo). In particolare, si ritiene che tali iscrizioni abbiano l’effetto di far venire ad esistenza la società come centro autonomo di imputazione ovvero rendere operative le modifiche apportate al suo codice organizzativo: in altre parole, l’atto produce effetti solo con l’iscrizione (che per questo è, appunto, “costitutiva”). Si tratta peraltro di un effetto che solleva non poche perplessità. Esso è legato alle incertezze interpretative che ruotano attorno a due disposizioni: la prima è quella secondo cui “con l’iscrizione nel registro delle imprese la società acquista la personalità giuridica” (art. 2331, co. 1); la seconda è quella secondo cui solo dopo l’iscrizione la delibera di modificazione dell’atto costitutivo produce effetti (art. 2436, co. 5): disposizioni delle quali ci si dovrà occupare nel terzo volume.

III. Le sezioni speciali e le relative iscrizioni Le sezioni speciali sono state previste con l’obiettivo di razionalizzare le diverse forme di pubblicità gestite dalla camera di commercio prima dell’istituzione del registro delle imprese e, nel contempo, preservare la funzione originaria del registro delle imprese quale strumento di pubblicità legale 22. In particolare, tali sezioni nascono con l’obiettivo di farvi confluire le imprese e le forme giuridiche che trovavano collocazione in queste differenti forme di pubblicità (ad es., nel registro esercenti il commercio), le quali non potevano transitare nella se21

Sull’efficacia normativa, CAMPOBASSO; RESCIO/Dir. impr. - Man. breve. Con la conseguenza che alla pubblicità di impresa che si produce attraverso il registro delle imprese non può riconoscersi più soltanto la dimensione “microeconomica” ricordata supra a nt. 18 ma anche una dimensione “macroeconomica”, nel senso che l’interesse tutelato non è soltanto quello che gravita attorno al singolo rapporto negoziale ma è anche quello di agevolare un corretto funzionamento del mercato nel suo complesso (sul punto, BOCCHINI, voce Pubblicità delle imprese, 6 s.; ID., Trasparenza e pubblicità, 44 ss.; ID., Il registro delle imprese nella Knowledge society, GComm, 1994, I, 797). Infatti, alla pubblicità d’impresa vengono attribuite nuove e diverse funzioni, che vanno dalla certificazione anagrafica delle imprese (art. 8, co. 5, l. 580/1993) alla lotta contro la criminalità organizzata (art. 8, co. 13, l. 580/1993; ma questa funzione è già attribuita dalla l. 310/1993): sul punto, BARACHINI, La pubblicità commerciale, 270 ss. Peraltro, tali ultime funzioni sono perseguite solo in parte attraverso il registro delle imprese e sono perlopiù affidate a forme speciali di pubblicità (sulle quali, BOCCHINI, voce Pubblicità delle imprese, 14 ss.). 22

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zione ordinaria, in quanto imprese diverse dalle imprese commerciali non piccole o forme giuridiche per le quali non è previsto un obbligo di pubblicità nelle norme del codice civile. Inizialmente, vengono istituite tante sezioni speciali ad hoc per ogni tipologia di impresa (le imprese agricole e le piccole imprese) e forma giuridica (la società semplice) obbligate ad iscriversi (art. 7, co. 3, d.p.r. 581/1995). Successivamente, queste sezioni vengono riunite in un’unica sezione (art. 2, d.p.r. 558/1999). In particolare, in quest’ultima sezione devono prendere iscrizione: i titolari di imprese agricole; i titolari di piccole imprese; le società semplici; devono essere annotati: i titolari di imprese artigiane e i loro consorzi 23. Anzitutto, non è per nulla chiaro se ci sia e, nell’affermativa, quale sia la differenza che intercorre tra l’iscrizione alla quale sono tenute le imprese agricole, le piccole imprese e le società semplici, da un lato, e l’annotazione alla quale sono tenute le imprese artigiane e i loro consorzi, dall’altro 24. Peraltro, non manca chi sottolinea che quest’ultima formalità sia in realtà un’inutile duplicazione di adempimenti pubblicitari prescritti all’indirizzo delle imprese artigiane (e dei loro consorzi). Ciò sul presupposto che le imprese artigiane appartengano al genus delle imprese commerciali (v., supra, § 2.IV) e, quindi, in quanto imprese commerciali, se non piccole, sarebbero già iscritte nella sezione ordinaria (come imprese commerciali), se piccole, sarebbero già iscritte nella sezione speciale (come piccole imprese) 25.

Nel corso degli anni sono state istituite altre sei sezioni speciali (che nel lessico normativo vengono sempre più spesso qualificate come sezioni apposite). La prima è quella prevista dall’art. 16, co. 2, d.lgs. 96/2001, che istituisce la sezione speciale riservata alle società tra avvocati e adesso generalizzata a tutte le società tra professionisti (art. 7, co. 1, d.m. 8 febbraio 2013, n. 34). La seconda è quella prevista dall’art. 2497-bis (aggiunto nel 2003), che istituisce la sezione apposita riservata alle società ed agli enti che esercitano o sono assoggettati all’altrui direzione e coordinamento (società e enti di gruppo). La terza è quella prevista dall’art. 5, co. 2, d.lgs. 112/2017, che istituisce la sezione apposita riservata agli enti titolari di imprese sociali. La quarta è quella prevista dall’art. 2250, co. 5 (aggiunto nel 2009), che istituisce una sezione apposita nella quale le società di capitali possono replicare i fatti e gli atti già iscritti nella sezione ordinaria con traduzione giurata di un esperto in un’altra lingua ufficiale dell’Unione europea. La quinta e la sesta sono quelle previste dall’art. 25, co. 8, d.l. 179/2012 e 4, co. 2, d.l. 3/2015, che istituiscono, rispettivamente, la sezione apposita riservata alle imprese start-up innovative (cioè, imprese che sviluppano, producono e commercializzano

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In generale, sui soggetti tenuti all’iscrizione nella sezione speciale di cui nel testo, MARASÀ(-IBBA), Il registro, 61 ss. 24 Sul punto, v., tuttavia, DONATIVI, I poteri, cit., 187 s. 25 Nello stesso senso, MARASÀ(-IBBA), Il registro, 57 ss.; CAMPOBASSO; in senso contrario, PAVONE LA ROSA, Il registro (2001), 126. Resta invece incerto se all’iscrizione nella sezione speciale di cui nel testo sia tenuta anche una società commerciale già iscritta nella sezione ordinaria che esercita un’impresa agricola: sul punto, BARACHINI, La pubblicità commerciale, 241 ss.

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prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico) e alle piccole medie imprese innovative (come definite dall’art. 4, co. 1, d.l. 3/2015) 26. Un simile proliferare di sezioni ha sollevato principalmente incertezze riguardo agli effetti che si associano alle iscrizioni che in esse si realizzano. In particolare, non è mancato chi ha messo in dubbio che a tali iscrizioni possa continuare a riconoscersi l’effetto originario, cioè l’effetto di pubblicità notizia (cfr. art. 8, co. 5, l. 580/1993, testo originario), ossia la mera conoscibilità di fatto delle informazioni rese disponibili (senza le presunzioni di conoscenza e di ignoranza collegate alla sezione ordinaria, sicché si tratterebbe di un mero strumento atto a facilitare l’accesso a certe informazioni, ma senza alcun valore giuridico), adducendo, da un lato, che altrimenti non si comprenderebbe la ragione per cui nell’art. 16, co. 2, d.lgs. 96/2001 si sia avvertita esigenza di ribadire che nella sezione speciale delle società tra avvocati le iscrizioni producono l’effetto di pubblicità notizia; dall’altro, che alle iscrizioni relative alle imprese agricole gli effetti di pubblicità notizia sono stati sostituiti con gli effetti di cui all’art. 2193, cioè con gli effetti dichiarativi 27. Tuttavia, simili incertezze sono destinate a tramontare solo che si consideri che l’art. 8, l. 580/1993 è stato recentemente riformulato ad opera dell’art. 1, co. 10, d.lgs. 23/2010 che, al co. 5, ripropone la disposizione secondo cui “l’iscrizione nelle sezioni speciali ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti dalle leggi speciali”. Pertanto, alla luce di questa riconferma della disposizione contenuta nel co. 5 dell’art. 8, l. 580/1993 nella sua versione originaria, è lecito concludere che nelle sezioni speciali le iscrizioni producono sempre effetti di pubblicità notizia, salvo che non sia disposto diversamente dal dato normativo. In particolare, una diversa disposizione riguarda senz’altro le iscrizioni relative alle imprese agricole, alle quali l’art. 2, d.p.r. 228/2001 associa, appunto, l’efficacia dichiarativa di cui all’art. 2193. La ragione per cui alle iscrizioni relative alle imprese agricole sia stata attribuita efficacia dichiarativa è da ricercarsi nel già ricordato avvicinamento dell’impresa agricola all’impresa commerciale sul piano della fattispecie (v., supra, § 2.II), avvicinamento che si coglie soprattutto sotto il profilo dell’organizzazione e, di conseguenza, dell’importanza degli interessi coinvolti (v., supra, § 2.II) 28. Il che ha reso attuale nella prima tipologia di fenomeni l’esigenza tipicamente avvertita nella seconda tipologia: l’esigenza di evitare un puntuale accertamento caso per caso della conoscenza o dell’ignoranza di talune informazioni e della scusabilità o meno di questa nei confronti dei soggetti con i quali l’iniziativa entra in contatto 29. Peraltro, alla luce di quanto precede, dovrebbe essere evidente l’inutilità che caratterizza almeno alcune di queste sezioni speciali, che, per certi versi, potrebbero essere ormai 26

Sui controlli che precedono e seguono l’iscrizione in queste sezioni, v., adesso, Circ. MiSE 14-22017, n. 3696. 27 In questi termini, IBBA, La pubblicità, 334 ss. 28 In questi termini, SPADA. 29 Sul punto, molto chiaramente, ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002, 34 s. e 46; NIGRO, Imprese commerciali, 663 e 757 ss.

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in larga parte assorbite dalla sezione ordinaria, per altri, rischiano di duplicare gli adempimenti pubblicitari, inserendo in tali sezioni informazioni già acquisibili in altre parti del registro 30. Quest’ultima notazione vale in particolar modo: per la sezione delle società e enti di gruppo, atteso che tali società e enti dovrebbero essere già iscritti, quanto meno normalmente, nella sezione ordinaria (come titolari di imprese commerciali o forme giuridiche obbligate a iscriversi nella sezione ordinaria); per la sezione degli enti titolari di imprese sociali, atteso che anche questi enti dovrebbero essere già iscritti, quanto meno normalmente, nella sezione ordinaria (come titolari di imprese commerciali o come forme giuridiche obbligate a iscriversi nella sezione ordinaria); per le imprese start-up innovative e piccole medie imprese innovative, atteso che tali imprese devono rivestire la forma di società di capitali o cooperative (artt. 25, co. 2, d.l. 179/2012 e 4, co. 1, d.l. 3/2015) e, quindi, in ragione di ciò, dovrebbero essere già iscritte, quanto meno normalmente, nella sezione ordinaria.

IV. Il deposito. Le indicazioni negli atti e nella corrispondenza La pubblicità di impresa si realizza non solo attraverso la tecnica dell’iscrizione ma anche attraverso il deposito. Il deposito è una tecnica attraverso cui si rende conoscibile una certa informazione nei confronti dei terzi. Infatti, il deposito è prescritto per alcuni atti – tra i quali si annovera il bilancio d’esercizio delle società di capitali e cooperative, che è senz’altro il più importante – per i quali non sarebbe pensabile o sensato prevedere un’iscrizione e gli effetti che ad essa si associano (in particolare, l’efficacia dichiarativa) 31. La pubblicità di impresa si completa poi con il dovere di indicare negli atti e nella corrispondenza il registro delle imprese in cui si è presa iscrizione e il numero di iscrizione (artt. 2199 e 2250, co. 1). Per le sole società di capitali una tale indicazione (assieme al capitale sociale versato e le generalità dell’unico socio: art. 2250, co. 2 e 4) dev’essere riportata anche nell’eventuale spazio elettronico destinato alla comunicazione e collegato da una rete telematica ad accesso pubblico (rectius: il sito internet della società) (art. 2250, co. 7).

30 Per analoghe considerazioni, auspicando la conseguente eliminazione delle sezioni speciali, IBBA, La pubblicità, 77 s. e 331 ss.; PAVONE-LA ROSA, La pubblicità commerciale: non più differibile un meditato intervento legislativo per un “riordino” dell’istituto, in Governo dell’impresa e mercato delle regole. Scritti giuridici per Rossi, I, Milano, 2003, 73 ss.; MARASÀ, La pubblicità presso le sezioni speciali del registro delle imprese: utile per inutile … vitiatur!, GComm., 2015, I, 626 ss. e 630 s. 31 Sul punto, con specifico riferimento al contenuto dell’atto costitutivo di una società di persone, VIGO, Note in tema di pubblicità delle società di persone presso il registro delle imprese, RSoc, 1997, 978 ss. e 982 ss. In generale, sul deposito, SALAFIA, Il procedimento di iscrizione e deposito nel registro delle imprese, Soc, 1996, 625 ss.; MARASÀ(-IBBA), Il registro, 166 ss.

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SEZ. II – La pubblicità di impresa

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CETRA – La documentazione di impresa

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SEZIONE TERZA

ORGANIZZAZIONE E “CIRCOLAZIONE” DELL’IMPRESA SOMMARIO: § 7. La documentazione di impresa. – § 8. I collaboratori di impresa. – § 9. La “circolazione” dell’impresa: il trasferimento dell’azienda. – § 10. Il ricambio generazionale nell’impresa: i patti di famiglia.

§ 7. LA DOCUMENTAZIONE DI IMPRESA SOMMARIO: I. Le scritture contabili obbligatorie. – II. Il bilancio di esercizio. – III. Le formalità di tenuta delle scritture contabili. – IV. La conservazione delle scritture contabili. L’utilizzo come mezzi di prova.

LETTERATURA: BOCCHINI, Diritto della contabilità delle imprese, I, Le scritture contabili3, Torino, 2008; DE ANGELIS, Elementi di diritto contabile. Disciplina civilistica e principi contabili internazionali4, Milano, 2015; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione 2, Comm. Scialoja-Branca, 1968; ID., voce Scritture contabili, EncD, XLI, 1989; NIGRO, Le scritture contabili, Tr. Galgano, II, 1978, 213; ID., voce Libri e scritture contabili, EncGiur, XXI, 1989; ID., Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, Tr. Rescigno 15**2, 2001; PANUCCIO, La natura giuridica delle registrazioni contabili, Napoli, 1964; RACUGNO, L’ordinamento contabile delle imprese, Tr. Buonocore, I/5, 2002.

La disciplina dell’impresa si occupa sotto diversi profili dell’organizzazione dell’impresa medesima. Anzitutto, essa stabilisce un obbligo di documentazione di impresa. In particolare, si tratta dell’obbligo di dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti relativi allo svolgimento dell’attività di impresa, che viene assolto attraverso l’obbligo di tenuta delle scritture contabili. Il legislatore (civilistico) rende obbligatoria una regola di condotta che, all’evidenza, è una regola di buona gestione, la quale, infatti, viene normalmente osservata nell’ambito di tutte le iniziative economiche (imprenditoriali e non) e non solo nelle imprese commerciali. Nondimeno, il legislatore vuole sottrarre il rispetto della regola in questione alla mera discrezionalità del titolare di quest’ultima tipologia di imprese, con l’obiettivo di creare le condizioni per una conduzione razionale ed efficiente dell’im-

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SEZ. III – Organizzazione e “circolazione” dell’impresa

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presa e, di conseguenza, di accrescere il livello di tutela dei terzi coinvolti nella stessa e, soprattutto, di coloro che hanno finanziato l’impresa a titolo di capitale di credito. Ed invero, nell’ottica del legislatore, l’obbligatorietà della documentazione di tutto quanto accade nel corso dello svolgimento dell’attività costituisce il presupposto per favorire il corretto svolgimento dell’impresa, che a sua volta è condizione imprescindibile di tutela dei creditori. Ciò in quanto, attraverso le scritture contabili, l’imprenditore può avere un riscontro ex post di come si è svolta l’iniziativa e, in particolare, accertare se le risultanze che ne sono derivate siano in linea con quanto ex ante era stato programmato: ne deriva che è così possibile decidere in maniera consapevole se è il caso di proseguire regolarmente la gestione ovvero riprogrammare ovvero, al limite, arrestare del tutto la stessa. In altre parole, le scritture contabili obbligatorie sono uno strumento di controllo finalizzato a far sì che l’attività venga gestita consapevolmente e, quindi, sia in grado di far fronte ai diversi impegni assunti secondo la normale alea del rischio di impresa 1.

I. Le scritture contabili obbligatorie Chi esercita un’impresa commerciale non piccola (o chi assume una forma commerciale: società di forma commerciale) ha dunque l’obbligo di dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti in cui si sostanzia l’iniziativa posta in essere, per il tramite della tenuta delle scritture contabili. Il dato normativo non fissa in maniera analitica quale sia la consistenza dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili ma stabilisce un criterio per determinare siffatto obbligo: in particolare, impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalla dimensione dell’impresa (art. 2214, co. 2). La legge preferisce quindi ad un elenco circoscritto e, come tale, tendenzialmente rigido, un criterio di determinazione elastico delle scritture contabili obbligatorie, le quali perciò possono variare da impresa a impresa 2. Ad es., le scritture contabili obbligatorie possono essere diverse in un’impresa di produzione di beni rispetto ad un’impresa bancaria. Così come possono essere diverse e, in particolare, più numerose con l’aumentare della dimensione e della complessità organizzativa dell’impresa (impresa con una o più sedi secondarie; impresa organizzata in forma di gruppo; ecc.) 3. 1 In questa prospettiva, sottolineando la strumentalità del controllo attraverso l’informazione d’impresa alla tutela del credito alla produzione, BOCCHINI, Diritto, 57 ss. Nella stessa prospettiva, sul presupposto di considerare le scritture contabili uno dei momenti di emersione giuridica dell’organizzazione d’impresa, NIGRO, Le scritture, 267 ss. e 286 ss.; ID., voce Libri e scritture contabili, 6 s.; ID., Imprese commerciali, 708 s. 2 Sul punto, molto chiaramente, NIGRO, Le scritture, 227 s. e 230 s., il quale sottolinea che il legislatore ha preferito sacrificare la certezza giuridica a favore di un regime legato alle caratteristiche qualitative e quantitative dei singoli tipi di impresa che, secondo l’apprezzamento discrezionale dell’imprenditore (cfr. FERRI, Delle imprese, 126), consente ad ogni impresa di avere una contabilità adeguata alla sua natura e alle sue dimensioni, cioè una contabilità indispensabile a rappresentare compiutamente gli accadimenti che ne costituiscono lo svolgimento, i relativi risultati nonché la consistenza del patrimonio. 3 Sui fattori che possono incidere sulla obbligatorietà (o meno) di una scrittura contabile, RACUGNO,

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CETRA – La documentazione di impresa

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Il dato normativo fissa comunque due scritture contabili obbligatorie minime, cioè che vanno tenute quale che sia la natura e la dimensione dell’impresa, individuandole nel libro giornale e nel libro degli inventari (cc.dd. scritture contabili nominate) (art. 2214, co. 1). Il libro giornale è la scrittura contabile nella quale vanno indicate giorno per giorno tutte le operazioni relative all’esercizio dell’impresa (art. 2216). È, cioè, una scrittura contabile in cui devono essere riportate le operazioni di impresa secondo l’ordine con il quale si susseguono 4. Essa è perciò una scrittura che va tenuta secondo un criterio cronologico 5. Giova osservare che la disposizione secondo cui il libro giornale vada tenuto secondo un criterio cronologico non è da intendersi nel senso che il libro giornale debba essere aggiornato con cadenza quotidiana. Il libro giornale può essere aggiornato secondo la tempistica prescelta dall’imprenditore (quotidiana, settimanale, bisettimanale, mensile, ecc.), riportando gli accadimenti di impresa secondo la successione temporale con la quale si sono verificati in concreto.

Nel libro giornale vanno rilevati i fatti di gestione nel loro profilo patrimoniale e reddituale, cioè accertandone l’impatto sulla consistenza del patrimonio (d’impresa) e sulla formazione del risultato (di esercizio) 6. Ad es., la stipulazione di un contratto di vendita viene rilevata, nel profilo patrimoniale, come credito verso il cliente o (eventualmente dopo la riscossione del credito) come entrata di banca o di cassa, nel profilo reddituale, come ricavo di vendita; la stipulazione di un contratto di acquisto viene rilevata, nel profilo patrimoniale, come debito verso il fornitore o (eventualmente dopo il pagamento del debito) come uscita di banca o di cassa, nel profilo reddituale, come costo di acquisito. Il libro degli inventari è la scrittura contabile nella quale vanno indicate e valutate le attività e le passività relative all’impresa nonché le attività e le passività estranee alla medesima (art. 2217, co. 1). È, cioè, una scrittura contabile in cui devono essere riportati tutti gli elementi patrimoniali attivi e passivi dell’impresa e estranei all’impresa, ossia il patrimonio al quale si è impresso un vincolo funzionale di destinazione all’im-

L’ordinamento, 101 s.; BOCCHINI, Diritto, 131 ss. e, in particolare, a 136 ss. sulle scritture contabili delle imprese bancarie e assicurative. Sull’obbligo di tenere tanti sistemi di scritture contabili distinti per quante sono le imprese che fanno capo ad uno stesso soggetto, COSTI, La titolarità di più imprese, ArchGiur, 1964, 110 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974, 271. 4 Sul contenuto del libro giornale, in termini generali, FERRI, Delle imprese, 134 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, cit., 267 ss.; in particolare, sulla sua analiticità, sottolineando che essa dev’essere ricostruita muovendo dalla notazione che nel libro giornale devono essere registrate le operazioni e non gli atti di impresa, BOCCHINI, Diritto, 117 s.; tuttavia, nel senso che la registrazione delle operazioni deve comunque consentire di risalire ai singoli atti, BUSSOLETTI, Obblighi e modalità di tenuta delle scritture contabili con particolare riferimento alle imprese bancarie, BBanchieri, 1980, 825; in giurisprudenza, Cass. 19-121991, n. 13672, Soc, 1992, 636. 5 Sul criterio cronologico, sottolineando che in conseguenza di esso le singole registrazioni acquisiscono data certa, BOCCHINI, Diritto, 78 s. e 119 s. 6 Al riguardo, da ultimo, RACUGNO, Introduzione alla contabilità di impresa, RDComm, 2012, I, 290 ss.

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presa e il patrimonio che invece è utilizzato per fini differenti 7. Essa è perciò una scrittura che va tenuta secondo un criterio sistematico 8. Giova segnalare che la distinzione tra patrimonio destinato e patrimonio estraneo all’impresa è solo ideale, ha, cioè, una valenza meramente organizzativa, e non incide sull’unità del patrimonio dell’imprenditore. Questo è unico ed è unica la garanzia che esso rappresenta per i debiti dell’imprenditore, siano essi debiti di impresa o debiti non di impresa. Peraltro, si tratta di una distinzione che può prospettarsi solo con riferimento agli imprenditori che affiancano un’attività di impresa ad un’attività di tipo diverso, tanto da avere una parte del patrimonio utilizzato per la prima iniziativa e un’altra parte utilizzato per la seconda. Il che, ad es., accade nel caso di una persona fisica, che all’attività di impresa aggiunge tipicamente un’attività di consumo o nel caso di un’associazione o di una fondazione, che all’eventuale attività di impresa aggiungono una o più altre iniziative differenti. Non è invece una distinzione immaginabile, quanto meno tipicamente, nelle società, nelle quali l’oggetto sociale coincide normalmente con l’impresa e, quindi, il relativo patrimonio è tutto destinato ad essa.

Il libro degli inventari deve dare contezza di tutto il patrimonio dell’imprenditore. Infatti, gli elementi da cui è costituito devono essere indicati e valutati. Vale a dire che tali elementi devono essere riportati senz’altro in forma descrittiva e poi, nel caso in cui si prestino ad essere valutati, anche attraverso la loro valutazione. Pertanto, nel libro degli inventari c’è anzitutto una descrizione degli elementi del patrimonio dell’imprenditore, destinati o estranei all’impresa; c’è poi una valutazione dei soli elementi che si prestano ad essere valutati, cioè degli elementi la cui utilità può essere misurata ed espressa attraverso un valore (quanto meno in termini ragionevolmente attendibili) 9. L’inventario dev’essere redatto all’inizio dell’impresa (c.d. inventario iniziale) e poi con cadenza annuale (c.d. inventario annuale) (art. 2217, co. 1). Quest’ultimo inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite (= bilancio d’esercizio) (art. 2217, co. 2).

7 Sul contenuto dell’inventario, in termini generali, FERRI, Delle imprese, 138 ss.; BOCCHINI, Diritto, 122 ss.; più nello specifico, CINCOTTI, L’inventario dell’imprenditore commerciale, GComm, 2015, I, 888 ss. 8 Sul criterio sistematico, sottolineando il suo diverso atteggiarsi da impresa a impresa, RACUGNO, L’ordinamento, 97 s.; in particolare, con riferimento alle imprese coniugali gestite da entrambi i coniugi (art. 177, lett. d: v., infra, nel secondo volume), sulla necessità di riportare il patrimonio estraneo all’impresa sia nella parte in comunione sia nella parte personale dei coniugi, COLUSSI, Azienda coniugale e disciplina dell’impresa, RDCiv, 1976, I, 623 s.; con riferimento ad un soggetto titolare di più imprese, sulla necessità di riportare nel patrimonio estraneo all’impresa di ogni inventario anche il patrimonio relativo alle altre imprese, COSTI, La titolarità, cit., 113 s.; CASANOVA, Impresa, cit., 271; con riferimento alle società di persone, sulla necessità di riportare il patrimonio personale dei soci personalmente e illimitatamente responsabili, BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969), 173. 9 Sul punto, NIGRO, voce Libri e scritture contabili, 2; ID., Imprese commerciali, 714; CINCOTTI, L’inventario, cit., 889 s. e 891 s.

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II. Il bilancio di esercizio Nel lessico normativo e tecnico dell’epoca in cui il codice civile è stato scritto, l’espressione bilancio e conto dei profitti e delle perdite designava il bilancio d’esercizio. Più precisamente, il bilancio vero e proprio coincideva con una situazione patrimoniale, cioè con un documento che rappresentava sinteticamente i diversi elementi patrimoniali attivi e passivi suscettibili di valutazione economica, il quale si accompagnava con un allegato rappresentato dal conto dei profitti e delle perdite, cioè un documento che rappresentava sinteticamente i diversi componenti di reddito positivi e negativi, dalla cui somma algebrica scaturiva il reddito d’esercizio (utile o perdita). Ne consegue che oggi l’art. 2217, co. 2 dev’essere inteso nel senso che l’inventario si chiude con il bilancio d’esercizio 10. Nel lessico normativo e tecnico attuale l’espressione bilancio d’esercizio designa l’insieme di quattro documenti: lo stato patrimoniale, il conto economico, il rendiconto finanziario e la nota integrativa (v., infra, nel terzo volume). Lo stato patrimoniale contiene gli elementi attivi e passivi suscettibili di valutazione economica (e non, quindi, come nell’inventario, l’intero patrimonio dell’imprenditore, nello stato patrimoniale mancando gli elementi attivi e passivi che non si prestano ad una valutazione economica). Il conto economico contiene i componenti positivi (i ricavi) e negativi (i costi) di reddito, dalla cui somma algebrica scaturisce il reddito d’esercizio: il quale può essere di segno positivo (utile) o di segno negativo (perdita). Il rendiconto finanziario evidenzia la composizione delle disponibilità liquide dell’impresa (il denaro in cassa e valori assimilati) e la relativa variazione (in aumento o in diminuzione) avvenuta nell’esercizio per effetto della gesione caratteristica, delle operazioni di investimento e di finanziamento. La nota integrativa è invece un documento descrittivo, che serve a rendere intelligibili, cioè a chiarire, i due documenti quantitativi. In particolare, essa contiene l’esplicazione dei valori e degli aggregati di valori che figurano nello stato patrimoniale e nel conto economico, dando notizie sulla consistenza del loro contenuto e, soprattutto, sul processo di valutazione che ha portato ad assegnare ad essi un determinato valore.

Nell’ordinamento giuridico italiano, a differenza di altri ordinamenti, manca una disciplina giuridica generale sul bilancio d’esercizio. Una disciplina sul bilancio è prevista soltanto nel diritto della società per azioni e, in particolare, negli artt. 2423 ss., e in quella sede dunque se ne parlerà. Peraltro, questa disciplina è in qualche modo richiamata nel diritto delle altre società di capitali (società in accomandita per azioni: art. 2454; società a responsabilità limitata: art. 2478-bis, co. 1) e delle cooperative (art. 2519, co. 1), e pertanto trova applicazione pressoché integrale in questi contesti. Invece, resta aperta la questione su quale disciplina debba applicarsi al bilancio d’esercizio delle imprese che assumono forma giuridica diversa dalla società per 10 In questo senso, anche per il rapporto intercorrente tra inventario e bilancio d’esercizio, CINCOTTI, L’inventario, cit., 893 s.

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azioni e dalle altre società di capitali e cooperative, come, ad es., una società di persone, un ente non societario o una persona fisica 11. Una tale questione risulta solo parzialmente risolta dal dato normativo e, in particolare, dall’art. 2217, co. 2, il quale generalizza la disciplina del bilancio delle società per azioni nella parte relativa alle valutazioni (art. 2426), seppur con il limite dell’“in quanto applicabile”, parte che pertanto troverà applicazione nei bilanci di tutte le imprese. Delle regole di valutazione delle voci o aggregati di voci di bilancio ci occuperemo nel secondo volume. Tuttavia, giova segnalare sin d’ora che tali regole sono ispirate al postulato (o principio) della prudenza (art. 2423-bis, co. 1, nn. 1 e 4): postulato che mira a pervenire ad una determinazione del reddito di esercizio non eccedente rispetto alla ricchezza prodotta effettivamente attraverso la gestione e, di conseguenza, preservare il patrimonio destinato all’impresa e la relativa capacità produttiva da depauperamenti patrimoniali mascherati sotto forma di utili.

La questione accennata or ora resta invece affidata integralmente all’interprete con riguardo alle strutture di bilancio, a proposito della quale ci si interroga sulla possibilità di mutuare dalla disciplina del bilancio della società per azioni anche le norme relative a questo profilo (artt. 2423-ter, 2424, 2425, 2425-ter, 2427). L’orientamento ad oggi prevalente risponde in senso affermativo, concludendo allora che le strutture previste per il bilancio delle società per azioni debbano essere osservate anche nei bilanci di tutte le imprese 12. Tuttavia, al riguardo, non può essere trascurato che le strutture del bilancio della società per azioni sono prescritte dal dato normativo (peraltro, in attuazione di disposizioni europee: cfr. artt. 3 ss., dir. 78/660/CEE) per assecondare le attese conoscitive minime che i diversi interessi coinvolti nell’impresa hanno in un determinato momento storico 13. Sicché, tali strutture fanno pendant con l’obbligo di portare il bilancio a conoscenza dei terzi, cioè con l’obbligo di pubblicità del bilancio, attraverso il suo deposito nel registro delle imprese (v. art. 2435). In quest’ottica, la conclusione secondo cui sarebbe possibile generalizzare la disciplina del bilancio delle società per azioni anche nella parte riguardante le strutture suscita non poche perplessità 14. Infatti, essa potrebbe condividersi laddove anche nelle altre forme di impresa, come nelle società per azioni e nelle altre società di capitali e cooperative, fosse previsto un obbligo di pubblicità del bilancio. Ma in alcune di tali altri forme può senz’altro escludersi, perlomeno ad oggi, che un siffatto obbligo vi sia, come, ad es., nelle società di persone e nelle imprese individuali 15.

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Sul punto, RACUGNO, L’ordinamento, 121 ss.; DE ANGELIS, Elementi, 7 ss.; BOCCHINI, Diritto della contabilità delle imprese, II, Bilancio d’esercizio4, Torino, 2016, 41. 12 In questo senso, NIGRO, Imprese commerciali, 721; CAMPOBASSO. In giurisprudenza, con specifico riferimento al bilancio delle società di persone, Cass. 20-4-1995, n. 4454, GIt, 1995, I, 1, 2101. Per un quadro di sintesi, da ultimo, BENATTI, Il rendiconto delle società di persone, Milano, 2006, 129 ss. 13 Sul punto, CATTANEO-MANZONETTO, Il bilancio d’esercizio. Profili teorici e istituzionali negli anni novanta, Milano, 1992, 1 ss. e 17 ss.; BOCCHINI, op. ult. cit., 14 ss. e 30 ss. 14 Analogamente, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 585. 15 Sul punto, FERRI, voce Scritture contabili, 819 e 823. Invece, sulla sussistenza di un obbligo di pub-

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Pertanto, in queste ultime realtà imprenditoriali non sembra azzardato ritenere che il bilancio possa avere una struttura diversa da quella che, per i motivi suddetti, risulta rigidamente imposta nella società per azioni, atteso che tale documento non è destinato ad avere diffusione – quanto meno obbligatoria – all’esterno dell’impresa 16.

III. Le formalità di tenuta delle scritture contabili Il dato normativo prescrive alcune formalità di tenuta delle scritture contabili. Si tratta di regole ormai per larga parte desuete, essendo pensate per una tenuta manuale delle scritture contabili, laddove oggi la tenuta delle stesse è essenzialmente informatizzata. Così è per le formalità cc.dd. intrinseche (obbligo di redazione senza spazi in bianco, senza interlinee, senza trasporti in margine, senza abrasioni e senza cancellature, quanto meno non leggibili: art. 2219), che specificano il principio secondo cui le scritture contabili devono essere tenute secondo norme di ordinata contabilità 17. Lo è un po’ meno per le formalità cc.dd. estrinseche (numerazione, bollatura e vidimazione: art. 2215, co. 1), alcune delle quali (la numerazione e, eventualmente, per le scritture diverse dal libro giornale e dal libro degli inventari, anche la bollatura e la vidimazione) devono essere assolte anche nel caso di tenuta informatica delle scritture contabili, mediante l’apposizione della marcatura temporale e della firma digitale dell’imprenditore (art. 2215bis, co. 3) 18. Inoltre, occorre segnalare che la tenuta informatica delle scritture contabili è consentita a condizione che le stesse siano consultabili in ogni momento con i mezzi messi a disposizione dal soggetto obbligato alla suddetta tenuta e a condizione che sia possibile estrarne copia riportando quest’ultima su opportuni mezzi di supporto (art. 2215-bis, co. 2).

IV. La conservazione delle scritture contabili. L’utilizzo come mezzi di prova Le scritture contabili devono essere conservate (assieme alla corrispondenza e alle fatture spedite e ricevute: art. 2220, co. 2) per dieci anni dall’ultima registrazione (art. 2220, co. 1). La conservazione può avvenire anche per il tramite di supporti di imblicità del bilancio d’esercizio negli enti non societari che esercitano un’impresa, CETRA, Impresa, sistema e soggetti, Torino, 2008, 105 ss. 16 Così anche FERRI jr./Dir. impr. - Man. breve. 17 Su tali norme, che consentono alla discrezionalità dell’imprenditore di assicurare che i sistemi di contabilizzazione siano in ogni circostanza razionali e idonei a fornire una rappresentazione chiara e completa dello svolgimento dell’impresa, dei suoi risultati e della consistenza patrimoniale ad essa destinata, NIGRO, Le scritture, 232 s. 18 La numerazione è obbligatoria per tutte le scritture contabili mentre la bollatura e la vidimazione possono essere rese obbligatorie da leggi speciali per le scritture contabili diverse dal giornale e dall’inventario. Peraltro, è controverso se, nei casi in cui non ci sia una specifica prescrizione di legge, la bollatura sia facoltativa solo nelle scritture contabili facoltative o anche in quelle obbligatorie diverse dal giornale e dall’inventario (cfr. art. 2218 c.c.): per un quadro di sintesi, nonché per i necessari ragguagli sulla contabilità automatizzata, BOCCHINI, Diritto, 79 ss. e 81 ss.

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SEZ. III – Organizzazione e “circolazione” dell’impresa

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magine, a condizione che le registrazioni (o i documenti) possano essere messi a disposizione in ogni momento (art. 2220, co. 3). Infatti, le scritture contabili assolvono ad un’importante funzione di prova relativamente all’esistenza di obbligazioni e/o diritti. In altri termini, le scritture contabili possono costituire mezzi di prova (artt. 2709 ss.) 19. In linea di principio, le scritture contabili (obbigatorie o facoltative) fanno prova soltanto contro l’imprenditore (art. 2709). La ragione è duplice e si coglie agevolmente: da un lato, le scritture contabili sono tenute dall’imprenditore stesso, il quale potrebbe riportarvi una versione dei fatti non veritiera ma a sé favorevole; dall’altro, le scritture contabili sono tenute solo dall’imprenditore commerciale, sicché si potrebbe profilare una disparità di trattamento nei mezzi di prova tra quest’ultimo e chi non è assoggettato ad un analogo obbligo documentale 20. Solo eccezionalmente, dunque, le scritture contabili possono fare prova anche a favore dell’imprenditore, ma ciò alla duplice condizione che siano state osservate le formalità di tenuta di cui si è detto nel par. precedente e che la controversia riguardi rapporti tra imprenditori e rapporti inerenti alle loro imprese (art. 2710) 21. Al di fuori di questa eventualità, le scritture contabili fungono per l’imprenditore solo da indizio 22. Le scritture contabili possono essere prodotte in giudizio attraverso l’esibizione o la comunicazione: con la prima, il giudice ordina l’estrazione delle registrazioni o di singole scritture contabili concernenti la controversia in corso (art. 2711, co. 2); con la seconda (che può essere disposta – per evidenti esigenze di riservatezza – solo nei casi in cui la controversia riguardi lo scioglimento della società, la comunione dei beni o la successione per causa di morte: art. 2711, co. 1), il giudice ordina la produzione integrale delle scritture contabili. Inoltre, le scritture contabili che rispettino le formalità prescritte dalla legge possono essere utilizzate come mezzi di prova nei procedimenti finalizzati all’emissione di un decreto ingiuntivo riguardante i crediti relativi alla somministrazione di merci e di denaro o alla prestazione di servizi. In tal caso le scritture contabili devono essere prodotte in giudizio per estratto autenticato da un notaio (art. 634, co. 2, c.p.c.).

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L’utilizzazione delle scritture contabili quali mezzi di prova è strettamente connessa alla natura giuridica che si riconosce alle scritture medesime: sia come documento sia come registrazione. Per un quadro di sintesi, pervenendo alla conclusione che esse come documento sono scritture private e come registrazione sono manifestazioni di scienza non recettizie, PANUCCIO, La natura, 11 ss. e 62 ss. E v., anche, QUATTROCCHIO, voce Libri e scritture contabili, D4, sez comm, XIV, 1997, 523 e 539 ss. 20 Sul punto, ampiamente, BOCCHINI, Diritto, 96 ss.; RACUGNO, L’ordinamento, 73 s. 21 Sul punto, ampiamente, NIGRO, Le scritture, 243 ss.; RACUGNO, L’ordinamento, 75 ss. L’efficacia probatoria a favore dell’imprenditore si esplicherebbe anche nei rapporti con un piccolo imprenditore, secondo Cass. 21-8-2004, n. 16513. 22 La conclusione è pressoché pacifica in giurisprudenza. Ex multis, Cass. 4-5-1987, n. 4145.

[§ 8]

CETRA – I collaboratori di impresa

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§ 8. I COLLABORATORI DI IMPRESA SOMMARIO: I. I collaboratori interni. – 1. La disciplina generale. – 2. L’institore. – 3. Il procuratore. – 4. I commessi. – II. I collaboratori esterni: cenni.

LETTERATURA: BARTALENA, voce Commesso, D4, sez comm, III, 1988; BELVISO, L’institore, I, Napoli, 1966; ID., voce Institore, EncGiur, XIX, 1989; BONELLI, Studi in tema di rappresentanza e di responsabilità dell’imprenditore, Milano, 1968; CORAPI, La rappresentanza commerciale, Tr. Galgano, III, 1979; COSTI, voce Procuratore, NovD, XIII, 1968; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983; FANELLI, voce Ausiliari dell’imprenditore, EncD, IV, 1959; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione 2, Comm. Scialoja-Branca, 1968; GUIZZI, Gestione rappresentativa e attività d’impresa, Padova, 1997; MASI, Articolazione dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli, 1985; NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, Tr. Rescigno, 15**2, 2001, 595; PODETTI, voce Institore, D4, sez comm, VII, 1992; SARALE, voce Procuratore, D4, sez comm, XI, 1995; STOLFI, L’atto di preposizione. Contributo alla teoria dell’impresa, Milano, 1974.

La disciplina dell’impresa considera l’organizzazione non solo sotto il profilo documentale, cioè della memoria storica e della ordinata e puntuale rappresentazione dei fatti e degli accadimenti relativi all’attività nel suo complesso, ma anche da un altro non meno importante punto di vista, cioè quello della struttura e delle sorti dell’apparato produttivo. Come si è visto a suo tempo, nei fenomeni imprenditoriali riguardati, l’organizzazione assume un ruolo centrale, essendo in grado di svolgere il processo produttivo nella sua interezza. Si tratta di un’organizzazione tipicamente complessa, normalmente composta sia da un profilo personale sia da un profilo materiale: si fa riferimento, con la prima espressione, ai diversi soggetti impiegati nell’apparato produttivo nelle diverse mansioni (i collaboratori interni di impresa); con la seconda, ai diversi beni materiali e immateriali che costituiscono l’apparato produttivo (l’azienda). La disciplina dell’impresa si occupa dell’organizzazione sotto entrambi i profili. Non vi è però, naturalmente, alcuna regolamentazione generale di come l’organizzazione debba essere strutturata e articolata: ciò attiene alle libere scelte strategiche dell’imprenditore. La prospettiva con cui si affrontano i suddetti profili è invece più circoscritta e oltretutto diversa per ciascuno di essi: quanto al profilo personale, si stabilisce il regime giuridico della sostituzione nel comportamento imprenditoriale concernente le decisioni e le dichiarazioni, atteso che nelle iniziative imprenditoriali che superano certe soglie dimensionali può essere necessario decentrare le decisioni e le dichiarazioni, al fine di non rischiare di compromettere l’efficienza della gestione; quanto al profilo materiale, si stabilisce il regime giuridico della sostituzione nell’uso e nella titolarità dell’apparato dei beni impiegati nell’esercizio dell’impresa, atteso che

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la ricchezza investita e stabilmente destinata all’iniziativa imprenditoriale può essere oggetto di circolazione.

I. I collaboratori interni Il dato normativo contempla tre tipologie di collaboratori interni di impresa, distinguendo le stesse a seconda del posto occupato nell’ambito dell’apparato organizzativo e, di conseguenza, dei poteri tipicamente attribuiti ad ognuna di esse per l’espletamento delle mansioni affidate 1. a) La prima è la figura dell’institore, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano il livello più elevato nell’organigramma di impresa. Infatti, essi sono preposti all’esercizio dell’impresa, ad una sede secondaria o ad un ramo particolare, vale a dire al vertice dell’intera iniziativa o di una sua parte, identificata da una delimitazione territoriale (la sede secondaria) o da una delimitazione funzionale (il ramo d’impresa). In particolare, essi sono dei veri e propri alter ego dell’imprenditore o, quanto meno, dei soggetti con qualifiche dirigenziali, che nel linguaggio comune sono noti come direttori generali, direttori di filiale o responsabili di uno specifico settore produttivo 2. b) La seconda è la figura del procuratore, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano un livello intermedio nell’organigramma di impresa. Infatti, essi sono preposti al compimento di atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, vale a dire di atti riconducibili ad uno specifico ambito funzionale, quale può essere il personale, gli acquisiti, le vendite, il marketing, ecc. In particolare, essi sono soggetti con qualifiche dirigenziali rispetto ad uno degli ambiti funzionali testé menzionati, che nel linguaggio comune sono noti come direttori del personale, responsabili del servizio commerciale, responsabili della comunicazione, ecc. 3. c) La terza è la figura dei commessi, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano il livello più basso nell’organigramma di impresa. Infatti, essi sono preposti al compimento di atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni di cui sono incaricati, vale a dire le diverse operazioni che consentono all’impresa di interfacciarsi con i terzi e, più in generale, con il mercato, attraverso la cessione

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Per un quadro d’insieme sui collaboratori interni e sulla rilevanza della loro preposizione nell’apparato organizzativo d’impresa, FANELLI, voce Ausiliari dell’imprenditore, 315 s. e 317 s.; STOLFI, L’atto di preposizione, 301 ss. 2 In generale sulla figura dell’institore, BELVISO, voce Institore, 1 s.; PODETTI, voce Institore, 423 ss. e 437 s. Peraltro, è controverso se vi sia coincidenza tra la figura dell’institore e la figura del direttore generale di società per azioni, prevalendo l’opinione negativa, sulla base del rilievo che al primo competano dei poteri che non necessariamente spettano al secondo (sul punto, anche per una sintesi del dibattito, BORGIOLI, I direttori generali di società per azioni, Milano, 1975, 110 ss.; ABBADESSA, Il direttore generale, Tr. Colombo-Portale, 4, 1991, 462 s.). 3 In generale sulla figura del procuratore, COSTI, voce Procuratore, 1248 ss.; SARALE, voce Procuratore, 380 s. E v., anche, Cass. 19-2-1993, n. 2020, RDComm, 1993, II, 423, che riconduce alla figura del procuratore un collaboratore che ha poteri circoscritti ad un determinato settore funzionale dell’impresa (ufficio vendite).

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dei beni e dei servizi prodotti o dei beni in precedenza acquistati. In particolare, essi sono soggetti con qualifiche essenzialmente esecutive 4.

1. La disciplina generale Ciascuna di queste figure è investita dei poteri necessari al compimento delle mansioni ad essa tipicamente sottostanti. Ed è investita di tutti i poteri: non solo dei poteri decisori, che consentono ai singoli collaboratori di assumere le decisioni rientranti nel proprio ambito operativo (se, cosa, come, quando fare qualcosa, ecc.); ma anche dei poteri dichiaratori, che consentono ai medesimi collaboratori di dare esecuzione alle decisioni prese, attraverso la stipulazione di atti negoziali e, in particolare, di contratti con i terzi (spiccare un assegno, disporre un bonifico, ricevere un pagamento, stipulare un contratto, ecc.) 5. Più precisamente, il dato normativo, muovendo dal presupposto che l’imprenditore che si avvale di collaboratori non fa altro che articolare il processo decisionale dell’impresa, fa sì che ciascuno di essi sia un vero e proprio centro decisionale e, di conseguenza, commisura al potere decisionale così decentrato il potere di rappresentanza. Nel senso che attribuisce ad ogni collaboratore poteri di gestione esterna (cioè, di rappresentanza) congrui rispetto ai poteri di gestione interna (cioè, decisori) che ad esso fanno capo tipicamente e, quindi, lo legittima al compimento di tutti quanti gli atti necessari per dare attuazione alle decisioni assunte nell’esercizio delle sue funzioni 6. In altre parole, conforma il potere di rappresentanza di ogni collaboratore alla circostanza che esso sia investito del compito di porre in essere un’attività, che coincide con l’intera iniziativa imprenditoriale o con una frazione di essa. Il che è evidentemente finalizzato ad agevolare lo svolgimento dei traffici commerciali all’insegna della massima sicurezza, atteso che i terzi con cui quel collaboratore entra in contatto sono sgravati dall’onere di accertare l’esistenza dei poteri di spendita del nome dell’impresa, in quanto poteri connaturati a tale specifica figura 7. D’altra parte, nell’eventualità in cui si voglia circoscrivere il potere che appartiene normalmente ad un collaboratore, cioè apportare limitazioni ai suoi poteri naturali – 4

In generale sulla figura del commesso, BARTALENA, voce Commesso, 160 ss. Sottolineano come tali poteri abbiano una fonte organizzativa, cioè discendano dalla preposizione del singolo collaboratore in una certa posizione dell’organizzazione d’impresa, quindi prescindano da una specifica volontà dell’imprenditore e, soprattutto, dal tipo di rapporto che lega il collaboratore all’imprenditore, BONELLI, Studi, 221 ss.; STOLFI, L’atto di preposizione, 289 ss.; CORSI, Diritto dell’impresa2, Milano, 2003, 58 s.; con specifico riferimento al procuratore, CORAPI, La rappresentanza, 333; Cass., 136-2014, n. 13539, GComm, 2015, II, 1182; con specifico riferimento ai commessi, NIGRO, Imprese commerciali, 704. Nel senso invece della fonte negoziale dei poteri (il rapporto di collaborazione gestoria), GUIZZI, Gestione rappresentativa, 176 ss.; con specifico riferimento all’institore (la procura), BELVISO, L’institore, 100 ss.; ID., voce Institore, 2 ss. 6 Sulla compenetrazione dei poteri di rappresentanza e di decisione, che induce a riscontrare sui collaboratori una vera e propria posizione “organica”, BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960, 344 s.; STOLFI, L’atto di preposizione, 292 ss. 7 Così, e più in generale sulla funzione di sicurezza dei traffici che persegue la disciplina adesso in esame, CORAPI, La rappresentanza, 311 ss. 5

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che possono essere limitazioni qualitative (ad es., s’intende precludere la possibilità di contrattare con alcuni fornitori o operare in determinati mercati) e/o limitazioni quantitative (ad es., s’intende precludere la possibilità di assumere obbligazioni eccedenti un determinato ammontare) – occorre un atto specifico che le formalizzi, soprattutto con riferimento a quelle relative al potere di rappresentanza. L’atto in questione prende il nome di procura 8. In quest’eventualità, si pone il problema di come rendere opponibili nei confronti dei terzi i limiti contenuti nella procura e, in particolare, i limiti che interessano il potere di rappresentanza. Problema che viene risolto attraverso l’assoggettamento della procura ad un regime di pubblicità: alla pubblicità di impresa mediante l’iscrizione della procura stessa nel registro delle imprese, nel caso in cui essa sia rilasciata all’indirizzo degli institori o dei procuratori; alla pubblicità di fatto rendendo conoscibile la procura con mezzi idonei, nel caso in cui essa sia rilasciata all’indirizzo dei commessi. In assenza di tale pubblicità, la procura e, quindi, i limiti che essa contiene, non può essere opposta ai terzi, a meno che non si provi che questi ultimi erano comunque a conoscenza dei relativi limiti. L’inopponibilità fa sì che la violazione di detti limiti da parte dei collaboratori non abbia alcuna conseguenza all’esterno e, in particolare, non pregiudichi l’efficacia, nei confronti dell’imprenditore rappresentato, degli atti posti in essere (ad es., se l’institore, contravvenendo al divieto contenuto nella procura – non iscritta – di stipulare contratti con fornitori stranieri, acquisti un macchinario da un produttore estero, il relativo contratto produrrà comunque effetti in capo al dominus e lo obbligherà a pagare il prezzo pattuito). Pertanto, la violazione avrà conseguenze solo all’interno dell’impresa e, in particolare, esporrà il collaboratore incorso in siffatta violazione a un’eventuale azione di responsabilità per i conseguenti danni arrecati all’imprenditore.

2. L’institore L’institore è il collaboratore preposto all’esercizio dell’impresa (art. 2203, co. 1) o ad una parte di essa, che può essere rappresentata da una sede secondaria o da un ramo particolare (art. 2203, co. 2). Può esservi un unico institore preposto all’intera iniziativa o ad una sua articolazione organizzativa o funzionale (sia che essa si presenti in forma di sede o di ramo) oppure possono esservi plurimi institori: uno preposto all’impresa e uno o più altri ad ogni sua articolazione organizzativa o funzionale (sede o ramo che siano) o ancora due o più ad ogni sua articolazione. Nel caso in cui vi siano più institori essi agiscono disgiuntamente (art. 2203, co. 3), cioè ognuno agisce indipendentemente dall’altro o dagli altri, rispetto all’ambito operativo che è stato assegnato ad ognuno di essi (l’intera impresa, la sede secondaria o l’unità funzionale). Ed agiscono disgiuntamente anche nel caso in cui vi siano più in8 Sulla procura, sottolineandone la funzione limitativa dei poteri dei collaboratori e, quindi, la diversità ontologica dalla procura ex art. 1392, con conseguente inapplicabilità della relativa prescrizione in ordine alla forma, NIGRO, Imprese commerciali, 694 s. e 699; diversamente, BELVISO, L’institore, 75 ss. e 357 ss.

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stitori per uno stesso ambito operativo (impresa, sede o unità). Infatti, un’eventuale azione congiunta, cioè coordinata e concordata tra gli stessi, costituirebbe una limitazione dei poteri dell’institore, che in quanto tale deve risultare da un’apposita procura (art. 2203, co. 3) 9. L’institore può compiere tutti gli atti pertinenti all’impresa (art. 2204, co. 1). In altri termini, l’institore ha poteri perimetrati dal criterio della pertinenza all’impresa, cioè può decidere e fare tutto ciò che sia astrattamente congruo rispetto all’iniziativa gestita, salva poi la necessità di verificare in concreto la sussistenza della congruità, a seconda della natura degli atti posti in essere e della circostanza in cui quegli atti sono stati posti in essere. Ed invero, la valutazione della pertinenza è qualcosa che può essere fatto solo ex post, cioè dopo il compimento dell’atto, al fine di accertare se in base alla natura e alle circostanze quell’atto risulta o meno compatibile rispetto alla specifica impresa gestita 10. Ad es., se un institore preposto all’esercizio di un’impresa di compravendita di scarpe inglesi decide di acquistare delle confezioni di té molto pregiato da omaggiare ai clienti particolarmente dispendiosi fa un atto pertinente o non pertinente all’impresa gestita? Potrebbe essere un atto pertinente, a condizione che una simile operazione possa essere considerata come un’operazione finalizzata alla fidelizzazione della propria clientela. Cosa che va accertata in ragione del valore dell’omaggio rispetto al prezzo unitario del bene venduto o rispetto all’ammontare complessivo di spesa superato il quale l’omaggio viene accordato. Se lo stesso institore decide di fare un atto di beneficenza, nella specie disponendo una donazione ad un’associazione di volontariato di pronto intervento sanitario a sostegno dell’acquisto di un’ambulanza, fa un atto pertinente o non pertinente all’impresa gestita? Potrebbe essere un atto pertinente, a condizione che una simile operazione possa essere considerata come un’operazione di marketing finalizzata a far apparire l’impresa come socialmente responsabile. Cosa che va accertata in ragione del valore della donazione rispetto al volume d’affari dell’impresa. Peraltro, se simili operazioni dovessero risultare ex post non pertinenti all’impresa, esse non sarebbero vincolanti per l’imprenditore, ma esporrebbero soltanto l’institore ad un’eventuale responsabilità per danni nel caso ci sia stata una lesione dell’affidamento incolpevolmente riposto dai soggetti con cui tali operazioni sono intercorse.

Ne consegue che l’institore non può spingersi al di là della gestione dell’impresa, come ad es. alienare (e secondo alcuni anche affittare) l’azienda oppure cambiare l’oggetto dell’impresa gestita (cc.dd. limiti impliciti ai poteri dell’institore) 11; così come 9 Sul punto, CORAPI, La rappresentanza, 329 s.; MASI, Articolazioni, 145 ss. Sottolinea tuttavia la necessità di assicurare una gestione secondo criteri uniformi, FERRI, Delle imprese, 97. Precisano inoltre che l’institore, per esser tale, non possa avere sopra di sé collaboratori gerarchicamente superiori, MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942, 497 s.; CASANOVA, Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 292 s. 10 In questo senso, BONELLI, Studi, 198 ss.; BELVISO, L’institore, 311. Nel senso invece che occorra considerare il genere delle imprese al quale è riconducibile l’impresa gestita, CORAPI, La rappresentanza, 322 s.; NIGRO, Imprese commerciali, 697 s.; MARTORANO/Buonocore. Sottolinea peraltro che una simile valutazione debba esser sempre fatta in concreto, FERRI, Delle imprese, 100. 11 Per questa conclusione, identificando gli atti di cui nel testo in tutti gli atti di gestione che siano

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non può alienare o ipotecare gli eventuali beni immobili di cui si compone l’azienda (cc.dd. limiti espliciti ai poteri dell’institore) (art. 2204, co. 1) 12. Peraltro, come già anticipato, all’institore possono essere sempre apportate ulteriori limitazioni ai suoi poteri da parte dell’imprenditore attraverso il rilascio di un’apposita procura (art. 2204, co. 1) 13. Tuttavia, tali ulteriori limiti devono poter essere resi opponibili nei confronti dei terzi. Il che si realizza attraverso la pubblicità della procura nel registro delle imprese, che fa scattare una presunzione assoluta di conoscenza riguardo al suo contenuto. L’eventuale omissione della pubblicità della procura medesima non consente invece di rendere opponibili ai terzi i limiti in essa contenuti (sussistendo una presunzione relativa di ignoranza), salvo che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza (art. 2206). Analogo discorso vale nel caso in cui i limiti debbano essere modificati (estesi) o l’incarico all’institore sia successivamente revocato del tutto (art. 2207).

L’institore aggiunge ai poteri sostanziali i poteri processuali (che dovrebbero essere della stessa portata dei primi), potendo stare in giudizio per l’imprenditore come attore o come convenuto (2204, co. 2) 14. L’institore è tenuto, assieme all’imprenditore, all’osservanza delle disposizioni riguardanti le scritture contabili e la pubblicità commerciale (art. 2205). Cioè, è tenuto, assieme all’imprenditore, all’osservanza degli obblighi di impresa, essendo il collaboratore preposto all’intera iniziativa o ad una sua articolazione organizzativa o funzionale 15. Pertanto, se l’institore è preposto all’intera impresa dovrà assicurare in generale l’adempimento degli obblighi in tema di scritture contabili e di pubblicità relativi ad essa. Invece, se è preposto ad una sede secondaria dovrà assicurare la tenuta delle eventuali scritture contabili che documentano i fatti relativi alla filiale e l’adempimento dell’obbligo pubblicitario relativo alla sede secondaria.

L’institore è poi tenuto a spendere il nome dell’imprenditore. In caso di omissione, diventa titolare di tutti gli atti compiuti a proprio nome (atteso che – come si è già ricordato: v., supra, § 5.II.2 – i singoli atti sono imputati secondo il principio della

normali e adeguati alle dimensioni e al tipo di impresa (c.d. gestione ordinaria), CORSI, Il concetto di amministrazione nel diritto privato, Milano, 1974, 235 ss.; dello stesso avviso, DE MARTINI, Corso, 363. Parla invece di atti inerenti alle funzioni direttive dell’impresa o del ramo di impresa cui è preposto, CORAPI, La rappresentanza, 322. 12 Sul punto, precisando che il limite non opera nelle imprese che hanno ad oggetto il commercio di immobili, CAMPOBASSO. 13 In generale, sui limiti apponibili ai poteri dell’institore, sottolineando che essi non possono essere tali e tanti da svuotare la figura, CASANOVA, Impresa, cit., 299 ss.; più di recente, PODETTI, voce Institore, 431 s. 14 Sulla legittimazione processuale, CASANOVA, Impresa, cit., 302 s. Sugli eventuali limiti apponibili ai poteri processuali, CAMPOBASSO. 15 Sul punto, sottolineando come la portata degli obblighi sia simmetrica rispetto alla portata dei poteri di gestione, NIGRO, Imprese commerciali, 702; CORSI, Il concetto di amministrazione, cit., 60 s.

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spendita del nome: art. 1705, co. 1). Tuttavia, se si tratta di atti (quanto meno astrattamente) pertinenti all’impresa, si affianca anche la responsabilità dell’imprenditore (art. 2208) 16. Se ne può dedurre che per gli atti di impresa non viene meno la naturale responsabilità del preponente – e, quindi, in fin dei conti, si ha una conferma (ulteriore) della superfluità della spendita del nome ai fini dell’imputazione dell’impresa – quanto meno laddove l’institore risulti essere integrato nell’organizzazione di impresa a tal punto da rendere il medesimo socialmente conoscibile (nel senso che non è necessario che si palesi ogni volta), ingenerando nei terzi la piena consapevolezza di trattare con un institore 17.

3. Il procuratore Il procuratore è il collaboratore che compie atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur senza esservi preposto (art. 2209). Per questa figura non è stabilita una vera e propria disciplina specifica. Ad essa è dedicata solo una norma, l’art. 2209, che si limita a rinviare agli artt. 2206 e 2207 dettati per l’institore, con riguardo alla pubblicità, alla modifica e alla revoca della procura. Dal che si è tratta, da parte di qualcuno, la conclusione che il procuratore sia una figura di decentramento della sola attività dichiarativa, cioè dotata soltanto di poteri di rappresentanza, pertanto priva di poteri decisionali 18. Tuttavia, si tratta di una conclusione non condivisa dall’opinione prevalente, la quale è invece dell’avviso che il procuratore abbia anche poteri decisionali, seppur circoscritti al proprio ambito operativo 19. Peraltro, i primi come i secondi poteri possono essere limitati dall’imprenditore, attraverso il rilascio di un’apposita procura. Non essendo preposto all’impresa o ad una parte di essa, il procuratore non ha invece rappresentanza processuale. E per la stessa ragione, sul procuratore non incombono doveri che attengono all’impresa, come quelli che hanno ad oggetto la tenuta delle scritture contabili o la pubblicità 20. Sempre per la stessa ragione, non può prospettarsi in nessun caso la re-

16 Sul punto, mettendo chiaramente in evidenza che la norma racchiude due diversi sistemi di rappresentanza (quello per atti – laddove prevede la responsabilità dell’institore – e quello per attività – laddove prevede la responsabilità del preponente) che vengono fatti convivere solo per necessità pratica (e cioè per non porre a carico dei terzi l’onere di verificare la pertinenza dell’atto all’impresa), CORAPI, La rappresentanza, 320 s.; ed anche NIGRO, Imprese commerciali, 700 s. 17 In questi termini, SPADA; PISCITELLO/Dir. impr. - Man. breve. Parlano invece di contemplatio domini “presunta”, BRACCO, L’impresa, cit., 350 ss.; FERRI, Delle imprese, 115. 18 In questo senso, la dottrina più risalente, FERRI, Delle imprese, 116 ss.; CASANOVA, Impresa, cit., 311 s.; ma più di recente anche SPADA. 19 In questo senso, tra gli altri, COSTI, voce Procuratori, 1252 s.; CORAPI, La rappresentanza, 332; DE MARTINI, Corso, 368; SARALE, voce Procuratori, 380 s.; NIGRO, Imprese commerciali, 703; BONFANTECOTTINO, L’imprenditore, cit., 603; Cass. 13-6-2014, n. 13539, cit. 20 Nel senso del testo, sui poteri e doveri dei procuratori, da ultimo, SARALE, voce Procuratori, 383 s.; NIGRO, Imprese commerciali, 703 s.

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sponsabilità del preponente in caso di omessa spendita nel compimento di atti di impresa, come attesta il mancato richiamo dell’art. 2208 21.

4. I commessi I commessi sono collaboratori che compiono gli atti che comporta ordinariamente la specie di operazioni cui sono incaricati (art. 2210, co. 1). I commessi, come le altre figure di collaborati già esaminate, hanno poteri decisori e dichiaratori che attengono alla specie di operazioni che sono incaricati di porre in essere. Tuttavia, tali poteri sono perlopiù del secondo tipo, inerendo essenzialmente operazioni o gruppi di operazioni privi di autonomia funzionale e necessitando più che altro di essere eseguite con i terzi con cui l’impresa entra in contatto. Proprio in quest’ottica, il dato normativo detta specifiche disposizioni riguardanti il momento della conclusione dei contratti (artt. 2211 e 2212) e, in particolare, della vendita (artt. 2210, co. 2 e 2213). Le prime norme ora richiamate impongono ai commessi di attenersi agli eventuali contratti standard utilizzati per la contrattazione d’impresa e di non derogare alle condizioni generali del contratto (art. 2211); nonché autorizzano i commessi a ricevere le dichiarazioni che riguardano l’esecuzione dei contratti e i reclami relativi alle adempienze contrattuali (art. 2212, co. 1); infine legittimano i commessi a chiedere eventuali provvedimenti cautelari (art. 2212, co. 2) 22. Le seconde accordano ai commessi il potere di concedere i soli sconti e/o le sole dilazioni di pagamento che rientrano negli usi commerciali (pertanto, non gli sconti e le dilazioni eccedenti gli usi) (art. 2210, co. 2) nonché di riscuotere il prezzo delle merci vendute, salvo che alla riscossione non sia destinata una cassa speciale (art. 2213, co. 1): il che avviene, tipicamente, nei casi in cui alla vendita non faccia seguito la relativa consegna della merce venduta (si pensi all’acquisto di un mobile in un negozio di arredi) (art. 2210, co. 2) e, più in generale, quando la riscossione del prezzo confluisce in un’area autonoma sul piano funzionale alla quale è preposto un procuratore (si pensi ai grandi magazzini specializzati nella vendita all’ingrosso) 23.

II. I collaboratori esterni: cenni Tipicamente, un’impresa si avvale non soltanto di collaboratori interni, stabilmente inseriti all’interno del suo contesto organizzativo, bensì anche di collaboratori esterni, collocati, cioè, all’esterno della sua organizzazione. Questi ultimi sono a loro volta delle imprese (cc.dd. imprese ausiliarie di cui all’art. 2195, co. 1, n. 5), che producono, talvolta addirittura in regime di esclusiva, be21

Si pronuncia invece per l’applicabilità dell’art. 2208 anche ai procuratori, COSTI, voce Procuratori, 1255. Sui doveri e sui poteri dei commessi di cui agli artt. 2211 e 2212 e, in particolare, sulla legittimazione dei commessi a chiedere i provvedimenti cautelari, FERRI, Delle imprese, 19 s.; BARTALENA, voce Commesso, 162 s. 23 Sui poteri di cui agli artt. 2210 e 2213, DE MARTINI, Corso, 372 s.; BARTALENA, voce Commesso, 163 s.; NIGRO, Imprese commerciali, 704 s. 22

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ni e servizi per l’impresa ausiliata. Infatti, non è raro che un’impresa affidi a terzi una o più fasi del proprio processo produttivo, che vanno dalla produzione di beni e servizi necessari per il completamento del ciclo produttivo (si pensi allo outsourcing di componentistica o di semilavorati o della logistica e distribuzione di prodotti finiti), alla produzione di servizi finalizzati a promuovere, agevolare e concludere uno o più affari, generalmente in aree territoriali in cui l’impresa non è presente con il suo apparato organizzativo (si pensi ad un agente che promuove con riferimento ad una determinata zona la conclusione di contratti per il preponente o ad un commissionario che conclude uno o più contratti di vendita per conto del committente o ad un concessionario che si approvvigiona e rivende prodotti del concedente). Queste forme di collaborazione si realizzano attraverso una variegata tipologia di schemi contrattuali, tra i quali meritano di essere ricordati: a) la subfornitura: contratto con il quale un imprenditore s’impegna ad effettuare per conto di un’impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima (subfornitura c.d. di lavorazione), o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell'attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso (subfornitura c.d. di prodotto), in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente (art. 1, co. 1, l. 192/1998) 24; b) la spedizione e/o il trasporto: il primo è una specie di contratto di mandato, con il quale un imprenditore (il mandante) affida ad uno spedizioniere (tipicamente, un altro imprenditore) il compito di concludere, in nome proprio e per conto del primo, un contratto di trasporto e a compiere le operazioni accessorie (art. 1737 c.c.); il secondo è un contratto con il quale un imprenditore (il mittente) affida, verso corrispettivo, ad un vettore (tipicamente, un altro imprenditore) il compito di trasferire persone o cose da un luogo ad un altro (art. 1678) 25; c) l’agenzia: contratto con il quale un imprenditore affida ad un agente (tipicamente, un altro imprenditore) l’incarico di promuovere, stabilmente e verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata (art. 1742); se poi l’agente ha anche il potere di concludere tali contratti direttamente, cioè in nome e per conto del preponente, egli si qualifica come rappresentante di commercio 26;

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Su tale contratto, tra gli altri, BERTOLOTTI, Il contratto di subfornitura, Torino, 2000, 12 ss.; CALa subfornitura, in Tr. Cottino, IX2, 2009, 629 ss.; SUPPA, voce Subfornitura (contratto di), EncGiur., XXXV, Roma, 2004, 2; PARDOLESI, La subfornitura, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di Castronovo-Mazzamuto, II, Milano, 2007, 1065; ASTONE, La subfornitura, in Diritto civile, diretto da Lipari-Rescigno, coordinato da Zoppini, III/3, Milano, 2009, 611. 25 Sul contratto di spedizione, in luogo di molti, LUMINOSO, Mandato, commissione, spedizione, in Tr. Cicu-Messineo, XXXII, 1984, 628 ss.; ID., La spedizione, in Diritto civile, diretto da Lipari-Rescigno, coordinato da Zoppini, III/3, Milano, 2009, 494. Sul contratto di trasporto, con specifico riferimento al trasporto di cose, in luogo di molti, CAGNASSO-COTTINO, Il contratto di trasporto, in Tr. Cottino, IX2, 2009, 404 ss., spec. 473 ss.; BUSTI, Il contratto di trasporto terrestre, in Tr. Cicu-Messineo, XXVI/1, 2007, 29 ss. e 161 ss.; ID., Il contratto di trasporto aereo, ivi, XXVI/3 Milano, 2001, 1 ss.; CARBONE, Il contratto di trasporto marittimo di cose2, ivi, XXVI/2, 2010, 127 ss. 26 Sul contratto di agenzia, ex multis, ZUDDAS, Il contratto di agenzia, in Tr. Buonocore, II, 3.9, 2005, 223 ss.; TOFFOLETTO, Il contratto d’agenzia, in Tr. Cicu-Messineo, XXXI/2, 2008, 41 ss. GNASSO-COTTINO,

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d) la commissione: una specie di contratto di mandato, con il quale un imprenditore (il mandante) affida ad un mandatario (tipicamente, un altro imprenditore) il compito di concludere in nome proprio e per conto del primo uno o più contratti di compreavendita (art. 1731) 27; e) la concessione: a differenza degli altri contratti sinora ricordati, quello di concessione è un contratto atipico; con esso un imprenditore (il concessionario) compra dal concedente (tipicamente, un produttore di beni a fecondità ripetuta), generalmente in regime di esclusiva, i beni che poi rivende ai terzi 28. Alcuni di questi contratti, come si vede, attribuiscono all’ausiliario poteri decisori in ordine alla specifica funzione da compiere (al commissionario, ad es., in merito alla scelta della merce da acquistare). In qualche caso vi si accompagnano anche dei poteri dichiaratori (ad es., al rappresentante di commercio) 29. La fonte di questi ultimi è allora la rappresentanza di diritto comune, cioè essi sono attribuiti per il tramite di una procura regolata dagli artt. 1387 ss., trattandosi di poteri che si riconoscono per il compimento non di tutta l’attività che costituisce l’incarico, ma di singoli atti in cui esso si articola. La struttura decisionale di un’impresa può essere dunque molto articolata e molti possono essere i soggetti titolari di poteri rappresentativi, come tali in grado di compiere atti dell’impresa stessa, in nome del relativo titolare (si tratti di persona fisica, di società o di altro ente). La presenza di collaboratori esterni con poteri di rappresentanza è d’altra parte, in alcuni settori, molto diffusa (si pensi agli editori, che spesso si avvalgono di una complessa rete di agenti territoriali per la commercializzazione dei loro volumi). Dunque, le figure dei collaboratori interni, su cui sopra ci si è soffermati, non esauriscono affatto tale struttura. Si tratta, però, delle figure cui è dedicata una apposita disciplina speciale, di diritto commerciale, per il loro incardinamento nell’apparato organizzativo. La disciplina dei collaboratori esterni e dell’eventuale, loro potere rappresentativo, invece, non appartiene al diritto commerciale, ma al diritto privato.

27 Sulla commissione, tra gli altri, LUMINOSO, Mandato, cit., 597 ss.; ID., La commissione, in Diritto civile, diretto da Lipari-Rescigno, coordinato da Zoppini, III/3, Milano, 2009, 482 s. 28 Sulla concessione, tra gli altri, CAGNASSO, La concessione di vendita. Profili di qualificazione, Milano, 1983, 55 ss. e 138 ss.; ID.-COTTINO, La concessione di vendita, in Tr. Cottino, IX2, 2009, 216 ss.; ZUDDAS, Somministrazione, concessione di vendita, franchising, in Tr. Buonocore, II, 3.2, 2003, 191 ss. 29 È appena il caso di segnalare che moltissime delle collaborazioni esterne si instaurano attraverso un contratto di mandato: contratto, quest’ultimo, con il quale un imprenditore (il mandante) affida ad un mandatario (tipicamente, un altro imprenditore) il compito di compiere uno o più atti giuridici a suo nome e per conto del primo (art. 1703 c.c.). La letteratura sul mandato è vastissima: basti qui ricordare, anche per gli altri riferimenti, i fondamentali lavori di LUMINOSO, Mandato, cit., 41 ss.; ID., Il mandato, Torino, 2007, 1 ss.; ID., Il mandato, in Diritto civile, diretto da Lipari-Rescigno, 404 ss. e di SANTAGATA Del mandato. Disposizioni generali, in Comm. Scialoja-Branca, 1985, 44 ss. e 54 ss.

[§ 9]

CIAN – La “circolazione” dell’impresa: il trasferimento dell’azienda

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§ 9. LA “CIRCOLAZIONE” DELL’IMPRESA: IL TRASFERIMENTO DELL’AZIENDA SOMMARIO: I. La nozione di azienda. – 1. La composizione del complesso aziendale. – 2. Il ramo d’azienda. – 3. La natura giuridica dell’azienda; la c.d. “proprietà” dell’azienda. – II. Il trasferimento dell’azienda. – 1. Natura e causa del negozio di trasferimento. – 2. L’oggetto del negozio. – 3. Ambito di applicabilità della disciplina speciale. – 4. La forma e la pubblicità del contratto. – 5. Il divieto di concorrenza. – 6. La successione nei contratti. – 7. Crediti e debiti inerenti all’azienda. – III. Usufrutto e affitto dell’azienda. – 1. Usufrutto. – 2. Affitto. – IV. Altre vicende circolatorie e giudiziarie interessanti l’azienda.

LETTERATURA: AULETTA, Alienazione dell’azienda e divieto di concorrenza, RTrim, 1956, 1223; ID., voce Azienda, EncGiur, 1988; CASANOVA, Azienda, D4, sez comm, 1987; ID., Impresa e azienda, Tr. Vassalli, 1974; CIAN, Divieto di concorrenza (Trasferimento d’azienda), D4, sez. comm., Agg. ********, 2017; ID. La disciplina dell’azienda tra diritto dei beni e regolazione dei fatti d’impresa. Prolegomena, RDComm, 2016, I, 621; ID., Trasferimento d’azienda e successione nei rapporti rappresentativi, Milano, 1999; COLOMBO, L’azienda, Tr. Galgano, III, 1979; DE MARTINI, L’usufrutto d’azienda, Milano, 1950; DI GRAVIO, Il sequestro d’azienda, Padova, 1993; FERRARA jr., La teoria giuridica dell’azienda2, Milano, 1982; FERRARI, voce Azienda, EncD, IV, 1959; GHIDINI, Disciplina giuridica dell’impresa, Milano, 1950; MARTORANO, L’azienda, Tr. Buonocore, I/3, 2010; MINNECI, Trasferimento di azienda e regime dei debiti, Torino, 2007; PAVONE LA ROSA, La pubblicità degli atti di trasferimento dell’azienda, GComm, 2003, I, 107; PETTITI, Il trasferimento volontario d’azienda, Napoli, 1970; PROVINCIALI, Il sequestro d’azienda2, Napoli, 1959; RIVOLTA, Il trasferimento volontario d’azienda nell’ultimo libro di Domenico Pettiti, RDCiv, 1973, I, 13; ID., L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973; SPERANZIN-TINA, La cessione d’azienda, Tr. dei contratti, diretto da Roppo e Benedetti, II, Milano, 2014; TOMMASINI, Contributo alla teoria dell’azienda come oggetto di diritti, Milano, 1986; ID., L’azienda, Tr. CNN, 2009; VANZETTI, Osservazioni sulla successione nei contratti relativi all’azienda ceduta, RSoc, 1965, 512.

Lo svolgimento dell’attività d’impresa richiede sempre l’allestimento di un apparato produttivo di più o meno ampie dimensioni, potenzialmente composto dai più eterogenei fattori (beni immobili, materie prime, beni immateriali, sistemi informatici, macchinari, e così via), che vengono coordinati ed asserviti al perseguimento dell’unitario obiettivo economico. Questo apparato è l’azienda, che infatti è definita dal codice come il complesso dei beni che l’imprenditore (persona fisica o ente) organizza per l’esercizio dell’impresa (art. 2555). Essa appartiene dunque al mondo degli oggetti di diritto. Sebbene nel linguaggio comune l’uso delle espressioni “impresa”, “imprenditore”, “azienda”, “ditta” appaia spesso promiscuo, dal punto di vista normativo ciascuna di esse possiede uno specifico significato; in questo contesto, l’azienda non costituisce né il soggetto né l’attività, e non è dunque centro di imputazione di diritti e di obblighi, ma è, nei termini di cui si dirà, oggetto di (posizioni e di) vicende giuridiche.

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La disciplina che la riguarda (artt. 2556 ss.) è dedicata eminentemente a regolare taluni aspetti della sua circolazione. La cessione (o la concessione in godimento) dell’azienda non è una vicenda di semplice disposizione di beni, ma realizza il subentro di un nuovo soggetto nella sua gestione e dunque nell’esercizio dell’impresa che essa serve. È a questo particolare profilo che si indirizza la disciplina che ci accingiamo ad esaminare: l’attenzione del legislatore non si focalizza infatti né sulla struttura dell’unità operativa (che è rimessa alle libere scelte imprenditoriali), né sulla trasmissione dei beni in quanto tale, bensì e proprio sul fatto dell’avvicendamento di un soggetto ad un altro nell’esercizio di una attività in corso. Di qui l’opportunità di integrare la disciplina comune dell’atto traslativo posto in essere (compravendita, affitto, donazione, ecc.) con una normativa di settore, volta ad assicurare la realizzazione di questo specifico obiettivo, specie dal punto di vista dell’informazione al mercato (pubblicità nel registro delle imprese: art. 2556), dell’astensione dell’alienante da comportamenti potenzialmente idonei a vanificare gli effetti sostanziali del trasferimento (divieto di concorrenza: art. 2557), e del subentro del successore nel fascio di rapporti giuridici inerenti all’esercizio dell’attività e pendenti al momento del trasferimento stesso (artt. 2558, 2559, 2560, 2112). Il fenomeno disciplinato è dunque la sostituzione nella conduzione dell’impresa, che si attua tramite il trasferimento dell’unità operativa. Questa prospettiva è fondamentale per comprendere le ragioni della regolazione normativa dell’istituto e per interpretarla correttamente. Quella dedicata all’azienda è una disciplina dell’attività, non dei beni, il cui oggetto è una vicenda dell’impresa, non un semplice fatto circolatorio. Dell’azienda il legislatore si occupa poi in altre sedi, sempre nella prospettiva della sua valenza funzionale: così riconoscendone la possibile sottoposizione a sequestro giudiziario nel suo insieme (art. 670 c.p.c.), in modo da assicurarne la gestione unitaria e dunque la continuazione dell’attività anche nella fase litigiosa.

I. La nozione di azienda 1. La composizione del complesso aziendale Sotto il profilo economico, l’azienda rappresenta indubbiamente un’entità unitaria che trascende le singole componenti, sia sul piano del valore, sia su quello della funzione. È a questa caratteristica che fa riferimento anche la nostra giurisprudenza, quando individua tra i beni aziendali “un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo” 1. Tale vincolo è dato dall’organizzazione, cioè dal coordinamento dei diversi elementi da parte dell’imprenditore. Essa non costituisce un bene a sé stante, né assume un valore economico in quanto tale, ma imprime una specifica destinazione a ciascuno di quegli elementi e consente di trarre dal complesso una utilità altrimenti irrealizzabile. Alla base della sua attuazione vi è un progetto imprenditoriale, più o meno articolato, sviluppato nella fase di formazione dell’azienda, e che richiede una costante attività di mantenimento dell’efficienza produttiva. 1

Cass. 27-6-2002, n. 9354; Cass. 26-9-2006, n. 20815.

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L’unità operativa può essere composta da un insieme assai vario di beni. Giuridicamente, ciascuno di essi conserva la propria autonomia e rimane dunque oggetto di una posizione giuridica indipendente da quella degli altri beni. D’altra parte, non è necessario che l’imprenditore sia proprietario di ciascuno di essi, sufficiente essendo che egli abbia un titolo giuridico per poterne godere: appartiene conseguentemente all’azienda anche l’immobile presso il quale l’attività viene esercitata e che l’imprenditore conduce in forza di un contratto di locazione, il marchio per il cui uso egli ha conseguito una licenza, i macchinari goduti in leasing. L’azienda è inoltre complesso di beni mutevole, la cui composizione è destinata a variare pressoché quotidianamente, per effetto dell’ingresso di nuovi elementi (ad es., nuove materie prime) e della cessione di altri (prodotti finiti, macchinari obsoleti, ecc.). Anche la sua genesi non è istantanea, ma richiede la progressiva attuazione del progetto organizzativo, attraverso l’acquisizione dei beni e il loro coordinamento; essa è da ritenersi d’altra parte già costituita anche nel caso in cui debbano essere ancora inseriti taluni elementi, purché non si tratti di beni essenziali per l’identità dell’impresa; un fenomeno di sostituzione nella conduzione dell’impresa (cioè di trasferimento d’azienda) si configura infatti anche quando circoli un apparato produttivo che, sebbene incompleto, già traduca in atto un preciso progetto organizzativo e individui l’ambito di attività entro cui l’unità sarà destinata ad operare, ossia il concreto contesto economico e relazionale all’interno del quale sarà svolta l’impresa servita dall’azienda in costruzione; un suo elemento deve considerarsi allora essenziale quando identifica esso stesso primariamente tale ambito di attività (è spesso il caso dei locali commerciali, nel commercio al dettaglio), o quando comunque costituisce il cuore nevralgico del progetto organizzativo (l’apparato dei macchinari, nelle aziende di produzione). Nella medesima ottica, l’azienda non viene meno nel caso in cui l’attività sia interrotta, almeno sino a quando l’insieme non viene concretamente disgregato o non perde qualsivoglia radicamento rispetto all’originario ambito di attività servito 2: sicché, ad es., un’azienda di trasporti non perde la propria identità per effetto dell’interruzione dell’impresa, finché permangano le vetture, una clientela potenziale, rapporti di lavoro con gli autisti; non resterebbe tale, invece, il semplice parco macchine, una volta venuto meno quel radicamento. Nel definire le componenti dell’azienda, l’art. 2555 si rifà alla nozione di “bene”, apparentemente rinviando al concetto espresso nell’art. 810 (“sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”): dunque alle cose materiali e, in più, ai beni immateriali (segni distintivi, brevetti per invenzione ecc.). È perciò discusso se, giuridicamente, all’azienda appartengano anche i servizi, cioè le prestazioni d’opera cui il titolare dell’azienda ha diritto in forza dei contratti di lavoro autonomo o dipendente stipulati con i propri collaboratori 3. La questione, in realtà, ha scarse implicazioni pratiche, perché il normale subentro ex lege dell’acquirente dell’azienda nei rapporti contrattuali, di lavoro e non, in corso di 2

Cfr. Cass. 27-2-2004, n. 3973, GIt, 2004, 1197; Cass. 28-3-2003, n. 4700. Affermativamente Cass. 8-4-1992, n. 4274; AULETTA, Dell’azienda, Comm. Scialoja-Branca, 1947, 4; FERRARI, voce Azienda, 687, che vi ricomprende i servizi dei dipendenti, non quelli dei collaboratori autonomi. Contra, MARTORANO/Buonocore; MARTORANO, L’azienda, 8 ss.; COLOMBO, L’azienda, 20 ss.; TEDESCHI, L’azienda, Tr. Rescigno, 16****2, 2012, 9. 3

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esecuzione (artt. 2112 e 2558) accomuna comunque tendenzialmente le sorti delle prestazioni collaborative a quelle del complesso. Non costituiscono invece sicuramente elementi aziendali le relazioni giuridiche instaurate dall’imprenditore nell’esercizio dell’attività (c.d. patrimonio aziendale: contratti con la clientela, debiti verso i fornitori, ecc.) 4, la cui sorte infatti la legge regola variamente in base alla tipologia di rapporto e agli interessi implicati (v. infra). Quale unità operativa l’azienda presenta poi specifiche qualità. L’attitudine alla produzione di nuova ricchezza e alla maturazione di un reddito ne rappresenta l’avviamento, concetto che la stessa disciplina codicistica accoglie ed il cui valore, a determinate condizioni, può essere iscritto nel bilancio dell’impresa (art. 2426, n. 6); è infatti proprio questo a costituire, anche commercialmente, il maggior valore del complesso rispetto alla somma di quelli dei singoli beni. L’avviamento non costituisce un bene in senso tecnico, ma per l’appunto una qualità immanente ad ogni azienda, insuscettibile di essere ceduto separatamente dal complesso, ma normalmente computato nella determinazione del relativo prezzo; almeno, è definibile in questi termini il cosiddetto avviamento oggettivo, cioè quello che dipende da fattori intrinseci allo stesso complesso (la sua obiettiva efficienza e collocazione sul mercato), mentre vi rimane estraneo l’avviamento soggettivo, ossia la componente dipendente dalle abilità e dalla reputazione personale dell’imprenditore. Concettualmente distinta dalla nozione di avviamento è quella di clientela, a cui pure l’ordinamento fa talora riferimento nella stessa disciplina dell’azienda (art. 2557): essa consiste non già in una platea nominativamente determinata di soggetti, ma nel flusso di domanda stabilmente riferibile all’impresa in un dato momento storico, in ragione della sua presenza sul mercato. Anch’essa non è giuridicamente riconducibile alla categoria dei beni e non coincide con l’avviamento, ancorché la misura di questo dipenda evidentemente anche dalle dimensioni di quella.

2. Il ramo d’azienda L’emersione del profilo funzionale, come elemento connotante l’insieme degli elementi aziendali rispetto ad ogni altro aggregato di beni, consente di individuare, all’interno del complesso, eventuali sottoinsiemi dotati di analoga, autonoma funzionalità sul piano produttivo. Tali sono i rami d’azienda. Essi costituiscono per l’appunto parti del più ampio agglomerato aziendale, isolabili dal medesimo e di per sé destinabili all’esercizio di un’impresa, sempre che sia individuabile, nei termini sopra descritti, l’ambito di attività entro cui essi sono impiegabili e che non difettino di elementi essenziali allo stesso. L’art. 2112 contiene in proposito una definizione che, pur rilevando di per sé soltanto ai fini della regolazione della sorte assegnata ai rapporti di lavoro, enuncia un concetto di ramo sicuramente di valore più generale: ramo è una “parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”. È chiaro che non all’interno di ogni azienda sono isolabili singoli suoi rami, poiché essa può possedere una unità e identità funzionali non ulteriormente scindibili. 4

COTTINO; COLOMBO, L’azienda, 23. Peraltro si rinviene in giurisprudenza una qualificazione dell’azienda come universalità, cui tutti questi rapporti apparterrebbero (Cass. 11-8-1990, n. 8219, GIt, 1991, I, 1, 584; Cass. 16-1-1987, n. 360); ma la definizione ha molto spesso valenza meramente definitoria.

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Diversamente accade specie nel caso in cui essa sia costituita per operare in settori diversi, o quando comunque coesistano linee produttive distinte. Ai fini dell’individuazione di un ramo, ad ogni modo, non è necessario che sussista una completa separazione organizzativa rispetto alle restanti parti del complesso, né che sia tenuta una contabilità separata; è anzi normale che taluni elementi servano trasversalmente l’intera attività imprenditoriale (ad es., una segreteria centralizzata), senza che ciò impedisca la tracciatura del ramo, nella misura in cui gli elementi che vengono a mancare con la sua effettiva separazione (in occasione del suo trasferimento) siano qualificabili come non essenziali e siano dunque integrabili dall’acquirente. La figura rileva poiché la circolazione autonoma del ramo, attesane la valenza funzionale, è soggetta alle regole della cessione d’azienda, limitatamente a ciò che riguarda la porzione di attività dal medesimo servita. In altre parole, si applica alla vicenda di sostituzione nella conduzione di una porzione di attività la disciplina concernente il fenomeno della sostituzione nell’impresa, per la parte implicata.

3. La natura giuridica dell’azienda; la c.d. “proprietà” dell’azienda L’art. 2556 fa riferimento all’esistenza di una “proprietà” sull’azienda. L’espressione è tuttavia atecnica: si è visto che l’azienda è composta da beni di cui l’imprenditore può godere a svariato titolo (in qualità di proprietario, ma anche di conduttore, licenziatario, usufruttuario, comodatario), perciò la c.d. “proprietà” sul complesso si risolve nella titolarità delle diverse posizioni giuridiche (proprietà, usufrutto, diritto personale di godimento), aventi ad oggetto i singoli beni aziendali 5. È peraltro diffusa anche l’idea che il complesso costituisca un bene distinto dalle sue componenti, oggetto di un diritto reale autonomo (di “proprietà”, e allora anche suscettibile di possesso) facente capo all’imprenditore accanto agli eterogenei diritti vantati su ciascuno degli elementi stessi 6. Finché per la verità si mantiene come punto d’osservazione il solo piano delle vicende circolatorie, il problema non ha che una sterile valenza classificatoria. Esso manifesta invece una notevole portata se ci si sposta a considerare l’assoggettabilità dell’unità operativa ad altre vicende e il relativo trattamento giuridico. Si discute così, facendo perno proprio su questo problema, se l'azienda possa essere oggetto di usucapione e secondo quale disci-

5

È la c.d. teoria atomistica dell’azienda, per cui v. COLOMBO, L’azienda, 10 ss. Su queste posizioni (teorie unitarie) spesso si assesta chi annovera l’azienda tra le universalità, sulla scorta, tra l’altro, di quanto adombrato dall’art. 670 c.p.c. (“Il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario di ... aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso”): per la qualificazione come universitas, senza ulteriori specificazioni, v. TOMMASINI, Contributo, 74 ss. (nonché L’azienda, 220 ss.); BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, Tr. Cottino, I, 2001, 620 ss.; come universitas facti, GHIDINI, Disciplina, 184 ss.; di beni, COTTINO; rerum, ROTONDI, Diritto industriale5, Padova, 1965, 55 ss. Per la verità, non necessariamente la riconduzione dell’azienda all’una piuttosto che all’altra categoria delle universalità ne implica l’erezione a bene oggetto di un diritto unitario. In giurisprudenza, sono diffuse concezioni analoghe, ma spesso aventi valore meramente classificatorio e suggestionate dall’inclusione nel complesso anche di tutti i rapporti obbligatori inerenti all’impresa, per cui l’azienda costituirebbe una universalità di diritti (v. supra, nt. 4). Fra le teorie unitarie va annoverata altresì la configurazione dell’azienda come bene immateriale (essa consisterebbe specificamente nell’organizzazione, ossia nella trama funzionale che fa da collante tra i fattori produttivi): FERRARA jr., La teoria, 113 ss. 6

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plina, indipendentemente dall’usucapione delle sue componenti 7; o se possa essere oggetto di un’azione di rivendicazione promossa unitariamente, prescindendo dalla diversità di procedure che possa dipendere dall’eterogeneità di tali componenti 8; o se possano attivarsi a sua protezione le azioni possessorie, quand’anche i suoi elementi siano oggetto di semplice detenzione da parte del suo titolare 9. Tralasciando i richiami normativi alla “proprietà”, che non vincolano l’interprete, l’erezione dell’azienda a bene unitario non regge ad una più attenta analisi e finisce per portare l’attenzione su un piano (quello del diritto dei beni) diverso da quello sul quale, come abbiamo sottolineato più volte, si manifesta la rilevanza giuridica del fenomeno (la cui circolazione è il tramite per il compiersi di una vicenda d’impresa). È facile infatti constatare che non sono concepibili facoltà e poteri ulteriori, esercitabili dall’imprenditore sul complesso come tale e che non rientrino già tra le facoltà e i poteri inerenti ai diritti sui singoli elementi organizzati; l’azienda, dunque, non costituisce un bene a sé stante e non si configura su di essa alcuna posizione dominicale. Ciò non significa peraltro che manchi sul piano normativo una considerazione unitaria del complesso produttivo; la quale è, anzi, proprio la conseguenza della dimensione giuridica in cui esso assume rilevanza, come veicolo per realizzare la vicenda di sostituzione nella conduzione dell’impresa. Si comprende dunque come, sul piano negoziale, il semplice riferimento all’azienda come tale (e dunque all’impresa servita) valga ad individuare per relationem tutti gli elementi che vi appartengono e ai quali si deve ritenere perciò estesa la volontà traslativa dei contraenti, a prescindere da una loro analitica elencazione (sebbene, di regola, se ne rediga un inventario). O come, sul piano degli effetti dell’atto traslativo, l’invalidità che colpisca il trasferimento di un singolo elemento si estenda all’intero rapporto, ai sensi dell’art. 1419, quando tale elemento sia essenziale per la prosecuzione dell’impresa 10; e come il beneficiario di un diritto reale o personale di godimento sull’azienda assuma, oltre che il diritto, anche l’obbligo di esercitare l’attività, al fine di conservarne l’efficienza produttiva e consentire così, al termine del rapporto, il reingresso del concedente nella conduzione dell’impresa stessa (art. 2561); come, infine, i beni immessi dall’affittuario/usufruttuario siano attratti nell’azienda (il titolare di questa ne acquista la proprietà, salva la regolazione in danaro delle differenze d’inventario al termine del rapporto). La suscettibilità dell’azienda di costituire l’oggetto anche di vicende di tipo non circolatorio, così come la loro disciplina, non può essere invece dedotta da una semplice operazione di classificazione dell’unità operativa in una o in altra delle categorie in cui si ripartisce nel sistema giuridico l’universo dei beni. È sempre rispetto a ciascuna componente che deve essere verificata la possibilità di essere oggetto di una vicenda di questo tipo (così, ad es., non ci potrà essere azione di manutenzione a difesa di un’azienda composta da cose di cui il titolare goda a titolo di detentore). Ciò non esclude peraltro che, quando oggetto della medesima risulti in concreto un insieme di beni costituenti un’azienda, e quando nella vicenda stessa si profilino di conseguenza questioni attinenti alla sostituzione nella conduzione dell’impresa, possano operare, in più o meno ampia misura, i principi speciali dettati

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Recentemente Cass. 5-3-2014, n. 5087. Riferimenti in CIAN, La disciplina dell’azienda, 686. In tema PETTITI, Il trasferimento, 165 ss.; COLOMBO, L’azienda, 304 ss.; CASANOVA, Rivendicazione di azienda nel sistema del nuovo codice, RDComm, 1942, II, 321 ss.; FERRARA jr., La teoria, 441 ss.; MARTORANO, L’azienda, 376 ss. 9 In senso affermativo ZACCARIA, Possesso e manutenzione d’azienda, StI, 2002, 1195 ss. e in giur. Cass. 31-3-1958, n. 1113, RDComm., 1958, II, 422. Altri riferimenti in CIAN, La disciplina dell’azienda, 689. 10 COLOMBO, L’azienda, 17. 8

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dagli artt. 2556 ss. (ad es., colui che rivendichi un’azienda avrà diritto di rivendicare anche i beni immessi medio tempore dal terzo usurpatore) 11.

II. Il trasferimento dell’azienda 1. Natura e causa del negozio di trasferimento Si è osservato che la disciplina dedicata all’azienda è orientata principalmente verso la regolamentazione del momento circolatorio. La fattispecie principale è quella del “trasferimento della proprietà” sul complesso, ossia della cessione del fascio di eterogenee posizioni giuridiche facenti capo all’alienante, su ciascuno degli elementi aziendali: trasferimento, dunque, rispettivamente della proprietà dei beni appartenentigli, dei diritti reali o personali di godimento sui beni su cui vanti un diritto di usufrutto o di cui abbia la disponibilità in forza di un contratto di locazione e via dicendo. Il “trasferimento dell’azienda” non costituisce un tipo negoziale autonomo, ma è una fattispecie trasversale ai diversi tipi contrattuali consueti, caratterizzata per il suo particolare oggetto. Così, a seconda dello schema prescelto dalle parti, può aversi una compravendita, una donazione, una permuta, un conferimento in società dell’azienda (e via elencando), cui si applica integralmente la rispettiva disciplina negoziale. La specificità dell’oggetto si riflette tuttavia nella stessa causa del negozio. Si è sottolineato infatti che attraverso la circolazione dell’azienda si attua il fatto d’impresa consistente nella sostituzione nella sua conduzione. È questo, per la verità, un aspetto controverso e spesso svalutato dalla dottrina aziendalistica; ma è solo in ragione di tale circostanza che si spiega l’innesto, nella disciplina generale del tipo negoziale prescelto, delle norme speciali qui in esame. Pertanto il trasferimento dell’azienda rappresenta un sottotipo contrattuale − trasversale ai diversi modelli negoziali per cui i contraenti possono optare −, il cui scopo non consiste esclusivamente, come accade in questi, nella cessione di uno o più beni (dietro corrispettivo in denaro, o in natura, o con spirito di liberalità, ecc.), ma si spinge fino a comprendere l’introduzione dell’acquirente, in virtù di tale cessione, nel contesto relazionale e di mercato dell’attività servita dall’azienda. La connotazione causale testé evidenziata rileva sul piano della concreta identificazione del negozio e dell’operatività della disciplina in esame. Non sarebbe infatti qualificabile come trasferimento d’azienda l’atto che, pur traslativo di un complesso genericamente idoneo a permettere l’esercizio di un’impresa, incorporasse una volontà tale da rompere il nesso relazionale con il contesto di mercato in cui l’attività servita dal complesso era originariamente svolta 12, come si verificherebbe ad es. nella cessione di un locale adibito alla ristorazione e dei relativi apparati, quando venisse esclusa dal trasferimento l’insegna e il cessionario si impegnasse a pubblicizzare la nuova, vicina sede dell’attività proseguita dal

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Ampiamente CIAN, La disciplina dell’azienda. Cfr. CASANOVA, Impresa, 732 ss.; FERRARA jr., La teoria, 340.

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cedente 13. La tesi dominante è peraltro opposta: l’obiettiva funzionalità imprenditoriale del complesso venduto sarebbe sufficiente all’applicazione quantomeno di alcune norme, che si assumono poste a protezione di interessi dei terzi (artt. 2112, 2558 e 2560) 14, mentre il riscontro, in concreto, di una volontà negoziale del tenore di quella sopra descritta comporterebbe soltanto l’inoperatività della porzione di disciplina per contro disponibile (circoscritta però di fatto al solo art. 2557) 15. Ma contrariamente a quanto affermato da questa dottrina, l’applicazione anche delle norme che coinvolgono l’interesse dei terzi deve seguire e non precedere la qualificazione della fattispecie 16. Irrilevante ai fini della qualificazione del negozio resta invece l’uso che il cessionario intenda fare del complesso acquisito 17 (il motivo che lo induce all’acquisto non incide sulla causa del negozio).

2. L’oggetto del negozio È sufficiente che le parti convengano di trasferire l’azienda, identificandola in base ad elementi estrinseci (la localizzazione, il settore di attività, la ditta, ecc.), perché l’effetto negoziale traslativo coinvolga tutti i singoli elementi che attualmente la compongono, a prescindere da una loro analitica elencazione 18. Peraltro, ciascuno dei beni aziendali, conservando la propria autonomia giuridica, può costituire l’oggetto di atti dispositivi indipendenti. Allo stesso modo, non è impedito alle parti, che intendono trasferire l’azienda, di escludere dal trasferimento uno o più dei suoi beni; per far ciò, è però necessario che esse specifichino quali sono quelli destinati a restare in capo all’alienante. In ogni caso, l’esclusione è possibile solo nella misura in cui non si tratti di elementi essenziali del complesso 19: tali sono, come si è detto (supra, I.1), i beni che connotano l’ambito relazionale di attività dall’azienda servito o che, pur integrabili e sostituibili dall’acquirente, rappresentano il cuore del progetto organizzativo. È bene precisare che l’esclusione di un bene essenziale non comporta, evidentemente, l’invalidità del negozio, ma semplicemente la sua non qualificabilità come “trasferimento d’azienda”: in altre parole, la cessione di un apparato produttivo cui sia sottratto uno di questi ele-

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Cfr. CIAN, La disciplina dell’azienda, passim; ID., Note minime sul trasferimento d’azienda, RDTrib, 2000, II, 71 ss. 14 PETTITI, Il trasferimento, 189 ss.; COLOMBO, L’azienda, 27 ss.; SPOLIDORO, Conferimento di ramo d’azienda (considerazioni su fattispecie e disciplina applicabile), GComm, 1992, I, 695; TOMMASINI, Contributo, 129, oltre alla più diffusa dottrina manualistica (CAMPOBASSO, MARTORANO/Buonocore). 15 COLOMBO, L’azienda, 28; MARTORANO/Buonocore; CAMPOBASSO. 16 Di scarsa utilità, nella soluzione di questo problema, è la posizione giurisprudenziale ormai tralatizia, che, in termini del tutto generici, richiede, per la qualificazione del negozio, una duplice indagine, diretta dall’un lato all’interpretazione della comune intenzione delle parti, ed avente riguardo, dall’altro lato, alla obiettiva consistenza dei beni: Cass. 15-10-2002, n. 14647; Cass. 7-11-1983, n. 6572. 17 COLOMBO, L’azienda, 30. 18 COLOMBO, L’azienda, 17; Cass. 27-3-1996, n. 2714. Ciononostante è indispensabile indicare nell’atto gli estremi degli immobili aziendali, al fine di poter procedere alle necessarie trascrizioni immobiliari; analoga specificazione è necessaria per i diritti di proprietà industriale (cfr. art. 139 c.p.i.) e per i beni mobili registrati. 19 COLOMBO, L’azienda, 31; Cass. 9-12-2005, n. 27286; Cass. 17-4-1996, n. 3627; Cass. 9-7-1992, n. 8362.

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menti è una valida ed efficace cessione di una pluralità di beni, ma non un trasferimento d’azienda, ed è dunque atto negoziale che rimane estraneo all’ambito di applicazione degli artt. 2556 ss. È questo di regola il caso, in ipotesi di trasferimento del magazzino e degli arredi inerenti ad una attività di rivendita al dettaglio, quando vengano esclusi dal medesimo i locali nei quali l’attività è stata svolta e la ditta sotto la quale è stata esercitata 20. Con riferimento alla composizione dell’azienda, possono profilarsi in concreto alcuni interessanti interrogativi, in caso di evizione o di vizi riguardanti i beni che vi appartengono. Qualora su uno o più di essi l’alienante non vanti alcun titolo per il loro godimento, risulta senz’altro applicabile l’art. 1480; parimenti dovuta dal cedente è la garanzia per i vizi della cosa venduta (artt. 1490 ss.) e per mancanza delle qualità promesse (art. 1497), in ordine alla quale l’inidoneità all’uso deve essere apprezzata avendo riguardo non soltanto al singolo elemento aziendale, ma anche all’efficienza e all’attitudine produttiva del complesso 21.

3. Ambito di applicabilità della disciplina speciale La speciale disciplina introdotta negli artt. 2556 ss. opera in tutti i casi in cui la titolarità dell’azienda viene trasferita a titolo definitivo 22. Come si è detto, ciò vale anche nel caso in cui venga ceduto soltanto un ramo dell’azienda, limitatamente all’ambito di attività a cui esso si riferisce: fermi gli obblighi formali posti dall’art. 2556, questo significa che il divieto di concorrenza a carico dell’alienante riguarderà esclusivamente il settore servito dal ramo e che i rapporti obbligatori in cui l’acquirente subentra saranno solo quelli direttamente ricadenti in tale ambito di attività (rapporti con la clientela servita dal ramo, debiti verso i fornitori di materie prime destinate ad essere lavorate all’interno di esso); resteranno invece in capo all’alienante non solo i rapporti giuridici riguardanti i rami non ceduti, ma anche quelli inerenti l’esercizio dell’azienda nel suo complesso, a meno che le parti non dispongano diversamente. La disciplina in esame si applica anche in caso di vendita fallimentare, con l’eccezione dell’art. 2560, la cui operatività è espressamente esclusa dall’art. 105 l.fall. 23. Lo stesso vale, parzialmente, anche in caso di legato dell’azienda, il legatario subentrando nei rapporti contrattuali (artt. 2112 e 2558) e rispondendo dei debiti nei termini previsti dall’art. 2560 24, mentre può profilarsi un divieto di concorrenza a carico degli eredi onerati solo se costoro avevano prestato la propria attività all’interno dell’azienda, tanto

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Cfr. CASANOVA, Impresa, 742. Cfr., per un caso in cui i locali presso cui si sarebbe dovuta svolgere una attività di ristorazione difettavano delle canne fumarie, necessarie per ottenere le prescritte autorizzazioni amministrative, Cass. 15-5-2006, n. 11130. Anche l’avviamento può rilevare sotto questi profili, come qualità promessa e dunque ai sensi dell’art. 1497: Cass. 8-3-2013, n. 5845. 22 Sull’opertività della stessa nelle vicende attributive dell’azienda non direttamente riconducibili ad una volontà negoziale (ad es., in caso di risoluzione della cessione per inadempimento), v. CIAN, La disciplina dell’azienda, 704 ss., ove riferimenti alla giurisprudenza in arg. (tra cui, da ultimo, Cass. 23-9-2015, n. 18805). 23 MARTORANO, L’azienda, 255 ss. L’art. 105 è richiamato anche in caso di concordato preventivo, dall’art. 182 l.fall. 24 COLOMBO, L’azienda, 52. Riguardo ai debiti v. la posizione assunta da Cass. 29-1-2016, n. 1720 (responsabilità nei limiti di valore dell’azienda). 21

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da far assumere alla loro eventuale attività concorrenziale quel carattere di speciale pericolosità che è a fondamento del dovere di astensione posto dall’art. 2557 (v. infra, 5) 25. Per contro, in caso di successione ereditaria, prevale la disciplina generale successoria 26; tuttavia, in caso di institutio ex re certa, l’erede beneficiato subentra individualmente nei contratti e risponde per l’intero dei debiti ex art. 2560, ferma la corresponsabilità dei coeredi nella misura prevista dall’art. 754. Un’importante questione riguarda il trattamento giuridico del trasferimento di uno studio professionale (dell’avvocato, dell’architetto ecc.). La giurisprudenza distingue a seconda che l’apparato di cui il professionista si avvale presenti una propria complessità e autonomia funzionale e strutturale (c.d. azienda professionale), o che costituisca un semplice insieme di strumenti ancillari all’attività personale dello stesso professionista 27. Valida in ogni caso la cessione 28, il solo dato evincibile dalla giurisprudenza è l’applicazione dell’art. 2112 al trasferimento dell’azienda professionale 29. È plausibile tuttavia che possano operare anche l’art. 2557 e forse l’art. 2558 (peraltro, riguardo ai contratti con la clientela, la giurisprudenza è ancora granitica nel ritenerli incedibili); non certo gli artt. 2556 e 2559 (la pubblicità nel registro è esclusiva dell’impresa), e neppure l’art. 2560 (mancando la documentazione nelle scritture contabili) 30.

4. La forma e la pubblicità del contratto In linea di principio, il contratto traslativo dell’azienda è a forma libera, a meno che una determinata forma non sia richiesta dalla natura del contratto stesso (ad es., in caso di donazione è necessaria la stipulazione per atto pubblico: art. 782), e ferme le solennità necessarie per il trasferimento dei singoli beni aziendali (art. 2556, co. 1): così è necessaria la forma scritta (art. 1350) nel caso in cui il trasferimento comprenda la cessione della proprietà su un bene immobile, anche se, in tal caso, è sufficiente che sia redatta per iscritto la porzione del contratto riguardante tale bene, ed il mancato rispetto della forma comporta l’invalidità del negozio, parziale o totale secondo quanto previsto dall’art. 1419. Ciò significa che l’azienda non ha una propria legge di circolazione ed è assoggettata, dal punto di vista formale, allo statuto dei diversi tipi contrattuali attraverso cui può essere ceduta e dei diversi beni che la compongono. Devono essere altresì rispettate le prescrizioni pubblicitarie relative al trasferimento di ciascun bene: così specialmente la trascrizione nei registri immobiliari, per gli immobili, e quella presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, per i diritti di proprietà industriale (art. 138 c.p.i.).

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Per l’applicazione dell’art. 2557 cfr. COTTINO. COLOMBO, L’azienda, 52. 27 Cass. 7-8-2002, n. 11896; Cass. 3-5-2007, n. 10178; nonché Cass. 9-2-2010, n. 2860. 28 Ferma la validità della cessione dell’azienda professionale, la giurisprudenza ha recentemente ammesso anche la trasferibilità (prima negata: Cass. 9-2-1979, n. 899) dello studio a conduzione personale, per mezzo di un negozio atipico in parte traslativo (dell’insieme dei beni strumentali), in parte obbligatorio (obbligo del cedente di presentare il successore ai propri clienti): Cass. 9-2-2010, n. 2860, che si richiama a Cass. 12-11-1979, n. 5848, FIt, 1980, I, 71, e Cass. 8-2-1974, n. 370, GIt, 1974, I, 1, 1018. 29 Cass. 23-6-2006, n. 14642; Cass. 15-7-1987, n. 6208. 30 Su tutti questi aspetti, e per altri riferimenti, CIAN, La disciplina dell’azienda, 669 ss. 26

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L’art. 2556 impone tuttavia la forma scritta ad probationem, quando il contratto abbia ad oggetto aziende relative ad imprese soggette a registrazione 31. La norma condiziona dunque alla redazione per iscritto la possibilità per le parti contraenti (non per i terzi) di provare l’esistenza e il contenuto dell’atto, senza peraltro pregiudicarne la validità. Lo stesso art. 2556 dispone poi che il contratto, redatto in forma di atto pubblico o per scrittura privata autenticata, deve essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese, a cura del notaio rogante o autenticante (co. 2) 32. La disposizione, realizzando obiettivi di trasparenza in questo tipo di operazioni economiche, persegue non soltanto l’interesse, comune all’intero sistema pubblicitario imperniato sul registro delle imprese, dell’informazione al mercato, ma anche quello pubblico al contenimento dei rischi di riciclaggio del denaro frutto di attività illecite. Il presupposto per la sua applicazione è che il contratto sia redatto in una delle forme indicate, ma, nuovamente, tale requisito è posto non per la validità del negozio, ma solo al fine di permettere l’adempimento dell’obbligo di deposito; un contratto verbale o privo di autentica resta dunque pienamente efficace e obbliga reciprocamente le parti a procedere alla sua riproduzione secondo le prescrizioni in esame, per l’assolvimento delle formalità pubblicitarie. Si ritiene che oggi, per effetto della completezza acquisita dal registro delle imprese, siano soggetti all’obbligo di iscrizione i trasferimenti di qualsiasi azienda, purché almeno una delle due parti sia un imprenditore soggetto al medesimo obbligo, ancorché nella sezione speciale dedicata all’impresa agricola e alla piccola impresa 33. L’iscrizione è effettuata nel registro e nella sezione presso i quali è iscritto l’alienante, a meno che solo l’acquirente sia soggetto a registrazione, nel qual caso essa è effettuata nel registro presso il quale è iscritto quest’ultimo (art. 11, co. 10, d.p.r. 581/1995). Non è invece obbligatoria la pubblicità, se nessuna delle due parti riveste la qualifica di imprenditore (ad es. perché il cedente ha cessato precedentemente l’attività, cancellandosi dunque dal registro, e il cessionario non l’ha ancora avviata), poiché il sistema pubblicitario è impostato esclusivamente su base personale e non ammette registrazioni non riferite ad uno specifico soggetto imprenditore 34. L’efficacia dell’iscrizione varia a seconda della sezione ove il contratto è registrato e della natura delle parti contraenti: l’iscrizione nella sezione ordinaria (o anche nella sezione speciale, per l’imprenditore agricolo) ha valore dichiarativo a favore di entrambe le parti, o solo di quella che in via generale può giovarsi degli effetti dichiarativi delle iscrizioni: così,

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Si ritiene che l’inciso vada riferito ancor’oggi alle sole imprese commerciali (le uniche soggette a registrazione nel disegno originario del codice), e questo a motivo del fatto che il requisito di forma è correlato all’importanza dell’atto: CAMPOBASSO; MARTORANO/Buonocore; MARTORANO, L’azienda, 66; MONTANARI-PEDERZINI. La disposizione si applica dunque alle aziende oggettivamente commerciali, e non ha senso distinguere a seconda delle sue dimensioni, perché il carattere piccolo o non piccolo (art. 2083) riguarda l’impresa e non il complesso organizzato. 32 La l. 147/2013 prevede ora l’obbligo, per il notaio, di tenere in custodia, depositandolo in un conto dedicato, il denaro versato dall’acquirente in corrispettivo della vendita, sino a che sia andata a buon fine l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 1, co. 63 ss.). 33 MARASÀ-IBBA, Il registro delle imprese, Torino, 1997, 132 ss.; CAMPOBASSO. 34 MARASÀ-IBBA, Il registro delle imprese, cit., 130; contra, CENNI, L’iscrizione nel registro delle imprese e la doppia alienazione dell’azienda e della quota di s.r.l., ContrImp, 1996, 511 ss.

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se un’azienda commerciale è ceduta da un imprenditore iscritto nella sezione ordinaria ad un piccolo imprenditore, gli effetti di cui all’art. 2193 si produrranno esclusivamente in capo al primo; se è ceduta da un soggetto che non riveste la qualifica di imprenditore ad una società di forma commerciale, si gioverà di tali effetti solo l’acquirente. Qualche difficoltà genera il caso in cui il cedente sia un piccolo imprenditore e il cessionario un imprenditore iscritto nella sezione ordinaria, giacché l’iscrizione, come si è visto, va effettuata in tale ipotesi nella sezione speciale del primo, ma il secondo deve poter opporre l’atto secondo i principi dell’articolo citato; si è proposto in dottrina che, in tal caso, debba procedersi a una doppia registrazione 35. Assai discusso è invece se l’iscrizione possa avere rilievo nella risoluzione dei conflitti tra più acquirenti, rilievo che sarebbe comunque assai modesto. Infatti, per i beni aziendali per i quali esista uno specifico criterio di risoluzione di tali conflitti, è senz’altro quest’ultimo ad operare, prevalendo sulla registrazione del trasferimento dell’azienda: così, nel caso in cui questa comprenda beni immobili, prevale, nell’acquisto di questi ultimi, sempre e comunque colui che abbia proceduto per primo alla trascrizione nei registri immobiliari (art. 2644); analogo principio vale per i diritti di proprietà industriale (art. 139, co. 2, c.p.i.). La preventiva iscrizione nel registro delle imprese potrebbe dunque rappresentare un criterio di risoluzione prevalente al più su quello generale del prius in tempore potior in iure, e dunque solo per i beni per i quali varrebbe altrimenti quest’ultimo; ma anche in questo limitato ambito la rilevanza dell’iscrizione è dubbia 36.

5. Il divieto di concorrenza L’art. 2557 vieta all’alienante dell’azienda di iniziare, dopo il trasferimento, qualsiasi attività imprenditoriale che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. È questo il primo degli effetti particolari che la legge ricollega a tale negozio, in quanto tipicamente preordinato all’ingresso dell’acquirente nell’ambito di attività servito dal complesso acquistato. La ragione che sta alla base dell’obbligo di astensione dipende dalla speciale pericolosità che l’eventuale concorrenza del cedente rivestirebbe nei confronti del cessionario, rispetto alla concorrenza di qualsiasi altro soggetto terzo; l’alienante infatti ha un’esperienza diretta e specifica delle abitudini e delle inclinazioni dei propri clienti, può agevolmente raggiungerli e, essendone conosciuto, potrebbe con maggiore facilità dirottarli verso la propria, nuova attività, suggerendo implicitamente l’idea di una immediata continuità rispetto a quella precedente; la sua iniziativa concorrenziale finirebbe conseguentemente per pregiudicare il compimento della vicenda di sostituzione nella conduzione dell’impresa, che il trasferimento è diretto a realizzare. Il divieto è limitato all’avvio di una nuova attività 37 (è consentita dunque la continuazione di una seconda, precedente impresa, che l’alienante esercitasse parallela-

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MARASÀ-IBBA, Il registro delle imprese, cit., 234 ss. Cfr. MARASÀ-IBBA, Il registro delle imprese, cit., 226 ss.; COLOMBO, L’azienda, 41 ss.; MARTORANO, L’azienda, 74 ss. 37 È ritenuto irrilevante, da questo punto di vista, che l’attività sia iniziata con una nuova azienda, appositamente costituita, o con una azienda acquistata da un terzo o per successione: MARTORANO/Buonocore. 36

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mente a quella servita dall’azienda ceduta 38) e ha una durata quinquennale. Non sono specificati in via generale ed astratta l’oggetto e i caratteri dell’attività preclusa, poiché l’estensione del divieto (per oggetto, dimensioni, collocazione geografica) deve essere determinata in concreto, in ragione dell’idoneità alla distrazione della clientela (attuale e potenziale), ed esso abbraccia dunque ogni iniziativa che di fatto manifesti tale caratteristica, anche se riguardante, ad es., la commercializzazione di beni diversi, ma succedanei 39 (non potrebbe aprire una paninoteca chi abbia ceduto una pizzeria), o se esercitata attraverso canali alternativi, ma concorrenti (ad es., non potrà avviare un’attività di vendita di prodotti online chi abbia ceduto un’azienda di vendita degli stessi prodotti per corrispondenza). È chiaro che l’indeterminatezza del dato normativo può generare in concreto incertezze circa la portata effettiva della preclusione e così dare causa a controversie di difficile soluzione. Le parti possono tuttavia regolare questo aspetto nel contratto traslativo dell’azienda, proprio definendo la dimensione del divieto: per es. specificando l’area territoriale all’interno della quale esso è destinato ad operare, o le categorie merceologiche la cui vendita è preclusa al cedente. Nello stesso contratto, esse possono anche ridurne l’estensione, rispetto a quella legale, specie indicando una durata inferiore, e ne è possibile anche un ampliamento, purché non impedisca ogni attività professionale all’alienante e in ogni caso non per periodi superiori al quinquennio (co. 2). È ipotizzabile anche una pattuizione che consenta tout court al cedente di avviare una attività concorrente (v. però supra, 1). Che cosa significhi, dal punto di vista delle modalità, “iniziare una nuova impresa” la norma in esame non chiarisce affatto. È però sicuramente vietata all’alienante l’intrapresa di una nuova attività non solo per conto proprio, ma anche per conto di terzi, cosicché violerebbe il divieto il cedente che assumesse la carica di amministratore di una società concorrente, o di institore di un imprenditore concorrente 40. In effetti, la pericolosità dell’iniziativa promossa dall’alienante è uguale nei due casi e va osservato che in altre fattispecie, quando il legislatore pone un divieto di concorrenza a carico di determinati soggetti, specifica costantemente che il divieto si estende alle attività esercitate per conto altrui (v. artt. 2301 e 2390). Analogamente, è precluso sia l’avvio di una impresa individuale, che la partecipazione ad un’impresa societaria, anche se, sotto quest’ultimo profilo, la portata del divieto non è di agevole definizione, poiché è necessario distinguere, a seconda che la partecipazione rappresenti un mero investimento finanziario in una data organizzazione (lecito) o che si configuri come una modalità di esercizio, mediato o congiunto, di una attività economica: in quest’ottica, resta certamente impedita all’alienante la costituzione di una società unipersonale, come l’acquisizione di una partecipazione di controllo 41 o comunque di una partecipazione cui siano ricollegati poteri di amministrazione (ad es., socio amministratore

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Cass. 30-3-1984, n. 2112, GDInd, 1984, 18. La continuazione dell’esercizio della seconda impresa è lecita, finché si contiene entro il contesto di mercato precedente; e ne è lecito anche lo sviluppo, purché tuttavia non si invada il contesto proprio dell’azienda ceduta: CIAN, Divieto, 149. 39 MARTORANO/Buonocore; MARTORANO, L’azienda, 115 s. 40 MARTORANO, L’azienda, 124 ss.; App. Torino, 17-9-1973, GADI, 73, 1031; contra, Trib. Torino, 21-3-1972, GADI, 72, 657; per il caso in cui l’alienante entri come dirigente nell’impresa concorrente v. CAMPOBASSO. 41 Cfr. MARTORANO, L’azienda, 126.

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di società di persone) 42, mentre esula dal divieto l’acquisto di un pacchetto azionario di minoranza. Infine, viola il divieto anche chi si avvalga di un prestanome, che si presenti sul mercato come imprenditore in proprio, ma la cui attività sia in realtà economicamente riferibile all’alienante dell’azienda, che ne trae i proventi, ne sopporta i rischi, delinea le strategie imprenditoriali e ne assume le relative decisioni di attuazione.

Dal punto di vista delle fattispecie dalle quali il divieto stesso scaturisce, si è già detto che sono innanzitutto costituite da tutte le ipotesi di cessione (volontaria o coattiva 43), a qualunque titolo, dell’azienda. Deve però trattarsi di una azienda commerciale, poiché, in caso di trasferimento di azienda agricola, esso riguarda esclusivamente le attività connesse, sempre che vi sia in concreto un rischio di sviamento della clientela (co. 5) 44. Anche nel caso in cui l’azienda venga concessa in usufrutto o in affitto, il divieto opera a carico del proprietario per tutta la durata del rapporto (co. 4). Specularmente, esso si applica all’usufruttuario e al conduttore, al termine del rapporto 45. Pur con qualche incertezza e distinguo, si ritiene che l’obbligo di astensione gravi anche sui coeredi, a favore di colui al quale l’azienda sia assegnata in sede di divisione, e, in caso di scioglimento della società, sui soci, a favore di quello tra essi a cui l’azienda sia attribuita a titolo di liquidazione in natura della quota 46. Più in generale, l’art. 2557 risulta analogicamente applicabile anche a vicende che, pur non configurandosi formalmente come traslative di un’azienda, realizzano sostanzialmente effetti simili, introducendo un terzo, direttamente o indirettamente, nell’esercizio di una attività d’impresa precedentemente facente capo ad un altro, su cui dunque viene a gravare il divieto: in questa prospettiva, la giurisprudenza ha ormai riconosciuto che esso opera a carico del socio che alieni una partecipazione sociale, quando tale alienazione determini, per l’entità della quota ceduta (specie nel caso in cui si tratti della quota di controllo), l’avvicendamento dell’acquirente nella conduzione dell’impresa societaria 47; mentre, in caso 42

Si è affermato che violi il divieto chi assume la qualità di socio illimitatamente responsabile: COTBONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 650. 43 Per l’applicazione in caso di vendita fallimentare v. CAMPOBASSO; LIBONATI; COTTINO; COLOMBO, L’azienda, 185 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, cit., 653; in giurisprudenza Trib. Torino, 14-7-2006, GIt, 2007, 2520; in senso opposto, però, FERRARI, voce Azienda, 710. 44 Peraltro, interpretando correttivamente la norma alla luce del moderno quadro economico, è forse possibile affermare l’operatività del divieto anche rispetto alle attività agricole principali che, per modalità di svolgimento e posizionamento nel mercato, siano suscettibili di subire la concorrenza differenziale del cedente: v. CIAN, Divieto, 151 s. 45 MARTORANO, L’azienda, 313 s.; COLOMBO, L’azienda, 234; Cass. 20-12-1991, n. 13762, NGCC, 1993, I, 1; App. Milano, 21-12-2015, iusexplorer; in senso contrario, riguardo alla cessazione dell’usufrutto, COTTINO. 46 Cfr. COLOMBO, L’azienda, 184; MARTORANO, L’azienda, 117 s.; CAMPOBASSO. Gli assunti sono corretti; e, per il caso di legato, il divieto grava sugli eredi onerati, a favore del legatario; in caso di assegnazione dell’azienda sociale, il divieto opera comunque solo a carico dei soci non assegnatari che hanno acconsentito alla liquidazione in natura: CIAN, Divieto, 152 ss. 47 Cass. 19-11-2008, n. 27505; Cass. 24-7-2000, n. 9682, FIt, 2000, I, 3115; Cass. 16-2-1998, n. 1643, GIt, 1998, 1181, rovesciando l’orientamento espresso dalla stessa Corte nei decenni precedenti. In dottrina v., nel medesimo senso, MARTORANO, L’azienda, 119 ss.; COLOMBO, L’azienda, 191 ss., ma, diversamente, COTTINO. TINO;

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di cessione dell’azienda da parte della società, il divieto, gravante su quest’ultima, può essere esteso ai soci, ma solo a quelli al cui volere la cessione sia direttamente riconducibile 48. Diversa invece di regola la conclusione in caso di recesso del socio, perché qui sulla funzione economica di sostituzione nella conduzione dell’impresa prevale la diversa logica del disinvestimento 49.

6. La successione nei contratti Se, osservata da un punto di vista statico, l’azienda appare semplicemente come un insieme di beni, guardandola da un punto di vista dinamico è facile avvedersi come normalmente ruoti attorno ad essa una costellazione mutevole ma costante di rapporti giuridici che nascono, hanno esecuzione, si estinguono nel corso della vita dell’apparato produttivo, derivando dalla stessa opera di organizzazione del medesimo da parte del suo titolare e dall’esercizio dell’attività che con lo stesso è intrapresa. Questi rapporti fanno capo, giuridicamente, all’imprenditore, ma alla loro sorte in occasione del trasferimento dell’azienda il legislatore non resta indifferente, in considerazione del fatto che tale negozio è strumentale all’acquisizione, da parte dell’acquirente, di un complesso che deve conservare la propria funzionalità imprenditoriale e al subentro dell’acquirente stesso in quella attività. È in questa prospettiva che, innanzitutto, l’art. 2558 dispone l’automatico subingresso di quest’ultimo nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda, che non abbiano carattere personale. Si tratta innanzitutto dei contratti in forza dei quali il titolare dell’azienda può godere dei beni aziendali di cui non è proprietario (ad es., il contratto di locazione o di leasing avente ad oggetto i locali o i macchinari) o in virtù dei quali egli approvvigiona periodicamente o stabilmente l’azienda di taluni elementi (contratti con i fornitori: il contratto di somministrazione della materia prima o dei semilavorati), o consegue determinate prestazioni collaborative (contratto di prestazione d’opera intellettuale con un professionista, contratto di agenzia, mentre i contratti di lavoro subordinato sono regolati autonomamente nell’art. 2112) ma anche di tutti i contratti nascenti nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, e specie dei contratti con la clientela 50. In tutti questi rapporti negoziali è naturale e logico che subentri l’acquirente dell’azienda: ciò risponde non soltanto al suo interesse ad acquisire un complesso pienamente operativo e a mantenerne la clientela già raggiunta, ma anche all’interesse dei terzi contraenti ad avere, quale controparte contrattuale, il soggetto che continuerà nell’esercizio dell’impresa (si pensi all’interesse dei clienti a conseguire il prodotto o il servizio acquistato, che, senza l’azienda, l’alienante non è normalmente più in condizione di fornire). 48

È corretto affermare che, anche in questo caso, l’operatività del divieto presuppone almeno che il ruolo svolto dal socio nell’azienda sociale fosse tale da rendere l’eventuale sua impresa concorrente particolarmente insidiosa nei confronti dell’acquirente (COLOMBO, L’azienda, 198 ss.), ma non sembra che questo possa bastare, se la cessione dell’azienda non è riferibile alla sua volontà; e nel senso dell’inapplicabilità della norma, in generale, v. FERRARI, voce Azienda, 710. 49 Nel senso dell’applicabilità del divieto, invece, COLOMBO, L’azienda, 194 s.; contra, MARTORANO, L’azienda, 121; ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali3, Milano, 1960, 76; FERRARI, Azienda, 711; Cass. 17-4-2003, n. 6169, FIt, 2005, I, 225. 50 Cass. 22-7-2004, n. 13651; Cass. 29-1-2003, n. 1278.

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La successione in tali rapporti contrattuali rappresenta dunque un effetto naturale e automatico del trasferimento dell’azienda e si determina ex lege, al momento in cui diviene efficace il trasferimento stesso. Si tratta pertanto di una previsione normativa che deroga significativamente alla disciplina generale in tema di cessione del contratto (artt. 1406 ss.). In primo luogo, infatti, il subentro dell’acquirente prescinde dalla volontà sua e del cedente e persino dalla conoscenza che il primo abbia dell’esistenza del rapporto 51; perciò egli succede nella posizione dell’alienante anche se ignora che un certo contratto sia in corso, alla sola condizione, oggettiva, che si tratti di un contratto inerente all’azienda e non avente carattere personale. In secondo luogo, non è richiesto il consenso del terzo contraente, altrimenti necessario secondo quanto sarebbe previsto dall’art. 1406: a prescindere dalla volontà di costui, dunque, il rapporto prosegue con il solo acquirente, che acquista la titolarità dei crediti scaturenti dallo stesso e ne assume i debiti, con integrale e immediata liberazione dell’alienante. La successione riguarda però solo i contratti a prestazioni corrispettive, non ancora eseguite da nessuno dei due contraenti nel momento in cui si verifica il trasferimento dell’azienda 52. Ciò non è specificato dalla disposizione in commento, ma lo si deduce dal tenore della regolamentazione che essa detta e dai rapporti con i successivi artt. 2559 e 2560. Infatti, è proprio la circostanza che dal contratto nascano obbligazioni reciproche e reciprocamente ancora non adempiute e che quindi, quando si attua la successione, residuino tra i contraenti posizioni vicendevolmente equivalenti dal punto di vista economico (la controprestazione attesa e quella promessa da ciascuna delle parti avranno di regola valori in linea l’uno con l’altro), che giustifica: a) l’irrilevanza della conoscenza dell’acquirente, il cui interesse a subentrare in tutti i rapporti che riguardano l’azienda può essere soddisfatto senza temere che egli veda compromessa la valutazione fatta sulla convenienza dell’operazione di acquisizione, per effetto del subingresso in posizioni giuridiche ignorate ed economicamente a saldo negativo; e b) l’irrilevanza della volontà del terzo contraente, che, con la sostituzione del proprio debitore, potrebbe sì vedere pregiudicate le aspettative al conseguimento di quanto dovutogli, ma che potrà, se del caso, eccepire l’inadempimento della nuova controparte e così sospendere anche da parte propria l’esecuzione degli obblighi assunti. Quando, da un contratto, residuino invece soltanto un credito a favore o un debito a carico dell’alienante, o quando si tratti di un contratto con prestazioni a carico di una sola parte, si applicheranno gli artt. 2559 e 2560 53. E non a caso, secondo quest’ultima disposizione, la responsabilità del cessionario presuppone la conoscibilità del debito, in quanto esso costituisce una posta puramente passiva del

51

Cass. 19-6-1996, n. 5636. FERRARA-CORSI; MARTORANO/Buonocore; CAMPOBASSO; GALGANO; COLOMBO, L’azienda, 70 ss.; Cass. 8-6-1994, n. 5534, GIt, 1995, I, 1, 1308; Cass. 20-7-1991, n. 8121, FIt, 1992, I, 3364. Peraltro si registra in giurisprudenza anche la tesi per cui la successione interverrebbe in qualsiasi fase del rapporto contrattuale, purché questa non sia del tutto esaurito, e dunque anche in fase contenziosa: Cass. 11-81990, n. 8219; la tesi non convince, non configurandosi in tal caso un rapporto in equilibrio economico, nei termini che si stanno per illustrare nel testo. 53 MARTORANO/Buonocore; MARTORANO, L’azienda, 148 ss.; FERRARI, voce Azienda, 715 ss.; Cass. 20-7-1991, n. 8121, cit. 52

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patrimonio aziendale, e, specularmente, la liberazione del cedente presuppone il consenso del creditore. A quest’ultima disciplina si ritiene siano assoggettati anche i c.d. debiti in praeteritum: quando un contratto di durata sia in corso di esecuzione, in esso subentrerebbe l’acquirente, secondo le regole dell’art. 2558, per tutto ciò che riguardi le reciproche prestazioni future (ad es., nel diritto al godimento dei beni locati e nell’obbligo alla corresponsione dei relativi canoni), mentre, se residuano debiti riguardanti il periodo precedente ed il terzo contraente abbia già adempiuto alla prestazione corrispondente, a questi si applicherebbe l’art. 2560 54.

Vi è tuttavia una categoria di rapporti contrattuali, rispetto ai quali la regola della successione non opera, sì che essi continuano a far capo all’alienante: si tratta dei contratti a carattere personale. Non è tuttavia specificato in cosa consista tale connotato e la dottrina si è mostrata divisa nell’individuazione della fattispecie. Prevale tuttavia la tesi, secondo cui tali sarebbero i contratti nella cui stipulazione il terzo contraente abbia attribuito specifica rilevanza alle qualità personali della controparte, e dunque dell’alienante l’azienda 55. La categoria non coincide però con quella, più ampia, dei c.d. contratti stipulati intuitu personae, cioè dei contratti (mandato, agenzia, ecc.) in cui genericamente rileva la persona del contraente; quelli esclusi dalla successione ex art. 2558 sono solo quelli in cui la prestazione promessa dall’alienante è oggettivamente infungibile (per cui sarebbe impossibile l’esecuzione da parte dell’acquirente di una prestazione identica: ad es., il contratto avente ad oggetto la fornitura di un mobile di serie, ma decorato a mano personalmente dall’alienante) o soggettivamente infungibile (cioè in cui la prestazione è considerata in concreto tale dalle parti, che ad es. avevano pattuito l’incedibilità del rapporto). Questa tesi appare corretta e preferibile rispetto a quella minoritaria, secondo cui la norma sarebbe posta a tutela dell’acquirente dell’azienda, escludendo dalla successione i contratti che, pur inerendo all’esercizio dell’impresa, riflettano scelte personali dell’alienante (come i contratti con un consulente tributario o con lo psicologo di fabbrica) 56. L’interesse protetto è senz’altro, principalmente, quello del terzo contraente, sebbene vadano annoverati tra i contratti a carattere personale, a tutela dell’acquirente, anche quelli che, in concreto, rappresentino il risultato di scelte imprenditoriali dell’alienante, oggettivamente sproporzionate rispetto alle dimensioni dell’attività e del suo ragionevole sviluppo e quindi

54 COLOMBO, L’azienda, 76 ss.; FERRARA jr., La teoria, 365 ss.; MARTORANO, L’azienda, 152; Cass. 23-1-2012, n. 840, in motivazione (contra, forse, Cass. 12-3-2013, n. 6107). La tesi è però dubbia: la presenza di debiti pregressi dovrebbe piuttosto rilevare nella valutazione se il contratto possa o no considerarsi in equilibrio economico sostanziale per i due contraenti; in caso affermativo producendosi il subentro ex lege dell’acquirente nell’intero rapporto, ivi compresi i debiti in questione, in caso contrario rimanendo il rapporto stesso in capo all’alienante. 55 Cfr. VANZETTI, Osservazioni, 512 ss.; COLOMBO, L’azienda, 82 ss.; FERRARI, voce Azienda, 720 ss.; AULETTA, Dell’azienda, cit., 56. In giurisprudenza v. Cass. 25-7-1978, n. 3723, GIt, 1979, I, 1, 1129. 56 V. GALGANO; FERRARA-CORSI. La tesi è stata recentemente accolta in giurisprudenza: Cass. 12-42001, n. 5495, GComm, 2001, II, 543.

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estranee ad una logica di gestione obiettiva (ad es., il noleggio di una limousine con autista per il trasporto del titolare di un modesto punto vendita al dettaglio di generi alimentari) 57.

La previsione normativa sin qui esaminata risulta ad ogni modo ampiamente derogabile dalle parti. Nel contratto traslativo dell’azienda, alienante ed acquirente possono escludere dalla successione, come si è osservato, uno o più rapporti contrattuali, senza limite alcuno, a meno che non si tratti dei rapporti in forza dei quali il cedente consegue la disponibilità di un bene essenziale dell’apparato produttivo, poiché in tal caso verrebbe meno la stessa qualificabilità dell’operazione come trasferimento d’azienda. L’esclusione dalla successione comporta che il rapporto prosegua tra l’alienante e il terzo contraente. L’accordo tra le parti può provocare anche, viceversa, il subentro dell’acquirente in un rapporto pur avente carattere personale, ma è necessario il consenso del terzo 58. Come si è visto, quest’ultimo subisce, per così dire, la modificazione soggettiva del rapporto che a lui fa capo. Lo stesso art. 2558 predispone peraltro una tutela a suo favore, riconoscendogli il diritto di recesso dal contratto, qualora sussista una giusta causa (co. 2). Il diritto di recesso va esercitato nei confronti dell’acquirente, entro tre mesi dalla notizia del trasferimento (valgono i principi sull’opponibilità dell’iscrizione nel registro delle imprese) e determina l’estinzione del rapporto, con efficacia ex nunc (non dunque il suo ritrasferimento al cedente) 59. Esso è però possibile solo in presenza di una giusta causa, ossia quando il terzo contraente possa invocare l’esistenza di ragioni oggettive che ostano alla prosecuzione del rapporto stesso con l’acquirente e che, evidentemente, devono riguardare la sua persona o precedenti rapporti con il terzo medesimo (ad es., qualora la precaria situazione patrimoniale dell’acquirente faccia seriamente temere per il corretto adempimento del contratto da parte sua; o quando vi siano o vi siano state con il terzo controversie relative ad altri rapporti già intercorrenti con il cessionario) 60. In caso di recesso, lo stesso art. 2558, co. 2, fa salva la responsabilità dell’alienante. Si tratta di una responsabilità nei confronti del terzo, per i danni che questi abbia subito per essere stato costretto a risolvere anticipatamente il contratto, che non costituisce tuttavia un caso di responsabilità oggettiva, ma in cui l’alienante incorre quando gli sia imputabile una culpa in eligendo, cioè una negligenza nell’individuazione del cessionario e quindi una insufficiente attenzione alla posizione e alle legittime aspettative del terzo contraente 61.

57

Cfr. CIAN, Rapporto fideiussorio e trasferimento dell’azienda, GComm, 2001, II, 545 ss. FERRARA jr., La teoria, 360, nt. 1. Si è invece esclusa la possibilità di concordare una cessione solo parziale del contratto: Cass. 23-1-2012, n. 840. 59 CAMPOBASSO; COLOMBO, L’azienda, 93 ss.; ma nel senso del ritrasferimento all’alienante v. MARTORANO/Buonocore; MARTORANO, L’azienda, 169 ss. 60 MARTORANO, L’azienda, 168; FERRARA-CORSI; CAMPOBASSO. 61 COTTINO; COLOMBO, L’azienda, 100 ss.; ma nel senso che non sarebbe necessaria la colpa dell’alienante VANZETTI, Osservazioni, 536 s. 58

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Talune ulteriori disposizioni regolano infine la sorte di specifiche fattispecie contrattuali proprio in caso di trasferimento dell’azienda. La principale tra queste norme è senz’altro il citato art. 2112, che dispone il subentro dell’acquirente nei rapporti di lavoro subordinato. Tale norma si discosta in parte dall’art. 2558, specie perché prevede la responsabilità solidale dell’alienante e del cessionario per i debiti sussistenti nei confronti del lavoratore al momento del trasferimento, senza altre condizioni (co. 2). Il cessionario succede poi anche nelle proposte e nelle accettazioni contrattuali, cioè nelle posizioni giuridiche di offerente o di oblato facenti capo all’alienante, concernenti contratti non ancora perfezionatisi al momento del trasferimento dell’azienda, e nei limiti dell’art. 2558 (purché si tratti, dunque, di contratti a prestazioni corrispettive non a carattere personale). L’acquirente potrà conseguentemente accettare la proposta del terzo, o ricevere l’accettazione di quest’ultimo alla proposta emessa dall’alienante, ed il rapporto si costituirà immediatamente in capo a lui 62. Inoltre egli subentra nei rapporti rappresentativi di cui era parte l’alienante: i collaboratori autonomi o subordinati, cui fosse stato conferito un potere di rappresentanza per il compimento di operazioni riguardanti l’attività d’impresa, avranno d’ora in poi il potere di agire in nome e per conto del cessionario 63.

7. Crediti e debiti inerenti all’azienda Diversa è la disciplina contenuta negli artt. 2559 e 2560; questi regolano la sorte dei crediti e debiti cosiddetti puri, cioè dei rapporti obbligatori di fonte extracontrattuale (il credito dell’alienante al risarcimento del danno arrecato da un terzo ad un autoarticolato dell’azienda; il debito al versamento dell’IVA), e di quelli di fonte contrattuale, quando residui esclusivamente una prestazione isolata, a favore o a carico del cedente (ad es., si applica l’art. 2560 e non l’art. 2558 al debito dell’alienante al pagamento del prezzo relativo alla fornitura di merce già consegnatagli; si applica l’art. 2559 e non l’art. 2558 al credito vantato dal medesimo nei confronti di un fideiussore). Naturalmente, deve trattarsi sempre di crediti e debiti inerenti all’esercizio dell’azienda. Per i crediti, l’art. 2559 si limita a stabilire che il loro trasferimento diviene efficace nei confronti dei terzi, anche in assenza della notifica o dell’accettazione del debitore ceduto (altrimenti richieste dagli artt. 1264 e 1265), con l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto traslativo dell’azienda. La pubblicità nel registro (purché abbia efficacia dichiarativa 64) è dunque equiparata alle due modalità alternative previste dalla disciplina generale sulla cessione dei crediti, per risolvere i conflitti tra più acquirenti dello stesso credito (art. 1265) o tra acquirente e creditore pignorante (art. 2914) e rende altresì efficace la cessione nei confronti del debitore; questi è tut-

62 COLOMBO, L’azienda, 115ss.; FERRARA jr., La teoria, 369; contra, ASCARELLI, Corso di diritto commerciale3, Milano, 1962, 348. 63 CIAN, Trasferimento, passim. 64 La regola posta dall’art. 2559 si applica dunque quando il trasferimento sia iscritto nella sezione ordinaria o riguardi una azienda agricola; altrimenti, torna ad operare la disciplina ordinaria della cessione dei crediti.

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tavia comunque liberato, se paga in buona fede all’alienante, ancorché ad iscrizione avvenuta 65. Tale ultima previsione costituisce una deroga all’art. 2193, a tutela del debitore, escludendo che possa essergli puramente e semplicemente opposta la registrazione del trasferimento, ed opera con riferimento ad ogni fattispecie modificativa o estintiva del credito (ad es., sono efficaci nei confronti dell’acquirente l’accordo dilatorio o il patto novativo stipulati in buona fede con l’alienante, pur dopo tale registrazione) 66.

Per i debiti, l’art. 2560 dispone innanzitutto che l’acquirente ne risponde verso i creditori, se (ma solo se) essi risultano dalle scritture contabili obbligatorie (co. 2). La norma riflette anch’essa il più generale interesse alla prosecuzione dei rapporti aziendali da parte del continuatore dell’impresa; ma lo contempera con l’interesse del cessionario a non vedersi gravato da obbligazioni non conosciute, le quali, in quanto rappresentative di un valore economico meramente negativo, pregiudicherebbero la valutazione dal medesimo compiuta sull’azienda acquistata (la limitazione però non vale per i debiti di lavoro: art. 2112, co. 2). In quanto stabilita a protezione del terzo, la norma è senz’altro inderogabile dalle parti 67. In ogni caso, l’alienante continua a rispondere di tali debiti in solido con l’acquirente, a meno che i creditori non acconsentano alla sua liberazione (co. 1) 68; tale disposizione applica il principio generale in base al quale un creditore non può vedere sostituita la persona del proprio debitore senza il suo consenso. La responsabilità dell’acquirente configura un’ipotesi di accollo ex lege e presuppone che il cedente fosse un imprenditore commerciale medio-grande (come tale obbligato alla tenuta delle scritture contabili). Buona parte della dottrina e la giurisprudenza consolidata affermano che la registrazione del debito costituisce condizione essenziale e imprescindibile per tale responsabilità, cosicché il cessionario non risponderebbe di alcun altro debito, neppure se da lui conosciuto o risultante da altri documenti contabili tenuti dal cedente 69.

65 È discusso se spetti al cessionario provare la mala fede del debitore (COLOMBO, L’azienda, 134), o se gravi su quest’ultimo l’onere di dimostrare la propria buona fede (MARASÀ-IBBA, Il registro delle imprese, cit., 232 s.). 66 COLOMBO, L’azienda, 133. 67 AULETTA, Dell’azienda, cit., 68 s.; MARTORANO/Buonocore; FERRARI, voce Azienda, 730. 68 Non è dunque sufficiente il generico consenso al trasferimento dell’azienda, come taluno afferma (FERRARA jr., La teoria, 358; AULETTA, Dell’azienda, cit., 66; FERRARA-CORSI; nel senso qui sostenuto FERRARI, voce Azienda, 729; CASANOVA, Impresa, 827 s.; CAMPOBASSO). Naturalmente, la liberazione esplica i propri effetti relativamente ai soli debiti i cui creditori vi abbiano acconsentito. 69 L’eccezionalità della norma è pacifica in giurisprudenza: tra le ultime v. Cass. 10-11-2010, n. 22831; Cass. 3-4-2002, n. 4726; Cass. 20-6-2000, n. 8363; non sono ritenute sufficienti scritture parziali e carenti (Cass. 21-12-2012, n. 23828). In dottrina v. COLOMBO, L’azienda, 145; MARTORANO, L’azienda, 234 ss.; COTTINO; CAMPOBASSO; GALGANO. Non è però necessario che i libri siano stati regolarmente tenuti dall’alienante, purché il debito vi risulti: CAMPOBASSO; COLOMBO, L’azienda, 143 s. Nel senso invece della responsabilità dell’acquirente anche per i debiti non iscritti, se comunque a lui noti, CASANOVA, Impresa, 831 s. Si è discusso anche se l’acquirente (specie, ma non solo, di azienda bancaria) sia soggetto passivo delle azioni revocatorie di pagamenti effettuati prima del trasferimento da un terzo (poi fallito) all’alienante: da ult. Cass. 28-2-2017, n. 5054; Cass. 21-4-2016, n. 8090; Cass. 28-7-2010, n. 17668; POR-

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Come si vede, entrambi gli articoli in esame disciplinano in realtà esclusivamente la sorte dei rapporti obbligatori nei confronti dei terzi, ma non si occupano in alcun modo dei rapporti interni tra cedente e cessionario. L’applicazione dell’art. 2559 presuppone che sia stata pattuita fra costoro la cessione dei crediti, o l’acquirente succede in essi automaticamente come accade per i contratti? Quale, fra i due soggetti responsabili in solido dei debiti, ha regresso verso l’altro, una volta che abbia adempiuto all’obbligazione? È subito chiaro che la risposta non può essere trovata semplicemente ricorrendo alla configurazione dell’azienda come universalità comprendente beni, contratti, crediti e debiti, come non raramente faceva la giurisprudenza 70, per la valida ragione che tale configurazione, come si è visto (supra, I.1), non è corretta. Né convince l’idea che, trattandosi di crediti e debiti isolati, essi rappresentino rispettivamente ricavi e costi dell’attività propria dell’alienante e che dunque allo stesso debbano continuare a far capo. Occorre piuttosto riflettere sulla ratio che sta alla base delle tre disposizioni in esame, e in questa prospettiva ha largo seguito la tesi della automatica successione del continuatore dell’impresa nel più ampio spettro possibile dei rapporti pendenti e dunque anche nei crediti e nei debiti (si pensi alla stretta inerenza all’attività che hanno il credito alla consegna di una partita di materie prime o i debiti verso i clienti) 71. Va però segnalato che è ampiamente sostenuta anche la tesi contraria, secondo la quale l’acquisto dei crediti richiederebbe un patto di cessione e il subentro nei debiti un patto di accollo, come clausole del contratto di trasferimento dell’azienda 72. In ogni caso, l’alienante e l’acquirente possono liberamente regolare questi profili e normalmente è proprio ciò che accadrà.

III. Usufrutto e affitto dell’azienda Si è visto che l’azienda può essere oggetto, oltre che di atti traslativi, anche di negozi costitutivi di un diritto di godimento sui beni che la compongono: di un diritto TALE, “Sostituzione di un’azienda di credito ad un’altra nell’esercizio di una sede o filiale” e responsabilità per i debiti da revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente, BBTC, 1989, I, 1 ss.; JORIOAMBROSINI, Cessione di azienda bancaria e responsabilità per debiti derivanti da azioni revocatorie di rimesse in conto corrente, GIt, 2002, 1535 ss.; VERBANO, Trasferimento d’azienda (bancaria) e debiti restitutori da revocatoria fallimentare, Comm. 2014, I, 383 ss. Discipline in parte speciali concernono infine i debiti da sanzioni amministrative (art. 33 d.lgs. 231/2001) e tributarie (art. 14 d.lgs. 472/1997). 70 Cass. 11-8-1990, n. 8219, GIt, 1991, I, 1, 584; Cass. 16-1-1987, n. 360. Ma, come subito si dirà, il più recente orientamento della Suprema Corte appare di segno opposto. 71 In questo senso, anche se con motivazioni non sempre coincidenti, FERRARA-CORSI; MONTANARIPEDERZINI. Per i crediti cfr. anche GALGANO; PRESTI-RESCIGNO; TOMMASINI, L’azienda, 263; Cass. 317-2012, n. 13692; Cass. 22-1-1999, n. 577, RNot, 1999, 1235; Cass. 5-5-1995, n. 4873; Cass. 1-10-1993, n. 9802, Giust civ, 1994, I, 992; per i debiti CASANOVA, Impresa, 831 s.; FERRARA jr., La teoria, 129 ss. Va aggiunto che la successione riguarda l’intera posizione contrattuale alla quale il credito o il debito inerisce: FERRARA jr., La teoria, 366; AULETTA, Azienda, 18. 72 Per i crediti COLOMBO, L’azienda, 117ss.; LIBONATI; FERRI; MARTORANO, L’azienda, 199 ss. Per i debiti, oltre agli stessi Colombo, Martorano e Ferri, v. COTTINO; FERRARI, voce Azienda, 729, e, in giurisprudenza, Cass. 3-10-2011, n. 20153; Cass. 22-12-2004, n. 23780, GComm, 2005, II, 569; Cass. 25-21987, n. 1990; in posizione intermedia MINNECI, Trasferimento, 86 ss.

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reale, e in tal caso si avrà concessione in usufrutto dell’azienda, o di un diritto personale di godimento, e in tal caso si avrà affitto della medesima. Anche in questo caso, non si tratta di nuovi tipi negoziali distinti da quelli consueti: l’usufrutto potrà essere costituito mediante compravendita, ad es., o donazione, o permuta, e via dicendo; un diritto personale di godimento potrà essere accordato mediante affitto (artt. 1615 ss.), o conferimento in società. Tuttavia anche queste sono vicende giuridiche causalmente destinate a produrre, attraverso la costituzione di un diritto su un bene (più esattamente: di una pluralità di diritti, uno per ciascuno degli elementi del complesso), la continuazione dell’attività, sia pure a titolo provvisorio, da parte del beneficiario. Per questa ragione, la disciplina appositamente dedicatavi (artt. 2561 s.) regola i diritti e i doveri facenti capo a tale soggetto, tra cui assume particolare rilievo il dovere di gestire l’azienda; si tratta di norme che vanno integrate con la disciplina propria del tipo negoziale in concreto prescelto dalle parti e, nel caso dell’usufrutto, con quella contenuta negli artt. 978 ss. Sul piano formale, si applica inoltre integralmente l’art. 2556.

1. Usufrutto Le particolarità dei beni concessi in usufrutto, il fatto cioè che essi costituiscano un complesso servente un’impresa, destinato a tornare in possesso del nudo proprietario al termine del rapporto, incidono sugli obblighi che l’usufruttuario deve osservare nel loro godimento: non si tratta infatti soltanto di “rispettare la destinazione economica” della cosa (art. 981) e di “usare la diligenza del buon padre di famiglia” (art. 1001), poiché l’azienda richiede, perché siano conservati la sua attitudine produttiva ed il suo avviamento, l’esercizio costante dell’attività. Pertanto, l’usufruttuario deve esercitare l’impresa sotto la ditta che la contraddistingue (art. 2561, co. 1), conservando “l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte”, senza modificare la destinazione del complesso (co. 2). Si tratta pertanto non solo di una facoltà di godimento (a cui corrisponde il già noto divieto di concorrenza a carico del concedente: art. 2557, co. 4), ma di un vero e proprio obbligo, non limitato alla semplice manutenzione ordinaria dei beni, ma esteso ad ogni atto necessario per salvaguardarne l’avviamento; tanto è vero che, in caso di inadempimento, è richiamata (co. 3) la disciplina relativa agli abusi dell’usufruttuario (art. 1015) e, nei casi più gravi, il diritto può estinguersi. Ne segue che questi è tenuto, fra l’altro, ad ammodernare o sostituire gli impianti obsoleti, ad introdurre le nuove tecnologie di produzione, a rinnovare il ventaglio dell’offerta dei prodotti per stare al passo con le mutate esigenze del mercato, sostenendo dunque anche, in deroga a quanto previsto dall’art. 1005, spese che, rispetto al singolo bene, parrebbero rivestire il carattere della straordinarietà, ma che invece, se si guarda alle necessità di conservazione dell’avviamento, attengono pur sempre alla normale gestione dell’azienda, secondo la diligenza professionale richiesta dall’art. 1176, co. 2 73. In tale gestione è evidente che l’usufruttuario si troverà anche ad alterare costantemente la composizione del complesso, cedendo taluni beni (specie i prodotti dell’impresa, le scorte di magazzino) e acquisendone altri (nuove materie prime, nuovi macchinari).

73

Cfr. COLOMBO, L’azienda, 232 ss.; MARTORANO, L’azienda, 293 ss.

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Per un verso, dunque, collegato e strumentale al potere di gestione è il potere di disposizione dei beni aziendali appartenenti al concedente, che si costituisce in capo all’usufruttuario, quantunque costui non acquisti, ovviamente, la proprietà di nessuno di tali beni. Si tratta di un potere che non riguarda solo il c.d. capitale circolante (materie prime, merci, prodotti dell’impresa), ma anche il capitale fisso, cioè gli impianti, e che deve essere esercitato nell’interesse dell’azienda ogniqualvolta lo richieda l’obbligo di conservazione della sua efficienza produttiva 74. Per l’altro verso, tutti i beni che siano immessi dallo stesso usufruttuario nel complesso sono automaticamente acquistati, in nuda proprietà, dal concedente, sebbene pure di essi il primo possa disporre nei termini appena visti 75. È chiaro in questo scenario che, al termine del rapporto, l’azienda potrebbe trovarsi ad avere una composizione assai diversa da quella originaria; ma va ricordato che l’usufruttuario deve sempre conservare le dimensioni del complesso e garantire la normale dotazione di scorte. In ogni caso vi potranno essere differenze tra le consistenze d’inventario all’inizio e alla fine del rapporto stesso, che andranno regolate in denaro (art. 2561, co. 4) 76. Analoga variabilità riguarda il patrimonio aziendale. Alla costituzione dell’usufrutto l’usufruttuario subentra nei contratti in corso di esecuzione, negli stessi limiti e secondo le stesse regole che valgono nel trasferimento dell’azienda (art. 2558, co. 3; art. 2112). Ugualmente, il nudo proprietario succede in tutti quelli pendenti al termine del rapporto, e dunque anche in quelli stipulati dall’usufruttuario stesso, con l’unica eccezione dei rapporti sproporzionati rispetto alle dimensioni dell’impresa 77. Per la cessione dei crediti, occorre invece un espresso accordo tra le parti (art. 2559, co. 2), mentre i debiti continuano a gravare esclusivamente sulla persona che li abbia assunti, non applicandosi l’art. 2560, salvo che si tratti di debiti di lavoro (art. 2112).

2. Affitto Principi analoghi valgono in caso di affitto dell’azienda; e infatti l’art. 2562 si limita a richiamare la disciplina contenuta nell’art. 2561; ne segue che anche l’affittuario ha il potere-dovere di gestire l’azienda e di disporre dei beni che la compongono, ed è soggetto al controllo del concedente (art. 1619). Si applicano inoltre, come nell’usufrutto, gli artt. 2556, 2557, 2558 e 2112, mentre non vi è cessione automatica dei crediti né accollo dei debiti. Come si vede, la disciplina è assai diversa da quella che opererebbe se si trattasse di una mera locazione di più beni disaggregati. La diversità di regole diviene ancor più marcata rispetto alla locazione di immobili e specie di immobili destinati ad uso industriale o commerciale, per i quali sono dettate importanti disposizioni speciali (l. 392/1978), che regolamentano il rapporto dal punto di vista della durata e attribuiscono al conduttore significativi diritti di indennizzo e di prelazione. È quindi essenziale qualificare il negozio, e la 74

FERRARI, voce Azienda, 736; COLOMBO, L’azienda, 235; CAMPOBASSO; MARTORANO, L’azienda, 299 ss. 75 CAMPOBASSO; FERRARI, voce Azienda, 737; COLOMBO, L’azienda, 237. 76 È invece discusso se tra le consistenze d’inventario rientri un eventuale incremento dell’avviamento e se dunque l’usufruttuario abbia diritto per esso ad un compenso: in senso negativo COTTINO e C94/3775, in senso opposto (almeno come diritto all’indennizzo per le spese sostenute) FERRARI, voce Azienda, 739; COLOMBO, L’azienda, 282 s. 77 FERRARI, voce Azienda, 738; COLOMBO, L’azienda, 245 ss.

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questione diventa assai rilevante (come testimoniano le continue pronunce giurisprudenziali) quando oggetto della concessione in godimento sia un insieme di beni comprensivo di un immobile e di altri elementi minori: si pensi al caso in cui oggetto dell’atto siano un locale per il commercio al dettaglio e i suoi arredi; o un edificio strutturato ad albergo e il relativo mobilio. Si tratta di affitto d’azienda o di locazione di immobile con pertinenze? A questo proposito, determinante sarà come sempre il fatto che il contratto sia diretto ad immettere il beneficiario in una ben precisa attività servita dal complesso, anche se, talvolta, la qualificazione non risulterà affatto semplice 78. Norme particolari sono dettate per l’affitto dell’azienda appartenente al fallito (art. 104-bis l.fall.). Esso può essere stipulato dal curatore, quando appaia utile per una più proficua vendita dell’azienda. Si applica la disciplina codicistica, ma, al termine del rapporto, la procedura non subentra nei debiti di lavoro maturati sino a quel momento e la sorte dei contratti in corso è regolata, in deroga all’art. 2558, dagli artt. 72 ss. l.fall. All’affittuario può essere inoltre concesso convenzionalmente un diritto di prelazione nella successiva vendita del complesso.

IV. Altre vicende circolatorie e giudiziarie interessanti l’azienda Ci si chiede in dottrina se l’azienda possa costituire, unitariamente considerata, l’oggetto di altri negozi o di azioni giudiziarie, e specialmente se possa essere concessa in comodato, costituita in pegno, espropriata, sequestrata o rivendicata. Il solo dato normativo disponibile è offerto dal già ricordato art. 670 c.p.c., che annovera l’azienda tra le universalità che possono essere oggetto di sequestro giudiziario. La valenza unitaria del complesso consente di omettere, negli atti processuali, l’elencazione analitica dei suoi componenti, ma non toglie che poi il provvedimento vada eseguito nelle diverse forme richieste per ciascuno di essi 79. Ed il custode ne assume la gestione, sotto tutti gli aspetti. Si nega invece che l’azienda possa essere oggetto di sequestro conservativo o di espropriazione: le azioni esecutive dovranno pertanto essere dirette nei confronti dei singoli beni 80. Per contro, si afferma che su di essa può essere promossa un’azione unitaria di rivendicazione (art. 948) da parte del titolare, sebbene, come abbiamo detto, non sia configurabile un diritto di proprietà in senso tecnico sul complesso. Anche in questo caso, si reputa necessario il rispetto delle formalità richieste dai singoli beni (ad es., la trascrizione ex art. 2653, n. 1, se l’azienda comprenda immobili); se la domanda viene accolta, il rivendicante subentra nei contratti in corso, ma non nei debiti, e ha diritto di farsi consegnare anche i beni immessi nel complesso dal convenuto 81.

78 Fra le sentenze più recenti v. Cass. 26-9-2006, n. 20815; Cass. 19-7-2005, n. 15210; Cass. 27-6-2002, n. 9354: nella loro formula ricorrente, questi provvedimenti affermano che, nella locazione, l’immobile costituisce l’oggetto principale dell’atto, con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi, i quali assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione, mentre nell’affitto di azienda esso viene considerato come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà. Per gli alberghi, l’art. 1, co. 9-septies, d.l. 12/1985 stabilisce che si ha locazione di immobile, quando l’attività alberghiera sia iniziata dal conduttore. 79 COLOMBO, L’azienda, 300; MARTORANO, L’azienda, 372 ss.; Cass. 21-1-2004, n. 877, GIt, 2004, 1358. 80 COLOMBO, L’azienda, 302; MARTORANO, L’azienda, 375; PETTITI, Il trasferimento, 153 s.; ma per il sequestro la questione è molto più dibattuta: nel senso della sua ammissibilità FERRARI, voce Azienda, 740, PROVINCIALI, Il sequestro, 76 ss., seguito da DI GRAVIO, Il sequestro, 87 ss., FERRARA jr., La teoria, 429. 81 COLOMBO, L’azienda, 304 ss. Per altri riferimenti v. supra, I.3, in nota.

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Quanto alle possibili, ulteriori vicende negoziali, va negato che l’azienda possa essere costituita in pegno, restando a questo proposito insufficiente, stante la sua eterogenea composizione, il fatto che l’art. 2784 includa le universalità di mobili tra i possibili oggetti di questa garanzia 82. È invece possibile la sua concessione in godimento a titolo di comodato (in tal caso si applicherà per analogia la disciplina riguardante il suo affitto) 83 e di leasing 84.

82

MARTORANO, L’azienda, 371 s.; ma v. COLOMBO, L’azienda, 296 ss. COLOMBO, L’azienda, 295; FERRARI, voce Azienda, 740. 84 MARTORANO, Il leasing d’azienda, BBTC, 2010, I, 1 ss.; ID., L’azienda, 339 ss. 83

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§ 10. IL RICAMBIO GENERAZIONALE NELL’IMPRESA: I PATTI DI FAMIGLIA LETTERATURA: AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006; AMADIO, Patto di famiglia e funzione divisionale, RNot, 2006, 867; AMADIO-CHECCHINI-LUCCHINI GUASTALLA-PALAZZO-RUSSO-ZOPPINI, RDCiv, 2007, II, 261; BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, Tr. Alpa-Patti, 2009, 461; BONILINI, Il patto di famiglia, in Tratt. di diritto delle successioni e donazioni, diretto da Bonilini, III, Milano, 2009; CIAN, La nozione di “partecipazioni societarie” nella disciplina dei patti di famiglia, RDSoc, 2008, 767; DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, NLCC, 2007, 21; DELLE MONACHE, Successione necessaria e sistema di tutele del legittimario, Milano, 2008, 131; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, Giust civ, 2006, II, 217; IEVA, Il patto di famiglia, in Tratt. breve delle successioni e donazioni 2, diretto da Rescigno, II, Padova, 2010; OPPO, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”, RDCiv, 2006, I, 439; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, RNot, 2006, 401; SICCHIERO, La causa del patto di famiglia, ContrImp, 2006, 1261; VITUCCI, Ipotesi sul patto di famiglia, RDCiv, 2006, I, 447.

In un contesto economico fondato principalmente su iniziative di piccole e medie dimensioni a gestione individuale o familiare, il problema del passaggio generazionale dell’impresa si delinea come particolarmente diffuso e delicato. Il subentro degli eredi nella conduzione dell’attività può provocare contraccolpi significativi sulla sua stabilità, fino a metterne in crisi la prosecuzione, vuoi per l’eterogeneo interesse e la diversa propensione alla sua continuazione, che essi possono manifestare, vuoi per la possibilità che tra di loro si profilino contrasti sul modo di gestirla, oppure di carattere familiare, ma tali da ripercuotersi comunque negativamente su di essa. Per scongiurare una simile eventualità, intuitivamente, dovrebbe restare affidata all’imprenditore la libertà di scegliere il proprio successore, nella persona da lui ritenuta più adatta, e con l’esclusione di ogni altro congiunto. Il diritto delle successioni in effetti riconosce in linea di principio questa facoltà, nel più ampio quadro della libertà di ogni individuo di disporre (per testamento) dei propri beni per il tempo successivo alla propria morte; ma si tratta di un’autonomia che, come è noto, non è senza limiti. In particolare, in presenza di talune categorie di soggetti (il coniuge, i figli, anche gli ascendenti se non vi sono figli) il testatore può assegnare liberamente solo una porzione del proprio patrimonio (c.d. porzione disponibile), essendo invece riservata per legge a tali soggetti (i legittimari) la restante parte (artt. 536 ss.). La libertà di disposizione non può essere recuperata dal de cuius in misura più ampia, neppure donando in vita i propri beni ai prescelti, dal momento che la quota di legittima va calcolata non già sul patrimonio presente al momento della morte (relictum), ma sulla somma di questo e del valore (al momento dell’apertura della successione) di tutti i beni per l’appunto donati dal defunto nel corso della propria vita (relictum + donatum: art. 556). I legittimari lesi nei loro diritti possono promuovere un’azione diretta a ridurre le disposizioni eccedenti: e poiché i beneficiari di tali atti dispositivi non possono tacitare le ragioni dei primi mediante un conguaglio in denaro (salvo eccezioni), l’esperimento dell’azione di riduzione porta all’acquisto, da parte dei legittimari, di una contitolarità sui beni che sorpassano la disponibile. In questo contesto normativo, e stante la consistenza delle quote riservate (che possono raggiungere i 3/4 della massa ereditaria), si comprende come, nel caso in cui l’azienda rap-

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presenti il cespite principale del patrimonio del disponente (come non raramente accade), la sua libera assegnazione al successore prescelto, con esclusione di ogni altro familiare, resti preclusa in presenza di legittimari. Solo qualora l’imprenditore detenga un cospicuo patrimonio extraaziendale, sì che il valore dell’azienda non ecceda la disponibile, egli potrà attribuire liberamente quest’ultima, o per donazione (compensando poi i legittimari non prescelti con una maggiore quota sull’asse ereditario), o per testamento, procedendo eventualmente a dividere direttamente i beni tra i propri eredi, all’uno assegnando l’azienda, agli altri i restanti beni (art. 734). Il contrasto tra la logica di una efficiente e libera allocazione delle risorse imprenditoriali e i principi del diritto successorio appare dunque evidente: in presenza di più familiari stretti (coniuge, più figli o discendenti), i rischi suesposti, che il passaggio generazionale comprometta la stabilità dell’impresa, risultano elevatissimi. Proprio al fine di garantire la conservazione e la proficua prosecuzione della medesima in questa delicata fase è stato introdotto l’istituto del patto di famiglia, disciplinato dagli artt. 768-bis ss., il quale è definito come “il contratto con cui ... l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”, con l’intervento dei legittimari, i quali accettano di venire liquidati in denaro o con beni diversi, per la quota di riserva loro spettante, in questo modo consolidando definitivamente l’assegnazione del bene produttivo al successore prescelto dal disponente. Il meccanismo è in sintesi il seguente: l’azienda o la partecipazione sono attribuite al familiare designato, a titolo gratuito (se si trattasse di una normale compravendita, naturalmente, il problema dei rapporti con il diritto successorio neppure si porrebbe, giacché i legittimari non possono mai vantare pretese al riguardo dei beni di cui il de cuius abbia disposto a titolo oneroso), e sin qui nulla distinguerebbe il patto di famiglia da una comune donazione; sennonché, al fine di sottrarre questo atto alla ghigliottina delle future azioni di riduzione, i legittimari vengono chiamati a partecipare all’atto stesso, per fissare di comune accordo un valore da attribuire all’azienda/quota e per stabilire su questo come soddisfare economicamente le loro ragioni. L’assetto distributivo delle ricchezze diviene in questo modo definitivo. Si tratta di un contratto di tipo nuovo 1, che può avere ad oggetto, per l’appunto, l’azienda, in caso di impresa individuale, o, in caso di impresa societaria, la partecipazione (quota o azioni), purché si tratti di una partecipazione che, per dimensioni e contenuto, consenta al suo titolare di esercitare (autonomamente o congiuntamente ad altri soci) un potere di governo sull’impresa (perciò non può essere oggetto del patto una mera partecipazione finanziaria, come l’investimento in una società quotata); oggetto del patto può essere anche una parte del bene produttivo (ramo d’azienda; una frazione della partecipazione posseduta dal disponente, purché abbia comunque le caratteristiche dimensionali e di contenuto ora descritte) 2. Il contratto (che deve essere concluso per atto pubblico: art. 768-ter) produce dunque il

1 È controverso se il patto sia da ricondurre, pur rimanendone distinto, alla figura della donazione, o abbia funzione divisionale o di successione anticipata: in arg. AMADIO, Patto, 867 ss.; ID., Profili funzionali del patto di famiglia, RDCiv, 2007, II, 345 ss.; DELLE MONACHE, Successione, 151 ss.; SICCHIERO, La causa, 1261 ss.; ZOPPINI, Profili sistematici della successione “anticipata”, RDCiv, 2007, II, 273 ss. La qualificazione ha ricadute sulla selezione della disciplina applicabile, ad es. sull’operatività o meno dell’art. 763 (rescissione per lesione oltre il quarto), verosimilmente da negare. 2 V. ampiamente CIAN, La nozione, 767 ss.

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trasferimento, a titolo gratuito, inter vivos e immediato 3, dell’azienda o della partecipazione al discendente prescelto, secondo la disciplina propria, rispettivamente, della circolazione della prima (con applicazione integrale, dunque, degli artt. 2556 ss.) e della seconda. Non si tratta pertanto di un atto con effetti equivalenti a quelli testamentari, né di un impegno del de cuius a disporre con un futuro testamento a favore di un determinato soggetto; l’acquisto del bene produttivo avviene subito, così anticipando rispetto ad esso la realizzazione del programma distributivo che il titolare ha in mente. Lo strumento, d’altra parte, presenta pure una certa elasticità: il disponente può anche limitarsi a costituire in capo al beneficiario un diritto reale limitato (usufrutto), conservando per sé (e dunque lasciando poi agli eredi, secondo la disciplina ordinaria) la nuda proprietà dell’azienda o della partecipazione; anche in tal caso, il consolidamento della gestione in capo al discendente preferito è assicurato. La struttura del contratto non è però quella di un accordo bilaterale: come si è detto, ad esso partecipano infatti necessariamente, sotto pena di nullità, anche coloro che risulterebbero legittimari se si aprisse la successione al momento del patto (art. 768-quater, co. 1) 4, e che accettano di vedere tacitate le loro ragioni mediante la corresponsione, da parte del successore prescelto, di una somma di denaro corrispondente alla quota di legittima che spetterebbe loro, calcolata in rapporto al valore concordemente attribuito all’azienda/quota (co. 2) 5, potendovi d’altra parte persino rinunciare in tutto o in parte. In luogo del pagamento in denaro, il disponente potrebbe anche soddisfare i legittimari mediante l’attribuzione di altri suoi beni (la proprietà di un immobile, ad es.), il cui valore sia dalle parti riconosciuto come corrispondente alla quota di riserva spettante (co. 3) 6; ed anzi è probabi-

3 Ma i contraenti possono prevedere un termine iniziale coincidente con la morte del disponente: DELLE MONACHE, Successione, 137. 4 È la tesi maggioritaria: DELLE MONACHE, Successione, 139 ss.; BALESTRA, Attività, 478 ss.; GAZZONI, Appunti, 219; ZOPPINI, Profili, cit., 290 ss.: mancando il consenso di uno dei legittimari, nullo quindi il patto, sarebbe altresì difficile ipotizzarne una conversione in una semplice donazione, poiché normalmente ne difetterebbero i requisiti di sostanza. Minoritaria, per quanto autorevole, è rimasta la tesi secondo cui la mancata partecipazione di un legittimario non pregiudicherebbe la validità del patto, ma semplicemente lo renderebbe inopponibile a costui: OPPO, Patto, 440 ss.; cfr. anche SICCHIERO, La causa, 1269; CACCAVALE, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, in AA.VV., Patti, 38 ss. (per i quali inopponibile sarebbe solo la valutazione compiuta dal disponente con l’assegnatario, ferma l’assegnazione). 5 La somma rappresenta dunque una frazione del valore del bene produttivo, non una frazione del valore dell’intero patrimonio del disponente: v. PETRELLI, La nuova disciplina, 436 s.; BALESTRA, Attività, 472 s. 6 La tesi preferibile (DELLE MONACHE, Successione, 186 ss.) ravvisa negli atti di disposizione di beni ulteriori un metodo di soddisfacimento dei legittimari, alternativo al credito pecuniario nei confronti del successore prescelto e reputa che anche tali atti siano sottratti a collazione e riduzione, ai sensi del co. 4. Secondo un diverso orientamento, invece, queste liberalità si affiancherebbero, ma senza integrarlo, al patto di famiglia, e resterebbero in sostanza delle donazioni, in tutto e per tutto soggette al regime ordinario (e dunque a collazione e riduzione), con l’unica eccezione che, a tali fini, il loro valore resterebbe quello fissato nel patto, e non già quello avuto al momento dell’apertura della successione, come richiederebbe l’art. 556: GAZZONI, Appunti, 224 s.; IEVA, Il patto, 338 ss.; VITUCCI, Ipotesi, 469 ss. L’alternativa è decisiva: ad es., a fronte dell’assegnazione al primogenito di un’azienda valutata 300, e soddisfatte le ragioni del fratello e del genitore con l’attribuzione di due beni, ciascuno del valore di 75, quando si aprirà la successione, con un relictum pari a 200, secondo la prima tesi, ciascuno dei tre legittimari avrebbe diritto a ricevere 1/4 del solo relictum (=50), ferme tutte le assegnazioni oggetto del patto, mentre, alla luce del secondo orientamento, la quota pari a 1/4 dovrebbe essere calcolata aggiungendo al relictum il donatum, con l’eccezione della sola azienda, e così sarebbe pari a 87,5 [(200+75+75)/4], quota che il successore prescelto avrebbe diritto a ricevere per l’intero sul relictum, mentre il fratello e il genitore, dovendo altresì imputare la donazione ricevuta, vedrebbero ridotto il loro diritto ad una somma pari a 12,5 (87,5 – 75).

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le che questa finisca per essere la soluzione più frequente, poiché non è detto che l’erede designato disponga delle risorse finanziarie necessarie per tacitare gli altri congiunti, sicché il ricorso ad una distribuzione più articolata del proprio patrimonio, da parte del disponente, potrebbe risultare utile, e, d’altra parte, fors’anche più gradito agli stessi congiunti. Dal punto di vista della posizione dei legittimari, l’istituto deroga dunque al diritto comune delle successioni e in particolare al divieto (art. 458) che grava su ogni soggetto, di disporre preventivamente dei diritti che potranno spettargli su una successione non ancora aperta. In questo modo, le reciproche pretese e posizioni rispetto al bene produttivo vengono definite irreversibilmente (salvo risoluzione consensuale del patto o recesso di uno dei contraenti, se previsto nel patto stesso: art. 768-septies), anche in vista della futura morte del disponente: infatti, “quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione e riduzione” (art. 768-quater, co. 4), cosicché, apertasi la sua successione, tale bene non verrà più conteggiato nella riunione fittizia (relictum + donatum), operata in vista della determinazione delle quote di riserva, e il suo trasferimento al beneficiario non sarà suscettibile di riduzione. Come si vede, l’istituto ricerca un equilibrio tra le esigenze di continuità dell’impresa e i diritti successori dei familiari, trovandolo in un accordo, valido solo se tutti gli interessati vi aderiscano; il disponente non può dunque imporre alcun sacrificio ai legittimari, ma può solo confidare, lui vivente, di esercitare su di essi la propria forza morale persuadendoli a stipulare il patto, e così prevenendo i possibili conflitti che la sua morte potrebbe generare. I benefici del patto sono evidenti: in primo luogo, ed è ormai chiaro, si assicura il consolidamento dell’azienda/quota in capo al beneficiario prescelto da colui che meglio di ogni altro può valutarne le attitudini; in secondo luogo, ai fini del calcolo del conguaglio in denaro spettante ai legittimari, si cristallizza il valore del bene produttivo a quello che esso ha al momento della stipulazione del patto, neutralizzando qualsiasi incremento di valore che esso possa conseguire sino alla morte del disponente (in assenza del patto, l’inattaccabilità dell’assegnazione – per donazione o per testamento − dell’azienda/quota al successore preferito dipenderebbe dal valore che essa ha al momento dell’apertura della successione, rispetto al valore complessivo del patrimonio del de cuius, ai sensi del già ricordato art. 556). Vi è però un limite intrinseco all’operatività dell’istituto e quindi alla possibilità di deviare dalle ordinarie regole successorie a favore della stabilità dell’impresa: come si è precisato, il bene produttivo deve essere ceduto ad un discendente; non è necessario che si tratti di un legittimario, e così il disponente potrebbe preferire un nipote ai figli, ma la condizione perché l’inattaccabilità dell’assegnazione si produca è che il bene scenda lungo la scala generazionale, verso uno dei gradini inferiori rappresentati dalla discendenza diretta del titolare. È chiaro che questi potrebbe voler prediligere un diverso familiare (un fratello, un nipote ex fratre), se non addirittura un terzo estraneo; nulla in tal caso gli impedisce di trasferire a costui l’azienda/quota per donazione o testamento, ma il trasferimento resta esposto, come ogni altro, comune atto dispositivo a titolo gratuito, alle pretese dei legittimari. Va poi osservato che i vantaggi sopra descritti sono conservati anche nel caso in cui, successivamente al patto, sopravvengano nuovi legittimari (nuovo coniuge, altri figli): neppure costoro possono infatti agire per la riduzione dell’atto dispositivo, ma vantano esclusivamente il diritto alla corresponsione, pro quota, della somma di denaro accettata, nel patto, dai legittimari anteriori (art. 768-sexies). Nei riguardi di quelli successivi, dunque, il patto impone i propri effetti e ad essi non resterà che agire per il pagamento 7. La lo-

7 Si ritiene che, qualora l’imprenditore abbia quale unico legittimario il discendente cui vorrebbe assegnare l’azienda/quota, non possa essere stipulato tra i due un patto di famiglia, all’unico scopo di vinco-

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ro sopravvenienza richiede d’altra parte un ricalcolo delle quote di riserva, che coinvolge tutti i legittimari: ad es., la nascita di un secondo figlio, accanto al primogenito e al coniuge superstite, già parti del patto, provoca la riduzione da 1/3 a 1/4 della quota spettante a costoro; il legittimario sopravvenuto potrà perciò esigere l’adempimento sia dal successore prescelto (per l’intero), sia, per la somma ricevuta in eccedenza rispetto alla quota ricalcolata, dal legittimario anteriore 8.

lare al loro accordo e alla loro valutazione del bene gli eventuali legittimari sopravvenuti: OPPO, Patto, 443; DELLE MONACHE, Successione, 150 s.; IEVA, Il patto, 336. 8 Solo dal prescelto, invece, secondo DELLE MONACHE, Successione, 204 s. (almeno nel caso in cui i legittimari anteriori fossero stati liquidati in denaro); per converso, sembrerebbe propendere per la solidarietà per l’intero ammontare della somma spettante al legittimario sopravvenuto PETRELLI, La nuova disciplina, 458. Può verificarsi anche l’ipotesi inversa, del venir meno della qualità di legittimario, successivamente al patto; è il caso, in particolare, del coniuge poi divorziato, il quale dovrà pertanto restituire quanto ricevuto: v. BALESTRA, Attività, 503 ss.; GAZZONI, Appunti, 223 (secondo cui l’obbligo di restituzione sorgerebbe però non a favore del successore prescelto e sin dal momento in cui, persa la qualità di legittimario, l’originaria attribuzione risulterebbe ex post priva di causa, ma solo nei confronti dell’eventuale nuovo coniuge superstite, al momento dell’apertura della successione).

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SEZIONE QUARTA

L’IMPRESA NEL MERCATO SOMMARIO: Capo Primo. MERCATO E CONCORRENZA. – § 11. Le regole di lealtà imprenditoriale. – § 12. La disciplina antitrust. – § 13. I diritti di proprietà industriale: profili generali. – § 14. I segni distintivi: profili generali. – § 15. La ditta e l’insegna. – § 16. I marchi e i nomi a dominio; le indicazioni geografiche. – § 17. Tecnologia e design. – Capo Secondo. MERCATO E CONTRATTI D’IMPRESA. – § 18. L’attività contrattuale dell’impresa. – § 19. La tutela delle controparti contrattuali deboli.

CAPO PRIMO

MERCATO E CONCORRENZA Lo svolgimento dell’attività imprenditoriale si inserisce all’interno di un sistema economico complesso, in cui imprenditori concorrenti cercano di mantenere e incrementare il proprio volume di affari mediante l’offerta di beni e servizi rispondenti ai bisogni della clientela. L’insieme delle offerte degli imprenditori e delle domande d’acquisto della clientela prende il nome di mercato. L’azione dell’impresa sul mercato è assoggettata a norme a tutela della correttezza delle relazioni tanto extracontrattuali quanto contrattuali. Sul piano extracontrattuale in linea di principio il sistema tutela l’interesse anzitutto a che ciascuna impresa eserciti e sia ad un tempo esposta ad efficaci pressioni concorrenziali, tali da incentivare il costante adeguamento dell’offerta ai bisogni della clientela; ed inoltre a che non eserciti sui consumatori condizionamenti tali da alterarne la capacità di adottare decisioni consapevoli. In questa prospettiva possono essere lette la disciplina sulla concorrenza sleale, sulle pratiche commerciali scorrette, sulla pubblicità e sulla legislazione antimonopolistica (c.d. diritto antitrust). Il principio di libertà di concorrenza non può tuttavia essere esteso fino al punto di consentire alle imprese di approfittare degli altrui investimenti nell’accreditamento della propria attività, dei propri prodotti e servizi, o in innovazione tecnologica e di design. Questi investimenti sono infatti a loro volta indice di efficienza imprenditoriale, e rischierebbero di andare perduti se l’investitore non potesse recuperarne i relativi oneri finanziari. L’interesse alla protezione dell’accreditamento commerciale dell’impresa e delle sue iniziative innovative sta alla base del riconoscimento di diritti di proprietà industriale che riservano ad uno ed un solo imprenditore lo sfruttamento di segni distintivi e innovazioni. Si tratta di un interesse che presenta a tratti profili di

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contrasto con il principio di libertà di iniziativa economica e di concorrenza. L’ordinamento cerca tuttavia di ricostruire presupposti e limiti di protezione dei diritti di proprietà industriale tali da realizzare un modello di concorrenza dinamica: che se da un lato premia la capacità delle imprese di investire per accreditare la propria reputazione e realizzare innovazioni richieste dal mercato, dall’altro vuole evitare che questa capacità divenga strumento per emarginare i concorrenti.

§ 11. LE REGOLE DI LEALTÀ IMPRENDITORIALE SOMMARIO: I. La concorrenza sleale. – 1. Fonti e sistema. – 2. Interessi imprenditoriali e interessi dei consumatori. – 3. I soggetti. Il rapporto di concorrenza. – 4. Le fattispecie confusorie. – 5. La denigrazione. – 6. L’appropriazione di pregi. – 7. I princìpi di correttezza professionale. – 8. Sanzioni e processo. – II. Le pratiche commerciali. – 1. Funzione, presupposti e struttura della disciplina. – 2. La clausola generale di divieto di pratiche commerciali scorrette. – 3. Le pratiche ingannevoli. – 4. Le pratiche aggressive. – 5. Il sistema sanzionatorio. – III. La pubblicità ingannevole e comparativa. – 1. La pubblicità ingannevole nei rapporti fra professionisti. – 2. La pubblicità comparativa. – 3. Il sistema sanzionatorio.

LETTERATURA: ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955, 35; BERTANI, Pratiche commerciali scorrette e consumatore medio, Milano, 2016; DE CRISTOFARO (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008; ID., Pratiche commerciali scorrette, EncD, Ann. V, 1079; FLORIDIA, Correttezza e responsabilità dell’impresa, Milano, 1982; GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008; GHIDINI, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978; JAEGER, I soggetti della concorrenza sleale, RDInd, 1970, I, 169; ID., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, RDInd, 1970, I, 5; MELI, La repressione della pubblicità ingannevole, Torino, 1994; ID., voce Pubblicità ingannevole, EncGiur, XXIX, 2005; ROSSI, La pubblicità dannosa, Milano, 2000; SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1975; UBERTAZZI, I princìpi della correttezza professionale: un tentativo di rilevazione empirica, RDInd, 1975, I, 105.

Nei sistemi ispirati al principio di libertà di concorrenza ciascun imprenditore può legittimamente cercare di ampliare la propria offerta, anche attraverso la sottrazione di clientela alle altre imprese; e reciprocamente ciascun consumatore può decidere verso quali imprese orientare la propria domanda. Già si è visto che l’insieme delle offerte degli imprenditori e delle domande d’acquisto della clientela prende il nome di mercato. Il mercato è perciò essenzialmente un sistema in cui le decisioni relative alla domanda e all’offerta di prodotti e servizi sono lasciate all’autonomia dei singoli consumatori e imprese, e non vengono pianificate dal potere politico. La volontà dell’ordinamento di riconoscere e proteggere un sistema di mercato emerge dall’art. 41 Cost., secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera”, ed ora soprattutto dall’art. 119 TFUE, secondo cui “l’azione degli stati membri e dell’Unione comprende […] l’adozione di una politica economica […] condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.

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La scelta favorevole al mercato postula che il sistema concorrenziale sia in grado di soddisfare le preferenze del pubblico più efficientemente di quanto avviene nelle economie pianificate. La capacità del sistema concorrenziale di esprimere e soddisfare le preferenze del pubblico presuppone tuttavia che le imprese siano effettivamente interessate ad offrire prodotti o servizi rispondenti alla domanda dei consumatori. In linea generale l’interesse delle imprese a soddisfare la domanda del pubblico dovrebbe dipendere dall’esigenza di mantenere o incrementare il proprio volume d’affari, e non perdere quote di mercato a vantaggio di concorrenti. La coincidenza fra l’interesse delle imprese e dei consumatori non costituisce tuttavia un dato di fatto necessariamente caratterizzante i sistemi concorrenziali, e richiede il rispetto di alcuni princìpi, che l’ordinamento riconosce e protegge giuridicamente. Da un lato occorre che la domanda e l’offerta si svolgano su un mercato trasparente e leale, dove l’impresa che ha sostenuto i costi di iniziative commerciali gradite ai consumatori possa trarne profitto incrementando il proprio volume d’affari. La disciplina della concorrenza sleale mira allora essenzialmente a vietare i tentativi di creare e approfittare di situazioni di mercato non trasparenti, o di scorrette imputazioni di vantaggi e costi dell’iniziativa imprenditoriale. Il problema della trasparenza è poi ulteriormente avvertito dal legislatore in funzione dell’interesse del consumatore a disporre di informazioni che gli consentano di istituire un confronto attendibile fra le diverse proposte delle imprese concorrenti. Al riguardo il legislatore europeo è intervenuto con la direttiva 2005/29/CE (direttiva sulle pratiche commerciali sleali) 1, attuata nell’ordinamento italiano dagli artt. 18 ss. del codice del consumo, che tutela non solo la correttezza di informazione del consumatore, ma più in generale la sua libertà di scelta a fronte di indebite sollecitazioni all’acquisto 2. L’interesse alla trasparenza del mercato è infine ulteriormente tutelato, non solo nei rapporti con i consumatori, ma anche nei reciproci rapporti fra professionisti, dalla disciplina specificamente introdotta, sempre in attuazione di una direttiva europea (nella ricodificazione 2006/114/CE) dal d.lgs. 145/2007 in materia di pubblicità ingannevole 3 e comparativa.

I. La concorrenza sleale 1. Fonti e sistema La protezione contro gli atti di concorrenza sleale è imposta a livello internazionale dall’art. 10-bis della Convenzione d’Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale (CUP, ratificata dall’Italia). La Convenzione introduce una clausola 1

Sull’origine e lo scopo della direttiva cfr. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE, in DE CRISTOPratiche commerciali, 1 ss. 2 Cfr. GENOVESE, Ruolo dei divieti di pratiche commerciali scorrette e dei divieti antitrust nella protezione (diretta e indiretta della libertà di scelta) del consumatore, AIDA, 2008, 297 ss. 3 L’opportunità di distinguere i profili di interesse dei consumatori e rispettivamente dei professionisti nella disciplina della pubblicità è criticata da una parte della dottrina: cfr. DI RAIMO, La nuova disciplina della pubblicità commerciale: cenni preliminari, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, 480 ss. FARO,

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generale che qualifica come atti di concorrenza sleale “ogni atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale”, e tipizza poi alcuni di questi atti: considerando illecite le fattispecie confusorie, le affermazioni false screditanti, e l’uso di indicazioni e asserzioni ingannevoli. L’art. 10-bis CUP è attuato dall’ordinamento italiano all’interno del codice civile, negli artt. 2598 ss. L’art. 2598 tipizza alcuni atti di concorrenza sleale corrispondenti a quelli dell’art. 10-bis CUP: ed in particolare gli atti confusori (art. 2598, n. 1) e quelli screditanti (art. 2598, n. 2). L’art. 2598 individua poi un’ulteriore fattispecie di slealtà costituita dagli atti di appropriazione di pregi (art. 2598, n. 2), e si chiude con una clausola generale di divieto di atti contrari ai princìpi di correttezza professionale (art. 2598, n. 3). La disciplina del codice civile e quella della CUP paiono dunque per larga parte sovrapponibili, considerando anche che il divieto di atti contrari a correttezza professionale previsto nel codice sostanzialmente ricalca il divieto di atti contrari agli usi onesti previsto dalla CUP. Il divieto di appropriazione di pregi non trova preciso riscontro nella CUP, ma può essere esso stesso ragionevolmente ricondotto al divieto di atti contrari agli usi onesti. D’altro canto è stato sostenuto che la CUP non preclude la possibilità per gli stati membri di reprimere la concorrenza sleale secondo norme e princìpi più rigorosi di quelli convenzionali 4. Dottrina e giurisprudenza non dubitano della conformità dell’art. 2598 all’art. 10-bis CUP, e nella pratica tendono a ricostruire la disciplina della concorrenza sleale richiamando direttamente soltanto la norma nazionale del codice civile. Lo schema di trattazione fondato sulla norma nazionale sarà dunque seguito anche in questa sede. Il confronto della norma convenzionale e interna aiuta comunque a ricostruire il significato delle rispettive clausole generali, relative agli usi onesti e ai princìpi di correttezza professionale. Il riferimento ai princìpi di correttezza professionale dell’art. 2598, n. 3, sembrerebbe infatti a prima vista rinviare a valutazioni interne operate dagli ambienti imprenditoriali. Il legislatore del 1942 intendeva anzi al riguardo probabilmente valorizzare l’ordinamento corporativo, per qualificare sleali le condotte non conformi agli interessi espressi dalla corporazione. Un’interpretazione del genere è comunque ormai da ritenere superata 5. Ciò anzitutto perché l’aggettivo “onesti”, contenuto nell’art. 10-bis CUP, impone un giudizio di valore relativo agli usi imprenditoriali, che perciò potrebbero essere qualificati “disonesti”, quand’anche rispondenti alla generale prassi degli operatori. L’ordinamento corporativo è comunque ora superato dalla costituzione economica, ricostruita non solo sulla base dell’art. 41 Cost., ma anche (e soprattutto) dell’ordinamento UE.

2. Interessi imprenditoriali e interessi dei consumatori La disciplina della concorrenza sleale regola conflitti fra imprenditori, ma impone di risolvere questi conflitti in relazione all’interesse generale ad un corretto funzionamento dei meccanismi di economia di mercato, ulteriormente ricostruiti in base ai 4

VANZETTI-DI CATALDO. Di fatto poi dottrina e giurisprudenza non hanno mai cercato di ricostruire le valutazioni della categoria imprenditoriale in ordine alla lealtà del comportamento concorrenziale; cfr. UBERTAZZI, I princìpi della correttezza professionale, 113 ss. 5

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princìpi della costituzione economica 6. Già si è visto che la tutela di un’economia di mercato dovrebbe incentivare l’offerta di beni e servizi rispondenti alla domanda del pubblico. In questa prospettiva i princìpi di correttezza professionale devono essere ricostruiti in base ai modelli di comportamento imprenditoriale meglio in grado di favorire l’adeguamento dell’offerta alle esigenze dei consumatori. La disciplina della concorrenza sleale non è azionabile dai consumatori, ma solo dagli imprenditori (v. infra, 3). Ciò tuttavia non esclude che l’interesse dei consumatori rilevi sul piano della ricostruzione dei princìpi di correttezza professionale. La necessità di valutare l’onestà degli usi o la correttezza dei comportamenti in base a parametri di valutazione esterni al giudizio della categoria imprenditoriale (v. supra, 1) rende in realtà fisiologica la valorizzazione di interessi parimenti esterni, come quello dei consumatori. Ciò a maggior ragione in quanto qualsiasi controversia in materia di concorrenza sleale presuppone un conflitto di interessi interno alla categoria degli imprenditori 7. L’interesse dei consumatori (e più in generale al corretto funzionamento del mercato) non risulta dunque tutelato in quanto tale, ma in quanto coincidente con uno degli interessi imprenditoriali in conflitto. Gli atti di concorrenza sleale rientrano ragionevolmente nella categoria più generale degli illeciti extracontrattuali. Il problema dei rapporti fra l’illecito civile dell’art. 2043 e l’illecito concorrenziale dell’art. 2598 è molto sofisticato 8, ma risulta in larga misura teorico. È bene tuttavia ricordare alcuni elementi caratterizzanti gli atti di concorrenza sleale, che non trovano riscontro nella disciplina generale dell’illecito. In particolare gli atti di concorrenza sleale non presuppongono il dolo o la colpa, e sono sanzionati secondo il sistema degli artt. 2599-2600. Dolo e colpa sono in particolare richiesti per l’applicazione del risarcimento del danno, ma non per i provvedimenti inibitori (v. infra, 8).

3. I soggetti. Il rapporto di concorrenza La disciplina della concorrenza sleale presuppone la qualità di imprenditore tanto del soggetto attivo (autore dell’atto di concorrenza) quanto di quello passivo (danneggiato) 9. Ciò si desume anzitutto dall’art. 2598, n. 3, che vieta gli atti contrari ai princìpi di correttezza professionale idonei a “danneggiare l’altrui azienda”, e che dunque considera la titolarità di un’organizzazione aziendale in capo al danneggiato (soggetto passivo, necessariamente perciò imprenditore) come elemento costitutivo dell’illecito. Il termine “chiunque”, utilizzato dall’art. 2598 con riferimento all’autore degli atti di concorrenza sleale, può a prima vista far pensare che la qualità di imprenditore non sia necessaria in capo al responsabile del comportamento vietato

6 Cfr. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, 113 ss.; GHIDINI, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, 79 ss.; MARCHETTI, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, Padova, 1969, 237 ss.; SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, 180 ss.; JAEGER, Valutazione comparativa di interessi, 130 ss.; UBERTAZZI, I principi della correttezza professionale, 182 s.; ABRIANI-COTTINO, La concorrenza sleale, Tr. Cottino, II, 2001, 277; FLORIDIA/Dir. ind.; App. Milano, 28-10-2003, GADI, 2004, 592. 7 Cfr. JAEGER, Valutazione comparativa di interessi, 101 ss. 8 Cfr. FLORIDIA, Correttezza e responsabilità dell’impresa, 141 ss. 9 Cfr. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, 113.

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(soggetto attivo). La qualità di concorrente presuppone tuttavia ragionevolmente che anche l’autore dell’atto svolga un’attività rivolta verso la medesima clientela dell’imprenditore danneggiato, e perciò in ultima analisi un’attività imprenditoriale 10. Esulano dunque dalla disciplina della concorrenza sleale atti che pure possono danneggiare l’altrui azienda, ma compiuti da parte di non imprenditori (si pensi alla denigrazione di un’impresa da parte di un consumatore). Nelle ipotesi di atti compiuti da non imprenditori, idonei a danneggiare attività di impresa, resta naturalmente ferma la possibilità di ricorrere all’applicazione dell’art. 2043. La natura di atto che, se compiuto da un imprenditore, sarebbe di concorrenza sleale non dovrebbe tuttavia automaticamente comportarne una valutazione di illiceità anche sotto il diverso profilo aquiliano 11. Così ad es. un giudizio critico contenente affermazioni screditanti per un’impresa di ristorazione costituisce tendenzialmente atto di concorrenza sleale se posto in essere dal titolare di un’impresa concorrente, mentre non è di per sé illecito (in assenza di vere e proprie espressioni offensive) quando proviene da un consumatore (si pensi alle recensioni negative pubblicate online dagli ospiti di un hotel o di un ristorante), o da un giornalista che effettivamente esprima una propria autonoma opinione. La disciplina della concorrenza sleale si applica invece di certo alle attività di impresa svolte da soggetti pubblici, eventualmente anche in via accessoria (art. 2093, co. 2). L’applicabilità della norma ai liberi professionisti è discussa, ma una soluzione favorevole è forse suggerita alla luce della moderna tendenza a svalutare la presunta intrinseca diversità dell’attività professionale rispetto a quella imprenditoriale, almeno quando il professionista si avvalga di un’organizzazione corrispondente a quella dell’art. 2082 12.

La disciplina della concorrenza sleale presuppone inoltre l’esistenza di un rapporto di concorrenza, che in via generale sussiste quando le imprese si rivolgano ad una clientela comune 13. L’esistenza di un rapporto di concorrenza deve essere dunque verificata anzitutto sotto il profilo merceologico, e ricorre quando i prodotti o servizi offerti sono idonei a soddisfare analoghi bisogni (un produttore di software non è ad es. certo in concorrenza con un produttore di alimentari). Il rapporto di concorrenza va inoltre verificato dal punto di vista territoriale, e presuppone che le imprese si rivolgano alla clientela di un medesimo luogo. Un’attività di rivendita di alimentari a Milano non è ragionevolmente in concorrenza con una analoga attività svolta a Palermo. È peraltro sufficiente che la clientela coincida anche soltanto in minima parte: e così ad es. un’impresa di moda internazionale ben può essere considerata in concorrenza con una piccola sartoria locale, quando i clienti di quest’ultima contemporaneamente

10 ABRIANI-COTTINO, La concorrenza sleale, cit., 279 s.; VANZETTI-DI CATALDO; App. Genova, 20-32002, GADI, 2003, 224; per una ricostruzione estensiva della nozione di impresa cui risulta applicabile (anche) la disciplina della concorrenza sleale cfr. tuttavia BERTANI, Impresa culturale e diritti esclusivi, Milano, 2000, 101 ss. 11 Per alcune fattispecie problematiche cfr. Cass. 11-4-2001, n. 5375, GADI, 2001, 69; Cass. 4-112005, n. 21932, GADI, 2006, 78. 12 In senso favorevole all’estensione della disciplina ai liberi professionisti cfr. JAEGER, I soggetti della concorrenza sleale, 194 ss.; FLORIDIA/Dir. ind. 13 Cfr. Cass. 22-7-2009, n. 17144, GADI, 2009, 224.

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possano rivolgersi per i loro acquisti anche alla prima 14. Il luogo di attività deve poi naturalmente essere individuato non in relazione agli stabilimenti dell’imprenditore, ma in base alla clientela che egli raggiunge 15. È d’altro canto giustamente ammessa l’esistenza di un rapporto di concorrenza anche a livelli economici diversi, ad es. fra produttore e distributore, quando l’attività dell’uno incida sulla medesima clientela dell’altro 16. Così ad es. può compiere atti di concorrenza sleale un distributore che denigri le caratteristiche dell’offerta di un produttore. È inoltre possibile ed anzi fisiologico che gli atti di concorrenza siano posti in essere da collaboratori dell’imprenditore, quali i dipendenti e gli ausiliari. In questo caso non vi sono dubbi che l’atto è imputabile all’imprenditore, il quale dovrà dunque risponderne a titolo di concorrenza sleale. A tal fine non è necessario che l’attività concorrenziale sia stata compiuta per incarico dell’imprenditore, ma è sufficiente che sia attuata nel suo obiettivo interesse, sulla base di particolari relazioni con lui intrattenute (si pensi ad un agente di commercio che denigri i prodotti concorrenti, anche violando istruzioni e raccomandazioni ricevute dal preponente) 17. L’area di responsabilità può tuttavia essere ulteriormente allargata per ricomprendere atti compiuti da ulteriori soggetti, quali gli amministratori e gli azionisti di riferimento di una società concorrente 18, o i consorzi e associazioni rappresentative di una categoria imprenditoriale. In assenza di specifiche relazioni tali da giustificare l’agire nell’interesse dell’impresa, l’atto di concorrenza sleale presuppone invece la dimostrazione di un comportamento collusivo fra l’impresa concorrente ed il terzo. Così ad es. in linea di principio non dovrebbe rispondere di concorrenza sleale l’impresa editoriale che pubblichi una recensione fortemente critica della qualità dei servizi di un ristorante: perché se da un lato il comportamento obiettivamente avvantaggia i ristoranti concorrenti, dall’altro non dovrebbe qui ricorrere una relazione di comunanza di interessi fra editore e ristoratori. L’atto sleale potrebbe invece essere lamentato qualora emergesse che l’impresa editoriale ha pubblicato la recensione in base a un previo accordo con un ristorante concorrente. Nei casi di atti compiuti dal terzo nell’interesse del concorrente si tende ad ammettere una responsabilità solidale di entrambi, e sempre a titolo di concorrenza sleale, ancorché l’agente in quanto tale non rivesta la qualità di imprenditore 19.

I presupposti soggettivi di applicazione della disciplina della concorrenza sleale limitano corrispondentemente la legittimazione ad agire in giudizio. Questa legitti14 Sull’irrilevanza delle dimensioni dell’impresa cfr. Cass. 15-2-1999, n. 1259, GADI, 1999, 51; Trib. Napoli, 17-2-2005, GADI, 2005, 693. 15 VANZETTI-DI CATALDO. 16 JAEGER, I soggetti, 245 ss.; VANZETTI-DI CATALDO; FLORIDIA/Dir. ind.; Cass. 6-12-1991, n. 13127, GADI, 1992, 16; Cass. 22-5-1997, n. 4558, GADI, 1997, 46; Trib. Bologna, 12-6-2009, GADI, 2009, 964. 17 Cass. 18-12-1991, n. 13623, GADI, 1991, 132; Cass. 11-4-2001, n. 5375, GADI, 2001, 69; Cass. 8-92003, n. 13071, GADI, 2006, 11; in dottrina valorizza l’applicabilità dell’art. 2049, giungendo ad analoghe conclusioni, JAEGER, I soggetti, 260 ss. 18 Cfr. Trib. Milano, 16-7-2007, GADI, 2007, 918. 19 JAEGER, I soggetti, 279 ss.; Cass. 18-12-1991, n. 13623, cit.; Cass. 11-4-2001, n. 5375, cit.; Trib. Bologna, 20-3-2008, GADI, 2009, 367; ritengono invece preferibile ricondurre la responsabilità alla categoria dell’illecito aquiliano ABRIANI-COTTINO, La concorrenza sleale, cit., 285.

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mazione spetta in linea di principio all’imprenditore concorrente, ed è reciprocamente esclusa in capo a chi non rivesta la qualifica imprenditoriale, o non si trovi in rapporto di concorrenza con l’autore dell’atto. È quindi da escludere la legittimazione ad agire dei consumatori, fermo restando che l’interesse del consumatore assume comunque rilievo come parametro di valutazione della prevalenza di uno od altro interesse imprenditoriale in conflitto (supra, 2). Il problema della legittimazione ad agire dei consumatori o di loro associazioni, in passato fortemente dibattuto 20, ha perso ora in gran parte attualità per effetto dell’entrata in vigore della disciplina delle pratiche commerciali scorrette 21. Quest’ultima disciplina consente infatti di reprimere i comportamenti concorrenziali più tipicamente lesivi degli interessi dei consumatori, quali la pubblicità ingannevole, e in generale qualsiasi dichiarazione decettiva in ordine alle caratteristiche del prodotto o servizio offerto. I comportamenti ingannevoli sono dunque allo stato repressi in base alla disciplina della concorrenza, e contemporaneamente in base alle norme del codice del consumo relative alle pratiche commerciali. L’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali avviene da parte dell’AGCM (v. infra, II, 5), e consente ai consumatori di evitare i costi, gli oneri probatori, ed i lunghi tempi caratteristici del processo davanti ai tribunali. Per effetto di questa disciplina, i consumatori hanno dunque perduto interesse all’azione di concorrenza sleale. L’art. 2601 estende la legittimazione ad agire alle “associazioni professionali” e agli “enti che rappresentano la categoria” quando “gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale”. Le associazioni prese in considerazione sono dunque soltanto quelle degli imprenditori, non dei consumatori. Il pregiudizio alla categoria professionale può ricorrere tipicamente quando l’atto di concorrenza colpisce uniformemente un’intera tipologia di prodotti, e ad es. ne denigra alcune caratteristiche comuni (si pensi ad una pubblicità che evidenzi falsamente inconvenienti o effetti nocivi della plastica rispetto al vetro). Non sembra che le associazioni professionali possano agire per lamentare il danno patito dai singoli produttori aderenti, esercitando una sorta di class action imprenditoriale. L’azione sembra piuttosto esercitabile per lamentare pregiudizi d’immagine dell’intera categoria di produttori 22.

4. Le fattispecie confusorie La prima fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n. 1, è costituita dall’utilizzazione di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri”, o più in generale dal compimento di “atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un con20

Ed anzi oggetto di una questione di legittimità costituzionale, peraltro respinta da C.Cost. 21-11988, n. 59, GADI, 1988, 11. 21 V. però GUIZZI, Il divieto delle pratiche commerciali scorrette tra tutela del consumatore, tutela del concorrente e tutela del mercato: nuove prospettive (con qualche inquietudine) nella disciplina della concorrenza sleale, RDComm, 2010, 1129 s., secondo cui nell’attuale sistema la legittimazione andrebbe riconosciuta anche ai consumatori e potrebbe essere utile ad agevolare la prova della colpevolezza, specialmente in sede di azione collettiva di risarcimento per equivalente. 22 In tal senso cfr. FLORIDIA/Dir. ind.; Cass. 20-12-1996, n. 11404, GADI, 1997, 20; Trib. Palermo, 21-4-2006, GADI, 2007, 234.

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corrente”. La fattispecie trova riscontro nell’art. 10-bis, co. 2, CUP, ed è riconducibile all’interesse generale alla trasparenza del mercato, e nella specie a potere identificare attraverso i segni distintivi l’impresa responsabile dell’organizzazione aziendale, o dell’offerta del prodotto o del servizio. L’art. 2598, n. 1, tutela perciò tutti i segni distintivi tipizzati dall’ordinamento: ed in particolare la ditta, la ragione e denominazione sociale, l’insegna (ad es.: “Ristorante Da Bruno”; v. infra, § 15) 23 ed il marchio (ad es.: “Coca-Cola”, “Nutella”; v. infra, § 16), titoli e testate di periodici 24, nonché il nome a dominio 25, impedendone l’uso a chi non ne sia legittimamente titolare. Può tuttavia proteggere altre tipologie di segni, quali ad es. la ditta irregolare (infra, § 15.I.3), nonché eventuali segni distintivi atipici (di cui peraltro è difficile trovare esempi, data la possibilità di ricondurre quanto meno alla categoria del marchio sostanzialmente qualsiasi strumento di identificazione dell’imprenditore) 26. Il rischio di confusione (e dunque il sorgere del divieto) postula evidentemente che il segno sia stato di fatto usato e percepito dal pubblico in funzione di identificazione di uno ed un solo imprenditore responsabile dell’offerta o dell’organizzazione aziendale 27. Nessun rischio di confusione può ricorrere invece quando il segno è sconosciuto (ad es. perché l’impresa non ha ancora aperto i locali contraddistinti dall’insegna) o risulta descrittivo di una generica tipologia di prodotti o servizi (ad es. il termine “lavanderia” per attività corrispondenti). Il divieto di atti confusori presuppone dunque l’uso e l’accreditamento di un segno dotato di capacità distintiva (v. amplius infra, § 14.II.1) 28. La protezione nemmeno può essere fatta valere quando l’uso di segni simili avvenga per tipologie di attività eterogenee, che il pubblico non può imputare al medesimo imprenditore (si pensi all’uso dell’insegna “Scaccomatto” per attività di ristorazione e rispettivamente di lavanderia). La tutela presuppone infine che i segni distintivi in conflitto siano noti al pubblico di uno stesso ambito territoriale, ben potendo segni uguali o simili accreditarsi presso differenti cerchie di consumatori di luoghi diversi, senza determinare rischi di confusione in ordine all’identità dell’impresa responsabile dell’attività (così ad es. l’insegna “Scaccomatto” per un ristorante del comune di Milano non dovrebbe confondersi con un’insegna uguale o simile utilizzata da un ristorante di Palermo) 29. La disciplina concorrenziale assume importanza centrale per definire i presupposti e l’ambito di protezione dei segni distintivi non registrati. In materia di marchi registrati, l’applicazione dell’art. 2598, n. 1, è invece sostanzialmente assorbita dalla protezione ben più ampia prevista negli artt. 7 ss. del codice della proprietà industriale, che verrà esaminato in seguito.

23

App. Milano, 21-4-1988, GADI, 1999, 402. Cass. 19-12-2008, n. 29774, GADI, 2008, 348. 25 Trib. Roma, 27-3-2002, GADI, 2003, 243; Trib. Bari, 22-2-2007, GADI, 2007, 681. 26 VANZETTI-DI CATALDO. 27 VANZETTI-DI CATALDO; Trib. Forlì, 8-2-1999, GADI, 1999, 921. 28 VANZETTI-DI CATALDO. 29 VANZETTI-DI CATALDO. 24

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[§ 11]

Il marchio registrato è protetto su tutto il territorio nazionale (o, nel caso del marchio dell’Unione europea, della UE) e indipendentemente dall’uso, per il solo fatto della registrazione: dunque anche quando attualmente non identifichi presso il pubblico l’offerta di prodotti o servizi (v. infra, § 14.II.3). Il cumulo dell’azione concorrenziale e rispettivamente di contraffazione di marchio registrato appare comunque ragionevolmente possibile 30, purché in concreto ricorrano i presupposti di entrambe le azioni.

L’art. 2598, n. 1, ricomprende poi fra gli atti vietati il comportamento di chi “imita servilmente i prodotti di un concorrente”. L’inclusione dell’imitazione servile nel n. 1 dell’art. 2598 fa concludere che il divieto non si fonda su un giudizio di disvalore della ripresa del lavoro altrui, ma ancora una volta sull’effetto confusorio del comportamento 31. Il divieto si applica quindi quando l’aspetto esterno del prodotto assume presso i consumatori una funzione distintiva dell’impresa responsabile dell’offerta, così che l’imitazione da parte di un terzo determina un inganno in ordine all’identità del produttore 32. L’opinione maggiormente accreditata considera quindi l’imitazione servile come una violazione dei diritti su un marchio di forma non registrato, e ad un tempo segnala il rischio che la protezione della funzione distintiva conduca a monopolizzare (potenzialmente in perpetuo, quindi contro i principi di temporaneità che presidiano la disciplina delle innovazioni industriali) caratteristiche tecniche o di design intrinseche al prodotto (si pensi agli effetti monopolistici derivanti dal perpetuo divieto di imitare il design di una lampada, pure riconosciuta dai consumatori come proveniente da un determinato imprenditore) 33. Proprio sotto questo aspetto il problema si pone in termini sostanzialmente identici per quanto riguarda la registrazione dei marchi di forma, dove trova anzi una espressa disciplina (art. 9 c.p.i.). È quindi da ritenere che le forme proteggibili contro l’imitazione servile confusoria siano soltanto quelle registrabili come marchi di forma, secondo i princìpi esposti infra, § 16.V.2.

5. La denigrazione L’art. 2598, n. 2, prevede due ulteriori fattispecie di concorrenza sleale, costituite rispettivamente dagli atti di denigrazione e di appropriazione di pregi. La fattispecie della denigrazione ricomprende in particolare il comportamento di chi “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito”, e trova riscontro nell’art. 10-bis, co. 2, CUP. Ancorché il termine “diffusione” lasci a prima vista pensare ad una comunicazione rivolta alla generalità del pubblico, o quanto meno ad una pluralità di destinatari,

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VANZETTI-DI CATALDO; Trib. Torino, 7-3-2005, GADI, 2005, 733. Cfr. DI CATALDO, L’imitazione servile, Milano, 1979, 158 ss.; SARTI, La tutela dell’estetica del prodotto industriale, Milano, 1990, 35 ss.; VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme ornamentali e funzionali, RDInd, 1994, I, 319 ss. 32 Cass. 27-2-2004, n. 3967, GADI, 2005, 45; Cass. 31-7-2008, n. 20884, GADI, 2008, 273; Cass. 12-22009, n. 3478, GADI, 2009, 109. 33 Cfr. VANZETTI, I diversi livelli di tutela, cit., 323 ss.; Cass. 29-2-2008, n. 5437, GADI, 2008, 96; Cass. 12-2-2009, n. 3478, cit.; Trib. Milano, 11-10-2001, GADI, 2002, 340. 31

[§ 11]

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non vi è in realtà ragione di tollerare notizie screditanti comunicate ad un solo destinatario, ad es. attraverso l’invio di una lettera 34. Non costituisce invece ipotesi di denigrazione l’invio di lettere e comunicazioni di lamentela e diffida a desistere da un certo comportamento, da parte di chi ne sostenga infondatamente l’illiceità, e sempre che le diffide siano inviate privatamente al diffidato 35. Così ad es. l’invio di una diffida a continuare un’attività di fabbricazione di un prodotto, falsamente qualificato come contraffazione di brevetto, non costituisce atto di denigrazione se rimane riservata ai rapporti fra mittente e destinatario. Un problema di denigrazione si pone evidentemente solo quando questa diffida sia divulgata, ad es. mediante invio anche ai clienti del destinatario, o addirittura mediante pubblicazione su periodici 36. Nell’attuale contesto prevale una interpretazione della norma che privilegia l’interesse alla trasparenza del mercato. In questo contesto la norma viene tendenzialmente riferita alle affermazioni screditanti false, come espressamente afferma l’art. 10-bis, co. 2, CUP 37. Si tende invece ad ammettere con maggior larghezza la diffusione di notizie vere, oggettivamente verificabili (e dunque ad es. riferite a caratteristiche specifiche del prodotto) 38. Paiono quindi illecite affermazioni genericamente riferite alla scarsa qualità del prodotto del concorrente 39. Tendenzialmente illecite paiono pure affermazioni relative alla situazione finanziaria del concorrente (nella prassi è ad es. frequente l’affermazione che un concorrente è sull’orlo del fallimento), che hanno inevitabilmente una certa soggettività quando provengono da terzi non in grado di conoscere la reale situazione economica di un imprenditore. Una spinta verso il riconoscimento della legittimità di affermazioni (pur screditanti) veritiere è venuta dalle riflessioni in materia di pubblicità commerciale, che costituisce la forma più rilevante di diffusione di notizie suscettibili di ricadere nel divieto dell’art. 2598, n. 2. Il problema riguarda in particolare la c.d. pubblicità comparativa, che esalta le caratteristiche del proprio prodotto attraverso un confronto con il prodotto concorrente, evidenziando le inferiori qualità di quest’ultimo. La pubblicità comparativa è ora consentita dall’art. 4, d.lgs. 145/2007, purché basata su un confronto veritiero di caratteristiche oggettivamente verificabili. L’applicazione di questa legge rientra nella competenza dell’AGCM (v. infra, III.3). Ad un tempo è tuttavia da ritenere che l’art. 4, d.lgs. 145/2007 rilevi anche per l’interpretazione dell’art. 2598, n. 2 40. L’interpretazione sistematica dell’art. 2598, n. 2 e del d.lgs. 145/2007 porta quindi a considerare lecita anche sul piano della concorrenza la pubblicità comparativa che contenga informazioni obiettive sul prodotto del concorrente. 34 VANZETTI-DI CATALDO; ma in senso contrario sembra orientata la giurisprudenza, cfr. Cass. 30-52007, n. 12681, GADI, 2007, 98; Trib. Bologna, 12-6-2009, GADI, 2009, 965. 35 VANZETTI-DI CATALDO; Trib. Milano, 29-3-2007, GADI, 2009, 305. 36 Cass. 10-1-1986, n. 69, GADI, 1986, 51; App. Milano, 9-10-2001, GADI, 2003, 181; Trib. Milano, 4-3-2003, GADI, 2004, 413. Può essere screditante anche la pubblicazione di notizie relative a provvedimenti giudiziali ottenuti nei confronti del concorrente, quando effettuata in maniera tendenziosa; cfr. Cass. 20-3-2009, n. 6865, GADI, 2009, 158. 37 VANZETTI-DI CATALDO. Questa conclusione, ormai generalmente accettata, riflette peraltro un lungo dibattito particolarmente articolato; cfr. SANTAGATA, Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, Padova, 1979, 9 ss.; FLORIDIA, Correttezza e responsabilità dell’impresa, 1 ss. 38 Cfr. Cass. 19-11-1994, n. 9827, GADI, 1994, 129; Trib. Reggio Emilia, 9-12-2005, GADI, 2006, 555; Trib. Bologna, 6-2-2009, GADI, 2009, 696. 39 Cfr. Trib. Torino, 6-5-2004, GADI, 2005, 326; Trib. Venezia, 20-5-2005, GADI, 2006, 391. 40 VANZETTI-DI CATALDO.

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[§ 11]

Costituisce invece comportamento denigratorio il tentativo di screditare l’immagine del prodotto altrui, ad es. presentandolo in un contesto svilente.

6. L’appropriazione di pregi La seconda fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n. 2, riguarda l’appropriazione “di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente”. Si tratta di un comportamento ancora una volta in contrasto con i princìpi di trasparenza del mercato, e che ricorre ad es. quando un imprenditore riproduce nei propri cataloghi i prodotti del concorrente 41; o dichiara di avere ricevuto premi o riconoscimenti attribuiti invece ad altri 42; o ancora afferma di intrattenere rapporti commerciali con un’impresa particolarmente nota al pubblico, mentre questi rapporti (si pensi alla qualità di distributore esclusivo di una celebre marca di prodotti) sono intrattenuti da terzi. La fattispecie in esame presuppone in linea di principio che il pregio venga vantato falsamente, mentre non si applica ad affermazioni veritiere 43. Sotto questo profilo l’ipotesi presenta affinità con quella del mendacio, che costituisce atto contrario ai princìpi di correttezza professionale rientrante nell’art. 2598, n. 3 (infra, 7). L’appropriazione di pregi fa tuttavia riferimento a specifiche caratteristiche del prodotto o servizio obiettivamente riconducibili ad uno o più concorrenti determinati 44, mentre il mendacio si esprime vantando qualità che potrebbero essere proprie di qualsiasi concorrente (affermare falsamente che un tessuto è composto esclusivamente di seta costituisce quindi mendacio, non appropriazione di pregi). La distinzione rileva sul piano della legittimazione ad agire, in quanto gli atti di appropriazione di pregi possono essere lamentati soltanto dagli imprenditori titolari del pregio falsamente vantato. Alla luce delle considerazioni esposte, nel rispetto del principio di verità è legittimo evidenziare che i pregi del prodotto concorrente corrispondono a quelli del prodotto proprio. Il confronto è in particolare possibile attraverso la pubblicità comparativa, che è espressamente considerata lecita dal legislatore, purché basata su caratteristiche del prodotto specifiche ed obiettivamente verificabili (art. 4, d.lgs. 145/2007). In questa prospettiva si considera tendenzialmente illecito un confronto basato non su caratteristiche obiettive, ma su un generico richiamo alla produzione del concorrente, accompagnato da una altrettanto generica affermazione di equivalenza qualitativa con la produzione propria. E così, ad es., è ragionevolmente vietato affermare sinteticamente che la propria bevanda è “uguale alla Coca-Cola”. Un’affermazione del genere non istituisce infatti un confronto fra caratteristiche obiettive, ma vuole semplicemente istituire un aggancio alla fama del concorrente, di cui è comunque vietato appropriarsi. In queste ipotesi il divieto opera dunque

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Cfr. AMMENDOLA, L’appropriazione di pregi, Milano, 1991, 79 ss.; Trib. Roma, 31-3-2004, GADI, 2004, 997; Trib. Milano, 29-9-2007, GADI, 2007, 1024. 42 Il problema della falsa attribuzione di riconoscimenti o premi è anzi probabilmente all’origine delle prime elaborazioni del divieto, cfr. SANTAGATA, Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, cit., 81; AMMENDOLA, L’appropriazione di pregi, cit., 1 ss.; in giurisprudenza cfr. Cass. 10-11-1994, GADI, 1994, 112; Trib. Reggio Emilia, 28-5-2005, GADI, 2005, 658. 43 Cfr. AMMENDOLA, L’appropriazione di pregi, cit., 63 s.; VANZETTI-DI CATALDO. Ancora una volta tuttavia la conclusione così generalmente accettata deriva da un lungo dibattito, per il quale cfr. SANTAGATA, Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, cit., 15 ss. 44 AMMENDOLA, L’appropriazione di pregi, cit., 75; VANZETTI-DI CATALDO.

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indipendentemente da qualsiasi verifica in ordine alla veridicità della affermazione di equivalenza dei prodotti 45.

7. I princìpi di correttezza professionale L’art. 2598 si chiude al n. 3 con una clausola generale (ispirata all’art. 10-bis CUP) di divieto di avvalersi “direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai princìpi di correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Questi princìpi non trovano certo fonte in usi in senso tecnico, ma vanno ricavati dall’attuale costituzione economica. Funzione della clausola generale è evidentemente quella di non “cristallizzare” le tipologie di comportamenti contrari a correttezza, e di lasciarne al giudice la valutazione caso per caso, ponderando gli interessi degli imprenditori in conflitto in ogni singola fattispecie. Ad un tempo tuttavia la giurisprudenza ha elaborato una casistica di generali tipologie di comportamenti scorretti. a) La casistica dimostra anzitutto che la clausola generale è valorizzata per vietare comportamenti antitetici ai princìpi di trasparenza del mercato. Sono dunque vietate in base all’art. 2598, n. 3, tutte le affermazioni ingannevoli relative al proprio prodotto o attività. L’ipotesi è normalmente definita in termini di concorrenza sleale per mendacio, e ad essa fa riferimento anche l’art. 10-bis, co. 3, CUP. La falsità o ingannevolezza delle affermazioni è alla base anche della concorrenza sleale per denigrazione ed appropriazione di pregi. Come si è detto, il mendacio ora considerato non fa tuttavia riferimento ai prodotti di uno o più concorrenti determinati, ma consiste in dichiarazioni relative esclusivamente all’attività o al prodotto proprio, presentato con false caratteristiche positive. La legittimazione a lamentare l’illecito è quindi riconosciuta in capo a tutti i concorrenti, non soltanto a quelli che offrono prodotti o servizi dotati delle caratteristiche falsamente vantate dall’autore dell’atto. L’ipotesi ricorre tipicamente per affermazioni false relative alla composizione del proprio prodotto (ad es., in fibra naturale per capi di abbigliamento sintetici), o alla sua provenienza geografica (ad es., fabbricato in Italia per prodotti di importazione) 46. Le ipotesi di concorrenza sleale per mendacio costituiscono ad un tempo pratiche commerciali ingannevoli disciplinate dagli artt. 21 ss. del codice del consumo. La disciplina della concorrenza sleale e rispettivamente delle pratiche ingannevoli vengono così a sovrapporsi, e consentono l’esercizio di azioni autonome a tutela di interessi diversi (dei concorrenti e rispettivamente dei consumatori), e sottoposte alla competenza di organi diversi (dell’autorità giudiziaria ordinaria in materia concorrenziale e dell’AGCM in materia di pratiche ingannevoli, v. II.5) 47.

45 AMMENDOLA, L’appropriazione di pregi, cit., 68 ss.; VANZETTI-DI CATALDO; FLORIDIA/Dir. ind. Il confine fra comparazione lecita e sfruttamento illegittimo della fama del concorrente è peraltro estremamente labile. Il problema è stato affrontato (in sede di interpretazione della disciplina europea sui marchi e sulla pubblicità comparativa) da CG 18-6-2009, C-487/07, L’Oréal, GComm, 2010, II, 969, sulla quale v. le perplessità sollevate dalla nota di DI CATALDO, Profumi e balocchi. Non nominare il marchio altrui invano. 46 Cfr. Trib. Torino, 19-11-2001, GADI, 2002, 397. 47 Cfr. Trib. Roma, 31-3-2003, GADI, 2003, 867; App. Milano, 29-4-2006, GADI, 2006, 794.

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Il problema dell’ingannevolezza assume particolare rilievo nel settore della pubblicità, dove è discussa fra l’altro la legittimità di generiche declamazioni di eccellenza e superiorità del proprio prodotto: come ad es. “è il migliore”, “è imbattibile”, “è il primo” e simili. In passato queste affermazioni erano tendenzialmente considerate come iperboli innocue, e ricondotte alla tradizionale categoria civilistica del dolus bonus, irrilevante tanto dal punto di vista della validità del contratto, quanto sotto il profilo concorrenziale 48. L’interpretazione più moderna dimostra maggiore diffidenza verso simili affermazioni, che paiono tollerabili al più quando effettivamente non possono essere mai prese alla lettera, e vengono percepite quali meri artifici retorici, generici al punto di essere completamente privi di qualsiasi contenuto informativo. Un atteggiamento di maggior rigore è invece auspicabile di fronte ad affermazioni in cui l’elemento retorico si mescola a specifiche rivendicazioni di qualità e di primato: e così anche affermazioni quali “il più venduto” non sembrano legittime quando risultino difformi dalla realtà. Il problema da ultimo delineato si intreccia con quello della figura di consumatore di riferimento per la valutazione di ingannevolezza del messaggio 49. Qui in realtà pare ragionevole considerare illeciti messaggi idonei ad ingannare anche piccole percentuali di consumatori ingenui o disinformati 50: non è in particolare chiaro quale interesse giustifichi queste forme di comunicazione che, ancorché innocue per il consumatore medio, sfruttano comunque le debolezze di una parte del pubblico. Il parametro del consumatore medio sembrerebbe in realtà valorizzato ora dall’art. 21 del codice del consumo, che tuttavia non deve vincolare l’interpretazione della disciplina concorrenziale.

b) Nella casistica giurisprudenziale emergono poi ulteriori ipotesi che in ultima analisi riflettono una scorretta imputazione dei costi e dei benefici dell’attività imprenditoriale. La scorrettezza può anzitutto derivare dalla violazione di norme di diritto pubblico che introducono limiti e costi allo svolgimento dell’attività di impresa 51. La violazione di queste norme consente infatti di realizzare opportunità di guadagno (si pensi alla violazione della disciplina di apertura degli esercizi commerciali, o a quella sulle vendite di liquidazione) o di sottrarsi a fattori di costo (si pensi alla violazione delle norme tributarie) contrarie al modello di mercato che il legislatore riconosce e protegge. c) Fuori dai casi di particolari interessi riconosciuti e protetti da norme di diritto pubblico, in via generale il corretto funzionamento del mercato presuppone che il soggetto responsabile di decisioni imprenditoriali ne sopporti i relativi costi e benefici. In questa prospettiva appaiono scorretti gli atti intesi a trarre profitto da altrui 48

Cfr., ad es., Trib. Bologna, 15-6-1990, GADI, 1990, 603; App. Milano, 25-7-1997, GADI, 1999, 231; ma vedi le considerazioni critiche di VANZETTI, La repressione della pubblicità menzognera, RDCiv, 1964, I, 602 ss. 49 Il tema è ampio e trasversale a vari settori dell’ordinamento; gli interessi coinvolti dalla scelta di uno od altro parametro di consumatore sono evidenziati in DENOZZA, Aggregazioni arbitrarie v. “tipi” protetti: la nozione di benessere del consumatore decostruita, GComm, 2009, 1057 ss. 50 Cfr. VANZETTI, La repressione della pubblicità menzognera, cit., 603 s.; VANZETTI-DI CATALDO. 51 VANZETTI-DI CATALDO, secondo cui peraltro la violazione delle norme che impongono costi assumerebbe rilievo solo quando di fatto consenta di avvantaggiarsi rispetto ai concorrenti, ad es. praticando prezzi più bassi; in senso analogo cfr. FLORIDIA/Dir. ind. Si tende a negare che assuma rilievo concorrenziale la violazione di norme che impongono oneri agli imprenditori: come ad es. le norme sul rilascio di licenze e autorizzazioni amministrative; cfr. Cass. 23-1-2009, n. 1744, GADI, 2009, 101.

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iniziative imprenditoriali, o a scaricare sui terzi i costi delle proprie decisioni. Un primo esempio in tal senso è rappresentato dagli atti di spionaggio industriale, con cui un imprenditore cerca di venire a conoscenza dei segreti tecnici o commerciali di un concorrente, e così di risparmiare sui costi di investimento in ricerca, sviluppo o organizzazione della rete di fornitura e distribuzione. Più in generale la sottrazione di segreti può avvenire scorrettamente non soltanto attraverso atti di vero e proprio spionaggio, ma anche (e più frequentemente) grazie alle rivelazioni di dipendenti e collaboratori del concorrente, i quali anzi spesso pongono termine al rapporto con il datore di lavoro per potere sfruttare a proprio vantaggio le informazioni ricevute 52. Le informazioni segrete sono del resto ad un tempo qualificate come oggetto di un diritto di proprietà industriale negli artt. 98-99 c.p.i.: così che ancora una volta (analogamente a quanto visto in materia di segni distintivi) la disciplina concorrenziale si sovrappone a quella del codice della proprietà industriale, e deve essere interpretata coerentemente ad esso, specialmente per quanto riguarda i criteri che distinguono le informazioni segrete protette, rispetto alle esperienze acquisite e liberamente utilizzabili. Il codice della proprietà industriale cerca infatti di precisare i limiti di tutela del segreto, specificando che esso ricomprende non solo le conoscenze tecniche, ma anche commerciali, purché non siano generalmente note o accessibili, abbiano valore economico in quanto segrete, e siano sottoposte a misure ragionevolmente adeguate al mantenimento del segreto (si pensi a informazioni trasmesse ai dipendenti sotto vincolo espresso di segretezza, o alla documentazione riservata conservata in cassaforte o protetta da password informatiche) 53.

d) Può in alcuni casi costituire illecito concorrenziale il c.d. storno di dipendenti, e cioè l’iniziativa diretta a sottrarre lavoratori al concorrente promettendo loro migliori condizioni di retribuzione e mansioni. Questo comportamento può risultare illecito specialmente quando l’offerta di migliori condizioni contrattuali sia resa possibile dal risparmio di costi di formazione e di organizzazione del lavoro in squadra che abbiano fatto acquisire al personale particolari esperienze (così quando un imprenditore recluti sistematicamente i giovani che abbiano appena concluso il tirocinio presso un concorrente); e quando il numero dei dipendenti stornati, le loro qualifiche, e i tempi dello storno rendano di fatto impossibile conservare l’integrità del ciclo produttivo aziendale attraverso le normali politiche di turn over del personale 54.

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Cfr. Cass. 30-5-2007, GADI, 2007, 98. Cfr. Trib. Firenze, 26-11-2008, GADI, 2008, 1166. 54 Cfr. VANZETTI-DI CATALDO; Trib. Torino, 29-12-2004, GADI, 2006, 264; Trib. Torino, 16-12009, GADI, 2009, 646. Secondo un diffuso e discutibile orientamento giurisprudenziale l’illiceità dello storno presuppone un intento di danneggiare l’impresa concorrente (c.d. animus nocendi): cfr. Cass. 9-61998, n. 5671, GADI, 1998, 94; Cass. 3-8-1987, n. 6682, GIt, 1998, I, 1, 591; Cass. 30-10-2009, GADI, 2009, 283. In realtà qualsiasi atto di concorrenza sottintende l’intenzione di trarre un vantaggio commerciale a scapito dei concorrenti, così che fisiologicamente persegue fini di danno. D’altro canto i divieti previsti dalla disciplina della concorrenza sleale si applicano in via generale indipendentemente dal dolo o dalla colpa (v. infra, 8), così che appare sistematicamente discutibile fare invece dipendere l’illiceità dello storno da una valutazione dell’intento soggettivo di danneggiare. Per una critica ancora più radicale al criterio dell’animus nocendi cfr. VANZETTI, “Animus nocendi” e storno di dipendenti, RDInd, 2017, I, 5 ss., secondo cui lo storno è da considerare illecito solo quando attuato con modalità in sé scorrette od all’unico scopo di danneggiare il concorrente. 53

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e) Fra le ulteriori ipotesi di atti contrari ai princìpi di correttezza professionale è stato individuato il concorso all’altrui inadempimento di obbligazioni (si pensi a chi induca un’impresa a cessare le forniture ad un concorrente). Vengono inoltre talvolta giudicate scorrette modalità di imitazione delle iniziative del concorrente dirette ad approfittare dei suoi investimenti, quali la copia a ricalco del prodotto (dove il giudizio di illiceità presuppone che l’imitazione, anche quando in sé lecita, debba comunque avvenire attraverso un’attività di progettazione propria dell’imitatore): si pensi a un produttore di tessuti che riprenda la sequenza di righe di una stoffa del concorrente, con assoluta identità di linee geometriche, distanze e tonalità di colori 55. Così pure è talvolta giudicata illecita la c.d. concorrenza parassitaria, che si risolve non nell’imitazione, in sé lecita, di un singolo prodotto, ma nella ripresa pedissequa di tutte le iniziative commerciali del concorrente, comprese quelle pubblicitarie e promozionali (si pensi all’imitazione di un identico meccanismo di concorso a premi, che promuova la vendita di un servizio di piatti, stoviglie e bicchieri a loro volta identici a quelli del concorrente) 56. f) È stata talvolta considerata illecita anche sul piano della concorrenza sleale la sistematica vendita di prodotti sotto costo attuata con l’intento di espellere dal mercato imprenditori finanziariamente meno forti e non in grado di sopportare a lungo guerre commerciali. L’ipotesi frequentemente ricade nell’applicazione del diritto antitrust sotto il profilo del divieto di abusi di posizione dominante (c.d. teoria della leva, considerata infra, § XII.9): ad es. nel caso di offerta gratuita (perciò sotto costo) di un software di navigazione abbinato ad un sistema operativo, nell’interesse dell’offerente ad estendere la propria posizione monopolistica (effetto leva) dal mercato dei sistemi operativi a quello dei software di navigazione. Anche al di fuori dell’applicazione del diritto antitrust, la vendita sotto costo è stata considerata illecita quando comunque strumentale ad eliminare concorrenti dal mercato per attuare successivamente politiche di rialzo del prezzo 57; o quando idonea ad emarginare canali di distribuzione pur economicamente efficienti (in particolare in un caso di vendita sotto costo attuata da catene di supermercati in danno di rivenditori specializzati) 58.

8. Sanzioni e processo La violazione della disciplina della concorrenza sleale comporta l’applicazione delle sanzioni degli artt. 2599-2600. Date le difficoltà di provare i danni subiti e l’interesse dell’imprenditore danneggiato a far cessare quanto prima il comportamento illecito, anche in materia di concorrenza (così come in generale per tutta la proprietà industriale) riveste importanza centrale l’azione inibitoria, e cioè l’ordine del giudice di cessare dalla continuazione dell’illecito (art. 2599). La misura inibitoria può essere pronunciata non solo con la sentenza definitiva di merito, ma può essere altresì anticipata in via cautelare d’urgenza. La pronuncia inibitoria può inoltre disporre gli “opportuni provvedimenti”

55 Questa fattispecie ricorreva nel caso deciso da Trib. Milano, 27-7-2005, GADI, 2006, 477; Trib. Milano, 4-9-2006, GADI, 2006, 905. 56 Cfr. FRANCESCHELLI, Concorrenza parassitaria, RDInd, 1956, I, 265; Cass. 20-7-2004, n. 13423, GADI, 2004, 138; Cass. 19-11-1994, n. 9827, GADI, 1994, 129; Cass. 10-11-1994, n. 9387, GADI, 1994, 112; Trib. Torino, 26-1-2009, GADI, 2009, 667. 57 Cfr. Cass. 26-1-2006, n. 1636, RDInd, 2006, II, 331. 58 Cfr. App. Roma, 30-3-2009, GADI, 2000, 812.

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per eliminare gli effetti dell’atto (si pensi ad es. alla cancellazione dei segni distintivi illegittimamente apposti, o alla distruzione dei prodotti costituenti imitazione servile). La tutela inibitoria non presuppone il dolo o la colpa del soggetto agente. L’interesse alla ricostituzione di uno scenario di mercato oggettivamente improntato ad una competizione corretta viene perseguito dal legislatore indipendentemente dall’imputabilità del comportamento distorsivo: così ad esempio sarà soggetto ai rimedi inibitori anche l’imprenditore che abbia divulgato notizie screditanti false ritenendole incolpevolmente vere. Il risarcimento del danno può essere invece richiesto solo in caso di atti dolosi o colposi, conformemente al principio generale dell’art. 2043, ma la disciplina concorrenziale prevede da questo punto di vista una agevolazione dell’onere probatorio, in quanto “accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume” (art. 2600, co. 3). Nelle ipotesi in cui può essere pronunciato il risarcimento del danno (e quindi in caso di dolo o colpa) può inoltre essere ordinata la pubblicazione della sentenza (art. 2600, co. 2).

II. Le pratiche commerciali 1. Funzione, presupposti e struttura della disciplina La disciplina dei rapporti fra produttori e consumatori non si esaurisce nelle norme relative alle reciproche relazioni contrattuali, ma si estende ai comportamenti tenuti fin dal momento delle trattative e delle iniziative (in primis pubblicitarie) di promozione commerciale. Il legislatore impone in particolare a chi offre beni o servizi di tenere un comportamento corretto in qualsiasi contatto instaurato con i consumatori, “prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto” (art. 19 c.cons.). Naturalmente è possibile che scorrettezze in fase di trattativa favoriscano la conclusione di un contratto contenente pattuizioni vessatorie, nel qual caso la disciplina delle sanzioni dei comportamenti sarà cumulabile a quella di invalidità delle clausole contrattuali 59. La disciplina delle pratiche commerciali scorrette è stata recentemente estesa ai rapporti fra professionisti e microimprese (art. 19, co. 1, c.cons.) che occupano non più di dieci dipendenti e realizzano un fatturato non superiore a due milioni di euro (art. 18, co. 1, lett. d-bis c.cons.). Il legislatore assume evidentemente che queste categorie di soggetti si trovino nei confronti dei professionisti in una posizione di debolezza analoga a quella dei consumatori. L’estensione della disciplina vale tuttavia per le sole pratiche commerciali non consistenti in attività pubblicitarie. I profili di illiceità delle attività pubblicitarie rivolte (anche) alle microimprese restano disciplinati dal d.lgs. 145/2007 (infra, III.1).

La disciplina del comportamento delle imprese nei rapporti con i consumatori è ispirata a un generale divieto di “pratiche commerciali scorrette” (art. 20 c.cons.). 59

Rileva che la disciplina delle pratiche commerciali non si estende direttamente alla conclusione, validità ed efficacia dei contratti AUTERI, Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale, in GENOVESE, I decreti legislativi, 10 ss.; sulla questione v. inoltre la nt. 73.

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La nozione di pratica commerciale è intesa dal legislatore in senso ampio, per ricomprendere qualsiasi contatto con il consumatore, e perciò “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto” (art. 18, co. 1, lett. d, c.cons.) 60. Il divieto si applica in via generale a tutti i professionisti, e cioè non soltanto agli imprenditori ma a “qualsiasi persona fisica o giuridica che […] agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale artigianale o professionale” (art. 18, co. 1, lett. b, c.cons.), compresi dunque i lavoratori autonomi e professionisti intellettuali. L’art. 18, co. 1, lett. a), c.cons. definisce inoltre il consumatore come “qualsiasi persona fisica che […] agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”. La struttura della disciplina è particolarmente complessa. Il legislatore introduce anzitutto una clausola generale di divieto di “pratiche commerciali scorrette” (art. 20, co. 1, c.cons.). Tipizza poi due tipologie di pratiche scorrette (che dunque dovrebbero avere carattere esemplificativo, e non esaustivo): e precisamente le pratiche ingannevoli e le pratiche aggressive (art. 20, co. 4, c.cons.). All’interno di queste tipologie di pratiche il legislatore tipizza ulteriormente alcune sottotipologie di comportamenti considerati “in ogni caso” ingannevoli (art. 25 c.cons.) e aggressivi (art. 26 c.cons.) 61. Le sottotipizzazioni sono d’altra parte estremamente articolate, così da rendere quasi inconfigurabili fattispecie non tipizzate, e a maggior ragione fattispecie scorrette ulteriori e diverse dalle pratiche ingannevoli e aggressive.

2. La clausola generale di divieto di pratiche commerciali scorrette L’art. 20, co. 2, c.cons. definisce scorrette le pratiche commerciali contrarie alla diligenza professionale ed idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore. Il criterio della diligenza professionale impone ai professionisti il dovere di prestare “il normale grado della specifica competenza e attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono” (art. 18, co. 1, lett. h, c.cons.) 62. Il comportamento economico del consumatore risulta falsato quando la pratica commerciale altera “sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altri60 Discussa è l’applicabilità della norma ai comportamenti posti in essere nei rapporti con i singoli consumatori; in senso favorevole cfr. DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette, 1084 s.; in senso diverso SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali sleali: disciplina dell’atto o dell’attività?, in 20 anni di antitrust, a cura di RABITTI BEDOGNI e BARUCCI, Torino, 2010, 1221 ss. 61 Sui rapporti fra i diversi livelli di norme cfr. DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette, 1088 s. 62 Sul significato (estremamente problematico) del parametro di diligenza professionale cfr. AUTERI, Introduzione, cit., 14 s.; LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE, I decreti legislativi, 46 ss.; DE CRISTOFARO, La nozione generale di pratica commerciale “scorretta”, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali, 150 ss.; ID., Pratiche commerciali scorrette, 1090 s.; MELI, Le clausole generali relative alla pubblicità, AIDA, 2008, 261 ss.; PIRAINO, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, EuDPriv, 2010, 1117 ss.

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menti preso” (art. 18, co. 1, lett. e, c.cons.), relativamente all’acquisto o alla cessione del prodotto, alle modalità di pagamento o all’esercizio di diritti (art. 18, co. 1, lett. m, c.cons.) 63. Non sembra rilevare in proposito l’intenzione del professionista di falsare il comportamento del consumatore, quando questo comportamento risulti obiettivamente influenzato dalla scorrettezza 64. Il parametro di riferimento per valutare l’idoneità a falsare il comportamento economico è costituito dal consumatore medio. È tuttavia dubbia la ragione per cui il legislatore non colpisce pratiche idonee a falsare il comportamento dei consumatori più sprovveduti: dove il concetto di sprovvedutezza è da riferire non solo e non tanto alle capacità intellettive, quanto più in generale alla predisposizione culturale a verificare pazientemente il rischio di comportamenti maliziosi dei professionisti 65. Il parametro del consumatore medio è temperato dalla previsione secondo cui in presenza di “un gruppo di consumatori chiaramente individuabile, particolarmente vulnerabili alla pratica o al prodotto”, occorre prendere in considerazione il “membro medio di tale gruppo”. Anche questo criterio del consumatore “mediamente sprovveduto” pecca tuttavia di una certa artificiosità. Si pensi alla promessa di offerta di un “sistema infallibile per vincere al lotto”. Forse il consumatore medio non crede all’esistenza di un sistema del genere, ma non è chiaro perché dovremmo qui tollerare una comunicazione che può comunque ingannare il consumatore sprovveduto. Né è chiaro se il target di giocatori di lotto possa essere considerato target di “mediamente sprovveduti”, e se in questo target di sprovvedutezza media rientri chi crede in promesse di facili vincite.

3. Le pratiche ingannevoli Il codice del consumo tipizza una prima categoria di pratiche sleali costituita dalle pratiche ingannevoli (artt. 21 ss. c.cons.). Queste pratiche costituiscono probabilmente la più importante tipologia di comportamenti sleali, e rivestono particolare rilievo economico e sociale quando vengono poste in essere attraverso comunicazioni pubblicitarie. La disciplina delle pratiche sleali trova quindi proprio in materia pubblicitaria i maggiori spazi di applicazione pratica. L’art. 21, co. 1, c.cons. definisce anzitutto in via generale le azioni ingannevoli, ricomprendendovi la comunicazione di informazioni non rispondenti al vero, nonché qualsiasi pratica che “seppure di fatto corretta, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio”.

63 Sui problemi di interpretazione del requisito dell’alterazione sensibile del procedimento decisionale del consumatore cfr. AUTERI, Introduzione, cit., 15 ss.; LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, cit., 54 ss.; MELI, Le clausole generali, cit., 270 ss. Sulle tipologie di decisioni rilevanti per l’applicazione della norma cfr. DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette, 1092 s. 64 Cfr. DE CRISTOFARO, La nozione generale di pratica commerciale “scorretta”, cit., 159 s. 65 La scelta legislativa è da alcuni spiegata con interessi alla semplificazione e certezza dei traffici; cfr. CALVO, Le pratiche commerciali “ingannevoli”, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali, 181 ss.; da altri con l’interesse a non impedire forme di comunicazione utili a fornire informazioni e a ravvivare la concorrenza; cfr. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, cit., 63 ss.; da altri ancora con l’intento di valorizzare una figura di consumatore massimizzatore della propria utilità ricavata dalla scienza economica neoclassica, temperato dalla considerazione dei fattori che di volta in volta possono pregiudicare la piena razionalità decisionale; cfr. BERTANI, Pratiche commerciali scorrette e consumatore medio, 28 ss.

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Il riferimento a informazioni corrette “di fatto”, ma ugualmente idonee ad indurre in errore, non è agevolmente interpretabile. Esso lascia a prima vista pensare alla comunicazione di informazioni veritiere ma incomplete, e perciò fuorvianti (si pensi alla presentazione di un’offerta di tariffa telefonica che non ne precisi il suo carattere promozionale e l’applicazione limitata nel tempo, ad es. al primo anno di sottoscrizione del contratto). In quest’ultima ipotesi sembra tuttavia ad un tempo ricorrere la fattispecie di omissioni ingannevoli, distintamente disciplinate nel successivo art. 22 c.cons. Certo comunque la veridicità dell’informazione deve essere valutata non fermandosi al significato letterale delle espressioni, ma alle complessive modalità di percezione del consumatore: e quindi, fra l’altro, al rilievo dato anche graficamente alle diverse affermazioni (non eliminano ad es. l’ingannevolezza le precisazioni contenute in note a video di pubblicità televisive, che il consumatore ha modo di vedere per pochi secondi soltanto). L’errore giuridicamente rilevante per determinare l’ingannevolezza della pratica riguarda essenzialmente le caratteristiche del prodotto o servizio, il prezzo, le qualifiche e gli impegni del professionista (cfr. art. 21, co. 1, lett. a-f, c.cons.). L’art. 21, co. 2, c.cons. considera espressamente fra le ipotesi di pratica ingannevole l’uso di segni distintivi confondibili con quelli di un concorrente, e il mancato rispetto di codici di condotta cui il professionista ha aderito.

Il successivo art. 22 c.cons. prevede inoltre che l’ingannevolezza può derivare anche da omissioni di informazioni rilevanti perché il consumatore medio possa prendere una decisione consapevole, o da informazioni oscure e incomprensibili. L’art. 22, co. 4, c.cons. considera rilevanti in particolare le informazioni relative alle caratteristiche del prodotto, al prezzo, alle spese e alle modalità di pagamento, alle possibilità di recesso e all’identità del professionista. Il legislatore impone peraltro di tenere conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, inclusa la specificità dei mezzi di comunicazione. Alcune modalità di comunicazione infatti (come ad es., e tipicamente, la pubblicità) devono avvenire nel rispetto di limiti di tempo e spazio, incompatibili con una assoluta completezza di informazione (art. 22, co. 3, c.cons.). In questi casi l’omissione non può essere considerata in sé ingannevole, specie quando la pubblicità contenga indicazioni che consentano al consumatore di acquisire per altre vie ed in un secondo tempo un’informazione più completa. Il legislatore detta infine un lungo elenco di fattispecie concrete di pratiche “considerate in ogni caso ingannevoli” (art. 23, c.cons.). Sono ad es. considerate ingannevoli le false affermazioni relative al diritto di utilizzare marchi di qualità, o di adesione a codici di condotta; le offerte di prodotti che il professionista non è in grado di fornire in tempi e quantità ragionevoli, o per i quali non può prestare garanzie nella lingua del consumatore; l’impiego di tecniche di “pubblicità redazionale” (e cioè di annunci pubblicitari a pagamento mascherati da articoli giornalistici); le false affermazioni relative al carattere limitato nel tempo di un’offerta. Il riconoscimento del carattere “in ogni caso” ingannevole di queste pratiche sembrerebbe escludere la possibilità di prova contraria e quindi impedisce ogni valutazione in ordine alle circostanze concrete dell’offerta e agli effetti sul consumatore 66.

66 Cfr. CG 23-4-2009, C-261 e C-299/97, VTB, NGCC, 2009, I, 1059, punto 56; DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in DE CRI-

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Analogamente l’idoneità della pratica a falsare il comportamento del consumatore parrebbe in tali casi in re ipsa, e quindi insuscettibile di prova contraria. L’elenco delle pratiche commerciali vietate di per sé è da considerare esaustivo. Fuori dalle ipotesi in esso previste, i legislatori nazionali non possono introdurre ulteriori divieti che prescindano da una verifica caso per caso della contrarietà a diligenza professionale e degli effetti sul comportamento del consumatore 67.

4. Le pratiche aggressive Il codice del consumo tipizza una seconda categoria di pratiche scorrette in quanto aggressive (artt. 24 ss. c.cons.) 68. Si tratta essenzialmente di pratiche attuate attraverso molestie (di carattere fisico o psicologico) idonee a “limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio” (art. 24 c.cons.). L’aggressività deve essere valutata in base alle ragioni elencate nell’art. 25 c.cons.: e ad es. alla persistenza delle molestie (si pensi a continue sollecitazioni telefoniche), alla presenza di minacce, allo sfruttamento di eventi tragici, a comportamenti ostruzionistici nei confronti del consumatore che intenda esercitare i propri diritti (si pensi al rifiuto di disconnettere un utente telefonico che intenda legittimamente recedere dal contratto per rivolgersi a un altro operatore). L’art. 26 c.cons. tipizza alcune fattispecie concrete di comportamenti considerati “in ogni caso” (e dunque, parrebbe, indipendentemente da una valutazione concreta delle circostanze dell’art. 25 c.cons.) aggressivi, quali il trattenimento del consumatore nei locali del professionista, i tentativi di accesso nell’abitazione del consumatore, le ripetute prese di contatto telefonico o telematico, l’ostruzionismo degli assicuratori a fronte di richieste di liquidazione dei danni, le esortazioni rivolte ai bambini, l’invio e pretesa di pagamento o restituzione di prodotti non richiesti 69, la falsa promessa di vincite.

5. Il sistema sanzionatorio Il codice del consumo qualifica l’adozione di pratiche commerciali scorrette come illecito amministrativo. L’accertamento dell’illecito e l’applicazione delle relative sanzioni rientrano pertanto nella competenza di un’autorità amministrativa, indipendente dal governo, e precisamente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (artt. 27 ss. c.cons.). L’AGCM aggiunge queste sue competenze a quelle di controllo della concorrenza esaminate infra, § 12.II. La scelta di “amministrativizzare” la disciplina delle pratiche sleali risponde probabilSTOFARO, Pratiche commerciali, 139 s.; LUCCHESI/VETTORI, Codice del consumo, 53; v. però in senso diverso LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, cit., 24; cfr. anche MELI, Le clausole generali, cit., 269 s., secondo cui le fattispecie tipizzate presentano a loro volta contorni indefiniti e devono essere valutate caso per caso. 67 Cfr. CG VTB, cit., punti 56 ss.; CG 14-1-2010, C-304/08, Plus Warenhandelsgesellschaft, Racc, 2010, I-217, punto 45; CG 9-11-2010, C-540/08, Mediaprint, Racc, 2010, I-10957, punto 34. 68 In argomento cfr. CARUSO, Le pratiche commerciali aggressive, Padova, 2010, 34 ss.; DALLE VEDOVE, Le pratiche commerciali aggressive, in GENOVESE, I decreti legislativi, 117 ss.; DI NELLA, Le pratiche commerciali “aggressive”, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali, 287 ss. 69 Cfr. DE CRISTOFARO, Le “forniture non richieste”, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali, 433 ss.; ORLANDO/VETTORI, Codice del consumo, 61 ss.

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mente all’esigenza di evitare al consumatore i rischi e gli oneri processuali che questi dovrebbe sopportare per agire in via giudiziaria 70. L’AGCM può attivarsi anche d’ufficio, e dispone di poteri di ispezione e conseguente acquisizione di materiale probatorio, che dovrebbero rendere il procedimento molto più rapido ed efficace rispetto a quello giudiziario ordinario. Il sistema dovrebbe inoltre dare garanzie di competenza tecnica e di uniformità di criteri di giudizio 71. I poteri sanzionatori dell’AGCM si esprimono anzitutto attraverso l’inibizione della continuazione delle pratiche scorrette. L’Autorità può inoltre applicare sanzioni pecuniarie non solo a fronte delle accertate violazioni passate, ma anche per l’inosservanza dei provvedimenti inibitori. I provvedimenti dell’AGCM sono naturalmente impugnabili davanti alla giurisdizione amministrativa. È possibile che l’adozione di pratiche commerciali scorrette rilevi anche sul piano privatistico come fonte di obbligazione di risarcimento del danno 72. Ci si è chiesti inoltre se l’attuazione di pratiche commerciali scorrette possa costituire causa di invalidità del contratto 73. È in particolare possibile che l’attuazione di una pratica commerciale ingannevole configuri un comportamento doloso tale da determinare l’annullabilità del contratto in base all’art. 1439. La pratica ingannevole non sembra tuttavia di per sé determinare automaticamente l’annullabilità del contratto per dolo. È altresì possibile che l’adozione di una pratica commerciale scorretta determini l’inserimento nel contratto di clausole vessatorie. In questo caso il consumatore potrà far valere la relativa nullità di protezione (infra, § 19.IV). Ancora una volta tuttavia la violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette non determina di per sé automaticamente la vessatorietà delle clausole inserite per effetto della pratica, così che la questione deve essere verificata volta per volta 74.

III. La pubblicità ingannevole e comparativa L’impresa acquista normalmente visibilità sul mercato attraverso la presentazione dei propri segni distintivi in un contesto di comunicazione pubblicitaria, e cioè attraverso annunci trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa (internet, radio, televisione, stampa), diretti ad accreditare presso la generalità del pubblico i propri prodotti o servizi. Già si è visto che la comunicazione pubblicitaria deve rispettare alcune norme di portata più generale, e anzitutto princìpi di lealtà a tutela dei concorrenti. La pubblicità deve in particolare rispettare le norme sulla concorrenza sleale che

70

La scelta è condivisa da GENOVESE, L’enforcement e le tutele, in GENOVESE, I decreti legislativi,

216. 71 Cfr. CIATTI, Gli strumenti di tutela individuale e collettiva, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali, 383 ss. 72 Cfr. DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette, 1111 s. 73 Al riguardo cfr. MAUGERI, Pratiche commerciali scorrette e disciplina generale dei contratti, in GENOVESE, I decreti legislativi, 264 ss.; MIRONE, Pubblicità e invalidità del contratto: la tutela individuale contro le pratiche commerciali sleali, AIDA, 2008, 309 ss.; DE CRISTOFARO, Le conseguenze privatistiche della violazione del divieto di pratiche commerciali sleali: analisi comparata delle soluzioni accolte nei diritti nazionali dei paesi UE, RassDCiv, 2010, 880 ss.; ID., Pratiche commerciali scorrette, 1113 ss. 74 In tal senso espressamente CG 15-3-2012, C-453/10, Perenicˇová, eur-lex.europa.eu.

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vietano la denigrazione del concorrente; l’appropriazione di pregi; e le dichiarazioni mendaci. La pubblicità costituisce inoltre una pratica commerciale, ed anzi probabilmente l’esempio economicamente più importante di pratica commerciale. Essa è quindi sottoposta ai divieti di scorrettezza ed in particolare di ingannevolezza a tutela degli interessi dei consumatori 75. Il legislatore ha inoltre dettato una disciplina specifica contro gli atti di pubblicità ingannevole 76 e contro la pubblicità comparativa scorretta, e ciò anche per tutelare i professionisti.

1. La pubblicità ingannevole nei rapporti fra professionisti La disciplina della pubblicità ingannevole è stata uniformata a livello europeo dalla dir. 84/450/CEE, trasfusa e ricodificata nella dir. 2006/114/CE. La direttiva è stata attuata nell’ordinamento italiano dal d.lgs. 145/2007. Le norme in esso contenute hanno “lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa” (art. 1, co. 1, d.lgs. 145/2007). Il legislatore qualifica ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge” e che “possa pregiudicare il loro comportamento economico” (art. 2, co. 1, lett. b, d.lgs. 145/2007). In quanto principalmente rivolto a “tutelare i professionisti”, il d.lgs. 145/2007 si applica anzitutto e tipicamente alle pubblicità che promuovono la vendita di beni o servizi specificamente destinati ai professionisti medesimi (si pensi ad una pubblicità di tariffe telefoniche destinate soltanto ai titolari di partita IVA). Nulla esclude tuttavia l’applicabilità di questa disciplina alle pubblicità rivolte indifferentemente ad un pubblico che può ricomprendere anche professionisti (si pensi ad una pubblicità di personal computer). Così pure in linea di principio non vi è ragione di escludere l’applicazione del d.lgs. 145/2007 alle pubblicità specificamente rivolte ai consumatori (si pensi alla pubblicità di un elettrodomestico da cucina), il cui carattere ingannevole danneggia anche gli imprenditori concorrenti, in conseguenza del possibile storno di clientela 77. Vero è che i profili di ingannevolezza delle pubblicità rivolte anche (o a maggior ragione solo) al pubblico dei consumatori possono normalmente essere fatti valere in base alla disciplina del codice del consumo sul-

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Sui rapporti fra concorrenza sleale e disciplina delle pratiche commerciali, con particolare riferimento al fenomeno pubblicitario, cfr. BARGELLI, La nuova disciplina delle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori: ambito di applicazione (art. 18, lett. a-d e art. 19, comma 1°, c.cons.), in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, 105 ss.; DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, ibidem, 132 s. 76 L’opportunità di distinguere i profili di interesse dei consumatori e rispettivamente dei professionisti nella disciplina della pubblicità è criticata da una parte della dottrina: cfr. DI RAIMO, La nuova disciplina della pubblicità commerciale: cenni preliminari, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, 480 ss. 77 In tal senso cfr. AUTERI, Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale?, in GENOVESE, I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, 17 ss.; DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, in DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, 40 ss.; ID., Pratiche commerciali scorrette, 1107 s.

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le pratiche commerciali scorrette, e che una ulteriore qualificazione di illiceità di queste pratiche in base al d.lgs. 145/2007 non sembra ragionevolmente giustificare l’applicazione di ulteriori sanzioni da parte dell’AGCM 78. In questa prospettiva l’AGCM pare orientata ad applicare soltanto la disciplina del codice del consumo per sanzionare le pubblicità ingannevoli rivolte ai consumatori; e reciprocamente sembra intervenire in base al d.lgs. 145/2007 nelle ipotesi (relativamente poco frequenti) di pubblicità relative a beni o servizi specificamente destinati a professionisti 79. Parte della dottrina sostiene peraltro che alcuni profili di ingannevolezza possono sfuggire alla disciplina del codice del consumo, in particolare quando non falsano in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori. In tali casi pubblicità pur rivolte (anche) al pubblico dei consumatori potrebbero ricadere soltanto nell’ambito di applicazione del d.lgs. 145/2007 80. L’art. 3 d.lgs. 145/2007 precisa che gli elementi di ingannevolezza possono riguardare fra l’altro le caratteristiche dei prodotti o servizi, il prezzo o le qualifiche e i diritti di proprietà intellettuale del professionista. L’art. 5 d.lgs. 145/2007 impone in ogni caso alla pubblicità di “essere chiaramente riconoscibile come tale” e “distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico”. È dunque vietata la c.d. pubblicità redazionale, in cui l’annuncio è presentato in forma di articolo di stampa. Gli artt. 6-7 del decreto dettano infine norme particolari relative alla pubblicità di prodotti pericolosi o rivolta a bambini e adolescenti.

2. La pubblicità comparativa Il d.lgs. 145/2007 disciplina altresì il fenomeno della pubblicità comparativa, e cioè della pubblicità “che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente” (art. 2, co. 1, lett. c, d.lgs. 145/2007). Già si è visto che il problema della liceità della pubblicità comparativa si è storicamente posto con riferimento al divieto di denigrazione e appropriazione di pregi contenuto nell’art. 2598, n. 2. Nell’attuale sistema questo divieto deve essere necessariamente coordinato con la disciplina uniformata a livello europeo dalla dir. 2006/114/CE ed attuata nel nostro ordinamento dall’art. 4 d.lgs. 145/2007. Questa disciplina in linea di principio consente la comparazione pubblicitaria, purché nel rispetto di alcuni limiti 81. La comparazione, anzitutto, ovviamente non deve essere ingannevole (art. 4, co. 1, lett. a, d.lgs. 145/2007). Può risultare ingannevole anche l’omissione di informazioni, che incidano sulla capacità del consumatore di percepire il reale significato del confronto istituito. La giurisprudenza europea non ha ad es. escluso (lasciando ai giudici nazionali il compito di verifica nel caso concreto) che l’omissione di informazioni relative al marchio dei prodotti concor-

78 Cfr. GENOVESE, L’enforcement e le tutele, in GENOVESE, I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, 218 ss. 79 Per alcuni esempi di provvedimenti di applicazione del d.lgs. 145/2007 a pubblicità ingannevoli rivolte specificamente a professionisti cfr. AGCM, 1-6-2011, n. 22479, Boll., 22/2011; AGCM, 13-7-2011, n. 22583, in Boll., 28/2011. 80 Cfr. AUTERI/Dir. ind. 81 Cfr. MELI, La pubblicità comparativa fra vecchia e nuova disciplina, GComm, 1999, I, 280 ss.

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renti possa rendere ingannevole una comparazione di prezzi, quando il pubblico erroneamente ritenga che i prodotti confrontati siano di marche ugualmente prestigiose 82.

La comparazione inoltre non deve determinare confusione con i segni distintivi del concorrente (art. 4, co. 1, lett. d, d.lgs. 145/2007), e deve riguardare “beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni” (art. 4, co. 1, lett. b, d.lgs. 145/2007) per confrontare “oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo” (art. 4, co. 1, lett. c, d.lgs. 145/2007). La possibilità di confrontare caratteristiche del prodotto presuppone evidentemente la legittimità della comparazione fra prodotti non identici (ad es. perché qualitativamente diversi, si pensi ad alimentari freschi e conservati) purché idonei a soddisfare bisogni sufficientemente omogenei, e perciò ad essere considerati sostituibili nelle scelte del consumatore 83. In questa prospettiva la liceità della comparazione presuppone una pubblicità informativa. È invece da ritenere vietata la comparazione pubblicitaria meramente suggestiva, che ad es. presenti il prodotto del concorrente in un contesto svilente, senza prendere in considerazione le sue oggettive e specifiche caratteristiche 84. Non si ritiene comunque necessario che la comparazione sia istituita fra tutte le caratteristiche del prodotto, ben potendo essa concentrarsi sugli elementi (purché veritieri e rilevanti) più vantaggiosi all’impresa pubblicizzata 85. Per analoghe ragioni è legittima la pubblicità che confronti solo alcuni prodotti di un assortimento (ad es., e tipicamente, di un distributore), per incentrare l’attenzione del consumatore su quelli più convenienti, ancorché non rappresentativi della convenienza dell’intero assortimento 86. La pubblicità può anche incentrarsi (non sui singoli prodotti ma) sulla convenienza di un assortimento più o meno ampio. In tali casi il confronto deve tuttavia basarsi su dati significativi, e perciò prendere spunto dai prezzi di prodotti comparabili, e identificabili dal consumatore, ancorché non espressamente menzionati nella pubblicità. Il confronto può basarsi anche su una parte limitata dell’assortimento, purché il consumatore non ritenga erroneamente che la convenienza dell’offerta si estende a prodotti ulteriori e diversi rispetto a quelli comparati 87.

È inoltre vietata la comparazione che causi discredito al concorrente (art. 4, co. 1, lett. e, d.lgs. 145/2007), o tragga “indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio” o ad altri segni distintivi (art. 4, co. 1, lett. g, d.lgs. 145/2007). Le norme vanno interpretate sistematicamente alla luce del divieto di pubblicità comparativa meramente suggestiva. Discredito e agganciamento all’altrui notorietà sono dunque tollerabili in quanto strettamente derivanti dalla comparazione (veritiera) di caratteristiche oggettive e specifiche dei prodotti o servizi 88. In questi casi la giurisprudenza euro82

CG 8-4-2003, C-44/01, Pippig Augenoptik, GADI, 2005, 1215. CG 18-11-2000, C-159/09, Lidl, GADI, 2010, 1263. 84 Cfr. MELI, La pubblicità comparativa, cit., 285 ss.; AUTERI/Dir. ind. 85 Cfr. TROIANO, La disciplina comunitaria della pubblicità comparativa: pregi e difetti dell’armonizzazione giuridica per direttive, in Studi Schricker, Milano, 2005, 552 ss. 86 CG Pippig Augenoptik, cit., punti 81 ss. 87 Cfr. CG 19-9-2006, C-356/04, Lidl Belgium, Racc, 2006, I-8501. 88 Cfr. MELI, op. ult. cit., 287 s.; AUTERI/Dir. ind.; v. anche i princìpi affermati, peraltro non del tutto 83

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pea considera legittima anche l’utilizzazione delle tecniche di rappresentazione grafica dei marchi e dei simboli del concorrente 89. Certamente vietate sono invece le affermazioni di (pretesa maggiore o eguale) generica garanzia qualitativa del proprio prodotto rispetto a quello di un concorrente famoso.

3. Il sistema sanzionatorio La disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa istituisce un sistema procedimentale e sanzionatorio corrispondente a quello previsto in materia di pratiche commerciali scorrette. La violazione di questa disciplina costituisce quindi un illecito amministrativo accertabile dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e colpito con sanzioni pecuniarie e ordini di cessazione dell’illecito (art. 8 d.lgs. 145/2007). Il mancato rispetto del d.lgs. 145/2007 costituisce inoltre un atto di concorrenza sleale riconducibile (a seconda delle circostanze del caso) al mendacio, all’appropriazione di pregi, o alla violazione di norme di diritto pubblico.

linearmente, con apparente sovrapposizione del problema dell’approfittamento della notorietà a quello del rischio di associazione, da CG 25-10-2001, C-112/99, Toshiba, Racc, 2001, I-7945. 89 CG Pippig Augenoptik, cit., punto 84.

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§ 12. LA DISCIPLINA ANTITRUST SOMMARIO: I. I fondamenti economici della disciplina. Antitrust e regolamentazione. – II. Antitrust europeo e antitrust nazionale: fonti e autorità. – III. I soggetti. – IV. Effetti restrittivi e mercato rilevante. – V. Le pratiche restrittive della concorrenza. Le intese: nozione. – VI. Le tipologie di intese vietate. – VII. Le esenzioni al divieto di intese. – VIII. La posizione dominante. – IX. Gli abusi di posizione dominante. – X. Le concentrazioni. – XI. Profili procedimentali e sanzionatori. – XII. Cenni alle regolamentazioni di settore.

LETTERATURA: DENOZZA, Antitrust, Bologna, 1988; ID., Pratiche anticoncorrenziali e bilanciamento degli effetti tra benessere ed equità, RItEcon, suppl. 2005, 49; FRIGNANI-PARDOLESI (a cura di), La concorrenza, Torino, 2006; FRIGNANI-PARDOLESI-PATRONI GRIFFI-UBERTAZZI (a cura di), Diritto antitrust italiano, Bologna, 1993; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, Milano, 2014; OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, Torino, 2004; RICOLFI, Antitrust, Tr. Cottino, II, 2001.

I. I fondamenti economici della disciplina. Antitrust e regolamentazione La disciplina relativa alla libertà di concorrenza, frequentemente “etichettata” con il termine anglosassone “antitrust”, si propone essenzialmente di contrastare il potere di mercato delle imprese. L’espressione potere di mercato fa riferimento alle situazioni in cui una o più imprese si sottraggono alla pressione concorrenziale, e sono quindi in grado di imporre livelli di prezzi più elevati, o di peggiorare la qualità dei prodotti, senza subire contraccolpi derivanti dalla perdita di clientela. La disciplina antitrust cerca in particolare di impedire alle imprese di creare artificiosamente un potere di mercato attraverso intese restrittive della concorrenza o operazioni di concentrazione; cerca inoltre di impedire lo sfruttamento abusivo del potere di mercato da parte delle imprese che abbiano acquisito una posizione dominante. Il diritto antitrust consente invece l’acquisizione di posizioni dominanti, e del relativo potere di mercato, derivante dalla crescita interna delle imprese e dalla loro capacità di prevalere nella competizione. Il diritto antitrust è dunque costituito da norme tendenti ad impedire che l’azione delle imprese risulti viziata dall’esercizio di potere di mercato. Le norme antitrust non intervengono invece per definire ex ante il contenuto delle relazioni contrattuali fra imprese, o fra imprese e consumatori, che devono essere definite dalla libera contrattazione. Un intervento diretto a definire imperativamente ex ante il contenuto del contratto è invece proprio di altri sistemi di governo dell’economia, frequentemente etichettati con il termine regolamentazione. La regolamentazione è in particolare propria dei settori in cui il legislatore non ritiene che il meccanismo concorrenziale sia sufficiente a perseguire obiettivi di efficienza e soddisfazione dei consumatori: tipicamente quando una vera e propria concorrenza è di fatto irrealizzabile, o comunque è fortemente ridotta (si pensi al settore dell’energia,

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del gas, delle telecomunicazioni, dove quanto meno l’infrastruttura necessaria alla prestazione del servizio può essere addirittura monopolizzata); oppure quando interessi non propriamente economici rendono opportuni interventi più invasivi anche a scapito degli interessi all’efficienza imprenditoriale propri di un mercato concorrenziale (si pensi al settore radiotelevisivo). La seguente trattazione non esaminerà tuttavia i dettagli dei sistemi di regolamentazione, descritti per sommi capi infra, XII.

II. Antitrust europeo e antitrust nazionale: fonti e autorità La disciplina antitrust trova la propria fonte principale non nel diritto interno, ma nelle norme dell’Unione europea: e precisamente negli artt. 101-102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE); e nel Regolamento CE 139/2004 sulle concentrazioni. I meccanismi di applicazione del diritto antitrust alle intese ed agli abusi di posizione dominante sono poi dettagliatamente disciplinati dal Regolamento CE 1/2003, che riveste importanza fondamentale anche sotto il profilo dei criteri di coordinamento fra disciplina europea e nazionale. Il legislatore nazionale ha in gran parte “ricalcato” la normativa europea con la l. 287/1990 (legge antitrust e per brevità l.at.). La legislazione nazionale si applica tuttavia soltanto alle fattispecie restrittive della concorrenza che non pregiudicano il commercio fra stati membri dell’UE, nonché alle concentrazioni che non superano le soglie di fatturato previste a livello europeo. In presenza di un pregiudizio al commercio fra stati membri dell’UE, o in caso di superamento delle soglie disciplinate dal regolamento sulle concentrazioni, l’applicazione della disciplina europea esclude quella della normativa italiana (art. 3.2, reg. 1/2003; art. 21.3, reg. 139/2004; art. 1, co. 1, l.at.). Il sistema si ispira così al principio della barriera unica: per il quale gli atti restrittivi della concorrenza ricadono alternativamente nell’ambito della disciplina europea o in quello nazionale, ma non possono essere assoggettati contemporaneamente ad entrambi i sistemi. Il pregiudizio al commercio fra stati membri ricorre quando il comportamento restrittivo può determinare (anche solo potenzialmente) ripercussioni sensibili su attività economiche transfrontaliere che interessino almeno due paesi 1. È tuttavia ben possibile che comportamenti relativi ad un solo stato membro (o ad una parte di esso) producano effetti transfrontalieri: qualora ad es. rafforzino la capacità finanziaria di un’impresa operante anche in altri stati; restringano le possibilità di acquisto di potenziali esportatori; consentano di realizzare profitti monopolistici sul mercato nazionale, così disincentivando l’espansione dell’attività in territori esteri; rendano più difficile l’ingresso delle imprese straniere sul mercato nazionale 2. Le linee direttrici della Commissione individuano poi alcuni criteri di valutazione della sensibilità del pregiudizio al commercio transfrontaliero, basati sulla percentuale delle quote di mercato e sul fatturato delle imprese coinvolte 3.

1

Commissione, Linee direttrici la nozione di pregiudizio al commercio tra stati membri, in GUUE 274-2004, C 101/81, punto 21 2 Linee direttrici la nozione di pregiudizio, cit., punti 77 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 131 ss.; GHEZZI-OLIVIERI. 3 Linee direttrici la nozione di pregiudizio, cit., punto 52.

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In questa prospettiva la legislazione nazionale finisce per avere un ambito di applicazione residuale, limitato a comportamenti che producono effetti su mercati assai ristretti (normalmente, regionali o provinciali). Il legislatore italiano ha d’altra parte stabilito che l’interpretazione delle norme antitrust nazionali deve ispirarsi ai princìpi elaborati dalla giurisprudenza europea (art. 1, co. 4, l.at.). Lo scarso rilievo economico delle fattispecie disciplinate dal diritto italiano, la sostanziale corrispondenza delle norme europee e nazionali, la necessità di interpretare queste ultime conformemente al diritto UE, suggeriscono quindi di ricostruire il sistema antitrust principalmente in base alla disciplina del Trattato e all’interpretazione della giurisprudenza europea.

I meccanismi di applicazione del diritto antitrust (cui si fa frequentemente riferimento con il termine anglosassone di enforcement) vedono l’intervento di diverse autorità europee e nazionali. Sotto un primo profilo, l’accertamento degli illeciti antitrust può avvenire in via amministrativa da parte di autorità dotate di incisivi poteri di iniziativa (anche d’ufficio) e di acquisizione del materiale probatorio. Queste autorità possono applicare sanzioni pecuniarie ed ordinare la cessazione dell’infrazione (c.d. public enforcement). Competente all’applicazione in via amministrativa del diritto antitrust europeo è anzitutto la Commissione. Il reg. 1/2003 ha tuttavia attribuito in via generale anche alle autorità nazionali di controllo della concorrenza il potere di accertare la violazione delle norme europee antitrust in materia di intese e di abusi di posizione dominante, e di sanzionarne la violazione (applicando allora le sanzioni previste dalla disciplina di diritto interno). In Italia la funzione di autorità di controllo della concorrenza è svolta dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (per brevità, AGCM), istituita dagli artt. 10 ss. l.at. L’Autorità garante è dunque competente ad applicare in via amministrativa tanto il diritto europeo (competenza concorrente a quella della Commissione) quanto il diritto nazionale (competenza esclusiva, salvi i poteri delle autorità giudiziarie in materia di private enforcement, su cui v. infra). La competenza concorrente della Commissione e delle autorità nazionali in materia di public enforcement del diritto UE rende naturalmente necessario coordinare l’esercizio dei loro poteri, per evitare decisioni contrastanti. Principio generale al riguardo è quello di prevalenza della competenza della Commissione: così che l’avvio di un procedimento da parte di quest’ultima priva le autorità nazionali del potere di intervenire a loro volta sulle medesime fattispecie (art. 11.6 reg. 1/2003); mentre in ogni caso è vietato alle autorità nazionali adottare provvedimenti che contrastino con quelli della Commissione (art. 16.2 reg. 1/2003). Di fatto, la Commissione si attiva in un numero relativamente ridotto di casi che presentano particolare rilievo economico ed effetti diffusi uniformemente in tutta l’UE; mentre le autorità nazionali intervengono su casi che producono i loro effetti maggiormente restrittivi nel territorio di singoli stati membri. Il sistema così predisposto riflette l’impossibilità per la Commissione di controllare tutti i numerosissimi casi di comportamenti restrittivi.

Sotto un secondo profilo, l’accertamento delle violazioni del diritto antitrust può avvenire in via privatistica da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, secondo le regole del processo civile, su iniziativa della parte interessata ad accertare la nullità dei contratti conclusi in violazione della disciplina della concorrenza, o ad ottenere il ri-

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sarcimento del danno subito (c.d. private enforcement). In tali casi le autorità giudiziarie degli stati membri sono competenti a giudicare tanto le azioni fondate sul diritto antitrust UE, quanto le azioni fondate sulla violazione delle norme nazionali. L’azione civile può anche sovrapporsi al procedimento amministrativo, ma i giudici nazionali devono evitare di prendere decisioni in contrasto con quelle adottate dalla Commissione (art. 16.2 reg. 1/2003).

III. I soggetti La normativa sulla concorrenza si applica ai comportamenti delle imprese. Il diritto antitrust costituisce tuttavia un settore in cui la nozione di impresa si è allargata fino a ricomprendere fenomeni in passato storicamente esclusi dalla definizione dell’art. 2082. La nozione di impresa ricomprende in particolare qui sostanzialmente qualsiasi attività economica, ivi compresa quella dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti 4. La questione assume rilievo pratico soprattutto con riferimento alle associazioni e ordini professionali. Queste organizzazioni raggruppano infatti normalmente la quasi totalità (ed anzi, almeno nel caso delle professioni protette, necessariamente la totalità) degli operatori, e possono quindi esercitare un sensibile potere di mercato. Le decisioni delle associazioni e degli ordini professionali rientrano inoltre nella categoria delle intese, in quanto decisioni prese da “associazioni di imprese” (v. infra, V) 5. In questa prospettiva è particolarmente dibattuta la legittimità di decisioni tipiche della normale prassi degli ordini, quali ad es. la fissazione di tariffe professionali, che dal punto di vista concorrenziale potrebbero essere considerate quali ipotesi di intese sui prezzi 6. Il diritto antitrust si applica in linea di principio anche alle imprese pubbliche, nei limiti in cui “non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata” (art. 106.2 TFUE, e v. il corrispondente art. 8, co. 1-2, l.at.) 7. Una possibile giustificazione dell’esenzione dall’applicazione della normativa concorrenziale va probabilmente ricondotta all’interesse alla prestazione di un servizio universale: e cioè di un servizio erogato secondo princìpi di parità di trattamento a tutto il pubblico dei potenziali consumatori, anche quando questa erogazione avvenga con sacrificio dell’economicità della gestione imprenditoriale 8. Così ad es. il servizio di interesse generale di distribuzione della corrispondenza a tariffe uniformi su tutto il territorio nazionale, ivi comprese aree geografiche in cui esso è particolarmente costoso e non redditizio, può giustificare l’esclusione dall’ingresso sui mercati più remunerativi di imprese che non sopportano i costi del servizio universale. L’esclusione della concorrenza potrebbe infatti giustificarsi per garan-

4 Cfr. CG 19-2-2002, Wouters, Racc, 2002, I-1577, punti 47 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 75 s.; GHEZZI-OLIVIERI. 5 CG Wouters, cit., punti 57 ss. 6 Sul tema cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 171 ss. 7 Sui problemi di identificazione delle imprese pubbliche assoggettate al diritto antitrust cfr. GIANNELLI, Impresa pubblica e privata nella legge antitrust, Milano, 2000, 149 ss. 8 Sulla funzione “sociale” degli obblighi di servizio universale cfr. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, 97 ss.

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tire all’impresa pubblica margini di profitto idonei a recuperare i costi sopportati per prestare il servizio universale sui territori non redditizi 9.

IV. Effetti restrittivi e mercato rilevante Gli effetti restrittivi della concorrenza non possono essere apprezzati in assoluto, ma devono essere valutati relativamente ad un mercato per il quale si ritiene opportuno preservare condizioni di competitività. Nella terminologia del diritto antitrust, la questione riguarda la determinazione del “mercato rilevante” per la valutazione di effetti restrittivi e di posizioni dominanti 10. Il mercato rilevante viene circoscritto in relazione a due fattori fondamentali: il fattore geografico ed il fattore merceologico. Il mercato geograficamente rilevante è in particolare delimitato dal territorio in cui le condizioni di concorrenza sono omogenee e sensibilmente diverse da quelle dei territori contigui 11. La disomogeneità delle condizioni di concorrenza può ad es. derivare dai costi di trasporto, che ostacolano la circolazione dei prodotti e rendono dunque possibili differenze di prezzo nelle varie zone, da tradizioni linguistiche (si pensi al mercato dei servizi televisivi), dalla presenza di situazioni di monopolio legale o naturale frazionate geograficamente (si pensi al mercato dell’energia, delle telecomunicazioni e in generale dei servizi pubblici). In tutti questi casi l’ordinamento della concorrenza deve preoccuparsi degli effetti restrittivi relativi a ciascun singolo territorio, per il quale i consumatori rischiano di subire l’esercizio di un potere di mercato da parte di imprese non esposte alla concorrenza di offerte provenienti da territori diversi. Il mercato merceologico è invece limitato dalla tipologia dei prodotti o servizi reciprocamente sostituibili. Possono in particolare talvolta essere considerati sostituibili prodotti pur merceologicamente diversi, come ad es. le aranciate e le cole, che ragionevolmente formano un unico mercato delle bibite gassate. E così pure servizi tipologicamente eterogenei, come il trasporto aereo e ferroviario, possono a volte risultare sostituibili, ad esempio nel tragitto Roma-Milano. Per contro prodotti merceologicamente simili, quali le auto di piccola, media e grossa cilindrata, ragionevolmente soddisfano bisogni diversi, non sono considerati sostituibili dai consumatori, e non formano un unico mercato rilevante. Le autorità europee tendenzialmente verificano dunque la sostituibilità in relazione alla domanda dei consumatori 12. Appartengono quindi allo stesso mercato rilevante i prodotti o servizi che i consumatori sono disponibili ad acquistare per fare fronte ad un incremento (ancorché modesto) del prezzo di alcuni di essi (così nell’esempio delle aranciate 9 Cfr. CG 19-5-1993, Corbeau, Racc, 1993, I-2533, punti 14 ss.; CG 17-5-2001, TNT Traco, Racc, 2001, I-2533, punti 51 ss. 10 Per una proposta di correzione ai criteri tradizionali cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 87 ss., secondo cui la ricostruzione del mercato rilevante deve partire dall’analisi della fattispecie di comportamento imprenditoriale, per definire le categorie degli atti di scambio da essa influenzati. 11 Cfr. la comunicazione della Commissione, Definizione del mercato rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario in materia di concorrenza, in GUCE 9-12-1997, C 372/15, punto 8. 12 Sui relativi problemi cfr. GHEZZI-OLIVIERI.

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e delle cole l’unicità del mercato rilevante va affermata qualora risulti che un incremento del prezzo delle cole determina uno spostamento della domanda dei consumatori verso le aranciate) 13. Le autorità europee sono invece caute nel valorizzare la sostituibilità sul versante dell’offerta: e cioè la capacità delle imprese di iniziare nuove attività produttive. Così ad esempio l’ipotetico ingresso di un produttore di auto di grossa cilindrata sul mercato delle utilitarie difficilmente potrebbe essere valorizzato per negare effetti restrittivi di un’intesa fra produttori che attualmente operino nel segmento delle piccole cilindrate.

V. Le pratiche restrittive della concorrenza. Le intese: nozione Già si è visto che la disciplina antitrust europea e nazionale prevede tre fondamentali tipologie di pratiche restrittive della concorrenza: e precisamente le intese, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione. La disciplina in materia di intese è contenuta nell’art. 101 TFUE, e nei corrispondenti artt. 2 e 4 l.at. Il divieto di intese vuole in via generale impedire pratiche di concertazione dei comportamenti. Il parallelismo di comportamenti è infatti antitetico all’adozione di strategie individuali di abbassamento dei prezzi o incremento delle qualità dei prodotti o servizi dirette a sottrarre ai concorrenti quote di mercato. L’intesa rappresenta perciò in ultima analisi un esercizio di potere di mercato in forma congiunta da parte delle imprese aderenti all’accordo, nel loro interesse ed in danno dei consumatori. Il divieto di intese colpisce gli “accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate […] che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza” (così testualmente l’art. 101 TFUE). Il divieto ricomprende perciò tutte le forme di concertazione, indipendentemente dal loro carattere giuridicamente vincolante. Oltre ai veri e propri contratti, rientrano dunque nel divieto le decisioni di associazioni di imprese 14, quali consorzi e organizzazioni rappresentative di interessi di categoria (ivi compresi gli ordini professionali); nonché le pratiche concordate, costituite da accordi privi di valore contrattuale (cc.dd. gentlemen’s agreements), ma di fatto osservati spontaneamente 15. La nozione di pratica concordata ricomprende altresì gli scambi di informazioni 16 in ordine alle rispettive strategie imprenditoriali (ad es. politiche di prezzi e sconti), che fisiologicamente presuppongono l’intenzione di evitare “guerre commerciali” per l’incremento di quote di fatturato. Non costituiscono invece intese i comportamenti paralleli riconducibili a valutazioni di convenienza operate autonomamente da ciascuna singola impresa, indipendentemente da 13

Cfr. Definizione del mercato rilevante, cit., punti 15 ss. Nel qual caso è da ritenere che qualsiasi decisione, anche non giuridicamente vincolante, ma idonea a favorire un parallelismo di comportamenti, ricada nel divieto, cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 124. 15 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 116 ss., anche per ulteriori specificazioni di tipologie di intese; GHEZZI-OLIVIERI. 16 Cfr. CG 16-12-1975, Suiker Unie, Racc, 1975, 1663, punti 174 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 119 s., 216 ss.; GHEZZI-OLIVIERI. 14

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scambi di informazioni (c.d. parallelismo consapevole) 17. Il fenomeno è frequente soprattutto sui mercati oligopolistici, dove le imprese hanno spesso analoghe strutture di costi ed offerta, e non trovano conveniente impegnarsi in “guerre commerciali”, da cui difficilmente potrebbero uscire vittoriose. È innegabile che dal punto di vista dei consumatori questa situazione determina pregiudizi non dissimili da quelli derivanti da vere e proprie intese restrittive della concorrenza. Il diritto antitrust deve tuttavia limitarsi a vietare distorsioni alla concorrenza, mentre non può interferire con l’autonomia decisionale del singolo imprenditore in ordine alla qualità, quantità e prezzi della propria offerta. In tali casi è al più immaginabile che il parallelismo consapevole determini una posizione dominante collettiva, con conseguente applicabilità della norma in materia di abusi (infra, VIII).

L’intervento antitrust nei confronti delle intese presuppone infine che il pregiudizio alla concorrenza si manifesti in misura sensibile. La Commissione ha al riguardo emanato una comunicazione sugli accordi di importanza minore (c.d. comunicazione de minimis), secondo cui accordi relativi a quote di mercato inferiori al 10% 18 tendenzialmente non risultano pregiudizievoli per la concorrenza (se dunque l’intesa è realizzata tra imprese che complessivamente detengono una quota nel mercato rilevante inferiore a questa soglia, la fattispecie non produce sensibili effetti restrittivi e non viene sanzionata), a meno che non facciano parte di una rete parallela di accordi dotati cumulativamente di effetti restrittivi 19. In quest’ultimo caso anche quote superiori al 5% possono contribuire all’effetto preclusivo: si pensi a diversi produttori concorrenti che parallelamente concludano contratti di distribuzione esclusiva con rivenditori (impegnati a non rivendere prodotti di terzi), ostacolando così l’accesso al mercato di nuovi fabbricanti. Il divieto di intese restrittive della concorrenza si applica non solo agli accordi fra imprese operanti allo stesso livello economico (cc.dd. intese orizzontali), ma anche a quelli fra imprese operanti a diversi livelli economici della catena di produzione e distribuzione (ad es. fra un venditore ed i suoi distributori, cc.dd. intese verticali) 20. L’estensione del divieto alle intese che abbiano per oggetto “o per effetto” di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza (art. 101 TFUE e art. 2 l.at.) sembra inoltre consentire l’applicazione del diritto antitrust non solo alle pattuizioni che direttamente limitino le scelte imprenditoriali, ma anche a quelle che producano effetti limitativi indirettamente ed in via di fatto: e ad es. ad obblighi di acquisto di quantitativi minimi di forniture, che pregiudichino la possibilità di rifornirsi da terzi concorrenti 21.

17

Cfr. RICOLFI, Antitrust, 578 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 118 s.; GHEZZI-OLIVIERI; 18 La soglia è elevata al 15% quando gli accordi sono conclusi fra imprese non concorrenti: si pensi ad un accordo di licenza di brevetto concluso fra un’impresa che svolge attività di sola ricerca (senza produrre industrialmente i relativi risultati) ed un licenziatario produttore. 19 Cfr. la comunicazione della Commissione, Accordi di importanza minore che non determinano restrizioni sensibili alla concorrenza, in GUCE 22-12-2001, C 368/13; ed in dottrina LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 134 ss.; GHEZZI-OLIVIERI. 20 Cfr. CG 13-7-1966, Grundig, RDInd, 1966, II, 239. 21 Il tema del significato della distinzione fra restrizioni per “oggetto” e per “effetto” è peraltro particolarmente dibattuto; cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 126 ss.

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VI. Le tipologie di intese vietate Gli artt. 101 TFUE e 2 l.at. contengono una elencazione delle tipologie di intese vietate, che ha tuttavia carattere esemplificativo, e lascia quindi all’interprete la libertà di identificare ulteriori fattispecie. L’esame dell’elenco è comunque utile per individuare le ipotesi statisticamente più frequenti di violazioni. Sono in particolare vietate: a) le intese consistenti nel “fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione” (art. 101.1, lett. a, TFUE, e v. il corrispondente art. 2, co. 2, lett. a, l.at.); b) le intese dirette a “limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti” (art. 101.1, lett. b, TFUE, e v. il corrispondente art. 2, co. 2, lett. b, l.at.); l’ipotesi tipica è qui quella di un’intesa che vieta alle parti di vendere prodotti in quantità superiore ad un limite massimo; c) le intese dirette a “ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento” (art. 101.1, lett. b, TFUE, e v. il corrispondente art. 2, co. 2, lett. c, l.at.); l’ipotesi può riguardare ad es. un’intesa che imponga ai partecipanti la vendita sui rispettivi mercati nazionali impedendo le esportazioni verso l’estero; d) le intese dirette ad “applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza” (art. 101.1, lett. d, TFUE, e v. il corrispondente art. 2, co. 2, lett. d, l.at.); l’ipotesi può ricorrere ad es. in un accordo fra un produttore e i suoi grossisti distributori che consenta di praticare sconti ai soli dettaglianti i quali ad un tempo si impegnino a non rivendere prodotti concorrenti a quello scontato; e) le intese dirette a “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con i contratti stessi” (art. 101.1, lett. e, TFUE, e v. il corrispondente art. 2, co. 2, lett. e, l.at.); l’ipotesi può ricorrere ad es. in un accordo fra un produttore di computer e i suoi distributori che impegni questi ultimi a rivendere i computer solo unitamente ad un pacchetto software di videoscrittura.

VII. Le esenzioni al divieto di intese Alcune intese, pur restrittive della concorrenza, possono essere esentate dai divieti antitrust qualora risultino idonee a produrre effetti positivi di efficienza economica. Gli artt. 101.3 TFUE e 4 l.at. prevedono in particolare la possibilità di esentare dal divieto le intese che contribuiscono “a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico” 22. Le norme richiedono tuttavia che questi miglioramenti riservino “agli utilizzatori” (e perciò anzitutto

22 Per un’ampia esemplificazione cfr. GHEZZI-OLIVIERI; sul problema del rilievo dei miglioramenti sociali e ambientali cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 157.

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ai consumatori) 23 una congrua parte dell’utile che ne deriva” 24. Così ad es. un accordo di ricerca e sviluppo in comune può produrre effetti di efficienza in quanto idoneo a ripartire i relativi costi di investimento, ma può beneficiare dell’esenzione dal divieto antitrust solo se contemporaneamente comporta una diminuzione dei prezzi praticati ai consumatori (o un incremento della qualità dei prodotti). In questa prospettiva il diritto antitrust persegue anche una funzione redistributiva: non si preoccupa cioè soltanto di massimizzare la ricchezza, ma presta attenzione al modo in cui il beneficio viene suddiviso fra produttori e consumatori. Le analisi più sofisticate del diritto antitrust hanno ulteriormente precisato che un problema redistributivo si pone anche nei rapporti interni fra consumatori: i quali sono dotati di preferenze diverse, e possono subire in misura diversa gli effetti di comportamenti restrittivi (ad es., e tipicamente, è possibile che i consumatori più ricchi siano avvantaggiati da comportamenti restrittivi che innalzano i prezzi e al contempo rendono possibile commercializzare nuovi e più avanzati prodotti, ai quali non hanno invece accesso i consumatori più poveri). In questo caso le autorità chiamate ad applicare il diritto antitrust inevitabilmente finiscono per operare scelte di tipo “politico” (e cioè di risoluzione del conflitto di differenti interessi facenti capo a differenti gruppi di soggetti) 25.

Il miglioramento della produzione e il beneficio per gli utilizzatori sono spesso definite come condizioni positive di esenzione. Ad esse si aggiungono due condizioni negative. L’intesa da un lato deve evitare restrizioni “che non siano indispensabili” al miglioramento della produzione (art. 101.3, lett. a, TFUE e art. 4, co. 1, l.at.). Così ad es. un accordo di ricerca e sviluppo in comune può produrre effetti positivi evitando duplicazioni dei relativi costi, ma non legittima restrizioni alla libertà di determinare i prezzi di vendita dei prodotti derivanti dalle attività comuni 26. D’altro canto l’intesa non deve dare alle imprese partecipanti “la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti” (art. 101.3, lett. b, TFUE e art. 4, co. 1, l.at.). Occorre quindi che le imprese partecipanti all’accordo non coprano quote di mercato talmente elevate da rendere inefficace la pressione concorrenziale esercitata da imprese terze 27. L’accertamento delle condizioni di esenzione segue meccanismi diversi nel diritto antitrust europeo e rispettivamente nazionale. Nel diritto antitrust europeo l’esenzione opera ora secondo un meccanismo di eccezione legale, nel quale qualsiasi organo amministrativo o giurisdizionale chiamato ad applicare la disciplina della concorrenza deve accertare in

23

O eventualmente anche agli imprenditori acquirenti di prodotti intermedi, cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 158; GHEZZI-OLIVIERI. 24 I benefici per i consumatori possono derivare anche dalla capacità del comportamento di contribuire al progresso tecnico; cfr. TOFFOLETTI, Progresso tecnico e bilanciamento di interessi nell’applicazione dei divieti antitrust, Milano, 2009, 65 ss. 25 DENOZZA, Pratiche anticoncorrenziali, 51 ss. In questa prospettiva discussa è fra l’altro la possibilità che i benefici possano andare a vantaggio di consumatori diversi da quelli pregiudicati dalla restrizione; in senso positivo cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 159. 26 L’esenzione non è inoltre invocabile quando le stesse efficienze potrebbero essere realizzate attraverso strumenti alternativi realistici, cfr. GHEZZI-OLIVIERI. 27 Cfr. GHEZZI-OLIVIERI.

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primo luogo il carattere restrittivo dell’intesa, per poi ulteriormente verificare la presenza dei requisiti di esenzione (art. 1.2 reg. 1/2003) 28. Nei procedimenti amministrativi antitrust (public enforcement) il potere di accertamento dei presupposti dell’eccezione legale spetta dunque alla Commissione o alle autorità nazionali garanti della concorrenza (v. supra, II). Nei procedimenti giudiziali (private enforcement) il potere spetta invece ai giudici dei paesi membri. Il sistema europeo consente peraltro alla Commissione non solo di riconoscere l’esenzione sulla base di una valutazione ex post degli effetti prodotti da ciascuna intesa (c.d. esenzione individuale); ma anche di individuare in via generale e preventiva categorie di intese che appaiono strutturalmente idonee a perseguire obiettivi di efficienza, nel rispetto di tutte le condizioni dell’art. 101.3 TFUE (c.d. esenzione generale o per categoria) 29. Il potere di esentare in via generale categorie di intese è esercitato in via esclusiva dalla Commissione (non dunque dalle autorità e dai giudici nazionali) attraverso regolamenti, nelle materie previamente individuate dal Consiglio (art. 29 reg. 1/2003). Il meccanismo di esenzione è invece profondamente diverso nel diritto antitrust italiano (art. 4 l.at.), che segue le regole in vigore nell’Unione europea anteriormente all’approvazione del reg. 1/2003. Questo meccanismo si ispira al principio (non di eccezione legale ma) di autorizzazione in deroga, per il quale l’esenzione è concessa soltanto dall’AGCM (mai dall’autorità giudiziaria), e sulla base di una comunicazione preventiva dell’intesa.

VIII. La posizione dominante La seconda fattispecie anticoncorrenziale disciplinata dall’ordinamento antitrust europeo e nazionale è costituita dallo “sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato” (così l’art. 102 TFUE, corrispondente all’art. 3 l.at.). Il divieto di abuso presuppone dunque la legittimità del conseguimento di posizioni dominanti, che l’ordinamento infatti accetta in quanto siano frutto di maggiore efficienza imprenditoriale, e più in generale in quanto il sistema antitrust non vuole attribuire agli organi di controllo della concorrenza il potere di determinare le dimensioni ottimali delle imprese. Così, ad es., Microsoft in un certo momento storico ha indiscutibilmente acquisito una posizione dominante sul mercato dei sistemi operativi di personal computer, per effetto delle proprie capacità strategiche di conquista di quote di fatturato sempre maggiori (fra l’altro a spese di un concorrente pur fortemente radicato quale IBM) grazie alla realizzazione di software compatibili con diversi modelli di computer e di uso relativamente semplice per gli utenti. La legittimità della formazione di questa posizione dominante non può essere messa in discussione. Ne sono invece stati sanzionati alcuni abusi (segnatamente, per il tentativo di estendere la posizione dominante a mercati contigui come quello dei software di navigazione, dei lettori multimediali e dei sistemi operativi installati su grandi server professionali, v. infra, IX). La ricostruzione della nozione di posizione dominante costituisce comunque la premessa logica necessaria per l’applicazione dei divieti di abuso. La posizione do28 29

Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 145 ss.; GHEZZI-OLIVIERI. Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 154 ss.; GHEZZI-OLIVIERI.

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minante consiste essenzialmente in un potere di mercato che consente al suo titolare di tenere comportamenti indipendenti: e cioè comportamenti (ad es., e tipicamente, aumenti di prezzi) che non espongono al rischio di perdita di fatturato a vantaggio dei concorrenti 30. Corrispondentemente, lo sfruttamento della posizione dominante si esprime attraverso comportamenti unilaterali delle imprese, indipendentemente da qualsiasi intesa. Il comportamento unilaterale può essere imputabile anche collettivamente a più imprese, quando si esprime attraverso condizioni di offerta uniformi praticate non a seguito di una concertazione, ma in base ad autonome e parallele valutazioni di convenienza economica (c.d. parallelismo consapevole) 31. Anche questa ipotesi è presa in considerazione dagli artt. 102 TFUE e 4 l.at., che vietano lo sfruttamento abusivo di posizione dominante “da parte di una o più imprese” (c.d. posizione dominante collettiva) 32. L’accertamento della presenza di una posizione dominante deve avvenire non sulla base di dati formali, ma considerando la situazione concorrenziale sostanziale. La possibilità di tenere comportamenti indipendenti deve essere verificata caso per caso attraverso indici sintomatici 33, fra i quali certamente la quota di mercato assume un rilievo importante, ma non decisivo. Le autorità europee procedono dall’idea che quote di mercato inferiori al 40% normalmente non determinano la presenza di una posizione dominante; e che viceversa quote superiori al 70% sono indice presuntivo di questa posizione 34. Occorrerà tuttavia contemporaneamente considerare le dimensioni dei concorrenti e la facilità di una loro espansione della produzione 35. Quote di mercato relativamente ridotte potranno determinare la presenza di una posizione dominante quando i concorrenti siano piccoli ed estremamente frammentati, perciò non in grado di aumentare tempestivamente la loro produzione per soddisfare la richiesta dei consumatori danneggiati da pratiche abusive. Viceversa quote di mercato anche consistenti potranno non determinare una posizione dominante nei mercati oligopolistici fortemente concentrati, caratterizzati da poche imprese con analoghe capacità produttive e finanziarie (così ad es. non ricorre una posizione dominante quando due imprese si suddividono il mercato con quote sostanzialmente paritarie).

IX. Gli abusi di posizione dominante Gli artt. 102 TFUE e 3 l.at. contengono una elencazione di ipotesi di sfruttamento abusivo di posizione dominante, in larga parte corrispondente a quella contenuta nella

30

Cfr. CG 13-2-1979, Hoffmann-La Roche, Racc, 1979, 461, punto 38; CG 14-2-1978, 26/76, United Brands, Racc, 1978, 207, punto 65; ed in dottrina LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 278 s. 31 Cfr. in argomento OSTI, Antitrust e oligopolio, Bologna, 1995, 23 ss. 32 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 296 ss.; GHEZZI-OLIVIERI. 33 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 280 ss. 34 Cfr. Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’articolo 82 del Trattato CE [ora 102 TFUE] al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti, in GUUE 24-2-2009, C 45/7, punto 14.2. 35 Cfr. GHEZZI-OLIVIERI.

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norma sulle intese. Si tratta ancora una volta di una elencazione di carattere esemplificativo, come dimostra l’espressione “in particolare” che la precede. Le ipotesi di abuso sono dunque immaginabili ogniqualvolta una o più imprese cerchino di sfruttare il loro potere di mercato per comprimere la libertà economica dei concorrenti e dei consumatori, e trarre profitto dalle conseguenti restrizioni. L’elencazione legislativa descrive tuttavia le ipotesi di abuso più frequenti e significative, ed offre perciò ancora una volta un utile schema di analisi. L’abuso può in particolare consistere: a) “nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque” (artt. 102, lett. a, TFUE e art. 3, lett. a, l.at.) 36; si pensi ad un’impresa titolare di un brevetto su un farmaco salva vita che pratichi prezzi assolutamente sproporzionati ai costi di ricerca, sviluppo e fabbricazione, magari diversificando questi prezzi per differenti paesi, cercando di sfruttare le maggiori capacità di spesa che hanno i consumatori o i sistemi sanitari di alcuni stati; b) nel “limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori” (artt. 102, lett. b, TFUE e 4 l.at.); rientrano nell’ipotesi in esame anche i comportamenti diretti a provocare l’uscita di imprese dal mercato, ad es. attraverso atti di boicottaggio 37; c) “nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza” (artt. 102, lett. c, TFUE e 4, lett. c, l.at.); l’ipotesi può ricorrere ad es. per gli sconti fedeltà, proporzionati al mancato acquisto di prodotti concorrenti; si pensi ad uno sconto applicato a chi acquisti un quantitativo di 100 pezzi, e contemporaneamente non si rifornisca dai produttori concorrenti; e viceversa non applicato a chi acquisti un quantitativo di 1000 pezzi, ma ad un tempo si rifornisca anche da produttori concorrenti 38; d) “nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi” (artt. 102, lett. d, TFUE e art. 4, lett. d, l.at.); l’ipotesi può ricorrere ad es. in caso di imposizione all’acquirente di un macchinario dell’obbligo di avvalersi esclusivamente dei servizi di riparazione e assistenza prestati dal fornitore. Il diritto antitrust europeo e nazionale non prevede espressamente meccanismi di esenzione al divieto di abusi di posizione dominante, analoghi a quelli testualmente disciplinati in materia di intese (supra, VII). Di fatto tuttavia le autorità di controllo della concorrenza tendono ad interpretare la nozione di abuso alla luce di considerazioni efficientiste. La Commissione ha anzi espressamente riconosciuto la possibilità per l’impresa in posizione dominante di dimostrare “che il suo comportamento produce efficienze considerevoli che compensano eventuali effetti anticoncorrenziali sui consumatori” 39. In questa pro36 Cfr. MELI, Lo sfruttamento abusivo di posizione dominante mediante imposizione di prezzi “non equi”, Milano, 1989, 91 ss. 37 Sui criteri di valutazione degli atti di boicottaggio in base al diritto antitrust cfr. MARCHETTI, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, cit., 115 ss. 38 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 323 s. 39 Cfr. Orientamenti sulle priorità della Commissione, cit., punto 28; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 306 s.; GHEZZI-OLIVIERI.

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spettiva l’applicazione della norma sugli abusi di posizione dominante avviene attraverso un bilanciamento degli effetti negativi di restrizione alla concorrenza e di quelli positivi di contributo al progresso tecnico ed economico, secondo criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli di accertamento dei presupposti di esenzione delle intese. Il problema del bilanciamento è particolarmente avvertito nel settore dell’innovazione tecnologica, dove le imprese titolari di diritti di brevetto o di diritti d’autore sul software tendono spesso a restringere l’utilizzazione di invenzioni o programmi per elaboratore, sostenendo che queste restrizioni sono giustificate da ragioni di efficienza. La questione è emersa ad es. in relazione ai tentativi di Microsoft di offrire congiuntamente diverse tipologie di programmi per elaboratore: ed in particolare di abbinare la vendita dei sistemi operativi di personal computer a quella di software ulteriori (sistemi operativi installati su grandi server, browser di navigazione, software di lettura multimediale) 40. Le tesi che negano la legittimità dell’abbinamento si fondano sulla c.d. teoria della leva 41. Frequentemente infatti il mercato “dominato” (ad es., dei software per sistemi operativi) presenta collegamenti con mercati contigui maggiormente aperti alla concorrenza (ad es., dei software di lettura multimediale). In tali casi l’imposizione dell’acquisto congiunto del prodotto dominato e di quello contiguo può costituire uno strumento (leva) per costringere i consumatori a rinunciare all’acquisto di prodotti contigui concorrenti, e per eliminare progressivamente la competizione sul mercato di questi ultimi prodotti. Le critiche alla teoria della leva si fondano su (discutibili) considerazioni di efficienza: a volte giustificano la restrizione adducendo il migliore funzionamento dei prodotti abbinati (ad ogni sistema operativo il software di navigazione pensato per lui), ed a volte richiamano l’esigenza di “premiare” la capacità di innovazione attraverso il riconoscimento di legittimi profitti di tipo monopolistico. La teoria della leva costituisce in ultima analisi la base della teoria delle infrastrutture essenziali (o essential facilities doctrine). La disciplina della concorrenza vuole in particolare evitare l’estensione della posizione dominante dalla gestione dell’infrastruttura al mercato dell’offerta dei servizi che utilizzano l’infrastruttura medesima (si pensi al gestore della rete ferroviaria che intenda proporsi quale unico offerente dei servizi di trasporto su treni). Il diritto antitrust impone perciò al titolare dell’infrastruttura di consentirne l’accesso ai concorrenti a condizioni eque (dunque pur sempre dietro un ragionevole corrispettivo) e non discriminatorie 42, quando questa infrastruttura risulti indispensabile all’offerta del servizio, e ad un tempo non riproducibile da terzi a costi economicamente sostenibili 43. Il principio sottostante alla teoria delle infrastrutture essenziali viene esteso ad alcuni contesti che pongono analoghi problemi: e ad es. al settore della proprietà intellettuale e industriale, qualora lo sfruttamento di diritti d’autore o di brevetto risulti necessario per offrire prodotti su mercati contigui 44. Così ad es. il titolare di diritti d’autore su un software (si

40

In argomento cfr. l’ampia decisione di Commissione, 24-3-2004, Microsoft, in ec.europa.eu/competition. Sulla quale cfr. DENOZZA, Antitrust, 97 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 183 ss. 42 In argomento cfr. MELI, Rifiuto di contrattare e tutela della concorrenza nel diritto antitrust comunitario, Torino, 2003, 71 ss.; OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, 179 ss.; RICOLFI, Antitrust, 752 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 333 ss. 43 Cfr. CG 26-11-1998, C-7/97, Oscar Bronner, Racc, 1998, I-7791. 44 I princìpi guida in materia si ritrovano in CG 6-4-1995, Magill, AIDA, 1995, 261. La questione è fortemente dibattuta: cfr. ad es. BERTANI, Proprietà intellettuale, antitrust e rifiuto di licenze, Milano, 2004, 129 ss.; DENOZZA, Il rifiuto di licenza come abuso: bilanciamento “ad hoc” o bilanciamento categorico?, in Studi in memoria di Frassi, Milano, 2010, 149 ss.; MELI, Rifiuto di contrattare, cit., 203 ss.; OSTI, Nuovi ob41

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pensi ad un sistema operativo) potrebbe essere obbligato a consentirne lo sfruttamento (dietro pagamento di un corrispettivo ragionevole) da parte dei terzi interessati a progettare programmi compatibili (si pensi ad un software applicativo destinato a computer gestiti da un determinato sistema operativo).

X. Le concentrazioni La terza fattispecie disciplinata dall’ordinamento antitrust europeo e nazionale è costituita dalle operazioni di concentrazione restrittive della concorrenza. La disciplina europea delle concentrazioni si ritrova non nelle norme del Trattato, ma in un apposito reg. 139/2004 del Consiglio 45. La disciplina nazionale si ritrova invece agli artt. 6-7 e 16 ss. l.at. Le concentrazioni rilevanti sul piano concorrenziale si realizzano attraverso qualsiasi operazione idonea a determinare una “modifica duratura del controllo” (art. 3 reg. 139/2004), per effetto della quale imprese precedentemente indipendenti vengono assoggettate ad un potere di direzione unitario 46. La nozione concorrenziale di “controllo” fa leva sulla “possibilità di esercitare un’influenza determinante sull’attività di impresa” (art. 3.2 reg. 139/2004) 47. Diversamente da quanto previsto dall’art. 2359 in materia di controllo societario, il controllo concorrenziale non richiede necessariamente la presenza di un’influenza dominante: può quindi costituire un’operazione di concentrazione anche l’acquisto di partecipazioni di minoranza sufficienti a impedire l’adozione di delibere da parte dei soci di maggioranza 48. Diversamente inoltre da quanto previsto dall’art. 2497, il controllo concorrenziale nemmeno richiede l’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento, e può perciò ricorrere anche quando la società controllante lascia completa autonomia decisionale agli amministratori della società controllata. Costituiscono operazioni di concentrazione anche le fattispecie di costituzione di un controllo congiunto (artt. 3.2 reg. 139/2004 e 7 l.at.), e così pure di passaggio da situazioni di controllo congiunto a controllo solitario 49. Tutte queste ipotesi determinano infatti nuove possibilità di coordinamento della gestione di organizzazioni produttive, riduzioni dell’autonomia dei centri di decisione imprenditoriale, e conseguenti rischi di diminuzione della concorrenza.

Sul piano concorrenziale non rileva invece la tecnica giuridica utilizzata per modificare il controllo delle organizzazioni produttive. Le operazioni di concentrazione possono in particolare realizzarsi attraverso fusioni societarie, acquisti di partecipazioni (di controllo o eventualmente anche di minoranza, purché idonee ad influenzare le decisioni della società), trasferimenti di aziende o relativi rami (artt. 3.1 reg. blighi a contrarre, 206 ss.; RICOLFI, Diritto d’autore ed abuso di posizione dominante, RDInd, 2001, I, 149; SARTI, Proprietà intellettuale, interessi protetti e diritto antitrust, RDInd, 2002, 543; GHEZZI-OLIVIERI. 45 Pubblicato in GUUE 29-1-2004, L 24/1. 46 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 346 ss. 47 In argomento cfr. NOTARI, La nozione di “controllo” nella disciplina antitrust, Milano, 1996, 55 ss. 48 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 350. 49 LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 352.

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139/2004 e 5 l.at.) 50. La disciplina di tutte queste operazioni risulta dunque la medesima sul piano antitrust. Più delicato è il problema del trattamento delle imprese comuni (si pensi all’ipotesi tipica di costituzione di una società partecipata paritariamente al 50% da due altre società, cd. società madri), che costituiscono una fattispecie intermedia fra concentrazioni e intese. A livello europeo è stata elaborata la distinzione fra imprese comuni concentrative e rispettivamente cooperative 51. Le imprese comuni concentrative sono costituite per esercitare tutte “le funzioni di una entità economica autonoma” (art. 3.4 reg. 139/2004, si pensi ad un’impresa comune cui vengano conferiti rami d’azienda relativi ad uno specifico autonomo settore di attività che le imprese madri cessano di esercitare), e sono assoggettate alle norme sul procedimento di autorizzazione delle concentrazioni (v. infra). La valutazione sostanziale della legittimità dell’operazione avviene tuttavia in base alla disciplina delle intese quando l’impresa comune ha per oggetto o per effetto il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti (art. 2.4 reg. 139/2004, si pensi ad un’impresa di distribuzione costituita fra due produttori, che può così coordinare la relativa politica di prezzi). In questi casi dunque l’operazione dovrà essere notificata alla Commissione e potrà da questa essere vietata se ed in quanto superi le soglie di fatturato previste dal reg. 139/2004 (v. infra). La Commissione potrà tuttavia vietare l’operazione non solo e non tanto quando essa ostacoli “in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato” (secondo il criterio valido in via generale al di fuori della costituzione di imprese comuni, v. infra); ma potrà vietarla ogniqualvolta riscontri la presenza degli effetti restrittivi previsti dall’art. 101 TFUE. Così, ad es., un’impresa comune concentrativa che copra il 20% del mercato (magari in presenza di un concorrente di dimensioni maggiori) difficilmente potrebbe ostacolare in modo significativo la concorrenza dei terzi; ma ugualmente potrebbe determinare effetti di coordinamento di imprese indipendenti vietati dalla disciplina delle intese, e perciò anche dalla disciplina delle imprese comuni concentrative. Le imprese comuni cooperative non esercitano invece le funzioni di una entità economica autonoma (si pensi a un consorzio di acquisto di merci che operi in esecuzione di mandati dei consorziati, e non adotti quindi alcuna decisione in proprio). Esse ricadono nella disciplina delle intese, non solo sotto il profilo della valutazione sostanziale della legittimità dell’operazione, ma più in generale perché sfuggono all’applicazione del procedimento del reg. 139/2004. In questa prospettiva le imprese comuni cooperative (diversamente dalle imprese comuni concentrative che coordinino il comportamento di imprese indipendenti) possono essere colpite dal divieto dell’art. 101 TFUE quand’anche non superino le soglie di fatturato previste dal reg. 139/2004 (v. infra). Il legislatore italiano assume poi al riguardo un atteggiamento ancora più restrittivo, in quanto sembra volere assoggettare alla disciplina delle intese tutte le imprese comuni che abbiano come “oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti”, quand’anche esercitino le funzioni di una entità economica autonoma (art. 5, co. 3, l.at.). Per il legislatore italiano quindi le imprese comuni pur concentrative che coordinino l’azione delle imprese madri possono ricadere nel divieto delle intese, quand’anche non superino le soglie di fatturato previste in via generale per le normali tipologie di concentrazioni.

50

Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 354 ss.; GHEZZI-OLIVIERI. Cfr. GHEZZI, Le imprese comuni nel diritto della concorrenza, Milano, 1996, 173 ss.; NOTARI, La nozione di controllo, cit., 119 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 360 s.; GHEZZI-OLIVIERI. 51

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A differenza delle intese, le operazioni di concentrazione dovrebbero perseguire obiettivi di razionalizzazione produttiva e diminuzione dei costi. Gli obiettivi di efficienza sottostanti alle concentrazioni giustificano la scelta del legislatore antitrust di intervenire non a fronte di qualsiasi operazione astrattamente idonea a restringere la concorrenza (come avviene invece in materia di intese), ma solo quando il fatturato delle imprese coinvolte supera alcuni “valori critici”. Le soglie di fatturato che determinano l’intervento delle autorità antitrust sono fissate a diversi livelli dall’ordinamento europeo e dal legislatore nazionale. Il superamento dei livelli fissati dal legislatore europeo determina l’applicazione del reg. 139/2004, e reciprocamente esclude l’applicazione della normativa italiana (cd. concentrazioni di dimensione europea). Il superamento delle soglie fissate dal legislatore nazionale determina l’applicazione della legge italiana, se ed in quanto i limiti di fatturato restino al di sotto di quelli fissati dal reg. 139/2004 (cd. concentrazioni di dimensione nazionale). Al di sotto delle soglie di rilevanza fissate dal legislatore nazionale, l’operazione sfugge al controllo delle autorità antitrust. Le operazioni che rientrano nelle soglie di rilevanza del diritto europeo o nazionale devono essere oggetto di una notificazione preventiva alla Commissione (per le operazioni di dimensione europea, art. 4 reg. 139/2004) o all’AGCM (per le operazioni di dimensione nazionale, art. 16 l.at.) 52. L’obbligo di notifica consente di prevenire la realizzazione di operazioni restrittive della concorrenza, difficilmente eliminabili ex post (v. anche infra). L’inosservanza di questo obbligo costituisce di per sé un illecito, sanzionato indipendentemente dalla ulteriore valutazione degli eventuali effetti anticoncorrenziali dell’operazione (artt. 14.2, lett. a, reg. 139/2004 e 19, co. 2, l.at.). Il procedimento avviato dalla notifica si conclude con una decisione della Commissione o dell’AGCM che verifica la compatibilità dell’operazione con la disciplina della concorrenza. I criteri di valutazione sono leggermente diversi nel sistema europeo ed in quello italiano. Nel sistema europeo la Commissione valuta se l’operazione ostacola “in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante” (art. 2.2 reg. 139/2004). Nell’ordinamento nazionale l’AGCM valuta se l’operazione comporti “la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale o durevole la concorrenza” (art. 6 l.at.). Il divieto europeo sembra dunque più ampio, in quanto potrebbe estendersi ad operazioni che, pur non rafforzando o costituendo una vera e propria posizione dominante, determinano una significativa contrazione del numero di imprese indipendenti, e con essa una maggiore probabilità di coordinamento dei comportamenti 53. Il divieto di formazione (o rafforzamento) di posizioni dominanti si spiega qui verosimilmente in quanto la concentrazione presuppone un interesse ad acquistare il controllo di organizzazioni imprenditoriali in grado di operare efficientemente sul mercato, e che a seguito dell’operazione perdono la loro autonomia e la loro capacità di competere con l’impresa che le ha acquisite. Fuori delle ipotesi di concentrazione, l’acquisto di posizioni do52 53

Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 437 s. Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 374; GHEZZI-OLIVIERI.

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SARTI – La disciplina antitrust

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minanti riflette invece la minore efficienza dei concorrenti, così che l’ordinamento antitrust non ha ragione di intervenire. Proprio le ragioni di efficienza sottostanti alle concentrazioni hanno del resto determinato una applicazione estremamente cauta del divieto di operazioni restrittive della concorrenza. Da un lato infatti il regolamento europeo impone di applicare questo divieto tenendo conto “degli interessi dei consumatori intermedi e finali nonché dell’evoluzione del progresso tecnico ed economico purché essa sia a vantaggio del consumatore e non costituisca impedimento alla concorrenza” (art. 2.2, lett. b, reg. 139/2004). Pur in mancanza di una vera e propria eccezione legale al divieto, secondo lo schema dell’art. 101.3 TFUE (supra, VII), il regolamento impone dunque di ponderare gli svantaggi derivanti da restrizioni della concorrenza con i benefici per il progresso tecnico ed economico, nei limiti in cui essi presumibilmente avvantaggino non soltanto le imprese concentrate, ma anche i consumatori (si pensi ad una concentrazione idonea a razionalizzare la struttura imprenditoriale riducendo i costi di produzione, che potrebbe essere autorizzata quando appaia presumibile una corrispondente riduzione dei prezzi praticati al pubblico) 54. Le parti di una concentrazione dichiarata incompatibile con la concorrenza non possono dare esecuzione all’operazione. Qualora l’operazione sia già stata eseguita, la Commissione può “ordinare alle imprese interessate di dissolvere la concentrazione” (art. 8.4, reg. 139/2004), e analogamente l’AGCM “può prescrivere le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva”, fra l’altro ordinando a sua volta misure di deconcentrazione. La Commissione e l’AGCM sembrano comunque orientate a considerare il divieto quale misura estrema applicabile solo in assenza di strumenti diversi idonei a favorire la realizzazione di efficienze a vantaggio dei consumatori 55, e ciò anche qualora l’operazione possa di per sé ostacolare una concorrenza effettiva. La Commissione in particolare valorizza ampiamente gli artt. 6.2 e 8.2 reg. 139/2004, che consentono alle imprese di assumere “impegni” (detti anche rimedi o misure correttive) idonei ad eliminare gli effetti restrittivi della concorrenza. In questo caso la decisione favorevole all’operazione può essere subordinata “a condizioni e obblighi destinati a garantire che le imprese interessate adempiano gli impegni assunti nei confronti della Commissione per rendere la concentrazione compatibile” con la concorrenza (c.d. autorizzazione condizionata) 56. Analoghi poteri sono esercitati dall’AGCM in base all’art. 6.2 l.at., che consente di autorizzare un’operazione “prescrivendo le misure necessarie ad impedire” conseguenze restrittive della concorrenza. Le tipologie di impegni più frequentemente riscontrabili nella pratica sono costituite da obblighi di cessione di rami d’azienda. Sono tuttavia concepibili anche impegni relativi a relazioni contrattuali, e ad es. a non intrattenere rapporti di esclusiva con distributori, o a non acquisire licenze esclusive di sfruttamento di diritti su beni immateriali 57.

54

Cfr. GHEZZI-OLIVIERI. Per una rara ipotesi di applicazione del divieto cfr. Comm. 3-7-2001, Comp/M.2220, General Electric, in GUUE 18-2-2004, L 48/1. 56 Sui criteri di applicazione delle misure correttive cfr. la Comunicazione della Commissione concernente le misure correttive adeguate a norma del regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio e del regolamento (CE) n. 802/2004 della Commissione, in GUUE, 22-10-2008, C 267/1 e in dottrina GHEZZI-OLIVIERI. 57 Cfr. Comunicazione della Commissione concernente le misure correttive considerate adeguate a norma del regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio e del regolamento (CE) n. 802/2004 della Commissione, in GUUE 22-10-2008, C-267/1; e per una interessante applicazione (nella concentrazione che ha dato origine all’impresa televisiva SKY) v. Comm. 2-4-2003, Comp/M.276, Newscorp, in GUUE 16-4-2004, L 110/73, in particolare al punto 225. 55

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SEZ. IV – L’impresa nel mercato

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XI. Profili procedimentali e sanzionatori Già si è visto che l’accertamento delle violazioni del diritto antitrust e l’applicazione delle relative sanzioni può avvenire parallelamente in via amministrativa (public enforcement) e giurisdizionale (private enforcement). Il procedimento amministrativo si svolge davanti alla Commissione o all’AGCM, che cumulano i loro poteri di decisione e sanzione a quelli di acquisizione di materiale probatorio, secondo un metodo sostanzialmente inquisitorio. L’acquisizione di prove può avvenire tendenzialmente con qualsiasi mezzo: e perciò tramite assunzione di informazioni testimoniali (art. 19 reg. 1/2003; art. 11 reg. 139/2004; art. 14.2 l.at.), accertamenti ispettivi (che in materia di intese e abusi possono estendersi al domicilio privato dei soggetti coinvolti nell’illecito, art. 21 reg. 1/2003) e conseguente raccolta di documentazione (art. 20 reg. 1/2003; art. 13 reg. 139/2004; art. 14.2 l.at.) 58. La Commissione può delegare l’esercizio dei propri poteri di accertamento e ispezione ai funzionari delle Autorità garanti degli stati membri (art. 22 reg. 1/2003; art. 12 reg. 139/2004), che possono a loro volta richiedere l’assistenza della forza pubblica (in particolare, in Italia, della Guardia di finanza in base all’art. 54, co. 2, l. 52/1996).

La Commissione e l’AGCM esercitano i loro poteri sanzionatori attraverso l’applicazione di pene pecuniarie (ammende) 59, che nel sistema europeo sono previste non solo a fronte della violazione della disciplina antitrust, ma anche a fronte di tentativi di ostacolare l’attività istruttoria di acquisizione di prove (ad es., attraverso la presentazione di informazioni inesatte, art. 23 reg. 1/2003; art. 14 reg. 139/2004; artt. 15 e 19 l.at.). Commissione e AGCM dispongono inoltre di poteri inibitori in ordine alla continuazione dell’illecito (art. 7, reg. 1/2003; art. 15 l.at.), nonché di ripristino della concorrenza (art. 7 reg. 1/2003 e art. 8.4 reg. 139/2004) 60. In alternativa le autorità di controllo della concorrenza possono accettare gli impegni proposti dalle imprese ed idonei ad eliminare gli effetti restrittivi del comportamento (art. 9 reg. 1/2003; artt. 6.2 e 8.2 reg. 139/2004; art. 14-ter l.at.) 61. La coercibilità degli ordini inibitori e degli impegni assunti dalle imprese può essere garantita attraverso la fissazione di penalità di mora, che l’ordinamento europeo estende a fronte dei rifiuti di fornire informazioni o di sottoporsi ad accertamenti ispettivi (art. 24 reg. 1/2003; art. 15 reg. 139/2004; art. 15.2 l.at.). I provvedimenti inibitori possono anche essere anticipati in via cautelare, in presenza di un comportamento che risulti prima facie illegittimo ed in grado di danneggiare in modo grave e irreparabile la concorrenza (art. 8 reg. 1/2003 e art. 14-bis l.at.) 62. I provvedimenti della Commissione sono impugnabili davanti ai giudici dell’Unione 58 Per una articolata esposizione dei poteri della Commissione cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 402 ss. 59 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 418 ss. 60 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 408 ss. 61 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 412 ss. 62 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 395 ss.

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europea, e precisamente in primo grado avanti al Tribunale, ed in grado successivo avanti alla Corte di Giustizia. Il giudizio del Tribunale e della Corte dovrebbe essere un giudizio di legittimità, che non entra nel merito degli accertamenti e delle valutazioni della Commissione 63. Si estende al merito il controllo delle sanzioni e delle penalità di mora (art. 31 reg. 1/2003 e art. 16 reg. 139/2004). I provvedimenti dell’AGCM sono impugnabili davanti al Tar del Lazio ed in secondo grado davanti al Consiglio di stato, sempre per ragioni di legittimità (art. 33.1 l.at.).

Il procedimento giurisdizionale di applicazione del diritto antitrust si svolge davanti ai giudici dei paesi membri. Fra procedimento amministrativo e giurisdizionale non esiste alcun rapporto di “pregiudizialità”. Il procedimento giurisdizionale può essere dunque avviato indipendentemente dall’eventuale avvio di un procedimento amministrativo 64. Il reg. 1/2003 (art. 16.1) vieta tuttavia ai giudici nazionali di adottare decisioni in contrasto con quelle della Commissione 65. L’azione giudiziaria può anzitutto essere esercitata per ottenere l’accertamento della nullità delle intese restrittive della concorrenza (si pensi ad un distributore interessato a fare valere la nullità di un accordo di acquisto esclusivo concluso con un produttore, per potere liberamente rifornirsi da produttori concorrenti). Questa nullità è in particolare espressamente prevista dagli artt. 101.2 TFUE e 2, co. 3, l.at. L’azione giudiziaria può inoltre venire esercitata per chiedere il risarcimento del danno derivante da comportamenti anticoncorrenziali 66: si pensi ad es. al danno subito dai consumatori che hanno pagato prezzi elevati per effetto dall’attuazione di un’intesa illecita, o di un’imposizione abusiva di prezzi non equi. Sotto questo profilo la direttiva 2014/104/UE ha imposto agli stati membri di introdurre norme uniformemente applicabili alla violazione del diritto antitrust europeo e nazionale. La direttiva è stata attuata in Italia attraverso il d.lgs. 3/2017. La disciplina si ispira al principio secondo cui il risarcimento del danno può essere chiesto da qualsiasi danneggiato, anche indiretto (così, ad es., è possibile che un’intesa fra produttori abbia determinato un incremento del prezzo praticato dai distributori, nel qual caso è da ritenere che l’intesa danneggi indirettamente i consumatori, pur non avendo essi direttamente contratto con i produttori responsabili della violazione antitrust) 67. Il danno è ten63 I limiti del sindacato di legittimità in sede giurisdizionale sono per la verità discussi; cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 445 ss.; nonché GHEZZI-OLIVIERI, che rilevano la tendenza del giudice amministrativo a operare valutazioni anche sostanzialmente di merito. In relazione ai poteri dei giudici amministrativi nazionali (TAR e Consiglio di stato) il problema è reso ulteriormente complesso dall’entrata in vigore del d.lgs. 3/2017 (v. infra nel testo), per il quale “il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima”. 64 GHEZZI-OLIVIERI. 65 Cfr. LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 434 ss. 66 Cfr. CG 20-9-2001, Courage, FIt, 2002, IV, 75. In dottrina in generale cfr. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, 77 ss.; BENACCHIO-CARPAGNANO, L’azione di risarcimento del danno per violazione delle regole comunitarie sulla concorrenza, Trento, 2007, 19 ss.; LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 463 ss. 67 Cfr. CAMILLERI, Il trasferimento del sovrapprezzo anticoncorrenziale nella Direttiva 2014/104/UE, AIDA, 2015, 32 ss.

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denzialmente pari al sovrapprezzo praticato per effetto della restrizione: e dunque alla differenza fra prezzo pagato e prezzo ipotizzabile in caso di osservanza della disciplina della concorrenza (art. 10) 68. Pur in assenza di previsione espressa, è da ritenere esercitabile in via giudiziale anche l’azione inibitoria 69.

XII. Cenni alle regolamentazioni di settore La normativa antitrust va tenuta concettualmente distinta da altre discipline che in alcuni speciali settori introducono sistemi di regolamentazione della concorrenza. La regolamentazione caratterizza in particolare i settori in cui il legislatore non ritiene che la determinazione del livello dei prezzi, degli investimenti o delle dimensioni delle imprese possa essere lasciata alle libere decisioni degli operatori economici. Questa situazione può ricorrere ad es. (e tipicamente) in presenza di monopoli naturali (si pensi ai settori delle infrastrutture di servizi pubblici, come gas e acqua, ad alcuni segmenti delle reti di telecomunicazione e di trasporto di energia elettrica), che consentono all’imprenditore monopolista di fissare tariffe e qualità dei servizi in funzione del proprio esclusivo tornaconto personale, senza subire gli effetti della pressione concorrenziale di imprese meglio in grado di soddisfare la domanda dei consumatori 70. Può ricorrere inoltre quando la gestione orientata esclusivamente a criteri di massimizzazione del profitto contrasta con interessi generali di ordine superiore: come quello a garantire la fornitura di un servizio (c.d. servizio universale) anche ai clienti di zone “disagiate” (si pensi a isolate zone di montagna), raggiungibili a costi superiori ad un prezzo tollerabile per i consumatori; o come quello a garantire comunque un certo pluralismo dei mezzi di informazione, anche a costo di mantenere sul mercato imprese meno efficienti, che diversamente sarebbero espulse dalla competizione. In questi settori quindi il legislatore introduce frequentemente norme che prevedono meccanismi di determinazione autoritativa dei prezzi (comunemente denominati tariffe), obblighi di prestazione di servizio, controlli sulla politica di investimento, e talvolta limiti massimi di quote di mercato. Gli esempi più significativi di regolamentazione si ritrovano nella l. 481/1995, che contiene una disciplina generale relativa ai servizi di pubblica utilità, ed una disciplina specifica dei settori di energia elettrica e gas; nel d.lgs. 259/2003 di approvazione del codice delle comunicazioni elettroniche, che costituisce la base della regolamentazione nel settore delle reti di comunicazione (telefoniche, telematiche e televisive via cavo); nella l. 112/2004 di assetto del sistema radiotelevisivo, che costituisce la base per la regolamentazione del settore radiotelevisivo via etere; nel d.l. 201/2011 (convertito con l. 214/2011); che costituisce la base della regolamentazione nel settore dei trasporti. Nell’attuale contesto di favore per l’economia di mercato, da un lato lo stato tende a non prestare direttamente i servizi pubblici, ed a lasciarne la gestione a società di diritto

68

Con riferimento ai princìpi contenuti nella direttiva cfr. TODINO, Il danno risarcibile, AIDA, 2015,

16 ss. 69

Cfr. le critiche esposte ad alcune affermazioni giurisprudenziali apparentemente contrarie da LIconcorrenza dell’Unione europea, 493 s. 70 Sui problemi di giustificazione dei sistemi di regolamentazione cfr. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, 66 ss.

BERTINI, Diritto della

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privato, anche nei settori che determinano monopoli. Ad un tempo i poteri di regolamentazione vengono ora tendenzialmente esercitati non direttamente dal governo, ma da Autorità amministrative indipendenti che, sul modello dell’AGCM, “operano in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione” (art. 2, co. 5, l. 481/1995). Nel settore dell’energia opera in particolare l’Autorità per l’energia elettrica e il gas (art. 3 l. 481/1995); nel settore delle telecomunicazioni e televisivo opera l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (art. 1 l. 249/1997); nel settore dei trasporti opera l’Autorità di regolazione dei trasporti (art. 37 d.l. 201/2011). La disciplina di regolamentazione attribuisce a queste autorità, nei rispettivi settori, poteri di determinazione di livelli tariffari secondo criteri orientati ai costi e nel rispetto del principio di parità di trattamento (cfr. ad es. art. 2, co. 12, lett. c, e, f, l. 481/1995; artt. 50 e 59 d.lgs. 259/2003; art. 37, co. 2, lett. a e b, d.l. 201/2011); poteri di imposizione di obblighi di prestazione di servizio universale (cfr. ad es. 2, co. 12, lett. c e n, l. 481/1995; artt. 53 ss. d.lgs. 259/2003); poteri di verifica delle qualità del servizio e di controllo di efficienza (cfr. ad es. art. 2, co. 12, lett. g e h, l. 481/1995; art. 61 d.lgs. 259/2003; art. 37, co. 2, lett. d, d.l. 201/2011). Nel settore radiotelevisivo rilievo peculiare assume la norma che impedisce agli “operatori della comunicazione” (ivi compresi i soggetti operanti nel settore della stampa di giornali e periodici) di conseguire “ricavi superiori al 20 per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni” (art. 15, co. 2, l. 112/2004). La norma rappresenta una eccezione al principio generale secondo cui ciascun imprenditore può liberamente (almeno attraverso crescita interna) ampliare la propria quota di mercato fino al punto di eliminare qualsiasi concorrente. Il limite del 20 per cento si riferisce peraltro ad un mercato estremamente ampio (e certo molto più ampio rispetto al mercato rilevante in sede di applicazione della disciplina generale antitrust). Esso è infatti calcolato sull’insieme dei ricavi derivanti fra l’altro da abbonamenti, anche di quotidiani e periodici, da vendita di spazi pubblicitari e dal c.d. canone RAI. Resta evidentemente ferma l’applicabilità al mercato televisivo delle norme del diritto generale della concorrenza, che ricadono tuttavia nella competenza (non dell’Autorità delle comunicazioni ma) dell’AGCM, secondo i princìpi generali esposti supra. Un’impresa che pur non superi il 20 per cento dei ricavi del sistema integrato delle comunicazioni può certo essere in posizione dominante su un settore di mercato più ristretto, autonomamente rilevante per l’applicazione del diritto antitrust, come quello della televisione “in chiaro”, o rispettivamente quello della pay-tv. In questi casi può ad es. risultare abusivo il rifiuto di vendita di spazi pubblicitari da parte di un’impresa in posizione dominante sul mercato televisivo “in chiaro”.

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§ 13. I DIRITTI DI PROPRIETÀ INDUSTRIALE: PROFILI GENERALI SOMMARIO: I. La nozione di proprietà industriale. – II. Proprietà industriale e proprietà intellettuale. – III. Le azioni a difesa della proprietà industriale. – IV. Fonti e sistema.

LETTERATURA: ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960; DENOZZA, Licenze di brevetto e circolazione delle tecniche, Milano, 1979; DI CATALDO, Primo intervento: su questioni generali, in UBERTAZZI (a cura di), Il codice della proprietà industriale, Milano, 2004, 192 ss.; FLORIDIA, Il codice della proprietà industriale: disposizioni generali e principi fondamentali, DInd, 2005, 12 ss.; FRANCESCHELLI, Trattato di diritto industriale, II, Milano, 1960; GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2001; OPPO, Creazione ed esclusiva nel diritto industriale, RDComm, 1964, I, 187 ss.; SENA, Beni materiali, beni immateriali e prodotti industriali: il complesso intreccio delle diverse proprietà, RDInd, 2004 I, 55 ss.; SPADA, “Creazione ed esclusiva”, trent’anni dopo, RDCiv, 1997, I, 215 ss.; UBERTAZZI, Osservazioni preliminari sul codice della proprietà industriale, in UBERTAZZI (a cura di), Il codice della proprietà industriale, Milano, 2004, 3 ss.; VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, RDComm, 1961, I, 16 ss.

I. La nozione di proprietà industriale L’espressione “proprietà industriale” è utilizzata nel titolo del “Codice della proprietà industriale” (di qui l’acronimo c.p.i.), approvato con d.lgs. 30/2005. Il codice protegge un insieme apparentemente eterogeneo di fattori di produzione che non si concretizzano in beni materiali: di qui la frequente espressione “beni immateriali”. Una prima tipologia di “beni immateriali” è costituita dai cosiddetti segni distintivi dell’impresa. Si tratta, come si era accennato, di elementi percepibili attraverso i sensi (visivi, fonetici, ecc.), attraverso cui l’impresa rende riconoscibile nel mercato la propria attività. Qui la tutela si sovrappone in parte a quella derivante dal divieto di atti di concorrenza sleale confusoria (v. supra, § 11.I.4). Si caratterizza tuttavia per la presenza di una particolare disciplina dei marchi registrati e per una corrispondente protezione (di durata potenzialmente perpetua) notevolmente rafforzata rispetto a quella della concorrenza sleale (v. infra, § 16). Una seconda tipologia di “beni immateriali” è costituita dai risultati dell’attività di ricerca in campo tecnico-industriale. Il diritto sui risultati dell’innovazione tecnologica economicamente più importante è costituito dal brevetto d’invenzione (di durata ventennale), cui si affianca un brevetto su ritrovati “minori”, definiti come modelli di utilità (di durata decennale). A queste tipologie di brevetto si aggiunge un diritto fondato sulla registrazione di modelli e disegni industriali: con funzione di protezione dell’innovazione del design del prodotto, di durata considerevolmente lunga (venticinquennale). L’attrazione di queste protezioni all’interno di un’unica nozione di proprietà in-

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SARTI – I diritti di proprietà industriale: profili generali

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dustriale può apparire dubbia 1, data l’eterogeneità di fenomeni quali l’interesse ad evitare confusione sul mercato, e rispettivamente l’interesse alla remunerazione degli investimenti nell’innovazione tecnologica e di design 2. Vero è tuttavia che la tutela del marchio registrato non si limita più ad impedirne utilizzazioni confusorie, ma vieta qualsiasi sfruttamento della sua notorietà e intrinseca valenza pubblicitaria (v. infra, § 16.VIII.3): così da potere essere considerata a sua volta come una tutela degli investimenti nell’accreditamento del prodotto o servizio. Vero è inoltre che il contenuto dei diritti di proprietà industriale (fatta eccezione per i diritti sulle indicazioni geografiche, per le quali l’attrazione nella categoria proprietaria appare in effetti forzata, v. infra, § 16.XII.2) si incentra sul riconoscimento del potere del titolare di decidere le modalità di utilizzazione del bene immateriale protetto, eventualmente consentendone lo sfruttamento a terzi attraverso la conclusione di contratti di licenza. Ciò consente di creare un “mercato” dell’accreditamento commerciale del prodotto o del servizio, delle sue qualità tecnologiche e del suo design. Il sistema fa così dipendere la remunerazione dell’investimento (sia esso in accreditamento commerciale, sia esso in innovazione tecnologica e di design) dalla capacità di produrre risultati utilizzabili con profitto: secondo una visione dei rapporti economici comune a quella alla base del riconoscimento della proprietà privata dei mezzi materiali di produzione 3.

II. Proprietà industriale e proprietà intellettuale L’espressione proprietà industriale si affianca talvolta a quella di “proprietà intellettuale”, che può essere intesa in diversi significati. In senso restrittivo la proprietà intellettuale ricomprende risultati pur sempre immateriali, derivanti dal lavoro creativo nel settore delle arti, della musica, della letteratura e dello spettacolo. Questi risultati creativi vengono etichettati attraverso l’espressione “opere dell’ingegno”: e sono tipicamente protetti pur sempre attraverso il riconoscimento di diritti esclusivi di sfruttamento, di durata estremamente lunga (fino a settant’anni successivi alla morte del creatore), che ricadono nella disciplina dei “diritti d’autore” (l. 633/1941, comunemente legge d’autore e per brevità l.a.). La contrapposizione fra proprietà industriale e intellettuale tende peraltro a sfumare da quando il campo di applicazione del diritto d’autore si è esteso a proteggere creazioni a contenuto tecnologico (software e banche dati; cfr. art. 2, co.1, nn. 8-9, l.a.) o almeno parzialmente sovrapponibili ai

1 E la stessa assimilazione dei diritti di esclusiva ai diritti proprietari è stata anche vivacemente messa in discussione, in particolare da FRANCESCHELLI, Struttura monopolistica degli istituti del diritto industriale, RDInd, 1956, I, 137 ss. 2 V. però, nel senso di ricondurre anche il diritto sui segni distintivi ad un interesse alla tutela dei risultati del lavoro intellettuale creativo, che in questa prospettiva giustifica la ricostruzione di una categoria unitaria di diritti di proprietà intellettuale, ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 356 ss.; OPPO, Creazione ed esclusiva nel diritto industriale, 202 s. In senso contrario alla riconducibilità dei diritti di marchio alla categoria dei diritti proprietari cfr. VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, 52 ss. e più recentemente RICOLFI, Trattato dei marchi, 1050 ss. 3 Con riferimento alle invenzioni cfr. DENOZZA, Licenze di brevetto e circolazione delle tecniche, 82 ss.

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modelli o disegni (il design è attualmente proteggibile anche in base al diritto d’autore quando presenti valore artistico, art. art. 2, co. 1, n. 10, l.a.). L’espressione “proprietà intellettuale” viene perciò sempre più spesso utilizzata in un significato più ampio, e comprensivo di diritti d’autore, di marchio, di invenzione e modello. In questo ampio significato l’espressione è fra l’altro utilizzata nell’Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights - TRIPs (v. infra, IV). L’attrazione in un’unica qualificazione “proprietaria” può essere ricostruttivamente utile per etichettare l’esistenza di un “fondamento comune” ai diversi diritti: in particolare la funzione, propria anche del diritto d’autore, di assoggettare i beni immateriali alla regola generale di appartenenza privata dei mezzi di produzione.

III. Le azioni a difesa della proprietà industriale Un ulteriore aspetto del “diritto comune” dei beni immateriali, che li avvicina alla disciplina della proprietà tradizionale, è rappresentato dall’esistenza di “azioni a difesa della proprietà” incentrate sull’interesse del titolare a prevenire la continuazione dell’illecito, ed a rimuovere uno stato di fatto contrario a diritto. Così come il proprietario di cose materiali dispone non solo dell’azione risarcitoria (artt. 2043 ss.), ma altresì degli strumenti di tutela degli artt. 948 ss. c.c., il titolare dei beni immateriali dispone di strumenti di prevenzione quali “l’inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell’uso delle cose costituenti violazione del diritto” (art. 124, co. 1, c.p.i.); dispone altresì di strumenti di rimozione degli effetti del comportamento illecito, quali l’ordine di ritiro dal commercio (art. 124, co. 1, c.p.i.), o di distruzione (art. 124, co. 3, c.p.i.) dei beni realizzati in violazione del diritto, o la loro assegnazione in proprietà (art. 123, co. 4, c.p.i.). Esiste inoltre la possibilità per il giudice di “fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento” (art. 124, co. 2, c.p.i.). I provvedimenti inibitori e di rimozione non richiedono il dolo o la colpa del contraffattore. Il principio generale dell’art. 2043 porta invece comunemente ad affermare che dolo o colpa costituiscono presupposti per la sanzione del risarcimento del danno, previsto dall’art. 125 c.p.i. L’art. 125 c.p.i. prevede altresì la possibilità del titolare di pretendere “la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”. Significato e portata del rimedio della restituzione degli utili sono oggetto di ampio dibattito 4. Non è in particolare chiaro se il rimedio richieda (come il risarcimento del danno) dolo o colpa del contraffattore; e così pure sono discussi i criteri di valutazione del nesso di causalità fra arricchimento e illecito di contraffazione. Pare ad esempio eccessivo imma-

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Cfr. VANZETTI, La “restituzione degli utili di cui all’art. 125, n. 3, c.p.i. nel diritto dei marchi, DInd, 2006, 323 ss.; DI CATALDO, Compensazione e deterrenza nel risarcimento del danno da lesione di diritti di proprietà intellettuale, GComm, 2008, I, 198 ss.; SPOLIDORO, Il risarcimento del danno nel codice della proprietà industriale. Appunti sull’art. 125 c.p.i., RDInd, 2009, I, 149 ss.; GALLI, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, DInd, 2012, 109 ss.

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ginare che il contraffattore debba restituire l’intero utile ricavato dalla vendita di un intero complesso macchinario industriale che contenga solo un piccolo e modesto componente contraffatto (si pensi a una valvola), magari facilmente sostituibile con componenti alternativi. Così pure non semplice è il coordinamento fra la previsione dell’obbligo di restituzione dell’utile, contenuta nel co. 3 dell’art. 125, con il co. 1, per il quale “i benefici realizzati dall’autore della violazione” possono costituire voce di quantificazione del danno (che secondo i princìpi generali dovrebbe essere quantificato tenendo conto delle mancate vendite, di fatto difficili da provare).

IV. Fonti e sistema Il codice della proprietà industriale dedica gran parte delle proprie norme ai cc. dd. diritti titolati (art. 2, co. 1, c.p.i.) 5: così denominati perché protetti per effetto di una complessa fattispecie costitutiva, che si perfeziona a seguito di un procedimento amministrativo di registrazione (per i marchi e i modelli industriali) o brevettazione (per le invenzioni e i modelli di utilità) presso un pubblico ufficio denominato Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM). La disciplina dei diritti titolati è completata da poche norme contenute nel codice civile (artt. 2563 ss.; 2584 ss.) che assumono peraltro scarsa importanza. La disciplina codicistica assume invece maggiore rilievo per alcuni dei cc.dd. diritti di proprietà industriale “non titolati”, che il c.p.i. menziona (art. 2, co. 4, c.p.i.), ma non regola dettagliatamente. Vi rientrano in particolare i diritti su ditta, insegna e marchio non registrato, che sorgono direttamente per effetto dell’uso, indipendentemente da brevettazione o registrazione (v. infra, § 15), e la cui disciplina va ricostruita principalmente in base agli artt. 2563 ss. e al divieto di atti di concorrenza sleale dell’art. 2598, n. 1 (v. supra, § 11.I.4 e infra, § 15). Molte norme del codice della proprietà industriale dedicate ai diritti titolati derivano dall’armonizzazione imposta da convenzioni internazionali (fra cui si segnalano la Convenzione di Unione di Parigi – CUP e l’Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights – TRIPs), e da direttive UE (in materia di marchi di impresa l’impianto originario di protezione si ritrovava nella direttiva 89/104/CEE, poi consolidata e ricodificata nella dir. 2008/95/CE, ma ora sostituita dalla direttiva 2015/2436/UE, c.d. direttiva marchi). L’attenzione prestata alla materia a livello internazionale riflette l’espansione del commercio transfrontaliero e l’interesse delle imprese, nell’attuale contesto di mercato globalizzato, alla realizzazione di un sistema omogeneo di regole di circolazione dei beni nei diversi territori e ordinamenti nazionali. Nella stessa logica, si spiegano le forme di protezione sovranazionale di questi diritti. La registrazione e la brevettazione dei marchi e delle invenzioni può infatti avvenire anche presso appositi Uffici internazionali e europei, per estendere i propri effetti oltre i confini dei singoli paesi. In materia di marchi opera nella UE un apposito

5

L’elaborazione e concettualizzazione della categoria dei diritti titolati si deve in particolare a FLOIl codice della proprietà industriale: disposizioni generali e princìpi fondamentali, 13 s.

RIDIA,

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Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (frequentemente etichettato attraverso l’acronimo EUIPO della corrispondente espressione anglosassone), con sede ad Alicante, competente a concedere registrazioni con effetti unitari nel territorio di tutti i paesi aderenti all’Unione (v. infra, § 16.VII.3). L’Ufficio è stato istituito dal Regolamento sul marchio dell’Unione europea (RMUE), originariamente n. 40/94, ora ricodificato con il reg. n. 207/2009 e novellato dal reg. 2424/2015 (che ha fra l’altro sostituito l’espressione marchio dell’Unione europea a quella originaria di marchio comunitario). Le competenze dell’Ufficio sono estese ai modelli industriali del Regolamento sui disegni e modelli comunitari (RDMC), n. 6/2002. In materia di invenzioni la Convenzione sul Brevetto europeo (CBE) ha istituito una Organizzazione europea dei brevetti, ed al suo interno un Ufficio europeo dei brevetti (UEB), con sede a Monaco. A dispetto del nome, l’organizzazione istituita dalla CBE non fa parte dell’ordinamento UE, e ad essa aderiscono anche paesi terzi. L’UEB è competente a concedere un brevetto che si fraziona in brevetti nazionali autonomamente efficaci in ciascuno dei paesi aderenti alla convenzione (c.d. fascio di brevetti, v. amplius infra, § 17.I.4).

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§ 14. I SEGNI DISTINTIVI: PROFILI GENERALI SOMMARIO: I. La funzione distintiva. – 1. Il concetto di “distinzione”. – 2. Il problema della funzione distintiva giuridicamente protetta. – II. Presupposti e ambito di protezione dei segni distintivi. – 1. Capacità distintiva. – 2. Confondibilità. – 3. Usi potenziali e registrazione del segno.

LETTERATURA: ABRIANI, I segni distintivi, Tr. Cottino, II, 2001; AUTERI, voce Segni distintivi, EncGiur, XXVIII, 1991; FLORIDIA, Segni e confondibilità nel Codice della proprietà industriale, DInd, 2007, 13; OPPO, Creazione ed esclusiva nel diritto industriale, RDComm, 1964, I, 187; SARTI, voce Proprietà industriale (codice della), EncGiur, XV, 2007; SENA, Confondibilità e confusione. I diritti non titolati nel codice della proprietà industriale, RDInd, 2006, I, 17; VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, RDComm, 1961, I, 16; ID., Capacità distintiva e confondibilità: segni registrati e non registrati, DInd, 2007, 7.

Interesse fondamentale sottostante all’attività imprenditoriale è quello di ciascun operatore economico a rendersi visibile presso il pubblico, distinguendosi rispetto ai concorrenti attraverso segni di identificazione. L’ordinamento giuridico riconosce e tutela questo interesse attraverso una disciplina articolata, ora per larga parte ispirata, come si è detto, a fonti internazionali e europee. Questa disciplina è tradizionalmente ricondotta ad un sistema unitario di princìpi che prende il nome di “diritto dei segni distintivi”. Il diritto dei segni distintivi appare storicamente incentrato sul riconoscimento legislativo di una pluralità di strumenti utilizzati dagli imprenditori per presentarsi sul mercato. La classificazione di questi strumenti emerge dall’impianto sistematico del codice civile, che individua tre grandi tipologie di segni distintivi: e precisamente la ditta (artt. 2563 ss.), l’insegna (art. 2568) e il marchio (artt. 2568 ss.). La disciplina del codice civile relativa ai marchi si limita tuttavia a poche norme di principio. Essa è in realtà dettagliatamente contenuta negli artt. 7 ss. del codice della proprietà industriale (c.p.i.). In Italia sono inoltre protetti marchi registrati con effetto nell’intera Unione europea (marchi UE), disciplinati dal regolamento sul marchio dell’Unione europea (RMUE), approvato con reg. 207/2009 del Consiglio, ora in vigore nella versione novellata dal reg. 2424/2015. Secondo la tradizionale classificazione la ditta è il segno di identificazione dell’imprenditore nella propria attività d’affari, e perciò sostanzialmente il suo nome commerciale (secondo un’espressione comunemente utilizzata nelle fonti internazionali); l’insegna è il segno distintivo dei locali utilizzati dall’imprenditore per lo svolgimento della sua attività; il marchio è il segno distintivo del prodotto 1. 1 Sul criterio tradizionale di classificazione cfr. CAMPOBASSO; sulla nozione di ditta quale segno distintivo dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività cfr. ABRIANI, I segni distintivi, 130, AUTERI, voce Dit-

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Si tratta tuttavia di una classificazione per certi aspetti incompleta, per altri inesatta. L’incompletezza della classificazione deriva dal fatto che l’ordinamento giuridico riconosce e tutela ulteriori tipologie di segni distintivi, quali ad es. il titolo, la testata e la rubrica delle imprese editoriali (artt. 100 e 102 l. 633/1941, di cui tuttavia non ci occuperemo, data la loro settorialità), e, oggi, il nome a dominio (art. 12 e 22 c.p.i.). Alla ditta si affiancano poi ulteriori tipologie di nomi commerciali specifici delle imprese societarie, quali sono la ragione e la denominazione sociale (artt. 2292 e 2326), pure tutelati dall’ordinamento (art. 2567). È stata inoltre ipotizzata l’esistenza di ulteriori tipologie di segni distintivi atipici, ma la possibilità di individuarne esempi concreti appare in realtà assai dubbia. L’inesattezza della classificazione tradizionale emerge ulteriormente dal fatto che il marchio non è più soltanto utilizzato mediante apposizione materiale sul prodotto (marchio di prodotto), ma ben può essere utilizzato anche nella prestazione di servizi (marchio di servizio).

I. La funzione distintiva 1. Il concetto di “distinzione” Da un punto di vista logico, la “distinzione” consiste in un’operazione concettuale di separazione di elementi dotati di caratteristiche comuni, e di conseguente contrapposizione rispetto ad altri elementi che di queste caratteristiche sono privi 2. Dal punto di vista giuridico, la tutela dei segni distintivi presuppone l’interesse ad identificare alcuni elementi o risultati dell’attività di impresa, garantendo la presenza di caratteristiche comuni ad essi. La disciplina dei segni distintivi pone dunque il problema di definire gli elementi o risultati dell’attività di impresa identificati da ciascun segno, nonché le caratteristiche comuni che essi devono presentare.

2. Il problema della funzione distintiva giuridicamente protetta La disciplina dei segni distintivi ruota intorno ad un minimo comune denominatore costituito dal principio di esclusività di uso del segno in capo ad uno ed un solo imprenditore. Questo principio è in particolare codificato dall’art. 2563, secondo cui “l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta”, ed è ribadito dall’art. 2569, secondo cui “chi ha registrato […] un nuovo marchio […] ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi”. Il principio di esclusività esprime la volontà dell’ordinamento di riconoscere e proteggere l’interesse ad identificare il soggetto che ha assunto determinate scelte imprenditoriali. La riferibilità ad uno ed un solo soggetto costituisce quindi la caratteristica comune ai momenti o risultati dell’attività imprenditoriale identificati dalla presenza di un medesimo segno distintivo. La funzione distintiva così ricostruita appare trasversale alla ditta, all’insegna ed al ta, EncGiur, XVI, 1; CARTELLA, La protezione del nome commerciale straniero in Italia, Milano, 1978, 9. V. però anche le perplessità ed i rilievi critici di RICOLFI/Dir. ind. 2 VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, 31 ss.

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marchio. La trasversalità di questa funzione è del resto coerente alla possibilità, pacificamente ammessa, che uno stesso segno venga utilizzato tanto come nome commerciale (ditta, ragione o denominazione sociale), quanto come insegna e marchio 3. Così ad es. il segno Ferrero costituisce da un lato la denominazione della nota casa dolciaria, ma ad un tempo è insegna dei suoi stabilimenti e marchio dei suoi prodotti. Le norme in materia di ditta (o ragione e denominazione sociale), insegna e marchio possono tuttavia trovare autonomi spazi di applicazione in relazione ai diversi elementi o risultati dell’attività imprenditoriale rispetto ai quali esplicano la loro funzione distintiva (v. infra, § 15.I.1). D’altro canto la “trasversalità” della funzione distintiva giustifica la ricostruzione di princìpi generali comuni (quanto meno) a ditta, insegna e marchio (del nome a dominio si dirà, giacché le specificità tecniche che lo caratterizzano lo rendono per certi versi peculiare).

II. Presupposti e ambito di protezione dei segni distintivi 1. Capacità distintiva Già si è visto che la funzione distintiva giuridicamente riconosciuta e protetta si esprime attraverso l’identificazione di scelte imprenditoriali riferibili ad un unico soggetto. Ciò non esclude (ed anzi postula) l’esistenza di segni utilizzati da una pluralità di imprenditori (o altri soggetti) e che hanno una funzione distintiva ulteriore, estranea all’ambito di protezione dell’ordinamento, e perciò insuscettibile di formare oggetto di diritti esclusivi. Si pensi ad es. al termine “lavanderia”, che spesso vediamo come “insegna” all’ingresso dei locali delle imprese del settore. Questo termine ha in senso ampio un significato distintivo di una attività dotata di particolari caratteristiche. L’ordinamento vuole tuttavia che in questo significato il termine sia liberamente utilizzabile dalla generalità degli imprenditori, in quanto strumento necessario per comunicare al pubblico lo svolgimento di una tipologia di attività. Nel linguaggio giuridico l’espressione “capacità distintiva” denota perciò la capacità del segno di identificare scelte riferibili ad uno ed un solo imprenditore, e vale a contrapporre questi segni a quelli “privi di carattere distintivo” (rectius, privi della capacità di distinguere scelte riferibili ad un unico soggetto) liberamente utilizzabili dalla generalità degli imprenditori. La più importante categoria di segni “privi di carattere distintivo” è costituita dai nomi generici e descrittivi (si pensi al precedente esempio del termine lavanderia) di prodotti ed attività. In seguito (specialmente in materia di marchi) emergerà tuttavia l’esistenza di ulteriori possibili impedimenti all’acquisizione di capacità distintiva (infra, § 16.V.1). La capacità distintiva costituisce dunque il primo requisito di tutela del segno. Esso trova una disciplina espressa ed estremamente articolata in materia di marchi. Non è invece altrettanto esplicitamente previsto nelle norme sulla ditta e sull’insegna, per le quali comunque è pacificamente ricavato in via interpretativa proprio alla luce della funzione giuridicamente protetta del segno, che può esplicarsi se ed in quanto esso sia destinato all’utilizzazione da parte di un unico imprenditore. 3

VANZETTI-DI CATALDO; RICOLFI/Dir. ind.

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La medesima funzione porta inoltre ad affermare che il requisito della capacità distintiva non può essere inteso in senso assoluto, ma va valutato relativamente alla tipologia di attività e prodotti per cui il segno viene utilizzato. Così ad es. il segno “diesel” non può costituire un valido marchio per automobili, rivestendo esso evidentemente carattere descrittivo di una tipologia di motore che può essere prodotto da differenti imprenditori. Il medesimo segno può invece costituire valido marchio di prodotti di abbigliamento, che non possono avere alcuna caratteristica merceologica appartenente al genere descritto dal termine “diesel”.

2. Confondibilità La funzione distintiva assume ulteriore rilievo dal punto di vista della valutazione del conflitto fra segni. Poiché infatti questa funzione si esprime attraverso l’identificazione di scelte riferibili ad uno ed un solo imprenditore, l’ordinamento deve anzitutto preoccuparsi che segni uguali non vengano utilizzati da più imprenditori diversi. D’altra parte il pubblico può non memorizzare perfettamente gli elementi del segno distintivo, o comunque può non prestare attenzione a differenze di dettaglio: il legislatore perciò tendenzialmente vieta l’utilizzazione di segni anche soltanto simili da parte di imprenditori diversi. In questa prospettiva il concetto di somiglianza, che può risultare evanescente, viene generalmente concretizzato in relazione all’interesse alla distinzione nei confronti del pubblico: così che la somiglianza assume giuridico rilievo se ed in quanto idonea ad indurre il pubblico a credere erroneamente che segni simili siano utilizzati dal medesimo imprenditore. Nel linguaggio giuridico, il principio così ricostruito si esprime in termini di divieto di utilizzazione confusoria dei segni distintivi. Esso è ampiamente disciplinato in materia di marchi, ispira una norma espressa per la ditta (art. 2564 c.c.), ma è a sua volta immanente a tutti i segni, quale corollario della funzione distintiva. Il principio di non confondibilità rileva inoltre come requisito di tutela del segno. I segni che risultano confondibili con anteriori segni altrui non meritano infatti evidentemente alcuna protezione da parte dell’ordinamento. Sotto questo profilo la confondibilità è in particolare considerata dalla legge marchi come motivo di assenza di novità. Novità e capacità distintiva costituiscono perciò i più importanti requisiti di protezione comuni a tutti i segni. Il principio di non confondibilità implica poi ulteriormente che segni simili o addirittura identici possono essere utilizzati da imprenditori diversi nell’ambito di attività a loro volta differenti, che i consumatori non riferiscono ad un unico imprenditore. Questa situazione ricorre ad es. per il noto marchio “Ferrari”, che viene lecitamente utilizzato da imprenditori diversi nel settore delle autovetture e rispettivamente vitivinicolo, senza determinare nel pubblico l’erronea convinzione che la nota casa automobilistica sia la medesima impresa produttrice di spumanti. In questa prospettiva la protezione del segno non è assoluta (non vale cioè nei confronti di qualsiasi tipo di uso) ma relativa al settore merceologico di utilizzazione (c.d. principio di relatività della tutela). Il linguaggio giuridico utilizza i termini “identità” e “affinità” dei pro-

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dotti o servizi per fare riferimento alle situazioni in cui l’utilizzazione di segni uguali o simili può determinare rischi di confusione nel pubblico. Il principio di relatività della tutela non si applica in realtà rigidamente ed uniformemente a tutte le tipologie di segni distintivi. Questo principio è in particolare entrato in crisi nell’economia moderna, a seguito da un lato della tendenza imprenditoriale a cercare di sfruttare il valore pubblicitario di un segno distintivo anche in settori merceologicamente assai distanti (si pensi al marchio Armani, utilizzato non soltanto per abbigliamento, ma anche per orologi). Durante lo studio della disciplina dei marchi emergerà allora la tendenza ad estendere la tutela del segno ben al di là dei tradizionali confini dell’affinità merceologica (infra, § 16.VIII.3). Ciononostante, il principio di relatività della tutela continua a costituire il minimo comune denominatore e la ratio storicamente sottostante alla protezione dei segni distintivi, giustificata in passato in funzione dell’interesse dei consumatori a non subire inganni in ordine all’impresa cui è imputabile l’offerta dei prodotti o servizi.

3. Usi potenziali e registrazione del segno Il principio di confondibilità precedentemente ricostruito pone alcuni problemi di applicazione con riferimento agli usi meramente potenziali del segno. Così ad es. è possibile che un segno distintivo utilizzato da un determinato imprenditore sia conosciuto soltanto ad una parte del pubblico o del mercato, magari in circoscritte aree territoriali; e che un segno distintivo uguale o confondibile venga utilizzato da un terzo presso un pubblico differente, tipicamente in aree territoriali diverse. In queste situazioni un rischio di confusione può attualmente non determinarsi, ancorché il segno risulti utilizzato per prodotti o servizi identici o affini. Tuttavia una disciplina orientata a valorizzare soltanto i rischi di confusione attuali presenterebbe una serie di inconvenienti: perché l’utilizzazione dei segni è sempre potenzialmente estensibile e suscettibile di sovrapporsi presso le medesime aree territoriali e di pubblico; e perché le imprese, soprattutto di grandi dimensioni, hanno un forte interesse a conseguire una tutela predefinita in base a parametri certi, non mutevoli e di difficile accertamento, quali la conoscenza del segno presso i consumatori. Ciò a maggior ragione in quanto l’accreditamento di un segno presso il pubblico richiede frequentemente un certo periodo di tempo, e rende talvolta necessarie iniziative pubblicitarie, che le imprese adottano solo quando possono confidare in una protezione ragionevolmente certa ex ante. L’ordinamento ha scelto di tutelare gli interessi da ultimo delineati essenzialmente attraverso lo strumento della registrazione del segno distintivo. Di qui la grande distinzione fra segni distintivi “registrati” e non “registrati”. I marchi costituiscono l’unica tipologia di segni registrabili in funzione dell’interesse ad acquistare una tutela estesa a rischi di confusione derivanti da usi potenziali (una analoga tutela, secondo l’interpretazione preferibile, non può invece derivare dall’iscrizione della ditta nel registro delle imprese; infra, § 15.II).

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§ 15. LA DITTA E L’INSEGNA SOMMARIO: I. La ditta: nozione e funzione. – 1. Ditta e marchio d’impresa. – 2. Ditta, ragione e denominazione sociale. – 3. La formazione della ditta. – II. Requisiti e tutela della ditta. – 1. Requisiti. – 2. Tutela. – III. Vicende della ditta. – 1. Trasferimento. – 2. Cessazione del diritto. – IV. L’insegna. – V. Ragione e denominazione sociale.

LETTERATURA: ABRIANI, I segni distintivi, Tr. Cottino, II, 2001; AUTERI, voce Ditta, EncGiur, XVI, 1989; ID., voce Insegna, EncGiur, XVII, 1990; COSTI, Il nome della società, Padova, 1964; FLORIDIA, Segni e confondibilità nel Codice della proprietà industriale, DInd, 2007, 13; SARTI, Della ditta e dell’insegna, Comm. Gabrielli-Santosuosso, IV, 2014; SENA, Confondibilità e confusione. I diritti non titolati nel codice della proprietà industriale, RDInd, 2006, I, 17; VANZETTI, Capacità distintiva e confondibilità: segni registrati e non registrati, DInd, 2007, 7.

La ditta e l’insegna sono segni distintivi espressamente disciplinati dagli artt. 2563-2568. La disciplina codicistica non contiene peraltro una definizione espressa né dell’uno né dell’altro segno, ed appare incompleta anche sotto ulteriori profili, in primis per quanto riguarda la definizione della fattispecie costitutiva e del contenuto del diritto. Alla ditta e all’insegna si riferisce inoltre implicitamente l’art. 2, co. 4, c.p.i., secondo cui “sono protetti, ricorrendone i presupposti di legge, i segni distintivi diversi dal marchio registrato”; fra questi segni rientrano senz’altro la ditta e l’insegna, ma nemmeno il codice della proprietà industriale li disciplina compiutamente, prendendoli in considerazione soltanto per disciplinarne i possibili conflitti con marchi registrati da terzi. Il sistema generale di protezione della ditta e dell’insegna appare allora ricostruibile con maggiore compiutezza integrando la lettura degli artt. 2563-2568 con l’art. 2598, n. 1, e cioè con la norma che qualifica come atto di concorrenza sleale l’uso di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri”. Fra essi rientrano senz’altro la ditta e l’insegna, che risultano quindi tutelate secondo i princìpi e nei limiti del divieto di atti di concorrenza sleale confusoria. La ditta è infine presa in considerazione dalla disciplina internazionale e europea, che ad essa fa normalmente riferimento attraverso l’espressione “nome commerciale”. Da questo punto di vista notevole rilievo assume l’art. 8 CUP, che impone agli stati membri di proteggere il nome commerciale “senza obbligo di deposito o di registrazione”. La ratifica da parte dell’ordinamento italiano impone perciò di valorizzare la norma convenzionale nell’interpretazione della disciplina interna, e specialmente dell’art. 2566 (v. infra, II).

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SARTI – La ditta e l’insegna

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I. La ditta: nozione e funzione 1. Ditta e marchio d’impresa L’art. 2563 stabilisce che “l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta”. Secondo l’opinione tradizionale la ditta contraddistingue l’imprenditore nella propria attività d’affari, ma questa definizione non presenta chiari elementi di contrapposizione rispetto al marchio, il quale a sua volta contraddistingue l’imprenditore cui è imputabile l’offerta di prodotti e servizi. In tale prospettiva la nozione di ditta parrebbe definibile non tanto in relazione all’oggetto della sua funzione distintiva (che è comunque costituito da scelte imprenditoriali imputabili ad un unico soggetto) 1, quanto piuttosto in relazione all’interesse dell’imprenditore ad identificarsi in vari momenti della propria attività. L’esistenza di discipline autonome (e parzialmente diverse) in tema di ditta e di marchio sottintende allora probabilmente l’intenzione del legislatore di contrapporre la funzione distintiva (propria della ditta) dell’imputabilità di scelte organizzative aziendali rispetto alla funzione distintiva (propria del marchio) dell’imputabilità di strategie commerciali di offerta di un prodotto o servizio. Un segno è perciò utilizzato in funzione di ditta per distinguere la continuità di esercizio dell’organizzazione aziendale, nei rapporti istituiti direttamente dall’imprenditore con i terzi interessati alle caratteristiche e all’affidabilità di questa organizzazione. Assolvono ad es. la funzione propria della ditta i segni che compaiono negli elenchi telefonici, nella carta intestata, ed anche nelle pubblicità che invitano il pubblico a recarsi direttamente negli stabilimenti del titolare, indicandone l’indirizzo. Un segno è invece utilizzato in funzione di marchio per distinguere la continuità delle politiche commerciali di offerta, nei rapporti spersonalizzati con un pubblico interessato non alle qualità dell’organizzazione imprenditoriale, ma alle caratteristiche del prodotto o servizio, e alla continuità delle strategie commerciali di offerta che hanno accreditato queste caratteristiche dei risultati dell’attività di impresa. Assolve tipicamente la funzione di marchio il segno che compare in grande evidenza grafica sulla confezione del prodotto. L’interpretazione proposta coincide in parte con la tesi autorevolmente espressa in dottrina, secondo cui l’uso della ditta può avvenire soltanto nei rapporti intrattenuti dall’imprenditore con i propri fornitori e finanziatori; mentre l’uso del segno nei rapporti con la clientela necessariamente ricadrebbe nella disciplina del marchio 2 (distinguere tra i diversi piani d’uso è importante quando lo stesso segno viene usato dall’imprenditore come ditta e come marchio; e se ne vedranno le implicazioni in relazione agli atti dispositivi della ditta, i cui presupposti sono diversi da quelli di trasferibilità del marchio). In effetti l’imprenditore intrattiene (eventualmente tramite i suoi ausiliari) rapporti diretti con fornitori e finanziatori, che d’altro canto sono fisiologicamente interessati all’affidabilità dell’organizzazione aziendale: così che in tali casi i segni distintivi appaiono usati nella tipica funzione di ditta. Tuttavia anche l’utilizzazione di segni nei rapporti con la clientela ben può mantene1 2

RICOLFI/Dir. ind. VANZETTI-DI CATALDO; RICOLFI/Dir. ind.

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SEZ. IV – L’impresa nel mercato

[§ 15]

re la funzione propria della ditta. L’uso del segno in funzione di ditta nei rapporti con la clientela è tipicamente pensabile per le imprese che personalizzano i loro servizi in relazione alle esigenze specifiche del singolo cliente, con cui devono quindi instaurare un rapporto diretto (si pensi al settore dell’edilizia, dei traslochi, dell’intermediazione di affari, delle officine di riparazione). Così pure la funzione di ditta parrebbe propria dei segni apposti sul prodotto in posizione secondaria rispetto al marchio (si pensi alle confezioni di prodotti recanti il marchio in grandi caratteri e con particolare risalto grafico, ove compare spesso anche il nome del produttore in caratteri più piccoli, a volte preceduto da espressioni quali “prodotto da”). In questi casi il segno non è notato al momento del “primo contatto” con il pubblico, ma viene percepito solo da chi intenda conoscere l’identità del fabbricante, ed instaurare con lui una relazione diretta (ad es. per fare valere garanzie e reclami).

2. Ditta, ragione e denominazione sociale La nozione di ditta appare concettualmente distinta da quelle di “ragione sociale” e “denominazione sociale”. Ragione e denominazione sociale costituiscono il “nome” delle società 3: e rispettivamente delle società di persone (ragione sociale, art. 2292) e delle società di capitali (denominazione sociale, art. 2326). Di qui il rinvio dell’art. 2567, secondo cui “la ragione e la denominazione sociale sono regolate dai titoli V e VI di questo libro” (e cioè dalle norme in tema di società). In questa prospettiva è a prima vista ipotizzabile che la ditta in senso tecnico sia propriamente soltanto distintiva degli imprenditori individuali; e che le società identifichino la propria attività attraverso la ragione o la denominazione sociale. A ben vedere tuttavia nessuna norma esclude l’applicabilità anche alle società delle norme in materia di ditta. È dunque preferibile ritenere che le società siano titolari di una ragione o denominazione sociale, e contemporaneamente di una o più ditte 4. Ragione e denominazione sociale sono in particolare strumenti di spendita del nome delle società, così che fra l’altro ogni società deve agire nei traffici attraverso un unico nome, e deve essere quindi titolare di una ed una sola ragione o denominazione. La ditta identifica invece la titolarità di un’organizzazione aziendale, ma non rileva sul piano dell’imputazione degli atti di impresa. È certamente possibile, ed anzi normale, che uno stesso nome venga utilizzato da una società come denominazione sociale e ad un tempo come ditta (si pensi alla denominazione Ferrero, utilizzata allo stesso tempo come ditta, insegna e marchio), così come del resto un imprenditore individuale può utilizzare una ditta corrispondente al proprio nome civile. È tuttavia possibile che una società sia contemporaneamente titolare di ulteriori e diverse ditte, corrispondenti a diverse organizzazioni articolate in una pluralità di aziende. L’utilizzazione di diverse ditte può in particolare essere utile per evidenziare al pubblico la continuità di esercizio di aziende acquistate da precedenti titolari assieme ai relativi segni distintivi. Così ad es. Unicredit Banca s.p.a. ha almeno per un certo periodo di tempo continuato ad usare la ditta “Rolo Banca 1473” per distinguere l’attività delle filiali precedentemente appartenenti a Rolo Banca s.p.a., ora estinta e incorporata in Unicredit Banca s.p.a.

3

COSTI, Il nome della società, 113 ss.; RABITTI BEDOGNI, Nome sociale e disciplina della concorrenza, Milano, 1984, 113; ABRIANI, I segni distintivi, 131; CAMPOBASSO. 4 COSTI, Il nome della società, 128; ABRIANI, I segni distintivi, 149; VANZETTI-DI CATALDO; CAMPOBASSO; Cass. 13-6-2000, n. 8034, GADI, 2000, in motivazione 163.

[§ 15]

SARTI – La ditta e l’insegna

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3. La formazione della ditta L’art. 2564, co. 2, stabilisce che “la ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore”. La norma costituisce l’unica eccezione all’opposto principio generale di assoluta libertà di formazione di tutti gli altri segni distintivi. L’art. 2564 presuppone dunque anzitutto che la ditta sia formata da espressioni letterali, non da disegni. La necessità di inserire il cognome o la sigla dell’imprenditore vuole apparentemente tutelare l’interesse a che attraverso la ditta i terzi identifichino il soggetto titolare dell’attività di impresa (c.d. teoria soggettiva della ditta). In realtà nella moderna economia il titolare dell’attività di impresa non è più il solo (e spesso non è nemmeno il principale) fattore di accreditamento sul mercato. Questo accreditamento dipende sempre più spesso dall’obiettiva efficienza dell’organizzazione imprenditoriale. I terzi che entrano in contatto con l’impresa sono perciò spesso scarsamente interessati a conoscere la persona del titolare, e vogliono piuttosto confidare sulla persistenza di un’organizzazione produttiva efficiente. In questa prospettiva assume sempre maggiore importanza l’interesse a valorizzare la ditta per distinguere non la titolarità dell’organizzazione imprenditoriale, ma la continuità dell’organizzazione produttiva, di cui i terzi hanno precedentemente sperimentato l’affidabilità (o l’inaffidabilità). Ad un tempo inoltre il titolare della ditta è interessato a poterla cedere, per monetizzare il valore dell’avviamento connesso alla riscontrata affidabilità della propria organizzazione. L’interesse a proteggere la ditta in funzione identificativa non di un soggetto, ma di una organizzazione imprenditoriale (c.d. teoria oggettiva della ditta), è perciò avvertito in misura sempre più forte dall’ordinamento, e viene tutelato da norme che finiscono per svuotare pressoché completamente il significato dell’obbligo di inserire il nome dell’imprenditore all’interno della ditta 5. Al riguardo anzitutto l’art. 2563, co. 2, non impone che la ditta sia formata esclusivamente dal nome dell’imprenditore. Il nome può essere infatti inserito nella ditta in posizione assolutamente marginale, e non colpire l’attenzione del pubblico, attratto piuttosto da ulteriori elementi di fantasia (c.d. ditta di fantasia), che in tal caso costituiscono il c.d. cuore della ditta: così ad es. nella ditta “Scaccomatto di Mario Rossi” il cuore è evidentemente costituito dalla parola “Scaccomatto”. Ciò a maggior ragione qualora il nome sia in realtà sostituito dalla sigla dell’imprenditore (come consente l’art. 2563, co. 2): e nel precedente esempio si pensi alla ditta “Scaccomatto di m.r.”. D’altra parte l’inserimento del nome o della sigla è previsto soltanto in funzione dell’iscrizione della ditta nel registro delle imprese (art. 2566); ma nulla vieta che l’imprenditore nella normale attività di affari di fatto utilizzi soltanto la componente di fantasia del proprio segno. La stessa ditta priva di nome o sigla (c.d. ditta irregolare), non iscrivibile nel registro delle imprese, è comunemente ritenuta tutelabile in base alla disciplina della concorrenza sleale (art. 2598 n. 1 c.c.) 6. Infine lo stesso art. 2563, co. 2, dopo avere imposto l’inserimento del cognome o 5

VANZETTI-DI CATALDO; AUTERI, voce Ditta, 2. Cfr. VANZETTI-DI CATALDO; AUTERI, voce Ditta, 4; RICOLFI, La ditta e gli altri segni distintivi, Tr. Cottino, II, 2001, 165; ABRIANI, I segni distintivi, 144. 6

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della sigla all’interno della ditta, fa “salvo quanto è disposto dall’art. 2565”, che consente il trasferimento della ditta, e ad un tempo non impone l’inserimento in essa del cognome o della sigla dell’acquirente (c.d. ditta derivata). In questo caso quindi la ditta non contiene nemmeno le informazioni minime richieste dall’art. 2563, co. 2, in ordine all’identità del titolare.

II. Requisiti e tutela della ditta 1. Requisiti La legge non disciplina espressamente i requisiti di proteggibilità della ditta né agli artt. 2563 ss., né nel codice della proprietà industriale. Il codice della proprietà industriale si riferisce certo anche alla ditta quando dichiara protetti “ricorrendone i presupposti di legge, i segni distintivi diversi dal marchio registrato” (art. 2, co. 4, c.p.i.); esso non contiene tuttavia ulteriori riferimenti alla ditta. Già si è visto comunque che i requisiti della ditta sono ricavabili dalla ricostruzione del sistema generale di protezione dei segni distintivi e dalla disciplina della concorrenza sleale per confondibilità, che di questi princìpi costituisce espressione. i) La tutela della ditta, al pari di tutti gli altri segni, presuppone quindi anzitutto l’esistenza di una capacità distintiva. In realtà nella prassi è frequente l’uso come ditta e denominazione sociale di termini fortemente descrittivi: si pensi in passato al settore bancario e ad espressioni quali “Banca Commerciale” o “Credito Italiano”. In tali casi dottrina e giurisprudenza ammettono con una certa larghezza la tutela: da un lato perché l’utilizzazione della ditta nei rapporti diretti con l’impresa facilita (specie da parte dei fornitori e finanziatori professionali) 7 l’identificazione di uno ed un solo imprenditore pur attraverso espressioni generiche; dall’altro perché la tutela di espressioni che abbiano acquisito capacità distintiva attraverso l’uso è esplicitamente riconosciuta in materia di marchi registrati (infra, § 16.V.1), e pare dunque possibile anche con riferimento alla ditta. Ciò a maggior ragione in quanto la protezione della ditta è limitata al territorio in cui essa risulta di fatto conosciuta dal pubblico, così che le espressioni descrittive potrebbero essere comunque utilizzate da imprenditori diversi in differenti zone geografiche di attività, ed il rischio di monopolizzazione di elementi del linguaggio utili per descrivere l’attività svolta risulta corrispondentemente ridotto.

ii) La ditta deve inoltre rispondere al requisito della novità, e cioè diversificarsi rispetto ad altri segni distintivi (siano essi a loro volta costituiti da ditte, insegne o marchi) anteriori di terzi. L’art. 2564 disciplina in particolare l’ipotesi del conflitto fra ditte, stabilendo che “quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla”. La norma costituisce piana espressione del principio di confondibilità precedentemente ricostruito e sottintende quindi che la novità della ditta non deve essere assolu7

VANZETTI-DI CATALDO; RICOLFI/Dir. ind.

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ta, ma deve essere valutata relativamente al luogo ed alla tipologia delle attività svolte. Imprese con oggetto diverso (ad es. falegnameria e ristorazione) o esercitate in luoghi distanti (ad es. a Milano e Roma) possono essere identificate da ditte uguali o simili, se ed in quanto non ingannino il pubblico in ordine alla titolarità delle relative organizzazioni aziendali. Il problema del conflitto fra ditte si presenta ulteriormente complesso nell’ipotesi di omonimie, considerando che entrambi gli imprenditori omonimi potrebbero ed anzi dovrebbero inserire nella ditta il proprio cognome o sigla. Secondo l’opinione corrente in tali casi il secondo imprenditore non potrebbe utilizzare il proprio cognome “come ditta”, ma al più potrebbe inserirlo “nella ditta”: vale a dire come elemento secondario all’interno di un segno complesso, incentrato su un diverso “cuore” 8. In realtà il diritto europeo consente l’uso del proprio nome civile anche in attività commerciali pur quando esso corrisponda ad un marchio altrui registrato, con il solo limite del rispetto delle “consuetudini di lealtà” (v. infra, § 16.VIII.5). È preferibile quindi ritenere che in caso di omonimia l’uso del proprio nome anche come ditta possa essere considerato lecito quando in concreto risulti conforme alle consuetudini di lealtà, e perciò tipicamente in presenza di un obiettivo interesse a comunicare al mercato la titolarità dell’impresa in capo ad una persona fisica che gode di un certo “credito” presso la potenziale clientela 9. Problema delicato è quello dei criteri di accertamento dell’anteriorità della ditta: e quindi di determinazione dell’imprenditore obbligato ad introdurre modifiche idonee ad evitare la confondibilità. Secondo l’art. 2564, co. 2, “per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore”. La lettera della norma farebbe quindi pensare che il preregistrante abbia il diritto di impedire la successiva registrazione ed uso di ditte confondibili. Una conclusione del genere parrebbe tuttavia in contrasto anzitutto con le fonti internazionali, ed in particolare con l’art. 8 CUP, secondo cui “il nome commerciale sarà protetto in tutti i paesi dell’Unione senza obbligo di deposito o di registrazione” 10. Essa parrebbe inoltre smentita dall’art. 2, co. 3-4, c.p.i., che non include la ditta fra i titoli di proprietà industriale “oggetto di registrazione”, e che con ciò pare escludere la possibilità di concepire per la ditta una registrazione dotata di effetti costitutivi della protezione. In realtà la tutela della ditta sembra tuttora riconducibile ai princìpi dell’art. 2598, n. 1, in materia di concorrenza sleale confusoria, che protegge i segni distintivi se ed in quanto oggetto di un uso di fatto, attualmente riconosciuto dal pubblico. In mancanza di questo uso e conoscenza, non ricorre un concreto rischio di confusione, e non può dirsi perfezionata la fattispecie costitutiva del diritto 11. L’art. 2564, co. 2, pare perciò applicabile al più nelle ipotesi di conflitto fra ditte inizialmente usate in ambiti territoriali diversi, nell’eventualità che i rispettivi titolari espandano e sovrappongano le loro attività in nuovi territori dove il segno non è ancora conosciuto dal pubblico. In questa situazione nessuno dei due titolari ha an8 Cfr. RICOLFI/Dir. ind.; ABRIANI, I segni distintivi, 137 s.; Cass. 10-7-2009, n. 16823, GADI, 2009, in motivazione 219 s.; Trib. Catania, 4-10-2008, GADI, 2008, 1107 s. 9 Cfr. SARTI, Della ditta e dell’insegna, 960 s. 10 Cfr. SPOLIDORO, Tutela della ditta e registro delle imprese, in Studi in memoria di Paola Frassi, Milano, 2010, 688; sull’interpretazione dell’art. 8 CUP cfr. CARTELLA, La protezione del nome commerciale straniero in Italia, Milano, 1978, 167 ss. 11 In questa prospettiva è stata addirittura ipotizzata una tacita abrogazione dell’art. 2564, co. 2, cfr. GIOIA, Effetti dell’istituzione del registro delle imprese sulla disciplina della ditta, RDInd, 1997, I, 260 ss. In realtà sembra preferibile applicare la norma nelle ipotesi indicate subito oltre nel testo.

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cora perfezionato la fattispecie costitutiva del diritto nella zona di espansione, ed è ragionevole risolvere il conflitto in favore del primo registrante 12.

2. Tutela Già si è visto che gli artt. 2563 ss. non contengono una disciplina generale relativa alla tutela della ditta, e che la protezione sembra perciò fondata sull’art. 2598, n. 1, e in particolare sul divieto di atti di concorrenza sleale consistenti nell’uso “di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri” 13. L’applicazione dei princìpi della concorrenza sleale comporta come corollario che l’azione a tutela della ditta può essere fatta valere solo a fronte di rischi concreti di confusione. Il diritto sulla ditta presuppone quindi che il segno distintivo sia usato e conosciuto dal pubblico, e che i terzi utilizzino un segno uguale o simile in modo da determinare un rischio di confusione presso questo stesso pubblico. Si tratta quindi di un diritto relativo al territorio e al settore merceologico di utilizzazione: che non può essere fatto valere nei confronti di chi usi il segno in aree geografiche diverse, o in settori merceologici distanti, tali da escludere un concreto pericolo di inganno in ordine all’impresa responsabile dell’organizzazione aziendale. Non è necessario che l’effetto confusorio si sia attualmente verificato. La confusione rileva infatti in termini di rischio, e perciò può sussistere anche a livello meramente potenziale. La potenzialità confusoria deve essere comunque valutata alla luce delle circostanze di fatto presenti ed attuali nel caso concreto, e non sulla base di ipotetici futuri sviluppi della situazione di mercato. La giurisprudenza sembra talvolta orientata ad allargare la protezione della ditta ai territori e settori merceologici in cui risulta prevedibile uno sviluppo delle attività imprenditoriali 14. La tesi è tuttavia discutibile. Certamente la ditta è proteggibile anche in luoghi in cui l’impresa non è fisicamente presente con i suoi stabilimenti, ma è comunque nota, ad es. per effetto di iniziative pubblicitarie o promozionali 15. La tutela della ditta non può invece essere estesa a territori in cui essa non è attualmente né utilizzata né conosciuta. Si tratterebbe infatti in tal caso di una tutela fondata su sviluppi dell’attività meramente potenziali: tutela che l’ordinamento concepisce, come si è detto, solo per il marchio registrato. 12 RICOLFI/Dir. ind.; ABRIANI, I segni distintivi, 140 s.; GUGLIELMETTI, Conflitto tra ditte commerciali, istituzione del registro delle imprese e unitarietà dei segni distintivi, RDInd, 1994, II, 80. A questa conclusione si può giungere anche aderendo all’impostazione (sostanzialmente condivisibile) secondo cui l’art. 2564, co. 2, mirerebbe a risolvere i conflitti relativi a rischi di confusione in sede di consultazione del registro, non ai rischi di confusione delle imprese sul mercato; cfr. SPOLIDORO, Tutela della ditta e registro delle imprese, cit., 684 ss. 13 VANZETTI-DI CATALDO. 14 Cass. 22-6-1978, n. 3084, GADI, 1978, 51; Cass. 15-6-1989, n. 2881, GADI, 1989, in motivazione 59 s.; Cass. 15-12-1994, n. 10728, GADI, 1994, in motivazione 156 s.; Cass. 8-5-2009, n. 10587, GADI, 2009, in motivazione 207 s. 15 Cfr. VANZETTI-DI CATALDO; App. Firenze, 18-10-1999, RDInd, 2001, II, in motivazione 260 s.; Trib. Catania, 9-10-2001, GADI, 2002, in motivazione 336; Trib. Roma, 2-4-2004, GADI, 2004, in motivazione 1010. Il principio vale anche per le ditte straniere, che possono essere protette in Italia quando siano note sul territorio nazionale, ancorché non siano state qui utilizzate, cfr. CARTELLA, La protezione del nome commerciale straniero in Italia, cit., 173 s.

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Il rischio di confusione in materia di ditta deve essere accertato con particolare cautela: tenendo conto che il segno è usato nei rapporti diretti con il pubblico, e spesso con il mondo imprenditoriale (fornitori e finanziatori), che verifica con attenzione l’identità dei soggetti attivi sul mercato. In questa situazione differenze anche marginali fra ditte, specie se dotate di elementi descrittivi, possono essere sufficienti ad escludere concreti rischi di confusione 16.

Le sanzioni previste a fronte della violazione dei diritti sulla ditta paiono anzitutto quelle della disciplina della concorrenza sleale: e consistono perciò principalmente in misure di tipo inibitorio e risarcitorio (v. supra, § 11.I.8). La riconducibilità della ditta ai “segni distintivi diversi dal marchio registrato” protetti dal codice della proprietà industriale rende inoltre ragionevolmente applicabile la disciplina sanzionatoria e processuale del codice medesimo (v. supra, 13.III). Questo sistema sanzionatorio determina alcuni problemi di coordinamento con l’art. 2564, che prevede l’obbligo di integrare o modificare la ditta simile a quella anteriormente usata da un terzo. L’obbligo di modifica non sembra in realtà distante da una pronuncia inibitoria della continuazione dell’uso del segno confondibile. È tuttavia preferibile ritenere che il giudice possa non soltanto inibire la continuazione dell’uso, ma addirittura stabilire direttamente le modifiche e integrazioni da imporre al secondo utilizzatore 17.

III. Vicende della ditta 1. Trasferimento L’art. 2565 prevede che “la ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda”. La norma dunque da un lato consente il trasferimento della ditta, ma ad un tempo si preoccupa che questo trasferimento non contrasti con il corretto perseguimento della sua funzione distintiva. Già si è visto infatti che questa funzione si esplica rispetto all’imputazione dell’organizzazione aziendale ad uno ed un solo imprenditore. Il trasferimento della ditta determina allora un mutamento soggettivo dell’imprenditore, ed a rigore contrasta con la funzione distintiva, se ed in quanto essa venga riferita alla persona dell’organizzatore dell’azienda. Nell’economia moderna tuttavia il pubblico non è necessariamente interessato ad avere informazioni in ordine al mantenimento della titolarità soggettiva dell’azienda, ma vuole piuttosto avere strumenti che gli consentano di confidare sul mantenimento di un’organizzazione produttiva di cui ha sperimentato l’affidabilità. Il legislatore ha perciò lasciato ai privati autonomia di decisione in ordine alla valorizzazione della ditta in funzione distintiva della continuità soggettiva del titolare dell’azienda o della continuità oggettiva dell’organizzazione produttiva.

16

Cfr. VANZETTI-DI CATALDO; Cass. 28-2-2006, n. 4405, GADI, 2006, 101. Cfr. Cass. 8-7-1974, n. 1990, GADI, 1974, in motivazione 76 s.; Cass. 28-3-2007, n. 7651, GADI, 2008, in motivazione 38; contra Trib. Milano, 21-5-1990, GADI, 1990, in motivazione 550; App. Milano, 14-3-1995, GADI, 1996, in motivazione 203; Trib. Catania, 9-10-2001, GADI, 2002, in motivazione 339; Trib. Napoli, 7-7-2005, GADI, 2005, in motivazione 977. 17

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È ragionevolmente possibile che il medesimo imprenditore utilizzi diverse ditte in relazione a diversi rami d’azienda. In tal caso la cessione della ditta può quindi avvenire insieme alla cessione del corrispondente ramo aziendale. Il principio di trasferibilità della ditta unitamente all’azienda costituiva uno dei fondamenti storici del sistema dei segni distintivi, ed in passato aveva valenza generale, applicabile anche al marchio. Il principio di trasferibilità del marchio unitamente all’azienda è stato ora abrogato, e la differenza di disciplina rispetto alla ditta può giustificarsi in relazione al diverso ambito in cui il marchio esplica la sua funzione distintiva. L’utilizzazione del marchio non è funzionale ad un contatto diretto fra il pubblico e l’organizzazione aziendale, così che il legislatore non ritiene meritevole di tutela l’interesse dei terzi a fare affidamento sulla continuità di questa organizzazione. L’esistenza di una differente disciplina in materia di trasferimento della ditta e del marchio pone problemi delicati per l’ipotesi in cui un unico segno sia contemporaneamente utilizzato in entrambe le funzioni. Proprio in queste ipotesi occorre particolare rigore nel distinguere i vari contesti di realizzazione della funzione distintiva. Il trasferimento del marchio separatamente dall’azienda non consente al cessionario di utilizzarlo anche in funzione di ditta. Nei rapporti commerciali diretti il cessionario dovrà quindi utilizzare altri segni distintivi, in modo da evidenziare al pubblico che l’acquisto del marchio non ha determinato un subingresso nella titolarità dell’organizzazione produttiva. L’autonomia decisionale in ordine alla valorizzazione della funzione soggettiva o oggettiva della ditta può esprimersi tanto negli atti tra vivi, quanto in quelli mortis causa. Nella cessione di azienda per atto tra vivi “la ditta non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante” (art. 2565, co. 2). Nella successione mortis causa il diritto è automaticamente trasferito al successore dell’azienda “salvo diversa disposizione testamentaria” (art. 2565, co. 3).

2. Cessazione del diritto Già si è visto che il diritto sulla ditta ha titolo nell’uso conosciuto dal pubblico. Il diritto si perde quindi con la cessazione di questo uso, che ne abbia fatto venir meno il ricordo da parte del pubblico 18. Nemmeno da questo punto di vista rilevano quindi atti quali l’iscrizione o cancellazione del segno nel registro delle imprese.

IV. L’insegna Il codice civile dedica all’insegna un’unica norma (art. 2568) di rinvio all’art. 2564, co. 1, in materia di ditta. Anche l’insegna rientra inoltre fra i segni distintivi diversi dal marchio registrato menzionati dall’art. 2, co. 4, c.p.i. Il codice della proprietà industriale non detta tuttavia alcuna disciplina specifica relativa all’insegna, e si limita a farvi riferimento per regolarne i possibili conflitti con il marchio registrato. Né il codice civile, né il codice della proprietà industriale danno una definizione dell’insegna, e con ciò implicitamente presuppongono l’accoglimento della nozione 18 VANZETTI-DI CATALDO; RICOLFI/Dir. ind.; Cass. 7-12-1994, n. 10521, RDInd, 1996, II, 11; Trib. Milano, 19-3-2004, GADI, 2004, 939.

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SARTI – La ditta e l’insegna

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del linguaggio comune, secondo cui l’insegna costituisce segno distintivo dei locali dell’imprenditore. Essa quindi in ultima analisi distingue la titolarità dell’organizzazione aziendale fisicamente collocata in un certo luogo. L’insegna (a differenza della ditta) è un segno distintivo che può essere liberamente formato. Può quindi essere costituita non solo da espressioni letterali, ma anche da disegni e figure; né qui è necessaria l’indicazione del cognome o della sigla dell’imprenditore. La tutela dell’insegna assume una certa importanza soprattutto quando l’imprenditore intrattiene all’interno dei propri locali contatti diretti con il pubblico: come avviene tipicamente per le imprese alberghiere, di ristorazione o di rivendita al dettaglio. In questa prospettiva pare valida anche con riferimento all’insegna la conclusione tratta in materia di ditta: secondo cui l’uso tipico del segno distintivo presuppone l’istituzione di un rapporto diretto fra l’organizzazione aziendale e la clientela. L’insegna è da considerare tuttavia utilizzata anche in funzione di marchio quando identifichi una tipologia di servizi standardizzati offerti in una molteplicità di locali: come avviene ad es., e tipicamente, per le grandi catene alberghiere e per le reti di distribuzione commerciale in franchising, dove fra l’altro spesso il rapporto con la clientela è instaurato non direttamente dal titolare del segno distintivo, ma è spersonalizzato attraverso l’intermediazione dei franchisees distributori. L’insegna destinata all’utilizzazione anche in funzione di marchio può naturalmente essere registrata a tale titolo, ed assoggettata alla relativa disciplina.

L’art. 2568 dichiara applicabili all’insegna “le disposizioni del co. 1 dell’art. 2564” in materia di ditta, che obbligano l’imprenditore a modificare il segno distintivo uguale o simile a quello di altro imprenditore e idoneo a “creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata”. Il richiamo implica inoltre l’attrazione della protezione dell’insegna nel medesimo impianto sistematico ricostruito con riferimento alla ditta. Anche l’insegna è dunque protetta in base alla disciplina della concorrenza sleale (art. 2598, n. 1), in quanto segno distintivo utilizzato e conosciuto dal pubblico, a fronte di un rischio di confusione concreto, da accertare relativamente al territorio e al settore merceologico di attività dell’imprenditore. L’art. 2568 non richiama espressamente le norme in materia di trasferimento della ditta. È comunque da ritenere che l’insegna sia trasferibile unitamente agli elementi dell’organizzazione aziendale rispetto ai quali esplica la propria funzione distintiva 19. Essa è perciò senz’altro trasferibile unitamente ai locali aziendali e ai macchinari in essi collocati. Pare inoltre ragionevolmente trasferibile anche indipendentemente dai locali e dai macchinari, purché il cessionario si avvalga della collaborazione del personale qualificato che aveva in precedenza contribuito ad accreditare il segno nei confronti del pubblico (si pensi al personale di un ristorante).

19

VANZETTI-DI CATALDO; AUTERI, voce Insegna, 5; Trib. Roma, 2-4-2004, GADI, 2004, 1003; ma nel senso della libera trasferibilità indipendentemente dall’azienda (quando l’insegna non coincida con la ditta) cfr. RICOLFI/Dir. ind.; ABRIANI, I segni distintivi, 153 s.

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SEZ. IV – L’impresa nel mercato

[§ 15]

V. Ragione e denominazione sociale La disciplina codicistica dei segni distintivi menziona ragione e denominazione sociale per rinviare da un lato alle norme in materia di società (art. 2567, co. 1), e dall’altro all’art. 2564 in materia di ditta (art. 2567, co. 2). Il duplice rinvio riflette la duplice funzione di questi segni distintivi: che da un lato costituiscono uno strumento di spendita del nome delle società rispettivamente di persone e di capitali; e che dall’altro ne costituiscono la (ma non necessariamente l’unica) ditta (v. supra, I.2). L’art. 2567, co. 2, dichiara applicabile a ragione e denominazione sociale “le disposizioni dell’art. 2564”. Il rinvio consente di attrarre anche questi segni distintivi nell’impianto sistematico ricostruito in materia di ditta: così che ragione e denominazione sociale sono tutelate dalla disciplina della concorrenza sleale, in quanto segni distintivi utilizzati e conosciuti dal pubblico, nei limiti di un rischio di confusione, da accertare in relazione al luogo e al settore di attività imprenditoriale. Il codice non regola espressamente il trasferimento della ragione e della denominazione sociale. In realtà a rigore questi segni costituiscono elementi dell’atto costitutivo o dello statuto sociale, e non sono in quanto tali trasferibili, ma al più oggetto di modifica statutaria 20. Il trasferimento del segno è in realtà possibile in quanto esso svolga contemporaneamente la funzione di ditta, ed è quindi da ritenere assoggettato alla relativa disciplina, compresa naturalmente la norma sul vincolo di cessione unitamente all’azienda. L’avente causa non subentra tuttavia in tali casi direttamente nella ragione e denominazione sociale, ma acquista la ditta: e potrà a questo punto procedere a sua volta ad una modifica statutaria, per fare corrispondere il nome della società alla ditta così acquistata. Per parte sua il cedente è senz’altro tenuto a modificare la propria ragione o denominazione sociale, confondibili con la ditta trasferita.

20

COSTI, Il nome della società, 154; Trib. Milano, 19-3-2004, GADI, 2004, in motivazione 946.

[§ 16]

SARTI – I marchi e i nomi a dominio; le indicazioni geografiche

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§ 16. I MARCHI E I NOMI A DOMINIO; LE INDICAZIONI GEOGRAFICHE SOMMARIO: I. La funzione giuridicamente protetta del marchio. – II. Il marchio non registrato. – III. Le fonti della disciplina del marchio registrato. – IV. Caratteristiche generali del marchio. – 1. Tipologie di marchi. – 2. Il principio di estraneità del marchio al prodotto. – 3. Marchi individuali e marchi collettivi (rinvio). – V. Requisiti del marchio: impedimenti assoluti. – 1. La capacità distintiva. – 2. Il problema dei marchi di forma. – 3. Il carattere non ingannevole. – 4. Ordine pubblico, buon costume, convenzioni internazionali, buona fede. – VI. Requisiti del marchio: impedimenti relativi. – 1. Novità e conflitti con segni registrati. – 2. Novità e conflitti con segni non registrati. – 3. Conflitti con altre tipologie di diritti. – VII. Il procedimento di registrazione. – 1. Il procedimento nazionale. – 2. La registrazione internazionale. – 3. La registrazione del marchio UE. – VIII. L’estensione della tutela. – 1. Il divieto di utilizzazioni confusorie. – 2. Il divieto di uso di segni identici per prodotti o servizi identici. – 3. La tutela allargata della rinomanza. – 4. Gli atti di contraffazione; commercio del prodotto e principio di esaurimento. – 5. Limitazioni degli effetti del marchio. – IX. Cessioni e licenze di marchio. – 1. Il trasferimento del marchio. – 2. La licenza di marchio. – 3. Costituzione di altri diritti reali. – X. Nullità e decadenza del marchio. – 1. Sistema e nozioni. – 2. Le cause di nullità. – 3. La convalida del marchio. – 4. La decadenza per non uso. – 5. La decadenza per ingannevolezza. – 6. La decadenza per volgarizzazione. – 7. Dichiarazione ed effetti di nullità e decadenza. – XI. I nomi a dominio. – XII. I segni distintivi collettivi. – 1. Il marchio collettivo. – 2. Le indicazioni geografiche.

LETTERATURA: AUTERI, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotti “originali”, Milano, 1973; DI CATALDO, I segni distintivi, Milano, 1993; GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Milano, 1996; MANSANI, La funzione di indicazione d’origine del marchio nell’ordinamento comunitario, Milano, 2000; RICOLFI, I segni distintivi: diritto interno e comunitario, Torino, 1999; ID., Trattato dei marchi, Torino, 2015; SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, in UBERTAZZI (a cura di), La proprietà intellettuale, Torino, 2011; SENA, Il diritto dei marchi: marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007; VANZETTI, Cessione del marchio, RDComm, 1959, I, 385; ID., Equilibrio d’interessi e diritto al marchio, RDComm, 1969, I, 254; ID., Funzione e natura giuridica del marchio, ivi, 1961, I, 16; ID., La funzione del marchio in un regime di libera cessione, RDInd, 1998, I, 70.

Il marchio è il segno distintivo normalmente utilizzato mediante apposizione materiale sul prodotto. È emerso tuttavia che la tradizionale definizione di marchio in termini di “segno distintivo del prodotto” appare riduttiva, perché l’ordinamento conosce anche la categoria dei marchi di servizio, che non sono materialmente apponibili sul bene contraddistinto, e vengono utilizzati tipicamente nell’abbigliamento del personale dell’impresa (si pensi alle uniformi di lavoro), all’ingresso dei locali e sui mezzi di produzione (si pensi ai mezzi di trasporto delle imprese di traslochi), o nelle comunicazioni pubblicitarie (si pensi alla pubblicità delle imprese di telecomunicazioni). La materiale apposizione sul prodotto non è dunque elemento essenziale e qualificante dell’uso del segno in funzione di marchio. L’uso del marchio si caratterizza piuttosto in via generale per la spersonalizzazione delle relazioni in cui esplica la

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propria funzione distintiva, indipendentemente dall’instaurazione di contatti diretti con l’imprenditore e la sua organizzazione aziendale. Vero è che la tutela del marchio si estende in linea di principio a qualsiasi modalità di uso del medesimo segno, ad es. in funzione di ditta e di insegna, così che la protezione può assorbire quella di altri segni distintivi. L’individuazione di criteri di discriminazione fra uso in funzione di marchio ed uso in altre funzioni distintive conserva tuttavia un’importanza non soltanto teorica. Da un lato infatti l’autonomia della funzione del marchio giustifica la ragion d’essere di una disciplina diversa da quella della ditta e dell’insegna. D’altro canto la tutela del marchio non è indiscriminatamente azionabile nei confronti degli usi in funzione di ditta: dovendosi in tal caso considerare l’interesse dei terzi ad utilizzare il proprio nome commerciale conformemente ai princìpi di correttezza professionale (v. infra, VIII.5).

I. La funzione giuridicamente protetta del marchio In passato, secondo l’interpretazione preferibile, il marchio assumeva una funzione distintiva della provenienza del prodotto o del servizio 1 da una organizzazione imprenditoriale unitaria e costante nel tempo. Conseguentemente la protezione del segno distintivo era ammessa nei limiti del rischio di confusione in ordine alla provenienza dei prodotti o servizi. Il marchio è tuttavia ora protetto non soltanto a fronte di utilizzazioni confusorie sulla provenienza del prodotto, ma anche contro i tentativi di approfittare o arrecare pregiudizio al valore pubblicitario dei marchi noti al pubblico (v. infra, VIII.3), così che la funzione distintiva tradizionale deve essere ripensata 2. La funzione distintiva del marchio sembra perciò ora da riferire non soltanto alla provenienza, ma più in generale alle strategie commerciali di offerta dei prodotti e servizi marcati 3. La funzione così ricostruita spiega la tutela del marchio contro utilizzazioni non confusorie, che pur sempre approfittano delle strategie commerciali di accreditamento del titolare (v. infra, VIII.3).

II. Il marchio non registrato Il marchio è l’unico segno distintivo per cui la legge prevede un apposito procedimento di registrazione (v. infra, VII) davanti a pubblici uffici, caratterizzato da efficacia costitutiva della protezione. Il sistema dei segni distintivi tuttavia riconosce e protegge anche i marchi che non siano stati oggetto di registrazione. Al riguardo in realtà il nostro ordinamento è privo una disciplina organica relativa ai marchi non registrati. L’art. 2571 prevede che “chi ha fatto uso di un marchio non

1

VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, 16 ss. Per alcune ricostruzioni della funzione del marchio alla luce dell’attuale disciplina cfr. GALLI, Funzione del marchio, 109 ss.; MANSANI, La funzione d’indicazione d’origine, 74 ss.; e soprattutto ora, anche in prospettiva storica, economica, comparatistica e di diritto europeo, RICOLFI, Trattato dei marchi, 40 ss. 3 Cfr. SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, 36 ss. 2

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registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso”. Anche il marchio non registrato rientra inoltre fra “i segni distintivi diversi dal marchio registrato” che il codice della proprietà industriale dichiara “protetti, ricorrendone i presupposti di legge” (art. 2, co. 4, c.p.i.). Né l’art. 2571, né il codice della proprietà industriale contengono tuttavia una disciplina espressa di questi presupposti e dell’ambito di protezione del marchio non registrato. Il sistema di protezione dei marchi non registrati è in realtà ricostruibile sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte con riferimento alla ditta e all’insegna. Questa protezione sembra precisamente ancora una volta fondata sulla disciplina della concorrenza sleale, ed in particolare sul divieto di uso di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri” (art. 2598, n. 1). Si tratta quindi di una protezione contro rischi di confusione presenti e attuali, concepibile solo per i marchi che siano stati di fatto usati (di qui anche l’espressione “marchio di fatto”, frequentemente utilizzata come sinonimo di “marchio non registrato”) e conosciuti dal pubblico (non potendo evidentemente i consumatori confondere segni di cui ignorano l’esistenza) 4. Si tratta inoltre di una protezione limitata al territorio in cui il segno è noto ai consumatori, e relativa ai settori merceologici per i quali l’uso di segni uguali o simili può determinare rischi di confusione in ordine all’impresa cui è riferibile l’offerta del prodotto o servizio. La durata della protezione del marchio non registrato (così come quella della ditta) corrisponde al periodo di tempo in cui il segno è effettivamente usato e memorizzato dal pubblico. La tutela del marchio di fatto è perciò estremamente debole, ed azionabile con molte maggiori difficoltà rispetto a quella del marchio registrato. Il titolare di un marchio non registrato deve infatti provare l’uso del segno e l’ambito territoriale in cui esso è conosciuto; mentre il marchio registrato è protetto anche anteriormente alla sua utilizzazione. Il marchio non registrato è protetto sull’intero territorio nazionale solo quando è stato usato e conosciuto ovunque nello stato; mentre il marchio registrato è protetto in tutto il territorio italiano, indipendentemente dall’uso e dalla conoscenza effettiva. Per questa ragione le imprese di dimensioni economiche medio-grandi tendono a registrare tutti i propri segni ancor prima di iniziarne l’utilizzazione. Il marchio non registrato distingue normalmente l’offerta di imprese di dimensioni ridotte, attive essenzialmente a livello locale, che non conoscono l’esistenza del procedimento di registrazione, o non sono interessate ad affrontarne gli oneri burocratici. La scarsa importanza economica del marchio non registrato giustifica la scelta legislativa di dettare al riguardo una disciplina estremamente scarna.

III. Le fonti della disciplina del marchio registrato Il codice civile disciplina il marchio registrato in poche norme (artt. 2569-2574), che si chiudono con un rinvio alle “leggi speciali”. La disciplina organica in materia si ritrova perciò nel codice della proprietà industriale, e precisamente negli artt. 7-28 4 VANZETTI-DI CATALDO; VANZETTI, I segni distintivi non registrati nel progetto di “codice”, RDInd, 2004, 99 ss.

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(per quanto riguarda gli aspetti sostanziali); 117-143 (per gli aspetti sanzionatori e processuali, comuni ad altre tipologie di diritti di proprietà industriale); 147-148, 169173 (per gli aspetti generali relativi al procedimento di registrazione, comuni ad altre tipologie di diritti di proprietà industriale); 156-159, 174-184 c.p.i. (per quanto riguarda gli aspetti specifici alla registrazione del marchio). Già si è detto che la disciplina italiana è largamente ispirata da esigenze di adeguamento alle convenzioni internazionali e all’ordinamento della UE. Il sistema di protezione del marchio è completato dal citato regolamento sul marchio dell’Unione europea (RMUE), che prevede una protezione unitaria estesa all’intero territorio della UE, fondata su una registrazione avanti all’ EUIPO. Mentre dunque il marchio nazionale è tutelato soltanto a fronte delle utilizzazioni che avvengono all’interno dei confini interni (c.d. principio di territorialità), il marchio UE è protetto uniformemente in tutto il territorio dell’Unione europea. È comunque possibile registrare uno stesso segno distintivo come marchio nazionale e contemporaneamente come marchio UE, per cumulare così la protezione prevista (in Italia) dal c.p.i., e rispettivamente la protezione (estesa all’intera UE) del RMUE. L’interpretazione delle norme di derivazione europea in materia di segni distintivi deve avvenire conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia (competente in sede di interpretazione pregiudiziale delle norme della direttiva, nonché in sede di impugnazione delle sentenze del Tribunale) e del Tribunale della UE (competente per l’applicazione delle norme del regolamento sul marchio UE in sede di impugnazione delle decisioni dell’ufficio europeo). La giurisprudenza della Corte e del Tribunale costituisce quindi il primo punto di riferimento per l’interpretazione della disciplina sulla tutela del marchio UE, nonché delle norme nazionali di attuazione della direttiva.

IV. Caratteristiche generali del marchio 1. Tipologie di marchi Il marchio si presta a molteplici tipologie di utilizzazione e composizione. Con riferimento alle modalità di utilizzazione, già si è vista l’esistenza di marchi di prodotto e di servizio. Un marchio può essere utilizzato per tipologie di prodotti estremamente diversificati (c.d. marchio generale, si pensi al marchio “Ferrero”), o per una singola tipologia di prodotti caratterizzata da precise caratteristiche merceologiche (c.d. marchio speciale si pensi al marchio “Coca-Cola”, o al marchio “Nutella”). Frequentemente l’uso del marchio generale è accompagnato a quello del marchio speciale (si pensi all’uso del marchio “Nutella” insieme al marchio “Ferrero”). Con riferimento alla composizione del marchio, si distingue fra marchi denominativi (formati da parole), figurativi (formati da disegni, o, secondo la terminologia moderna, loghi) o misti (che contemporaneamente ricomprendono parole e disegni). È possibile (ma evidentemente non necessario) che un marchio denominativo sia formato da un nome di persona (si pensi al settore della moda), e si parla in tali casi di marchio patronimico. In linea di principio la registrazione di marchi patronimici può avvenire

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da parte di chiunque, e quindi anche da parte di chi abbia un differente nome civile, “purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi” (art. 8, co. 2, c.p.i.). Chi abbia registrato un marchio patronimico non può tuttavia impedire al titolare del nome di farne uso, anche nel commercio, ed in ogni caso “nella ditta da lui prescelta” (art. 8, co. 2, c.p.i.). Il principio di registrabilità del nome altrui come marchio subisce inoltre una importante eccezione per l’eventualità che il nome risulti notorio (art. 8, co. 3, c.p.i., v. infra, VI.3). Le moderne tecniche di marketing conoscono tuttavia ulteriori modalità di presentazione e distinzione dei prodotti o servizi, non riconducibili alle tradizionali categorie dei marchi denominativi, figurativi e misti. L’ordinamento europeo e nazionale hanno allora riconosciuto la proteggibilità tendenzialmente di tutte le tipologie di segni (art. 7 c.p.i. e art. 4 RMUE), compresi quelli costituiti da lettere, cifre, suoni 5, colori 6 e tonalità cromatiche, nonché dalla forma del prodotto o della sua confezione (si pensi alla forma della bottiglia Coca-Cola, v. anche infra, V.2).

2. Il principio di estraneità del marchio al prodotto Secondo un’opinione ricorrente in dottrina, il marchio dovrebbe comunque essere estraneo al prodotto 7: da un lato in quanto la funzione distintiva presuppone che “ciò che distingue” sia diverso da “ciò che è distinto”, dall’altro perché il diritto sul marchio potrebbe diversamente condurre ad una monopolizzazione perpetua delle caratteristiche intrinseche del prodotto (e così ad es. la registrazione come marchio della trama di un tessuto impedirebbe ai terzi di produrre e vendere lo stesso tipo di tessuto). A meglio riflettere tuttavia questo principio non deve essere sopravvalutato. Esso anzitutto non può contraddire l’espressa volontà del legislatore di proteggere alcune categorie di segni che pure potrebbero considerarsi intrinseci al prodotto: quali ad es. “la forma del prodotto o la confezione di esso” (art. 7 c.p.i. e art. 4 RMUE). I rischi di monopolizzazione derivanti dalla tutela di queste tipologie di marchi sono presi in considerazione da altre norme dell’ordinamento nazionale e europeo (art. 9 c.p.i. e art. 7.1, lett. e, RMUE, proprio sui limiti di registrabilità della forma del prodotto), così che da tale punto di vista il richiamo ad un preteso principio di estraneità del marchio al prodotto nulla può aggiungere a quanto specificamente previsto dal legislatore, e si rivela sostanzialmente inutile. Non casualmente, i limiti alla registrazione dei marchi di forma sono recentemente stati estesi dalla direttiva marchi e dall’art. 7 RMUE a qualsiasi “altra caratteristica” del prodotto. Il legislatore europeo dimostra con ciò di volere affrontare direttamente il problema della tutela delle caratteristiche intrinseche del prodotto in una apposita norma, che ne vieta la registrazione nei casi e nei limiti in essa previsti. Il legislatore non sembra invece lasciare all’interprete il compito di ricostruire un ulteriore e diverso principio generale di estraneità del marchio al prodotto applicabile al di fuori delle ipotesi dell’art. 7 RMUE (e della corrispondente norma che il legislatore italiano dovrà in futuro introdurre in attuazione della direttiva).

5

Sulla registrabilità di marchi di suono cfr. CG 27-11-2003, C-283/01, Shield Mark, GADI, 2003, 1471. 6 Sulla registrabilità dei colori cfr. CG 6-5-2003, C-104/01, Libertel, GADI, 2004, 1283. 7 VANZETTI-DI CATALDO; RICOLFI, Le nozioni di “attitudine a distinguere” nel c.p.i. e nel diritto comunitario, DInd, 2008, 157 ss.

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3. Marchi individuali e marchi collettivi (rinvio) La disciplina del marchio nel seguito esposta fa riferimento essenzialmente al c.d. “marchio individuale”, che esplica la sua funzione distintiva rispetto ad uno ed un solo imprenditore responsabile delle strategie commerciali di offerta del prodotto o servizio. Al marchio individuale si contrappone il marchio collettivo (art. 2570, art. 11 c.p.i., artt. 66 ss. RMUE), destinato all’utilizzazione da parte di una pluralità di imprenditori, che esplica una funzione analoga a quelle delle indicazioni geografiche (art. 29 c.p.i.). Sulla disciplina dei marchi collettivi e delle indicazioni geografiche v. dunque infra, XII.

V. Requisiti del marchio: impedimenti assoluti 1. La capacità distintiva La tutela del marchio richiede la presenza di vari requisiti, la cui mancanza può essere fatta valere davanti al giudice quale causa di nullità dei marchi registrati, per l’ipotesi in cui non sia stata rilevata nell’ambito del procedimento di registrazione. Alcuni requisiti riflettono l’esistenza di interessi generali in conflitto con la tutela del marchio. La mancanza di questi requisiti può essere fatta valere con un’azione di nullità esercitabile da chiunque vi abbia interesse: si tratta perciò di una nullità assoluta. Il regolamento sul marchio UE utilizza l’espressione “impedimenti assoluti alla registrazione” proprio per elencare le ipotesi di mancanza dei requisiti in esame (art. 7 RMUE). L’espressione dà ben conto della collocazione sistematica e degli interessi sottostanti a queste cause di nullità del marchio, e verrà utilizzata nella seguente trattazione, ancorché non compaia nel linguaggio del legislatore nazionale. In questo sistema un ruolo centrale svolge il requisito della capacità distintiva del marchio. L’interesse generale sottostante al requisito della capacità distintiva è quello a mantenere la libera disponibilità di strumenti di comunicazione utili a promuovere l’offerta del prodotto o servizio. Nell’ordinamento italiano questo interesse si esprime tuttora attraverso il principio tradizionale che considera privi di carattere distintivo “in particolare” i segni “costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio” (art. 13, co. 1, lett. b, c.p.i.). Si tratta quindi delle indicazioni generiche o descrittive, che ogni imprenditore deve potere utilizzare, per comunicare al pubblico le caratteristiche della propria offerta. Il carattere descrittivo deve essere valutato in relazione ai prodotti o servizi per cui la tutela viene richiesta, e un medesimo segno può dunque essere descrittivo per alcuni prodotti, e ad un tempo validamente tutelabile come marchio per altri prodotti (come nell’esempio del segno “diesel”, nullo come marchio di automobili, ma valido come marchio di abbigliamento). Il problema del carattere descrittivo presenta aspetti peculiari con riferimento alle denominazioni geografiche. Si ritiene comunemente che queste denominazioni non possano

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costituire valido marchio individuale quando la provenienza geografica assume rilievo come elemento idoneo ad influenzare le caratteristiche qualitative, o comunque la reputazione del prodotto (si pensi al caso dei prodotti alimentari). Qui la tutela è concepibile solo come marchio collettivo o in base alla disciplina specifica delle indicazioni geografiche (v. infra, XII). Quando viceversa la provenienza geografica non influenza le caratteristiche qualitative del prodotto (si pensi al marchio “Legnano” per biciclette) il corrispondente marchio è ritenuto valido. La capacità del nome geografico di evocare qualità del prodotto pare tuttavia sussistere non solo quando il luogo comunica la presenza di obiettive caratteristiche merceologiche (come avviene generalmente per i prodotti agroalimentari, ma si pensi anche al nome “Murano” per prodotti in vetro), ma altresì quando è dotato di valenza suggestiva legata alla fama del territorio (si pensi al nome “Cortina” per sci) 8. La definizione europea del requisito della capacità distintiva è più completa, ed è da ritenere valida anche per l’interpretazione del diritto italiano, tenendo conto che l’art. 18 c.p.i. qualifica privi di carattere distintivo “in particolare” i segni generici e descrittivi, ma non soltanto essi. Il diritto europeo, precisamente, esclude dalla protezione “i marchi privi di carattere distintivo” (art. 7.1, lett. b, RMUE), considerandoli come fattispecie autonoma da quella delle indicazioni descrittive (separatamente contemplate nell’art. 7.1, lett. c, RMUE). Questa autonoma previsione ha una propria ragion d’essere in quanto alcuni segni, pur in assenza di descrittività, non sono percepiti dal pubblico in funzione distintiva. La giurisprudenza ha ad es. ritenuto di escludere dalla registrazione in base alla norma in esame le forme del prodotto, qualora esse non vengano percepite dal pubblico in funzione distintiva: e ciò precisamente in quanto il consumatore non è abituato ad identificare l’origine del bene sulla base delle sue caratteristiche tridimensionali 9. La Corte di Giustizia ha inoltre svolto analoghe considerazioni in materia di registrazione di slogan, che possono essere percepiti dal pubblico in funzione non distintiva, ma essenzialmente promozionale 10. E così pure ha ritenuto in astratto validamente registrabili singoli colori, ma ha imposto di verificare il loro effettivo carattere distintivo, anche alla luce dell’interesse generale a non restringere indebitamente la disponibilità di cromatismi per gli altri operatori 11. La capacità distintiva è assente infine anche nei segni “divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio” (art. 13, co. 1, lett. a, c.p.i. e art. 7.1, lett. d, RMUE) 12. La norma sembra valorizzare l’uso effettivo del segno da parte di una pluralità di imprenditori quale indice sintomatico dell’esistenza di un interesse generale allo sfruttamento di tecniche comunicazionali. L’ipotesi ricorre probabilmente per figure quali i simboli araldici, l’aquila, il leone, la corona d’alloro: la cui ampia utilizzazione riflet-

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In tal senso sembra di potere leggere CG 4-5-1999, C-108 e C-109/97, Chiemsee, GADI, 1999,

1524. 9 CG 29-4-2004, C-473/01P e C-474/01P, Procter & Gamble, GADI, 2004, 1417; CG 7-10-2004, C136/02 P, Mag Instrument, ivi, 2005, 1235; per una lettura di questa giurisprudenza cfr. SARTI, I marchi di forma fra secondary meaning e funzionalità, in Studi di diritto industriale in onore di Vanzetti, Milano, 2004, 1411 ss.; RICOLFI, Trattato dei marchi, 244 ss. 10 CG 21-10-2004, C-64/02 P, Erpo, Racc, 2004, I-10031; e sul problema cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 250 ss. 11 CG 6-5-2003, C 104/01, Libertel, GADI, 2004, 1283; per una lettura della giurisprudenza europea cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 249 s. 12 Cfr. VANZETTI, Marchi e segni di uso comune, RDCiv, 2002, 895; AMMENDOLA, I segni divenuti di “uso comune” e la loro inappropriabilità come marchi, in Studi di diritto industriale in onore di Vanzetti, cit., 1 ss.

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te a ben vedere un generale significato di eleganza od eccellenza. E così pure forse ricorre per celebri disegni, opere d’arte (si pensi all’uomo vitruviano di Leonardo) o personaggi della tradizione (si pensi a Babbo Natale) generalmente sfruttati in virtù del valore fortemente simbolico da essi assunto.

L’assenza del requisito della capacità distintiva può essere sanata “se prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo” (art. 13, co. 3, c.p.i., e v. anche il corrispondente art. 7.3 RMUE). Dottrina e giurisprudenza fanno riferimento a questo fenomeno utilizzando l’espressione anglosassone secondary meaning, che evidenzia l’acquisto da parte del segno di un significato secondario distintivo ulteriore rispetto al significato primario descrittivo. L’acquisto di secondary meaning riflette l’uso costante del segno nel “primo contatto” con il pubblico da parte di uno ed un solo imprenditore. In questa situazione è possibile che il pubblico dimentichi il significato primario del termine, ed interpreti il segno in funzione distintiva. Così ad es. segni quali “Multifilter” per sigarette, o “La Scarpa” per scarpe, erano originariamente certo privi di capacità distintiva, ma ora costituiscono probabilmente validi marchi per effetto dell’acquisto di secondary meaning. Alla base della tutela vi è qui probabilmente l’idea secondo cui il secondary meaning costituisce un filtro alla protezione, idoneo ad evitare un’indiscriminata monopolizzazione di tutti i segni utili a fini promozionali. L’acquisto di secondary meaning deve quindi essere accertato con una certa cautela. La Corte di Giustizia ha anzi evidenziato la necessità di dimostrare un uso prolungato ed intensivo riconosciuto dal pubblico in funzione distintiva, ed addirittura un accreditamento del segno tale da far passare in secondo piano la sua intrinseca funzione promozionale. Questa situazione deve essere accertata caso per caso valutando “la quota di mercato detenuta dal marchio, l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso di tale marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo, la percentuale degli ambienti interessati che identifica il prodotto come proveniente da un’impresa determinata” (ma la soglia di rilevanza di questa percentuale non può essere definita in via generale ed astratta) 13. Ed al riguardo indizi utili possono essere tratti dalle dichiarazioni delle camere di commercio e industria o di altre associazioni professionali, nonché da sondaggi di opinione 14.

2. Il problema dei marchi di forma Un ulteriore ordine di interessi generali in conflitto con la tutela del marchio riguarda specificamente i marchi di forma, che possono essere registrati nei limiti previsti dall’art. 9 c.p.i. e dal corrispondente art. 7.1, lett. e), RMUE. Si tratta, come si è accennato, non di segni apposti sul prodotto, ma della forma stessa del prodotto (si pensi alla forma del biscotto “Bucaneve”) o del suo contenitore (si pensi alla bottiglia della Coca-Cola), che abbia una capacità distintiva. Proprio in ragione delle peculiarità di questa tipologia di marchio, la legge pone appunto limiti

13 Sulla ponderazione dei diversi criteri di accertamento del secondary meaning cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 292 ss. 14 CG Chiemsee, cit.

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alla relativa registrabilità. Sono in particolare escluse dalla registrazione le forme imposte “dalla natura stessa del prodotto”; le forme necessarie “per ottenere un risultato tecnico” e le forme che danno “un valore sostanziale al prodotto”. In questi casi la forma costituisce infatti una caratteristica intrinseca del prodotto, che può essere protetta in base ad altre norme dell’ordinamento della proprietà industriale: e precisamente attraverso la brevettazione delle invenzioni (artt. 45 ss. c.p.i.) e modelli di utilità (artt. 82 ss. c.p.i.) per quanto attiene alle intrinseche caratteristiche tecniche; attraverso la registrazione dei disegni e modelli (artt. 31 ss. c.p.i.) per quanto attiene alle intrinseche caratteristiche di forma e colore; attraverso la tutela del diritto d’autore (l. 633/1941) per quanto attiene al valore artistico del prodotto (cfr. in particolare l’art. 2, n. 10 sulla tutela d’autore delle opere del disegno industriale). Diversamente dalla registrazione del marchio, tutte queste altre tipologie di protezione hanno durata temporanea (anche se a volte estremamente lunga, in particolare per il diritto d’autore). I limiti di registrabilità come marchio riflettono dunque l’interesse ad evitare che la tutela (perpetua) del segno distintivo eluda i limiti temporali previsti per gli altri diritti di proprietà industriale. Il riferimento alle forme imposte dalla natura stessa del prodotto non è di facile lettura: non solo perché è in concreto difficile immaginare prodotti realizzabili in un’unica forma “imposta” dalla loro natura; ma anche perché verosimilmente forme del genere (ad es. quella di un pallone, e così anche la forma a collo allungato tipica delle bottiglie) non hanno e nemmeno possono acquistare capacità distintiva 15. L’esclusione dalla registrazione delle forme necessarie “per ottenere un risultato tecnico” si spiega in quanto la funzionalità tecnica non può essere monopolizzata in base alla disciplina dei marchi, ma può al più eventualmente essere tutelata in presenza dei presupposti formali e sostanziali, nonché nei limiti temporali dei brevetti per invenzione e modello di utilità. Al riguardo la Corte di Giustizia ha considerato non registrabili tutte le forme tecnicamente utili, benché non indispensabili e perciò sostituibili attraverso soluzioni tecniche equivalenti: per tale ragione è stata negata la registrabilità come marchio della disposizione a triangolo delle testine di un rasoio elettrico 16. Le forme che danno “un valore sostanziale al prodotto” sono probabilmente quelle apprezzate dai consumatori per le loro caratteristiche di pregio estetico: che in tali casi possono al più essere monopolizzate attraverso la registrazione come modello industriale 17. L’esclusione dalla registrazione riguarda in particolare quindi principalmente le forme dell’industrial design 18. Parrebbe ad esempio da escludere, ancorché il punto sia controverso, la registrabilità come marchio della forma di una lampada di design.

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Per un tentativo di definizione del requisito cfr. CG 18-9-2014, C-205/13, Stokke, GADI, 2014,

1414. 16 CG 18-6-2002, C-299/99, Philips, GADI, 2002, 1135; v. inoltre CG 14-9-2010, C-48/09, Lego, GADI, 2010, 1249, che analogamente nega la registrabilità della forma del mattoncino Lego. 17 Cfr. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme ornamentali e funzionali, RDInd, 1994, I, 319 ss.; SARTI, I marchi di forma, cit., 1434 ss. 18 Per una importante applicazione del principio cfr. Trib. UE 6-10-2011, T-508/08, Bang & Olufsen, GADI, 2011, 1729; cfr. inoltre CG, Stokke, cit.

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3. Il carattere non ingannevole Ulteriori requisiti di protezione derivano non da interessi generali alla libera utilizzabilità, ma da interessi altrettanto generali a vietare a chiunque l’uso di determinati segni, quanto meno nella funzione tipica del marchio. Alcuni di questi requisiti sono disciplinati all’art. 14 c.p.i. sotto la rubrica liceità. L’ipotesi più importante al riguardo è rappresentata dal divieto di registrare “i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulle qualità dei prodotti o servizi” (art. 14, co. 1, lett. b, c.p.i. e art. 7.1, lett. g, RMUE). Sono quindi nulli i marchi ingannevoli, detti anche marchi decettivi. L’ingannevolezza è distintamente contemplata anche dall’art. 14, co. 2, c.p.i. e dall’art. 51.1, lett. c, RMUE quale possibile conseguenza di scorrette modalità d’uso del segno, ed è sanzionata con la decadenza (non con la nullità). Una particolare modalità di uso ingannevole è poi ulteriormente presa in considerazione dall’art. 23, co. 4, c.p.i., per l’eventualità che l’inganno derivi dal trasferimento. L’ordinamento detta dunque differenti discipline per l’ingannevolezza originaria del marchio e rispettivamente per quella sopravvenuta a seguito di particolari modalità d’uso o del trasferimento: e considera propriamente nullo soltanto il marchio originariamente ingannevole. In un celebre caso la giurisprudenza nazionale ha ad es. considerato nullo il marchio “Cotonelle” registrato per carta igienica, e quindi per un prodotto che non può avere cotone all’interno della propria composizione 19.

4. Ordine pubblico, buon costume, convenzioni internazionali, buona fede Un ulteriore possibile profilo di illiceità del marchio che ne determina la nullità assoluta è dato dalla “contrarietà alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 14, co. 1, lett. a, c.p.i. e art. 7.1, lett. f, RMUE, che peraltro non menziona testualmente la contrarietà alla legge). Si tratta di un impedimento che probabilmente mira a disincentivare strategie di accreditamento commerciale basate su messaggi contrari ai valori fondamentali dell’ordinamento. La giurisprudenza europea ha precisato che la contrarietà all’ordine pubblico e buon costume va valutata in relazione alle caratteristiche intrinseche del marchio, e non all’attività che si propone di svolgere il titolare. Un marchio può dunque essere validamente registrato quand’anche il titolare si proponga di utilizzarlo per attività illecite, o subordinate ad autorizzazioni o licenze amministrative che non gli siano state concesse 20. In via generale la norma è scarsamente applicata e sembra avere un’importanza modesta, anche se recentemente è giunta all’attenzione della giurisprudenza italiana con riferimento ad un marchio piuttosto noto al pubblico, e cioè al grafismo del marchio “A-Style” 21. L’art. 10 c.p.i. esclude inoltre la registrazione come marchi degli “stemmi” e “altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia”. All’interno di queste convenzioni assume rilievo in particolare l’art. 6-ter CUP, che vieta di registrare come

19 Cass. 9-4-1996, n. 3276, GADI, 1996, 17 ; sulla problematica individuazione delle ipotesi di ingannevolezza originaria cfr. GIUDICI, Il marchio decettivo, Milano, 2012, 62 ss. 20 Trib. CE, 13-9-2005, T-140/02, Sportwetten, Racc, 2005, II-3247. 21 Cfr. Trib. Bari, 25-6-2007, RDInd, 2008, II, 480.

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marchio (in assenza di autorizzazione delle autorità competenti) “stemmi, bandiere e altri emblemi di stato dei Paesi dell’Unione, di segni o di punzoni ufficiali di controllo e di garanzia da essi adottati, nonché di qualsiasi loro imitazione dal punto di vista araldico”. All’art. 6-ter CUP rinvia infatti espressamente l’art. 7.1, lett. h, RMUE. Il divieto di registrazione sembra qui riflettere in linea di principio un interesse pubblico a non “svilire” l’immagine di simboli riconosciuti internazionalmente. In tale prospettiva l’impedimento alla registrazione pare sussistere indipendentemente dall’idoneità dell’uso del segno ad evocare l’esistenza di un legame istituzionale fra l’utilizzatore e lo stato o l’organizzazione internazionale; ed a maggior ragione da rischi di confusione o associazione con questa attività. L’art. 19, co. 2, c.p.i. prevede infine che “non può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede”. Il deposito in mala fede della domanda è previsto altresì quale causa di nullità del marchio UE all’art. 51.1, lett. b, RMUE. Non si tratta qui di un vero e proprio requisito del marchio, ma di un impedimento fondato sullo stato soggettivo del richiedente, il cui significato appare problematico 22. L’applicazione della norma è forse immaginabile in caso di deposito sistematico di un numero amplissimo di marchi, che denoti la volontà del depositante di “ingombrare” il registro, per precludere ai terzi il reperimento di nuovi segni distintivi non confondibili 23.

VI. Requisiti del marchio: impedimenti relativi 1. Novità e conflitti con segni registrati La protezione del marchio presuppone inoltre la presenza di ulteriori requisiti previsti a tutela di interessi individuali: e precisamente di chi vanti (a diverso titolo) diritti anteriori in conflitto con la registrazione. La mancanza di questi requisiti costituisce una causa di nullità della registrazione che può essere fatta valere soltanto dai titolari dei diritti anteriori (art. 122, co. 2, c.p.i.). Si tratta perciò di una nullità che il regolamento sul marchio UE espressamente qualifica come relativa (art. 53 RMUE), ricostruendo così una categoria di “impedimenti relativi” (art. 8 RMUE). Le espressioni “nullità relativa” e “impedimenti relativi” non compaiono nella legislazione nazionale, ma sembrano adeguate a descrivere l’impianto sistematico sottinteso anche dall’ordinamento italiano. Esse saranno perciò utilizzate nella seguente trattazione, in contrapposizione alle espressioni “nullità assoluta” e “impedimenti assoluti”. La più importante categoria di impedimenti relativi deriva dall’esistenza di diritti di terzi su segni distintivi anteriori in conflitto con il marchio registrato. Nel linguaggio del legislatore italiano, la presenza di segni anteriori fa venire meno il requisito della novità (art. 12 c.p.i.). Gli impedimenti fondati sull’esistenza di diritti su segni distintivi anteriori hanno una portata corrispondente all’estensione di questi diritti. Sono quindi privi di novità i marchi la cui utilizzazione rappresenterebbe una violazione dei diritti sui segni di-

22 23

AMMENDOLA, Il deposito del marchio in malafede, RDInd, 2002, I, 254 ss. Cfr. le considerazioni e riferimenti di RICOLFI, Trattato dei marchi, 390 s.

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stintivi anteriori 24 (si pensi a chi chiedesse la registrazione del segno “Disel” per abbigliamento, in violazione del marchio già registrato “Diesel”). Le ipotesi di assenza di novità possono essere classificate in relazione alle diverse tipologie di segni in conflitto. i) Una prima tipologia è costituita dai segni distintivi registrati con efficacia anteriore (art. 12, co. 1, lett. c, d, ed e, c.p.i.; art. 8.2 RMUE). L’anteriorità deve essere valutata in relazione alla data di deposito della domanda, non a quella di concessione della registrazione, così che la validità di un marchio può essere pregiudicata da qualsiasi segno depositato anteriormente, ancorché registrato successivamente. Rilevano come anteriorità tutte le domande depositate “nello stato o con efficacia nello stato”: e perciò non solo le domande dei marchi italiani, ma anche le domande di marchi internazionali che abbiano designato l’Italia (v. infra, VII.2), e naturalmente anche le domande di marchio europeo. I marchi europei perdono novità per effetto di domande aventi efficacia anche in uno solo dei paesi membri (art. 8.2, lett. a, punti ii), iii) e iv), RMUE). Non è invece anteriorità opponibile ai marchi nazionali la registrazione in paesi esteri, ancorché appartenenti alla UE: e così ad es. la registrazione italiana non è pregiudicata da una registrazione di un segno uguale o simile in Francia. Nei paesi (fra cui l’Italia) aderenti alla Convenzione di Unione di Parigi è applicabile tuttavia il principio della c.d. priorità unionista, secondo cui il deposito in uno dei paesi aderenti può prendere effetto dalla data anteriore di un deposito in un altro paese unionista, purché avvenuto nei 6 mesi precedenti (art. 4 CUP). Il meccanismo della priorità agevola dunque l’estensione della protezione a vari paesi dell’Unione, in quanto consente di depositare il marchio in un primo paese unionista, e procedere poi al deposito (entro 6 mesi) in differenti paesi unionisti, senza correre il rischio che fra la data di primo deposito e le date successive un terzo si intrometta per chiedere (magari maliziosamente) la protezione di segni uguali o simili.

Le registrazioni anteriori, come si è detto, fanno venir meno il requisito della novità nei limiti in cui attribuiscono al registrante la possibilità di vietare l’uso del marchio successivo: e perciò nei limiti in cui l’utilizzazione del marchio successivo determini rischi di confusione con quello anteriore, o un approfittamento o pregiudizio della sua notorietà, secondo i princìpi esposti infra, VIII. Non fanno venir meno la novità le registrazioni anteriori che hanno perduto efficacia a seguito di decadenza o scadenza. Non costituiscono quindi impedimenti opponibili i marchi decaduti per mancato uso (art. 14, co. 1, lett. h, c.p.i. e art. 43.2 RMUE), secondo la disciplina esaminata infra, X.4. In linea di principio non costituiscono impedimenti opponibili nemmeno i marchi scaduti, e cioè quelli per i quali la registrazione non è stata rinnovata al termine del decennio 25. 24

Ritiene però esistano anche punti di distacco fra giudizio di novità e contraffazione RICOLFI, Trattato dei marchi, 462 ss., il quale sottolinea il carattere necessariamente prognostico (delle modalità d’uso futuro) del giudizio di novità, contrapponendolo al giudizio ex post (basato su una valutazione delle concrete modalità d’uso del segno) relativo alla contraffazione. 25 Il principio di inopponibilità delle anteriorità decadute o scadute comporta un’ampia serie di problemi evidenziati da RICOLFI, Trattato dei marchi, 422 ss.

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L’ordinamento italiano limita peraltro questa regola prevedendo l’inopponibilità delle sole registrazioni “scadute da oltre due anni ovvero tre se si tratta di marchio collettivo” (art. 14, co. 1, lett. h, c.p.i.). La previsione della legge italiana sembra ispirata alla ratio di impedire la registrazione di segni che, benché scaduti per mancato rinnovo, potrebbero ancora essere impressi nella mente dei consumatori. Un corrispondente principio non vale tuttavia per il marchio UE, al quale le registrazioni scadute non possono mai essere opposte.

2. Novità e conflitti con segni non registrati ii) Il requisito della novità del segno è inoltre pregiudicato dall’esistenza di diritti anteriori su segni distintivi non registrati. ii-a) La più importante tipologia di questi segni è costituita dai marchi utilizzati anteriormente alla registrazione. Già si è visto che l’utilizzatore di marchi non registrati vanta un diritto esteso all’ambito territoriale in cui il segno ha acquisito notorietà presso il pubblico. In tale prospettiva il legislatore distingue due diverse situazioni, a seconda che il segno abbia acquisito notorietà locale, o invece sia conosciuto in ambito nazionale. Nel primo caso “l’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell’uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso” (art. 12, co. 1, lett. a, c.p.i.; in senso analogo cfr. l’art. 8.4 RMUE). L’uso del segno che viceversa importi una vera e propria notorietà nazionale attribuisce diritti estesi a tutto lo stato. Corrispondentemente esso fa perdere la novità dei marchi posteriori confondibili, e determina un vizio di nullità relativa (art. 12, co. 1, lett. a, c.p.i.; in senso analogo cfr. l’art. 8.4 RMUE). Il requisito della novità viene meno non per il semplice uso anteriore, ma per un uso qualificato dalla notorietà. L’applicazione di questo principio può porre qualche problema quando un segno non usato è comunque noto in un paese: ad es. per effetto di campagne pubblicitarie non accompagnate da utilizzazioni, o per il fenomeno del turismo (si pensi al segno Harrods dei grandi magazzini londinesi). Proprio a queste ipotesi pare riferirsi l’art. 6-bis CUP, attuato dall’art. 12, co. 1, lett. a, c.p.i., e dall’art. 8.2, lett. c, RMUE, che considerano privi del requisito di novità i segni anticipati dal marchio “che ai sensi dell’art. 6-bis della Convenzione di Unione di Parigi per la proprietà industriale […] sia notoriamente conosciuto presso il pubblico interessato, anche in forza della notorietà acquisita nello stato attraverso la promozione del marchio”. Naturalmente anche i segni non registrati possono costituire impedimenti opponibili solo nei limiti in cui attribuiscono al preutente il diritto di vietare l’uso del marchio successivamente registrato. Già si è visto inoltre che i diritti sui segni non registrati possono essere fatti valere nei limiti di esistenza di un rischio di confusione concreto e attuale (supra, § 14.II.3). Coerentemente a questi principi, l’art. 12, co. 1, lett. a, c.p.i. precisa che il requisito della novità è pregiudicato dalla presenza di segni anteriori già noti “se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o somiglianza fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”. Un corrispondente principio è da ritenere accolto per quanto riguarda il marchio UE. L’art. 8.4 RMUE disciplina infatti i conflitti fra marchi preusati e marchi UE rinviando alle legislazioni degli stati membri.

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Il codice non prevede invece testualmente l’eventualità che il marchio preusato goda di rinomanza. La mancata disciplina riflette probabilmente il carattere quasi soltanto teorico dell’ipotesi di marchi rinomati ma non registrati. Meno teorica è forse l’eventualità di marchi registrati in altri paesi, che abbiano acquisito rinomanza in Italia per effetto della pubblicità e del sistema di comunicazioni internazionali. Proprio per tali ipotesi infatti l’art. 12, co. 1, lett. f, c.p.i. estende l’applicazione del principio dell’art. 6-bis CUP “quando ricorrono le condizioni di cui alla lett. e”, e perciò quando il registrante approfitta del carattere distintivo o della rinomanza del marchio straniero, o vi arreca pregiudizio.

ii-b) Il legislatore italiano regola inoltre espressamente il conflitto fra marchio registrato e segni anteriori noti come “ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica” (art. 12, co. 1, lett. b, c.p.i.). Anche questi segni fanno venire meno la novità delle successive registrazioni, in situazioni corrispondenti a quelle del conflitto con i marchi non registrati. La novità viene dunque meno se il segno anteriore vanta una notorietà a livello nazionale, e nei limiti di un rischio di confusione o associazione. Il conflitto fra marchi ed altre tipologie di segni distintivi è ulteriormente disciplinato nell’art. 12 c.p.i. per l’ipotesi inversa in cui un terzo utilizzi come ditta, ragione o denominazione sociale, insegna o nome a dominio un segno confondibile con un marchio altrui. Anche questo conflitto è regolato secondo princìpi corrispondenti a quelli applicabili all’interferenza fra segni entrambi utilizzati in funzione di marchio.

3. Conflitti con altre tipologie di diritti iii) Il marchio deve infine rispettare diritti anteriori diversi da quelli sui segni distintivi. Il conflitto con questi diritti costituisce ancora una volta una causa di nullità relativa. L’art. 14 c.p.i. preclude la registrazione dei segni “il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi” (art. 14, co. 1, lett. c, c.p.i.). Si pensi alla registrazione come marchio per prodotti da forno del disegno di un mulino, senza il consenso dell’artista autore del disegno medesimo. Il conflitto con anteriori diritti dei terzi non è rilevabile da chiunque vi ha interesse, ma “soltanto dal titolare dei diritti anteriori”, secondo quanto prevede l’art. 122, co. 2, c.p.i., ed è dunque riconducibile alle ipotesi di nullità relativa, analogamente a quanto espressamente prevede l’art. 53.2 RMUE. Il regolamento sul marchio UE menziona fra i possibili diritti anteriori in conflitto anche il “diritto al nome” e “il diritto all’immagine”. Diritto al nome e all’immagine, pur non menzionati espressamente dall’art. 14 c.p.i., senz’altro rientrano comunque fra gli altri diritti esclusivi di terzi cui la norma fa genericamente riferimento. Ciò a maggior ragione in quanto l’art. 8 c.p.i. vieta di registrare come marchio i ritratti di persone (e dunque necessariamente la loro immagine) in mancanza del consenso del ritrattato o (dopo la sua morte) del coniuge, dei figli e dei congiunti fino al quarto grado. Lo stesso art. 8 menziona anche il diritto al nome: e non ne esclude la registrazione come marchio anche da parte di chi porti un nome diverso, purché l’uso non sia pregiudizievole al decoro della persona (art. 8, co. 2, c.p.i.), o purché il nome non sia notorio (art. 8, co. 3, c.p.i.). Il coordinamento fra l’art. 14, co. 1, lett. c, c.p.i. e l’art. 8 porta a concludere che la registrazione del nome come marchio non costituisce di per sé una violazione del diritto della personalità, e non può essere perciò automaticamente posta alla base di un’azione di nullità. L’azione di nullità dell’art. 14, co. 1, lett. c, c.p.i. presuppone la dimostrazione di una lesione dell’onore (che non

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può automaticamente derivare dall’uso commerciale del nome) o della notorietà altrui. Il problema della lesione dell’altrui notorietà ispira anche l’art. 8, co. 3, c.p.i., secondo cui “se notori, possono essere registrati come marchio solo dall’avente diritto, o con il consenso di questi […] i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo”. La norma protegge quindi l’interesse di alcuni soggetti, che hanno acquisito notorietà al di fuori del campo imprenditoriale, a monetizzare anche commercialmente il valore di questa notorietà: ed in particolare a registrare come marchio il loro nome famoso (o a consentirne la registrazione altrui), per concederne lo sfruttamento a imprese terze. La norma assume ulteriore importanza sistematica in quanto implicitamente presuppone che soggetti diversi dagli imprenditori possano registrare marchi, per concederli in uso ad imprenditori terzi. Tanto si desume dall’art. 19 c.p.i., che consente di registrare un marchio di impresa a “chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso”. L’ipotesi è frequente nel mondo dello sport: si pensi alla registrazione del nome “Gigi Buffon” ed alla sua concessione in uso per scarpe da calcio. La legge impedisce così operazioni parassitarie quali la registrazione del nome “Gigi Buffon” da parte di un imprenditore che non abbia alcun rapporto con il calciatore. La norma ha un fondamento per certi aspetti analogo al divieto di sfruttare il valore pubblicitario dell’altrui marchio rinomato (v. infra, VIII.3). Il divieto di approfittamento dell’altrui notorietà risulta tuttavia in tal modo applicabile non solo quando questa notorietà sia stata acquisita in ambito imprenditoriale da un segno usato come marchio (si pensi al marchio Coca-Cola, utilizzato fin dall’origine da un’impresa produttrice di bevande), ma anche in situazioni dove la fama è stata acquisita da un nome usato in ambito extraimprenditoriale (si pensi proprio al nome del calciatore Buffon) 26.

VII. Il procedimento di registrazione 1. Il procedimento nazionale La fattispecie costitutiva della tutela disciplinata dalle norme europee e nazionali si perfeziona attraverso la registrazione del marchio, a seguito di un apposito procedimento avviato su domanda (c.d. deposito) dell’aspirante titolare. In Italia la registrazione avviene presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM). La domanda deve contenere le generalità del richiedente, la riproduzione del marchio, l’elenco dei prodotti e servizi che è destinato a contraddistinguere (art. 156 c.p.i.). L’UIBM concede la registrazione dopo avere verificato la regolarità del deposito e la proteggibilità del marchio. Il provvedimento dell’UIBM che rifiuta la registrazione è comunque impugnabile avanti ad un apposito organo giurisdizionale speciale, denominato Commissione dei ricorsi (art. 135 c.p.i.). Allo stato anche a livello nazionale è previsto che l’Ufficio rifiuti la registrazione quando riscontri l’assenza dei relativi requisiti (c.d. esame preventivo). L’esercizio del potere di esame preventivo è diversamente disciplinato in relazione alle diverse ti-

26

16 ss.

Cfr. AMMENDOLA, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni, Milano, 2004,

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pologie di vizi. I vizi che riflettono interessi generali alla libera utilizzazione di determinati segni (ad es., per assenza di capacità distintiva) dovrebbero essere rilevati d’ufficio dall’UIBM (cfr. art. 17, co. 1, lett. a, c.p.i.). I vizi derivanti dall’anteriore esistenza di diritti su segni uguali o confondibili sono rilevabili, come si è detto, soltanto su iniziativa del titolare di anteriori diritti in conflitto, che possono perciò intervenire nel procedimento davanti all’UIBM in opposizione alla registrazione (artt. 174 ss. c.p.i.).

La concessione della registrazione non garantisce la valida nascita di diritti sul segno. È infatti sempre possibile lamentare davanti all’autorità giudiziaria ordinaria che il marchio registrato è privo di uno o più tra i sopra esaminati requisiti di protezione. L’assenza di questi requisiti impone in particolare al giudice di dichiarare la nullità della registrazione, secondo le regole esposte infra, X.2. In presenza dei requisiti di tutela, la registrazione ha efficacia costitutiva di diritti (art. 15 c.p.i.) che prescindono dall’uso e dalla conoscenza del segno presso il pubblico. Risulta così protetto l’interesse delle imprese a disporre di un certo periodo di tempo anteriore all’uso del marchio, per programmare il lancio e gli investimenti pubblicitari dei relativi prodotti. Il titolare della registrazione ha tuttavia l’onere di utilizzare il proprio segno entro cinque anni, diversamente perdendo i propri diritti per decadenza (art. 24 c.p.i., v. infra, X.4). Il marchio registrato ha una protezione di durata potenzialmente perpetua, ma la registrazione deve essere rinnovata a scadenze decennali, presentando apposita domanda all’UIBM. Diversamente, il marchio si considera scaduto decorsi i dieci anni dalla registrazione o rinnovo (artt. 15, co. 4 e 16, c.p.i.).

2. La registrazione internazionale La registrazione nazionale fa sorgere una protezione limitata al territorio del paese dell’ufficio presso cui è stata richiesta e concessa. Così in particolare la registrazione da parte dell’UIBM fa sorgere una protezione limitata al territorio italiano. La legislazione internazionale agevola tuttavia l’estensione della protezione a differenti paesi. In particolare l’Italia ha aderito all’Accordo e al Protocollo di Madrid per la registrazione internazionale dei marchi, che consentono di depositare una domanda di marchio presso l’ufficio nazionale di un paese aderente, chiederne la trasmissione ad un apposito ufficio internazionale amministrato dalla World Intellectual Property Organization (WIPO), con sede a Ginevra, ed indicare gli ulteriori paesi (cc.dd. paesi designati) a cui estendere la registrazione. L’Ufficio internazionale procede quindi a registrare il segno (registrazione internazionale del marchio), e a notificare questa registrazione agli uffici dei paesi designati. I paesi designati hanno un certo periodo di tempo per dichiarare di rifiutare la protezione, sulla base degli stessi motivi che giustificherebbero il rifiuto di una registrazione nazionale. In mancanza di rifiuto, il marchio è protetto in tutti i paesi designati nella domanda. La registrazione internazionale consente di ottenere attraverso un’unica domanda non un marchio unitario, ma tanti marchi nazionali, autonomamente in vigore in ogni paese per cui è stata richiesta l’estensione della protezione (di qui la frequente espressione fascio di marchi). Ciascuno di questi marchi è disciplinato dall’ordinamento di ogni paese nazionale; può essere dichiarato nullo singolarmente per il proprio territorio da parte delle autori-

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tà giudiziarie statali, e può dunque risultare valido in alcuni paesi e nullo in altri; può essere trasferito autonomamente per ciascuno stato. In via eccezionale il sistema di Madrid priva peraltro di effetti in ogni paese la registrazione dichiarata nulla nello stato in cui la domanda è stata originariamente presentata, e di qui trasmessa all’ufficio internazionale, purché l’azione di nullità sia stata promossa entro cinque anni dalla data della registrazione internazionale.

3. La registrazione del marchio UE Il RMUE disciplina una registrazione con effetti sovranazionali necessariamente estesi all’intero territorio della UE. Il procedimento si svolge davanti ad un apposito ufficio, con sede ad Alicante, denominato Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO). La registrazione europea determina quindi la nascita di diritti su un “marchio dell’Unione europea” che “produce gli stessi effetti in tutta l’Unione: esso può essere registrato, trasferito, formare oggetto di una rinuncia, di decisione di decadenza dei diritti del titolare o di nullità […] soltanto per l’intera Unione” (art. 1.2 RMUE). La domanda deve contenere le generalità del richiedente, la riproduzione del marchio, l’elenco dei prodotti e servizi che è destinato a contraddistinguere (art. 26 RMUE). Uno stesso segno può essere registrato contemporaneamente come marchio nazionale e europeo, e beneficiare del cumulo di entrambe le protezioni (così che, ad es., la dichiarazione di nullità del marchio UE non tocca la validità del marchio nazionale, che potrà a sua volta eventualmente essere oggetto di una ulteriore dichiarazione di nullità). L’Unione europea ha poi aderito al protocollo di Madrid sulla registrazione internazionale dei marchi, così che il marchio UE può derivare anche dal deposito di una domanda internazionale. La registrazione è concessa a seguito di un esame preventivo che accerta d’ufficio l’esistenza di impedimenti assoluti (art. 37 RMUE); mentre può accertare l’esistenza di impedimenti relativi quando i terzi titolari di diritti anteriori si sono tempestivamente attivati avviando un procedimento di opposizione (artt. 41 ss. RMUE). Le decisioni dell’Ufficio sono suscettibili di impugnazione davanti a commissioni di ricorso istituite presso l’Ufficio medesimo (artt. 58 ss., art. 135 RMUE). Le decisioni di queste ultime sono impugnabili in sede giurisdizionale davanti al Tribunale UE e in secondo grado avanti alla Corte di giustizia (art. 65 RMUE).

Analogamente a quanto visto con riferimento alla registrazione nazionale, anche la concessione della registrazione europea può essere contestata facendo valere la mancanza dei requisiti di protezione, secondo le regole esposte infra, X.7. Se ed in quanto valida, pure la registrazione europea ha efficacia costitutiva dei diritti indipendentemente dall’uso, che rimane tuttavia necessario per evitare la decadenza (v. infra, X.4). Anche la registrazione europea infine (al pari di quella nazionale e internazionale) ha durata potenzialmente perpetua, salvo la necessità di rinnovo a scadenze decennali (artt. 46 ss. RMUE).

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VIII. L’estensione della tutela Il titolare vanta un diritto esclusivo sul marchio (artt. 20 c.p.i. e 9 RMUE): ed in particolare il diritto di vietarne l’uso da parte di terzi. Nella comune terminologia le utilizzazioni del segno illecite in quanto non consentite dal titolare vengono definite contraffazioni. L’esistenza di atti di contraffazione deve essere accertata considerando: a) l’identità o il grado di somiglianza fra il marchio registrato ed il segno utilizzato dal terzo; b) l’identità o il grado di affinità fra i prodotti o i servizi per cui il marchio è stato registrato e i prodotti o servizi per cui esso è utilizzato dal terzo; c) la tipologia di atti di utilizzazione del marchio poste in essere dai terzi senza consenso del titolare. Sotto il profilo delle lett. a) e b), la contraffazione sussiste quando l’utilizzazione del marchio determina un rischio di confusione, o un approfittamento o pregiudizio della notorietà/rinomanza del marchio 27. Sotto il profilo della lett. c) la contraffazione sussiste a fronte di qualsiasi modalità di utilizzazione del segno nel commercio.

1. Il divieto di utilizzazioni confusorie Nella ricostruzione del sistema dei marchi, rilievo centrale assume il problema della determinazione delle tipologie di segni, da un lato, e di prodotti o servizi, dall’altro, per i quali il titolare può lamentare una violazione dei propri diritti. Già si è visto che la teoria generale dei segni distintivi valorizza la funzione della tutela per ricavarne un principio generale di relatività della protezione: secondo cui la contraffazione presuppone un rischio di confusione in ordine all’impresa cui è imputabile l’offerta, e non ricorre quando invece gli utilizzatori del segno offrono prodotti o servizi merceologicamente diversificati, che il pubblico non riferisce ad un unico imprenditore. Questo principio ha ispirato la formulazione delle norme secondo cui il titolare del marchio ha il diritto di vietare l’uso di “un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni” (art. 20, co. 1, lett. b, c.p.i., e v. inoltre il corrispondente art. 9.1, lett. b, RMUE). Il rischio di confusione non sembra tuttavia da intendere nel senso restrittivo di inganno relativo alla provenienza del prodotto. La tutela pare ricomprendere tutte le ipotesi in cui il pubblico erroneamente crede che il titolare del marchio si sia assunto la responsabilità di strategie commerciali di offerta, ancorché attuate attraverso la collaborazione di imprese terze. In questa prospettiva il rischio di confusione può ricorrere quando il pubblico è consapevole che il prodotto o servizio non è fabbricato od offerto direttamente dal titolare del segno, ma erroneamente ritiene che il titolare medesimo ne abbia approvato gli stan-

27 Per una analitica trattazione e approfondimento degli elementi costitutivi della contraffazione nelle diverse ipotesi cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 1187 ss.

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dard qualitativi o le politiche di promozione e distribuzione. L’inganno in ordine all’esistenza di rapporti di subfornitura, o in generale di relazioni commerciali fra titolare e terzo utilizzatore rientra quindi nel rischio di confusione giuridicamente rilevante. La nozione di confondibilità allargata all’esistenza di relazioni commerciali trova forse un argomento letterale nel riferimento del legislatore al “rischio di associazione” fra i segni, ed appare sottintesa dalle affermazioni della giurisprudenza europea secondo cui il marchio assolve la funzione di distinguere prodotti o servizi “forniti sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità” (l’imprenditore infatti ben può assumere la responsabilità di caratteristiche qualitative di prodotti fabbricati da terzi sotto il suo controllo) 28. Secondo la giurisprudenza europea il giudizio di confondibilità deve avvenire “ponderando” diversi fattori, quali le somiglianze dei segni in conflitto sotto il profilo visivo, uditivo o concettuale; nonché la maggiore o minore distanza merceologica fra i prodotti o servizi per cui il segno è stato registrato, e rispettivamente i prodotti o servizi per cui è stato utilizzato dal terzo. In questa prospettiva occorre valorizzare soprattutto le somiglianze degli elementi del marchio maggiormente caratteristici e distintivi, senza attribuire rilievo a somiglianze limitate alle componenti descrittive del segno 29. Somiglianze visive e fonetiche possono invece essere “neutralizzate” da differenze concettuali 30. L’effetto confusorio derivante dalla somiglianza dei segni e prodotti deve essere poi valutato alla luce di tutte le circostanze pertinenti del caso concreto 31: e quindi del grado di attenzione prestato al momento dell’acquisto da consumatori normalmente informati ed avveduti, tenendo anche conto delle condizioni di commercializzazione 32. Nella prospettiva dei giudici europei la somiglianza fra marchi, la forza del carattere distintivo e la distanza merceologica rappresentano fattori interdipendenti nel giudizio di confusione. Perciò ad es. un maggior grado di distanza merceologica fra i prodotti o servizi può non escludere il rischio di confusione quando i marchi sono fortemente simili e quando il segno imitato possiede un elevato carattere distintivo 33.

2. Il divieto di uso di segni identici per prodotti o servizi identici L’art. 20, co. 1, lett. a, c.p.i. e il corrispondente art. 9.1, lett. a, RMUE contemplano come ipotesi autonoma il divieto di uso di “un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato” 34. In realtà, l’ipotesi parrebbe assorbita in quelle generali, appena esaminate: l’assoluta identità dei segni e delle tipologie di prodotti o servizi sembra infatti a prima vista determinare sempre rischi di confusione, rientrando perciò comunque nell’ipotesi di cui alla lett. b. La norma può avere in realtà

28

CG 12-11-2002, C 206/01, Arsenal, GADI, 2003, 1382. CG 11-11-1997, Sabel, GADI, 1997, 1149; CG 22-7-1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, Racc, 1997, I-3819. 30 CG 12-1-2006, C-361/04, Picasso, GADI, 2006, 1071. 31 Cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 1219 ss. 32 CG Lloyd Schuhfabrik, cit.; CG Picasso, cit. 33 CG 29-9-1998, C-39/97, Canon, GADI, 1999, 1461; CG 22-6-2000, C-425/98, Marca Mode, GADI, 2000, 1358. 34 In argomento cfr. CG 20-3-2003, C-291/00, Sadas, GADI, 2003, 1418; e in dottrina SIRONI, La tutela del marchio nell’ipotesi di uso di segni identici per prodotti o servizi identici, in Studi di diritto industriale in onore di Vanzetti, cit., 1543 ss.; RICOLFI, Trattato dei marchi, 1187 ss. 29

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probabilmente un significato autonomo, valendo a escludere che la contraffazione debba essere in tal caso valutata in base ad ulteriori circostanze concrete quali l’avvedutezza e l’attenzione prestata dai consumatori, o il contesto di commercializzazione del prodotto o servizio, e quindi in definitiva vietando l’uso a prescindere dall’accertamento di effettivi rischi di confusione. Così, ad es., in caso di identica riproduzione di marchi e prodotti di celebri case di moda, non rileva la circostanza che la vendita avvenga da parte di commercianti ambulanti, e che il pubblico ragionevolmente informato sia ben a conoscenza del carattere “non originale” dell’offerta di questi canali commerciali. Più problematica è l’applicazione della norma quando l’uso del marchio identico per prodotti o servizi identici avviene in un contesto comunicazionale in cui il terzo utilizzatore chiaramente utilizza il marchio del terzo per richiamare i prodotti del terzo, distinguendoli dai propri e senza perciò fare sorgere rischi di confusione. L’ipotesi è emersa all’attenzione della Corte di giustizia in particolare in contesti di pubblicità comparativa (dove la comparazione tipicamente richiama il marchio del prodotto comparato) 35 e di uso del marchio come parola chiave in motori di ricerca (dove il marchio del terzo è stato utilizzato per indirizzare i risultati del motore verso siti che offrivano prodotti concorrenti a quelli del titolare, evitando qualsiasi rischio di confusione) 36. In queste ipotesi la Corte di giustizia ha in linea di principio riconosciuto una utilizzazione del marchio altrui, salvo poi precisare che comunque questo uso è giustificato quando non interferisce con la sua funzione giuridicamente protetta: funzione che poi ulteriormente la Corte precisa essere quella distintiva, di investimento, di comunicazione e pubblicità. Nel pensiero della Corte questa funzione appare tuttavia estremamente sfuggente (il concetto di funzione di investimento e pubblicità non è per nulla chiaro) e finisce per giustificare l’introduzione di una serie di limiti alla protezione del marchio non sempre riconducibili al dato normativo. Se in particolare la soluzione della Corte tendente ad ammettere la possibilità di uso del marchio altrui nella pubblicità comparativa trova agevole riscontro nelle norme che specificamente disciplinano questa pubblicità (v. supra, § 11.III.2), non altrettanto chiaro è il fondamento della tesi secondo cui i terzi potrebbero utilizzare il marchio altrui come parola chiave per indicizzare siti di offerta di prodotti concorrenti a quello del titolare 37.

3. La tutela allargata della rinomanza L’art. 20, co. 1, lett. c, c.p.i. riconosce al titolare il diritto di vietare ai terzi l’uso di “un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi” (c.d. tutela allargata). Una corrispondente previsione è contenuta nel regolamento sul marchio UE, che tuttavia utilizza il termine notorietà, in luogo di rinomanza (art. 9.1, lett. c, RMUE). La terminologia del regolamento è in realtà conforme a quella della direttiva europea in materia di marchi, che vincola l’interpretazione della norma italiana, e che perciò preclude di attribuire alla parola “rinomanza” un significato diverso da quello

35

CG 12 giugno 2008, C-533/06, O2, AIDA 2009, 362, punto 36; CG 18-6-2009, C-487/07, L’Oréal, GComm, 2010, II, 969, punto 53. 36 CG 23-3-2010, C-236-238/08, Google, GADI, 2010, 1156; CG 22-9-2011, C-323/09, Interflora, GADI, 2013, 1291. 37 Cfr. al riguardo le osservazioni di RICOLFI, Trattato dei marchi, 1195 ss.

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di “notorietà”. La nozione di rinomanza/notorietà assume comunque qui un significato ben distinto da quello della notorietà che rende il marchio preusato opponibile alla registrazione successiva (fino a privarla di novità quando la notorietà si estenda a livello nazionale: supra, VI.2). Il marchio rinomato/notorio non è quello semplicemente conosciuto dal pubblico, ma è quello che ha acquisito un prestigio ed un accreditamento tale da assumere un valore pubblicitario e promozionale di tipologie di prodotti anche merceologicamente distanti (si pensi al marchio Armani, il cui prestigio lo rende utilizzabile per promuovere la vendita non solo di abbigliamento, ma anche di ulteriori prodotti quali orologi e profumi). La tutela del marchio rinomato/notorio si fonda quindi sull’indebito vantaggio o pregiudizio alla notorietà o carattere distintivo, prescinde dal rischio di confusione, e può essere fatta valere contro l’utilizzazione del segno per qualsiasi prodotto o servizio, sia esso o meno simile a quelli per i quali ha acquisito notorietà 38. La norma esprime insomma la volontà del legislatore di proteggere la funzione pubblicitaria acquisita dal marchio per effetto della sua notorietà e conseguente accreditamento sul mercato. Secondo la Corte di Giustizia la notorietà del marchio deve essere valutata alla luce di una serie di circostanze concrete, quali “la quota di mercato coperto dal marchio, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché l’entità degli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo” 39. La Corte ha inoltre sottolineato che la notorietà presuppone un grado di conoscenza tale per cui l’utilizzazione del marchio da parte di un terzo può indurre il pubblico ad “effettuare un confronto fra i due marchi” 40, e quindi a richiamare alla mente del consumatore il marchio originale. Secondo la Corte l’istituzione di un confronto presuppone l’identità almeno parziale del pubblico degli acquirenti dei prodotti o servizi identificati dai segni in conflitto, e più in generale che questi prodotti o servizi non risultino “così diversi tra loro” da escludere la capacità del marchio posteriore “di evocare quello anteriore nella mente del pubblico di riferimento” 41. Quest’ultima affermazione (di per sé tautologica) pare ragionevolmente da intendere nel senso di richiedere una certa omogeneità delle motivazioni (quanto meno psicologiche) d’acquisto dei prodotti o servizi: così che ad es. l’istituzione di un nesso potrebbe essere negata qualora i segni in conflitto venissero utilizzati per prodotti ad alta tecnologia e rispettivamente nel settore agroalimentare. Il problema dell’accertamento della notorietà presenta profili di particolare delicatezza nell’eventualità che il marchio goda di differenti gradi di accreditamento presso il pubblico di differenti stati membri. Al riguardo secondo la Corte di giustizia la tutela allargata può essere vantata anche da un segno che abbia acquisito notorietà (non necessariamente nell’intera UE, ma anche soltanto) presso una parte sostanziale del mercato dell’Unione, che può coincidere con il territorio di un solo stato membro (purché, è da ritenere, sufficien-

38

CG 9-1-2003, C-292/00, Davidoff, GADI, 2003, 1398; CG 23-10-2003, C-408/01, Adidas, GADI, 2003, 1458. 39 CG 14-9-1999, C-375/97, General Motors, GADI, 1999, 1569. 40 CG General Motors, cit. 41 Cfr. CG 27-11-2008, C-252/07, Intel, DInd, 2009, 108; in dottrina cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 1272 s.

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temente ampio) 42. Ad un tempo la Corte ha precisato che in questi casi il marchio notorio può convivere con la registrazione di un marchio successivo da parte di un terzo in paesi in cui il primo marchio non ha raggiunto notorietà sufficiente, purché l’utilizzazione del secondo marchio non costituisca né attualmente né possa costituire ragionevolmente in futuro una violazione della notorietà del primo 43.

L’indebito vantaggio sembra in particolare ricorrere quando il confronto istituito con il marchio anteriore determina un agganciamento pubblicitario che contribuisce a promuovere i prodotti contrassegnati dal marchio posteriore 44. Si pensi a chi producesse e vendesse cover per telefoni cellulari a marchio Coca-Cola. In queste ipotesi l’indebito vantaggio sembra ad un tempo comportare un pregiudizio per il marchio del titolare. La previsione di vantaggio e pregiudizio quali presupposti alternativi ed autonomi della contraffazione vale comunque a chiarire che l’illecito può ricorrere non solo in caso di “agganciamento” alla notorietà idoneo ad incrementare le vendite dell’utilizzatore del segno posteriore; ma anche qualora, indipendentemente da queste vendite, risultino pregiudicati il “posizionamento” o l’“immagine” del prodotto o del servizio del titolare del marchio anteriore 45. La Corte di Giustizia ha individuato un pregiudizio al carattere distintivo nelle ipotesi in cui la presenza di segni somiglianti rischia di determinare un “offuscamento” della percezione e del ricordo del marchio nella mente del pubblico; ha inoltre ravvisato l’ipotesi di pregiudizio alla notorietà quando “i prodotti o servizi offerti dal terzo possiedano una caratteristica o una qualità tali da esercitare un’influenza negativa sull’immagine del marchio” (si pensi ad un segno utilizzato per prodotti di igiene intima simile ad un marchio notorio altrui, registrato per profumi) 46. La norma precisa infine che l’uso del segno uguale o simile all’altrui marchio rinomato è illecito quando è “immotivato”. Il riferimento può forse essere valorizzato per consentire la continuazione dell’uso di un marchio iniziato anteriormente all’acquisto di notorietà del segno di un terzo, o in un momento storico in cui non era ravvisabile un vantaggio o pregiudizio (si pensi al contemporaneo uso del marchio “Ferrari” per automobili e per spumanti).

4. Gli atti di contraffazione; commercio del prodotto e principio di esaurimento Il legislatore disciplina ulteriormente le tipologie di atti che possono costituire contraffazione del marchio. In linea di principio il diritto di marchio si estende all’uso del segno nelle “attività economiche” (art. 20, co. 1, c.p.i.) o, nella terminologia del legislatore europeo, “nel commer42 43

CG 6-10-2009. C-301/07, Pago, GADI, 2009, 1517. Cfr. CG 3-9-2015, C-125/14, GIt, 2016, 2175, con nota di COGO, Note sull’unitarietà del marchio

UE. 44

Cfr. CG 18-6-2009, C-487/07, L’Oréal, GComm, 2010, II, 969. Per una puntualizzazione analitica delle diverse ipotesi di vantaggio e pregiudizio, rispettivamente a carattere distintivo e notorietà, cfr. ampiamente RICOLFI, Trattato dei marchi, 1249 ss. 46 CG L’Oréal, cit. 45

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cio” (art. 9.2 RMUE). Nonostante la differente terminologia, le norme paiono da interpretare in senso analogo, ed attrarre nell’ambito dell’esclusiva tutte le attività funzionali allo scambio di beni e servizi. Gli artt. 20, co. 2, c.p.i. e 9.3 RMUE contengono poi una elencazione esemplificativa (come si desume dall’espressione “in particolare” che la introduce) delle attività economiche rientranti nel diritto del titolare del marchio. Il legislatore contempla espressamente la materiale apposizione del segno sui prodotti o confezioni; l’offerta o fornitura dei prodotti o servizi contraddistinti dal segno; l’immissione in commercio o stoccaggio a fini commerciali dei prodotti marcati; l’importazione o esportazione dei prodotti; l’utilizzazione del segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità. Le norme evidenziano quindi che il diritto si estende non soltanto all’utilizzazione del marchio sul prodotto o nell’offerta del servizio, ma anche ad atti strumentali e preparatori allo scambio commerciale: fra i quali assume particolare importanza la pubblicità.

L’estensione del divieto agli atti di commercio, importazione ed esportazione (art. 20, co. 2, c.p.i.) consente al titolare di agire nei confronti dei distributori che non abbiano partecipato agli atti di apposizione del segno contraffatto e di fabbricazione del prodotto, ma si siano limitati ad acquistare a fini di rivendita prodotti recanti marchi illecitamente opposti. L’eventuale buona fede degli acquirenti commercianti non rileva dunque sul piano della loro qualità di contraffattori, ma soltanto dal punto di vista dell’applicazione della sanzione del risarcimento del danno (v. supra, § 13.III). L’estensione del diritto di marchio agli atti di commercializzazione presenta tuttavia aspetti peculiari per l’ipotesi in cui i prodotti siano stati inizialmente fabbricati e distribuiti con il consenso del titolare del marchio (cd. prodotti originali). Qui in effetti appare subito a prima vista irragionevole che il titolare del marchio, dopo avere commercializzato il prodotto (o dopo averne consentito la commercializzazione da parte di un’impresa terza), possa poi successivamente bloccarne la circolazione agendo contro un distributore. Frequentemente tuttavia il titolare del marchio è interessato a controllare la circolazione del prodotto successiva alla prima messa in commercio, ad es. attraverso clausole contrattuali tendenti a impedirne l’ingresso in alcune zone geografiche (e praticare così prezzi differenti per diversi paesi) o in alcuni canali distributivi (si pensi alla vendita nei supermercati, ritenuta a volte pregiudizievole per l’immagine del segno). Il diritto della UE ha fortemente limitato la protezione di questo interesse, attraverso il principio del c.d. esaurimento. Questo principio è stato inizialmente elaborato in via giurisprudenziale dalla Corte di Giustizia, ed è ora “codificato” negli artt. 5 c.p.i. (applicabile in via generale a tutti i diritti di proprietà industriale) e 13 RMUE, secondo cui il diritto conferito dal marchio “non permette al titolare di impedirne l’uso per prodotti messi in commercio nella Comunità con tale marchio dal titolare stesso o con il suo consenso”. I prodotti messi lecitamente in circolazione nella UE con il consenso del titolare possono dunque essere in linea di principio commercializzati liberamente: così che, ad es., il diritto non può essere azionato per impedire le importazioni da uno ad altro paese del mercato unico, o per vietare l’ingresso su circuiti commerciali “sgraditi”. Le clausole contrattuali tendenti a impedire la rivendita dei distributori in alcuni paesi dell’UE, o in determinati circuiti commerciali, sono in tali casi da considerare nulle. L’applicazione del principio dell’esaurimento è stata estesa allo Spazio Economico Eu-

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ropeo (SEE) 47. L’esaurimento non si estende invece al commercio internazionale con i paesi estranei al SEE. Il diritto di marchio consente dunque al titolare di impedire le importazioni nella UE di prodotti messi in commercio in paesi terzi (ad es., e tipicamente, per vendere nei paesi terzi il prodotto a prezzo inferiore, impedendone le importazioni nella UE, dove lo stesso prodotto è venduto per un prezzo superiore). Il principio dell’esaurimento inoltre non è applicabile “quando sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga alla successiva immissione in commercio dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio” (art. 13.2 RMUE, e v. il corrispondente art. 5 c.p.i.). In linea di principio rientra fra i motivi legittimi di disapplicazione dell’esaurimento anche il semplice riconfezionamento del prodotto da parte del distributore, a meno che l’operazione di riconfezionamento non risulti indispensabile per compiere operazioni di importazione del prodotto da uno ad altro stato membro (come avviene frequentemente nel settore dei medicinali, in cui le differenti legislazioni nazionali spesso impongono l’uso di tecniche di imballaggio diverse da stato a stato) 48.

5. Limitazioni degli effetti del marchio Il diritto sul segno non vale invece ad impedire alcuni usi che perseguono particolari fini di comunicazione. In via generale tuttavia anche in questi casi l’uso deve essere conforme “ai princìpi della correttezza professionale” (art. 21, co.1, lett. c, c.p.i.) o, secondo le parole del legislatore europeo, “alle consuetudini di lealtà in campo industriale o commerciale” (art. 21 RMUE). Il diritto sul marchio trova in particolare una prima tipologia di limiti nei confronti dell’uso da parte di terzi “del loro nome o indirizzo” (art. 21, co. 1, lett. a, c.p.i. e art. 12.1, lett. a, RMUE). Chi si chiamasse per avventura, ad es., Armani potrà usare il proprio nome nella propria attività, sebbene esso risulti registrato come marchio dal noto stilista. Il regolamento europeo è stato recentemente modificato per precisare (diversamente da quanto in precedenza ritenuto dalla Corte) che la norma è applicabile solo al nome di persone fisiche, e perciò (è da ritenere) alla ditta di imprenditori individuali. Una corrispondente previsione è contenuta nella direttiva marchi, che dovrà dunque essere attuata in tal senso dalla norma nazionale. Dubbi possono sorgere con riferimento alla ragione sociale, che secondo il diritto italiano deve contenere il nome di almeno un socio: è perciò immaginabile che almeno in tali casi il sistema europeo tolleri l’uso del nome di un socio persona fisica corrispondente ad un marchio altrui. L’uso del nome deve comunque essere conforme alle consuetudini di lealtà. In questi casi secondo la Corte l’interesse ad evitare utilizzazioni confusorie deve essere ponderato con i contrapposti interessi all’uso del proprio nome, considerando fra l’altro la buona fede dell’utilizzatore, il livello di notorietà del marchio e la conseguente possibilità per i terzi di trarne indebiti vantaggi 49.

47

Cfr. CG 20-11-2001, C-414-416/99, Davidoff, GADI, 2003, 1365. Cfr. CG 23-5-1978, 102/77, Hoffmann-La Roche, Racc, 1978, 1139; CG 23-4-2009, C-59/08, Copad, Racc, 2009, I-3421. 49 CG 16-11-2004, C-245/02, Anheuser-Busch, Racc, 2004, I-10989; CG 11-9-2007, C-17/06, Céline, GADI, 2007, 1325. 48

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Il diritto sul marchio trova un ulteriore limite nei confronti dell’uso da parte di terzi “di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio” (art. 21, co. 1, lett. b, c.p.i. e art. 12.1, lett. b, RMUE). In questi casi gli usi di lealtà commerciale possono valere a rendere lecita l’utilizzazione di segni dotati di un significato descrittivo, ancorché confondibili con altrui marchi 50. Le indicazioni descrittive sono in realtà tendenzialmente escluse dalla registrazione in base all’art. 13, co. 1, c.p.i. e 7.1, lett. c, RMUE: e parrebbero perciò comunque utilizzabili liberamente. La previsione relativa alla limitazione degli effetti del marchio trova tuttavia spazio di applicazione quando le indicazioni descrittive sono state validamente registrate in virtù dell’acquisto di un secondary meaning; e così pure quando un’indicazione descrittiva presenta somiglianze fonetiche con un marchio validamente registrato. I parametri di valutazione della lealtà parrebbero analoghi a quelli ricostruiti con riferimento alla liceità dell’uso del proprio nome ed indirizzo. Occorrerà perciò considerare la buona fede dell’utilizzatore, il grado di notorietà del marchio e le sue modalità di rappresentazione grafica.

Un’ultima limitazione al diritto di marchio ricorre quando l’uso del segno è necessario per “indicare la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio” (art. 21, co. 1, lett. c, c.p.i. e art. 12.1, lett. c, RMUE). La norma esclude il carattere illecito di utilizzazioni del segno che non determinano rischi di confusione, e ad un tempo risultano necessarie per dare al pubblico un’informazione comprensibile sulla destinazione del prodotto o servizio. La liceità dell’uso del segno è comunque anche qui subordinata al rispetto di consuetudini di lealtà. L’utilizzazione dell’altrui segno distintivo potrà in particolare risultare difforme dagli usi “leali” quando determini rischi di inganno relativi non soltanto alla vera e propria provenienza imprenditoriale, ma altresì all’appartenenza del produttore dei ricambi alla rete di vendita ufficiale del titolare del segno; all’esistenza di rapporti di collaborazione commerciale fra il titolare del marchio ed il produttore dell’accessorio o ricambio; al fatto che la produzione degli accessori e ricambi sia stata controllata, approvata e garantita dal titolare 51. Questo inganno può ad es. (e tipicamente) ricorrere quando l’utilizzazione avviene con modalità anche grafiche identiche a quelle adottate dal titolare per identificare la propria rete di distribuzione ed assistenza.

IX. Cessioni e licenze di marchio 1. Il trasferimento del marchio L’attuale ordinamento si ispira al principio di libera disponibilità dei diritti sul marchio. Le più importanti tipologie di atti di disposizione sono costituite dai trasfe50

CG 19-1-2004, C-100/02, Gerolsteiner, GADI, 2004, 1387. CG 23-2-1999, C-63/97, BMW, GADI, 1999, 1595; CG 17-3-2005, C-228/03, Gillette, GADI, 2005, 1262. 51

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rimenti (art. 23, co. 1, c.p.i. e art. 17 RMUE) e dalle licenze (art. 23, co. 2, c.p.i. e art. 22 RMUE). Il trasferimento dei diritti sul marchio avviene normalmente per effetto di accordi di vendita, ma può derivare anche da altri accordi e negozi idonei in via generale a produrre effetti reali traslativi (donazione, conferimento in società, ecc.). Il trasferimento non è vincolato all’azienda o ad un suo ramo, diversamente da quanto previsto in materia di ditta (v. supra, §15.III.1). Il principio di trasferibilità del marchio indipendentemente dall’azienda è ora imposto a tutti gli stati membri della UE ed alla stessa UE dall’art. 21 dell’Accordo TRIPs. L’abolizione del vincolo del trasferimento all’azienda ha portato la dottrina a interrogarsi sulla possibilità di continuare ad attribuire al marchio una funzione distintiva dell’origine imprenditoriale del prodotto 52. La libera cessione tuttavia appare coerente alla funzione del marchio precedentemente ricostruita. L’interesse all’acquisto del marchio presuppone infatti la volontà di valorizzare le strategie commerciali adottate dal precedente titolare, che hanno contribuito a promuovere l’offerta dei prodotti o servizi: diversamente l’avente causa non avrebbe alcuna convenienza a sopportare i costi rappresentati dal prezzo del trasferimento, ben potendo procedere alla registrazione di un diverso segno. La continuità delle strategie commerciali consente allora al marchio di svolgere la sua funzione distintiva del soggetto responsabile di queste strategie; così come in passato la continuità dell’organizzazione aziendale consentiva al marchio di svolgere la tradizionale funzione distintiva della titolarità dell’organizzazione produttiva dei beni o servizi. Il principio di libera trasferibilità del marchio si spinge al punto di consentire atti di trasferimento parziale, relativamente ad “una parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato” (art. 23, co. 1, c.p.i. e art. 17.1 RMUE): ma in realtà questa tipologia di trasferimenti potrebbe talvolta contrastare con il divieto di uso ingannevole (v. infra, X.5). Senz’altro escluso è invece il trasferimento relativo ad una parte soltanto del territorio per cui il marchio è stato registrato. Il principio di unitarietà del marchio UE ne consente infatti la cessione “soltanto per l’intera Unione” (art. 1 RMUE). Analogamente (pur in mancanza di norma espressa) un analogo principio è da ritenere accolto a livello nazionale per effetto del carattere pur sempre unitario del marchio italiano. Il titolare di più marchi nazionali paralleli può invece trasferire i diritti derivanti dalla registrazione per alcuni paesi, conservandone la titolarità per altri; e così pure può cedere i marchi paralleli a differenti acquirenti per i diversi stati di registrazione. Questo frazionamento del marchio determina una situazione certo problematica dal punto di vista dei princìpi di libera circolazione delle merci nella UE: perché ciascun titolare può impedire le importazioni dei prodotti legittimamente commercializzati in un altro stato della UE da uno dei titolari paralleli. La situazione è tuttavia analoga nell’ipotesi in cui marchi identici o simili siano stati registrati da differenti soggetti per diversi stati della UE. In tutte queste ipotesi la libertà di importazione pregiudicherebbe la funzione essenziale del marchio di identificare prodotti offerti sotto la responsabilità di un unico imprenditore 53.

52 53

Cfr. VANZETTI, La funzione del marchio, 84 ss. CG 22-6-1994, C-9/93, Ideal Standard, GADI, 1994, 1127.

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Quanto alla pubblicità, l’ordinamento italiano prevede un sistema di trascrizione dei trasferimenti (art. 138 c.p.i.). La trascrizione produce effetti di pubblicità dichiarativa, in virtù della quale “nel conflitto di più acquirenti dello stesso diritto di proprietà industriale dal medesimo titolare, è preferito chi ha trascritto per primo il suo titolo di acquisto” (art. 139, co. 2, c.p.i.). Più complessa è la disciplina della registrazione dei trasferimenti dei marchi UE. Il trasferimento è iscritto nel registro dei marchi UE e pubblicato nel relativo bollettino a richiesta di una delle parti (art. 17.5 RMUE). L’iscrizione è necessaria per “invocare i diritti risultanti dalla registrazione del marchio UE” (art. 17.6). L’iscrizione assume poi rilievo nei rapporti fra aventi causa dei diritti dal medesimo titolare. Sotto questo profilo essa rende il trasferimento opponibile ai terzi acquirenti di diritti in conflitto e iscritti successivamente (art. 23 RMUE). Tuttavia l’acquirente può far prevalere il proprio diritto sui terzi che lo abbiano preceduto nell’iscrizione, qualora al momento dell’acquisto conoscessero l’esistenza di un anteriore atto di disposizione (non sembra dunque sufficiente a tal fine che la conoscenza da parte del terzo sia intervenuta successivamente all’acquisto, ancorché anteriormente all’iscrizione). La regola non si applica tuttavia quando la cessione del marchio deriva dal “trasferimento dell’impresa nella sua totalità” o da “qualsiasi altra successione a titolo universale” (art. 23.2 RMUE). In questo caso eventuali conflitti fra più aventi causa dovranno verosimilmente essere risolti in base alla disciplina della pubblicità dei trasferimenti o delle successioni a titolo universale previste dagli ordinamenti nazionali.

2. La licenza di marchio I diritti di marchio sono poi frequentemente oggetto di contratti di licenza (art. 23, co. 2-3, c.p.i. e art. 22 RMUE), stipulati dal titolare (licenziante) con uno o più terzi licenziatari. Attraverso questi contratti il licenziante mantiene la titolarità del segno, consentendone tuttavia l’utilizzazione ad un terzo licenziatario, nei limiti previsti dall’accordo. I limiti di utilizzazione del marchio imposti al licenziatario possono essere i più diversi: ed in particolare possono riguardare il territorio di produzione, commercializzazione od offerta dei prodotti, la tipologia e qualità dei prodotti o servizi. Fisiologica è poi la previsione di un limite di durata del contratto. L’inosservanza di queste limitazioni da parte del licenziatario costituisce un atto di contraffazione del marchio, al pari di qualsiasi utilizzazione non autorizzata da parte di terzi (art. 23, co. 3, c.p.i. e art. 22.2 RMUE) 54.

La licenza è normalmente (anche se non necessariamente) onerosa. Il corrispettivo della licenza è anche definito “canone di licenza”, o con il termine anglosassone royalty. La royalty può essere stabilita in misura fissa, ma spesso è calcolata proporzionalmente al volume d’affari del licenziatario. Tipicamente anzi proprio la royalty commisurata al fatturato (o ai guadagni) del licenziatario realizza l’interesse specificamente sottostante alla conclusione della licenza: e cioè l’interesse a sfruttare il marchio attraverso le imprese più efficienti, e ad approfittare di questa maggiore efficienza (rispecchiata dal maggiore volume d’affari) incassando corrispettivi proporzionalmente elevati.

54

CG Copad, cit.

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[§ 16]

Attraverso la stipulazione di licenze il titolare può addirittura sfruttare il marchio per tipologie di prodotti che non sarebbe in grado di fabbricare direttamente. Il fenomeno è diffuso soprattutto per i marchi più famosi, dotati di un forte valore di richiamo pubblicitario per diversissime tipologie di beni. Si pensi ancora una volta all’uso del marchio automobilistico “Ferrari”, che l’impresa di automobili concede in licenza per prodotti fabbricati da terzi: e ad es. per abbigliamento e accessori di moda. O al marchio “Star wars”, oggi apposto a prodotti di ogni genere. Il fenomeno della concessione di licenze per l’uso del marchio su prodotti completamente diversi da quelli fabbricati dal titolare è noto con il termine anglosassone di merchandising. Le licenze si distinguono in esclusive e non esclusive. Le licenze esclusive si caratterizzano per l’impegno del licenziante a non utilizzare direttamente in proprio il marchio in concorrenza con il licenziatario, e a non concedere ulteriori licenze a terzi. La licenza non esclusiva consente invece al licenziante di accordarsi con altri licenziatari, nonché di sfruttare il segno direttamente in proprio. Il legislatore nazionale impone che “in caso di licenza non esclusiva, il licenziatario si obblighi espressamente ad usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari” (art. 23, co. 2, c.p.i.). La norma riflette la preoccupazione del legislatore di evitare la presenza sul mercato di prodotti recanti lo stesso marchio, ma dotati di caratteristiche qualitative diverse. La violazione di questa norma determina un’ingannevolezza sopravvenuta del segno, e perciò la decadenza del marchio. Il carattere esclusivo della licenza pare comunque da determinare in relazione a ciascuna tipologia di prodotto per cui il titolare consente l’utilizzazione del marchio. Così ad es. è da considerare esclusiva la licenza concessa ad uno ed un solo licenziatario per l’apposizione del marchio su motociclette, ancorché il titolare usi il medesimo segno (o lo conceda in licenza) per automobili. In simili ipotesi non avrebbe evidentemente senso imporre che moto e automobili prodotte rispettivamente dal licenziante e dal licenziatario presentino caratteristiche corrispondenti. Già si è visto che la licenza può riferirsi ad un territorio delimitato. È dunque possibile concedere una licenza per una parte soltanto del territorio italiano; e così pure la licenza di marchio UE può riferirsi soltanto ad una parte del territorio della UE. Il principio di unitarietà del marchio UE non impedisce quindi il frazionamento del mercato mediante concessione di licenze a differenti licenziatari paralleli (eventualmente esclusivi) operanti in diverse aree territoriali. Il fenomeno è anzi frequente nella pratica, e risponde all’interesse del titolare del marchio a commercializzare i prodotti capillarmente sul territorio, attraverso le imprese che nelle varie zone dispongono della migliore organizzazione distributiva. Resta ferma peraltro in tali ipotesi l’applicabilità del principio di esaurimento. I prodotti commercializzati da un licenziatario all’interno del territorio assegnatogli potranno dunque essere riesportati in altri territori del SEE; l’eventuale clausola di esclusiva territoriale inserita in un contratto di licenza relativo ad una parte del mercato unico non può dunque proteggere il licenziatario contro le importazioni parallele di prodotti legittimamente messi in commercio (dal titolare o da licenziatari paralleli) all’interno del SEE. La clausola di esclusiva può perciò garantire al licenziatario una protezione assoluta contro la concorrenza delle importazioni dei terzi solo quando si estende all’intero territorio del SEE: perché il principio dell’esaurimento non giunge a liberalizzare le importazioni di prodotti provenienti da paesi terzi. Il regolamento sul marchio UE contiene poi una disciplina uniforme relativa alla pub-

[§ 16]

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blicità dei contratti di licenza, ispirata a princìpi analoghi a quelli dei trasferimenti. La licenza di marchio può essere iscritta nel registro e pubblicata nel bollettino a richiesta di una delle parti (art. 22.5 RMUE). L’iscrizione nel registro determina l’opponibilità dei diritti del licenziatario a tutti i successivi aventi causa che abbiano iscritto posteriormente i loro titoli di acquisto di diritti in conflitto; resta salva la possibilità di opporre la licenza anche prima del momento dell’iscrizione, ai terzi che ne erano a conoscenza al momento del loro acquisto (art. 23.1 RMUE, che contiene una disciplina uniforme dell’opponibilità degli atti di trasferimento e licenza). Analogamente a quanto visto in materia di trasferimento, questi effetti dell’iscrizione non si producono nei confronti di chi ha acquistato il marchio, o diritti relativi ad esso, in conseguenza del trasferimento dell’impresa nella sua totalità, o mediante altre successioni a titolo universale: in tali casi ancora una volta verosimilmente opera l’eventuale sistema di pubblicità di trasferimento dell’impresa o di successione disciplinato dalla legislazione nazionale, individuata secondo i criteri dell’art. 16 RMUE. La disciplina comune relativa all’opponibilità dell’acquisto della titolarità del marchio e rispettivamente di diritti di licenza sul segno (art. 23.1 RMUE) sembra presupporre il riconoscimento di efficacia reale anche a questi ultimi diritti, che a loro volta paiono dunque opponibili ai terzi in base al criterio di priorità di iscrizione. Così ad es. il trasferimento del marchio da parte del licenziante ad un nuovo titolare non pregiudica i diritti di utilizzazione riconosciuti al licenziatario in base ad un atto iscritto anteriormente, o comunque conosciuto dall’avente causa del trasferimento.

3. Costituzione di altri diritti reali Il principio di libera disponibilità del marchio porta ad ammettere la possibilità di costituire altre tipologie di diritti reali di godimento. La costituzione di questi diritti è espressamente menzionata nel regolamento sul marchio UE (art. 19 RMUE), e parrebbe presupposta anche nell’ordinamento nazionale, che vi fa riferimento in una norma in materia di trascrizione (art. 138, co. 1, lett. a, c.p.i.). L’ipotesi è tuttavia rara nella pratica, dove la costituzione di diritti di sfruttamento sul segno tende a ricondursi a modelli (tipizzati essenzialmente dalla prassi, ancorché non compiutamente disciplinati dal legislatore) specifici al diritto della proprietà industriale, quali la licenza. Maggiore rilievo sta progressivamente assumendo invece il tema della costituzione di diritti reali di garanzia sul segno distintivo: specialmente nell’attuale contesto economico, dove la produttività dell’impresa dipende sempre più da assets immateriali, e dove perciò è forte l’interesse a valorizzare proprio questi assets in funzione di tutela del credito 55. La possibilità di costituire diritti di “pegno” è prevista per il marchio UE dall’art. 19 RMUE; mentre la possibilità di costituire diritti di “garanzia” è presupposta per i marchi nazionali dall’art. 138, co. 1, lett. a, c.p.i., in materia di trascrizione. Discussa è la riconducibilità di queste garanzie al pegno o all’ipoteca (l’espresso riferimento dell’art. 19 RMUE al pegno non va necessariamente inteso in senso tecnico, tanto più in un sistema come quello europeo, che non ha allo stato uniformato la disciplina delle garanzie). La garanzia sembra comunque presupporre un’iscrizione dotata di efficacia costitutiva nei registri dei marchi (europei o nazionali). Difficilmente concepibile pare invece la costituzione di garanzia mediante lo spossessamento, che fra l’altro contraddirebbe l’in-

55

Cfr. GALLI, Marchi comunitari e diritti di garanzia: problemi e prospettive, AIDA, 2009, 182.

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[§ 16]

teresse delle parti a mantenere in capo al debitore lo sfruttamento dei propri assets, da cui spesso dipende la solvibilità dell’impresa debitrice 56.

X. Nullità e decadenza del marchio 1. Sistema e nozioni Già si è visto che l’accoglimento della domanda di registrazione del marchio non è di per sé sufficiente a far sorgere un diritto valido, incontestabile, ed efficacemente opponibile ai terzi (cfr. l’art. 117 c.p.i.). È infatti possibile che la fattispecie costitutiva della tutela non si sia perfezionata: per la presenza di impedimenti alla registrazione che l’Ufficio non poteva rilevare, o che di fatto non ha rilevato. Il mancato perfezionamento della fattispecie costitutiva della tutela determina la nullità della registrazione. Esistono inoltre eventi successivi alla registrazione che privano ex nunc di efficacia la fattispecie costitutiva della protezione originariamente valida: questi eventi costituiscono cause di decadenza del segno. Nullità e decadenza determinano analoghe conseguenze sul piano dell’azionabilità del diritto: che in entrambi i casi non può essere fatto valere per lamentare atti di contraffazione. Esse sono d’altro canto disciplinate da alcuni princìpi comuni. Entrambe possono essere parziali, e cioè colpire la registrazione del segno per una parte soltanto dei prodotti o servizi (cfr. art. 27 c.p.i. e artt. 51.2 e 52.3 RMUE). Nel sistema del regolamento sul marchio UE esse producono effetto sull’intero territorio della UE, in virtù del principio di unitarietà della registrazione (art. 1.2 RMUE). Nullità e decadenza sono normalmente azionabili davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. Una particolare ipotesi di azione di nullità o decadenza esercitabile davanti alle autorità amministrative preposte alla registrazione è tuttavia prevista in materia di marchi UE: v. infra, 7.

2. Le cause di nullità Il codice della proprietà industriale elenca i casi di nullità all’art. 25 c.p.i., salvo poi distinguere all’art. 122 le ipotesi in cui l’azione di nullità può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse (art. 122, co. 1, c.p.i.), dalle ipotesi in cui l’azione “può essere esercitata soltanto dal titolare dei diritti anteriori e dal suo avente causa o dall’avente diritto” (art. 122, co. 2, c.p.i.). Il regolamento sul marchio UE disciplina in norme distinte le cause di nullità assoluta (art. 52 RMUE) e relativa (art. 53 RMUE): per poi ulteriormente precisare che le cause di nullità assoluta possono essere fatte valere da “qualsiasi persona fisica o giuridica” (art. 56.1, lett. a, RMUE); mentre le cause di nullità relativa possono essere fatte valere soltanto dai titolari dei diritti anteriori in conflitto con la registrazione (art. 56.1, lett. b-c, RMUE). Le espressioni “nullità assoluta” e rispettivamente “nullità relativa” vengono qui usate sulla falsariga della terminologia del legislatore europeo. 56

Cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 1715 s.

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Le cause di nullità assoluta colpiscono le registrazioni avvenute in violazione degli impedimenti assoluti esaminati supra, V. Le cause di nullità relativa colpiscono le registrazioni avvenute in violazione dei diritti anteriori di terzi esaminati supra, VI. Già si è visto che gli impedimenti relativi fondati sull’esistenza di anteriori segni distintivi di terzi possono essere fatti valere durante il procedimento davanti agli uffici come ragioni di opposizione alla registrazione. Il titolare del segno anteriore sembra comunque legittimato ad agire in nullità tanto nell’ipotesi in cui non abbia tempestivamente fatto opposizione alla registrazione, quanto nell’ipotesi in cui si sia visto respingere questa opposizione.

3. La convalida del marchio La nullità relativa della registrazione derivante dal conflitto con diritti anteriori può essere sanata qualora il titolare di questi diritti tolleri consapevolmente per un periodo di cinque anni l’uso del marchio registrato. La legge italiana definisce questa ipotesi come convalidazione del marchio, e la generalizza al conflitto non solo con diritti anteriori su marchi (registrati o usati in via di fatto con notorietà non meramente locale, art. 28, co. 1, c.p.i.), ma anche con anteriori diritti al nome, immagine, d’autore o di proprietà industriale (art. 28, co. 2, c.p.i.). Il regolamento sul marchio UE definisce invece questa ipotesi come preclusione per tolleranza, limitandone l’applicazione ai conflitti con marchi (registrati o usati in via di fatto) anteriori (art. 54 RMUE). La preclusione all’esercizio dell’azione di nullità implica ovviamente la liceità della continuazione dell’uso del segno posteriore, che è destinato a convivere con quello anteriore. La disciplina della convalida si spiega in quanto il marchio in conflitto con diritti anteriori ha comunque verosimilmente acquisito un autonomo accreditamento presso il pubblico in forza dell’uso quinquennale 57. Il legislatore vuole perciò consentire al secondo utilizzatore di continuare a sfruttare questo accreditamento, che diversamente potrebbe andare ingiustificatamente a vantaggio di chi non vi ha contribuito. In tale prospettiva è d’altro canto presumibile che il pubblico sia ormai in grado di distinguere il marchio del secondo utilizzatore rispetto a quello anteriore, e che il rischio di confusione sia perciò in concreto ridotto. La disciplina della preclusione per tolleranza non si applica tuttavia in caso di mala fede del secondo registrante. La mala fede deve essere verosimilmente intesa come intenzione del secondo registrante di approfittare dell’accreditamento conseguito dal primo marchio. Non potrà quindi ricorrere alcuna mala fede qualora il primo marchio risulti ancora inutilizzato al momento del secondo deposito; o comunque quando il secondo marchio venga utilizzato secondo modalità di distribuzione, di rappresentazione grafica, od ancora per tipologie di prodotti o servizi concretamente idonei ad eliminare rischi di confusione. La Corte di giustizia ha poi ulteriormente ammesso la convivenza di marchi pur astrattamente confondibili anche in assenza del presupposto formale della convalida: ed in particolare quando, in circostanze eccezionali, il segno risulti utilizzato in buona fede da due imprese ed i prodotti contraddistinti vengano chiaramente identificati dai consumatori come di provenienza differente. Ciò è in particolare avvenuto in una vicenda relativa al marchio Budweiser, che rinvia al nome tedesco di una località della Repubblica ceca, e che a seguito di complesse vicende storiche è stato registrato e utilizzato per birre nel Regno

57

In argomento cfr. PENNISI, La convalida del marchio, Milano, 1991, 48 ss.

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Unito da un’impresa statunitense fondata da un emigrato ceco e rispettivamente da un’impresa ceca. Posto che le due birre presentano diverse caratteristiche di gusto, e che ai consumatori erano note le vicende che avevano portato a registrazioni parallele del medesimo segno, secondo la Corte l’uso simultaneo in buona fede (desumibile dalla volontà dei due imprenditori di omaggiare la loro origine ceca) può continuare in quanto non pregiudica la funzione essenziale delle registrazioni dei due marchi. Ne deriva ulteriormente che nella specie è stato considerato precluso l’esercizio di azioni di nullità. L’affermazione sembra reggersi sull’idea di consentire ad entrambe le imprese di beneficiare dell’accreditamento autonomamente conseguito sul mercato, sulla base di un principio generale applicabile anche in assenza dei presupposti letteralmente richiesti dalla norma sulla convalida 58.

4. La decadenza per non uso Già si è visto che la registrazione del marchio fa sorgere una protezione indipendente dall’uso del segno, e perciò eventualmente decorrente da un momento anteriore all’inizio di questo uso. L’utilizzazione del marchio costituisce tuttavia un onere del titolare, che rischia di decadere dai suoi diritti quando il marchio non sia stato “oggetto di uso effettivo […] entro cinque anni dalla registrazione” (rileva quindi la data del provvedimento di registrazione da parte dell’Ufficio, non quella anteriore di deposito della domanda), o quando questo uso sia stato interrotto per cinque anni. L’uso del marchio idoneo a prevenire la decadenza può avvenire non solo direttamente da parte del titolare, ma anche da parte di terzi (tipicamente, licenziatari) che operino con il suo consenso (artt. 24, co. 1, e 26 co. 1, lett. c, c.p.i.; artt. 15 e 51.1, lett. a, RMUE). L’onere può essere ottemperato anche dall’uso del marchio “in forma modificata che non ne alteri il carattere distintivo”, e dunque ad es. dall’uso di un marchio simile a quello registrato (art. 24, co. 2, c.p.i. e art. 15, lett. a, RMUE). L’onere di attuazione evita che la registrazione del marchio avvenga da parte da chi non è effettivamente interessato ad utilizzarlo e vuole soltanto “ingombrare” il registro, per ostacolare la possibilità dei terzi di reperire nuovi marchi sufficientemente differenziati. Coerentemente a questa ratio, il legislatore esclude che i marchi decaduti per non uso possano essere fatti valere quali impedimenti relativi alla registrazione. L’uso del marchio deve essere effettivo, e quindi inserirsi in strategie dirette a trovare o mantenere quote di mercato. Non è perciò sufficiente un uso meramente simbolico e strumentale al mantenimento dell’esclusiva: e ad es. l’invio di semplici campioni, o la distribuzione del prodotto nella cerchia del personale o dei collaboratori del titolare della registrazione 59. Non è comunque necessario che l’uso travalichi i confini di uno stato membro, quando possa dirsi comunque quantitativamente significativo 60. La decadenza non opera quando il mancato uso risulta “giustificato da un motivo legittimo”. L’ipotesi non è facile da ricostruire, ed è probabilmente marginale. Essa ricorre in presenza di eventi estranei e indipendenti dalla volontà del titolare. Può ad es. ricorrere per marchi registrati relativamente a specifici prodotti, la cui commercializzazione è subordi-

58

CG 22-9-2011, C-482/09, Budweiser, GADI, 2011, 1644; e v. in dottrina la ricostruzione di PENNITutela del marchio e azioni ritardate: dalla preclusione per tolleranza alla preclusione per coesistenza, RDInd, 2015, 18 ss. 59 Cfr. CG 11-3-2003, C-40/01, Ansul, GADI, 2003, 1408. 60 CG 19-12-2012, C-149/11, Leno Merken, GADI, 2014, 1288.

SI,

[§ 16]

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nata a licenze ed autorizzazioni pubbliche che richiedano tempi superiori al quinquennio 61. Non sembrano invece costituire motivi legittimi le vicende economiche personali del titolare: quali ad es. (e tipicamente) la sottoposizione a procedure concorsuali. Gli organi della procedura infatti possono e devono valorizzare tempestivamente ed al meglio gli assets dell’impresa: attraverso la cessione a terzi, od eventualmente l’esercizio provvisorio delle attività profittevoli. In tale prospettiva una sospensione quinquennale dell’utilizzazione del segno non può giustificarsi in nome degli interessi della procedura concorsuale, e deve ragionevolmente essere “sanzionata” secondo le norme generali dei marchi.

La decadenza per non uso è comunque sanabile attraverso la ripresa dell’utilizzazione anteriormente alla proposizione della domanda o dell’eccezione di decadenza (art. 24, co. 3, c.p.i. e art. 51.1, lett. a, RMUE). La ripresa dell’utilizzazione non vale tuttavia quando avviene nella consapevolezza di un’imminente proposizione dell’azione o eccezione di decadenza.

5. La decadenza per ingannevolezza Il titolare del marchio deve evitarne utilizzazioni idonee ad “indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi”. Queste utilizzazioni determinano decadenza dai diritti sul segno per ingannevolezza (o decettività) sopravvenuta (artt. 14, co. 2, lett. a, e 26, co. 1, lett. b, c.p.i. e art. 51.1, lett. c, RMUE). L’ipotesi si contrappone a quella di un segno originariamente ingannevole (v. supra, V.3), in quanto l’inganno idoneo a determinare la decadenza non deriva dalle caratteristiche intrinseche del marchio, ma dalle concrete modalità di utilizzazione. Ipotesi di utilizzazioni ingannevoli sono ad es. immaginabili quando il marchio contenga elementi denominativi e figurativi che facciano riferimento a qualità del prodotto o servizio, nonché ad una provenienza geografica rilevante per le caratteristiche dell’offerta (ammessa evidentemente in questa ipotesi la validità del marchio, concepibile solo quando i riferimenti alle caratteristiche qualitative del prodotto non costituiscono l’unica componente del segno, o hanno acquisito secondary meaning); e ad un tempo il marchio risulti concretamente utilizzato per prodotti o servizi che di queste caratteristiche siano privi. La possibilità di un’utilizzazione ingannevole conseguente ad un peggioramento delle caratteristiche qualitative del prodotto o servizio è certo in linea di principio concepibile, ma va verificata con una certa cautela 62. L’inganno può ricorrere se ed in quanto un segno abbia originariamente, o per effetto dell’uso, acquisito in concreto una funzione di comunicazione di specifiche qualità del prodotto o servizio: che dunque in tali casi (ma solo in tali casi) devono essere mantenute. La capacità di un determinato marchio di comunicare la presenza di specifiche caratteristiche qualitative del prodotto o del servizio ricorre tuttavia in ipotesi probabilmente limitate: essendo il pubblico fisiologicamente abituato a mutamenti della produzione dovuti al progresso tecnico, alle modifiche dei fattori di costo e del gusto.

61

In argomento cfr. CG 14-6-2007, C-246/05, Häupl, Racc, 2007, I-4673. Per una critica all’applicazione estensiva della decadenza nell’ipotesi di peggioramento qualitativo dei prodotti cfr. GIUDICI, Il marchio decettivo, cit., 112 ss. 62

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[§ 16]

L’inganno può derivare anche da vicende conseguenti al trasferimento o alla concessione di licenze sul marchio. Già si è vista una specifica ipotesi di ingannevolezza nel caso di licenze non esclusive, per le quali è imposta l’eguaglianza dei prodotti commercializzati dal titolare e dai licenziatari paralleli (art. 23, co. 2, c.p.i., v. supra, IX.2). Più in generale il legislatore prevede che “dal trasferimento e dalla licenza di marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico” (art. 23, co. 4, c.p.i.). È ad es. immaginabile che l’ingannevolezza di un riferimento alla provenienza geografica possa derivare dal trasferimento del marchio ad un imprenditore collocato in un differente territorio. La decadenza presuppone comunque che i consumatori ricolleghino al marchio non una generica bontà qualitativa del prodotto o servizio, ma la presenza di caratteristiche specifiche che il nuovo utilizzatore del segno non è in grado di rispettare. In tale prospettiva la Corte di Giustizia ha escluso l’ingannevolezza del trasferimento di un marchio costituito dal nome di uno stilista, benché quest’ultimo stilista non prestasse alcuna collaborazione con il nuovo acquirente del segno; ed ha argomentato le sue conclusioni dal fatto che il nuovo titolare era comunque pur sempre in grado di garantire le qualità e le caratteristiche dei prodotti 63.

6. La decadenza per volgarizzazione I diritti decadono infine se il marchio “per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o […] servizio o abbia perduto la sua capacità distintiva” (art. 13, co. 4, c.p.i. e art. 51.1, lett. b, RMUE). L’ipotesi è definita dal legislatore nazionale con il termine volgarizzazione (art. 26, co. 1, lett. a, c.p.i.), ed è un fenomeno contrario all’acquisto di secondary meaning, che riflette la relatività nel tempo della percezione di alcuni termini da parte del pubblico. Un esempio è costituito dal termine nailon, che costituiva originariamente un marchio registrato, ma che ha assunto successivamente nei consumatori un significato descrittivo della particolare tipologia di fibra sintetica. In questi casi la decadenza del segno riflette evidentemente il medesimo interesse sottostante al requisito del carattere distintivo: e cioè l’interesse a lasciare alla libera disponibilità l’uso di termini necessari a comunicare al pubblico le caratteristiche del prodotto offerto. Un indice sintomatico della volgarizzazione può essere dato dalla riproduzione del marchio nei dizionari, accompagnata da una definizione corrispondente alle generiche caratteristiche di un prodotto o servizio. La riproduzione sui dizionari può tuttavia al più essere un indizio della decadenza, non una prova piena. Il regolamento sul marchio UE offre anzi un particolare strumento di contestazione dell’efficacia probatoria, in quanto impone all’editore del dizionario o dell’enciclopedia, su richiesta del titolare, di indicare nell’edizione successiva che il termine costituisce un marchio registrato (art. 10 RMUE).

63

Cfr. CG 30-3-2006, C-295/04, Emanuel, GADI, 2007, 1167; più in generale, ma sempre in prospettiva critica nei confronti di un’applicazione estensiva della norma sulla decadenza, GIUDICI, op. ult. cit., 130 ss.

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Il sistema attuale tutela peraltro anche l’interesse del titolare del segno ad evitare la decadenza. Le norme nazionali e europee precisano infatti che la volgarizzazione può determinare decadenza quando la perdita di capacità distintiva deriva dall’attività o inattività del titolare. L’ipotesi di inattività del titolare è probabilmente riferita alla tolleranza dell’uso del segno da parte dei terzi, che ne abbia dunque favorito la percezione in un significato descrittivo 64. Più problematica è la ricostruzione delle ipotesi in cui l’uso come comune denominazione commerciale deriva dall’attività del titolare. Qui non è evidentemente immaginabile che proprio il titolare si attivi per favorire la decadenza del segno. È tuttavia possibile che egli vanti l’“unicità” della sua tipologia di offerta evitando di descriverla con termini generici, e presentandola solo attraverso l’uso del marchio. Ciò può dunque favorire un processo mentale di associazione del marchio ad una intera tipologia di prodotti.

7. Dichiarazione ed effetti di nullità e decadenza Nullità e decadenza del marchio vengono normalmente dichiarate dall’autorità giudiziaria ordinaria, sulla base di un accertamento dei relativi presupposti. Peculiare è tuttavia il sistema del marchio UE, per il quale l’esercizio in via principale dell’azione di nullità o di decadenza deve avvenire avanti ad apposite sezioni dell’EUIPO (artt. 56 ss. e 134 RMUE). Rientrano invece nella competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria le azioni di nullità e decadenza proposte in via riconvenzionale, e cioè nell’ambito di un giudizio di contraffazione avviato dal titolare del marchio (art. 96, lett. d, RMUE). Il legislatore non ritiene concepibile che il marchio dichiarato nullo o decaduto possa essere in alcun modo opponibile ai terzi. La dichiarazione di nullità o decadenza del marchio produce quindi effetti erga omnes, anche a vantaggio di chi non sia stato parte del relativo giudizio (art. 123 c.p.i.). Poiché la nullità deriva da un difetto originario di requisiti, la relativa dichiarazione produce effetti ex tunc risalenti fin dal momento del deposito della domanda di registrazione. L’art. 55.2 RMUE prevede così testualmente che il marchio dichiarato nullo “è considerato fin dall’inizio privo degli effetti di cui al presente regolamento”. La decorrenza degli effetti della decadenza dovrebbe invece in linea di principio risalire al momento (successivo alla registrazione) in cui si sono verificati i fatti che hanno determinato la perdita del diritto. La disciplina del marchio UE prevede tuttavia la perdita del diritto dalla data della domanda giudiziale, salvo che la parte abbia chiesto l’anticipazione della decorrenza degli effetti dalla data anteriore in cui è sopravvenuta la causa di decadenza (art. 55.1 RMUE). La disciplina del marchio UE introduce poi due importanti eccezioni al principio di efficacia retroattiva della dichiarazione di nullità e decadenza. L’art. 55.3, lett. a, RMUE prevede anzitutto che la dichiarazione di decadenza o nullità non pregiudica gli atti di esecuzione delle decisioni di contraffazione: e con ciò ad es., e tipicamente, non costituisce titolo per chiedere la ripetizione delle somme versate per risarcire il danno da contraffazione di un marchio successivamente dichiarato nullo. Le decisioni di nullità o decadenza non pregiudicano inoltre “i contratti conclusi anteriormente […] nella misura in cui sono stati eseguiti” (art. 55.3, lett. b, RMUE). La norma presuppone probabilmente che l’esecuzione dei contratti abbia comunque realizzato in via di fatto l’interesse dei contraenti: ad es. consentendo al licenziatario di sfruttare il segno in funzione promozionale dell’offerta dei propri beni o servizi. La norma consente peraltro all’avente causa dei diritti sul marchio 64

Cfr. CG 27-4-2006, C-145/05, Levi Strauss, GADI, 2006, 1084; e in dottrina VANZETTI-DI CATALDO.

274

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nullo di chiedere ed ottenere “per ragioni di equità […] il rimborso di importi versati in esecuzione del contratto”. Questa previsione costituisce dunque un’importante “valvola di sfogo”, che permette di verificare di volta in volta in relazione alle circostanze del caso concreto se ed in quale misura l’avente causa (tipicamente, il licenziatario) ha potuto trarre vantaggio dal contratto relativo al marchio nullo o decaduto, e di proporzionare in relazione a questo vantaggio l’importo delle somme non ripetibili.

XI. I nomi a dominio La diffusione di internet ha posto il problema relativo all’esistenza ed al riconoscimento di una funzione (non solo tecnica, ma anche) giuridica dei nomi a dominio (domain names): e cioè delle espressioni letterali che consentono ad un computer (client) di indirizzare il proprio collegamento verso un altro computer (server) per ricevere informazioni da quest’ultimo. I nomi a dominio vengono assegnati ai gestori delle informazioni ospitate sui server dalle autorità preposte al funzionamento di internet, attraverso un procedimento di c.d. registrazione del domain name, che non va confuso con quello di registrazione del marchio davanti ai (diversi) uffici nazionali e europei competenti. Qualora l’offerta di informazioni al client avvenga nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, il domain name svolge in effetti una funzione distintiva di questa attività 65. Tanto è espressamente riconosciuto dalle norme del codice di proprietà industriale che menzionano il nome a dominio usato nell’attività economica. In particolare l’art. 22 c.p.i. attrae espressamente il nome a dominio di un sito usato nell’attività economica nel principio di c.d. unitarietà dei segni distintivi. La norma vieta infatti l’utilizzazione (anche) di un nome a dominio “uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico” (art. 22, co. 1, c.p.i.). La medesima norma estende inoltre il divieto all’utilizzazione di un nome a dominio di un sito usato nell’attività economica “uguale o simile ad un marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, che goda nello stato di rinomanza se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi” (art. 22, co. 2, c.p.i.). Anche i nomi a dominio devono quindi rispettare il divieto di utilizzazioni confusorie, o comunque dirette a sfruttare la fama di altrui marchi notori, a nulla rilevando che il terzo abbia ottenuto l’assegnazione del domain name da parte delle autorità preposte al funzionamento della rete. Nell’eventualità che il marchio anteriore non sia dotato di rinomanza, il rischio di confusione con il domain name del terzo dovrà essere valutato considerando la tipologia di informazioni ospitate sul sito: e perciò l’affinità dell’attività svolta attraverso il sito rispetto ai prodotti o servizi per cui il

65 Trib. Milano, 3-6-1997, AIDA, 1998, 587; Trib. Genova, 17-7-1999, ivi, 2000, 784, confermata da Trib. Genova, 13-10-1999, ivi, 2000, 806; Trib. Cagliari, 30-3-2000, ivi, 2000, 945; in dottrina cfr. MAYR, I domain names ed i diritti sui segni distintivi: una coesistenza problematica, AIDA, 1996, 223 ss.; FRASSI, Internet e segni distintivi, RDInd, 1997, II, 186 ss.

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marchio anteriore è stato registrato. Così ad esempio il titolare di un ipotetico marchio “Il podere” registrato per vini potrà impedire l’utilizzazione del domain name “ilpodere.it” per un sito di offerta in vendita di vini (data l’identità di prodotti). Non potrà invece impedire l’utilizzazione di questo domain name per un sito di agenzia di compravendita di terreni. Quando peraltro il marchio anteriore risulti dotato di rinomanza, il divieto potrà estendersi all’utilizzazione del domain name anche per siti che ospitino informazioni prive di collegamenti con l’attività del titolare originario. Così ad esempio l’utilizzazione del domain name “coca-cola.com” da parte di terzi costituirebbe una violazione dei diritti sul marchio “Coca-Cola”, quand’anche avvenisse per un sito di informazioni alberghiere. Questa utilizzazione infatti sfrutterebbe comunque il valore pubblicitario del segno originale rinomato (v. supra, VIII.3). È invece probabilmente da considerare legittima l’utilizzazione di domain name uguali o simili a marchi altrui per siti estranei a finalità imprenditoriali, che ospitino informazioni fornite da privati o da associazioni non gestite secondo criteri di economicità. Per questa ragione ad esempio il domain name “sanbenedetto.it” utilizzato da un sito parrocchiale non dovrebbe costituire violazione del marchio “San Benedetto” registrato per acque minerali, e ciò indipendentemente da ogni valutazione in ordine alla rinomanza o meno di quest’ultimo marchio, e all’approfittamento del suo valore pubblicitario. In tal senso depone anzitutto la scelta del legislatore di limitare la tutela del marchio all’uso “nell’attività economica” (art. 20 c.p.i.), con ciò implicitamente escludendo gli usi non commerciali. Questa scelta trova poi ulteriore riscontro proprio nella norma sull’interferenza fra domain name e marchio, che a sua volta fa riferimento a “un sito usato nell’attività economica”, con ciò escludendo dal suo campo di applicazione i nomi di siti gestiti senza obiettivi imprenditoriali (art. 22 c.p.i.). Resta in tali casi eventualmente aperta la tutela fondata su norme diverse da quelle sui segni distintivi: ed in primis sulle norme relative al nome civile. Così ad es. l’utilizzazione del domain name “gigibuffon.it” per un sito di fan del celebre portiere, senza il consenso di quest’ultimo, potrebbe risultare in contrasto con l’art. 7 c.c., pur non costituendo utilizzazione imprenditoriale.

Reciprocamente, il domain name può essere protetto secondo i princìpi generali dei segni distintivi, e perciò contro l’uso di marchi (ma anche ditte, ragioni e denominazioni sociali, o insegne) con esso confondibili. L’art. 12, co. 1, lett. b, c.p.i. ricomprende non a caso i nomi a dominio usati nell’attività economica fra i segni che costituiscono impedimento alla registrazione di marchi successivi uguali o simili, in quanto idonei a produrre rischi di confusione. Analogamente senz’altro il titolare del domain name (purché dotato di capacità distintiva, v. infra immediatamente nel testo) può lamentare l’illecita utilizzazione da parte di terzi di nomi a dominio uguali o simili al proprio, e perciò idonei a determinare confusione in ordine all’identità dell’impresa responsabile delle informazioni del sito ospitate sul server. È infine certamente possibile registrare il domain name come marchio. Naturalmente in questi casi occorre verificare la presenza dei requisiti di protezione, ed in particolare della capacità distintiva. Di fatto nella pratica è frequente l’utilizzazione di nomi a dominio largamente descrittivi della tipologia di informazioni ospitate sul server. In tali casi, tuttavia, il domain name non può avere una protezione ulteriore rispetto a quella garantitagli in via di fatto e per mere esigenze tecniche dal principio di unicità di assegnazione (che garantisce l’univocità dell’indirizzamento del client ad un

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unico server). Così ad es. un ipotetico domain name “infoalberghi.it”, utilizzato per un sito di informazioni alberghiere, appare descrittivo della tipologia di notizie offerte, e perciò non sembra validamente registrabile come marchio, e non è proteggibile contro l’utilizzazione di domain names pur fortemente simili, ma rispettosi del principio di unicità dell’assegnazione, quali “infoalberghi.com” o “info_alberghi.it”.

XII. I segni distintivi collettivi 1. Il marchio collettivo L’ordinamento nazionale ed europeo riconoscono e proteggono ulteriori tipologie di segni distintivi che svolgono una funzione diversa da quella sin qui esaminata. Si tratta precisamente dei segni destinati all’utilizzazione parallela da parte di una pluralità di imprenditori. Una prima categoria di segni destinati ad una utilizzazione plurima è costituita dai marchi collettivi (art. 8 c.p.i. e artt. 66 ss. RMUE). L’art. 11 c.p.i. consente di registrare marchi collettivi ai soggetti “che svolgono la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi”. Funzione giuridicamente protetta del marchio collettivo è perciò quella di garantire che i prodotti o servizi contraddistinti presentino particolari caratteristiche qualitative (standard) “certificate” dal titolare. L’utilizzazione del marchio collettivo avviene essenzialmente attraverso il consenso prestato dal titolare a che i terzi ne facciano uso rispettando le qualità definite in appositi “regolamenti”, allegati alla domanda di registrazione (cd. regolamenti d’uso). I regolamenti d’uso devono in particolare determinare le caratteristiche qualitative garantite dal marchio, i controlli che il titolare può esercitare sugli utilizzatori per verificarne il rispetto, e le sanzioni previste in caso di inosservanza (art. 11, co. 2, c.p.i. e art. 67 RMUE). L’omissione “dei controlli previsti dalle disposizioni regolamentari sull’uso del marchio collettivo” costituisce motivo di decadenza dai diritti sul segno per sopravvenuta ingannevolezza (art. 14, co. 2, lett. c, c.p.i. e art. 73, lett. a, RMUE). Nella specie l’inganno deriva evidentemente dal mancato rispetto delle caratteristiche qualitative certificate dal regolamento, conseguente agli omessi controlli del titolare. La disciplina del marchio collettivo corrisponde in linea di principio a quella del marchio individuale (art. 12, co. 5, c.p.i. e art. 66.3 RMUE). Di fatto nella prassi è frequente la registrazione di marchi collettivi fortemente descrittivi delle caratteristiche del prodotto certificato (si pensi al marchio collettivo “pura lana vergine” o “vero cuoio”). Questa registrazione dovrebbe essere a rigore considerata nulla per difetto di capacità distintiva. È tuttavia riscontrabile una certa tolleranza ad ammettere anche in questi casi la tutela, che sul piano giuridico può forse essere argomentata in base ai princìpi del secondary meaning, a maggior ragione in quanto il marchio collettivo assume una minore efficacia monopolistica, in virtù della sua destinazione all’uso da parte di una pluralità di imprenditori. La tendenza a registrare marchi collettivi costituiti da denominazioni descrittive delle caratteristiche qualitative del prodotto o servizio trova un espresso riconoscimento legislativo per l’ipotesi di marchi collettivi geografici. Il legislatore prevede infatti che “un marchio collettivo può consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi” (art. 11, co. 4, c.p.i. e art. 66.2 RMUE). La norma riflette l’interesse ad evidenziare attraverso il marchio collettivo la provenienza da una zona geografica attualmente o potenzialmente rinomata per l’esistenza di una tradizione pro-

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duttiva. Il marchio collettivo assume così una funzione molto simile a quella delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine, protette secondo i princìpi esposti infra, 2. La possibilità di registrare validamente come marchi collettivi denominazioni geografiche descrittive della provenienza del prodotto trova tuttavia alcuni contrappesi. Un primo è dato dalla possibilità per l’UIBM di rifiutare la registrazione quando “i marchi richiesti possono creare situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione” (art. 11, co. 4, c.p.i.). In ogni caso, e soprattutto, il diritto sul marchio collettivo non può impedire ai terzi di utilizzare il nome geografico conformemente “alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale” (così letteralmente l’art. 66.2 RMUE, nonché il pressoché corrispondente art. 11, co. 4, ultima frase, c.p.i.). Il sistema europeo impone infine al titolare del marchio collettivo geografico di consentire l’uso del segno a tutti gli imprenditori della zona che si impegnino a rispettare le caratteristiche qualitative previste nel regolamento d’uso (art. 67.2 RMUE). La novella al RMUE ha espressamente introdotto e disciplinato una ulteriore tipologia di marchi, denominati marchi di certificazione UE (artt. 74 bis ss. RMUE). Sono definiti marchi di certificazione i segni “idonei a distinguere i prodotti o i servizi certificati dal titolare del marchio in relazione al materiale, al procedimento di fabbricazione dei prodotti o alla prestazione del servizio, alla qualità, alla precisione o ad altre caratteristiche, ad eccezione della provenienza geografica, da prodotti e servizi non certificati”. Si tratta perciò ancora una volta (al pari dei marchi collettivi) di segni che svolgono una funzione di certificazione di garanzia qualitativa (sia pur non comprensiva della garanzia di provenienza geografica). Nella visione del legislatore europeo i marchi collettivi sembrano tuttavia riservati alla registrazione da parte di organizzazioni associative di produttori (tipicamente, associazioni di categoria e consorzi) e destinati all’utilizzazione da parte dei membri dell’organizzazione medesima. I marchi di certificazione possono essere invece registrati anche da persone fisiche, e comunque sembrano pensati in funzione dell’utilizzazione da parte di soggetti che non assumono la qualità di “membri” (associati, consorziati) dell’organizzazione registrante 66. L’ipotesi assume rilievo per le certificazioni di enti pubblici o organizzazioni operanti a livello internazionale (si pensi alle certificazioni “ISO”) che svolgono istituzionalmente attività di controllo del rispetto di standard qualitativi da parte di produttori terzi. La disciplina dei marchi di certificazione segue comunque regole generali corrispondenti a quelle dei marchi collettivi, così che la duplicazione delle categorie (marchi collettivi e rispettivamente di certificazione) pare di dubbia utilità. Il legislatore nazionale dovrà introdurre norme corrispondenti in attuazione della nuova versione della direttiva marchi. Allo stato tuttavia la registrazione dei marchi collettivi nazionali non sembra limitata alle organizzazioni associative, e perciò ben possibile anche da parte di chi certifichi attività di imprese terze, così che in questo momento il diritto italiano attrae in un’unica categoria di marchi collettivi anche i segni definiti marchi di certificazione dal diritto UE.

2. Le indicazioni geografiche Un’ulteriore tipologia di segni distintivi destinati all’utilizzazione da parte di una pluralità di imprenditori è costituita dalle indicazioni geografiche, che il codice della proprietà industriale italiano disciplina agli artt. 29-30, ma che vengono ulteriormente regolate da accordi internazionali e norme europee, difficilmente inquadrabili in un sistema unitario 67. 66

Cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 1757. Cfr. SARTI, Le indicazioni d’origine geografica: storia, questioni terminologiche e proposte interpretative, in Studi in memoria di Paola Frassi, Milano, 2010, 619 ss.; RICOLFI, Trattato dei marchi, 1780 ss. 67

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In linea di principio la funzione giuridicamente protetta delle indicazioni geografiche sembra sovrapponibile a quella dei marchi collettivi: e perciò pare da intendere come garanzia della presenza di caratteristiche qualitative del prodotto. Essenziale alla funzione delle indicazioni geografiche è tuttavia la riconducibilità di queste caratteristiche alla produzione tradizionale del territorio. Il marchio collettivo invece, quand’anche costituito da termini geografici, non richiede che sul territorio si sia già consolidata una tradizione produttiva. Il marchio collettivo può anzi proporsi di favorire la formazione di una tradizione produttiva attualmente inesistente. In questa prospettiva si spiega la collocazione delle indicazioni geografiche nel sistema nazionale all’interno della categoria dei segni distintivi non registrati, e tutelati sulla base dell’esistenza in via di fatto di una tradizione produttiva riconosciuta dal pubblico, in forza della quale il nome del territorio risulti comunemente adottato “per designare un prodotto che ne è originario e le cui qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico d’origine, comprensivo dei fattori naturali, umani e di tradizione” (art. 29 c.p.i.). La tutela del codice della proprietà industriale sembra pertanto presupporre che il pubblico riconduca alla zona geografica la presenza di caratteristiche qualitative dipendenti dal territorio 68. La protezione non può dunque essere vantata qualora il nome geografico risulti sconosciuto al pubblico, o venga considerato sinonimo della presenza di caratteristiche qualitative di prodotti provenienti anche da altre aree geografiche. La tutela si estende a vietare utilizzazioni tali da suggerire che il prodotto “proviene da una località diversa dal vero luogo di origine, oppure che il prodotto presenta le qualità che sono proprie dei prodotti che provengono da una località designata da un’indicazione geografica” (art. 30 c.p.i.). Così ad es. l’utilizzazione del termine Chianti è preclusa a chi operi al di fuori della relativa area territoriale, a nulla rilevando che egli dimostri di produrre un vino qualitativamente identico a quelli della zona. E così pure il termine Chianti non può essere utilizzato da imprese che, pur producendo nella zona, non rispettino gli standard qualitativi tipici del territorio, normalmente “certificati” da organizzazioni consortili dei produttori. La scelta del legislatore di considerare le indicazioni geografiche come oggetto di diritti di proprietà industriale farebbe pensare in tali casi alla lesione di un diritto appartenente ad un determinato “proprietario”, conseguentemente legittimato a lamentarne la violazione. In realtà l’individuazione di questo proprietario è problematica. Parrebbe ragionevole ritenere che tutti gli imprenditori della zona che rispettino gli standard qualitativi tradizionali siano legittimati a fare valere la violazione del diritto sull’indicazione geografica: con il che tuttavia la caratteristica “proprietaria” di appartenenza del diritto ad un unico soggetto finisce per essere sostanzialmente perduta. D’altro canto l’utilizzazione dell’indicazione geografica da parte di soggetti non legittimati sembra ad un tempo costituire una forma di appropriazione di pregi sanzionabile a titolo di concorrenza sleale; e forse addirittura un mendacio riconducibile alla violazione dei princìpi di correttezza professionale, con conseguente legittimazione allargata all’azione da parte di qualsiasi concorrente (e così, ad es., anche da parte dei produttori collocati al di fuori della zona geografica, comunque danneggiati per la falsa informazione). La scorretta utilizzazione di indicazioni geografiche costituisce inoltre una forma di comunicazione ingannevole sanzionata in base alla disciplina delle pratiche commerciali (v. supra, § 11.II.3). Le indicazioni geografiche hanno particolare importanza nel settore dei prodotti agroalimentari e dei vini, per i quali il fenomeno di caratteristiche qualitative legate al territorio è assai frequente, e dove sussiste un forte interesse delle comunità locali alla difesa ed allo

68 Cfr. CIAN, Le indicazioni di qualità dei cibi nella UE: il contenuto della tutela, in Le indicazioni di qualità degli alimenti, a cura di Ubertazzi e Muñiz Espada, Milano, 2009, 191 s.

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sfruttamento economico delle proprie tradizioni. Proprio nel settore agroalimentare la protezione delle indicazioni geografiche è disciplinata a livello europeo dal reg. (UE) 1151/2012; e la giurisprudenza europea sembra procedere dall’idea (discutibile) secondo cui le denominazioni geografiche di prodotti agroalimentari percepite dal pubblico come indicative della presenza di determinate caratteristiche qualitative possano essere protette solo in base al diritto europeo, e non anche in base alle legislazioni nazionali 69. Il regolamento prevede la possibilità di tutelare le indicazioni geografiche mediante registrazione a titolo di denominazioni d’origine protette (D.O.P.), o alternativamente di indicazioni geografiche protette (I.G.P.). I requisiti di tutela delle I.G.P. appaiono meno stringenti rispetto alle D.O.P. La protezione è comunque identica, e l’interesse ad ottenere la D.O.P. riflette essenzialmente considerazioni di prestigio. La registrazione è concessa sulla base di un complesso procedimento davanti alla Commissione, che deve verificare essenzialmente la possibilità che il pubblico percepisca l’indicazione geografica in funzione distintiva della provenienza del prodotto da una determinata zona. La registrazione conferisce alla D.O.P. o I.G.P. una tutela unitaria estesa a tutti i paesi membri, paragonabile sotto questo profilo a quella conferita dal marchio UE. La protezione è particolarmente forte, in quanto si estende non soltanto alle utilizzazioni ingannevoli sotto il profilo della provenienza geografica del prodotto, ma a qualsiasi tentativo di approfittamento della notorietà del nome (così ad es. la vendita di formaggi con l’indicazione “Bayern Parmesan”, violerebbe i diritti sulla D.O.P. “Parmigiano Reggiano”, pur indicando chiaramente la provenienza bavarese del prodotto). I diritti sulle D.O.P. e I.G.P., inoltre, non decadono mai per effetto di volgarizzazione.

69 Cfr. l’evoluzione giurisprudenziale, in realtà problematica, ricavabile dalle decisioni di CG 7-112000, C-312/98, Warsteiner, in Racc., 2000, I-9209; CG 18-11-2003, C-216/01, Budeˇjovický Budvar, GADI, 2004, 1303; CG 8-9-2009, C-478/07, Budeˇjovický Budvar 2, ivi, 2011, 1459; v. però anche considerazioni critiche in SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, 165 s.

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§ 17. TECNOLOGIA E DESIGN SOMMARIO: I. I brevetti d’invenzione. – 1. Le fonti della disciplina. – 2. La nozione di invenzione. – 3. Requisiti di brevettabilità. – 4. Diritto alla brevettazione e procedimento. – 5. L’estensione della tutela. – 6. Cessioni e licenze di brevetto. – 7. Nullità e decadenza del brevetto. – II. I modelli di utilità. – III. I modelli e disegni industriali.

LETTERATURA: DI CATALDO, L’originalità dell’invenzione, Milano, 1983; ID., Sistema brevettuale e settori della tecnica. Riflessioni sul brevetto chimico, RDComm, 1985, I, 343; ID., I brevetti per invenzione e per modello, Comm. Schlesinger, Milano, 2014; GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2001; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, Comm. ScialojaBranca, Bologna, 2013; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, Tr. Cicu-Messineo, Milano, 2011; UBERTAZZI, Invenzione e innovazione, Milano, 1978.

I. I brevetti d’invenzione 1. Le fonti della disciplina Anche la disciplina delle innovazioni tecnologiche è stata ampiamente armonizzata da convenzioni internazionali 1, che trovano attuazione all’interno del codice della proprietà industriale (art. 45 ss.). Come sempre, il c.p.i. disciplina e tutela diritti aventi estensione entro il territorio dello stato italiano. Una privativa sovranazionale è prevista esclusivamente nel settore dei ritrovati vegetali (regolamento 2100/94/CE), che, peraltro, per la loro “specificità” non saranno presi in considerazione in questa sede. Un’armonizzazione particolarmente “spinta” della disciplina dell’innovazione tecnologica si ritrova però in convenzioni e trattati che hanno accentrato avanti ad appositi uffici internazionali tutti o parte degli atti del procedimento di brevettazione, con l’effetto di dare vita, attraverso un procedimento dunque unitario, a plurime privative nazionali, una per ciascuno degli stati aderenti. Si tratta in particolare della Convenzione sul Brevetto Europeo – CBE e del Trattato di Cooperazione in materia di Brevetti (più frequentemente etichettato attraverso l’acronimo della corrispondente espressione anglosassone Patent Cooperation Treaty – PCT). La CBE ha in particolare istituito una Organizzazione Europea dei Brevetti ed un Ufficio europeo dei Brevetti – UEB (ma frequentemente etichettato con l’acronimo della corrispondente

1

Numerose norme in proposito sono contenute nella Convenzione di Unione di Parigi - CUP (in particolare agli artt. 4-5 quater) e nell’Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights – TRIPs (cfr. in particolare gli artt. 27-34).

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espressione anglosassone European Patent Office – EPO). A dispetto del nome, la CBE costituisce convenzione autonoma rispetto all’ordinamento dell’UE, e ad essa aderiscono anche paesi che all’UE non appartengono. L’adesione dell’Italia alla CBE e al PCT determina l’efficacia diretta sul territorio nazionale degli atti del procedimento di brevettazione posti in essere avanti agli uffici internazionali, secondo quanto verrà esposto infra, 4.

2. La nozione di invenzione Il concetto di invenzione non trova espressa definizione né nel codice della proprietà industriale né nelle norme internazionali. Appare tuttavia nel complesso corretta la definizione tradizionale che la esprime in termini di “soluzione di un problema tecnico”, per contrapporla così al concetto di scoperta 2. Mentre la semplice scoperta illustra relazioni di causalità di fenomeni fisici e chimici esistenti in natura, l’invenzione applica queste leggi naturali per soddisfare bisogni umani: e per soddisfarli attraverso una produzione industriale (tecnica) serializzata. Non si deve trattare dunque di una pura e semplice attività intellettuale. La definizione così ricostruita pare confermata dalla elencazione legislativa (art. 45, co. 2, c.p.i. e art. 52 CBE) di ciò che non si considera come invenzione e di cui dunque è esclusa la brevettabilità: e cioè a) anzitutto proprio le scoperte, teorie scientifiche e metodi matematici (non è brevettabile la teoria della relatività); b) piani, metodi e princìpi puramente intellettuali, giochi (non è brevettabile il gioco del lotto) e metodi commerciali (non è brevettabile una tecnica di marketing), dove ben emerge la necessità che l’invenzione non soltanto soddisfi un bisogno (l’idoneità di tecniche di marketing a soddisfare bisogni è indiscutibile), ma anche che lo soddisfi attraverso una produzione industriale serializzata, non attraverso un’attività professionale intellettuale; c) le presentazioni di informazioni (non è brevettabile un grafico che illustri relazioni fra dati statistici, ancorché individuati secondo metodi originali), dove ancora una volta la soddisfazione del bisogno avviene attraverso attività intellettuali. Così pure il carattere meramente intellettuale dell’attività giustifica la previsione di non brevettabilità dei metodi di trattamento chirurgico o terapeutico (art. 45, co. 4, lett. a, c.p.i. e art. 53.2, lett. c, CBE): non è perciò brevettabile una tecnica operatoria o una prescrizione medica, ferma restando tuttavia la brevettabilità dei farmaci prescritti (v. infra). Così pure la non brevettabilità di razze animali (art. 45, co. 4, lett. b, c.p.i. e art. 53.2, lett. b, CBE) può ricondursi in ultima analisi al carattere non industriale dell’attività di incrocio di razze, almeno quando svolta a livello macrobiologico (non è brevettabile una razza canina derivante dall’incrocio di due specie, mentre gli interventi microbiologici sul DNA umano e animale possono essere brevettati secondo quanto emergerà infra). La non brevettabilità delle novità vegetali va invece letta alla luce degli artt. 100 ss. c.p.i., che in tale ipotesi prevedono una brevettazione sui generis. 2 Cfr. FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO; DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 77 ss.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 115; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 77. Per una definizione più articolata cfr. FRANZOSI, Definizione di invenzione brevettabile, RDInd, 2008, I, 18 ss.

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Più difficile da comprendere è l’esclusione dal concetto di invenzione dei programmi per elaboratore (art. 45, co. 2, lett. b, c.p.i. e art. 52.2, lett. c, CBE), che ha forse alla base una discutibile concezione del programma in termini di puro metodo matematico 3. È tuttavia difficile negare all’interazione fra software e hardware la capacità di risolvere problemi tecnici, ad esempio velocizzando le operazioni di un macchinario o anche dello stesso processore del computer. In questa prospettiva il divieto di brevettazione è interpretato restrittivamente, valorizzando la precisazione dell’art. 45, co. 3, c.p.i. (e v. il corrispondente art. 52.3 CBE), che esclude la brevettabilità di scoperte, metodi intellettuali e programmi “considerati in quanto tali”. Si ritiene in particolare brevettabile l’interazione del software con l’hardware: non solo quando consenta la gestione di un macchinario costruito appositamente in funzione di questa interazione (si pensi al software di automazione di una catena di montaggio); ma anche quando consenta il funzionamento di un microprocessore progettato per interagire con programmi molteplici (si tende ad esempio ad ammettere la brevettabilità di un software che velocizzi le operazioni del processore) 4. D’altro canto i programmi per elaboratore sono comunque in via generale tutelati dalla legge sul diritto d’autore (cfr. art. 2, co. 1, n. 8, l.a.), così che allo stato questo settore della tecnica non può dirsi affatto escluso dalla tutela dei risultati degli investimenti in ricerca e sviluppo. L’esclusione dalla brevettabilità delle scoperte considerate “in quanto tali” riflette del resto un più ampio principio generale, per il quale l’esistenza in natura di una composizione di elementi non ostacola la brevettazione della sua capacità di soddisfare bisogni umani. È dunque ammessa la brevettazione di qualsiasi sostanza chimica, indipendentemente da considerazioni relative alla sua esistenza allo stato naturale, purché l’inventore ne individui funzionalità industrialmente riproducibili (si pensi alle proprietà dell’acido acetilsalecilico di cura del raffreddore). Nel settore biotecnologico il principio è espressamente riconosciuto con riferimento alla brevettabilità di elementi isolati del corpo umano, anche identici a quelli di un elemento naturale “a condizione che la sua funzione e applicazione industriale siano concretamente indicate e descritte” (art. 81-quater, co. 1, lett. d, c.p.i.); e così pure è riconosciuta la brevettabilità di “una semplice sequenza di DNA”, purché ne venga “fornita l’indicazione e la descrizione di una funzione utile” (cfr. a contrariis l’art. 81-quinquies, co.1, lett. c, c.p.i.) 5. Non è perciò brevettabile la mappatura del genoma umano 6, lo è tuttavia 3 Sulla problematicità delle ragioni di questa esclusione cfr. GUGLIELMETTI, L’invenzione di software, Milano, 1996, 26 ss. 4 Questa soluzione sembra in particolare accolta dalla prassi dell’UEB: cfr. VANZETTI-DI CATALDO; DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 91; per alcune considerazioni critiche su questa prassi cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 126 alla nota 32. Sull’ulteriore problema dell’accertamento del carattere tecnico dell’invenzione cfr. AREZZO, Il requisito del carattere tecnico e la nozione di invenzione brevettabile nella giurisprudenza dell’UEB in materia di invenzioni di software, in Studi in memoria di Paola Frassi, Milano, 2010, 2 ss. 5 In argomento cfr. GUGLIELMETTI, sub art. 4, NLCC, 2008, 398 ss., anche con riferimento alla brevettabilità di singole cellule del corpo umano. 6 FLORIDIA/Dir. ind.; DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Studi in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, 487 ss. (anche con riguardo al rilievo assunto dalla funzione di produzione di proteine); GUGLIELMETTI, sub art. 3, NLCC, 2008, 386.

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una sequenza di DNA di cui l’inventore abbia individuato l’utilizzazione in funzione curativa di certe malattie. Nessun settore tecnologico è escluso dunque dalla possibilità di brevettazione, la quale a sua volta può coprire tanto i prodotti quanto i procedimenti industriali. Le resistenze alla “mercificazione” delle tecnologie in settori particolarmente sensibili, come quello dei medicinali (in passato esclusi dalla brevettazione anche in Italia) 7 e delle biotecnologie, sono state de iure condito superate da una legislazione fiduciosa che le aspettative di profitto nel mercato della ricerca e sviluppo orientino gli investimenti verso la soddisfazione della domanda anche in questi settori 8. La classificazione tradizionale delle tipologie di invenzioni è in realtà apparentemente più articolata, e tende a distinguere, oltre alle invenzioni di prodotto e procedimento, anche le invenzioni d’uso. A quest’ultima tipologia di invenzioni sembra in particolare fare riferimento l’art. 46, co. 4, c.p.i., che ammette la “brevettabilità di una sostanza o composizione di sostanze già compresa nello stato della tecnica, purché in funzione di una nuova utilizzazione”. In realtà, secondo l’opinione preferibile, qualsiasi invenzione di prodotto richiede l’individuazione di (almeno) una sua possibile utilizzazione 9, cosicché l’invenzione d’uso può essere ricondotta alla categoria delle invenzioni di prodotto. L’art. 46, co. 4, vale soltanto a precisare che i requisiti di brevettabilità esposti infra, 3, possono ricorrere non solo quando una certa struttura di prodotto era precedentemente sconosciuta, ma anche quando era nota, e ad un tempo ne era ignota una certa applicazione in funzione del soddisfacimento di bisogni umani. La distinzione fra invenzioni di prodotto e procedimento, per quanto da non sopravvalutare (spesso un unico brevetto rivendica contemporaneamente caratteristiche di un procedimento di fabbricazione e del prodotto che ne risulta) 10, è comunque utile per comprendere il significato dell’art. 66, co. 2, c.p.i., che riconosce alle due tipologie di invenzioni una diversa estensione di tutela: v. infra, 5.

3. Requisiti di brevettabilità La valida brevettazione presuppone una serie di requisiti: e precisamente novità, attività inventiva, industrialità e liceità dell’invenzione. a) Il requisito dell’industrialità è definito nell’art. 49 c.p.i. (e v. il corrispondente art. 57 CBE), ma in realtà è desumibile sistematicamente dalle considerazioni precedentemente svolte e dalla necessità di distinguere il concetto di invenzione da quello di scoperta 11. L’art. 49 c.p.i. precisa al riguardo (pleonasticamente) che l’applicabilità

7

Fino alla sentenza di C.Cost. 20-3-1978, n. 20, NLCC, 1978, 873, con nota di MARCHETTI e VAN-

ZETTI. 8 9

Per alcune considerazioni sul dibattito cfr. DI CATALDO, Note introduttive, NLCC, 2008, 356 ss. FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO; DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello,

81 s. 10

Sulla compatibilità di questa brevettazione di prodotto e procedimento con il principio di unicità dell’invenzione cfr. VANZETTI, Procedimento, prodotto e unicità dell’invenzione, RDInd, 2011, I, 227 ss. 11 FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 167. Ricostruisce l’industrialità in termini di utile riproducibilità del ritrovato con caratteri co-

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industriale dell’invenzione ricorre “se il suo oggetto può essere fabbricato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola”. b) Il requisito della novità sembra a sua volta a prima vista pleonastico, in quanto non può considerarsi “invenzione” ciò che già appartiene al patrimonio delle conoscenze. In realtà la disciplina al riguardo dell’art. 46 c.p.i. (e del corrispondente art. 54 CBE) contiene alcune importanti precisazioni in ordine al patrimonio di conoscenze da prendere in considerazione per valutare se l’invenzione se ne distacchi 12. Questo patrimonio forma il c.d. “stato della tecnica”, e ricomprende “tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello stato o all’estero prima della data di deposito della domanda di brevetto, mediante una descrizione scritta od orale, una utilizzazione o qualsiasi altro mezzo” (c.d. novità assoluta dell’invenzione). La norma non distingue la fonte dell’accessibilità al pubblico, che può derivare dalla stessa attività dell’inventore. Così il ricercatore che descrive in un convegno pubblico i risultati delle sue ricerche non potrà poi successivamente brevettarli (c.d. predivulgazione, che nell’esempio diviene suicida) 13. La predivulgazione può essere esclusa soltanto se l’invenzione è comunicata a una ristretta cerchia di persone, con vincolo di riservatezza (ad es., nella cerchia dei collaboratori dell’imprenditore) 14. L’art. 47 c.p.i. elenca poi alcune ipotesi di divulgazioni non opponibili all’inventore e perciò non distruttive della novità. Fra esse va segnalata l’eventualità di un “abuso evidente ai danni del richiedente” avvenuto nei sei mesi precedenti la data di deposito (si pensi ad atti di spionaggio industriale, o a collaboratori infedeli che abbiano comunicato l’invenzione al pubblico). È inoltre possibile che la domanda contenga una rivendicazione di priorità da anteriore deposito estero in un paese aderente alla Convenzione d’Unione di Parigi (CUP). La rivendicazione di priorità consente in particolare di retrodatare la valutazione della novità al momento del primo deposito in uno dei paesi aderenti alla convenzione, purché avvenuto nell’anno anteriore (art. 4 CUP). L’inventore può così depositare domanda di brevetto in un paese (normalmente quello in cui risiede) e valutare l’opportunità di chiedere ed estendere il brevetto ad altri paesi aderenti alla CUP, senza rischiare che nel frattempo l’invenzione venga divulgata e privata del requisito della novità 15. L’art. 47, co. 3-bis, c.p.i. prevede ora inoltre la possibilità di rivendicare in Italia una priorità derivante da un precedente deposito italiano (c.d. priorità interna). Questa possibilità è in particolare utile in quanto consente di depositare una seconda domanda che descriva e rivendichi l’invenzione in modo più preciso di quanto avvenuto in sede di primo deposito (spesso anticipato nel timore che terzi nel frattempo giungano alla medesima invenzione brevettandola per primi), evitando ad un tempo il rischio che nel destanti, in senso analogo a quanto sostenuto supra, 2, definendo l’invenzione, OPPO, Per una definizione della “industrialità” dell’invenzione, RDCiv, 1973, I, 7. 12 Cfr. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 104 ss. 13 Floridia/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO. 14 SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 107 s. VANZETTI-DI CATALDO; Trib. Milano, 31-1-2013, GADI, 2014, 226. 15 Cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 153.

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corso del periodo di tempo fra la prima e la seconda domanda l’invenzione venga brevettata da terzi 16. Lo stato della tecnica ricomprende anche le domande di brevetto depositate anteriormente. Le domande di brevetto sono in linea di principio destinate ad essere rese accessibili al pubblico dopo un periodo di 18 mesi (abbreviabile a 90 giorni, art. 53, co. 3, c.p.i.) dal deposito: e per tale ragione costituiscono a tutti gli effetti divulgazioni, a partire dal giorno in cui divengono accessibili, quand’anche depositate all’estero. L’art. 46, co. 3, c.p.i. precisa tuttavia che rientrano nello stato della tecnica anche le domande di brevetto segrete (e dunque anteriormente alla decorrenza del termine di 18 mesi o 90 giorni) che chiedano protezione per l’Italia (non dunque le domande segrete estere, mentre il corrispondente art. 54 CBE ricomprende nello stato della tecnica le domande segrete di brevetto europeo). La norma consente così di risolvere a favore del primo depositante il conflitto di domande relative alla medesima invenzione raggiunta indipendentemente da inventori diversi (c.d. incontro fortuito) 17. Il primo inventore che ritardi il momento della brevettazione rischia che un altro inventore indipendente lo preceda nel deposito. In tal caso la brevettazione successiva da parte del primo inventore è priva del requisito della novità, a nulla rilevando la segretezza della prima domanda o il momento storico della realizzazione dell’invenzione (c.d. principio del first to file, contrapposto al principio del first to invent) 18.

Lo stato della tecnica è distruttivo della novità se e nei limiti in cui ricomprenda le possibili utilizzazioni industriali del prodotto. Una sostanza nota, di cui siano ignote una o più modalità di utilizzazione, è brevettabile in funzione di queste nuove utilizzazioni individuate dall’inventore (art. 46, co. 4, c.p.i, c.d. invenzione di nuovo uso). Il fenomeno è frequente nella chimica e nella biotecnologia 19, dove spesso sono note composizioni di molecole o sequenze di DNA, ma non le loro possibili utilizzazioni (soprattutto terapeutiche). In questi casi la brevettabilità riflette le precedenti considerazioni, secondo cui l’invenzione presuppone la capacità di soddisfare bisogni umani, e deve essere premiata per questa sua capacità, quand’anche attraverso sostanze note o esistenti in natura (come le sequenze di DNA), rimanendo diversamente una mera scoperta non brevettabile 20.

16 Cfr. CARTELLA, Il brevetto perfettibile: modifica della domanda e del brevetto, priorità interna, altri rimedi, RDInd, 2010, 104 ss.; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 115 s.; nonché, in senso critico, MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 153, il quale lamenta la possibile anticipazione della brevettazione ad un momento anteriore alla compiuta elaborazione dell’idea inventiva. 17 UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, Milano, 1985, 50 ss.; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 110 ss. 18 Cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 147 s.; VANZETTI-DI CATALDO. 19 Con riferimento alla valutazione della novità delle proteine cfr. ad esempio DI CATALDO, Biotecnologie e diritto, cit., 501 ss. Un ulteriore profilo di novità nel settore della biotecnologia può essere rappresentato dall’isolamento del materiale biologico dall’ambiente naturale in modo da renderlo industrialmente riproducibile; cfr. GUGLIELMETTI, sub art. 3, NLCC, 2008, 372 ss. 20 In questi casi si discute se l’invenzione di nuovo uso possa essere attuata solo con il consenso del titolare del brevetto anteriore (non scaduto) che abbia rivendicato il prodotto in funzione di usi diversi; o se invece costituisca a tutti gli effetti un’invenzione autonoma indipendente dal brevetto anteriore; v. infra, 5.

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c) La valida brevettazione presuppone inoltre che l’invenzione presenti rispetto allo stato della tecnica non mere insignificanti differenze di dettagli, ma una diversità qualificata dal c.d. “salto inventivo”. Questo presupposto è alla base del requisito dell’“attività inventiva” (o anche originalità dell’invenzione), che secondo l’art. 48 c.p.i. (e v. il corrispondente art. 56 CBE) ricorre quando l’invenzione “per una persona esperta del ramo […] non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica”. Il requisito trova la sua ratio nell’interesse a non riconoscere protezione a trovati alla portata di chiunque, frutto di attività di routine che verrebbero comunque svolte anche in assenza di un sistema brevettuale 21. Il giudizio di non evidenza è tuttavia particolarmente delicato, anche perché non sempre è facile ricostruire una figura astratta di persona esperta del ramo 22. L’art. 48 c.p.i. precisa che lo stato della tecnica rilevante per l’attività inventiva non ricomprende le anteriori domande di brevetto segrete, prese invece in considerazione nel giudizio di novità. Il legislatore procede evidentemente dall’idea di premiare l’inventore che, non potendo essere a conoscenza di anteriori domande segrete, ha comunque realizzato un’invenzione frutto di uno sforzo di ricerca 23. Poiché in tale caso l’invenzione, in quanto nuova, è comunque diversa da quella oggetto di anteriori domande di brevetto segrete, non si pone d’altro canto qui un problema di conflitto di attribuzione del brevetto sul medesimo risultato ad uno od altro inventore. La prassi dell’Ufficio Europeo dei Brevetti sta andando nel senso di valutare l’attività inventiva valorizzando il criterio del c.d. problem and solution approach 24: e cioè attraverso la ricostruzione dell’anteriorità più vicina, del problema risolto, e dell’atteggiamento del tecnico medio posto di fronte al problema da risolvere. È allora stato fra l’altro sostenuto che non ricorre attività inventiva quando l’invenzione presenta aspetti di novità derivanti dalla soluzione di un problema precedentemente non affrontato dal tecnico medio, e che tuttavia, quando affrontato, risulta facilmente risolvibile 25. La prassi dell’UEB tende peraltro a valorizzare il problem and solution approach in modo da abbassare il livello richiesto per l’accertamento dell’originalità dell’invenzione: in particolare negando la brevettabilità dei trovati che il tecnico medio avrebbe necessariamente ricavato dall’analisi dello stato della tecnica; e riconoscendo l’originalità delle invenzioni che il tecnico medio avrebbe po-

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Cfr. DI CATALDO, L’originalità dell’invenzione, 9; Trib. Milano, 8-11-2012, GADI, 2013, 750. Ad esempio quando l’invenzione derivi da competenze intersettoriali; cfr. DI CATALDO, L’originalità dell’invenzione, 63 ss.; ID., I brevetti per invenzione e per modello, 105 ss.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 159 s. Per alcune ricostruzioni giurisprudenziali della persona esperta del ramo cfr. Trib. Milano, 15-5-2012, GADI, 2012, 881; Trib. Torino, 6-4-2011, GADI, 2011, 928; App. Milano, 11-2-2010, GADI, 2010, 428. È stato poi sostenuto che non tutte le conoscenze appartenenti allo stato della tecnica rilevanti nel giudizio di novità possono essere prese in considerazione nel giudizio di originalità; cfr. FRANZOSI, Novità e non ovvietà. Lo stato della tecnica, RDInd, 2008, I, 75 ss. 23 FLORIDIA/Dir. ind. 24 Cfr. GUGLIELMETTI, Tutela “assoluta e relativa” del brevetto sul nuovo composto chimico, originalità dell’invenzione e dinamiche della ricerca, in Studi in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, 771 ss.; GALLI, Per un approccio realistico al diritto dei brevetti, DInd, 2010, 135 ss.; SANSEVERINO, Il passo inventivo, Milano, 2012, 106 ss.; FLORIDIA/Dir. ind.; il criterio sembra accolto anche dalla recente giurisprudenza italiana, cfr. Trib. Milano, 17-12-2014, GADI, 2014, 1192; Trib. Torino, 2-3-2011, GADI, 2011, 834. 25 FLORIDIA/Dir. ind. 22

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tuto desumere, ma non avrebbe necessariamente desunto, dall’analisi delle anteriorità (c.d. could-would approach) 26. Non può essere esclusa l’originalità di un’invenzione derivante da una serie di ricerche routinarie, quando queste richiedano comunque ingenti investimenti in apparecchiature sofisticate e in personale, normalmente non disponibili per i tecnici 27. In questi casi in effetti appare meritevole di protezione la scelta di concentrare gli investimenti in ricerca in un certo settore, per il quale la possibilità di realizzare nuove soluzioni appariva ex ante incerta. L’originalità viene anche valutata attraverso i cc.dd. indizi di non evidenza 28, desumibili ad esempio dal notevole progresso realizzato dall’invenzione; dalla capacità di scegliere un giusto percorso di soluzione fra molteplici alternative che ex ante il tecnico medio aveva di fronte; dall’esistenza di un problema comunemente avvertito nel settore, ma rimasto irrisolto da lungo tempo; dalla tendenza delle imprese del settore ad abbandonare le precedenti tecnologie per orientarsi ad adottare la nuova soluzione (in particolare chiedendo la concessione di licenze di brevetto).

d) L’ulteriore requisito di liceità dell’invenzione riveste minore importanza ed è a lungo stato considerato sostanzialmente teorico. Il classico esempio, peraltro tipicamente di scuola, è la bomba carta (ma sono invece pacificamente brevettabili le armi e le tecnologie militari, mentre l’esclusione della bomba carta è giustificata dal fatto che essa non può avere altro impiego al di fuori di sommosse). Alcune interpretazioni hanno cercato di valorizzare il requisito per limitare la possibilità di brevettare invenzioni biotecnologiche 29, ma in realtà è difficile immaginare che esso assuma portata autonoma rispetto alle ipotesi di esclusione di brevettabilità puntualmente previste dall’art. 81-quinquies c.p.i. 30: relativamente al divieto di brevettazione del corpo umano, di procedimenti di clonazione, di sfruttamento di embrioni 31, di tecniche di selezione genetica o comunque contrarie alla dignità dell’uomo o all’interesse alla preservazione dell’ambiente 32.

26 Cfr. GALLI, Per un approccio realistico al diritto dei brevetti, cit., 136; SANSEVERINO, Il passo inventivo, cit., 21 s.; 107 s.; FRANZOSI, Novità e non ovvietà. Lo stato della tecnica, cit., 76 ss.; Trib. Milano, 1712-2014, cit.; Trib. Milano, 17 maggio 2012, GADI, 2012, 881. 27 DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 108; VANZETTI-DI CATALDO; GUGLIELMETTI, sub art. 3, cit., 377 ss. 28 Cfr. DI CATALDO, L’originalità dell’invenzione, 85 ss.; ID., I brevetti per invenzione e per modello, 109 ss.; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 124 ss.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 161 ss.; FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO. 29 MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 175 ss. 30 FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO. 31 Sull’estensione del divieto di brevettabilità di embrioni cfr. CG 18-10-2011, C-34/10, Brüstle, GADI, 2011, 1663, e le osservazioni svolte su questa sentenza da ROMANDINI, La sentenza Brüstle sulla tutelabilità delle cellule staminali embrionali: implicazioni pratiche e giuridiche, RDInd, 2012, II, 336 ss. 32 In argomento cfr. GUGLIELMETTI, sub art. 4, cit., 400 ss.; DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Studi in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, 7 ss.

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4. Diritto alla brevettazione e procedimento Il diritto sulle invenzioni sorge solo per effetto del perfezionamento della fattispecie costitutiva della brevettazione 33. A differenza di quanto visto in materia di marchi, ove sulla base del semplice uso può sorgere un diritto sul marchio non registrato azionabile nei confronti dei terzi, l’utilizzatore di un’invenzione non brevettata non vanta dunque alcuna esclusiva. Egli fisiologicamente anzi attraverso l’uso divulga la sua invenzione, distruggendone la novità e precludendosi così la possibilità di brevettazione successiva. Per la verità, è possibile anche che l’uso avvenga in regime di segreto (il che è difficilmente immaginabile per le invenzioni di prodotto, ma concepibile per le invenzioni di procedimento); in tal caso, comunque l’utilizzatore non può invocare alcun diritto di brevetto (dovrebbe prima chiedere e ottenere la brevettazione), ma può entro certi limiti avvalersi della tutela derivante dagli artt. 98-99 c.p.i. e dalla disciplina della concorrenza sleale (v. supra, § 11.I.7). Egli non potrà tuttavia in alcun modo impedire l’utilizzazione dell’invenzione da parte di terzi che ne siano venuti a conoscenza senza violare il segreto. Chi abbia utilizzato l’invenzione nei dodici mesi anteriori alla brevettazione da parte di un terzo può comunque “continuare ad usarne nei limiti del preuso”, senza rendersi responsabile di atti di contraffazione (art. 68, co. 3, c.p.i.).

Il procedimento di brevettazione inizia su domanda dell’inventore o dei suoi aventi causa (art. 63, co. 2, c.p.i.). Si distingue così un diritto “di” brevetto, che sorge a conclusione del procedimento di brevettazione, da un diritto “al brevetto” che sorge originariamente in capo all’inventore (sebbene sia comunque trasmissibile a terzi). La domanda presentata da chi non vanti un diritto “al brevetto” (c.d. brevettazione del non avente diritto) determina allora l’applicabilità dell’art. 118 c.p.i.: che consente all’inventore o ai suoi aventi causa di ottenere dal giudice il trasferimento a proprio nome del brevetto (o la relativa domanda) o di farne dichiarare la nullità 34. L’ipotesi di brevettazione del non avente diritto può ricorrere in caso di fraudolenta sottrazione (si pensi ad atti di spionaggio industriale) dei risultati delle ricerche al reale inventore. Lo stesso inventore può tuttavia in realtà essere considerato non avente diritto quando abbia ceduto a terzi aventi causa i risultati delle sue ricerche, e con ciò il suo diritto “al” brevetto 35. Esistono anzi ipotesi in cui il trasferimento del diritto “al” brevetto avviene automaticamente fin dal momento della realizzazione dell’invenzione: in particolare quando essa è conseguita in esecuzione di una attività lavorativa 36. In queste situazioni il diritto al brevetto è direttamente attribuito al datore di lavoro (e il lavoratore che brevetti in proprio è da

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V. ampiamente FLORIDIA/Dir.ind.; SENA, I brevetti per invenzione e per modello, 205 ss. Per un dettagliato esame dei presupposti, natura e conseguenze dell’azione dell’avente diritto cfr. UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, cit., 73 ss. 35 Cfr. UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, cit., 75 ss. 36 Sul carattere diretto ed immediato (senza necessità di ulteriori negozi traslativi) dell’acquisto del diritto al brevetto da parte del datore di lavoro cfr. VERCELLONE, Le invenzioni dei dipendenti, Milano, 1961, 75 ss.; OPPO, Creazione intellettuale, creazione industriale e diritti di utilizzazione economica, RDCiv, 1969, I, 10; UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, Milano, 1985, 28. 34

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considerare non avente diritto) 37 “quando l’invenzione industriale è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro” (art. 64 c.p.i.). L’ipotesi è anzi fisiologica, in quanto l’attività di ricerca è sempre più raramente svolta da singoli inventori, ma avviene da parte di équipe di dipendenti all’interno di complessi e costosi laboratori predisposti dall’imprenditore. L’attribuzione del diritto al datore di lavoro riflette evidentemente l’interesse alla remunerazione degli investimenti in attività di ricerca. L’art. 64 c.p.i. prevede comunque che il lavoratore ha diritto ad un “equo premio” quando per la sua invenzione “non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell’attività inventiva, e l’invenzione è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego” (art. 64, co. 2, c.p.i.). In realtà quando l’invenzione è fatta in esecuzione del contratto di lavoro, l’attività inventiva dovrebbe comunque essere retribuita in quanto oggetto della prestazione dovuta. È allora dibattuto se la retribuzione che esclude il diritto al premio possa essere costituita dal salario dovuto in base ai livelli genericamente previsti nei contratti collettivi; o se occorra invece prevedere voci specifiche di salario adeguate all’importanza della attività di ricerca svolta dal lavoratore 38. La presenza di adeguati livelli di retribuzione può comunque essere valorizzata quanto meno come indizio dell’effettiva esistenza di un obbligo di prestazione di mansioni di ricerca inventiva 39. L’importo del premio, quando dovuto, è stabilito tenendo conto dell’importanza dell’invenzione, delle mansioni e della retribuzione percepita dal lavoratore (quanto più basse sono mansioni e retribuzione, tanto maggiore è da ritenere che il lavoratore sia andato oltre quanto contrattualmente dovuto, con corrispondente pretesa ad un premio maggiore), del contributo degli investimenti del datore di lavoro 40. L’art. 64, co. 4, c.p.i. precisa ulteriormente che le controversie relative all’accertamento della sussistenza del diritto all’equo premio (e perciò del presupposto del co. 2) spettano alle sezioni specializzate in materia di impresa, e non al giudice del lavoro 41. La norma demanda poi ad un “collegio di arbitratori” il compito di quantificare l’importo del premio. Infine, le invenzioni realizzate da dipendenti al di fuori dell’esecuzione delle loro mansioni non sono invece trasferite automaticamente al datore di lavoro, che tuttavia vanta il diritto di acquistarle (eventualmente in licenza) dal lavoratore entro tre mesi, per un corrispettivo che deve riflettere il valore dell’invenzione (art. 64, co. 3, c.p.i.). Per le ipotesi di invenzioni realizzate da dipendenti ricercatori universitari o di altri enti pubblici di ricerca, l’art. 65, co. 1, c.p.i., riconosce all’inventore ricercatore la titolarità 37

VANZETTI-DI CATALDO. Il dibattito costituisce un tema “classico” del diritto industriale: cfr., VERCELLONE, Le invenzioni dei dipendenti, cit., 33 ss.; UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, cit., 10 ss.; GALLI, Problemi in tema di invenzioni dei dipendenti, RDInd, 1997, 19 ss.; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 178 ss.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 283 ss.; FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO. 39 Cfr. GALLI, Problemi in tema di invenzioni dei dipendenti, cit., 23; la più recente giurisprudenza della Cassazione, sia pure con alcune ambiguità, sembra volere valorizzare la presenza di una specifica retribuzione come elemento decisivo per escludere il diritto al premio: cfr. Cass. 24-1-2006, n. 1285, GADI, 2006, 92; Cass. 19-7-2003, n. 11305, GADI, 2003, 113; Cass. 6-11-2000, n. 14439, GADI, 2001, 21. 40 Una certa fortuna sta avendo anche nel nostro ordinamento l’applicazione di criteri tratti dall’ordinamento tedesco; sulla c.d. “formula tedesca”: cfr. MANSANI, La determinazione dell’equo premio spettante al dipendente inventore secondo la “formula tedesca”, ContrImp, 1993, 720 ss.; GALLI, Problemi in tema di invenzioni dei dipendenti, cit., 33 s.; VANZETTI-DI CATALDO; DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 193 s. 41 SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 196; Cass. 28-8-2006, n. 18595, GADI, 2008, 25. 38

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del diritto di brevetto, procedendo probabilmente dall’idea che la brevettazione non rientri negli scopi istituzionali dell’ente di ricerca; e che ad un tempo la realizzazione di invenzioni brevettabili sia un quid pluris rispetto all’attività di ricerca istituzionale del ricercatore, estranea dunque ai risultati dovuti al datore di lavoro 42. I successivi commi prevedono comunque un meccanismo di compartecipazione dell’Università (nel limite massimo del 50%) ai proventi realizzati attraverso la concessione delle licenze a terzi: compartecipazione che normalmente le Università definiscono nei loro regolamenti. L’art. 65 c.p.i. esclude inoltre l’applicabilità di questa disciplina per le ipotesi di ricerche finanziate in tutto o in parte da privati (si pensi all’impresa che sovvenzioni una ricerca universitaria). In tali casi privati ed enti di ricerca potranno liberamente stabilire contrattualmente a chi spetti il diritto al brevetto. In assenza di pattuizioni contrattuali, è probabilmente da ritenere che esso spetti al finanziatore committente della ricerca, in applicazione dei princìpi generali dei contratti d’opera e appalto, almeno quando la ricerca intenda conseguire trovati brevettabili (v. infra) 43. Il diritto al brevetto può ragionevolmente considerarsi trasferito anche per effetto della stipulazione di contratti di lavoro autonomo, purché in tale caso la prestazione dovuta effettivamente ricomprenda la realizzazione di un’invenzione brevettabile 44. Ove il prestatore d’opera sia incaricato semplicemente di studiare possibili miglioramenti alle tecnologie del committente (si pensi al tecnico incaricato di progettare un macchinario con particolari prestazioni), ed in mancanza di espresse previsioni contrattuali, è da ritenere che il committente acquisti il diritto di utilizzare il risultato inventivo realizzato dal prestatore d’opera (nell’esempio, di introdurre nella produzione il macchinario così progettato), ma non anche il diritto al brevetto.

I brevetti per invenzione sono assoggettati al principio di territorialità ed hanno perciò effetto solo nello stato dell’ufficio che li ha concessi. Già si è vista la competenza dell’UIBM al rilascio dei brevetti italiani. L’estensione della protezione a paesi diversi dall’Italia richiederebbe in linea di principio l’avvio di paralleli procedimenti di brevettazione all’interno di ciascun paese in cui il richiedente ha interesse ad ottenere tutela. Diverse convenzioni internazionali agevolano tuttavia questa estensione. In particolare il brevetto europeo rilasciato dall’Ufficio Europeo Brevetti (UEB), con sede a Monaco di Baviera, produce effetti in tutti i paesi aderenti alla Convenzione sul Brevetto europeo (CBE). Diversamente da quanto emerso con riferimento alla registrazione del marchio europeo (e similmente invece a quanto avviene per il c.d. marchio internazionale), il brevetto europeo non ha tuttavia

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FLORIDIA, Le invenzioni universitarie, DInd, 2007, 317; FLORIDIA/Dir. ind.; MUSSO, Recenti sviluppi normativi sulle invenzioni “universitarie” (con alcune osservazioni sul regime delle altre creazioni immateriali), in Studi in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, 1082 ss.; ID., Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 309. La norma ha peraltro suscitato critiche da parte di numerosi autori: cfr. SENA, Una norma da riscrivere, RDInd, 2001, I, 243 ss.; UBERTAZZI, Le invenzioni dei ricercatori universitari, in Studi in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, 1727 ss.; VANZETTI-DI CATALDO. 43 Cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 320. 44 Cfr. VERCELLONE, Le invenzioni dei dipendenti, cit., 118 ss.; UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, cit., 37 s.; VANZETTI-DI CATALDO; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 200 s.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 336; Trib. Bologna, 9-6-2014, GADI, 2014, 1057.

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carattere unitario, ma si fraziona in tanti brevetti nazionali (c.d. fascio di brevetti) 45, ognuno sottoposto alla giurisdizione dei relativi territori (art. 64 CBE). Ciascuna frazione nazionale del brevetto europeo può in particolare essere autonomamente ceduta dal titolare, e soprattutto è assoggettata ad autonome azioni di nullità: così che può essere dichiarata nulla con effetti su un territorio, conservando invece validità in territori diversi. Già si è visto che l’Italia aderisce inoltre al Trattato di Cooperazione in materia di Brevetti, frequentemente etichettato attraverso l’acronimo della corrispondente espressione anglosassone PCT – Patent Cooperation Treaty. Il PCT consente in particolare il deposito di domande internazionali trasmesse all’Ufficio Internazionale della Proprietà Intellettuale di Ginevra (presso cui sono pure trasmesse le domande di marchio internazionale). L’Ufficio trasmette successivamente la domanda ad uno degli Uffici aderenti al sistema, che viene così incaricato di redigere un rapporto di ricerca, e cioè una ricostruzione delle anteriorità appartenenti allo stato della tecnica rilevanti nel giudizio di novità e originalità. La domanda è successivamente trasmessa dall’Ufficio internazionale agli Uffici degli stati designati dal richiedente, in cui il richiedente medesimo intende ottenere protezione. Spetta poi ai singoli Uffici decidere (sulla base del rapporto di ricerca) se concedere o meno il brevetto. Il sistema così predisposto consente dunque di ottenere protezione in diversi stati attraverso il deposito di un’unica domanda internazionale, mantenendo tuttavia in capo agli Uffici dei singoli stati il potere di concedere o rifiutare il brevetto, e perciò a maggior ragione mantenendo l’autonomia dei titoli di protezione (e delle relative azioni di nullità, esercitabili soltanto stato per stato). L’Unione europea va da tempo cercando di realizzare una ulteriore, maggiore unificazione dei titoli brevettuali (analoga a quella in vigore per i marchi UE), ed in particolare di predisporre un unico procedimento e titolo di brevettazione valido nei paesi membri, assoggettato ad azioni di nullità accentrate presso giudici competenti a pronunciare con effetto in tutti gli stati aderenti. L’istituzione di un Brevetto Europeo con Effetto Unitario (BEEU) è stata in effetti predisposta sulla base di un complesso “pacchetto legislativo”, secondo il regime di c.d. cooperazione rafforzata (sulla base della decisione del Consiglio UE 167/2011), che consente ad alcuni paesi membri di non aderirvi (ma allo stato solo la Spagna ha optato per non entrare nel sistema). Il pacchetto legislativo si compone dei regg. 1257/2012, 1260/2012, 542/2014 e dall’Accordo del Consiglio su un tribunale unificato dei brevetti 2013/C175/01. Il sistema non è tuttavia entrato in vigore, per mancanza delle necessarie ratifiche dell’Accordo sul tribunale unificato. Il futuro di questo sistema appare anzi estremamente incerto. Il pacchetto legislativo dovrebbe infatti probabilmente essere ripensato alla luce della prospettata uscita dalla UE del Regno Unito 46.

La domanda di brevetto deve indicare le generalità del richiedente, una descrizione (eventualmente integrata con disegni) dell’invenzione idonea a consentirne l’attuazione da parte di un esperto del ramo (diversamente non essendo evidentemente dimostrato il raggiungimento della soluzione tecnologica, cfr. art. 51 c.p.i. e corrispondente art. 83 CBE) 47 e concludersi con una o più rivendicazioni indicanti “spe-

45

DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 15. Cfr. UBERTAZZI, Brexit e brevetto UE, AIDA, 2016, 596 ss. 47 Per una applicazione giurisprudenziale cfr. Cass. 4-11-2009, n. 23414, GADI, 2010, 31; sulla que46

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cificamente, ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto” (art. 52 c.p.i., ed in analogo senso va letto il corrispondente art. 84 CBE). Le rivendicazioni sintetizzano dunque l’oggetto dell’invenzione, puntualizzandone gli aspetti di differenziazione rispetto allo stato della tecnica, e circoscrivono l’ambito di protezione 48. Ciò non significa che il contenuto del brevetto deve ritenersi limitato ad un’interpretazione rigorosamente letterale delle rivendicazioni 49. Al riguardo anzi l’art. 69 CBE precisa che “la descrizione e i disegni servono a interpretare le rivendicazioni”. Il brevetto perciò ben può estendersi a soluzioni realizzate attraverso la sostituzione di alcuni elementi letteralmente diversi da quelli rivendicati, purché ad un esperto del ramo sia chiaro che essi svolgono la medesima funzione nell’ambito della medesima idea inventiva generale 50. In tal senso depone anche la c.d. teoria degli equivalenti, spesso richiamata in sede di giudizio di contraffazione (v. infra, 5), e che trova ora base normativa nel co. 3-bis dell’art. 52 c.p.i., secondo cui occorre tenere “nel dovuto conto ogni elemento equivalente ad un elemento indicato nelle rivendicazioni”. È inoltre possibile che durante il procedimento di brevettazione il depositante riformuli le proprie rivendicazioni per superare rilievi dell’Ufficio (cfr. artt. 172-173 c.p.i.), quando quest’ultimo ritenga eccessivamente ampie (e anticipate da anteriorità) le rivendicazioni originariamente formulate. La modifica delle rivendicazioni non sembra però consentita quando intende ampliare il contenuto della domanda iniziale. In tal senso depone la norma che considera come causa di nullità del brevetto l’ipotesi in cui “l’oggetto del brevetto si estende oltre il contenuto della domanda iniziale o la protezione del brevetto è stata estesa” (art. 76, co. 1, lett. c). Il depositante può invece ragionevolmente quanto meno precisare il contenuto delle rivendicazioni, per evitare il rischio che rivendicazioni troppo ampie ricomprendano insegnamenti già ricompresi nello stato della tecnica e conducano al rilascio di un brevetto nullo. Questa modifica deve comunque ritenersi consentita nei limiti degli insegnamenti contenuti nella parte di descrizione della domanda originariamente depositata 51.

stione della necessità di descrivere anche il problema tecnico risolto cfr. Trib. Milano, 1-6-2000, GADI, 2010, 609. 48 Il tema dei rapporti fra descrizione e rivendicazioni è trattato dettagliatamente in SENA, L’interpretazione del brevetto, Milano, 1955, 117 ss.; sulla portata delle rivendicazioni cfr. inoltre CARTELLA, Il brevetto perfettibile: modifica della domanda e del brevetto, priorità interna, altri rimedi, RDInd, 2010, 74 ss.; FRANZOSI, L’interpretazione delle rivendicazioni, RDInd, 2005, I, 75 ss.; DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 46 ss.; VANZETTI-DI CATALDO. In giurisprudenza cfr. Trib. Bologna, 26-4-2012, GADI, 2011, 829; Trib. Bologna, 29-6-2011, GADI, 2012, 353. 49 Cfr. CARTELLA, Il brevetto perfettibile, cit., 80 ss.; Cass. 8-2-1999, n. 1072, GADI, 1999, 46; App. Milano, 25-6-2002, GADI, 2003, 326. 50 Sul parallelismo fra equivalenza ed evidenza per un esperto del ramo cfr. DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 50; ROMANDINI, La distinzione fra brevetti e modelli di utilità: una diversa interpretazione della disciplina positiva, RDInd, 2011, I, 216 ss.; CARTELLA, Il brevetto perfettibile, cit., 84; SANSEVERINO, Il passo inventivo, cit., 59; Trib. Roma, 29-10-2010, GADI, 2012, 102; Cass. 13-1-2004, n. 257, GADI, 2004, 69. 51 Discussa è invece la possibilità che il contenuto delle rivendicazioni iniziali possa non soltanto venire precisato in senso restrittivo, ma anche ampliato, sempre nei limiti degli insegnamenti originariamente descritti; in senso favorevole cfr. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 269 ss.; CARTELLA, Il brevetto perfettibile, cit., 92 ss.;

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La domanda di brevetto dovrebbe “avere per oggetto una sola invenzione” (art. 161 c.p.i., c.d. principio di unità dell’invenzione, formulato in modo meno rigido dall’art. 82 CBE, per il quale è possibile brevettare con unica domanda più invenzioni che costituiscono un solo concetto inventivo generale). Il mancato rispetto di questo principio consente all’Ufficio di invitare il richiedente a limitare la domanda e a presentare per le altre invenzioni nuove domande, peraltro decorrenti dalla data della prima (cc.dd. domande divisionali). È preferibile ritenere che, in assenza di rilievi dell’Ufficio e perciò in caso di concessione di un brevetto esteso a più invenzioni, il mancato rispetto del principio di unicità non determini nullità del relativo diritto 52.

La concessione del brevetto europeo è preceduta da un approfondito esame della presenza dei requisiti di validità dell’invenzione da parte dell’UEB (c.d. esame preventivo). A livello nazionale, una convenzione fra Ministero dello Sviluppo Economico e Organizzazione Europea dei Brevetti prevede che le domande nazionali vengano inviate all’UEB, perché quest’ultimo compia una ricerca di anteriorità e rediga un apposito rapporto 53. L’UIBM dovrebbe quindi respingere la domanda quando dal rapporto dell’UEB emerga la carenza dei requisiti di brevettazione, e in particolare di novità e originalità (cfr. art. 170, co. 1, lett. b, c.p.i.). Contro la concessione del brevetto europeo può essere fatta opposizione da chiunque vi abbia interesse davanti ad apposite divisioni di opposizione dell’UEB (artt. 99 ss. CBE). Le decisioni dell’UEB che rifiutano di concedere il brevetto, così come quelle delle divisioni di opposizione, sono impugnabili dalle parti del procedimento avanti ad apposite commissioni di ricorso dell’Ufficio (artt. 106 ss. CBE). Le decisioni nazionali di rifiuto di concessione del brevetto sono impugnabili avanti ad un organo di giurisdizione speciale denominato Commissione dei ricorsi (artt. 135 ss. c.p.i.). Non sono invece impugnabili le decisioni con cui l’UIBM concede il brevetto 54, restando aperta in tali ipotesi la possibilità di agire in via giudiziale per chiederne la nullità (v. infra, 7). In ogni caso e in via generale qualsiasi brevetto, sia esso nazionale, sia esso costituito dalla frazione nazionale di un brevetto europeo, è impugnabile davanti al giudice per carenza dei requisiti di brevettazione. L’azione di nullità è in particolare esercitabile davanti al giudice anche quando l’ufficio abbia proceduto ad un esame preventivo di questi requisiti, ed indipendentemente dall’esperimento e dall’esito di opposizioni e impugnazioni dei provvedimenti dell’UEB o dell’UIBM (e perciò ad esempio quand’anche l’UIBM abbia concesso il brevetto a seguito della vittoriosa impugnazione di un precedente provvedimento di rifiuto).

5. L’estensione della tutela Il titolare del brevetto vanta un diritto esclusivo di sfruttamento di durata ven52

VANZETTI, Procedimento, prodotto e unicità dell’invenzione, cit., 234 ss.; VANZETTI-DI CATALv. però in senso diverso DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 26; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 189 s.; sembra ammettere la contemporanea protezione in un unico brevetto del procedimento e del prodotto da esso risultante Cass. 11-1-2013, n. 622, GADI, 2013, 38. 53 FLORIDIA/Dir. ind.; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 275 s. 54 SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 279. DO;

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tennale. Egli solo, cioè, può utilizzare l’invenzione nell’attività economica, e dunque collocare sul mercato i prodotti oggetto dell’invenzione stessa, o fabbricare prodotti mediante il procedimento che sia oggetto della medesima. Il termine ventennale decorre dal giorno di deposito della domanda (art. 60 c.p.i. e art. 63 CBE). Il termine può essere eccezionalmente prolungato per i prodotti medicinali e fitosanitari, attraverso una complessa procedura di rilascio di un certificato complementare di protezione (art. 61 c.p.i. e regg. europei ivi citati). La proroga (che comunque non può superare i cinque anni dalla scadenza ventennale del brevetto) è stata prevista dal legislatore europeo per compensare il periodo di tempo (spesso lungo) necessario ad ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio di questi prodotti: periodo durante il quale il titolare non può sfruttare la sua invenzione. Il diritto è azionabile solo dal momento in cui la domanda è stata resa accessibile al pubblico (art. 53, co. 1, c.p.i.). L’accessibilità al pubblico avviene automaticamente al decorso di 18 mesi dal deposito, ma a richiesta del titolare può essere anticipata a 90 giorni (il periodo di 18 mesi o 90 giorni consente al depositante di ritirare la domanda ancora segreta, per sostituirla con una nuova domanda che rivendichi l’invenzione in modo più preciso, e che ad un tempo non subisca gli effetti di predivulgazione distruttivi della novità derivanti dalla pubblicazione della domanda anteriore) 55. Il titolare può inoltre anche anteriormente notificare a qualunque terzo il contenuto della domanda, per agire nei suoi confronti (art. 53, co. 4, c.p.i.).

Il diritto di brevetto può essere fatto valere non solo contro lo sfruttamento di prodotti o procedimenti in tutto identici a quelli rivendicati nella domanda, ma anche in presenza di modifiche apportate ad alcuni elementi dell’invenzione, quando per una persona esperta del ramo sia del tutto ovvio che le modifiche non alterano il contenuto sostanziale delle rivendicazioni (c.d. contraffazione per equivalenti, si pensi alla sostituzione di una vite con una saldatura) 56. Quando l’invenzione ha ad oggetto un procedimento, in linea di principio i terzi sono liberi di applicare metodi di fabbricazione diversi per realizzare prodotti anche identici a quelli che derivano dal procedimento brevettato 57. Il legislatore stabilisce tuttavia al riguardo la presunzione per cui ogni prodotto “identico a quello ottenuto mediante il procedimento brevettato si presume ottenuto, salvo prova contraria, mediante il procedimento” quando si tratta di un prodotto nuovo o se “risulta una sostanziale probabilità” che il prodotto sia stato fabbricato mediante il procedimento” (art. 67, co. 1, c.p.i.) 58.

55

Cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 46 s. Cfr. VANZETTI-DI CATALDO; ROSSI, Teoria degli “equivalenti” ed “element by element approach” in EPC 2000 e nel nuovo art. 52, comma 3-bis, c.p.i., RDInd, 2010, I, 231 ss.; Cass. 12-6-2012, n. 9548, GADI, 2013, 11; Cass. 30-12-2011, n. 30234, GADI, 2012, 37; Cass. 13-1-2004, cit.; Trib. Milano, 17-122014, GADI, 2014, 1192; Trib. Milano, 5-6-2012, GADI, 2012, 898; Trib. Milano, 10-2-2012, GADI, 2012, 657. 57 Su alcuni problemi dell’estensione del brevetto di procedimento cfr. Cass. 11-1-2013, n. 622, GADI, 2013, 38 58 Sui problemi relativi all’interpretazione di questo principio cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 190 ss. 56

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È addirittura possibile che l’insegnamento brevettuale venga perfezionato e che il perfezionamento costituisca a sua volta un’invenzione brevettabile (si pensi alla sostituzione di una saldatura di due componenti di un macchinario con la realizzazione di un unico componente, resa possibile dall’utilizzazione di un nuovo materiale con soluzione non ovvia per un esperto del ramo). L’invenzione di perfezionamento può essere in tali casi oggetto di un brevetto dipendente (arg. ex art. 71 c.p.i.), attuabile solo con il consenso del titolare del brevetto (se ed in quanto non scaduto) anteriore 59. Particolarmente dibattuto è il problema dell’estensione del brevetto di prodotto all’utilizzazione del medesimo prodotto (o suoi equivalenti) per usi non descritti e non rivendicati nella domanda. L’ipotesi è frequente nel settore della chimica e della biotecnologia, dove spesso composti o sequenze di DNA rivelano proprietà inaspettate al momento della prima brevettazione. Sembra ragionevole ritenere anzitutto che la brevettazione richieda comunque l’indicazione di almeno una possibile utilizzazione del composto o della sequenza di DNA, in mancanza non potendosi avere un’invenzione proteggibile 60. È inoltre pacifico che l’individuazione di nuovi usi di composti o sequenze, non descritti e non rivendicati nella prima domanda di brevetto, può costituire un’invenzione brevettabile, quando questi usi non risultino ovvi per una persona esperta del ramo. Dubbio è invece se in tali casi questa seconda invenzione rientri nella categoria delle invenzioni dipendenti, attuabili solo con il consenso del titolare del brevetto sul composto o sulla biotecnologia (quando ovviamente il relativo brevetto non sia ancora scaduto). Al riguardo sembra si stia accreditando la tesi secondo cui il brevetto su un composto o sequenza biologica si estende a nuovi usi solo quando il composto o la sequenza presentano una struttura particolarmente complessa, individuata attraverso ricerche che abbiano richiesto il superamento di difficoltà nella sua ricostruzione. Spesso tuttavia l’individuazione di strutture o sequenze biologiche costituisce operazione routinaria di laboratorio, mentre la ricerca si concentra sulle possibili utilità di applicazione. In questi casi è da ritenere che il brevetto sul composto o sulla sequenza non possa estendersi ad usi diversi da quelli descritti e rivendicati dal titolare 61.

Il diritto esclusivo si estende alla produzione, commercio (comprese importazioni ed esportazioni) e uso industriale in Italia del prodotto brevettato. Nei brevetti di procedimento, il diritto si estende non solo all’attuazione del metodo industriale, ma anche al commercio ed uso dei prodotti che ne derivano (art. 66 c.p.i.).

59

Cfr. FLORIDIA, Contraffazione per equivalenti, contraffazione evolutiva e “contributory infringement”, DInd, 2000, 223 ss.; FRANZOSI, Il concetto di equivalenza, DInd, 2005, 253 ss.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 201 ss.; FLORIDIA/Dir. ind.; Cass. 4 luglio 2014, n. 15350, GADI, 2014, 28; Cass. 30-12-2011, n. 30234, GADI, 2012, 37. 60 Cfr. DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, 81 s.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 196 ss.; 61 Cfr. GUGLIELMETTI, Tutela “assoluta e relativa” del brevetto sul nuovo composto chimico, cit., 795 ss.; DI CATALDO, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, RDInd, 2004, I, 119 ss.; ID., I brevetti per invenzione e per modello, 126 ss.; FAELLI, sub artt. 8-9, NLCC, 2008, 445 ss.; VANZETTI-DI CATALDO; v. però, precedentemente, nel senso di limitare in via generale l’ambito del brevetto ai soli usi rivendicati ed a quelli equivalenti, sempre DI CATALDO, Sistema brevettuale e settori della tecnica. Riflessioni sul brevetto chimico, 343; propende per un ampliamento delle ipotesi di utilizzazione dell’invenzione di nuovo uso, indipendentemente dal consenso del titolare del primo brevetto sul composto o sulla sequenza, anche MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 214 ss.

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Il diritto sulla commercializzazione ed uso industriale del prodotto brevettato (o risultante dal procedimento) è comunque assoggettato al principio di esaurimento: secondo cui i prodotti distribuiti con il consenso del titolare nella UE possono liberamente circolare e venire utilizzati nel territorio europeo. L’estensione dell’esclusiva al commercio e all’uso consente dunque al titolare di agire contro rivenditori e utilizzatori di prodotti fabbricati in contraffazione, e comunque di impedire le importazioni nella UE di prodotti provenienti da paesi extraeuropei 62. Il diritto di brevetto non si estende però agli atti compiuti in ambito privato, oppure in via sperimentale, anche in funzione dell’autorizzazione all’immissione in commercio di farmaci (si pensi a un produttore di farmaci generici che in previsione della scadenza del brevetto di un’impresa terza si attiva per chiedere le autorizzazioni necessarie ed essere così in grado di commercializzare il prodotto immediatamente dopo questa scadenza); alla preparazione estemporanea di farmaci nelle farmacie (art. 68 c.p.i.). Quello sin qui descritto è il diritto patrimoniale di brevetto: esso riguarda, come si è visto, lo sfruttamento esclusivo dell’invenzione. Accanto ad esso, l’inventore vanta un diritto morale ad essere riconosciuto autore dell’invenzione (art. 62 c.p.i.), e fra l’altro a venire menzionato nella domanda di brevetto (art. 160, co. 3, lett. c, c.p.i. e art. 81 CBE). Il diritto morale non è alienabile (art. 63 c.p.i.), e spetta sempre e solo all’autore dell’invenzione (o a più inventori che l’abbiano realizzata in équipe), quand’anche i diritti patrimoniali siano stati alienati a terzi 63. L’ipotesi è fisiologica in caso di invenzioni dei dipendenti, per le quali il diritto “al” brevetto è direttamente trasferito ex lege al datore di lavoro (art. 64, co. 1, c.p.i.).

6. Cessioni e licenze di brevetto I diritti patrimoniali di brevetto (così come già quello al brevetto, come si è visto) sono liberamente trasferibili, ed è previsto un sistema di trascrizione con effetti dichiarativi corrispondenti a quelli illustrati in materia di marchi (art. 138 c.p.i.). Il titolare (licenziante) può inoltre concludere contratti di licenza (pure suscettibili di trascrizione con effetti dichiarativi e di opponibilità ai terzi in base all’art. 138 c.p.i.) e consentire a terzi (licenziatari) di sfruttare il brevetto secondo le modalità e nei limiti di tempo stabiliti dall’accordo, normalmente dietro un corrispettivo in tutto o in parte proporzionale al volume d’affari del licenziatario (cc.dd. royalties) 64. La

62 Per una ricostruzione del fondamento e dei limiti all’applicazione del principio dell’esaurimento cfr. in particolare SARTI, Diritti esclusivi e circolazione dei beni, Milano, 1996, 55 ss. Per impostazioni parzialmente diverse cfr. MARCHETTI, Sull’esaurimento del brevetto d’invenzione, Milano, 1974, 97 ss.; SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 314 ss. 63 Sull’estensione del diritto morale cfr. ampiamente UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, cit., 207 ss. 64 Per una esemplificazione delle diverse tipologie di licenze cfr. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 328 s.

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licenza può ad esempio fissare limiti territoriali di sfruttamento del licenziatario, o limiti di applicazione della tecnologia (ad es. la produzione di una sostanza chimica per uso fitosanitario ma non farmaceutico) 65. La licenza, poi, può essere pattuita con clausola di esclusiva, e quindi contenere l’obbligo del licenziante di non sfruttare in proprio l’invenzione e di non concedere ulteriori licenze a terzi. Gli effetti della licenza non possono comunque contraddire il principio dell’esaurimento: per cui un licenziatario ancorché esclusivo di un brevetto italiano non può impedire le importazioni in Italia dei prodotti brevettati che il titolare ha commercializzato nella UE direttamente o attraverso altri licenziatari paralleli (cc.dd. importazioni parallele). Il legislatore ha inoltre previsto alcune particolari ipotesi in cui il titolare può essere obbligato a concedere licenze (non esclusive) a terzi (c.d. licenza obbligatoria). La licenza obbligatoria può essergli imposta quando egli non abbia ottemperato all’onere di attuare l’invenzione in proporzione ai bisogni del paese (art. 69 c.p.i.) entro tre anni dalla concessione del brevetto, o abbia sospeso questa attuazione per un periodo triennale (art. 70 c.p.i.) 66. L’onere di attuazione può essere soddisfatto anche attraverso importazioni, da paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio, dei prodotti che risultano dalla relativa tecnologia (così, ad esempio, il titolare di brevetti paralleli tedesco e italiano, aventi ad oggetto la medesima invenzione, adempie all’onere impostogli dal brevetto italiano, e non incorre dunque nell’obbligo di concedere licenze, se importa sul mercato italiano, direttamente o attraverso licenziatari, prodotti fabbricati in Germania). L’interesse che ciascun paese può avere a radicare in loco la produzione di tecnologie e a non dipendere eccessivamente dalle importazioni è dunque sostanzialmente privo di tutela nell’attuale ordinamento: essendo ben pochi i paesi non aderenti all’OMC 67. Nel sistema OMC è considerata come “protezionistica” e inammissibile ogni forma di imposizione (ancorché indiretta) di obblighi di radicamento della produzione a livello locale 68.

La licenza obbligatoria può essere inoltre imposta a favore del titolare di un brevetto dipendente (v. supra, 5) che rappresenti un “progresso tecnico di considerevole rilevanza economica” (art. 71 c.p.i.). La licenza obbligatoria è concessa dietro pagamento di un “equo compenso” dal Ministero dello sviluppo economico, sulla base di un complesso procedimento avviato con domanda all’UIBM e disciplinato dagli artt.

65

Sulle diverse possibili tecniche di frazionamento dei diritti del licenziatario cfr. MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 251. 66 Sul fondamento e presupposti di applicazione di questa disciplina cfr. UBERTAZZI, Invenzione e innovazione, 65 ss. 67 Cfr. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 333 s. 68 Cfr. l’art. 27.1 TRIPs, che vieta discriminazioni al godimento di diritti di brevetto fondate sulle importazioni dei prodotti. L’Accordo TRIPs ha dunque sostanzialmente esteso a livello mondiale una scelta politica che già anteriormente era stata ritenuta essenziale nell’interesse alla libera circolazione delle merci nell’Unione europea; cfr. UBERTAZZI, Invenzione e innovazione, 161 ss.; CG 18-2-1992, C-235/89, Repubblica italiana, RDInd, 1992, II, 183.

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70 ss. e 199 c.p.i. 69. La disciplina ha tuttavia sin qui avuto pochissime applicazioni, ormai risalenti nel tempo 70. I tentativi del titolare di restringere l’accesso al mercato della tecnologia brevettata sono attualmente colpiti essenzialmente attraverso l’applicazione del diritto antitrust (v. supra, § 12.IX).

7. Nullità e decadenza del brevetto Già si è visto che la concessione del brevetto (europeo e???) non garantisce il valido acquisto di un diritto esclusivo, fra l’altro perché non certifica né la presenza dei requisiti di brevettabilità, né la titolarità del diritto al brevetto in capo al richiedente (cfr. art. 117 c.p.i.). Il brevetto può dunque essere sempre dichiarato nullo dall’autorità giudiziaria ordinaria. L’azione di nullità può essere esercitata da chiunque vi ha interesse (tipicamente, imprenditori concorrenti interessati alla libera utilizzazione dell’invenzione) ed anche d’ufficio dal P.M. 71. Spesso viene promossa in via riconvenzionale dal convenuto in contraffazione. La dichiarazione di nullità (così come quella di decadenza) ha efficacia erga omnes, e quindi avvantaggia tutti gli imprenditori concorrenti, che pure non abbiano partecipato al giudizio (art. 123 c.p.i.) 72. Le cause di nullità derivano tipicamente dall’assenza dei requisiti di brevettabilità, e naturalmente dal carattere non inventivo, ma di mera scoperta, dell’oggetto del brevetto (art. 76, co. 1, lett. a, c.p.i. e art. 138.1, lett. a, CBE). È fra l’altro possibile che il brevetto abbia ad oggetto un trovato nullo come invenzione, ma in realtà proteggibile come modello di utilità. In questi casi il titolare nel corso del giudizio di nullità può chiedere la conversione del brevetto nullo in “un diverso brevetto del quale contenga i requisiti di validità” (art. 76, co. 3, c.p.i.). È dunque in linea di principio concepibile anche l’ipotesi inversa di conversione di un brevetto per modello di utilità in brevetto per invenzione (ed a questa ipotesi fa riferimento l’art. 76, co. 4, c.p.i. per tutelare chi nell’imminente scadenza del brevetto per modello aveva predisposto investimenti necessari per la sua applicazione), ma l’eventualità è rara nella pratica 73. Se il giudice ritiene che il brevetto sia convertibile in una diversa tipologia di brevetto valido “la sentenza che accerta i requisiti per la validità del diverso brevetto dispone la conversione del brevetto nullo” 74.

69

Sui dettagli del procedimento cfr. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 338 ss. Cfr. i procedimenti di impugnazione di decreti di concessione di licenza obbligatoria decisi da TAR Lazio, 30-11-1981, GADI, 1984, 111 e da TAR Lazio, 7-1-1985, RDInd, 1986, II, 593. 71 Sulle problematiche relative all’individuazione degli interessati all’esercizio dell’azione di nullità cfr. SPADA, Problemi della nullità del brevetto d’invenzione, in Studi in onore di Remo Franceschelli, Milano, 1983, 366 ss. 72 Per un inquadramento sistematico del principio cfr. SPADA, Problemi della nullità del brevetto d’invenzione, cit., 390 ss. 73 FLORIDIA/Dir. ind.; VANZETTI-DI CATALDO. 74 Su questa disciplina cfr. UBERTAZZI, Modificazioni della domanda e conversione del brevetto nullo, NLCC, 1988, 569 ss.; CARTELLA, La conversione del brevetto nullo, Milano, 1993, 55 ss.; sugli aspetti processuali, ed in particolare sulla possibilità di chiedere la conversione in ogni stato e grado del giudizio, cfr. FLORIDIA/Dir. ind. 70

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L’invenzione può inoltre essere dichiarata nulla quando non è sufficientemente descritta (art. 76, co. 1, lett. b, c.p.i. e art. 138.1, lett. b, CBE) e quando il brevetto è stato concesso al non avente diritto, e cioè ad un soggetto diverso dall’inventore e dai suoi aventi causa (art. 76, co. 1, lett. d, c.p.i. e art. 138.1, lett. e, CBE). In questi casi l’azione di nullità nei primi due anni dalla pubblicazione della concessione del brevetto può essere esercitata solo dall’avente diritto alla brevettazione, che nel medesimo termine può alternativamente chiedere il trasferimento del brevetto a proprio nome (c.d. rivendica del brevetto) 75. Decorso il termine di due anni, il brevetto è da considerare definitivamente nullo, non rivendicabile dall’avente diritto, e perciò assoggettato alla regola generale di legittimazione assoluta all’esercizio della relativa azione (art. 118, co. 4, c.p.i.). Ultima (e problematica) causa di nullità è l’eventualità che l’oggetto del brevetto si estenda “oltre il contenuto della domanda iniziale” (art. 76, co. 1, lett. c, c.p.i. e art. 138.1, lett. c-d, CBE): eventualità immaginabile quando nel corso del procedimento di brevettazione il richiedente abbia ampliato (e l’Ufficio non abbia contestato) il contenuto delle rivendicazioni (v. supra, 4). Così ad esempio il titolare di una domanda di brevetto su un composto chimico inizialmente rivendicato in relazione ad una reazione termica realizzabile entro un certo intervallo di temperature, non può successivamente ampliare la rivendicazione per ricomprendervi un intervallo più elevato. L’art. 77 c.p.i. precisa che la dichiarazione di nullità ha effetto retroattivo (si tratta in realtà più propriamente di un accertamento dell’assenza ab initio dei requisiti di brevettazione) ma non pregiudica l’esecuzione di sentenze di contraffazione passate in giudicato (art. 77, lett. a, c.p.i.) e i contratti “conclusi anteriormente […] nella misura in cui siano stati eseguiti” (art. 77, lett. b, c.p.i.). La norma corrisponde a quella relativa agli effetti della nullità del marchio UE, ed anzi proprio la disciplina dei brevetti originariamente predisposta a livello europeo ha costituito il modello cui si è adeguato anche il RMUE (v. supra, § 16.X.7). La regola riflette perciò ancora una volta da un lato (lett. a) l’intangibilità del giudicato 76, dall’altro (lett. b, e v. anche la lett. c, che fa salvo il pagamento delle somme versate a titolo di equo premio al dipendente) l’idea per cui l’esecuzione di un contratto (tipicamente, di licenza) avente per oggetto un brevetto nullo determina in via di fatto la possibilità per l’utilizzatore di sfruttare l’invenzione sottraendosi alla concorrenza dei terzi. Il legislatore ritiene perciò equo che a questa sostanziale posizione di vantaggio costituita in capo all’avente causa del brevetto nullo corrispondano i relativi obblighi di pagamento del compenso (tipicamente, del canone di licenza) al relativo titolare 77. Ove questa posizione di vantaggio in pratica non sussista (ad es. perché si tratta di una tecnologia nota e di fatto utilizzata da tutti i concorrenti) sussiste la “valvola di sfogo” dell’ultima parte dell’art. 77 c.p.i., lett. b, secondo cui il giudice “tenuto conto delle circostanze, può accordare un equo rimborso di importi già versati in esecuzione del contratto”.

Sistematicamente meno importanti sono le ipotesi di decadenza, derivanti essen75

Sulla natura di questa azione, e sulla sua non riconducibilità ad una rivendica in senso tecnico, v. peraltro UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, cit., 128 ss. 76 Cfr. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, 300 s. 77 Non a caso una soluzione analoga era stata proposta anche prima dell’entrata in vigore della norma da MANGINI, La licenza di brevetto, Padova, 1970, 123 ss.

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zialmente dal mancato pagamento delle tasse brevettuali (art. 75 c.p.i.) e dalla mancata attuazione dell’invenzione. La decadenza per mancata attuazione presuppone peraltro che sia stata richiesta e concessa (almeno) una licenza obbligatoria, e che nemmeno la licenza obbligatoria sia stata seguita entro due anni dall’utilizzazione del trovato. Il legislatore si ispira con ciò al massimo favor per uno sfruttamento in regime brevettuale, tanto da escludere la decadenza diretta per mancata attuazione, evidentemente ritenendo che il brevetto meglio incentivi un’applicazione più efficiente dell’invenzione.

II. I modelli di utilità L’ordinamento italiano ammette la possibilità di brevettare anche innovazioni tecnologicamente meno importanti delle invenzioni: e cioè i cc.dd. “modelli di utilità”, definiti come “modelli atti a conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego a macchine, o parti di esse, strumenti, utensili od oggetti di uso in genere” (art. 82 c.p.i.). La distinzione fra invenzioni e modelli non è in realtà affatto agevole. Certamente la nozione di modello è circoscritta ai prodotti (escludendo perciò i procedimenti) e all’ambito della meccanica, escludendo la chimica o a maggior ragione la biotecnologia 78. Spesso il modello deriva da ricerche incentrate non tanto sul superamento di un problema tecnico comunemente avvertito, ma sull’ergonomia e sull’ottimizzazione delle interazioni uomo-macchina 79. I modelli di utilità coprono quindi tipicamente la valenza tecnica del design, e si contrappongono ai modelli e disegni industriali (v. infra), i quali tutelano invece la valenza della forma sul piano puramente estetico. Il classico esempio “di scuola” di modello di utilità (evidentemente ora scaduto) è dato dalla collocazione della gomma da cancellare all’estremità della matita; si può tuttavia pensare (in chiave più moderna) ad un sistema di snodi per l’orientamento di una lampada a braccio mobile; alla forma ergonomica e disposizione dei pulsanti di un mouse o di un controller per computer; alla disposizione dei tasti di un quadro di controllo di una macchina utensile.

78

VANZETTI-DI CATALDO. Il testo suggerisce quindi un criterio qualitativo di determinazione della differenza fra invenzioni e modelli. La differenziazione qualitativa è sostenuta da larga parte della giurisprudenza; cfr. ad esempio Cass. 2-4-2008, n. 8510, GADI, 2008, 145; Trib. Milano, 27-7-2011, GADI, 2012, 404; Trib. Milano, 124-2011, GADI, 2011, 994. Le motivazioni di questa giurisprudenza sono apparse tuttavia criticabili a numerosi autori, che hanno proposto di rinunciare al criterio di differenziazione qualitativo, per adottare un criterio essenzialmente quantitativo: e ritenere cioè che il modello sia un’invenzione meccanica dotata di un minor grado di originalità (c.d. piccola invenzione); cfr. VANZETTI, Note su modelli di utilità e invenzioni, RDInd, 2008, I, 189 ss.; SENA, Ancora sui modelli di utilità, RDInd, 2009, I, 205 ss.; MUSSO, Brevetti per invenzioni industriali e modelli di utilità, 421 ss.; VANZETTI-DI CATALDO; in giurisprudenza sembrano sostanzialmente accogliere la teoria quantitativa Trib. Milano, 1-4-2010, GADI, 2010, 527, e forse anche Cass. 13-11-2012, n. 19715, GADI, 2013, 26. Per una ricostruzione e critica delle diverse teorie cfr. ROMANDINI, La distinzione fra brevetti e modelli di utilità: una diversa interpretazione della disciplina positiva, RDInd, 2011, I, 204 ss., secondo cui il modello di utilità, per quanto concepibile solo nel settore delle forme funzionali dei prodotti, resta per il resto in tutto parificabile ad un’invenzione. 79

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La legge consente di presentare domanda di brevettazione del medesimo trovato contemporaneamente come invenzione e modello. In questi casi la domanda come modello è destinata a valere nel caso sia respinta la domanda per invenzione (art. 84 c.p.i.). L’erronea brevettazione (tipicamente, di un modello come invenzione) può inoltre condurre comunque al rilascio di un valido diritto per effetto della conversione del brevetto nullo (v. supra, I.7).

La disciplina dei modelli industriali ricalca essenzialmente quella sulle invenzioni (cfr. il rinvio dell’art 86 c.p.i.). La minore importanza tecnologica del trovato giustifica tuttavia una durata del brevetto decennale (art. 85 c.p.i.), considerevolmente più breve di quella delle invenzioni.

III. I modelli e disegni industriali L’ordinamento europeo e nazionale tutelano l’innovazione del design del prodotto (inteso in senso ampio e comprensivo dei disegni e colori) indipendentemente dalla sua valenza tecnica, e per la sua capacità di arricchire il panorama delle forme in grado di sollecitare l’attenzione dei consumatori. È in particolare proteggibile come disegno o modello “l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento” (art. 31 c.p.i.). Il diritto sui disegni e modelli riveste particolare importanza nel settore dell’arredamento (si pensi a lampade e mobili); può coprire inoltre ad esempio il design di autovetture (ed anche di alcune parti, come i cerchioni di pneumatici); nonché capi di abbigliamento, sequenze di linee geometriche e colorazioni di tessuti, decorazioni (si pensi a piastrelle e ceramiche). I disegni e modelli sono tutelati principalmente attraverso la registrazione, che può avvenire non solo in sede nazionale avanti all’UIBM secondo le norme del c.p.i., ma anche in sede europea secondo le norme del Regolamento CE 6/2002 (Regolamento sui Disegni e Modelli Comunitari-RDMC) davanti all’EUIPO, e cioè davanti al medesimo ufficio competente alla registrazione dei marchi UE. Al pari della registrazione del marchio europeo, la registrazione dei disegni e modelli avanti all’EUIPO ha effetti costitutivi di un diritto unitario, azionabile nell’intero territorio della UE. La protezione derivante dalla registrazione (europea e nazionale) può durare (se rinnovata a scadenze quinquennali) per il considerevole periodo di 25 anni (art. 37 c.p.i. e art. 12 RDMC). L’ordinamento europeo ammette addirittura la protezione dei disegni e modelli non registrati, sia pure per un più breve periodo triennale (art. 11 RDMC). Disegni e modelli devono presentare il requisito della novità, e cioè differenziarsi dai modelli anteriormente accessibili al pubblico (art. 32 c.p.i. e art. 5 RDMC) 80.

80

Sui criteri di accertamento della novità cfr. FABBIO, Disegni e modelli, Padova, 2012, 24 ss.; per una particolare lettura del requisito cfr. anche BOSSHARD, La tutela dell’aspetto del prodotto industriale, Torino, 2015, 7 s.

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Diversamente da quanto emerso per le invenzioni, non sono prese in considerazione anteriorità inaccessibili agli operatori specializzati della UE. Così ad es. parrebbe registrabile un disegno di tessuto tratto dal folclore di culture lontane e sconosciute agli operatori (art. 34 c.p.i. e art. 7.1 RDMC) 81: secondo una prospettiva che incentiva quindi l’iniziativa di marketing, e non necessariamente lo sforzo creativo (assente quando si introduca sul mercato un’innovazione derivante dalla semplice ripresa di un lontano folclore, di cui un operatore sia venuto a conoscenza). È inoltre possibile che il titolare depositi validamente il disegno e modello anche dopo averlo reso accessibile al pubblico, purché entro un anno dalla divulgazione (c.d. periodo di grazia, utile soprattutto nel settore della moda, dove le creazioni sono spesso divulgate in esposizioni e sfilate prima di venire registrate; art. 34, co. 3, c.p.i. e art. 7.2 RDMC).

Disegni e modelli devono inoltre presentare “carattere individuale”: e cioè una diversità qualificata rispetto alle anteriorità 82. Il carattere individuale del disegno o modello (cui talvolta ci si riferisce in termini di originalità) va inteso tuttavia in senso ben diverso dall’attività inventiva prevista in materia brevettuale, e ricorre precisamente quando “l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato differisce dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore” dai disegni e modelli divulgati anteriormente (art. 33 c.p.i. e art. 6 RDMC) 83. L’originalità del disegno e modello dipende dunque dalla sua percezione da parte del destinatario acquirente (utilizzatore), non dallo sforzo inventivo del designer: coerentemente ad un’impostazione che vuole premiare l’arricchimento del patrimonio di forme in grado di suscitare l’interesse del pubblico 84. È stato sostenuto che l’utilizzatore informato è particolarmente attento alla presenza di dettagli del modello, così che il requisito del carattere individuale ricorre pur in presenza di differenze di mero dettaglio, per l’appunto, rispetto alle anteriorità 85.

Il parametro dell’utilizzatore informato è utilizzato anche per la valutazione dell’ambito di protezione del disegno e modello. I diritti del titolare si estendono infatti “a qualunque disegno o modello che non produca nell’utilizzatore informato un’impressione generale diversa” (art. 41, co. 3, c.p.i. e art. 10 RDMC) 86. A differenza di quanto emerso in materia di imitazione servile, non occorre dunque qui un effetto confusorio, così che la protezione dei disegni e modelli costituisce parametro di riferi-

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Per una giustificazione del principio cfr. FABBIO, Disegni e modelli, cit., 21. Sui criteri di accertamento del carattere individuale cfr. FABBIO, Disegni e modelli, cit., 30 ss. In giurisprudenza cfr. Trib. Milano, 22-2-2010, GADI, 2011, 219; Trib. Milano, 1-12-2010, GADI, 2010, 899. 83 Sulla figura dell’utilizzatore informato ed i fattori che ne determinano l’impressione cfr. Trib. UE, 21 novembre 2013, GADI, Rep. 2013, 1528; Trib. Bologna, 11-3-2011, GADI, 2012, 169; Trib. Milano, 31-1-2011, GADI, 2011, 677; Trib. Milano, 10-6-2010, GADI, 2011, 359; Trib. Bologna, 22-3-2010, GADI, 2011, 271; Trib. Milano, 22-4-2010, GADI, 2011, 313; Trib. Bologna, 8-2-2010, GADI, 2010, 409. 84 FLORIDIA/Dir. ind. 85 Cfr. FABBIO, Disegni e modelli, cit., 42; BOSSHARD, La tutela dell’aspetto del prodotto industriale, cit., 9 ss.; VANZETTI-DI CATALDO; CG 20-10-2011, C-281/10/P, Pepsico, Racc, 2011, I-10178; Trib. Bologna, 11-3-2011, GADI, 2012, 169; Trib. Bologna, 8-2-2010, GADI, 2010, 409. 86 Per alcune applicazioni giurisprudenziali cfr. Trib. Bologna, 11-3-2011, cit.; GADI, 2012, 169; Trib. Milano, 22-4-2010, GADI, 2011, 313; Trib. Milano, 22-2-2010, GADI, 2011, 219. 82

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mento generale per la ricostruzione dei limiti di legittimità della “copia” dell’aspetto esterno degli altrui prodotti. Il diritto sul disegno e modello (così come quello sulle invenzioni) si estende agli atti di fabbricazione, commercio ed impiego (art. 41 c.p.i.). Analogamente a quanto emerso in materia di marchi e invenzioni, il titolare può dunque impedire non soltanto la fabbricazione del modello, ma anche la rivendita dei prodotti contraffatti, ferma restando l’applicazione del principio di esaurimento e quindi la libera circolazione dei beni lecitamente commercializzati (art. 41, co. 2, c.p.i.). Può impedire altresì l’uso del modello, purché non si tratti di uso privato (cfr. art. 42, lett. a, c.p.i.): non potrà agire quindi contro l’acquirente finale di una lampada contraffatta; potrà però ad es. agire contro un’impresa di costruzioni che utilizzi nei suoi lavori piastrelle o serramenti fabbricati in contraffazione. Anche la validità della registrazione del disegno e modello (principalmente, per mancanza dei requisiti di novità e carattere individuale) può essere contestata attraverso l’esercizio di azioni di nullità. L’esercizio dell’azione segue regole corrispondenti a quelle dei marchi europeo e nazionale. In particolare, analogamente ai marchi, la legittimazione è relativa e spetta soltanto al titolare dei diritti (tipicamente, su disegni e modelli) anteriori, quando l’esistenza di questi diritti determina l’assenza dei requisiti di protezione (tipicamente, l’assenza di novità o carattere individuale, cfr. art. 122, co. 3, c.p.i.; artt. 25, co. 2-5 e 84.2 RDMC).

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[§ 18]

CAPO SECONDO MERCATO E CONTRATTI D’IMPRESA

§ 18. L’ATTIVITÀ CONTRATTUALE DELL’IMPRESA SOMMARIO: I. La categoria dei contratti di impresa. – II. I princìpi “speciali” dei contratti d’impresa. – 1. La continuità dell’attività economica. – 2. L’organizzazione seriale dei rapporti. – 3. La valutazione di meritevolezza del contratto e le clausole generali. – 4. Contratti d’impresa e commercio internazionale.

LETTERATURA: ANGELICI, La contrattazione d’impresa, in LIBONATI-FERRO LUZZI (a cura di), L’impresa, Milano, 1985, 183; BIANCHINI, La contrattazione d’impresa tra autonomia contrattuale e libertà di iniziativa economica, Torino, 2013; BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, Milano, 2000; G. CIAN, Contratti civili, contratti commerciali e contratti d’impresa: valore sistematico-ermeneutico delle classificazioni, RDCiv, 2004, 849; DALMARTELLO, I contratti delle imprese commerciali, Padova, 1962; ID., voce Contratti d’impresa, EncGiur, IX, 1988; GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, 2001; OPPO, I contratti di impresa tra codice civile e legislazione speciale, RDCiv, 2004, 841; PORTALE, Diritto privato comune e diritto privato della impresa, in 1882-1982. Cento anni del codice di commercio, Milano, 1984, 227; SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, Milano, 2002.

I. La categoria dei contratti di impresa Il contratto dell’impresa si colloca tipicamente all’interno di una complessa rete di rapporti, in funzione dell’esercizio di un’attività concorrenziale. Ci si è allora chiesti se queste peculiarità della contrattazione d’impresa possano essere valorizzate per ricostruire princìpi generali comuni, diversi da quelli validi in ambito extraimprenditoriale. L’attuale unificazione dei precedenti codice civile e di commercio (v. Introduzione) sembra apparentemente riflettere la volontà del legislatore di ricostruire princìpi comuni a tutte le tipologie contrattuali, indipendentemente dalla loro funzionalizzazione all’esercizio di attività imprenditoriali. Vero è anche tuttavia che, pur in assenza di una organica specifica disciplina dei contratti di impresa, non sarebbe corretto applicare qui acriticamente i princìpi civilistici tradizionali. Esistono anzi diversi dati normativi e giurisprudenziali che suggeriscono di valorizzare l’attività economica ed il mercato in funzione di giustificazione di un diritto speciale dei contratti.

[§ 18]

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Sotto un primo profilo, l’attività imprenditoriale pone un problema di coordinamento dei soggetti coinvolti nel processo produttivo (imprenditore, fornitori, clienti, finanziatori). I contratti di impresa appaiono perciò assoggettati ad una disciplina tendente ad evitare distorsioni nelle decisioni imprenditoriali (market failures) che potrebbero pregiudicare l’interesse all’efficiente coordinamento dell’azione degli operatori 1. In ultima analisi questa disciplina vorrebbe avvicinare il funzionamento del mercato “reale” a quello del mercato che il legislatore considera come “ideale”. a) Così ad es. i contratti della filiera produttiva (si pensi alla compravendita, alla somministrazione, al trasporto) trovano certo nel libro IV del codice una regolamentazione tendenzialmente unitaria, che prescinde dal compimento dell’atto da parte di un imprenditore. Permangono comunque nel codice alcuni articoli specificamente dettati a tutela dell’interesse alla continuità dell’attività economica e alla organizzazione “seriale” dei suoi rapporti (v. infra, II.1): perché dove non c’è continuità, non c’è possibilità di coordinamento dei fattori produttivi. b) L’imprenditore stipula inoltre sistematicamente contratti di acquisizione di mezzi materiali (tipicamente terreni, stabilimenti, macchinari) e di personale (dipendenti e collaboratori) che formano l’organizzazione produttiva. Qui l’interesse al coordinamento della produzione si esprime attraverso regole particolari sulla sopravvivenza dei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda al mutamento soggettivo dell’imprenditore (v. infra, II.1); nonché attraverso l’attribuzione ex lege ai collaboratori dell’impresa di poteri di gestione e corrispondente rappresentanza, che consentono all’organizzazione aziendale di operare continuativamente (v. supra, § 8). c) L’impresa stipula d’altro canto sistematicamente contratti di finanziamento bancario, assoggettati ad una organica disciplina speciale, di cui ci si occuperà nel quarto volume. Opera inoltre sul mercato finanziario, assoggettandosi alle relative regole pure speciali. La specificità degli interessi sottostanti al mercato finanziario e dei problemi relativi alla provvista di liquidità nei rapporti imprenditoriali giustifica poi talvolta deroghe ai criteri generali di valutazione della meritevolezza del contratto: ad es. nei casi esposti infra, II.3. Sotto un secondo profilo, le imprese contraggono frequentemente in situazioni di squilibrio economico, e per conseguenza negoziale, tale per cui una parte di fatto può solo limitarsi ad accettare le condizioni predisposte unilateralmente dall’altra. Ciò può avvenire nei rapporti fra imprenditori di differenti dimensioni (si pensi all’impresa multinazionale di autovetture che si avvale di piccole imprese subfornitrici per i componenti); e così pure tipicamente (e di fatto inevitabilmente) avviene nei rapporti fra imprese e clientela consumatrice. Sotto questo profilo emerge la tendenza dell’ordinamento ad introdurre norme che, sia pur contenute in discipline settorialmente diversificate in relazione a diverse tipologie di rapporti, sono comunque riconducibili ad un’unica generale preoccupazione di vietare eccessivi squilibri contrattuali di diritti ed obblighi, e perciò ancora una volta di avvicinare il funzionamento del mercato “reale” a quello di un mercato “ideale” (v. infra, § 19).

1 L’interesse al coordinamento dei soggetti coinvolti nel processo produttivo è evidenziato da DENOZZA, Sulle tracce di una vecchia talpa: il diritto commerciale nel sistema neoliberale, ODC, 2015, n. 3, 11.

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SEZ. IV – L’impresa nel mercato

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L’opportunità di ricostruire un sistema dei contratti di impresa comprensiva dei rapporti con i consumatori è per la verità discussa (v. anche Introduzione) 2. Il problema degli abusi di posizioni di forza che una parte contrattuale può vantare nei confronti dell’altra è stato comunque certo preso in considerazione dal legislatore tanto con riferimento ai rapporti fra imprenditori, quanto con riferimento ai rapporti con i consumatori. In entrambi i casi pare possibile ricostruire le norme in funzione dell’interesse a spingere la contrattazione verso gli esiti che caratterizzerebbero un ipotetico scambio fra soggetti “eguali”, in assenza di soggezione all’altrui potere economico (v. infra, § 19). Sotto questo profilo emerge inoltre la tendenza a far rientrare lo statuto dell’impresa in uno statuto più generale del “professionista”, che ricomprende non solo i soggetti dell’art. 2082, ma altresì i lavoratori autonomi, inclusi i professionisti intellettuali.

II. I princìpi “speciali” dei contratti d’impresa 1. La continuità dell’attività economica L’interesse al coordinamento dei fattori produttivi sottostante alla contrattazione di impresa si esprime talvolta attraverso norme speciali. In particolare l’interesse alla continuità dell’attività economica si esprime anzitutto attraverso le norme che garantiscono la sopravvivenza della relazione d’affari in occasione di vicende personali dell’imprenditore, quando permangano le esigenze dell’organizzazione produttiva 3. Così in particolare l’art. 1330 prevede, contrariamente ai principi generali del diritto privato comune, la conservazione dell’efficacia della proposta o dell’accettazione contrattuale da parte di un imprenditore “quando è fatta nell’esercizio della sua impresa […] se l’imprenditore muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto”. Non a caso l’art. 1330 precisa che il principio di mantenimento dell’efficacia della proposta o dell’accettazione non si applica ai piccoli imprenditori, la cui attività economica dipende dal mantenimento delle qualità personali, non dalla continuità dell’organizzazione produttiva. È stato inoltre evidenziato che la norma presuppone la continuazione dell’attività d’impresa da parte degli eredi del defunto o dei rappresentanti legali dell’incapace, mentre non si applica qualora la morte o l’incapacità determinino una cessazione dell’attività imprenditoriale 4. Inoltre, la continuazione dell’esercizio dell’impresa avviene necessariamente anche in caso di trasferimento d’azienda inter vivos, nel qual caso è stato ritenuto che l’acquirente 2

In senso tendenzialmente contrario all’inclusione dei contratti con i consumatori nella categoria dei contratti di impresa cfr. G. CIAN, Contratti civili, contratti commerciali e contratti d’impresa, 860; ZOPPINI, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, RDCiv, 2008, I, 536 ss.; DENOZZA, Sulle tracce di una vecchia talpa: il diritto commerciale nel sistema neoliberale, cit., 13 ss.; nel senso dell’opportunità di ricostruzione di un’unica categoria cfr. invece SIRENA, La categoria dei contratti d’impresa, RDCiv, 2006, II, 418. 3 Cfr. DALMARTELLO, I contratti delle imprese commerciali, 156; ID., voce Contratti d’impresa, 3; OPPO, I contratti di impresa, 842; G. CIAN, Contratti civili, contratti commerciali e contratti d’impresa, 858 s.; DOLMETTA, Sui “contratti d’impresa”: ipoteticità di una categoria, Jus, 2009, 259 s.; ANGELICI, La contrattazione d’impresa, 196; BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, 173. 4 DALMARTELLO, Contratti d’impresa, 4.

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SARTI – L’attività contrattuale dell’impresa

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dell’azienda succeda non solo nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda in base all’art. 2558, ma anche nella proposta e nell’accettazione in base all’art. 1330 5.

L’interesse alla sopravvivenza del rapporto contrattuale in seno all’organizzazione produttiva sussiste poi più in generale ogniqualvolta si verifichi una vicenda che determina il subentro di un nuovo soggetto nella titolarità dell’impresa. In tali casi il legislatore è intervenuto alcune volte con norme puntuali, come l’art. 1722, co. 1, n. 4, che riconosce, pur in caso di morte del mandante, la sopravvivenza del contratto di mandato avente “per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa […] se l’esercizio dell’impresa è continuato” (così da non interrompere l’attività, per quel che riguarda le relazioni d’affari la cui cura era stata affidata ad un collaboratore). E più in generale, va ricordata la norma fondamentale in base alla quale, in caso di trasferimento o di concessione in godimento dell’azienda, l’interesse del nuovo imprenditore a subentrare nei contratti stipulati per l’esercizio dell’attività economica (come dei terzi a conservare la relazione con colui che viene a disporre dell’apparato produttivo) è tutelato in deroga ai principi generali del diritto civile, con la previsione di una successione ex lege (art. 2558).

2. L’organizzazione seriale dei rapporti La specificità dell’interesse al coordinamento dei fattori di produzione imprenditoriale si esprime inoltre nelle norme che tutelano l’esigenza di velocizzare e semplificare le trattative rendendo possibili contrattazioni serializzate e standardizzate 6. Sotto questo profilo si spiega in particolare anzitutto l’art. 1368, co. 2, secondo cui nei contratti stipulati da un imprenditore “le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa”. La norma facilita l’interesse dell’imprenditore a uniformare i propri rapporti secondo le pratiche del luogo che gli è più vicino e che meglio conosce, fra l’altro evitando gli oneri e i costi necessari a precisare di volta in volta il significato e la portata delle singole clausole 7. In analoga prospettiva si spiegano poi ulteriori norme che, per quanto non esplicitamente riferite ai soli contratti d’impresa, proprio con riferimento a questi contratti trovano i più ampi (e pressoché esclusivi) spazi di applicazione. Così l’art. 1340 considera inserite nel contratto le clausole d’uso, se non risulta che non sono state volute dalle parti. Poiché la formazione di usi contrattuali fisiologicamente deriva dalla contrattazione standardizzata tipica delle imprese, la norma favorisce la diffusione di modelli uniformi, esonerando l’imprenditore da costi ed oneri di pattuizione specifica. Analogamente l’art. 1341 prevede l’efficacia delle condizioni generali di contratto sulla base della semplice conoscibilità da parte dell’altro contraente: con ciò ancora una volta favorendo la predisposizione di modelli contrattuali uniformi da parte delle imprese 8. L’interesse alla velocità delle contrattazioni sta inoltre alla base dell’art. 1327, che pre5

DALMARTELLO, Contratti d’impresa, 5. Cfr. CAPO, Attività d’impresa e formazione del contratto, Milano, 2001, 53. 7 Cfr. ANGELICI, La contrattazione d’impresa, 195; DALMARTELLO, Contratti d’impresa, 6. 8 ANGELICI, La contrattazione d’impresa, 193 ss. 6

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vede la conclusione dell’accordo al momento “in cui ha avuto inizio l’esecuzione” quando “su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta”. Anche queste situazioni ricorrono infatti tipicamente quando l’esecuzione del contratto deve avvenire da parte di un imprenditore 9.

3. La valutazione di meritevolezza del contratto e le clausole generali La specificità degli interessi sottostanti alla contrattazione d’impresa giustifica a volte addirittura valutazioni di meritevolezza del contratto in deroga ai princìpi generalcivilistici 10. In alcuni casi la deroga è testualmente prevista dal legislatore. In altri è frutto di elaborazioni giurisprudenziali, peraltro condivise dalla dottrina. Nell’uno e nell’altro caso la deroga riflette a ben vedere la consapevolezza del legislatore e dell’interprete che una acritica applicazione dei princìpi generalcivilistici al mondo della contrattazione imprenditoriale potrebbe ostacolare meccanismi utili al funzionamento del mercato. Un esempio di deroga normativa ai princìpi generalcivilistici è costituito dall’art. 23, co. 5, TUF, per il quale “nell’ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati […] non si applica l’art. 1933 del codice civile”. Così, ad es., l’obbligo di pagare alla controparte una determinata somma per l’ipotesi di insolvenza di un terzo (obbligo derivato dall’insolvenza), assunto verso pagamento di un “premio” a carico della controparte medesima, può a prima vista sembrare in ultima analisi qualificabile in termini di “scommessa” sull’insolvenza del terzo. Ad un tempo il “premio” incassato rappresenta un “prezzo”, e perciò un indice di misurazione economica, del rischio di insolvenza: indice tanto più significativo quanto maggiore è il numero dei relativi contratti derivati, e perciò il numero delle “informazioni” trasmesse sul mercato relativamente a questo rischio. Qui il legislatore procede dall’idea che la “scommessa” sull’insolvenza del terzo svolga un ruolo socialmente apprezzabile per la sua capacità di trasmettere informazioni utili a valutare e comparare il rischio delle diverse forme di investimento: ruolo che è tipico di un sistema di contrattazioni di finanziamento d’impresa, e che nelle ragioni dell’impresa trova perciò la propria meritevolezza. Un esempio di deroga ai princìpi generalcivilistici elaborato in via giurisprudenziale è costituito dal riconoscimento del c.d. contratto autonomo di garanzia 11, con cui il garante, diversamente da quanto previsto dagli artt. 1939 e 1941, assume un’obbligazione valida indipendentemente dalla validità dell’obbligazione garantita, e senza possibilità di opporre le eccezioni opponibili dall’obbligato garantito. Il contratto autonomo di garanzia offre in ultima analisi un servizio finanziario di provvista di liquidità destinata a soddisfare le pretese del creditore garantito: ed a soddisfarle quan9

Cfr. ANGELICI, La contrattazione d’impresa, 190. Cfr. OPPO, I contratti di impresa, 847 s.; BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, 173 ss.; SIRENA, La categoria dei contratti d’impresa, cit., 420 ss.; CAPO, Attività d’impresa e formazione del contratto, cit., 87 s.; SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, 303 ss.; MACARIO, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese, RDCiv, 2005, I, 706 s.; ZOPPINI, Il contratto asimmetrico, cit., 525 ss.; BIANCHINI, La contrattazione d’impresa tra autonomia contrattuale e libertà di iniziativa economica, 179 ss. 11 Cfr. PORTALE, Diritto privato comune e diritto privato della impresa, 228 ss. 10

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d’anche il debitore ne contesti la fondatezza. Così ad es. l’appaltatore creditore della garanzia di pagamento del corrispettivo dovuto dall’appaltante può pretenderne l’escussione quand’anche l’appaltante contesti la corretta esecuzione dell’appalto garantito. Per questa ragione la garanzia è tipicamente prestata da imprese bancarie e finanziarie, sulla base di una valutazione parimenti finanziaria della solvibilità del debitore garantito, e del tutto indipendentemente da valutazioni commerciali sulla sua capacità di eseguire correttamente la prestazione dovuta nei confronti del creditore garantito 12. Qui la deroga ai princìpi generalcivilistici costituita dall’inopponibilità delle eccezioni al creditore garantito riflette perciò ancora una volta un interesse specifico al finanziamento dell’attività di impresa: per cui le vicende ed i rischi dei rapporti finanziari devono restare neutrali rispetto a quelli dei rapporti commerciali “finanziati”. In analoga prospettiva la funzionalizzazione del contratto all’attività di impresa porta ad interpretare le clausole generali più tradizionali, come quelle della buona fede e correttezza 13, o dell’abuso del diritto 14, valorizzando la specificità degli interessi sottostanti al coordinamento dei fattori della produzione: v. ad esempio infra, § 19 15.

4. Contratti d’impresa e commercio internazionale Sempre più spesso le imprese operano e stipulano contratti nel contesto del commercio internazionale. In questo contesto i contratti d’impresa pongono preliminarmente un problema di determinazione della legge applicabile. I princìpi del diritto internazionale privato nazionale (v. art. 57 l. 218/1995) ed europeo (v. art. 3 reg. CE 593/2008) lasciano in tali casi alle parti ampia libertà di stabilire l’ordinamento competente a regolare i loro rapporti, e fissano criteri generali di determinazione della legge applicabile validi in via sussidiaria in mancanza di scelta. Anche quando la disciplina internazionale ha introdotto norme sostanziali uniformi applicabili ai rapporti fra contraenti di stati diversi, come avvenuto con la Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili 16, le parti rimangono libere di optare per l’applicazione di differenti legislazioni. Il sistema consente così alle imprese di modellare i loro rapporti rinviando alle norme dell’ordinamento ritenute più conformi alle esigenze degli affari. L’autonomia imprenditoriale è poi ulteriormente rafforzata dalla tendenza dei legislatori a lasciare libere le parti di determinare come meglio credono il contenuto dei loro rapporti. In un sistema così ispirato al principio generale di autonomia imprenditoriale, tendono fisiologicamente a diffondersi modelli contrattuali uniformi, che appaiono meglio adeguati

12 Cfr. MEO, Funzione professionale e meritevolezza degli interessi nelle garanzie atipiche, Milano, 1991, 74 ss. La funzione lato sensu finanziaria del contratto autonomo di garanzia è evidenziata anche da CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, Milano, 2006, 424 ss. e in particolare 513. 13 Evidenzia la centralità della clausola generale della buona fede per la ricostruzione di una categoria unitaria di contratti di impresa SIRENA, La categoria dei contratti d’impresa e il principio della buona fede, cit., 420. 14 Valorizzato in funzione della ricostruzione di una categoria di contratti di impresa da MACARIO, Abuso di autonomia negoziale, cit., 682 ss. 15 Per un inquadramento generale del fenomeno cfr. BIANCHINI, La contrattazione d’impresa tra autonomia contrattuale e libertà di iniziativa economica, 303 ss. 16 Ratificata in Italia con l. 765/1985.

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al perseguimento di interessi a loro volta standardizzati nelle pratiche del commercio internazionale. Al riguardo è stato in particolare evidenziato che queste pratiche hanno favorito la diffusione di una lex mercatoria. Tende anzi a diffondersi un concetto di lex mercatoria in una accezione particolarmente forte, secondo cui essa costituisce una fonte di diritto indipendente dagli ordinamenti nazionali. In questa prospettiva il rapporto contrattuale sfugge all’applicazione delle norme degli stati, per essere disciplinato esclusivamente dalle consuetudini del commercio internazionale (v. Introduzione) 17.

17

In argomento cfr. GALGANO, Lex mercatoria, 238 ss.; una sorta di “codificazione” della lex mercatoria è rinvenibile nei Princìpi Unidroit dei contratti commerciali internazionali, Roma, 2004, elaborati dall’Istituto internazionale per la codificazione del diritto privato (Unidroit).

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§ 19. LA TUTELA DELLE CONTROPARTI CONTRATTUALI DEBOLI SOMMARIO: I. L’abuso di dipendenza economica. – II. La disciplina del franchising. – III. I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. – IV. I contratti con i consumatori. – 1. Funzione e presupposti della disciplina. – 2. Le clausole vessatorie. – 3. I rimedi: nullità di protezione e azione inibitoria. – 4. Informazioni precontrattuali e contratti a distanza.

LETTERATURA: ALPA-PATTI (a cura di), Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, Milano, 2003; BIANCA-BUSNELLI (a cura di), Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore, NLCC, 1997, 751; CESÀRO (a cura di), I contratti del consumatore, Padova, 2007; RUFFOLO (a cura di), Clausole “vessatorie” e “abusive”, Milano, 1997; VETTORI (a cura di), Codice del consumo, Padova, 2007, Agg. 2009; ZOPPINI, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, RDCiv, 2008, I, 515.

Come si è visto, la legge e talvolta il diritto vivente (ossia l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza e nella prassi) introducono per i contratti d’impresa principi e logiche alternativi rispetto al diritto privato comune. Tra questi elementi di specialità, un ruolo particolarmente importante gioca il principio di tutela della parte debole. Le relazioni tra imprese e consumatori in special modo, ma anche quelle tra imprese, possono presentare situazioni di squilibrio contrattuale, a causa del diverso potere negoziale delle parti o della diversa dotazione di informazioni di cui ciascuna di esse può disporre. Simili squilibri generano inefficienze nel mercato, condizionando l’attività delle imprese deboli, oppure determinando i consumatori a compiere scelte inappropriate. Per queste ragioni, il legislatore interviene capillarmente allo scopo di evitare e correggere le conseguenti distorsioni. Il principio di tutela della parte debole emerge così trasversalmente come il più importante elemento unificatore della disciplina dei contratti di impresa e ad esso merita dunque dedicare una attenzione specifica.

I. L’abuso di dipendenza economica Dal punto di vista sistematico, rilievo centrale assume la disciplina dell’abuso di dipendenza economica, contenuta nell’art. 9 l. 192/1998. La norma si riferisce a qualsiasi “situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi” (art. 9, co. 1, l. 192/1998). L’ipotesi può ricorrere tipicamente quando un’impresa abbia dovuto sopportare investimenti specifici e rilevanti in rapporto alle sue dimensioni (per la realizzazione di impianti, o per l’acquisizione di competenze tecniche e commerciali) in funzione

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dell’interesse a intraprendere relazioni contrattuali con un determinato partner 1; investimenti tali da renderla sostanzialmente dipendente da queste relazioni contrattuali. La norma vieta allora in via generale “l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trovi […] una impresa cliente o fornitrice”. Vieta, cioè, all’impresa “dominante” proprio di imporre condizioni contrattuali o in genere di tenere comportamenti diretti a determinare un “eccessivo squilibrio” di diritti od obblighi, che ricorre tendenzialmente quando essa miri ad imporre all’altra impresa sacrifici tali da pregiudicare l’interesse alla remunerazione degli investimenti specifici. Non convincono le tesi tendenti a limitare l’applicazione dell’art. 9 ai rapporti di subfornitura definiti dall’art. 1 l. 192/1998, e cioè ai contratti con cui il subfornitore si impegna a svolgere “lavorazioni su prodotti o semilavorati o su materie prime forniti dalla committente […] o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente” 2. Dunque, deve ritenersi che l’art. 9 esprima un principio generale, suscettibile di applicazione ad ogni relazione tra imprese, indipendentemente dalla riconducibilità o meno a questo tipo contrattuale. L’art. 9, co. 2, l. 192/1998 contiene una elencazione esemplificativa dei possibili abusi, ricomprendendovi “anche” il rifiuto di vendere o di comprare, l’imposizione di “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose”, l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. L’elencazione presenta profili di somiglianza con la esemplificazione delle condotte qualificabili in termini di abuso di posizione dominante. Analogamente a quanto emerso in materia antitrust, sembra perciò da escludere che un abuso di dipendenza economica possa ricorrere quando il comportamento di una parte è giustificato da ragioni di efficienza 3. Così ad es. l’interruzione delle relazioni contrattuali non può essere abusiva quando persegue l’interesse a contrarre con imprese terze in grado di produrre a costi inferiori, e perciò di offrire prezzi più bassi. L’art. 9, co. 3, l. 192/1998 prevede che “il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di

1 In argomento cfr. ampiamente OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, 256 ss.; FABBIO, L’abuso di dipendenza economica, Milano, 2006, 268 ss. 2 Nel senso dell’applicazione generalizzata dell’art. 9, l. 192/1998 a tutti i rapporti fra imprenditori cfr. SPOLIDORO, Riflessioni critiche sul rapporto fra abuso di posizione dominante e abuso dell’altrui dipendenza economica, RDInd, 1999, I, 195; PALMIERI, Abuso di dipendenza economica: “dal caso limite” alla drastica limitazione dei casi di applicazione del divieto?, FIt, 2002, I, 3214 ss.; SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, Milano, 2002, 278; MAUGERI, Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Milano, 2003, 131 ss.; DELLI PRISCOLI, Abuso di dipendenza economica e contratti di distribuzione, RDImp, 2003, 557 ss.; NATOLI, L’abuso di dipendenza economica, Napoli, 2004, 77 ss.; MACARIO, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, RDCiv, 2005, 682 ss.; FABBIO, L’abuso di dipendenza economica, cit., 102 ss.; Trib. Roma, 5-11-2003, RDComm, 2004, II, 1; Trib. Catania, 5-1-2004, FIt, 2004, I, 262; Trib. Roma, 30-11-2009, FIt, 2011, I, 256; contra, v. peraltro, MUSSO, La subfornitura, Comm. Scialoja-Branca, 2003, 483 ss.; Trib. Bari, 2-7-2002, FIt, 2002, I, 3208; Trib. Taranto, 22-12-2003, FIt, 2004, 262, con nota critica di COLANGELO; Trib. Roma, 19-2-2010, FIt, 2011, I, 256; Trib. Roma, 24-9-2009, ibidem; Trib. Roma, 5-5-2009, ibidem. 3 Cfr. MUSSO, La subfornitura, cit., 481 s.; FABBIO, L’abuso di dipendenza economica, cit., 70.

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dipendenza economica è nullo”. La nullità è accertata dal giudice ordinario, che può pronunciare anche provvedimenti inibitori, nonché condanna al risarcimento dei danni. Il successivo co. 3-bis consente inoltre di reprimere gli abusi di dipendenza economica con le sanzioni previste per la violazione della disciplina nazionale antitrust. In effetti, la disciplina degli abusi di dipendenza economica presenta profili di interferenza con quella degli abusi di posizione dominante 4. Essa tuttavia non presuppone di per sé una posizione dominante estesa all’intero mercato rilevante: l’art. 9 si preoccupa infatti essenzialmente di impedire abusi sul “micromercato” delle relazioni contrattuali fra due. Ad ogni modo, quando il comportamento rilevante ex art. 9 sia tenuto da un’impresa che si trova al contempo in una posizione dominante rilevante secondo la disciplina antitrust, il citato co. 3bis apre all’irrogazione anche delle sanzioni previste da questa disciplina 5: esse vengono naturalmente applicate dall’AGCM.

II. La disciplina del franchising La l. 129/2004 contiene norme specificamente dedicate all’affiliazione commerciale (nota alla pratica con il termine anglosassone franchising), che a loro volta si propongono di tutelare una parte imprenditoriale contrattualmente debole, quale è considerato l’affiliato rispetto all’affiliante 6. Diversamente da quanto emerso con riferimento agli abusi di dipendenza economica, la tutela della parte debole è qui prevista con riferimento ad una relazione contrattuale specifica, costituita, appunto, dal rapporto di affiliazione. Il contratto di affiliazione è definito nell’art. 1 l. 129/2004, ed ha per oggetto il consenso dell’affiliante a che l’affiliato utilizzi, verso corrispettivo, un “insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale”, in funzione dell’inserimento dell’affiliato “in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni e servizi” 7. Il contratto ricomprende quindi elementi della licenza di segni distintivi 8, ma persegue una funzione economica più complessa. Il franchising permette in particolare di realizzare un sistema di distribuzione in cui i diversi distributori affiliati adottano uniformi metodi di promozione

4

Cfr. DELLI PRISCOLI, L’abuso di dipendenza economica nella nuova legge sulla subfornitura: rapporti con la disciplina delle clausole abusive e con la legge antitrust, GComm, 1998, I, 833; SPOLIDORO, Riflessioni critiche, cit., 191 ss.; COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti, Torino, 2004, 71 ss.; OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, 276 ss. Una articolata classificazione delle ipotesi che possono comportare abuso di posizione dominante, di dipendenza economica o contemporaneamente di entrambe si ritrova in LIBERTINI, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, 286 ss. 5 Cfr. MUSSO, La subfornitura, cit., 471; NATOLI, L’abuso di dipendenza economica, cit., 25 ss.; FABBIO, L’abuso di dipendenza economica, cit., 461 ss. 6 Cfr. BUSSANI, Contratti moderni. Factoring. Franchising. Leasing, Tr. Sacco, 2004, 179; DI ROSA, Il franchising, in I contratti per l’impresa, a cura di Gitti-Maugeri-Notari, Bologna, 2012, 462. 7 Per una schematizzazione delle diverse possibili tipologie di franchising cfr. BUSSANI, Contratti moderni, cit., 172 ss. 8 RICOLFI, Trattato dei marchi, 1643; e v. inoltre 1646 ss. sui problemi di applicazione della disciplina della licenza di marchio.

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commerciale, e si identificano altrettanto uniformemente attraverso i segni distintivi dell’affiliante. Lo stesso affiliante ha d’altro canto interesse a che i propri segni distintivi penetrino il mercato attraverso l’attività dell’affiliato, che quindi è in linea di principio obbligato ad utilizzare questi segni 9. L’adozione di questo sistema è frequente per le grandi catene di abbigliamento, alberghiere e dei supermercati. I diversi punti vendita (o le diverse strutture alberghiere o di ristorazione), infatti, sono spesso gestiti non da un’unica impresa titolare dei diversi locali, ma da una pluralità di imprese distinte, dove a ciascun punto vendita corrisponde un diverso titolare. Gli esercizi commerciali si presentano tuttavia sul mercato in modo da apparire come locali di un’unitaria impresa di distribuzione. I diritti di proprietà intellettuale che caratterizzano i sistemi di affiliazione commerciale possono ricomprendere non solo i segni distintivi, diritti di autore e di brevetto, ma anche il know-how tecnico e commerciale. La trasmissione di un know-how commerciale sembra anzi elemento qualificante del rapporto di affiliazione, così da fare ritenere essenziale che l’affiliante presti all’affiliato la “assistenza o consulenza tecnica e commerciale” cui fa riferimento l’art. 1 l. 129/2004 10. Questa conclusione appare confermata dall’art. 3, co. 2, l. 129/2004, che subordina “la costituzione di una rete di affiliazione commerciale” alla previa sperimentazione sul mercato della “formula commerciale”, e che con ciò sembra attribuire al knowhow commerciale una funzione caratterizzante la stessa causa contrattuale 11. Lo sfruttamento di un know-how uniforme giustifica fra l’altro la presentazione dell’attività degli affiliati secondo modalità (tipicamente, insegne e marchi) tendenti a “nascondere” ai consumatori la loro qualità di imprenditori autonomi dall’affiliante. L’inconsapevolezza del consumatore in ordine all’esistenza di imprese autonome è accettata dall’ordinamento proprio in quanto gli affiliati garantiscono standard comuni di prestazione del servizio, di cui l’affiliante si assume la responsabilità e sui quali è da ritenere debba esercitare i relativi controlli 12.

La posizione di debolezza dell’affiliato deriva dalla necessità di quest’ultimo di sostenere investimenti specifici per organizzare la sua impresa di distribuzione, conformemente alle scelte di politica commerciale dettate dall’affiliante. L’affiliato è in particolare esposto al rischio di cessazione del rapporto con l’affiliante 13. La cessazione del rapporto implica infatti per l’affiliato l’esigenza di ricostituire ex novo relazioni di vendita con diversi fornitori, ripensare la propria organizzazione distributiva, ristrutturare i propri locali per non incorrere in violazioni dei diritti sui segni distintivi dell’ex affiliante (si pensi alla necessità di smantellare le insegne) e proporsi in forme e vesti nuove sul mercato. Il legislatore introduce quindi a tutela dell’affiliato norme relative alla forma e contenuto del contratto, dirette a predefinire con certezza i ri9 Cfr. RICOLFI, Trattato dei marchi, 1645; CAMPOBASSO, che di qui argomentano la distinzione del contratto rispetto alla concessione di vendita. 10 FRIGNANI, Franchising, Torino, 2004, 43 s. 11 Cfr. CIAN, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, NLCC, 2004, 1164; mentre diversamente orientato parrebbe BORTOLOTTI, Manuale di diritto della distribuzione, Padova, 2007, 75 s. 12 Cfr. CIAN, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, cit., 1157; BUSSANI, Contratti moderni, cit., 204; RICOLFI, Trattato dei marchi, 1647. 13 Cfr. CIAN, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, cit., 1165; DELLI PRISCOLI, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, RDComm, 2004, 1169 s.; BUSSANI, Contratti moderni, cit., 209 s.

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schi di investimento e di cessazione del rapporto. La legge prevede inoltre obblighi di informazione e correttezza diretti a prevenire la possibilità di esporre l’affiliato a rischi non previsti al momento dell’accordo. L’art. 3 l. 129/2004 impone che il contratto abbia forma scritta a pena di nullità. Impone inoltre che esso abbia una durata minima “sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni” (art. 3, co. 3, l. 129/2004) 14 e la predeterminazione specifica di una serie di elementi che fortemente incidono sui rischi dell’affiliato: quali l’ammontare degli investimenti e spese, l’ambito di esclusiva territoriale (e cioè dell’impegno dell’affiliante a non istituire altri affiliati in un determinato territorio), le condizioni di rinnovo, recesso e risoluzione del rapporto. L’art. 4 l. 129/2004 impone all’affiliante una serie di obblighi di informazione precontrattuale 15, resi particolarmente stringenti dalla previsione dell’obbligo di “consegnare all’aspirante affiliato copia completa del contratto da sottoscrivere” 16. L’informazione deve riguardare fra l’altro i bilanci e i segni distintivi dell’affiliante, il numero degli affiliati, le caratteristiche dell’attività ed i procedimenti giudiziari in corso per controversie relative all’affiliazione. Gli obblighi di informazione sono ulteriormente integrati da obblighi precontrattuali (art. 6 l. 129/2004), ispirati a princìpi di lealtà, correttezza e buona fede, e comprensivi della trasmissione di ogni dato o informazione necessari o utili per valutare l’opportunità di conclusione del contratto. La comunicazione di false informazioni è espressamente considerata quale causa di possibile annullamento del contratto e risarcimento del danno (art. 8 l. 129/2004) 17.

III. I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali Il d.lgs. 231/2002 disciplina “i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. Il testo dell’attuale decreto legislativo è stato novellato in adeguamento alla dir. 2011/7/UE, che ha sostituito l’originaria dir. 2000/35/CE 18. La disciplina cerca di porre rimedio ad una particolare situazione di debolezza che può caratterizzare i rapporti imprenditoriali, e che può derivare da un rischio intrinseco alla stessa posizione di parte creditrice di somme di denaro. Si tratta precisamente del rischio che il debitore ritardi i pagamenti per migliorare la gestione della propria liquidità, e in ultima analisi trasformi i propri fornitori in finanziatori.

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Un termine superiore a tre anni può comunque essere insufficiente al rispetto della norma qualora in concreto non consenta il recupero degli investimenti; cfr. CIAN, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, cit., 1165. 15 Gli obblighi di informazione (disclosure) sono considerati il fondamento generale della disciplina del franchising da FRIGNANI, Franchising, cit., 26 ss. 16 In argomento cfr. D’AMICO, Il procedimento di formazione del contratto di franchising secondo l’articolo 4 della legge 129/2004, RDP, 2005, 769 ss. 17 Discusso è invece il rilievo dell’omessa comunicazione di informazioni; nel senso dell’applicazione anche a questa ipotesi del rimedio dell’annullabilità cfr. CIAN, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, cit., 1179 s.; ritiene invece applicabile solo il rimedio della responsabilità precontrattuale, BORTOLOTTI, Manuale di diritto della distribuzione, cit., 119. 18 Sull’origine e le ragioni della direttiva 2000/35/CE cfr. DE CRISTOFARO/DE CRISTOFARO, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Note introduttive, NLCC, 2004, 461 ss.

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Il d.lgs. 231/2002 si applica ai “contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo” (art. 2, co. 1, lett. a) 19. La nozione di imprenditore è peraltro estesa ai soggetti che esercitano “un’attività economica organizzata o una libera professione” (art. 2, co. 1, lett. c, d.lgs. 231/2002), e perciò senz’altro anche ai lavoratori autonomi e ai professionisti intellettuali 20. La disciplina prevede la decorrenza automatica degli interessi dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento, senza necessità di costituzione in mora (art. 4, co. 1, d.lgs. 231/2002). I termini di pagamento sono a loro volta determinati dal legislatore (art. 4, co. 2, d.lgs. 231/2002, con gli allungamenti previsti dal co. 5 a favore di imprese pubbliche ed enti pubblici) 21. L’allungamento contrattuale dei termini di pagamento è ammesso, ma se superiore a 60 giorni deve essere pattuito per iscritto, e non deve risultare gravemente iniquo per il creditore (art. 4, co. 3, d.lgs. 231/2002). Il saggio degli interessi moratori corrisponde alla misura degli interessi legali di mora (art. 5 d.lgs. 231/2002), che il legislatore determina (art. 2, co. 2, lett. e) attraverso una maggiorazione di otto punti percentuali rispetto al tasso di interesse applicato dalla BCE alle più recenti operazioni di rifinanziamento principali. Ne è consentita la deroga contrattuale, purché ancora una volta non risulti gravemente iniqua in danno del creditore (art. 7, co. 1, d.lgs. 231/2002). La possibilità di pattuire interessi meno elevati di quelli previsti dal legislatore rischia per la verità di indebolire la tutela del creditore, che in tali casi può fondarsi soltanto sulla clausola generale di iniquità, con conseguenti forti profili di incertezza 22. Il legislatore prevede che l’iniquità deve essere valutata “avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero” (art. 7, co. 2, d.lgs. 231/2002). Si presume iniqua la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora (art. 7, co. 3, d.lgs. 231/2002) o il risarcimento per i costi di recupero del credito (art. 7, co. 4, d.lgs. 231/2002). Le associazioni di categoria degli imprenditori possono fare accertare la grave iniquità di condizioni generali di contratto relative ai termini di pagamento ed agli interessi, ed ottenere quindi dal giudice una pronuncia inibitoria relativa alla loro utilizzazione, con eventuale ordine di pubblicazione del provvedimento (art. 8 l. 231/2002).

19

Non sembrano dunque ricomprese nella disciplina le transazioni relative a beni immobili; cfr. BOCRISTOFARO, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Sub artt. 1-2, cit., 477 ss. 20 Indipendentemente dall’esistenza di un’organizzazione di mezzi; cfr. BOLOGNINI/DE CRISTOFARO, La disciplina dei ritardi di pagamento, cit., 470 s. 21 Sui problemi di determinazione convenzionale del tempo dell’adempimento cfr. FINESSI, Contratti tra imprese e disciplina del tempus solutionis dei corrispettivi pecuniari, RDCiv, 2014, I, 818 ss. 22 Cfr. ZUCCHETTI/DE CRISTOFARO, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., 578 ss.

LOGNINI/DE

[§ 19]

SARTI – La tutela delle controparti contrattuali deboli

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IV. I contratti con i consumatori Già si è evidenziata l’esistenza di princìpi particolari, autonomi rispetto a quelli generali civilistici, applicabili alla contrattazione d’impresa nei rapporti con i consumatori. Questi princìpi riflettono in linea di massima l’esigenza di proteggere il consumatore in quanto contraente debole (v. Introduzione). La debolezza del consumatore deriva non solo da ragioni economiche, ma anche (ed anzi sempre più) da insufficiente possibilità di ponderazione e carenze di informazione in merito alle caratteristiche del contratto, dell’offerta delle imprese, e delle alternative disponibili. In particolare l’insufficiente possibilità di ponderazione delle clausole contrattuali (che al consumatore vengono il più delle volte di fatto imposte) può determinare la sua esposizione a rischi non in linea con la normale tipologia di operazione economica posta in essere. Questo problema è stato avvertito non solo a livello nazionale, ma prima ancora a livello europeo, e ha determinato l’approvazione della direttiva 93/13/CEE. Le norme di attuazione della direttiva (inizialmente introdotte attraverso la novellazione del cod. civ., agli artt. 1469-bis ss.) si ritrovano ora negli artt. 33 ss. d.lgs. 206/2005 (c.d. codice del consumo) 23, che prevedono l’inefficacia di una serie di clausole tendenti ad imporre al consumatore rischi ritenuti in contrasto con princìpi generali di corretto equilibrio del rapporto. Il problema della carenza d’informazione relativa alle caratteristiche dei prodotti o servizi delle imprese determina rischi di insufficiente ponderazione dell’opportunità di acquisto; ed inoltre ostacola la possibilità di istituire un confronto attendibile fra le diverse proposte delle imprese concorrenti. Anche questo problema è stato avvertito a livello europeo e disciplinato in numerose direttive, dalla cui attuazione è derivata la disciplina contenuta negli artt. 48 ss. c.cons., la quale stabilisce a beneficio del consumatore pervasivi diritti di informazione e, a certe condizioni, un diritto al ripensamento sulle operazioni commerciali concluse. In questo contesto si inserisce anche la direttiva 2005/29/CE (direttiva sulle pratiche commerciali sleali) 24, attuata nell’ordinamento italiano dagli artt. 18 ss. c.cons. (disciplina della quale si è già parlato), che tutela non solo la correttezza di informazione del consumatore, ma più in generale la sua libertà di scelta a fronte di indebite sollecitazioni all’acquisto 25, alterando simili pratiche le ordinarie e sane dinamiche concorrenziali.

1. Funzione e presupposti della disciplina Il problema delle carenze informative relative alle caratteristiche del contratto era stato avvertito fin dalla redazione originaria del codice civile. La codificazione del 1942 prendeva in considerazione questo problema in via generale (e non solo nei rap23

Il codice del consumo ha comunque ripreso con poche modifiche il testo dei vecchi artt. 1469-bis ss., e perciò tuttora consente di valorizzare la dottrina e giurisprudenza formatasi nel vigore delle corrispondenti norme del codice civile (v. ntt. ss.). 24 Sull’origine e lo scopo della direttiva cfr. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, 1 ss. 25 Cfr. GENOVESE, Ruolo dei divieti di pratiche commerciali scorrette e dei divieti antitrust nella protezione (diretta e indiretta della libertà di scelta) del consumatore, AIDA, 2008, 297 ss.

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porti fra imprese e consumatori) negli artt. 1341-1342, che come noto impongono la specifica sottoscrizione delle clausole predisposte da un contraente, tali da imporre alla controparte condizioni contrattuali particolarmente gravose, tipizzate dalla norma. Nelle ipotesi di contratti fra imprese e consumatori, il legislatore europeo ha previsto tecniche di tutela del contraente debole ispirate non a un principio formalistico di sottoscrizione e “conoscibilità” della clausola vessatoria, ma ad un principio sostanzialistico di invalidità di clausole squilibrate (le cd. clausole vessatorie). Questa disciplina presuppone anzitutto un contratto fra un “professionista” ed un “consumatore” (art. 33 c.cons.). La nozione di “professionista” è contenuta nell’art. 3, co. 1, lett. c, c.cons., e ricomprende “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”. Rientrano dunque nella nozione non solo gli imprenditori, ma anche i lavoratori autonomi e i rispettivi ausiliari. Vi rientrano perciò senz’altro i professionisti intellettuali: così che la disciplina delle clausole vessatorie rappresenta un interessante indice della moderna tendenza a superare la separazione storica istituita dal legislatore del 1942 fra lo statuto dell’imprenditore e quello del professionista intellettuale. La disciplina presuppone ad un tempo che il contratto sia specificamente funzionale allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o professionale. La nozione di “consumatore” è contenuta nell’art. 3, co. 1, lett. a, c.cons., e ricomprende “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Non possono quindi mai rivestire il ruolo di consumatore le persone giuridiche 1. Le persone fisiche che svolgano attività d’impresa o di lavoro autonomo possono assumere la qualità di consumatori quando stipulano per finalità estranee alla loro attività imprenditoriale o professionale (si pensi all’imprenditore che acquisti un elettrodomestico per la propria abitazione). L’opinione prevalente sembra invece negare la qualifica di consumatore a chi acquisti beni strumentali all’esercizio della propria attività, ancorché l’acquisto non costituisca oggetto specifico della professione (si pensi all’acquisto di un computer destinato ad uno studio di avvocato) 26.

In linea di principio la disciplina di protezione del consumatore riguarda solo le clausole che non siano state “oggetto di trattativa individuale” (art. 34, co. 4, c.cons.). La trattativa individuale sulla clausola dovrebbe essere sintomatica della possibilità per il consumatore di compensare il pregiudizio derivante dalla vessatorietà con il vantaggio derivante da “sconti” o miglioramenti delle condizioni di pagamento 27. La norma non può dunque certo essere letta nel senso di considerare oggetto di trattativa individuale qualsiasi

26 Cfr. G. CIAN, Il nuovo Capo XIV-bis (titolo II, Libro IV) del codice civile, sulla disciplina dei contratti con i consumatori, StI, 1996, 414; ASTONE/ALPA-PATTI, Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, 162 ss.; Cass. 23-2-2007, n. 4208, FIt, 2007, I, 2439. Uno spunto in senso analogo sembra ricavabile dalla giurisprudenza europea, sia pur in sede di interpretazione della nozione di consumatore rilevante in base alla disciplina del diritto internazionale privato; cfr. CG 20-1-2005, C-464/01, Gruber, Racc, 2005, I458. Propendono invece per una lettura ampia della nozione di consumatore GATT/BIANCA-BUSNELLI, Commentario al capo XIV-bis del codice civile, 832 ss.; AZZARO, I contratti non negoziati, Napoli, 2000, 102 ss. 27 Cfr. G. CIAN, Il nuovo Capo XIV-bis, cit., 416 s.

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clausola conoscibile dal consumatore 28. Tendenzialmente non sono oggetto di trattativa individuale le condizioni generali di contratto, per le quali tuttavia il legislatore consente al professionista di provare che questa trattativa è concretamente avvenuta (art. 34, co. 5, c.cons.).

Il legislatore non consente peraltro al consumatore di negoziare nemmeno sulla base di una trattativa individuale alcune clausole che si risolverebbero sostanzialmente in una “scommessa” sull’adempimento del professionista o sul contenuto del contratto: esse, dunque, sono considerate vessatorie (e perciò nulle) sempre, anche se in concreto sono state oggetto di una trattativa. Si tratta precisamente delle clausole che escludano la responsabilità del professionista per danni al consumatore o per inadempimento totale o parziale; o ancora che estendano gli impegni contrattuali attraverso il rinvio a clausole ulteriori di fatto non conoscibili (art. 36, co. 2, c.cons.). All’opposto il legislatore esclude in radice che possano avere carattere vessatorio le clausole attinenti all’oggetto del contratto e all’adeguatezza del corrispettivo, purché individuati in modo chiaro e comprensibile (art. 34, co. 2, c.cons.). Il giudizio di vessatorietà non può dunque estendersi alla fisiologia dell’equilibrio economico dello scambio contrattuale, che è lasciato alla valutazione dell’autonomia privata, ed è sottratto a controlli giudiziali 29. Il giudizio di vessatorietà può riguardare soltanto clausole tendenti a disciplinare profili accessori o vicende contrattuali “patologiche”, che il consumatore può eventualmente prevedere come possibili, ma che comunque determinano conseguenze non auspicate. In tali casi la disciplina delle clausole vessatorie vieta al professionista di approfittare di questi profili e di queste vicende, per realizzare vantaggi sproporzionati rispetto a quelli conseguibili attraverso un’esecuzione del contratto conforme alle attese del consumatore.

2. Le clausole vessatorie La disciplina dei contratti con i consumatori si incentra, come si è anticipato, sul principio di nullità delle clausole vessatorie. La nozione di vessatorietà è diversa e ben più ampia di quella dell’art. 1341, co. 2, c.c., e si incentra anzitutto sulla norma generale dell’art. 33, co. 1, c.cons., secondo 28 Cfr. NUZZO/BIANCA-BUSNELLI, Commentario al capo XIV-bis del codice civile: dei contratti del consumatore, 1166. Il problema dei presupposti di ricorrenza di una trattativa individuale, e dei relativi oneri probatori, è oggetto di un acceso dibattito dottrinale; cfr. RUFFOLO, Le “clausole vessatorie”, “abusive”, “inique” e la ricodificazione negli artt. 1469-bis-1469-sexies, in Clausole “vessatorie” e “abusive”, 46; RABITTI/BIANCA-BUSNELLI, Commentario al capo XIV-bis del codice civile, 1169 ss.; AZZARO, I contratti non negoziati, cit., 37 ss.; CHESSA, La trattativa nella disciplina delle clausole abusive, Torino, 2001, 29 ss.; SCARANO/ALPA-PATTI, Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, 935 ss.; MONTICELLI/CESÀRO, I contratti del consumatore, 452 ss.; MEUCCI/VETTORI, Codice del consumo, 354 ss.; PARDOLESI, Clausole vessatorie, negoziazione individuale, onere probatorio: di terre promesse ed imperialismo del “consumer law”, FIt, 2008, I, 3530. La giurisprudenza precisa al riguardo che la trattativa deve essere caratterizzata da serietà ed effettività: cfr. Cass. 23-2-2007, n. 4208, FIt, 2007, I, 2439, in motivazione 2341; Cass. 26-92008, n. 24262, FIt, 2008, I, 3528; su questi requisiti cfr. in particolare gli approfondimenti di SCARANO, op. ult. cit., 969 ss. 29 Cfr. MEUCCI/VETTORI, Codice del consumo, 346; SIRENA/ALPA-PATTI, Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, 856.

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cui si considerano vessatorie le clausole che “determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” 30. L’accertamento della vessatorietà deve avvenire in base ai criteri dell’art. 34 c.cons., tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, e fra l’altro della tipologia di bene o servizio. In generale, il significativo squilibrio dovrebbe ricorrere ogniqualvolta la clausola tenda ad attribuire al professionista apprezzabili vantaggi derivanti da profili accessori o da vicende contrattuali patologiche (ancorché indipendenti da colpa), che hanno determinato uno svolgimento del rapporto diverso da quello normale, auspicato dal consumatore. Il legislatore predispone un elenco di clausole vessatorie presunte (art. 33, co. 2, c.cons.) salvo prova contraria del professionista. Si tratta ad es. delle clausole tendenti a limitare la responsabilità del professionista per danni al consumatore o per inadempimento (nel qual caso la clausola è colpita da nullità anche in presenza di trattativa individuale, v. supra, 1); a restringere l’opponibilità di eccezioni del consumatore; ad imporre penali, trattenimenti di caparre o risarcimenti manifestamente eccessivi; a dare al professionista poteri di recesso senza preavviso, di modifica unilaterale ingiustificata delle clausole del contratto, di aumento del prezzo originariamente pattuito, di verifica unilaterale della correttezza del proprio comportamento, di determinazione di condizioni sospensive dei suoi obblighi; a prevedere meccanismi di rinnovo tacito del contratto particolarmente onerosi; ad introdurre clausole arbitrali o deroghe alla competenza del giudice del luogo di residenza o domicilio elettivo del consumatore. La disciplina di tutela dei consumatori è completata da alcuni princìpi in tema di forma e interpretazione del contratto. Dal punto di vista della forma, l’art. 35, co. 1, c.cons. prevede in via generale che le clausole dei contratti scritti siano redatte “in modo chiaro e comprensibile”. La chiarezza e comprensibilità vanno evidentemente valutate dal punto di vista delle conoscenze del consumatore. È ragionevole ritenere che l’incomprensibilità della clausola ne determini la vessatorietà e la conseguente invalidità. Dal punto di vista dei criteri interpretativi, l’art. 35, co. 2, c.cons. prevede inoltre che “in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore”.

3. I rimedi: nullità di protezione e azione inibitoria Già si è visto che le clausole vessatorie inserite nei contratti con i consumatori sono invalide. Il legislatore ha previsto qui più precisamente una particolare nullità di protezione, che “opera soltanto a vantaggio del consumatore” e “può essere rilevata d’ufficio dal giudice” (art. 36, co. 3, c.cons.). 30

Con discussa formulazione, la norma premette che lo squilibrio deve essere determinato “malgrado la buona fede”. La precisazione sembra da intendere in ultima analisi nel senso che lo squilibrio deve risultare in contrasto con la buona fede oggettiva, mentre non rileva lo stato soggettivo di conoscenza del carattere vessatorio della clausola da parte del professionista. Cfr. in proposito G. CIAN, Il nuovo Capo XIV-bis (titolo II, Libro IV) del codice civile, cit., 414 s.; BIGLIAZZI GERI/BIANCA-BUSNELLI, Commentario al capo XIV-bis del codice civile, 797 ss.; RUFFOLO, Le “clausole vessatorie”, “abusive”, “inique”, cit., 37 ss.; TROIANO/ALPA-PATTI, Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, 38 ss.; UDA/ALPA-PATTI, ibidem, 97 ss.; RIZZO/CESÀRO, I contratti del consumatore, 22 ss.; LUCCHESI/VETTORI, Codice del consumo, 226 ss. Per una ricostruzione dei diversi possibili indici sintomatici di squilibrio contrattuale cfr. TROIANO, op. ult. cit., 66 ss. Sul problema relativo alla possibilità di giustificare lo squilibrio in base all’interesse al contenimento dei costi del professionista cfr. UDA, op. ult. cit., 127 s.

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Questa forma di nullità si distingue da quella del codice civile (artt. 1418 ss.) in quanto riflette la violazione di norme previste a tutela di interessi non generali, ma privati del consumatore. Conseguentemente la nullità di protezione opera esclusivamente nell’interesse del consumatore medesimo; mentre non può essere fatta valere dal professionista (e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice nell’interesse del professionista, ma può esserlo solo nell’interesse del consumatore) 31. Coerentemente, il legislatore prevede che la dichiarazione di nullità della clausola non priva di effetti il contratto nel suo complesso (art. 36, co. 1, c.cons.), tutelando così l’interesse del consumatore a far valere l’efficacia giuridicamente vincolante del contratto “riequilibrato”. Ove questo interesse del consumatore manchi, non è peraltro da escludere che egli possa chiedere la nullità dell’intero contratto. I costi giudiziali per ottenere una dichiarazione di nullità delle clausole vessatorie rischiano tuttavia di essere notevoli, così che il consumatore spesso preferisce dare esecuzione al contratto squilibrato, pur di non sopportare spese legali. Per questa ragione il legislatore ha previsto una tutela preventiva in forma collettiva dei consumatori contro l’utilizzazione di clausole vessatorie. In particolare le associazioni dei consumatori e le stesse associazioni rappresentative dei professionisti (queste ultime evidentemente nell’interesse di chi correttamente adotti modelli contrattuali equilibrati) possono convenire con un’azione inibitoria il professionista o le associazioni di professionisti che utilizzino o raccomandino l’utilizzazione di contratti (si pensi ai modelli contrattuali predisposti da associazioni di categoria) contenenti clausole squilibrate. Attraverso l’inibitoria il giudice ordina quindi la cessazione dell’utilizzo della clausola squilibrata, sollevando i singoli consumatori dall’onere di agire successivamente in nullità. Il giudice può ordinare anche la pubblicazione del provvedimento inibitorio, per evidenziare al mercato la presenza di comportamenti scorretti da parte di alcuni professionisti.

La vessatorietà delle clausole inserite in condizioni generali di contratto o in contratti predisposti in moduli o formulari può inoltre essere accertata anche in via amministrativa da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale può applicare sanzioni pecuniarie ed ordinare la pubblicazione del provvedimento secondo le modalità ritenute più idonee ad informare i consumatori (art. 37-bis c.cons.).

4. Informazioni precontrattuali e contratti a distanza La tutela del consumatore è integrata da ulteriori norme imperative che impongono di dargli una completa informazione precontrattuale, in modo da metterlo in grado di effettuare scelte d’acquisto sufficientemente ponderate. In via generale l’art. 48 c.cons. obbliga il professionista a fornire al consumatore informazioni comprensibili in ordine alle caratteristiche dei beni, della controparte, del prezzo, delle modalità di pagamento (si pensi agli oneri per un’eventuale rateizzazione del prezzo), garanzie, durata e eventuali vincoli tecnologici (si pensi all’impossibilità di utilizzare un software su determinate apparecchiature, o all’esigenza di ricorrere a periodici aggiornamenti presso il professionista). Una tutela ulteriormente rafforzata è poi prevista per l’ipotesi di contratti a distanza (si pensi ora ai contratti proposti attraverso siti internet) e conclusi fuori dai locali commerciali (artt. 48 ss.). Questi contratti presentano particolari pericoli sotto il profilo dell’interesse alla trasparen-

31 La rilevabilità d’ufficio è imposta dalla direttiva europea; cfr. CG 27-6-2000, C-240-244/98, Océano, FIt, 2000, IV, 413.

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SEZ. IV – L’impresa nel mercato

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za del mercato (si pensi al consumatore attirato da un’offerta presentata sinteticamente in modo particolarmente allettante su un sito internet, ma che in realtà maschera ulteriori spese ed oneri, ad es. di spedizione del materiale, o di acquisto di forniture prolungate nel tempo). Il contratto deve perciò qui riconoscere al consumatore possibilità di recesso (art. 52 ss. c.cons.), e dare un’informazione completa non solo in ordine agli elementi previsti in via generale per qualsiasi contratto, ma anche relativamente alle modalità di esercizio del recesso, nonché delle spese complessive (artt. 49 ss. c.cons.). Le informazioni devono essere consegnate al consumatore su supporto cartaceo o (se il consumatore è d’accordo) altro mezzo durevole (ad esempio un supporto elettronico). Nei contratti a distanza le informazioni vanno messe a disposizione “in modo appropriato al mezzo di comunicazione a distanza” (ad esempio per via telematica) e “in un linguaggio semplice e comprensibile” (art. 51 c. cons.). Particolarmente stringenti in tal caso sono gli obblighi di informazione relativi a tempi e modalità di pagamento (così da evitare, ad esempio, che il consumatore non si renda conto di dovere pagare un servizio messo a disposizione per via telematica).

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SANTAGATA – La cooperazione tra imprenditori

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SEZIONE QUINTA

LA COOPERAZIONE TRA IMPRENDITORI SOMMARIO: § 20. La cooperazione tra imprenditori.

§ 20. LA COOPERAZIONE TRA IMPRENDITORI SOMMARIO: I. Strumenti di cooperazione ed integrazione tra imprese. – II. Le forme di cooperazione inderogabilmente “strutturate”. I consorzi. – 1. Le disposizioni generali dei consorzi. – 2. Le regole specifiche dei consorzi con attività esterna. – 3. Le società consortili. – 4. Le imprese comuni “cooperative”. – 5. Il gruppo europeo di interesse economico. – III. Le forme di cooperazione potenzialmente “flessibili”. – 1. Il contratto di rete. – 2. Le associazioni temporanee di imprese.

LETTERATURA: BORGIOLI, Consorzi e società consortili, Tr. Cicu-Messineo, 1985; CORAPI, Le associazioni temporanee di imprese, Milano, 1983; COTTINO-SARALE, Le associazioni economiche, Tr. Cottino, III, 2004; DE CICCO, Organizzazioni imprenditoriali non societarie e responsabilità, Napoli, 2012; DORIA, L’attività consortile tra interessi dei consorziati e danno ai creditori, Napoli, 2011; FRANCESCHELLI, Consorzi3, Comm. Scialoja-Branca, 1992; GIROLAMI, Il consorzio, Tr. contratti Roppo, III-1, Milano, 2014; GUGLIELMETTI, La concorrenza e i consorzi, Tr. Vassalli, 1970; LUCARELLI, Dei Consorzi, Comm. Gabrielli-Santosuosso, V, 2014; MARASÀ, Consorzi e società consortili, Torino, 1990; MASI, Il gruppo europeo di interesse economico, Torino, 1994; MINERVINI, Concorrenza e consorzi2, in Trattato di diritto civile, diretto da Grosso e Santoro Passarelli, VIII.1, Torino, 1965; MOSCO, I consorzi tra imprenditori, Milano, 1988; ID., Dei consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, Comm. Scialoja-Branca, 2017; PERONE, L’interesse consortile, Milano, 2008; R. SANTAGATA, Il gruppo paritetico, Torino, 2001; SARALE, Consorzi e società consortili, Tr. Cottino, III, 2004; SPOLIDORO, Le società consortili, Milano, 1984; VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, Tr. Galgano, IV, 1981; EAD., Le società consortili, Tr. Colombo-Portale, 8, 1992.

I. Strumenti di cooperazione ed integrazione tra imprese L’esercizio di attività imprenditoriali competitive su mercati in continua evoluzione presuppone oggi notevole diversificazione di risorse economiche e finanziarie, aggiornate competenze tecnologiche, strategie ed investimenti (ad es., per spese di marketing, pubblicità, servizi, innovazione) che un singolo imprenditore è sovente impossibilitato

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a procurarsi od effettuare isolatamente. Ciò soprattutto in un tessuto socio-economico come quello italiano prevalentemente composto di piccole e medie imprese, che quindi necessitano di strumenti di cooperazione e di reciproca integrazione. Tali sodalizi si risolvono, almeno in fase embrionale, in alleanze su base territoriale per il soddisfacimento di esigenze contingenti: l’ottenimento di un finanziamento, la partecipazione ad una gara d’appalto, la predisposizione di progetti di promozione dell’internazionalizzazione, la più proficua utilizzazione economica di invenzioni industriali o il mero disbrigo di formalità burocratiche. Se poi gli iniziali obiettivi vengono raggiunti con successo, gli embrionali sodalizi possono convertirsi in strumenti di cooperazione più solidi, dotati di un apparato organizzativo più o meno complesso. Vi è un’articolata gamma di forme di cooperazione e di integrazione tra imprese. Sul piano giuridico, gli strumenti di cooperazione trovano la propria fonte in contratti mediante i quali gli imprenditori conservano, in via di principio (e salvo qualche eccezione), la propria sostanziale autonomia giuridica ed economica; le forme di integrazione sono invece caratterizzate dall’esistenza di legami partecipativi nella proprietà dell’impresa e comportano la formazione di un’unica entità economica (gruppo di imprese) sino a giungere, in taluni casi, alla creazione di una nuova entità giuridica (fusione) nella quale confluiscono le imprese alleate. Tale distinzione assume particolare rilievo sul piano della disciplina antimonopolistica: le forme di cooperazione tra imprese possono costituire infatti intese anticoncorrenziali mentre gli strumenti di integrazione tra le stesse rappresentano fattispecie di concentrazioni. Rinviando l’analisi degli strumenti di integrazione tra imprese (gruppi, fusione tra società) ai luoghi opportuni della successiva trattazione del diritto delle società, è ora opportuno focalizzare l’attenzione sulle forme di cooperazione tra imprese su base contrattuale: esse possono catalogarsi in forme inderogabilmente “strutturate”, quali i consorzi, le società consortili e le imprese comuni (cooperative), che presuppongono necessariamente l’erezione di un apparato organizzativo funzionale ad un rapporto di collaborazione potenzialmente stabile e duraturo tra gli imprenditori; ed in forme potenzialmente “flessibili”, quali i contratti di rete e le associazioni temporanee di impresa, tendenzialmente prive di una rigida organizzazione interna e talora volte ad una cooperazione occasionale in vista del perseguimento di specifici obiettivi contingenti.

II. Le forme di cooperazione inderogabilmente “strutturate”. I consorzi Il consorzio è un contratto con il quale più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese (art. 2602) 1. Si tratta di uno strumento di coordinamento interaziendale 2. 1 Esiste una copiosa legislazione speciale in materia di consorzi, nella quale sono contemplate provvidenze di vario genere in loro favore: v., ad es., l. 240/1981 e l. 317/1991, che prevede, fra l’altro, i consorzi fidi o confidi (artt. 29 ss.), che costituiscono organismi collettivi di garanzia con la funzione di agevolare la concessione del credito alle piccole e medie imprese (in argomento, VITTORIA, I problemi giuridici dei consorzi fidi, Napoli, 1981). Da ultimo va rilevata la predilezione dell’istituto del consorzio per l’internazionalizzazione e la diffusione internazionale dei prodotti e dei servizi delle piccole e medie imprese, non-

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Gli imprenditori consorziati mirano dunque al conseguimento di un vantaggio economico diretto nell’esercizio della propria attività (c.d. mutualità consortile), di solito consistente in un risparmio di spesa o in un maggior ricavo risultante da una razionalizzazione del ciclo produttivo o distributivo: si pensi all’erogazione di servizi comuni alle imprese aderenti quali campagne pubblicitarie, gestione della contabilità, selezione e gestione del personale, dei dati o dei servizi informatici, marketing, procedure per l’internazionalizzazione, espletamento di ricerche di mercato e così via 3. È questo ciò che la legge intende per “svolgimento” di “fasi delle rispettive imprese” (ossia di qualsiasi attività utile alle stesse); la formula normativa consente al riguardo la configurazione di una pluralità di modelli consortili, caratterizzati da un grado più o meno intenso di coesione fra le imprese in relazione alle funzioni di coordinamento interaziendale in concreto assegnate dal contratto all’organizzazione comune 4. L’attuale definizione di consorzio – e, in particolare, il riferimento altresì alla “disciplina” delle fasi delle imprese – non esclude neppure che tale contratto possa tuttora assolvere (direttamente o indirettamente) anche alla diversa funzione di limitare la concorrenza tra imprenditori, che in origine caratterizzava l’istituto nel codice civile del 1942: si pensi ad un consorzio finalizzato ad una distribuzione selettiva dei prodotti di più imprese in diverse aree del territorio nazionale. Va però tenuto presente che il perseguimento di questa finalità è oggi consentito soltanto nei limiti tracciati dalla disciplina antimonopolistica, dato che questi contratti costituiscono tipici esempi di intese anticoncorrenziali, vietate, come già sappiamo, qualora “abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante” (art. 2 l. 287/1990) 5. ché per il supporto alla loro presenza nei mercati esteri anche attraverso la collaborazione ed il partenariato con imprese straniere al fine, tra l’altro, dell’innovazione dei prodotti e dei servizi commercializzati nei mercati esteri ad es. mediante marchi collettivi (art. 42, d.l. 83/2012, conv. in l. 134/2012). Peraltro, nelle trattazioni specialistiche (per tutti, CAMPOBASSO; FERRI sr., voce Consorzio (teoria gen.), EncD, IX, 1961, 371 ss.) è tradizionale l’avvertenza che i fenomeni eterogenei etichettati dal legislatore come “consorzi” non sempre possono ricondursi nell’alveo del contratto definito dall’art. 2602 c.c. A titolo esemplificativo, e per restare nei confini del diritto commerciale, ci si limita a menzionare il caso, tuttora presente nella vigente legislazione speciale, dei “consorzi di cooperative” previsti dall’art. 27, d.lgs.C.provv.St. 1577/1947 (c.d. legge Basevi), nel testo modificato dall’art. 5, l. 127/1971, che in realtà sono cooperative di secondo grado: ciò in quanto, il loro scopo non concerne una fase dell’attività d’impresa, ma consiste piuttosto nel facilitare il perseguimento delle finalità mutualistiche delle cooperative “consorziate” (e v., ad es., BONFANTE, La società cooperativa, in Tr. Cottino, 2014, 411 ss.). 2 Per una compiuta disamina dell’evoluzione dell’istituto (prima della l. 377/1976 volto esclusivamente a disciplinare ed a limitare la concorrenza tra imprese), v. BORGIOLI, Consorzi, 3 ss.; MOSCO, I consorzi, 10 ss. (ed ora, anche per le prospettive evolutive della figura, ID., Dei consorzi, 1 ss. e 23 ss.). Sottolinea il carattere del consorzio di “strumento di collaborazione generale fra imprese”, Cass. 18-3-1995, n. 3163, GIt, 1995, I, 1, 1800. 3 Un inventario delle possibili attività in BORGIOLI, Consorzi, 106 s. 4 Ma v. ora, in termini più restrittivi, MOSCO, Dei consorzi, 40 ss., che esclude che il fenomeno consortile possa ricomprendere fattispecie di integrazione verticale ed attività di direzione e coordinamento. 5 È tuttavia possibile che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato autorizzi, con proprio provvedimento, consorzi con funzione anticoncorrenziale che abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese migliore competitività sul piano internazionale grazie ad un aumento o ad un miglioramento qualitativo della produzione o della distribuzione (art. 4, co. 1, l. 287/1990).

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La disciplina del consorzio consta di una serie di disposizioni generali in tema di costituzione del sodalizio e rapporti tra quest’ultimo e gli imprenditori consorziati; vi sono poi talune regole specifiche applicabili ai soli consorzi con attività esterna, giustificate dalla loro destinazione ad operare anche con i terzi: si tratta di un peculiare regime patrimoniale, pubblicitario e contabile dell’attività imprenditoriale espletata dal consorzio con i terzi, che oggi peraltro necessiterebbe di una profonda revisione. Proprio queste regole speciali fondano la tradizionale distinzione tra consorzi con attività interna e consorzi con attività esterna. Entrambi si caratterizzano per l’erezione di un’organizzazione comune (art. 2602) che però, nei primi, è volta alla mera predisposizione di una regolamentazione convenzionale dei rapporti reciproci degli imprenditori consorziati anche al fine di verificare il corretto assolvimento degli obblighi assunti 6: esemplare il caso di un consorzio costituito per il controllo qualitativo dei prodotti delle imprese associate abilitato a sanzionare il mancato adeguamento agli standard qualitativi concordati. Nei consorzi con attività esterna, invece, tale organizzazione è preordinata non solo a questi obiettivi, ma anche (e soprattutto) a disciplinare l’attività imprenditoriale svolta dal consorzio, quale soggetto giuridico autonomo, con i terzi: è perciò altresì prevista una destinazione di beni all’attività comune, espletata dal consorzio, opponibile ai terzi. Si pensi al consorzio costituito per l’acquisto centralizzato di materie prime o di semilavorati.

1. Le disposizioni generali dei consorzi Il consorzio è costituito mediante un contratto 7 tra imprenditori (art. 2602). Parti del contratto non possono essere persone fisiche o giuridiche che, pur svolgendo attività economica, non sono qualificabili come imprenditori (agricoli o commerciali), quali i professionisti intellettuali o le società tra professionisti. La legislazione speciale ha tuttavia consentito la partecipazione a consorzi di enti pubblici, quali Università (art. 91-bis d.p.r. 382/1980), ed enti privati di ricerca 8.

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Ciò non significa però che precipua ed esclusiva funzione dei consorzi con attività interna debba essere la disciplina della concorrenza fra imprenditori, come invece ritiene, pur a seguito della riforma del 1976, BORGIOLI, Consorzi, 73. Convince piuttosto il criterio di distinzione tra consorzi esterni ed interni proposto da PREITE, La destinazione dei risultati nei contratti associativi, Milano, 1988, 378 s., testo e nota 85, e puntato sul carattere imprenditoriale dell’attività con i terzi, sussistente nei primi ed assente nei secondi. 7 È vero che il codice civile tuttora prevede anche i consorzi obbligatori, la cui costituzione è imposta con provvedimento dell’autorità governativa ad esercenti lo stesso ramo o rami similari di attività economica. La norma non ha però mai trovato attuazione (art. 111 disp. att.), a causa della soppressione dell’ordinamento corporativo. Talune leggi speciali hanno tuttavia istituito i c.d. consorzi coattivi, che hanno natura di enti pubblici. 8 Né mancano peraltro proposte, de iure condendo, di intervenire direttamente sull’art. 2602, concedendo anche a non imprenditori la facoltà di una partecipazione in misura non prevalente al consorzio, pur con una limitazione dei voti complessivamente attribuibili, che non dovrebbero superare il terzo dei voti complessivi.

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Il contratto di consorzio deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità 9 e contenere una serie di indicazioni, delle quali possono però considerarsi essenziali soltanto l’oggetto e gli obblighi assunti dai consorziati (ad es., non vendere o non comprare se non tramite il consorzio) ed i contributi da essi dovuti, di regola costituiti da versamenti iniziali (conferimenti) e periodici, normalmente fondamentali per l’operatività dell’organizzazione 10. All’assenza degli altri dati (durata, attribuzioni e poteri degli organi consortili, condizioni di ammissione di nuovi consorziati, casi di recesso ed esclusione e le eventuali sanzioni per l’inadempimento degli obblighi dei consorziati: art. 2603, co. 2) può infatti rimediarsi attraverso il ricorso ai princìpi generali o, nel caso della durata, a specifiche norme suppletive 11. In particolare, in mancanza di (una) determinazione diversa circa la durata del contratto di consorzio, questo è valido per dieci anni (art. 2604). Prima della l. 377/1976, il termine decennale segnava invece la durata massima del consorzio ed è palese la stretta connessione di questa modifica con la funzione di cooperazione interaziendale svolta ora dal consorzio (anche) interno: la previsione di una durata del contratto tendenzialmente illimitata favorisce infatti investimenti ingenti, proficui solo se valorizzati per un lungo periodo e, di riflesso, l’allestimento di organizzazioni di mezzi più impegnative e complesse 12.

Connotato essenziale del consorzio fra imprenditori è la presenza di un’organizzazione comune per il compimento degli atti necessari per l’esecuzione del programma consortile. La sua scarna disciplina fissa poche regole derogabili, lasciando libero campo all’autonomia privata (art. 2603, co. 2, n. 4); necessario è in ogni caso che il contratto non si esaurisca nella fissazione di obblighi reciproci tra i partecipanti, ma dia vita ad un apparato destinato a curare la fase esecutiva del contratto stesso (non sarebbe consorzio, pertanto, il contratto tra cinque imprenditori con sede in Regioni diverse, in virtù del quale ciascuno si obbligasse semplicemente a commerciare i pro9 Ciò al fine di assicurare certezza sul contenuto di un contratto che istituisce una rilevante organizzazione. Non si ritiene comunque necessaria la forma dell’atto pubblico (e cfr., sul punto, BORGIOLI, Consorzi, 232; VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 361; MOSCO, Dei consorzi, 75 s.). 10 Sulla disciplina dei contributi consortili e sulla possibilità di applicare ad essi la disciplina delle società personali, v. per tutti, con contrapposto orientamento, BORGIOLI, Consorzi, 300 ss. (favorevole) e VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 374 ss. (contraria). 11 Se oggetto del consorzio è il contingentamento della produzione o degli scambi, il contratto deve inoltre stabilire le quote di ciascun consorziato o i criteri per la loro determinazione (art. 2603, co. 3). 12 La regola in tema di durata del consorzio costituisce una profonda deroga rispetto alla disciplina generale dei patti limitativi della concorrenza la cui durata massima è invece limitata a cinque anni (art. 2596). E la dottrina prevalente esclude che l’art. 2604 possa applicarsi anche ai consorzi anticoncorrenziali (cfr., fra gli altri, BORGIOLI, Consorzi, 247 s.; MOSCO, I consorzi, 148 ss.; VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 365; ma v. MOSCO, Dei consorzi, 98 s.), tuttavia con qualche forzatura, attesa l’assenza di una esplicita deroga e soprattutto la reale difficoltà di una netta distinzione fra consorzi schiettamente anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione interaziendali (così, CAMPOBASSO). D’altronde, la presenza di un’organizzazione comune determina un’incidenza del consorzio sulla libertà d’iniziativa economica sostanzialmente diversa rispetto a quella derivante da un patto anticoncorrenziale (così, FERRI sr., voce Consorzio, 374). È sicuramente possibile una proroga del contratto di consorzio, deliberata prima della scadenza del contratto a norma dell’art. 2607. Cfr., ad es., GIROLAMI, I consorzi, 1152 s.

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pri prodotti solo all’interno della propria Regione). Ciò vale, va ribadito, tanto per i consorzi con attività esterna, quanto per quelli con attività meramente interna. In questi ultimi, ad es. nel caso di consorzio costituito per curare in forma accentrata la raccolta e l’inoltro ai singoli consorziati delle richieste di prenotazione presso i rispettivi alberghi, occorrerà la presenza di una struttura deputata a gestire i servizi informativi e di trasmissione delle richieste. Nei consorzi con attività esterna (tale sarebbe quello cui fosse affidato il compito di gestire un locale per la vendita dei prodotti alimentari dei consorziati), la necessità dell’apparato organizzativo si fa ancora più evidente, occorrendo una struttura deputata a compiere atti in nome del consorzio. Il modello legale prevede una struttura fondata sull’articolazione in un organo deliberativo (art. 2606) e in un organo esecutivo (art. 2608). Poiché d’altra parte la disciplina è derogabile e organizzazione si crea anche in presenza di un semplice collegio di mandatari che espleta un’attività comune unitariamente riferibile al consorzio, nulla impedisce che questo venga dotato di un unico organo con funzioni deliberative ed esecutive 13.

L’organo deliberativo è composto da tutti i consorziati ed è retto dal principio maggioritario, posto che, se il contratto di consorzio non dispone diversamente, le deliberazioni attuative dell’oggetto del contratto sono adottate “col voto favorevole della maggioranza dei consorziati” (art. 2606, co. 1). Nel silenzio della legge e del contratto, si discute se la maggioranza debba calcolarsi per teste ovvero per quote d’interesse. Indici letterali e sistematici militano, tuttavia, nel senso che sussiste un implicito criterio suppletivo di computo della maggioranza per teste. Emblematico l’esplicito riferimento alla “maggioranza dei consorziati” 14. A ciò aggiungasi, sul piano sistematico, che il consorziato non costituisce il diretto termine di riferimento del risultato dell’attività del consorzio, mirando costui a soddisfare un mero interesse allo svolgimento in comune di determinate fasi della propria attività imprenditoriale. Il voto capitario è comunque nei consorzi, diversamente dalle cooperative, derogabile dalle parti. È controverso anche il procedimento per l’imputazione delle decisioni comuni al consorzio. L’art. 2606 qualifica “deliberazioni consortili” gli atti finalizzati al conseguimento dell’oggetto del sodalizio, così lasciando presumere la sottesa presenza di un organo deliberativo che opera secondo il metodo collegiale. Indicazioni dello stesso segno provengo-

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Nello stesso senso, in ragione dell’ampia autonomia riconosciuta dal legislatore, FERRI jr., voce Consorzio, 376; MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 82 e 84; R. SANTAGATA, Il gruppo, 129. Ritengono invece inderogabili i due organi: BORGIOLI, Consorzi, 314, 317 ss. e 319; VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 397-398 (negando che all’assemblea possa essere attribuita la competenza gestoria) e 409; MOSCO, I consorzi, 108 ss. (e più recentemente in Dei consorzi, 49 ss.). 14 Enfatizzato da MOSCO, I consorzi, 181 (e in Dei consorzi, 108). A favore dell’operatività del voto capitario nel silenzio del contratto di consorzio, si esprime la dottrina largamente prevalente (oltre a Mosco v. infatti GUGLIELMETTI, La concorrenza e i consorzi, 338; MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 86; R. SANTAGATA, Il gruppo, 156 ss.). Ma cfr., BORGIOLI, Consorzi, 326, secondo il quale il criterio di computo della maggioranza andrebbe stabilito nel caso singolo, tenendo conto della valutazione che le parti hanno dato del proprio interesse partecipativo in sede contrattuale. La tesi però non convince perché se le parti si sono limitate a quantificare diversamente le rispettive partecipazioni, tacendo in merito alla determinazione di un loro differente peso nel processo di formazione della volontà, logica vuole presumere un loro “interesse paritetico” al servizio offerto dal consorzio.

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no, del resto, dal co. 2 della norma testé menzionata, che, nel fissare il dies a quo per la decorrenza del termine di trenta giorni (a pena di decadenza 15) per l’impugnativa della deliberazione consortile da parte dei consorziati “assenti” (oltreché, deve ritenersi, dissenzienti ed astenuti), chiaramente presuppone l’esistenza di un’adunanza nella quale le delibere vengono assunte 16.

L’organo esecutivo del consorzio è composto dalle persone preposte dai consorziati alla direzione del sodalizio, per le quali è previsto – a garanzia anche dei terzi nei consorzi con attività esterna – un embrionale regime di responsabilità, che si esaurisce nel richiamo delle regole del mandato in caso di compimento di atti di gestione pregiudizievoli per i consorziati e (nei consorzi con attività esterna) dei terzi 17. Tale organo deve anche controllare l’esatto adempimento delle obbligazioni assunte dai consorziati (compreso il versamento dei contributi 18). Le modificazioni del contratto di consorzio devono essere fatte per iscritto a pena di nullità (in ossequio alla forma scritta ad substantiam richiesta per il contratto di consorzio) e decise all’unanimità, se non è convenuto diversamente (art. 2607). Fra le modificazioni non rientrano, in via di principio, le variazioni dei consorziati, dato che 15

Per il Trib. Cassino, 15-7-1999, Soc, 2000, 65, con nota di DE ANGELIS. Circoscrive la legittimazione ad impugnare le delibere consortili ai consorziati dissenzienti ed assenti, Cass. 16-11-1983, n. 6822, GIt, 1984, I, 1, 1296. Nel senso che la legittimazione spetta anche agli organi consortili previsti dal contratto, MOSCO, Dei consorzi, 50, nt. 88. 16 Così, MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 86 s. (che, sottolineando le garanzie di ponderazione del metodo assembleare, lo reputa necessario anche per le modifiche del contratto da adottarsi all’unanimità); più di recente, BORGIOLI, Consorzi, 315 ss.; MARASÀ, Consorzi, 65 ss. e SARALE, Consorzi, 503 ss. (che giungono però a diversa conclusione per le decisioni ex art. 2607); R. SANTAGATA, Il gruppo, 159 ss.; VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 395 ss. Diversamente, però, GUGLIELMETTI, La concorrenza e i consorzi, 338; DE ANGELIS, Appunti sulla responsabilità patrimoniale nei consorzi con attività esterna, RSoc, 1983, 1403 s., testo e nt. 21; LUCARELLI, Comm. Gabrielli-Santosuosso, art. 2606, 714; nonché, in giurisprudenza, la risalente Cass. 27-6-1953, n. 1991, RDInd, 1954, II, 217; e la più recente App. Torino, 11-10-1993, Imp, 1993, 2925. V. però, nel senso dell’inapplicabilità ai consorzi dell’art. 2378, Trib. Matera, 10-11-2001, Soc, 2002, 711, con nota di BONFANTE. 17 La dottrina (FRANCESCHELLI, Consorzi, 146; MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 84; MOSCO, Dei consorzi, 130 s. e, da ultimo, PERONE, L’interesse, 203 ss. e DORIA, L’attività, 139 ss.) esclude che i soggetti preposti all’organo consortile siano qualificabili come meri mandatari, ancorché il riferimento al mandato, contenuto nell’art. 2608, sia comunque necessario per integrare la scarna disciplina dei rapporti obbligatori tra consorziati e organi direttivi del consorzio. Ma v. ora DORIA, L’attività, 101 ss. e 150 ss., che sottolinea il dovere degli amministratori di predisporre le misure idonee a garantire la stabilità patrimoniale del consorzio proponendo il ricorso anche ad indici di solvibilità e liquidità (l’a. peraltro configura anche una responsabilità per danno da illecito gestorio del singolo consorziato in applicazione analogica dell’art. 2476, co. 7: spec. p. 186 ss.). La natura del rapporto di amministrazione nei consorzi conduce spesso la giurisprudenza ad escludere (del tutto pacificamente) l’applicabilità ai consorzi non costituiti in forma societaria del controllo giudiziario sulla gestione ai sensi dell’art. 2409 (App. Salerno, 17-12-2007, FIt, 2008, I, 2650; Trib. Trani, 4-6-2003, Soc, 2004, 199, con nota di PAOLUCCI; Trib. Napoli, 16-11-1999, FNap, 2000, 51; nonché i due decreti del Trib. Roma, 5-6-1995, FIt, 1996, I, 3799 e 22-5-1995, DFall, 1996, I, 902, con nota critica di GRANZOTTO). 18 Non manca chi esclude che l’organo di controllo debba altresì accertare l’adempimento dell’obbligo delle imprese di versare i contributi consortili, circoscrivendo la verifica al solo scopo assegnato dalle parti al consorzio nella fattispecie concreta (così, VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 364). Ma la formula adoperata dal legislatore – “esatto adempimento delle obbligazioni assunte” – induce a ricomprendere nei suoi doveri anche questo profilo.

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nel consorzio assume rilievo non già la personalità dell’aderente, bensì le caratteristiche e l’àmbito produttivo in cui opera la sua impresa 19; il contratto è perciò tendenzialmente aperto all’adesione di tutti gli imprenditori in possesso dei requisiti di ammissione convenzionalmente stabiliti (art. 2603, co. 2, n. 5): lo attesta anche l’art. 2610 che, in caso di trasferimento d’azienda, prevede, salvo patto contrario, il subingresso dell’acquirente nel contratto di consorzio 20. Per converso, se non sono esplicitamente previste le “condizioni di ammissione di nuovi consorziati”, la volontà delle parti deve intendersi nel senso che il sodalizio ha struttura chiusa, sicché l’ingresso di nuovi membri soggiace alla regola del consenso unanime dei contraenti (art. 2607). Come per le società, anche la disciplina generale del consorzio prevede cause di scioglimento del contratto e della singola partecipazione dei consorziati. Il contratto di consorzio si scioglie per il decorso del termine di durata, per il conseguimento dell’oggetto o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, o in seguito ad una decisione unanime dei consorziati o ad una loro delibera maggioritaria se sussiste una giusta causa. Resta salva la possibilità di prevedere nel contratto ulteriori cause di scioglimento. Lo scioglimento della singola partecipazione può essere originato dalla volontà del consorziato (recesso) o dalla decisione degli altri consorziati (esclusione). Il recesso e l’esclusione sono possibili nei casi previsti dal contratto (art. 2603, co. 2, n. 6), ai quali deve aggiungersi almeno la perdita della qualità di imprenditore che costituisce requisito essenziale di partecipazione al consorzio 21. L’esclusione del consorziato costituisce, di regola, la tipica sanzione prevista per l’inadempimento degli obblighi consortili (art. 2603, co. 2, n. 7) 22. Peculiare è la disciplina degli effetti del recesso e dell’esclusione, in quanto è disposto che la quota di partecipazione del consorziato receduto o escluso si accresca proporzionalmente a quella degli altri (art. 2609). Ed è al riguardo controverso se oggetto dell’accrescimento a favore degli altri consorziati sia il solo complesso di diritti ed obblighi inerenti alla fase del ciclo produttivo gestita dal consorzio o anche la quota di partecipazione del consorziato al patrimonio del consorzio, in quest’ultimo caso dovendosi evidentemente escludere la liquidazione della quota a favore del consorziato receduto o escluso 23.

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Così, BORGIOLI, Consorzi, 470; VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 393; ma diversamente, FERRI, per il quale l’intuitus personae deve riferirsi, nei consorzi, non alle capacità personali ma all’attività professionale del contraente; GIROLAMI, I consorzi, 1158; Cass., 29-6-1981, n. 4208. 20 Del resto, un indizio a favore di questa impostazione proposta nel testo può trarsi altresì dal disposto dell’art. 2610, co. 2, là dove contempla la possibilità di “deliberare”, entro un mese dalla notizia dell’avvenuto trasferimento d’azienda per atto tra vivi, l’esclusione dell’acquirente dell’azienda. Si è inteso così chiaramente richiamare la disciplina legale delle deliberazioni consortili. 21 Può così dubitarsi che sussista un recesso per giusti motivi ove il contratto taccia in proposito. Per la liceità di una clausola che consenta il recesso ad nutum, cfr. VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 384, nt. 83. 22 Cfr. Trib. Roma, 30-4-2015, F1, 2015, I, 4043, che ammette la possibilità di far riferimento alla “grave inadempienza” ai fini dell’esclusione. 23 Nel primo senso è orientata la dottrina prevalente (e cfr., anche per riferimenti, BORGIOLI, Consorzi, 461 ss. e, da ultimo, RESCIGNO, Recesso dal consorzio e diritto alla quota, RDCiv, 2012, II, 415 ss.) e la

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2. Le regole specifiche dei consorzi con attività esterna I consorzi con attività esterna costituiscono, come si è detto, autonomi centri di imputazione dotati di soggettività giuridica. Essi acquistano la qualità di imprenditori commerciali (salvo che si tratti di consorzi tra imprenditori agricoli, in tal caso estendendosi al consorzio la natura agricola dell’attività), esercitando un’attività ausiliaria (art. 2195, co. 1, n. 5) consistente nella disciplina o nello svolgimento di fasi delle imprese consorziate. I consorzi con attività esterna sono dunque esposti al fallimento 24. Si pensi ai consorzi tra gestori di impianti di risalita finalizzati a consentire agli sciatori la fruizione dei servizi di un intero comprensorio sciistico, adeguatamente manutenuto, con l’acquisto di un unico skipass. La soggettività dei consorzi con attività esterna è consacrata dall’istituzione di un ufficio destinato a svolgere attività con i terzi e dalla iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese di un estratto del contratto contenente, tra l’altro, indicazioni concernenti: oggetto del consorzio, sede dell’ufficio comune, generalità dei consorziati, durata ed indicazione delle persone cui è attribuita la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio ed i rispettivi poteri 25. Ad analoga pubblicità legale è sottoposta ogni modificazione dell’accordo (art. 2612). I consorzi con attività esterna possono essere convenuti in giudizio in persona di coloro ai quali il contratto attribuisce la presidenza o la direzione, anche se la rappresentanza è attribuita ad altre persone (artt. 2612, co. 2, n. 4 e 2613).

più risalente giurisprudenza pronunciatasi sul punto (App. Milano, 5-12-1975, DFall, 1976, II, 111). Ma altra parte della dottrina ed una giurisprudenza più recente (App. Venezia, 22-3-2011 e Trib. Verona, 2110-2005, sintetizzate in RDCiv, 2012, II, 415 s.), pur non ritenendo l’art. 2609 ostativo alla liquidazione della quota, sono propense ad applicare, nel silenzio del contratto, l’art. 37 in tema di associazioni non riconosciute che esclude la liquidazione della quota al consorziato uscente. Il che non sembra corretto, oltreché per la non casuale diversa formulazione degli artt. 37 e 2614, perché il consorziato persegue, con l’adesione al consorzio, pur sempre uno scopo egoistico e non ideale come l’associato (e v. anche SARALE, Consorzi, 521 s., anche per la critica alla diversa tesi di MOSCO, I consorzi, 213 s., ribadita in Dei consorsi, 144 s.; e da ultimo Cons.St. 8-10-2008, n. 4952, che applica l’art. 2609 ai soli consorzi di contingentamento). In sintonia con princìpi già desumibili dalla disciplina del mandato collettivo di cui all’art. 1726, l’art. 2609, co. 2, prevede che il mandato conferito dai consorziati per l’attuazione degli scopi del consorzio, ancorché attribuito con unico atto, cessa nei confronti del consorziato receduto o escluso. Del resto, il recesso e l’esclusione dal contratto di consorzio ben potrebbero integrare gli estremi della “giusta causa” di revoca del mandato collettivo. 24 Così, Trib. Catania, 14-7-1998, GComm, 2000, II, 47; Trib. Ancona, 10-1-1992, DFall, 1992, II, 338; e soprattutto Trib. Milano, 5-2-1996, FIt, 1996, I, 2245; nega tuttavia il fallimento del consorzio, Trib. Perugia, 6-3-1996, ibidem. In ogni caso, in giurisprudenza si esclude sia che il fallimento del consorzio possa estendersi ai singoli consorziati illimitatamente responsabili (Trib. Prato, 13-11-2010, ined.), sia la sussistenza di una legittimazione del curatore ad agire in responsabilità nei confronti degli amministratori del consorzio (Cass. 3-3-2010, n. 13465, RDSoc, 2011, 397, con nota critica di CUOMO). Cfr., in dottrina, DE CICCO, Organizzazioni, 273 ss., ma diversamente orientato, su entrambi questi punti, DORIA, Il fallimento del consorzio, DGiur, 2008, 39 ss. e 49. 25 L’osservanza di queste forme di pubblicità mal si concilia con l’interesse degli imprenditori a mantenere celata agli occhi dei terzi l’esistenza di rapporti di cooperazione (cfr. BORGIOLI, Consorzi, 1 e 140). Dall’art. 2612 si evince chiaramente, invece, che il consorzio interno, poiché non costituisce autonomo soggetto di diritto, non è tenuto all’iscrizione nel registro delle imprese. Fra le rare pronunce giurisprudenziali sul punto, v. Trib. Firenze, 8-10-1966, GTosc, 1966, 929; Trib. Messina, 21-9-1982, VNot, 1984, 1000.

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I consorzi con attività esterna godono di un regime di autonomia patrimoniale. I contributi dei consorziati – consistenti in versamenti in danaro e/o nell’apprestamento di mezzi strumentali per il perseguimento dello scopo comune – e i beni acquistati con questi confluiscono in un patrimonio autonomo denominato fondo consortile del quale, per l’intera durata del consorzio, non può essere chiesta la divisione dai consorziati; né i loro creditori particolari possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo (art. 2614), che costituisce la garanzia principale dei creditori del consorzio. Del resto, gli obblighi assunti ed i contributi dovuti dai consorziati devono risultare dal contratto di consorzio (art. 2603, n. 3). Corollario dell’autonomia patrimoniale è poi un particolare regime di responsabilità verso i terzi delle obbligazioni consortili. Anzitutto, per le obbligazioni assunte in nome del consorzio da suoi rappresentanti, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo consortile. È dunque prevista l’esclusiva responsabilità del consorzio 26 per le obbligazioni attinenti alle operazioni strettamente funzionali alla promozione ed al coordinamento dell’attività svolta in comune (art. 2615, co. 1): sono queste le “spese generali” necessarie per l’esistenza del consorzio, quali gli oneri di funzionamento degli organi consortili e degli impianti con i correlativi costi di gestione, spese per i servizi, per il personale nonché per l’attività di promozione posta in essere dal consorzio nell’interesse comune dei consorziati 27. La preferenza per un’interpretazione della norma così ristretta, non unanimemente condivisa 28, si giustifica soprattutto per l’esigenza di offrire ai terzi adeguata protezione. La disciplina del consorzio non è invero idonea a salvaguardare appieno la posizione dei creditori, atteso il difetto di un regime a tutela dell’integrità del fondo consortile oltreché di disposizioni inerenti la sua consistenza minima nonché l’approvazione della situazione patrimoniale, volte a rendere i terzi consapevoli dell’effettiva consistenza del patrimonio comune 29. Unica garanzia per i terzi è rappresentata dal regime di responsabilità penale 26 L’originaria formulazione dell’art. 2615, prima della modifica intervenuta con la l. 377/1976, così recitava: “Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dalle persone che ne hanno la rappresentanza, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo consortile. Per le obbligazioni stesse rispondono inoltre illimitatamente e solidalmente le persone che hanno agito in nome del consorzio […]”. Tale regime di responsabilità si rivelava sostanzialmente identico a quello previsto, ancora oggi, per le associazioni non riconosciute dall’art. 38 (come esattamente notava MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 95). 27 Tali obbligazioni sono definite “schiettamente consortili” (VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 418; cfr. anche, da ultimo, PERONE, L’interesse, 226 s.; DE CICCO, Organizzazioni, 172 ss., che valorizza le peculiarità del fondo consortile rispetto al capitale sociale anche al fine di evitare di circoscrivere a tali obbligazioni la responsabilità esclusiva del fondo consortile). E v., in giurisprudenza, Cass. 16-7-1979, n. 4130, GComm, 1980, I, 179, con nota di VOLPE PUTZOLU; Trib. Napoli, 26-6-2000, ivi, 2002, II, 641. 28 E vedi, in particolare, MOSCO, Dei consorzi, 178 ss. e 189; SARALE, Consorzi, 535 e, in una diversa prospettiva, DE ANGELIS, Appunti, cit., 1411 s. e 1431 s., che ritiene applicabile l’art. 2615, co. 2, anche per le obbligazioni assunte per conto della generalità dei consorziati, da farsi rientrare invece, a mio avviso, nel regime previsto dal co. 1 (per una puntuale replica, v. BORGIOLI, Consorzi, 374; nonché Cass. 167-1979, n. 4130, cit.). 29 Cfr. soprattutto le notazioni critiche di FERRI sr., Consorzi e società consortili: ancora una modificazione occulta del codice civile, RDComm, 1976, I, 130, riprese e sviluppate da MINERVINI, La nuova disciplina, GComm, 1978, I, 312 s. Per un ridimensionamento di tali perplessità, tuttavia, BORGIOLI, Consorzi,

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degli amministratori del consorzio (artt. 2608 e 2615-bis, in correlazione agli artt. 2621, n. 1 e 2626).

Le obbligazioni assunte invece dagli organi del consorzio in nome dello stesso, ma per conto di singoli consorziati (si pensi all’acquisto di materie prime necessarie per l’esercizio dell’attività di una delle imprese consorziate) sono giuridicamente imputabili solo a costoro 30, con l’aggiunta di una responsabilità sussidiaria, a mero titolo di garanzia, del fondo consortile (art. 2615, co. 2) 31. Sicché, se il consorzio è costretto a pagare, gli organi consortili potranno esercitare azione di rivalsa per l’intera somma pagata nei confronti del consorziato interessato (c.d. solidarietà passiva disuguale). L’art. 2615, co. 2, oltre a costituire il consorzio garante ex lege per le obbligazioni assunte dai suoi organi “per conto” di singoli consorziati, prevede poi, per il caso di insolvenza di questo, la ripartizione del debito dell’insolvente 32 fra tutti gli associati in proporzione delle rispettive quote. Questa regola, elevando la generalità dei consorziati a garanti in via di regresso del consorziato “per conto” del quale l’obbligazione è stata assunta, rappresenta evidente co-

366 ss.; DE CICCO, Organizzazioni, 175 s., nonché il recente tentativo di valorizzare le responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori compiuto da DORIA, L’attività, 161 ss., che dal loro diritto di opposizione nella trasformazione eterogenea desume (con qualche forzatura) anche il dovere gestorio di compiere atti congeniali allo scopo consortile. 30 E deve reputarsi sufficiente, per invocare altresì la responsabilità illimitata del consorziato, individuare l’imprenditore nel cui interesse è stata compiuta l’operazione, non essendo affatto necessaria l’indicazione del nome (in questo senso, CAMPOBASSO; in giurisprudenza, Cass. 21-2-2006, n. 3664; Cass. 16-3-2001, n. 3829; Cass. 27-9-1997, n. 9509, Giust civ, 1998, I, 437; Cass. 27-11-1986, n. 6993; Cass. 167-1979, n. 4130). Ma nel senso che l’art. 2615, co. 2, non trovi applicazione quando l’operazione è stata compiuta in nome e per conto del singolo consorziato in base a procura conferita al direttore del consorzio o quando il consorziato ha stipulato direttamente il contratto con il terzo pur avvalendosi dell’intermediazione del consorzio è orientata la dottrina prevalente (e v., MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 85 e MARASÀ, Consorzi, 81 ss.). 31 La ragione giustificativa di tale responsabilità solidale (la cui sussidiariarietà, inizialmente argomentata da CAMPOBASSO, Coobbligazione cambiaria e solidarietà disuguale, Napoli, 1974, 278 ss., è ora non persuasivamente criticata da DORIA, L’attività, 65, nt. 20) del fondo consortile è stata individuata in talune limitazioni del terzo contraente determinate dall’esistenza stessa del consorzio. Costui non sarebbe in grado, infatti, “di scegliere tra i consorziati il contraente che preferisca” e che possa offrirgli le migliori garanzie, dovendo necessariamente accettare quale controparte l’imprenditore indicato dagli organi del consorzio (FERRI sr., voce Consorzio, 380). 32 Non è chiaro se la norma si riferisca qui all’insolvenza del solo consorziato “per conto” del quale è stata assunta l’obbligazione ovvero di entrambi i debitori solidali (consorziato interessato e consorzio). A favore del primo capo dell’alternativa deporrebbe la mancata riproduzione, nel testo definitivo della disposizione, del riferimento al caso di insolvenza “di un consorziato”. Tuttavia tale omessa specificazione comporta, a mio avviso, che la norma possa divenire operativa in entrambe le seguenti ipotesi: a) nel caso (presupposto da MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 97) in cui ad adempiere l’obbligazione sia stato il consorzio col suo fondo che, agendo in rivalsa nei confronti del consorziato interessato, abbia riscontrato la sua insolvenza; b) nel caso in cui l’obbligazione non sia stata invece adempiuta né dal consorzio col suo fondo né dal consorziato interessato (GUGLIELMETTI, La concorrenza e i consorzi, 380; MOSCO, Dei consorzi, 198 s.): in tale evenienza, la norma in esame obbliga gli altri consorziati a versare al creditore agente pro quota quanto necessario per l’adempimento.

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rollario della mutualità consortile 33. La portata di questa garanzia di secondo grado è circoscritta alla regolamentazione dei rapporti interni fra i consorziati, nella prospettiva di ripartire fra costoro quanto il consorzio è stato costretto a pagare in luogo del consorziato interessato, rivelatosi insolvente. Peraltro, l’obbligazione sussidiaria degli altri consorziati è meno gravosa rispetto a quella del consorzio, giacché copre non già il puro e semplice inadempimento del consorziato interessato, bensì una circostanza particolarmente qualificata dello stato patrimoniale (insolvenza) sia di quest’ultimo, che del consorzio medesimo. Vi è infine una regola contabile. Le persone che hanno la direzione del consorzio devono redigere, entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio, una situazione patrimoniale in conformità delle regole relative al bilancio di società per azioni (art. 2615-bis) 34.

3. Le società consortili Gli scopi tipici del contratto di consorzio di coordinamento interaziendale possono costituire anche l’oggetto sociale di una società consortile. Del resto, la produzione di servizi ausiliari alle imprese dei soci – si pensi all’organizzazione di una struttura per l’acquisto in comune di materie prime o di una piattaforma per la distribuzione dei prodotti su specifici mercati internazionali – è certamente suscettibile di costituire oggetto di esercizio in comune di attività economica (art. 2247). Gli imprenditori che vogliano coordinare e accentrare lo svolgimento di una fase delle rispettive imprese possono dunque scegliere tra la costituzione di un consorzio o di una società. Nell’estendere le disposizioni in materia di controlli governativi sui consorzi (peraltro mai attuate ed ormai inapplicabili per effetto dell’abrogazione dell’ordinamento corporativo e del contrasto con i princìpi costituzionali) anche alle “società che si costituiscono per raggiungere gli scopi” tipici del consorzio, l’art. 2620 contempla, oltreché le società consortili in senso stretto (in cui il consorzio stesso è costituito sotto forma di società), sulle quali ci soffermiamo in questo paragrafo, le società organo di consorzio: esse esercitano la funzione di ufficio esecutivo del consorzio, anche con compiti di gestione, arbitraggio ed assistenza dei consorziati 35. Si pensi ad una società di management specializzata nella definizione di piani strategici.

L’art. 2615-ter consente infatti la costituzione di società consortili in tutti i tipi di società di persone e di capitali, esclusa la società semplice 36. L’art. 2538, co. 3, per33

E cfr., MARASÀ, Consorzi, 84, ritenendo gli altri consorziati non già responsabili direttamente nei confronti dei terzi, ma unicamente obbligati ex art. 2615, co. 2, a reintegrare il fondo consortile in proporzione delle loro quote. 34 Per dettagliate informazioni sulla situazione patrimoniale dei consorzi (da assimilarsi, secondo l’opinione preferibile, al bilancio delle società) si rinvia a BORGIOLI, Consorzi, 405 ss. ed a MOSCO, Dei consorzi, 201 ss., che ne sostiene la necessaria approvazione dell’assemblea dei consorziati. 35 Su questa figura, FRANCESCHELLI, Consorzi, 201; MINERVINI, Concorrenza e consorzi, 100; MARASÀ, Consorzi, 89 s. 36 Preclusione le cui motivazioni sono controverse, talora rimarcandosi la natura commerciale dell’attività del consorzio, talaltra ponendo l’accento sull’esigenza di evitare elusioni degli obblighi di pubblicità previsti per i consorzi con attività esterna dall’art. 2612 (v., ad es., BORGIOLI, Consorzi, 150; MOSCO, I consorzi, 288 s. (ed ora in Dei consorzi, 232 s.); VOLPE PUTZOLU, Le società consortili, 277): esigenza oggi non più attuale, stante l’estensione del regime di pubblicità legale alle società semplici che esercitano attività agricola (art. 2, d.lgs. 228/2001).

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mette altresì la costituzione di società consortili cooperative, i cui “soci realizzano lo scopo mutualistico attraverso l’integrazione delle rispettive imprese o di talune fasi di esse” 37. Restano tuttavia irrisolti una serie di interrogativi sulla disciplina applicabile alle società consortili e, a monte, sulla stessa identificazione dei contenuti dello scopo-fine consortile. Cominciando da quest’ultimo profilo, va sottolineato che i caratteri tipici dello scopo consortile possono ricavarsi dalla stessa nozione di consorzio declinata dall’art. 2602. In particolare, lo scopo consortile è qualificato: sul versante soggettivo, dalla necessaria qualità di imprenditori dei consorziati; sul piano oggettivo, dal carattere ausiliario dell’attività svolta dall’impresa consortile rispetto all’attività esercitata dai singoli consorziati che, con la stipulazione del contratto di consorzio, mirano appunto all’integrazione delle rispettive imprese o di talune loro fasi. La necessaria qualità di imprenditori dei consorziati comporta che il loro intento sia il perseguimento di un vantaggio patrimoniale diretto consistente in un risparmio di spesa (si pensi alla manutenzione degli impianti o alla distribuzione dei beni e servizi prodotti) oppure in un maggiore ricavo (conseguente ad es. all’erogazione di servizi più sofisticati che i singoli consorziati non sarebbero, isolatamente, in grado di praticare) nella gestione delle proprie imprese. I consorziati mirano, in altri termini, ad ottenere un vantaggio tipicamente imprenditoriale, insito nel miglioramento dell’efficienza e/o della produttività delle attività esercitate. Ulteriori peculiarità dello scopo consortile discendono dall’imprescindibile carattere ausiliario dell’attività svolta dall’impresa consortile. Il consorzio opera tendenzialmente con le sole imprese dei consorziati, offrendo loro beni e servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle praticate sul mercato: il che normalmente esclude natura lucrativa all’attività dell’impresa consortile, pur sempre gestita però con metodo economico, ossia assicurando la copertura dei costi con i ricavi. Per quanto non sia affatto previsto un divieto per i consorzi e le società consortili di esercitare anche attività lucrativa con i terzi, gli utili derivanti da tale attività possono essere tuttavia ripartiti tra i consorziati nel rispetto dei limiti stabiliti per le società cooperative a mutualità prevalente (ossia non oltre il tasso dei buoni fruttiferi postali aumentati di due punti e mezzo: art. 17, co. 3, l. 72/1983) 38.

37 E cfr., DI RIENZO, Gli effetti della riforma sulla disciplina delle società consortili, RSoc, 2006, 211. Le società cooperative consortili erano tuttavia contemplate, già in precedenza, dalla legislazione speciale di ausilio e sostegno alle piccole e medie imprese (art. 1, l. 240/1981; art. 6, l. 443/1985; art. 17, l. 317/1991) e ritenute pertanto ammissibili dalla giurisprudenza (Trib. Venezia, 30-5-1985, Soc, 1986, 84; Trib. Udine, 16-3-1993, ivi, 1993, 971; ma in senso contrario Trib. Napoli, 8-5-1997, ivi, 1998, 66) e dottrina prevalenti (per tutti, SPOLIDORO, Le società consortili, cit., 94 ss.). 38 BORGIOLI, Consorzi, 193 s.; SPOLIDORO, Le società consortili, 151 ss.; Cass. 11-6-2004, n. 11081, Soc, 2005, 53. Ma v. le diverse posizioni assunte, da ultimo, da CUSA, Le società consortili con personalità giuridica: fattispecie e frammenti di disciplina, RDCiv, 2011, II, 389 ss., incline a differenziare le società consortili costituite secondo uno dei tipi del titolo V dalle società cooperative consortili, deducendo che le prime nel silenzio dell’atto costitutivo devono perseguire lo scopo lucrativo; e già da MARASÀ, Consorzi, 99 ss., che distingue tra società consortili pure, soggette a questo limite, e società consortili spurie nelle quali la distribuzione degli utili tra i soci derivanti dall’attività svolta dalla società con i terzi sarebbe invece tassativamente vietata; in giurisprudenza, in quest’ultimo senso, Trib. Milano, 12-5-1984, GComm, 1985, II, 531, cui si aggiungano le decisioni citate da MIOLA, Consorzi e società consortili, NGCC, 1986,

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Le considerazioni svolte consentono di cogliere le peculiarità dello scopo consortile rispetto allo scopo lucrativo, tipico delle società lucrative, ed allo scopo mutualistico, che caratterizza le società cooperative. Netta è, in particolare, la sua differenza rispetto allo scopo lucrativo, che consiste nel conseguimento di un utile da ripartire tra i soci, che nelle società consortili è come visto assai limitato. Più sottile è invece la distinzione tra scopo mutualistico e consortile, poiché connotato di entrambi è il procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto: se però la mutualità cooperativa è volta a soddisfare un bisogno dei soci (casa, lavoro, ecc.), elemento qualificante della mutualità consortile risiede nella sua diretta pertinenza alle attività economiche esercitate dai soci, sicché il vantaggio assume qui carattere tipicamente imprenditoriale. Quest’ultima distinzione non sembra comunque precludere la possibilità di applicare alle società consortili istituti tipici delle cooperative, quali i ristorni o il voto capitario 39.

Controversa è soprattutto la disciplina delle società consortili. Merita tuttavia adesione la tesi prevalente per la quale le società consortili vanno regolate esclusivamente sulla base delle norme stabilite per il tipo societario prescelto. Con il corollario – di recente avallato anche dalla Suprema Corte 40 – che, in caso di società consortile per azioni o a responsabilità limitata, per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio, risultando inapplicabile l’art. 2615, co. 2, là dove prevede la responsabilità solidale dei singoli consorziati con il fondo consortile per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio. Né sarebbero ammissibili, per contrasto con le regole inderogabili del tipo, clausole atipiche dello statuto di società consortile per azioni o a responsabilità limitata che, riproducendo il disposto dell’art. 2615, co. 2, contemplassero un regime di responsabilità solidale dei soci per le obbligazioni consortili. Depone in tal senso, a mio avviso, l’art. 2615-ter, co. 2, che consente invece la previsione statutaria di un obbligo di contribuzione in denaro dei soci ulteriore rispetto ai conferimenti: la presenza di questa disposizione si giustifica, infatti, proprio in chiave di eccezionale deroga, per le società consortili, alla disciplina del tipo societario prescelto che, ove fosse una s.p.a. od una s.r.l., non consentirebbe prestazioni accessorie in denaro (art. 2345, co. 1) 41. II, 209. L’incompatibilità della clausola lucrativa con le società consortili (sostenuta anche da DI NANNI, Società consortile e clausola lucrativa, DGiur, 2008, 74 ss. e DORIA, L’interesse sociale nella società consortile, ivi, 339 ss., che si spinge ad affermare che le società consortili non possano svolgere alcuna attività con i terzi) è stata però, da ultimo, recisamente contestata da Cass. SS.UU, 14-6-2016, n. 12191, Soc, 2016, 1193, con nota critica di SPOLIDORO. 39 In senso favorevole, sui ristorni, Trib. Milano, sez. impr. B, 10-12-2014, Soc, 2015, 670; contraria invece, sul voto capitario, Not. Camp. 18, richiamando l’art. 2249. 40 Cass. 27-11-2003, n. 18113, GComm, 2005, II, 387, con nota di SARALE; Trib. Napoli, 1-7-2004, GComm, 2006, II, 1181, con nota adesiva di SCANO; Trib. Isernia, 13-3-2004, RNot, 2004, 1558; App. Roma, 17-6-2008, in Banche-Dati Platinum, Utet Giuridica. L’inapplicabilità alle società consortili dell’art. 2615, co. 2, c.c. è sostenuta nella letteratura manualistica e dalla dottrina prevalente (BORGIOLI, Consorzi, 199; CAMPOBASSO; MARASÀ, Consorzi, 121; MOSCO, Dei consorzi, 256 s.; VOLPE PUTZOLU, I consorzi, 345 e, da ultimo, SARALE, Consorzi, 544; DE CICCO, Organizzazioni, 225 ss.). 41 La misura di questi contributi può variare in funzione delle perdite risultanti dal bilancio della società consortile (Cass. 4-1-2005, n. 122, GIt, 2005, 973), a condizione che la clausola statutaria preveda modalità e criteri di determinazione degli apporti (Not. Fi. 16); e si tende ad assimilarli ai versamenti a fondo perduto, desumendone l’assenza di un obbligo di rimborso o di remunerazione a carico della società (Cass. 11-6-2004, n. 11081, cit.). Ma cfr. le precisazioni di CUSA, Le società consortili, 395 ss., di

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Riterrei ammissibili, per converso, clausole statutarie atipiche non incompatibili con norme inderogabili previste per il tipo societario prescelto, volte ad adattarlo alle peculiarità dello scopo consortile (quali, ad es., clausole di s.p.a consortili che prevedano l’esclusione del socio o categorie speciali di azioni che attribuiscano il diritto di usufruire di prestazioni consortili differenziate in relazione ai servizi offerti dalla società) 42.

Deve invece respingersi la proposta di applicare alle società consortili una disciplina “mista” 43: incline cioè a distinguere i profili “formali”, essenzialmente concernenti articolazione e funzionamento degli organi, da regolarsi secondo la disciplina societaria; dai profili “sostanziali”, attinenti ai rapporti tra i soci e tra questi ed i terzi, ai quali sarebbe invece applicabile la disciplina dei consorzi. Ciò in quanto siffatta dissociazione minerebbe la certezza del diritto in materia, essendo tutt’altro che certi ed inequivoci i confini tra norme relative ai profili formali e disposizioni concernenti quelli sostanziali.

4. Le imprese comuni “cooperative” Strumento di cooperazione tra imprenditori è anche l’impresa comune (o filiale comune) cooperativa, di cui già si è parlato (supra, § 13.10). Si tratta di un’impresa costituita (di solito in forma societaria) da due o più imprese fondatrici che ne acquistano il controllo congiunto; ed è altresì possibile che l’impresa societaria sia preesistente e divenga “comune” in seguito all’acquisto della proprietà delle sue partecipazioni da due o più imprese concorrenti. Le imprese comuni cooperative si caratterizzano per lo stabile perseguimento di una politica di coordinamento tra le imprese fondatrici che conservano la loro indipendenza economica oltreché giuridica. Si pensi ad un’impresa creata per il coordinamento delle attività delle società madri in relazione alla politica dei prezzi, dell’innovazione dei loro prodotti o della loro distribuzione sui mercati esteri. Va tenuto presente che le imprese comuni possono costituire anche uno strumento di integrazione tra imprese, là dove abbiano la capacità di esercitare stabilmente tutte le funzioni di un’entità economica autonoma (art. 3.4 reg. UE 139/2004). In tal caso le imprese comuni si definiscono concentrative e non rientrano, pertanto, tra le intese anticoncorrenziali (di cui una specifica fattispecie è invece l’impresa comune cooperativa), essendo sottoposte al ben più favorevole trattamento delle concentrazioni (v. ancora supra, § 13.10) 44. MARASÀ, Contributi in denaro nelle società consortili e autonomia statutaria, Soc, 2012, 913 ss. (anche per la tesi secondo cui l’introduzione successiva della clausola statutaria che prevede l’obbligo contributivo richiede l’unanimità dei consensi dei soci) e da ultimo, per una condivisibile delimitazione dei limiti dell’autonomia statutaria sul punto, LUCARELLI, Comm. Gabrielli-Santosuosso, art. 2615-ter, 763 ss. Sui profili fiscali della figura, v. ANGIULLI, I contributi consortili tra beneficio e capacità contributiva, Bari, 2014. 42 La prima clausola è ammessa da Not. Camp. 13; la seconda da Not. Fi. 14 (che correttamente non ne subordina l’ammissibiità alla predeterminazione statutaria dei requisiti soggettivi degli imprenditori beneficiari delle azioni). 43 Condivisa, di recente, da Trib. Milano, 17-11-2005, Soc, 2006, 725; v. anche l’originale ricostruzione del Trib. Cagliari, 18-4-2003, RDComm, 2003, II, 357. A favore della disciplina mista, in dottrina, FERRI (traendo spunto ora anche dall’attuale disciplina della trasformazione eterogenea); l’opinione di Ferri risultava condivisa, ante riforma del 1976, da GUGLIELMETTI, La concorrenza, 374 e, posteriormente ad essa, da CORAPI, Consorzi e società consortili: trasformabilità e partecipazione alle gare per pubblici appalti, RDComm, 1993, I, 611 s. 44 Le imprese comuni hanno sollecitato soprattutto l’attenzione dei cultori di diritto antitrust, a seguito della loro esplicita inclusione fra le operazioni di concentrazione previste nell’art. 5, l. 287/1990 (co. 1,

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È però da rilevare che le imprese comuni, se assumono una rilevanza autonoma dal punto di vista della disciplina antimonopolistica (dovendosi al riguardo distinguere a seconda della loro natura cooperativa o concentrativa), non costituiscono invece una fattispecie giuridica autonoma sul piano civilistico. La loro disciplina generale deve infatti ricostruirsi in base alle regole del tipo societario prescelto e, al riguardo, potrebbe risultare oggi conveniente, in virtù della sua notevole flessibilità, avvalersi della società a responsabilità limitata per l’esercizio di questa peculiare funzione di aggregazione tra imprese.

5. Il gruppo europeo di interesse economico Il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) è una forma di cooperazione volta ad agevolare e sviluppare l’attività economica esercitata da soggetti operanti in diversi stati dell’Unione europea 45. Fonti della sua disciplina sono il reg. UE 2137/1985 e, nel diritto interno, il d.lgs. 240/1991, che ha attuato in Italia l’istituto con disposizioni relative alla pubblicità, alla responsabilità dei membri, al procedimento di liquidazione, all’insolvenza, all’organizzazione interna del gruppo (i due corpi normativi, dunque, si integrano reciprocamente e si applicano congiuntamente). La presenza di una specifica disciplina (prima europea e poi interna) rende il gruppo europeo di interesse economico figura tipica di contratto associativo, non sussumibile nel contratto di società, né in quello di consorzio. Ma la spiccata affinità funzionale e strutturale tra GEIE e consorzio induce la dottrina prevalente 46 a colmare le lacune della disciplina del GEIE con il ricorso all’analogia con le regole sui consorzi con attività esterna. Esaminiamo i tratti salienti della disciplina (europea ed interna) del GEIE. Il GEIE costituisce un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici (diritti ed obbligazioni di qualsiasi natura) ed è dotato di capacità processuale (art. 1, co. 2, reg.). Il GEIE condivide con il consorzio sia il carattere ausiliario della propria attività, necessariamente collegata con quella dei partecipanti 47, sia la sua finalità mutualistica, non potendo perseguire lo scopo di realizzare profitti per se stesso 48 (art. 3 reg.). A differenza del consorzio, però, membri del GEIE possono essere anche soggetti che, lett. c). Cfr., in letteratura, PISANI MASSAMORMILE, Sull’applicabilità dell’art. 85 del Trattato CEE alle filiali comuni, GComm, 1987, I, 412 ss.; GHEZZI, Le imprese comuni nel diritto della concorrenza, Milano, 1996; SANFILIPPO, Imprese comuni e diritto della concorrenza, Milano, 2003 (ed. provv.). 45 La diversa nazionalità di almeno due partecipanti al GEIE è condizione per la costituzione del gruppo e, se viene meno nel corso della sua attività, ne determina lo scioglimento (art. 31 reg.). 46 E v., ad es., BADINI CONFALONIERI, Il GEIE. Disciplina comunitaria e profili operativi nell’ordinamento italiano, Torino, 1999, 64 ss.; CAMPOBASSO; ma prediligono il richiamo della disciplina delle società personali COTTINO-SARALE, Le associazioni economiche, 384 e in giurisprudenza, in relazione allo scioglimento, Trib. Milano, sez. impr. B, 15-12-2014, GIt, 2015, 907, con nota critica di BADINI CONFALONIERI. 47 Al GEIE è espressamente inibito l’esercizio, diretto o indiretto, del “potere di direzione e di controllo delle attività proprie dei suoi membri o dell’attività di un’altra impresa” (sul punto, MASI, Il gruppo europeo, cit., 38 ss.), il che lo rende inutilizzabile per la realizzazione di una gestione strategica unitaria delle imprese associate, non anche però di specifiche fasi delle loro attività (come invece ritiene MAROTTA, L’attività del GEIE, GComm, 1991, I, 447 ss.). 48 Gli utili conseguiti dall’attività del GEIE sono considerati di diretta pertinenza dei suoi membri e sono ripartiti fra gli stessi secondo la proporzione stabilita dal contratto e, nel silenzio, in parti uguali. E secondo i medesimi criteri i partecipanti devono coprire le eventuali perdite (art. 21 reg.).

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pur esercitando attività economica (art. 4, co. 1, reg.), non sono imprenditori, quali i professionisti intellettuali 49. Almeno due dei partecipanti al GEIE devono comunque esercitare la propria attività economica (e/o avere la propria amministrazione centrale) in stati diversi dell’Unione europea (art. 4, co. 2, reg.). Il contratto costitutivo del GEIE deve rivestire la forma scritta a pena di nullità (art. 2 d.lgs. 240/1991) ed indicare almeno denominazione (cui va aggiunta l’indicazione, anche abbreviata, di gruppo europeo di interesse economico), sede (situata nell’Unione europea), oggetto, nome dei partecipanti e durata (ma, diversamente dal consorzio, il GEIE può essere anche a tempo indeterminato). La pubblicità del contratto è duplice, dato che è prevista l’iscrizione nel registro delle imprese con efficacia costitutiva (da tale momento il GEIE acquista la soggettività e diviene quindi centro di imputazione autonomo di rapporti giuridici 50), nonché la sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana con efficacia meramente dichiarativa (artt. 3 e 4, d.lgs. 240/1991) 51. Al contratto costitutivo del GEIE si applicano le cause di nullità ed annullabilità previste dalla disciplina generale dei contratti associativi. Gli effetti della nullità sono tuttavia regolati secondo le regole della società per azioni (art. 2332); ne consegue che: a) la dichiarazione di nullità del GEIE non ha effetto retroattivo, opera cioè come causa di scioglimento ex lege del contratto (i liquidatori sono nominati dalla sentenza del tribunale che accerta la nullità, ove sono specificati anche i relativi poteri: art. 8, co. 2, d.lgs. 240/1991) e non pregiudica la validità degli atti compiuti dal gruppo fino a quel momento; b) la nullità è sanabile, di solito mediante una modifica del contratto: all’uopo il tribunale concede un termine per la regolarizzazione, ove ritenuta possibile (art. 15, co. 1, reg.). L’organizzazione del GEIE è sostanzialmente rimessa all’autonomia privata, con ampia libertà di modellarla in relazione alle specifiche esigenze di collaborazione dei partecipanti. La disciplina legale prevede comunque due organi. L’assemblea, composta da tutti i membri del gruppo, delibera, secondo il metodo collegiale 52, su qualsiasi decisione volta a conseguire l’oggetto del sodalizio 53. Le decisioni di particolare rilevanza devono essere approvate all’unanimità e tale regime vale, in particolare, per la modifica dell’oggetto, della durata, per lo scioglimento anticipato del gruppo, 49

Se ciò è pacifico, si discute però se il GEIE possa esercitare direttamente, in forma associata, la professione intellettuale dei suoi membri (in senso preclusivo, MASI, Il gruppo europeo, 62 ss.; favorevole invece MONGIELLO, Il gruppo europeo di interesse economico (G.E.I.E.), Tr. Galgano, XVII, 1994, 211 ss.). 50 Gli atti compiuti dal GEIE prima dell’iscrizione vanno imputati a coloro che li hanno compiuti, che ne rispondono solidalmente ed illimitatamente; ciò a meno che il gruppo non li ratifichi dopo l’iscrizione, assumendone le relative obbligazioni (art. 9, co. 2, reg.). 51 Della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana deve darsi poi comunicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (art. 11 reg.). Ed una specifica disciplina è prevista in tema di pubblicità delle vicende modificative del contratto (artt. 7 ss. reg.). 52 È consentito tuttavia introdurre dei temperamenti al metodo collegiale, rendendo possibile ad es. la riunione secondo modalità telematiche, come oggi espressamente previsto dal codice civile per le società di capitali. E cfr., MASI, Il gruppo europeo, 98 ss. 53 Vige il principio del voto per teste, anche se il contratto può prevedere che alcuni membri abbiano più voti a condizione che nessuno venga a detenere la maggioranza (art. 17, co. 1, reg.). Manca un’espressa disciplina dell’invalidità delle delibere assembleari del GEIE e la dottrina è divisa tra chi propone di applicare per analogia la disciplina dei consorzi (CAMPOBASSO) e chi invece richiama la disciplina di diritto comune dell’invalidità dei contratti (BADINI CONFALONIERI, Il GEIE, 256 ss.).

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nonché per l’ammissione di nuovi membri e la cessione della quota di partecipazione anche ad altro partecipante attesa l’alterazione degli equilibri interni che ne consegue. Agli amministratori spettano invece le funzioni di gestione e di rappresentanza del GEIE 54; ed è espressamente previsto che può essere nominata amministratore anche una persona giuridica, che eserciterà le proprie funzioni tramite un rappresentante persona fisica (art. 5 d.lgs. 240/1991) 55. Gli amministratori devono poi tenere le scritture contabili del GEIE (a prescindere dalla natura dell’attività esercitata dallo stesso) ed in particolare redigere il bilancio annuale, che deve essere approvato dall’assemblea entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio (art. 7 d.lgs. 240/1991). Pur dotato di soggettività (ma non anche di personalità) giuridica, il GEIE è privo di autonomia patrimoniale: non è infatti prevista una dotazione patrimoniale obbligatoria, né un fondo comune provvisto di autonomia patrimoniale. Ciò comporta una responsabilità solidale ed illimitata dei suoi membri per le obbligazioni di qualsiasi natura assunte dalle persone che hanno la rappresentanza del GEIE; e tale rigido regime di responsabilità dei partecipanti rende il GEIE indubbiamente meno attraente di un consorzio con attività esterna 56 e ne spiega le ragioni della sua scarsa diffusione. La disciplina del recesso e dell’esclusione dei partecipanti al GEIE ricalca quella delle società di persone, fermo restando che è sempre possibile il recesso per giusta causa oppure con l’accordo unanime degli altri membri (art. 27 reg.). È infine espressamente prevista, in caso di insolvenza, la sottoposizione al fallimento del GEIE che esercita attività commerciale (art. 9, d.lgs. 240/1991); ma, in considerazione dello scopo mutualistico perseguito dal GEIE, il fallimento non si estende ai suoi membri, ancorché illimitatamente responsabili 57. 54 La rappresentanza è attribuita per legge agli amministratori del GEIE che, nel silenzio del contratto, la esercitano disgiuntamente. Il contratto può però prevedere la rappresentanza congiunta. La disciplina dei limiti al potere di rappresentanza e della loro opponibilità ai terzi ricalca invece quella prevista per gli amministratori di società per azioni e ciò al fine di assicurare una migliore salvaguardia ai terzi che vengono in contratto con il gruppo. In argomento, CORAPI, Amministrazione e rappresentanza nei consorzi senza attività esterna, nelle associazioni temporanee di imprese e nel GEIE (Gruppo europeo d’interesse economico), RDCiv, 1990, I, 66 ss. 55 Sul tema, CORAPI, Amministrazione e rappresentanza, cit., 77; nonché LUBRANO, Spunti in tema di amministrazione del GEIE, DGiur, 1992, 405. 56 Si osservi che il regime di responsabilità dei partecipanti del GEIE è ancor più rigoroso di quello dei soci di una società in nome collettivo. Infatti, la responsabilità è sussidiaria, in quanto i creditori del GEIE possono agire nei confronti dei membri “soltanto dopo aver chiesto al gruppo di pagare e qualora il pagamento non sia stato effettuato entro un congruo termine”; ma non è qui previsto, come nella s.n.c., un beneficio di escussione dei soci, bensì soltanto un mero onere di preventiva richiesta dei creditori. E cfr., sul punto, BARTOLOCELLI-Ant. ROSSI, Il gruppo europeo di interesse economico (GEIE), in BENEDETTELLI-LAMANDINI (Dirr.), Diritto societario europeo ed internazionale, Milanofiori, 2017, 583 s. I successivi aderenti al GEIE rispondono illimitatamente anche delle obbligazioni sorte anteriormente alla loro adesione al gruppo; è ammesso un patto contrario, opponibile ai terzi se pubblicato. Del pari, i membri che escono dal gruppo continuano a rispondere delle obbligazioni anteriori e tale responsabilità permane anche in seguito allo scioglimento del GEIE, per un termine massimo di cinque anni (art. 37 reg.). 57 Gli organi del fallimento del GEIE sono esclusivamente legittimati a chiedere ai suoi partecipanti le somme necessarie per estinguere i debiti secondo le proporzioni previste dal contratto o, nel silenzio, in parti uguali (art. 21 reg.).

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III. Le forme di cooperazione potenzialmente “flessibili” Sono qui classificate come forme di cooperazione tra imprenditori potenzialmente flessibili i contratti associativi la cui disciplina non prevede inderogabilmente l’erezione di un’organizzazione comune e che, pertanto, possono utilizzarsi anche per il perseguimento di obiettivi contingenti o per una collaborazione temporanea, ad es. idonea ad assicurare alle singole imprese maggior peso nella contrattazione con altri operatori nazionali ed esteri o con la pubblica amministrazione. Queste forme di cooperazione, previste e disciplinate da leggi speciali, sono: a) il contratto di rete e b) le associazioni temporanee di impresa.

1. Il contratto di rete Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e competitività sul mercato e “a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa” (art. 3 d.l. 5/2009). Si tratta di uno strumento di cooperazione che non presenta talune rigidità del consorzio, non richiedendo l’erezione di un’articolata organizzazione comune tra le imprese, e che si basa su un programma condiviso tra gli aderenti. Tale programma può essere conosciuto dalle banche e dai finanziatori della rete che sono altresì posti in condizione di monitorarne l’attuazione. La necessaria flessibilità della rete è funzionale all’eterogeneità dell’oggetto della cooperazione. Basti pensare che la rete può avere il mero scopo di consentire lo scambio di informazioni commerciali tra le aderenti: ad es. più imprese che producono beni complementari si scambiano i nominativi dei propri clienti nei singoli mercati esteri in cui smerciano i propri prodotti. Vi possono peraltro essere reti più complesse e strutturate, come ad es. reti costituite in forma societaria tra più imprese alberghiere operanti in un certo distretto al fine di offrire ai propri clienti determinati servizi turistici accessori (gite turistiche, servizi di noleggio, ecc.). Al contratto di rete sono riservate talune agevolazioni fiscali (art. 42, co. 2-quater, l. 122/2010) 58, la cui fruizione presuppone l’osservanza di regole di forma e di contenuto (ad es.: asseveramento del programma di rete da parte di appositi organismi), il mancato rispetto delle quali ha però il mero effetto di precludere l’applicazione delle agevolazioni stesse. Quanto alla forma, il contratto deve essere redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata oppure per atto scritto firmato digitalmente da ciascun im58 Consistenti nella temporanea sospensione d’imposta relativamente alla quota di utili dell’esercizio destinati alle imprese che sottoscrivono o aderiscono ad un contratto di rete al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare per realizzare entro l’esercizio successivo gli investimenti previsti dal programma comune di rete.

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prenditore o legale rappresentante delle imprese aderenti e redatto in conformità di un modello standard tipizzato con decreto ministeriale. Quanto al contenuto, il contratto deve recare una serie di indicazioni, tra cui: nome, ditta, ragione o denominazione sociale di ogni partecipante per originaria sottoscrizione del contratto o per adesione successiva (della quale occorre specificare forma e modalità, ad es.: domanda indirizzata con lettera raccomandata all’organo comune o a tutti i partecipanti); indicazione degli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità competitiva dei partecipanti e le modalità concordate tra gli stessi per misurare l’avanzamento verso tali obiettivi; definizione di un programma di rete, che contenga l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti da ciascun partecipante, le modalità di realizzazione dello scopo comune e, qualora sia prevista l’istituzione di un fondo patrimoniale comune, la misura e i criteri di valutazione dei conferimenti iniziali e degli eventuali contributi successivi che ciascun partecipante si obbliga a versare al fondo, nonché le regole di gestione del fondo medesimo. Come si è detto, la rete è una figura flessibile: il contratto può dunque dare vita a semplici rapporti obbligatori tra i partecipanti (come nell’esempio sopra illustrato dello scambio di informazioni commerciali), oppure ad una struttura organizzativa e patrimoniale deputata al perseguimento degli obiettivi comuni (come ad es. la società costituita per l’erogazione di servizi comuni per i clienti delle imprese associate nella rete); possono dunque essere istituiti (benché, appunto, non sia necessario) un patrimonio della rete e uno o più organi comuni. Il patrimonio della rete può consistere, infatti, in un fondo comune alimentato dai contributi delle imprese partecipanti, al quale deve allora applicarsi la disciplina dei consorzi con attività esterna (artt. 2614 e 2615) in quanto compatibile. In ogni caso, per le obbligazioni eventualmente contratte dall’organo comune, se questo fosse istituito, in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune. La previsione nel contratto di rete di un organo comune e di un fondo patrimoniale comune non necessariamente implica, peraltro, che la rete acquisti soggettività giuridica. In particolare, la c.d. rete-contratto dotata di autonomia patrimoniale, ma priva di soggettività (ben più diffusa soprattutto perché fiscalmente più conveniente), deve essere iscritta nel registro delle imprese dei luoghi in cui hanno sede le imprese partecipanti 59 e non è esposta a fallimento in caso di insolvenza del fondo comune, implicando la dichiarazione di fallimento l’esistenza di un soggetto 60. 59

Sui problemi sollevati dal regime pubblicitario della rete-contratto non soggettivata, v. IBBA, Contratto di rete e pubblicità delle imprese (con qualche divagazione in tema di soggettività) e MARASÀ, La pubblicità dei contratti di rete, ODC, n. 3/2014, 83 ss. e 97 ss. 60 Cfr. sul punto, soprattutto, i contributi di SCIUTO, Imputazione e responsabilità nelle “reti di imprese” non entificate (ovvero del patrimonio separato incapiente), RDComm, 2012, I, 445 ss. e L’impresa di rete non entificata. Una nuova “sfumatura” d’impresa, AGE, 1/2014, 173 ss. Sulla tutela dei creditori in caso di insolvenza nella rete-contratto v. anche DORIA, Impresa e insolvenza nella rete priva di soggettività giuridica, Napoli, 2015, 84 ss. e 74 s., che propone il ricorso al rimedio generale della frode alla legge (art. 1344 c.c.), e LOCORATOLO, Il contratto di rete. Struttura e funzione, Padova, 2015, 125, che preferisce attingere alle figure della società di fatto, della società apparente e della società occulta per configurare il

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La rete che invece è dotata di soggettività (c.d. rete soggetto), costituita in forma societaria o in qualsiasi altra veste giuridica, ha un regime pubblicitario e contabile che corrisponde a quello previsto per i consorzi con attività esterna (o, nel caso di rete-società, del tipo societario prescelto, al pari di una qualsiasi società consortile), giacché, in presenza di un organo comune deputato a svolgere attività anche commerciale con i terzi, il contratto deve iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della rete ed occorre redigere la situazione patrimoniale in osservanza delle disposizioni del bilancio d’esercizio di s.p.a. Il regime patrimoniale e della struttura organizzativa adottato nel contratto di rete determina dunque il suo mutevole inquadramento giuridico. Se la rete acquista la soggettività, si tratterà di un consorzio tipico (con attività esterna, dato il richiamo agli artt. 2614 e 2615), o di una società consortile (art. 2615-ter), a seconda della scelta delle parti. Non c’è dubbio che proprio a questa configurazione sia orientata principalmente la disciplina del contratto di rete (esemplare il riferimento all’“organo” investito dei poteri di rappresentanza); ma in assenza di una specifica opzione delle parti e soprattutto dell’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della rete, questa non è un soggetto di diritto diverso dagli associati e l’organo comune agisce in rappresentanza degli imprenditori (cfr. la nuova formulazione della lett. a dell’art. 3, co. 4-ter) 61, venendo a costituire allora una forma consortile “atipica” tra gli imprenditori aderenti 62. Insomma, ancorché il contratto preveda l’erezione di un organo comune della rete e la formazione di un patrimonio autonomo, quest’ultimo non deve necessariamente imputarsi alla rete in quanto soggetto di diritto diverso dalle imprese aderenti al contratto, potendo costituire, secondo la scelta di queste ultime, un patrimonio destinato all’intrapresa comune. fallimento di una rete-contratto (impostazione che però, a mio avviso, stride con l’esplicita negazione della soggettività compiuta dal legislatore). 61 Le modifiche introdotte dalla l. 134/2012 e dal d.l. 179/2012 hanno tuttavia confermato anche la piena ammissibilità di reti a configurazione associativa e dotate di soggettività giuridica (diversamente orientato, ma sulla base di argomenti non decisivi, DONATIVI, Le reti di imprese: natura giuridica e modelli di governance, Soc, 2011, 1432 ss.), ora esplicitamente contemplate dal legislatore in una norma che vuole del resto assicurare la più ampia autonomia alle parti nella scelta del modello di cooperazione più idoneo al perseguimento degli obiettivi imprenditoriali divisati. Ed in questo senso depone anche il confronto con le associazioni temporanee di impresa, analizzate nel paragrafo successivo, con riguardo alle quali è espressamente previsto (art. 48, co. 16, d.lgs. 50/2016) che “il rapporto di mandato non determina di per sé organizzazione o associazione delle imprese riunite”, conservando ognuna di esse “la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali e degli oneri sociali”. 62 Il peculiare contesto di agevolazione alla crescita delle imprese in un periodo di grave crisi economica in cui la nuova disciplina del contratto di rete è collocata rende davvero ozioso ogni tentativo di “tipizzazione” della figura. Sulla nuova disciplina, v. DE CICCO, Organizzazioni, 104 ss. e 243 ss.; DELLE MONACHE, Il contratto di rete, in Tr. contratti Roppo, Milano, 2014, 1235 ss.; GUIZZARDI, Cooperazione imprenditoriale e contratto di rete, Milano-Padova, 2014, 43 ss.; e sui problemi di inquadramento giuridico della figura, prima degli interventi del 2012, cfr. R. SANTAGATA, Il “contratto di rete” fra (comunione di) impresa e società (consortile), RDCiv, 2011, I, 323 ss.; MOSCO, Frammenti ricostruttivi sul contratto di rete, GComm, 2010, I, 839 ss.; PISANI MASSAMORMILE, Profili civilistici del contratto di rete, RDP, 2012, 363 ss., nonché gli scritti di PALMIERI e di SCOGNAMIGLIO-TRIPPUTI, in Reti di impresa: profili giuridici, finanziamento e rating, a cura di Aip, Milano, 2011 ed i contributi raccolti nei volumi: Il contratto di rete per la crescita delle imprese, a cura di Cafaggi, Iamiceli e Mosco, Milano, 2012; Riflessioni sul contratto di rete: profili privatistici e fiscali, a cura di Am. Genovese, Bari, 2013; Il contratto di rete. Un nuovo strumento di sviluppo per le imprese, a cura di Briolini, Carota e Gambini, Napoli, 2013.

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Quanto alle modifiche del contratto di rete, esse sono redatte e depositate per l’iscrizione a cura dell’impresa indicata nell’atto modificativo nel registro delle imprese presso cui è iscritta questa impresa, che trasmetterà agli uffici di iscrizione delle altre partecipanti l’intervenuta modifica. Rimessa all’autonomia delle parti è poi la previsione di eventuali cause facoltative di recesso anticipato e di esclusione di una impresa aderente (art. 3, co. 4-ter, d.l. 5/2009); ed il rinvio testuale alle regole generali di legge in materia di scioglimento totale o parziale dei contratti plurilaterali con comunione di scopo porta ad ammettere pure la facoltà di recesso per giusta causa, anche in assenza di una specifica clausola del contratto di rete che esplicitamente lo consenta 63. Manca invece una specifica disciplina dell’insolvenza e della crisi delle reti di impresa, che garantisca un opportuno coordinamento fra le soluzioni giudiziali e concordate che interessano singole aderenti al contratto. Ed è auspicabile che a questa lacuna si ponga al più presto rimedio 64.

2. Le associazioni temporanee di imprese La partecipazione a gare per l’assegnazione di appalti di opere pubbliche presuppone che imprenditori, dotati di distinte specializzazioni, uniscano temporaneamente le proprie forze per soddisfare i requisiti qualitativi e quantitativi richiesti dai committenti: i quali, dal canto loro, intendono assicurarsi sufficiente affidabilità sulla reale capacità delle imprese assegnatarie delle commesse di eseguire opere di particolare complessità (si pensi alla costruzione di una linea ferroviaria o di un’autostrada) nei tempi stabiliti. A tale esigenza degli imprenditori non offrono risposta pienamente soddisfacente i tradizionali contratti associativi: i consorzi e le società sono infatti indicati per una cooperazione tendenzialmente stabile, anche perché la loro costituzione normalmente implica costi preventivi (non tanto i costi della procedura di costituzione, quanto quelli di predisposizione dell’apparato organizzativo) che potrebbero rivelarsi superflui ove l’appalto dovesse poi essere assegnato ad altri. D’altronde, gli imprenditori ambiscono non solo a conservare la propria autonomia ed individualità nell’esecuzione dell’opera, ma anche a procedere singolarmente e, soprattutto, a rendere riconoscibile ai terzi il personale compimento della frazione della commessa di loro specifica competenza: interessi questi evidentemente frustrati dalla costituzione di un con63

Ed invero, il riconoscimento del recesso per giusta causa sembra doveroso allorché il contratto di rete preveda l’operatività del principio di maggioritario anche per le modifiche di elementi essenziali dell’accordo (ad es. del programma di rete); rappresenta, ad ogni modo, un presidio a tutela della minoranza in ipotesi di violazioni del principio di correttezza nell’esecuzione del contratto da parte dell’organo (o del mandatario) comune. In ogni caso, la disciplina convenzionale dello scioglimento del singolo rapporto partecipativo incontra sempre i limiti derivanti dalla specifica configurazione del contratto di rete prescelta dalle parti (in una rete costituita in forma di s.p.a. consortile i vincoli sono ovviamente maggiori). 64 E v., per qualche spunto in prospettiva de iure condendo, MEO, Crisi e imprese dell’indotto, AGE, 2011, 399 ss.

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sorzio (con attività esterna) o di una società, che implicano una disciplina delle imprese partecipanti come “gruppo organizzato”, ossia come centro di imputazione (soggetto di diritto) autonomo rispetto ai membri. In altri termini, nei confronti dei terzi, sarebbero la società o il consorzio ad eseguire l’opera complessiva e non più le singole imprese ad attuare ed essere conseguentemente responsabili per la singola porzione di loro specifica pertinenza 65. Di qui l’emersione del fenomeno delle associazioni temporanee (o raggruppamenti temporanei) di imprese (secondo la terminologia anglosassone, joint venture). Si tratta di una specifica forma di cooperazione a carattere contingente ed occasionale tra imprenditori, che non determina di per sé alcuna organizzazione, né la nascita di un soggetto di diritto diverso dalle imprese coinvolte nel sodalizio 66. Ciò rende questo strumento assai flessibile e pertanto estremamente utile nella cooperazione internazionale, anche perché consente di risolvere a monte i conflitti di legge derivanti dall’applicazione dei princìpi di diritto internazionale privato 67. In particolare, il modello convenzionale consegnato dalla prassi (non vi è invero una legge che disciplini in generale la figura) risulta così strutturato. Le imprese aspiranti alla commessa si presentano distinte ed autonome al committente ed il loro collegamento consiste: da un lato, nel sottoporre al committente un’offerta congiunta assumendo il comune impegno di eseguire la complessiva opera (sia pure, di solito, specificando le parti di pertinenza di ciascuna); dall’altro lato, nell’assegnare ad una di esse – l’impresa capogruppo o capofila – l’incarico di gestire i rapporti con il committente e di assicurare il necessario coordinamento esecutivo dell’opera. L’originalità dei caratteri di tali accordi è tale da non render possibile il loro inquadramento giuridico nelle figure associative tradizionali. Pertanto, la giurisprudenza ormai consolidata e la dottrina prevalente configurano le associazioni temporanee di impresa come contratti associativi innominati 68.

65 V., specialmente, CORAPI, Le associazioni, 17 ss.; ma cfr. anche, più di recente, GALLETTI, Joint venture e modelli di integrazione tra imprese nel sistema degli appalti, Milano, 2005, 73 ss.; DI ROSA, L’associazione temporanea di imprese. Il contratto di joint venture, Milano, 1997, 8 ss.; DI MARTINO, La collaborazione tra imprese per gli appalti pubblici. L’avvalimento e il raggruppamento temporaneo, Torino, 2012, 77 ss.; ed, in prospettiva comparatistica, TROIANO, Cooperazione stabile, plurisoggettiva e contraente unico, Milano, 2001, 116 ss. 66 Il punto è pacifico e cfr., in dottrina, CORAPI, Le associazioni, 6 e 50 ed, in giurisprudenza, Cass. 17-5-2001, n. 6757, GComm, 2003, II, 137, con nota di CAPO; Cass. 20-5-2010, n. 12422; Cons.St. 21-112007, n. 5906, RGEdilizia, 2008, 609; Trib. Catania, 27-12-2001, FIt, 2002, I, 1871, con nota di TEDESCHI. 67 Cfr., in particolare, BONVICINI, Le “joint ventures”: tecnica giuridica e prassi societaria, Milano, 1977, 38 ss.; CARBONE-D’ANGELO, Cooperazione tra imprese e appalto internazionale, Milano, 1991, 1 ss. e 19 ss. 68 In questo senso, già, Cass. 24-2-1975, n. 681, GComm, 1976, II, 780; C.Conti, 30-5-1990, n. 32, FAmm, 1990, II, 1899; Trib. Milano, 27-5-1991, GIt, 1991, I, 868, con nota di SARALE. Del resto, i noti problemi del richiamo dell’autonomia contrattuale (art. 1322, co. 2) nel campo dei fenomeni associativi qui sembrano risolti dall’assenza di rilevanza esterna delle associazioni temporanee (il che non significa però che si tratti di contratto di scambio, come erroneamente ritenuto da App. Genova, 11-2-1991, NGCC, 1991, I, 753). Devono comunque registrarsi le tesi minoritarie inclini a sussumere l’associazione temporanea nello schema del consorzio con attività interna (CORAPI, Le associazioni, 109 ss.) e della società di fatto (BIANCA, La gestione in comune di un appalto pubblico: associazione temporanea, consorzio,

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Va però sottolineato che la legislazione speciale ha provveduto ormai da tempo a “tipizzare” e disciplinare talune figure di associazioni temporanee 69, fra le quali spiccano quelle costituite per la partecipazione agli appalti pubblici, ora previste e regolate dal d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (c.d. “codice dei contratti pubblici”). È opportuna, stante il suo notevole rilievo pratico, una sintetica esposizione dei tratti salienti di questa disciplina (applicata anche, in via convenzionale, agli appalti privati), orientata a salvaguardare l’ente committente (o stazione appaltante) in occasione di vicende che possono interessare le imprese coinvolte nel raggruppamento durante l’esecuzione dell’opera. In particolare, questa fattispecie del “raggruppamento temporaneo” ruota intorno al mandato collettivo speciale, in rem propriam 70, con rappresentanza, conferito, con unico atto, dalle imprese (mandanti) alla capogruppo o capofila (mandataria) prima della presentazione dell’offerta al committente. L’impresa capogruppo – che assume la rappresentanza esclusiva, anche processuale 71, delle imprese mandanti nei confronti della stazione appaltante fino alla totale estinzione del rapporto – esprime poi un’offerta unitaria al committente in nome e per conto delle imprese mandanti (art. 48, co. 15, d.lgs. 50/2016). La specifica tutela assicurata al committente emerge proprio dalle peculiari caratteristiche di tale mandato che deve risultare da scrittura privata autenticata ed è soprattutto gratuito ed irrevocabile: in deroga alla disciplina del mandato collettivo (art. 1726), la sua revoca, anche per giusta causa, è inefficace nei confronti della stazione appaltante (art. 48, co. 13, 2° parte). Peraltro, al fine di soddisfare l’interesse delle imprese mandanti a preservare la loro individualità, è specificamente previsto che il mandato “non determina di per sé organizzazione o associazione degli operatori economici riuniti, ognuno dei quali conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali e degli oneri sociali” (art. 48, co. 16). Ispirata dall’esigenza di salvaguardare il committente è anche la disciplina della responsabilità dei vari appaltatori associati. Si distingue, in specie: a) il caso di appalti con parti scorporabili (ad es., costruzione di un centro commerciale dotato di tutte le infrastrutture) che cioè presuppongono competenze diversificate fra le imprese, sintetizzato nella formula “raggruppamenti di tipo verticale”; e b) l’ipotesi di appalti con parti non scorporabili, invece contrassegnati come “raggruppamenti di tipo orizzontale” (ad es., costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità). Nei raggruppamenti di tipo verticale, l’impresa capogruppo o capofila risponde in via esclusiva per l’intera opera nei confronti del committente. Le imprese mandanti sono invece esclusivamente responsabili per le porzioni di opera di loro specifica competenza, ferma società di fatto o contratto associativo innominato, RDCiv, 1983, II, 653 s.; e v. anche TROIANO, Cooperazione stabile, 134 ss., nonché, in giurisprudenza, ma ricorrendo alla discutibile figura della società apparente, Cass. 27-10-1995, n. 11152, Giust civ, 1995, I, 1005), anche se entrambe le proposte vanno respinte perché risultano riduttive rispetto alla complessa struttura della fattispecie (CAMPOBASSO), il cui fulcro risiede nel mandato collettivo conferito all’impresa capogruppo. 69 Le figure di associazioni temporanee d’impresa regolate dalle leggi speciali sono le seguenti: a) gli accordi di cooperazione internazionale per la produzione di opere cinematografiche (art. 6, d.lgs. 28/2004); b) la contitolarità della concessione per la ricerca e la coltivazione di giacimenti di idrocarburi (art. 18, l. 613/1967) o minerari (art. 12, l. 221/1990). E v., ASTOLFI, Il contratto di joint venture. La disciplina giuridica dei raggruppamenti temporanei di imprese, Milano, 1981, 162 ss. e 172 ss. 70 Così, CORAPI, Le associazioni, 124; ed in giurisprudenza, Cass. 11-5-1998, n. 4728, Giust civ, 1998, I, 2539. 71 La giurisprudenza, anche comunitaria (CGCE 4-10-2007, C492/06, cui la questione è stata sottoposta da Cons.St. 14-11-2006, n. 6677, FAmm-Cons.St., 2007, 3062) tende tuttavia a riconoscere rappresentanza processuale anche alla singola impresa mandante (Cass. 20-5-2010, n. 12422; Cass. 20-8-2004, n. 17411; Cons.St. 12-2-2007, n. 593, in FAmm-Cons.St., 2007, 535).

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restando (anche rispetto a queste) la responsabilità solidale dell’impresa capogruppo (art. 48, co. 5, 2° parte). Per converso, nei raggruppamenti di tipo orizzontale in cui tutte le imprese eseguono il medesimo tipo di prestazione e, quindi, le parti dell’opera non sono scorporabili, la distribuzione del lavoro tra le partecipanti non assume evidentemente alcuna rilevanza per il committente: sicché l’offerta congiunta delle imprese raggruppate genera la responsabilità solidale di tutte nei confronti della stazione appaltante, nonché nei riguardi del subappaltatore e dei fornitori (art. 48, co. 5, 1° parte) 72. L’impresa capogruppo e le imprese mandanti assumono ovviamente un diverso ruolo nei confronti del committente. Ed infatti, in caso di fallimento dell’impresa capogruppo, morte, interdizione o inabilitazione del suo titolare, la stazione appaltante può: a) proseguire il rapporto di appalto con altra impresa del raggruppamento (costituita capofila) in possesso di requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi ancora da eseguire; oppure, b) non sussistendo tali condizioni, recedere dall’appalto (art. 48, co. 18). Diversamente, il fallimento di una delle imprese mandanti (così come la morte, l’interdizione o l’inabilitazione del suo titolare) comporta soltanto la facoltà dell’impresa capofila di sostituire l’impresa con altra in possesso dei requisiti di idoneità ovvero di eseguire personalmente, o a mezzo degli altri mandanti, la porzione di opera di competenza dell’impresa fallita: ma la scelta di una di queste strade alternative non è in ogni caso subordinata al gradimento del committente (art. 48, co. 17) 73.

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Il profilo della responsabilità è stato approfondito soprattutto da IUDICA, La responsabilità contrattuale degli appaltatori in joint venture, Milano, 1984, 60 ss. e 98 ss., che configura un’obbligazione soggettivamente complessa delle imprese partecipanti e riconosce, per il caso di inadempimento della prestazione di una di esse, natura fideiussoria alla responsabilità delle altre nei confronti del committente. Su tali profili v. anche la lucida analisi di CARBONE-D’ANGELO, Cooperazione, 75 ss. e spec. 105 ss. e 109 ss., anche per l’opportuna distinzione tra prestazioni fungibili ed infungibili ed i criteri di distribuzione interna dei rischi nel raggruppamento. 73 Sul punto, ma prima del d.lgs. 50/2016, F. CARDARELLI, I raggruppamenti temporanei e i consorzi ordinari di concorrenti, in SANDULLI-DE NICTOLIS-GAROFOLI, Trattato sui contratti pubblici, II, Milano, 2008, 1229 ss. In giurisprudenza, con riguardo al caso di fallimento di un’impresa mandante, Cass. 30-12003, n. 1396, GIt, 2003, 1633; e con riferimento agli effetti del fallimento della capogruppo, Cass. 15-42003, n. 5950, Fall, 2004, 735.

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GLI STRUMENTI DI MOBILIZZAZIONE DELLA RICCHEZZA. PRINCIPI FONDAMENTALI SOMMARIO: Introduzione. – § 21. I titoli di credito cartacei ed elettronici. – § 22. La circolazione del denaro: gli strumenti di pagamento.

INTRODUZIONE La ricchezza monetaria e finanziaria rappresenta oggigiorno il cuore pulsante dell’economia: essa raggruppa il denaro, il risparmio, gli investimenti finanziari nelle attività imprenditoriali e nello stato, e viene tradizionalmente classificata, nel suo complesso, come ricchezza mobiliare, in contrapposizione a quella immobiliare, costituita, come si evince dal nome, dalla proprietà fondiaria. Ora, la ricchezza mobiliare è, per vocazione, una ricchezza essenzialmente circolante. In un’economia moderna e sviluppata, la sua movimentazione è una delle componenti centrali del traffico giuridico; basta pensare alla frequenza degli scambi commerciali e dunque dei pagamenti, per comprendere l’importanza della circolazione del denaro nei sistemi economicamente avanzati; e basta considerare le dimensioni degli investimenti finanziari e l’intensità degli scambi nei mercati (di azioni, di titoli di stato, ecc.), per cogliere il ruolo che questi assumono per lo sviluppo delle imprese in tali sistemi. È intuitivo dunque che, in un simile contesto, si profila come fondamentale fattore di crescita e di stabilità la realizzazione di alcuni obiettivi volti a promuovere e a proteggere la movimentazione di questa forma di ricchezza: ad assicurarne, in particolare, la celerità e la sicurezza. Il perseguimento di questi obiettivi è oggi alla base di numerosi e complessi istituti, la cui disciplina rappresenta il portato di un’evoluzione storica secolare, dello sviluppo tecnico e tecnologico del mondo contemporaneo e dell’affinamento della cultura e del pensiero giuridico moderno. All’interno di questo articolato tessuto si possono riconoscere due grandi gruppi di istituti, corrispondenti alle due forme che lo spostamento in senso lato di ricchezza può assumere: questo può infatti consistere nell’attribuzione di unità monetarie (di denaro) da parte di un soggetto a favore di un altro, ossia nel pagamento di un’obbligazione pecuniaria, oppure nella circolazione in senso proprio di una situazione giuridica rappresentativa di un valore finanziario (un diritto di credito, una partecipazione sociale, ecc.). Corrispondentemente a questa suddivisione, risultano individua-

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bili le due macrofamiglie degli strumenti di pagamento e degli istituti riguardanti la circolazione dei rapporti finanziari. Si tratta, è agevolmente intuibile, di famiglie tra loro eterogenee e funzionali al soddisfacimento di bisogni distinti. Nel pagamento di un debito pecuniario, ciò che conta è l’assicurare celerità, accessibilità e sicurezza del mezzo di trasmissione del denaro, e in questa prospettiva vanno considerati gli strumenti (assegni bancari, bonifici elettronici, carte di credito, carte prepagate, ecc.) che creatività e tecnologia hanno ormai largamente diffuso nella quotidianità degli scambi commerciali. Nel mercato dei valori finanziari preme invece, dall’un lato, garantire una adeguata protezione degli acquisti e, dall’altro, favorire meccanismi operativi agili e veloci, oggi veicolati, va da sé, dagli apparati informatici; a questi scopi assolvono l’istituto dei titoli di credito (cambiali, azioni di società, titoli di stato, ecc.), in generale, e quello dei titoli di credito elettronici, in particolare. Il fenomeno della movimentazione della ricchezza mobiliare, pur riguardando eminentemente l’impresa e le attività imprenditoriali, non appartiene a queste in via esclusiva: cambiali, bonifici bancari, ecc. sono realtà comuni alle relazioni giuridiche aventi contenuto patrimoniale, indipendenti dall’inserimento in un contesto produttivo. Perciò, a stretto rigore, tali istituti non fanno parte del diritto dell’impresa; si inseriscono tuttavia a pieno titolo nella parte ad essa dedicata, in ragione della loro tensione allo sviluppo delle dinamiche del mercato e perché la loro comprensione risulta essenziale al fine di poter poi cogliere la portata di altri istituti, centrali al diritto delle società di capitali e ai sistemi di finanziamento delle imprese.

§ 21. I TITOLI DI CREDITO CARTACEI ED ELETTRONICI SOMMARIO: I. La nozione di titolo di credito. – II. La fattispecie titolo di credito. – III. I principi cartolari. – 1. Le leggi di circolazione dei titoli. – 2. L’autonomia reale. – 3. L’autonomia obbligatoria. La letteralità. Astrattezza e causalità dei titoli. – 4. La legittimazione cartolare attiva e passiva.

LETTERATURA: ASCARELLI, Sul concetto di titolo di credito e sulla disciplina del titolo V libro IV del nostro codice, BBTC, 1954, I, 367; ID., Ancora sul concetto di titolo di credito e sulla distinzione tra tipologia della realtà e normativa, BBTC, 1956, I, 461; ID., Il problema preliminare dei titoli di credito e la logica giuridica, RDComm, 1956, I, 301; ID., Tipologia della realtà, disciplina normativa e titoli di credito, BBTC, 1957, I, 357; ASQUINI, Titoli di credito, Padova, 1966; BRIOLINI, I vincoli sui titoli di credito, Torino, 2002; CALLEGARI-COTTINO-DESANA-SPATAZZA, I titoli di credito, Tr. Cottino, VII, 2006; CHIOMENTI, Il titolo di credito. Fattispecie e disciplina, Milano, 1977; CIAN, Titoli dematerializzati e circolazione “cartolare”, Milano, 2001; ID., voce Dematerializzazione, EncD, Ann.II, 2, 2009; D’ALESSANDRO, I titoli di partecipazione, Milano, 1968; DE LUCA, Circolazione delle azioni e legittimazione dei soci, Torino, 2007; ID., L’antifattispecie cartolare. Contributo allo studio dei titoli di credito, BBTC, 2017, I, 93; DI AMATO, I titoli di credito, Tr. Rescigno, 13**2, 2008; DONATI, Il titolo di credito nella teoria del negozio giuridico, Napoli, 1999; FERRI, Sul concetto di titolo di credito, BBTC, 1956, I, 322; ID., Ancora sul concetto di titolo di credito, BBTC, 1957, I, 66; ID., I titoli di credito2, Tr. Vassalli, 1965; FIORENTINO, Dei titoli di credito2, Comm. Scialoja-Branca, 1974; GALGANO, I titoli di credito, Padova, 2009; ID., Titoli di credito3, Comm. Scialoja-Branca, 2010; GUIZZI, Il titolo azio-

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nario come strumento di legittimazione, Milano, 2000; LENER, La “dematerializzazione” dei titoli azionari e il sistema Monte Titoli, Milano, 1989; LIBERTINI, Profili tipologici e profili normativi nella teoria dei titoli di credito, Milano, 1971; LIBONATI, I titoli di credito nominativi, Milano, 1965; ID., Titoli di credito e strumenti finanziari, Milano, 1999; MARTORANO, Titoli di credito. Titoli non dematerializzati, Tr. Cicu-Messineo, 2002; MENTI, Ex chartula. Nozioni introduttive ai titoli di credito, Torino, 2011; OPPO, voce Titoli di credito. I) In generale, EncGiur, XXXI, 1994; PARTESOTTI, Il trasferimento della cambiale, Padova, 1977; PARTESOTTI-MANENTE-URBANI, Lezioni sui titoli di credito6, Bologna, 2010; PAVONE LA ROSA, La cambiale2, Tr. Cicu-Messineo, 1994; PELLIZZI, Principi di diritto cartolare, Bologna, 1967; RESCIGNO, Titoli rappresentativi e circolazione delle merci, Milano, 1992; SPADA, Introduzione al diritto dei titoli di credito3, Torino, 2012; STAGNO D’ALCONTRES, Tipicità e atipicità nei titoli di credito, Milano, 1992; ID., Il titolo di credito. Ricostruzione di una disciplina, Torino, 1999; TERRANOVA, I titoli di credito e la struttura delle situazioni soggettive, Padova, 2008.

I. La nozione di titolo di credito Il titolo di credito è il documento, cartaceo o elettronico, menzionante una situazione giuridica attiva (principalmente: credito pecuniario, partecipazione sociale, possesso di merci custodite presso terzi) che circola in modo autonomo (cioè secondo principi che garantiscono l’autonomia dell’acquisto dalla posizione dell’alienante) mediante la movimentazione del documento, ed al cui esercizio è legittimato il soggetto nella cui disponibilità materiale si trova il documento stesso. I titoli di credito sono disciplinati, come categoria generale, negli artt. 1992 ss. Tale complesso normativo è il portato della estrapolazione, dalla disciplina precedentemente (e ancora oggi) dedicata a talune specie di titoli (cambiali e assegni: r.d. 1669 e 1736/1933, tuttora vigenti), di principi generali valevoli per l’intera categoria. Essi svolgono una funzione fondamentale nel rafforzamento delle garanzie che presidiano il mercato della ricchezza mobiliare e quindi, a monte, nel potenziamento delle opportunità di accesso al finanziamento, da parte di chi si proponga di raccogliere capitali di terzi per un qualche fine (specie imprenditoriale). Infatti, la propensione all’investimento in attività altrui, da parte di chi disponga di risorse finanziarie libere e possa dunque valutarne una conveniente allocazione, cresce in modo direttamente proporzionale al crescere della facilità di disinvestimento, e quindi di recupero successivo della liquidità investita; l’esistenza di un mercato dove possano trovarsi altri investitori, interessati a subentrare nel rapporto di finanziamento, favorisce perciò l’una (la facilità di disinvestimento) ed incrementa l’altra (la propensione all’investimento). D’altra parte, la disponibilità ad acquisire valori finanziari in questo mercato è a sua volta direttamente proporzionale alle garanzie che esso è idoneo ad offrire, di fronte ai rischi tipici di ogni acquisto (il difetto di titolarità del bene ceduto, in capo all’alienante; la non corrispondenza del bene acquistato alle caratteristiche attese). Il titolo di credito costituisce lo strumento giuridico per una circolazione dei valori finanziari con protezione rafforzata degli acquisti e perciò rappresenta uno strumento utile a mediare tra l’interesse di chi aspira alla raccolta di investimenti stabilmente destinati alla realizzazione di una data iniziativa e di chi, propenso all’investimento, intende peraltro riservarsene per il futuro una diversa e pronta ricollocazione. Per comprendere l’importanza del fenomeno basta pensare alla genesi delle società per

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azioni, agli albori dell’evo contemporaneo: nel XVI-XVII secolo, i nascenti scambi commerciali transoceanici richiedono il reperimento di risorse finanziarie ingenti, radunabili solo attraverso il ricorso al risparmio diffuso; chi investe il proprio denaro acquista una o più unità di partecipazione all’affare (le azioni), che può poi facilmente cedere in un mercato (quasi coeva è la nascita delle borse valori), recuperando le risorse investite; chi intende partecipare successivamente all’iniziativa trova a sua volta proprio nel mercato l’attesa opportunità di investimento. La disciplina ordinaria della circolazione dei rapporti obbligatori non offre però adeguate forme di promozione e di tutela del mercato della ricchezza finanziaria. La circolazione non cartolare (soggetta cioè a tale disciplina) è invero rischiosa e scarsamente agile. I rischi corsi dal cessionario di un diritto di credito (artt. 1260 ss.) o di un rapporto contrattuale (artt. 1406 ss.) concernono la titolarità stessa e il contenuto della posizione giuridica acquistata: il conseguimento della prima dipendendo dal fatto che il cedente sia a sua volta titolare del diritto ceduto, o legittimato a disporne; il secondo non potendo comunque essere diverso da quello che il medesimo diritto aveva in capo al cedente (il debitore o contraente ceduto può infatti opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al cedente: artt. 1248, 1409). Anche le modalità di attuazione del trasferimento risultano sofisticate e incompatibili con una circolazione frequente: la cessione è infatti efficace nei confronti del debitore solo a seguito della notificazione o della sua accettazione (art. 1264) e richiede il consenso del contraente ceduto (art. 1406). D’altra parte, l’esercizio del diritto da parte del cessionario è subordinato alla prova non solo dell’esistenza del diritto, ma anche di un valido ed efficace atto di acquisto dello stesso. La circolazione cartolare (cioè dei titoli di credito) asseconda invece le esigenze di celerità e protezione degli acquisti, attraverso le opportunità offerte dal collegamento tra il documento, cartaceo od elettronico, e la posizione giuridica documentata. Storicamente l’istituto nasce, va da sé, nella sola forma cartacea: la stessa espressione “cartolare” deriva dall’impiego della chartula come supporto documentale del rapporto obbligatorio. È solo negli ultimi decenni che la tecnica ha offerto soluzioni diverse, quale è oggi eminentemente la documentazione elettronica, che tuttavia si sono calate nella realtà dell’istituto senza snaturarne i tratti fondamentali e la funzione. Le genesi storica del fenomeno e della sua disciplina impone però una considerazione separata delle due famiglie che oggi compongono l’istituto cartolare: quella dei titoli classici (cartacei) e quella dei titoli immessi nei sistemi di gestione accentrata elettronica. Ora, i principi cardine della disciplina relativa ai titoli cartacei sono codificati negli artt. 1992, 1993 e 1994. La funzione di strumenti di circolazione della ricchezza mobiliare è assolta mediante l’attribuzione di un particolare valore giuridico al collegamento tra il documento (il titolo) e il diritto documentato, che si definisce incorporazione del diritto nel documento. Tale collegamento si esplica, sul piano giuridico, su un triplice livello: a) correla la circolazione della posizione giuridica documentata alla circolazione della chartula; l’acquirente acquista la prima in quanto acquista questa seconda. Le implicazioni sono immediate: poiché il documento è una cosa mobile, ne è possibile

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l’acquisto della proprietà anche a non domino, purché se ne consegua il possesso in buona fede (art. 1153); per tal via, l’acquirente del titolo di credito acquista a non domino anche il diritto documentato (art. 1994); b) correla il contenuto di quest’ultimo alla lettera del documento: con alcune eccezioni volte a proteggere il debitore alla cui volontà l’emissione del titolo non sia riferibile (per falsità della firma, difetto di rappresentanza, ecc.), il contenuto della pretesa azionabile dall’acquirente è quello risultante dal titolo, poiché nessuna eccezione personale ai precedenti possessori e non menzionata nel documento gli è opponibile (art. 1993); c) correla l’esercizio del diritto al semplice possesso del documento (eventualmente, come si vedrà, qualificato dal ricorrere di alcune formalità, per certi tipi di titoli): il possessore che esibisce la chartula non deve fornire altra prova della titolarità della sua pretesa e, specularmente, il debitore che paga a suo favore è sempre liberato, a meno che non disponga di prove certe della carenza di titolarità in capo a lui (art. 1992). Il favor per la circolazione e conseguentemente per la formazione di un mercato efficiente e sicuro della ricchezza cartolarizzata è evidente. Chi acquista una cambiale, un assegno, l’azione di una società, non ha da temere che il proprio dante causa non ne sia titolare, poiché il conseguimento del possesso in buona fede gliene assicura comunque la proprietà; né ha da temere che il rapporto documentato sia stato modificato (ad es. per la concessione di una dilazione nel pagamento) o addirittura estinto (per pagamento o per remissione, ad es.) quando faceva capo al cedente stesso o ad altri che lo avessero preceduto nella catena di trasferimenti, perché nessuna di queste eccezioni, per quanto provabile, gli è opponibile se non risulta dal titolo. Egli inoltre, in sede di esercizio del diritto, assolve ad ogni onere probatorio con la sola presentazione del documento. L’incorporazione del diritto nel titolo rappresenta una soluzione tecnica che apre la strada all’operatività di principi altrimenti non applicabili: soluzione basata sull’esclusività della relazione materiale che si instaura tra il possessore del documento e il rapporto documentato e sulle evidenze offerte dalla lettera del titolo. Proprio in quanto semplice tecnica, essa si presta ad essere surrogata da altre tecniche, che, in quanto presentino le medesime caratteristiche, consentano l’applicazione degli stessi principi normativi. Così sarebbe per la documentazione elettronica del diritto su un supporto magnetico circolante, a condizione che essa garantisca l’irriproducibilità e l’integrità dei dati memorizzati, ossia la loro inalterabilità senza il consenso dell’emittente. In tal caso si avrebbe un titolo di credito ancora materiale (la tessera o card contenente la registrazione), sebbene non più cartaceo, ed interamente soggetto alla disciplina suesposta. La più importante forma che oggi rivestono i titoli di credito elettronici è però del tutto diversa: essi si presentano come titoli scritturali (titoli dematerializzati), la relativa disciplina è contenuta nel Testo Unico della Finanza (d.lgs. 58/1998, artt. 79decies ss.) e vi sono soggetti necessariamente i titoli negoziati nelle sedi di negoziazione europee (si tratta principalmente dei mercati regolamentati e dunque il fenomeno riguarda le azioni quotate, i titoli di stato, ecc.) e facoltativamente (cioè a scelta dell’emittente) i titoli di massa (cioè emessi in serie) non quotati (art. 83-bis). Qui il rapporto giuridico è documentato in forma telematica in un conto acceso presso un in-

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termediario abilitato (banche, imprese di investimento, ecc.) e intestato al “possessore” del titolo; l’insieme dei titoli di pertinenza dei clienti di uno stesso intermediario viene a sua volta registrato in un conto (c.d. conto-terzi), intestato all’intermediario stesso e acceso presso un depositario centrale (CSD) 1. Si delinea così una rete di conti piramidale, con al vertice il CSD e, alla base, gli intermediari e i loro rispettivi clienti. La circolazione dei titoli dematerializzati avviene attraverso movimentazioni contabili telematiche (operazioni di giro), consistenti nell’addebito della quantità di titoli ceduta, a carico del conto dell’alienante e del conto-terzi del suo intermediario, e nell’accredito della medesima quantità, a favore del conto dell’acquirente e del conto-terzi del relativo intermediario (una sorta di “consegna” virtuale del titolo). La disciplina ricalca, nei principi, quella dei titoli cartacei. Infatti: a) l’acquirente che ha ottenuto l’accredito a proprio favore in buona fede non è soggetto alla “rivendicazione” di precedenti titolari (art. 83-quinquies, co. 2), cioè acquista la titolarità del rapporto documentato anche a non domino; b) all’intestatario del conto in cui il titolo è registrato sono opponibili solo le eccezioni a lui personali e quelle comuni a tutti gli altri titolari di titoli della stessa serie (art. 83-septies), quindi non quelle personali ai precedenti “possessori”; c) il titolare del conto ha la legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto documentato (art. 83-quinquies, co. 1) e quindi, esibita all’emittente la certificazione rilasciatagli dall’intermediario ed attestante la registrazione dei titoli nel suo conto, non deve fornire altra prova della sua titolarità. Il sistema di gestione accentrata dei titoli scritturali garantisce così la sicurezza della circolazione e la celerità nella movimentazione dei documenti, favorendone ampiamente il mercato.

II. La fattispecie titolo di credito La figura in esame abbraccia un’ampia varietà di specie. A seconda della natura della posizione giuridica documentata possono distinguersi: a) titoli di finanziamento, che incorporano un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione pecuniaria: cambiali, titoli di stato, ecc.; la stessa espressione “titolo di credito” è legata proprio ai più antichi esempi di questa figura, le cambiali; b) titoli partecipativi, che incorporano una posizione giuridica complessa, rappresentativa della partecipazione economica ed organizzativa ad una iniziativa produttiva: azioni di società, strumenti finanziari partecipativi, ecc.; qui il rapporto documentato comprende diritti patrimoniali (agli utili, alla quota di liquidazione) e amministrativi (di voto, di controllo, ecc.); c) altri valori finanziari, che documentano posizioni giuridiche di vario tipo, come diritti di opzione, quote di fondi comuni di investimento; 1

L’art. 83-bis, co. 1-bis, permette, in alternativa all’immissione presso un CSD, la c.d. “emissione diretta” in forma scritturale: in tal caso, è lo stesso emittente a curare presso di sé la documentazione elettronica dei propri strumenti finanziari e dunque ad accendere e gestire i conti nei quali essi vengono registrati e tra i quali vengono movimentati; alla circolazione di questi titoli dovrebbero applicarsi i medesimi principi che presidiano quella dei titoli affidati al CSD.

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d) titoli rappresentativi di merci (art. 1996), che incorporano il diritto alla consegna di merci (ad es. derrate alimentari) depositate presso un terzo o trasportate da un vettore, il possesso delle stesse e il potere di disporne mediante trasferimento del titolo. Molte di queste figure sono direttamente menzionate e più o meno ampiamente regolate dalla legge: a cambiali e assegni sono dedicati i rr.dd. 1669 e 1736/1933, alle azioni di società gli artt. 2346 ss., ai titoli rappresentativi di merci l’art. 1996, e via discorrendo. È tuttavia opinione comune, per quanto non incontrastata, che il sistema sia retto dal principio di aticipità, che, cioè, sia possibile la creazione di titoli diversi da quelli normativamente tipizzati. Lo si deduce dall’art. 2004, che, vietando l’emissione di titoli al portatore (cioè circolanti mediante semplice consegna materiale, senz’altra formalità) contenenti l’obbligazione di pagare una somma di denaro, al di fuori dei casi stabiliti dalla legge (ciò per evitare la creazione di un sistema privato di moneta, parallelo a quello legale), parrebbe in ogni altra ipotesi autorizzare l’emissione di titoli atipici 2. Tutto questo comporta la necessità di individuare gli elementi costitutivi della fattispecie cartolare, i requisiti e le condizioni in presenza dei quali, cioè, un documento in concreto menzionante una posizione giuridica è qualificabile come titolo di credito. Non ogni supporto cartaceo su cui sia annotato un rapporto giuridico, infatti, è sussumibile in questa fattispecie: non lo è ad es. l’atto notarile di compravendita di un immobile, nonostante vi sia indicato il credito del venditore al prezzo, né l’atto di concessione di una garanzia fideiussoria, ma neppure il biglietto aereo o per l’accesso allo stadio di calcio. Sennonché non esiste alcuna norma definitoria a tal proposito. La questione dell’individuazione della fattispecie cartolare è, proprio per tale ragione, uno dei nodi irrisolti di questa materia 3. Va osservato che la nozione esposta in apertura (essere il titolo di credito il documento menzionante una situazione giuridica circolante secondo principi di autonomia) non ha, sotto il profilo ora in esame, rilievo alcuno, poiché essa enuncia la disciplina, non la fattispecie: sintetizza cioè le regole cui soggiace un dato documento, una volta che lo si è qualificato come titolo di credito, ma non indica quali elementi consentano tale qualificazione, ed è perciò una definizione normativa, non tipologica. Ciononostante essa aiuta l’indagine, poiché, sottolineando la funzione appunto normativa dell’istituto, permette di cogliere gli interessi al cui servizio esso deve porsi e di individuare così in presenza di quali condizioni tali interessi si profilano. Ogni regola giuridica, infatti, è strumentale al soddisfacimento di un’esigenza; per ragioni di coerenza interna, alla fattispecie cui essa si applica deve, dunque, essere immanente la manifestazione di questa esigenza, sicché, quando non è lo stesso legislatore a definire la fattispecie, l’interprete può ricostruirla risalendovi utilmente dalla disci2

Sul tema v. STAGNO D’ALCONTRES, Tipicità; ID., Il titolo, 225 ss.; MARTORANO, Titoli, 19 ss. Fondamentali per lo sviluppo della tematica restano ancora oggi gli studi di ASCARELLI (Sul concetto, 367 ss.; Il problema, 301 ss.; Ancora sul concetto, 461 ss.; Tipologia, 357 ss.), cui si contrapposero negli stessi anni ’50, in vivace polemica, quelli di FERRI (Sul concetto, 322 ss.; Ancora sul concetto, 66 ss.). Sul tema in esame v., per una disamina critica delle diverse posizioni, MARTORANO, Titoli, 155 ss. 3

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plina. Per quel che riguarda il titolo di credito, la più moderna dottrina ne ha messo in luce la funzione, già illustrata, di promozione del mercato e di mediazione nella raccolta e nella circolazione dei finanziamenti 4. Può dunque definirsi titolo di credito quel documento formato ed emesso per realizzare un’operazione di finanziamento tra colui che è interessato a conseguire l’investimento e colui che è interessato a concederlo assicurandosene però una facile liquidabilità mediante la negoziazione del rapporto. Centrale è dunque la volontà dell’emittente e del primo prenditore; ma poiché la manifestazione di volontà contenuta nel documento, se di titolo di credito vero e proprio si tratta, è destinata a rilevare non solo nei rapporti tra le parti originarie, ma anche nei confronti della comunità dei terzi che operano nel mercato, essa va interpretata, ex art. 1366, secondo il significato che l’indeterminato, potenziale destinatario di media diligenza potrebbe attribuirle; perciò, perché il documento sia effettivamente qualificabile come titolo di credito, occorre che esso venga percepito come tale (cioè come destinato alla circolazione) dalla comunità dei consociati e, viceversa, il documento che riveste questo significato per i terzi va qualificato come titolo di credito a prescindere dall’effettivo intento dell’emittente. Ciò consente di comprendere perché negli esempi fatti (atto pubblico di compravendita, biglietto aereo, ecc.) non siano rilevabili gli elementi costitutivi della fattispecie cartolare. In particolare, consente di cogliere la distinzione fra i titoli di credito e i c.d. documenti di legittimazione, che hanno la sola funzione di permettere una pronta identificazione del destinatario di una prestazione (art. 2002): così è per i biglietti della lotteria, per i contrassegni rilasciati al deposito bagagli o al guardaroba, per i gettoni delle giostre, che non presentano, all’evidenza, alcuna destinazione alla circolazione e la cui unica funzione è quella di facilitare l’esecuzione della prestazione conferendo al loro possessore una prova immediata del suo diritto e giovando altresì al debitore, che si libera se paga in buona fede a chi gli esibisce il documento, secondo il principio del pagamento al creditore apparente (art. 1189). Il titolo di credito nasce dunque con la sottoscrizione del documento (creazione) da parte dell’emittente/debitore e con la sua emissione, normalmente volontaria (rilascio del titolo a favore del primo prenditore), ma che produce i propri effetti anche se involontaria, atteso che il terzo acquirente di buona fede acquista il rapporto documentato ex art. 1994 5. È questa vicenda a determinare sul piano giuridico l’incorporazione del diritto nella chartula (infra, III.2) e la sua astrazione rispetto al rapporto che giustifica causalmente l’emissione stessa (infra, III.3). L’acquirente di un bene, ad es., rilascia, per il pagamento del corrispettivo, una cambiale al venditore, la quale incorpora l’obbligo al pagamento di una somma eguale, di regola a una data scadenza: il diritto sottostante (cioè la pretesa al prezzo, nascente dal contratto di compravendita) rimane inesigibile e sospeso sin tanto che il titolo è in circolazione e il pagamento di questo estingue anche il debito sottostante. Analogamente, il socio di una s.p.a. riceve il titolo azionario, sottoscritto da uno degli amministratori e documen4

CHIOMENTI, Il titolo, 3 ss.; SPADA, Introduzione, 95 ss.; LIBONATI, Titoli, 33 ss. È per questo che molto dibatte la dottrina in merito alla fattispecie costitutiva del titolo, tra chi sostiene che esso nascerebbe con la creazione, e chi con l’emissione: v. MARTORANO, Titoli, 323 ss.; CIAN, Titoli, 103, nt. 127. 5

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tante la sua partecipazione; da tale momento, quest’ultima circola nelle forme e secondo i principi della circolazione cartolare. Il problema dell’individuazione della fattispecie si fa assai meno complesso per i titoli scritturali, perché qui la documentazione (registrazione nel conto) coincide con l’immissione nel sistema di gestione accentrata, che di per sé vale come destinazione alla circolazione e viene percepita come tale dal mercato.

III. I principi cartolari Il cuore dell’istituto cartolare è situato su un duplice livello: nella disciplina della circolazione, ove si delinea la pronunciata tutela dell’acquirente di cui si è detto, e nelle regole di esercizio del diritto, imperniate sull’esibizione del titolo. I relativi principi vengono tradizionalmente riassunti nelle formule dell’autonomia (reale ed obbligatoria), della letteralità e dell’astrattezza, che traducono e spiegano la tutela degli acquisti, e della legittimazione attiva e passiva, che attengono alla fase esecutiva del rapporto documentato. L’intero sistema di queste regole si basa sulla circostanza di fatto della documentazione e del concreto ed esclusivo controllo su quest’ultima da parte di chi ha in mano la chartula o (per i titoli scritturali) di chi dispone del conto in cui il titolo è registrato. Per questo motivo, prima di esaminare i principi cartolari, debbono essere definiti i tratti di questa situazione di fatto.

1. Le leggi di circolazione dei titoli Per i titoli cartacei, centrale nel sistema è il possesso della chartula: l’autonomia dell’acquisto (artt. 1993 e 1994) giova a chi consegue il possesso del documento, la legittimazione all’esercizio del diritto spetta al possessore, il debitore è liberato se adempie la prestazione a favore del possessore (art. 1992). Tuttavia da questo punto di vista non sempre è sufficiente il semplice possesso. Esistono infatti tre distinte categorie di titoli di credito, ciascuna caratterizzata da una propria legge di circolazione: 1) titoli al portatore (ad es. libretto di risparmio al portatore emesso da una banca): circolano mediante semplice consegna materiale (art. 2003) e l’applicazione delle regole cartolari si ricollega al possesso del documento, senza ulteriori formalità; 2) titoli all’ordine (ad es. assegni, cambiali): contengono l’impegno ad eseguire la prestazione “all’ordine di” un soggetto menzionato nel documento e dunque circolano mediante consegna materiale accompagnata dalla girata, cioè dalla sottoscrizione apposta dall’alienante (girante) sul documento stesso, con l’indicazione del nuovo creditore (giratario: “e per me pagate a ...”); l’applicazione delle regole cartolari si ricollega perciò al possesso del titolo, accompagnato da una serie continua di girate, in cui ciascun girante figura come giratario nella girata precedente (art. 2008); 3) titoli nominativi (ad es. azioni): come nei titoli all’ordine, il nome del creditore è menzionato nel documento, ma, in più, esso è riprodotto anche in un registro

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tenuto dall’emittente; la circolazione avviene mediante consegna della chartula e indicazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro, a cura dell’emittente (c.d. tranfert: art. 2022), oppure mediante girata autenticata e successivo aggiornamento del registro dell’emittente (art. 2023); perciò l’applicazione delle regole cartolari è collegata al possesso, accompagnato dalla duplice intestazione (art. 2021). Si parla, per i titoli all’ordine e nominativi, di possesso qualificato. Naturalmente, il trasferimento di un titolo di credito richiede sempre l’esistenza di un valido ed efficace negozio traslativo; la consegna, eventualmente qualificata, attiene alla fase esecutiva del negozio 6 e non può, da sola, sopperire alla sua mancanza; tuttavia essa assume un ruolo fondamentale nella circolazione, perché è proprio grazie ad essa che si determina la protezione rafforzata dell’acquirente. Per i titoli scritturali la disciplina poggia sul dato della menzione del diritto nel conto e della movimentazione virtuale tra conti; non è configurabile una situazione di possesso in senso tecnico del documento 7, cioè del supporto materiale, né una sua movimentazione fisica, e dunque una consegna, nella circolazione del diritto; ad essi equivale però la titolarità del conto in cui questo è registrato: al possessore del titolo cartaceo corrisponde qui il titolare del conto e alla consegna del titolo corrisponde l’operazione di giro (addebito/accredito) tra conti. Come si è detto, le conseguenze sul piano della disciplina sono identiche. Per questi titoli la legge di circolazione risulta unica e si basa sulla consegna virtuale mediante operazione di giro 8. Per la verità permane, a livello normativo, la distinzione fra titoli non nominativi e titoli nominativi (art. 83-novies, lett. d, TUF); a onor del vero al titolo scritturale è sempre abbinato il nome del “possessore”, in quanto la registrazione avviene sempre in un conto intestato, ma la distinzione dovrebbe riguardare la necessità (per i titoli nominativi) o meno (per gli altri) di procedere altresì all’annotazione dell’acquirente nel registro dell’emittente. E però la tutela cartolare è comunque ricollegata, per tutti, al solo accredito nel conto; la distinzione tra le due categorie rileva perciò solo sotto il profilo della legittimazione all’esercizio 6 Prevale infatti la tesi dell’applicabilità del generale principio consensualistico (art. 1376) anche nella circolazione cartolare: MARTORANO, Titoli, 455 ss.; PELLIZZI, Principi, 50 ss.; BIGIAVI, Il trasferimento dei titoli di credito, RTrim, 1950, I, 1 ss.; Cass. 24-6-2008, n. 17088, BBTC, 2009, II, 1 (ma confusamente); Cass. 5-9-1995, n. 9314, GComm, 1997, II, 145. La tesi opposta, secondo cui lo scambio dei consensi costituirebbe esclusivamente l’obbligo di trasferire la proprietà del titolo, mentre il trasferimento ne richiederebbe la consegna, è sostenuta in particolare da ASQUINI, Titoli, 58 ss.; GALGANO, I titoli, 37 ss.; ID., Sulla circolazione dei titoli di credito, ContrImp, 1987, 382 ss.; in giur. v. Cass. 28-4-1981, n. 2557, GIt, 1982, I, 1, 564; ambigua è Cass. 20-1-2017, n. 1588. Sono irrilevanti, a questo proposito, le formule degli artt. 2003, 2011, 2022 s., che sono interpretabili come riferite al trasferimento del possesso e non della proprietà del titolo. Sulla necessità, infine, di un valido negozio traslativo per l’alienazione del titolo v. Cass. 23-4-2003, n. 6479. 7 CIAN, Dematerializzazione degli strumenti finanziari e “possesso” della registrazione in conto, BBTC, 2002, II, 165; dunque non sono esperibili le azioni possessorie, contrariamente a quanto affermato da Trib. Milano, 26-3-2001, ivi. 8 Anche per i titoli scritturali è discusso se operi il principio consensualistico o se il trasferimento richieda il compimento dell’operazione di giro: nel primo senso SPADA, La circolazione della “ricchezza assente” alla fine del millennio, BBTC, 1999, I, 419; nel secondo CIAN, Titoli, 276 ss.; ID., voce Dematerializzazione, 329 ss.; Cass. pen. 23-2-2009, n. 7769, GComm, 2010, II, 77.

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dei diritti da parte dell’intestatario del conto (che, se il titolo è nominativo, dovrà preventivamente chiedere l’annotazione del suo nome nel predetto registro) 9.

2. L’autonomia reale L’art. 1994 dispone, per i titoli cartacei, che “chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicazione”; in altre parole, ne acquista la titolarità anche a non domino e il terzo proprietario non può rivendicare il titolo nei suoi confronti. Si parla perciò di autonomia reale nella circolazione. L’operatività di questo principio, che non si applica invece alla circolazione dello stesso rapporto giuridico che non sia documentato in un titolo di credito, è resa possibile, come si è evidenziato, dall’incorporazione del primo nel secondo: il rapporto obbligatorio, per sua natura immateriale, viene materializzato, aggregato alla chartula, cosa mobile materiale a tutti gli effetti; e questo vincolo giuridico fa sì che, acquistando (anche a non domino, ex art. 1153) la proprietà della res, l’acquirente divenga altresì titolare del rapporto obbligatorio. Non si tratta, è intuitivo, di una particolare forma di commistione fisica tra una cosa corporale e un ens (il rapporto giuridico) che esiste solo nel mondo del pensiero, ma di uno speciale valore giuridico attribuito al dato di fatto della documentazione dalla volontà dell’emittente e del prenditore del titolo, e riconosciuto dalla comunità dei consociati (supra, II); valore che consente di trattare il rapporto documentato, sotto il profilo che veniamo esaminando, come una cosa mobile. Proprio in quanto fenomeno non materiale, ma prettamente giuridico, l’incorporazione non ha però valore assoluto, ma relativo: esplica i propri effetti (consentendo di trattare il rapporto obbligatorio come una cosa mobile) solo nella misura in cui ciò sia funzionale al soddisfacimento delle esigenze cui l’istituto è diretto (la tutela del mercato); perciò la distruzione della chartula non comporta l’estinzione del rapporto documentato e l’ultimo possessore può chiederne un duplicato o esercitare comunque il diritto, seguendo la particolare procedura dell’ammortamento (artt. 2016 ss., 2027, nonché 2006 s.). E per le stesse ragioni è fortemente discutibile l’usucapibilità di un titolo di credito 10.

La portata dell’art. 1994 coincide con quella dell’art. 1153 11. L’acquisto della proprietà del documento e della titolarità del rapporto incorporato presuppone per-

9

CIAN, voce Dematerializzazione, 333 ss. V. in senso positivo MARTORANO, Titoli, 679 ss.; LIBONATI, Titoli, 57; Cass. 6-4-1982, n. 2103, RDComm, 1982, II, 363 ss.; contra, OPPO, voce Titoli, 5; STAGNO D’ALCONTRES, Il titolo, 106 s. In arg. anche FOSCHINI, Usucapione dei titoli di credito, RDComm, 1960, I, 38 ss. 11 È però discusso se la coincidenza sia piena o meno, e, in particolare, se l’art. 1994 si applichi − contrariamente all’art. 1153 − anche in caso di acquisto a falso procuratore (acquisto da chi dichiari di agire in nome del proprietario, ma senza averne i poteri): v. in senso positivo MARTORANO, Titoli, 496 ss.; in senso opposto PELLIZZI, Principi, 49; per una posizione più articolata, secondo cui la protezione scatterebbe solo se l’acquisto fosse avvenuto in un mercato, LIBERTINI, Profili, 77 ss.; CHIOMENTI, Il titolo, 438 ss. (oggi, però, nel mercato circolano titoli scritturali, per cui il problema diviene se si applichi agli acquisti a falso procuratore l’art. 83-quinquies, co. 2, TUF, su cui v. infra). 10

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ciò l’esistenza di un negozio traslativo pienamente valido ed efficace: il possesso (eventualmente qualificato, a seconda del tipo di titolo) sana esclusivamente il difetto di proprietà dell’alienante, non altri vizi che inficino l’atto. L’acquirente, d’altra parte, acquista il titolo libero da vincoli che non risultino da questo (cfr. artt. 1997 e 2024). La tutela giova all’acquirente a condizione che consegua in buona fede il possesso del titolo. La buona fede (presunta: art. 1147) consiste nell’ignoranza dell’altruità del titolo 12. Per quanto riguarda l’apprensione della chartula, basta il possesso semplice, nei titoli al portatore, mentre occorre in più la girata a proprio favore (ultima di una serie continua di girate), nei titoli all’ordine, e ancora la girata o il transfert, per quelli nominativi. È chiaro dunque che l’acquisto a non domino è più difficile per queste due ultime categorie di titoli: e tuttavia esso può verificarsi, quando il dante causa, pur figurante come giratario nella penultima delle girate, non avesse acquistato la proprietà del titolo (ad es. per l’invalidità del suo atto di acquisto), o quando egli, sottratto il documento al vero proprietario, ne falsifichi la sottoscrizione girando il titolo a se stesso e poi al proprio avente causa. Per i titoli scritturali, l’art. 83-quinquies, co. 2, TUF dispone che “colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore, in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte di precedenti titolari”. Non si parla qui di “rivendicazione”, ma di “azione del precedente titolare”, semplicemente perché, non essendo in gioco la proprietà di una chartula, l’azione con cui il titolare fa valere la propria titolarità nei confronti di chi “detenga” indebitamente il titolo (di chi, cioè, sia intestatario del conto in cui questo è registrato) non sarebbe, tecnicamente, una rivendica; ma il principio è identico all’art. 1994. Né si può parlare di “incorporazione” del diritto in un supporto documentale circolante e di materializzazione della circolazione del primo attraverso la circolazione del secondo (l’hardware ove i dati sono memorizzati non viene infatti movimentato!); ma, come si è detto, l’incorporazione è solo una tecnica giuridica, che l’immissione del diritto nel circuito elettronico dei conti gestiti al vertice dal CSD sostituisce assolvendone le medesime funzioni, in particolare garantendo quella esclusività nel controllo materiale della documentazione (qui dato dal controllo sul conto di cui si è intestatari e quindi dalla legittimazione ad impartire all’intermediario ordini di disposizione sullo stesso), che consente la tutela dell’acquirente a non domino 13.

3. L’autonomia obbligatoria. La letteralità. Astrattezza e causalità dei titoli Per i titoli cartacei, l’art. 1993 stabilisce che “il debitore può opporre al possessore [eventualmente qualificato] del titolo soltanto le eccezioni a questo personali” e una serie di altre eccezioni opponibili a chiunque, mentre “le eccezioni fondate sui 12 Non c’è però buona fede se si acquista nel ragionevole dubbio o sospetto dell’altruità del titolo: Cass. 26-3-1980, n. 2011, BBTC, 1981, II, 48. 13 CIAN, voce Dematerializzazione, 321 ss.; LA SALA, Disciplina del possesso e acquisto di buona fede in regime di dematerializzazione, RSoc, 2004, 1391 ss.; ID., L’acquisto a non domino di strumenti finanziari dematerializzati, BBTC, 2004, I, 467 ss.

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rapporti personali con i precedenti possessori” sono opponibili a quello attuale “soltanto se, nell’acquistare il titolo”, questi “ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo”. Di regola, nella circolazione non cartolare di un rapporto obbligatorio, il debitore conserva nei confronti del cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al cedente. La circolazione cartolare è caratterizzata invece dall’autonomia obbligatoria dell’acquisto e quindi dall’indipendenza della posizione dell’acquirente rispetto a quella dei precedenti creditori. Tale indipendenza si esprime attraverso le formule della letteralità e dell’astrattezza. Letteralità significa che il possessore può esercitare la pretesa nei termini che sono indicati nel titolo, senza subire le conseguenze di eventuali atti modificativi del contenuto (es.: dilazioni, remissioni parziali) o estintivi della stessa (es.: pagamento) riferibili a precedenti possessori, ma non risultanti dal documento. Astrattezza significa che la creazione del titolo scinde giuridicamente (astrae) il diritto cartolare dal rapporto giuridico che vi ha dato causa (c.d. rapporto fondamentale), rendendo quest’ultimo irrilevante nei confronti dei successivi possessori del titolo, che non sono parti di tale rapporto; così il rilascio di una cambiale per il pagamento del prezzo di un bene dà vita ad un credito astratto rispetto al rapporto di compravendita, la cui esistenza, i cui vizi, le eccezioni scaturenti dal quale sono inopponibili ai terzi che successivamente acquistino la cambiale dal prenditore della stessa (cioè dal primo possessore, il venditore del bene). A tal proposito le eccezioni opponibili dal debitore di un titolo di credito si distinguono in: a) eccezioni reali. Sono opponibili a qualunque possessore e comprendono: a1) quelle “fondate sul contesto letterale del titolo” (ad es., il fatto che la somma dovuta risulti inferiore rispetto a quella pretesa) e quelle “di forma” (ad es., l’art. 1 r.d. 1669/1933 richiede l’apposizione della denominazione “cambiale” sul relativo titolo e nella lingua in cui esso è redatto); anche modifiche al rapporto originario (un pagamento parziale, una dilazione) divengono eccezioni fondate sulla lettera del titolo, se vi sono documentate; a2) talune eccezioni di non riferibilità dell’obbligazione cartolare alla volontà di chi figura come debitore: falsità della firma, difetto di capacità (d’agire, non di capacità naturale ex art. 428) o di rappresentanza al momento dell’emissione, cui va aggiunta la violenza fisica; b) eccezioni personali. Sono opponibili solo al singolo possessore e comprendono: b1) eccezioni personali in senso stretto: il difetto di proprietà del titolo (ad es., perché acquistato in base ad un negozio nullo, o a non domino in mala fede) e il difetto di legittimazione (cioè la carenza di possesso qualificato del titolo); b2) eccezioni fondate su rapporti personali con l’attuale possessore: si tratta di tutti i fatti che incidono sull’esistenza o sul contenuto della pretesa documentata, intercorsi con tale possessore; vi rientrano gli atti o le vicende direttamente modificative del rapporto cartolare (la concessione di una dilazione nel pagamento, l’adempimento della prestazione, ecc.), nonché le vicende concernenti altri rapporti, che possano dar luogo ad un’eccezione di compensazione. È a quest’ultimo tipo di eccezione che vanno ricondotte quelle scaturenti dal rapporto fondamentale (sempre che l’attuale possessore ne sia parte);

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b3) eccezioni fondate su rapporti personali con i precedenti possessori: si tratta di tutte quelle radicate in fatti e rapporti (ivi compreso il rapporto fondamentale), non riferibili al possessore attuale; esse restano a costui inopponibili, a meno che egli non abbia acquistato il titolo intenzionalmente a danno del debitore, cioè al solo scopo di privarlo dell’eccezione 14 (non basta dunque la consapevolezza di questa). È in tale inopponibilità che si manifesta l’autonomia obbligatoria dell’acquisto cartolare. Il principio di letteralità assume caratteri differenziati a seconda del particolare tipo di titolo. Esistono infatti titoli a letteralità piena, come la cambiale o l’assegno, in cui il documento contiene integralmente gli elementi della pretesa. Accanto ad essi, vi sono però titoli a letteralità incompleta, che menzionano solo in parte il contenuto del rapporto cartolare, bisognoso di integrazione con ulteriori documenti: è il caso del titolo azionario, che va integrato con lo statuto della società, per conoscere estensione e modalità di esercizio dei diritti del socio. Anche il principio di astrattezza non ha portata identica per tutti i tipi di titoli. Essa è completa, ancora una volta e primariamente, per cambiali e assegni: l’emissione di questi titoli dà vita, si dice, ad una posizione giuridica nuova (titoli costitutivi), distinta e completamente avulsa dal rapporto fondamentale e perciò essi si definiscono titoli astratti. Titoli causali sono invece quelli che presuppongono l’esistenza di un fatto relativo al rapporto fondamentale (il titolo rappresentativo di merci presuppone che queste siano state effettivamente depositate o affidate ad un vettore per il trasporto) o che addirittura non creano affatto una posizione giuridica nuova, ma si limitano a riprodurre, per la porzione documentata, il rapporto fondamentale (titoli non costitutivi); è il caso, principalmente, del titolo azionario. Si discute però dell’incidenza del carattere causale sull’autonomia obbligatoria di questi titoli. Per quelli del primo tipo vi è chi sostiene che sia opponibile ad ogni possessore l’eccezione di mancata consegna della merce al depositario/vettore o di non conformità della merce effettivamente consegnata a quella risultante dal titolo (c.d. eccezioni ex recepto), mentre, secondo altra tesi, il carattere astratto del titolo non permetterebbe l’opponibilità di queste eccezioni, in quanto nascenti dal rapporto fondamentale 15. Per i titoli azionari, la più moderna dottrina sembra aver superato l’opposta tesi della parziale inapplicabilità dell’art. 1993 (che vorrebbe opponibile a chiunque l’emissione dei titoli in soprannumero rispetto al capitale della società ed esigibili da qualunque possessore i conferimenti mancanti, sebbene non risultanti dal titolo), come anche la tesi ancor più radicale, negatrice della loro natura cartolare 16. Il fenomeno dell’autonomia obbligatoria viene tradizionalmente spiegato affermando che, nella circolazione di un titolo di credito, oggetto principale del trasferimento sarebbe la proprietà della chartula e che l’acquisto di questa determinerebbe quello a titolo originario del diritto documentato; proprio nell’originarietà di quest’ultimo si troverebbe la ragione della neutralizzazione delle eccezioni personali ai precedenti possessori. In realtà l’argomento è insufficiente, perché, di per sé, una posizione giuridica, la si consegua a titolo originario o derivativo, viene acquistata sempre con il contenuto che essa ha, mentre il fenomeno dell’inopponibilità delle eccezioni comporta un mutamento di contenuto se non

14 Non occorre però la collusione con il cedente: Cass. 22-6-2001, n. 8590; Cass. 14-7-1997, n. 6350 e Cass. 19-6-1996, n. 5670, BBTC, 1999, II, 165. 15 V. ampiamente MARTORANO, Titoli, 423 ss.; RESCIGNO, Titoli, 21 ss., nt. 36. 16 V. LIBERTINI, Profili, 121 ss.; D’ALESSANDRO, I titoli, 143 ss. Sul tema ritorneremo nel terzo volume.

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la reviviscenza di un diritto già estinto; perciò deve affermarsi che la circolazione cartolare provoca una inefficacia sopravvenuta dei fatti modificativi o estintivi di tale diritto 17.

Identica è l’autonomia obbligatoria nella circolazione dei titoli scritturali: l’art. 83-septies TUF dispone che, all’intestatario del conto, “l’emittente può opporre soltanto le eccezioni [a lui] personali e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti” (ossia di titoli della stessa specie). Quest’ultima formula corrisponde a quella delle eccezioni reali, elencate nell’art. 1993: nei titoli azionari è comune, ad es., l’eccezione fondata su una norma statutaria (che, per l’art. 1993, è eccezione fondata sul contesto letterale del titolo, stante la letteralità incompleta di quello azionario), o, nei titoli obbligazionari, quella consistente nell’assenza della delibera di emissione da parte dell’organo societario preposto (che, per l’art. 1993 applicato ai titoli emessi da persone giuridiche, corrisponde alle eccezioni di irriferibilità dell’emissione alla volontà di chi figura come debitore). Le particolari modalità di esercizio dei diritti scritturali, peraltro, limitano fortemente la possibilità per l’emittente di opporre all’intestatario del conto le eccezioni a lui personali. Ciò vale in particolare nell’esercizio dei diritti patrimoniali (ad es., percezione di utili per le azioni, dell’interesse periodico per le obbligazioni), che è un esercizio intermediato ed anonimo, ossia effettuato attraverso il CSD e gli intermediari, e mai direttamente dai titolari dei diritti scritturali; perciò l’emittente non conosce l’identità di questi ultimi e non ha modo di opporre loro eccezioni personali di alcun tipo, ma solo quelle reali (= “comuni”). Viceversa, i diritti amministrativi sono esercitati direttamente da costoro e la regola esaminata può tornare ad espandersi come di consueto. Inoltre, nella disciplina in esame non compare una norma corrispondente al co. 2 dell’art. 1993; ciò si spiega ancora alla luce dei particolari meccanismi di funzionamento del sistema di circolazione accentrata: l’emittente, nei cui confronti l’intestatario di un conto eserciti un diritto, non conosce mai da chi costui abbia acquistato il titolo e pertanto non vi è spazio, neppure negli angusti limiti previsti dall’art. 1993, per l’opponibilità di eccezioni fondati sui rapporti con i precedenti intestatari 18.

4. La legittimazione cartolare attiva e passiva La proprietà del documento attribuisce la titolarità del rapporto documentato, nei titoli cartacei. Il possesso, eventualmente qualificato, attribuisce la legittimazione. Questa attiene alla fase di esercizio del diritto e lo rende più agevole. L’art. 1992, co. 1, stabilisce infatti che “il possessore ... ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge” (cioè purché il suo possesso sia qualificato, nei titoli all’ordine o nominativi). È questa la c.d. legittimazione attiva. La norma va però interpretata correttamente: il fatto che il possessore abbia “diritto alla prestazione” non significa che, di per sé, il possesso, sia pure qualificato per i titoli per cui occorra, conferisca la titolarità del diritto, la quale è infatti legata, come si è appena detto, alla proprietà della

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Cfr. CIAN, Titoli, 255 ss. Su questi argomenti v. CIAN, Note sui rapporti tra il nuovo diritto societario e il regime di dematerializzazione, GComm, 2004, I, 317 s.; ID., Strumenti finanziari dematerializzati, diritto cartolare e diritto societario, BBTC, 2005, I, 25 s.; DE LUCA, Circolazione, 395 ss. 18

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SEZ. VI – Gli strumenti di mobilizzazione della ricchezza. Principi fondamentali [§ 21]

chartula; significa invece che il possessore che esibisca il titolo non deve fornire altra prova della sua titolarità 19; in altre parole, il possesso determina una presunzione di titolarità, presunzione relativa, non già assoluta, essendo sempre possibile che il debitore fornisca la prova contraria (ad es. dimostri che l’attuale possessore ha acquistato il titolo in base a un atto nullo). La funzione dell’istituto, da questo punto di vista, è dunque quella di facilitare l’esercizio del diritto, senza gravare il cessionario dell’onere della prova che altrimenti, nella circolazione non cartolare, dovrebbe sostenere. È discusso se la presentazione del titolo sia condizione non solo sufficiente, ma anche necessaria per l’esercizio della pretesa, se, cioè, il titolare, che non disponga del documento, possa provare in altro modo il suo diritto. A questo proposito, è certo però che, sin tanto che il titolo è in circolazione e non è scaduto, potendo così pervenire nelle mani di un terzo che ne acquisti la proprietà e il diritto ex art. 1994, la pretesa del titolare non legittimato non potrebbe mai trovare accoglimento, perché altrimenti il debitore correrebbe il rischio di dover adempiere due volte (una a costui, la seconda al terzo acquirente di buona fede). È per tale motivo che si prevede, in caso di smarrimento, sottrazione o distruzione del titolo, l’attivazione di una particolare procedura giudiziaria, da parte del titolare, per conseguire un duplicato del titolo, annullando eventualmente quello perduto o sottrattogli, o il pagamento del diritto incorporato (ammortamento). Da ciò parte della dottrina deduce la non necessarietà, in generale, dell’esibizione del titolo per l’esercizio del diritto, quando non vi sia la possibilità di una ulteriore circolazione cartolare dello stesso 20.

Logico corollario della legittimazione attiva è la legittimazione passiva, consacrata nel co. 2: “il debitore, che senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto”. Il pagamento nei confronti del possessore (eventualmente qualificato) è sempre liberatorio per il debitore, che dunque non potrà essere costretto ad un secondo adempimento da parte del vero titolare del diritto, a meno che non versi in dolo o colpa grave. Non basta però, perché il pagamento non sia liberatorio, la conoscenza o la conoscibilità, da parte del debitore, del difetto di titolarità in capo al possessore: infatti questi otterrebbe comunque, dietro semplice presentazione del titolo, la condanna al pagamento in suo favore, a meno che il debitore non possa provare tale difetto; perciò “dolo o colpa grave”, ai sensi della norma in esame, si hanno solo quando il debitore disponesse (dolo) o avrebbe potuto agevolmente disporre (colpa grave) di prove certe e liquide che gli avrebbero consentito di respingere la pretesa del possessore. Nei titoli scritturali, la legittimazione attiva è collegata all’intestazione del conto in cui il titolo è registrato: infatti, “effettuata la registrazione, il titolare del conto ... ha la legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati, secondo la disciplina propria di ciascuno di essi” (art. 83quinquies, co. 1, TUF). L’intestazione del conto sostituisce dunque il possesso della

19

V. Cass. 3-8-2001, n. 10694, Giust civ, 2002, I, 74 (sia pure imprecisa nei concetti usati). SPADA, Introduzione, 67 ss.; PELLIZZI, Esercizio del diritto cartolare e “legittimazione attiva”, Studi sui titoli di credito, Padova, 1960, 49 ss.; per la necessità del possesso (o, almeno, di un possesso pregresso sebbene non più attuale), invece, MARTORANO, Titoli, 175 ss.; STAGNO D’ALCONTRES, Il titolo, 43 ss., e in giur. (sia pure con motivazione confusa) Cass. 3-10-1990, n. 9778, BBTC, 1992, II, 429. 20

[§ 21]

CIAN – I titoli di credito cartacei ed elettronici

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chartula, e, per i titoli nominativi, deve essere accompagnata dall’annotazione dell’intestatario anche nel registro dell’emittente (supra, 1). Peraltro, non essendo l’hardware ove il titolo è memorizzato un documento che il “possessore” del titolo possa esibire all’emittente, le modalità di esercizio del diritto sono qui più complesse. I diritti patrimoniali (riscossione di dividendi, di interessi, ecc.) sono infatti necessariamente esercitati, in forma mediata, collettiva e anonima, attraverso gli intermediari e il CSD (art. 83-quater, co. 1); solo i diritti amministrativi (es.: per le azioni, il voto assembleare, il controllo dei libri sociali) sono esercitati direttamente dall’intestatario del conto, dietro presentazione di una “certificazione”, cioè di un documento (che non ha natura di titolo di credito) rilasciato su richiesta dall’intermediario e attestante la registrazione dei titoli nel conto intestato al richiedente (art. 83-quinquies, co. 3), oppure, per la partecipazione alle assemblee, a seguito dell’invio, da parte dell’intermediario, di una comunicazione elettronica diretta all’emittente, contenente la medesima attestazione (art. 83-sexies). Anche nel sistema scritturale, la legittimazione non coincide con la titolarità del rapporto giuridico registrato e può accadere che legittimato sia un soggetto diverso dal titolare (ad es., colui che ha acquistato in base ad atto nullo). Perciò l’emittente può eccepire all’intestatario del conto il difetto di titolarità, se riesce a provarlo. E corollario di ciò, anche qui, è la legittimazione passiva: il principio dell’art. 1992, co. 2, pur non riprodotto, è senz’altro analogicamente applicabile, stante l’identità dei due sistemi, cosicché il debitore che senza dolo o colpa grave adempie nei confronti dell’intestatario del conto (i cui dati siano pure annotati nel suo registro, se il titolo è nominativo) è liberato anche se questi non è il titolare del diritto 21.

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CIAN, voce Dematerializzazione, 327.

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§ 22. LA CIRCOLAZIONE DEL DENARO: GLI STRUMENTI DI PAGAMENTO SOMMARIO: I. Dalla circolazione di denaro contante all’utilizzo di strumenti di pagamento “sostitutivi” e “alternativi”. – II. Gli strumenti di pagamento sostitutivi: l’assegno bancario e circolare. – 1. I titoli cambiari: profili generali. – 2. La cambiale: cenni. – 3. L’assegno bancario. – 4. L’assegno circolare. – III. Gli strumenti di pagamento “alternativi” al denaro contante. – 1. Una ricognizione degli strumenti “alternativi”. – 2. La disciplina dei servizi di pagamento: il d.lgs. 11/2010 (linee di fondo).

I. Dalla circolazione di denaro contante all’utilizzo di strumenti di pagamento “sostitutivi” e “alternativi” LETTERATURA: DI MAJO, Le obbligazioni pecuniarie, Torino, 1996; DISEGNI, Strumenti di credito e mezzi di pagamento, Torino, 2011; INZITARI, Delle obbligazioni pecuniarie, Comm. Scialoja-Branca, 2011; MALVAGNA, I servizi di pagamento, in ROPPO (diretto da), Trattato dei Contratti, Milano, 2014, V; OLIVIERI, Compensazione e circolazione della moneta nei sistemi di pagamento, Milano, 2002; SANTORO (a cura di), Il diritto dei sistemi di pagamento, Milano, 2007; SCIARRONE ALIBRANDI, L’interposizione della banca nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, Milano, 1997.

Nella società contemporanea può dirsi ormai acquisito che le obbligazioni pecuniarie – ma, più in generale, ogni trasferimento di denaro tra un soggetto ed un altro indipendentemente dal rapporto giuridico sottostante – possano essere eseguite oltre che con la materiale consegna di pezzi monetari anche con modalità differenti. Nel guardare al denaro quale “mezzo di pagamento” (ossia di strumento di scambio con tutte le altre merci) si è, infatti, ben consapevoli che il medesimo è venuto negli anni progressivamente a perdere gran parte della sua “consistenza fisica” trasformandosi dapprima da pezzo monetario a documento cartaceo (banconota) per finire poi a mero “segno” o “scritturazione” di una più generale disponibilità monetaria. La letteratura economica attribuisce alla moneta tre funzioni: strumento di pagamento, unità di conto e strumento di riserva o fondo di valore. In via generale, infatti, la moneta misura il valore dei beni (e dunque assolve alla funzione di unità di conto); consente il trasferimento degli stessi beni – e della ricchezza in generale – attraverso transazioni efficienti e con costi ridotti (strumento di pagamento); costituisce, infine, strumento di conservazione della ricchezza nel tempo (c.d. funzione di fondo di valore), rappresentando un potere di acquisto generalizzato conservabile ed esercitabile anche in luoghi diversi e momenti successivi rispetto a quelli in cui se ne acquisisce la titolarità.

Sicché, mentre nella concezione classica il “pagamento” veniva definito come atto attraverso cui il debitore trasferiva al creditore il denaro allo scopo dell’estinzione del debito, oggi l’assimilazione dei pagamenti pecuniari alla comune offerta di cose in pagamento non convince più. Del resto, che fosse davvero difficile equiparare il de-

[§ 22] SCIARRONE ALIBRANDI – La circolazione del denaro: gli strumenti di pagamento

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naro a cose fungibili già l’aveva colto il legislatore del codice civile del 1942, il quale, non a caso, ha definito il debito pecuniario quale debito “di somme” (art. 1277) e conformato l’esattezza del pagamento in funzione dell’idoneità dei mezzi impiegati a tale scopo (c.d. moneta avente corso legale) piuttosto che dell’astratto perfezionamento di una fattispecie traslativa (come invece ha luogo per il debito di cose). Le tesi “reali” del pagamento (come trasferimento materiale di denaro direttamente dal debitore al creditore) hanno poi, nel corso del tempo, dovuto “fare i conti” con l’inarrestabile sviluppo nella prassi di un sistema assai composito e variegato di strumenti di pagamento. Con tale espressione ci si riferisce ad un insieme di modalità di trasferimento di disponibilità monetarie attraverso procedimenti variamente articolati ma sempre con il necessario coinvolgimento di banche e/o di altri soggetti di natura finanziaria in funzione di intermediazione. E si tratta di un sistema cresciuto in dimensioni e importanza al punto tale da aver richiamato su di esso l’attenzione del legislatore comunitario. Dopo alcuni primi interventi di portata limitata, nel 2007 la Payment Services Directive (PSD) – attuata nel nostro ordinamento con il d.lgs. 11/2010 – segna un interevento massiccio nel campo dei servizi di pagamento non in contante volto a dare vita ad un unitario quadro normativo di riferimento della materia. Negli anni a seguire la PSD è già stata oggetto di revisione attraverso l’adozione della dir. 2015/2366/UE (c.d. PSD2) e, sempre a livello europeo, altri interventi hanno interessato la materia dei pagamenti (fra gli altri, la dir. 2014/92/UE sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base – c.d. Payment Accounts Directive PAD). Sempre sulle modalità di pagamento dei debiti di denaro, ma questa volta con lo specifico obiettivo di contrastare l’impiego in attività economiche lecite di denaro di provenienza illecita (c.d. riciclaggio), il legislatore comunitario (e, di risulta, quello italiano) è intervenuto poi più volte, a partire dagli anni novanta. E, in questo contesto, si è giunti a vietare il trasferimento non intermediato di denaro contante o di titoli al portatore quando il valore da trasferire è complessivamente superiore a una soglia prefissata, così senza dubbio marginalizzando ai c.d. pagamenti bagatellari la circolazione di pezzi monetari e banconote. Precisamente, l’art. 49 del d.lgs. 231/2007, e successive modifiche e integrazioni l’ultima delle quali ad opera dell’art. 1, co. 898 e 899 della l. 208/2015, vieta “il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore oggetto di trasferimento è complessivamente pari o superiore ad euro tremila. (…) Per il servizio di rimessa di denaro di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), numero 6), del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, la soglia è di euro mille”. Di conseguenza, un trasferimento di importo pari o superiore alle soglie previste dall’art. 49 sopra citato deve oggi essere intermediato, ovvero eseguito per il tramite di banche, Poste Italiane S.p.A. o altri intermediari (quali gli istituti di pagamento o di moneta elettronica su cui v. qualche cenno infra, III.2).

Volendo tratteggiare in modo sintetico il percorso che ha condotto allo sviluppo dell’odierno sistema dei pagamenti si può rilevare come esso ruoti attorno alla nozione di moneta scritturale, ovvero moneta che, in senso lato, costituisce il prodotto della prestazione di servizi di pagamento. Più precisamente, con tale espressione ci si riferisce all’insieme dei saldi disponibili dei conti accesi presso banche o altri intermediari

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SEZ. VI – Gli strumenti di mobilizzazione della ricchezza. Principi fondamentali [§ 22]

specializzati (altresì detti debiti a vista), la cui movimentazione è in grado di produrre il trasferimento di una certa disponibilità monetaria da un soggetto ad un altro. Il pagamento in moneta scritturale si esegue per lo più tramite il trasferimento della titolarità di fondi detenuti dal pagatore presso banche o intermediari abilitati. Consiste, quindi, in un’attività di servizi a struttura quantomeno trilatera, esercitata su base imprenditoriale da intermediari specializzati, nel cui contesto il trasferimento monetario si perfeziona solo al termine di un complesso procedimento con l’annotazione nelle scritture contabili degli intermediari coinvolti. Storicamente, la maggior parte degli strumenti di pagamento diversi dal contante si è sviluppata in associazione con il conto corrente bancario che è la principale figura contrattuale con cui le banche rendono possibile la circolazione della moneta scritturale. In un secondo momento, anche le Poste, con il conto corrente postale, sono venute a realizzare un servizio analogo a quello offerto dalle banche. Dal 2010, in conseguenza del recepimento della direttiva PSD, anche altri intermediari (gli “istituti di pagamento”) sono stati legittimati a offrire, con l’eccezione degli assegni, la stessa gamma di servizi di pagamento proposti dalle banche, imperniandoli sulla movimentazione di fondi versati su “conti di pagamento”. Questi ultimi sono figure contrattuali simili ai conti correnti ma connotati da una funzionalità più limitata in quanto circoscritta alla sola esecuzione di pagamenti. Basandosi sulla movimentazione di crediti disponibili, l’uso della moneta scritturale postula, quindi, la costante fiducia del pubblico nella solvibilità degli intermediari coinvolti e nella capacità degli stessi di convertirla, in qualunque momento e a semplice richiesta, in moneta legale. Il che a sua volta presuppone l’esistenza in ogni contesto nazionale di un “sistema dei pagamenti”, vale a dire di un articolato assetto in grado di agevolare il regolare completamento del processo tramite cui si realizza il trasferimento monetario e di tutelare la fiducia riposta dal pubblico nell’accettazione e nell’efficacia liberatoria della moneta scritturale (sia dal punto di vista istituzionale che da quelli tecnico-operativo e infrastrutturale). È per queste ragioni che negli stati moderni la prestazione di servizi di pagamento e l’uso della moneta scritturale sono di norma circondati e presidiati da un adeguato regime di controlli pubblici. Al fine di comprendere il complesso assetto del sistema dei pagamenti la raffigurazione più efficace pare essere quella che lo rappresenta come una piramide in cui, partendo dalla base e via via salendo, si incontrano dapprima le parti dei rapporti sostanziali da cui originano le obbligazioni pecuniarie da regolare con la moneta scritturale, al secondo livello gli intermediari abilitati ad emettere tale moneta (e a prestare i relativi servizi di pagamento), al terzo le infrastrutture e procedure specializzate in cui vengono quotidianamente regolate ed estinte tutte le transazioni intercorse tra detti intermediari. La posizione apicale di tale piramide è riservata alla Banca centrale e ciò, sia per i suoi compiti di agente di regolamento finale delle obbligazioni intercorrenti fra gli intermediari abilitati all’emissione di moneta scritturale, sia per la sua funzione di prestatore di ultima istanza chiamato ad ovviare ad eventuali crisi di liquidità degli intermediari tali da minacciare la stabilità dei sistemi di pagamento cui gli stessi partecipano. Per quanto riguarda le attività e i soggetti compresi nel secondo livello della piramide (gli intermediari abilitati e la prestazione di servizi di pagamento), il legislatore italiano ha ritenuto di conferire alla Banca d’Italia la titolarità dei controlli pubblici tesi ad assicurare

[§ 22] SCIARRONE ALIBRANDI – La circolazione del denaro: gli strumenti di pagamento

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la stabilità finanziaria e la sana e prudente gestione degli intermediari abilitati a prestare servizi di pagamento a valere sui depositi raccolti dal pubblico. L’art. 146 del d.lgs. 385/1993 (Testo Unico Bancario) ha peraltro riservato alla Banca d’Italia anche specifici compiti di sorveglianza sui sistemi di pagamento (il terzo livello della piramide) al fine di presidiare gli interessi pubblici sottesi al regolare funzionamento di tali articolazioni, consistenti nell’esigenza di governare, prevenire e contenere i rischi finanziari insiti nell’utilizzo della moneta scritturale.

Negli ultimi anni, l’evoluzione del settore dei servizi di pagamento e la progressiva implementazione di nuove tecnologie ha affiancato alla moneta scritturale le c.d. valute virtuali, definite come rappresentazioni digitali di valore che funzionano come mezzo di scambio, unità di conto e/o strumento di conservazione del valore, pur senza essere riconosciute come valuta avente corso legale. Tali valute non sono, infatti, emesse né garantite da uno stato e sono utilizzate ed accettate all’interno di una specifica comunità virtuale. Esse possono essere memorizzate sul computer in appositi portafogli digitali (e-wallets) e, all’occorrenza, trasferite e negoziate elettronicamente. Il loro impiego prescinde, dunque, da forme di intermediazione tradizionale e potrebbe costituire una sfida importante per gli strumenti di pagamento al dettaglio esistenti. Ritornando al novero degli strumenti di pagamento più tradizionali, fra quelli utilizzati nella prassi ormai una trentina d’anni or sono in dottrina era stata elaborata una distinzione, ancora oggi utilizzata in letteratura, fra mezzi di pagamento c.d. sostitutivi e mezzi di pagamento c.d. alternativi del denaro contante 1. Ai mezzi di pagamento c.d. sostitutivi venivano e sono ancora ricondotti tutti quegli strumenti che consentono di evitare un trasferimento diretto di denaro contante fra debitore e creditore sostituendolo con la consegna di documenti rappresentativi di esso, comunemente accettati come corrispettivo di uno scambio in sostituzione temporanea della moneta medesima. Nella “famiglia” il ruolo principale è senza dubbio svolto dagli assegni bancari e circolari – appartenenti (assieme alla cambiale) ad una particolare tipologia di titoli di credito (c.d. cambiari) – di frequente utilizzati, nel contesto della circolazione di denaro da un soggetto ad un altro, proprio in quanto consentono di realizzare il trasferimento di una certa disponibilità monetaria con modalità differenti dalla traditio di pezzi pecuniari. I c.d. mezzi di pagamento “alternativi” sono invece strumenti – aventi tra loro natura, funzioni e implicazioni spesso differenti 2 – attraverso i quali viene totalmente evitato il trasferimento materiale di denaro, in luogo del quale vengono eseguite da banche o istituti di pagamento scritturazioni a debito e a credito su conti di titolarità dei soggetti coinvolti nell’operazione. Ciò significa che alla variazione di disponibilità di segno opposto dei due conti interessati non corrisponde un effettivo prelevamento di denaro contante dal conto addebitato, né un effettivo versamento sul conto accre1

La creazione delle suddette due famiglie di mezzi di pagamento si deve a DI MAIO, voce Pagamento, EncD, XXXI, 1981, 547 ss. 2 Alcuni fra i suddetti mezzi di pagamento sono a funzione unica (di pagamento), altri a funzione multipla come ad es. le carte di credito che sono al contempo strumenti di pagamento e di credito.

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SEZ. VI – Gli strumenti di mobilizzazione della ricchezza. Principi fondamentali [§ 22]

ditato. E questo anche se i due conti sono accesi presso intermediari diversi, verificandosi il trasferimento della disponibilità tra i due conti coinvolti comunque senza alcuno spostamento materiale di pezzi monetari. Anche in questa sede si è scelto di trattare separatamente le due categorie di strumenti: in ciò supportati dalla circostanza per cui, come meglio si vedrà infra, III una distinzione simile è stata fatta propria pure dal legislatore, che con il d.lgs. 11/2010 – di attuazione della già richiamata PSD (dir. 2007/64/CE) – ha scelto di occuparsi di una vasta gamma di operazioni di pagamento ad eccezione però di quelle basate su uno dei seguenti tipi di documenti cartacei “assegni, titoli cambiari, voucher, traveller’s cheque, vaglia postali” (art. 2, co. 2, lett. g) 3. Certo, le ragioni che hanno condotto a tale esclusione non risiedono nel fatto che i titoli cambiari in sé non consentirebbero – come pure sostenuto dalla dottrina più risalente – di evitare del tutto lo spostamento materiale di pezzi monetari (spostamento che ci potrebbe comunque essere nel momento in cui il creditore decidesse di incassare in contanti il titolo). Del resto, un tale rilievo oggi non è neppure pienamente corrispondente al vero, considerato che nella prassi l’ipotesi più frequente di utilizzo di tali titoli non prevede affatto l’incasso diretto dei medesimi da parte del prenditore bensì la loro negoziazione presso una banca d’appoggio con conseguente successivo accredito sul conto del prenditore medesimo (sul punto v. infra, II.2). La motivazione principale dell’esclusione degli assegni dall’ambito PSD risiede, in realtà, nella difficoltà di trattamento in forma elettronica di titoli che, nascendo in forma cartacea, implicano maggiori costi di gestione (a fronte dell’innovazione tecnologica i titoli cartacei appaiono obsoleti e destinati a rallentare le transazioni) e un inferiore livello di sicurezza (i titoli cartacei rischiano di essere facilmente sottratti e falsificati in particolare durante la circolazione tra il pubblico). E proprio sulla base di tali considerazioni, in sede comunitaria, si è deciso di promuovere strumenti di pagamento meno inscindibilmente legati a documenti cartacei quali i bonifici (credit transfers), gli addebiti diretti (debit transfers) e le carte di pagamento (nelle due varianti di carte di debito e di credito). Al di là delle motivazioni sottostanti è, comunque, un dato oggettivo che, nell’odierno scenario normativo, il trattamento riservato agli strumenti di pagamento sostitutivi è differente da quello degli strumenti alternativi. E ciò pare ragione sufficiente per trattare anche in questa sede separatamente le due tipologie di strumenti, pur nella consapevolezza che alcune questioni giuridiche di fondo sono in realtà comuni ad entrambe e si gioverebbero, quindi, di un trattamento giuridico unitario.

II. Gli strumenti di pagamento sostitutivi: l’assegno bancario e circolare LETTERATURA: BENEDETTI, Assegno non trasferibile, banca girataria e contatto sociale: responsabilità contrattuale?, DannoResp, 2008, 165; BIGIAVI, La delegazione, Padova, 1940; BUTTARO, Assegno circolare e altri titoli bancari, EncGiur, III, Roma, 1988; COLLURA, La disciplina dell’assegno e la centrale d’allarme interbancaria, Torino, 2007; DOLMETTA, Assegno non trasferibile e «responsabilità»

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Tale distinzione non muta con la direttiva PSD2.

[§ 22] SCIARRONE ALIBRANDI – La circolazione del denaro: gli strumenti di pagamento

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della banca nel sistema dei servizi di pagamento, RDCiv , 2016, 6; GIORGIANNI, L’assegno come mezzo di pagamento, Napoli, 1979; MANCINI-PROFETA-DE GIORGI, La Centrale d’Allarme Interbancaria nella disciplina sanzionatoria dell’assegno, Roma, 2007; MARTORANO, Lineamenti generali dei titoli di credito e titoli cambiari, Napoli, 1979; PAVONE LA ROSA, La cambiale, Tr. Cicu-Messineo, 1994; PELLIZZI, L’assegno bancario, Padova, 1964; PELLIZZI, Principi di diritto cartolare, Bologna, 1967; SANTONI, La centrale d’allarme interbancaria a un decennio dalla sua introduzione, BBTC, 2011, V, 553; SANTONI, voce Assegni, in ABRIANI (a cura di), Diritto commerciale, in IRTI (promossi da), Dizionari del diritto privato, Milano, 2011, 74; SEGRETO-CARRATO, L’assegno, Milano, 2007; SPADA, Cambiale finanziaria, EncD, Agg. I, 1997, 263.

1. I titoli cambiari: profili generali Come si è già accennato, i titoli cambiari – e fra questi, in particolare, l’assegno e la cambiale, per i quali nel nostro ordinamento è prevista una regolamentazione assai dettagliata e preesistente rispetto al Codice civile (per l’assegno r.d. 1736/1933; per la cambiale r.d. 1669/1933), da cui peraltro sono state tratte per larga parte le disposizioni generali sui titoli di credito oggi contenute nel Codice – sono stati, specie in passato, spesso impiegati nel pagamento di debiti pecuniari consentendo al debitore di evitare un trasferimento materiale di pezzi monetari. Sotto l’aspetto strutturale, cambiale e assegno mostrano caratteri di forte similitudine presentandosi come una promessa di pagamento del sottoscrittore a favore della persona indicata nel titolo (prenditore) (nell’ipotesi del pagherò cambiario – o vaglia cambiario o cambiale propria – e in quella dell’assegno circolare); ovvero come un ordine di pagamento impartito da un soggetto (traente) ad un altro soggetto (trattario) sempre a favore del portatore del titolo (nell’ipotesi della cambiale tratta e in quella dell’assegno bancario). Anche nel secondo caso, peraltro, la sottoscrizione ha un immediato effetto obbligatorio a carico del traente, il quale risponde nei confronti del portatore del mancato pagamento o della mancata accettazione del titolo stesso da parte del trattario (art. 13, l.camb. e art. 16, l.ass.). Sotto l’aspetto funzionale, invece, i titoli cambiari vengono bipartiti in maniera differente: la cambiale tratta e il pagherò cambiario rispondono ad una funzione creditizia, ossia di differimento nel pagamento di una certa somma; l’assegno bancario e l’assegno circolare rispondono, invece, ad una funzione di pagamento, consentendo a chi abbia somme disponibili presso una banca di utilizzarle per effettuare, suo tramite, pagamenti a terzi. Più in dettaglio, al fenomeno cambiario la funzione “creditizia” appare intrinsecamente connaturata in quanto dall’elencazione dei requisiti della cambiale di cui all’art. 1 e nell’art. 100 l.camb. risulta che la medesima è un titolo normalmente all’ordine contenente l’obbligazione incondizionata di pagare o di far pagare una somma di denaro alla scadenza e nel luogo indicati nel titolo stesso. Sia nella forma della cambiale tratta sia in quella del pagherò cambiario è, infatti, la “scadenza” ad assumere rilevanza centrale nell’istituto, la cui funzione tipica, anche se non esclusiva, è quindi il differimento del pagamento di una somma di denaro, con attribuzione al contempo al prenditore della possibilità di monetizzare agevolmente il credito mediante trasferimento del titolo (in quanto titolo di credito). Diversamente, l’assegno (sia nella variante dell’assegno bancario che in quella del-

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l’assegno circolare), pur appartenendo anch’esso alla categoria dei titoli cambiari e condividendo con la cambiale i nuclei disciplinari portanti, sotto il profilo funzionale si connota essenzialmente come strumento di pagamento. E ciò in quanto è caratterizzato dall’esigibilità a vista, nonostante ogni eventuale scadenza apposta sul titolo, e dall’assoggettamento della sua presentazione a termini brevissimi, pena le conseguenze negative su cui v. infra, II.3 4. Solo l’assegno, poi, si presenta come inscindibilmente connesso – in entrambe le varianti – con l’attività di intermediazione bancaria, dovendo di necessità (per assicurare la costante solvibilità) sia il trattario di un assegno bancario che l’emittente di un assegno circolare essere banche. E in particolare per quanto riguarda l’assegno bancario la sua ormai indiscussa struttura di delegazione di pagamento lo avvicina sensibilmente ad altre tipologie di strumenti di pagamento quali il bonifico, l’addebito diretto o le carte di debito/credito di cui ci si occuperà più avanti. A differenza della moneta avente corso legale, la dazione di un assegno non comporta per sé l’immediata l’estinzione dell’obbligazione pecuniaria. Il pagamento effettuato tramite assegno si intende, infatti, salvo buon fine: l’effetto estintivo si produce cioè solo nel momento in cui il prenditore dell’assegno lo incassi effettivamente ovvero nel momento in cui la somma di denaro indicata nel titolo entri nella sua disponibilità (ad es. mediante accreditamento in conto). Sulla problematica dell’estinzione dell’obbligazione pecuniaria mediante assegni, va peraltro segnalato un recente mutamento di orientamento giurisprudenziale che riflette un mutamento nel modo di intendere, nella realtà sociale, il principio nominalistico di cui al disposto dell’art. 1277. L’orientamento tradizionale in ordine al pagamento mediante assegno scontava, infatti, un’interpretazione meramente letterale dell’art. 1277, sulla scorta della quale il pagamento, per essere ritenuto adempimento “esatto”, doveva avere luogo in moneta avente corso legale. E in quest’ottica il pagamento mediante assegno (bancario come circolare), in quanto prestazione diversa, veniva ricondotto nell’alveo dell’art. 1197, con conseguente necessità, per l’efficacia solutoria, del consenso del creditore e dell’effettiva riscossione della somma 5. Secondo altro orientamento, tuttavia, la consegna di assegni circolari – pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro – è in grado di estinguere l’obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all’adempimento dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1175 6.

4 Tale differenza funzionale non va peraltro neppure eccessivamente enfatizzata. Se è vero infatti che l’emissione di una cambiale ha come scopo la dilazione nel pagamento (tranne che essa non sia pagabile a vista), onde si potrà dire che chi la riceve “fa credito” all’emittente, è vero altresì che lo scopo economico che si ripromette l’emittente è quello di pagare i propri debiti, utilizzando, in caso di cambiale tratta, i propri crediti verso terzi: evitando in tal modo trasferimenti materiali di moneta e semplificando la tecnica dei pagamenti. D’altro canto, la prassi ben conosce il fenomeno dell’assegno post-datato (su cui v. anche infra, II.3). 5 Tale orientamento risale alla sentenza Cass. 27-7-1973, n. 2200 e, con specifico riferimento all’assegno circolare, è ben rappresentato ancora da Cass. 29-4-2005, n. 12324. 6 La questione è stata sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, le quali – dapprima in materia di pagamento a mezzo di assegno circolare (cfr. Cass. 18-12-2007, n. 26617) e successivamente anche con riferimento all’assegno bancario (cfr. Cass. 4-6-2010, n. 13658) – hanno statuito che il solo fatto dell’adem-

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Proprio la diversità di funzione tra cambiale e assegno conduce peraltro a dare maggiore spazio in questa sede, dedicata agli strumenti di circolazione della ricchezza mobiliare e in particolare del denaro, alle regole sull’assegno, limitando a brevi cenni l’analisi della disciplina della cambiale (peraltro per numerosi profili coincidente) nonostante quest’ultima continui senza dubbio a rappresentare un punto di riferimento sistematico per l’intera materia.

2. La cambiale: cenni La cambiale è un documento, stampato o dattiloscritto o manoscritto, che viene detto completo, nel senso che tutte le clausole che individuano e regolano il diritto cartolare di credito (enumerate agli artt. 1 e 100, l.camb.) devono essere contenute nello stesso documento cambiario, senza possibilità di riferimenti ad altri documenti. Solo a fini fiscali è obbligatorio l’uso dell’apposita carta bollata e non per la validità della cambiale: se però, sin dall’inizio, il documento non è stato bollato la cambiale non ha qualità di titolo esecutivo (v. subito infra, II.2). Essendo un titolo normalmente all’ordine circola per mezzo della girata (art. 15, l.camb.), che produce l’effetto di fare diventare il giratario portatore legittimo della cambiale (funzione di trasferimento). Se però il traente o l’emittente hanno emesso la cambiale apponendovi la clausola “non all’ordine” o clausola equivalente, si ha la cambiale “non all’ordine” (art. 15, co. 2, l.camb.), per cui il credito cambiario può essere trasferito solo nelle forme e con gli effetti della cessione ordinaria dei crediti.

È un titolo astratto, perché il rapporto sottostante tra traente (o emittente) della cambiale e primo prenditore (detto rapporto di valuta) non risulta dal titolo e può essere il più vario (ad es. l’obbligo di pagare il corrispettivo di una compravendita oppure l’obbligo di restituzione che deriva da un contratto di finanziamento). Nella cambiale tratta, oltre al rapporto di valuta intercorrente tra traente e primo prenditore, vi è il rapporto di provvista, intercorrente tra traente e trattario, che vede di solito quest’ultimo debitore della somma verso il primo per un debito non cambiario. In questa ipotesi, il trattario, pagando la cambiale, estingue contemporaneamente il rapporto di valuta del traente verso il prenditore e il rapporto di provvista di se stesso verso il traente. Come si è visto, la cambiale nasce con la dichiarazione cambiaria del traente (o dell’emittente); spesso, però, dopo l’emissione del titolo e prima della sua scadenza, sulla cambiale vengono aggiunte altre dichiarazioni, da ognuna delle quali nasce un obbligo cambiario del sottoscrittore verso il creditore cambiario. pimento, da parte del debitore, della propria obbligazione pecuniaria con uno strumento di pagamento ugualmente in grado di assicurare la disponibilità della somma dovuta, non legittima il creditore a rifiutare il pagamento stesso, essendo necessario che il rifiuto sia sorretto anche da un giustificato motivo che il creditore deve allegare ed all’occorrenza anche provare. Secondo la Suprema Corte, il principio nominalistico, in una prospettiva costituzionalmente orientata, riguarda la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la qualità dei mezzi di pagamento. Tale principio è stato peraltro di recente confermato anche dalla Corte di Cassazione con ord. 25-5-2012, n. 8374.

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Nella cambiale tratta può accadere che il trattario accetti (scrivendo e sottoscrivendo sul documento una dichiarazione di accettazione), diventando obbligato cambiario (art. 33, co. 1, l.camb.; prima dell’accettazione, egli non ha alcun obbligo nei confronti del possessore della cambiale). Oppure, nell’ipotesi di circolazione per mezzo della girata, è il girante a divenire obbligato cambiario nei confronti del proprio giratario e dei giratari successivi (funzione di garanzia). Vi possono essere poi le dichiarazioni di avallo, con cui si garantisce il pagamento del debito cambiario assunto da un altro soggetto (art. 35, l.camb.): anche gli avallanti diventano obbligati cambiari, assumendo la stessa posizione dell’obbligato cambiario per il quale hanno garantito, indicato nella stessa dichiarazione di avallo e detto avallato. Gli obbligati cambiari si distinguono in obbligati diretti (emittente, accettante e loro avallanti) e obbligati di regresso (traente, giranti e loro avallanti). La distinzione è molto rilevante perché gli obblighi degli obbligati diretti almeno in parte sono regolati diversamente da quelli degli obbligati di regresso: così, ad es., solo gli obblighi degli obbligati di regresso si estinguono per mancanza di protesto; il termine di prescrizione degli obblighi degli obbligati diretti è più lungo di quello degli obblighi degli obbligati di regresso, ecc. Le varie obbligazioni, che derivano dalle varie dichiarazioni cambiarie, godono del principio di indipendenza, nel senso che l’invalidità di una delle obbligazioni non influisce sulla validità delle altre (art. 7, l.camb.).

Alla scadenza, il pagamento della somma cambiaria deve essere chiesto al trattario nella cambiale tratta, all’emittente nella cambiale propria. Legittimato a chiedere il pagamento è il portatore legittimo della cambiale, cioè, trattandosi di un titolo all’ordine, chi risulta ultimo giratario in base ad una serie continua di girate. Se l’obbligato principale rifiuta il pagamento della somma indicata, l’ultimo giratario può rivolgersi per il pagamento ad uno qualunque, a sua scelta, tra gli altri obbligati cambiari. Solo se il pagamento è compiuto dall’emittente o, in caso di cambiale tratta accettata, dall’accettante (cioè, dall’obbligato principale) si estinguono tutti i rapporti cambiari; se, invece, il pagamento viene eseguito da un altro obbligato cambiario (ad es. un girante), questi può pretendere a sua volta il rimborso di quanto ha pagato dai giranti che lo precedono, dal traente o dai loro avallanti. In questo consiste il c.d. ordine (o nesso) cambiario. La cambiale è, infine, un titolo esecutivo, in quanto il creditore cambiario ha il potere di dare avvio subito (mediante notifica del precetto) alla procedura esecutiva sui beni dei debitori cambiari inadempienti, senza bisogno di ottenere prima una sentenza di condanna o un decreto ingiuntivo di pagamento. Nonostante questo indubbio vantaggio processuale che il titolo offre, la cambiale ha, tuttavia, sofferto negli ultimi anni di una crisi piuttosto acuta, che, per certi versi, si sta parzialmente attenuando nel contesto dell’attuale difficile congiuntura economica. E ciò si spiega sia per il generale disfavore verso i supporti cartacei (sostituiti da più moderni mezzi informatici o che comunque prescindono dalla circolazione e dal possesso di un documento),

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sia – e soprattutto – per un trattamento assai sfavorevole sotto il profilo fiscale (in particolare una tassa di bollo molto gravosa). Proprio in ragione della spiccata vocazione creditizia della cambiale, va peraltro segnalato che sulla falsariga di tale titolo di credito è stata introdotta nel nostro ordinamento, con l. 43/1994, la figura della cambiale finanziaria, al preciso scopo di fornire alle imprese uno strumento di raccolta diverso dalle normali obbligazioni. All’articolo 1 di tale legge, le cambiali finanziarie sono definite quali titoli di credito all’ordine, equiparate alle cambiali ordinarie, trasferibili per girata esclusivamente con la clausola “senza garanzia” o equivalenti. Il medesimo articolo 1 stabilisce, inoltre, che le cambiali finanziarie sono titoli di serie, vale a dire emessi in numero plurimo a fronte di un unico finanziamento o di più finanziamenti comunque riconducibili ad un unico programma di emissione, anche di dimensioni rilevanti. In sostanza, le cambiali finanziarie costituiscono un tipico strumento di finanziamento a breve termine, molto diffuso nei mercati più evoluti, che permette una diversificazione agli emittenti nella raccolta di risorse e agli investitori nell’impiego del risparmio. Costituendo raccolta del risparmio ai sensi dell’art. 11 TUB, l’emissione di cambiali finanziarie era in origine riservata a società o enti con particolari garanzie di solvibilità: tali strumenti potevano, infatti, essere emessi soltanto da un ristretto numero di soggetti in possesso di determinati requisiti (società le cui azioni o obbligazioni sono già quotate su un mercato regolamentato, altre società per azioni e le società finanziarie vigilate da Banca d’Italia). In materia di cambiali finanziarie, alcune novità di rilievo sono state apportate dal c.d. decreto sviluppo (d.l. 83/2012) attraverso il quale il legislatore ha, innanzitutto, inteso allargare la rosa dei soggetti che possono emettere tali titoli anche alle società non quotate in mercati regolamentati o non regolamentati (seppur a particolari condizioni) al fine di incentivare, in particolare fiscalmente, l’utilizzo di questo strumento finanziario, soprattutto a vantaggio delle s.r.l. che, a differenza delle altre società di capitali, non possono emettere obbligazioni. Inoltre, il decreto ha modificato la durata delle cambiali finanziarie (che ora può essere compresa fra 1 e 36 mesi invece dei 3-12 mesi originariamente previsti) e ha ammesso la possibilità di emettere le cambiali in forma dematerializzata.

3. L’assegno bancario Uno dei più comuni mezzi di pagamento è l’assegno bancario, del quale si serve chi stipula con una banca un contratto di conto corrente in virtù del quale, sulla base della c.d. convenzione di assegno, viene autorizzato dalla banca a trarre su di essa dei titoli di credito (detti, appunto, assegni bancari). Con l’assegno bancario, che come si è già accennato ha struttura di delegazione di pagamento, il cliente (traente) ordina alla banca (trattaria) di pagare una determinata somma di denaro a favore del legittimo portatore del titolo (prenditore o beneficiario). L’assegno bancario non può essere accettato e, di conseguenza, la banca trattaria non diventa mai obbligato cartolare nei confronti del portatore legittimo dell’assegno, rimanendo solo obbligata extracartolarmente verso il traente, in forza e secondo il contenuto della convenzione di assegno. Gli assegni bancari sono di solito redatti su moduli stampati (che costituiscono il c.d. carnet degli assegni) che la stessa banca fornisce al cliente al momento della stipula della convenzione di assegno.

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In quanto titolo di credito e nel rispetto del principio di letteralità, l’assegno bancario è soggetto ad alcuni requisiti formali (fissati dall’art. 1, l.ass.): a) la denominazione di assegno bancario; b) l’ordine incondizionato di pagare una somma determinata; c) il nome del trattario; d) il luogo di pagamento; e) l’indicazione della data e del luogo di emissione dell’assegno; f) la sottoscrizione del traente. A differenza della cambiale non è necessaria l’indicazione della scadenza perché la scadenza è sempre a vista. In conseguenza della funzione di mezzo di pagamento dell’assegno, la data di emissione deve essere apposta sul titolo e deve essere vera. Mentre, però, se l’assegno è privo della data di emissione la giurisprudenza lo considera invalido, l’assegno con data falsa rimane invece valido (la verità della data è quindi richiesta solo per la regolarità dell’assegno). Se l’assegno è stato post-datato (se cioè è stata apposta una data posteriore a quella del giorno di emissione), il portatore può sempre chiederne il pagamento “a vista” anche prima che giunga il giorno apposto come data (art. 31, co. 2, l.ass.).

L’assegno può essere emesso con la specifica indicazione del nome del beneficiario (cioè di chi è legittimato a presentarlo all’incasso) ovvero – con i limiti introdotti dalla normativa antiriciclaggio – “al portatore” e anche a favore dello stesso traente. Sempre nel rispetto degli appena richiamati limiti, l’assegno pagabile ad una persona determinata si trasferisce per mezzo della girata (che non può essere condizionata né parziale) a meno che l’assegno sia emesso con la clausola non trasferibile; quello al portatore con la semplice consegna del documento. In realtà, la clausola di non trasferibilità, risulta esser oggi un elemento inevitabile degli assegni che posseggano sostanziale riscontro economico. Come si è accennato sopra, infatti, con finalità antiriciclaggio per effetto del d.lgs. 231/2007, sono entrate in vigore importanti novità in materia di assegni bancari e circolari – contenute, in particolare, all’art. 49 “Limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore” del citato provvedimento, come da ultimo modificato ad opera dell’art. 1, co. 898 e 899, l. 208/2015 – che possono essere sintetizzate come segue. Le banche sono tenute a rilasciare i moduli di assegno bancario e ad emettere gli assegni circolari già muniti della clausola di non trasferibilità. L’apposizione della clausola di non trasferibilità è obbligatoria per assegni bancari, postali e circolari di importo pari o superiore a 1.000 euro. Gli assegni emessi con tale clausola dovranno inoltre sempre contenere l’indicazione del nome o la ragione sociale del beneficiario. Il rilascio di moduli di assegni bancari e postali o di assegni circolari, di importo inferiore a 1.000 euro, può essere richiesto, per iscritto, dal cliente senza la clausola di non trasferibilità. Le banche sono tenute a comunicare alle Autorità pubbliche competenti, che ne fanno richiesta, i dati identificativi ed il codice fiscale dei richiedenti moduli di assegno bancario o circolare in forma libera, nonché di coloro che li hanno presentati all’incasso. Infine, gli assegni emessi all’ordine del traente (c.d. assegni “a me medesimo”) non possono essere girati a terzi, indipendentemente dall’importo indicato nel titolo. L’unico utilizzo possibile è, dunque, la girata per l’incasso al medesimo nome del traente/beneficiario.

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L’emissione dell’assegno bancario presuppone: a) l’esistenza della c.d. convenzione di assegno, ovvero dell’accordo in forza del quale la banca consegna al proprio cliente il libretto degli assegni, lo autorizza ad emetterli e, in presenza di fondi disponibili, si obbliga ad onorarli (di regola, tale convenzione è connessa al contratto di conto corrente bancario); b) l’esistenza di fondi disponibili, ove per fondi disponibili non si intendono solo quelli risultanti da rapporti c.d. attivi (ad es. depositi in conto), ma anche quelli derivanti da operazioni di concessione di credito da parte della banca (ad es. aperture di credito). Tanto la mancanza della convenzione di assegno quanto la carenza di fondi disponibili (c.d. assegno a vuoto) rendono l’ordine di pagamento non vincolante per la banca trattaria nei confronti del cliente. È previsto dalla legge che l’assegno bancario sia presentato per il pagamento entro un termine finale che inizia a decorrere dalla data di emissione: vale a dire entro otto giorni se l’assegno è “su piazza”, ossia emesso nella medesima località (il comune) in cui opera lo sportello presso il quale è aperto il conto del traente; quindici giorni se l’assegno è “fuori piazza”. Il beneficiario può presentare l’assegno all’incasso presso la dipendenza della banca trattaria dove l’emittente ha il conto corrente: in tal caso la banca è tenuta a verificare, oltre alla copertura dell’assegno (ovvero la sussistenza di fondi disponibili), l’autenticità della firma del traente (confrontandola con lo specimen, raccolto al momento della stipula della convenzione di assegno), l’assenza di alterazioni dell’assegno, la continuità delle girate (nei limitati casi in cui è ancora possibile richiedere alla banca l’apposizione sull’assegno della clausola di trasferibilità). E può incorrere in responsabilità (di natura contrattuale) verso il traente qualora l’assegno venga pagato in violazione dei suddetti doveri di controllo. Come si è già accennato, è però oggi abituale che un assegno venga presentato all’incasso presso una banca diversa dalla trattaria, di solito quella dove il beneficiario è titolare di un conto corrente. In tal caso la banca negoziatrice – girataria per l’incasso del titolo (e tale girata è ammissibile sempre anche quando sull’assegno non sia apposta la clausola di trasferibilità) – accredita in c/c l’importo “salvo buon fine”, cioè a condizione che lo stesso venga regolarmente pagato dalla trattaria. In un primo tempo ciò avveniva all’esito del trasporto fisico e dello scambio degli assegni negoziati presso le Stanze di compensazione di Roma o di Milano. Successivamente si è avviato un processo di sostituzione delle procedure di trasporto e scambio fisico degli assegni negoziati con procedure telematiche di negoziazione. Tale processo ha dapprima riguardato gli assegni bancari di importo fino a 5.000 euro e gli assegni circolari senza alcun limite di importo, per i quali è stata introdotta la procedura della check truncation. Di recente, però, il processo di estensione delle modalità telematiche di negoziazione ha interessato anche gli assegni bancari di importo superiore ai 5.000 euro con riguardo ai quali è in essere un periodo transitorio per consentire alle banche di adeguarsi alle nuove disposizioni. Più in dettaglio, l’art. 31, co. 3, l.ass. prevede che l’assegno bancario possa essere presentato al pagamento anche in forma elettronica. Le modalità attuative della norma sopra richiamata e le regole tecniche volte a completare il quadro normativo di riferimento sono

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state definite dal d.m. MEF 205/2014 e dal Regolamento Banca d’Italia del 22 marzo 2016 che prevede le seguenti due distinte modalità di trasmissione telematica: 1. invio dei soli dati per gli assegni bancari e postali di importo sino ad euro 5.000 e per gli assegni circolari, i vaglia postali ed i titoli speciali della Banca d’Italia, senza limiti di importo. Grazie alla procedura di check truncation – che consiste in un colloquio telematico tra banche per la presentazione al pagamento dei titoli – il pagamento degli assegni con le caratteristiche summenzionate può dunque essere gestito dalla banca negoziatrice inviando alla banca trattaria un messaggio elettronico contenente i dati contabili del titolo, senza trasmettere materialmente il medesimo (che viene appunto “troncato”, cioè conservato dalla banca negoziatrice stessa). Per gli assegni che non risultano troncabili per motivi tecnici o operativi, la presentazione al pagamento continua ad essere gestita mediante negoziazione in Stanza di compensazione; 2. invio dei dati dell’assegno e della relativa immagine firmata digitalmente per gli assegni bancari e postali di importo superiore ad euro 5.000. Il “cuore” di questo nuovo regime consiste, dunque (i) nella generazione dell’immagine dell’assegno, poiché è questa che sarà presentata al pagamento (o, se del caso, oggetto di protesto o constatazione equivalente) in sostituzione del titolo cartaceo; (ii) nell’apposizione della firma digitale da parte della banca negoziatrice.

Il coinvolgimento di due banche (la trattaria e la negoziatrice) nell’operazione di incasso ha posto in giurisprudenza il problema della ripartizione fra le medesime dei doveri di controllo (di regolarità del titolo e di autenticità della firma): è ormai consolidato in Cassazione che sussista una responsabilità concorrente di entrambe, mentre è più controversa la natura – contrattuale o aquiliana – della responsabilità della negoziatrice 7. 7

Al riguardo, si registrano pronunce giurisprudenziali di segno diverso (talvolta riferite ad assegni bancari, altre volte ad assegni circolari), a partire da una individuazione non uniforme della funzione svolta dalla banca negoziatrice in rapporto alla posizione del prenditore ed alla posizione della banca debitrice cartolare. Ad avviso di parte della giurisprudenza la natura di detta responsabilità sarebbe di origine contrattuale atteso che, la banca girataria per l’incasso di un assegno bancario, oltre ad essere mandataria del prenditore girante, è altresì sostituta della banca trattaria nell’esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all’identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento cui la trattaria è obbligata nei confronti del cliente. (in tal senso, tra le altre, Cass. 17-5-2000, n. 6377; Cass. 6-5-1987, n. 4187 e Cass. 89-1977, n. 3928). In altri casi si è invece ritenuto che la banca girataria per l’incasso di assegno non trasferibile non possa qualificarsi una sostituta di quella trattaria nell’adempimento della convenzione di assegno (e, quindi, in rapporto contrattuale con il traente) ma sia soltanto rappresentante del girante, in nome e per conto del quale riceve il pagamento, con la conseguenza che, qualora essa violi l’obbligo legale di pagare l’assegno non trasferibile soltanto ad uno dei soggetti indicati nel citato art. 43, sorge a suo carico una responsabilità extracontrattuale verso tutti coloro che possono essere pregiudicati dal pagamento a soggetto diverso, compreso il traente (in tal senso, tra le altre, Cass. 18-4-2005, n. 8005; Cass. 20-9-2000, n. 12425; Cass. 28-7-2000, n. 9902 e Cass. 9-2-1999, n. 1087), ancorché tale responsabilità possa esser destinata eventualmente a concorrere, in rapporto di solidarietà, con quella contrattuale della banca trattaria verso il medesimo traente. Sul tema sono di recente intervenute le Sezioni Unite affermando la natura contrattuale di tale responsabilità. Ad avviso della Corte, infatti, la responsabilità può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell’accezione che ne dà il successivo art. 1321, ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni,

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Trascorso il termine di presentazione per il pagamento (“termine utile”) che si è detto sopra essere di otto o quindici giorni a seconda che si tratti di assegno “su piazza” o “fuori piazza” senza che vi sia stata richiesta di pagamento, si hanno varie conseguenze fra cui le più importanti sono: a) si estingue l’obbligazione di regresso dei giranti (art. 45, co. 2, l.ass.); b) se il traente dà al trattario l’ordine di non pagare l’assegno, il trattario deve eseguirlo (in mancanza, però, di revoca dell’ordine di pagamento il trattario può pagare anche oltre il termine: art. 35, l.ass.). Dal canto suo, il beneficiario di un assegno ha interesse a incassarlo entro i due termini indicati perché, trascorsi questi ultimi, egli perderà il diritto al “protesto”. Il regresso del portatore contro i giranti, il traente e gli altri obbligati si prescrive in sei mesi dallo spirare del termine di presentazione; le azioni di regresso tra i diversi obbligati si prescrivono in sei mesi a decorrere dal giorno in cui l’obbligato ha pagato l’assegno bancario o dal giorno in cui l’azione di regresso è stata promossa contro di lui (art. 75, co. 1 e 2, l.ass.).

Poiché l’assegno bancario è un titolo esecutivo, il beneficiario, dopo la formale constatazione del mancato pagamento mediante il protesto effettuato da un pubblico ufficiale (che viene reso pubblico attraverso il Registro informatico dei protesti tenuto dalla Camera di Commercio), può esercitare l’azione di regresso contro gli eventuali giranti e contro il traente. Il protesto è un atto pubblico mediante il quale viene accertato, in modo formale, da parte di un notaio o di un ufficiale giudiziario il mancato pagamento di un assegno, consentendo a chi ha presentato l’assegno e non abbia ricevuto il pagamento di potere agire per via giudiziaria per ottenere la somma riportata nel titolo di credito 8. A fronte della depenalizzazione avvenuta ad opera della l. 386/1990, coloro che emettono un assegno bancario senza autorizzazione (mancanza di “convenzione di assegno”) o a vuoto (mancanza di “provvista”) commettono un illecito amministrativo e sono soggetti a sanzioni pecuniarie e accessorie anche gravi che vengono graduate in relazione alla gravità dell’illecito e all’importo dell’assegno (divieto di emettere assegni per un periodo da due a cinque anni; interdizione dall’esercizio di un’attività professionale o imprenditoriale; ecc.). Inoltre, in caso di mancato pagamento di un assegno per mancanza di autorizzazione o di provvista, la banca trattaria iscrive il nominativo del traente nella Centrale di semplice contatto sociale, che può dirsi sussistente ogni qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. (Cfr. Cass. SU, 26-6-2007, n. 14712, seguita, tra le altre, da Cass. 5-4-2016, n. 6560; Cass. 4-8-2016, n. 16326; Cass. 22-5-2015, n. 10534). 8 Qualora, tuttavia, il protesto venga elevato illegittimamente, il notaio che ha redatto l’atto e l’istituto di credito sono responsabili solidalmente (Cass. 5-11-1998, n. 11103). Sul punto, recentemente, la Corte di Cassazione, ha affermato che “il comportamento dell’istituto di credito costituisce causa del fatto ingiusto della pubblicazione del nome del correntista sul bollettino dei protesti, con l’ulteriore conseguenza di aver fatto conoscere a chiunque le esatte generalità del cliente con cui intrattiene il conto, non essendo sufficiente a tutelarlo dal discredito sociale ed economico la collocazione in apposita categoria, con conseguente responsabilità, anche contrattuale, di tutti i danni che ne derivano (…)”. Quanto poi al pubblico ufficiale, “sussiste la sua corresponsabilità per concorso nel causare il protesto illegittimo laddove questo abbia omesso di vigilare, anche per colpa lieve, sulla corrispondenza tra la firma di traenza e il nome del titolare del conto corrente (…)”. (cfr. Cass. 31-5-2012, n. 8787).

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di allarme interbancaria (CAI), un “archivio informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento” istituito presso la Banca d’Italia (art. 9, co. 1, l. 386/1990) 9. L’iscrizione nell’archivio determina, a carico del traente, la revoca di sistema, ovvero la revoca di ogni autorizzazione ad emettere assegni per la durata di sei mesi dall’iscrizione del nominativo nell’archivio. La revoca, a sua volta, comporta il divieto, della durata di sei mesi, per qualunque banca o ufficio postale di stipulare nuove convenzioni di assegno con il traente e di pagare gli assegni tratti dal medesimo dopo l’iscrizione nell’archivio, anche se emessi nei limiti della provvista.

4. L’assegno circolare Gli assegni bancari di cui si è trattato nel paragrafo precedente presentano, come si è visto, la caratteristica di essere tratti dal cliente su una banca e di non offrire dunque al portatore legittimo – verso cui la banca non assume alcuna obbligazione cartolare – la sicurezza del pagamento, né dell’esistenza della provvista. Ad un principio diverso è ispirato, invece, l’assegno circolare, che ha struttura di promessa di pagamento come il pagherò cambiario. Esso viene emesso direttamente – su richiesta del cliente – dalla banca emittente, la quale promette di pagare una somma determinata di denaro a favore del soggetto indicato nel titolo (a differenza di quello bancario l’assegno circolare non può mai essere emesso al portatore 10) ed è, dunque, direttamente obbligata nei confronti di quest’ultimo. Possono emettere assegni circolari solo le banche a ciò strettamente autorizzate dalla Banca d’Italia e solo per somme che siano disponibili presso di esse al momento dell’emissione. Ciò significa che la banca deve acquisire da chi richiede l’emissione del titolo la c.d. provvista, che può consistere nell’autorizzazione all’addebito sul conto corrente del richiedente ovvero nel versamento in contanti della somma corrispondente. Tale circostanza rende l’assegno circolare uno strumento di pagamento di assai elevata affidabilità. L’assegno circolare è invalido se non contiene gli elementi essenziali previsti dall’art. 83, l.ass. e cioè: a) la denominazione di assegno circolare; b) la promessa incondizionata; c) l’indicazione del prenditore; d) l’indicazione del luogo e della data di emissione; e) la sottoscrizione della banca emittente. All’assegno circolare si applicano in linea di principio le stesse norme previste per il pagamento dell’assegno bancario, con la peculiarità che il termine di presentazione 9

Tale archivio è consultabile dai terminali delle banche, degli uffici postali, dei prefetti e dell’autorità giudiziaria e costituisce un “data base” di interesse economico generale finalizzato a favorire il regolare funzionamento del sistema dei pagamenti. 10 La ragione di tale divieto risiede nella circostanza che la sicurezza della solvibilità dell’emittente renderebbe, sotto il profilo economico, l’assegno circolare parificabile alle banconote con pericolosi effetti sul controllo della massa monetaria in circolazione.

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è fissato in 30 giorni dalla data di emissione e la prescrizione dell’azione contro l’emittente nel termine di tre anni.

III. Gli strumenti di pagamento “alternativi” al denaro contante LETTERATURA: ABI, La direttiva PSD: le nuove regole per le banche italiane. Servizi di pagamento, controllo, trasparenza, Roma, 2011; ALIBRANDI-TROIANO (a cura di), Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/CE, Milano, 2009; CAMPOBASSO, Bancogiro e moneta scritturale, Bari, 1977; CAVALLI-CALLEGARI, Lezioni sui contratti bancari, Bologna, 2011; CIRAOLO, Le carte di debito nell’ordinamento italiano: il servizio Bancomat, Milano, 2008; DE STASIO, Operazione di pagamento non autorizzata e restituzioni, Milano, 2014; GIORGIANNI, I crediti disponibili, Bologna, Milano, 1974; GIORGIANNI-TARDIVO, Manuale di diritto bancario e degli operatori finanziari, Milano, 2012; LEMME, Moneta scritturale e moneta elettronica, Torino, 2003; MANCINI-PERASSI (a cura di), Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni, Roma, 2008; MANCINI-RISPOLI FARINA-SANTORO-SCIARRONE ALIBRANDI-TROIANO (a cura di), La nuova disciplina dei servizi di pagamento. Commentario al d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, Torino, 2011; SANTORO-SCIARRONE ALIBRANDI, La nuova disciplina dei servizi di pagamento dopo il recepimento della direttiva 2007/64/CE (d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11), BBTC, 2010, III, 375.

1. Una ricognizione degli strumenti “alternativi” La seconda categoria di strumenti utilizzati nella prassi in luogo di trasferimenti materiali di denaro contante è quella dei c.d. strumenti “alternativi” di pagamento, i quali, come già accennato, risultano accomunati dalla caratteristica della totale assenza di traditio di pezzi monetari tra debitore e creditore, in luogo della quale vengono eseguite scritturazioni su conti da parte di soggetti all’uopo abilitati. Si tratta, come pure si è detto, di un mondo estremamente eterogeneo di strumenti che ricomprende operazioni quali i bonifici, gli addebiti diretti, i pagamenti a mezzo carte (di debito come di credito). Sicuramente nell’ambito della nozione appena delineata l’operazione di maggiore diffusione ed anche con maggiore tradizione storica, tanto da poter essere considerata in un certo senso figura madre delle altre, è quella denominata nella prassi “bonifico”. Con tale espressione ci si riferisce ad un procedimento di trasferimento di fondi che ha luogo su iniziativa di un soggetto – titolare di un conto –, il quale ordina il trasferimento della disponibilità di una determinata somma dal suo conto ad un altro, intestato allo stesso o a diverso titolare 11. Quando, invece, il trasferimento di fondi esordisce su iniziativa del soggetto credi-

11

In più occasioni la giurisprudenza di merito e di legittimità ha avuto occasione di chiarire che “in tema di contratti bancari, il ‘bonifico’ (ossia l’incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna (verso il delegante) ad eseguire” (cfr. tra le altre, Cass. 19-9-2008, n. 23864; Cass. 1-7-2008, n. 17954; Cass. 28-2-2007, n. 4762; Trib. Belluno, 14-6-2006, FIt, 2007, 1005; App. Milano, 19-12-2000, FPad, 2001, I, 107; Cass. 21-9-2000, n. 12489). Tale ormai indiscussa qualificazione si deve a CAMPOBASSO, Bancogiro e moneta scritturale, Bari, 1979.

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tore anziché del debitore viene in considerazione un “addebito diretto”, definito in modo assai generico dall’art. 1, co. 1, lett. v, d.lgs. 10/2011 nei termini di “un servizio di pagamento per l’addebito di un conto di pagamento del pagatore in cui un’operazione di pagamento è disposta dal beneficiario in base al consenso dato dal pagatore al beneficiario, al prestatore di servizi di pagamento del beneficiario, o al prestatore di servizi di pagamento del pagatore stesso”. In Italia, la forma più conosciuta di tale suddetto strumento di pagamento è il Rapporto Interbancario Diretto (c.d. RID), che permette l’incasso automatico dei crediti da parte di una azienda (pubblica o privata), previa sottoscrizione da parte del correntista di un’autorizzazione alla propria banca ad accettare gli ordini di addebito che l’azienda periodicamente invia (si pensi al periodico pagamento di utenze, affitti, rate di mutuo). Per quanto concerne, invece, la tipologia dei pagamenti mediante carta, va rilevato che ad essa vengono ricondotte sia le carte di debito (o di pagamento), che consentono transazioni e/o prelievi con contestuale movimentazione dei fondi disponibili sul conto corrente; sia le carte di credito, che consentono invece l’effettuazione di transazioni e/o prelievi con regolamento sul conto rinviato ad un momento successivo. Per quanto concerne le carte di debito, si può senza dubbio affermare che la più importante e diffusa è il Bancomat, che consente al titolare di un conto corrente bancario (o di pagamento) di prelevare presso gli sportelli automatici situati sull’intero territorio nazionale (e, se il Bancomat è internazionale, anche all’estero), localizzati presso le banche anche diverse da quelle di cui il soggetto è cliente purché aderenti alla convenzione interbancaria istitutiva del servizio. Al servizio Bancomat si è poi affiancato il Pagobancomat, che permette al cliente di eseguire pagamenti senza utilizzare denaro contante attraverso i c.d. terminali POS (point of sale) installati nei punti vendita. I tratti salienti del servizio sono contenuti nell’attuale convenzione interbancaria che stabilisce, in primo luogo, che i prelievi sono consentiti soltanto nei limiti del saldo disponibile nel conto intestato al titolare della carta e nel limite di un massimale di utilizzo. Per quanto concerne, invece, le carte di credito, esse, come si è appena avvertito, consentono al titolare di acquistare beni o servizi non solo senza esborso di denaro contante ma anche potendo differire nel tempo il pagamento: e ciò in quanto l’addebito sul conto avviene decorso un certo lasso di tempo (di solito 30 giorni) quando non addirittura ricorrendo a un meccanismo di restituzione rateale con contestuale corresponsione di interessi (carte revolving). La dottrina è concorde sul fatto che la carta di credito non può essere qualificata come titolo di credito ma come mero documento di legittimazione 12 ovvero come semplice documento di riconoscimento 13.

12 Al riguardo v. DI NANNI, Pagamento e sostituzione nella carta di credito, Napoli, 1983, 196 ss.; Trib. Roma, 10-7-1997, BBTC, 1998, II, 429 ss. 13 Così TRANE, Le carte di credito, Milano, 2001, 18 ss.

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Le carte presuppongono un complesso accordo che vede la partecipazione di tre soggetti (emittente della carta, titolare della carta ed esercente convenzionato): tra emittente e titolare della carta sussiste un rapporto c.d. di provvista, mentre tra emittente e fornitore dei beni o dei servizi una convenzione, in forza della quale il secondo si obbliga nei confronti del primo ad eseguire la prestazione richiestagli dal titolare della carta di credito, mentre il primo si obbliga nei confronti del secondo a pagare il corrispettivo del bene o del servizio. Piuttosto discussa è la natura giuridica dell’operazione che libera il titolare della carta dall’obbligo di pagare al fornitore. Una prima tesi ha sostenuto che tale fattispecie dia luogo ad una cessione di credito pro soluto dal fornitore all’emittente. Una seconda tesi ritiene, invece, che vi sia un accollo privativo in quanto l’emittente si obbliga a pagare al fornitore i debiti contratti dal titolare della carta. La tesi più diffusa è però quella secondo cui l’operazione de qua debba essere qualificata come una delegazione passiva di pagamento nella quale il iussum di pagamento è dato dal titolare della carta nel momento in cui sottoscrive con l’emittente il contratto che legittima all’utilizzo della carta e che configura tra titolare ed emittente un rapporto di provvista 14.

2. La disciplina dei servizi di pagamento: il d.lgs. 11/2010 (linee di fondo) Proprio della “famiglia” degli strumenti alternativi di pagamento è, come pure si è già accennato, venuto ad occuparsi il legislatore comunitario attraverso l’emanazione della direttiva 2007/64/CE, sui “servizi di pagamento nel mercato interno” (Payment Service Directive), recepita, nel nostro ordinamento, con il d.lgs. 11/2010. Si tratta del primo intervento “massiccio” e quasi omnicomprensivo nella materia in discorso, effettuato – nella prospettiva dell’armonizzazione massima – con il preciso obiettivo di istituire un quadro giuridico moderno e coerente per i servizi di pagamento, che rappresenti “un chiaro progresso in termini di costi, di sicurezza e di efficacia rispetto ai sistemi attualmente esistenti a livello nazionale” 15. La disciplina PSD si applica, infatti, a tutti i pagamenti in euro prestati nell’Unione europea: senza distinzione tra pagamenti domestici (i.e.: nazionali) e pagamenti transfrontalieri e senza limitazione d’importo. In relazione all’ambito soggettivo, la disciplina in materia di servizi di pagamento si applica alle banche, oltre che agli istituti di moneta elettronica, agli istituti di pagamento (nuovo intermediario introdotto dalla direttiva PSD) e a Poste Italiane s.p.a. La stessa disciplina si applica, inoltre, sebbene in modo differenziato, ai rapporti intrattenuti con tutti 14

Per la tesi della cessione v. DOLMETTA, La carta di credito, Milano, 1982, passim; per la tesi dell’accollo v. PETTITI, In tema di carte di credito: profilo giuridico del pagamento sostitutivo, RDComm, 1988, I, 591 ss.; per la tesi della delegazione v. SPADA, Carte di credito: terza generazione di mezzi di pagamento, RDCiv, 1976, I, 483 ss. 15 Obiettivo, peraltro, quest’ultimo funzionale anche alla realizzazione del progetto della Single Euro Payment Area (SEPA), area in cui i cittadini, le imprese, le pubbliche amministrazioni e gli altri operatori economici possono effettuare e ricevere pagamenti in euro, sia all’interno dei confini nazionali che fra i paesi che ne fanno parte, secondo condizioni di base, diritti ed obblighi uniformi, indipendentemente dalla loro ubicazione all’interno della SEPA. Lo scopo della SEPA (che ricomprende tutti i pagamenti in euro effettuati all’interno dei 27 stati Membri dell’Unione europea con l’aggiunta anche dei tre paesi dello Spazio Economico Europeo – Islanda, Norvegia, Liechtenstein – nonché della Svizzera e del Principato di Monaco) è quello di creare un mercato dei pagamenti armonizzato che offra degli strumenti di pagamento comuni (bonifici, addebiti diretti e carte di pagamento), che possono essere utilizzati con la stessa facilità e sicurezza su cui si può contare nel proprio contesto nazionale.

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i clienti, siano essi consumatori, micro-imprese o grandi imprese. Sotto quest’ultimo profilo, va precisato, peraltro, che la direttiva PSD non si è limitata a lasciare liberi i singoli stati di equiparare, in sede di recepimento, la microimpresa 16 al consumatore al fine di un trattamento di maggior tutela (e in questo senso è andata la scelta del legislatore italiano), ma ha anche attratto la macroimpresa nel suo campo di applicazione, sia pure prevedendo nei suoi riguardi la possibilità di derogare una parte della disciplina disegnata dalla direttiva che si presenta, dunque, in certa misura “disponibile”. Con la PSD si è scelto poi di dettare una disciplina a carattere “trasversale” delle operazioni di pagamento, non differenziata cioè secondo lo specifico “tipo” di operazione considerato (bonifico, addebito diretto, ecc.). Là dove, peraltro, il legislatore ha sentito la necessità di introdurre regole diversificate, l’ambito applicativo delle stesse è stato disegnato – in modo piuttosto inedito – mediante il riferimento, anziché ai ben noti “tipi” sociali di operazioni di pagamento, a due categorie di operazioni, distinte secondo il soggetto che dà avvio all’operazione: dunque operazioni su iniziativa del pagatore e operazioni su iniziativa del beneficiario. Alla categoria delle operazioni disposte dal pagatore sono attualmente ascrivibili: bonifici di varia tipologia, RiBa – ricevute bancarie, bollettini precompilati (quali MAV, RAV, Freccia, bollettini postali premarcati). Alla categoria delle operazioni disposte su iniziativa o per il tramite del beneficiario sono invece ascrivibili, rispettivamente, gli addebiti diretti (RID – Rapporti Interbancari Diretti) e le operazioni realizzate principalmente mediante carte di pagamento (carte di debito e carte di credito). Venendo a considerare appena più da vicino i contenuti del d.lgs. 11/2010, va segnalato che il medesimo è andato, in parte, a novellare il TUB – introducendovi il titolo V-ter (in tema di istituti di pagamento) 17 e il capo II-bis del titolo V (contenente norme speciali di trasparenza contrattuale) – e, in parte, a dare vita ad un plesso di norme “autonomo”. E proprio fra le norme che trovano sede definitiva nel d.lgs. 11/2010 si rinvengono alcune disposizioni fra le più innovative per il nostro ordinamento, in quanto vi introducono una serie di regole contrattuali relative alla prestazione di servizi di pagamento (diritti e obblighi delle parti), in punto, ad es., di ordini di pagamento, spese, valute, tempi di esecuzione, responsabilità. Concentrandoci in questa sede unicamente sui profili più importanti relativi ai contratti che regolano i servizi di pagamento – stipulati tra “prestatori” e “utenti”, vuoi nella veste di “pagatori” che in quella di “beneficiari” – va segnalato anzitutto che la PSD, ha come sopra accennato, profondamente innovato la disciplina in punto di tempi di esecuzione, valute e operazioni non autorizzate. In particolare, con riferimento ai tempi di esecuzione di un’operazione di pagamento, il d.lgs. 11/2010 individua il momento di avvio dell’esecuzione di un ordine di pagamento in quello della ricezione dell’ordine da parte del pagatore fissando anche il tempo massimo di accredito al beneficiario in un giorno lavorativo a partire dalla data di ricezione dell’or-

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Per “micro-impresa” si intende – ai sensi della definizione contenuta nella Raccomandazione 2003/361/CE ripresa in Italia dal d.m. 18 aprile 2005 del Ministro dello Sviluppo Economico – un’impresa che occupa meno di 10 addetti e realizza un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di euro. 17 Gli Istituti di Pagamento di cui all’art. 114-septies del TUB sono le imprese, diverse dalle banche e dagli istituti di moneta elettronica, autorizzate a prestare i servizi di pagamento di cui all’art. 1, co. 2, lett. f, n. 4 del TUB, come ad es. i Money Transfer. Tali intermediari sono classificabili in 3 categorie: i) IdP costituiti in forma societaria (c.d. IdP “puri”); ii) IdP che operano come patrimoni destinati costituiti da intermediari finanziari ex art. 107 TUB (c.d. IdP “ibridi finanziari”); iii) IdP che operano come patrimoni destinati costituiti da soggetti non finanziari (c.d. IdP “ibridi non finanziari”).

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dine stesso (art. 20). La banca del beneficiario, dal canto suo, non appena ricevuto l’importo dalla banca del pagatore è tenuta a mettere a disposizione di quest’ultimo l’importo suddetto con la stessa valuta, data questa dalla quale decorreranno gli interessi sulle somme accreditate (art. 23). Quest’ultima previsione assume particolare rilievo nell’ambito dei trasferimenti di fondi: in passato accadeva infatti che tra la data disponibilità e la data valuta passassero uno o più giorni. La PSD, intervenendo anche in tema di data valuta, ha invece stabilito la necessaria coincidenza tra data valuta e data disponibilità. In considerazione di ciò, pertanto, non è più possibile effettuare una disposizione di bonifico indicando la data valuta di accredito per il beneficiario, né è più possibile richiedere l’accredito di somme sul conto del beneficiario con una data valuta anteriore rispetto al momento di disposizione dell’ordine (c.d. valuta antergata). Il provvedimento in esame introduce inoltre nuovi obblighi e maggiori responsabilità anche in relazione agli strumenti di legittimazione utilizzati per l’effettuazione di ordini di pagamento ed in merito ad operazioni di pagamento non autorizzate 18. Il legislatore infatti, nella consapevolezza che la fase genetica di un’operazione di pagamento è quella più delicata per la sua corretta esecuzione, ha ripartito nel dettaglio gli obblighi gravanti sui soggetti coinvolti: prestatore di servizi di pagamento da un lato e cliente da altro lato. Al fine di evitare operazioni fraudolente viene infatti richiesta l’adozione di specifici accorgimenti, oltre che ai prestatori, anche agli utilizzatori di servizi di pagamento, in particolare per quel che riguarda la gestione dei codici di accesso all’utilizzo di strumenti o di conti di pagamento. Il rispetto degli obblighi di condotta diligente da parte dell’utilizzatore esimerà poi quest’ultimo dalla responsabilità per utilizzo non autorizzato del servizio e/o dello strumento di pagamento ponendo in capo al prestatore di servizi di pagamento l’onere di

18 In tema di operazioni di pagamento non autorizzate eseguite mediante l’uso di uno strumento di pagamento smarrito, rubato o oggetto di appropriazione indebita, l’Arbitro Bancario Finanziario ha più volte avuto occasione di precisare che la disciplina contenuta nel d.lgs. 11/2010 si giustifica alla luce del fatto che l’intermediario si è assunto il rischio d’impresa connesso con la prestazione di servizi di pagamento ed è, dunque, in grado di ripartire tale rischio sulla massa degli utenti attraverso la determinazione dei prezzi per la fornitura del servizio (cfr. Collegio di Roma, decisione 1111/2010, richiamata dalla decisione del Collegio di Coordinamento 3498/2012). Secondo l’ABF, la disciplina in materia di servizi di pagamento mira ad incentivare l’uso degli strumenti di pagamento diversi dal contante, “spalmando” sulla moltitudine degli utilizzatori il rischio dell’impiego fraudolento di tali strumenti ed evitando così che esso gravi sul singolo pagatore (così, ancora, la decisione del Collegio di Roma n. 1111/2010). Quanto precede trova, com’è noto, un limite nella circostanza che l’utilizzatore abbia agito mancando di osservare, in modo fraudolento o gravemente colposo, gli obblighi di corretto utilizzo e di custodia degli strumenti di pagamento e dei codici di sicurezza personalizzati (PIN) necessari per l’utilizzo degli stessi strumenti di pagamento (cfr. Collegio di Coordinamento, decisione 6168/2013). L’orientamento dell’ABF è stato peraltro di recente fatto proprio anche dalla giurisprudenza con sentenza del Trib. Firenze, 19-12016. Anche con riferimento alle operazioni di pagamento non autorizzate effettuate tramite il servizio di home banking, la giurisprudenza ha avuto di recente occasione di pronunciarsi rilevando che, nell’ambito di tale servizio, il rispetto da parte del cliente delle norme di sicurezza sulla custodia delle credenziali per accedere allo stesso è condizione necessaria ma non sufficiente per escludere la possibilità di intrusioni indebite da parte di terzi, intrusioni che possono essere causate da un insufficiente grado di protezione del servizio offerto dalla banca, a prescindere da comportamenti negligenti del cliente. (cfr. Trib. Asti, 39-2012, in www.ilcaso.it). La pronuncia in discorso, pur riguardando fatti avvenuti in data antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 11/2010, richiama e fa proprio il principio espresso dai collegi territoriali dell’Arbitro Bancario Finanziario secondo cui sarebbe configurabile una “responsabilità da ‘status’ in capo all’intermediario” il quale è tenuto a fornire la prova di aver adottato le misure e gli standard di sicurezza più evoluti ed idonei a garantire la propria clientela (nello stesso senso anche la recente. Cass. 32-2017, n. 2950, FIt).

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provare l’utilizzo autorizzato dello strumento di pagamento da parte del cliente quando quest’ultimo neghi di aver autorizzato l’operazione (artt. 9, 10, 11 e 12). Sempre sul piano oggettivo merita, inoltre, evidenziare che il campo di operatività della nuova disciplina viene individuato dal legislatore nazionale facendo ricorso alle nozioni – tutte contenute all’art. 1 del d.lgs. di recepimento – di “contratto quadro relativo a servizi di pagamento” e di “operazioni di pagamento”, che a loro volta si fondano su quella base di “servizi di pagamento”. E sul fatto che si tratti di nozioni estremamente ampie non si può nutrire alcun dubbio: basti pensare che l’operazione di pagamento è definita come “l’attività, posta in essere dal pagatore o dal beneficiario, di versare, trasferire o prelevare fondi, indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti tra pagatore e beneficiario” e che, fra i servizi di pagamento, vengono annoverate pressoché tutte le tipologie note alla prassi di trasferimenti di fondi da un conto ad un altro (bonifici, addebiti diretti, operazioni mediante carte di debito e di credito). Vi è poi un’altra nozione introdotta dalla nuova normativa sulla quale merita soffermarsi brevemente, ovvero quella di “conto di pagamento” (art. 1, lett. l). Nel disciplinare tale conto il legislatore ha adottato un approccio funzionale: a tale categoria è. infatti, riconducibile ogni conto che assolve alla funzione di consentire al suo titolare l’esecuzione di pagamenti. Rispondono dunque a tale caratteristica il conto corrente bancario, il conto di pagamento acceso presso un istituto di pagamento, il conto corrente postale. Un’accezione così ampia di conto di pagamento riflette la volontà del legislatore di tutelare l’utilizzatore sin dal momento della trasformazione del contante in moneta scritturale e fino al momento della riconversione di quest’ultima in denaro contante al momento del prelievo. Tuttavia, negli ultimi anni, il sistema europeo dei pagamenti è stato interessato da un’evoluzione senza precedenti che ha determinato l’esigenza di completare in tempi brevi il riesame del quadro giuridico esistente e, in particolare, della direttiva PSD. Il 23 dicembre 2015 è stata dunque pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la direttiva (UE) 2015/2366 (PSD 2) che ha abrogato la PSD. In estrema sintesi, la PSD2 risponde all’esigenza di fornire una risposta concreta all’evoluzione del mercato dei pagamenti e tiene conto di nuovi operatori e nuove tipologie di servizi di pagamento, sino ad ora privi di regolamentazione 19 ed al contempo

19

Una tra le novità più rilevanti introdotte dalla PSD2 è la previsione di nuovi servizi di pagamento che si sono diffusi – successivamente all’adozione di PSD – specialmente nel settore dei pagamenti tramite internet. Il riferimento è ai servizi di disposizione di ordini ed i servizi di informazione sui conti. Il servizio di disposizione di ordini (Payment Initiation Service) consiste nel servizio mediante il quale, un soggetto terzo si interpone tra il pagatore ed il suo conto di pagamento online, dando impulso al pagamento a favore di un terzo beneficiario. Tramite questo servizio il pagatore può quindi disporre un pagamento online mediante addebito diretto sul proprio conto corrente. Presupposto per la fornitura di questo servizio è che il Payment Initiation Service Provider (PISP) – soggetto autorizzato ad esercitare esclusivamente tale nuovo servizio di pagamento – non entri mai in possesso dei fondi del pagatore, mentre il prestatore di servizi di pagamento presso cui è radicato il conto del pagatore è tenuto a garantire al PISP l’accesso al conto online del pagatore. I servizi di informazione sui conti (Account Information Service), invece, forniscono all’utente di servizi di pagamento informazioni online aggregate su uno o più conti di pagamento, detenuti presso un altro o altri prestatori di servizi di pagamento, a cui si ha accesso mediante interfacce online del prestatore di servizi di pagamento di radicamento del conto. L’utente di servizi di pagamento può così disporre immediatamente di un quadro generale della sua situazione finanziaria in un dato momento. I nuovi servizi protranno essere forniti da nuovi soggetti (i c.d. Third Party Payment Service Providers o TPP) i quali, autorizzati dai clienti finali, dovranno essere abilitati all’accesso ai conti correnti online attraverso interfacce facilmente integrabili.

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supera alcune delle criticità riscontrate nella vigenza del precedente regime 20. Alcune regole della PSD (tra cui l’esenzione dall’applicazione delle norme ivi contenute, in relazione ad alcuni specifici servizi) sono state, infatti, recepite in modo diverso dai paesi membri, comportando così arbitraggi e incertezza giuridica, così come un eterogeneo livello di protezione dei consumatori. La direttiva PSD2 rappresenta, quindi, un passo ulteriore verso la completa armonizzazione del mercato dei pagamenti e dovrà essere recepita dagli stati membri entro il 13 gennaio 2018. Un ulteriore intervento da menzionare è la dir. 2014/92/UE (Payment Accounts Directive – c.d. PAD) la quale stabilisce le norme in materia di trasparenza e comparabilità delle spese addebitate ai consumatori per i conti di pagamento detenuti nell’Unione, in materia di trasferimento del conto di pagamento all’interno di uno stato membro e quelle volte ad agevolare l’apertura di un conto di pagamento transfrontaliero da parte dei consumatori. La direttiva stabilisce, inoltre, il quadro di riferimento in base al quale gli stati membri devono garantire nell’Unione il diritto dei consumatori di aprire e usare un conto di pagamento con caratteristiche di base che include, a fronte di un canone annuale onnicomprensivo, un numero di operazioni annue effettuabili senza addebito di ulteriori spese. Le disposizioni introdotte dalla direttiva PAD si aggiungono, senza modificarle, a quelle previste da PSD2 che già reca specifici obblighi di trasparenza relativi ai servizi di pagamento. La PAD è stata di recente recepita in Italia ad opera del d.lgs. 38/2017 che ha introdotto nel Titolo VI del TUB un nuovo Capo II-ter, rubricato “Disposizioni particolari relative ai conti di pagamento” ed articolato in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai tre macroargomenti disciplinati dalla direttiva (trasparenza e comparabilità delle spese; trasferimento del conto; accesso a un conto di base).

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Dall’analisi del quadro normativo vigente è emersa, tra l’altro, i) un’applicazione non uniforme delle norme vigenti in materia nei vari stati membri; ii) la presenza di numerose esenzioni dall’ambito di applicazione della PSD, anch’esse troppo generiche; iv) l’applicazione di pratiche di tariffazione non omogenee. Tale situazione ha causato incertezza giuridica e potenziali rischi per la sicurezza della catena dei pagamenti determinando al contempo la concreta difficoltà per i prestatori di servizi di pagamento a lanciare servizi di pagamento digitali innovativi, sicuri e di facile utilizzo e di fornire agli utenti ed esercenti metodi di pagamento efficienti, comodi e sicuri. In questo contesto, dunque, la direttiva PSD2 risponde all’esigenza di fornire una risposta concreta non solo all’evoluzione del mercato dei pagamenti, ma anche alle criticità riscontrate nella vigenza del precedente regime.

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Indice analitico

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INDICE ANALITICO (a cura di Carlotta Rinaldo e Marco Verbano)

ABUSO

DI DIPENDENZA ECONOMICA: (v. PENDENZA ECONOMICA, ABUSO DI)

ABUSO

DI POSIZIONE DOMINANTE:

ZIONE DOMINANTE, ABUSO DI) AFFILIAZIONE COMMERCIALE: (v. SING) AFFITTO D’AZIENDA:

DI-

(v. POSIFRANCHI-

(v. AZIENDA) A.G.C.M. (AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO): – e abuso di dipendenza economica: § 19.I – e antitrust: – – e concentrazioni: § 12.X; § 12.XI – – e esenzioni al divieto di intese restrittive della concorrenza: § 12.VIII – – e intese restrittive della concorrenza: § 12.VII; § 12.VIII – – in generale: § 12.II – e concorrenza sleale: – – e condotte denigratorie: § 11.I.5 – – e principi di correttezza professionale: § 11.I.7 – – in generale: § 11.I.3 – e pratiche commerciali scorrette: § 11.II.5 – e pubblicità commerciale: § 11.III.1 – e regolamentazione di settore: § 12.XII – nel sistema del diritto commerciale: Intr.II; Intr.IV ANTITRUST: – Autorità competenti: – – A.G.C.M.: (v. A.G.C.M.) – – in generale: § 12.II – Cartello: (v. INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA) – Concentrazione: (v. CONCENTRAZIONE) – Finalità e fondamenti economici: § 12.I – Fonti normative: § 12.II

– Intesa: (v. INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA) – Mercato rilevante: § 12.IV – Posizione dominante: (v. POSIZIONE DOMINANTE, ABUSO DI) – Procedimento: § 12.XI – e regolamentazione: § 12.I – Sanzioni: § 12.XI – e servizi universali: § 12.III; § 12.XII – Soggetti: § 12.III ASSEGNO: – bancario: § 22.II.3 – circolare: § 22.II.4 ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE: § 20.III.2 ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI: (v. IMPRESA, privata) AVVIAMENTO: (v. AZIENDA) AZIENDA: – affitto di: – – Affittuario, poteri ed obblighi dell’: § 9.III.2 – – Concorrenza, divieto di: § 9.II.5 – – del fallito: § 9.III.2 – – Nozione: § 9.III.2 – – Successione nei contratti: § 9.II.6; § 9.III.2 – – Successione nei crediti e nei debiti: § 9.III.2 – Avviamento: § 9.I.1 – Comodato dell’azienda: § 9.IV – Componenti: § 9.I.1 – – Beni essenziali: § 9.I.1; § 9.I.2 – e art. 1156 c.c.: § 9.I.3 – Leasing dell’azienda: § 9.IV – Manutenzione, azione di: § 9.I.3 – Natura giuridica: § 9.I.3

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Indice analitico

– Nozione: § 9.I – Pegno dell’azienda: § 9.IV – Ramo d’azienda: § 9.I.2 – Rivendicazione, azione di: § 9.I.3; § 9.IV – Sequestro dell’azienda: § 9.IV – Trasferimento: (v. TRASFERIMENTO D’AZIENDA) – Usucapione d’azienda: § 9.I.3 – Usufrutto d’azienda: – – Concorrenza, divieto di: § 9.II.5 – – Nozione: § 9.III.1 – – Successione nei contratti: § 9.III.1; § 9.II.6 – – Successione nei debiti e nei crediti: § 9.III.1; § 9.II.6 – – Usufruttuario, poteri e obblighi dell’: § 9.III.1 BILANCIO DI ESERCIZIO: § 7.II BONIFICO: § 22.III.1 BREVETTO: – Brevettabilità, requisiti di: § 17.I.3 – Cessione: § 17.I.6 – Decadenza § 17.I.7 – e disciplina antitrust: § 13.II.9 – Fonti normative: § 17.I.1 – Licenza: § 17.I.6 – Nullità: § 17.I.7 – per invenzione: – – Conversione in brevetti per modelli di utilità: § 17.II – – di procedimento industriale: § 17.I.2 – – di prodotto: § 17.I.2 – – dipendenti: § 17.I.6 – – Diritto al brevetto: § 17.I.4 – – Invenzione, concetto di: § 17.I.2 – – Invenzioni d’uso: § 17.I.2 – – Tutela: § 17.I.5 – per modelli di utilità: § 17.II – Procedimento di brevettazione: § 17.I.4 – U.E.B.: (v. U.E.B.) – U.I.B.M.: (v. U.I.B.M.) CAMBIALE: – Nozione e disciplina: § 22.II.2 – Titoli cambiari in generale: § 22.II.1 CARTA DI CREDITO: § 22.III.1 CARTA DI DEBITO: § 22.III.1 CARTELLO: (v. INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA) CLAUSOLE VESSATORIE: – Ambito di applicazione: § 19.IV.1 – Azione inibitoria: § 19.IV.3

– Disciplina: § 19.IV.2 – Nozione di vessatorietà: § 19.IV.2 – Nullità di protezione: § 19.IV.3 – Sanzioni amministrative: § 19.IV.3 COLLABORATORI DELL’IMPRENDITORE: – esterni: – – Agenzia: § 8.II – – Commissione: § 8.II – – Impresa ausiliaria: (v. IMPRESA, ausiliaria) – – Procura di diritto comune: § 8.II – – Rappresentanza di diritto comune: § 8.II – – Spedizione: § 8.II – – Subfornitura: § 8.II – – Trasporto: § 8.II – interni: – – Commesso: (v. COMMESSO) – – in generale: § 8.I.1 – – Institore: (v. INSTITORE) – – Poteri: § 8.I.1 – – Procuratore: (v. PROCURATORE) COMMESSO: § 8.I; § 8.I.4 COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA: (v. PUBBLICITÀ COMMERCIALE) CONCENTRAZIONE: (v. anche: ANTITRUST) – Disciplina: § 12.X – Imprese comuni: – – concentrative: § 12.X – – cooperative: § 12.X; § 20.II.4 – Nozione: § 12.X CONCORRENZA: – divieto di: (v. DIVIETO DI CONCORRENZA) – sleale: (v. CONCORRENZA SLEALE) – Libertà di concorrenza: § 11; § 12.I – – Tutela della libertà di concorrenza: (v. Antitrust) CONCORRENZA SLEALE: – A.G.C.M.: (v. A.G.C.M.) – Clausola generale: § 11.I.7; – Collusione con terzi: § 11.I.3 – e principi di correttezza professionale: § 11.I.7 – Fattispecie: – – Appropriazione di pregi: § 11.I.6 – – Concorrenza parassitaria: § 11.I.7 – – Concorso nell’altrui inadempimento: § 11.I.7 – – Denigrazione: § 11.I.5 – – Fattispecie confusorie: § 11.I.4; § 15; § 16

Indice analitico – – Imitazione servile: § 11.I.4 – – Mendacio: § 11.I.7 – – Sottrazione di segreti: § 11.I.7 – – Storno di dipendenti: § 11.I.7 – – Spionaggio industriale: § 11.I.7 – – Violazione di norme di diritto pubblico: § 11.I.7 – Fonti normative: § 11.I.1 – Interessi coinvolti: § 11.I.2 – Legittimazione ad agire: § 11.I.3 – Presupposti oggettivi: § 11.I.3 – Presupposti soggettivi: § 11.I.3 – Sanzioni: § 11.I.8 CONSORZIO: – Autonomia patrimoniale: § 20.II.1 – con attività esterna: § 20.II.2 – Contratto di consorzio: § 20.II.1 – Definizione: § 20.II.1 – Disposizioni generali: § 20.I.1 – Esclusione: § 20.II.1 – Fondo consortile: § 20.II.1 – Forma: § 20.II.1 – Impresa comune cooperativa: § 12.X; § 20.II.4 – Iscrizione nel registro delle imprese: § 20.II.1 – Mutualità consortile: § 20.II.1; § 20.II.2 – Organi: § 20.II.1 – Recesso: § 20.II.1 – Responsabilità verso i terzi: § 20.II.1 – Scioglimento: § 20.II.1 – Soggettività: § 20.II.1 – Società consortile: – – cooperativa: § 20.II.3 – – disciplina: § 20.II.3 – – e mutualità consortile: § 20.II.3 – – e società organo di consorzio: § 20.II.3 – – Nozione: § 20.II.3 – – Scopo: § 20.II.3 – – Responsabilità per le obbligazioni sociali: § 20.II.3 CONSUMATORE, TUTELA DEL: – Clausole vessatorie: (v. CLAUSOLE VESSATORIE) – Contratto a distanza e fuori dai locali commerciali: (v. CONTRATTO A DISTANZA E FUORI DAI LOCALI COMMERCIALI) – Definizioni: § 19.IV.1 – Pratiche commerciali scorrette: (v. PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE) CONTO CORRENTE BANCARIO: § 22.I

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CONTRATTAZIONE D’IMPRESA: Intr.II; § 18 – e commercio internazionale: § 18.II.4 (v. anche: LEX MERCATORIA) – in serie: § 18.I; § 18.II.2 – Principi generali: § 18.II – Tutela dell’interesse alla continuità dell’attività economica: § 18.II.1 CONTRATTO A DISTANZA E FUORI DAI LOCALI COMMERCIALI: § 19.IV.4 CONTRATTO DI RETE: – Forma: § 10.III.1 – Nozione: § 10.III.1 – Recesso: § 10.III.1 – Struttura e funzione: § 10.III.1 – Tipologie: § 10.III.1 CONTRATTO D’OPERA INTELLETTUALE: § 3.II COOPERAZIONE TRA IMPRENDITORI: – Associazione temporanea di imprese: (v. ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE) – Contratto di rete (v. CONTRATTO DI RETE) – Consorzio: (v. CONSORZIO) – in generale: § 20.I – Società consortile: (v. CONSORZIO, Società consortile) DENARO: § 22.I DENOMINAZIONE SOCIALE: § 15.I.2; § 15.V DIPENDENZA ECONOMICA, ABUSO DI: § 19.I DIRITTI D’AUTORE: – Conflitto con marchi: § 16.VI.3 – e disciplina antitrust: § 12.IX – e proprietà industriale: § 13.II – sul Software: (v. SOFTWARE) DIRITTO COMMERCIALE: – Autonomia: Intr.II; Intr.III – Contenuti: Intr.II – Fonti: Intr.IV – Nozione: Intr. – Storia: Intr.I DISEGNI INDUSTRIALI: § 17.III DITTA: – Anteriorità, accertamento dell’: § 15.II.1 – Capacità distintiva: § 15.II.1 – Cessazione del diritto: § 15.III.2 – Conflitto tra ditte: § 15.II.1 – Confondibilità: § 15.II.1 – Cuore della ditta: § 15.I.3 – di fantasia: § 15.I.3 – Disciplina: § 15.I – e denominazione sociale: § 15.I.2 – e marchio: § 15.I.1

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Indice analitico

– e ragione sociale: § 15.I.2 – Formazione: § 15.I.3 – Funzione: § 15.I.1 – irregolare: § 15.I.3 – Novità: § 15.II.1 – Nozione: § 14; § 15.I.1; § 15.I.2 – Omonimia: § 15.II.1 – Requisiti di proteggibilità: § 15.II.1 – Teoria oggettiva della ditta: § 15.I.3 – Teoria soggettiva della ditta: § 15.I.3 – Trasferimento: § 15.I.3, § 15.III.1 – – Ditta derivata: § 15.I.3 – – inter vivos: § 15.III.1 – – mortis causa: § 15.III.1 – Tutela: § 15.II.2 – Uso di fatto: § 15.II.1 DIVIETO DI CONCORRENZA: – nell’affitto d’azienda: § 9.II.5 – nel trasferimento d’azienda: § 9.II.5 – nell’usufrutto d’azienda: § 9.II.5 ENTE PUBBLICO – economico: § 2.V.1 – non economico: § 2.V.1 EROGAZIONE, ATTIVITÀ DI: § 1.II.4; § 3.III E.U.I.P.O. (UFFICIO DELL’UNIONE EUROPEA PER LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE): – in generale: § 13.IV; § 16.III – e disegni industriali: § 17.III – e marchi: – – Decadenza: § 16.X.7 – – in generale: § 16.III – – Nullità: § 16.X.7 – – Procedimento di registrazione del marchio dell’Unione Europea: §16.VII.3 – e modelli industriali: § 17.III FRANCHISING: § 19.II GIUDICE DEL REGISTRO: (v. REGISTRO DELLE IMPRESE) GODIMENTO, ATTIVITÀ: § 1.II.1 GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO (G.E.I.E.): § 20.II.5 IMPRENDITORE: – in senso giuridico: (v. IMPRESA, Imputazione dell’impresa) – Incapacità dell’imprenditore: (v. IMPRESA, Imputazione dell’impresa) – Nozione: § 1 – occulto: § 5.II.3 – Statuto dell’imprenditore: (v. IMPRESA, Statuto dell’impresa) IMPRESA:

– agricola: – – Attività essenziali: § 2.II – – Attività connesse: § 2.II – – Iscrizione nel registro delle imprese: § 6.III – – Nozione: § 2.I; § 2.II – artigiana: § 2.III.3 – – Annotazione nel registro delle imprese: § 6.III – ausiliaria: § 8.II – civile: § 2.IV – commerciale: § 2.IV – comunitaria: § 3.III – contrattazione d’impresa: (v. CONTRATTAZIONE D’IMPRESA) – Documentazione d’impresa: (v. SCRITTURE CONTABILI) – fiancheggiatrice: § 5.II.2 – Fine dell’impresa: § 4.II.1 – – effettività: § 4.II.1 – – e procedure concorsuali: § 4.II.2 – illecita: – – illegale: § 1.II.5 – – immorale o mafiosa: § 1.II.5 – Imputazione dell’impresa: § 5 – – Criterio formalista: § 5.II.2 – – Criterio sostanzialista: § 5.II.3 – – Imprenditore occulto: § 5.II.3 – – Impresa dell’incapace: § 5.I.2 – – Impresa fiancheggiatrice: § 5.II.2 – – incerta: § 5.II.1 – Inizio dell’impresa: § 4.I – Nozione: § 1 – – Impresa come attività produttiva: § 1.II.1 – – Rilevanza normativa: § 2.I – per conto proprio: § 1.II.5 – Piccola impresa: § 2.I; § 2.III – – e enti collettivi: § 2.III.1 – – e procedure concorsuali: § 2.III.2 – – Iscrizione nel registro delle imprese: § 6.III – – Nozione: § 2.III.1 – Piccola e media impresa, nozione: § 2.III.4 – privata: § 2.V.2 – pubblica: § 2.V.1 – – e disciplina della concorrenza, servizi universali): § 11.I.3; § 12.III (v. anche: REGOLAMENTAZIONE DI SETTORE) – – Ente pubblico economico: (v. ENTE PUBBLICO, economico)

Indice analitico – – Ente pubblico non economico: (v. ENTE PUBBLICO, non economico) – Pubblicità: (v. PUBBLICITÀ DI IMPRESA) – Requisiti: – – Economicità: § 1.II.4 – – Organizzazione: § 1.II.3 – – Professionalità: § 1.II.2 – sociale: § 2.V.3 – Statuto dell’impresa: § 2.I INDICAZIONI GEOGRAFICHE: § 16.XII.2 INFORMAZIONI SEGRETE: (v. SEGRETO INDUSTRIALE) INFRASTRUTTURE ESSENZIALI, TEORIA DELLE: § 12.IX INSEGNA: – Disciplina: § 15.IV – Formazione: § 15.IV – Funzione: § 14.I; 15.IV – Nozione: § 14; § 15.IV – Trasferimento: § 15.IV – Tutela: § 15.IV INSTITORE: § 8.I; § 8.I.2 INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA: (v. anche: ANTITRUST) – Divieto di intese: – – Ambito di applicazione: § 12.V – – Contenuto: § 12.V – – Esenzioni: § 12.VII – – Parallelismo consapevole: § 12.V (v. anche: POSIZIONE DOMINANTE, ABUSO DI, Posizione dominante collettiva) – orizzontale o verticale: § 12.V – Nozione: § 12.V – Tipologie vietate: § 12.VI JOINT VENTURE: (v. ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE) KNOW-HOW: § 19.II LAVORO AUTONOMO: – e disciplina antitrust: § 3.III; § 12.III – e professioni intellettuali: (v. PROFESSIONI INTELLETTUALI) – e ritardi di pagamento: § 19.III – in generale: § 1.II.3 LEX MERCATORIA: Intr.IV; § 18.II.4 LIBRO: – degli inventari: § 7.I – giornale: § 7.I MARCHIO: – Anteriorità: – – tra marchi registrati: § 16.VI.1

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– – tra marchi registrati e non registrati: § 16.VI.2 – Autorità competenti: – – E.U.I.P.O.: (v. E.U.I.P.O.) – – U.I.B.M.: (v. U.I.B.M.) – – W.I.P.O.: (v. W.I.P.O.) – Capacità distintiva: § 16.V.1 – Carattere non ingannevole: § 16.V.3 – collettivo: § 16.IV.3; § 16.XII.1 – Conflitti: – – con segni distintivi non registrati: § 16.VI.2 – – con segni distintivi registrati: § 16.VI.1 – – con ulteriori tipologie di diritti: § 16.VI.3 – Contraffazioni: § 16.VIII – – Divieto di segni identici per prodotti o servizi identici: § 16.VIII.2 – – Divieto di utilizzazioni confusorie: § 16.VIII.1 – – e buona fede degli acquirenti commercianti: § 16.VIII.4 – – Esaurimento, principio di: § 16.VIII.4 – – Tipologie di atti di contraffazione: § 16.VIII.4 – – Tutela della notorietà: § 16.VIII.3 – – Tutela della rinomanza: § 16.VIII.3 – Decadenza: § 16.X – – Dichiarazione: § 16.X.7 – – Effetti: § 16.X.7 – – parziale: § 16.X.1 – – per ingannevolezza sopravvenuta: § 16.V.3; § 16.X.5 – – per non uso: § 16.X.4 – – per volgarizzazione: § 16.X.6 – decettivo: § 16.V.3 – dell’Unione Europea: § 16.VII.3 – denominativo, figurativo o misto: § 16.IV.1 – di forma: – – non registrato: § 11.I.4 – – Nozione: § 16.IV.1; § 16.V.2 – – Registrabilità: § 16.V.2 – di prodotto o di servizio: § 16.IV.1 – Diritti reali di garanzia: § 16.IX.3 – Diritti reali di godimento: § 16.IX.3 – Estraneità al prodotto: § 16.IV.2 – E.U.I.P.O.: (v. E.U.I.P.O.) – Fascio di marchi: § 16.VII.2 – Fonti normative: § 16.III – Funzione: § 16.I – generale: § 16.IV.1

394 – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

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Impedimenti: (v. anche: Conflitti; Requisiti) – assoluti: § 16.V – Capacità distintiva: § 16.V.1 – Non ingannevolezza: § 16.V.3 – Novità: § 16.VI.1; § 16.VI.2; § 16.VI.3 (v. anche: Conflitti) – relativi: § 16.VI individuale: § 16.IV.3 Ingannevolezza: § 16.V.3 Lesione dell’altrui notorietà: § 16.VI.3 Licenza: § 16.IX.2 non registrato: § 16.II; 16.VI.2 Notorietà del marchio: § 16.VIII.3 Novità: § 16.VI.1; § 16.VI.2; § 16.VI.3 (v. anche: Conflitti) Nozione: § 14; 16 Nullità assoluta: § 16.V; § 16.X.1 – Interessi tutelati: § 16.V.1 – per carenza di capacità distintiva: § 16.V.1 – per ingannevolezza originaria: § 16.V.3 – per contrarietà alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume: § 16.V.4 – per contrarietà a buona fede: § 16.V.4 – Sanabilità: § 16.V.1 Nullità in generale: § 16.X.1 – Cause di nullità: § 16.V; § 16.VI; § 16.X.2 – Convalidazione: § 16.X.3 – Dichiarazione: § 16.X.7 – Effetti: § 16.X.7 – Giurisdizione: § 16.X.1 – Nullità parziale: § 16.X.1 – Preclusione per tolleranza: § 16.X.3 Nullità relativa: § 16.VI; § 16.X.1 – Convalidazione: § 16.X.3 – Interessi tutelati: § 16.VI.1 – per mancanza di novità: § 16.VI.1; § 16.VI.2; § 16.VI.3 particolare: § 16.IV.1 patronimico: § 16.IV.1; § 16.VI.3 Registrazione – europea: § 16.VII.3 – in generale: § 16.II – Impedimenti: (v. Impedimenti) – internazionale: § 16.VII.2 – Limitazioni degli effetti: § 16.VIII.5 – nazionale: § 16.VII.1 – Tutela da contraffazioni: § 16.VIII (v. anche: Contraffazioni) Relatività della protezione: § 16.VIII.1

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Requisiti: – Capacità distintiva: (v. Capacità distintiva) – – Non ingannevolezza: (v. Carattere non ingannevole) – – Novità (v. Novità) – Rinomanza: (v. Notorietà del marchio) – Sistema sanzionatorio: § 16.XIII – Secondary meaning: § 16.V.1 – Segni di uso comune: § 16.V.1 – speciale: § 16.IV.1 – Tipologie: § 16; § 16.IV.1 – Trasferimento: § 15.III.1; § 16.IX.1 – U.I.B.M.: (v. U.I.B.M.) – W.I.P.O.: (v. W.I.P.O.) MERCATO: (v. anche: CONCORRENZA) – Libertà e trasparenza del mercato: § 11; § 11.I – Potere di mercato: § 12.I; § 12.IV; § 12.V; § 12.VIII; § 12.IX – rilevante: (v. ANTITRUST, Mercato rilevante) MODELLI DI UTILITÀ: (v. BREVETTO) MODELLI E DISEGNI INDUSTRIALI: § 17.III NOME A DOMINIO: § 16.XI PATTO DI FAMIGLIA: § 10 PICCOLA IMPRESA: (v. IMPRESA, Piccola impresa) POSIZIONE DOMINANTE, ABUSO DI: (v. anche: ANTITRUST) – Abuso della posizione dominante: – – Bilanciamento degli effetti: § 12.IX – – Divieto: § 12.VIII – – Ipotesi: § 12.IX – – Teoria della leva: § 12.IX – – Teoria delle infrastrutture essenziali: § 12.IX – collettiva: § 12.V; § 12.VIII – e abuso di dipendenza economica: § 12.IV – individuale: § 12.VIII – Nozione: § 12.VIII – Sfruttamento: § 12.VIII PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE: – A.G.C.M.: (v. A.G.C.M.) – Ambito di applicazione: § 11.II.1 – Clausola generale di divieto: § 11.II.1; § 11.II.2, – Conseguenze sanzionatorie: § 11.II.5 – e concorrenza sleale: § 11.I.7 – Pratiche aggressive: § 11.II.4 – Pratiche ingannevoli: § 11.II.3

Indice analitico PRIVATIZZAZIONE: § 2.V.1 PROCURA: – di diritto comune: § 8.II – limitativa dei poteri del collaboratore interno: (v. COLLABORATORI DELL’IMPRENDITORE, interni) PROCURATORE: § 8.I; 8.I.3; § 8.II PROFESSIONI INTELLETTUALI: § 3 – Applicabilità dello statuto dell’impresa: § 3.II – e concorrenza sleale: § 11.I.3 – e disciplina antitrust: § 3.III; § 12.III – e ritardi di pagamento: § 19.III – e tutela del consumatore: Intr.II; § 19.IV.1 – Nozione: § 3.I – Rapporto con l’impresa: § 3.I PROPRIETÀ INDUSTRIALE: – Autorità competenti: – – E.U.I.P.O.: (v. E.U.I.P.O.) – – U.I.B.M.: (v. U.I.B.M.) – – W.I.P.O.: (v. W.I.P.O.) – Azioni a difesa della proprietà industriale: § 13.III – Brevetto: (v. BREVETTO) – e design: § 13.II – e proprietà intellettuale: § 13.II – e sottrazione di segreti: (v. CONCORRENZA SLEALE, Fattispecie) – Fonti normative: § 13.V – Invenzione: (v. BREVETTO, per invenzione) – in generale: § 13.I, § 13.V – Marchio: (v. MARCHIO) – Modelli di utilità: (v. BREVETTO, per modelli di utilità) – Modelli e disegni industriali (v. MODELLI E DISEGNI INDUSTRIALI) – Nome a dominio: (v. NOME A DOMINIO) – Nuove varietà vegetali: § 17.I.1; § 17.I.2 – Segreto industriale: (v. SEGRETO INDUSTRIALE) – Specie: § 13.I – U.I.B.M.: (v. U.I.B.M.) PUBBLICITÀ COMMERCIALE: – A.G.C.M.: (v. A.G.C.M.) – e concorrenza sleale: § 11.I.5; § 11.I.6; § 11.III; § 11.III.3 – e pratiche commerciali scorrette: § 11.II.1; § 11.III (v. anche: PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE) – Nozione: § 11.III – Pubblicità comparativa: § 11.III.2

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– – Disciplina: § 11.III.2 – – e concorrenza sleale: § 11.I.5; § 11.I.6; § 11.III.2 – – Nozione: § 11.III.2 – – Pubblicità informativa: § 11.III.2 – Pubblicità ingannevole nei rapporti fra professionisti: § 11.III.1 – Sistema sanzionatorio: § 11.III.3 PUBBLICITÀ DI IMPRESA: – Annotazione: (v. REGISTRO DELLE IMPRESE) – Deposito: § 6.IV – Indicazioni negli atti e nella corrispondenza: § 6.IV – Iscrizione: (v. REGISTRO DELLE IMPRESE) RAGIONE SOCIALE: § 15.I.2; § 15.V RAMO D’AZIENDA: (v. AZIENDA) REGISTRO DELLE IMPRESE: – Annotazione: § 6.III – Cancellazione dal registro: – – d’ufficio: § 6.II – – Effetti: § 4.II.2 – Giudice del registro: – – Attribuzioni: § 6.II – – Ruolo: § 6.I – Nozione: § 6.I – Iscrizione: § 6.II; § 6.III; § 9.II.4 – – Effetto di pubblicità notizia: § 6.III – – Efficacia dichiarativa: § 6.II – – Efficacia costitutiva: § 6.II – – Efficacia normativa: § 6.II – Sezioni: – – ordinaria: § 6.II – – speciali: § 6.III – Tipicità, principio di: § 6 – Ufficio del registro: § 6.I – – Compiti di controllo: § 6.II REGOLAMENTAZIONE DI SETTORE: § 12.XII R.I.D. (RAPPORTO INTERBANCARIO DIRETTO): (v. STRUMENTI DI PAGAMENTO) RITARDI DI PAGAMENTO: § 19.III SCRITTURE CONTABILI: – Bilancio di esercizio: § 7.II – Conservazione: § 7.IV – Efficacia probatoria: § 7.IV – obbligatorie: § 7.I – – Libro degli inventari: (v. LIBRO, degli inventari) – – Libro giornale: (v. LIBRO, giornale) – Tenuta: § 7.III SEGNI DISTINTIVI:

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Ambito di protezione: § 14.II Anteriorità: – tra segni distintivi non registrati: § 16.VI.2 – – tra segni distintivi registrati: § 16.VI.1 – atipici: § 14 – Capacità distintiva: § 14.II.1 – Classificazione: § 14 – – Denominazione sociale: (v. DENOMINAZIONE SOCIALE) – – Ditta: (v. DITTA) – – Insegna: (v. INSEGNA) – – Marchio: (v. MARCHIO) – – Ragione sociale: (v. RAGIONE SOCIALE) – collettivi: – – Indicazioni geografiche: (v. INDICAZIONI GEOGRAFICHE) – – Marchio collettivo: (v. MARCHIO, collettivo) – Disciplina: § 14 – e concorrenza sleale: § 11.I.4; § 14.II.2 – Esclusività, principio di: § 14.I.2 – Funzione distintiva: § 14.I.1 – Interessi tutelati: § 14 – Non confondibilità, principio di: § 14.II.2; § 15.II.1 – Novità: § 14.II.2 – Registrazione: § 14.II.3 – Relatività della tutela: § 14.II.2 – Trasversalità: § 14.I.2 – Usi potenziali: § 14.II.3 SEGRETO INDUSTRIALE: § 11.I.7; § 17.I.4 SERVIZI DI PAGAMENTO, DISCIPLINA DEI: (v. STRUMENTI DI PAGAMENTO) SOCIETÀ CONSORTILE: (v. CONSORZIO, Società consortile) SOFTWARE: – Diritto d’autore sul Software: § 13.II – come infrastruttura essenziale: § 12.IX – e brevetti: § 17.I.2 – e divieto di abuso di posizione dominante: § 12.VIII; § 12.IX – e divieto di intese anticoncorrenziali: § 12.VI – e invenzioni: § 17.I.2 – e teoria della leva: § 11.I.7; § 12.IX – Vendita sotto costo: § 11.I.7 SPIONAGGIO INDUSTRIALE: § 11.I.7 STRUMENTI DI PAGAMENTO: – alternativi al denaro contante: § 22.III

– Bonifico: (v. BONIFICO) – Carta di credito: (v. CARTA DI CREDITO) – Carta di debito: (v. CARTA DI DEBITO) – Denaro: (v. DENARO) – Moneta scritturale: § 22.I – R.I.D.: § 22.III.1 – Servizi di pagamento, disciplina dei: § 22.III.2 – sostitutivi del denaro contante: § 22.II – – Assegno: (v. ASSEGNO) – – Cambiale: (v. CAMBIALE) TITOLI DI CREDITO: – al portatore: § 21.III.1 – all’ordine: § 21.III.1 – Astrattezza: § 21.III.3 – Autonomia: – – Obbligatoria: § 21.III.3 – – Reale: § 21.III.2 – Cambiari: – – Assegno: (v. ASSEGNO) – – Cambiale: (v. CAMBIALE) – – in generale: § 22.II.1 – Circolazione, leggi di: § 21.III.1 – Fattispecie: § 21.II – Legittimazione cartolare: § 21.III.4 – Letteralità: § 21.III.3 – nominativi: § 21.III.1 – Nozione: § 21.I TRASFERIMENTO D’AZIENDA: – Ambito di applicazione della disciplina: § 9.II.3 – Concorrenza, divieto di: § 9.II.5 – e successione ereditaria: § 9.II.3 – e vendita fallimentare: § 9.II.3 – Garanzia per evizione e vizi: § 9.II.2 – Negozio di trasferimento: – – Causa: § 9.II.1 – – Conflitti tra più acquirenti: § 9.II.4 – – Forma: § 9.II.4 – – Iscrizione nel registro delle imprese: § 9.II.4 – – Natura: § 9.II.1 – – Oggetto: § 9.II.2 – Nozione: § 9.II.1 – Responsabilità per i debiti: § 9.II.7 – Successione: – – nei contratti: § 9.II.6 – – nei crediti: § 9.II.7 – – nei debiti: § 9.II.7 – – nei rapporti di lavoro subordinato: § 9.II.6

Indice analitico – – nei rapporti rappresentativi: § 9.II.6 – – nelle proposte e nelle accettazioni contrattuali: § 9.II.6 TRUST ANTICONCORRENZIALE: (v. INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA) TUTELA DEL CONTRAENTE DEBOLE: – nei rapporti b2c: (v. CONSUMATORE, TUTELA DEL) – nei rapporti tra imprenditori: – – Abuso di dipendenza economica: (v. DIPENDENZA ECONOMICA, ABUSO DI) – – Franchising: (v. FRANCHISING) – – Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: (v. RITARDI DI PAGAMENTO NELLE TRANSAZIONI COMMERCIALI) USUFRUTTO DELL’AZIENDA: (v. AZIENDA) U.E.B. (UFFICIO EUROPEO DEI BREVETTI): – Cessioni di brevetti: § 17.I.6 – Effetti della brevettazione: § 17.I.5 – in generale: § 13.IV

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– Licenze di brevetti: § 17.I.6 – Procedimento di brevettazione: § 17.I.4; § 13.IV; §17.I.1; § 17.I.3; § 17.I.4 U.I.B.M. (UFFICIO ITALIANO BREVETTI E MARCHI): – e brevetti: – – Cessioni di brevetti: § 17.I.6 – – Effetti della brevettazione: § 17.I.5 – – Licenze di brevetti: § 17.I.6 – – Procedimento di brevettazione: § 17.I.4 – e disegni industriali: § 17.III – e indicazioni geografiche: § 16.XII.1 – e marchi: § 16.VII.1 – e modelli industriali: § 17.III – in generale: § 13.IV UFFICIO DEL REGISTRO: (v. REGISTRO DELLE IMPRESE) W.I.P.O. (WORLD INTELLECTUAL PROPERTY ORGANIZATION): § 16.VII.2

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Finito di stampare nel mese di settembre 2017 nella Stamperia Artistica Nazionale S.p.A. – Torino

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