Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell'omertà 9788860818508

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Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell'omertà
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ANTROPOLOGIA CULTURALE – NUOVA SERIE

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a cura di Luigi Maria Lombardi Satriani

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NELLA STESSA COLLANA

Faranda L., Non uno di meno, 2004, pp. 224 Storey J., Teoria culturale e cultura popolare. Un’introduzione, 2005, pp. 238 Tortolici C.B., Violenza e dintorni, 2005, pp. 160 Boggio M. - Bortino R. - Mele F., Il disincanto, 2006, pp. 176 Manciocco C. - Manciocco L., L’incanto e l’arcano. Per un’antropologia della befana, 2006, pp. 224. Boggio M. - Lombardi Satriani L.M., Natuzza Evolo, 2007, pp. 320 Pisani L., Bambini Dogon, 2007, pp. 176 Maffei M.M., La danza delle streghe, 2008, pp. 288 Lombardi Satriani R., La saggezza e la memoria. Proverbi in uso in San Costantino di Briatico, 2008, pp. 192 Resta P. (a cura di), Il vantaggio dell’immaginazione. Un progetto per una cultura condivisa, 2008, pp. 240 Minghelli M., I tossici - Un viaggio nel Paese dell’Albero della Melarosa, 2008, pp. 288 Bindi L., Volatili misteri - Feste e città a Campobasso e altre divagazioni immateriali, 2009, pp. 208 Sassu S., La Rasgioni in Gallura - La risoluzione dei conflitti nella cultura degli stazzi, 2009, pp. 320 Faranda L., Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica, 2009, pp. 192

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Maria Pia Di Bella

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DIRE O TACERE IN SICILIA Viaggio alle radici dell’omertà

ARMANDO EDITORE

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DI BELLA, Maria Pia Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell’omertà ; Pref. di Luigi Maria Lombardi Satriani Roma : Armando, © 2011 240 p. ; 21 cm. (Antropologia culturale – Nuova serie) ISBN: 978-88-6081-850-8 1. Le strategie della parola 2. L’omertà tra antropologia e storia 3. Il silenzio come valore del codice d’onore

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CDD 570

Titolo originale: Dire out aire en Sicile © 2004 Maria Pia Di Bella © 2008 Éditions du Félin 10, Rue de la Vacquerie, 75011, Paris © 2011 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-03-040 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Sommario

Prefazione: Musica, poesia, silenzi di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

11

Introduzione: Celare/svelare: le strategie della parola

21

PARTE PRIMA: PARLARE ALTRIMENTI

39

Un culto pentecostale ad Accadia (Puglie)

41

Lingue e possessione nei gruppi pentecostali del meridione

51

PARTE SECONDA: TACITARE LA PAROLA

69

L’omertà tra antropologia e storia

71

La “forza” del silenzio in Sicilia

85

Cantare il silenzio. Il tema dell’omertà nei canti dei carcerati siciliani

97

Discorso e recita della vendetta

109

PARTE TERZA: DIRE SOTTO METAFORA

121

False testimonianze per un omicidio palermitano

123

Nome, sangue e miracoli: la rivendicazione della fama in Sicilia

133

La lupa o come il teatro delucida le metafore

153

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165

Il “caso Franca Viola”, la ragazza che disse di no

167

La sessualita delle contadine italiane tra silenzio e narrazione

187

Mancare di parola: omertà e denunce in Sicilia

201

Ringraziamenti

219

Riferimenti bibliografici

221

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PARTE QUARTA: PRENDERE LA PAROLA

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A Michela, Sara, Laura e Roberto

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Il loro grande dio [degli Indiani Guarani] Namandu sorge dalle tenebre e inventa il mondo. Bisogna che nasca subito la Parola, sostanza comune ai divini e agli umani. Egli assegna all’umanità il destino di accogliere la Parola, di esistere in essa e di esserne il rifugio. Protettori della Parola e protetti da essa: questi sono gli umani, tutti ugualmente eletti dei divini. La società è la gioia del bene comune che consiste nella Parola. Istituita uguale per decisione divina – per natura – la società si raccoglie in un tutt’uno, cioè indiviso… CLASTRES, Cronaca di una tribù

Il limite potrà dunque esser tracciato solo nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. WITTGENSTEIN, Trattato logico-filosofico

Ciò che in generale può essere detto, può essere detto chiaramente, e di ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere. WITTGENSTEIN, Trattato logico-filosofico

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Prefazione

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Musica, poesia, silenzi

Accingendosi a comporre la “tela di Penelope” dell’analisi mitica, Lévi-Strauss organizza Il crudo e il cotto come se fosse una partitura musicale. L’opera, come è noto, porta come dedica: Alla musica. Dopo le due righe del pentagramma troviamo: A la musique Choeur pour voix de Femmes/avec Solo (pour inaugurer la maison d’un ami). Parole di Edmond Rostand. Musica di Emmanuel Chabrier. A l’Ouverture seguono una prima parte dedicata a “Tema e variazioni”, una seconda parte che comprende una “Sonata delle buone maniere” e una “Sinfonia breve”; altre parti che comprendono, fra le altre, una “ Aria in rondò”, un “Doppio canone rovesciato”, una “Toccata e fuga”. L’ultima parte, la quinta, è denominata: “Sinfonia rustica in tre tempi”; i primi due sono un “Divertimento su un tema popolare” e un “Concerto d’uccelli”. Preliminarmente l’etnologo si sofferma sulla forte analogia della musica e della mitologia. «Quando […] suggerivamo che l’analisi dei miti era paragonabile a quella di una grande partitura, ci limitavamo a trarre la conseguenza logica dalla scoperta wagneriana che la struttura dei miti si svela per mezzo di una partitura. Tuttavia, questo omaggio preliminare conferma l’esistenza del problema più di quanto lo risolva. Secondo noi, la vera risposta risiede nel carattere comune del mito e dell’opera musicale»: essere “entrambe macchine per sopprimere il tempo”. Esse, infatti, «costituiscono dei linguaggi che trascendono, ciascuno a modo suo, il piano del linguaggio articolato, pur richiedendo, come questo linguaggio e contrariamente alla pittura, una dimensione temporale per manifestarsi. Ma questa relazione al tempo rileva una natura abbastanza singolare: tutto avviene 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita. Esse sono entrambe macchine per sopprimere il tempo. […] Traspare già come la musica somigli al mito, che supera anch’esso l’antinomia fra un tempo storico e compiuto e una struttura permanente». L’etnologo rivendica anche una forte analogia della mitologia e delle maschere. Certamente dobbiamo allo studioso francese una nuova maniera di guardare i miti, di analizzarli, di tentare di comprenderli. Può essere rilevato nel suo discorso anche il pericolo di una ipostatizzazione del mito. «Noi non pretendiamo quindi di mostrare come gli uomini pensino nei miti, ma viceversa come i miti si pensino negli uomini e a loro insaputa. E forse, come pure abbiamo suggerito, conviene spingersi ancora più lontano, facendo astrazione da ogni soggetto per considerare che, in un certo modo, i miti si pensano fra di essi. Infatti, si tratta qui di portare alla luce non tanto ciò che c’è nei miti (senza essere, del resto, nella coscienza degli uomini), quanto il sistema degli assiomi e dei postulati che definiscono il miglior codice possibile, capace di dare una significazione comune a elaborazioni inconsce, che ineriscono a spiriti, società e culture scelti fra quelli maggiormente lontani gli uni dagli altri». Con la tendenza a “spingere più lontano” problemi che egli stesso ha sollevato, Lévi-Strauss rileva: «Come l’opera musicale, il mito si sviluppa a partire da un doppio continuo: uno esterno, la cui materia è costituita in un caso da circostanze storiche o ritenute tali che formano una serie teoricamente illimitata da cui ogni società estrae per elaborare i propri miti, un numero ristretto di eventi pertinenti; e nell’altro caso, dalla serie egualmente illimitata dei suoni fisicamente realizzabili, in cui ogni sistema musicale preleva la propria scala. Il secondo continuo è di ordine interno. Esso ha la propria sede nel tempo psicofisiologico dell’uditore, i cui fattori sono molto complessi: periodicità delle onde cerebrali e dei ritmi organici, capacità della memoria e potere d’attenzione». È ancora Lévi-Strauss a sottolineare: «Ma che la musica sia un linguaggio atto a elaborare messaggi, i quali sono compresi, almeno in parte, dall’immensa maggioranza, mentre solo un’infima minoranza è in grado di emetterli, e che fra tutti i linguaggi questo solo riunisca i caratteri contradditori d’essere ad un tempo intelligibile e intraducibile, fa 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del creatore di musica un essere simile agli dei, e della musica stessa il supremo mistero delle scienze dell’uomo, quello nel quale esse inciampano, e che custodisce la chiave del loro progresso. Si avrebbe infatti torto a invocare la poesia per affermare che essa solleva un problema dello stesso ordine. Non tutti sono poeti, ma la poesia utilizza come veicolo un bene comune, che è il linguaggio articolato. Essa si accontenta di promulgare per il suo impiego certe costruzioni particolari. Viceversa, la musica si serve di un veicolo che gli appartiene in proprio, e che, fuori di essa, non è suscettibile di nessun uso generale. In linea di diritto se non di fatto, ogni uomo convenientemente educato potrebbe scrivere poesie, buone o cattive; mentre l’invenzione musicale presuppone attitudini speciali, che sarebbe impossibile far emergere qualora non siano presenti». Non invocheremo, quindi, la poesia per tentare improbabili analogie con la musica, anche per non essere smentiti dalle stesse parole lévistraussiane. Riteniamo ugualmente, però, di invocare la poesia per altre più profonde ragioni. Concludendo l’Ouverture, l’etnologo francese, con la cifra ironica che gli è propria, sottolinea: «Quando considero questo testo greve e farraginoso, mi viene spontaneo dubitare che il pubblico ne ricavi l’impressione d’ascoltare un’opera musicale, come vorrebbero fargli credere l’ordinamento e il titolo dei capitoli. Le pagine che seguono sembrano piuttosto evocare quei commenti scritti sulla musica a forza di parafrasi involute e di astrazioni sviate, come se la musica potesse essere ciò di cui si parla, laddove il suo privilegio consiste nel saper dire quello che non può essere detto in nessun altro modo. Qua e là, la musica è perciò assente. Dopo avere fatto questa constatazione disillusa, mi sia per lo meno consentito, a titolo di consolazione, accarezzare la speranza che il lettore, superati i limiti dell’irritazione e della noia, possa essere trasportato (in virtù del movimento che lo allontanerà dal libro) verso la musica che è nei miti, quale l’ha preservata il loro testo integrale; e cioè, oltre che con la sua armonia e il suo ritmo, con quella segreta significazione che ho laboriosamente tentato di conquistare, non senza privarla di una potenza e di una maestosità riconoscibili dalla commozione che essa infligge a chi la sorprende nel suo primo stato: annidata in fondo a una selva di immagini e di segni e ancora pregna dei sortilegi grazie ai quali può commuovere: giacché così non la si comprende». 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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È un brano su cui occorre riflettere. Il mito ha un suo ritmo, una sua musicalità. A essa bisogna avvicinarsi con cautela, pena l’assoluta incomprensione. Alta celebrazione della parola, della sua musicalità, del suo attingere per vie per lo più sotterranee, e non tutte sondabili, il piano della poesia. Viene in mente un Elogio della parola, della sua seduttività, celebrato secoli fa da un sofista della Magna Grecia che esalta Elena perché si è fatta sedurre, appunto, dalla parola di Paride. Molto tempo è passato da quella di Gorgia da Lentini, ma non è un caso che tra l’arcaico sofista e il contemporaneo etnologo vi siano significative convergenze. La cultura folklorica ha inteso il potere profetico della poesia, la sua impunibilità da parte dei detentori del potere. Secondo una parabola siciliana: «Una volta Gesù Cristo con i dodici Apostoli trovandosi in campagna verso l’imbrunire vide una casetta e un contadino che stava cuocendo la minestra. Si diressero in quella direzione e Gesù Cristo disse: – Ci potreste sistemare per questa notte? – Perché no? – rispose il contadino –. Paglia ce n’è a sufficienza e potrete sdraiarvici sopra; ma il problema è il mangiare, perché non ho altro che queste quattro fave nel pentolino, questo mezzo pane e questo mezzo quarto di vino. – Non dubitare – gli disse Gesù Cristo –, ché il cibo non solo sarà sufficiente, ma addirittura ce ne sarà di avanzo. E detto fatto lo benedisse e divenne subito così abbondante da buttarne. Il contadino vedendo questo gran miracolo disse a Gesù Cristo: – Siete voi, forse, il figlio di Dio di cui tutti tanto parlano per i gran miracoli che va facendo? E se così è sia benedetta la vostra venuta in questa casa, perché voi solo, o Signore potete raddrizzare questa barca. Io possiedo questa casetta, questi quattro filari di vigna, questo orticello che vedete e questo fazzoletto di terra e con tutto ciò non sono padrone di niente. In quel castello lì di fronte abita un Cavaliere che mi porta con le spalle al muro: io semino e il seminato se lo mangiano i suoi polli e le sue vacche; io zappo la vigna e l’uva se la mangiano i suoi garzoni; io lavoro nell’orto e i suoi mulattieri me lo riducono come una palma di una mano e tutto ciò perché vorrebbe che gli vendessi questo poderetto. Non essendoci riuscito quell’anima dannata incominciò a insidiare mia moglie… La femmina è 14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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canna! si sa; si lasciò convincere dalle sue parole ed ecco che un giorno mi pianta e se ne va a stare con lui. Che debbo fare? Se ricorro, i giudici sono dalla sua parte, se mi lamento i suoi campieri mi riducono come un Ecce Homo. Cornuto e bastonato, come dice il proverbio. Ora io vorrei, Maestro, che, senza mio pericolo, potessi svergognarlo di fronte a tutti e raccontare a tutti le cose infami che va facendo. – Per fare questo – dice il Signore – dovresti essere poeta, perché in questo mondo solo il poeta può dire la verità senza paura di nessuno; vieni qui, figlio mio, inginocchiati ché ti voglio dare il dono della poesia. Gesù Cristo lo fa inginocchiare, lo bacia in bocca e gli dice: – Va’, ora sei poeta e puoi dire la verità di fronte a tutti, anche davanti agli stessi regnanti. Da allora in poi il contadino incominciò a fare poesie terribili contro il Cavaliere; il Cavaliere si rodeva tutto ma non aveva cosa farci perché il poeta quando dice la verità non ha paura di nessuno e dovette restituirgli la moglie e domandargli perdono». La dimensione poetica viene percepita, cioè, quale unico spazio consentito per la testimonianza in termini di verità. La verità delle classi subalterne – che è la verità del dominio, del desiderio, della tensione alla liberazione – non può affiorare allo scoperto in sé, non può costituirsi come linguaggio esplicito dell’eversione, né può affiorare impunemente nei tribunali, ma va ricercata nel non detto, nell’allusività, nella parola camuffata, nella metafora, nel silenzio. Secondo un’altra, significativa, parabola siciliana, raccolta nel modicano e alla fine dell’Ottocento e che ho avuto occasione di citare in altre sedi: «Una volta il Parlare e il Mangiare litigarono fra di loro e, non riuscendo ad accordarsi, andarono dal re Salomone perché dirimesse la questione. Il Re disse: – Sentiamo un po’ quali sono le ragioni di questa lite. – Maestà litighiamo perché mentre la Vista, l’Udito e l’Olfatto hanno ognuno due casette, io che sono il Mangiare e questo mio Compagno, che è il Parlare, siamo condannati a stare come ladri, incatenati mani e piedi e tutti e due in una sola casa. C’è giustizia? Ora quello che desideriamo è di essere separati e di avere assegnata una casetta ciascuno; ma la bocca tocca a me, perché sono il Mangiare e se non ci fossi io in questo mondo tutti i cristiani e tutti gli animali potrebbero cantare il corsivo Requiem aeternam. 15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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– E tu che cosa hai da dire? – domandò Salomone al Parlare? – Io dico che la bocca tocca a me perché io sono più nobile e senza di me non ci sarebbe differenza alcuna fra l’uomo e il pidocchio. Perciò, Maestà, se dobbiamo abitare entrambi in una stessa casetta il padrone devo essere io e lui deve essere il servo. – State a sentire ché adesso vi metto d’accordo io – dice il Re Salomone –. Tu che sei il Parlare dominerai incontrastato nella bocca dei ricchi perché essi hanno il mangiare assicurato e se non parlassero non avrebbero proprio niente da fare; e tu, o Mangiare, puoi spadroneggiare a piacer tuo nella bocca dei poveri, perché i poveri meno parlano e meglio è. Dividetevi quindi le bocche degli uomini e non pensate più a litigare»1. Ma il silenzio non è, non può essere assoluto. E, soprattutto, vi sono vari tipi di silenzi. La cultura folklorica, apparentemente così rumorosa, si costruisce attorno al Silenzio, personificazione di una negatività (l’assenza del parlare, che comunque è avvertito come pericoloso per i poveri: a bocca chiusa non trasuni muschi, ribadisce un proverbio calabrese), sia essa stessa, e in maniera decisiva, silenzio. Un silenzio da interpretare, certo, ma, intanto realtà culturale alla quale accostarsi con discrezione, con timore e tremore, direi con suggestione kierkegaardiana anche a costo a fare attribuire erroneamente a tale discorso delle valenze mistiche. In una conversazione in Sicilia è stato detto: «Alberto – Nel mondo ci sono molti silenzi: quando uno studia, o si addormenta, o si vuole stare zitti, o anche essendo sordi. Amico – Il silenzio in cui ascolti Bach o leggi un libro di poesie. Il silenzio com’è ora sulla luna. Il silenzio della concentrazione. Il silenzio della morte. Annamaria – Ci sono silenzi in diversi momenti. Il silenzio della solitudine, della paura. Il silenzio di riflessione. Il silenzio perché non si trova nulla da dire Giovanna – Di dolore, di rabbia, di tristezza, di noia, di malinconia. […] 16 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Vito – I silenzi che esistono possono essere infiniti, come ha detto Daniela: i silenzi estremi sono il silenzio quando si è chiusi in se stessi e il silenzio dell’amore. Libera – Certi professori sono soliti dire “ragazzi, silenzio di tomba”. Può esistere anche il silenzio di sopportazione, di compatimento. Può essere voluto o imposto. Può essere ricerca di se stessi. Umiliazione, o sentirsi superiori di fronte agli altri. Di persone che non hanno coraggio dei propri pensieri. Può essere non dire il vero necessario, per cui in certi casi è mentire. Può essere il momento in cui l’uomo riesce a esprimere il meglio di sé o mancanza di energia. Non parlare e dire tante cose, viceversa parlare e non dire niente. Può esistere il silenzio di quando ci si trova davanti a delle tombe di uomini come Ghandi o Gesù. Danilo – C’è anche il silenzio di chi striscia nascondendosi nel buio per saltare addosso a uno per strangolarlo. C’è il silenzio dei mafiosi che nei paesi e nelle città tramano per parassitare e dominare segretamente. Il silenzio di quei politici che nelle nazioni e nei continenti tramano per parassitare e dominare segretamente. Il silenzio di chi odiando aspetta il momento di colpire. Il silenzio di chi cerca di “ammazzare il tempo” fumando o leggendo fumetti fessi. E c’è il silenzio in cui si guardano e si vedono per la prima volta la mamma e il bambino che ha in braccio. Il silenzio di due innamorati che si abbracciano. Il silenzio di chi si perde e ritrova guardando le stelle in una notte senza luna. Il silenzio di chi vuol sentire crescere in sé la musica e la poesia. Il silenzio di chi meditando cerca di scoprire il senso della vita. 17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il silenzio di chi ha avuto un dolore e ricerca in sé il senso di questo dolore e come superarlo. Il silenzio di chi pensa come organizzare il futuro di chi lavora per creare un nuovo futuro»2. Se spostiamo la nostra attenzione su un altro piano, potremo ricordare come il silenzio si accompagni alle teofanie in diverse tradizioni religiose, quali ad esempio quella cristiana e quella buddhista, pur con notevoli differenziazioni3. All’apparizione del divino è omogenea la dimensione del silenzio, che sembra essere il riflesso speculare, mondano, della verità in sé, la “voce di silenzio” (gōl demanāh)4; il silenzio è voce di Dio. Nella cultura folklorica il silenzio sembra essere segno di una epifania dei poveri, nel senso che il silenzio si inscrive in un ordine di verità – la verità storica del dominio – e la parola in un ordine del potere. Chi tene ’a lenga va in Sardenga, ribadisce un antico proverbio napoletano; la stessa cultura folklorica percepisce la possibilità di uso della parola quale mezzo per acquisire potere, lasciando al silenzio la dimensione della verità. Strano destino, invero, quello della parola, di tendere alla Parola – e anche sulla parola si è innestato il meccanismo del potere nella gestione monopolistica che ne è stata fatta –, ma di precipitare quasi sempre nell’inconcludenza della chiacchiera. Silenzio sacro e silenzio folklorico si situano, nell’universo della chiacchiera, quale momento fondante di una verità cifrata, segno di un continente sommerso, tratto di un linguaggio dimenticato. Silenzio, dunque, come linguaggio, linguaggio da intendere, nell’inscindibilità del processo di rilevazione-interpretazione, in un tentativo, consapevole della sua parzialità, di ridare voce a chi storicamente ne è stato espropriato, ai “muti della storia”. Anche la riflessione contemporanea si è impeganata a individuare una tipologia di silenzi. Si pensi agli studi antropologici di Keith Basso, Zhan e Jamin, rispettivamente sul silenzio rituale degli Apache occidentali, su quello iniziatico dei Bambara del Mali e su quello istituzionalizzato nelle società segrete presenti in molte società del mondo; miei e di Geraci, rispettivamente sul silenzio folklorico e su quello nella poesia popolare siciliana. Si tengano presenti anche quelli filosofici di Valesio, Sini e Rella; 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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quelli fenomenologici di Heidegger, Merleau-Ponty e Derrida; quelli linguistico-semiologici di Pagliaro, De Mauro, Caprettini, Cardona e Mortara Garavelli; quelli, infine, storico-religiosi di Van der Leeuw, Di Nola e Jesi. A tale specifica riflessione può essere aggiunto il contributo di Maria Pia Di Bella, apparso in Francia nel 2008 con il titolo Dire ou taire en Sicile, la cui traduzione italiana, per l’editore Armando, qui si presenta. Si tratta di un notevole contributo nel quale la studiosa si sofferma sulle strategie della parola; su un culto pentecostale ad Accadia; sul tema dell’omertà nei canti popolari siciliani; sull’universo della vendetta e sulla sua coercitività culturale; sulla centralità del tema del sangue; sulla sessualità femminile e sulle forme di controllo di essa da parte del potere maschile e delle tradizioni: sulla dialettica dei diversi livelli di verità e menzogna nella cultura tradizionale siciliana. Sono nodi problematici su cui si è addensata una notevole letteratura scientifica italiana e di altri Paesi, buona parte della quale viene utilizzata da Maria Pia Di Bella che vi attinge materiali e prospettive critiche. Anche per quest’ordine di considerazioni, la traduzione della sua opera appare particolarmente opportuna. Una celeberrima frase di Wittgenstein presente, fra l’altro, tra le epigrafi, recita: “Di ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. Maria Pia Di Bella, della tematica qui trattata, era in grado di parlare e ha fatto bene, quindi, a non tacere. Si invera ulteriormente, così, la prima parte della frase wittgensteiniana: “Ciò che può essere detto, può essere detto chiaramente”. LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Note 1 Amabile Guastella S., Le parità e le storie morali dei nostri villani, Ragusa,

1884; nuova ed. dal titolo Le parità morali, con intr. di I. Calvino, Milano, Rizzoli, 1977; sulle parabole riportate nel mio scritto mi sono soffermato in Lombardi Satriani L.M., Il silenzio, la memoria, lo sguardo, Palermo, Sellerio, 1979; esse vengono utilizzate anche da M.P. Di Bella nel suo lavoro. 2 Dolci D., Quali diversi silenzi possono esistere?, in Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa, Torino, Einaudi, 1973, pp. 126-138. 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

3 Sul

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tema del silenzio sacro e su quello correlativo della sospensione della vita cosmica, vedi Di Nola A.M., Antropologia religiosa, Firenze, Vallecchi, 1974, in particolare il capitolo, Sospensione della vita cosmica, pp. 173-199, debbo a Di Nola anche il proverbio napoletano che cito più avanti. 4 Libro dei Re.

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Introduzione

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Celare/svelare: le strategie della parola

In seno alle affermazioni che la persona può fare troviamo una serie di credenze ereditate che determinano il suo verbo e la sua azione. Questo verbo e questa azione cambiano quando l’individuo o il gruppo oltrepassano il limite stabilito dall’attesa sociale per andare verso una scelta trasgressiva. Questa frontiera si trova oggi al centro delle mie analisi che si focalizzano sull’uso della parola in situazioni ai margini tramite l’atto – conscio o incoscio – di celare o di svelare la parola stessa1. È dunque tra il non dire o il dire altrimenti, il silenzio (omertà) o il “parlare in lingue” (glossolalia), il rivelare o il denunciare, il narrare o il testimoniare, il cantare o il poetare, il dire il falso o il vero che esaminerò queste strategie della parola. Il termine “strategie” sembrerebbe avere una connotazione troppo forte per questi atti di parole spesso inconsci, queste scelte dovute al caso o alle circostanze della vita anche se, dal punto di vista dell’osservatore, il termine è appropriato. Ma si tratta proprio di strategie applicate alla sfera della comunicazione e, come tali, desidero sottoporle al lettore. Al principio del Ventesimo secolo, negli Stati Uniti, i diversi risvegli del protestantesimo danno luogo a molteplici gruppi pentecostali che progressivamente, nel corso del secolo, si svilupperanno in ogni continente. È certamente il fenomeno glossolalico, abolito dai principali vescovi dell’Asia minore nel 177 con la scomunica di Montano e la sua setta, ad attirare al pentecostalismo un numero sempre crescente di fedeli e, d’altro canto, ad ispirare in seno alla comunità cattolica, circa sessant’anni dopo, il movimento carismatico. Il primo contatto che la colonia italiana statunitense ebbe con il pentecostalismo fu nel 1907. L’anno seguente, G. Lombardi, uno dei suoi 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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più noti aderenti, decide di recarsi a Roma per stabilirvi un primo nucleo di convertiti. Nel 1914, P. Ottolini e S. Arena lasciano Chicago per tornare in Italia come missionari, il primo a Matera e il secondo in Sicilia, in modo da ampliare il nascente proselitismo. Ma senza fare i conti con il Concordato. Se nel 1929 si potevano annoverare centoquarantanove località visitate dai missionari pentecostali, di cui venticinque già luoghi di culto, dopo la firma tra Mussolini e il Papa e, soprattutto, dopo la guerra d’Africa, le cose andranno sempre peggio per i proseliti. In effetti, il nuovo corso pro-germanico e anti-anglosassone del regime fascista metterà in moto una serie di persecuzioni contro i pentecostali: le famose “circolari” del ministro Buffarini-Guidi (1935, 1939, 1940) che proibiranno ai pentecostali sia l’esercizio del culto che l’organizzazione di riunioni, abolite solo dieci anni dopo la fine della guerra. A guerra finita, degli individui appartenenti alla colonia italiana statunitense, convertiti al pentecostalismo, decidono di ritornare al paese natale come missionari per convertire le loro famiglie. Iniziative personali che, comunque, dovranno fare i conti con l’ostracismo del clero locale e delle forze dell’ordine, e ciò sino alla metà degli anni Cinquanta. Ma il grosso dello sforzo proselitista da parte della Chiesa Pentecostale si concentrerà nelle città dove sarà necessario, per portare la nuova dottrina, andare di porta in porta, bussare, distribuire volantini e discutere con gli inquilini di teologia. L’esistenza di questi gruppi in un ambiente cattolico fortemente conservatore pone problemi e suscita un ampio dibattito, con delle accese campagne di stampa tra cattolici e laici nell’arco degli anni Cinquanta, in cui sono implicati, da un lato «Civiltà Cattolica» e «Fides» e, dall’altro, «Il Mondo», «L’Espresso», «Il Mulino» e «Il Ponte». In questo stesso periodo, Salvemini fonda l’Associazione per la libertà religiosa in Italia (1954), la circolare Buffarini-Guidi è revocata (1955) e la stampa cattolica limita i suoi attacchi ai soli laici. A partire da questa data, l’insediamento della nuova fede potrà seguire la sua strada senza intralci. La questione che qui interessa, è il sapere per quale ragione, fra i tanti doni che lo Spirito Santo è supposto accordare al neofita (glossolalia, traduzione, profezia, guarigione, miracoli) per attestare la sua conversione al pentecostalismo, il più frequente è il dono di glossolalia. Questa predominanza non è solo visibile nel Meridione italiano2 ma ovunque si è stabilito il pentecostalismo ed è, per di più, la componente più importante nello strepitoso sviluppo del movimento carismatico. 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ricordiamo la domanda che Wittgenstein formula a proposito:

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È essenziale il parlare, per la religione? Posso immaginarmi molto bene una religione in cui non vi siano dottrine, in cui, quindi, non si parli. L’essenza della religione evidentemente può non aver a che fare con il fatto che si parli, o piuttosto: se si parla, è questo stesso una componente dell’atto religioso e non una teoria. E quindi non importa se le parole sono vere o false o insensate3.

Per quel che riguarda il pentecostalismo, il parlare, come dice Wittgenstein, è “una componente dell’atto religioso” in cui “non importa se le parole sono vere o false o insensate”. Al contrario, è il fatto di utilizzare “parole insensate” (o di averne il desiderio) a permettere al neofita di oltrepassare certi limiti per ritrovarsi in un nuovo contesto sociale. Come vedremo nel capitolo I e II, l’inserimento del neofita in un nuovo gruppo – nel nostro caso, il gruppo di convertiti al pentecostalismo che, per ovvie ragioni, si separa dal resto del villaggio – non significa ipso facto una sua integrazione piena, dato che sarà il dono di glossolalia a distinguere, ma questa volta all’interno del gruppo, il vero dal falso credente, quello di cui si potrà con certezza dire che è salvo per l’eternità. Le motivazioni individuali e collettive nelle conversioni al pentecostalismo nell’Italia rurale del sud sembrano essere opposte a quelle appurate negli Stati Uniti. Qui, la forte immigrazione di persone dalle molteplici lingue ha permesso che i nuovi arrivati vedano nella loro conversione un mezzo per far cadere ogni barriera di lingue grazie soprattutto alla glossolalia, un modo rapido d’integrarsi nella società d’arrivo e d’abbandonare la situazione marginale in cui si trovavano per forza di cose4. Nel Mezzogiorno, invece, le motivazioni erano basate essenzialmente sull’attrazione dell’immagine “millenaristica dell’America”5 ed hanno prodotto, per il neofita, una marginalizzazione dalla sua comunità d’origine il giorno in cui ha deciso di lasciare la Chiesa cattolica (e, possibilmente, dal suo nuovo gruppo quando diventerà visibile che non può avere il dono delle “lingue”). La glossolalia è uno dei modelli, nelle diverse strategie della parola, in cui vediamo l’attore articolare parole in modo soggettivo e senza utilizzare nessuno dei metodi di controllo che la grammatica o la sintas23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si promuovono, né tantomeno preoccuparsi del vocabolario. Altra sarà la strategia che i membri della Compagnia del Santissismo Crocifisso, detta dei Bianchi (1541-1820), applicherà nel conforto dei condannati a morte di Palermo a loro consegnati e altri dunque saranno i risultati sui condannati in questione. Alla compagnia venne affidata la salute delle anime dei condannati, salute che dovevano suscitare assistendoli durante i tre giorni e le tre notti precedenti la loro esecuzione. Durante questo periodo liminale, il condannato doveva ascoltare sette meditazioni6, confessarsi e comunicarsi diverse volte, pregare frequentemente nell’oratorio davanti alla statua dell’Ecce Homo, assistere a diverse messe, fare quattro volte l’esercizio della scala, altrettante volte la disciplina, e dettare un discarico di coscienza se ne sentiva il bisogno. Questi tre giorni liminali trascorrevano nel preparare i condannati ad accettare pienamente la loro sorte, a convincerli di morire da bravi, dato che le sofferenze terrestri, che il loro corpo doveva subire durante la processione che li avrebbe portati dalla prigione al patibolo erano la condizione sine qua non della loro salvezza per accedere in un aldilà che, altrimenti, sarebbe sfuggito loro. È dunque sapendo che si devono ben presto presentare davanti al “tremendo tribunale di Dio” che certi condannati a morte chiedono di dettare, alla vigilia della loro esecuzione, un discarico di coscienza. Lo statuto che questo discarico ha agli occhi delle parti in causa, cioè i Bianchi, i condannati stessi e, forse, i magistrati delle corti davanti a cui il condannato è stato interrogato prima del processo, è particolare. Questa particolarità deriva dal fatto che nel discarico i condannati proferiscono la pura verità7. La pura verità si trova in una posizione preminente rispetto alla verità strappata dalla bocca degli accusati durante gli interrogatori, con vari metodi di tortura, che spesso i discarichi illustrano8. I due livelli sono perciò nettamente separati: la prima verità è quella enunziata a livello terrestre, mentre la seconda lo è a livello celeste. I condannati passano dunque da un livello inferiore ad un livello superiore, grazie alla direzione dei Bianchi. Stimolatori della coscienza altrui, i Bianchi percepivano ogni discarico come una prova del successo raggiunto dalle loro meditazioni nel ripristinare la salute delle anime. Il discarico, dettato dal condannato ai Bianchi presenti durante il suo conforto, s’inserisce in un “quadro” chiamato forma o formola. Il testo vero e proprio è perciò inquadrato da una formula iniziale abbastanza 24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lunga e da un’altra, finale, molto più breve. Il problema è quello di decidere il grado di spontaneità di questi testi e, ovviamente, determinarne la paternità. Malgrado il fatto che tutti questi siano nominativi e molti di essi firmati, rimane il dubbio che siano più un’opera corale che singolare. Delle volte si ha l’impressione di udire un suono diverso, di ascoltare, tramite un vissuto particolare, una voce individuale o di essere di fronte a delle creazioni, delle finzioni di tipo letterario9. Ma il momento, altamente drammatico, contribuisce a frenare le velleità ed a incanalare il racconto e l’espressione in modelli preesistenti e, soprattutto, controllati. Queste voci dicono cose diverse da quelle “insensate” dei pentecostali. Queste voci svelano, offrono una testimonianza precisa e attendibile ai presenti nella speranza di essere “salvati” una volta nell’aldilà. I pentecostali della Daunia, invece, sanno di essere salvi proprio a causa del non-senso della loro locuzione che dà la possibilità di separarsi dalla comunità d’origine senza danno. Le varie meditazioni condotte dai Bianchi durante i tre giorni liminali, le diverse confessioni e comunioni, le preghiere, gli esercizi, i discarichi, fanno parte di un rituale che è la condizione necessaria per poi inscenare, nelle strade di Palermo, durante la processione che porta il condannato dalla prigione al patibolo, un teatro imbastito sul consenso pubblico. È l’accettazione, da parte del condannato, di recitare dentro e fuori la prigione un ruolo di fattura cristica in cui ogni sua parola è severamente controllata – durante la processione, come ha imparato durante l’esercizio della scala, non deve mai esprimersi oralmente, deve portare una benda sugli occhi, deve baciare i piedi al boia in ringraziamento prima di salire le scale del patibolo, ecc. – per essere reintegrato nella comunità urbana, mentre il suo sacrificio corporale lo prepara alla “santificazione popolare”. In effetti, è dal 1799 che il culto è storicamente databile. Ciò avviene con la sepultura dei giustiziati nel cimitero costruito sulla sponda destra del fiume palermitano Oreto, chiamato delle anime dei corpi decollati, la cui chiesa [Madonna del Fiume] venne frequentata soprattutto il lunedì perché le anime degli innocenti, che per errore della giustizia umana furono sacrificate all’estremo supplizio, sono credute dispensatrici di grazie e di miracoli e di questa credenza ne fanno fede gli innumerevoli ex voto appesi alle pareti della chiesa10. 25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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La conversione o riconversione dei condannati permette loro di acquisire uno status mai avuto prima se rispettano le regole imparate durante i tre giorni liminali e se spirano sul patibolo nel modo prescritto. A loro sarà data la possibilità di una reinserzione che, comunque, rimane simbolica dato che avviene dopo la loro morte. Il credente pentecostale invece accede ad un’espressione personale dei suoi sentimenti religiosi grazie al dono dello Spirito Santo che, se da un canto lo esclude da ogni comunicazione con la sua comunità d’origine, dall’altro gli permette di inserirsi nel gruppo d’arrivo. Un altro modello nelle diverse strategie della parola è, come abbiamo visto, quello utilizzato dai Bianchi sui condannati, enfatizzato in due diversi momenti dell’itinerario di questi ultimi: quello del dettato del loro discarico di coscienza e quello della processione verso il patibolo. Ogni azione dei condannati è guidata dagli stessi Bianchi e da loro controllata in modo che tutto proceda secondo le direttive. Proprio i discarichi di coscienza dettati dai condannati a morte di fronte ai Bianchi mi hanno permesso di analizzare, nel capitolo III, da un punto di vista storico, il codice del silenzio (omertà), uno dei modelli addensanti della “cultura mediterranea”, spesso incorporato al più noto modello dell’onore che vige ancora in antropologia sociale11. Nel tentativo di sfatare lo stereotipo legato a questo termine (omertà), ipotizzo inoltre una sua origine aristocratica, di tradizione pietosa, una specie di contro-modello rispetto a quello proposto dall’Inquisizione o dalle diverse corti palermitane nel loro spingere l’accusato alla delazione tramite l’uso della tortura. Sarà più volte questione di omertà in questo volume: i canti dei carcerati siciliani (capitolo V) come pure le parità raccolte da Serafino Amabile Guastella nella Sicilia Orientale (capitolo IV) serviranno per dimostrare che il termine omertà non deve essere legato solamente ad una pratica di stampo mafioso. In Sicilia, non lo si può negare, c’è stato uno slittamento del termine “onore” – così come di omertà – verso quello di “mafia”, e “uomo d’onore” come omu di panza designa oramai il mafioso. Però è essenziale ribadire che dietro questa immagine monolitica contemporanea, diverse erano le realtà sociali che ricoprivano questi termini. In questo contesto, ci troviamo davanti ad un’intenzione volontaria di occultare la parola. Ciò dimostra che, in certe situazioni di tipo marginale, la parola può non essere utilizzata. Wittgenstein scrisse: «Il li26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mite potrà dunque esser tracciato solo nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso»12; ma, nel nostro caso, mi chiedo se oltre il limite “non sarà che silenzio”. O se invece il silenzio non faccia parte integrante della comunicazione, come quest’altra proposizione di Wittgenstein permette di pensare: «Ciò che in generale può essere detto, può essere detto chiaramente, e di ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere»13. In questo caso, il “tacere” diventerebbe una delle opzioni, una delle strategie che il locutore può scegliere, strategia che lo mantiene comunque nella sfera degli scambi orali, dato che un giorno potrebbe (come vedremo in seguito) abbandonarla senza remore. Tutto ciò mi fa dire che questo altro modello nelle diverse strategie della parola, quello del silenzio, è di fattura ambigua nella misura in cui può significare consenso o dissenso e inoltre può, come appena accennato, slittare nell’elocuzione. Sintomatico il fatto che la scelta del contadino nella Sicilia dell’Ottocento per recidere il silenzio che, d’altro canto, lo mantiene in uno stato di passività di fronte all’ingiustizia di cui è vittima, sia fatta tramite l’uso della poesia14. La verità di cui la poesia è portatrice sgombra ogni velleità individuale ed ogni violenza sociale, rendendo il poeta attivo e degno. È lo stesso Gesù ad indicare al contadino il modo di ritrovare uno status sociale degno della sua coscienza: diventando poeta. E qui abbiamo un altro modello nelle diverse strategie della parola, quello della poesia: rivelata della parola divina, dice il vero in forme simboliche ed è prossima alla sfera della giustizia. Per cui, in questo pantheon contadinesco, l’omertà e la poesia sembrano ritrovarsi ai due opposti limiti dell’eloquio. Questa simmetria, forse, non è stata nemmeno scalfita dall’avvento della mafia, visto il successo dei poeti in piazza sino agli anni Ottanta. Poi, come vedremo, la verità farà il suo ingresso in tribunale. È sulla disubbidienza a certe regole imposte dall’onore che ho deciso di concentrare parte dei miei studi, nella misura in cui è spesso più facile percepire i comportamenti trasgressivi che i conformisti. Ma, ovviamente, la comprensione degli uni è debitrice della conoscenza degli altri, per cui ambedue erano sempre presenti alla mia mente nel corso dell’indagine15. Il rifiuto è stato analizzato attraverso il modo in cui la stampa italiana in generale ha presentato il “caso Franca Viola”, da essa soprannominata la ragazza che disse di no (capitolo X). Un’indagine 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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semiotica mi ha permesso di decifrare i vari livelli di lettura del fatto di cronaca (fait divers) contribuendo, spero, ad individuare nei comportamenti degli attori principali (Franca Viola e il padre) le strategie e i momenti altamente drammatici di rottura dal tipo di modello dell’onore in cui ad Alcamo si cercava in tutti i modi di rintuzzarli. La figura di Franca Viola è diventata, col tempo, rappresentativa di questo coraggio, di questa scelta trasgressiva che la stampa ha perfettamente identificato nell’avverbio “no”. Franca Viola ha parlato, ha in effetti detto qualche cosa, ma è solo un “no”. Una ricusa. Un semplice “no” sarà così sufficiente per identificarla. Questa giovane donna, che non ha mai preso la parola davanti ai media essendo troppo schiva per farlo, ha comunque saputo, grazie anche alla presenza di un padre responsabile e intelligente, rimanere nelle storia contemporanea siciliana a causa di questo suo diniego. Se la mafia poteva relegare l’atto coraggioso di Franca Viola in una rottura del codice dell’onore nella sfera privata o addirittura sessuale, non allo stesso modo essa poteva atteggiarsi di fronte alla prima presa di parola pubblica in un tribunale palermitano (10 febbraio 1986), ampiamente “mediatizzata”: quella del noto mafioso Tommaso Buscetta che, mentre denunciava i suoi pari sottolineava, allo stesso tempo, la vittoria dello Stato sull’omertà. Anche l’atto coraggioso di Tommaso Buscetta era un altro grido di rifiuto del sistema che l’aveva oppresso, oltre ad aver oppresso molti dei suoi. Rimane il fatto che, se i vari interventi dei “pentiti” nei molteplici processi di mafia che si sono accavallati dopo quella prima presa di parola sono pertinenti per la nostra dimostrazione, dall’altro sconfinano verso altri tipi di problematiche che non desidero riprendere in questa sede (rimando però il lettore al capitolo XII di questo volume). Comunque, Buscetta ha parlato. E dopo di lui Salvatore Contorno e Marino Mannoia. E dopo Contorno e Mannoia altri, negli anni Novanta, come Antonino Calderone16. Mi sembra ovvio che i primi “pentiti” avessero una relazione privilegiata con due magistrati – Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (morti ambedue nel 1992 in separati agguati), i famosi “passatori” di questi testimoni a carico che traghettavano dall’omertà alla presa di parola pubblica – dato che molti eventuali “pentiti” lo diventavano solo se interrogati da loro. Ricordiamoci della giovanissima Rita Atria, che aveva raccontato a Borsellino tutto quello che sapeva sul28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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le cosche di Partanna dopo l’assassinio del padre e del fratello e, esiliata a Roma per motivi di sicurezza, si suicida una settimana dopo la morte del magistrato (19 luglio 1992). In effetti, «lo adoravano i “suoi” pentiti: mafiosi che lui scovava nelle carceri e che a lui solo raccontavano segreti e misfatti di Cosa nostra. Quegli stessi pentiti che, finiti gli interrogatori, spediti al sicuro fuori dalla Sicilia, continuavano a telefonargli con mille scuse»17. Analizzare questi diversi comportamenti – da un canto Viola, dall’altro Buscetta – non è semplice: si può farlo da un punto di vista “regressivo” o “progressivo”, e ambedue possono apparire pertinenti. Da un lato si può vedere queste prese di parola o queste denunce come delle reazioni derivanti da una forte credenza nel “mito delle origini”, cioè il periodo fausto del fenomeno o della regola, quello della sua fondazione. (Ricordiamo che la maggior parte dei nuovi gruppi religiosi o sette sono spesso attratti dal “mito delle origini”; persino il pentecostalismo ai suoi albori aveva come riferimento i primi cristiani). Così le denunce di Buscetta, Contorno, Mannoia, ecc., possono essere percepite come fatte da “mafiosi” contro Cosa nostra, cioè contro un gruppo, quello dei Corleonesi, che ha fagocitato quello che rimaneva della “vecchia” mafia per farne, come dice il titolo di un noto libro di Arlacchi, una Mafia imprenditrice18. Dall’altro, invece, come nel caso di Rita Atria, si può assumere, in questo bisogno di testimoniare pubblicamente, un anelito verso un mondo senza mafia che le figure altamente morali di Falcone e Borsellino rendevano possibile. Comunque sia, questo è un altro modello nelle diverse strategie della parola, quello della presa di parola pubblica. Con questo modello ci allontaniamo dal rispetto del codice dell’onore, dallo stallo in situazioni marginali o ambigue per entrare nella sfera dell’autonomia dove i limiti sono valicati e la parola trasmette informazioni precise, testimonia, racconta eventi passati ad un vasto pubblico e ai media. Grazie a questo comportamento, il locutore è formalmente reintegrato nella società, ma spesso l’inserimento avviene in modo drammatico (ricordiamoci delle difficoltà quotidiane di Franca Viola dopo il suo processo, costantemente presa d’assalto dai fotografi e boicottata dal suo ambiente), o provoca una nuova marginalità (i “pentiti” più noti devono nascondersi, proteggersi, cambiare nome o connotati). Le diverse motivazioni personali dietro ad ogni comportamento non attenuano la portata del comportamento. Certe norme sociali possono 29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cambiare in seguito a molteplici testimonianze pubbliche di esperienze personali. In effetti, la storia del movimento femminile è, dalla nascita, costellata da queste narrazioni. Sono anche questi resoconti di vite vissute a fornire materia ai cambiamenti giuridici che ristruttureranno i rapporti della coppia o della famiglia in Italia, dalla metà degli anni Settanta in poi. Dopodiché, altre testimonianze arriveranno in seguito a innumerevoli inchieste che registreranno nelle campagne o in città “storie di vita”19. Per molteplici donne è già il parlare della propria vita – il raccontare la propria esperienza sessuale o la propria malattia – che costituisce un’azione sociale trasgressiva. È visibilmente il silenzio che pesava (e pesa ancora) su di loro nelle regioni geografiche controllate dal codice dell’onore, ma non solo in quelle, a rendere, ai loro occhi, ogni presa di parola pubblica sovversiva. Se poi questa presa di parola si focalizza sulle relazioni sessuali o su malattie che toccano sfere corporali sorvegliate dalla “modestia sessuale”, la sovversione verbale diventa, a lungo andare, delicata da gestire per la società a causa, soprattutto, delle sue potenzialità mutative nella misura in cui il limite di quello che si può dire in pubblico non farà che estendersi. Come sappiamo, è a partire dagli anni Novanta che le donne del mondo Occidentale scalano un ulteriore gradino andando in tribunale per protestare contro la “molestia sessuale”20. Ma non sempre il limite è valicato e la trasgressione consumata. D’altronde, non è sempre possibile farlo. Per di più, il fatto di seguire le norme non vuol dire che lo si faccia passivamente e, se invece lo si fa passivamente, nulla indica che l’attore ne sia cosciente. Nel capitolo (VI) sul discorso e recita della vendetta, ho tentato di dimostrare che la visione che gli osservatori danno del fenomeno non sempre corrisponde al vissuto. Mi sembra ovvio che nella strategia scelta – quella di raccontare pubblicamente lo svolgimento di una vendetta dalla fase iniziale, con l’assassinio di una “vittima”, sino alla fase finale, con l’omicidio del colpevole da parte di un “giustiziere”, cioè rappresentarsi sempre come la “vittima” che deve “farsi giustizia” – ci sia una componente che non risulta nei resoconti degli osservatori, interessati più allo svolgersi di una prassi piuttosto che notare come gli attori trasformano un dovere in passione. 30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Questa incapacità è ancora più evidente nel capitolo VII dove da un lato mostro a che punto gli stereotipi impediscono a certi viaggiatori, nel nostro caso l’inglese George Cockburn che venne in Sicilia nel 18101811, di intendere veramente quello che ascoltavano, mentre dall’altro sottolineo come nel racconto di Cockburn vien fuori, in modo pertinente, l’utilizzazione della metafora in seno alla società palermitana dell’epoca, metafora che permetteva ad ogni gruppo sociale di comunicare e di agire senza mai sbilanciarsi. Ed è tramite il sussidio della menzogna che tento di sgomitolare l’affascinante episodio presentato nel Voyage. Abbiamo già notato che l’omertà e la poesia (verità) si ritrovano ai due limiti opposti dell’eloquio. La menzogna fa qui la sua apparizione all’altro limite, grazie alla metafora. Non essendo poeta, l’uomo qualsiasi deve adattare la propria strategia – come mostra l’episodio narrato da Cockburn – alle persone che gli stanno di fronte e agli eventi. Il messaggio è percepito chiaramente da ogni ascoltatore, ma avendo ognuno strategie diverse, la metafora sarà accettata o rifiutata secondo l’opportunità. Appare dunque chiaro che la metafora è un altro modello nelle diverse strategie della parola: il discorso allusivo, ambiguo, che dà adito ad innumerevoli interpretazioni e azioni. Nessun lettore avrà ignorato i molti termini qui impiegati che ricordano il teatro, questo laboratorio delle situazioni sociali limite dove le strategie della parola sono enfatizzate. In omaggio al teatro, ho incluso un capitolo (IX) sul noto dramma verghiano, La Lupa, rappresentato per la prima volta il 26 gennaio 1896, al Teatro Gerbino di Torino21. Dalle prime battute della sua opera teatrale, Verga indica il contenuto del tema a venire: si tratta di “una Maga che con un colpo di bacchetta muta gli uomini in animali”. L’opposizione natura/cultura, le innumerevoli metafore, soprattutto quelle attorno al “mangiare”, abbondano in questo testo dove la relazione sessuale tra la gnà Pina e suo genero, Nanni Lasca, non è mai esplicitamente nominata. In effetti, l’interdizione sessuale tra madre e genero, dovuta al “parentato e a San Giovanni”, è accennata solo tramite metafore, come se il nominarla fosse un tabù. Come abbiamo già visto, il tabù verbale non concerneva soltanto le interdizioni sessuali ma la sfera sessuale nel suo insieme. Ma in questo dramma ci troviamo già in un spazio intermedio: Verga non esita a mostrare al pubblico delle cose che, in principio, non si possono né fare né dire, rispettando, allo stesso tempo, l’interdizione verbale che vigeva 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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all’epoca sull’argomento. Ed è dopo la Seconda Guerra Mondiale che le donne stesse romperanno questo silenzio per prendere la parola, una parola che renderà visibile quello che sino allora era rimasto celato. Sei modelli sono stati presentati nel corso di questa introduzione: il modello della glossolalia, dei Bianchi, del silenzio, della poesia, della presa di parola pubblica e della metafora. In tutti questi modelli abbiamo potuto notare, negli attori, un anelito al parlare e un bisogno di confrontarsi alla verità22. Il primo aspetto riguarda la parola, visibilmente percepita, nei miei esempi, come un dono che libera (glossolalia); come un controllo o un’imposizione (Bianchi); un rifiuto (omertà); un bisogno di emancipazione (Buscetta); una liberazione nella misura in cui trasgredisce (Franca Viola, le donne). Ma la decisione di parlare – di non tacere – non si ritrova in ogni atto di parola. Come abbiamo visto, i condannati a morte preparati dai Bianchi non hanno l’ausilio, durante la processione, di prendere la parola, ma solo quello di ripetere, senza nessuna aggiunta, le parole che hanno l’obbligo di pronunziare. Il senso della parola non è sempre trasmesso: in effetti, nella frase glossolalica il senso è trasmesso dal fatto che i credenti favellano, ma non dal significato semantico del loro discorso. Tutt’altra cosa succede quando si declama una poesia: è una vera presa di parola, la cui forma è la condizione del conseguimento dell’autonomia cui ambisce il poeta. Mentre Buscetta (soprannominato “gola profonda”) e gli altri pentiti prendono la parola liberamente, senza preoccuparsi della prosa utilizzata, solo del suo contenuto; Franca Viola e le donne che raccontano il proprio vissuto, rifiutano un ruolo imposto loro da troppo tempo, e questo rifiuto è reso esplicito dalla stessa parola (il “no” della Viola): nel loro caso, il senso è comunicato dalle parole pronunziate. Ma l’autonomia da raggiungere per coloro che utilizzano la prosa si fa al prezzo di un graduale svelamento della propria biografia. È come se un imperativo23 fosse imposto a questi personaggi (il poeta, i pentecostali, Viola, le donne, Buscetta): di prendere la parola e di rivelare la propria esperienza, il proprio vissuto, facendo in modo che sia questa presa di parola a dare loro accesso ad un nuovo status24. Il secondo aspetto è il bisogno degli attori di confrontarsi con la verità. Anche se il termine o l’idea di verità non sono sempre espli32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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citi, mi sembra ovvio che in molti degli esempi riportati siamo interpellati dalla verità. Certamente nella glossolalia, che distingue il vero credente nel gruppo dei pentecostali; nel dettato del discarico di coscienza fatto dal condannato a morte profondamente convinto, dall’insegnamento dei Bianchi, che debba dire la pura verità per accedere, nell’aldilà, alla presenza divina; nella poesia, dove il declamare la verità sembra essere la sua vera ragione d’essere; nell’omertà, dove la verità è taciuta dato che si potrebbe morire nell’esplicarla; nella rivendicazione, da parte di Franca Viola e delle donne, di un vissuto diverso; nel riconoscimento fattone da Buscetta e dai pentiti; nella necessità di mascherarla con procedimenti vari (metafora) come mostra il racconto di Cockburn. Nel mondo musulmano, Dio siederà dietro un velo quando il fedele gli si presenterà. Anche il monarca rimane dietro un velo davanti al suo suddito e la donna non può essere guardata da un uomo se non velata. Il velo nasconde, nella sfera religiosa, il creatore dal creato, nella sfera politica, il sovrano dal soggetto e, nella sfera sessuale, la donna dall’uomo. Queste nette divisioni gerarchiche nelle tre sfere essenziali della società musulmana, così com’è stata concepita sinora, ci aiutano a vedere l’importanza del velo come metafora. Non dimentichiamo che pure in Europa, Jean Bodin (1530-1596) preconizzava al Principe di seguire l’esempio di Dio, mettendosi “poco spesso in vista dei sudditi” e di rivelare loro solo la sua voce tramite un piccolo numero di eletti25 o “tramite visioni e sogni” ma, allo stesso tempo, di “colmarli di favori, larghezze e bontà infinite”26. Il velo serve a nascondere anche nella sfera della comunicazione. Il problema è decidere se la divisione tra il dicibile e l’indicibile avviene solo all’interno di questa sfera o se la parte rimossa ne è invece esclusa definitivamente. In effetti, si potrebbe dire, da un lato, che l’indicibile è separato dal dicibile ma che ambedue fanno parte della sfera di comunicazione; dall’altro, che l’indicibile è trasferito al di fuori dalla comunicazione, oltre al limite della comunicazione. Ma esiste un “indicibile”? Abbiamo visto i molteplici modi di palesare l’indicibile (l’omertà), prima di tutto tramite la “poesia”, questa “verità” raccomandata da Gesù (non dimentichiamo che il poeta è “messagero degli dei”, secondo Socrate). Per non parlare dei “discarichi di coscienza” o delle varie testi33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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monianze dei “pentiti”: la parola non detta torna all’ovile come il figliol prodigo. Festeggiata quanto lui, pentita quanto lui. Ma forse il velo non è solo tra il dicibile e l’indicibile, ma tra il senso e il nonsenso (“e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso”)27. Il nonsenso esiste solo per fare senso, come dimostra la glossolalia. Ma un senso diverso, al di fuori dalla semantica, nella sola fonetica. L’atto di parola – dice Bertil Malmberg28 – comprende tre fasi: la produzione della catena sonora, la trasmissione del messaggio, la ricezione del messaggio. Mi sembra evidente che in seno alla comunità pentecostale, la ricezione del senso nel messaggio glossolalico non pone problema. Nemmeno al di fuori di un’eventuale traduzione fatta da un fedele avente il “dono” della traduzione29. Il messaggio glossolalico pone problema alla persona che non fa parte della comunità pentecostale, al non-credente. Come ad un italiano in Cina? Evidentemente non come ad un italiano in Cina. A meno che uno non sia tentato dall’idea cara a Heidegger della lingua come “casa dell’essere”30 e, in quanto italiano, decidesse che abita in tutt’altra casa che quella di un cinese. E, sempre seguendo Heidegger, possa dire che ciò che è “ermeneutico” vuol dire non in primis “interpretare” ma, ancor prima di questo, “portare annunzio” e “portare conoscenza”31. Ma a questa interpretazione, che rischia di portarci fuori dalla sfera di una comunicazione comprensibile, lontani da ogni traduzione, con una possibile tentazione di gerarchizzare le lingue (o le “case”), per trovarci davanti ad un’ennesima “rivelazione” della lingua, preferisco – anche in quanto antropologa – le varie “strategie” presentate in questa sede. Quelle del “celare” e dello “svelare”, la doppia attività caratteristica della comunicazione, in cui spesso – ma non sempre – solo parte del pensiero è rivelato e in cui locutori e ricettori del messaggio si destreggiano abilmente da tempo immemore.

Note 1. È dal tempo della mia prima ricerca sul campo (1973) che lavoro su problemi pertinenti ai limiti sociali: nelle conversioni al pentecostalismo del Mezzogiorno, tramite l’impiego della glossolalia; nel codice dell’onore in Sicilia, con la pratica del silenzio (omertà); o con i dettati dei discarichi di co34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scienza fatti dai condannati a morte, la vigilia della loro esecuzione, ai membri della compagnia dei Bianchi (Palermo, 1541-1820). Testimonianze preziose a causa del fatto che informano lo sforzo teorico per comprenderle. 2. La ricerca sul campo è stata condotta a metà degli anni Settanta, soprattutto in Puglia e in Campania. 3. Wittgenstein L., Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa (Lectures & conversations on aesthetics, psychology, and religious belief, notes taken by Y. Smythies, R. Rhees and J. Taylor; edited by C. Barrett, 1966), a cura di M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1968, p. 27. 4. Il teatro di Dario Fo ha rimesso in scena, nel suo celebre Mistero buffo (1969), il “grommelot”, gioco di onomatopee organizzato arbitrariamente ma che, grazie ai gesti, ai ritmi e a certe sonorità fa passare, in modo comico, un discorso compiuto (vedi il Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1996). Il “grommelot”, termine di origine francese, forgiato dai commedianti, è stato utilizzato soprattutto da quelli della Commedia dell’arte. 5. Sul tema, vedere il mio Le ‘immagini’ dell’America. I gruppi pentecostali del Mezzogiorno, pubblicato nel numero curato da Amalia Signorelli, Cultura popolare e cultura di massa, in «La Ricerca Folklorica», 7, 1983, pp. 79-83. 6. Queste sette meditazioni erano sull’uomo, creato per amare e servire Dio; sui peccati che lo allontanano da questo obiettivo; sulla morte a cui si deve preparare con una buona comunione e confessione, dato che dopo la morte sarà giudicato; sull’inferno dove i suoi peccati dovrebbero portarlo e sul paradiso dove potrebbe arrivare dopo un sincero pentimento. 7. Di Bella M.P., La pura verità. Discarichi di coscienza intesi dai Bianchi (Palermo 1541-1820), Palermo, Sellerio Editore, 1999. 8. La ricerca è stata condotta principalmente in biblioteche e archivi palermitani durante gli anni Novanta, come pure all’Institute for Advanced Study di Princeton (gennaio-agosto 1994) durante il mio soggiorno come Visitor: desidero ringraziare Joan W. Scott e la School of Social Science per avermi offerto questa preziosa opportunità. Nello scrivere sul soggetto, ho cercato d’inserire una dimensione etnografica (fieldwork in the archives) nel tentativo di restituire alle cose lette una visione del vissuto. 9. Davis N.Z., Storie d’archivio. Racconti di omicidio e domande di grazia nella Francia del Cinquecento (Fiction in the archives. Pardon tales and their tellers in sixteenth-century France, 1987), Torino, Einaudi, 1992. 10. Cutrera A., Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541-1819, Palermo, Scuola Tip. “Boccone del povero”, 1917, p. 86. 11. È all’inizio degli anni Sessanta, grazie alle ricerche innovatrici condotte da J. Pitt-Rivers (1963) e da J.G. Peristiany (1965), che la nozione di “onore” 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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comincia ad occupare un posto centrale negli studi anglo-sassoni di antropologia consacrati al Mediterraneo. Questa nozione è in effetti un prezioso strumento per comparare tra di loro le diverse società della regione. Ma l’ambiguità del contenuto ha posto dei problemi nella misura in cui è supposto ricoprire nozioni che in effetti lo costituiscono (castità, coraggio, vendetta, ospitalità, protezione, larghezza, clemenza, misura, nobiltà e prestigio). Così, questi termini disegnano i contorni di un campo semantico ben più che permettere l’identificazione di un concetto locale o la definizione di una nozione antropologica. In mancanza di un consenso sul contenuto del concetto di onore, gli autori divergono quanto alla funzione dei valori che gli sono associati. L’onore è stato visto come un ideale egualitario (Pitt-Rivers, 1977), un principio egualitario senza nessun nesso con il potere economico (Lisón Tolosana, 1966) o politico; un’etica dell’integrità, della nobiltà dello spirito e del corpo (Campbell, 1964). Per J. Davis (1983) e J. Cutileiro (1971), l’onore è al contrario strettamente associato alla ricchezza e sembra loro persino uno dei fattori della stratificazione sociale. Grazie alla società cabila, P. Bourdieu (1965), mostra in che misura le poste dell’onore contraddicono l’ideale egualitario. Mentre a Jane Schneider (1971) l’onore appare come un’ideologia di difesa del patrimonio in società prive di un governo centralizzato. In seguito, nella maggior parte delle ricerche dedicate alle società mediterranee, la problematica dell’onore è stata costantemente legata ad altre problematiche esistenti. L’onore è stato dunque studiato nel contesto del clientelismo (Blok, 2000; J. e P. Schneider, 1989; White, 1980), oppure inserito nei sistemi di vendetta che si sviluppano in sostituzione di altre forme d’istituzioni civili (Black-Michaud, 1975; M-E. Handman, 1983; M. Herzfeld, 1985). Come vedremo in modo più dettagliato nel capitolo VIII, nel Mediterraneo l’onore di un gruppo familiare dipenderà – secondo me – da uno stato di equilibrio tra, da un lato, la purezza genealogica del sangue e, dall’altro, la considerazione del nome. All’interno di un gruppo tutto sarà messo in opera per assicurare questo equilibrio e ognuno dei sessi baderà che l’altro agisca nel più grande rispetto della tradizione: gli uomini veglieranno sul rispetto della modestia sessuale da parte delle donne in modo che la purezza della genealogia non sia alterata e le donne inciteranno gli uomini a non lasciar deteriorare la loro rinomanza. Nella misura in cui la perdita dell’onore suscita la vergogna (shame), il gruppo potrà essere costretto a ristabilire, a più o meno breve scadenza – tramite la forza o l’astuzia – l’equilibrio perso. Nelle società musulmane, questa cura per il gruppo di mantenere l’equilibrio statutario si manifesta ugualmente quando uno dei suoi membri si sposa all’esterno. A quest’effetto, il diritto islamico hanafita preconizza la parità (kafa’a) degli sposi – cioè del marito e del futuro suocero – riguardo alla condizione (libera), la nascita, la reputazione, la confessione, la professione e, soprattutto, riguardo al patrimonio. In questo modo, 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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le motivazioni e le strategie sociali legate all’onore finiscono per trasformarsi in regole giuridiche [l’essenziale di questi paragrafi è stato ripreso dalla voce “Honneur” pubblicata in Bonte P., Izard M. (dirr.), Dictionnaire de l’ethnologie et de l’anthropologie, Parigi, PUF, 1991, pp. 341-342]. Sul tema dell’onore, vedere anche il mio Implications et conséquences du code de l’honneur dans l’Orestie d’Eschyle, in Atti del Convegno Letterature classiche e narratologia, Perugia, Istituto di Filologia Latina, 1981, pp. 131-143. 12. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (Tractatus logico-philosophicus, 1961; Notebooks 1914-16, 1961), traduzione di A.G. Conte, Torino, Einaudi Reprints, 1974 [1a ed. 1964], p. 3. 13. Ibidem. 14. Vedi il capitolo IV, “La ‘forza’ del silenzio in Sicila”. 15. Le varie ricerche sulla disobbedienza alle regole imposte dal codice dell’onore sono state condotte in Sicilia, principalmente durante l’arco degli anni Ottanta. 16. Arlacchi P., Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondadori, 1992. 17. Rizza S., Una ragazza contro la mafia. Rita Atria, morte per solitudine, Palermo, La Luna, 1993, p. 140. 18. Arlacchi P., La Mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1983. 19. Nei riferimenti bibliografici, cito molte di queste “storie di vita” raccolte in Italia. 20. Di Bella M.P., De la ségrégation au harcèlement sexuel, in Universalia 92, Paris, Encyclopædia Universalis, 1992, pp. 257-260. 21. La scelta di questo dramma teatrale è anche dovuta al fatto che, all’epoca, desideravo vedere come il codice dell’onore risolveva il problema della vedova dato che, nel mondo cristiano, le norme dell’onore erano più che adatte per controllare la sessualità della donna nubile, ma non quella della vedova. 22. Ecco cosa dice Rush Rhees a proposito della conferenza sull’etica di Wittgenstein (Lezioni e conversazioni sull’etica, cit., pp. 37-38): «Ma era questo l’essenziale: “parlare”, “dire qualcosa” sono fatti di specie diverse, hanno vari significati. Che cosa sia il “linguaggio”, lo si vede nei giuochi linguistici. Come questi sono diversi, così anche “parlare” ha vari significati, spesso molto distinti fra loro. Se si domanda poi che cosa intendiamo per “realtà”, il procedimento è simile: si guarda ai vari giuochi linguistici e si nota in quali circostanze e con quali criteri si cerchi di distinguere il reale dall’ingannevole, la realtà dalla supposizione, come si parli di sentimenti “reali” – e quindi dell’autenticità della loro espressione in contrasto con la finzione, e così via». 23. Imperativo che, come sappiamo, si è tanto allargato nel mondo occiden37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tale da ritrovarsi, prima, in molte “serie” televisive americane (Friends, Ally McBeal, Sex and the city, ecc.) e, poi, nei giochi televisivi articolati attorno a dei giovani sconosciuti, uomini e donne, lasciati soli in ambienti chiusi (isola, loft, ecc.) che passano il loro tempo ad esprimere i loro sentimenti e i loro più reconditi pensieri davanti all’obbiettivo, cioè davanti ai telespettatori. In contrappunto la riflessione di Butler J., Giving an account of oneself, New York, Fordham University Press, 2005. 24. Si ritrova l’importanza della presa di parola nella mia ricerca statunitense attuale, focalizzata sullo studio delle associazioni di famiglie di vittime che si differenziano in modo radicale nella loro presa di posizione verso la pena di morte: pro o contro. I membri di queste famiglie, trasformati dall’omicidio di uno dei loro, possono decidere di passare il resto della loro vita a percorrere i diversi stati per parlare della loro storia personale davanti ad un pubblico sempre più vasto. Questo fenomeno di self-narration si estende ai condannati a morte, sottratti ad una esecuzione capitale certa grazie all’identificazione del DNA che li ha innocentati. Una volta fuori, questi exonerated faranno della loro narrazione pubblica una fonte di guadagno, almeno per i primi tempi. 25. Anche tra gli Akan, secondo K. Yankah [vedi Duranti A., Antropologia del linguaggio (Linguistic anthropology, 1997), Roma, Meltemi, 2005, p. 302], il capo trasmette la sua parola ai sudditi tramite un “animatore” che poi è supposto fargli conoscere, a sua volta, l’opinione dei sudditi. 26. Bodin J., Les six livres de la République, Parigi, Fayard, 1986, v. IV, pp. 157-159 [1593]. 27. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, cit., p. 3. 28. Malmberg B., Le circuit de la parole, in Martinet A. (dir.), Le Langage, Parigi, Gallimard-Pléiade, 1968, p. 57. 29. L’episodio cuna (Panama) riportato da J. Sherzer (vedi Duranti A., Antropologia del linguaggio, cit., p. 290), è affascinante come elemento comparativo per la nostra “traduzione” glossolalica (oltre al ricordarci anche il consiglio di Bodin al Principe). Quando i Cuna si riuniscono nella “casa di ritrovo”, il capo si rivolge loro sia “parlando” sia “salmodiando” (chanting), ma in questo ultimo caso ha bisogno di un traduttore (solo un altro “capo” è capace di tradurre la sua salmodia) che traduca ai presenti il contenuto del suo messaggio. La “salmodia” ci riporta al “dono glossolalico” ma, come vedremo nei capitoli I e II di questo volume, sottolineo invece l’importanza, per i membri della comunità pentecostale di Accadia, di avere tutti questo dono, e non solo il missionario o il pastore. 30. Heidegger M., In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1959), Milano, Mursia, 1999, p. 90. 31. Ivi, p. 115. 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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PARTE PRIMA PARLARE ALTRIMENTI

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Un culto pentecostale ad Accadia (Puglie)*

In quei venerdì di agosto i culti cominciavano puntuali: Annunziata, la sorella della missionaria, traversa con passo rapido e con atteggiamento scostante gran parte del villaggio per aprire la porta del tempio, e le sue due piccole finestre, passare uno straccio sulle sedie e dare eventualmente un colpo di scopa quando ciò si rivelava necessario. Dal giorno in cui le due giovani figlie del pastore si erano rifiutate di proseguire nella mansione, malgrado la sua età, è lei oramai ad occuparsi delle pulizie del tempio. A lavoro ultimato, si siede al posto abituale, nella seconda fila di sinistra di fronte all’altare. La missionaria, avvertita dal rumore, apre la botola che collega il suo appartamento al piano inferiore – dove si trova precisamente il locale che serve da tempio al gruppo – e scende qualche scalino d’una ripida scala. Entra a piccoli passi, con atteggiamento fragile e riservato, come di consueto, emanando intorno a sé un sentimento di rispetto e di dolcezza dovuto anche alla sua vocina a alla sua gracile figura sempre vestita di colori pastello. “Pace” dice ad Annunziata dirigendosi verso la tribuna, “Pace, pace” risponde l’altra con il tono brusco che la caratterizza rimanendo seduta sulla sua sedia, gli scarponi ai piedi, le mani callose nascoste nel grembiule che porta sempre, così come il fazzoletto che lega dietro alla testa. Gli altri non tardano a venire: per primo il pastore, imponente per la sua altezza e larghezza di spalle nel suo bel costume blu, seguito a distanza dalla figlia e dalla moglie, quest’ultima sempre vestita con grembiule e fazzoletto blu, anche lei del resto come le altre donne, le donne * Originale francese intitolato Un culte pentecôtiste en Apulie, apparso nella rivista «Les Temps modernes», n. 435, 39e année, 1982, pp. 824-833, tradotto dall’autrice. Questa traduzione, dal titolo Un culto pentecostale nelle Puglie, è apparsa nella rivista «Nuovi Argomenti», n. 10, 1984, pp. 74-79.

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di una stessa generazione, madri di famiglia o nonne, così occupate dal loro lavoro sui campi o a casa che ci tengono a farlo sapere di non avere il tempo per vestirsi in modo particolare, eccetto la domenica e non sempre… Per Annunziata non ci sono state mai domeniche. Essere presenti ai diversi culti e soprattutto arrivare puntuali è una questione d’onore per gli emigrati che tornano ad Accadia1 ogni anno nel medesimo periodo per le vacanze: Aldo, il nipote della missionaria e sua moglie Maria oramai cittadina nel comportamento, Mariella troppo anziana per adattarsi a quella lontana e fredda Torino. Anche Vito è presente, di passaggio ad Accadia per visitare la futura moglie, malata da qualche giorno. Si siede, timido e nervoso, in fondo al locale. Sono le sei e prima che la missionaria inviti i presenti ad iniziare le loro preghiere allo Spirito Santo, Melina e il figlio entrano nel tempio contemporaneamente ad Ignazio, il marito di Annunziata, ancora in abito da lavoro e leggermente curvo sul bastone di canna. Al segnale, i presenti si alzano dalla loro sedia, si girano dando la schiena alla tribuna, si inginocchiano sul suolo appoggiando i gomiti sulle sedie di paglia e nascondendo spesso il viso nel cavo delle mani. Al rumore delle sedie fanno seguito dei tossicchiamenti, qualche sospiro prima che un leggero brusìo si faccia sentire, dopodiché una o due voci proclamano: “Alleluia! Gloria! Santo, santo! Gloria Gesù!”, quando all’improvviso tutti i presenti si mettono a pregare individualmente. Le voci partono lentamente, come per una cantilena, ma si fanno sempre più audaci e alla fine un coro potente e discorde si innalza. In questo boato, parole e frasi scoppiano, si attraversano, si uniscono, si scontrano: Santo! Oh alleluia! Il tuo nome; gloria gloria gloria gloria; resta resta resta; opera in me, Signore, da quanto tempo Signore, tu sei grande, tu sei potente, in nome di Gesù non abbandonarmi, compi la tua opera in me; oh Gesù; Signore, a te appartiene la gloria; Gesù Gesù Gesù; santo santo santo santo; tu sei l’unica mia speranza; santo santo; oh Dio mio, Dio mio, Dio mio; gloria a Dio; alleluia alleluia alleluia; santo santo; in nome di Gesù non tardare, Padre manifestati, non tardare, Signore, non tardare; oh santo santo, sì sì; Gesù Gesù Gesù; Dio mio, Dio mio, Dio mio, Dio mio; gloria gloria gloria gloria; santo santo santo santo; Gesù, tutto amore sei, pace e carità; gloria gloria gloria gloria…

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Il cigolìo della porta, un rumore di brevi passi seguito da quello delle sedie, indicano l’arrivo dei ritardatari: i bambini sempre e dovunque, dopodiché Sarina e Maria che arrivano mano nella mano; Teresa, l’altra sorella della missionaria, sposata ad un uomo troppo imprevedibile per poter arrivare in orario; la vecchia Anna che si trascina ogni volta un po’ di più sul cammino che la porta da casa al tempio. Al termine della preghiera, mentre alcuni fedeli si rimettono a sedere continuando a proferire dei “gloria”, “gloria Gesù”, “allelluia” ad alta voce, altri continuano a pregare in ginocchio per qualche minuto. Una volta tutti seduti, Giovanna, la missionaria, inizia a cantare il primo versetto dell’inno che ha scelto per l’assemblea e tutti si alzano per cantare in coro Eccoci nel tuo cospetto: «Tu che investighi ogni cuore […]. Il messaggio tuo d’amore / manda a noi pien di poter». Se il primo canto è abitualmente scelto dalla missionaria, i canti seguenti sono invece proposti da qualsiasi fedele che desideri farlo. Alla fine del primo canto i presenti si siedono nuovamente e Aldo dà ad alta voce il titolo dell’inno di sua scelta Questo mondo ho lasciato, che tutta l’assemblea canta con fervore. In seguito Natalina sceglie l’inno Con Gesù sempre vincitor: “Per sua grazia salvati noi siam: O gloria, alleluia a Gesù”. A questo punto Sara, l’altra figlia del pastore, fa la sua apparizione nel tempio: i lunghi capelli ricci scompigliati, lo sguardo scontroso e la bocca più che imbronciata non promettono niente di buono. Malgrado i quaranta minuti di ritardo prende posto rumorosamente dietro la madre, confabula impazientemente con lei, si adira e di colpo va via sbattendo la porta. Quel giorno Sara non sarebbe più tornata al tempio, decisione ch’ella non aveva mai osato prendere prima e che avrebbe esacerbato ulteriormente i suoi rapporti con gli altri membri del gruppo pentecostale e con suo padre. I presenti continuano tuttavia a cantare con finta indifferenza. In effetti, da un certo periodo il “problema Sara” era stato discusso per giorni interi e da tutti i punti di vista, suo padre d’altronde ne pagava le conseguenze nell’opinione che oramai i fedeli avevano di lui. Il culto non deve comunque subire interruzioni a causa di questa “miscredente”, andiamo avanti! Mariella sceglie dunque di far cantare all’assemblea Eccomi ai piedi tuoi, Signore e appena riecheggia l’ultimo verso nella piccola sala “umile e santo fa il mio cuor, rendimi forte in Te”, Sarina 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si affretta a pronunciare distintamente il titolo dell’inno: Fammi sentir la tua voce. Giovanna, la missionaria, prende in seguito la parola per avvertire i presenti che l’ora di pregare nuovamente lo Spirito Santo, di chiedere delle “benedizioni” supplementari è arrivata. Così, per incitare il gruppo a maggior concentrazione e fervore, dice: Ascoltiamo la voce del Signore sapendo che Dio è tra di noi, in noi stessi. I nostri pensieri spirituali non dovrebbero essere distratti. Guardiamo al Signore perché abbiamo ricevuto dal cielo delle benedizioni dal Signore, noi conosciamo la sua bontà. Noi stiamo vivendo nel Cristo, vogliamo essere fedeli ed andare in preghiera dato che il Signore conosce i nostri cuori e resterà sempre lo stesso se noi camminiamo nella giusta via? Andiamo verso nostro Signore, preghiamo per coloro che non si trovano nel Signore, preghiamo il Signore che è in mezzo a noi perché battezzi quelli che non lo sono. L’avversario cerca di rovinare la vigna, ciò è certo, ma il nemico non potrà entrarvi dato che questa vigna è nelle mani del Signore, il Signore che salva le nostre anime. Ma quanti di noi, se il Signore venisse in questo stesso momento, potrebbero dire: “Sono pronto?”. Se il Signore arriva, potremmo dire: “Siamo pronti, salvami?”. Il Signore opera, non dimentichiamolo e andiamo in preghiera.

Alcuni fedeli punteggiano il discorso della missionaria con dei “gloria”, “gloria Gesù”, “gloria”, “santo”, “alleluia”. Alla fine del discorso l’assemblea si rimette rapidamente in ginocchio, mentre Natalina, la gemella saggia della più turbolenta Sara, sceglie l’inno Lavami, lavami che gli altri cominciano a cantare: «Lavami l’alma e cuor / col sangue tuo, Signor; purgami d’ogni error / col sangue tuo, Signor. Lavami, lavami / col sangue tuo, Signor; tienimi, tienimi / sotto al tuo sangue ognor. […] Tienimi salvo ognor / col sangue tuo, Signor; tu mi fai santo ancor / col sangue tuo, Signor». Questa seconda preghiera allo Spirito Santo è più lunga e più intensa della prima. Gli astanti, molto raccolti in se stessi, si esprimono con forza usando gesti, parole, suoni o mimiche a loro familiari: Giovanna, la missionaria, prega senza pausa, costantemente, sollevando spesso le braccia al cielo e aprendole come per abbracciare con questo gesto un vasto globo; Anna chiede a Gesù di liberarla da questo mondo; Natalina, 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la cui voce diventa acuta e si tiene alta in modo continuo durante le preghiere, chiede a Gesù di venire, di allontanare il demonio dalla sua presenza; Annunziata, le braccia alzate, batte spesso le mani ed interrompe anche le sue preghiere per cantare delle strane litanie, degli inni o delle melodie folkloristiche: “Io ho chiamato ed ha risposto Gesù… Nina l’amore di Dio” o per utilizzare la sua parola prediletta “moscica” o delle immagini di questo tipo “Innaffia, Signore, facci crescere”; Natale, il pastore, con la sua grossa voce baritonale degna di un opera russa, produce come sua abitudine una sola nota che tiene a lungo alzando progressivamente il tono sino a raggiungere un volume potente (ciò non accadeva mai senza che mi rievocasse la preghiere dei monaci tibetani), oppure pronuncia un flusso di parole le cui frasi sono spesso ben costruite. Mentre prega, tiene le braccia alzate davanti a lui come per impedire che qualche cosa gli cada addosso. Quel giorno invece la voce di Aldo sembrava coprire quella di tutti i presenti con la sua potenza sonora, senza sforzare le corde vocali e senza imprimere un crescendo alla sua tonalità come fa d’abitudine Natale. È soprattutto durante la preghiera allo Spirito Santo che i fedeli parlano “in lingue”. Ad Accadia, la maggioranza dei primi fedeli convertiti al pentecostalismo, dal 1949 in poi ha ricevuto, sin da allora, il “dono” della glossolalia. È dunque durante la lunga preghiera nel tempio che questi fedeli, come dicono, “testimoniano” della ricezione di questo “dono” all’assemblea, ricevendo delle “benedizioni” dal Signore. Queste parentesi glossolaliche nelle preghiere dei fedeli sono abitualmente rapide, di una durata di qualche minuto tutt’al più. Esse sottolineano i momenti più intensi della preghiera, i momenti culminanti che i fedeli sembrano poter esprimere solo tramite delle espressioni linguistiche personali estranee ad ogni regola sintattica e lessicale. Al termine di questa seconda preghiera i fedeli si rialzano dal suolo e si siedono nuovamente. La missionaria, riprendendo in mano la direzione dello svolgimento del culto, sceglie l’inno numero ventiquattro, Verso Sion marciam, che i fedeli cantano con enfasi. Giovanna, poi, richiama i presenti alla “testimonianza” ricordando loro brevemente l’importanza del fatto di testimoniare dei “doni” e delle “benedizioni” ricevute per poter fare opera di proselitismo. La prima ad alzarsi è Anna Dirano che racconta con parole semplici e succinte in qual modo la sua vita sia stata sconvolta dalla conoscenza vera. Ella insiste, però, 45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come d’altronde fa spesso durante le sue preghiere, sul desiderio di ricevere la grazia dello Spririto Santo prima che la morte la chiami. Natale si alza dopo Anna, apre rapidamente il libro di canti a pagina centosettanta e intona con la sua voce potente i primi versi dell’inno Per grazia. Una volta terminato il suo canto, aggiunge qualche parola per insistere sul fatto che è a causa della grazia che ha potuto in seguito credere e ricevere il battesimo dello Spirito. Annunziata lo segue cantando l’inizio dell’inno Il sangue di Gesù: «Quel sangue prezioso / versato dal Signor è la virtù che lava / il cuor del peccator», dopodiché testimonia frettolosamente con la sua voce brusca della presenza dello Spirito nella sua vita e del cambiamento che implica questa presenza. Mariella Farulo si alza cantando il primo verso dell’inno Il mondo non è più per me e racconta subito dopo la sua gioia di poter morire in stato di grazia. Natalina, la figlia del pastore, canta parte dell’inno Aiutami Signore: «Tu sai, divin Signore / che forza non è in me; che debole è il mio cuore / che poca è la mia fe’» per testimoniare meglio ai presenti lo sconforto di non essere ancora stata benedetta dallo Sprito Santo e per meglio sottolineare l’aspettativa che la riempe. Non appena Natalina si siede, Aldo si alza per glorificare Dio con i primi versi dell’inno Viva Cristo e con la sua testimonianza. Sarina, che prende molto sul serio il suo ruolo malgrado la giovane età, si alza a sua volta per cantare interamente l’inno Io sono un agnellino: «Io sono un agnellino / Gesù è il mio Pastor, un povero bambino / salvato dal Signor». Teresa, abitualmente riservata ma pure attenta agli altri, a sua volta si alza per cantare i primi versi dell’inno Avanti io vo’, avanti io vo’, per testimoniare poi brevemente sulla gioia d’aver ricevuto il dono dello Spirito Santo, dono che guida la sua vita dal giorno in cui l’aveva ottenuto. Melina la segue, più ansiosa e a disagio di sempre, per cantare i primi versi dell’inno Il nome di Gesù: “È il solo nome di sotto al ciel / amato dai fedel” e per testimoniare il sostegno ricevuto dal Signore durante l’attuale doloroso periodo in cui il peso totale della casa, dei bambini e del marito invalido incombono su di lei a causa della recente malattia della figlia primogenita. Melina, infatti, riesce a fare tutto senza troppo soffrire malgrado una malformazione al cuore. Vito si alza dopo la sua futura suocera per cantare i primi versi dell’inno Eterna gloria l’alma mia godrà e per attestare il suo ardente desiderio di ricevere rapidamente il dono dello Spirito Santo. Ignazio, sempre l’ultimo ad alzarsi per testimoniare, lo fa 46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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a modo suo, burbero e spedito: qualche parola detta in dialetto, nessun ricorso agli inni. I fedeli sono ora seduti, le mani incrociate, qualche “gloria-gloria”, “gloria Gesù”, “alleluia” sfugge dalle loro labbra, mentre un leggero rilassamento, un certo torpore sembrano diffondersi nell’atmosfera. Giovanna chiama allora Aldo alla tribuna chiedendogli di effettuare il commento biblico. Egli si affretta ad andare con la Bibbia in mano mentre lei gli cede il posto e va a sedersi di fronte, accanto alla nipote Maria, la moglie d’Aldo. Egli apre la Bibbia2, sfoglia qualche pagina, dopodiché annuncia ad alta voce i riferimenti del passaggio prescelto, il cantico di Zaccaria in San Luca I: 67-80 e legge attentamente e lentamente il testo: E Zaccaria, suo padre, fu ripieno dello Spirito Santo, e profetizzò, dicendo: Benedetto sia il Signore Iddio d’Israele; perciocché egli ha visitato e riscattato il suo popolo. E ci ha rizzato il corno della salute, nella casa di Davide, suo servitore. Secondo ch’egli, per la bocca de’ suoi santi profeti, che sono stati d’ogni secolo, ci avea promesso: Salvazione de’ nostri nemici, e di man di tutti coloro che ci odiano; per usar misericordia inverso i nostri padri, e ricordarsi del suo santo patto; (Secondo il giuramento fatto ad Abrahamo, nostro padre); per concederci che, liberati di man de’ nostri nemici, gli servissimo senza paura; In santità, e in giustizia, nel suo cospetto, tutti i giorni della nostra vita. E tu, o piccol fanciullo, sarai chiamato Profeta dell’Altissimo; perciocché tu andrai davanti alla faccia del Signore, per preparar le sue vie; Per dare al suo popolo conoscenza della salute, in remissione de’ lor peccati; Per le viscere della misericordia dell’Iddio nostro, per le quali l’Oriente da alto ci ha visitati; per rilucere a coloro che giacevano nelle tenebre, e nell’ombra della morte; per indirizzare i nostri piedi nella via della pace. E il piccolo fanciullo cresceva, e si fortificava in ispirito; e stette ne’ deserti, infino al giorno ch’egli si dovea mostrare a Israele.

Aldo legge il testo ancora una volta, fermandosi dopo la lettura di ogni versetto, per spiegare e commentare ai fedeli presenti il significato del messaggio dello Spirito Santo trasmesso tramite Zaccaria. È con voce chiara e incisiva, senza enfasi, che Aldo comunica poi agli altri la propria interpretazione del brano prescelto. Dopo aver concluso la 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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spiegazione biblica, egli ritorna al suo posto, mentre Giovanna, ringraziandolo, torna nuovamente alla tribuna. L’assemblea si alza per cantare in piedi, come d’abitudine, l’ultimo inno del culto. È la giovane Maria Polo che sceglie l’inno da cantare optando per uno degli inni preferiti dell’assemblea, Non manchiam, che i presenti eseguono effettivamente più che bene. Sono già le ore venti e trenta, il culto si è prolungato di circa mezz’ora rispetto alle sedute precedenti. In effetti Anna Polo, la madre di Maria, assente durante tutta la durata del culto odierno, è entrata nel tempio da appena qualche minuto, preoccupata di non aver visto rientrare la figlia alla solita ora. I presenti lasciano i loro posti, raccolgono la Bibbia e il libro di canti, danno la “Pace” ai vicini e ricevono l’“Amen” in cambio, quando Giovanna, fermandoli, dice loro di non dimenticare la “sorella” ammalata e li invita a non lasciare il luogo senza aver prima fatto una preghiera per lei. Dicendo ciò, Giovanna scende dalla pedana dove una cattedra in legno le funge da tribuna, per pregare in più intima comunione con i suoi fedeli. Mariella lascia il suo posto e viene ad inginocchiarsi davanti all’altare. Giovanna, Aldo e Natale si avvicinano, formando un cerchio intorno a lei. Ancora una volta i fedeli tornano a pregare lungamente e intensamente, questa volta per Carmela. La preghiera avrà d’altronde la stessa durata di quelle allo Spirito Santo, una ventina di minuti circa. Il gruppo centrale pregherà costantemente “in lingue”, mentre gli altri fedeli che, contrariamente alle loro abitudini durante le preghiere allo Spirito Santo fatte nel corso del culto, sono inginocchiati di faccia alla tribuna e non di schiena, pregheranno “in lingue” ma in modo più sporadico. Un sentimento comunitario sembra unirli, d’altronde malgrado l’ora tarda nessuno sembra voler andarsene, solo Ignazio si avvia lentamente poggiandosi sul suo bastone. Maria Merano è assente avendo lasciato il tempio durante il commento biblico, probabilmente ansiosa di avere rapidamente un dialogo con la giovane figlia Sara. Dopo questa lunga preghiera i presenti, lasciando definitivamente i loro posti, commentano la lunghezza del rito, mentre Aldo, slanciandosi verso il più giovane fratello Vito, lo abbraccia calorosamente. Tutto ad un tratto si sente però Natale, il pastore, riparlare “in lingue”. Si dirige con premura verso Vito, gli pone la mano sinistra sulla spalla destra, con la mano destra gli prende la sinistra e lo incita a fare entrare Dio in 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lui mentre egli stesso prega Dio di ispirarlo. Melina, la futura suocera di Vito, gli si avvicina urlando: “gloria-gloria-gloria-gloria-gloria-gloria-gloria-gloria”, poi con intensità crescente: “Gesù-Gesù-Gesù-GesùGesù-Gesù-Gesù-Gesù”, e in seguito: “alleluia-alleluia-alleluia-alleluia-alleluia-alleluia-alleluia-alleluia”, ricominciando poi con i “gloria” e via di seguito. Sarina, la giovane figlia, si accoda timidamente alla sua preghiera. La temperatura del piccolo tempio si è molto elevata. La giornata in effetti è stata eccessivamente calda, ed il locale oltre che dal sole è stato surriscaldato dal numero dei presenti. Natale è madido di sudore: l’umidità del luogo, il vigore della sua preghiera e dei suoi gesti sembrano farlo soffrire più degli altri. Si toglie la giacca, la poggia su di una delle sedie, poi si dirige nuovamente verso Vito ponendogli questa volta ambo le mani sul dorso. Vito prega ad occhi chiusi, sembra soffrire, gocce di sudore o lacrime colano sul suo viso. Natale glorifica Dio, Vito lo imita. Natale pronuncia con la sua voce potente: “Signore, manifestati, compi la tua opera, parla” tenendo sempre le braccia attorno a Vito, mentre Melina rilancia la preghiera non appena vede che il pastore comincia a stancarsi. Malgrado i tentativi ripetuti di inculcare il dono dello Spirito Santo in Vito, malgrado l’eccezionale lunghezza del rito e l’intensità delle preghiere che l’hanno costellato, Vito non otterrà il dono dello Spirito Santo. Una prossima volta, forse domani durante il rito dedicato interamente alla preghiera allo Spirito Santo. Certamente una prossima volta, sarebbe d’altronde auspicabile che sia prima del suo matrimonio con Carmela dato che lei ha il “dono” da tanto tempo oramai e attende, si dice, che anche lui lo abbia. È per questa ragione che lei rinvia sempre la data del loro matrimonio, ha paura che non sia veramente valido per la Chiesa. Sono le ore ventuno e quindici minuti, la fatica e la delusione sembrano adesso impadronirsi di tutti i presenti. Tutto è stato tentato, palesemente senza successo. Si abbracciano mestamente augurandosi nuovamente la “Pace” ed ognuno rientra a casa propria.

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Note 1. Il culto pentecostale sarà qui illustrato principalmente su dati raccolti ad Accadia (Foggia), un villaggio pugliese della Daunia – centro del pentecostalismo unitario – il cui numero dei convertiti non oltrepassa le 70-100 persone. L’inchiesta è stata svolta nel 1973, 1974 e 1975, per un totale di dieci mesi. È stata finanziata dall’École Pratique des Hautes Etudes, 6ª sezione, dal Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi e dal Ministero degli Affari Esteri Italiano (borsa di scambio Francia-Italia, borsa di scambio EPHE-COSPOS). L’inchiesta è stata condotta principalmente con i membri di questo gruppo, uomini e donne in numero quasi identico, in maggioranza contadini per quel che concerne i convertiti della prima ora, mentre tra i convertiti della terza e quarta generazione si trovano non pochi artigiani e commercianti. 2. I canti citati in questa nostra descrizione del culto, celebrato il venerdì 2 agosto 1974, sono pubblicati da Rinascita Spirituale di Roma nel volumetto Inni e salmi spirituali. La Bibbia usata dal gruppo pentecostale unitario di Accadia è la versione tradotta da Giovanni Diodati (1576-1649) e pubblicata dalla Libreria Sacre Scritture di Roma.

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Lingue e possessione nei gruppi pentecostali del meridione*

Il dono delle lingue o “glossolalia” (dal greco glôssa ‘lingua’ e lalein ‘parlare’) è un fenomeno religioso, di tipo mistico o paranormale, che permette a certe persone di esprimersi, in modo da essere ascoltate e forse capite, in quella che credono essere una lingua non imparata, e di utilizzare la loro propria lingua in modo tale da soggiogare e sedurre gli ascoltatori1. Questo fenomeno, spesso presente nei centri religiosi della Grecia Antica, e che persiste fino alla nostra epoca in parecchie religioni primitive2, per esempio lo shamanismo, è presente oltrettutto nel Vecchio Testamento, sotto forma di profezia (I Samuele, X: 5-13; XIX: 18-24), mentre il Nuovo Testamento gli dà un ruolo importante negli Atti (II: 1-4), dove leggiamo E come il giorno della Pentecoste fu giunto, tutti erano insieme di pari consentimento. E di subito si fece dal cielo un suono, come di vento impetuoso che soffia, ed esso riempie tutta la casa, dove essi sedevano. E apparvero loro delle lingue spartite, come di fuoco: e ciascuna d’esse si posò sopra ciascun di loro. E tutti furono ripieni dello Spirito Santo e cominciarono a parlar lingue straniere, secondo che lo Spirito dava loro a ragionare.

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Originale francese intitolato Langues et possession: le cas des pentecôtistes en Italie méridionale, apparso nella rivista «Annales ESC» (“Oral/écrit”), 43e année, 1988, n. 4, pp. 897-907, qui tradotto dall’autrice. Una prima versione, dal titolo Il fenomeno glossolalico nei gruppi pentecostali del meridione italiano. Pratica e interpretazioni, è apparsa nella rivista «Uomo e Cultura», 1980-81, n. 25-28, pp. 101-121.

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Nella prima Epistola ai Corinti (XII-XIX), l’apostolo Paolo ne parla a lungo, ma in modo piuttosto ambiguo, che se da un lato non ci teneva a proibire un fenomeno che si manifestava con un’ampiezza crescente in diverse chiese al momento delle conversioni, dall’altro desiderava soprattutto che i fedeli spiegassero ai neofiti il messaggio della nuova religione in modo intellegibile, cioè nella loro propria lingua e non “in lingue”. È nel 177 d.C. che la Chiesa mette fine al fenomeno glossolalico dato che, scomunicando Montano e la sua setta, tutti seguaci della glossolalia – come prova tangibile del dono dello Spirito Santo –, mette fine allo stesso tempo alla sua pratica quotidiana e generalizzata. Nella storia della Chiesa, la glossolalia si manifesta in seguito solo fra i gruppi dissidenti: gli ordini mendicanti, i giansenisti francesi, i camisardi, poi fra i primi quaccheri, fra certuni dei primi seguaci del metodismo, fra gli shakers e nella Chiesa Apostolica Cattolica (Irvingiti). È negli Stati Uniti, verso il 1900-1906, con i diversi risvegli del protestantesimo che hanno dato luogo a molteplici gruppi pentecostali, che il fenomeno glossolalico è rinato ed è questa rinascita ad aver contribuito al rapido sviluppo di questi gruppi pentecostali nel mondo (da otto a dieci milioni di membri).

Nascita e sviluppo dei gruppi pentecostali nel meridione Poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, piccoli gruppi protestanti fanno la loro apparizione nell’Italia meridionale. Benché la cifra esatta dei seguaci delle nuove dottrine sia mancante, il numero stesso di questi gruppi, la loro esistenza in un ambiente cattolico fortemente conservatore – che pose dei problemi e che suscitò un dibattito e delle accese campagne di stampa fra laici e cattolici italiani nell’arco degli anni Cinquanta – ci spinge a non ignorare il fenomeno, fenomeno che d’altro canto aveva già attirato l’attenzione di studiosi come Cassin, Miegge, Lanternari e Castiglione3. L’inchiesta condotta sull’introduzione di questa nuova dottrina in ambiente rurale è iniziata in Puglia, ad Accadia, centro del pentecostalismo unitario, e si è in seguito estesa ai diversi villaggi dove questa dottrina si è sviluppata: Gesualdo, Villanova (Campania), San Fele (Basilicata), Randazzo, Marsala (Sicilia)4. D’altro canto, un paragone è stato stabili52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to con certi gruppi attigui di pentecostali trinitari: Anzano, Monteleone (Puglia). L’introduzione del pentecostalismo e il suo sviluppo nell’ambiente rurale ha seguito grosso modo le stesse modalità nei diversi posti osservati. Tre fasi distinte sono state individuate nel processo in questione, ognuna contrassegnata dagli scontri tra i valori anziani – rurali e locali – e i valori nuovi. La prima fase, o fase della conversione, è caratterizzata dall’arrivo del missionario nel villaggio, dalla sua vigorosa azione di proselitismo verso la propria famiglia e i parenti stretti, dai primi battesimi, spesso collettivi, dalle difficoltà e dalle persecuzioni inflitte al gruppo embrionario dai suoi concittadini, dal clero locale e dalle forze dell’ordine. In tutti i gruppi studiati si constata che il personaggio del missionario è conforme ad un medesimo modello: si tratta di un italiano, originario del villaggio dove è ritornato, emigrato in gioventù negli Stati Uniti (o, più raramente, in America Latina), dove la sua conversione al pentecostalismo sembra avergli spesso facilitato l’integrazione5. Profondamente credente, è persuaso che questa dottrina gli abbia portato la “salvezza”, grazie al battesimo e al “dono” della glossolalia che manifesta in lui la presenza dello Spirito Santo. Appena prende coscienza della differenza fra lui e gli altri – a causa della sua nuova religione – pensa ad una cosa sola: tornare al paese d’origine per “salvare” la sua famiglia. Anche i comportamenti connessi al ritorno del missionario al paese d’origine presentano caratterisriche costanti e generalizzabili, in effetti questa reagisce in funzione di quello che pensa del missionario: se ha la reputazione di essere “arrivato” negli Stati Uniti, la parentela si convertirà in blocco (Accadia, Anzano, Gesualdo, Marsala), se ha invece la reputazione di non essere “arrivato”, la sua parentela lo rifiuterà (San Fele). Egli tenterà inoltre di allargare la cerchia dei convertiti ma non cercherà troppo lontano poiché, a parte i nuovi parenti affini acquisiti tramite il matrimonio dei propri fratelli e sorelle, la sua ambizione si limita a convertire gli amici della famiglia e le persone con cui la sua famiglia intrattiene dei legami clientelari. La reputazione propria del missionario e quella della sua famiglia determinano la dimensione del gruppo dei convertiti: più la condizione sociale della famiglia del missionario è modesta più il gruppo sarà ridotto. Questa prima tappa colpisce per la sua intensità emozionale dato che, oltre al ritrovarsi, dopo anni di lontananza, si aggiunge anche la scoper53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ta di una nuova dottrina che permette ai seguaci di sentirsi più vicini a Gesù, soprattutto grazie al “dono” glossolalico. In effetti, questa dottrina porterà ai seguaci (certuni già profondamente religiosi, altri che ritrovano la fede tramite questo nuovo modo di esprimersi) la certezza di essere dei “santi”, “eletti” da Gesù, e di poter così riscattare, per loro stessi e di fronte ai loro concittadini, la loro esclusione sociale. Le persecuzioni e gli ostracismi che questi piccoli gruppi hanno dovuto affrontare sino al 1954 hanno pure contribuito a sviluppare l’intensità emozionale che caratterizza questa prima fase. La seconda fase, decisiva per l’insediamento della nuova fede, è una fase di rottura o di consolidamento. È caratterizzata sia dall’attribuzione della carica del gruppo a un pastore, generalmente designato dallo stesso missionario e destinato a rimpiazzarlo durante la sua assenza (Accadia, San Fele), o ad assumerne definitivamente la carica (Anzano, Marsala), sia, più raramente, dalla definitiva installazione del medesimo missionario (Gesualdo, Randazzo). La trasmissione della carica del gruppo dal missionario al pastore e, soprattutto, la scelta di quest’ultimo, sembrano essere fondamentali per la sopravvivenza e lo sviluppo del gruppo. In effetti, se il missionario decide di designare il pastore al di fuori della sua famiglia d’origine (consanguinea e d’alleanza), compromette con quest’atto l’avvenire del suo gruppo, dato che gli uomini della parentela, sentendosi offesi da questa scelta, si ritireranno a più o meno breve scadenza dalle riunioni e dai riti collettivi per desolidarizzarsi dal pastore e obligheranno al tempo stesso le loro mogli a fare la medesima cosa (Accadia). Al contrario, se il pastore è scelto tra uno dei membri della parentela del missionario (Anzano, Marsala), il gruppo ne è consolidato, formando persino, per certi aspetti, una vera e propria comunità. La defezione di certi seguaci o la solidarietà dei membri fanno sì che i gruppi, a questo stadio, sembrino irrigidirsi e (in mancanza d’incoraggiamento o perché hanno raggiunto un punto limite) rinunzino al proselitismo che distingueva la fase anteriore. Nonostante ciò, nel consacrare una vecchia casa in tempio (Accadia, San Fele, Gesualdo) o nel costruire un tempio (Villanova, Randazzo), finanziati in gran parte dal missionario, si danno una base e rendono ufficiale la loro posizione. La terza fase, o fase dell’istituzionalizzazione, è caratterizzata dalla costruzione di un secondo tempio, dall’unificazione di gruppi di diversi villaggi (Accadia con Randazzo e Marsala; Gesualdo con Villanova e San 54 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Fele) e dall’affiliazione ad una Chiesa istituzionale evangelica (Accadia si affilia a l’United Pentecostal Church of Europe and the British Isles; Gesualdo alla Chiesa Apostolica della Fede in Cristo Gesù; Anzano alle Assemblee di Dio). A questo stadio dunque – i gruppi essendosi oramai definiti, come abbiamo potuto vedere – i seguaci, sentendo il bisogno di rendersi visita mutualmente e di aiutarsi a vicenda, istituiscono nuovi collegamenti dei gruppi fra loro. Questa prima tappa li porta in seguito a volersi affiliare ad una Chiesa evangelica. Intraprendono così le necessarie pratiche, ricevono la visita di missionari autorizzati, e finiscono quindi per affiliarsi alla Chiesa prescelta. Parallelamente, gli anziani devono affrontare i problemi che pone la seconda generazione: convertiti ad un’età precoce o nati dopo la creazione del gruppo, i giovani hanno delle difficoltà a trovare un coniuge evangelizzato nel loro ambiente d’origine quando raggiungono l’età del matrimonio. E si trovano dunque di fronte a tre possibilità: sposarsi fuori dal gruppo ed esserne automaticamente esclusi; convertire il compagno prescelto ed introdurlo nel gruppo; decidere di sposarsi soltanto “nella religione”. In quest’ultimo caso, se il candidato fa difetto nel loro paese natale, gli anziani saranno incaricati di trovarne uno negli altri gruppi della stessa Chiesa diffondendovi le loro fotografie.

Interpretazioni del fenomeno glossolalico nel meridione Nel meridione il dono delle lingue è considerato, come negli Atti, un segno tangibile della discesa effettiva dello Spirito Santo nel corpo del fedele, ma acquista per di più valore di prova della “santità” del medesimo fedele e garantisce a tutti gli astanti il fatto ch’egli sia stato “salvato”. Nei gruppi da noi osservati, i fedeli che hanno ricevuto il “dono” possono esteriorizzarlo principalmente nel corso delle due “preghiere” previste in ogni rito. È però ad Accadia più che altrove (Gesualdo, Villanova, San Fele, Anzano) che i fedeli parlano “in lingue”6. Qui i fedeli, sotto la guida spirituale della missionaria, pregano in ginocchio per quaranta minuti circa, mentre negli altri posti osservati, dove sono degli uomini a comandare, s’inginocchiano al massimo per cinque minuti. Quest’obligo, imposto dalla missionaria, che ha importato nel 1947 la nuova fede pentecostale nel paese e che ha saputo in seguito raggrup55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pare intorno a sé un nucleo di fedeli, non sembra pesare sui partecipanti. Al contrario esso è diventato un momento privilegiato in cui i presenti amano esprimere la propria fede. A livello individuale, il dono glossolalico è vissuto dal fedele come un atto doppiamente significativo, visto che nel momento in cui egli si accorge di articolare un messaggio verbale in quella che immagina essere una lingua sconosciuta, apprende da un lato che lo Spirito Santo l’ha scelto per trasmettere al mondo il Suo messaggio, dall’altro che lo addita, agli occhi di tutti i presenti, persona “santa”, degna di ricevere nel suo corpo il Suo messaggio e, di conseguenza, persona “salva” per l’Eternità. A causa del contatto personale che si stabilisce fra lo Spirito Santo e il fedele, nessuno può veramente attribuirsi il merito di una conversione: anche il missionario e/o il pastore sono considerati al più dei catalizzatori, degli individui che hanno portato la Parola e che hanno mostrato la Via, ma nulla di più. In effetti, la conversione viene giustificata da una vocazione cosciente o incosciente (spesso annunziata in sogno), o da una guarigione giudicata miracolosa: è supposta rispondere ad un appello personale al quale il fedele non può sottrarsi. D’altronde, per i membri del gruppo di Accadia, è solo il “parlare in lingue” a determinare la vera appartenenza al gruppo, giacché se il battesimo d’acqua serve già a stabilire una divisione fra il credente e il resto del paese (o del mondo), il “parlare in lingue” invece contribuisce a differenziare, all’interno stesso del gruppo, il vero credente dal falso, e può creare delle barriere fra gli stessi fedeli. Non è strano dunque che i matrimoni fra un credente con il “dono” della glossolalia e un credente senza “dono” siano mal accettati (non proibiti, ma semplicemente ritardati nell’attesa che il “dono” tocchi il compagno inadempiente). D’altro canto i membri che non fanno sforzi visibili e ripetuti per ricevere il “dono” sono quasi esclusi dal gruppo, mentre quelli che fanno degli sforzi senza mai riceverlo suscitano la più grande pietà e molta commiserazione. Se questa divisione fra chi ottiene e chi non ottiene il “dono” della glossolalia non sembra sottomessa, nel gruppo di Accadia, ad alcun criterio definito, negli altri gruppi essa sembrerebbe invece designare un vero e proprio modello gerarchico, dato che sono soltanto i pastori e i loro collaboratori più prossimi a possedere questo “dono”, mentre la massa dei fedeli ne è sprovvista. Per questa ragione la posizione dei 56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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primi ne esce rinforzata e il loro potere di decisione resta praticamente incontestato (Anzano, Gesualdo, Villanova, San Fele). La glossolalia è interpretata come uno dei segni della presenza dello Spirito Santo nel corpo e nello spirito del fedele, e sarà quest’emissione involontaria di un messaggio verbale apparentemente senza significato il segno che lo distinguerà dal resto dei fedeli non abitati dallo Spirito Santo. La prova di questa presenza sarà data dalla non-significazione apparente del messaggio. Questo messaggio verbale senza significato nella lingua corrente del locutore, sembra tuttavia rimandarci ad un codice ulteriore, all’interno del quale il non-senso ha una significazione ben precisa, la designazione del fedele “altro”: l’eletto, il santo, il salvato, il corpo-tabernacolo scelto fra tutti per ricevere lo Spirito Santo. La glossolalia serve dunque a stabilire una differenza fra il fedele “salvato” e quello che non lo è, stabilendo allo stesso tempo un’uguaglianza fra i fedeli “salvati” dallo Spirito Santo. Ecco come il pastore di Accadia racconta il suo primo battesimo dello Spirito: Durante due giorni, la missionaria ha avuto delle grandi discussioni religiose con la cadetta e la sergente dell’Esercito della Salvezza, ed io ero presente. Nell’udire i tre investigare il trattato del parlare, io capii, compresi ciò ch’era giusto e dissi in me stesso: ‘Signore, perché non mi battezzi anche a me?’. Allora non ho dichiarato nulla a loro di ciò ch’era avvenuto in me. Giunse il momento di andare in preghiera, per rendere grazia al Signore, e sentii dalla punta dei piedi sino a tutto il corpo un calore di fuoco da non poter distinguere, senonché in quel calore provavo una grande gioia di poter glorificare Iddio. E allora per circa venti minuti, io rimasi sempre nelle medesime condizioni. Quando finii la preghiera io avevo già quasi tutto dimenticato il loro parlare, la loro procedura, ma incominciai a riflettere sull’accaduto, non domandavo neanche più alla missionaria di qualche cosa, mi sentivo un’allegria, una gioia in me stesso, non avevo neanche più il coraggio di distaccarmi per andare a casa – ero nella casa della sorella della missionaria – dopo due ore circa, andai a casa. Il giorno successivo ritornai, però il tempo quasi m’impediva di andare, era una sera di cattivo tempo, non si poteva neanche uscire di casa, c’era anche qualche impedimento da parte familiare: ‘Tu, dove vai?’, ma avevo un desiderio forte per andare a pregare, 57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perché avevo conosciuto qualche cosa che non era di questo mondo. Allora raggiunsi la casa della missionaria, erano adunate qualche cinque o sei persone. Quando siamo andati in preghiera fui ripreso, dopo circa cinque o sei minuti – con gli occhi chiusi certamente – vidi come una luce, misteriosa e bianca, e quella forte caloria della sera precedente, come per sette volte ancora più forte della prima sera, e mi trovava in una luce che non posso descrivere, allora avvertii che la mia lingua parlava un linguaggio che io stesso non conosceva. Il mio corpo rimase immobile come se fosse morto, per circa tre ore, avevo sempre il desiderio di pregare, e pregavo e pregavo, però le mie parole non le intendevo, non intendevo ciò che dicevo. Dopo quella manifestazione ebbi la sana confidenza di trovarmi nella piena dottrina, nella piena strada giusta. Ringraziai Iddio per quello ch’era accaduto. Allora la missionaria mi disse, davanti ad una mia richiesta, tutte le scritture che corrispondevano alla mia domanda che io avevo richiesto, perché non comprendeva il linguaggio che avevo parlato. Allora compresi ch’era lo Spirito di Dio che si era anche servito del mio corpo.

Agli episodi glossolalici sono generalmente associati altri fenomeni di tipo carismatico. I più comuni sono il dono d’interpretazione, cioè la capacità di tradurre in linguaggio corrente il flusso di parole o delle frasi glossolaliche prodotte da un terzo; il dono di profezia; quello di guarigione per imposizione delle mani, e quello di fare miracoli7.

La pratica glossolalica nel meridione Le frasi che i membri del gruppo pentecostale di Accadia proferiscono “in lingue” e i movimenti di trance che le accompagnano si svolgono essenzialmente durante le quattro cerimonie settimanali che il gruppo organizza. Questi culti hanno luogo i mercoledì, venerdì, sabato e domenica, per una durata minima di due ore. Durante tre di queste cerimonie, chiamate “ammaestramento” (il mercoledì) e “culto” (il venerdì e la domenica), due sono gli spazi in cui i fedeli possono pregare esprimendosi corporalmente e vocalmente, per una durata di circa venti minuti ad ogni volta: sono gli spazi riservati alle preghiere da indirizzare allo Spirito Santo. La quarta cerimonia, che ha luogo il sabato, è chiamata 58 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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“preghiera allo Spirito Santo” perché gli è interamente consacrata. Se normalmente durante le cerimonie la trance glossolalica si svolge all’interno degli spazi dedicati alle preghiere allo Spirito Santo, al fedele che desidera esprimersi al di fuori di questi spazi o che non riesce ad arrestare la sua trance o il suo flusso glossolalico a fine preghiera, è consentito di turbare od invertire l’ordine della cerimonia. Le preghiere allo Spirito Santo sono compiute dai fedeli in ginocchio sul suolo, appoggiati alle sedie di paglia e dando la schiena alla cattedra in legno che funge da tribuna nel piccolo tempio che li riunisce. Durante il resto della cerimonia gli astanti rimangono seduti, mentre per testimoniare la loro fede o per cantare il primo e ultimo inno si mettono in piedi. In ginocchio, i fedeli si concentrano, i gomiti sulle sedie e il viso nascosto nel cavo delle mani; pochi minuti dopo intonano, ognuno per proprio conto e ad alta voce, delle preghiere, formando un coro potente e discorde. Le preghiere, sempre spontanee, si svolgono in un clima corale che va intensificandosi sempre più, permettendo così ai fedeli di esprimere le loro emozioni; quando i presenti raggiungono un certo livello di parossismo alcuni di loro cominciano a “spiccare” vocalmente dal gruppo e a parlare in “lingue”, utilizzando inflessioni vocali dissimili dalle loro elocuzioni quotidiane, andando dall’acuto al grave o alzandole a tal punto da fare tremare l’edificio. Accompagnano il flusso glossolalico d’una totale partecipazione del corpo che si materializza con gesti o movimenti – braccia che volteggiano o che si tendono, dita che schioccano, mani che applaudono, corpi che si agitano – che effettuano soltanto in quell’ambito. Benché la missionaria insista nel chiedere ai presenti di aiutare e “sostenere” il fedele in trance glossolalica, raccomandando di frenare la loro partecipazione, nessuno tace quando un fedele inizia a parlare in “lingue”; al contrario, sembrerebbe che ciò li stimoli dato che sono sempre più persone a glossolalizzare o a entrare in trance. Avendo spesso assistito a delle manifestazioni in “lingue”, abbiamo trovato nel materiale di registrazione due episodi che riteniamo utile ricordare e analizzare. Il primo (domenica, 23 giugno 1974) concerne la missionaria. La durata totale del puro momento glossolalico è di quattro minuti circa e s’interpone in una preghiera ch’ella faceva a Gesù in lingua italiana. Mentre l’assistenza implora, proclama, reclama: “Gloria, 59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Halleluia, Santo Signore, Gesù mio, Gesù, Gesù”, la missionaria interroga:

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/Îaria assi vassia Îanana Îamama issia vorissia ianaši aria komessia komeviene adevanti? ši ši o o klÿ klÿ klebeko Îaleluia/ intercalandovi dei “Gloria, Gloria”.

Questa catena parlata di fonemi senza significato nella lingua corrente italiana o inglese (le due lingue parlate dalla missionaria) non si allontana dai suoni di queste due lingue, dato che le onomatopee, le acca aspirate, le consonanti e le vocali utilizzate appartengono al patrimonio fonetico di queste due lingue. Il secondo esempio registrato di glossolalia è stato fornito da una sorella della missionaria ed è un episodio che dura cinque minuti, trasformandosi in seguito in una preghiera detta in un tono d’implorazione molto commovente: /abaýato didirina amama areratoria Îaleluia Jesu Kristo abbaýene ab’oria Hermona oin Îamama/

Questa seconda catena parlata, senza significato nella lingua corrente italiana, interessa più della precedente dato che le acca aspirate che la sorella utilizza – se sembrano naturali nella missionaria visto la sua conoscenza dell’inglese – inducono invece a pensare ad un’imitazione inconscia da parte di quest’ultima della fonetica della missionaria, dato che questa, che per loro rappresenta la giusta via, la santità, la perfezione, ha sicuramente colpito l’immaginazione dei fedeli proprio col suo impiego – strano per i parlanti italiano – delle acca aspirate. In effetti, persino al di fuori dai momenti glossolalici, i membri del Tempio di Cristo dicono “Halleluia” aspirando l’acca, contrariamente all’uso corrente in italiano e nel dialetto locale dove, poiché l’acca aspirata non esiste, si dice solitamente “Alleluia”. È opportuno a questo punto trascrivere ed analizzare brevemente il contenuto della preghiera formulata dalla sorella della missionaria al 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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momento della trance glossolalica. Questa preghiera, importante perché detta spontaneamente ed elaborata ad un livello quasi inconscio, può chiarirci il substrato simbolico che nutre l’immaginario di questa seguace e darci la misura dell’assimilazione della nuova dottrina, indicandoci nel contempo l’importanza del residuo della dottrina precedente, e informandoci sul livello di sincretizzazione o d’acculturazione di questa seguace. Sangue Gesù halleluia / vestici, / rivestici, / vestici / dammi l’amore / conta […] / Viva il sangue / di Gesù Cristo / Gesù halleluia / Îÿman didiš Îai / Sangue di Gesù / coprici, / Gloria Gesù / Gloria, gloria, gloria, / gloria, gloria, / Gloria, gloria, gloria, / Gesù, Gesù, Gesù, Gesù, / amore, amore, amore, / Signore, tu sei amore / Dio / batta / amamon kømõ / Dio, Dio, Dio, / Dio, Dio, / le strade di Dio / sono Dio / Dio / l’amate / l’amate il bene / Manda Signore / a voi / che amo Dio / silo silomos / Gesù, Dio nostro / aiutaci, / […] manda […] / manda Signore l’operaio / che tu conosci Signore / ne abbiamo bisogno / Signore / di essere ammaestrati / da Dio e dalla Gloria / guardaci […] / dallo spirito cattivo / Signore / tu sei la rotta / la roccia / parlami […] / la rocca Signore / che tu ci dai la grazia / giorno dopo giorno / che tu sei un grande Iddio / […] / che ci dai / benedizioni / ci ammanti / sotto il tuo manto prezioso, / Signore / ringrazio il Signore / di essere chiamata ancora / questi giorni Signore, / Dio / a ringraziare […] / Signore / […] Dio / benedetto il tuo nome eterno / Signore / […] / giorno dopo giorno / e ci fai conoscere Gesù / Signore / noi abbiamo vita eterna / Signore / tu sei la vita in mezzo di noi / Padre santo / […] / tu ci dai la forza / non dimenticare Gesù / di santificarci, Signore / ama / amore di Dio / madre di Dio / quant’è buona / e quant’è cara / […] il nostro Signore / Gesù Cristo / […] / Santo sei Signore Gesù / ti ringrazio Signore / sei in mezzo di noi / via / Gesù vita santa / dacci la libertà di pregare / Signore / che tu sei la rotta / eterno oh Signore / tu sei l’unico / Gesù, alleluia / Gesù santo santo / santo sei Signore / manda benedizioni / sopra di questi […] / […] Signore / […] / Tu sei la vita Signore / e come angeli […] / dacci la forza / nella vita / nel nostro cammino / d’incamminarci / con la tua volontà / Signore / Halleluia Gesù santo / santo santo santo / gloria Gesù gloria / gloria gloria gloria / gloria gloria gloria / halleluia halleluia halleluia / halleluia halleluia halleluia / Gesù Gesù Gesù Gesù / Santo!! Gloria!! 61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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I termini impiegati dalla fedele per indicare l’interlocutore a cui la preghiera è indirizzata sono numerosi e costantemente ripetuti. Contando il numero delle volte in cui lo stesso termine è utilizzato, notiamo che Signore è detto venticinque volte, Gesù ventuno volte, Dio sedici volte, Gesù Cristo due volte, Signore Gesù due volte, Padre una volta e Iddio una volta. La locutrice in questione appartiene come sappiamo ad un gruppo pentecostale unitario, che battezza i suoi seguaci nel solo nome di Gesù. Ora, se non teniamo conto del termine “Signore” (venticinque volte) che può designare tanto Dio il Padre quanto il Figlio, possiamo constatare che Gesù è stato interpellato venticinque volte in totale, mentre invece Dio lo è stato diciotto volte. Ciò sembrerebbe indicare che la religione d’origine, quella cattolica, conserva una pregnanza da cui il fedele non riesce a sbarazzarsi. Questa pregnanza si conferma in un altro momento della preghiera, quando la fedele indirizzandosi alla Madre di Gesù esclama: “Madre di Dio, quant’è buona e cara”. Sembrerebbe dunque che si costituisca un amalgama nell’inconscio della credente, senza che si possa distinguere chiaramente nel suo discorso una frontiera fra fede passata e presente. Quest’amalgama invece sembra scomparire quando la stessa fedele discute di dottrina con altre persone del suo gruppo o quando tenta di fare opera di proselitismo.

Interpretazioni antropologiche del fenomeno glossolalico Saremmo tentati di pensare a priori che la glossolalia sia un’espressione spontanea per l’uomo in certe manifestazioni d’ordine mistico, un comportamento naturale, al limite un archetipo del comportamento umano di fronte agli dei. Ma non è così. Osserva infatti L.C. May che questo fenomeno, fiorito nel mondo antico, si ritrova in effetti in certe regioni (l’area cristiana del mondo antico, l’Africa, la Siberia, la Malesia, l’Indonesia, la Cina, il Giappone, l’Australia e le Filippine), ma è invece completamente assente in certe altre (l’area musulmana dell’Africa del nord e dell’Asia minore, il nuovo mondo soprattutto nella zona dell’altipiano, nella costa del nord-ovest e nell’area culturale artica)8. Questo dato interessante, che colloca il fenomeno glossolalico in specifiche zone geografiche, dovrebbe essere completato con delle indicazioni su certi tratti caratteristici delle società dove il fenomeno 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ha corso. Al contrario, l’autrice si limita a dire che la glossolalia e gli altri fenomeni che le sono associati si sviluppano nelle società che sono preparate a riceverli, dato che: «There seems to be considerable truth in the assertion that people do not speak in tongues unless they have heard about speaking-in-tongues, and this should be added that on the whole they become glossolalists only if their customs permit them to»9. Il fenomeno è dunque descritto solo in termine di prestito culturale e di capacità delle società in questione ad assimilare questo prestito. Se queste asserzioni sembrano giustificarsi per quel che concerne l’apparizione del fenomeno in determinate società, sono invece insufficienti per spiegare il fenomeno stesso. D’altro canto, queste spiegazioni del fenomeno per prestito culturale e capacità ad assimilare questo prestito sono facilmente applicabili al nostro campo di ricerca, le Puglie. In effetti, le Puglie sono state e sono, sino ai nostri giorni, terra di predilezione delle tarantate10. Le tarantate, in maggioranza donne, sono generalmente punte dal morso d’una tarantola durante il periodo estivo; possedute dalla tarantola grazie all’iniezione del suo veleno, esse rivelano questa possessione ballando a intervalli fissi – solitamente d’anno in anno sino all’estinzione della possessione – per diversi giorni e diverse notti, accompagnate da un piccolo complesso locale che suona la tarantella, motivo preferito dalla tarantola11. Nelle Puglie, inoltre, come in tutta la zona mediterranea, la tradizione del lamento funebre era fortemente sentita: si tratta di un rito di lamentazione collettivo o individuale, una tecnica praticata principalmente dalle donne al momento della morte e dei funerali di un membro vicino o lontano della propria famiglia o di quella di un paesano12. Sempre nelle Puglie e nel resto del mediterraneo, troviamo delle pratiche rituali legate al malocchio. Queste pratiche hanno degli scopi diversi dato che servono o a lanciare il malocchio, o a farne la diagnosi, o invece a toglierlo. Esse sono, secondo gli scopi che ci si propone, diverse nelle loro formulazioni incantatorie e nei gesti da compiere. Nessuna donna della regione ignorava il significato e la pratica di questi gesti e queste parole. È su questo humus culturale che il pentecostalismo si stabilisce al suo arrivo nelle Puglie, terreno dei più fertili, come si può notare. Ed è a questo ricco passato che i pentecostali attingono quando si esprimono: gesti, parole, frasi, ritmi iscritti nella loro cultura che adattano alla loro nuova situazione e che innestano sulle nuove espressioni portate dalla missionaria. 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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La letteratura antropologica propone interpretazioni diverse del fenomeno glossolalico. I.M. Lewis, per esempio, sottolinea l’importanza del contesto in cui il fenomeno evolve: «New faiths may announce their advent with a flourish of ecstatic revelations, but once they become securely established they have little time or tolerance for enthusiasm»13. Egli prosegue: «Where, however, such cults do not attain a comparable degree of acceptance, or are passively opposed or even actively persecuted, as long as they retain the support of oppressed sections of the community, possessional inspiration is likely to continue with unabated vigour»14. Si tratterebbe dunque solo di fenomeni di breve durata, non-istituzionalizzati, limitati nello spazio e persino nel tempo e che si prolungano solo se incontrano degli ostacoli. Per altri autori si tratta di fenomeni che nascono come reazioni alle avversità e alle oppressioni subite. Il “parlare in lingue” sarebbe dunque un modo d’esprimersi senza farsi capire dalla società considerata estranea al gruppo, alla setta, ecc. Per questi autori, le donne, i popoli oppressi, i poveri del terzo mondo sarebbero responsabili dello sviluppo di queste sette e di questi culti nelle regioni sotto-sviluppate15. D’altro canto, questo fenomeno può essere vissuto come un mezzo per integrarsi in un gruppo strutturato dove l’uguaglianza fra i membri è rigorosa. D’altronde possiamo notare che negli Stati Uniti, nel Canada, in America Latina, ecc., le sette pentecostali attirano gli immigrati di fresca data soprattutto a causa dell’abolizione di ogni barriera linguistica nel loro ambito16. Riassumiamo: la glossolalia non è un fenomeno generalizzato dato che esiste solo in certe regioni ben precise; si sviluppa nelle società dove i costumi locali lo permettono e imitando altre società; è l’espressione dell’entusiasmo dei fedeli di fronte alle nuove credenze; appena queste credenze s’istituzionalizzano, queste espressioni sono messe al bando ma continuano in caso di persecuzioni; questo fenomeno è intimamente legato alle sette e ai culti che si sviluppano presso i popoli oppressi, che esprimono in questo modo il loro rifiuto del mondo e la loro oppressione; infine, può essere un mezzo d’integrazione in una società d’arrivo. Queste interpretazioni, tutte interessanti e pertinenti, sono imperniate principalmente sulla funzione sociale del fenomeno. Nessuna ci offre delle ipotesi sulle ragioni per cui certe società gestiscono questo tipo di comportamento corporale e vocale che ha luogo in momenti preci64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

si, né perché questa razionalizzazione di un comportamento che appare spontaneo, espressivo, ecc., passi inoltre attraverso un linguaggio noncodificato. Questi obiettivi sono nel mirino degli storici che vi portano uno spessore di giudizio che attualmente difetta17, dei linguisti e degli psicologi che interpretano il “vuoto” di senso in modo appropriato18.

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*** Fra i membri dei gruppi unitari e trinitari osservati nell’Italia rurale del meridione, il fenomeno glossolalico ha sia una funzione demarcativa, sia di livellamento. Nel gruppo di Accadia, i seguaci si conformano al comportamento della missionaria e, per questo, riescono quasi tutti a “parlare in lingue”; negli altri gruppi invece i fedeli non acquisiscono il “dono” della glossolalia dato che non sono incoraggiati né dai missionari né dai pastori che verosimilmente si riservano l’esclusiva del “dono”. Il fenomeno glossolalico sembra perciò servire gli interessi del responsabile del gruppo dato ch’egli lo “utilizza” per stimolare l’uguaglianza tra i suoi membri o per acquisire in suo seno una posizione dominante. I nostri dati non sono statisticamente affidabili per poter dedurre che questa opposizione derivi dal fatto che il gruppo paritario sul piano dell’espressione glossolalica lo sia perché diretto da una donna, benché altre divergenze, che è inutile menzionare in questa sede, siano effettivamente dovute a questa differenza d’ordine sessuale19. Tuttavia, sembrerebbe che l’interiorizzazione dello status “subalterno” della donna, così com’è predicato nel meridione italiano, impedisca alla missionaria di Accadia d’immaginarsi “superiore” agli uomini del suo gruppo incitandola, di conseguenza, ad instaurare la “parità” fra di loro; al contrario, i missionari e i pastori degli altri gruppi pentecostali s’interpongono tra i fedeli e Dio, come hanno sempre visto fare dai preti cattolici, per conservare la “superiorità” inerente al loro status maschile. Nel meridione italiano, la pratica della glossolalia si ritrova inglobata nell’ideologia locale nella misura in cui è utilizzata per gestire i problemi di dominazione e gerarchizzazione che preoccupano i residenti; serve per di più a far valere una strategia che avrebbe potuto prendere delle vie più tortuose, e perciò più rischiose, per approdare agli stessi risultati.

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Note 1. Mi è sembrato opportuno dare in apertura la definizione del termine “glossolalia” che ho preso dall’Enciclopædia Universalis (1975: 790), però modificandola per renderla più vicina alla mia comprensione del termine. 2. May L.C., A survey of glossolalia and related phenomena in non-christian religions, in «American Anthropologist», n. 1, 1956, pp. 75-96. 3. Si tratta di: Cassin H., Quelques facteurs historiques et sociaux de la diffusion du protestantisme en Italie méridionale, in «Archives de Sociologie des Religions», 2, 1956, pp. 55-72; Miegge G., La diffusion du protestantisme dans les zones sous-dévoloppées de l’Italie méridionale, in «Archives de Sociologie des Religions», 8, 1959, pp. 81-96; Lanternari V., Religione popolare e contestazione. Riflessioni storico-sociali sul dissenso religioso, in «Testimonianze», 118, 1969, pp. 708-729, e Castiglione M., Aspetti della diffusione del movimento pentecostale in Puglia, in «Uomo e cultura», 9, 1972, pp. 102-118. 4. Vedere la nota 1 del capitolo I, “Un culto pentecostale ad Accadia (Puglie)”, per le informazioni sull’inchiesta. 5. Wilson B.R., Les sectes religieuses, Parigi, Hachette, 1970. 6. Il capitolo I, “Un culto pentecostale ad Accadia (Puglie)”, contiene una descrizione dettagliata del culto; per la descrizione di un culto pentecostale durante una riunione di comunità zingare, vedi Williams P., Une langue pour ne rien dire. La glossolalie des Tsiganes pentecôtistes, in Pétonnet C., Delaporte Y. (dirr.), Ferveurs contemporaines: textes d’anthropologie urbaine offerts à Jacques Gutwirth, Parigi, L’Harmattan, 1993, pp. 111-125. 7. Il tema del miracolo è più sviluppato nel capitolo VIII, “Nome, sangue e miracoli”; vedere anche: Di Bella M.P. (a cura di), Miracoli e miracolati, «La Ricerca folklorica», n. 29, 1994. 8. May L.C., A survey of glossolalia, cit., pp. 89-92. 9. Ivi, p. 90. 10. De Martino E., La terra del rimorso, Milano, Il Saggiatore, 1961: sull’importanza del ruolo di De Martino in seno all’antropologia italiana e internazionale, vedere il mio Literature of Anthropology, in Marrone G. (ed.), Encyclopedia of Italian Literary Studies, New York, Routledge, 2007, vol. 1, pp. 52-55. 11. Il fenomeno di possessione noto come tarantismo colpisce maggiormente le donne nubili: morse da una tarantola, principalmente durante il periodo estivo, esse esorcizzano dal loro corpo il veleno iniettato dal ragno tramite un ciclo coreografico, identificandosi e “mettendosi in scena” alla maniera di una tarantola. Perciò esse ballano per più giorni in un perimetro rituale, vestite 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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con abiti del colore preferito della tarantola specifica del cui veleno sono possedute, accompagnate da un piccolo complesso musicale che esegue solo i motivi – generalmente tarantelle – che le tarantate riconoscono come graditi alla propria tarantola e sino ad esaurimento della possessione. Il 29 giugno, giorno della festa di S. Piero e S. Paolo, le tarantate si recano alla cappella di S. Paolo, a Galatina (Puglia), per ringraziare il Santo, che protegge dai morsi velenosi, della grazia ricevuta o per pregarlo di esaudire la loro preghiera nel caso in cui le crisi di possessione non fossero ancora cessate del tutto. L’anno seguente, alla medesima epoca, le tarantate “rivivono” il loro primo morso ripetendo, a causa di ciò, il ciclo possessione/esorcismo per ringraziamento al Santo. 12. De Martino E., Morte e pianto rituale dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino, Boringhieri, 1975 [1958]. 13. Lewis M., Ecstatic religion. An anthropological study of spirit possession and shamanism, Harmondsworth, Penguin, 1971, p. 34. 14. Ivi, p. 132. 15. Lanternari V., Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano, Feltrinelli, 1960; Muhlmann W.E., Messianismes révolutionnaires du tiers monde, Parigi, Galllimard, 1968, e Pereira de Queiros M.I., Réforme et révolution dans les sociétés traditionnelles. Histoire et ethnologie des mouvements messianiques, Parigi, Éd. Anthropos, 1968. 16. Wilson B.R., Les sectes religieuses, cit. 17. Certeau M. de, Utopies vocales: glossolalies, in «Traverses», n. 20, 1980, pp. 26-37. 18. Samarin W.J., Tongues of men and angels: the religious language of Pentecostalism, New York, MacMillan, 1972; Godin A., Moi perdu ou Moi retrouvé dans l’expérience charismatique: perplexité des psychologues, in «Archives de sciences sociales des religions», n. 40, 1975, pp. 31-52. 19. Due altri miei articoli, Rôle et statut des femmes dans les groupes pentecôtistes du mezzogiorno, in «L’Homme», n. 95, 25e année, 1985, pp. 157166, e Maladie et guérison dans les groupes pentecôtistes de l’Italie méridionale, in «Social Compass» («Religion, santé et guérison»), vol. XXXIV, n. 4, 1987, pp. 465-474, potrebbero rivelarsi utili al lettore.

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PARTE SECONDA TACITARE LA PAROLA

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L’omertà tra antropologia e storia*

Dalla metà degli anni Sessanta in poi, in antropologia sociale sono stati costruiti modelli generali nel tentativo di unire insieme tutte le società mediterranee. Il loro successo ha attirato altre discipline. Ma con il passare del tempo questi modelli generalizzanti sono stati criticati e le loro insufficienze sottolineate. Sulla scorta di queste critiche, vorremmo esaminare uno di questi modelli addensanti della “cultura mediterranea”, quello del codice del silenzio (l’omertà), sottoponendolo ad una prova storica, grazie al materiale d’archivio siciliano a disposizione, per determinarne i limiti1.

Comparsa del termine omertà Con il dramma intitolato I mafiusi de la Vicaria, scritto da Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto, e presentato per la prima volta a Palermo, nel 1863, i termini mafia e omertà si sono affacciati alla ribalta. Dopo questo evento e fino al 1986 – data del primo e famoso maxi-processo a Palermo contro la mafia – la parola e il fenomeno sembrano formare un’unità, essendo il mafioso percepito come un uomo capace di mantenere il silenzio (omertà) e l’omertà la costituente primaria del mafioso. Ma cosa significa omertà? Secondo il Nuovo Vocabolario di Traina, la parola omertà deriva da omu (uomo) e significa la “qualità dell’esser uomo”; mentre secondo Giuseppe Pitrè, il famoso demologo siciliano, la «base e sostegno dell’omertà è il silenzio; senza di questo l’omu *

Originale italiano intitolato L’omertà pietosa dei condannati a morte in Sicilia, pubblicato dalla rivista «Prometeo», n. 68, 1999, pp. 98-104.

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non potrebbe essere omu, né mantenere la sua superiorità incontrastata; restando scoperto agli occhi della Giustizia, ne proverebbe i rigori»2. Perciò, di fronte alla giustizia, l’uomo non deve né parlare né essere menzionato, dato che la sua reputazione ne soffrirebbe, come pure il suo onore, ed una buona reputazione è alla base dell’onore. Ma dal 1986, molti mafiosi hanno parlato di fronte alla giustizia, prima e dopo il maxiprocesso, rompendo il “muro del silenzio” su cui parte del famoso “codice dell’onore” era costruito. Se, dunque, possiamo datare la fine dell’omertà mafiosa agli anni Ottanta e Novanta del nostro secolo, dove cercarne le origini? Quando scorgiamo i primi segni dell’omertà come prassi dominante e modello culturale di comportamento? Per avanzare diverse ipotesi sull’omertà, faremo uso principalmente dei discarichi di coscienza, dettati dai carcerati condannati a morte la sera prima della loro esecuzione ai Fratelli della Compagnia dei Bianchi3. Prima di presentare e discutere il loro contenuto, descriveremo brevemente la funzione che questa compagnia svolgeva nella struttura giudiziaria siciliana e il modo in cui i condannati vi s’inserivano.

Preparazione alla buona morte A Palermo, dal 1541 al 1820, i condannati a morte erano affidati ai membri di una compagnia secolare – la “Compagnia del Santissimo Crocifisso”, detta dei Bianchi, dato che abitualmente indossavano un abito di tela bianca con un cappuccio dello stesso colore che copriva loro il viso – il cui compito era di prestar loro conforto, morale e spirituale, durante i tre giorni e le tre notti che precedevano l’esecuzione e durante la lunga processione che li portava dalla prigione al patibolo. Una volta stabilita la data dell’esecuzione, il condannato (l’afflitto) entrava in una fase segreta di istruzione su “come morire una buona morte cristiana”, svolta generalmente nella cappella di una prigione (Castellamare o Vicaria) da quattro “fratelli confortanti” Bianchi. Durante questa fase liminale, il condannato era spesso scortato dai “fratelli confortanti” all’oratorio della cappella per pregare, con una candela accesa in mano, davanti alla statua dell’Ecce Homo e dell’Addolorata, a cui doveva baciare le mani. Doveva inoltre confessarsi diverse volte, assistere ad 72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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alcune messe e comunicarsi almeno due volte. Con il capo della cappella doveva ripetere i gesti e le parole da compiere dal momento in cui avrebbe lasciato la prigione sino a quello in cui sarebbe salito sul patibolo (esercizio della scala). Se ne faceva richiesta, era pure condotto dal confessore per dettare un “discarico di coscienza”, che gli permetteva di morire senza peccati e senza false accuse sulla coscienza. Il terzo giorno, quello dell’esecuzione, il condannato dava una pubblica dimostrazione di morte del giusto. Uscito dalla prigione si dirigeva verso il piano della Marina, luogo abituale delle esecuzioni, scortato dal capo della cappella e dal confessore, seguito da tutti i Fratelli della Compagnia che recitavano litanie, miserere e de profundis. Quando il corteo arrivava sulla piazza dove aveva luogo l’esecuzione, si arrestava. Qui, il condannato s’inginocchiava davanti al confessore per ricevere l’assoluzione. Alla domanda se volesse morire da cristiano, rispondeva affermativamente. Il prete allora recitava il Credo e alle parole et sepultus est, il boia gli poneva il laccio al collo. A preghiera finita, baciava i piedi al boia e alla scala, che poi saliva per raggiungere la forca ed essere lanciato repentinamente in aria dal boia. Dal 1541 al 1820, i cento membri della Compagnia dei Bianchi – principalmente aristocratici, molti dei quali discendenti dalle più nobili famiglie siciliane e investiti delle più alte cariche dello stato – hanno assistito 2.127 condannati, laddove quaranta erano donne4. Il periodo dal 1541 al 1646 è stato certamente il più crudele per i condannati, soprattutto per i plebei. I ladri, i briganti, i predoni, gli assassini, erano portati al luogo dell’esecuzione su di un carro trainato da buoi per essere suppliziati durante il tragitto: erano attanagliati con ferri roventi o veniva loro tagliata la mano destra o si metteva fuoco ai piedi. Potevano anche essere trascinati legati, sopra una tavola, alla coda del cavallo, eventualmente per squartarli vivi o semi-vivi. Dopo l’esecuzione, i loro corpi erano abitualmente separati dalla testa e tagliati in quattro parti, da spedire per essere esibiti nei luoghi dove i condannati erano noti per i loro misfatti.

“Chiamare” sotto tortura Sappiamo che sui 2.127 detenuti assistiti dai Bianchi, approssimativamente 404 hanno richiesto – dal 1567 al 1805 – di dettare un discarico 73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di coscienza. Attualmente lavoriamo sul materiale di 76 discarichi, cioè su quasi il 19% dei discarichi dettati5. Dato che il delitto per cui gli imputati sono stati condannati è sempre menzionato, notiamo che quaranta sono stati condannati per omicidio, venti per furto, otto per banditismo, due per nefandum, due come falsari, uno per lesa maestà ed una donna per infanticidio. Se guardiamo al contenuto dei loro racconti, vediamo che quaranta riferiscono di essere stati torturati e trentatré di loro ammettono di aver chiamato, cioè di aver fatto il nome – sotto tortura – di persone estranee ed innocenti come complici del loro crimine. Sei invece ammettono di aver chiamato, senza parlare esplicitamente di tortura, inducendoci a pensare che molto probabilmente sono stati anche loro sottoposti a tortura, portando così il numero dei torturati a quarantasei. Otto dei detenuti si autoaccusano dei crimini attribuiti da loro stessi ad altri, durante il processo. Le ragioni date per aver chiamato sono: la paura [18], il dolore [14], l’inimicizia provata verso la persona chiamata [19]. Se osserviamo le parole usate durante il dettato dei discarichi, noteremo che la parola omertà non è mai pronunciata, mentre la parola onore è menzionata in due discarichi6, la parola fama in altri due discarichi7 e la parola reputazione in uno soltanto8. In tutto sei menzioni, ma se teniamo conto delle ripetizioni, solo quattro persone hanno utilizzato la parola onore, fama o reputazione tra i settantasei condannati del nostro materiale9. Per di più, le parole onore, fama o reputazione non si riferiscono mai all’atto di parlare di fronte alla giustizia o al “chiamare”; in effetti, in questi quattro discarichi, la parola onore è utilizzata soltanto per designare l’onore sessuale della donna, mentre la parola fama implica la reputazione maschile e la parola reputazione si riferisce alla reputazione femminile. Se il nostro materiale non è sufficiente per permetterci di trarre delle conclusioni sull’utilizzazione sociale delle parole onore, fama o reputazione, ci permette invece di dire che sino alla fine del Settecento la parola omertà non era impiegata nei contesti in cui la vedremo utilizzata dalla metà dell’Ottocento in poi. Da quanto dimostrano i nostri discarichi, possiamo aggiungere che durante la tortura giudiziaria i siciliani non avevano remore nel “chiamare” i nomi dei complici, veri o inventati che fossero, esattamente come ogni altro uomo in ogni altro paese. Et pour cause. Perché dunque un secolo dopo il “chiamare” divenne una tale macchia sull’onore del locutore? È sufficiente un secolo per costi74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tuire una “tradizione”? O questa divenne possibile solo perché la tortura giudiziaria cessò di essere utilizzata durante gli interrogatori? Vorremmo, in poche righe, spiegare lo scopo ufficiale della tortura giudiziaria per sottolineare l’originalità del trattamento dei Bianchi. Sino a metà Duecento la Chiesa, come pure il pubblico, accettano le ordalie in cui, come nei giuramenti e nei combattimenti giudiziari, percepivano il giudizio di Dio. Solo Dio poteva infatti rivelare l’innocenza di un accusato lasciandogli intatta la mano appoggiata al ferro rovente o a pronunziare la sua colpevolezza facendolo galleggiare quando era gettato in acqua10. Ma nella seconda metà del Duecento, il principio di inquisitio è formalmente introdotto nel diritto canonico. Come dice Langbein, certi «uomini prendono il posto di Dio nel decidere della colpevolezza o dell’innocenza di un accusato, degli uomini denominati giudici»11. La verità, da questo periodo in poi, è rivelata dal giudice e, in nome della verità, la tortura giudiziaria acquista una funzione importante nella procedura ecclesiastica inquisitoriale12. Dato che la verità si nasconde, da un lato nei fatti, ma anche e soprattutto nell’imputato stesso, che deve perciò essere pressato fisicamente e mentalmente per enunciarla, la tortura giudiziaria diventa un meccanismo essenziale, il solo capace di stabilire la verità durante i processi13. E fino a tutto il Settecento, la tortura giudiziaria continuerà a far parte della cultura giuridica e della sua pratica nell’Europa continentale. È importante, per la nostra dimostrazione, ribadire che la tortura non era soltanto utilizzata per stabilire la colpevolezza dell’accusato, ma serviva anche per estorcere denunce contro terzi, che poi davano corpo a sospetti sufficientemente forti da giustificare, a loro volta, la loro tortura. Non solo la tortura, ma anche la confessione era utilizzata per stabilire l’esistenza di quel grado iniziale di sospetto contro terzi che autorizzava la loro tortura. Questo sistema, che estorceva ammissioni e confessioni per legittimare ulteriori torture che producevano nuove denunce, metteva in moto un meccanismo che moltiplicava costantemente il numero dei sospettati da trascinare davanti alle corti o nelle camere di tortura. Questo meccanismo è stato applicato magistralmente dall’Inquisizione, in quel che si potrebbe definire il “modello del sospetto” (o della denuncia). All’opposto, possiamo misurare l’originalità del modello dei Bianchi dal materiale di discarichi a disposizione. In effetti, l’originalità dei Bianchi consisteva nel ribadire al condannato che, se sotto tortura era 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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stato spesso spinto a denunciare degli innocenti – amici o nemici – per “liberarsi dai tormenti”, e se questa denuncia era stata considerata la verità dai suoi giudici, al contrario, durante la fase liminale in cappella, mentre ristabiliva grazie al suo discarico la fama degli amici o nemici innocenti, diceva realmente la verità, e perciò questa verità, così profondamente diversa, doveva chiamarsi la pura verità. Questi due opposti livelli, di verità e pura verità, sono illustrati nel discarico dettato da Andrea Matranga nel giorno di San Valentino (1650), in cui racconta dettagliatamente le varie fasi della tortura subìta. Nella prima fase vediamo che Matranga rifiuta di collaborare con il potere giudiziario. Dice: «qualmente essendo nelli tormenti della tortura, havendo sopportato la mezz’hora del succaro et un tratto di corda, doppo qual tratto sceso sini a terra e, toccatala con piedi, e cadutoli li braccia, havendoseli da questa positura di corpo raffreddato tutte le membra, et interrogato che dicesse la verità, rispose non haver che dire»14. La sua prima replica non essendo quella appropriata, «per risposta, ordinando la Giustizia che lo tirassero di novo, cominciarono a tirarlo et essendo alto di terra circa doi canni, per haverseli rinovato li tormenti con maggior dolori quali non potendo più soffrire, si fece scendere per voler confessare tutto»15. Nella terza fase la vittima accetta di collaborare con i suoi carnefici, come avviene in molti altri esempi storici, di cui il più rinomato, grazie ad Alessandro Manzoni, è quello del processo agli untori descritto nel suo Storia della colonna infame (1842). Il Matranga continua a raccontare nel suo discarico: Di propria bocca confessò haver ammazzato, di propria mano, con una scopettata, Don Vincenzo Crancato, et interrogandolo di novo la giustizia che dicesse chi fosse stato che ci avesse fatto far tal’ homicidio, rispose per timore di non esser di novo tirato alla tortura, e per non soffrir tormenti maggiori, che gle l’haveva comandato, et ordinato che havesse ammazzato a detto di Crancato, un tal chiamato Giuseppe Zasa16.

Ma, di fronte al tribunale divino istituito dai Bianchi, il condannato proferisce la pura verità, quella che i suoi carnefici non hanno mai ottenuto né mai avrebbero potuto ottenere, quella verità che, nell’aldilà, non potrebbe tener nascosta. E prosegue: 76 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La pura verità essendo che esso, Andrea Matranga, ammazzò detto di Crancato di sua propria volontà, senza che altri gle l’havesse comandato ne ordinato. Ma il tutto fu per certi disgosti passati giorni sono tra esso di Matranga e di Crancato et, ultimamente, per gelosia di certa donna amica di esso Andrea. E che mai detto Giuseppe Zasa ci comandò detto homicidio, ne mai ci parlò, ne ci trattò, ne feceli trattare, ne parlare d’altri circa detto homicidio del sudetto di Crancato17.

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Norme dei Bianchi e realtà sociale Un altro punto, importante e complementare, sottolinea l’originalità dei Bianchi: i discarichi di coscienza che stendevano per iscritto non erano, contrariamente a quanto Adriano Prosperi mostra per il resto dell’Italia, «denunzie fatte da chi era inviato dal proprio confessore al tribunale dell’Inquisizione»18 per rivelare i peccati di terze persone. In effetti, i Bianchi raccomandano molto chiaramente, nei loro Capitoli Cappella (1652, 1766), due cose: in primo luogo, di ristabilire la fama sottratta alla persona innocente: E primieramente si previene ai Fratelli Confortanti, che questi riguardar soltanto debbono due oggetti. Il primo si è quando i condennati devono disdirsi, se mai […] avessero – o per inimicizia, o per timore di tormenti, o per fine di lucro, e guadagno, o per altro qualunque motivo – chiamato per complici, autori, fautori, o esecutori di delitti da essi fatti, o di altri delitti, persone innocenti. Verificandosi tal circostanza, è necessario, che il reo restituisca la fama a chi l’ha tolta, faccia il discarico di sua coscienza, e ponga in chiaro la verità, affinché non venga lo innocente per di lui causa aggravato, e sottoposto a’ gastighi19.

Inoltre, non si deve scrivere, nel discarico, niente di pregiudiziale nei confronti di altri, anche se colpevoli, dato che a pagarne sarebbe la coscienza del condannato: («non si scrivano cose che tendono in pregiudizio, et offesa dirette, nel indirecte di persona alcuna, perché l’obligo et intenzione della Compagnia non è altro se non il disgravio della coscienza degl’afflitto»20). Il messaggio è più che esplicito e deve essere stato chiaramente inteso dal condannato: niente nomi, nessun’accusa, nessuna 77 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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menzione di crimini o criminali conosciuti, dato che per i Bianchi conta solo la salute delle anime e così dovrebbe essere per il condannato; se sotto tortura una o più persone innocenti sono state infamate, nel discarico si dovrebbe ripristinare la loro fama. I Bianchi sottolineavano nella cappella della prigione la prevalenza della religione sul diritto, ma essendo il nostro obiettivo l’omertà, vorremmo semplicemente mostrare che le inversioni prodotte dai Bianchi sono rilevanti anche per il nostro tema. In effetti, i condannati erano istruiti individualmente per diventare responsabili, davanti a Dio, della pura verità; di fronte agli uomini, invece, era loro richiesto di tenere la bocca chiusa per non pronunziare nomi di colpevoli né infamare degli innocenti. Le pietose norme che i Bianchi lodavano erano ben lontane dalla realtà sociale riportata nei discarichi. Cinque esempi, tratti dal nostro materiale, danno una visione precisa della distanza tra le norme dei Bianchi e le pratiche che i condannati avevano prima della prigionia. Il primo è quello di Filippo d’Ippolito, che il 15 marzo 1712 riferisce: anni otto sono incirca che, trovandosi in Partanna, detto Filippo d’Ippolito si vantò, davanti molte persone, che havea havuto commercio carnale con Caterina la Costa di Partanna, vedova d’età di anni ventisette incirca. Il che tutto fu pura inventione e chiara buggia, non havendo mai conosciuto carnalmente la detta Caterina, la quale era persona honorata e timorata di Dio, ne mai havea fatto simile peccato, ed esser egli stato, con ciò, caggione che li congionti di detta Caterina innocentemente la volessero uccidere, tanto che ella per levarsi il pericolo della vita, si partì di nascosto da Partanna e se ne venne in Palermo, abbandonando la casa propria, la madre, figli, fratelli e sorelle. Onde per discarico della sua coscienza e per salvo della reputazione di detta Caterina, e di tutti li suoi congiunti, ed hanco per decoro della Patria, dice e dichiara che mai la detta ha commesso cosa, essendo innocente, e perché hà patito tanti danni egli, per sua colpa, gli ne domanda perdono e pagarli sarebbe pronto se potesse li danni et interessi patiti per sua colpa21.

Un altro esempio è tratto dal discarico dettato da Nicolao Bruno, il primo dicembre 1724: 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

avendo commesso il delitto dell’homicidio in persona del quandam miserando Mastro Onofrio Coccamisi della città di Calascibetta, per difendersi del sopradetto delitto commesso informò a Petra Bruno, sua moglie, con dire che intanto aveva ucciso il detto di Coccamisi per sospetto d’honore, quando la pura verità si è averlo ucciso per solo motivo d’interesse, del che ne pretende della sua moglie il perdono, e si protesta dichiarare e pubblicare à qualsivoglia persona l’innocenza della sua moglie, e dell’ucciso, e questo per complire all’obligo di vero cristiano, per potere rendere l’anima penitente a Dio suo creatore22.

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Giovanni Mastro Ventursidda di Tusa detta queste parole il primo agosto 1740: avendo anni addietro accusato, innanzi il reverendo sacerdote Don Agostino Ferro come vicario foranso della Terra di Tusa, al reverendo sacerdote Don Baldassare la Mura di aver avuto commercio carnale con la sua moglie, Anna Venturella, ed essendo già costituto alla fine di sua vita, dichiara la detta accusa essere tutta bugia, e falsità, ed averselo inventato per iniquità tanto contro il sudetto sacerdote, quanto contro la moglie. Essendo la sua moglie donna onesta, ed il sacerdote sudetto disgui edificazione, alli quali con tutto lo spirito dimanda umilmente perdono, siccome lo spera dal suo Creatore Iddio di tutti li suoi peccati23.

Vito D’Urso di Ventimiglia detta, il 27 di luglio 1762: che essendo catturato dall’uffiziali della corte di Ventimiglia, essendo interrogato per qual fine avesse commesso il delitto con aver affogata la miseranda sua moglie, lui per scusarsi depose averlo fatto ad istigazione e consulta della sua madre Dorotea. Quandoche ritrovandosi al presente vicino a dar conto della sua vita innanzi al divin Tribunale dice, per discarico di sua coscienza, che la pura verità si è aver uccisa ed affogata la moglie per levarsela d’innanzi, per proprio capriccio e sua volontà perversa, senza mandato, consiglio, e istigazione della madre, che lo disse per scusarsi, e che sua madre non aveva notizia di tal delitto se non quando la vidde morta la mattina24.

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Bartolomeo Lombardo, il quinto ed ultimo esempio, detta il 22 luglio 1785:

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che nella confessione del delitto da lui fatta nella terra dell’Illustrissimo capitano giustiziere di questa capitale, ove asser he la di lui defunta moglie miseranda Margherita Lombardo, gli aveva confessato l’adulterio incestuoso commesso col miserando di lei cognato Benedetto Amante, non esser vero ma averlo il Lombardo unicamente detto per propra difesa e per minorazione della pena per il delitto commesso25.

Questi cinque esempi sono importanti: sottolineano, come già detto, un comportamento diverso da quello raccomandato dai Bianchi. In tutti questi episodi, il condannato ha infamato le persone a lui più vicine e, tipicamente, queste persone erano donne. Inoltre costituiscono documenti fondamentali nella misura in cui scaturiscono dalla normale vita quotidiana, non dalla tortura giudiziaria: i cinque uomini non erano stati suppliziati, né costretti a “chiamare”. Questi episodi sono avvenuti prima della loro prigionia, qualche volta anche molti anni prima, otto nel nostro primo esempio. Erano parte della loro memoria, profondamente celati nella loro coscienza, in quello che i giuristi medievali del diritto canonico chiamavano forum internum, in cui era permesso ai giudici di “frugare” per cercare la verità tramite l’uso della tortura. Ma, faccia a faccia con i Bianchi, è un foro interno che si schiude spontaneamente, essendo stato “convertito” al cristianesimo durante i tre giorni e le tre notti trascorsi in cappella.

Il modello d’omertà pietosa Se allarghiamo lo sguardo agli esempi offerti dai discarichi di coscienza a disposizione, possiamo avanzare l’ipotesi che i Bianchi producessero un contro-modello che funzionava in tre occasioni: contro le pratiche applicate dal sistema giudiziario durante la tortura; contro le norme dell’Inquisizione seguite dai preti durante la confessione, che obligavano ogni possibile credente ad andare a ripetere, davanti al giudice inquisitoriale, la loro confessione privata, denunciando così persone o eventi conosciuti; infine, contro le pratiche ordinarie, quotidiane, del 80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mentire o del truffare o, peggio, del calunniare, usate per semplici smargiassate o per nascondere azioni reprensibili, o per evitare le pene. Il contro-modello dei Bianchi portava il condannato a ristabilire la fama di coloro che aveva denunciato durante la tortura o nella vita reale, dicendo una volta per tutte la pura verità; a non nominare, in nessuna circostanza, nel suo discarico persone a lui note per aver commesso crimini o misfatti. Questo contro-modello sottolinea l’importanza del foro interno, il “divin tribunale”, davanti al quale la coscienza difende le sue passate azioni e ingentilisce le cattive, in uno sforzo supremo per evitare l’inferno. Durante questa fase liminale, il condannato già penetra nella sfera celeste a cui spera di accedere dopo la morte. I Bianchi sono le guide che lo aiutano, durante questo lungo percorso, a raggiungere l’aldilà nelle migliori condizioni. La pura verità è la chiave del foro interno, la pura verità permette al condannato di capovolgere l’infamia in fama. Nel proibire di “chiamare” il nome di persone innocenti o colpevoli, i Bianchi sviluppano un modello di “omertà pietosa”, tenendosi in questo modo a distanza dal “modello del sospetto” generato dai giudici e dall’Inquisizione. Se li paragoniamo alla pratica giudiziaria e all’Inquisizione, notiamo che producono un vero e proprio contro-modello. Sembrerebbe che in Sicilia ci fossero, nel periodo in questione, più modi di purificarsi la coscienza. Al modello funzionale della pratica giudiziaria, che genera sospetti tramite torture e confessioni, fa eco il modello dei Bianchi che deterge la reputazione dei denunciati. È forse questa l’espressione di una tradizione pietosa che soppesa i bisogni del foro interno contrapponendoli agli espedienti giudiziari? O questo modello d’omertà è piuttosto d’ispirazione aristocratica, nella misura in cui i Bianchi erano in maggioranza nobili? Comunque sia la risposta è evidente che non esisteva un “codice del silenzio” applicabile in modo indiscriminato a tutte le situazioni, istituzioni e persone, valido per regolare l’intera società siciliana. La sola forma di omertà praticata coscientemente – vero modello di condotta – era l’omertà pietosa dei Bianchi. I nostri documenti non permettono di trovare forme equivalenti di omertà in altre sfere sociali e culturali. Ma aveva l’omertà, al suo nascere, una pratica e un’istituzione religiosa? Se ciò fosse, com’è possibile che più tardi, in condizioni sociali e giuridiche diverse, si sia sviluppata in un modello fortemente utilizzato davanti alle 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

autorità giudiziarie? Tutte queste domande non hanno ancora risposta, ma la loro riformulazione storica è già oggetto di future ricerche.

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Note 1. È a Palermo, nell’arco degli anni Novanta, che si è svolta la ricerca sul tema Criminalità e santità: la giustizia in Sicilia, nelle principali biblioteche (Regionale, Comunale, Storia Patria) e negli archivi (di Stato e Comunale), come pure durante il soggiorno come visitor alla School of Social Science dell’Institute for Advanced Study di Princeton (1994). 2. Pitrè G., Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, Pedone Lauriel, 1889 (Reprint: Bologna, Forni Editore, 1980), vol. II, pp. 294-295. 3. Cutrera A., Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541-1819, Palermo, Scuola Tip. «Boccone del povero», 1917. 4. Di Bella M.P., La pura verità. Discarichi di coscienza intesi dai Bianchi (Palermo 1541-1820), Palermo, Sellerio Editore, 1999. 5. Ivi, discarichi n. 55 (1712), pp. 113-114; n. 63 (1724), pp. 125-126. 6. Ivi, discarichi n. 59 (1718), pp. 118-119; n. 67 (1760), pp. 128-130 (due volte). 7. Ivi, discarico n. 55 (1712), pp. 113-114. 8. Ivi, discarichi n. 55, pp. 113-114; 59, pp. 118-119; n. 63, pp. 125-126 e n. 67, pp. 128-130. 9. Langbein J., Torture and the Law of Proof. Europe and England in the Ancien Regime, Chicago, The University of Chicago Press, 1977, p. 6, e Peters E., Torture, Londra, Blackwell, 1986, p. 42. 10. Langbein J., Torture and the Law, cit., p. 6. 11. Peters E., Torture, cit., p. 65. 12. Johansen B., Verità e tortura: ius commune e diritto musulmano tra il X e il XIII secolo, in Héritier F. (a cura di), Sulla violenza, Roma, Meltemi, 1997, pp. 90-122. 13. Di Bella M.P., La pura verità, cit., pp. 81-82. 14. Ibidem. 15. Ibidem. 16. Ibidem. 17. Prosperi A., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996, p. 479. 18. Di Bella M.P., La pura verità, cit., p. 190. 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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19. Ivi, p. 187. 20. Ivi, pp. 113-114. 21. Ivi, p. 125. 22. Ivi, p. 127. 23. Ivi, pp. 131-132. 24. Ivi, pp. 149-150.

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La “forza” del silenzio in Sicilia*

L’omertà o legge del silenzio è considerata, oggi, come una tipica strategia dell’associazione criminale conosciuta con il nome di mafia. Ciò non dovrebbe farci dimenticare che l’omertà esisteva, in quanto pratica sociale, nel sistema di rappresentazioni dei contadini siciliani e che per giunta, non è mai stata appannaggio della parte occidentale dell’isola dove la mafia è sorta e si è sviluppata. La regione orientale ce ne fornisce una prova grazie ad un corpus di parità o “storie”, pubblicate nel 1884 da Serafino Amabile Guastella, in cui i contadini giustificano metaforicamente la loro condizione sociale come pure la loro condotta1. Cercheremo di dimostrare, con l’appoggio di sei parità, che la pratica dell’omertà non deve essere confusa con quella spronata dalla mafia, che la “legge del silenzio”, messa in opera per replicare alla violenza delle strutture sociali, agisce a sua volta su questa stessa violenza distogliendola dai suoi obiettivi e opponendole quello che appare, in ogni caso, come un dispositivo di resistenza.

La bipolarità del mondo sociale Dicono che quando Domineddio fece il mondo aveva fatto due forme e non sapeva, di queste due, a chi doveva dare il fiato. Una di queste forme era di creta finissima – di quella con cui si fanno le chicchere – e l’altra forma era di creta di Comiso, di quella con cui fanno le pentole; ma nella * Originale francese intitolato La ‘violence’ du silence, apparso nella rivista «Etudes

rurales», n. 95-96, 1984, pp. 195-203, qui tradotto dall’autrice.

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forma di creta buona il Signore al posto del cervello aveva messo un diamante e al posto del cuore un pezzo di scoria di ferro; e nella forma di creta da pentola al posto del cervello c’era un sughero e al posto del cuore una palla d’oro zecchino. Poi il Signore ci ripensò e dovette dire fra di sé: “Toh! che minchionata che stavo combinando!” e dette l’anima alla forma brutta e l’altra la lasciò nel paradiso terrestre. Ora si dice che una volta Lucifero infernale si trovava a passare nei luoghi e per fare un dispetto a Domineddio, cos’è che fa? Si curva e dà l’anima a quel pupo di creta fine. Ora dicono gli antichi che noialtri “berretti” siamo i discendenti del pupo di Dio e che voialtri “cappelli” siete i discendenti del pupo del diavolo e per questo siete dotti ma non avete né carità né timore di Dio2.

Questa parità rivela di primo acchito l’opposizione fondamentale fra contadini e borghesia rurale: a livello del corpo, del suo contenuto e del suo contenente; opposizione che sussume, sul registro metaforico, la difficoltà delle relazioni fra questi due gruppi sociali, identificati dai loro rispettivi copricapi: i “berretti” e i “cappelli”. Secondo i contadini siciliani questa contrapposizione è dovuta al fatto che le forze del Bene sono state incapaci di costruire e gestire il mondo da se stesse; Lucifero, con la sua presenza, ha saputo contrastare l’azione benefica di Dio. Cosicché la “creazione” di due tipi di uomini è vissuta dai contadini come un’azione che fa loro doppiamente violenza, nella misura in cui non possono né domare i loro destini né essere uguali agli altri uomini. Gli umani si dividono perciò in due gruppi ed ognuno corrisponde ad una delle forze antagoniste. Questa opposizione, che avrebbe potuto attenuarsi nella pratica quotidiana, si solidifica al contrario nel sistema di rappresentazioni come lo testimonia la seguente parità: Quando Gesù Cristo venne in questo mondaccio di guai portò con sé la Giustizia per mettere la concordia e togliere le liti fra le genti. Ora questa Giustizia era una Santa che non aveva riguardi per nessuno ma tirava diritto e non stava a guardare se quello aveva denaro a palate e l’altro le budella vuote come le mie tasche. Ascoltava tutti: i poveri con l’orecchio sinistro, che è l’orecchio del cuore, e i ricchi con l’orecchio 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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destro, che è l’orecchio della mente. Ma questa Santuzza quando non dava udienza stava in una torre di bronzo, chiusa con sette catenacci, né c’era chiave che potesse aprirli. I diavoli vedendo che, da quando la Giustizia era venuta al mondo, anime in inferno non ne piovevano più, tennero consiglio fra di loro e congegnarono una chiave d’oro per aprire quei sette catenacci. Poi si recarono presso gli Scribi e i Farisei, consegnarono loro la chiave e dissero: “Ora sta a voialtri se la Giustizia d’ora in avanti si dovrà chiamare Ingiustizia”. Gli Scribi e i Farisei in quella stessa notte aprirono i sette catenacci, entrarono nella torre e trovarono la Giustizia che dormiva profondamente. Uno di loro, credo fosse il capo, prese un grosso chiodo e glielo conficcò nell’orecchio sinistro. La povera Giustizia diventò sorda come una campana da quest’orecchio e d’allora in poi non poté più ascoltare le ragioni dei poveri e la diede sempre vinta ai ricchi perché sentiva solo da un orecchio3.

Questa seconda parità riafferma la bipolarità del mondo sociale. Una tappa supplementare è tuttavia valicata con l’intervento delle forze del male dato che sovvertono le regole del gioco togliendo al gruppo dei “berretti” ogni possibilità di partecipazione e negando le loro esigenze. I contadini subiscono queste potenze ultra terrene come una prima e inalienabile violenza che pesa su di loro; il constatare l’inefficienza dei loro lamenti – visto che non possono farsi intendere – accresce la loro amarezza. In effetti la Giustizia, imparziale all’inizio della sua elaborazione e delle sue norme di funzionamento, si rivela invece incapace di metterle in pratica e perciò scarta un intero gruppo sociale dai vantaggi e dai benefici legati alla sua esistenza. L’opposizione delle forze del Bene e del Male è illustrata, come abbiamo potuto notare in queste prime parità, dalla creazione di due tipi diversi di uomini: gli uni belli, intelligenti ma senza cuore, gli altri brutti, buoni ma senza cervello, e dal dono di vita conferito dal Diavolo a quelli che il Signore considerava indegni di riceverlo; dopodiché, dall’invio divino di una Giustizia supposta arbitrare le dispute fra gli uomini, ma incapace di risolvere imparzialmente i loro conflitti nella misura in cui il suo orecchio sinistro – l’orecchio utilizzato per ascoltare le ragioni dei poveri – era distrutto. Queste forze, che organizzano in modo assai discordante la genesi e lo sviluppo del mondo, opprimono doppiamente 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la classe contadina: esse oppongono i suoi membri, nel fisico come nelle qualità di cuore e di spirito, agli uomini di condizione superiore, e impediscono che si intreccino tra loro dei veri rapporti, dato che agli slanci del cuore rispondono le astuzie dell’intelligenza. Infine, questa assenza strutturale di dialogo è aggravata dalla sordità, nei loro confronti, del potere giudiziario. Negli apologhi considerati, i contadini progressivamente passano da una visione generale ad una più ristretta, e di tappa in tappa legittimano la loro messa in disparte constatando che la loro impotenza a comunicare è in relazione con gli attributi che li simboleggiano agli occhi della comunità e, di conseguenza, ai propri occhi: il “cuore”, la bruttezza, la “sinistra”, sinonimi di fallimento e di povertà.

I modelli di comportamento Diversi modelli di comportamento sono culturalmente prescritti in questo contesto e le seguenti parità ce li svelano: Una volta il Signore chiamò tutti gli animali per chiedere loro quali virtù avrebbero voluto possedere che lui era pronto a dargliele. La volpe, che è stata sempre malvagia, a furia di morsi e spintoni e a furia d’infilarsi sotto le anche degli altri animali, aveva fatto in modo di prendere il primo posto. Il Signore, che la vide sistemata in prima fila, le disse: “Comare Giovannella, incominciamo da voi. Quali virtù vorreste?” – “Io vorrei la forza, Signore”. In quel punto il leone con un colpo di coda scagliò la volpe una ventina di metri lontano e disse al Signore: “La forza tocca a me che sono il leone”. E il Signore gli concesse la forza. Ma nel frattempo la volpe, a furia di stringersi e raggomitolarsi come un serpente s’era messa di nuovo a capofila. E come il Signore di nuovo la vide le chiese: “E voi, comare Giovannella, quale virtù vorreste?” – “Giacché, o Signore, anche voi fate delle ingiustizie ed io non ho potuto ottenere la forza, datemi almeno la sfacciataggine perché ho visto che in questo mondo va a letto al buio (muore di fame) chi non ha una faccia da predicatore”. In quel momento una mosca volò sopra la testa della volpe e disse al Signore: “La sfacciataggine tocca a me che sono la mosca”. E il Signore gliela accordò. La povera volpe si rodeva tutta dalla rabbia, 88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ma che poteva fare? “Comare Giovannella, disse il Signore, la terza volta canta il gallo, domandatemi quello che desiderate che questa volta vi accontenterò”. – “Signore, disse la volpe, non ho potuto avere la forza, non ho potuto avere la sfacciataggine, datemi almeno la furberia per tirare avanti questi quattro giorni di vita”. E il Signore gliel’accordò4.

Questa parità illustra la necessità di certe condotte contadine di fronte a situazioni loro imposte in una società dove aristocrazia e borghesia dominano grazie alla loro forza e dove il clero si mantiene grazie alla sua impudenza. “Traditi” dal Signore come Gesù lo fu da San Pietro, i contadini giudicano che l’astuzia è l’unica risposta possibile a regole di un gioco stabilito senza di loro. Codesta astuzia, che altro non è se non l’adattamento del debole al gioco del potente, è al contrario rivendicata come un’arma adatta ad ogni tipo di combattimento, unico mezzo possibile di sopravvivenza. Vittime delle forze che governano il mondo e degli uomini che dominano la società, i contadini utilizzano il solo metodo non apertamente violento – in apparenza – lasciato a loro disposizione. Così l’astuzia, congiunta da lungo tempo all’universo contadino, cessa di essere ai loro occhi un difetto per trasformarsi in qualità positiva. Un’altra parità traccia i limiti più che ristretti di una possibile azione contadina: Una volta il Parlare e il Mangiare litigarono fra di loro e non riuscendo ad accordarsi andarono dal Re Salomone perché dirimesse la questione. Il Re disse: “Sentiamo un po’ quali sono le ragioni di questa lite”. – «Maestà, litighiamo perché mentre la Vista, l’Udito e l’Olfatto hanno ognuno due casette, io che sono il Mangiare e questo mio compagno, che è il Parlare, siamo condannati a stare come i ladri, incatenati mani e piedi e tutti e due in una sola casa. C’è Giustizia? Ora quello che desideriamo è di essere separati e di avere assegnata una casetta ciascuno; ma la bocca tocca a me perché sono il Mangiare e se non ci fossi io in questo mondo tutti i cristiani e tutti gli animali potrebbero cantare il requiem aeternam». – “E tu cosa hai da dire?”, chiese Salomone al Parlare. «Io dico che la Bocca tocca a me perché sono più nobile e senza di me non ci sarebbe differenza alcuna fra l’uomo e il pidocchio. Perciò, Maestà, se dobbiamo abitare entrambi in una stessa casetta il Padrone devo es89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sere io e lui deve essere il servo». – «State a sentire che adesso vi metto d’accordo io, dice il Re Salomone. Tu che sei il Parlare dominerai incontrastato nella bocca dei ricchi perché essi hanno il Mangiare assicurato e se non parlassero non avrebbero proprio niente da fare; e tu o Mangiare puoi spadroneggiare a piacer tuo nella bocca dei poveri perché i poveri meno parlano e meglio è. Dividetevi quindi le bocche degli uomini e non pensate più a litigare»5.

L’apologo ci dice che l’uomo ricco, avendo in ogni modo di che mangiare, può permettersi di parlare a sua volontà; il povero, invece, ha interesse a tacere se desidera assicurarsi il “pane quotidiano”. Ma, malgrado le apparenze dell’enunciato che potrebbe lasciar credere ad un opposizione tra il “mangiare” e il “parlare”, il vero conflitto si stabilisce fra uno stato di eccesso per i “cappelli” – poiché mangiano e per di più parlano – e uno di carenza per i “berretti” – poiché non solo tacciono ma inoltre crepano di fame. Questa parità ci dice in sostanza che l’asservimento dei contadini ai proprietari terrieri deve essere totale giacché per disporre d’un pezzo di terra in qualità di mezzadro deve non dire niente, non lamentarsi, accettare tutto. Come se l’astuzia suprema fosse per il contadino di vivere malgrado e contro tutti, senza parlare mai, dato che la parola, divenuta inutile, è un lusso che non può permettersi. L’uomo imbavagliato – l’apologo lo dice senza ambagi – non ha lo status d’uomo ma quello di pidocchio. In che modo i contadini sono condannati a diventare dei pidocchi? E, soprattutto, perché lo rimangono? Forse la prossima storia ce lo racconterà: Fra Illuminato si dice che fosse un monaco santo e il suo convento era in un bosco. Un giorno, mentre era con la bisaccia addosso per la cerca, sente delle grida, si avvicina e vede che un cavaliere aveva ucciso un compagno. Fra Illuminato, senza pensarci due volte, invece di andare per la cerca pensa di andare a raccontare il fatto alla Giustizia. Ha appena fatto pochi passi ed ecco che incontra un coniglio; e questo coniglio tutto festante gli dice: “Dove vai, fra Illuminato?” – “Dove vado? Vado dalla Giustizia”. – “Guardatene bene; ricordati che la famiglia di quel cavaliere è stata sempre benefattrice del tuo convento. Non vi darebbe più elemosina e il Padre Guardiano ti chiuderebbe in cella a pane e acqua”. – “O 90 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pane e acqua, o pane e vino, risponde il monaco, il mio dovere è quello di denunciarlo”. – “Va’, spione infame”, gli dice il coniglio e s’interna nel bosco. Il povero fra Illuminato fa un’altra cinquantina di passi ed ecco che un cagnolino, che una volta egli aveva guarito dalla rogna, gli lecca i piedi e poi gli chiede “Dove vai, fra Illuminato?” – “Dove vado? Vado dalla Giustizia”. – “Guardatene bene, monaco santo, sarebbe la tua rovina. La famiglia di quel cavaliere ha denari da buttare a fiumi e vedrai che a furia di soldi i giudici lo tireranno fuori dalla faccenda candido come la carta e tu invece rimarrai nei guai, perché in questo mondo sono sempre le pezze ad andare per aria”. – “Guai o non guai, dice il monaco, il mio dovere è di denunciarlo”. – “Va’, scellerato, va’, spione maledetto”, e per miracolo non l’addenta alla gola. Fra Illuminato fa un altro mezzo miglio di strada ed ecco che da un gregge esce un agnello e gli va saltando davanti in segno di gioia e poi, come gli altri, chiede: “Dove vai, Fra Illuminato?” – “Dove vado? Vado dalla Giustizia”. – “Guardatene bene, gli dice l’agnellino, che questa è una tentazione del diavolo; guarda che fai il tuo male”. – “O male o no, il dovere mio è di denunciarlo”. – “Va’, spione, va’, vendi la carne battezzata”, gli dice l’agnello e torna di corsa alla mandria. Cammina, cammina fra Illuminato arriva davanti alla porta della città e sopra questa porta si dice che c’era congegnata una statua magica, la quale, quando s’accostava qualche nemico portava alla bocca una tromba che teneva in mano e suonava alla disperata. Ora quella statua al vedere il monaco che si avvicinava sgrana tanto d’occhi e sta per suonare; e fra Illuminato le chiede: “Perché suoni? Sono forse un nemico?” – “Tu sei il vero nemico di questa città, gli rispose la statua. E che ti pare cosa da niente il fatto che vuoi denunciare quel cavaliere che sarà il benefattore di questa città? Ora devi sapere che questo cavaliere col tempo diventerà un gran santo e tutti i suoi beni li lascerà ai poveri e agli orfanelli. Torna indietro alla svelta e vattene in convento”. Fra Illuminato pensa che è volontà di Dio che non vada dalla Giustizia e al ritorno il coniglio, il cagnolino e l’agnello gli fanno gran festa6.

Andare ad ogni costo contro corrente non rende: è quello che i contadini non smettono di ripetersi per convincersene. Meglio fingere l’ignoranza, non intromettersi in ciò che è stato stabilito senza di loro, giacché la sopravvivenza è garantita solo al prezzo di una falsa indifferenza verso gli eventi sociali che li circondano e che certo non ignorano. Il mondo 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della natura, qui rappresentato dal coniglio, dal cane e dall’agnello, è partecipe di questo istinto di conservazione. La società, personificata dalla statua alla porta della città, l’erige in norma. La passività, considerata come unico modello di comportamento adeguato, consente ai contadini di rispondere alle violenze subite con una forma diversa di violenza che dà loro la possibilità di non demarcarsi: il silenzio. Le tre ultime parità illustrano le condotte che i contadini preconizzano ai loro simili: l’impiego dell’astuzia e soprattutto l’impiego di ciò ch’essi considerano come il colmo di questa astuzia: il silenzio. Questo silenzio, abilità suprema nell’arte di sopravvivere, è la traduzione di diversi imperativi di ordine morale e pratico: dalla sottomissione all’attesa di un’occasione propizia per insorgere; dal consenso al rifiuto ma non formulato nella misura in cui il dialogo con gli altri membri della società non può aver luogo; dall’identificazione di una situazione di violenza dove l’ascolto è negato loro all’adesione a una nuova forma di violenza, il rifiuto di parlare7. Grazie al silenzio si può così passare dalla passività all’opposizione senza che quest’ultima appaia come tale agli occhi degli osservatori.

La poesia come soluzione Gli apologhi precedenti costituiscono altrettante esortazioni alla riserva, vera o finta. Il seguente, invece, propone un’altra soluzione, ben più ardita: Un giorno, un villanello riceve la visita di Gesù e dei dodici apostoli e vedendo un gran miracolo dice: «Siete voi forse il figlio di Dio di cui tutti tanto parlano per i gran miracoli che va facendo? E se così, sia benedetta la vostra venuta in questa casa, perché voi solo, o Signore, potete raddrizzare questa barca. Io possiedo questa casetta, questi quattro filari di vigne, quest’orticello che vedete e questo fazzoletto di terra e con tutto ciò non sono padrone di niente. In quel castello lì di fronte abita un cavaliere che mi porta con le spalle al muro: io semino e il seminato se lo mangiano i suoi polli e le sue vacche; io zappo la vigna e l’uva se la mangiano i suoi guardiani; io lavoro nell’orto e i suoi mulattieri me lo riducono come la palma di una mano. E tutto ciò perché vorrebbe che gli 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vendessi questo poderetto. Non essendoci riuscito, quell’anima dannata incominciò a fare le moine a mia moglie. La femmina è canna! si sa; si lasciò convincere dalle sue parole ed ecco che un giorno mi pianta e se ne va a stare con lui. Che debbo fare? se ricorro, i giudici sono dalla sua parte; se mi lamento, i suoi campieri mi riducono come un Ecce Homo. Cornuto e bastonato, come dice l’antico proverbio. Ora io vorrei, Maestro, che, senza mio pericolo, potessi svergognarlo di fronte a tutti e raccontare a tutti le cose infami che va facendo» – «Per fare questo, gli dice il Signore, dovresti essere poeta perché in questo mondo solo il poeta puo dire la verità senza avere paura di nessuno. Vieni qui, figlio mio, inginocchiati che ti voglio dare il dono della poesia» […] D’allora in poi il villano incominciò a fare poesie terribili contro i cavalieri; e i cavalieri si rodevano tutti ma non avevano cosa farci perché il poeta quando dice la verità non ha paura di nessuno. E il cavaliere dovette restituirgli la moglie e domandargli perdono8.

La sola parola che i contadini si autorizzano a proferire è di ordine metaforico9. Tuttavia essa raggiunge il suo obiettivo dato che parla della Verità. Se la Giustizia è sorda da un orecchio e non può udire il rustico, la Verità al contrario esce dalla bocca di quest’ultimo ma sotto forma di poesia, dono consentito al contadino una volta per tutte dalle forze del Bene che lo spalleggiano nella lotta contro le forze del Male. La poesia si sostituisce così al silenzio, diventa uno sbocco al mutismo imposto ai contadini, un vero mezzo di azione; non sorprende che sia questa figura trasposta e metaforica del “parlare” ad opporsi al silenzio, espressione interiorizzata del rifiuto. I contadini ribaltano perciò dal “non detto” al detto “in altro modo”, due attitudini opposte che li differenziano nelle relazioni con gli altri membri della società, dato che sono al di qua o al di là di una comunicazione “normale”.

Strategie del “silenzio” Le sei parità qui esposte meritavano a più di un titolo di esserlo, dato che abbiamo visto delinearsi durante tutta la nostra lettura delle spiegazioni e delle raccomandazioni che ci hanno aiutati, d’apologo in apolo93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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go, a capire meglio il ruolo che i contadini si riservano e le condotte che privilegiano in un contesto ostile. Il primo commento che si potrebbe fare sui testi riprodotti è lo stesso di quello fatto sin’ora: i contadini spiegano le loro condizioni di vita come una fatalità dovuta a delle “forze” superiori, difficili da combattere e definiscono i comportamenti da seguire come azioni imposte: rispetto della “legge del silenzio”, denuncia delle loro condizioni ma in forma poetica, utilizzazione dell’“astuzia” nelle relazioni con gli altri. Questo aspetto “attivo” del comportamento prescritto è tuttavia sfumato da un secondo commento che già si profilava dietro il primo: i contadini si vedono attraverso gli occhi degli “altri” (i “cappelli”, aristocratici e borghesi) ma invertono le caratteristiche a loro attribuite, da negative in positive, assumendole in seguito (il silenzio, l’astuzia, il furto, la pigrizia, ecc.). Così le parità non sarebbero più l’espressione di una “visione” che i contadini hanno di loro stessi, ma piuttosto l’interiorizzazione della “visione” che gli altri si fanno di loro e che accettano passivamente, invertendone i valori10. Il terzo commento è il seguente: abbiamo visto che i contadini si “raccontano” e si “raccomandano” azioni specifiche, principalmente “dettate” da una classe che li costringe a determinati comportamenti. Ma, dopotutto, la suprema astuzia non è quella di mettersi in scena secondo modalità imposte dal mondo sociale? Il messaggio non è meno nel contenuto del loro discorso che nella sua forma, cioè nell’enunciazione piuttosto che nella significazione che sfuggirà invece, e per sempre, agli osservatori, così com’è sfuggita alla classe dei “cappelli”? È dunque nel fatto di narrare delle parità, dove si descrivono allo stesso modo in cui sono percepiti dall’esterno e dove assumono certe condotte reputate “inoffensive” – come l’omertà –, che i contadini giocano d’astuzia con il loro uditorio facendogli credere che sono rassegnati alla loro condizione, piazzandosi nello stesso tempo in un “altrove” che gli altri ignorano completamente. La violenza dei comportamenti e dei discorsi opera dunque in un registro sempre più astratto giacché, rispondendo ad un atto di violenza con un discorso dove il significato costituisce una falsa replica, una replica dissestata, i contadini annullano contemporaneamente il senso del loro referente e spostano le loro rivendicazioni in un universo inaccessibile ai loro avversari. 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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In conclusione, le relazioni d’opposizione di classe non sono vissute nella coscienza contadina come relazioni di violenza che conducono ad affronti radicali. Questi sono avvertiti come un momento di violenza che minaccia la loro soppravvivenza e sono perciò differiti costantemente, respinti ad una fase ulteriore grazie alla strategia dei “berretti” che non si fanno mai trovare là dove li si cerca. In questo gioco a rimpiattino, degno delle migliori commedie pirandelliane, i contadini dominano le tecniche della sopravvivenza sociale spostando costantemente le loro pedine sulla scacchiera dove si svolge l’interminabile partita che eseguono con i “cappelli”: dicono solo quello che si aspetta che dicano, fanno credere che sono come si immagina e mettono in riserva il loro potenziale di violenza per altri luoghi e altri tempi. La loro “violenza” prende tutto il suo senso nel fatto di dire che, per il momento, non c’è niente da dire. Note 1. Serafino Amabile Guastella precisa, nelle prime pagine del suo libro, Le parità morali, Bologna, Cappelli Editore, 1968 [1884], p. 28, che «il villano non ama i lunghi ragionamenti ma concentra tutta quanta la sua dottrina in un proverbio o in un apologo ch’egli intitola “parità”, o in qualche bizzarra leggenda da lui chiamata “storia”, tanto più creduta quanto più inverosimile». Nella sua introduzione alle Parità e le storie morali dei nostri villani (Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1976), Italo Calvino scrive: «I villani di Guastella non risalgono mai; non un raggio di speranza illumina il quadro; se ci fu mai scrittore cui non si può imputare la minima mistificazione consolatoria, quello è lui» (p. 11). E ribadisce che «la sua vera vocazione era di scrittore moralista, una vocazione che egli riuscì a mettere a fuoco proprio attraverso queste ricerche di folklore. Il taglio ideale per i suoi libri era questo: un discorso in prima persona in cui il documento di folkore si mescola alla rappresentazione narrativa e al saggio di costume, con il costante intento di definire una società, una condizione umana» (p. 7). Ringrazio Elsa Guggino di avermi segnalato lo scritto di Calvino. 2. Guastella S.A., Le parità morali, cit., p. 189. 3. Ivi, p. 233. 4. Ivi, pp. 217-219. 5. Ivi, pp. 233-235. 6. Ivi, pp. 235-239. 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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7. Parlando del silenzio, Michel Foucault [Storia della sessualità 1. La volontà di sapere (Histoire de la sexualité 1. La volonté de savoir, 1976), Milano, Feltrinelli, 1978], lo definisce “un nouveau régime des discours”. Ecco la sua giustificazione: «Le mutisme lui-même, les choses qu’on se refuse à dire ou qu’on interdit de nommer, la discrétion qu’on requiert entre certains locuteurs, sont moins la limite absolue du discours, l’autre côté dont il serait séparé par une frontière rigoureuse, que des éléments qui fonctionnent à côté des choses dites, avec elles et par rapport à elles dans des stratégies d’ensemble. Il n’y a pas à faire de partage binaire entre ce qu’on dit et ce qu’on dit pas; il faudrait essayer de déterminer les différentes manières de ne pas les dire, comment se distribuent ceux qui peuvent et ceux qui ne peuvent pas en parler, quel type de discours est autorisé ou quelle forme de discrétion est requise pour les uns et les autres. Il n’y a pas un, mais des silences et ils font partie intégrante des stratégies qui sous-tendent et traversent les discours» (pp. 38-39 dell’edizione originale). 8. Guastella S.A., Le parità morali, cit., pp. 243-245. 9. In questo volume, il capitolo VII, “False testimonianze per un omicidio palermitano”, illustra come il discorso metaforico può essere utilizzato da più strati sociali. 10. A questo proposito, ricordiamo la bella citazione di Pina Rota Fo (Il paese delle rane, Torino, Einaudi, 1978, p. 92), sulla donna contadina: «l’hanno abituata a guardare la verità capovolta, come quello che guardava solo le stelle, la luna e il sole dentro lo stagno e così credeva che i pesci stessero fra i rami degli alberi e gli uccelli sott’acqua».

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Cantare il silenzio. Il tema dell’omertà nei canti dei carcerati siciliani*

La vendetta e l’omertà sono da tempo percepite come strategie proprie dell’associazione criminale denominata mafia, benché in effetti facessero anche parte della tradizione culturale dei giornalieri agricoli siciliani. Per chiarire questi concetti, discuteremo del corpus novecentesco di canzoni composte nelle prigioni siciliane, visto che danno una visione, senza apparente distorsione, della logica del codice dell’onore, dominante all’epoca in Sicilia. Prima di riferirci al corpus in questione, è bene discutere alcuni principi di questo codice.

Onore individuale e onore collettivo Nelle società mediterranee, dove le obbligazioni erano tradizionalmente fondate sugli accordi orali, solo l’onore individuale e, a più forte ragione, l’onore collettivo, potevano garantire il rispetto e l’esecuzione di un patto. Per cui ogni uomo era investito, alla nascita, da una quota dell’onore derivante dalla sua famiglia o dal suo lignaggio: faceva così parte di un insieme che gli delegava, tra le altre cose, la sua “parte” dell’onore collettivo ch’era suo dovere proteggere e sviluppare. D’altro canto, l’onore apparteneva in solido alla famiglia o al lignaggio ed era trasmesso da una generazione all’altra come un legato: poteva essere aumentato o diminuito da ogni membro individualmente, uomo o donna, attraverso un comportamento lodevole o vergognoso. * Originale inglese intitolato To sing of silence. The theme of omertà in Sicilian prisoners’ songs, apparso in Damianakos S., Handman M-E., Pitt-Rivers J., RavisGiordani G. (eds.), Brothers and others. Essays in honour of John Peristiany, Atene, E.K.K.E., 1995, pp. 97-107, qui tradotto dall’autrice.

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Onore e vergogna sono la costante preoccupazione d’individui in società di piccole dimensioni, esclusive, dove le relazioni personali faccia a faccia, contrariamente alle relazioni anonime, sono di un’importanza capitale e dove la personalità sociale dell’attore è tanto significativa quanto il suo ruolo. All’interno dei gruppi minimi di solidarietà di queste società, che siano piccole o larghe famiglie o clan, le sfere d’azione sono ben definite, non sovrapposte e non competitive1.

Per queste ragioni, il rispetto delle regole di condotta e il suo grado di conformità sono un modo per valutare il comportamento individuale che la società avrà modo di plaudire o condannare. Il ruolo maschile differisce dal femminile: un uomo deve essere “costantemente in scena, per corteggiare perennemente l’opinione pubblica degli ‘uguali’ in modo da farsi definire meritevole”2, mentre il ruolo delle donne si svolge dietro le quinte. Questa opposizione è rinforzata dal severo imperativo prescritto agli uomini: fare silenzio; come dice un proverbio, “l’uomo di panza è omu”3, cioè “solo un uomo capace di mantenere i segreti nel suo ventre è un Uomo”. Le donne, al contrario, sono supposte parlare, dato che l’obbligo dell’omertà non è loro imposto. Perciò, in questo saggio ci focalizziamo esclusivamente sugli ideali e le attitudini maschili. Dalla loro giovinezza sino ad un’età avanzata, gli uomini devono aver cura e difendere i membri della loro famiglia: per primi, i genitori come pure i fratelli e le sorelle, dopodiché le mogli e i figli, dato che «la prima qualifica per un uomo d’onore è di essere onorato nella propria famiglia»4. Per cui, l’audace coraggio e il saggio discernimento caratterizzano queste diverse fasi della loro vita. Le relazioni al di fuori dalla sfera familiare possono produrre dei conflitti di valori5, ma spetta al capo famiglia risolverli riconciliando la situazione del momento con gli ideali dell’onore, cosa che d’abitudine riesce a fare con grande maestria. L’onore personale e l’onore collettivo determinano diverse attitudini o strategie; il primo è legato a delle specifiche virtù: per gli uomini, la capacità di tener alto il loro Nome e, per le donne, l’abilità nel conservare la purezza del sangue della famiglia. L’onore collettivo invece è legato all’omertà, un modo più che efficace di difendere la propria famiglia dalla società coprendone le azioni o i progetti con un prudente velo di silenzio. Le azioni che gli uomini compiono sulla scena sociale per conto del98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la loro famiglia sono in effetti benefiche solo se non svelano nessuno dei segreti quando incontrano persone al di fuori dal cerchio familiare. L’omertà, la legge del silenzio, tipica attidudine siciliana, garantisce che i segreti familiari saranno mantenuti. Il “divario tra il Noi e Loro”, che J.G. Peristiany sottolinea fortemente nel saggio pubblicato in Honour and shame6, è presente in Sicila come in Alona, il villaggio cipriota a cui lo studioso si riferisce. È l’omertà che sminuisce tale divario assicurando che i segreti di ambo le parti saranno preservati. La solidarietà familiare, che impedisce agli uomini di rivelare le strategie comuni al mondo esterno, detta per di più il loro comportamento quando entrano a far parte di unità non appartenenti alla sfera parentale. Sono rivelatori, in proposito, i canti dei carcerati dal momento che illustrano il modo in cui i carcerati si comportano verso il gruppo degli “amici” o degli associati sia all’interno che all’esterno del carcere e i vantaggi che traggono da questa associazione: mantenere il “silenzio” per quel che concerna gli amici e applicare la vendetta ai nemici o ai traditori.

I canti dei carcerati siciliani: origine, sviluppo e tematiche I canti che analizzeremo sono dei componimenti popolari denominati canzuni (ottave di endecasillabi a rima alternata) in cui vengono espressi sentimenti vari, per cui troviamo canzuni di amore, di gelosia, di separazione, di odio, di disperazione e di carcere. Esse rappresentano, secondo il Pitrè7, “la sola poesia propria, nazionale, siciliana”. In tutte le importanti raccolte effettuate durante il diciannovesimo secolo, ci imbattiamo in canzuni che riguardano più particolarmente il carcere: Vigo ne propone novantacinque, compresi gli stornelli (ciuri) sullo stesso argomento, Salomone Marino ne aggiunge cinquantatre; Avolio ne rintraccia quattordici, Pitrè ventotto e Favara sedici8. Antonino Uccello, nel suo Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, ripropone quarantadue canti tratti dalle raccolte degli autori citati e lui stesso ne propone sessantuno, registrati durante gli anni Sessanta nella zona di Particino, Siracusa, Noto, presso contadini e artigiani. I canti dei carcerati hanno avuto ampio sviluppo nel Meridione. In Sicilia devono la loro larga diffusione sia ai carrettieri che, spostandosi 99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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da paese a paese, ne propagavano i temi e i motivi, sia ai giornalieri che emigravano, durante l’epoca dei lavori, da un campo all’altro cantando questi motivi in coro. I componimenti, come suggerisce lo stesso Uccello, sono senza dubbio dovuti ai carcerati medesimi; anche se si annoverano fra di loro anche figure di noti poeti, per esempio Antonio Veneziano e Giuseppe Bonafede, autori di alcune popolari canzuni. Benché i componimenti siano principalmente legati agli avvenimenti personali degli autori, affiorano in quasi tutti, o ne sono l’argomento principale, motivi di protesta contro la società: i carcerati descrivono il luogo in cui vivono ed espongono le ragioni del loro arresto; protestano della loro innocenza e si dicono certi della loro assoluzione; denunciano la corruzione dei giudici da cui dipende la loro messa in libertà; si lamentano della loro solitudine e delle dure condizioni detentive; invocano la madre o l’accusano di non aver saputo educarli; cantano la loro nostalgia dell’amore oramai lontano, piangendone il distacco o, invece, maledicendo l’amante che li ha traditi; ostentano il loro odio per l’infame, o per lo sbirro; anelano alla libertà per poter attuare la loro vendetta; raccomandano l’osservanza del “codice” e assicurano il “rispetto” dell’omertà.

L’opposizione interno/esterno, positivo/negativo Esaminando le canzuni dei carcerati, abbiamo notato che i prigionieri rappresentano il loro posto in società e le relazioni che avevano con gli altri in accordo con il codice d’onore menzionato. Questa rappresentazione ci permette d’individuare un modello che permane nelle varie canzuni. In effetti, un omu divideva le persone con cui stabiliva un rapporto in due gruppi: quello dei simili a lui e quello dei diversi da lui. Nel primo gruppo troviamo la famiglia, gli alleati e i nemici; nel secondo gli estranei. Ego dunque stabiliva delle relazioni sintagmatiche che lo connettevano agli altri, oscillando tra consanguinei ed estranei. Allo stesso tempo aveva relazioni paradigmatiche che riducevano i suoi contatti con gli altri ad una sola di queste categorie, dato che una persona poteva solo essergli parente, amico, nemico o estraneo. J.G. Peristiany sottolinea che: 100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Tutte le forme di parentela [consanguinea, affine e spirituale (compadrazgo)], come pure l’amicizia, le relazioni di ospitalità, le clientelari, o quelle con gli statali o i loro colleghi sono utilizzate a buon intento. In queste situazioni ci sarà un conflitto di doveri. Il reclamo del philothimo (il codice dell’onore) in questo contesto, è l’incitamento ad agire nel modo prescritto da una particolare relazione9.

Nei canti considerati troviamo un modello diverso da quello proposto da Peristiany, senza conflitto di doveri, dato che i carcerati sono legati alle loro madri, amici o nemici, con cui si associano; per converso, si oppongono agli sbirri – gli ’nfami – cioè alle guardie carcerarie che, a loro avviso, dovrebbero essere distrutte ed eliminate dalla faccia della terra. Sono quattro i principali rapporti cardinali che governano, come abbiamo visto, l’orizzonte dei carcerati: la consaguineità, l’amicizia, l’inimicizia e l’infamità. Questi rapporti sono distinti in positivi e negativi, la consanguinità essendo caratterizzata come risolutamente positiva e l’infamia come risolutamente negativa, mentre l’amicizia e l’inimicizia sono percepite come ambigue. In effetti, l’amicizia è inclusa nel gruppo positivo, quello dei “simili”, dato che può essere assimilata, essendo simbolicamente equivalente alla fratellanza, ad un rapporto consanguineo; può però deteriorarsi e raggiungere il punto dell’inimicizia. Dall’altro canto, l’inimicizia può trasformarsi in amicizia dopo un lungo periodo di conflitti, con un matrimonio combinato tra le opposte famiglie per cimentare la nuova alleanza10. Osserviamo più da vicino le canzuni scelte, per sottolineare, tramite qualche brano, le relazioni in questione. Numerosi sono i canti dedicati alla madre del carcerato, immancabilmente percepita in luce favorevole: egli si rivolge a lei in ogni frangente, come ad una figura sacra. In effetti è lei che perdona e dimentica, che prega, assiste, rimprovera o dà speranza, e lui l’invoca più spesso dei santi. Ecco cosa il detenuto raccomanda11: Piangete, madri, piangete, piangete per questi afflitti e sconsolati che notte e giorno muoiono di sete: in queste quattro mura son gettati

dato che: 101 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il carcere di Sciacca è nominato, per ferro non può uguagliare San Vito; chi vi ha un fratello e chi un marito, mia mamma ha me, lo sfortunato.

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I carcerati si rivolgono spesso ai loro vecchi amici per lamentarsi, soprattutto della loro indifferenza e del loro tradimento, visto che «i doveri sono ben definiti ed ognuno conosce la propria posizione in relazione alla parentela e, in misura minore, in relazione ad un rapporto simile, l’amicizia»12. Se, oltrettutto, sono stati effettivamente ingannati da loro, li piazzano tra i traditori, i loro nemici naturali. In un canto registrato da Antonino Uccello a Canicattini Bagni, il carcerato racconta come gli amici hanno reagito al suo imprigionamento13: Tutti gli amici miei contenti furono quando in carcere mi portarono: apparecchiaron la tavola e mangiarono come avessero trovato il tesoro.

Il sentirsi abbandonato dagli altri sembra farsi sempre più insopportabile per il carcerato, che in un canto raccolto a Montelepre, dice14: Tutti gli amici m’hanno abbandonato, pure i parenti m’han misconosciuto.

O ribadisce con rancore: quanti amici sbirracci ho lasciato, traditori e nemici di Dio.

E quando parla dell’infame, lo sbirro, ecco la ricetta che il detenuto raccomanda a suo proposito15: Prendi l’infame e fallo pezzi a pezzi, pestalo bene e riducilo in poltiglia, e poi lo metti in un’oscura fossa, coprilo bene che non lo colpisca il vento. 102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Omertà e vendetta L’omertà e la vendetta sono connesse con le relazioni ambivalenti che i carcerati hanno con i loro amici o nemici. Spesso, queste ambigue relazioni sono scambiate a vicenda: l’amicizia, meno fidata della consanguineità, può comunque metaforicamente e in pratica confondersi con essa. Ma può anche slittare nell’inimicizia, che, a suo turno, è suscettibile di trasformarsi in un’alleanza più che gradita. L’omertà e la vendetta sembrano perciò funzionare come un mezzo per controllare l’ambiguità di queste due relazioni, separandole l’una dall’altra in modo da determinare chiaramente il ruolo che ognuna deve giocare. L’omertà, uno degli imperativi di base del codice dell’onore, forza un uomo a mantenere l’obbligo del silenzio quando è implicato con altre persone. La relazione d’amicizia usufruisce di questo ordinamento morale dato che è refrattaria al tradimento. La vendetta, d’altro canto, obbliga un uomo a difendere il suo onore da ogni attacco, permettendogli di eliminare i nemici del proprio gruppo. L’omertà impedisce agli uomini di diventare traditori mentre la vendetta permette loro di vendicarsi quando sono traditi. L’etica dell’omertà garantisce un minimo controllo delle relazioni sociali, anche se non può mai essere altrettanto perfetta di quella assicurata dalle relazioni consanguinee. Nel frattempo, il principio di vendetta promette la punizione adeguata a coloro che mancano alla legge del silenzio o ad ogni altra clausola del codice dell’onore. Gli usi dei termini discussi sono esemplificati nei canti dei carcerati. Ecco quali avvisi si danno riguardo all’omertà16: Quando parli soppesa le parole: un uomo d’onore ha da saper parlare.

Dato che: L’uomo ch’è uomo non rivela mai, neanche se riceve colpi di coltello.

L’obbligo dell’omertà porta ad uno specifico modo di comportarsi17: 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non t’immischiare e non t’impicciare; non fare bene ché male ti viene.

E

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Se pericolo vedete, da parte statevene, riguardatevi la vita e la salute; […] non date ascolto se siete interpellati, fingetevi stupidi e storditi: alla fine delle schioppettate si conteranno i morti e i feriti.

La relazione che il carcerato ha con gli amici che l’hanno tradito, sia all’interno che all’esterno del carcere, è subordinata alla tradizione che gli “ordina” senza ambagi di vendicarsi dei traditori18: Sono come un coniglio in una tana, circondato da sbirri e traditori. […] E se arriverò a uscire da questa tana risposta voglio dare a questi traditori.

O: Ma se vivrò, mi prendo la vendetta; di piombo gliela prendo la misura.

Una sola idea, sempre quella, lo assilla quotidianamente: la vendetta; e perciò egli dice ai traditori19: Vi meritate le lingue strappate, e fin dalle radici che tenete,

avvertendoli esco come un serpente avvelenato, si guardi da me chi m’ha tradito. 104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Infine, quando la vendetta è a portata di mano, griderà trionfalmente, compiendola20: Muori, e sei morto, infame e traditore! Ora che tu sei morto riacquisto il mio onore.

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*** Le relazioni che caratterizzano la società siciliana sono strettamente controllate dal codice dell’onore: «è solo in un contesto di valori condivisi, attivi, e in relazioni tra persone – non tra individui anonimi – che il philotimo (il codice dell’onore) diventa operativo»21. La prima e più importante relazione è quella con i membri della propria famiglia. Questa relazione è sempre connotata positivamente. D’altro canto, le relazioni all’infuori del gruppo familiare devono essere neutralizzate dato che presentano molteplici aspetti che spaventano per la loro ambiguità: per questa ragione, l’omertà, la legge del silenzio, assicura che nessun danno sarà arrecato al proprio onore o a quello della propria famiglia nel contrattare una relazione “esterna”. Se questo tacito patto è rotto, se uno è veramente stato tradito, la possibile e attesa risposta è la vendetta, unico modo per riacquistare il proprio onore. Al di fuori della sfera dell’onore, gli estranei, i vili o gli infami sbirri esistono, ma nessuna relazione è prevista con loro dato che nessun onore è trasmesso in questo rapporto; per cui devono essere soppressi appena possibile. L’omertà e la vendetta sono i due modi che la società siciliana, così profondamente familiare, ha scelto per organizzare le relazioni fuori casa, superando in questo modo, senza danno, il “divario tra il Noi e Loro”22.

Note 1. Peristiany J.G., Honor and Shame. The values of Mediterranean Society, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1965, pp. 11: «Honor and shame are the constant preoccupation of individuals in small scale, exclusive societies where face to face personal, as opposed to anonymous, relations are of paramount importance and where the social personality of the actor is as significant as his 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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office. Within the minimal solidarity groups of these societies, be they small or large families or clans, spheres of action are well defined, non-overlapping and non-competitive». 2. Ibidem: «Constantly on show, forever courting the public opinion of “equals” so that they may pronounce him worthy». 3. Pantaleone M., Il Sasso in bocca. Mafia e Cosa Nostra, Bologna, Cappelli Editore, 1971, p. 52. 4. Peristiany J.G., Honor and Shame, cit., p. 181: “The first qualification for a man of honour is to be honoured in his own family”. 5. Ivi, p. 24. 6. Ivi, p. 173: “Cleavage between the Us and They”. 7. Vigo L., Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, Catania, 187074 [canti nn. 3094-96, 3100, 3104-08 e 3134-3220]; Salomone Marino S., Canti popolari siciliani in aggiunta a quelli del Vigo, Palermo, 1867 [canti nn. 550-598, 625, 655]; Avolio C., Canti popolari di Noto, Noto, 1875 [canti nn. 629-642]; Pitrè G., Canti popolari siciliani, Palermo, 1891 [canti nn. 421-448]; Favara A., Corpus di musiche popolari siciliane, a cura di Ottavio Tiby, Palermo, 1957 [canti nn. 2-3, 9-10, 40-41, 54, 63, 107-108, 188-189, 224, 256, 263, 467]. Sulle difficili relazioni tra Pitrè e Vigo riguardo alla raccolta di questi canti, vedere Bonomo G., Pitrè la Sicilia e i Siciliani, Palermo, Sellerio Editore, 1989. Per una visione storica di questi canti, vedere Pagliaro A., I Primordi della lirica popolare in Sicilia, Palermo, Edizioni Sansoni Antiquariato, 1957; per un’analisi critica della poesia popolare italiana, vedere D’Ancona A., La Poesia popolare italiana, Livorno, Vigo, 1878, Cirese A.M., La Poesia popolare, Palermo, Palumbo, 1958 e Pagliaro A., Forma e tradizione, Palermo, Flaccovio, 1972. 8. Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, introduzione di L.M. Lombardi Satriani, Bari, De Donato, 1974. 9. Peristiany J.G., Honor and Shame, cit., p. 186: «All forms of kinship [consanguineous, affinal and spiritual (compadrazgo)], friendship, host-guest, patron-client, relationships either with the civil servant concerned or his colleagues are used to good effect. In these situations there will be a conflict of duties. The claim of philothimo (the code of honour), in this context, is the incitement to act in a manner prescribed by a particular relationship». 10. Cagnetta F., Banditi a Orgosolo, Firenze, Guaraldi, 1975, pp. 191-240. 11. Vigo L., Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, cit., canto n. 3193: «Chianciti, matri, chianciti, chianciti,/ chianciti a chisti afflitti e scunsulati,/ ca notti e jornu arraggianu di siti:/ cca ‘ntra sti quattru mura su’ jittati»; Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., canto n. 63: «Lu carzaru di Sciacca iè mintuato,/ e ppi fierru ‘un po’ appattari a Santu Vitu;/ cu’ 106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cci avi un frati e cu’ cci avi un maritu,/ ma mamma cci avi a mia, lu sfurtunatu». 12. Peristiany J.G., Honor and Shame, cit., p. 187: «Duties are well-defined and one knows one’s place in relations of kinship and to a much smaller extent in relations of a similar type, friendship». 13. Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., canto n. 83: «Tutti l’amici miei cuntenti fuoru/ quannu carciaratieddu mi purtaru:/ si cunzaru la tavula e-mmanciaru/ come avissiru truvatu lu trisoru». 14. Ivi, canto n. 50: «Tutti l’amici m’hannu abbannunnatu,/ puru i parienti m’hanno scanusciutu»; Avolio C., Canti popolari di Noto, cit., canto n. 631: “Quantu amici sbirruna ca lassai,/ trarimintusi e nimici ri Diu!”. 15. Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., canto n. 33: «Pigghia lu ’nfami, e fallu morsa morsa,/ pistilu beni e ridùcilu ‘nguentu,/ e pui lu minti ni na scura fossa,/ lu ntuppi beni p’un cogghiri vientu». 16. Avolio C., Canti popolari di Noto, cit., canto n. 643: “E quannu parri, pisa li palori:/ n’omu r’anuri ha sapiri parrari”; Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., canto n. 51: “L’omu ch’è omu nun rrivela mai,/ mancu si havi corpa di cortellu”. 17. Ivi, p. 27: “’Un t’ammiscari/ e ‘un ti ntricari;/ nun fari bbeni/ ca mali ti veni”; Salomone Marino S., Canti popolari siciliani, cit., canto n. 625: «Si priculu viditi, arrassu stati,/ guardativi la vita e la saluti;/ […] nun dati cuntu si siti chiamati,/ faciti li locchi e li strurduti:/ a la finuta di li scupittati/ si vidinu li morti e li firuti». 18. Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., canto n. 98: «Sugnu comu n cunigghiu nti la tana,/ e- ffirriateddu di bbirri e nfamuna:/ siddu c’arrivu a-nnèsciri i sta tana/ rrisposta cci la dugnu e li nfamuna»; Vigo L., Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, cit., canto n. 3153: “Ma siddu campu, di vencia mi passu;/ di chiummu ci la pigghiu la misura”. 19. Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., canto n. 103: “Vi miritati li lingui scippati/ e-ffinu li raricuni chi tiniti”; ivi, canto n. 68: “Nièsciu comu un sirpenti ‘mmilinatu:/ guardativi di mia cu m’ha tradutu”. 20. Ivi, canto n. 74: «Muori, e-mmuristi, nfami e-ttrarituri!/ Ora ca tu ha murutu/ m’arricupuru l’anuri». 21. Peristiany J.G., Honor and Shame, cit., p. 185: «It is only within the context of shared and active values and in relations between persons – not between anonymous individuals – that philotimo becomes operative». 22. Ivi, p. 173.

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Discorso e recita della vendetta*

Della vendetta, delle varie tappe che la compongono ne parlano nel loro ambito professionale poeti, contastorie1, pupari, cantastorie ambulanti, drammaturghi, storici, romanzieri e giornalisti. Ne parlano nei processi gli interessati o i testimoni e, ai funerali, le prefiche. Ma allo spirito di gretta contabilità a cui molti osservatori oramai riducono un “ciclo” di rappresaglie, asserendo che al debito di un morto segue inevitabilmente un credito, faceva prima capo un discorso imperniato sulle motivazioni affettive dei vivi e dei morti. Questo è il discorso che vorremmo presentare cercando di delineare i vari ruoli assegnati nella recita della vendetta.

Lo “scenario” della vendetta Una delle leggende popolari siciliane in poesia, raccolta e pubblicata da Salvatore Salomone Marino nel 1880, intitolata Sangue lava sangue, descrive questo scenario pressoché immutabile: Lo portarono in chiesa sul cataletto, le braccia incrociate sopra il petto ferito. Venne la Giustizia: – Chi fu a sparargli? – Signore, non lo vedemmo che subito scappò. – In mezzo alla piazza pubblica, a mezzogiorno, e nessuno lì intorno l’ha riconosciuto! Il morto è con i morti, non se ne * Originale francese intitolato Question de vie ou de mort: la vendetta en Méditerranée, apparso nella rivista «Chimères. Revue des schizoanalyses», n. 4, 19871988, pp. 45-57, tradotto dall’autrice. Una breve versione di questa traduzione, intitolata La vendetta dei vivi e dei morti, è apparsa nella rivista «Versus. Quaderni di studi semiotici» (“Affettività e sistemi semiotici. Le passioni nel discorso”), n. 47-48, 1987, pp. 39-45.

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parla più. Ma c’è chi non lo scorda, si appostano per il colpevole: in mezzo alla piazza pubblica, a mezzogiorno in punto, in mezzo a decine d’uomini, spararono a Giuseppicu. – Gesù! che bel giovane! Chi fu che l’ammazzò? – Va cercalo! Va trovalo! – Chi sa da dove pigliò! – Venne la Giustizia, ognuno fa il muto: dicono: – L’ho visto fuggire ma non l’ho riconosciuto. – E nessuno più lo spiava, passava inosservato come la pioggia di stagione. C’è un altro omicidio, pure va con il vento. Il sangue lava sangue, venne la nona vendetta, le case si rovinano, perdono vita e beni. Chi piglia per i boschi facendo il fuorilegge per meglio dimenticarsi dell’astuto nemico: chi va a caccia d’uomini sin dentro le case in mezzo a quindici carabinieri armati. Oh Dio! Quante vedove! Quanti orfani ci sono! Quante anime nell’aria vagano per il mondo! Nessuno vi rimedia? Nessuno si fa avanti? In cinque mesi appena sono morti cento e tanti! Dorme la Giustizia, che la sua forza è niente quando non sa mettere un freno alla gente: dorme la Giustizia, qui tutti l’umu fanno: regna il precipizio, c’è sangue sopra il sangue. Più sicurezza non trovano i bravi cittadini; quando escono tremano a tutti gambe e reni; quando escono, a casa dicono: – Pregate Dio per me; chissà se mi prendono per sbaglio o bizzaria! – Figlioli, convertitevi, pregate Dio sovrano che perdoni questo misero paese; pregatelo, pregatelo che lo salvi: chi campa vedrà se questo malore seguita. Dico, prima che abbia a nascere il tempo scellerato, il tempo sanguinario che ha tutti rovinato: il mille e ottocento dell’anno sessantuno, il Cielo ce ne liberi a me ed a ognuno!2.

L’anonimo poeta narra in questa storia lo svolgimento tipico d’una vendetta – l’arrivo dell’assassino sulla pubblica piazza, l’atto, il silenzio (omertà)3 dei testimoni di fronte alla Giustizia, l’uccisione dell’omicida eseguita da un componente maschile della famiglia che ha subìto la prima perdita – e il clima di terrore che s’impadronisce del paese quando vi si svolge un’importante vendetta. Passando dal linguaggio metaforico a quello fattuale, possiamo notare che l’esercizio della vendetta, come ha osservato Franco Cagnetta durante la sua ricerca a Orgosolo, si svolge in modo altrettanto codificato: citiamo le varie fasi che descrive in relazione alla famosa disamistade svoltasi a Orgosolo dal 1903 al 1917 fra i Cossu e i Corraine. Appena avvenuto il fatto di sangue vi è la denunzia, privata o pubblica, concretizzata tramite segni visibili di lutto, canti funebri o parole d’ira. Alla denunzia segue l’indagine: si ascolta la “voce pubblica” 110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ma si ammucchiano gli indizi. Le indagini possono durare anni, ma una volta identificato il colpevole la vendetta è effettuata anche se sembrava dimenticata. Gli interessati (famiglia, compari, amici) si riuniscono per passare alla fase del giudizio e discutere della punizione da infliggere. La sentenza è decisa con l’approvazione di tutti. Dopodiché, si moltiplicano i “segni” premonitori davanti alla casa o l’ovile del colpevole: animali mutilati, pallottole di fucile, bandiere nere, croce di asfodelo. Poi, si designa l’esecutore: l’individuo più colpito o il più capace: due o tre persone l’accompagnano per fargli da guardia del corpo. La fase dell’esecuzione è senz’altro la più audace: in Sardegna, come pure in Sicilia, si uccide la vittima davanti alla casa o alla caserma dei carabinieri, sulla strada o la pubblica piazza; la capacità degli esecutori di fuggire senza lasciar tracce è più che nota. Le armi utilizzate sono attualmente il mitra o il fucile, ma prima si utilizzava la scure, il pugnale, le pietre o le mani, se si trattava di strangolare. Al delitto segue abitualmente l’esemplarità: il cadavere viene abbandonato in un luogo visibile o trascinato davanti casa, il volto sfregiato o il corpo mutilato. Dopo il delitto l’omicida sparisce fra la folla; per un certo tempo il paese vive in una relativa tranquillità4. Sembreremmo con questi due primi esempi ben lontani dalle passioni, sia negli atti che nel discorso; ma siamo invece concordi con Leonardo Sciascia quando dice che: L’aggravante della premeditazione cade sull’imputato che ha avuto il tempo di riflettere sulla decisione di ammazzare il proprio simile. Il tempo, cioè, fa che la passione si raffreddi al punto da consigliare la desistenza dal proposito omicida. E non raffreddandosi la passione (processo di raffreddamento cui peraltro non si può assegnare un tempo eguale per tutti), ne viene che fredda, premeditata, è stata la decisione di uccidere: non tenendo così conto che il tempo della riflessione, per lungo che sia, e anzi per quanto è più lungo, può accordarsi invece al crescere della passione, all’esaltazione, al delirio5.

Il “delirio” della vendetta Il dramma che circonda il patimento e la morte della “vittima” non è vissuto solamente dall’interessato ma è partecipato da tutti i membri 111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della famiglia; i maschi sanno che in futuro toccherà pure a loro trovarsi nei panni della “vittima” dopo essere stati in quelli del “giustiziere”. Ma l’artefice del dramma, colui che muove le fila della trama, è spesso una donna – generalmente la sorella6 – come ci dimostrano le tragedie greche o Mérimée nella novella Colomba. Vera memoria dei debiti di onore della famiglia, la donna saprà aizzare i rancori, se assopiti, sinché l’azione degli uomini non avrà colmato la “vergognosa” dimenticanza. Questa distribuzione dei ruoli non è casuale ma dovuta a precise ripartizioni che, analizzate, sapranno darci un quadro più preciso di come è concepito un ciclo di vendette. Due erano ai tempi dell’epica omerica i termini che designavano la giustizia: il primo, temi, indicava la giustizia che si esercitava all’interno del gruppo familiare (genos), mentre il secondo, dike, quella che si stabiliva tra famiglie o tra famiglia e tribù7. Essendo la vendetta di sangue trasversale – come ha sottolineato Glotz8 – la solidarietà familiare scattava subito dopo un omicidio, sia per il colpevole che per la vittima; in seguito saranno le leggi di Dracone a mettere un freno alla responsabilità collettiva e a proclamare il principio della responsabilità individuale9. Solone infine riesce a “staccare” l’individuo dalla famiglia e a fare del crimine un attentato contro l’ordine sociale e non più solo un’offesa ad un piccolo gruppo di singoli10. Da un canto lo sviluppo della polis fagocita gradualmente il cittadino ma dall’altro «la passione della vendetta mantiene tutto il suo ardore anche quando è costretta nei confini della legalità»11. Saranno dunque le donne ad ereditare la memoria e di questa giustizia, temi – “ispirazione spontanea, improvvisa, emanazione celeste, cosa soprannaturale discesa su terra”12 –, appartenuta per prima alla famiglia e di questo ardore nella vendetta che gli uomini dovevano sempre più imparare a controllare socialmente. In effetti, «le donne sono sempre state più libere degli uomini di indulgere a manifestazioni emotive, e fra i partecipanti ai funerali sono quindi le più commoventi; tuttora in Grecia la consuetudine associa le donne col rituale concernente il defunto»13. Come ci ricorda Glotz, sono le tradizioni più anziane che dettano alle donne il loro dovere nelle questioni di sangue. Incaricate di piangere i morti della famiglia, esse ter112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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minano le loro lamentazioni in minacce e passano dai singhiozzi alle grida di guerra se il morto è stato abbattuto per mano di un nemico. Il canto funebre ellenico è il “vocero” corso. Si capisce quale terribile effetto queste donne dovevano produrre: per nove giorni di seguito, alle volte, si facevano avanti a turno presso il cadavere e, tenendogli la testa tra le mani, grondanti di lacrime, scarmagliate, improvvisavano canti di dolore che rinnovavano i gemiti delle loro compagne. Gli uomini erano pure presenti, si rotolavano nella polvere e nel fango, snervati dal lungo digiuno […]. Che tremito doveva passare su di loro e come dovevano raddrizzare i pugni chiusi quando sentivano tutto ad un tratto una prefica maledire l’omicida esclamando: “Come vorrei frugare nelle sue viscere e strappargli il fegato per divorarlo!”. Sinché il crimine rimane impunito, la donna riempe il suo ministero da Erinni insaziata. Cerca con accanimento l’ignoto assassino dei figli. Se il marito è troppo lento nel vendicarsi si rifiuta ad ogni suo abbraccio. Madre o nonna, sorella o zia, prepara per lunghi anni i giovani alla missione assegnata loro dalla più tenera età o da prima della nascita. Sa incutere vergogna ai vigliacchi: ad essa il “rimbecco” come il “vocero”. Incapace di maneggiare il ferro, essa mette il ferro in mano a chi deve servirsene. La donna non fa la guerra ma eccita coloro che la fanno. Sappiamo, dall’esempio antico dei Cimbri e dei Teutoni e da quello moderno dei Cabili e degli Australiani, a quale parossismo arriva in quei momenti il furore delle parole, dei gesti e dei sentimenti”14.

La donna, proferisce Apollo nell’Eumenidi di Eschilo, non è altro che “la nutrice del germe in essa seminato”15; in quanto nutrice custodisce, nel proprio corpo – vero tabernacolo della famiglia –, il ricordo della vendetta da perpetuare e la passione necessaria a che questo ricordo non si spenga. La memoria femminile che si esprime nel vocero, ci rammenta Colomba nell’omonima novella, non è un qualsiasi gorgheggio ma un dono16; è questo dono che permette, tramite la sua veemenza nell’espressione, di esaltare l’azione da compiere. Questa incombenza è peraltro rievocata alla coscienza dei familiari e alla propria da donne che, come Colomba, canticchiano costantemente ballate di questo tipo: “Mi occorre la mano che ha tirato, l’occhio che ha puntato, il cuore che ha pensato…”17. Non c’è generalmente scampo per l’uomo, padre, fratello, marito o figlio che sia, quand’è afferrato da questo “ritornello”18; 113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come spiega Orso, il fratello di Colomba, “continentale” nell’educazione e perciò esitante a compiere la vendetta richiesta per punire l’assassino del padre, «mia sorella sa che non sono ancora in suo potere e non desidera spaventarmi dato che potrei ancora scappare. Ma una volta che mi avrà condotto sull’orlo del precipizio e che la mia testa girerà, mi spingerà nell’abisso»19. Le rappresaglie della famiglia della vittima contro quella del colpevole s’inseriscono in un codice molto rigido dell’onore che gestisce i colpi e i contraccolpi che ciascuna può e deve portare all’altra. Una breve definizione di quello che intendiamo per “onore” è necessaria prima di proseguire: nell’area mediterranea l’onore di un gruppo dipendeva da uno stato bilanciato fra, da un lato la purezza genealogica del sangue e, dall’altro, la rinomanza del nome. L’onore era dunque una politica d’equilibrio fra due poli d’importanza capitale, quello del Sangue e quello del Nome. All’interno del gruppo tutto era disposto per assicurare questa stabilità; inoltre, ogni sesso controllava che l’altro agisse nel più grande rispetto delle tradizioni, gli uomini sorvegliavano le donne per proteggere la loro modestia sessuale in modo da non alterare la purezza del sangue e le donne, lo abbiamo visto, incitavano gli uomini all’azione per non smorzare la fama del nome. In effetti, la perdita dell’onore provocava la “vergogna” e per recuperarlo il gruppo era costretto a ristabilire, prima o poi – con la forza o con l’astuzia – l’equilibrio perso.

Il sangue: campione di misura per i vivi e i morti Essendo le passioni delle “narrazioni”, è più che altro del contenuto dei discorsi che parleremo. I discorsi – siano essi passionali o razionali – che si riferiscono ai gesti di vendetta utilizzano spesso delle immagini che fanno riferimento al “sangue”. Il simbolo del sangue è, come sappiamo, antico e diffuso in tutto il bacino mediterraneo, dove evoca la vendetta; già il Signore dice a Caino: «Che hai fatto? Ecco, la voce del sangue del tuo fratello grida a me dalla terra. Ora dunque tu sei maledetto, e sarai cacciato dalla terra, che ha aperta la sua bocca per ricevere il sangue del tuo fratello dalla tua mano» (Genesi 4: 10-11). Perché il sangue grida? L’Eterno lo spiega a Mosè, è che “la vita della carne è nel sangue” e continua dicendo: «Vi ho ordinato che il sangue 114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sia posto sopra l’altare, per far purgamento per l’anime vostre; con ciò sia che il sangue sia quello con che si fa il purgamento per la persona» (Levitico 17: 11). Ma se l’anima della carne si trova nel sangue, la sostanza dell’anima di un uomo risiede nel nome. I membri di una stessa famiglia sono così doppiamente congiunti: per il fatto che spartiscono il sangue – da qui l’appellazione “consanguinei” – e il nome; devono inoltre preservare la perennità di quest’ultimo dato che è lo strumento della loro inserzione nella memoria collettiva. In questo ambito è normale che un uomo, membro di una famiglia vittima di un omicidio – famiglia con cui divide lo stesso sangue – si vendichi di questa perdita per preservare l’onore della casa e l’anima del morto20. Queste credenze e queste pratiche sono a tal punto interiorizzate che l’omicida, dopo aver ucciso la vittima a coltellate, ne lecca la lama21 per incorporare il sangue del morto, sperando di evitare rappresaglie da parte sua e della famiglia. Diventando “identico” al defunto tramite questa incorporazione, spera di sfuggire al suo destino: essere a suo turno eliminato. Il sangue poteva provocare, grazie alla sua “voce”, come nel caso di Caino, la punizione del colpevole; ovvero, come in Europa dal XII al XVII secolo, poteva essere utilizzato nelle ordalie popolari: si faceva subire al cadavere la “prova del sangue che scorre” (la cruentazione) mettendolo al cospetto del presunto omicida. Il flusso del sangue – che abitualmente avveniva in abbondanza – denunziava l’uccisore22. Un altro modo per premunirsi dalle ire “dell’anima avida di violenza e di rappresaglie” del defunto era quello di “rendere inoffensiva la sua ombra vendicativa”: perciò «si mutilava, si decapitava il cadavere. La presenza di spade incastrate nelle tombe dell’età del bronzo si spiega indubbiamente con un pensiero analogo»23. Anche nelle regioni mediterranee si tagliavano mani e/o piedi ai morti assassinati per impedir loro ogni azione riparatrice. L’omicida temeva – l’abbiamo visto – sia le rappresaglie del morto che quelle della famiglia; limitiamoci a degli esempi siciliani delle prime. Pitrè riporta nel suo Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano che l’anima del morto vaga attorno alla croce piantata sul luogo dell’uccisione di cui è stata vittima; che continua a errare per la terra fino a esaurire il tempo destinatole da Dio alla nascita. È abitualmente irrequieta e paurosa; mormora e geme incutendo terrore ai passanti24. Per 115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sottrarsi al suo destino errabondo, tenta – poco prima della mezzanotte – di penetrare nel corpo di un vivente25. Terrorizza particolarmente i nemici vestendo spoglie di animali o dibattendosi sulle tettoie delle case. Il suo corpo, vero documento della “umana perfidia”, conserva impressa nella pupilla l’immagine dell’omicida o continua a versar sangue dalla ferita quand’egli è presente26. Nel bel romanzo del turco Y. Kemal, Tu schiaccerai il serpente, l’anima del morto illustra al figlio tutti i mali e tutte le metamorfosi che patisce in attesa che la vendetta, ch’egli esita a compiere (uccidere la madre), gli rechi la pace. Queste credenze e queste tradizioni perdurano persino nell’associazione criminale conosciuta con il nome di Mafia. G. Alongi, un funzionario di polizia prossimo alla scuola lombrosiana di antropologia criminale, fu uno dei primi a pubblicare, nel 1886, in un libro intitolato La Maffia, le sue analisi del fenomeno. Le due testimonianze che ci reca mostrano gli stretti legami fra costume e Mafia; dice: «io stesso, accorrendo presso un morto, ho trovato la moglie e il fratello a baciargli le ferite sanguinolente, a far vista di succhiarle, e, col muso sporco di sangue, gridare: “Così voglio bere il sangue del suo uccisore, ne ho sete ardentissima!”»27. Dopodiché racconta che la «Fratellanza aveva come ideale quello di tuffarsi nel sangue del nemico od offensore avidamente, ferocemente, impunemente; i suoi associati dicono dolce è il vino ma più dolce è il sangue dei cristiani»28. Ancor oggi i mafiosi infliggono dei “segni” al corpo della loro vittima, ma lo fanno più per motivare il loro crimine, macchiare la memoria del defunto e inviare un “avvertimento” a coloro che progettano di seguirne l’esempio. M. Pantaleone menziona i seguenti: un sasso o un tappo in bocca per significare che l’ucciso aveva rivelato dei segreti del suo gruppo mafioso (cosca); la mano tagliata e posata sul petto per indicare che aveva rubato in una zona “protetta” dalla Mafia, dove soprattutto non bisognava rubare; gli occhi cavati e chiusi in pugno per sottolineare che si era servito della vista per tirare su di una persona “amica”; la pala di ficodindia al posto del portafoglio per annunziare che si era appropriato del denaro comune o a lui affidato; gli organi genitali appesi al collo per segnalare che aveva tentato di abusare della donna di un altro membro in carcere29. I riferimenti al sangue che si fanno nei discorsi sulla vendetta sono, come abbiamo visto, molteplici e ricoprono diversi aspetti. Il sangue 116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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può rapportarsi ad una persona ben precisa che, una volta assassinata, prenderà la pena di denunziare il suo uccisore – come Abele fece con il fratello Caino o come fecero i cadaveri durante le prove di cruentazione – o che punirà direttamente l’omicida. Quando l’anima del morto è incapace di vendicarsi, chiederà a quelli che in principio debbono farlo di eseguire la punizione. Ma, più spesso, il sangue indica una famiglia, un gruppo, un clan, una tribù dato che i membri che la compongono sono supposti spartire lo stesso sangue ed essere, grazie a ciò, identici. Il sangue qualifica le vendette personali come le collettive; per di più, ogni tappa che queste punizioni mettono in atto è designata da un’utilizzazione del termine “sangue”; in effetti, si dice che il sangue “parla” con la sua “voce” per indicare il colpevole, che “chiama” la punizione, che “lava” il crimine precedente, ecc. Poiché, come proclama un proverbio siciliano, “quali carni si tagliano e non dolgono? Dove si taglia il sangue esce”30. E, dato che “una stilla di sangue turba il mare”31, il sangue, per la sua onnipresenza e la sua importanza, ha finito per ricoprire, grazie alle immagini utilizzate, tutti i momenti caratteristici di una vendetta. *** Per concludere vorremmo nuovamente riferirci ad una leggenda popolare siciliana in poesia, raccolta e pubblicata da Salomone Marino nel 1880, La vendetta, poesia che racconta la storia di un giovane corleonese, Nardo, a cui un conte ha sottratto la moglie Maruzza il giorno delle nozze per esercitare il suo ius primae noctis. Maruzza, affranta dal dolore e dalla vergogna, perirà durante la notte; Nardo medita di uccidere il conte. L’occasione gli si presenta durante una partita di caccia; imprigionato e in attesa dell’esecuzione, dopo la sentenza a morte, Nardo dice: – Di questa morte me ne gioco e rido. Nel sonno è venuto mio padre: “Figlio, ti benedico eternamente; hai vendicato il sangue mio, l’onore della casa è di nuovo lucente”. Padre, possa tu godere Iddio! ora che so che siete contento, benché sento la vostra voce e non vi vedo, queste catene e martirii non son niente. Parto, ridendo, tra mille tormenti, mi basta aver avuto il sangue del Conte: vado alla forca con cuore contento e sono pronto pure per l’inferno; mi getterò nel fuoco allegramente, per i capelli afferrerò il Conte, gli caverò il cuore con i denti, glielo strap117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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però e sputerò in fronte! – Venne il momento d’andare a morte, Nardo ci andò contento e rallegrato; Nardo non la meritava questa sorte, che giustamente si era vendicato. Corleone lo piange a voce forte, questo giovane ardito e sventurato: l’onore della casa è santo e forte, sempre trionfa il nome onorato32.

Onore e vergogna, sangue e nome hanno costellato il nostro testo come abitualmente costellano, in certe aree mediterranee, il discorso della vendetta. Questi termini, speriamo averlo dimostrato, sono spesso utilizzati come sinonimi e servono ad alimentare la memoria dei vivi nei confronti dei morti, ad incitare all’azione, a fustigare i refrattari, a trasformare una passione in dovere. L’atto, come abbiamo visto, alimenta a sua volta l’eloquio; nello stesso tempo contribuisce a dar vita alla “catena” che le vendette generano. Indissolubili, indissociabili, si potrà per questa volta dire che tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare. Dal discorso alla pratica: è così che i diversi membri di una stessa famiglia prendono a carico, ognuno secondo il ruolo impartito, le diverse fasi di una vendetta. Abbiamo notato la complementarità, in linea orizzontale, dei ruoli femminili e maschili e la complementarità, in linea verticale, fra i vivi e i morti. Ciò accomuna da un lato il ruolo delle donne a quello dei morti – ambedue ricordano a chi di dovere il compito da svolgere, ambedue mantengono le passioni – e dall’altro lascia gli uomini, che la presenza dei morti e la memoria “attiva” delle donne hanno stimolato, soli protagonisti del compimento della vendetta, soli esecutori sulla scena di questo teatro delle passioni33. Note 1. Per l’importante ruolo giocato in questo contesto dai cantastorie, vedere, di Antonino Buttitta, Morfologia e ideologia nelle storie dei cantastorie siciliani, in Id., Semiotica e antropologia, Palermo, Sellerio Editore, 1979, pp. 134-147. 2. Salomone Marino S., Sangue lava sangue, in Raccolta di leggende popolari siciliane in poesia, a cura di Aurelio Rigoli, Palermo, Il Vespro, 1978, pp. 363-367. 3. Per il mio punto di vista sull’omertà, sia sotto il profilo storico che antropologico, riferirsi ai capitoli III, IV e V di questo volume. 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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4. Cagnetta F., Banditi a Orgosolo, Firenze, Guaraldi, 1975, pp. 89-94. 5. Sciascia L., 1912 + 1, Milano, Adelphi, 1986, p. 81. 6. Steiner G., Le Antigoni (Antigones, 1984), trad. di N. Marini, Milano, Garzanti, 2003. 7. Benveniste E., Il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1969), Torino, Einaudi, 1981, p. 107. 8. Glotz G., La Solidarité de la famille dans le droit criminel en Grèce, Parigi, A. Fontemoing, 1904 (Reprint: New York, Arno Press, 1973). 9. Ivi, p. 259. 10. Ivi, p. 603. 11. Ivi, p. 420. 12. Ivi, p. 21. 13. Pomeroy S.B., Donne in Atene e Roma (Goddesses, whores, wives, and slaves), Torino, Einaudi, 1978, p. 46; Loraux N., Come uccidere tragicamente una donna (Façons tragiques de tuer une femme, 1985), Roma-Bari, Laterza, 1988. 14. Glotz G., La Solidarité de la famille, cit., pp. 83-84. 15. Eschilo, Eumenidi, a cura di E. Savino, Milano, Garzanti, 2008. 16. Mérimée P., Colomba (Colomba et dix autres nouvelles, 1964), a cura di E. Zazo, Milano, Feltrinelli, 1950, p. 400. 17. Ivi, p. 478. 18. Guattari F., L’Inconscient machinique, Parigi, Ed. Recherches, 1979. 19. Mérimée P., Colomba, cit. 20. Sul soggetto, vedere anche il mio Crimes et vengeances dans l’aire méditerranéenne, Universalia 90, Parigi, Encyclopaedia Universalis, 1990, pp. 187-189. 21. Pitrè G., La Famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano [vol. XXV della Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, 1870-13], Palermo, Reber, 1913 (rist. anast.: Bologna, Forni, 1980), vol. II, p. 308. 22. Platelle H., La voix du sang: le cadavre qui saigne en présence de son meurtrier, in La Piété populaire au Moyen Age, Actes du 99e Congrès national des Sociétés savantes, Besançon, 1974, Section de philologie et d’histoire, Tome I, Parigi, Bibliothèque Nationale, 1977, pp. 161-179. 23. Ivi, p. 175. 24. Pitrè G., Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll. [vol. XIV-XVII della Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, 187013], Palermo, Pedone Lauriel, 1889 (rist. anast.: Bologna, Forni Editore, 1980), vol. II, p. 243. 25. Ivi, vol. IV, p. 27. 26. Ivi, vol. II, p. 243. 119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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27. Alongi G., La Maffia, Palermo, Sellerio Editore, 1977 (1a ed. Torino, Bocca, 1886), p. 44. 28. Ivi, p. 104. 29. Pantaleone M., Il Sasso in bocca. Mafia e Cosa Nostra, Bologna, Cappelli Editore, 1971, pp. 11-12. 30. Pitrè G., Usi e costumi, cit., vol. II, p. 303. 31. Ivi, p. 306. 32. Salomone Marino S., Raccolta di leggende popolari, cit., pp. 35-36. 33. «Nouvelle Revue de Psychanalyse», no. 2, La Passion, Parigi, Gallimard, primavera 1980.

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PARTE TERZA DIRE SOTTO METAFORA

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False testimonianze per un omicidio palermitano*

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La menzogna – secondo l’Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, pubblicata nel 1934 dall’Istituto Treccani1 – è la negazione o l’alterazione della verità empirica: alterazione consapevole, compiuta con l’intento di trarre altrui in errore. A differenza della frode che ha sempre intenzione aggressiva, la menzogna può mancare totalmente di questa intenzione, e il danno da essa recato può semplicemente consistere nell’erroneo giudizio in cui induce. La frode è sempre menzognera, mentre la menzogna non è necessariamente fraudolenta. Si tratta comunque di concetti empirici, che come tali sfuggono a una più precisa determinazione. Psicologicamente la menzogna è una manifestazione egoistica, riconducibile sia a una difesa contro il mondo esterno (e quindi a un sentimento più o meno inconscio d’inferiorità), sia alla vanità e al desiderio di apparire diversi da ciò che ci si sente (che son poi anch’esse forme di debolezza morale). Particolarmente inclini alla menzogna sono infatti i fanciulli, i selvaggi, le donne, i vecchi, gli ammalati di corpo o di spirito2.

Sarà nostro compito dimostrare come l’utilizzazione della menzogna differisca dalla definizione datane dall’Enciclopedia Treccani e che il mentire è ben lungi dall’essere soltanto un fatto “empirico” cui sono “particolarmente inclini i fanciulli, i selvaggi, le donne, i vecchi, gli ammalati di corpo o di spirito”. * Originale francese intitolato Témoignage et justice: un épisode sicilien, pubblicato dalla rivista «Annales ESC» (“Dire le vrai”), 46e année, n. 1, 1991, pp. 45-51, qui tradotto dall’autrice.

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Il racconto di un omicidio

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Per illustrare questo punto di vista, vorremmo innanzitutto citare un episodio che il viaggiatore inglese G. Cockburn, un militare, riferisce nel libro intitolato A Voyage to Cadiz and Gibraltar up the Mediterranean to Sicily and Malta3, in cui racconta il viaggio in Sicilia compiuto tra il 1810 e il 1911. L’episodio è stato presentato in Italia da C.M. Martino nel suo Viaggiatori inglesi in Sicilia nella prima metà dell’Ottocento: Un uomo che litigò in strada con un altro per gelosia pugnalò il suo rivale e si rifugiò immediatamente nella chiesa più vicina lasciando, come spesso si fa in simili occasioni, il coltello conficcato nel cuore dell’assassinato. Era tardi e stava per calare la notte. Devo premettere che tutta questa gente crede fermamente negli spettri e, stando alle sue successive dichiarazioni, l’omicida non si sentiva molto tranquillo nel suo asilo, per quanto sapesse che non poteva esser portato via dalla chiesa: gli effetti della colpa sulla sua mente erano tali da spingerlo a stare in guardia e a nascondersi dietro le colonne, in grande agitazione. Poco dopo che egli vi fu entrato, la chiesa venne chiusa per la notte; l’assassino rimase assorto nei suoi orribili pensieri ma ne venne distolto dalla vista di un prete che entrava nella navata maggiore da una delle cappelle laterali, insieme ad una fanciulla molto giovane; la fanciulla sembrava restìa a seguirlo ma quello, in parte con la sua persuasione e in parte con la forza, la spinse sino ai piedi dell’altare maggiore; qui la fece inginocchiare ed entrambi avevano l’aria di pregare ma ad un tratto il prete trasse uno stiletto e la pugnalò; la ragazza cadde morta al suolo. È necessario dire che in moltissime chiese parrocchiali vicino all’altare maggiore c’è una cripta che fa da sepoltura per il popolo; il sotterraneo ha un’apertura appena sufficiente a fare passare un corpo, chiusa da una lastra tenuta da un anello, simile a quelle delle nostre carbonaie. Subito dopo aver commesso il delitto, il prete sollevò la pietra all’imboccatura della cripta e vi buttò dentro il cadavere; poi prese dell’acqua dall’acquasantiera e tolse le tracce di sangue dal pavimento servendosi di un fazzoletto; fatto ciò, uscì. L’assassino che si era rifugiato in chiesa assistette senza esser visto alla terribile scena e in seguito dichiarò che l’atto era stato così fulmineo da non poter essere impedito. Cionondimeno, avendo orrore dell’omicidio – visto che si trattava di un caso assai diverso dal suo – avrebbe afferrato 124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lo scellerato sacerdote per trascinarlo davanti alla giustizia ma, essendo rimasto privo di coltello o di altre armi ritenne – e non a torto – che se si fosse fatto scorgere dal prete, questi avrebbe riservato a lui lo stesso destino della sventurata ragazza; quindi se ne restò ben nascosto. Si può supporre che l’uomo non abbia trascorso una notte troppo piacevole, in chiesa; secondo quello che egli stesso narrò, riflettendo su quanto aveva visto incominciò a sospettare che l’orrenda azione potesse essere stata commessa non da un prete, ma dal diavolo sotto le spoglie di prete. L’idea che sua maestà infernale potesse essere ancora in chiesa per fargli una visita durante la notte lo spinse a decidere di non trattenersi più a lungo in quel luogo, dal quale comunque non poteva uscire perché tutte le porte erano sbarrate; il suo stato d’animo era così disperato che, non appena le porte furono aperte per l’ufficio mattutino, egli uscì dalla chiesa ed andò a costituirsi. Riferì quanto aveva visto ma attribuì il delitto al diavolo e successivamente tale sua teoria fu sostenuta in pieno dal clero. Gli ufficiali di polizia conclusero che il poveraccio non era del tutto sano di mente ma la storia si riseppe e poiché una giovane palermitana era scomparsa senza lasciare traccia di sé, i suoi parenti fecero aprire la cripta ed in essa fu rinvenuto il cadavere pugnalato. In alto si propendeva ad attribuire il delitto al diavolo ma il popolo (quello che alcuni chiamerebbero la plebaglia di Palermo) accorse in massa a chiedere giustizia, dando man forte ai parenti della ragazza. Per quanto essi potessero essere superstiziosi e dominati dai preti, in questo caso non si poteva dar loro da bere la storia del diavolo. Il Capitano di Giustizia fu costretto ad agire; i sospetti caddero sul confessore della ragazza, che fu imprigionato; allora l’uomo che aveva assistito all’infame azione si convinse di non aver visto il diavolo e testimoniò contro il prete. Anche sotto i governi più corrotti, casi come questo non possono essere messi a tacere: il popolo era in subbuglio ed i magistrati furono costretti a portare in giudizio lo scellerato, che fu riconosciuto colpevole e condannato all’impiccagione. Si scoprì che aveva sedotto la sventurata ragazza ingravidandola e che, per timore di essere scoperto, aveva escogitato con l’inganno il modo di persuaderla ad incontrarlo nella chiesa dove l’orrendo crimine sarebbe stato consumato; certo, giocavano a suo favore tutte le probabilità che il delitto non venisse scoperto. 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ma cosa penserà il lettore del sistema con il quale la Sicilia viene governata, quando dirò che quel farabutto non poté essere giustiziato in pubblico perché prete? Dissero che era stato suppliziato in privato e per la verità una mano fu inchiodata alla porta della prigione, il che fa parte della condanna degli assassini; ma avrebbe potuto esservi inchiodata qualsiasi mano e, per quel che mi riguarda, non posso fare a meno di dubitare fortemente che il mascalzone sia stato giustiziato, per quanto il signor Benedetto, editore della Gazzetta Anglo-Siciliana, abbia assicurato all’ufficiale che mi ha raccontato questi particolari che il prete era stato strozzato veramente4.

Se guardiamo dettagliatamente questo racconto di un omicidio commesso da un prete, possiamo notare che è zeppo di asserzioni o azioni menzognere: l’uomo che si cela dietro le colonne per non farsi scorgere dallo spettro del morto, suscettibile di esigere vendetta per placare la sua anima in pena; il prete che persuade la ragazza ad inginocchiarsi ed a pregare per meglio pugnalarla5; che nasconde il cadavere nella cripta una volta compiuto il misfatto e che toglie dal pavimento le tracce di sangue addirittura con l’acqua dall’acquasantiera, commettendo il sacrilegio di servirsi di un’acqua considerata “benedetta” per abolire un’azione “infame”; l’uomo che presume poter, con un coltello a portata di mano, afferrare il sacerdote per consegnarlo alla giustizia ma che preferisce tenersi nascosto essendo appunto senza coltello; che si costituisce l’indomani alla giustizia raccontando di aver visto il diavolo, sotto le spoglie di un prete, uccidere una ragazza; il clero che sostiene la teoria del diavolo e gli ufficiali di polizia che concludono ch’egli non è sano di mente; le autorità che attribuiscono il delitto al diavolo quando il cadavere della ragazza è rinvenuto nella cripta; il Capitano di Giustizia che fa credere di aver strozzato il prete in privato inchiodando per prova una mano alla porta della prigione; e forse, ma non lo sapremo mai, il signor Benedetto che assicura all’ufficiale – da cui Cockburn ha appreso quest’episodio – che il prete è stato veramente giustiziato.

Il racconto di una falsa testimonianza Abbiamo sottolineato il fatto che il racconto è zeppo di azioni o asserzioni menzognere; non è però solo un racconto, ma anche la testi126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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monianza di un omicidio commesso da un prete, anzi, la testimonianza di una testimonianza, o per essere più precisi, la testimonianza della testimonianza di una testimonianza, cioè quella raccontata dal signor Benedetto ad un ufficiale che la racconta a Cockburn, il nostro narratore; è dunque il racconto di una falsa testimonianza. Ma che valore può avere la testimonianza di un assassino? Nella relazione, sia Cockburn sia l’omicida, che fa esprimere per suo tramite, sottolineano la differenza che esiste fra i due tipi di uccisioni descritte: la prima è avvenuta in seguito ad un litigio, era un impulso, un atto passionale legato a sentimenti radicati di gelosia: si può capire e perdonare; la seconda uccisione invece è stata “escogitata con l’inganno”, premeditata dal sacerdote, freddamente, per eliminare la prova vivente del suo misfatto, cioè la gravidanza della ragazza, e aveva per di più “tutte le probabilità” di non venire “scoperta”: è un “crimine orrendo” che merita una punizione esemplare per non “essere messo a tacere”. Oltre all’atto criminale, l’autore distingue anche i personaggi: per il primo, Cockburn utilizza i vocaboli di “uomo”, “omicida”, “assassino” mentre, per il secondo, alle definizioni di “prete”, “sacerdote” o “confessore”, unisce le qualifiche di “scellerato”, “farabutto” e “mascalzone”. La testimonianza del primo assassino al riguardo del secondo ha dunque un suo valore nella misura in cui è fatta da un uomo che ha ucciso il prossimo ma per questioni di gelosia, in una sorta di raptus; l’omicidio commesso invece dal secondo assassino, definito un’azione infame, raccapriccia il narratore e il lettore perché commesso con il deprecato “inganno”. “L’aggravante della premeditazione – scrive Leonardo Sciascia – cade sull’imputato che ha avuto il tempo di riflettere sulla decisione di ammazzare il proprio simile”6; e l’aggravante dell’infamia, potremmo aggiungere noi, cade sull’omicida che ha avuto il tempo di riflettere sul modo di ammazzare il proprio simile con l’intento di tener celato il delitto servendosi – a mo’ di scudo – della sua irreprensibile posizione sociale per perpetrare il crimine senza destar sospetti. Ma per quanto queste considerazioni siano interessanti e meritino di essere approfondite, preferiremmo concentrarci sulla questione della menzogna inerente alla testimonianza7 e non a quella inerente all’omicidio. Quando va a costituirsi, il primo assassino dichiara agli ufficiali di polizia di aver assistito ad un delitto commesso dal diavolo sotto le spoglie di prete. Cockburn giustifica tale asserzione presentandoci i 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Siciliani come “gente che crede fermamente negli spettri” e dicendoci che l’uomo si era “convinto” di aver visto un prete e non il diavolo solo dopo che il cadavere della ragazza fu rinvenuto pugnalato, che il popolo accorse in massa a chiedere giustizia dando man forte ai parenti, che il Capitano di Giustizia fu costretto ad agire e che i sospetti caddero sul confessore della ragazza. Come dire – ma ciò il nostro autore non lo percepisce minimamente tanto è infatuato dall’idea che il popolo siciliano sia “superstizioso” – solo dopo aver avuto ampie garanzie di poter denunciare il misfatto senza subire le spiacevoli conseguenze che in simili frangenti spettano ai testimoni incauti. La falsa testimonianza avvenne dunque per ragioni di elementare prudenza, comprensibili ancor oggi. L’uomo dichiarò di aver assistito ad un crimine commesso dal diavolo per non compromettersi; d’altro canto andò a costituirsi per sfuggire ad eventuali rappresaglie da parte del prete dato che non poteva più rimanere nascosto nella chiesa per sfuggire alla giustizia senza far sapere allo stesso sacerdote che vi era celato dal giorno precedente: per motivi di sicurezza personale era in effetti obbligato ad andare a costituirsi. La causa della menzogna è in fondo banale – salvare la propria pelle – e non sembrerebbe meritare un ampio commento; il contenuto della menzogna invece è degno di nota: l’uomo dichiara che «l’orrenda azione non poteva essere stata commessa da un prete ma dal diavolo sotto le spoglie di prete». I deboli, al cospetto dei forti, o piuttosto come direbbe Guastella nel suo Le parità morali, al cospetto dei “cappelli”, i “berretti” si rammentano che la giustizia non può più ascoltare le ragioni dei poveri e la dà sempre vinta ai ricchi perché sente solo da un orecchio8. Narra in effetti l’apologo che la Giustizia era una santa che metteva concordia e toglieva le liti fra le genti ascoltando tutti: i poveri con l’orecchio sinistro e i ricchi con l’orecchio destro. I diavoli, vedendo che le anime in inferno non piovevano più, si recarono presso gli Scribi e i Farisei per dire loro: “Sta a voialtri se la Giustizia d’ora in avanti si dovrà chiamare Ingiustizia”. Quella stessa notte Scribi e Farisei entrarono nella torre dove trovarono la Giustizia che dormiva profondamente; uno di loro, forse il capo, prese un grosso chiodo e glielo conficcò nell’orecchio sinistro e da quel giorno la povera Giustizia diventò sorda come una campana da quest’orecchio9. Le stesse parità insegnano che, dato che al povero è stata data una 128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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bocca solo per il Mangiare “perché i poveri meno parlano meglio è”10, per parlare egli ha bisogno di essere poeta “perché in questo mondo solo il poeta può dire la verità senza aver paura di nessuno”11. Dunque, per parlare il “berretto” siciliano utilizzerà un linguaggio metaforico, dirà e non dirà, farà intendere invertendo i termini, sapendo bene che capirà chi vorrà capire e chi non lo vorrà potrà tacciarlo di “pazzia”12. L’episodio che Cockburn racconta è esemplare: il clero, gli ufficiali di polizia e le autorità sostengono la tesi del diavolo come esecutore del delitto, mentre la famiglia della ragazza e il popolo di Palermo rifiutano di “bere la storia del diavolo”, come scrive lo stesso Cockburn. Tutti avevano però capito il messaggio incluso nella falsa testimonianza: ho visto ma non sono disposto a dire quello che ho visto dato che, avendo l’opportunità di nascondermi dietro l’asserzione che non sono del tutto sano di mente, posso dire tranquillamente di aver visto il diavolo. *** Come abbiamo potuto intravedere, l’utilizzo che i siciliani facevano della menzogna differisce dalla definizione datane dall’Enciclopedia Treccani; il mentire era ben lungi dall’essere solo un fatto “empirico” cui erano «particolarmente inclini i fanciulli, i selvaggi, le donne, i vecchi, gli ammalati di corpo o di spirito». Al contrario, corrispondeva ad una strategia coerente che i “berretti” erano costretti ad applicare nella loro lotta sociale contro i “cappelli”, strategia che con il tempo ebbe modo di mutarsi in filosofia della vita; e queste credenze e attitudini si poggiavano sulla certezza che le autorità a loro turno mentivano nei loro confronti. Non dimentichiamo – nell’episodio di Cockburn appena citato – che malgrado la testimonianza, i parenti, il popolo di Palermo in subbuglio e il conseguente giudizio – in cui i magistrati furono costretti a riconoscere il sacerdote colpevole e a condannarlo all’impiccagione –, egli non fu giustiziato in pubblico perché prete ma, si dice, in privato; per prova, una mano venne inchiodata alla porta della prigione13. Per rendere giustizia ad una classe che da sempre attende l’equità, le autorità replicarono alla comprensibile menzogna di una testimonianza inchiodando alla porta della prigione quella che certamente ognuno a Palermo avrà disincantatamente soprannominato “la mano del diavolo”. 129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Note 1. L’Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti (Milano, Istituto Treccani, 1929-39) è opera di G. Gentile (1875-1944), il rappresentante più eminente, con B. Croce, del pensiero italiano della prima metà del XX secolo. G. Gentile fu ministro dell’Istruzione pubblica – dal 1922, nel governo formato da Mussolini, e sino al momento del Concordato tra il Fascismo e il Vaticano (1929) – senatore, presidente dell’Istituto nazionale fascista di cultura, fondato nel 1924, dove ispira un gran numero di pubblicazioni e da dove controlla trentacinque istituti culturali che creò o che riorgannizò (vedi Encyclopaedia Universalis, Parigi, 1975, vol. 19, pp. 770-771). Per la realizzazione dell’Enciclopedia italiana Gentile fece appello ai notabili della cultura, membri dell’Accademia d’Italia e agli intellettuali minori dell’Istituto nazional fascista di cultura. Salsano A. (“Enciclopedia”, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1977, vol. 1, pp. 47-48), sottolinea che quest’opera serviva a stabilire un’egemonia culturale su degli intellettuali di settori diversi, ch’era un progetto politico di organizzazione culturale e che veicolava, più o meno apertamente, le ideologie implicite nelle condizioni della sua realizzazione. Per tutte queste ragioni abbiamo scelto l’entrata “Menzogna” da questa Enciclopedia italiana – concepita nello stile “diciannovesimo secolo” (ivi, p. 47) – nella misura in cui era suscettibile di darci il punto di vista dei notabili italiani “superiori”, fortemente influenzati dall’ideologia ambientale. 2. “Menzogna”, in Enciclopedia italiana, cit., 1934, vol. XXII, p. 872. 3. Cockburn G., A Voyage to Cadiz and Gibraltar up the Mediterranean to Sicily and Malta in 1810 and 11: including a description of Sicily and the Lipari Islands, and an Excursion in Portugal, 2 voll., Londra, Harding, 1815. 4. Martino C.M., Viaggiatori inglesi in Sicilia nella prima metà dell’Ottocento, Palermo, Edizioni Ristampe Siciliane, 1977, pp. 146-148. 5. La morte delle donne e i luoghi del corpo femminile che questa morte investe – nei suicidi o nei sacrifici riproposti nelle tragedie greche – sono al centro dello studio di Nicole Loraux, Come uccidere tragicamente una donna (Façons tragiques de tuer une femme, 1985), Roma-Bari, Laterza, 1988. 6. Sciascia L., 1912 + 1, Milano, Adelphi, 1986, p. 81. 7. Vedi L’Aveu. Antiquité et Moyen-Âge, Roma, École Française de Rome, 1986; Di Bella M.P., La pura verità. Discarichi di coscienza intesi dai Bianchi (Palermo 1541-1820), Palermo, Sellerio Editore, 1999. 8. Vedi in questo volume il capitolo IV, “La ‘forza’ del silenzio in Sicilia”, per la versione integrale di questa parità e per un commento dettagliato. 9. Guastella S.A., Le parità morali, Bologna, Cappelli Editore, 1968 [1884], p. 233. 130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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10. Ivi, p. 235. 11. Ivi, p. 245. 12. L. Sciascia specifica l’utilizzo che i siciliani fanno della metafora in modo limpido nell’intervista concessa a M. Padovani, La Sicile comme métaphore, Parigi, Stock, 1979. 13. Per saperne di più sul castigo pubblico nelle città, vedere il volume dell’École Française de Rome, Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Roma, École Française de Rome, 1984; di Pieter Spierenburg, The Spectacle of suffering: executions and the evolution of repression, Cambridge, University Press, 1984, e di Daniel Arasse, La ghigliottina e l’immaginario del Terrore (La Guillotine et l’imaginaire de la Terreur, 1987), Milano, Xenia, 1988.

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Nome, sangue e miracoli: la rivendicazione della fama in Sicilia*, **

Come ben sappiamo, l’uso del concetto di “onore” è stato spesso osservato nella vita quotidiana dei membri di diverse società che circondano il litorale mediterraneo, suscitando diverse attese, fra cui quella di poter gettare le basi di una comparazione dettagliata tra queste società, le cui strutture paiono riflettersi nella forma che acquista la concettualizzazione dell’onore. Ma, per analizzare quel che significa “onore”, per prima cosa dobbiamo capire il modo in cui funziona e quel che implica il possedere dell’onore per quel che concerne le conseguenze sociali. Nelle società mediterranee, dove gli obblighi erano tradizionalmente fondati sugli accordi orali, solo l’onore individuale e, a più forte ragione, l’onore collettivo, potevano garantire il rispetto e l’esecuzione di un patto. Ogni uomo era investito, alla nascita, da una quota dell’onore derivante dalla sua famiglia o dal suo lignaggio: faceva così parte di un insieme che gli delegava, tra le altre cose, la sua “parte” dell’onore col*

Originale inglese intitolato Name, blood and miracles: the claims to renown in traditional Sicily, pubblicato in Peristiany J.G., Pitt-Rivers J. (eds.), Honor and Grace in Anthropology, Cambridge, Cambridge University Press, (“Cambridge Studies in Social and Cultural Anthropology”), 1992, pp. 151-165, qui tradotto dall’autrice. ** Vorrei ringraziare Antonino Buttitta, Jonathan Friedman e Pierre Bonte per avermi dedicato del loro tempo per discutere il tema dell’onore e, soprattutto quest’ultimo, come pure la Délégation Générale à la Recherche Scientifique et Technique (Parigi), per avermi dato, in origine, la possibilità di lavorare sul tema. Senza dimenticare i due curatori del volume Honor and grace, J.G. Peristiany e J. Pitt-Rivers, con cui ho regolarmente partecipato alle discussioni che organizzavano sul tema dell’onore in vari seminari, fra cui quello di J. Pitt-Rivers all’EPHE, 5° sezione (Parigi), al quale ho inoltre contribuito tenendo io stessa delle conferenze, nel 1980, 1983, 1984, 1985 e 1986.

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lettivo che era suo dovere proteggere e sviluppare. D’altro canto, l’onore apparteneva in solido alla famiglia o al lignaggio ed era trasmesso da una generazione all’altra come un legato: poteva essere aumentato o diminuito individualmente da ogni membro, uomo o donna, attraverso un comportamento lodevole o vergognoso. Gli elementi che costituiscono l’onore del gruppo e i criteri necessari alla sua concessione sembrano essere, in primo luogo, la castità delle sue donne; la purezza genealogica, per cui lo schiavo, l’intruso e il figlio della donna esogama ne saranno esclusi per preservarne la solidarietà1; il coraggio dei suoi uomini sul campo di battaglia e nel villaggio dove devono saper difendere il loro punto di onore, nif2; la capacità dei suoi uomini di difendere le loro donne dal rapimento o dall’onta e di vendicare il proprio gruppo della morte d’uno dei suoi membri indebolendo il gruppo dell’omicida; la generosità di cui i suoi uomini daranno prova verso i loro e verso gli altri durante le occasioni propizie, senza mai dimenticare i poveri3; la protezione che i suoi uomini sapranno dare agli stranieri in fuga o in difficoltà e ai loro ospiti considerati sacri4; la clemenza che dimostreranno verso i loro nemici; la misura che porteranno nei loro giudizi; la nobiltà che avranno saputo conferire al proprio nome e a quello del loro gruppo grazie alle loro azioni. Il possesso di tutte queste qualità darà prestigio al gruppo e al suo capo, caratteristica suprema dell’onore5. Se osserviamo più da vicino il meccanismo costituito da tutti questi elementi che sembrano fondare l’onore, e riducendoli all’essenziale, ci accorgiamo che i diversi aspetti visibili degli atti di onore hanno alla base il non-visibile e che tutti nascono da due criteri indissociabili che sono unici responsabili del funzionamento dell’onore, i criteri di Sangue e di Nome. Questi possono essere definiti come i due poli tra cui la politica dell’onore si equilibra. Ma l’onore è anche un mezzo di unificazione che congiunge il mondo femminile, il mondo dell’interno, a quello maschile, il mondo dell’esterno e, soprattutto, congiunge la società del passato a quella del futuro. L’onore diventa così la prima forma visibile di una coscienza che la società ha di se stessa e del suo futuro, una strategia che rivela il suo desiderio d’insediarsi nella storia.

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Onore: equilibrio del Sangue e del Nome Consideriamo nuovamente la definizione data: in una situazione ideale, l’onore di un gruppo dipenderà da una situazione di equilibrio (complementarity) tra i due criteri su cui è basato, il Sangue e il Nome6. La purezza del Sangue, dovuta soprattutto al comportamento delle donne, e l’integrità del Nome, dovuta invece all’attitudine degli uomini. Nel caso in cui il Nome o il Sangue si macchiassero, l’onore di cui il gruppo godeva si convertirebbe in vergogna e il gruppo dovrebbe, per recuperarlo, ristabilire l’equilibrio, l’onore perso.

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Onore: unione del mondo dell’interno al mondo dell’esterno I ruoli delle donne e degli uomini nelle società mediterranee sembrano essere, di primo acchito, radicalmente separati: da un lato il mondo delle donne (il mondo dell’interno, quello della mano sinistra)7, e, dall’altro, quello degli uomini (il mondo dell’esterno, quello della mano destra)8, ogni sesso essendo visto come responsabile della sua sfera particolare, le donne della purezza del sangue della famiglia a cui appartengono, e gli uomini dell’integrità del nome di questa stessa famiglia. Il ruolo delle donne, d’importanza capitale nelle società mediterranee malgrado il fatto che si svolga dietro le quinte, è stato praticamente sempre lo stesso durante la sua lunga storia: assicurare la continuità del gruppo e, soprattutto, la sua quantità riproducendolo, salvaguardare la sua purezza genealogica con la propria castità9. La priorità accordata da queste società alla purezza del sangue ha tramutato la donna in tabernacolo di questa purezza, ch’ella preserverà nel suo essere prima del matrimonio con la sua verginità. In Sicilia, all’alba seguente il suo matrimonio, i congiuti vengono a visitarla, e “il letto nuziale è disfatto già per mano della socera, che con gioja ed orgoglio constata e fa constatare ai più intimi i segni, che una vergine venne ad allietare la casa del figlio”10. Dopo il matrimonio, preserverà la sua purezza con il suo isolamento nella parte della casa o della tenda che le è riservata. Se per caso le incombe di uscire, il suo atteggiamento dovrà essere pieno di riserbo e i suoi abiti dovranno sottolinearlo: velata nei paesi musulmani mentre nei paesi cattolici, in ambiente rurale, quando non si velerà uscirà con il 135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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suo grembiule da massaia per sottolineare l’aspetto urgente, passeggero e indispensabile della sua uscita. Il suo ruolo, apparentemente passivo, sarà dunque quello di preservare, di conservare la stessa purezza al sangue che ha ereditato e di trasmetterlo tale e quale alla sua progenie; in quanto donna, ricettacolo di questa purezza, sarà sempre rispettata e il suo statuto sarà di tipo diverso da quello degli uomini, dato che si baserà su dei simboli e non su degli atti di valore. Questi simboli positivi sono collegati ad altri di tipo negativo a cui si oppongono, come il sangue mestruale, che si reputa abbia dei poteri magici malefici. A parte la sua capacità di deteriorare varie forme di piante o animali, i Siciliani credono, secondo Loria11, che le donne lo mescolano al pane che offrono all’uomo che desiderano far innamorare. Il ruolo degli uomini, all’opposto di quello delle donne, si svolge – una volta raggiunta l’adolescenza – interamente sul proscenio, anche se nel corso della loro vita cambia secondo le responsabilità che assumono. Quando sono giovani devono dar prova del loro coraggio e abilità nel difendere il loro punto di onore, devono essere degni del nome della loro famiglia. Quando sono più anziani, devono dimostrare la loro capacità di dirigere il gruppo familiare con la sagacità ed il prestigio dei padri12. Il loro ruolo è delicato dato che sono costantemente incitati a delle azioni intrepide da parte degli altri membri della famiglia che li incoraggiano ad aggiungere alla loro reputazione collettiva delle geste encomiabili o delle dimostrazioni di generosa intelligenza e di giudizio penetrante. Questa continua aspettativa da parte del gruppo e della comunità li incita a trascendere le azioni dei loro antenati con il rischio, evidente, di commettere degli sbagli per eccesso di ambizione. Per queste ragioni, le contese per l’onore producono un progressivo incremento della posta. L’attesa sociale per gli uomini che appartengono a famiglie meno importanti è minima, benché abbiano, quando sono giovani, delle occasioni per provare il loro coraggio e, se le colgono e se agiscono con accortezza, possono conseguire il più alto prestigio. In una società dove ogni uomo pensa di avere dell’onore, tramite la propria reputazione o quella dei suoi o tramite la modestia delle sue donne, è inconcepibile che nessuna opportunità gli sia concessa se ha il coraggio di farsi mettere alla prova e di acquisire una rinomanza. I giovani sono dunque tacitamente invitati a dimostrare quello di cui sono capaci e benché i loro errori pos136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sano essere giustificati dal fatto che sono ancora picciotti, a questo stadio sarà la loro “performance” a permetter loro di entrare nell’élite locale o di esserne esclusi per sempre. Dato che l’onore è spesso ottenuto dal picciotto a scapito di uomini più anziani, i conflitti di generazione possono diventare seri: il desiderio di distruggere il proprio avversario è delle volte così impellente da indurlo ad ignorare gli statuti stessi dell’onore per ottenere la sua caduta13. La perdita dell’onore è l’unica cosa che gli avversari temono ma, dato che possono incrementare il proprio onore privando gli altri del loro, la competizione può diventare tanto frenetica da rendere possibile ogni forma di scontro, persino l’omicidio. Grazie all’onore uomini e donne sono impegnati negli stessi obiettivi: mantenere la purezza genealogica del gruppo e salvaguardare la nobiltà dei padri di fronte alla società. Questa complementarietà dei ruoli è apparente quando l’equilibrio tra il mantenimento della purezza del sangue e dell’integrità del nome è infranto da un oltraggio. L’oltraggio al sangue del gruppo avviene quando un individuo o un gruppo esterno offende la castità di una o più donne del gruppo con o senza il suo consenso. L’equilibrio fra la purezza del sangue e l’integrità del nome essendosi rotto, l’onore trasformato in vergogna, gli uomini, responsabili agli occhi della società della loro rinomanza, si sentono costretti, per lavare l’affronto, a eliminare la donna in questione. Il problema, facilmente risolvibile nel caso di una giovane donna senza discendenza, si complica se si tratta di adulterio, poiché, anche dopo la morte della colpevole, la macchia resterà in famiglia. Ciò spiega la solidarietà che le donne siciliane mostrano quando una di loro prende un amante. Salomone Marino racconta che: «le vicine, le comari, le congiunte stesse più interessate – cioè, della famiglia del marito – sono le confortatrici e soccorritrici premurose ed affettuose in quest’opera di risorgimento dalla disgrazia se questa fu accidentale e unica: e allora si giunge a celar tutto agli uomini, che lavorano al campo, e ad evitar delitti e ruina di famiglie»14. L’oltraggio al nome del gruppo avviene quando un individuo o un gruppo esterno offende, sia verbalmente sia materialmente, uno o più uomini del gruppo. La vergogna che ne consegue è risentita maggiormente dalle donne, che incoraggiano con delle parole, dei canti o delle azioni gli uomini del loro gruppo a ristabilire l’onore della famiglia. Le interminabili vendette mediterranee nascondono invariabilmente una o più figure femminili le quali controllano che gli uomini facciano 137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vendetta. Appena la bara viene esposta al gruppo, la donna canterà, da attitadora, la morte del fratello, padre o marito rivendicando e annunziando la sua prossima vendetta. Ancora celebre è l’attitu di Bannedda Corraine cantato alla morte del fratello Carmine, nel 1905 a Orgosolo (Sardegna):

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Morto il compare onorato la famiglia cade in basso, Morto il mio compare cade in basso la famiglia, Ucciso ha il mio fratello chi era il peggiore della famiglia15.

La pressione morale esercitata dalle donne sembra essere stata generale nelle società agonistiche del Mediterraneo; è da notarsi che non si limitavano ad incitare l’azione solo in seguito all’oltraggio subito al nome, ma lo facevano anche preventivamente, quando esisteva un pericolo d’oltraggio. Ecco un esempio preso dall’Arabia: «Durante le battaglie, accompagnavano gli uomini al combattimento. Esse battevano allora del tamburello per stimolare il loro ardore. Talvolta, una giovane raccoglieva la bandiera ch’era scivolata in mancanza di portabandiera»16. E, in caso in cui fossero assenti dal campo di battaglia, gli uomini invocavano il nome delle loro sorelle nei momenti più difficili per ritrovare il loro coraggio.

Onore: unione del passato al futuro Sembrerebbe che la messa in atto di una politica dell’onore quale è stata fin qui definita sia la prima dimostrazione d’una coscienza che il gruppo avrebbe della sua esistenza passata e futura dato che, grazie alla sua purezza genealogica e alle gesta dei “padri”, acquista del prestigio trasmissibile ed ereditabile e ha dunque un controllo della sua storia. Ne consegue che vale meglio ereditare un certo tipo di passato piuttosto che un altro; da qui le manipolazioni di genealogie17 e la sparizione di primogeniti disonorevoli o senza gloria dalla memoria collettiva. Ogni gruppo esercita dunque la stessa politica dell’onore nella misura in cui ha bisogno di un minimo di quota di onore per entrare in comunicazione con il gruppo vicino, che avrà a sua volta la stessa quota per rendere lo scambio tra di loro possibile. Il bisogno che ogni gruppo ha di 138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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un minimo di onore, la sua rivendicazione di questo minimo di onore, i suoi scambi paritari, sono stati probabilmente all’origine dell’impressione di uguaglianza che numerosi osservatori hanno notato fra i membri di queste società. L’onore sembra essere dunque alla base di ogni gruppo costituito, è il substrato sul quale ogni gruppo si costituisce nel suo divenire; o meglio, una condizione sine qua non del suo divenire dato che il gruppo ne è determinato. Per cui una società che razionalizza gli atti dei suoi membri, che conserva e ordina il suo passato secondo dei criteri specifici, che struttura il suo futuro, è una società cosciente della storia e del proprio ruolo nella storia. In questa storia essa ha intenzione di entrare presentandosi come desidera esservi raffigurata, avendo perciò già costruito la sua “storia” secondo la sua ideologia e selezionando nel suo passato quello che merita di diventare il suo futuro. Si può dunque vedere nell’onore un primo tentativo, una strategia cosciente da parte delle società mediterranee, di darsi un codice da cui le decisioni morali, legislative ed esecutive saranno prese. Come dice Farès: la società araba deve molto all’onore: il rispetto dell’insieme dei suoi elementi considerati come un codice di leggi, contribuiva allo stabilimento e al mantenimento dell’ordine sociale. Inoltre, grazie all’onore, la proprietà privata, la morale sessuale e il rispetto della vita umana sono stati consolidati. In effetti, la protezione del debole era una barriera messa di traverso alla violazione della proprietà; la preoccupazione che si aveva della purezza della genealogia metteva un freno alla licenza; la vendetta, infine, stabiliva la sicurezza nel deserto (il timore delle rappresaglie obbligava l’Arabo a rispettare la vita altrui). D’altra parte, essendo allora alla base delle relazioni individuali e tribali, la fedeltà alla parola data era alla base stessa della fede giurata, cioè del contratto18.

Nelle società mediterranee i gruppi familiari edificano le loro forze economiche e politiche in base all’onore che sono riusciti a conquistare, onore che si svilupperà in seguito parallelamente ai progressi economici e politici dei suddetti gruppi. Per cui la necessità che hanno i membri del gruppo di mantenere il loro potenziale di onore, di svilupparlo da se stessi e per se stessi, implica una certa chiusura nel gruppo e una costante preoccupazione degli interessi propri al solo gruppo. Essendo 139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’onore alla base delle acquisizioni sociali del gruppo, è soltanto nella propria esistenza che il gruppo attinge le risorse necessarie al suo sviluppo. La continuità dell’integrità del Sangue e del Nome è essenziale per la sopravvivenza del gruppo, ma non potendo la certezza di quest’integrità essere garantita che da una conoscenza approfondita, al gruppo non resta che il ripiegarsi su se stesso visto che non può riferirsi che a sé. L’uso dell’endogamia e del matrimonio con la figlia del fratello del padre, largamente diffuso nel mediterraneo, s’inserisce verosimilmente in questo contesto. Il sistema che abbiamo descritto è essenzialmente statico, non lo ritroveremo mai concretamente in una forma così coerente dato che è suscettibile di trasformazioni o atrofie, il che significa che assisteremo a delle perdite dell’integrità del Sangue o del Nome risolte con un rafforzamento del criterio restante. Come scrive Pitt-Rivers19, le donne dell’aristocrazia, forti del loro Nome, non hanno più bisogno di esibire la loro modestia e la loro castità per preservare l’onore della loro famiglia. In questo caso l’onore sembra diventare autonomo, auto-sufficiente e nutrirsi della propria leggenda, garantendo in questo modo la continuità del Nome. Invece, nelle famiglie sprovviste di risorse necessarie per adoperarsi alla gloria del Nome, la castità delle donne diventa essenziale al sostegno dell’onore familiare. La visione storica della funzione dell’onore sembra quadrare perfettamente con la concezione lineare del tempo che hanno i membri di queste società mediterranee e che ritroviamo più particolarmente nella religione giudaica, cristiana e musulmana. Come vedremo nella seconda parte di questo capitolo, la struttura della nozione di onore si riflette in quella di grazia.

Grazia: equilibrio del Voto e del Miracolo Il concetto di grazia è altrettanto diffuso del concetto dell’onore fra gli abitanti del litorale Nord del Mediterraneo. Lo si trova nel Vecchio ma soprattutto nel Nuovo Testamento; è, in varie forme, anche una dottrina della fede cristiana ed ha delle forme equivalenti nel giudaismo e nell’islam. Come sottolineato, le società mediterranee erano un tempo basate 140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sull’accordo orale che, in forma di Patto, era alla base delle loro relazioni con Dio e i santi. Questi ultimi erano spesso invocati più per i loro attributi personali che per le loro capacità nell’intercedere presso Dio, specialmente in Sicilia dove l’assenza protratta del monarca l’aveva obliterato dalla memoria popolare rinforzando, allo stesso tempo, l’importanza dei suoi rappresentanti. La grazia personale e la grazia collettiva garantivano il rispetto e l’esecuzione di questo patto. Per questo, la grazia collettiva come l’onore collettivo, appartenevano alla famiglia ed erano trasmessi, come vedremo, da una generazione all’altra. In questo modo, ogni membro della famiglia aveva, alla sua nascita, una parte nella rivendicazione collettiva della grazia e l’opportunità di svilupparla tramite la sua fedeltà religiosa e la sua devozione. Poteva anche distruggerla, per sé medesimo come per la famiglia, tramite un comportamento scabroso. Gli elementi che costituiscono la grazia e i criteri con cui la società la riconosce nei fedeli e nei santi, sono i seguenti: la richiesta di un favore o di un miracolo fatto da un devoto a un santo di sua scelta, richiesta che sarà alimentata, nell’attesa che sia accordata, da diverse promesse, voti o da offerte; la concessione del favore o del miracolo da parte del santo; l’esecuzione del voto da parte del devoto per ringraziare il santo del favore o del miracolo; le innumerevoli manifestazioni fatte per testimoniare della loro ricezione; la presenza di numerosi santuari come prova della generosità del santo ad accordarli; l’esistenza, in ogni comunità, di un santo patrono prestigioso considerato come il più miracoloso di tutti. La presenza di tutti questi elementi reca un gran prestigio al credente, al suo gruppo ed ugualmente ai santi, la cui grazia è, in questo modo, resa manifesta. Gli atti di grazia – come gli atti di onore – possono essere ridotti ai due criteri di Voto e di Miracolo, visto che la grazia per accedere ha bisogno di uno stato di equilibrio tra la manifestazione di devozione da parte del richiedente e la manifestazione di benevolenza da parte del santo. Questo stato è assicurato, da un lato dal rispetto del voto da parte del credente e, dall’altro, dal compimento del miracolo da parte del santo. Inoltre, la grazia del gruppo o dell’individuo si convertirà in disgrazia se il voto o il miracolo restassero incompiuti. Per recuperarla, l’equilibrio perso dovrà essere restaurato. La grazia è anche un mezzo di unificazione, dato che connette il mondo materiale del credente al mondo spiritua141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le del santo; è anche un mezzo di stabilire una reputazione, qualche volta una reputazione universale, per i fedeli e i santi interessati.

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Grazia: unione dell’alto e del basso I ruoli dei credenti e del santo differiscono per il fatto che i primi fanno dei voti mentre il secondo accorda dei miracoli. Ma, se si guarda più da vicino, pare evidente che gli scambi hanno luogo solo quando i fedeli sono considerati “degni” dei benefici che il santo accorda. In questa trattativa, l’equivalenza tra le parti è giudicata necessaria. Questa equivalenza è sottolineata dal fatto che il credente ha ottenuto il miracolo; in effetti, se il miracolo concerne un organo particolare o una parte del corpo, per annunciare l’evento si appende al muro della cappella dedicata al santo un oggetto in argento o una rappresentazione della parte del corpo in questione, la parte in cui la grazia è penetrata. Oppure, il miracolo accordato è segnalato per mezzo di un’evocazione grafica dell’evento che ha prodotto la richiesta: un incidente in cui il credente (o un vicino parente) ha quasi trovato la morte; una malattia considerata incurabile; un incontro o un’aggressione da parte di pericolosi banditi o assassini; un naufragio. Per cui, comunicare agli altri le circostanze in cui una persona ha ottenuto la grazia è un modo di farsi conoscere come “degno” di un miracolo, “degno” di ricevere la grazia del santo e, di conseguenza, “degno” di essere rinomato. Delle volte è difficile distinguere, nelle richieste di grazia, le personali dalle collettive, nella misura in cui colui che prega per un miracolo fa spesso un voto personale per ottenere una grazia collettiva e, mentre la penitenza sottintesa nel voto è naturalmente assunta da lui stesso, il miracolo può riguardare qualcun altro, per esempio un bambino o un adulto malato, e la grazia è “ricevuta” e accettata da tutti i membri della famiglia. D’altro canto, delle richieste e delle concessioni di grazia esclusivamente personali o, al contrario, unicamente collettive, possono anche essere fatte. La descrizione di una vecchia festa, quella di San Giuseppe, che si celebra annualmente in Sicilia, illustrerà questi propositi: il 19 marzo, numerose donne celebrano i Virgineddi preparando, un po’ ovunque nell’isola, un pasto tradizionale20. Questo costume, ancora osservato ai 142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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giorni nostri, è abitualmente praticato in cambio di una grazia ricevuta: la guarigione da una malattia come la garanzia del lavoro per il capofamiglia; la festa è offerta a un minimo di tre giovani, di condizione povera, o a degli orfani. Tre giorni prima della festa, ad Alimena – dove Fatima Giallombardo ha condotto una ricerca21 – le donne del gruppo che ha fatto il voto compiono, con l’aiuto delle vicine di casa, le varie azioni preliminari che riguardano la preparazione del banchetto: la raccolta e la pulitura delle verdure, l’impasto della farina per il pane, la costruzione dell’altare. La vigilia, preparano la miscela in cui i cardi e i finocchietti dovranno essere immersi prima della frittura, e i pani, modellati in modo da richiamare le parti del corpo di San Giuseppe e/o il suo mestiere: le sue mani, il suo bastone, le sue iniziali, S e G (per San Giuseppe), i suoi strumenti da falegname. Un piccolo altare è eretto contro il muro, nel mezzo di due piccole tavole strette dove il pranzo sarà servito; dei veli bianchi, appuntati da palline colorate, stelline natalizie e nastri di carta argentata ricoprono il muro e ricadono sull’altare in un morbido drappeggio. Un piccolo quadro raffigurante San Giuseppe e il bambino Gesù è appeso alla parete, mentre sull’altare i pani sono disposti in file secondo la loro taglia. Dei fiori, del vino, delle bottiglie, delle arance e delle candele completano la scenografia. Le due tavole sono apparecchiate con tovaglie bianche. L’indomani mattina, il prete viene per benedire l’altare, le tavole e il cibo. Dopo la benedizione, il pranzo inizia e termina quando più nessuno busserà alla porta di casa. Tre o quattro gruppi, ognuno di circa venti persone, si siedono e mangiano a tavola, mentre le donne della casa li servono. A pranzo concluso, le donne cantano un frammento del Testamento di San Giuseppe, in cui il santo “presago delle sofferenze riservate al Figlio, si lascia morire per non assistervi”22. Quando gli invitati sono sul punto di andarsene, oguno riceverà dei pezzi di pane benedetti la vigilia dal prete. È a festa terminata che gli ospitanti e i loro collaboratori si metteranno a tavola per pranzare a loro volta. A questa festa privata, interamente intrapresa dalle donne di casa, fa riscontro una festa pubblica, celebrata unicamente dagli uomini in onore di San Giuseppe. La prima domenica del mese di maggio, i confratelli della “Compagnia di San Giuseppe” vanno in piccoli gruppi attraverso le strade di Alimena, con dei muli, per raccogliere le offerte di grano che 143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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numerose famiglie hanno promesso al santo in cambio di una richiesta o che danno “a grazia ricevuta”. Tradizionalmemte, il grano era distribuito ai poveri del villaggio; oggi, la sua vendita copre le spese della festa notturna. Nella serata dello stesso giorno, la statua del santo è portata in processione seguendo il percorso abituale attraverso il centro del paese. Durante la cerimonia religiosa, più persone si fanno avanti offrendo danaro al santo; dopodiché il loro nome è trascritto in un elenco che include tutti i nomi dei donatori e, in cambio, ricevono una santuzza, cioè una piccola immagine del santo. Durante la festa ad Alimena, il devoto assume raramente il suo ruolo da solo, benché la richiesta di un miracolo o di un favore possa anche farsi per sua sola iniziativa. Quando un santo risponde ad una richiesta, i membri della casa si sentono collettivamente privilegiati, e ciò spiega perché un voto, contratto per più anni, è completato dagli altri quando la persona che l’ha fatto muore prima di averlo portato a termine. I diversi membri della casa esprimono questo sentimento di partecipazione collettiva nel voto evocando le speranze che suscita in ogni sfera: le donne nell’intimità della casa e gli uomini sulla scena pubblica. Il devoto deve dunque adempiere al suo ruolo in stretta adesione coi precetti stabiliti per farsi riconoscere dalla comunità come il destinatario della grazia del santo o come “degno” di “incorporarla”, diventando, in un certo senso, equivalente al santo. Anche i santi, come vedremo, devono adattarsi alle attese della comunità; il grado del loro adeguamento determinerà la posizione che occuperanno, in seguito, in seno ad essa. Il loro ruolo è quello di fare dei miracoli, ma quando un santo è “sollecitato” da un fedele a compierne uno, ciò significa che è già stato selezionato dalla comunità come il migliore per assumere questo ruolo. La scelta è generalmente operata in ragione del fatto che sembra essere più capace degli altri santi a produrre i miracoli richiesti o che la sua vita terrena presenta degli episodi favorevoli alla realizzazione del miracolo. Il santo che, in un paese, gode il più grande prestigio è scelto per diventare il suo patrono. Per cui, quando il credente si rivolge a lui, in tutta umiltà, per chiedere un miracolo o un favore, il suo ruolo è “di ascoltarne le preghiere e soddisfarne le richieste”23. In seguito, il devoto, fiero della sua posizione privilegiata agli occhi del santo patrono, attestata dalla concessione di quanto ha richiesto, si affretta ad esibirla. Il numero di ex-voto nella chiesa dedicata al santo 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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patrono determina la sua importanza nella comunità e il numero di santuari o di chiese dedicate allo stesso santo in altri luoghi testimoniano della sua popolarità nella regione. D’altro canto, i culti, le reliquie, le collezioni, i pellegrinaggi, le processioni o le feste in onore del santo patrono sono, per i fedeli, un modo per ringraziarlo e per dimostrare alle altre comunità la sollecitudine che ha verso coloro che patroneggia e la generosità nel suo concedere favori e miracoli. Il fedele e il santo, legati dallo stesso patto, hanno dei ruoli complementari che legano il mondo materiale al mondo spirituale. La grazia è ottenuta tramite l’unione di questi due ruoli. Ciò è evidente quando uno dei soci in questione rompe il contratto, sia nell’omettere di eseguire il voto promesso, sia nel dimenticare di produrre il miracolo richiesto. La reazione del socio leso è immediata ed ha lo scopo di ristabilire lo stato di grazia o di equilibrio distrutto. Una rottura della relazione avviene quando il devoto, malgrado abbia ricevuto il favore richiesto o il miracolo, omette di mantenere la promessa di penitenza, di pellegrinaggio, di festa o di offrire la somma di danaro annunciata. Il santo, vedendo il patto infranto, tenta di ricordarglielo: quando è «portato in processione, davanti alle case di coloro che hanno scampato un pericolo, la bara “si fa più pesante” e i portatori non si muovono se il santo non riceve il dono votivo adeguato alla grazia»24. Se il devoto persiste nel trascurare la sua promessa, il santo ritirerà il miracolo accordato o invierà una malattia o un incidente in modo da obbligarlo ad invocare di nuovo il suo protettore ed, in seguito, ad adempiere le vecchie e le nuove promesse. La rottura della relazione ha luogo anche quando il santo tralascia di compiere il miracolo richiesto. Salomone Marino25 descrive i diversi modi in cui una richiesta personale o collettiva è ricordata ad un santo riluttante. La reazione individuale consiste nel ribellarsi al santo insultandolo, minacciandolo o picchiandolo; oppure infliggendogli una punizione ben peggiore, per esempio quella di appendere la sua immagine a capo in giù, o di levarlo dal posto di onore, per un altro ben inferiore, o di chiuderlo a chiave in un cassettone sino al momento in cui la preghiera è esaurita. Se poi il santo si ostina a non accordare la sua parte del negozio, la decisione finale sarà presa: la deposizione. Le ribellioni e le punizioni collettive hanno luogo, tra l’altro, quando i santi omettono di mandare la pioggia necessaria alla comunità. Quando Sant’Angelo, patrono di Licata, dimentica il suo dovere, i membri della 145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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comunità trasportano il suo simulacro al mare, dove gli rinnovano la richiesta in modo esplicito: – Sant’Ancilu! O chiovi, o codda! – cioè: O pioggia, o Voi giù dentro alle onde!26. Per questo stesso motivo, i Nisseni spogliano la statua del loro venerato San Michele del suo bel manto per ricoprirlo di un altro, stinto e rattoppato, dopodiché lo trasportano in silenzio nella chiesa dei Cappuccini dove resta a far penitenza sino a che la pioggia non arriva. Quando la grazia è ottenuta, traslocano l’Arcangelo dal suo luogo di correzione. A Monterosso, durante i periodi di siccità, i fedeli trasportano un Ecce Homo di cartapesta in processione per gettarlo in un beveratoio pubblico dove lo lasciano per punizione sino al momento in cui la pioggia, “la grazia di Dio” com’è chiamata, non cade!

Grazia: unione del presente al passato Abbiamo visto l’importanza che riveste il farsi una reputazione, sia per il santo che per il fedele e a che punto ambedue sono legati sotto questo aspetto, visto che ognuno contribuisce, in momenti diversi, alla costruzione dell’immagine pubblica dell’altro. Una buona reputazione è generata dalla comune conoscenza di eventi significativi: così come le famiglie portano le prove della verginità della loro nuora sospendendo le lenzuola del letto nuziale al balcone, i fedeli testimoniano dei miracoli ottenuti esibendo in chiesa un ex-voto che li illustrerà. È dunque tramite la comunicazione di eventi, condotta abitualmente su larga scala, che gli individui convalidano le loro pretese e sviluppano la loro potenziale mietitura di stima. D’ora innanzi, il santo miracoloso e il beneficiario del miracolo sono associati nella memoria collettiva; la loro rinomanza ratifica la loro entrata nella storia. Ma altri devoti si manifestano, rendendo note le benedizioni che essi hanno ugualmente ottenuto dal santo miracoloso, aggiungendo in questo modo il loro nome ai nomi già registrati. Questi nuovi arrivati, che cercano di riprodurre le azioni sante dei primi noti devoti, possono diventare, in seguito, altrettanto famosi. Perciò, per pervenire allo stato di perfetta grazia, il candidato è abitualmente obbligato a ricorrere ai miracoli del passato per ogni rivendicazione di elevazione spirituale. La condizione d’accesso alla gloria storica è quella di una 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perfetta adesione alla tradizione stabilita da eventi anteriori che, in questo modo, governano le azioni presenti. Invece di manipolare il passato per conseguire degli scopi ben specifici nel futuro, come nelle strategie adottate per pervenire all’onore, la grazia richiede un riconoscimento totale del suo passato. La relazione reciproca che lega i santi ai devoti per generare in seguito la grazia, può anche aver luogo per iniziativa dei primi, scegliendo i santi stessi con chi istituirla per concedere il loro favore: dei bambini innocenti o degli individui umili sono eletti, dal Cinquecento in poi, per trasmettere il messaggio che i santi vogliono rivelare al mondo. In effetti, se prendiamo gli esempi mondialmente conosciuti delle apparizioni della Vergine Maria, noteremo che avvengono senza specifiche richieste. Come hanno d’altronde raccontato i numerosi bambini a cui la Vergine è apparsa, essi erano spesso presi alla sprovvista e ignoravano, delle volte, la sua vera identità. Maximin Giraud, Melanie Calvat, Bernadette Soubirous o Mariette Beco, tra gli undici e i quattordici anni d’età, testimoni privilegiati di queste apparizioni – rispettivamente nel 1846, 1858, 1917 e 1933 – hanno tutti partecipato ad un avvenimento non sollecitato in cui una dama “sconosciuta” era la protagonista. La località in cui l’apparizione ha avuto luogo è sacralizzata da questa circostanza e attira, in seguito, i fedeli a causa del suo potenziale miracoloso. La Salette, Lourdes, Fatima o Banneux, posti considerati sacri e consacrati dopo l’evento, mantengono il loro potenziale di evocazione per milioni di pellegrini che vi si recano annualmente in processione, malgrado il fatto che nessun’altra apparizione sia avvenuta dopo. I fedeli rivivono il passato soprannaturale, legando in questo modo la loro ordinaria esistenza a quella dei suoi testimoni privilegiati. Il potere di attrazione delle apparizioni è dovuto essenzialmente al fatto che avvengono al di fuori delle relazioni usuali che legano il devoto al santo, palesando un modo più diretto e più spontaneo di conseguire la grazia. In effetti, se esaminiamo come un’apparizione ha luogo, noteremo che nessuna preghiera è offerta preventivamente, nessun voto è fatto: la grazia è data gratuitamente dai santi alle persone innocenti che la meritano. Peraltro, dato che il posto è impregnato della presenza divina, i devoti pensano che finiranno per trovarvi uno stato di grazia perfetta, come è avvenuto alle persone benedette, scelte per assistere all’apparizione della Vergine o del santo. In questo caso, l’aspetto miracoloso della re147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lazione del devoto al santo è comunicato dalla sua presenza sul luogo. Ma solo i bambini innocenti o le persone subordinate, come l’Indiano convertito che, nel 1531, ha visto la Vergine di Guadalupe (divenuta in seguito la patrona di Ciudad del Messico), possono ottenere il privilegio di un miracolo senza richiederlo. La persona umile, esclusa dalla lotta per il possesso di beni materiali o per l’ascesa personale, e i giovani, ignari dell’esistenza di queste lotte, riescono ad ottenere quello che gli altri sono pronti ad acquisire a qualsiasi prezzo, senza poterlo. Pochi dunque hanno una relazione con il santo in cui la componente del voto è mancante, dato che pochi ricevono senza dare, e questi pochi sono scelti, tramite un’inversione dello status sociale, tra i diseredati. Al contrario, molti hanno una relazione con i santi in cui la componente del miracolo è assente visto che, essendo coinvolti negli aspetti mondani della vita sociale, non hanno le qualità necessarie per assistere ad un’apparizione soprannaturale. Per questa ragione, visitano anno dopo anno i posti miracolosi che oramai incarnano il loro desiderio di un miracolo: la visita al luogo miracoloso diventa l’indispensabile surrogato del miracolo mai avvenuto.

Onore e grazia: simmetria delle relazioni terrestri alle celesti La descrizione dei concetti che ci concernono (onore/grazia) ha sottolineato la simmetria tra la relazione che gli individui stabiliscono con la loro cerchia per affermare il loro onore e quella che mantengono con i santi per ottenere la grazia. Queste due relazioni erano condotte con lo stesso ardore dalle classi superiori sino, grosso modo, al Cinquecento. Dopo questa data, l’onore ha cominciato ad essere reclamato su basi più larghe e il suo equilibrio si è sconvolto. Il Nome era attribuito essenzialmente alle famiglie nobili che potevano, in questo modo, fare a meno della sua controparte, la purezza genealogica, mentre il Sangue, soprattutto sotto forma di castità feminile, era adottato come criterio di onore dalle famiglie più povere. Nel frattempo la Grazia diventava accessibile, come abbiamo visto, a tutti i membri della società. La competizione tra gli individui o gruppi familiari per la supremazia sociale aveva d’abitudine luogo tra persone dello stesso rango o status, dato che il concetto di uguaglianza sembrava essere la condizione ne148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cessaria per accettare una sfida. Coloro che, essendo di un livello sociale inferiore, non erano autorizzati ad entrare in queste contese, si rivolgevano ai santi sperando di participare – tramite la ricezione della grazia – all’ordine celeste e di elevare, nella stessa occasione, il loro status. Il ricorso alle relazioni di grazia controbilanciava la loro inammissibilità nelle competizioni di onore conducendo, progressivamente, alla monopolizzazione di queste relazioni. La strategia sociale del potente s’impernia principalmente sull’onore, mentre quella dei subordinati si rapporta principalmente alla grazia. La prima sostiene e consolida la posizione sociale del Nome dei diversi avversari in concorrenza, permettendo loro di cancellare, se necessario, lo stigma della loro bastardaggine27. La seconda, invece, deve essere sorretta dai partecipanti stessi tramite un costante “avvisare” per promuovere la loro reputazione. La pubblicità data alle relazioni istituite con i santi rende noto il loro nome sulla scena pubblica, permettendo loro di essere onorati come degni membri della comunità e di divenire, in questo modo, un aggiuntivo alla loro fama. La società concede, alle persone o ai gruppi diseredati, l’opportunità di stabilire delle relazioni celesti con dei santi “umanizzati”, repliche delle relazioni terrestri che sono loro negate. Questa ricerca della reputazione nella sfera religiosa porta, come abbiamo visto, al riconoscimento sociale della persona sfiorata dalla grazia, ma, allo stesso tempo, permette alla società di controbilanciare i possibili tentativi di cambiamento radicale, offrendo un’alternativa alla competizione per l’onore e istituendo, in questo modo, una divisione sociale di cui ognuno sembra soddisfatto. Le relazioni terrestri e la loro contropartita celeste devono perciò essere considerate come complementari nel mantenere una società stabile.

Note 1. Farès B., L’Honneur chez les Arabes avant l’Islam. Étude de sociologie, Parigi, Maisonneuve, 1932. 2. Bourdieu P., Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila (Esquisse d’une théorie de la pratique, précédé de trois études d’ethnologie kabyle, 1972), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003. 149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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3. Pitt-Rivers J., Il Popolo della Sierra (People of the Sierra, 1954), Torino, Rosenberg & Sellier, 1976. 4. Pitt-Rivers, J., The Fate of Shechem or the politics of sex. Essays in the anthropology of the Mediterranean, Cambridge, Cambridge University Press, 1977. 5. Vedere su questo punto l’approccio di Pierre Bourdieu e il suo concetto di “capitale simbolico” in Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila (Esquisse d’une théorie de la pratique, précédé de trois études d’ethnologie kabyle, 1972), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003. 6. La distinzione tra il Sangue e il Nome, come precisato a inizio del capitolo, è una distinzione che ho costruito per, in seguito, elaborare un modello suscettibile di spiegare il funzionamento dell’onore nel Mediterraneo settentrionale. Questo modello è stato ispirato dalle mie letture e osservazioni in Sicilia. I Siciliani stessi non utilizzano questa distinzione o opposizione in modo cosciente, contrariamente a quello che si potrebbe credere leggendo il postscript di Pitt-Rivers a Honor and grace, cit., p. 226, e il suo capitolo “La maladie de l’honneur”, pubblicato in L’Honneur. Image de soi ou don de soi: un idéal équivoque, a cura di M. Gautheron, nella collana “Morales”, Parigi, Autrement. 7. Bourdieu P., Per una teoria della pratica, cit. 8. Ibidem. 9. Nelle società mediterranee del Nord, il ruolo “tradizionale” delle donne, così com’è descritto, è radicalmente cambiato dagli anni Cinquanta in poi. Ciò non significa che è totalmente scomparso, ma nemmeno che lo si possa ancora trovare in forma così radicale, qui presentata soprattutto in funzione della comprensione del “modello” ipotizzato. 10. Salomone Marino S., Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, 1879 (ristampa Bologna, Forni Editore, 1970), p. 197. 11. Loria L., Il Paese delle figure: Caltagirone. Firenze, Il Museo di Etnografia Italiana, 1907 (ristampa a cura di L.M. Lombardi Satriani, Palermo, Sellerio, 1981). 12. Sul tema della reputazione maschile, vedere il mio Arbeit und Männlichkeit. Die Konstruktion der Reputation bei den Bauern Süditaliens – tradotto da R. Hettlage – in Giordano C., Hettlage R. (hrsg.), Bauerngesellschaften im Industriezeitalter. Zur Rekonstruktion ländlicher Lebensformen, Berlino, D. Reimer Verlag, 1989, pp. 111-123. 13. Vedere “Il caso Franca Viola”, presentato nel capitolo X di questo volume. 14. Salomone Marino S., Costumi ed usanze, cit., p. 260. 15. Cagnetta F., Banditi a Orgosolo, Firenze, Guaraldi, 1975, p. 195: “Mortu 150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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‘ompare norattu s’ereu torra a bassu / Mortu ‘ompare meu torra a bassu s’ereu / Mortu ada a frade meu su pejus de s’ereu”. 16. Farès B., L’Honneur chez les Arabes, cit., p. 123. 17. Peters, E. Aspects of rank and status among Muslims in a Lebanese village, in Pitt-Rivers J. (ed.), Mediterranean Countrymen. Essays in the social anthropology of the Mediterranean, Parigi-L’Aia, Mouton, pp. 159-200. 18. Farès B., L’Honneur chez les Arabes, cit., p. 211. 19. Pitt-Rivers J., The Fate of Shechem, cit. 20. Pitrè G., La Famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano [vol. XXV della Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, 1870-13], Palermo, Reber, 1913 (rist. anast. Bologna, Forni, 1980), pp. 187-189; Grisanti C., Folklore di Isnello, Palermo, Reber, 1899-1909 (ristampa Palermo, Sellerio, 1981), pp. 59-60. 21. Giallombardo F., La Festa di San Giuseppe in Sicilia I, in «Archivio delle Tradizioni Popolari Siciliane», 5, Palermo, 1981, pp. 9-15. 22. Ivi, p. 11. 23. Salomone Marino S., Costumi ed usanze, cit., p. 175. 24. Loria L., Il Paese delle figure, cit., p. 54. 25. Salomone Marino S., Costumi ed usanze, cit., pp. 175-179. 26. Ivi, p. 177. 27. Su questo punto, vedere l’articolo di E. Le Roy Ladurie, The court surrounds the king: Louis XIV, the Palatine Princess, and Saint-Simon, nel volume edito da Peristiany e Pitt-Rivers, Honor and Grace, cit., pp. 51-68.

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La lupa o come il teatro delucida le metafore*

La Maga se ne stava nel palazzo incantato, tutto d’oro e di pietre preziose, e come passava un viandante, s’affacciava alla finestra per tirarlo in peccato mortale. Giovani e vecchi, vi cascavano tutti! Religiosi anche, e servi di Dio! Era una maga: e di vecchia si faceva giovane! Bianca e rossa come una ragazza di quindici anni! Con due occhi in fronte che erano due stelle! E volete sapere che ne faceva di quei poveri disgraziati, poi? Con un colpo di bacchetta, paff! Li mutava in asini o in animali. Finché un santo eremita, che venne a saperlo, disse: “Qui bisogna che vada io, se no finisce il mondo…”1.

Grazie a questo racconto – narrato da un personnagio del dramma La Lupa – Giovanni Verga segnala, appena alzato il sipario2, la minaccia tanto temuta che, da sempre, sembra pesare sull’umanità: un certo tipo di donna dispone del potere di trasformare l’uomo in animale ma, ciò facendo, lo scarta dal ruolo che è il suo, procreare, e precipita la società alla sua perdita. Il dramma illustra questo pericolo, denunziato dalla memoria collettiva, mettendo in scena un esemplare di questa specie temuta – la vedova – tramite la figura della gnà Pina3, una contadina ancor giovane della piana di Modica (Sicilia), sapientemente denominata “la lupa”; e attingendo inoltre nei sedimenti di questa memoria, ci restituisce le credenze che i Siciliani esprimono attraverso i loro timori, divieti, gesti e parole. * Originale francese intitolato La Louve ou le théâtre saisi par la mémoire, apparso nella rivista «Traverses» («Théâtres de la mémoire»), 1987, n. 40, pp. 62-71, tradotto dall’autrice. Una versione parziale di questa traduzione, dal titolo Il teatro carpito dalla memoria, è apparsa nella rivista «Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura», 1° anno, n. 4, 1988, pp. 76-79.

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La gestione della sessualità femminile Il controllo della sessualità femminile, nelle società mediterranee del passato, era applicato, comme tutti sappiamo, ai vari stadi e ruoli previsti della vita di una donna, almeno per quel che riguarda la religione ebraica e musulmana; nella religione cristiana, invece, la vigilanza si dissolveva quando la donna rimaneva vedova, non esistendo il levirato, come nelle suddette religioni, né alternative a questa regola. La lacuna di una sorveglianza “codificata” produce, in seno alle società cattoliche, un’abbondanza di rappresentazioni intese a governare, tramite un giudizio morale condiviso dai più, la sessualità delle vedove; inoltre, essa sottolinea il punto debole di un codice dell’onore che prevede diversi scenari per la gestione della sessualità femminile, ma tralascia quella delle vedove. In effetti è di questa lacuna, punto debole, e sovrabbondanza di immagini che vorrei trattare, cercando dopodiché di ipotizzare come, da questa falla, si sia inserito un immaginario collettivo che ha in seguito investito la sessualità delle donne in generale. È indispensabile, prima d’inoltrarci nel tema proposto, ricordare la definizione dell’onore da me presentata, che lo descrive come «una politica di equilibrio fra due poli d’importanza capitale per le società mediterranee, quello del Sangue e del Nome», dicendo che: in una situazione ideale, l’onore di un gruppo (una famiglia, un lignaggio, un clan o una tribù) dipenderà da una situazione di equilibrio fra, da un lato la purezza del suo Sangue, dipendente soprattutto dal comportamento delle sue donne, e dall’altro l’integrità del suo Nome, dipendente soprattutto dall’attitudine dei suoi uomini. Nel caso in cui il Nome o il Sangue si macchiasse, l’onore di cui il gruppo godeva si convertirebbe in vergogna e il gruppo dovrebbe, per recuperarlo, ristabilire l’equilibrio, l’onore perso4.

La tutela della perennità del Nome, strumento dell’inserimento della famiglia nella memoria collettiva, è assicurata, nell’antico diritto levitico ebraico, dalla regola del levirato5. Questa regola garantisce che il nome, “luogo dove tutta la sostanza dell’anima di un uomo giace”6, non venga “annullato” dopo la sua morte, grazie al matrimonio della vedova, 154 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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se senza figli, con il fratello del defunto; quest’ultimo in effetti procreerà in vece del defunto per “non sterminare il suo nome dalla famiglia del padre” (I Samuele 24: 22), ed “acciocché non si spenga in Israele” (Deuteronomio 25: 6). D’altro canto le donne, quando sono nubili, preservano la loro verginità; non “fornicano in casa del padre” per “non commettere un atto infame in Israele” (Deuteronomio 22: 21) così che “il segnale della loro verginità” possa essere esibito dal padre agli anziani in caso di contestazione da parte del marito (Deuteronomio 22: 15-21). Se l’anima di un uomo giace nel suo nome, “la vita della carne è nel sangue” (Levitico 17: 11), sangue che serve inoltre a “purgare” le persone dai loro peccati, tramite dei sacrifizi offerti al Signore, ma che è assolutamente proibito mangiare, come è proibito avere dei rapporti sessuali con una donna mestruata (Levitico 20: 18). Il nome del morto perciò non sarà “spento” da mezzo a quelli dei fratelli, né obliterato “dalla porta del suo luogo” (Rut 4: 12), dato che vivrà grazie al “sangue” della moglie che darà “vita alla sua carne”, ed al “flusso” del fratello che gli procurerà una progenie, contrariamente ad Onan (Genesi 38). La “ragione della consanguineità”, come la definisce la Bibbia, ovvero l’istituzione dell’endogamia, protegge ed inserisce l’individuo nel gruppo, ma allo stesso tempo lo piega a necessità atte a perpetuare la forza numerica di questo stesso gruppo, indispensabile in seguito per rivendicare ed avallare il potere in seno alla società. È la Chiesa cristiana a contribuire alla nascita dell’individualismo moderno7, ed è in questa chiave che si potrebbe, in effetti, leggere la proibizione da Lei decretata, nel 393, del levirato e di altri tipi di unioni fra i suoi seguaci8. Ciò nonostante non vorremmo – per spiegare questa differenza fra le due religioni – opporre l’“endogamia” della religione ebraica all’“esogamia” di quella cristiana, come fa Leach9, dato che quest’opposizione ci sembra una delle spiegazioni possibili, non certo la sola e forse nemmeno la più determinante.

Rappresentazioni della vedova Tornando al caso che ci concerne, cioè quello delle vedove, possiamo dire che con l’abbandono della regola di levirato da parte della Chiesa 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cristiana, le vedove si sono ritrovate in una posizione precaria; non che la Chiesa ignorasse il problema posto dalla loro situazione, dato che già Paolo aveva preconizzato diverse soluzioni a loro riguardo, classificandole in “vedove veramente vedove” e in “vedove voluttuose”, raccomandando ai fedeli di «assumere nel numero delle vedove la vedova non di minore età di sessant’anni, la quale sia stata moglie di un sol marito» (I Timoteo 5: 9); quanto alla “vedova voluttuosa”, che “avendo lussuriato contro Cristo, vuole maritarsi, rompendo la prima fede” (I Timoteo 5: 11-12), che «è, oltre a ciò, oziosa, andando attorno per le case, e non solo oziosa, ma anche cianciatrice e curiosa, parlando di cose che non convengono» (I Timoteo 5: 13), Paolo propone: «che le giovani si maritino, faccian figliuoli, siano madri di famiglia, non diano all’avversario alcuna occasione di maldicenza» (I Timoteo 5: 14). Seguendo l’esempio di Paolo, anche noi distingueremo le vedove in due categorie, le vedove giovani, ancora in età di procreare e quelle più anziane, già in menopausa, per notare che i comportamenti e le rappresentazioni che suscitano questi due tipi di vedove divergono ma sono, allo stesso tempo, dettati da preoccupazioni comuni legate al timore della sessualità. La vedovanza, specie quando tocca alle donne, incude “sospetto” nelle coscienze popolari; in effetti la morte è sempre mal accetta, ma se inoltre coglie il marito in modo subitaneo e inspiegato, si caricherà di una dimensione “magica” che spaventa generalmente gli osservatori, rendendo la vedova “responsabile”, ai loro occhi, della sua morte. Questa “responsabilità” è accentuata nel caso in cui la vedova sia giovane e piacente: già Giuda, come si legge nella Genesi, dopo aver dato a Tamar suo figlio, Onan, in seguito alla morte del primogenito Er, come prescriveva la regola di levirato, con la scusa di aspettare che Sela, l’ultimogenito, diventasse grande, rimandò Tamar a casa del padre, dopo la morte di Onan, visto che intendeva “provvedere a che l’ultimo non morisse, come i suoi fratelli” (38: 11). La “responsabilità” della morte del defunto è, come abbiamo visto, accentuata nel caso in cui la vedova sia giovane e piacente, dato che – oltre alla possibile accusa di aver dato la morte al marito tramite un’azione “magica” – si penserà siano state soprattutto le sue inestinguibili brame sessuali ad averlo consunto; quest’immagine di bramosia smaniosa la seguirà dopo il decesso del coniuge, creando intorno a lei un 156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

alone di scandalo che il narratore verista Giovanni Verga (1840-1922) ci restituisce fedelmente nel suo dramma teatrale La lupa, scritto e messo in scena nel 1896.

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Riassunto del dramma Riassumiamo ora questo dramma nelle sue grandi linee: nel contado di Modica dei giornalieri sono da diverso tempo riuniti per la mietitura; la sera si ritrovano sull’aia per raccontarsi la fiaba della “Maga che con un colpo di bacchetta muta gli uomini in animali”, stuzzicarsi a vicenda, ballare: al centro degli interessi maschili c’è la gnà Pina, denominata “la lupa”, una vedova trentacinquenne bella e provocante, con cui d’abitudine “ce n’è per tutti” ma lei questa volta s’interessa solo a Nanni Lasca. Nanni invece “non si lascia mangiare”, anzi, alla sua canzone “garofano pomposo, dolce amore,/ dimmelo tu come ti debbo amare”, replica “pensa la cosa, prima che la fai”, e perciò gli astanti consigliano alla gnà Pina di “andare al fiume per rinfrescarsi il sangue”. Quando Nanni rimane solo, Pina riappare rimproverandogli di avere “il cuore duro come un sasso” e di fare “finta di non vedere che cuoce a fuoco lento” ma lui risponde che preferirebbe avere la figlia in moglie, “ch’è carne fresca”, dato che non desidera mettersi in un “imbroglio” per non danneggiare il suo “buon nome”. Pina convince la figlia Mara ad accettarlo come marito mentre quest’ultima sbigottita le ripete “sapete bene che non può essere”. La madre torna affranta e piangente da Nanni a riferirgli che gli ha contratto il matrimonio; lui la ringrazia di essersi “spogliata della roba per darla alla figlia” mentre “è ancora in gamba… meglio della figlia” e per di più si considera fortunato di aver messo “il parentato e San Giovanni” fra di loro visto che gli fa “perdere la tramontana”; per precauzione le vuol fare “lo scongiuro” ma la gnà Pina lo informa che “lo scongiuro non giova”, l’ha fatto anche lei tante volte, invano, ed essendo “maledetta” “l’inferno l’ha avuto in terra avendo già pagato il male che fa”. Pina diventa così l’amante di Nanni mentre “passa stridendo una civetta”. Il secondo atto si svolge di venerdì santo circa quattro anni dopo: siamo in casa di Mara e di Nanni; lui è stato molto male, “in punto di morte”, nonostante ciò “non volevano neppure portargli il viatico” ma sua moglie “aveva fatto il voto” ed eccoli qui ad addobbare la casa con 157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ramoscelli e lampioncini per festeggiare la grazia ricevuta. Nanni si è confessato, è in procinto di portare lo stendardo della confraternita per la processione che si prepara, con una vera corona di spine in capo per espiare il suo peccato, e sarà accompagnato dal figlioletto. Ma la gnà Pina arriva: racconta che ha “preso le febbri”, che “poteva morire senza che nessuno lo sapesse”, ch’è “come un cane senza padrone”, e Nanni, che teme “di perdere la confessione”, chiama i vicini, per non restare solo con lei, chiama la moglie, ma poi scappa infuriato decretando che “c’è l’inferno in casa quando la madre e la figlia sono insieme”. La madre accusa la figlia di “averle preso tutto”, “la roba e tutto” ma la figlia ritorce che è una “scomunicata”, “una ladra” “che viene a rubarle la pace” e rivolgendosi alla vicina decreta che oramai “la casa è cascata e rovinata” la madre avendole “mangiato il sangue”. Nanni ritorna per dir loro di “finirla” che “è diventato la favola del paese”, ma Mara piangente taccia ambedue di “scomunicati” ed incrimina il marito di farla “morire disperata” chiedendogli come può “guardare in faccia” suo figlio; lui la prega di “non metterlo con le spalle al muro” che sennò gliela “leva dinanzi quella scomunicata di sua madre”. Mara però decide che “non può più stare in quella casa” ed esce incolpando il marito di aver “lasciato suo figlio orfano”. Nanni è rimasto solo con un vicino che gli dice essere “degno della forca”, ma lui si discolpa accusando le “male lingue”; “le male lingue – replica l’altro – sono tutto il paese”, e “tua moglie adesso” “dato che come le bestie sei”. Nanni spiega che “quella scomunicata” non può “togliersela d’addosso”, che “non va più neppure alla vigna, per sfuggirla”, ma ahimè è “legato stretto, mani e piedi” e “la catena bisogna romperla d’un colpo”. In quel mentre la “lupa” ricompare ed il vicino le consiglia di “lasciare in pace” il genero dato che “si è messo in grazia di Dio” tanto più che “il mondo è grande” e non “mancano gli uomini”. Ciò dicendo esce di scena lasciando nuovamente soli Pina e Nanni, che esasperato le ordina di andarsene, “vuole uscire – annunzia – da quest’inferno”; ma all’ostinazione della Pina a voler restare, alle sue insinuazioni che non è “buono a togliere gli altri dalle pene con un colpo solo” Nanni la maledice mentr’ella sostiene che “le madri come lei dovrebbero mangiarsele i cani” e che comunque “il diavolo li ha legati assieme”. Con una scure in mano lui si slancia verso di lei mentre Pina, a seni nudi, lo sfida a finirla “con le sue mani”. 158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’animalità delle vedove Un’analisi del testo in questione ci mostra che Verga indica, dalle prime battute dell’opera teatrale, il contenuto del tema da venire: si tratta di “una Maga che con un colpo di bacchetta muta gli uomini in animali”. Gli uomini, in questo dramma, diventano “bestie” quando trasgrediscono all’ordine sociale che dovrebbero invece rispettare dato che li mantiene “cristiani”. In effetti l’opposizione natura/cultura, molto enfatizzata in questo lavoro verghiano, è presentata tramite l’inserimento dei personaggi nel mondo dei “Cristiani” o in quello dei “Turchi”, dal loro essere in stato di “confessione” o di “scomunica”, vicini a “Dio” o al “Diavolo”, rispettosi di “San Giovanni” o meno, portatori dello “stendardo” in processione o no, ed infine, degni di ricevere il “viatico” o al contrario di morire “senza”. La religione cattolica comanda, attraverso le sue regole, le condotte che le persone debbono seguire nelle relazioni che imbastiscono con gli altri: non rispettarle significa collocarsi nel mondo animale, senza possibilità di scampo, neppure nell’aldilà. La vedova, il personaggio che più c’interessa, è – già dalla sua prima apparizione – connotata come “lupa”; contrariamente alle altre donne “porta l’allegria dove va”, “non si fa pregare” e con lei “ce n’è per tutti” dato che “non le piace la vedovanza”; per di più “è meglio della figlia”, una giovinetta oramai in età da marito. La vedova, lo dice lei stessa, è chiamata “lupa” poiché è una “cosa vile”, ma è più probabilmente denominata in questo modo perché, alla differenza del cane, animale addomesticato e asservito al padrone, il lupo è selvaggio e risponde solo ai propri istinti di conservazione. Fra questi istinti domina quello del “mangiare” ed, in effetti, è questa metafora che i diversi individui utilizzano quando parlano della passione che Pina nutre per Nanni; la stessa è impiegata da Nanni per rifiutare questa passione, quando dice “non mi lascio mangiare”, da Mara quando accusa la madre di “mangiarle il sangue” o da Pina medesima quando dice che “le madri come lei dovrebbero mangiarsele i cani”. Le vedove inoltre non si preoccupano delle proibizioni sociali quando si tratta di concretizzare la loro libidine, e l’esempio estremo dell’“animalità” delle vedove è illustrato dal comportamento di Pina che oltrepassa ogni misura mantenendo una relazione amorosa con suo genero; perciò la figlia la taccia di “ladra” e, nel suo caso, è una ladra della 159 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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specie peggiore dato che “mangiandole il sangue” dimostra non solo di volerle negare la sua femminilità10 ma per di più di non rassegnarsi al ruolo che oramai le incombe, quello di “nonna”, di “vedova veramente vedova”. Prima di ciò avrebbe forse potuto convolare a nuove nozze ma gli appetiti sessuali da lei dimostrati avevano allontanato ogni possibile pretendente; d’altronde Nanni le espone sinceramente il problema quando, rifiutandola, le dice che non desidera mettersi in “un imbroglio” dato che lui ha solo “il buon nome e la salute” e “deve pensare a maritarsi”. Soccombere a certe vedove è, per un uomo, passare dallo stadio “umano” a quello “animale” dato che, grazie alla loro influenza, ignorerà le regole di proibizioni e di prescrizioni matrimoniali, impedendo così che gli scambi tra le famiglie si facciano nelle condizioni previste. Moderna Circe la giovane vedova, se non si risposa subito dopo la sua vedovanza («fra cento matrimoni di vedove contadine, novantanove si sono conclusi dinanzi il letto funebre» dice Salomone Marino11), diventa per la comunità una minaccia potenziale da cui bisogna proteggersi tramite un insieme di rappresentazioni che sottolineano continuamente la sua pericolosità.

Da lupa a strega Questa pericolosità è meno sentita una volta che la vedova non seduce più il sesso opposto, ma non per ciò le rappresentazioni che la concernono diventano blande, al contrario, si ha l’impressione che la comunità, disfattasi di un incubo, decida di vendicarsi delle angosce subite facendogliele subire a sua volta, tramite una serie di azioni negative e, al contempo, non risolvendosi ad ammettere che le sue dannose facoltà siano cessate, la carica di una serie di immagini che la mortificano e l’annullano, rendendo equivoci gli atteggiamenti nei suoi riguardi dato che è sospettata di stregoneria12. È in questa chiave che si potrebbero interpretare le credenze popolari sull’esistenza delle streghe: donne che si lanciano in aria dai tetti, a cavallo di scope o bastoni, per recarsi al noce di Benevento il sabato sera per farvi “ridde infernali a sgambetti, a ballonzoli, a salti”13. Donne che «godono del privilegio di andare a visitare l’inferno e il purgatorio due volte la settimana»14; donne capaci, come dice Pitrè, di “legare un 160 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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uomo, cioè di renderlo inetto agli uffici di uomo e di marito”15. La “potenza maggiore (di queste) streghe è nella notte di S. Giovanni; a premunirsi dalla quale usano le (popolane) di mettere innanzi le loro case una scopa”16. A questa credenza le donne anziane, spesso vedove, hanno pagato un pesante tributo, soprattutto dal quindicesimo al diciottesimo secolo, dato che molte di loro si sono viste processare e condannare per stregoneria in tutta l’Europa17. In un registro meno drammatico, ma non per questo meno significativo, troviamo, fra le consuetudini popolari, quella di inscenare una “chiassata” dopo le nozze di una persona anziana, di una vedova o di un vedovo; «urli e fischi si alternano e (si) accompagnano a suon di campanacci, di padelle e di conche marine […] ripetendosi ad intervalli determinati e per più giorni di seguito»18. La sessualità degli anziani, e in particolar modo quella dei vedovi, manifestatasi tramite la loro nuova unione, suscita ripugnanza nella comunità nella misura in cui è fine a se stessa e non concepita in vista di procreare. In effetti è come se la “cultura” fosse concorde con la “natura” per aborrire ciò che quest’ultima esclude, ridicolizzando pubblicamente tutti coloro che si dimenticano delle sue disposizioni. Le rappresentazioni che le società cristiane costruiscono sulle vedove, prodotte in misura maggiore quando il controllo sulla loro sessualità è minore, ci indicano, enfatizzandole – come abbiamo visto – quali sono le angosce e le paure che assillano queste società per quel che riguarda la sessualità femminile in generale. In effetti le vedove essendo “libere”, “sole”, non soggette alla stretta “vigilanza” maschile – considerata “essenziale” per mantenere a freno la prorompente sessualità femminile – angosciano i membri della loro società che credono perciò di vederle volar nottetempo sardonicamente per i cieli, a cavallo di enormi simboli fallici19, raffigurando in questo modo l’accaparramento, da parte loro, degli attributi maschili essenziali alla riproduzione sociale.

Note 1. Verga G., La Lupa, in Teatro verista siciliano, a cura di Alfredo Barbina, Bologna, Cappelli, 1970, p. 168. 2. Questo dramma, scritto nel 1894, fu rappresentato per la prima volta il 26 161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gennaio 1896, al Teatro Gerbino di Torino. Generalmente, si dovrebbe motivare la scelta di un’opera letteraria quando è utilizzata nell’ambito delle scienze sociali, ma questo dramma verghiano, come molti degli scritti veristi dell’autore, è a tal punto partecipe delle rappresentazioni sociali in vigore alla sua epoca che, a mio avviso, l’utilizzarlo può fare a meno di giustificazioni. 3. Gnà: diminutivo utilizzato dai contadini siciliani per signura. 4. Vedere, per l’analisi del tema dell’onore, il capitolo VIII, “Nome, sangue e miracoli” in questo volume. 5. Ci riferiamo agli esempi riportati dalla Bibbia con una certa cautela dato che mancano a questa fonte gli indispensabili elementi di verificabilità e di numero: in effetti ignoriamo l’estensione dell’applicazione della regola di levirato e perciò non sappiamo sino a che punto Rut, Tamar, ecc., siano delle eccezioni o meno. 6. Pedersen J., Israel. Its life and Culture, Londra, H. Milford-Oxford University Press, 1926, 2 voll., citato da Mars L., What was Onan’s crime?, in «Comparative Studies in Society and History», 3, 1984, p. 435. 7. Dumont L., Saggi sull’individualismo (Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne, 1983), trad. it. di C. Sborgi, Milano, Adelphi, 1993, pp. 33-67. 8. Goody J., La Famiglia nella storia europea (The Development of the family and marriage in Europe, 1983), Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 60. 9. Leach E., L’Unité de l’homme et autres essais, trad. di G. Durand, T. Jolas, M. Luciani, A. Lyotard-May, C. Malamoud, Parigi, Gallimard, 1980, pp. 161-221. 10. Héritier F., Maschile e femminile. Il pensiero della differenza (Masculin/ féminin. La pensée de la différence, 1996), Roma-Bari, Laterza, 2002. 11. Salomone Marino S., Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, cit., p. 223. 12. La ricerca che Elsa Guggino conduce da più anni sul tema della magia in Sicilia e, soprattutto, del ruolo femminile nell’esperienza magica, è indispensabile per chi desidera approfondirne il tema (vedi bibliografia). 13. Pitrè G., La Famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, cit., vol. IV, p. 112. 14. Ivi, p. 113. 15. Ivi, p. 114. 16. Ivi, p. 117. 17. Muchembled J., La Sorcière au village (XV°-XVIII° siècle), Parigi, Gallimard-Julliard, 1979. 18. Pitrè G., La Famiglia, la casa, la vita, cit., vol. II, p. 107; Le Goff J., Schmitt J.-C. (dirr.), Le Charivari, Parigi-L’Aia, Mouton, 1981. 162 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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19. Pitt-Rivers J., The Fate of Shechem or the politics of sex. Essays in the anthropology of the Mediterranean, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 133.

163 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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PARTE QUARTA PRENDERE LA PAROLA

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Il “caso Franca Viola”, la ragazza che disse di no*, **

La relazione di un “evento”, fabbricato dalla stampa, e le diverse griglie di lettura che richiede saranno l’argomento di questo nostro capitolo; la riflessione che lo alimenta si appoggerà sui concetti di mito e di storia e sui rapporti che intrattengono – di complementarità, opposizione e autonomia. Il corpus1, fornito da un episodio avvenuto in Sicilia nel 1966, è il “caso Franca Viola”, a suo tempo presentato dalla stampa locale e nazionale come il primo rifiuto di una tradizione ben impiantata nella società siciliana: il ratto della giovane da marito (fuitina), seguito dal matrimonio “riparatore” con il rapitore. Il matrimonio “riparatore” era obbligatorio dato che lo era anche la verginità delle giovani. È in effetti su questo imperativo della verginità delle ragazze, linfa dell’immaginario collettivo delle società mediterranee e punto nodale delle loro ideologie dell’onore2, che la tradizione della fuitina e del matrimonio “riparatore” ha il suo appoggio. È giustamente questo imperativo della verginità che Franca Viola nega rifiutando di sposare il suo rapitore dopo diversi giorni di prigionia. Tre diverse griglie di lettura ci permetteranno di collocare questo “evento”, posto dalla stampa sulla scena pubblica, su diversi livelli. * Originale francese intitolato Mythe et histoire dans l’élaboration du fait divers: le cas Franca Viola, pubblicato dalla rivista «Annales ESC» («Faits divers, fait d’histoire»), 38e année, n. 4, 1983, pp. 827-842, tradotto dall’autrice. Questa traduzione italiana, dal titolo Mito e storia nell’elaborazione di un fatto di cronaca: il caso Franca Viola, è apparsa nella rivista «Memoria. Rivista di storia delle donne», n. 16, 1986, pp. 87-101. ** Desidero ringraziare il Sig. A. Calabrò per avermi facilitato lo spoglio del giornale “L’Ora” e, soprattutto, la Sig.ra M.C. Crucillà, del settimanale «Oggi», per aver avuto la cortesia di procurami la documentazione necessaria. Grazie a loro, la mia ricerca ha potuto proseguire nelle migliori condizioni.

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La prima lettura si limiterà a percepire il contenuto del “messaggio” che i giornalisti ci trasmettono; la seconda analizzerà il contenuto delle “immagini” che i giornalisti utilizzano per descrivere i personaggi e l’“evento”; la terza lettura tenterà di trovare, al di là delle spiegazioni e delle immagini, un’obiettività e una razionalità che sembrano fare loro difetto.

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Relazione dell’“evento” Franca Viola, una giovane di Alcamo di quindici anni d’origine sociale modesta, si fidanza, con il consenso dei genitori, con Filippo Melodia, di otto anni più anziano, nipote di un noto mafioso locale e membro di una famiglia agiata. Il fidanzamento è interrotto circa sei mesi dopo dal padre della ragazza in seguito all’accusa di furto e appartenenza a banda mafiosa mossa al giovane. Dopo pochi mesi il giovane si presenta con tre dei suoi amici in contrada Mezzatesta, dove il padre Viola lavora come mezzadro, per chiedergli di rivenire sulla sua decisione, ma costui rifiuta. Dopodiché Filippo Melodia si fidanza con un’altra ragazza ed emigra in Germania Occidentale da dove torna i primi del 1965, un anno e mezzo dopo la sua partenza. Dal mese di maggio dello stesso anno il padre Viola è l’oggetto, da parte del giovane Melodia, di una serie di atti d’intimidazione e di devastazione dei beni tipici della strategia mafiosa delle zone latifondiarie della Sicilia occidentale. Il 28 maggio, la casa colonica del padre Viola in zona Mezzatesta è incendiata; il 28 luglio, cinquencento sue viti sono danneggiate; in ottobre, Filippo Melodia stesso si presenta con un gregge per farlo pascolare nelle vigne; l’indomani, porta questo stesso gregge nel terreno coltivato a pomodoro; due giorni dopo, il giovane informa il padre Viola della vendita del suo gregge ma gli ingiunge di lasciare la contrada Mezzatesta nei tre giorni successivi. Lo minaccia di morte, in presenza della moglie, e mostra loro la pistola in suo possesso. Peraltro, delle minacce sono proferite due volte di seguito da uno sconosciuto al padre del nuovo fidanzato di Franca Viola con l’ingiunzione di rompere il fidanzamento. La rottura è immediatamente adempiuta. È il 26 dicembre 1965 quando Filippo, aiutato da sette suoi compagni, penetra nella casa dei Viola per rapire Franca ai suoi genitori. Dopo 168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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aver forzato la porta e gravemente malmenato la madre che cercava coraggiosamente d’interporsi, i giovani ripartono in macchina portando con loro una Franca senza conoscenza e il fratellino Mariano aggrappato alle sue gonne nel vano tentativo di trattenerla3. Quest’ultimo è rispedito a casa mentre Franca è tenuta prigioniera da Filippo Melodia per sette giorni: prima in una casa di campagna relativamente isolata, poi a casa di sua sorella ad Alcamo stessa. Un incontro suscettibile di ristabilire la pace (paciata) fra le due famiglie è organizzato dai parenti di Filippo Melodia e dallo zio materno di Franca durante la notte di Capodanno. È in questa occasione che Franca incontra i propri genitori. Piange abbracciandoli e chiede loro di poter rientrare a casa, ma è “rimandata” al suo rapitore come era stato convenuto. È l’indomani che la polizia libera Franca facendo irruzione nell’appartamento della sorella di Melodia. Filippo e i suoi compagni sono arrestati e imprigionati dato che il padre Viola rifiuta il matrimonio “riparatore” per la figlia e, come prevede la legge italiana, questo matrimonio avrebbe permesso al giovane Melodia di non essere incolpato per ratto. Il padre Viola decide di costituirsi parte civile malgrado le diverse pressioni esercitate per dissuaderlo. Il processo contro Filippo Melodia e i suoi complici si svolge nel dicembre 1966 a Trapani sotto lo sguardo attento di tutta la stampa locale e nazionale. In effetti “il caso Franca Viola” era oramai diventato di dominio pubblico e le diverse correnti di opinione sulla colpevolezza o l’innocenza degli incolpati rifletteva l’appartenenza a dei settori politici ben precisi. Inoltre, la stampa e la classe politica di sinistra vedevano, tramite questo processo, l’occasione di intaccare – almeno in parte – il potere della Mafia. Questa occasione poteva essere sfruttata a due livelli: fare subire uno smacco alla reputazione di infallibilità e di supremazia della Mafia e, di rimbalzo, alle risoluzioni prese da quest’ultima. Inoltre, gran parte della stampa scritta e orale e della classe politica si accordava per criticare e condannare certi costumi, in questo caso la fuitina, dipendenti da valori caratteristici della società siciliana, come la verginità. Perciò il ministro della Giustizia, Oronzo Reale, presenta al presidente della Repubblica una proposta di decorazione onorifica per il padre Viola; la sua iniziativa è immediatamente appoggiata da un quotidiano come il “Corriere della sera”. Filippo Melodia è condannato a undici anni di carcere. La sentenza è salutata dalla stampa laica come un atto di coraggio, “un momento di 169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una battaglia più vasta contro un costume”4. Ma l’interesse del pubblico per questi personnaggi, e di conseguenza della stampa, non finisce qui. Franca Viola, subito denominata dalla stampa “la ragazza che disse di no”, diventa un emblema ed un esempio da seguire per un buon numero di donne dal femminismo nascente. Lo stesso cinema s’impadronisce della sua storia facendola diventare, grazie al regista Damiano Damiani e al fisico di una Ornella Muti adolescente, La moglie più bella. Rifiuta di vedere giornalisti e fotografi ma nonostante ciò è sempre braccata dagli uni e dagli altri. Cerca di gestire la sua vita quotidiana in modo anonimo senza riuscirci: il suo matrimonio, la sua maternità, i suoi traslochi da Alcamo a Monreale e i suoi ritorni, per seguire suo marito negli spostamenti professionali, sono costantemente “coperti” dalla stampa. È dunque a causa della curiosità della stampa, e pure a causa del rigetto da parte di certi abitanti di Alcamo, che Franca Viola è ridotta a non uscire più da casa5. Per aver saputo dire “no” diventerà colei che oramai si chiamerà “la sepolta viva” o “la murata viva”.

Prima lettura: il discorso intenzionale Ci sembra che la prima lettura dell’“evento”, creato intorno al “caso Franca Viola”, debba essere fatta a livello del discorso intenzionale utilizzato dai vari giornalisti, magistrati e avvocati che si sono occupati di questa vicenda. Il discorso intenzionale prodotto dall’episodio è essenzialmente imperniato su un’idea dominante: il rifiuto di accettare un costume secolare marca il passaggio, per i siciliani, da un mondo tradizionale ed irrazionale ad un mondo razionale; questo passaggio implica il loro ingresso nella Storia. Per meglio valorizzare questa idea nei loro discorsi i giornalisti criticano, durante tutta la durata del caso, i costumi in seno ai quali nasceva, reperendo e mettendo in evidenza le opinioni dei siciliani intervistati per mostrare il loro ancoraggio in questi medesimi costumi e distinguendo i personaggi principali in eroi e anti-eroi. Ma qualche anno dopo, ridiscutendo dell’“evento”, loro stessi passano da un discorso retto dall’idea di “progresso” ad un altro, più fatalista, dove l’immobilismo è presentato come inerente alla “natura” siciliana. Abbiamo notato, in questo fatto di cronaca, che i protagonisti (Franca 170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Viola e il padre) si distinguono dagli altri protagonisti di “matrimoni per ratto” simili per quattro azioni principali. Queste azioni sono: la trasgressione alla norma che deriva abitualmente dalla fuitina, cioè l’accettazione del matrimonio riparatore; l’indifferenza al sentimento di “vergogna” che deve generalmente invadere la ragazza e la famiglia in caso di perdita della verginità al di fuori dal matrimonio; la mancanza al principio di vendetta che regola spesso questo tipo di antagonismo; il rifiuto di lasciarsi intimidire dalle pressioni tipicamente mafiose esercitate a più riprese su di loro. Queste azioni, ognuna delle quali ha una certa portata nel contesto sociale siciliano, hanno provocato, per la loro accumulazione, lo stupore, lo scandalo o l’ammirazione, in altri termini, “l’evento”. Leggiamo, in ordine cronologico, gli estratti dei giornali che illustrano meglio i “discorsi intenzionali” dei loro autori. Appena il rifiuto del matrimonio riparatore da parte dei genitori Viola diventa evidente, la stampa li difende chiedendosi: «Perché allora condannare la figlia a una vita di sofferenze, in nome di un idolo che considera l’illibatezza di una fanciulla alla base del suo onore?»6. La stessa eroina giustifica la sua scelta ripetendo grosso modo la medesima idea: Perché la mia vita deve essere condizionata da una barbara usanza? Non intendo piegarmi a certi pregiudizi ed essere poi una infelice per tutta la vita7. [Ma] Franca Viola ha saputo opporsi al pregiudizio che vuole che una ragazza “compromessa” non abbia altra scelta se non sposare colui che contro la sua volontà e con la forza l’abbia rapita per metterla di fronte al fatto compiuto. Franca Viola ha detto no a questa medioevale usanza. “O va via dal paese o rimarrà una sepolta viva” dicono i soliti benpensanti8.

La data del processo si avvicina, però «la gente continua a ripetere che il matrimonio tra Franca e Filippo si farà comunque, presto o tardi, e nessuno potrebbe mai impedirlo»9, [che] «se prima [del clamore giornalistico] le probabilità che aveva di trovare marito ad Alcamo erano poche, adesso sono addirittura nulle»10. 171 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il processo si svolge a Trapani e il “matrimonio riparatore” è giudicato dalla stampa come «una anacronistica norma del codice italiano in virtù della quale in casi del genere il matrimonio estingue automaticamente il reato. È una delle norme più assurde, addirittura tribali»11. Filippo Melodia è visto come colui che ha organizzato e realizzato il rapimento della ragazza non perché innamorato ma per un tipico puntiglio di mafioso che non ha accettato, lui ricco e forte, di essere respinto da chi era povero e debole12. Franca Viola, al contrario, è «la prima nel ribellarsi ad una legge non scritta per cui la ragazza rapita finisce per diventare la moglie del rapitore»13. Documento acquistato da () il 2023/04/23.

La classe politica interviene nel dibattito: A pensare a questi episodi ed al coraggio di Franca Viola e di suo padre, che si sono ribellati ad una antica legge morale, conquistando in tal modo per sé e per tutti gli altri una nuova moralità iscritta nella storia, dobbiamo dire che indugiare sulla via delle riforme costituisce una grave colpa nei confronti di questi oscuri ma eroici cittadini, come anche contro tutta la coscienza nazionale14.

Al termine del processo si commenta l’importanza dell’“evento”: In questo modo si conclude una triste storia che affonda le sue radici in una assurda mentalità, in un ambiente medioevale. Ma è anche una storia importante: per la prima volta non soltanto una ragazza in Sicilia ha preferito rimanere “disonorata” piuttosto che accettare la prepotenza dell’uomo, ma soprattutto un padre, anziché risolvere la questione imbracciando un fucile e vendicarsi con le proprie mani, ha creduto nella forza della legge e in quella dello Stato15.

Spesso il commento va oltre ai risultati realmente acquisiti: Si è concluso pochi giorni fa il processo che finalmente ha condannato e infranto la tradizione che da secoli mortifica vergognosamente la vita di molta parte della società siciliana: il cosiddetto “matrimonio riparatore”, il matrimonio cioè che doverosamente segue al rapimento. Un 172 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mezzo che ancora troppo spesso viene usato in Sicilia per risolvere certi matrimoni difficili. Un processo nato dall’atto eroico di una donna che con tutte le sue forze ha cercato di riscattarsi non accettando la violenza cui era stata sottoposta16. [Riassumendo,] questo processo è la storia della giusta ribellione di Franca Viola contro gli ormai ammuffiti capitoli del secolare romanzo dell’onore femminile, così come è sempre stato concepito in alcuni strati sociali; ma è anche la storia di un certo mondo ribaldo e ipocrita, insolente e mafioso, che vediamo impersonato da Filippo Melodia, il rapinatore e principale imputato17.

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Poiché, come spiega la stampa femminile, è nei disegni degli astri che Filippo si “incapricci” di Franca, “la più bella del paese”; la vuole sua secondo la più pura tradizione siculo-virilgallistica, una legge scritta spesso col sangue, una legge che dice: la più bella al più forte18. [Dopo il rapimento,] va incontro all’arresto, ma è sicuro del fatto suo: ancora una volta non potrà fallire la tradizione medievale, il ricatto in nome di un onore che più di così non potrebbe invece essere calpestato19. [Mentre] la ragazza viene pur sempre considerata una disonorata, il processo di Trapani ha solo posto l’enunciato di un più grosso problema che va risolto alle radici di un mondo che dovrà andare oltre la civiltà e la emancipazione del rifiuto di Franca Viola20.

Quando Franca Viola partecipa il proprio matrimonio, la stampa ricorda: due anni fa dicevano ad Alcamo «Franca Viola si farà monaca o sposerà Filippo Melodia quando uscirà di galera. Lui l’ha disonorata e lui deve riparare. Lei mostrerà pure di esserne contenta. Adesso fa la difficile perché è giovane e non ha ancora capito che a certe leggi non si scappa, ma quando vedrà che nessuno la sposa, che è costretta a vivere come una reclusa, che gli uomini si divertono alle sue spalle quando passa per la strada, rientrerà nella legge»21. [Il futuro marito] è un coraggioso, un ribelle come Franca, dicono ad Alcamo. Altrimenti come potrebbe sfidare i commenti maligni della 173 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gente salendo all’altare con Franca Viola vestita di bianco? Altrimenti come potrebbe mettersi contro la nostra trista legge22?

Tra anni dopo il processo, l’avvocato Fileccia fa parte della sua delusione:

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In Sicilia, purtroppo, l’esempio di Franca Viola, la sfida che questa ragazza ha lanciato ad una mentalità popolare retriva, ai miti dell’onore e del matrimonio riparatore, il coraggio di Bernardo Viola, che ha osato opporsi alla mafia e sostenuto la figlia in quella che potremmo chiamare una “scelta di civiltà”, sono serviti a poco23 [benché Franca Viola] prima delle siciliane a sfidare le tradizioni secolari dell’isola, divenne per il mondo intero un’eroina24.

La disillusione si estende progressivamente a tutta la stampa ed in seguito a ciò assistiamo ad una litania di lamenti sull’assenza di “cambiamento” in Sicilia dopo il “caso Franca Viola”: «Il suo esempio è servito a poco: le donne [in Sicilia] hanno continuato a cedere alla volontà del loro rapitore»25. La discrezione di Franca Viola e la sua reticenza a sottomettersi alla curiosità della stampa sono diversamente apprezzate: “Ora vive quasi prigioniera e poca gente le è amica”26. Non bisogna dimenticare che «l’ambiente le è ostile. Per il continente è un’eroina. Ma per la gente di qua, resta una ragazza “disonorata”»27. D’altronde, «come vuole che questa stessa gente possa essere fiera di quella Franca Viola che si rivolse alla legge per ottenere giustizia nei confronti di Filippo Melodia?»28. I primi bilanci convergono tutti sull’idea di sconfitta e sulla permanenza dei costumi tradizionali: «Tirando le somme, a sette anni dal coraggioso gesto di Franca, bisogna purtroppo prendere atto di una realtà sconfortante: quaggiù nulla è cambiato»29. Franca Viola “si è accorta che la Sicilia è sempre la stessa: spietata e ingiusta con le donne ‘disonorate’”30. O ancora, «sul capo di questa ragazza che venne innalzata a eroina dai giornali di mezza Europa pesa la maledizione dei vecchi di Alcamo “Le leggi dell’onore ha violato”, ammoniscono severi, “Mai pace deve trovare”»31. Come abbiamo notato il discorso intenzionale ingloba, nella sua relazione dei fatti, un giudizio. Perciò il “caso” diventa inseparabile, per 174 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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i lettori, dai commenti che la stampa o gli uomini politici aggiungono costantemente ai fatti, non essendo dato loro modo di distinguere facilmente le dichiarazioni dei protagonisti dalle opinioni dei giornalisti. Abbiamo già sottolineato come il discorso intenzionale si è imperniato su di un’idea dominante: il rifiuto di un costume secolare marca il passaggio, per i siciliani, da un mondo tradizionale e irrazionale ad un mondo razionale; questo passaggio implica il loro ingresso nella Storia. Questa idea, regolarmente reiterata, che gli estratti presentati dai giornali mettono in evidenza, si costituisce nell’opposizione sistematica delle nozioni di mito e di storia. Il discorso intenzionale quindi distingue nettamente due mondi: l’ambiente siciliano e l’universo proprio dei giornalisti, avvocati, politici, connotati negativamente e positivamente. Ricordiamo che i costumi dei siciliani sono tacciati di “barbari” e di “medievali”; le loro norme sono “tribali” e “anacronistiche”; la loro mentalità è “assurda” e “retrograda”; la loro concezione dell’onore, qualificata come “triste” “legge non scritta”, è un “mito” e un “idolo”, un “capitolo ammuffito di un romanzo secolare”. A questo mondo si oppone un altro dove risiede “l’emancipazione” e la “civiltà”, dove s’iscrive “la storia”, insomma un mondo “scelto” dai nostri “coraggiosi” “eroi” malgrado “la maledizione dei vecchi”. È a questo primo livello di lettura dell’“evento”, creato intorno al “caso Franca Viola”, che una netta separazione è percettibile intorno a nozioni come mito e storia. Queste nozioni illustrano dei mondi dicotomici e gerarchizzati e il passaggio – rischioso! – da un mondo all’altro avviene in una sola direzione, senza che un ritorno sia giudicato auspicabile o possibile. Esse diventano perciò ermetiche le une alle altre come questi due mondi che sono supposte rappresentare. La nozione di storia non può avere nessun fondamento su quella di mito, mentre quest’ultima non deve avere presa o influenza su di lei. Rendendo queste nozioni impermeabili l’una all’altra allo stesso tempo si esclude dall’ambito della storia gran parte dei costumi o delle pratiche sociali che vi sono tuttavia iscritti; si relega, fuori da questo stesso ambito di cui ci si appropria, un certo immaginario collettivo – fonte e ispirazione di diverse tradizioni – che si giudica, in modo troppo positivistico, come nefasto e negativo. Una volta ancora si congiunge, alla nozione di storia, quella di cultura, mentre si conserva prudentemente, per quella di natura, la nozione di mito. 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Seconda lettura: il discorso referenziale La seconda lettura dell’“evento” dovrebbe, secondo noi, completare la prima, dato che è fatta a livello del discorso referenziale utilizzato dai giornalisti, avvocati e magistrati già citati. Questa griglia di lettura dovrebbe permetterci di vedere quali sono i riferimenti scelti dalla stampa nella messa a punto del suo discorso e come questi riferimenti sono suscettibili di condizionare la percezione del lettore sui fatti e i personaggi che gli si presentano. I riferimenti culturali, politici e religiosi si concentrano sulla scena del ratto che è quella ad aver maggiormente colpito le menti: la rapidità, la violenza e la crudeltà delle azioni del rapitore per arrivare al suo scopo sono state paragonate, più o meno felicemente, a scene simili sorte in altri contesti. D’altronde, i due principali protagonisti del dramma, il rapitore e la sua vittima, danno adito a numerose interpretazioni che portano tanto sui tratti della loro personalità che sul “vero” rapporto esistente fra di loro, “prima” e “dopo” il ratto. Leggiamo qualche ulteriore estratto dai giornali per apprezzare l’uso del “discorso referenziale”. La stessa Franca Viola dichiara, nel descrivere il ratto e i giorni del sequestro: «Gridai disperatamente aiuto con quanto fiato avevo in gola e poi mi pare di essere svenuta. (Perciò) ricordo solo nebulosamente quello che avvenne in seguito e ciò forse per la paura e l’orgasmo del momento»32. La sua indifferenza verso il suo aggressore è proclamata più volte: Affermo che dal momento in cui il mio rapitore Melodia Filippo mi condusse ed introdusse nella sua abitazione di campagna […] io rimasi a letto in stato di semincoscienza, non alzandomi mai, nemmeno per affacciarmi alla porta. Ricordo che consumavo qualche pasto standomene a letto33. [Franca prosegue:] La violenza carnale la subii nella casa di campagna del Melodia. Io ero debole perché ero digiuna dalla sera di Natale. Gli dicevo: vastaso, vastaso34!

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Questa relazione sarà più volte riportata dalla stampa che però si premura di rettificarla dato che

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non una fanciulla era Franca Viola nella casa di campagna di Filippo Melodia, ma una bestiolina impaurita, digiuna, disperata, che si risveglierà solo alla fine della tragica vicenda35. [O] la ragazza tentò di resistergli per cinque giorni: veniva picchiata e veniva privata di cibo e di acqua. Alla fine, stremata, cedette36.

Quando rifiuta il “matrimonio riparatore”, Franca dice: «Preferisco finire in convento piuttosto che sposare l’uomo che mi ha costretto a stare con lui una settimana»37. Questa attitudine ferma nel “rifiuto” incita il giornalista a notare che: «quel “no” – lo si è saputo poi – coronava tutto un atteggiamento conservato da Franca durante gli otto giorni del sequestro»38. Al termine del processo si constata che «i giudici hanno riconosciuto la violenza carnale, che Franca non era consenziente, che fu costretta a forza, il suo onore è salvo»39. Il “personaggio” maschile è invece tracciato in questo modo: «Filippo era un giovane arrogante che si dava arie di gran dongiovanni e si compiaceva di mostrare il calcio della pistola che riluceva fuori dalla cintura»40. La preparazione del ratto e la sua realizzazione sono spesso narrati in modo “epico”: Il nostro “don Rodrigo” arma una banda di sette desperados e, di buon ora, nella fredda mattina di Santo Stefano, piomba nella casa dei Viola: spara a destra e a sinistra per terrorizzare la povera famigliola e, proprio come nei film western, strappa la fanciulla che si dibatte furiosamente41. [E ancora:] Al momento del ratto, scene da Far West, sparatorie, porte e vetri sfasciati, madre malmenata, fratellino di otto anni trascinato per chilometri attaccato alla gonna della sorella42.

Ma le cose finiscono male dato che: «Don Rodrigo è in prigione, Renzo è scappato, Lucia non si riesce a vederla, Agnese sfugge quelli che potrebbero aiutare sua figlia»43. L’interesse dei giornalisti è diretto principalmente sulla protagonista 177 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del “caso” che caratterizzano in diversi modi, mettendo per prima l’accento sulla sua bontà: «“Ti prego, ti prego, fallo morire”. Poi scoppiò in lagrime pentita, perché la ragazza è troppo buona per desiderare la morte di qualcuno, fosse pure quella dell’uomo che le ha rovinato la vita»44. In seguito, il ruolo della protagonista come attivista sociale e politica è sviluppato dalla stampa, ma alcuni interventi lo circoscrivono: «Immaginare Franca Viola come una suffragetta, una piccola Giovanna D’Arco, addirittura, sarebbe certamente ridicolo; Franca non aveva, né ha, programmi di rivoluzione sociale»45. Il suo ruolo conforme a quello delle “vergini martiri” è invece spinto in avanti: «Franca Viola è quasi una beata Goretti – ha detto il procuratore generale, dott. Fici – “quasi” perché non è morta. Ma essa è soltanto viva nel corpo e colpita, profondamente ferita, nello spirito»46. Questo ruolo sembra esserle riconosciuto da tutti dato che anche l’avvocato Ludovico Corrao dice: “Ho fatto soltanto il mio dovere, per una causa giusta, santa. L’importante è che sia finita bene”47. Il discorso referenziale rinvia, nella sua descrizione dei fatti, a dei riferimenti che, essendo noti, sono supposti dare ai fatti una colorazione ed una genealogia atte ad integrarli di pieno peso nella storia condivisa dagli autori e dai lettori. Abbiamo già notato che i riferimenti si applicano più particolarmente alla scena del ratto ed ai due protagonisti, ai tratti della loro personalità e alla “vera” natura dei loro rapporti, prima e dopo il ratto. Questi riferimenti attingono ai sedimenti della memoria propria alla società degli autori e ci conducono, senza che loro ne siano coscienti, fuori dai sentieri della storia per farci penetrare in quelli del mito. Il discorso referenziale collega così i fatti e i personaggi ad altri fatti e altri personaggi provenienti sia da romanzi celebri, sia da agiografie popolari, sia d’altre fonti. Perciò la protagonista non ha potuto essere rapita che “svenuta”; nell’abitazione di campagna dove è sempre “rimasta a letto”, in “stato di semincoscienza”, “disperata” e “priva di cibo e di acqua”, è “stata picchiata” e non ha ceduto che “stremata”. Preferisce il “convento” al matrimonio con il suo rapinatore, personaggio “arrogante” che si dà “arie da dongiovanni” e che agisce come in un “film western” o come il “Don Rodrigo” dei Promessi sposi. Il “no” di Franca Viola “corona tutto l’atteggiamento conservato durante il sequestro” e dunque “il suo onore è salvo”. Franca, paragonata ad “una suffragetta”, 178 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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a “Giovanna D’Arco” o alla “beata Goretti”, è stata “colpita e ferita nello spirito”; prendere la sua difesa è stata “una causa giusta, santa”. La descrizione del sequestro della protagonista si fa dunque tramite dei riferimenti che rinviano spesso all’agiografia cattolica delle “vergini martiri”: rapite contro la loro volontà, rifiutano qualsiasi scambio con i loro rapitori sino a lasciarsi morire d’inanizione o sotto la tortura48. Grazie a questi riferimenti la protagonista è stata issata al rango di queste “vergini martiri” diventando essa stessa una “vergine martire” laica. Il suo personaggio si conforma così ad un personaggio integrato nella memoria collettiva della sua società. Volere a tutti i costi inserire fatti e personaggi nuovi nelle strutture preesistenti al loro avvento è un modo di ridurre l’“evento” a qualche cosa di prestabilito e di conosciuto ed è perciò un modo d’intralciare l’analisi e la conoscenza dei fatti che si è in diritto di apprendere. Rimandare un episodio nuovo, e probabilmente diverso, a qualche cosa di già conosciuto, che si padroneggia totalmente, è un modo di deprezzarlo e d’impedire al lettore contemporaneo d’acquisire una conoscenza vera delle forze in gioco. Ma soprattutto è un modo d’impedire al lettore delle generazioni future di poter distinguere, nel fatto di cronaca stesso, la parte di storia da quella degli elementi appartenenti alle nostre rappresentazioni. L’avvertimento che ci rivolge E. Veron, e che riprendiamo per nostro conto, reputa che il discorso dell’informazione, elaborato dai nuovi media, contenga dei pericoli sempre più grandi per la costituzione della memoria, una delle basi della storia49.

Terza lettura: il discorso contestuale La terza griglia di lettura dovrebbe portare all’“evento” gli elementi necessari alla sua giusta comprensione, dato che è fatta a livello del contesto da dove provengono i fatti e dove agiscono i personaggi che abbiamo seguito passo passo. La lettura “contestuale” reca al lettore degli elementi che attenuano i precedenti: le ambiguità, le contraddizioni nelle dichiarazioni e nelle motivazioni dei diversi protagonisti, sembrano smentire le “opposizioni” che giornalisti, magistrati e avvocati hanno percepito tra il loro mondo, quello della razionalità e della storia, e il mondo dei siciliani, irrazionale 179 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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e mitico. A questo livello di lettura una contiguità e una continuità fra queste due nozioni e questi due mondi sono percettibili, rendendo la loro opposizione o la loro autonomia poco operatoria quanto all’intelligibilità dell’evento. Leggiamo, tramite questa terza griglia, le diverse dichiarazioni dei protagonisti, per cogliere l’episodio nel suo “contesto”. La stessa Franca Viola dice che il periodo di fidanzamento, trascorsi i primi tempi, non fu affatto tranquillo perché mio padre, resosi conto che trattavasi di un partito non conveniente per il carattere del giovane e per i suoi precedenti giudiziari, cominciò ad esercitare nei miei confronti ed anche nei confronti di mia madre, assidua opera di persuasione perché il fidanzamento venisse troncato. Io però che mi ero affezionata al giovane non fui subito d’accordo con mio padre, il quale ad un certo punto ritenne di dovere licenziare il detto Melodia Filippo impedendogli di frequentare la mia casa50.

Alcuni abitanti di Alcamo raccontano: «Filippo Melodia era stato accolto in casa dei Viola come fidanzato in prova. Lui, ragazzo ricco, proprietario di una Giulietta, si era abbassato a provare il fidanzamento con quella gentuzza. E loro ebbero il coraggio di dirgli che non andava bene. Che altro poteva fare se non lavare l’affronto con un atto di forza?»51. Secondo loro il ratto si giustificava dato che: «Franca di Filippo non ne voleva più sapere, non lo amava più; l’affronto, a questo punto, era gravissimo»52. [Perciò] «tutta la faccenda divenne sempre più una questione d’onore: Filippo doveva salvare la faccia, non poteva tollerare che tutto il paese sapesse che lui, proprio lui, era stato rifiutato da un “bifolco”»53. Filippo Melodia tenta di “lavare l’affronto” con una serie di azioni intimidatorie contro il padre Viola che quest’ultimo riferisce: Filippo Melodia stesso, con la sfrontatezza che lo distingue, in mia presenza e senza il mio permesso ha avviato il gregge a pascolare nelle mie vigne. L’ho chiamato, chiedendogli contezza di tale suo fare e richiedendogli l’autorizzazione scritta che evidentemente non aveva, perché avrebbe dovuto riceverla da me. Lo stesso mi diceva con fare altezzoso e provocatorio di essere in possesso di autorizzazione e che a me non 180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

interessava. Ho dovuto ripiegare per non compromettermi. Questa mia prudenza veniva però interpretata come debolezza da parte del Melodia che il giorno successivo mi faceva trovare le pecore nel terreno coltivato a pomodoro. Fortunatamente la presenza del Melodia Vincenzo è valsa a scongiurare possibili complicazioni tra me ed il Melodia Filippo54.

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Il ratto e il sequestro di Franca Viola sono attuati due mesi dopo; una paciata è organizzata al domicilio dello zio materno di Franca dove trascinano pure lei: «Appena rividi mio padre gli dissi che volevo tornarmene con lui e che non volevo tornare con Melodia. Mio padre non so perché mi diceva “per oggi vattene”»55. L’indomani è liberata dai carabinieri e uno di loro, un brigadiere, attesta: Quando fu liberata Franca Viola, […] tenevo in pugno la pistola per precauzione, ritenendo che Melodia fosse armato. Viola mi disse “Non spari, è già mio marito”56. [La sorella del Melodia, dove Franca fu ritrovata, riferisce a suo turno:] «Ho sentito le parole “Per carità, non sparate! è mio marito”, pronunciate da Franca Viola agli agenti di Pubblica Sicurezza che avevano fatto irruzione nella mia casa»57.

Ecco come Franca spiega il suo comportamento: Considerai che i miei genitori, messi di fronte al fatto compiuto, sarebbero stati indotti, secondo le consuetudini locali, ad acconsentire al matrimonio col Melodia, nonostante fossero stati così gravemente offesi. Solo ora, tra le pareti della mia casa e circondata dall’affetto dei miei familiari, sentendomi al sicuro, mi rendo conto della estrema gravità di quanto avvenuto58.

Due ragioni sembrano soprattutto motivarla: “Non mi doveva prendere con la forza” – ha detto – “si è sempre accanito contro mio padre. Non lo voglio più vedere”59. I giornalisti rapportano anche le dichiarazioni di Filippo Melodia: «Chi ha detto che non è giusto rapire una ragazza per sposarla ma quando questa è d’accordo, come lo era Franca Viola “per tutto quanto era 181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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accaduto fra di noi”, e c’è un genitore che si oppone senza giustificato motivo, la fuga diviene legittima»60. L’avvocato della difesa dichiara che: «è questo un episodio di costume che giustamente deprechiamo, ma non è giusto di una colpa ambientale, regionale, di costume, far piangere conseguenze inasprite e più gravi a un figlio di questa terra, responsabile di esservi nato e di esservi vissuto»61. Al termine del processo si nota che l’accusa più grave è caduta, l’accusa cioè che Filippo avesse compiuto il ratto e la violenza principalmente allo scopo di oltraggiare il padre di Franca Viola, la quale, se accettata, avrebbe implicato l’ipotesi che si trattasse di caratteristica impresa mafiosa. La mafia dunque è stata respinta fuori del processo, e la difesa si è vista accettare sostanzialmente la tesi che i complici di Filippo Melodia gli abbiano dato man forte nel ratto persuasi in buona fede che il suo scopo fosse il matrimonio. Se Franca poi lo avesse sposato non sarebbe accaduto nulla. Si è tenuto conto del peso delle usanze. Sentenza relativamente mite62.

Il discorso contestuale ci aiuta a prendere atto delle numerose contraddizioni che costellano questo fatto di cronaca, contraddizioni che ci permettono di situarlo, una volta per tutte, nella traiettoria dei costumi di cui è l’emanazione. La sua lettura richiama la nostra attenzione sull’intervento del padre prima del ratto e dopo la paciata, sulle reazioni degli abitanti di Alcamo, sulle parole di Franca all’arrivo dei carabinieri e sulle dichiarazioni che seguono la sentenza. Come abbiamo potuto notare è il padre di Franca Viola che congeda il fidanzato della figlia facendo “opera di persuasione” presso di lei e della moglie; davanti alla serie di atti intimidatori di cui è l’oggetto da parte del giovane Melodia, preferisce “ripiegarsi per non compromettersi”, ma vede la sua prudenza “interpretata come debolezza”. Gli abitanti d’Alcamo trovano legittimo “che un ragazzo ricco salvi la faccia lavando l’affronto fatto da un bifolco”. Il ratto avviene, ma durante la paciata, organizzata qualche giorno dopo, il padre “rimanda” la figlia al rapitore; lei protegge costui dai carabinieri il giorno della sua liberazione ma si rende conto “dell’estrema gravità di quanto avvenuto” una volta tornata a casa. Filippo Melodia ritorce da canto suo che “la fuga è 182 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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legittima” quando un padre si oppone al matrimonio e quando la figlia è d’accordo. Al processo, invece, si riconosce che Filippo Melodia non ha compiuto il ratto “allo scopo di oltraggiare il padre di Franca Viola”: di conseguenza il suo atto non è considerato “un’impresa caratteristica di mafioso”. Questa lettura ci fa pensare che, contrariamente alle conclusioni del processo, il ratto è stato bello e compiuto allo scopo di oltraggiare il padre di Franca Viola. Definire questa azione “mafiosa” perché è un mafioso a rendersene colpevole o perché è successa in Sicilia è un segno di profonda misconoscenza della logica che sottintende questo tipo di azioni. In una situazione “normativa”, di fronte ad una fuitina, due comportamenti sono possibili, ma si ritiene che solo uno dei due può preservare l’onore dei rivali (il padre/il rapitore), quello in cui il matrimonio “riparatore” conclude il ratto. Un comportamento “trasgressivo” si stabilisce quando il rapitore pensa che il suo onore ci guadagna a rifiutare il matrimonio “riparatore” al padre della vittima, considerando che in questo modo getta il padre e la famiglia nella vergogna. Ma una situazione di “rottura” s’instaura quando il padre rifiuta al rapitore il matrimonio “riparatore” con la propria figlia, dato che normalmente l’onore del padre è leso quando la figlia è deflorata dal rapitore prima del matrimonio, visto che è compromessa non essendo più “pura”. Come e perché un padre può pensare che una tale “rottura” dalle norme consuetudinarie è per lui sinonimo di onore e non di vergogna? È che il ruolo, eminentemente attivo, degli uomini è duplice per quel che riguarda la salvaguardia del loro onore: devono, da un lato, mantenere la loro reputazione, il nome della famiglia, e dall’altra difendere e controllare la purezza delle loro donne dagli estranei. Il padre, nel caso da noi osservato, non aveva a difendere di fronte al rapitore la sola “purezza” della figlia ma anche la propria rinomanza. Costretto da troppo tempo da Filippo Melodia ad un ruolo passivo, considerato in queste regioni come tipicamente femminile, il padre, che si era “ripiegato per non compromettersi”, ha dimostrato con il suo rifiuto del matrimonio “riparatore” al rapitore della figlia che “la sua prudenza non doveva essere interpretata come della debolezza”. Per il suo senso dell’onore i ripetuti affronti che aveva personalmente subito, la passività di cui aveva dovuto fare prova per salvare la propria vita e quella di sua 183 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

moglie, erano più gravi del torto patito con la sola perdita della “purezza” della figlia. In questo sistema sociale in cui ogni protagonista partecipa della stessa ideologia, abbiamo notato che l’antagonismo, dovuto all’opposizione dei criteri di onore e di vergogna, si è stabilito fra i due uomini interessati, il padre e il rapitore. In effetti, il ratto della ragazza era, per il rapitore, un modo di “doppiare la messa” e di umiliare definitivamente il padre pensando di forzargli in questo modo la mano. È stato, in questa competizione d’onore, l’ultima posta di una serie di azioni che sottintendeva ognuna la vergogna per l’altro e dunque la sua uscita dal gioco.

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*** La precedente analisi ci ha dato modo di mettere in evidenza che diverse letture di uno stesso testo riguardante un fatto di cronaca sono possibili, e soprattutto che esse oltrepassano spesso gli obiettivi espliciti dei giornalisti; inoltre, ci ha permesso di notare che il fatto di cronaca serve da supporto a delle dimostrazioni che si applicano sugli elementi suscettibili di aiutare nella comprensione dell’episodio, particolarmente quando diventa un evento di ampiezza nazionale. Ci sembra in effetti che lo sguardo che i letterati gettano sui costumi, percepiti come estranei, delle altre categorie in seno alla loro società, è meno tollerante e intelligente di quello portato sulle culture esterne che si fanno oramai un dovere di capire. Inoltre, esaminano la loro società tramite un prisma di razionalità che si auspicano di ritrovare nella storiografia che si elabora quotidianamente; ma, come abbiamo potuto notare, l’apprezzamento razionale che credono di avere nei confronti dell’evento è un’illusione e l’opinione che emettono sui fatti di cronaca può essere altrettanto parziale dei fatti che criticano. Senza dubbio esiste una più grande distanza tra i giudizi che le diverse categorie sociali d’una stessa società stabiliscono l’una sull’altra che fra quelli di due società diverse. La distanza che separa, in una stessa società, gli attori dagli spettatori, giudici del dramma che si svolge, si coglie perciò tramite la comprensione di un fatto di cronaca. Il fatto di cronaca appare dunque come uno specchio che ci rimanda la misura dello scarto esistente fra diversi strati sociali che si affrontano e si pensano senza mai essere portati a comprendersi. 184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Note 1. Per l’analisi, abbiamo soprattutto utilizzato il quotidiano locale “L’Ora” e i quotidiani nazionali “Il Corriere della Sera” e “La Stampa”; i settimanali d’informazione «L’Espresso» e «Epoca»; i settimanali «Oggi» e «Gente»; e i settimanali femminili «Bella» e «Annabella». 2. Peristiany J.G. (ed.), Honor and shame. The values of Mediterranean society, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1965; Pitt-Rivers J., The Fate of Shechem or the politics of sex. Essays in the anthropology of the Mediterranean, Cambridge, Cambridge University Press, 1977. 3. L’abitudine in Sicilia di rapire le giovani donne grazie all’aiuto di amici al volante di macchine è al centro dell’articolo di Marinella Fiume, Lo ’sciaffer rapitore. Maschi e contrattazione matrimoniale in Sicilia, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», n. 27, 1989, pp. 78-93. 4. “L’Ora”, 17-18 dic. 1966, p. 3. 5. Vedere l’interessante articolo di Vedere l’interessante articolo di Denise Grodzynski, Ravies et coupables. Un essai d’interprétation de la loi IX, 24, 1, du Code Théodosien, in «Mélanges de l’École Française de Rome», t. 96, n. 2, 1984, pp. 697-726, per l’opinione legale romana della giovane rapita, che evolve da “vittima” a “complice”. 6. “L’Ora”, 3-4 gen. 1966, p. 10. 7. Ivi, 5-6 gen. 1966, p. 5. 8. Ivi, 9-10 maggio 1966, p. 4. 9. «Epoca », 8 nov. 1966, p. 60. 10. Ivi, p. 57. 11. “L’Ora”, 8-9 dic. 1966, p. 3. 12. “La Stampa”, 14 dic. 1966. 13. Ibidem. 14. “L’Ora”, 16-17 dic. 1966, p. 5. 15. “La Stampa”, 18 dic. 1966. 16. «Bella», n. 1, 1967, p. 30. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ibidem. 20. Ibidem. 21. «Gente», n. 45, 1968, p. 6. 22. Ivi, p. 7. 23. «Gente», n. 52, 1969, p. 64. 24. «Oggi», 12 luglio 1971, p. 42. 25. Ibidem. 185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. «Annabella», 23 giugno 1973, p. 61. 30. Ivi, p. 59. 31. Ivi, p. 61. 32. “L’Ora”, 28-29 nov. 1966, p. 3. 33. Ivi, 1-2 dic. 1966, p. 3. 34. Ivi, 12-13 dic. 1966, p. 5. 35. Ivi, 14-15 dic. 1966, p. 4. 36. «Oggi», 12 luglio 1971, p. 42. 37. “L’Ora”, 5-6 gen. 1966, p. 5. 38. «Epoca», 8 nov. 1966, p. 56. 39. «L’Espresso», 25 dic. 1966, p. 3. 40. «Annabella», 23 giugno 1973, p. 60. 41. «Bella», 1967, n. 1, p. 33. 42. «L’Espresso», 25 dic. 1966, p. 3. 43. «Epoca», 8 nov. 1966, p. 57. 44. Ivi, p. 56. 45. “Corriere della Sera”, 18 dic. 1966. 46. “La Stampa”, 4 luglio 1967. 47. «L’Espresso», 25 dic. 1966, p. 3. 48. Warner M., 1980. 49. Veron E., Construire l’événement. Les médias et l’accident de Three Mile Island, Parigi, Les Editions de Minuit, 1981. 50. “L’Ora”, 26-27 nov. 1966, p. 3. 51. «Gente», 1968, n. 45, p. 6. 52. «Bella», 1967, n. 1, p. 33. 53. Ivi, p. 31. 54. “L’Ora”, 26-27 nov. 1966, p. 3. 55. Ivi, 12-13 dic. 1966, p. 5. 56. Ibidem. 57. “La Stampa”, 14 dic. 1966. 58. “L’Ora”, 1-2 dic. 1966, p. 3. 59. “La Stampa”, 18 dic. 1966. 60. “L’Ora”, 14-15 dic. 1966, p. 3. 61. Ivi, 17-18 dic. 1966, p. 3. 62. “Corriere della Sera”, 18 dic. 1966.

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La sessualità delle contadine italiane tra silenzio e narrazione*,**

Lo slancio che si reputava irresistibile fra uomo e donna è stato combattuto – raccontano le contadine italiane – tramite la separazione dei sessi, la mancanza d’informazione sessuale fra donne di generazioni diverse, il silenzio in cui le si murava, la vergogna del corpo, la paura degli altri e il senso del peccato. Resistere a questa coercizione è stato impossibile per molte. Per le altre, più forti o meno gravate, le esperienze che hanno saputo o voluto fare malgrado le conseguenze, verbalmente sempre terrificanti, sono state di tipo diverso. È da questi racconti che vorremmo trarre alcune interpretazioni sulla sessualità contadina prima e dopo la seconda guerra mondiale. Ma vorremmo sottolineare la provvisorietà che qualsiasi conclusione avrebbe, le contradditorie o lacunose testimonianze delle donne sulla loro sessualità e di quanto siano ancora da farsi le ricerche sul tema. Quando si tratta di analizzare la sfera sessuale delle contadine italiane di un determinato periodo, le difficoltà che sorgono non sono poche. La prima e la più ovvia è che un periodo – essendo limitato nel tempo – non può produrre, nell’ambito delle rappresentazioni sociali, elementi originali o singolari, essendo da un lato l’esito del periodo precedente e, * Originale italiano intitolato La sessualità femminile tra rappresentazioni e pratiche nelle storie di vita delle contadine italiane, apparso negli «Annali dell’Istituto “Alcide Cervi”» (“Le donne nelle campagne italiane del Novecento”), Bologna, Il Mulino, n. 13, 1991, pp. 361-371. ** Ringrazio Maria Luisa Moretti e Rosanna Fiocchetto della Libreria “Al tempo ritrovato” di Piazza Farnese (Roma) per avermi aiutata a mettere insieme la letteratura utile alla stesura di questo capitolo: senza il loro prezioso e cordiale contributo questo lavoro non sarebbe stato possibile.

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dall’altro, il perno di quello successivo. Ciò significa che non può essere studiato a sé stante, ma solo nella “lunga durata”. La seconda difficoltà è che, per il periodo 1945-1960, non possediamo risultati di ricerche d’epoca che ci possano fornire dei dati precisi da prendere in considerazione, per cui non possiamo che “intravedere” il periodo grazie a quello che sappiamo del “prima” e del “dopo”. Però sappiamo, e ciò è importante, che rappresenta, nella storia sociale del mondo contadino italiano, un momento di frattura, quasi una barriera invisibile tra due mondi e modi di essere, spesso incompatibili tra di loro. Per queste ragioni, il capitolo verte principalmente sulle rappresentazioni e pratiche che riguardano la sessualità delle contadine italiane di varie età così come sono raccontate nelle storie di vita raccolte a partire dalla fine degli anni Settanta. Dalle storie di vita lette, sembrerebbe che si possa avanzare l’ipotesi che, per i contadini, l’amore fisico fra due persone di sesso opposto fosse un impulso irresistibile a cui ognuno cedeva dato che, come dice una contadina piemontese nata nel 1922: “La paglia quando è vicina al fuoco, un po’ deve bruciare”1. Carlo Levi aveva già sottolineato questo aspetto, scrivendo: L’amore, o l’attrattiva sessuale, è considerata dai contadini come una forza della natura, potentissima, e tale che nessuna volontà è in grado di opporvisi. […] Trovarsi assieme è fare all’amore. […] Se però non può esistere un freno morale contro la libera violenza del desiderio, interviene il costume a rendere difficile l’occasione. Nessuna donna può frequentare un uomo se non in presenza d’altri. […] Infrangerlo […] equivale ad aver peccato2.

Anche in Sicilia, come ha osservato l’antropologa Charlotte Gower Chapman nel 1928, si tendeva ad eliminare tutte le possibilità per le donne di non essere caste o fedeli, isolandole, e si considerava ciò come un accorgimento necessario3. Inoltre, sembrerebbe che si possa affermare che, in riguardo alla sessualità, la donna era percepita come specie e come individuo. Gli attributi della donna come specie erano interpretati negativamente mentre quelli della donna come individuo, soprattutto se “educata” e “controllata”, potevano risultare positivi. Ma se la donna era percepita in modo “gemino” (specie/individuo), pagando a questa visione un pesante tri188 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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buto, particolarmente nel Cinquecento e nel Seicento durante la “caccia alle streghe”, la visione che lei aveva dell’uomo era – per forza di cose – simmetrica. In effetti, molte contadine, come questa piemontese, nata nel 1932, confessano che, quando incontravano un uomo, scappavano attraverso i prati come delle capre, dato che: “Quando vedevamo un uomo vedevamo il diavolo!”4, e, a più di sessant’anni, dicono: “Io ho ancora adesso paura degli uomini”5. È soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale che le contadine italiane hanno iniziato un processo consapevole di stacco da questo modello, stacco spesso radicale nella misura in cui significa, per molte di loro, il rifiuto netto di sposare dei contadini6 e il conseguente abbandono delle campagne. La sensazione di timore che aveva accompagnato la loro vita sessuale – per non dire la vita tout court – da certune rifiutata dato che: “Il diavolo (non era) poi mica brutto come lo (facevano)” (Piemonte, classe 1898)7, si dirada. Grazie ad una presa di coscienza, che ha spesso fatto seguito alle lotte per la terra, la donna contadina si è forse resa conto che l’«hanno abituata a guardare la verità capovolta, come quello che guardava solo le stelle, la luna e il sole dentro lo stagno e così credeva che i pesci stessero fra i rami degli alberi e gli uccelli sott’acqua»8.

Le dichiarazioni sul sesso Nelle molteplici interviste fatte durante gli anni Ottanta, le vecchie contadine ripetono quello che qui esprime una contadina piemontese, nata nel 1918: Il sesso era peccato. Crescevamo senza saperne niente del sesso. Vedevamo le bestie, ma non capivamo. Vedevamo le bestie che si accoppiavano, ma non arrivavamo a capire che le persone erano anche cosi, mai […] Inculcandoci ’sta cosa del segreto e del peccato, dell’orrore del sesso […] c’è stata addosso quella gran paura […]. Quando mi sono sposata, […] la gena, l’orrore, per me era la cosa più brutta che esistesse quella lì, la più brutta. Era il peccato mortale, lo scandalo, una cosa indecente. […] Una volta la donna era rigida, trattenuta, tirata come una corda, piena di soggezione, di paura. […] Non osavo svestirmi, avevo la camicia lunga fino alla caviglia e la maglia abbottonata fin qui al 189 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

collo. […] Non sentivo nessuna attrazione, […] non potevo, non potevo. […] Ho un brutto ricordo della prima volta. Sono svenuta dal male. […] Quando arrivava quel momento lì, quel numero lì, io tremavo come una foglia. […] Lui andava a cercarsene altre. […] Non potevo dargli torto. Ma era più forte di me, ero negata per quelle cose9.

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Un’altra contadina piemontese, nata nel 1916, ribadisce: Non ero tanto da uomo, per dirla pulita […] Non dovevo sposarmi, io […] mi sono sposata ma non ero per quello […] non sapevo come era fatto un uomo […]. Noi eravamo tutti e due freddi, e non ci siamo mai scaldati. Era una cosa contraria a me, una cosa che non mi piaceva. Se stava quindici giorni o se stava un mese, quando era ora non era ancora tempo10.

La litania continua tra le contadine più giovani (nate nel 1932) della stessa zona: Con mio marito […] sessualmente (non andavo e non vado d’accordo) perché l’uomo di qui non è educato, è egoista, e sul discorso del sesso c’era il mutismo, non parlavamo, mai che mi chiedesse se mi piaceva, il rapporto era meccanico, dato che a me non piaceva non ero mai io a decidere, anzi mi dava fastidio quando lui decideva. Quando non ti trovi sessualmente, come donna sei spacciata. Ti attacchi ai figli con un affetto morboso, e vivi per loro. […] Era difficile essere donna. Parlava sempre l’uomo, non potevi mai fare un discorso tuo, lui ti faceva proprio sentire inferiore. E ti imponeva l’atto sessuale. Tu subivi, non raggiungevi l’orgasmo, ah no no, non sapevi nemmeno che cosa voleva dire l’orgasmo. Tutto in fretta, e speravi soltanto di non restare incinta. Non per niente ho atteso la menopausa come una liberazione. […] Gli uomini facevano solo quello, bere e fare quello. […] Mai una parola gentile, mai una carezza, mai quelle piccolezze lì, mai a chiedermi se ero stanca… […] ho abbassato la testa per amore dei figli11.

Le conclusioni che queste contadine tirano dalle loro esperienze passate si possono riassumere in certe loro frasi, ricorrenti e lapidarie, come la seguente “Ah, era meglio nascere una capra che una donna”12 oppure 190 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

“Ancora oggi ci sono tanti uomini che meritano solo una capra”13, o ancora “Vorrei essere un cespuglio di rovi perché il mio uomo non mi avvicinasse più”14. Se osserviamo invece le generazioni più giovani (classe 1954), il sesso sembra sia stato vissuto, sempre nella stessa zona geografica, in modo più ludico, almeno per quel che riguarda il periodo dell’infanzia:

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Frequentavo la seconda elementare […] c’erano dei ragazzi della quinta […] mi hanno coinvolta in un gioco di gruppo, con altre mie compagne. Una storia di giochini […]. Facevamo tutto, proprio tutto, c’era il coito completo. Avevo otto anni, e un brutto giorno mi sono accorta che sanguinavo […]. Non era una disgrazia che era successa a me, era una cosa normale, una specie di iniziazione che si tramandava nel tempo15.

Una volta diventata adolescente, la stessa persona vive la sua sessualità in modo più simile alle descrizioni già date: «Ho incominciato a costruirmi il mito della verginità. […] Per me, il sesso era ormai una cosa brutta, sporca, di cui provare vergogna: una cosa che non mi interessava più»16. Non vorrei dare, con queste citazioni, un’impressione monocromatica: è ovvio che delle coppie contadine hanno avuto una vita sessuale armoniosa, lo vediamo in commenti del tipo: «Mio marito […] io basta che arrivassi a sposarlo non guardavo mica! […] ci baciavamo di nascosto […] soggezione ne avevamo tanta, eravamo tanto riservati» (Piemonte, classe 1892)17, oppure: «Io ed il mio uomo andavamo d’accordo, ci siamo sempre fatto buona compagnia, sempre allegri lavorando» (Piemonte, classe 1900)18, oppure del tipo: «Io con mio marito mi risposerei sempre, ci vogliamo bene ancora adesso […]. Le discussioni si fanno sempre per i figli, però noi quando andiamo a letto i piedi non l’abbiamo mai messi nessuno per conto nostro… niente, ancora adesso!» (Lazio, classe 1923)19.

Contemporaneamente, vorrei sottolineare che, quelle stesse donne che presentano le loro esperienze come negative e le loro esigenze come inesistenti, hanno forse almeno una volta avuto in vita loro uno slancio a proposito, come questa contadina piemontese, nata nel 1918, che dice: 191 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«Io il mio uomo una volta l’ho cercato. Sai cosa mi ha detto? Che solo le bagasce cercano l’uomo. Io da quel momento non l’ho mai più cercato»20. È il silenzio – su tutto quello che concerne i vari momenti che compongono la sfera della sessualità, momenti che ritroveremo – che ha generalmente accompagnato la vita di queste donne. Paura, vergogna, timidezza, sono i sentimenti che la sessualità ha ispirato, sentimenti trasmessi dalle loro madri e interiorizzati dalla più tenera infanzia. Una volta adulte, certune oramai alla soglia della morte, quando finalmente è data loro l’opportunità di parlarne, il fatto riesce loro difficile, per non dire impossibile, soprattutto quando l’intervistatrice tende a far ripetere loro idee altrettanto stereotipate di quelle sentite nell’infanzia come, per esempio: «Un fastidio diverso, nella penetrazione, l’hai mai avvertito? Tu stai parlando di un disagio fisico, forse di dolore nel coito… di nervosismo, una sorta di gelosia della tua persona, quasi la sensazione di essere abusata nel più profondo, da un estraneo, una certa riluttanza non verso la persona, ma verso l’atto…?»21, oppure: “Insomma quello che rifiuti è il coito?”22, o infine: “E l’orgasmo quando l’hai raggiunto? Con un coito?”23.

I vari momenti della sessualità I vari momenti della sessualità nella vita di una donna, momenti che costellano la sua esistenza, delimitando le diverse tappe del suo ruolo sociale, sono: le prime mestruazioni (spesso chiamate “il passaggio di età”), la perdita della verginità, l’attività sessuale e la maternità – questi ultimi tre aspetti possono svolgersi nell’ambito del matrimonio oppure fuori e essere per questa ragione diversamente apprezzati – e la menopausa. L’impatto delle prime mestruazioni – il passaggio dalla “fanciulla” alla “donna” – sembra prefiggere quella che sarà, in seguito, la vita sessuale della donna contadina: nel Piemonte, tre donne di generazioni diverse hanno avuto la stessa dolorosa esperienza. La più anziana (nata nel 1898), dice: «Non sapevo niente, non sapevo come nascevano i bambini. Anche quando sono diventata fietta sapevo niente. Mi sono spaventata, e poi è passato. Ho detto niente alla madre»24. La seconda (1918), racconta: 192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«Quando mi sono venute le mie cose […] ho nascosto tutto e mi sono spaventata tanto. Pensavo che fosse una malattia grave. Ci dicevano anche che non bisognava lavarsi di sotto, nei punti delicati, perché faceva male alla salute e faceva peccato»25. E la più giovane, nata nel 1954, a sua volta, dice: «Sapevo che dovevano venire delle “cose”, ma non avevo la più pallida idea di come fossero ’ste “cose” […] Ho preso degli stracci, ho nascosto tutto»26.

Per accedere alla pratica sessuale, la giovane donna deve attraversare un’esperienza su cui si sono addensati vari elementi simbolici, tutti tendenti a frenarne l’attuazione al di fuori dal matrimonio, cioè quella della perdita della sua verginità. Le ragazze erano ben coscienti dell’importanza che aveva, nella loro società, l’arrivare vergini al matrimonio: una contadina piemontese, nata nel 1932, dice: «La verginità l’avevamo in testa. Ci tenevamo proprio di arrivare al matrimonio vergini […]. Il parroco ci faceva solo delle prediche su questo discorso, ci aveva ossessionate»27. Un’altra, nata in provincia di Avellino, nel 1940 circa, racconta: «La donna deve portarsi un fazzoletto di seta, per la prima notte che sta col marito, e […] deve prendere l’impronta. La donna deve portare l’onore alla suocera. Il marito prende l’impronta, poi dà il fazzoletto alla moglie, che lo porta alla suocera, che deve vedere che lei è stata onesta»28. Ma quest’esperienza, contrariamente a quello che logicamente ci si potrebbe aspettare dopo tutte le affermazioni ascoltate, non era effettuata dalle ragazze da marito esclusivamente dopo le nozze. Al contrario, spesso prima. Le reazioni della famiglia o della società erano consone, in un primo tempo, alle norme dettate dal codice dell’onore. Ma questo codice, malgrado la sua efficacia nell’ambito delle rappresentazioni, aveva i suoi limiti nella pratica, dato che, quando si trattava di giudicare una ragazza, le persone finivano per basarsi sulla sua serietà e bontà in generale piuttosto che sul solo particolare della verginità. Ecco degli esempi che illustrano ambo i casi. Una contadina piemontese, nata nel 1918, racconta: Ce n’erano (di ragazze) che restavano incinte, e quelle la passavano nera […] le mandavano via di casa, e dovevano arrangiarsi. […] Se un ragazzo metteva nei guai una ragazza, non la sposava poi neh! […], quella 193 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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passava per una da poco, era segnata a dito […]. Non aveva più nessun perdono, né dai suoi, né dal prete, né da tutti. […] I vecchi non la perdonavano, neanche se si sposava e tutto29.

Certi canti popolari calabresi, pubblicati nel 193130, ribadiscono questo disprezzo, da parte maschile, della ragazza non più vergine: “Io ti ho avuto di notte e di giorno/ ti ho bucata come una castagna”, “Ora che il varco è rimasto aperto/ entri chi vuole entrare, ch’io sono uscito”, “E ora che ti riempii questa panzella,/ amati con chi vuoi, che ti lasciai”31. Esempi contrari esistono a bizzeffe e riguardano le ragazze-madri, prove viventi del mancato rispetto all’imperativo di arrivare vergini al matrimonio. Charlotte Gower-Chapman scrive a proposito di Milocca, in Sicilia, dove, nel 1928, è andata per una ricerca sul campo, che è considerato peggio parlar male del proprio vicino che non essere casto: «Una mala lingua sarà evitata […] la mussumulisa, una povera donna che aveva partorito sei figli a sei padri diversi era, malgrado ciò, chiamata la ‘santa donna’ per il fatto di non aver mai parlato male di nessuno e di essere generosa»32. Pure Carlo Levi aveva notato, nel 1935, che: «Moltissime sono (a Gagliano, in Lucania) le ragazze madri, ed esse non sono affatto messe al bando o additate al disprezzo pubblico […] (ma) dovranno accasarsi nei paesi circostanti, o accontentarsi di un marito un po’ zoppo o con qualche altro difetto corporale»33. Maria, una contadina nata nel 1910 a Tonara, nel centro della Sardegna, conferma queste osservazioni quando dichiara a Clara Gallini: «Capitava (che si cantava una donna nubile che avesse un figlio fuori dal matrimonio), ed erano i ragazzi stessi (a farlo). Ma se capivano che era una ragazza buona, anche se le era capitato questo, non dicevano niente, la scusavano “meschina – dicevano – non era una ragazza di strada”. Non venivano condannate le persone che si credevano oneste»34. I commenti degli studiosi sembrano concordare nel sottolineare il fenomeno. Agopik Manoukian scrive: «I rapporti prematrimoniali (sono) pratica assai diffusa in tutto il paese, e in particolare in Emilia e nel Veneto, dove raggiungono punte assai elevate: in queste regioni il 40 per cento dei primogeniti (contro una media nazionale che negli anni Trenta si aggira intorno al 25 per cento) viene concepito fuori dal matrimonio»35. Nuto Revelli, dopo aver ascoltato 260 testimonianze, dice: 194 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Forse, sul discorso del passaggio di età e del sesso, sono più numerose le cose non dette che le cose dette dalle testimoni. In un paese della collina (piemontese) […] erano molte le ragazze che arrivavano incinte al matrimonio. D’altra parte, nel passato lontano, i “bambini dell’ospedale” (i figli di ragazze-madri) si contavano a centinaia, segno evidente che la vita sessuale era più intensa e disinvolta di quanto lascino intendere le testimoni36.

Il fenomeno include anche la nascita di figli illegittimi nati da una relazione extramatrimoniale di donne peraltro coniugate. Già Carlo Levi ne additava una delle cause, scrivendo: «L’emigrazione ha cambiato tutto […] la moglie aspetta (il marito emigrato) il primo anno, lo aspetta il secondo, poi si presenta un’occasione e nasce un bambino. Gran parte dei figli (a Gagliano, in Lucania) sono illegittimi […]. Chi siano i padri non può più avere un’importanza così gelosa»37. Fortunata Piselli spiega, a proposito di Altopiano in Calabria, La comunità registrava un numero molto elevato di figli illegittimi, i cosidetti figli “proietti” (gettati via, rifiutati), che arrivava a costituire anche il 15-20% dei nati nella comunità: fino agli anni Cinquanta […] i (figli) – dati a balia, messi in brefotrofio, o figli di emigrati oltreoceano il cui padre era assente da molti anni – si aggiravano tra il 20-30% dei nati. Il numero dei proietti era, quindi, molto più elevato di quanto ammettessero le cifre ufficiali38.

In seno al matrimonio, l’attività sessuale si svolgeva essenzialmente in inverno: “I bambini li comandavamo all’inverno” ricorda una contadina piemontese nata nel 189839. “L’inverno era la stagione in cui l’uomo era addosso alla donna”, ribadisce quest’altra, nata nel 1932, nella stessa regione40. E: “Come l’uomo appendeva i pantaloni al letto, la donna era già incinta”41. È la sofferenza del parto, momento spesso drammatico nella vita di queste donne, che contribuisce, per molte, ad acuire il sentimento di estraneità dalla sessualità. «I parti normali avvenivano quasi tutti nella stalla – dichiara questa contadina piemontese, nata nel 1931 – Sa che cosa prendevano da mettere 195 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sotto le donne? Gli stracci più brutti, per non sporcare la biancheria. Facevano un sacco […] con le briciole del fieno così la donna non sporcava il materasso»42. Per le più anziane (classe 1898) il ricordo è il medesimo “Partorivamo nelle stalle, sulla paglia. Ahi, non c’era nemmeno un lenzuolo sulla paglia”43.

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Mentre per certe altre, altrettanto anziane, il ricordo è invece più tragico: Il primo parto? Avevo lavorato fin che avevo sentito i dolori, avevo tanta paura. […] Ero coricata sulla paglia, con il lenzuolo delle vacche sotto, ero asciutta come un caprone, soffrivo tanto, come facevo ad avere il bambino… Imploravo: “Andate a prendere una levatrice…”. E la suocera che mi ripeteva: “Io ho sempre fatto tutto da sola e ne ho messi quindici al mondo (ne ho comprati quindici)”. Hanno poi appeso una barra ad una corda: “Aggrappati alla barra”, urlava la suocera. A forza di aggrapparmi alla barra mi sono rotta quattro denti e l’anello d’oro da sposa. Ah, era così. Mi hanno lasciata gridare tre giorni e tre notti. E poi la bambina è nata morta, asfissiata44.

Una volta partorito, la contadina deve ancora sbarazzarsi di un sentimento di paura e di peccato a cui il parto stesso sembrava legato: la paura degli altri, della loro invidia, da cui bisognava proteggersi, e il peccato, da cui purificarsi. Il sentimento di paura è palese dalla vigilanza adoperata nei riguardi della placenta, chiamata “il secondo parto” nel Piemonte. Una contadina della regione, nata nel 1931, riporta che: «La placenta bisognava sotterrarla sotto le tegole, che se le bestie la toccavano portava disgrazia, c’era la maledizione»45. In provincia di Avellino, una contadina, nata nel 1940 circa, narra che c’è: «L’usanza di dare da mangiare alla partoriente la sua placenta […] con le cipolle […]; quel che rimane viene sotterrato, o buttato nel fiume che, se la mangiano i cani, rubano il latte alla partoriente. La buca deve essere scavata molto profondamente, quasi un metro, perché non possano arrivare i cani, va coperta con la terra e una pietra sopra»46. Una quindicina di giorni dopo il parto, la partoriente doveva andare in chiesa da sola o accompagnata, per farsi benedire dal prete dato che: “La maternità era un peccato” (Piemonte, classe 1884)47. Un’altra con196 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tadina dice: «Prima di uscire di casa bisognava andare a farsi benedire. […] Ti prendevi per mano una bambina e andavi in chiesa. […] Il parrocco […] ti dava la benedizione, ti toglieva il peccato che avevi fatto a comprare» (Piemonte, classe 1891)48. Il binomio coito-gravidanza era a tal punto presente nelle mente di queste donne da impedire, alla maggioranza di loro, ogni slancio amoroso dal timore di partorire ancora una volta. Una contadina piemontese, nata nel 1898, ricorda: «A volte mi veniva il desiderio di fare due carezze (a mio marito) perché lo stimavo, ma poi mi dicevo: “Lascialo […] stare, che purtroppo si accende già da solo”»49. Il timore del parto fa commentare loro, a distanza di anni: «Io avrei fatto volentieri a meno di avere tanti figli. Avevo sempre il terrore di rimanere incinta. Eh, la lotta era sempre quella» (Piemonte, classe 1912)50. Oppure: «Mia nonna è morta giovane, aveva solo 37 anni e ha lasciato otto figli, tutti piccoli […] lei non li avrebbe voluti, ma arrivavano. […] Io non so quale donna desidera il secondo figlio […] Il primo viene che lei non sa» (classe 1922)51. La conclusione è per loro evidente: «Fosse dipeso da me compravo di meno di figli, due o tre. Comandava l’uomo. La donna su questo problema comandava zero» (classe 1901)52; “Le donne subivano” (classe 1893)53; “Allora eravamo schiave, schiave di tutto” (classe 1884)54. Questo binomio coito-gravidanza è rafforzato dalla vigilanza del prete. Narra una contadina piemontese, nata nel 1922: «Il prete mi ha chiesto perché […] avevo un solo (figlio), […] io gli ho detto “Perché non ce la facciamo a mantenerne di più”. E non voleva darmi l’assoluzione. […] Una mia amica, sposata da tanti anni, non aveva figli, il prete non le ha dato l’assoluzione»55. A questa situazione inestricabile – almeno sino alla Seconda Guerra Mondiale – arriva, per tutte, la “liberazione” della menopausa. *** Dopo la Seconda Guerra Mondiale le contadine italiane iniziano un processo consapevole di stacco da questi modelli, radicale soprattutto nel Nord del paese dove una maggioranza rifiuta di sposare dei contadini. Nel Sud, invece, lo stacco è avvenuto essenzialmente tramite nuovi 197 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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atteggiamenti, ampiamente assimilati nella metà degli anni Settanta: le ragazze non vagheggiano più in modo passivo il matrimonio ma vi si dedicano con «sagacità e perseveranza come ad un’attività di prima importanza, senza nasconderla alla comunità che apprezza gli sforzi fatti per ottenere il partito desiderato»56. Questi “sforzi” si ripercuotono spesso contro le famiglie che rifiutano di consentire al matrimonio: telefonate a ripetizione, visite a sorpresa, minacce di “querele” o di “cause” hanno la meglio sulle opposizioni di principio che si logorano davanti alla costante richiesta, da parte delle ragazze, di risarcire loro una “verginità” che non “desideravano perdere”57. È nel 1966, in prima pagina dei quotidiani, con il fatto di cronaca siciliano legato al nome di Franca Viola – denominata dalla stampa “la ragazza che disse di no” e diventata in breve un emblema ed un esempio da seguire per un buon numero di donne dal femminismo nascente – che i limiti del codice dell’onore, da sempre esistiti nelle campagne, fanno la loro prima, pubblica apparizione58. Da questa data in poi, la vita vissuta dalle contadine diventa, tramite le loro narrazioni, frammenti di una soggettività offerti all’altrui conoscenza per una più obiettiva ricostruzione della storia delle campagne italiane.

Note 1. Revelli N., L’Anello forte. La donna: storie di vita contadina, Torino, Einaudi, 1985, p. 177. 2. Levi C., Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1972 [1945], p. 87. 3. Gower Chapman C., Milocca, un villaggio siciliano (Milocca. A Sicilian Village, 1971), Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 39-40. 4. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 269. 5. Ivi, p. 190. 6. Revelli N., L’Anello forte, cit.; Manoukian A., La famiglia dei contadini, in Melograni P. (a cura di), La Famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, RomaBari, Laterza, 1988, pp. 3 -60. 7. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 227. 8. Rota Fo P., Il Paese delle rane, Torino, Einaudi, 1978, p. 92. 9. Revelli N., L’Anello forte, cit., pp. 58-60. 10. Ivi, p. 136. 198 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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11. Ivi, pp. 269-270. 12. Ivi, p. 219. 13. Ivi, p. 272. 14. Ivi, p. 131. 15. Ivi, p. 283. 16. Ivi, p. 284. 17. Ivi, p. 211. 18. Ivi, p. 36. 19. Girardet M., Raja A., Testini E. (a cura di), Storie di donne. Territori della memoria Settecamini, Roma, Centro Grafico Prenestino, 1984, p. 111. 20. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 60. 21. Mingrone G., Nostra moglie ’l marito mio. Ovvero dialoghi con le donne umbre, presentazione di D. Maraini, Perugia, Umbria editrice, 1979, p. 46. 22. Ivi, p. 70. 23. Ivi, p. 71. 24. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 217. 25. Ivi, p. 58. 26. Ivi, p. 284. 27. Ivi, p. 269. 28. Guiducci A., La Donna non è gente, Milano, Rizzoli, 1977, p. 140. 29. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 59. 30. Questi canti sono stati pubblicati da Raffaele Lombardi Satriani, Canti popolari calabresi, Napoli, 1931, e sono i canti nn. 1598, 1528, 1450, citati in Guiducci A., La Donna non è gente, cit., p. 5. 31. Ibidem. 32. Gower Chapman C., Milocca, cit., p. 41. 33. Levi C., Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. 87. 34. Gallini C., Intervista a Maria, Palermo, Sellerio Editore, 1981, pp. 4142. 35. Manoukian A., La famiglia dei contadini, cit., p. 50. 36. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. LXVI. 37. Levi C., Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. 89. 38. Piselli F., Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una comunità calabrese, presentazione di G. Arrighi, Torino, Einaudi, 1981, pp. 5455. 39. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 219. 40. Ivi, p. 269. 41. Ivi, p. 176. 42. Ivi, p. 91. 43. Ivi, p. 223. 199 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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44. Ivi, p. 227. 45. Ivi, p. 91. 46. Guiducci A., La Donna non è gente, cit., p. 145. 47. Revelli N., L’Anello forte, cit., p. 22. 48. Ivi, pp. 28-29. 49. Ivi, p. 125. 50. Ivi, p. 246. 51. Ivi, p. 176. 52. Ivi, p. 236. 53. Ivi, p. 223. 54. Ivi, p. 19. 55. Ivi, p. 177. 56. Di Bella M.P., Sogni di ‘pezza’. Sposalizi ad Accadia, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», n. 23, 1988, p. 42. 57 Ivi, p. 43. 58. Vedi il capitolo X, “Il ‘caso Franca Viola’, la ragazza che disse di no”, per un’analisi ed una descrizione dettagliata del caso.

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Mancare di parola: omertà e denunce in Sicilia*

A Palermo, nell’immenso tribunale-bunker addossato alla prigione dell’Ucciardone, lo Stato italiano ha tenuto a dare tutto il clamore mediatico possibile al suo primo successo, psicologico, sulla mafia. In questo tribunale che ricorda una cattedrale, Tommaso Buscetta, noto mafioso, ha osato prendere la parola per denunciare i suoi pari, in loro presenza e per descrivere l’organizzazione della mafia. Davanti a migliaia di spettatori – grazie al concorso della televisione e della radio – il figliol prodigo ha celebrato il suo pentimento e il suo reinserimento nella società. Il momento liminare tra il suo passato di mafioso e il suo futuro stato civile era, in questo modo, pubblicamente ritualizzato e il suo tradimento ufficializzato per sottolineare, agli occhi di tutti, la vittoria dello Stato sull’omertà, simbolo della mafia1. Questa prima presa di parola pubblica, in un ambiente votato al silenzio, suscita molteplici interrogativi a cui tenteremo di dare una risposta.

Il “silenzio” degli uomini L’omertà – o “legge del silenzio” – pratica sociale che deriva dal sistema tradizionale delle rappresentazioni dei contadini siciliani, appare agli occhi degli spettatori come una strategia propria all’associazione criminale nota con il nome di mafia. Questa strategia ha in effetti contribuito ad unire i suoi membri e a creare intorno a loro un’immagine * Originale francese intitolato Manquer de parole: omertà et dénonciation en Sicile,

apparso nella rivista «Le Genre humain» (“La trahison”), n. 16-17, 1987-88, pp. 229242, qui tradotto dall’autrice.

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d’invincibilità; i ripetuti tentativi di rompere l’omertà dei membri della mafia, piccoli o grandi, sembravano votati al falllimento sino al giorno in cui Tommaso Buscetta decise di vendicarsi dei “torti” subiti: “parlò” rompendo l’interdetto d’omertà. Le definizioni che certi autori, principalmente siciliani, danno dal 1860 della parola omertà derivano in realtà dalle analisi del fenomeno mafioso. In effetti, i testi di cui disponiamo mostrano come l’omertà spieghi il comportamento dei mafiosi nella misura in cui è presentata come un “codice” a cui non potrebbero sottrarsi. È il dramma, molto acclamato, di Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto I Mafiusi de la Vicaria, rappresentato per la prima volta a Palermo nel 1863 e, in seguito, in tutta l’Italia che diffonde presso un vasto pubblico il termine mafia, la condotta specifica dei mafiosi e il loro vocabolario “ermetico”2. L’apporto principale del dramma, da poco apprezzato nella sua giusta misura, è di mostrare la prigione come il luogo “strategico” del potere mafioso. Ben inteso l’omertà vi è presentata come pilastro dell’etica mafiosa e il personaggio dello spione, designato come “infame”, subisce il castigo che merita, cioè la morte. L’Omertà, secondo il vocabolario siciliano-italiano di Antonio Traina pubblicato nel 1868, deriva dalla parola omu (uomo) e designa “la qualità d’essere uomo”; ma, aggiunge subito l’autore, sono i mafiosi che lo dicono, per esprimere “l’esser uomo nell’incivile lor senso”. Anni dopo, Giuseppe Alongi, un funzionario di polizia prossimo alla scuola lombrosiana di antropologia criminale, pubblica, in un libro intitolato La Maffia (1886), le sue scoperte sulle “manifestazioni anti-giuridiche della Maffia”3. Vi presenta l’omertà come un codice speciale, il quale stabilisce come primo dovere di un uomo quello di farsi giustizia colle proprie mani dei torti ricevuti, e nota d’infamia e addita alla pubblica esecrazione e alla pubblica vendetta chiunque ricorra alla giustizia o ne aiuti le ricerche e l’azione. Per cui, anche il più onesto fra i popolani crede far opera virtuosa sottraendo alle ricerche della giustizia un assassino, o negandosi di testimoniare contro di lui, perché il codice dell’omertà dice che quando ci è il morto deve pensarsi al vivo, e che la testimonianza è cosa buona finché non noccia al prossimo4.

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Giuseppe Pitrè, il noto specialista delle tradizioni popolari siciliane, afferma peraltro che:

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base e sostegno dell’omertà è il silenzio; senza di questo l’omu non potrebbe essere omu, né mantenere la sua superiorità incontrastata; restando scoperto agli occhi della Giustizia, ne proverebbe i rigori. L’omertà intanto si sostiene, in quanto è sicura della sua impunità ed intanto è impune e passeggia, in quanto nessuno la denunzia, e denunziata, nessuno depone a suo carico5.

In appoggio alle loro tesi, questi autori citano spesso dei proverbi o dei canti di prigionieri siciliani. Tra le ingiunzioni, le più significative sono: “E quando parli, pesa le parole: l’uomo d’onore ha da saper parlare”6, “L’uomo ch’è uomo non rivela mai, nemmeno se riceve dei colpi di coltello”7. Un altro canto raccomanda l’attitudine seguente: Gli uomini non sono qui, nemmeno in campagna, sono nelle segrete, sotto terra, quando parlano con la Giustizia, con mani legate e occhi in terra. Il giudice mi dice: “Figlio, parla: questa non è chiave che apre ma serra”. L’uomo che parla assai, niente guadagna, con la sua stessa bocca si sotterra8.

Tra i proverbi citati da Pitrè, i seguenti ci sembrano particolarmente eloquenti: “chi parla si confessa; e chi fa un debito, paga”; “la bocca tradisce il cuore”; “il parlar poco è una bell’arte”; “passo lungo e bocca corta”9. Se i nostri autori spiegano l’omertà come un codice appartenente principalmente alla mafia, sono nondimeno obbligati ad applicarlo alla condotta della popolazione siciliana di sesso maschile. Abbiamo cercato di dimostrare altrove10, con l’aiuto di parità pubblicate nel 1884 da Serafino Amabile Guastella, che la pratica sociale dell’omertà non dovrebbe essere attribuita alla mafia dato che la troviamo nel sistema di rappresentazioni dei contadini siciliani; che peraltro non è mai stata l’appannaggio della sola parte occidentale dell’isola dove la mafia è sorta e si è sviluppata. Una di queste parità, della regione orientale, racconta che un giorno il Parlare ed il Mangiare litigarono e, non potendosi mettere d’accordo, andarono dal Re Salomone perché derimesse la que203 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stione. Le ragioni del litigio erano che la Vista, l’Udito e l’Olfatto avevano, ognuno, due casette, ma che loro erano condannati a restare come dei ladri, piedi e mani legati, tutti e due nella stessa dimora. Ambedue desideravano essere separati ed avere ognuno la bocca in esclusiva.

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State a sentire che adesso vi metto d’accordo io – dice il Re Salomone – Tu che sei il Parlare dominerai incontrastato nella bocca dei ricchi, perché essi hanno il Mangiare assicurato e se non parlassero non avrebbero proprio niente da fare; e tu o Mangiare puoi spadroneggiare a piacer tuo nella bocca dei poveri, perché i poveri meno parlano e meglio è. Dividetevi quindi le bocche degli uomini e non pensate più a litigare11.

I contadini giustificavano metaforicamente la loro condizione sociale e la loro condotta: la “legge del silenzio”, il dispositivo di resistenza messo in opera per rispondere alla violenza delle strutture sociali, permetteva loro allo stesso tempo di entrare in contatto con dei gruppi familiari estranei al loro. In una società fortemente endogama dove le molteplici invasioni (greca, romana, araba, normanna, francese, catalana, spagnola) avevano contribuito ad allontanare gli abitanti dall’apparato statale, l’omertà appariva come una possibile tutela dai pericoli inerenti agli scambi. È in questa ottica che si può anche comprendere la valorizzazione, da parte della mafia, dell’etica del “silenzio”: essa consentiva ai suoi membri di stabilire delle relazioni con delle persone “esterne” mantenendo peraltro i loro segreti.

La lotta dello Stato contro la mafia Si dice che Mussolini, durante la sua prima visita ufficiale in Sicilia (maggio 1924), epoca in cui era presidente del Consiglio, non poté sopportare che il sindaco di Piana dei Greci, Don Francesco Cuccia, gli offrisse la “propria” protezione, cosa che sottolineava l’inutilità delle forze di polizia presenti12. Al suo ritorno nella capitale, il futuro Duce spedì sul luogo un uomo “forte”, Cesare Mori, come prefetto con i “pieni poteri”, per arrestare il dominio dell’onorata società: non poteva esserci un altro Stato nello Stato che stava preparando. Il prefettissimo si occupò subito dei banditi delle Madonie, riuscendo a decimare le quat204 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tro bande che regnavano a Gangi: i Ferrarello, gli Andeloro, i Dina e i Lisuzzo. Queste operazioni erano condotte da Mori con grandi sforzi pubblicitari, slogan e ultimatum rivolti ai briganti «studiati proprio per colpire la fantasia della gente, abituata a rispettare solo chi assume un atteggiamento mafioso»13. «Se i siciliani hanno paura dei mafiosi – confida Mori – li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti»14. Mori divenne una leggenda vivente: si raccontavano su di lui cose le più incredibili, per esempio ch’era in realtà Joe Petrosino, il famoso poliziotto americano. Quest’ultimo, assassinato – si dice – dal capo della mafia di Bisacquino, Vito Cascio Ferro, il 12 marzo 1909, poco dopo il suo arrivo in incognito dagli Stati Uniti, davanti al palazzo Steri, l’antica prigione dell’Inquisizione, non sarebbe morto in seguito all’attentato ma sarebbe stato riportato ferito nel suo paese. In seguito, sarebbe tornato in Sicilia per eliminare tutti i suoi nemici15. Anni dopo, quando l’onorata società si faceva oramai chiamare Cosa nostra, lo Stato italiano, essendo riuscito a contenere il terrorismo, pensò di spedire sul luogo il nuovo uomo forte della situazione, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’ultima incarnazione di Petrosino e di Mori. Non era più il caso, per il nuovo prefettissimo, di battersi sulle montagne ma piuttosto di ottenere il permesso di spulciare i conti e le operazioni bancarie, di mettere sotto sequestro le fortune giudicate “sospette”. È solo in seguito all’assassinio del prefetto, il 3 settembre 1982, cento giorni dopo il suo arrivo a Palermo, che i giudici responsabili dell’inchiesta avranno questo permesso, aprendo così una nuova fase della guerra tra Stato e mafia. Durante quest’ultimo secolo, la mafia ha subito delle profonde trasformazioni: da rurale è diventata urbana, controllando i mercati di frutta e legumi, carne e pesce, gestisce la costruzione di nuovi quartieri periferici nelle grandi città del triangolo Palermo-Trapani-Agrigento, passando dal contrabbando di sigarette al traffico della droga. Lo Stato ha adattato le sue risposte, modernizzandole man mano che la mafia si modificava. Se, ad una certa epoca, bastava mostrare la “forza” ed infiammare gli spiriti per guadagnare il rispetto degli autoctoni e convincerli che la mafia era stata veramente dominata, oggi, invece, è tramite la perizia dei suoi funzionari statali e di nuovi metodi tecnici che lo Stato conta di estirpare la mafia. Ma per rompere questa morsa lo Stato doveva, ieri come oggi, attaccarsi al principio dell’omertà, vero credo 205 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e pratica di ogni aderente mafioso e prima precauzione adottata dal testimone involontario. L’obiettivo era quello di passare da un habitus basato sull’impiego sistematico della delazione, tramite lettere anonime, piuttosto diffuso in Sicilia, a quello, ben più pericoloso, di testimonianze da emettere oralmente davanti ai poliziotti o ai giudici e, soprattutto, da confermare durante una deposizione in tribunale.

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La “voce pubblica” Durante i periodi in cui lo Stato era percepito come più “forte” della mafia, soprattutto durante la “ripulitura” praticata da Cesare Mori, certi Siciliani osavano testimoniare contro l’estorsione della “tassa” mafiosa (pizzu), o contro i malfattori che li molestavano quasi giornalmente16. In effetti Mori mirava nel suo programma d’azione, come diceva lui stesso, a «combattere con tutte le forze l’omertà degenerata, risvegliando e valorizzando l’omertà pura. Sollecitare la denunzia leale e aperta, la testimonianza pubblica. Sottolineare che la denunzia è coraggio, il silenzio paura»17. Nel 1926, scatena una grande serie di arresti (1411), invia centinaia d’individui al confino, ne ammonisce migliaia (seicento nella sola Piana dei Greci)18. Grazie alla formula assai vaga di “voce pubblica”, si poteva all’epoca, in seguito a due ordinanze promulgate da Mori nel 1925 e 1926, e divenute leggi nel 192719, inviare delle persone sospette al domicilio coatto o rivolger loro un’ammonizione20. Tra i mafiosi più noti, sono stati fatti prigionieri: Giuseppe Genco Russo, Vito Cascio Ferro, Santo Termini, Antonio Lopez, Gaetano Salemi, Giuseppe Randone, Francesco Dadolato, Francesco Cuccia; Calogero Vizzini fu invece inviato al solo domicilio coatto21. Dopo la partenza forzata di Mori, nel 1929, nelle prigioni siciliane non rimangono che gli “straccioni” mentre i “capi mafia” tornano a casa grazie ai condoni e alle amnistie22. Una leggenda circola dal 1943, data d’arrivo delle truppe americane: racconta che un “drappo” di seta gialla con una grande lettera “L” stampigliata in nero, il foulard di Lucky Luciano, è stato utilizzato come segno di riconoscimento dagli aerei che sorvolavano a bassa quota Villalba, villaggio del capomafia Calogero Vizzini; che il gangster italo-americano, benché detenuto, collaborasse 206 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con i servizi segreti dell’esercito americano inviando in questo modo dei “messaggi” a Vizzini. Delle varianti spiegano che lo stesso Luciano era nell’aereo o nel carro armato che entrò per primo a Villalba23.

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È vero comunque che i mafiosi vanno incontro dovunque ai soldati americani e gli gettano le braccia al collo, ma soprattutto si precipitano sulle loro masserizie e sui depositi della sussistenza, impadronendosi del mercato nero. Con la nomea di antifascisti e per la loro capacità di gestire insieme l’ordine pubblico e il mercato nero, molti mafiosi sono nominati dalle autorità americane sindaci dei loro paesi al posto dei podestà: tra i più noti, Calogero Vizzini diventa sindaco di Villalba; Giuseppe Genco Russo diventa sindaco di Mussumeli; Serafino Di Peri sindaco di Bolognetta; Malta sindaco di Vallelunga24.

Con il recupero del suo potere ancestrale, la mafia, dagli anni Cinquanta in poi, si svilupperà soprattutto nelle città. Agli occhi dei Siciliani usciva, ancora una volta, vittoriosa dal suo combattimento contro lo Stato, alimentando in questo modo la sua leggenda d’invincibilità e convincendoli dei benefici legati ad una stretta osservanza dell’omertà.

Le guerre di mafia Dagli anni Cinquanta in poi, le trasformazioni subite dalla mafia sono dovute essenzialmente all’arrivo di una “nuova” mafia che contribuirà a rompere l’immagine “monolitica” che si aveva di questa associazione. Il concetto di nuova mafia designa le organizzazioni (reali o presunte) di gangster italo-americani e palermitani, che esercitano attività illegali nel ramo del contrabbando d’alcool, del gioco d’azzardo, della prostituzione, del controllo dei grandi mercati, dell’edilizia ecc. Non si tratta più di gente giovane, che a un certo punto della carriera prenderà il posto di Mazzarese o di Vizzini, ma di qualcosa di essenzialmente nuovo. Il nuovo tipo di mafioso si è formato a ridosso dell’emigrazione di milioni di meridionali negli Stati Uniti, della formazione di una subcultura specifica all’interno della società americana, dell’adeguamento alle nuove 207 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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circostanze sociali, economiche e tecniche, infine della riemigrazione in Sicilia, in breve: nel processo di un vasto scambio culturale25.

Il vecchio mafioso viveva in un ambiente agrario dove controllava terre e produzione26. Nella metropoli industrializzata, invece, il “nuovo mafioso” cerca di prendere in mano posti di monopolio promettenti sui grandi mercati di Palermo o di estorcere tributi agli imprenditori per una protezione fittizia. I contatti più importanti con gli italo-americani, che schiudono ai gangster palermitani nuove fonti di guadagno, in particolare il contrabbando delle sigarette e della droga, seguono tre linee direttrici: il contatto che molti emigrati hanno mantenuto con il paese d’origine, l’occupazione americana della Sicilia e il rimpatrio coatto o volontario di alcuni nuovi mafiosi importanti (Luciano, Gentile, Genovese, Coppola, Bonanno, Collura e altri). Le relazioni di partito del gangster moderno non sono più così articolate come quelle del vecchio mafioso; esse si tessono, come quelle americane, soprattutto con la partecipazione finanziaria alla campagna elettorale. Il singolo gangster opera ormai esclusivamente per se stesso. Egli è ben lungi dall’essere un uomo di rispetto, un mediatore ambito in tanti piccoli affari. Non accorda udienze e nessuno va a trovarlo. È uno specialista in un determinato settore, conosciuto di vista soltanto dagli uomini del mestiere; per la comunità è un anonimo delinquente della metropoli, senza somiglianza alcuna con il mafioso, conosciuto e rispettato da tutti, del paese siciliano27. Questa “nuova” mafia e questo “nuovo” tipo di mafioso prenderanno forma grazie al gruppo dei corleonesi e al loro capo, Luciano Leggio, detto Liggio. È con l’assassinio di Michele Navarra, capomafia di Corleone (2 agosto 1958), che Liggio si proietta alla testa dell’associazione e la sottometterà, eliminando i suoi avversari ed imponendo la sua politica. Ecco come la Commissione antimafia dipinge il personaggio nel 1970: Il fenomeno Liggio è il simbolo stesso della mafia: del prepotere della prepotenza dei pochi, dell’omertà e del timore che essa diffonde fra i succubi, dell’impotenza dell’apparato statale alla giusta ed efficace reazione. Egli è l’elemento di maggior prestigio e di maggior pericolo della delinquenza organizzata di tutta la Sicilia occidentale28.

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La prima guerra tra le diverse “famiglie” della mafia inizia nel 196263, con il famoso “massacro di Ciaculli” dove “sette carabinieri sono squarciati dall’esplosione d’una macchina”29. Una grave crisi s’instaura, allontanando gli uni dalla Sicilia (tra cui Tommaso Buscetta) o rallentando le attività di altri30. È solo alla fine degli anni Sessanta, dopo il “massacro di viale Strasburgo”, che i gruppi usciti vincitori da questo conflitto fondano un triunvirato, composto da Salvatore Riina, “l’uomo” di Liggio, Stefano Bontante e Gaetano Badalamenti, incaricati di rimettere in piedi l’organizzazione della mafia. Quelche anno dopo, Badalamenti sarà scartato dal potere per essere rimpiazzato da Michele Greco, soprannominato “il papa”; Stefano Bontante sarà assassinato come pure Salvatore Inzerillo, due associati percepiti come avversari del “papa”. Salvatore Contorno, l’uomo di mano di Bontante, scamperà in modo rocambolesco ad un attentato ordito in pieno centro di Palermo. Dal 1981 al 1983, circa duecento persone, tutte reputate seguaci di Bontante e di Inzerillo, saranno braccate e uccise, certune persino a Miami o in carcere31. La “famiglia” Corleone penetra in questo modo nel governo della mafia, mettendo ai posti di comando dei “clienti” fedeli; Liggio, imprigionato a vita dal 1974, tira a suo profitto le fila del gioco. Un altro tipo di rappresaglia è inaugurata nel 1984 da Tommaso Buscetta. Impotente di fronte all’assassinio di due dei suoi figli, di suo fratello, del nipote, di suo genero e di suo cognato, tutti commessi secondo lui dalla banda di Corleone, decide di vendicarsi impiegando la sola arma ancora a sua disposizione, la parola. Così, di fronte alla nuova situazione generata dalla “famiglia” corleonese, si fa giorno un’altra forma di vendetta, prima d’ora mai utilizzata in seno alla mafia32, ad eccezione di due persone. Il primo che osò denunciare i suoi pari alla polizia, Leonardo Vitale, non suscitò nessun interesse nei suoi interlocutori che lo catalogarono, a causa della sua fede ritrovata, tra i “mistici”; prendendo le sue dichiarazioni per un “raptus” senza importanza, le forze dell’ordine lo catalogarono come “pazzo”. Il suo assassinio, undici anni più tardi (1984), poco dopo la sua scarcerazione, non fu collegato alla sua testimonianza. Il secondo invece, Giuseppe Di Cristina, capomafia di Riesi, vide in segreto il capitano dei carabinieri Pettinato per fargli delle rivelazioni prima di essere a sua volta eliminato, tre mesi dopo (maggio 1978)33. Tommaso Buscetta è dunque il primo che osa34, di fronte al mondo e seguendo l’esempio dell’italo-americano Joseph 209 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Valachi, descrivere e denunciare l’organizzazione di Cosa Nostra e i suoi legami con il ramo nord-americano. Una falla sembra aprirsi in seno alla mafia, a causa di questi uomini “chiaccheroni”, una falla che non avrebbe potuto aver luogo nella mafia tradizionale, strettamente gestita dal severo codice dell’onore. Così, è la mancanza di rispetto della “parola data”, iniziata dalla “famiglia” corleonese, almeno secondo l’informatore, Tommaso Buscetta, che suscita a sua volta una vendetta in forma di delazione. C’è da chiedersi se sia stata l’importazione, da parte della cricca di Corleone, di metodi “nuovi” in seno all’associazione tradizionale a far progressivamente perdere ai suoi membri quel senso del coraggio che l’omertà traduceva e per cui era considerata come uno dei pilastri della “personalità” siciliana35.

La “buona” e la “cattiva” mafia Il “processo del secolo” inizia il 10 febbraio 1986 a Palermo; in presenza di trecento avvocati, 475 accusati sono giudicati. Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, i due principali testimoni a carico, sono interrogati nell’aprile dello stesso anno. La stampa soprannomina Buscetta, dalle sue prime rivelazioni al giudice Falcone nel 1984, “gola profonda”, e lega il suo caso a quello dei “pentiti”. Le rivelazioni di Buscetta si riallacciano in effetti a questo fenomeno, ma in modo ambivalente: sulla base delle sue motivazioni personali non lo si può catalogare come un “pentito” dato che aderisce all’ideologia della vecchia mafia ed è in quanto membro di questa vecchia mafia ch’egli si vendica della nuova. D’altronde lui stesso parla, per giustificarsi, di “buona” e “cattiva” mafia, forse sperando di sbarazzarsi di quest’ultima a profitto della prima. È obiettivamente e in rapporto a dei problemi d’ordine giuridico di più vasta portata che la testimonianza di Buscetta può e deve essere collegata alla questione dei “pentiti”. Nel 1979 Carlo Fioroni, uno dei prigionieri politici dell’ultra-sinistra, decide di svelare ai magistrati i segreti della sua organizzazione “Potere operaio”. Sarà il primo d’una serie di detenuti, tutti incolpati d’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, ad accettare di dare informazioni ai giudici in cambio d’una importante riduzione della pena; in seguito, i diversi militanti saranno 210 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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catalogati secondo il loro grado di collaborazione con lo Stato: in “pentiti” se danno delle informazioni, in “dissociati” se accettano di abiurare il loro passato, in “irriducibili” se rifiutano di farlo36. Una vera frenesia s’impadronisce, al principio degli anni Ottanta, delle lingue di questi prigionieri; dei visi, dei nomi si presentano alla loro memoria: li aggiungono progressivamente nelle loro ricostruzioni a ragnatela; l’incerto diventa vero e così, lontano dalla nostra vigilanza, si fabbrica la storia. Leggere i giornali che sottolineano periodicamente le vittorie dello Stato produce un certo scetticismo, una lugubre equazione sembra giocarsi tra un nome da fornire ed un anno di prigione da detrarre. Questi calcoli avevano generato un “memoriale” in cui il giudice Pietro Calogero aveva costruito un “teorema” dove pretendeva che tutte le bande degli autonomi in Italia fossero legate, dal 1971, alle Brigate Rosse, in una sola ed unica “organizzazione insurrezionale”37. Questi comportamenti sembravano dover rimanere estranei ai membri dell’anziana e venerabile onorata società; ma quando Tommaso Buscetta prese la parola per denunciare i suoi pari, e Salvatore Contorno fece lo stesso, si disse che l’onda del “pentimento” dilagava veramente dappertutto. Dopodiché si vide sorgere lo stesso fenomeno durante altri processi, particolarmente in quello contro la Camorra di Napoli. Oggi, un anno dopo l’apertura del grande processo di Palermo, si assiste al riflusso di questa prima ondata. Gli accusati nel processo della Camorra sono stati liberati in appello, i giudici hanno concluso che le confessioni dei “pentiti” non erano affidabili. Al processo in appello per il gruppo “Sette aprile”, Carlo Fioroni, il principale denunciatore, «non ha saputo, di fronte ai suoi ex-compagni, dare l’impressione d’essere un accusatore preciso e convinto; confrontato a delle domande chiare e a delle contestazioni, si è spesso sottratto o contraddetto»38. D’altro canto, numerosi prigioneri politici ritrovano la loro libertà alla scadenza della loro carcerazione preventiva, perché il loro processo era stato annulato per vizio di forma. Le statistiche del Ministero dell’Interno parlano di 1047 detenuti “rossi” liberati al 31 dicembre 1986 contro 722 ancora in prigione, e di 441 detenuti “neri” liberati contro 209 imprigionati39.

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L’esca dell’impunità

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Michele Palmieri di Miccichè, un cadetto della nobiltà siciliana, pubblica nel 1837, a Parigi, il seguito dei suoi Pensées et souvenirs, nel quale racconta, in buon francese e con la sua abituale verve, dei fatti che sono tuttora di attualità: Le duc de Modène – scrive – crut entendre un grand bruit dans les combles ou dans les caves de son palais. Un bruit! Mais c’est donc un complot! Il raisonna guidé par cette puissante dialectique et par cet instinct hyénique qui le distinguent. Le duc courut s’enfermer dans un couvent de nonnes. Une fois en sûreté, monseigneur fit garrotter et jeter dans les cachots Ricci et quatre autres individus violemment soupçonnés de libéralisme; un forçat libéré et un autre homme tout aussi bien famé qu’un forçat libéré furent également arrêtés et impliqués dans ce procès. Cela fait, monseigneur nomma un conseil de guerre ad hoc, composé de sept honnêtes militaires, animés de la plus noble frénésie de délivrer sur sa parole leur auguste maître de tous ses ennemis. En deux mots, le duc fit grâce au forçat libéré et à son digne compagnon (seuls dénonciateurs d’un complot imaginaire), à cause, dit le pamphlet La Voce della Verità, non seulement de la candeur de leurs dépositions et de la bonne foi qu’ils ont mise en avouant leur crime, mais aussi par rapport à leur profond et sincère repentir pour l’enormissimo loro misfatto. Les autres accusés, quoique protestant jusqu’au dernier moment de leur innocence, subirent leur condamnation, et le jeune Ricci fut exécuté40.

Più vicino a noi, un “romanzo-inchiesta” – come lo chiama Leonardo Sciascia41 – scritto da Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame (1842), pone con grande finezza i problemi che ci preoccupano, allargando inoltre il dibattito sulla tortura che Cesare Beccaria e Pietro Verri avevano lanciato quasi ottant’anni prima. Manzoni prese spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Milano nel 1630 che si innesta sulla paura degli untori ancora perdurante dal 1576, per riferire e, soprattutto, commentare una storia in fondo banale. Caterina Rosa e la vicina, Ottavia Bono, dichiarano, il 21 giugno, di aver visto dalla loro finestra un uomo camminare lungo il muro e sfregarci sopra le dita. Riconosciuto da un 212 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vicino, l’uomo è ben presto accusato d’aver unto i muri di una materia grassa molto equivoca di color giallo con l’intenzione di spandere la peste in città. La “voce” si amplifica rapidamente; l’indomani il senato ordina al capitano di giustizia di condurre un’inchiesta sul luogo. Gugliemo Piazza, l’uomo in questione, è imprigionato. Più volte torturato per strappargli la verità, come contropartita gli promettono l’impunità. Piazza dichiara allora che l’unguento gli è stato fornito dal barbiere Giangiacomo Mora. Quest’ultimo è a sua volta arrestato. Poi, per liberarsi dalla tortura ed essere rilasciato, come promesso, aggiunge al nome di Mora quello dei suoi cosidetti complici, Baruello e i due Migliavacca, padre e figlio, cercando, come dice Manzoni, “di supplir col numero delle vittime alla mancanza delle prove”42. Altri nomi, che è inutile menzionare, saranno aggiunti; nondimeno, i primi due incolpati sono considerati come i principali autori del delitto. Per questa ragione, saranno condannati a morte: la sentenza, eseguita il primo agosto sul “luogo del crimine”, stipulava che i corpi dei due accusati dovessero essere tenagliati dal ferro, aver tagliata la mano destra, rotte le ossa dalla ruota, essere strozzati sei ore dopo e, per finire, essere bruciati vivi. In seguito a questa punizione esemplare, una colonna chiamata “infame” è stata eretta sul posto per conservare nella memoria collettiva l’atrocità delle loro azioni. In questo processo, è la promessa d’impunità che provoca in Manzoni le più vive rimostranze. I commenti che fa sull’argomento sono sempre d’attualità: «La passione è pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscansar quella del diritto, quand’è lunga e incerta»43; in effetti, i giudici «eran riusciti a far confermare al Mora […] come al Piazza […] le congetture del birro […] con una tortura […] e con una illegale impunità. L’armi eran prese dall’arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento»44 dato che “non cercavano una verità, ma volevano una confessione”45. Ma «c’era in questo caso una circostanza che rendeva l’accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l’essere stata fatta in conseguenza d’una promessa d’impunità»46 perché «colui che attesta per una promessa d’impunità si chiama corrotto, e non gli si crede»47. Se, da un lato, la mafia dovrebbe essere annientata prima che cessi, come dice Sciascia, di essere “vernacolare”48 e prima d’impregnare a tal punto l’apparato statale da rendere ogni provvedimento contro di lei 213 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

illusorio, dall’altro questa colonna “infame”, demolita nel 1778, che si chiamava “infame” per designare i traditori – nel più puro stile della tradizione mafiosa – dovrebbe indicare, alle nostre coscienze, la via da seguire perché giustizia sia fatta.

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Note 1. Per l’occasione, una serie di libri sono stati pubblicati; citiamo tra i più interessanti: Arlacchi P., Dalla Chiesa N., La Palude e la città. Si può sconfiggere la mafia, Milano, Mondadori, 1987; Biagi E., Il Boss è solo. Buscetta: la vera storia di un vero padrino, Milano, Mondadori, 1986; Calvi F., La Vita quotidiana della Mafia dal 1950 ad oggi (La Vie quotidienne de la Mafia de 1950 à nos jours, 1986), Milano, Rizzoli, 1986; Galluzzo L., La Licata F., Lodato S., Rapporto sulla Mafia degli anni ’80. Gli atti dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Palermo, Flaccovio Editore, 1986; Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, prefazione di L. Sciascia, Milano, Sugarco, 1986; Moncalvo G., Faccia a faccia con la Mafia, Milano, Ed. Paoline, 1986; Stajano C., Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, Roma, Editori Riuniti, 1986. 2. Barbina A. (a cura di), Teatro verista siciliano, Bologna, Cappelli, 1970, pp. 33-92. 3. Alongi G., La Maffia, Palermo, Sellerio Editore, 1977 (1a ed. Torino, Bocca, 1886), p. 5. 4. Ivi, pp. 55-56. 5. Pitrè G., Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll. [vol. XIV-XVII della Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, 1870-13], Palermo, Pedone Lauriel, 1889 (rist. anast. Bologna, Forni Editore, 1980), vol. II, pp. 294-295. 6. Uccello A., Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, Bari, De Donato, 1974, p. 65: “E quannu parri, pisa li palori:/ n’omu r’anuri ha sapiri parrari”. 7. Ivi, p. 109: “L’omu ch’è omu nun rrivela mai,/ mancu si havi corpa di cortellu”. 8. Pitrè G., Usi e costumi, cit., vol. II, p. 300: “L’omini ‘un sunnu ccà, mancu ‘n campagna,/ sunnu ‘ntra li ddammusi sutta terra,/ quannu cu la Giustizia si parra, /cu li manu liati e l’occhi ‘n terra./ Lu judici mi dissi: “Figghiu, parra:/ chista ‘un è chiavi chi si grapi e serra”/ L’omu chi parra assai, nenti guadagna,/ cu la sò stissa vucca si sutterra”. 9. Ivi, p. 295: “Cui parra, si cunfessa; e cui fa detta, paga”; “la vucca è traditura di lu cori”; “lu parrari picca è ’na bedd’arti”; “passu lungo e vucca corta”. 214 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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10. I capitoli III e IV di questo volume illustrano due momenti diversi del “paradigma dell’omertà” come lo chiama Pezzino P., Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in Aymard M., Giarrizzo G. (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, Torino, Einaudi, 1987, pp. 905-982: nel primo, una sua possibile origine aristocratica tramite lo studio dei discarichi di coscienza dettati dai condannati a morte ai Bianchi alla vigilia della loro esecuzione e, nel secondo, l’uso che ne fanno i contadini della Sicilia orientale tramite l’analisi delle parità morali presentate da Guastella S.A., Le Parità morali, Introduzione di G. Cocchiara, Bologna, Cappelli Editore, 1968 [1884]. 11. Ivi, pp. 233-234. 12. Petacco A., Il Prefetto di ferro. Cesare Mori e la Mafia, Milano, Mondadori, 1975, p. 29. 13. Ivi, p. 80. 14. Ivi, p. 91. 15. Ivi, p. 108. 16. Penso all’esempio di Paolo Timpanaro di Mistretta che scrive una lettera al sotto-prefetto per denunciare Antonino Ortoleva già arrestato dalla polizia e ad altri esempi presentati da Duggan C., La Mafia durante il fascismo, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1986, p. 85, e pp. 212-213. Pure Pezzino P., Stato, violenza società, cit., p. 954, vi insiste nel suo saggio, dicendo: «che i mafiosi “non parlino” è uno dei miti derivanti dalla diffusione del paradigma dell’omertà e dell’immagine di una mafia con rigide regole “morali”: in realtà tutti i più grossi processi di mafia, fin dall’Ottocento, si sono basati su testimonianze e denunce di mafiosi». Sui meccanismi della denuncia, leggere La Dénonciation, in «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», 51, 1984, pp. 3-66. 17. Petacco A., Il Prefetto di ferro, cit., p. 71. 18. Le cifre date da Duggan, La Mafia durante il fascismo, cit., sono ancora più importanti. 19. Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., p. 255. 20. Petacco, A., Il Prefetto di ferro, cit., p. 92. 21. Ivi, pp. 92-93. 22. Ivi, p. 177. 23. Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., p. 256. 24. Ivi, p. 257. 25. Hess H., Mafia (Mafia. Zentrale Herrschaft und lokale Gegenmacht, 1970), prefazione di L. Sciascia, Bari, Laterza, 1973, p. 212. Questa citazione di Hess è utilizzata da Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., pp. 268-269. Per approfondire la conoscenza della mafia negli Stati Uniti, leggere l’oramai classico Ianni F.A.J., Affari di famiglia. Parentela e controllo sociale nel de215 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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litto organizzato (A family business. Kinship and social control in organized crime, 1972), con la collaborazione di E. Reuss-Ianni, trad. di D. Ceni, Milano, Garzanti, 1974. 26. Sulla mafia “tradizionale”, la ricerca storica e antropologica di Blok A., Mafia di un villaggio siciliano (1860-1960), (The Mafia of a Sicilian village: 1860-1960. A study of violent peasant entrepreneurs, 1974), Ivrea, Edizioni di Comunità, 2000, rimane fondamentale; sulle varie interpretazioni e i dibattiti politici o culturali, Spampinato R., Per una storia della mafia. Interpretazioni e questioni controverse, in Aymard M., Giarrizzo G. (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, cit., pp. 886-902, e Pezzino P., Stato, violenza società, cit., forniscono una buona sintesi. 27. Questa citazione di Hess H., Mafia, cit., pp. 225-226 è utilizzata da Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., p. 269. 28. Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., p. 274. 29. Calvi F., La Vita quotidiana della Mafia, cit., p. 276. 30. Ibidem. 31. Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., p. 297. 32. Un altro esempio siciliano di una vendetta contro le regole implicite del codice d’onore è presentato nel capitolo X di questo volume, “Il ‘caso Franca Viola’, la ragazza che disse di no”. 33. Jannuzzi L., Così parlò Buscetta, cit., pp. 287-289. 34. Benché siamo pienamente d’accordo con Duggan, La Mafia durante il fascismo, cit., e con Pezzino, Stato, violenza società, cit., sul fatto che ben prima di Tommaso Buscetta ci fossero testimonianze e denunce fatte anche nei grossi processi di mafia, e fin dall’Ottocento e che, come dice Pezzino, “che i mafiosi ‘non parlino’ è uno dei miti derivanti dalla diffusione del paradigma dell’omertà” (ivi, p. 954), noi qui focalizziamo la nostra attenzione sullo studio del “mito” dell’omertà che vede Buscetta come il “primo” ad aver osato sfidare la mafia parlando. 35. I libri di Leonardo Sciascia sul soggetto sono illuminanti: leggere soprattutto Il Giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961; La Corda pazza, Torino, Einaudi, 1970; I Pugnalatori, Torino, Einaudi, 1976; La Sicile comme métaphore, presentazione di M. Padovani, Parigi, Stock, 1979; Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983; Occhio di capra, Torino, Einaudi, 1984. 36. A proposito, due leggi sono state create: la legge n. 304 (29 maggio 1982) e la legge n. 34 (18 febbraio 1987): la prima si focalizza sul caso di “non-punibilità” dei terroristi “pentiti”, la seconda sulle misure in favore dei “dissociati”. Tre studi giuridici commentano la prima legge: quello di Laudi M., I Casi di non punibilità dei terroristi “pentiti”, appendice di G. Conso, Milano, Giuffrè, 1983, che esamina l’articolo 1; il secondo, dello stesso autore, 216 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Terroristi “pentiti” e liberazione condizionale, curato da G. Conso, Milano, Giuffrè, 1984, analizza gli articoli 8 e 9; e il terzo, quello di Maddalena M., Le Circostanze attenuanti per i “terroristi pentiti”, curato da G. Conso, Milano, Giuffrè, 1984, studia gli articoli 2 e 3. 37. Scialoja M., Il teorema indimostrato, in «L’Espresso», 22 marzo 1987, p. 20. 38. Ibidem. 39. Carlucci A., Brigatista, dove vai?, in «Panorama», 15 marzo 1987, p. 54. 40. Palmieri di Miccichè M., Mœurs de la cour et des peuples des Deux Siciles, introduzione M. Colesanti, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1971 [1837], pp. 144-145. Il duca di Modena – scrive – credette sentire un gran rumore nelle soffitte o nelle cantine del suo palazzo. Un rumore! Ma è dunque un complotto! Ragionò guidato dalla potente dialettica e dall’istinto ienico che lo distinguevano. Il duca corse a rinchiudersi in un convento di suore. Una volta al sicuro, monsignore fece garrottare e gettare nelle segrete Ricci e quattro altri individui violentemente sospettati di liberalismo; un forzato liberato e un altro altrettanto ben famato di un forzato liberato furono ugualmente arrestati e implicati in questo processo. Fatto questo, monsignore nominò un consiglio di guerra ad hoc, composto da sette onesti militari, animati dalla piu nobile frenesia di liberare su parola sua il loro augusto sovrano da tutti i suoi nemici. In due parole, il duca fece grazia al forzato liberato e al suo degno compagno (soli denunciatori d’un complotto immaginario), a causa, dice il pamphlet La Voce della Verità, non soltanto del candore delle loro deposizioni e della buona fede che hanno messo nell’ammettere il loro crimine, ma anche in rapporto al loro profondo e sincero pentimento per l’enormissimo loro misfatto. Gli altri accusati, malgrado il fatto che protestassero tutti della loro innocenza, subirono la loro condanna, e il giovane Ricci fu giustiziato. 41. Nella nota scritta da Leonardo Sciascia al termine della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, Palermo, Sellerio Editore, 1981. 42. Manzoni A., Storia della colonna infame, Palermo, Sellerio Editore, 1981, p. 92. 43. Ivi, p. 63. 44. Ivi, p. 103. 45. Ivi, p. 55. 46. Ivi, p. 80. 47. Ivi, p. 81. 48. Sciascia L., I professionisti dell’antimafia, in “Corriere della Sera”, 10 gennaio 1987, p. 3. 217 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ringraziamenti

L’uso della parola in situazioni ai “margini” è sempre stato al centro dei miei interessi, dalla mia prima ricerca sul campo per studiare le conversioni al pentecostalismo nel Mezzogiorno, quando mi ero trovata faccia a faccia con la glossolalia. I miei studi sulle rappresentazioni siciliane della giustizia mi hanno messa a confronto con la pratica del silenzio (omertà) valorizzata dal codice dell’onore; con i discarichi di coscienza dettati dai condannati a morte durante la vigilia della loro esecuzione ai membri della compagnia dei Bianchi (Palermo, 1541-1820); con l’utilizzazione più che raffinata della metafora; oppure con la presa di parola pubblica. Oggi tento di tirare le fila di queste ricerche per proporle ai colleghi e ai lettori, dal momento che queste diverse “strategie” della parola sembrano presentare un quadro specifico della società meridionale italiana. Vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno sollecitata a scrivere o a pubblicare questi saggi, molti dei quali non sarebbero esistiti senza il loro incoraggiamento: Jean Pouillon, Leonardo Sciascia, Marc Ferro, Bernard Lepetit, Silvana Miceli, Nicola Gasbarro, Elisabeth Claverie, Gérard Lenclud, Julian Pitt-Rivers, Elisabeth Handman, Paolo Fabbri, Isabella Pezzini, Félix Guattari, J.G. Peristiany, Lucette Valensi, Michela De Giorgio, Amalia Signorelli, Paola Corti e Maurice Olender. Questi saggi sono stati letti e commentati da colleghi o amici prima della loro pubblicazione: Pino Arlacchi, Pierre Bonte, Antonino Buttitta, Antonino Colajanni, Jean-Pierre Digard, Jonathan Friedman, Jacques Gutwirth, Michael Herzfeld, Antonio Pasqualino e Monique Selim. Vorrei ringraziare Elsa Guggino per gli innumerevoli suggerimenti fornitimi durante il mio percorso siciliano. Inoltre, ancora Elsa Guggino, come pure Luisa 219 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Accati, per aver sacrificato il loro tempo nella lettura del manoscritto e per i loro consigli, sempre pertinenti. Per finire, vorrei ringraziare le persone che mi hanno aiutato a far nascere questo libro: Charles Baladier, Bernard Condominas e Luigi M. Lombardi Satriani. E inoltre Baber Johansen per il suo costante ed amorevole appoggio.

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