Dinosauri. Misteri svelati e nuove incognite 9788841216972

Dalla nebbia di un tempo infinitamente lontano, emerge il profilo affilato di un dente di pietra. Inizia così la storia

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Dinosauri. Misteri svelati e nuove incognite
 9788841216972

Table of contents :
Copertina......Page 1
Occhiello......Page 2
Frontespizio......Page 3
Colophon......Page 4
Una ricerca infinita......Page 5
Sommario......Page 6
Le prime tracce......Page 8
L’anatomia comparata di Georges Cuvier......Page 10
Mantell e Buckland: le prime identificazioni......Page 11
Un nuovo nome nella scienza: Dinosauria......Page 14
La rivoluzione darwiniana......Page 15
L’anello mancante......Page 17
La nuova paleontologia......Page 18
Oltre i dinosauri......Page 20
Vecchi quesiti e nuove idee......Page 22
I dinosauri piumati e l’origine degli uccelli......Page 27
Nasce un fossile......Page 30
Le coordinate del tempo......Page 35
A caccia di dinosauri......Page 38
La ricostruzione......Page 40
Impronte......Page 46
Ricostruire un mondo perduto......Page 48
La Terra dei dinosauri......Page 52
L’evoluzione: le idee e i fatti......Page 58
I primi organismi......Page 63
I primi animali......Page 66
Dai pantani al deserto......Page 68
Il vantaggio di essere rettile......Page 74
Evoluzione dei rettili......Page 79
I progenitori dei dinosauri......Page 82
Anatomia di un dinosauro......Page 84
Evoluzione di un organismo di successo......Page 86
Perché classificare......Page 88
L'ordine di Linneo......Page 89
L’evoluzione entra nella tassonomia......Page 91
Il labirinto dei nomi......Page 93
Gruppo Saurischia......Page 97
Gruppo Ornithischia......Page 102
Idee nuove e nuove classificazioni......Page 105
Un problema difficile......Page 108
Ostrom e Bakker: verso nuove prospettive......Page 111
Fisiologia di un dinosauro......Page 115
Un’altra prova: il cervello......Page 117
Crescita e metabolismo......Page 118
Aggressione e difesa......Page 120
Dinosauri in amore......Page 123
Nidificazione e vita familiare......Page 126
6. Il Triassico: alba di un nuovo mondo......Page 130
Celofisoidi......Page 140
Ornitischi primitivi......Page 141
Plateosauridi......Page 142
7. Il Giurassico: foreste e giganti......Page 144
Ceratosauri......Page 152
Allosauroidi......Page 155
Megalosauroidi......Page 156
Celurosauri......Page 158
Sauropodi primitivi......Page 162
Brachiosauridi......Page 163
Diplodocoidi......Page 167
Fabrosauridi, tireofori primitivi e ornitopodi......Page 170
Stegosauri......Page 172
8. Il Cretacico: l'apogeo e la Grande Estinzione......Page 176
Megalosauroidi spinosauridi......Page 186
Celurosauri compsognatidi......Page 190
Tirannosauroidi......Page 192
Ornitomimosauri......Page 198
Oviraptorosauri......Page 201
Deinonicosauri......Page 202
Titanosauri......Page 204
Anchilosauri......Page 206
Protoceratopsidi......Page 209
Ceratopsidi......Page 211
Pachicefalosauri......Page 216
Ipsilofodonti......Page 218
Iguanodontidi......Page 220
Adrosauroidi......Page 224
L’estinzione di massa: un mistero insolubile?......Page 228
Tutto in uno strato d’argilla......Page 230
Dal cielo, una palla di ferro infuocata......Page 231
Nemesis: la stella dell’apocalisse......Page 236
Nel cuore della Terra......Page 237
Una questione di equilibrio......Page 238
Indice analitico......Page 244

Citation preview

Presentazione di Giovanni Pinna Revisione e aggiornamento di Simone Maganuco

Revisione e aggiornamento: Simone Maganuco Progetto grafico, redazione e impaginazione: Studio Brillante

Foto di copertina : © Daniel Andis, © Natalia van D, © Celiafoto, © Akkharat Jarusilawong / Shutterstock Per informazioni e segnalazioni: [email protected]

Ringraziamenti per la prima edizione Questo libro non avrebbe visto la luce senza la fattiva collaborazione degli studiosi e disegnatori che ringraziamo molto sentitamente: prof. José F. Bonaparte, del Museo Argentino di Scienze Naturali e Istituto Nazionale delle Scienze Naturali di Buenos Aires, Argentina; dr. Angela C. Milner, del Dipartimento di Paleontologia del British Museum of Natural History di Londra (GB); prof. John H. Ostrom, della Divisione di Paleontologia dei Vertebrati del Museo Peabody di Storia Naturale della Yale University di New Haven (Connecticut, USA); prof. Giovanni Pinna, del Museo Civico di Storia Naturale di Milano (I); dr. F. Westphal, dell’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Tübingen (D); dr. Dong Zhiming, dell’Istituto di Paleontologia dei Vertebrati e Paleoantropologia Academia Sinica di Beijing (Cina); gli illustratori romani Massimo Agrillo, Alessandro Bruno, Dario Orecchini e Claudio Pasqualucci. L’Editore ringrazia inoltre: i professori Emilio Balletto e Cristina Giacoma del Dipartimento di Biologia Animale e Roberto Compagnoni del Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Torino (I); prof. Carlo Guaraldo, dell’Istituto Nazionale di Fisica, Laboratori di Frascati, dott. Piero Bianucci, del quotidiano “La Stampa” di Torino.

L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze agli aventi diritto che non è stato possibile reperire.

www.giunti.it © 2019 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia ISBN: 9788841217788 Prima edizione digitale: ottobre 2019

Una ricerca infinita

Q

uando nel 1972 visitai uno dei più estesi giacimenti di dinosauri del mondo, una fascia di deserto lunga decine di chilometri estendentesi a sud-est del massiccio dell’Air nel deserto del Teneré, ciò che più mi colpì fu, assieme all’abbondanza dei resti fossili, la loro grande varietà. In quell’arido tratto di terreno, affioravano infatti vertebre, costole, frammenti di cranio, ossa lunghe e, a volte, scheletri quasi completi, attribuibili a un grande numero di specie diverse di dinosauri. Di tutte quelle specie, una sola è stata fino a ora descritta e ricostruita: Ouranosaurus nigeriensis, mentre decine di altre, già estratte dal terreno o ancora da portare alla luce, aspettano che l’analisi scientifica attribuisca loro un nome e una forma *. La medesima impressione mi fece, qualche anno più tardi, un altro giacimento africano: quello dell’oasi di Baharia, nel deserto egiziano. Anche lì un grande numero di ossa appartenute a molte specie diverse di dinosauri affioravano dalle sabbie del deserto, o erano inglobate negli strati cretacei, sovrapposti a formare un’inquietante piramide rocciosa. Ricordando queste mie esperienze sul continente africano, la cui fauna a dinosauri è senza dubbio la meno nota fra quelle di tutti gli altri continenti (ad eccezione naturalmente dell’Antartide), non posso fare a meno di notare che le nostre conoscenze su questi meravigliosi rettili del passato sono ben lontane dall’essere complete. E ciò è facilmente dimostrabile se solo si pensa che, nonostante le decine e decine di specie descritte dai paleontologi da quel lontano giorno del 1822, in cui il Dottor Mantell rinvenne pochi denti di iguanodonte, ogni anno nuove forme vengono alla luce, dipingendoci un mondo passato di una varietà sempre crescente. Dell’antico mondo dei dinosauri, le cui conoscenze sono in continua evoluzione, questo volume fornisce una sintesi molto ampia. Esso non si limita a descrivere le numerose specie vissute in un arco di tempo di oltre 160 milioni di anni – tanto è durata la storia dei dinosauri – ma ne racconta l’origine, le abitudini, l’ambiente di vita e i rapporti con gli altri organismi, concludendo con l’analisi di tutte le teorie che i paleontologi hanno ipotizzato per spiegare l’improvvisa e totale scomparsa di uno dei gruppi di vertebrati più ampio e diversificato che mai sia esistito sulla Terra. Giovanni Pinna, paleontologo Direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Milano dal 1981 al 1996

*N.d.R. Oggi, oltre a Ouranosaurus, sono stati descritti anche un altro ornitopode, Lurdusaurus, lo spinosauride Suchomimus, l’abelisauride Kryptops, l’allosauroide Eocarcharia, il sauropode Nigersaurus, il coccodrillo Sarcosuchus, altri coccodrilli e numerosi altri vertebrati.

5

Sommario

Una ricerca infinita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

CAPITOLO 3

Le vie della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 CAPITOLO 1

Uomini e dinosauri

.........................

8

Una scoperta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 Le prime tracce. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 L’anatomia comparata di Georges Cuvier . . . . . . . . 10 Mantell e Buckland: le prime identificazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Un nuovo nome nella scienza: Dinosauria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 Altre prove dall’America . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 La rivoluzione darwiniana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 L’anello mancante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 La nuova paleontologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 Oltre i dinosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 Vecchi quesiti e nuove idee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 I dinosauri piumati e l’origine degli uccelli . . . . . . 27

CAPITOLO 2

Le prove fossili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Nasce un fossile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 Le coordinate del tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 A caccia di dinosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 La ricostruzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 Impronte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 Ricostruire un mondo perduto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48 La Terra dei dinosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52

6

L’evoluzione: le idee e i fatti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 I primi organismi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 I primi animali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 Dai pantani al deserto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 Il vantaggio di essere rettile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74 Evoluzione dei rettili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 I progenitori dei dinosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82 Anatomia di un dinosauro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84 Evoluzione di un organismo di successo . . . . . . . . . . 86

CAPITOLO 4

La varietà delle forme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

88

Perché classificare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88 L’ordine di Linneo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 L’evoluzione entra nella tassonomia . . . . . . . . . . . . . . 91 Il labirinto dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 Gruppo Saurischia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97 Gruppo Ornithischia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102 Idee nuove e nuove classificazioni. . . . . . . . . . . . . . . 105

CAPITOLO 5

Dinosauri dal vivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 Un problema difficile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 Ostrom e Bakker: verso nuove prospettive . . . . 111 Fisiologia di un dinosauro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

Un’altra prova: il cervello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Crescita e metabolismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 Aggressione e difesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 Dinosauri in amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 Nidificazione e vita familiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126

CAPITOLO 6

Il Triassico: alba di un nuovo mondo . . . . . . . . . . . . . . . 130 Celofisoidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140 Ornitischi primitivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 Plateosauridi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 142

CAPITOLO 7

Il Giurassico: foreste e giganti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 Celofisoidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152 Ceratosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152 Allosauroidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 Megalosauroidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156 Celurosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 158 Sauropodi primitivi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 Brachiosauridi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 Diplodocoidi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 Fabrosauridi, tireofori primitivi e ornitopodi . . 170 Stegosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172

CAPITOLO 8

Il Cretacico: l’apogeo e la Grande Estinzione . . . 176 Megalosauroidi spinosauridi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186 Celurosauri compsognatidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 Tirannosauroidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192 Ornitomimosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 Oviraptorosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201 Deinonicosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202 Titanosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204 Anchilosauri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206 Protoceratopsidi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 Ceratopsidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211 Pachicefalosauri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216 Ipsilofodonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218 Iguanodontidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 Adrosauroidi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224

CAPITOLO 9

La scomparsa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 228 L’estinzione di massa: un mistero insolubile? . . 228 Tutto in uno strato d’argilla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 230 Dal cielo, una palla di ferro infuocata . . . . . . . . . . 231 Nemesis: la stella dell’apocalisse. . . . . . . . . . . . . . . . . 236 Nel cuore della Terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 Una questione di equilibrio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238

Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 244

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1. Uomini e dinosauri

UNA SCOPERTA «Ero il primo uomo a vedere quei frammenti di ossa fossili. Il loro aspetto mi diceva che erano lì da anni, da secoli, esposti all’azione demolitrice dell’aria e mai riconosciuti. Subito mi fu chiaro che erano qualcosa di unico, la scoperta più importante di quell’estate. Quel pomeriggio, il mio assistente Grant e io li liberammo con precauzione dalla polvere, con la sensazione di aver scoperto un tesoro perduto. Portammo alla luce alcune dita poco più grandi delle mie e un paio di denti aguzzi. Finalmente comparvero tutte: avevamo dissotterrato le ossa perfettamente conservate di un piede». Era un piede di dinosauro molto particolare quello che John Ostrom, professore alla Yale University e curatore dei fossili del Peabody Museum, scoprì quel pomeriggio dell’agosto 1964. La stagione degli scavi si stava concludendo e Ostrom insieme a Grant perlustrava ancora una volta le pendici di quell’arida collina del Montana, Ominus Moud, in una remota zona vicino alla città di Billings, dove avevano scavato tutta l’estate. Alla luce radente del sole al tramonto, quando le cose acquistano contorni inusitati e improvvisamente si manifestano, l’ora magica delle scoperte impossibili come sanno i paleontologi, essi videro un terribile artiglio a forma di falcetto sull’ultima falange del secondo dito. Era una forma assolutamente nuova, che

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CAPITOLO 1

NASCE LA SCIENZA MODERNA Galileo Galilei (1564-1634) in una incisione del 1850. L’uso della matematica come misura di un fenomeno e la necessità di verificare sperimentalmente ogni ipotesi, basi metodologiche del pensiero galileiano, hanno avuto un influsso fondamentale sullo sviluppo scientifico di questi ultimi secoli.

diede l’impulso a ulteriori scavi e l’avvio a una rivoluzione concettuale nel modo di guardare alla biologia dei dinosauri. Dopo 3 anni di lavoro, fece il suo ingresso nel mondo accademico Deinonychus, cioè “artiglio terribile”, un carnivoro bipede alto 1 metro e mezzo che si poteva supporre scattante, aggressivo e intelligente; una specie completamente nuova e diversa dall’immagine fino ad allora ipotizzata per questi rettili che vissero centinaia di milioni di anni fa: enormi, potenti, lenti e poco intelligenti. La collina di Ominus Moud nel Montana, cimitero di questi piccoli predatori e custode dei segreti del loro lontano passato, si aggiunse così dopo quel pomeriggio di agosto alla lunga lista dei nomi della storia recente dei dinosauri, quella che essi vivono nella conoscenza degli uomini da poco più di 200 anni. Una storia che comincia in Inghilterra pressappoco alla fine del Seicento.

LE PRIME TRACCE Il mondo era allora essenzialmente agricolo, i panorami non alterati dalle fabbriche, le città contenute in dimensioni umane. Non c’era luce elettrica, né treno, né tantomeno autostrade. L’idea di dinosauro non aveva ancora preso forma, nonostante i fossili di questi rettili affiorassero a volte negli scavi. La cultura scientifica del tempo dava una visione del mondo che seguiva il modello bi-

blico: solo da poco più di un secolo si accettava che la Terra fosse sferica e che non si trovasse al centro dell’Universo, da dove Galileo l’aveva spodestata divulgando la teoria di Copernico. John Dalton aveva appena avanzato l’ipotesi che la materia avesse struttura atomica, ma la chimica era ancora alchimia: si cercava il flogisto e il concetto di gas non era stato formulato. In biologia si erano appena scoperte le cellule, rese visibili da rudimentali microscopi, e solo da poco si poteva ammettere che la vita non si generasse in modo spontaneo. Quanto al passato della Terra, nessuno allora immaginava che potesse essere diverso da quello raccontato dalla Bibbia. Tutti quegli avvenimenti erano stati collocati con precisione nel tempo: James Ussher, arcivescovo della chiesa anglicana, studiando le genealogie del Vecchio Testamento, aveva stabilito che la Creazione era avvenuta nel 4004 a.C. e il Diluvio Universale nel 2349 avanti Cristo Gli esseri viventi, quindi, erano stati creati tutti nello stesso momento e il Diluvio Universale li aveva selezionati: alcuni erano sopravvissuti, altri no. Allora non si poteva neanche supporre

LE TRACCE DEL DILUVIO Nel secolo XVII la storia della Terra e della vita era ancora basata sulla descrizione delle Sacre Scritture. La vita traeva origine dall’atto della Creazione e i fossili non erano che il prodotto e la conferma del Diluvio Universale, voluto da Dio e determinato dal suo intervento diretto.

quello che oggi, con calcoli basati sulla velocità di espansione dell’Universo e sul decadimento radioattivo dell’uranio, si sa con probabile certezza: che la Terra si è formata 4 miliardi e mezzo di anni fa e che circa 3 miliardi e mezzo di anni fa, su questo Pianeta, è apparsa la vita, con forme diverse da quelle attuali, e che, nel tempo, mentre alcune specie apparivano, altre si estinguevano in un graduale processo evolutivo. E così fu anche per i dinosauri, che vissero fra 230 e 66 milioni di anni fa dopo aver fatto la loro comparsa in un mondo molto diverso da quello attuale, quando i continenti erano riuniti in un’unica massa e l’Europa era un arcipelago di isole; quando non esistevano le Alpi, l’Himalaya o le Montagne Rocciose. Ma nel clima culturale dell’Inghilterra del Seicento, un femore, attribuito oggi a un dinosauro, poteva essere descritto solo in questo modo: «Quest’osso [...] doveva essere appartenuto a qualche animale più grande di qualsiasi bue o cavallo [...] forse un elefante portato qui durante la dominazione dei Romani in Britannia». Così si legge nella Storia Naturale

UOMINI E DINOSAURI

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della Contea di Oxford, di Robert Plot, prelato di Oxford. Era il 1677: la prima testimonianza di un fossile di dinosauro. Anche in America vennero alla luce numerosi, enormi fossili di dinosauri: quegli stessi territori un tempo abitati dai grandi rettili, erano attraversati intorno al 1800 dalle carovane dei pionieri in marcia verso l’Ovest. Le ossa dei dinosauri, le loro impronte pietrificate, affioravano dalla terra come i solchi di quei carri. Ma esse venivano interpretate secondo una visione biblica, in un modo non diverso da come succedeva nell’Inghilterra del XVII secolo, e attribuite di volta in volta a pesci, uccelli o uomini giganteschi. Quando nel 1802 Plinio Moody, giovane contadino di una vallata del Connecticut, rimosse con l’aratro una lastra di pietra con piccole impronte fossili a tre dita, simili a quelle lasciate da un uccello, esse furono attribuite senza esitazione «alle zampe del corvo di Noè, inviato fuori dell’Arca dopo il Diluvio Universale, per esplorare il mondo». Per parlare di dinosauri, i tempi non erano ancora maturi.

L’ANATOMIA COMPARATA DI GEORGES CUVIER Fu in Inghilterra, intorno al 1820, che fossili di dinosauri vennero per la prima volta attribuiti a rettili estinti. L’atmosfera culturale di quel tempo era già molto diversa da quella dei tempi di Robert Plot. A Parigi, in pieno clima di rivoluzione, Georges Cuvier aveva posto da poco tempo le basi scientifiche per un’interpretazione corretta dei fossili che, provenienti dalle cave europee, si ammassavano sempre più numerosi nei nuovi musei e nelle tante collezioni private. Padre dell’anatomia comparata, Cuvier utilizzò i princìpi di questa nuova scienza per affrontare la IMPRONTE Le prime impronte fossili di dinosauri a tre dita simili a questa, furono scoperte all’inizio del

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CAPITOLO 1

secolo XIX negli Stati Uniti occidentali. Interpretate secondo il racconto biblico, vennero attribuite a uccelli vissuti in passato.

ROBERT PLOT Autore della Storia Naturale della Contea di Oxford, prelato della contea di Oxford, il reverendo Robert Plot (1640-1696) descrisse accuratamente un femore fossile classificandolo, secondo la cultura del suo tempo, come il femore di un elefante probabilmente portato in Inghilterra durante l’occupazione romana. Oggi lo stesso reperto è attribuito a un dinosauro.

ricostruzione degli scheletri di questi animali estinti, confrontandoli con quelli di animali a lui noti. Nuove specie fino allora sconosciute presero forma dai suoi studi: Mosasaurus fu il primo rettile marino carnivoro del Mesozoico a essere ricostruito e identificato a partire da due gigantesche mascelle ritrovate in Olanda alla fine del Settecento. Perfino dal sottosuolo di Parigi venivano estratte ossa di elefanti diverse da quelle conosciute. Ce n’era abbastanza per colpire la fantasia della gente e stimolare la raccolta dei fossili, che diventarono prezioso materiale da collezione. C’era anche chi viveva di questo commercio, come la famiglia della piccola Mary Anning che, appena undicenne, ebbe la fortuna di trovare il cranio di un gigantesco ittiosauro, affiorato lungo la costa inglese di Lyme Regis dopo una mareggiata. In questo clima di interesse per i fossili, e con l’ammassarsi di prove a favore dell’esistenza di forme di vita passate completamente diverse da quelle conosciute, Cuvier, introducendo i principi dell’anatomia comparata per interpretare i fossili, pose le basi della moderna paleontologia. I fossili dovevano appartenere ad animali estinti tanto più diversi da quelli attuali quanto più antico era lo strato di depositi rocciosi in

cui giacevano: la loro scomparsa, Cuvier ne era convinto, doveva essere conseguenza di eventi catastrofici (alluvioni, invasione del mare sulla terraferma, avanzamento di ghiacciai...) che avevano sconvolto la Terra in passato.

MANTELL E BUCKLAND: LE PRIME IDENTIFICAZIONI Fu questo clima di interesse e di fantasia che permise a Gideon Mantell di identificare come rettile il primo dinosauro erbivoro. Medico condotto nel sud dell’Inghilterra e appassionato di fossili, ebbe la fortuna di vivere in una zona di arenarie del Cretacico (probabilmente l’antico delta di un fiume, una situazione geologica particolarmente adatta alla formazione di fossili), di esercitare una professione che lo portava a girare le campagne circostanti, e di aver sposato Mary Ann Woodhouse che condivideva la sua stessa passione. Secondo il resoconto che egli stesso diede della scoperta che lo rese famoso, fu la concomitanza di queste tre circostanze a giocare in suo favore, in una serena mattina di primavera del 1822. Quel giorno Mantell si era recato a visitare un paziente vicino a Lewes, nel Sussex. Mentre lui era occupato con il malato, sua moglie, che lo aveva accompagnato, passeggiava sulla strada soggetta in quei giorni a lavori di manutenzione e ingombra di pietre ammassate. Un blocco di arenaria attrasse la sua attenzione: conteneva un dente di una strana forma. Mostrandolo al marito, la signora Mantell dette inconsapevolmente l’avvio a una serie di avvenimenti che cambiarono profondamente sia la sua vita coniugale (l’accanimento del marito nel cercare di risolvere il problema dell’attribuzione di questo fossile diventò talmente maniacale da rovinare il matrimonio) sia il corso della paleontologia. In realtà, probabilmente, Mary Ann non ebbe una parte così determinante in questa storia, se si tiene conto delle ricerche storiche condotte recentemente dal professor Dennis R.

UNA NUOVA STRADA Georges Cuvier (1769-1832) diede alla scienza del tempo gli strumenti necessari per una corretta interpretazione dei fossili. Con la descrizione della mascella di Mosasaurus indicò l’impostazione metodologica da seguire nelle interpretazioni dei primi fossili di dinosauri.

Dean dell’Università del Wisconsin: nei diari di Mantell l’episodio non è citato e nel Sussex la moglie lo accompagnò una sola volta, il 15 agosto 1880, in una gita durante la quale non si raccolse “alcunché di rilevante”. Secondo questi studi, il medico aveva ingaggiato un uomo perché gli raccogliesse fossili in una cava della Tilgate Forest. Proprio da lì, dunque, sarebbe provenuto quel dente che aveva la superficie consumata tipica di un erbivoro. Gli strati in cui esso era stato ritrovato, però, erano così antichi da suggerire che si trattasse di un fossile appartenente a un rettile estinto piuttosto che a un mammifero. Tuttavia, nessun rettile conosciuto aveva questo tipo di dieta, e l’attribuzione del dente a una specie di rettile erbivoro estinto era troppo coraggiosa per essere sostenuta da un medico di campagna. Mantell interpellò allora Cuvier: l’illustre scienziato lo attribuì a un rinoceronte. Provenienti dagli stessi strati sedimentari, altri frammenti dello scheletro vennero alla luce, ma per i paleontologi inglesi, al pari di Cuvier

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molto prudenti, non c’erano prove sufficienti per sostenere che appartenessero a un rettile estinto piuttosto che a un mammifero. Come spesso succede nella ricerca scientifica, anche l’identificazione di questo dente, come la sua scoperta, avvenne per caso. Non soddisfatto dalle interpretazioni, Mantell si trovava allo Hunterian Museum di Londra per confrontare i suoi fossili con quelli conservati nel museo, nel tentativo di risolvere l’enigma che lo assillava. Per una fortunata coincidenza, incontrò un giovane ricercatore esperto in iguane del Sud America, il quale fu subito colpito dalla somiglianza tra il dente fossile che Mantell gli mostrava e quelli, a lui noti, dei rettili oggetto dei suoi studi. Le iguane, per l’appunto, sono rettili erbivori. Venne così avvalorata l’ipotesi di Mantell: il dente apparteneva a un rettile estinto, erbivoro e di proporzioni gigantesche. «Doveva superare i 18 metri di lunghezza» sosteneva Mantell, osservando che la circonferenza del femore era di ben 50 centimetri. Fu chiamato Iguanodon, dente di iguana, e venne presentato da Mantell in una relazione alla Geological Society. Era il 1825: Iguanodon entrava a far parte del mondo scientifico. Di fronte alle nuove prove, anche Cuvier ammise di essersi sbagliato. Tuttavia Mantell commise

NUOVE INTELLIGENZE A lato, Gideon Algernon Mantell (1790-1852), medico di campagna appassionato di fossili, fu lo scopritore dei primi resti di dinosauro identificato come tale. Mary Ann Woodhouse Mantell, appassionata quanto il marito nello studio dei fossili, svolse probabilmente un ruolo di primo piano nella scoperta dei resti di Iguanodon che lo rese celebre.

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un errore, il primo dei tanti che segnarono i tentativi di ricostruire questi rettili: collocò sul muso dell’animale, quasi fosse un corno, l’artiglio che invece armava il pollice. In quel tempo si interessavano di scienza solo gli uomini colti che appartenevano a tre categorie: avvocati, medici o uomini di chiesa. Mantell non sfuggiva a questa regola, e William Buckland nemmeno. Figlio di un sacerdote, prelato a Oxford e professore di geologia nella stessa Università, era considerato nel mondo culturale inglese un’autorità in materia, sia per il fascino di didatta che per la competenza di geologo. Buckland subiva profondamente l’influenza di Cuvier, del quale era in Inghilterra il

UN RETTILE ERBIVORO Un’iguana terrestre delle Galapagos mentre addenta un cactus: fu l’analogia esistente fra i denti di questo rettile vivente e i denti fossili da lui scoperti che suggerì a Gideon Mantell l’idea di attribuirli a un rettile erbivoro estinto. Fu proprio ispirandosi alle iguane che Mantell scelse il nome di Iguanodon, letteralmente “dente di iguana”.

3,58 m DENTI E OSSA Iguanodon era un dinosauro erbivoro comune nelle pianure del Cretacico inferiore. Questa illustrazione, dell’inizio del secolo scorso, rappresenta uno dei trenta scheletri ritrovati nel 1878 nella miniera di carbone di Bernissart, in Belgio.

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più conv convinto sostenitore. Ma, uomo di chiesa, accettando la teoria delle estinzioni credeva al Universale, considerandolo come una Diluvio Uni catastrofi avvenute sul nostro Pianeta. delle catastr Buckland, a differenza di Mantell, ma come tanti eruditi della società inglese del XIX secolo, personaggio eccentrico e la sua casa era era un perso imprevedibili avventure. Narra il preteatro di imp suo figlio, spaventato dallo sciacallo cettore di su stavo dedicando un’ora all’idi casa: «Mentre «Me struzione del ragazzo, sentii l’animale masticare sotto di me... Quando il nostro lavoro qualcosa sott dissi a Buckland che lo sciacallo aveva terminò, diss da mangiare sotto il sofà. “I trovato qualcosa qual miei poveri porcellini d’India!” esclamò». L’afamoso di casa Buckland però era un nimale più fa le feste abbigliato come orso, che frequentava fre uno studente della Christ Church, con tanto di gonna, e che faceva il baciamano agli cappa e gon importanti cui veniva presentato. ospiti impor stravagante, Buckland univa Al comportamento comporta una notevole notevol dimensione scientifica. Nel 1824 della Geological Society di sulle Transactions Transa Londra, di cui c Buckland era presidente, apdel primo dinosauro carparve la descrizione des Megalosaurus. Egli aveva esaminato di nivoro: Meg questo animale anim una mandibola con grossi denti seghettati, alcune vertebre, parte del bacino a e di una scapola, e alcuni frammenti dell’arto sca posteriore, tutti tu fossili provenienti da una cava di ardesia vicino a Oxford. Sostenuto da Cuvi vier, forte della de sua posizione e meno incerto di Mantell, Buckland non ebbe esitazione a conBu siderare il megalosauro un rettile estinto e a inm serirlo nell’ordine dei Sauri, come fosse stato nell’o una gigantesca gigantes lucertola. L’immagine di Megalosaurus entrò nel mondo colto inglese come una nota domestica, domest non meno stravagante dell’orso di casa Buckland. Scriveva Charles Dickens in Buck Bleak House: «Implacabile tempo di novembre. C’è così tanto tant fango nelle strade come se le acque si fossero fosser appena ritirate dalla superficie della Terra. Non ci sarebbe da stupirsi di incontrare un megalosauro, lungo una quarantina m

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di piedi, che se ne va dondolando come un’enorme lucertola su verso Holborn Hill». In realtà il megalosauro non era affatto simile a una lucertola e aveva l’andatura bipede. Faceva parte di un gruppo non ancora definito di rettili allora sconosciuti: i denti ancorati alle ossa della bocca, la mole, la struttura dello scheletro, ne avrebbero fatto un dinosauro. Buckland però non poteva afferrare l’importanza di questi particolari anatomici. Sarà Richard Owen, un altro scienziato inglese, a coglierla e a creare, pochi anni dopo, il nuovo sottordine per questi rettili estinti.

UN NUOVO NOME NELLA SCIENZA: DINOSAURIA Altri rettili estinti vennero identificati, tutti di proporzioni gigantesche. Nuovi generi si erano aggiunti a quelli di Iguanodon e di Megalosaurus: Macrodontophion, Thecodontosaurus e Plateosaurus. I ritrovamenti e le ricostruzioni rimanevano, però, un lavoro frammentario e scoordinato: occorreva una profonda preparazione in anatomia comparata e una mente capace di una visione unitaria per poter riconoscere negli scheletri spesso incompleti di questi animali quei tratti che li accomunavano. Essi avevano due caratteristiche anatomiche peculiari: i denti infissi in alveoli dell’osso mascellare e le cinque vertebre lombari fuse nell’osso sacrale; erano animali terrestri che mantenevano la coda e il corpo ben sollevati SIR RICHARD OWEN Richard Owen (18041892), qui fotografato con uno scheletro di Dinornis, fu il primo studioso a riconoscere che i numerosi fossili scoperti in quegli anni dovevano appartenere a un nuovo gruppo di rettili, dalle caratteristiche peculiari. Nel 1851 egli propose di raggrupparli tutti sotto un unico nome: Dinosauria.

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IL CAVALIERE DELL’EVOLUZIONE Jean-Baptiste-Pierre Antoine de Monet cavaliere di Lamarck (1744-1829) formulò una teoria secondo la quale gli organismi viventi si sarebbero evoluti verso forme sempre più complesse e progredite per cambiamenti successivi dovuti all’uso o al non-uso degli organi. Con questa sua teoria, egli fu uno dei primi biologi che propose fermamente una spiegazione razionale sulla dinamica dell’evoluzione.

da terra grazie agli arti collocati come colonne sotto il corpo, capaci di sostenerne efficacemente il peso: in questo e nel modo di camminare erano più simili ai mammiferi che alle lucertole, che strisciano ventre e coda per terra a causa delle loro zampe rivolte lateralmente. «La combinazione di questi caratteri, e tutti manifesti in creature che sorpassano di gran lunga il più grande dei rettili esistenti, sarà, credo, un argomento sufficiente per stabilire un gruppo distinto, un subordine dei Sauri, per il quale io proporrei il nome di Dinosauria». Era il 2 agosto 1841: Richard Owen faceva questa dichiarazione durante la riunione annuale della British Association for Advancement of Science a Plymouth, usando per la prima volta il termine di “dinosauri” (dal greco deinos = terribile e sauria = lucertole). Con alle spalle una lunga esperienza di dissezioni anatomiche di corpi umani eseguite durante i suoi studi universitari di medicina, e quelle di animali eseguite nello zoo londinese di Regent’s Park, Owen aveva un’ottima preparazione in anatomia comparata. La sua grande sicurezza, invece, gli veniva da una profonda presunzione: si sentiva infallibile. Era dunque il tipo di scienziato capace di sostenere con coraggio affermazioni anche ardite, nonostante si rivelasse particolarmente rigido verso le novità. Quando venne pubblicato L’origine delle specie di Darwin, per esempio, Owen, allora primo direttore del Natural History Museum di South Kensington di Londra, non accettò l’idea di un’evoluzione della vita dovuta alla selezione naturale, quell’idea scientifica che avrebbe potuto spiegare in modo accettabile la comparsa, la differenziazione in innumerevoli specie diverse e la stessa estinzione di quegli enormi rettili del passato che tanto lo avevano affascinato. Con la sua relazione sui rettili fossili della Gran Bretagna durata due ore e mezzo, però, Owen non aveva introdotto solo un nuovo nome nella scienza. Aveva creato un nuovo modo di guardare alla vita del passato, un modo che avrebbe

aperto la via alla comprensione di questi animali misteriosi. Ancora oggi il termine “dinosauri” evoca immediatamente questi rettili estinti, così diversi da quelli moderni proprio in quei caratteri che Owen stesso aveva colto.

ALTRE PROVE DALLÕAMERICA Mentre in Inghilterra cominciava a profilarsi questo nuovo gruppo tassonomico e l’idea stessa di dinosauro, sull’altra sponda dell’Atlantico venivano raccolte altre prove fossili. Nella vallata del Connecticut, dove Plinio Moody aveva scoperto le prime orme fossili di dinosauri, se ne trovarono molte altre. Edward B. Hitchock, un sacerdote professore di teologia naturale e di geologia, preside dell’Amherst College, nella sua monumentale Iconologia del New England, le raggruppò in 49 specie diverse, pur attribuendone la maggior parte a uccelli «bipedi, simili agli struzzi, ma mostruosamente alti». Era un errore, ma con qualche fondo di verità: oggi sappiamo infatti che gli uccelli appartengono al gruppo dei dinosauri e hanno numerose affinità morfologiche e anatomiche con i loro antenati mesozoici (come le zampe a tre dita, le cui impronte trassero in inganno Hitchock). Fu Joseph Leidy il primo a riconoscere e a dichiarare che i dinosauri non erano vissuti esclusivamente in Europa e che dovevano aver popolato anche i paesaggi mesozoici americani. Trachodon, Anatosaurus e Deinodon si aggiunsero ai generi europei mostrando con essi notevoli somiglianze, avvalorando così l’idea che questi animali fossero diffusi in tutto il mondo. Ma Leidy andò oltre questa affermazione. Nel ricostruire Hadrosaurus foulkii, confrontando la lunghezza del femore con quella dell’omero (la prima doppia dell’altra), riconobbe che quest’animale era bipede. Egli suggerì che Hadrosaurus, il primo dinosauro a essere identificato in America e assai comune in quei territori, fosse un erbivoro in grado di levarsi sulle zampe posteriori per brucare le foglie più alte degli alberi con il suo becco d’anatra.

NUOVI REPERTI Verso la fine del XIX secolo, Edward B. Hitchock aveva già catalogato e suddiviso in quarantanove specie diverse innumerevoli impronte di dinosauri simili a queste, rinvenute in territorio americano. Le attribuì a «uccelli bipedi, simili agli struzzi, ma mostruosamente alti». Pochi anni più tardi, Joseph Leidy avrebbe affermato che anche l’America era stata popolata da dinosauri, dando così alle interpretazioni di Hitchock una dimensione completamente nuova.

Dovevano dunque essere esistiti anche dinosauri bipedi, e non solo quadrupedi, a differenza di quanto sosteneva Owen. Era il 1858. Leidy, più giovane di vent’anni, era per certi versi l’immagine gemella d’oltre oceano di Owen. Conoscitore dell’anatomia umana e animale, aveva la stessa preparazione scientifica del collega inglese, ma possedeva anche profonde doti umane: una straordinaria modestia, un atteggiamento amichevole con tutti e una mente aperta a nuove idee. E fu proprio quest’apertura che gli permise di accettare la teoria di Darwin, non appena venne divulgata.

LA RIVOLUZIONE DARWINIANA Il 24 novembre 1859 fu pubblicato a Londra Sull’origine delle specie per selezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l’esistenza di Charles Robert Darwin. Quello stesso giorno, tutte le copie di questa prima edizione furono vendute: era l’inizio di una grande rivoluzione scientifica, paragonabile, per certi aspetti, a quella galileiana del Seicento. L’idea di evoluzione era nell’aria già da tempo. Lamarck aveva ipotizzato fin dal 1802 che gli esseri viventi derivassero da forme ancestrali per cambiamenti progressivi indotti dall’ambiente ed ereditati dalle generazioni successive.

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L’UOMO DELLA RIVOLUZIONE Charles Robert Darwin (1809-1882) ritratto all’epoca in cui intraprese il viaggio sul Beagle intorno al mondo in qualità di naturalista. Fu in questo viaggio che Darwin sviluppò quegli interessi scientifici e quelle tecniche di indagine che gli permisero di elaborare la sua rivoluzionaria teoria sull’evoluzione delle specie: nella sua visione unitaria e completa del mondo vivente, egli identificò nella selezione naturale il meccanismo evolutivo fondamentale.

La vita, secondo lo studioso francese, nasceva all’atto della Creazione e la sua evoluzione aveva come fine predeterminato la formazione di organismi sempre più progrediti e perfetti. L’opera di Darwin fu di portata straordinaria: prima della pubblicazione del suo trattato, mancava alla biologia una linea unitaria; ora, una certa struttura anatomica, un determinato fenomeno biochimico o un dato comportamento animale avevano lo stesso significato per la vita: erano passati al vaglio della selezione naturale ed esistevano in quella data forma solo perché avevano reso l’essere vivente che li possedeva più adatto all’ambiente in cui si trovava. Per Darwin, le modificazioni morfologiche acquisite da un individuo nel corso dell’esistenza non erano trasmissibili ai suoi discendenti: i due meccanismi chiave dell’evoluzione erano da un lato la variabilità (genetica, diciamo oggi) di una popolazione e dall’altro la selezione naturale operata dall’ambiente. Partendo dalla semplice osservazione che gli in-

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PRIMATI A CONFRONTO Grazie alle teorie di Charles Darwin si sono potute comprendere meglio l’evoluzione dei primati e le relazioni filogenetiche della nostra specie, Homo sapiens.

dividui di una stessa popolazione differiscono gli uni dagli altri in modo casuale, e dal fatto che non tutti sono ugualmente in grado di usufruire delle risorse ambientali a loro disposizione (cioè il cibo, i ripari, i partner sessuali e così via), egli giustificò in questo modo l’evoluzione biologica: solo i più adatti possono sopravvivere e avere una discendenza. Così, la formazione di nuove specie per graduale trasformazione da altre, o la loro estinzione, diveniva un fatto naturale. «Io considero tutti gli esseri non come creazioni speciali ma come discendenti lineari di pochi esseri che vissero molto tempo prima che fosse depositato il primo strato del Cambriano [...] possiamo essere certi che l’ordinaria successione di generazioni non è stata interrotta e che nessun cataclisma ha devastato il mondo [...]» e «[...] mentre questo Pianeta ha continuato a girare secondo la immutabile legge di gravitazione, da un così semplice inizio, innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e si stanno evolvendo». In questo schema razionale non poteva rimanere alcun posto privilegiato per l’uomo: «Molta luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia». Questa totale assenza di finalismo nell’evoluzione e questa concezione di una vita infini-

tamente creativa, determinarono il distacco definitivo del pensiero scientifico da quello teologico: la rivoluzione del pensiero darwiniano oltrepassò i confini della biologia, scuotendo anche il mondo politico. Darwin introdusse in campo biologico l’uso di una metodologia che fino ad allora era stata prerogativa della ricerca fisica e matematica: partendo dall’osservazione della natura si doveva elaborare una teoria che era tanto più valida quanto maggiore era il numero di problemi che riusciva a chiarire e spiegare. Fino a prova contraria, naturalmente, poiché una sola prova contraria può essere sufficiente a invalidarla. Cominciò così la spasmodica ricerca di prove a favore della teoria da parte dei sostenitori, e di prove a sfavore da parte dei denigratori; cominciarono le dispute accanite, le violente condanne e le esaltazioni: stava cambiando il volto di una scienza che, con i suoi sviluppi, solleva ancora oggi polemiche di carattere non solo scientifico, ma anche filosofico e sociale. Proprio dalla paleontologia si aspettavano prove a testimonianza dei passaggi graduali da una specie all’altra: gli “anelli mancanti”. Era il punto debole della teoria, come Darwin riconosceva: «La crosta terrestre con i suoi resti sepolti non deve essere considerata come un museo ben fornito, ma come una povera collezione fatta a caso e a intervalli». Fu dunque nel campo della paleontologia che si ebbero gli scontri scientifici più violenti fra i fautori e i denigratori di Darwin. Ma ormai il sasso era stato lanciato, e le onde si andavano allargando. Da quel momento in poi nessuno poté ignorare l’evoluzione: ormai c’erano solo darwinisti o antidarwinisti.

secondo i piani di stratificazione per ottenere lastre destinate alla stampa litografica. Spesso le lastre, aprendosi come un libro, rivelavano agli operai alcuni fossili, che rivenduti a collezionisti, fornivano una preziosa integrazione alla misera paga. Così apparve anche il fossile di uno strano animale lungo appena 35 centimetri: il cranio non si era conservato, ma il resto del corpo era coperto di penne come un uccello e aveva uno scheletro che terminava con una lunga coda ossea, zampe con tre dita artigliate, coste e vertebre inequivocabilmente di rettile. Prese il nome di Archaeopteryx lithographica: letteralmente

L’ANELLO MANCANTE Il fossile di Archaeopteryx lithographica ritrovato nel 1861 nel calcare giallo-grigio di Solnhofen, in Germania. Per la sua particolarità (presenta alcune caratteristiche tipiche dei rettili e altre tipiche degli uccelli), questo fossile fu subito interpretato dai sostenitori di Darwin come “l’anello mancante” che legava rettili e uccelli. Gli anti-darwinisti, invece, lo considerarono il fossile di un uccello molto primitivo.

LÕANELLO MANCANTE Fu proprio in questo periodo di accese discussioni e di violenti dibattiti fra specialisti che il primo “anello mancante” venne alla luce. Era il 1861. Nelle cave di Solnhofen, in Germania, il calcare giallo-grigio formato da sedimenti lagunari del Giurassico veniva lavorato

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“antica penna in calcare litografico”. L’interpretazione dei resti di questo animale dette il via a un’accesa polemica: fu considerato dagli antidarwinisti come Owen solo un uccello molto antico e fu salutato entusiasticamente dai sostenitori di Darwin, convinti di aver trovato finalmente una prova dell’evoluzione, come un “anello mancante”, una forma di passaggio fra rettili e uccelli. Thomas Henry Huxley, lettore straordinario di paleontologia alla Royal School of Mines, il più acceso sostenitore di Darwin (fu detto il suo “mastino”), non ebbe dubbi: Archaeopteryx era una prova a sostegno della teoria dell’evoluzione. Huxley intuì che la somiglianza fra Compsognathus, piccolo dinosauro lungo appena 65 centimetri, bipede, descritto in quello stesso anno e proveniente da Solnhofen, e Archaeopteryx, non poteva essere casuale, ma indicava un chiaro rapporto evolutivo fra dinosauri e uccelli. Nel caratterizzare questa relazione filogenetica, Huxley diede molta rilevanza alle scoperte americane collegandole a quelle inglesi: le impronte del Connecticut catalogate da Hitchock, Hadrosaurus di Leidy e Iguanodon di Mantell indicavano che i dinosauri potevano essere bipedi. Era solo un’ipotesi, e tale rimase, finché un altro esemplare di Archaeopteryx venne alla luce. Questa volta il fossile era completo e la bocca armata di denti non lasciava molto spazio a dubbi: era anzi una prova determinante a favore della tesi dei darwinisti. Huxley fu il primo scienziato a ipotizzare che gli uccelli discendessero dai dinosauri. È quanto si pensa ancora oggi, dopo un secolo di controversie: Archaeopteryx, dinosauro coperto di penne, è infatti considerato per convenzione dalla comunità scientifica il primo rappresentante del gruppo Aves, che comprende anche tutte le specie di uccelli odierni, dalla gallina al pavone, dal colibrì allo struzzo. Con la sua scoperta i dinosauri assursero a un nuovo ruolo: non più solo fantastici animali del passato, ma punto chiave nell’evoluzione dei vertebrati.

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LA NUOVA PALEONTOLOGIA

IN LOTTA PER I DINOSAURI Un ritratto dei principali protagonisti della “caccia al fossile” negli Stati Uniti del secolo diciannovesimo: sopra Othniel Charles Marsh (1831-1899); sotto, Edward Drinker Cope (1840-1897). Fra i due, Marsh è considerato il più grande “dinosaurologo” statunitense dell’Ottocento, poiché descrisse quattro tra i gruppi principali di dinosauri, diciassette generi e numerose decine di specie diverse.

Era il 1870. Le ricerche cominciavano a svolgersi in modo più sistematico nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Il Nord America (in particolare la fascia delle Montagne Rocciose compresa fra il Montana e il New Mexico), il Far West dei pionieri e delle lotte indiane, fu teatro, per vent’anni, della guerra privata fra due paleontologi per la conquista di fossili di dinosauro. Edward Drinker Cope, geniale e brillante, infaticabile sul campo, era un esponente del neolamarckismo, la nuova scuola evoluzionista americana che ancor oggi respinge la selezione naturale come meccanismo di origine delle specie; il suo avversario Othniel Charles Marsh era invece flemmatico e più sicuro di sé, strenuo sostenitore di Darwin. Entrambi solitari, incapaci di collaborazione scientifica, dominati dall’ambizione, dall’arroganza, da spirito vendicativo, dall’ansia di pubblicare, Cope e Marsh erano uomini facoltosi: a differenza dei paleontologi che li avevano preceduti, investirono nella ricerca il loro patrimonio. Nelle loro spedizioni si delineò una nuova figura professionale di ricercatore di fossili: non più un dilettante che si affida alla fortuna, ma uno scienziato di solida cultura geologica e paleontologica, in grado di scegliere il luogo giusto e di dirigere uno scavo. Durante le loro campagne vennero messe a punto nuove tecniche per imballare i fossili e proteggerli durante il trasporto, quelle stesse che, opportunamente modificate, vengono usate tutt’oggi. Ed ebbero la fortuna di scoprire un luogo che ancora adesso è tra i più vasti cimiteri di dinosauri conosciuti: la “Morrison Formation”. Era un periodo tormentato per la storia della giovane America, e mentre divampavano conflitti di ben più vasta portata fra indiani e coloni (da poco il generale Custer era stato sconfitto a Little Bighorn dai Sioux e dagli Cheyenne), nella stessa zona i due paleontologi combattevano la loro guerra: Cañon City nel Colorado e Como Bluff, sulla linea ferroviaria della Union Pacific, furono i luoghi famosi dei loro scon-

tri. Subito dopo i tragici fatti di Little Bighorn, Cope scavava nei calanchi cercando fossili lungo il Judith River, nel Montana, in un territorio neutrale tra Sioux e Crow, molto pericoloso per gli avventurieri bianchi. Con lui erano un cuoco e i conducenti dei carri tirati da muli. Di fronte ai capi Crow venuti in visita, Cope non usò il fucile come avrebbero fatto molti altri bianchi, ma li stupì togliendosi e rimettendosi la dentiera. In effetti il fucile faceva parte dell’equipaggiamento, ma serviva, oltre che per cacciare, più per intimidire i rivali di scavo che per difendersi da banditi o indiani. I due scienziati, infatti, erano in continua, esasperata competizione: il primo, appena aveva notizia di una nuova zona ricca di fossili, mandava sul posto i suoi uomini e, dopo frettolose ricerche, pubblicava i risultati. Immediatamente il rivale iniziava i propri scavi in una zona adiacente. Così successe anche quando fu scoperta la Morrison Formation: si trovarono di fronte a una preziosa miniera di fossili quasi inesauribile. Le ossa erano numerose, accatastate, molte ancora unite secondo i loro rapporti anatomici, come

I PRIMI DINOSAURI Questa storica illustrazione realizzata da Edward Drinker Cope è tra le prime rappresentazioni di un ecosistema del passato, con molte delle specie da egli descritte a quel tempo. È però maggiormente ricordata per l’errore commesso da Cope e più volte sottolineato da Marsh: in primo piano, il dinosauro carnivoro Laelaps (oggi noto come Dryptosaurus) fronteggia un elasmosauro in cui il lungo collo e la coda sono invertiti, e la testa è collocata all’estremità sbagliata.

se le carcasse degli animali si fossero accumulate le une sulle altre. Entrambi cercavano di raccogliere i fossili più belli e di rovinare il materiale che lasciavano sul posto, in modo che l’altro non potesse utilizzarlo. Per vent’anni i due scienziati si fronteggiarono a colpi di pubblicazioni, con pesanti accuse di furto d’informazioni, di superficialità nella ricerca, di errori, rivendicando priorità scientifiche. Tuttavia il risultato del loro lavoro fu di enorme portata: nei 13 anni fra il 1877 e il 1890, la guerra privata di Cope e Marsh portò all’identificazione di ben 126 nuove specie di dinosauri i cui fossili andarono ad arricchire le collezioni dei musei americani. A Marsh va il merito di aver individuato a Como Bluff ben 26 nuovi generi, fra i quali i famosi Allosaurus, Apatosaurus (più noto come brontosauro), Diplodocus, Barosaurus, Stegosaurus e Triceratops (i cui resti furono rinvenuti nel Wyoming, nel Montana, e altrove). Cope, oltre a descrivere nel 1877 per la prima volta un Camarasaurus (ridescritto l’anno dopo da Marsh col nome di Morosaurus), si aggiudicò invece il primato di aver descritto

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1282 fra generi e specie di vertebrati fossili provenienti dal Colorado. Grazie al lavoro di altri ricercatori vennero alla luce nuovi reperti d’interesse sempre più particolare: nel 1876 gli Sternberg, padre e figli, trovarono nel Wyoming il fossile di una mummia di dinosauro a becco d’anatra morto 68 milioni di anni prima in un clima desertico. L’aridità estrema doveva averlo sottratto all’azione degli agenti demolitori, e per la prima volta si poteva vedere qualcosa di più di uno scheletro: c’erano frammenti di pelle, di tendini, di carne. Ma la scoperta più strabiliante avvenne due anni dopo, in una cava di carbon fossile a Bernissart, in Belgio. I minatori stavano scavando un tunnel in una marna del Cretacico compresa fra rocce più antiche, quando le loro pale si fermarono su enormi ossa fossili. Più di trenta scheletri di iguanodonti adulti, quasi tutti completi, furono dissotterrati in due anni di lavoro. Per la prima volta era possibile studiare la variabilità degli individui di una stessa popolazione e le condizioni ambientali in cui essi vissero e trovarono la morte. Louis Dollo, ingegnere civile e minerario con la passione della paleontologia, lavorò con il gruppo del Musée Royal d’Histoire Naturelle e dedicò 25 anni della sua vita agli iguanodonti di Bernissart. Fu, in anticipo sui tempi, un paleontologo di tipo moderno. Più che alla ricerca sul campo e al ritrovamento di nuove specie di animali fossili, infatti, era interessato allo studio e alla risoluzione dei problemi che essi ponevano: quali fossero le loro abitudini di vita, quali animali e piante facessero parte del loro ambiente, come fossero il clima e la geografia del luogo in cui vivevano. Il suo lavoro creò un’immagine e uno stile di vita per l’iguanodonte, il dinosauro scoperto solo 50 anni prima da Mantell. Dollo ipotizzò che Iguanodon, alto circa 4 metri, erbivoro, bipede, con un pollice artigliato, usasse come arma di difesa la coda potente, irrigidita dai tendini ossificati che univano le vertebre. Questi animali, poi, dovevano

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aver vissuto in una zona di acque salmastre tropicali: c’erano pesci, rane, coccodrilli e tartarughe lungo le rive del delta, e numerosi insetti nell’aria umida. Gli iguanodonti pascolavano, vigili, fra le felci del sottobosco. Secondo l’ipotesi di Dollo, sfuggivano all’agguato dei predatori, i grandi megalosauri, difendendosi con potenti colpi di coda o, nei corpo a corpo, con le zampe anteriori munite di unghioni acuminati come pugnali, o, infine, con la fuga. Forse in grado di nuotare, in casi estremi potevano rifugiarsi anche in acqua. E forse fu proprio durante una fuga che gli iguanodonti di Bernissart trovarono la morte. Sebbene alcune interpretazioni di Dollo non siano più condivise (si pensa oggi che la coda degli iguanodonti fosse usata solo per mantenere l’equilibrio nell’andatura bipede), le sue ricostruzioni dell’ecologia e del comportamento di questi animali rimangono valide e costituiscono il primo tentativo di analizzare il problema dei dinosauri da un punto di vista interdisciplinare.

OLTRE I DINOSAURI Era la fine del secolo XIX: le ricerche sui dinosauri cominciavano ad avere un’impostazione scientificamente sempre più organica nell’esigenza di approfondire la ricostruzione dell’anatomia dell’animale, la sua posizione nell’albero filogenetico dei rettili, la conoscenza dell’am-

UN AMBIENTE DEL PASSATO In questa grande lastra di roccia si possono scorgere le impronte lasciate dalle piante di un passato ormai remoto: sono felci molto simili a quelle che ancora oggi vegetano rigogliose nei luoghi umidi. È da reperti come questi che i paleontologi ricostruiscono, con lo studio e con un pizzico di immaginazione, gli ambienti del passato.

biente in cui era vissuto e del suo stile di vita. Man mano che le collezioni si arricchivano di fossili, i dinosauri si mostravano animali assai diversi dall’immagine quasi stereotipata che ne aveva dato Owen. Questi rettili estinti non erano più solamente animali giganteschi: c’erano anche alcune specie molto piccole, addirittura delle dimensioni di un pollo; alcuni erano bipedi; potevano essere erbivori o carnivori; rivestiti da una varietà di spine, di corna, di placche, di squame. Da un punto di vista anatomico erano evidenti soprattutto differenze nel bacino: in alcune specie l’osso pubico era rivolto in avanti, come in tutti i rettili conosciuti, in altre all’indietro, simile a quello degli uccelli. La denominazione “dinosauri” per questo gruppo di animali era ormai troppo limitata: si imponeva una nuova classificazione. Harry Govier Seely, professore al King’s College dell’Università di Londra, un’autorità in campo di rettili del Mesozoico, la propose in questi termini: «I

GLI SCHELETRI DI BERNISSART Venti scheletri di iguanodonti sono ancora racchiusi nella roccia estratta dalla miniera di carbone di Bernissart: oggi si trovano esposti così nel museo dell’Istituto Reale di Scienze Naturali di Bruxelles.

dinosauri non esistono come gruppo naturale di animali, ma includono due distinti tipi di strutture, con caratteristiche tecniche comuni, che mostrano la loro discendenza da uno stesso antenato. Questi due ordini di animali possono essere chiamati Saurischi e Ornitischi». Era il 1888. La nuova classificazione fu accolta e sviluppata da Friedrich von Huene, professore all’Università di Tubinga, antica città della Germania meridionale vicina alla valle del Neckar, ricca di fossili di dinosauri e in particolare di plateosauri. Von Huene, nella sua lunghissima vita di studioso, fu per Plateosaurus quello che Dollo era stato per Iguanodon: ne ricostruì l’anatomia e ipotizzò lo stile di vita e l’ambiente nel quale viveva. Con i suoi studi, l’immagine di uno dei dinosauri più primitivi aveva preso forma: erbivoro, di grossa mole, capace di reggersi in piedi per raggiungere le fronde dei rami più alti e assai diffuso, a giudicare dai numerosi fossili ritrovati ovunque,

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dall’America alla Cina. Il ritrovamento di “cimiteri di plateosauri” a sud di Stoccarda fece supporre a von Huene che essi migrassero, morendo in gran numero per gli stenti. Anche se questa interpretazione è contestata, oggi si ammette che questi animali vivessero in gruppi a scopo di difesa, come molti erbivori attuali. Raccogliendo la proposta di Seely, von Huene catalogò i dinosauri conosciuti secondo la nuova classificazione, ponendo così le basi di una nuova tassonomia.

VECCHI QUESITI E NUOVE IDEE L’inizio del XX secolo segna un nuovo modo di procedere nella ricerca sul campo. Alle spedizioni partecipano ora numerosi scienziati operanti in discipline diverse: paleontologi, naturalisti, geologi. Nel 1907, Tendaguru, una sperduta località del Tanganika tedesco, 110 km all’interno di Lindi (un porto sull’Oceano Indiano), divenne nota nelle comunità paleontologiche. Enormi ossa fossili di rettili, per la maggior parte di dinosauri, erano state scoperte nella boscaglia ai piedi di una collina. L’Akademie der Wissenschaften di Berlino mise a disposizione 200.000 marchi per le ricerche. Gli scavi, portati avanti per tre anni dai paleontologi tedeschi Werner Janensch e Edwin Hennig, rivelarono un cimitero di dinosauri. Il recupero dei fossili e il loro trasporto avvenne tutto a forza di braccia. Più di 1.500 uomini lavorarono allo scavo dei pozzi che permisero di accedere agli strati fossiliferi, più di 100 portatori trasportarono a spalla i reperti da Tendaguru a Lindi, dove furono imballati in più di 1.000 casse, per un peso complessivo di 250 tonnellate. Finalmente partirono verso l’Europa. Il “tesoro di Tendaguru” fu così ricostruito: lo scheletro gigantesco di un Brachiosaurus, oggi Giraffatitan, tra i più grandi erbivori quadrupedi mai vissuti sulla Terra, con i suoi 22,5 metri di lunghezza, 12 metri di altezza e circa 40 tonnellate di peso. Dal 1922 al 1930 furono organizzate dall’Ame-

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GLI SCAVI DI TENDAGURU Agli inizi del Novecento, sulla collina di Tendaguru furono rinvenute le ossa di dinosauri enormi. Rimontate nel Museo di Storia Naturale di Berlino, alcune di esse permisero di ricostruire lo scheletro gigantesco di un Brachiosaurus, in seguito ribattezzato Giraffatitan, uno dei più grandi dinosauri mai esistiti.

rican Natural History Museum di New York ben cinque spedizioni nel deserto del Gobi, in Mongolia. Condotte da Roy Chapman Andrews, vi presero parte, oltre a scienziati, collaboratori per la ricerca, cuochi e inservienti, anche alcuni meccanici: camion e macchinari avevano sostituito in gran parte i carri e la mano dell’uomo delle spedizioni dell’Ottocento. L’obiettivo della prima missione non era l’indagine sui dinosauri, ma piuttosto quella sulle origini dell’uomo; la scoperta di nidi di oviraptorosauri, allora erroneamente attribuiti a Protoceratops, fece però cambiare l’oggetto delle ricerche. Finalmente si potevano studiare le uova di dinosauro e avere informazioni non più solo sull’anatomia di questi animali, ma anche sul loro comportamento e sulla loro riproduzione. Le uova, di forma allungata con i due poli arrotondati, erano state deposte 100 milioni di anni prima in un buco scavato nella sabbia, secondo cerchi concentrici. Erano le prime uova mai rinvenute, ma tante altre furono trovate negli anni che seguirono. Celebre è la scoperta nel Montana, avvenuta negli anni Settanta a opera di Jack Horner, di veri e propri luoghi di nidificazione di adrosauri (dinosauri col becco d’anatra), dove gli adulti si prendevano cura dei piccoli per

diverse settimane dopo la schiusa delle uova: ciò testimonia che questi rettili avessero cure parentali tipiche di una struttura sociale evoluta. Nel corso di spedizioni in Mongolia, successive a quelle degli americani, i russi, i cinesi e i polacchi portarono alla luce molti altri fossili. Il più spettacolare fu descritto dalla paleontologa polacca Zofia Kielan-Jaworowska: due dinosauri immortalati in una lotta feroce. Il predatore, un Velociraptor, era avvinghiato alla testa di un Protoceratops che a sua volta aveva il becco serrato attorno a un avambraccio dell’aggressore, ed era, forse, rotolato con lui in una sacca di sabbie mobili. Nuovi particolari sulla vita e sulle abitudini dei dinosauri emergono negli anni seguenti. Il piccolo ornitischio parksosauride Oryctodromeus trovato nel Montana e descritto nel 2007 era capace di scavare tane lunghe più di due metri dove gli adulti si riparavano con i loro

DINOSAURI COMBATTENTI Un piccolo e agile predatore, Velociraptor, è avvinghiato alla testa di un Protoceratops, un erbivoro che a sua volta ha il becco serrato attorno a un avambraccio dell’avversario. I due animali rotolarono insieme in una sacca di sabbie mobili, fossilizzandosi in un abbraccio mortale. E così sono giunti fino a noi.

piccoli. Il troodontide cinese Mei è stato invece ritrovato accovacciato sulle gambe con la testa sotto a un braccio e la coda ripiegata lungo lo stesso lato del corpo, proprio come quando si addormentò 125 milioni di anni fa prima di essere sepolto dalle ceneri di una improvvisa eruzione vulcanica: poiché molti uccelli attuali dormono in una posizione simile, la scoperta sottolinea le similitudini tra questi animali anche dal punto di vista comportamentale. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso sono state molte anche le scoperte avvenute in Africa (compreso il Madagascar) e in Sud America e celebri, anche dal punto di vista mediatico, sono quelle compiute da grandi team internazionali guidati da Paul Sereno e, in tempi più recenti, da Nizar Ibrahim nel Sahara, e da Fernando Novas, Luis Chiappe, Rodolfo Coria e Jorge Calvo in Patagonia. Spinosauri, carcarodontosauri, abelisauri, noasauri, sauropodi

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relativamente piccoli e bizzarri o sauropodi titanosauri di taglia colossale, sono stati descritti mostrando similitudini e differenze tra le faune dei continenti settentrionali e meridionali, ormai ben separati nel Cretacico. Anche i continenti settentrionali hanno però restituito numerosissimi nuovi reperti, soprattutto con il ritorno dei paleontologi in quelle aree già esplorate nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, ma con metodologie ed equipaggiamenti che non permettevano studi dettagliati degli ecosistemi del passato come quelli che possono essere fatti al giorno d’oggi. E così sono stati trovati molti nuovi dinosauri con le corna e a becco d’anatra, molte specie di carnivori di piccola taglia e altri dinosauri corazzati. Soprattutto sono stati svelati alcuni grandi misteri come per esempio quali fossero l’aspetto e il modo di vita del deinocheiro e del terizinosauro, per lungo tempo conosciuti solo attraverso i fossili delle loro gigantesche braccia.

STILI DI VITA Nuovi strumenti e nuove scoperte hanno permesso di svelare alcuni misteri come l’aspetto e lo stile di vita di Deinocheirus. Oggi sappiamo che aveva una dieta onnivora nella quale rientravano anche i pesci che catturava negli specchi d’acqua dolce.

Non mancano infine numerose ed entusiasmanti scoperte avvenute in Italia, dai resti scheletrici alle impronte. Pur continuando la ricerca dei fossili, in questi ultimi anni il lavoro dei paleontologi è diventato anche di riflessione sui reperti accumulati nei musei e di revisione delle vecchie teorie. I dinosauri appaiono, sempre più, come un gruppo di animali che in oltre 160 milioni di anni ha conosciuto una straordinaria divergenza evolutiva, pari a quella che mostrano oggi i mammiferi, occupando tutte le nicchie ecologiche disponibili sulla terraferma. Le scoperte sul campo rendono evidente la loro diffusione su tutte le terre emerse. Nel 1960 impronte di iguanodonti si rivelarono alla luce radente del tramonto in una parete a picco su una spiaggetta nelle isole Svalbard, vicino al Polo Nord, mentre dal 1986 ossa di dinosauri sono costantemente rinvenute anche in Antartide: i dinosauri erano dunque diffusi sulle terre emerse in tutto il Pianeta. In Cina, gli

scavi di questi ultimi anni hanno portato alla luce cimiteri giurassici di una ricchezza comparabile a quella della Morrison Formation, permettendo di identificare specie molto simili a quelle americane, ma soprattutto hanno restituito una incredibile serie di fossili di dinosauri “piumati”, dal Giurassico al Cretacico, che testimoniano tutti i passaggi della trasformazione dalle squame alle piume e alle penne vere e proprie. In questo stesso tempo sono stati sviluppati studi di laboratorio che consentono di far luce sulla biologia dei dinosauri. È sempre più chiaro che essi realizzarono, per la prima volta nella storia dei vertebrati, soluzioni biologiche molto avanzate. Alcune risultano evidenti dall’esame classico dell’anatomia scheletrica: l’impianto colonnare degli arti consentiva loro di correre o di sostenere grandi corpi, mentre l’incredibile varietà di crani, becchi e dentature presuppone numerosissimi adattamenti alimentari. Altre soluzioni biologiche vengono suggerite dallo studio di come sono fatte le ossa al loro interno. Sono sempre più frequenti analisi ospedaliere come le TAC (tomografie assiali computerizzate) che permettono di ricostruire come l’osso veniva nutrito o innervato, in quanto tempo cresceva, se aveva subito traumi o era stato

STYGIMOLOCH O PACHYCEPHALOSAURUS? Questo cranio appartiene a uno Stygimoloch, ma secondo alcuni paleontologi, tra cui Jack Horner, sarebbe semplicemente un individuo non ancora adulto di Pachycephalosaurus, con la volta cranica a cupola non ancora del tutto sviluppata.

interessato da malattie (le paleopatologie), o ancora se supportava strutture o funzioni particolari. Le ossa registrano le linee di accrescimento, proprio come gli anelli concentrici delle piante. Lo studio di queste linee ci può dare indicazioni sull’età di un individuo e sul suo stadio di sviluppo. Si è per esempio scoperto che nessuno dei tirannosauri rinvenuti finora ha superato i trent’anni d’età e che la loro crescita era continua, anche se, raggiunta la maturità, rallentava sensibilmente. Un team di studio guidato dal paleontologo americano Jack Horner si è invece concentrato sulle fasi di crescita dei dinosauri e sulla loro implicazione nell’interpretazione delle specie fossili. Esaminando i dinosauri della Formazione Hell Creek, risalente alla fine del Cretacico, Horner e colleghi hanno visto che molti resti trovati negli stessi siti in rocce della medesima età potrebbero rappresentare giovani e adulti di specie nelle quali le strutture ornamentali o la forma generale del cranio andava incontro a profonde ristrutturazioni. Alcuni nomi scientifici cadrebbero dunque in sinonimia, e per le regole di nomenclatura zoologica resterebbero validi soltanto i nomi comparsi per primi nella letteratura scientifica. Dunque, tra i tirannosauri, Nanotyrannus sarebbe un giovane di Tyrannosaurus, tra i pachicefalosauri, Dracorex e Stygimoloch sarebbero rispettivamente

PALEONTOLOGI FAMOSI John R. Horner, detto Jack, è tra i massimi esperti di dinosauri al mondo. A lui si deve la scoperta, negli anni Settanta, nel Montana, di alcuni luoghi di nidificazione di adrosauri che si prendevano cura dei loro piccoli.

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un giovane e un quasi-adulto di Pachycephalosaurus, mentre tra i dinosauri a becco d’anatra, Anatosaurus e Anatotitan rappresenterebbero le forme adulte di Edmontosaurus. Non tutti i paleontologi sono d’accordo, in particolare sul caso dei dinosauri con le corna Triceratops/Torosaurus che vedrebbe quest’ultimo, dal lungo collare osseo, come una forma anziana forse di uno dei due sessi del triceratopo. Gli stessi metodi di indagine dovranno in futuro essere applicati anche alle altre aree fossilifere, in modo da fornirci più informazioni sulla crescita e sullo sviluppo dei dinosauri, una cosa che porterà inevitabilmente alla cancellazione di alcuni nomi scientifici. Un team di studio internazionale di cui fanno parte molti paleontologi italiani, tra cui Cristiano Dal Sasso, Simone Maganuco e Matteo Fabbri, ha utilizzato la TAC e gli studi istologici compiuti sullo spinosauro per dimostrare come i dinosauri avessero esplorato anche l’ambiente acqua-

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SPINOSAURUS A PESCA Due esemplari di Spinosaurus sono a pesca in un grande fiume dell’Africa di cento milioni di anni fa. Grazie al muso dotato di recettori di pressione, questi dinosauri potevano percepire le onde generate dai pesci durante il nuoto e capirne velocità e direzione.

tico, spinti dalla ricchezza di prede nei grandi ecosistemi fluviali dell’Africa di 100 milioni di anni fa. Il muso di Spinosaurus ospitava strutture sensoriali capaci di percepire le onde prodotte dal nuoto delle prede: un vero e proprio sonar utile per localizzare i pesci anche nelle acque torbide, dove la vista non poteva essere d’aiuto. Un’ulteriore differenza rispetto agli altri dinosauri teropodi è nella struttura delle ossa: mentre questi ultimi le avevano cave, come quelle degli uccelli volatori, lo spinosauro le aveva dense e compatte, proprio come quelle dei pinguini. L’aumento della densità delle ossa è un adattamento comparso in varie linee evolutive non imparentate tra loro, in risposta alla necessità di contrastare il galleggiamento e rendere più facile l’immersione. Ulteriori soluzioni biologiche vengono suggerite dall’analisi dell’habitat nel quale i dinosauri vivevano. Nel 1989, fossili di ipsilofodonti, piccoli dinosauri erbivori del Cretacico, e di teropodi, loro proba-

bili predatori, vennero alla luce in una zona sud orientale dell’Australia, una terra che 130 milioni di anni fa si trovava a circa 80 gradi di latitudine Sud (molto vicino al polo, dunque). Parimenti, grandi mandrie di pachirinosauri, dinosauri con le corna di taglia superiore a quella di un rinoceronte odierno, sono state trovate in Alaska a circa 80 gradi di latitudine Nord. Tutti questi dinosauri dovevano superare inverni molto freddi rimanendo immersi nella notte polare per almeno tre mesi. Molti sono gli interrogativi sollevati da queste osservazioni, a cui stanno cercando di rispondere i paleontologi (tra cui l’italiano Federico Fanti): quali strategie di sopravvivenza avevano quei rettili per sopravvivere in un ambiente così ostile? Avevano sviluppato un rivestimento corporeo che li proteggeva dal freddo? Si ibernavano? Oppure intraprendevano lunghe migrazioni verso luoghi dagli inverni più miti? Altre domande ancora rimangono senza risposta: che tipo di sistema circolatorio poteva alimentare il cervello di un brachiosauro che aveva la testa all’altezza di una casa di quattro piani? Cosa ha spinto alcune specie di dinosauro a diventare così grandi? È possibile distinguere dai fossili un dinosauro maschio da una femmina? Le strutture ornamentali quali corna, spine e piastre che osserviamo in moltissimi gruppi di dinosauri avevano anche altre funzioni, come la termoregolazione o la difesa? Che tipo di metabolismo permetteva loro di crescere rapidamente, correre, predare e migrare? E dove prendevano l’energia necessaria alle loro attività? Erano animali “a sangue caldo” come gli uccelli e i mammiferi, o “a sangue freddo”, come i rettili attuali? Con la scoperta di Deinonychus, parente di Velociraptor dalla tipica struttura di piccolo predatore veloce, John H. Ostrom si pose già nel 1964 queste domande. Il suo allievo Robert Bakker introdusse un nuovo metodo di ricerca nella paleontologia, affrontando la questione da un punto di vista ecologico e statistico. Dopo lun-

ghi studi, dei quali parleremo diffusamente nel quinto capitolo, si dichiarò in favore dell’endotermia. D’altronde, anche se questi animali non avevano realizzato una vera e propria endotermia, molto probabilmente dovevano possedere strutture corporee adatte a limitare la dispersione del calore del corpo, come oggi noi mammiferi abbiamo peli e grasso sottocutaneo e gli uccelli piume e penne. La modificazione delle squame in piume fu positivamente selezionata per questa ragione? Inoltre, poiché gli uccelli fanno parte del gruppo dei dinosauri, non li possiamo considerare estinti. Bakker fu tra i primi a esserne convinto: essi sono ancora intorno a noi, e «la colorita e rigogliosa diversità degli uccelli dei nostri giorni non è altro che la persistente espressione dei tratti basilari della biologia dei dinosauri».

I DINOSAURI PIUMATI E L’ORIGINE DEGLI UCCELLI Con oltre diecimila specie tuttora viventi e una lunga storia evolutiva alle spalle, gli uccelli rappresentano uno dei gruppi di vertebrati di maggior successo nella storia della vita. La loro origine dai dinosauri teropodi celurosauri oggi è ben testimoniata da una lunga serie di fossili rinvenuti in Cina a partire dal 1996, anno in cui venne descritto il piccolo compsognatide Sinosauropteryx. Questo dinosauro conserva impresso nella lastra di roccia un rivestimento corporeo di protopiume, cioè filamenti simili nell’aspetto alle piume degli attuali kiwi neozelandesi, che presumibilmente svolgevano la funzione di isolanti termici. Negli anni seguenti, protopiume e talvolta penne più strutturate sono state rinvenute in esemplari che rappresentano tutta la linea evolutiva dei celurosauri: tirannosauroidi, ornitomimosauri, terizinosauri, oviraptorosauri. Non è da escludere che in alcune di queste forme, soprattutto le penne, avessero anche una funzione ornamen-

ARTIGLIO TERRIBILE L’artiglio del secondo dito del piede di Deinonychus era enorme e veniva mantenuto sollevato da terra durante la deambulazione. L’animale lo utilizzava per afferrare saldamente la preda raggiunta con un balzo oppure per far presa sui tronchi degli alberi quando vi si arrampicava.

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DINOSAURI CON LE PIUME Sinosauropteryx è stato il primo di una lunga serie di dinosauri piumati rinvenuti in Cina. Nel fossile (sopra), conservato su lastra, si possono notare i filamenti (protopiume) che corrono lungo la linea mediana del corpo, dal collo alla coda.

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tale. Sono però le forme appartenenti al gruppo dei deinonicosauri, come i generi Microraptor e Sinornithosaurus studiati nel nuovo millennio dal paleontologo cinese Xu Xing e colleghi, che mostrano il maggior numero di caratteri in comune con gli uccelli: oltre a essere ricoperti da piume e a possedere vere e proprie penne sulle braccia e all’estremità della coda, mostrano ossa estremamente pneumatizzate che indicano un sistema respiratorio da uccello, un progressivo irrobustimento delle braccia, del petto e della cassa toracica e l’accorciamento e il rimodellamento della coda, sempre più coinvolta nella stabilizzazione in aria e svincolata dal suo antico ruolo di ancoraggio dei muscoli utili per portare indietro la gamba durante il passo. I risultati delle analisi filogenetiche che studiano la parentela degli uccelli con i dinosauri sono ormai robustissimi. Vi sono database come quelli del paleontologo Andrea Cau che comprendono più di mille caratteristiche anatomiche e diverse centinaia di specie e non lasciano più alcun dubbio sul fatto che gli uccelli siano dinosauri. È tuttavia ancora aperto il dibattito su come, nel passaggio dinosauri-uccelli, si sia cominciato a utilizzare braccia e penne per arrivare al volo. Per sostenersi in aria durante i salti da un ramo all’altro, secondo uno stile di vita arboricolo? Per rimanere in aria più a lungo dopo aver spiccato dei balzi, in forme per lo più terricole? O ancora per

mantenere l’equilibrio e bloccare le vie di fuga della preda dopo averla immobilizzata con le dita dei piedi, come fanno ancora oggi i rapaci? Le scoperte degli ultimi anni sembrano suggerire che agli albori della loro storia evolutiva i progenitori degli uccelli abbiano sfruttato tutte queste possibilità e che abbiano anche esplorato strade alternative che non hanno lasciato discendenza nel mondo attuale. Microraptor per esempio aveva addirittura lunghe penne anche sulle gambe, forse utili come stabilizzatori o come timoni direzionali durante i lunghi balzi a braccia spalancate. Gli scansoriopterigidi, come Ambopteryx, rinvenuto sempre in Cina, in rocce giurassiche, e descritto nel 2019 da Min Wang e coautori, avevano invece evoluto un’ala membranosa che ricorda quella dei pipistrelli, utile per planare da un albero all’altro: un altro tentativo dei teropodi di sfruttare l’ambiente subaereo. La presenza di protopiume anche nei tirannosauroidi ha fatto sorgere la domanda se anche il celebre Tyrannosaurus rex fosse piumato: un quesito a cui i paleontologi non sanno ancora rispondere, avendo finora trovato solo piccole tracce di pelle, con squame di diametro inferiore ai due millimetri, che non fanno escludere la presenza di filamenti anche in questo dinosauro, anche se c’è chi pensa che, almeno da adulto, potesse essere stato glabro

proprio come alcuni grandi mammiferi della savana odierna. Lo studio dei dinosauri piumati ha importanti ripercussioni anche sulla ricostruzione dell’aspetto di questi animali, non ultimo per quanto riguarda la colorazione. Negli uccelli attuali il colore del piumaggio è spesso dovuto alla presenza dei melanosomi, piccoli organelli cellulari ricchi del

QUATTRO ALI Microraptor (a destra) aveva sviluppato anche vere e proprie penne, sulla coda, sulle braccia e perfino sulle caviglie, risultando così un animale con ben “quattro ali”. Quelle delle gambe forse fungevano da timoni direzionali durante i lunghi balzi.

pigmento melanina. Grazie al ritrovamento di melanosomi allo stato fossile nelle protopiume di Sinosauropteryx è stato possibile ricostruire con precisione la livrea color ruggine, con una caratteristica coda a bande verticali bianche. Con lo stesso metodo è stato ricostruito il colore del piumaggio di altre specie fossili, da Anchiornis grigio e nero, con una corona di piume rossicce e una striscia bianca sulle penne delle braccia, ad Archaeopteryx, tutto nero e bluastro, quasi simile a una cornacchia: risultati che li rendono ancora meno rettiliani e ancora più simili agli uccelli odierni. Da ricordare infine i ritrovamenti eccezionali all’in-

terno dell’ambra, la resina fossile degli alberi: piume, penne, addirittura un’ala di un uccello enantiornite... tutte prove inequivocabili della storia evolutiva di questo gruppo. Proprio grazie a questo stretto legame di parentela, Jack Horner sostiene che, studiando il DNA e comprendendo i meccanismi che regolano lo sviluppo embriologico negli uccelli attuali, in un futuro non tanto lontano sarà possibile far riemergere in laboratorio alcune caratteristiche ancestrali tipiche dei dinosauri del passato, e creare così una sorta di “pollosauro” dotato di denti nel becco, di una lunga coda ossea e di braccia con tre dita artigliate.

EVOLUZIONE DEGLI UCCELLI La serie di animali qui rappresentata riassume i principali cambiamenti anatomici avvenuti nel gruppo dei teropodi lungo la linea evolutiva che ha portato agli uccelli, dai celofisoidi del Triassico fino alle forme odierne.

Deinonychus

Airone cenerino

Archa Archaeopteryx

Coelophysis

Sinosauropteryx

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2. Le prove fossili

NASCE UN FOSSILE Il passato della vita è nascosto nel profondo delle rocce. Un fossile che affiora in superficie è come un raggio di luce proveniente da una lontana stella, carico di messaggi. Tutto ciò che sappiamo sull’Universo, lo abbiamo appreso analizzando la luce delle stelle o di gruppi di stelle, utilizzando i dati forniti dall’esperienza diretta che abbiamo del Sole. Così, tutto ciò che possiamo dire sui dinosauri e su ogni altro essere del passato lo abbiamo scoperto grazie allo studio dei fossili o di gruppi di fossili, avendo sempre in mente l’esperienza del mondo vivente che conosciamo. Nel suo significato letterale “fossile” è tutto quello che viene estratto dalla terra; nel suo significato più moderno, è la traccia mineralizzata di organismi viventi, animali o vegetali, vissuti in passato. La trasformazione del corpo di un animale in un fossile è un evento raro che riguarda il suo destino dopo la morte. Quest’ultima, per vertebrati terrestri come i dinosauri, non doveva essere molto diversa da quella cui vanno incontro i loro simili attuali. Anche un dinosauro moriva per malattia, per sete, per fame, per l’aggressione di un predatore o per vecchiaia. Nella maggior parte dei casi, il suo corpo veniva completamente distrutto in un periodo di tempo abbastanza breve. Dapprima poteva essere attaccato, smembrato, e i suoi pezzi sparsi tutt’attorno dai rettili e dai dinosauri necrofagi, che svolgevano un ruolo ecologico analogo a quello svolto oggi da iene e sciacalli, corvi e avvoltoi. In poche settimane i resti ve-

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SI FORMA UN FOSSILE Adagiata sul fondo di un fiume, di un lago, o in un acquitrino, la carcassa di un dinosauro affonda nei sedimenti e scompare. Lo scheletro, sottratto alla decomposizione, si trasforma lentamente in pietra; i movimenti della crosta terrestre possono poi determinarne il ritorno alla luce.

nivano ulteriormente decomposti da insetti e batteri che liberavano le ossa da carni e pelli ancora attaccate. Non rimaneva altro: ossa calcinate, frantumate dall’alternarsi del caldo e del freddo, della pioggia e del sole, sbriciolate dal peso di animali in movimento, o di piante cadute. Tutto lo scheletro spariva così, a poco a poco, e diventava terreno. A volte, però, la morte poteva cogliere un dinosauro in un luogo particolare: sulla riva di un fiume o di una pozza di fango; in una palude o in una laguna costiera; oppure erano le acque

tumultuose di un torrente in piena a trasportare la carcassa in quel luogo; o fino al mare, ad arenarsi contro una barriera di dune; oppure era la sabbia di una tempesta improvvisa a seppellirla nel deserto, o la cenere di una non lontana eruzione a cementarla nei detriti alle falde di un vulcano. Poteva succedere allora che il corpo di un dinosauro venisse così rapidamente sommerso dai sedimenti. Sprofondato nei detriti, sottratto al ciclo vitale del suo mondo, veniva trasformato in fossile dal trascorrere del tempo, per resuscitare in questa

CIMITERO DI GIGANTI Il Dinosaur National Monument è uno dei più ricchi giacimenti di fossili di dinosauri del mondo, centro di attrazione per appassionati e studiosi. Nel nord-est dello Utah (USA) giacciono ancora inglobate nella roccia sedimentaria centinaia di ossa appartenute a questi rettili giganti, vissuti intorno a 150 milioni di anni fa.

forma, ormai immortale, milioni di anni più tardi, nel nostro. È un lentissimo processo quello che determina la trasformazione di una sostanza biologica in sostanza minerale pur mantenendo intatte la forma e la struttura originarie. È qualcosa che ha del misterioso: forse sono stati proprio i fossili a ispirare, nel tempo, quelle fiabe e quelle leggende che narrano di streghe malvagie che trasformano i viventi in pietra. Oggi, le nostre conoscenze ci permettono di analizzare razionalmente l’evolversi del processo di fossilizza-

LE PROVE FOSSILI

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zione, e di descriverne i momenti essenziali. Si possono ipotizzare modelli diversi: il più frequente, se si considera il numero dei reperti, coinvolge solo lo scheletro e le parti più dure dell’animale. La carcassa, non più a contatto con l’aria, è soggetta a una lenta decomposizione che distrugge la carne, i legamenti e la pelle. Il collagene e il fosfato di calcio, cioè la proteina e il sale minerale che per gran parte compongono le ossa, si solubilizzano nell’acqua che filtra nel terreno, fino a lasciare solo una cavità nella roccia: l’impronta dell’osso. Altre volte, invece, i sali disciolti nell’acqua si sostituiscono, molecola per molecola, al collagene deperi-

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TRACCE Una pista di impronte impresse nel fango calcareo e attribuite a un ornitischio bipede vissuto nel Giurassico inferiore, a Cabo Espichel, in Portogallo. Impronte simili sono state trovate anche in Italia nel 1991, nell’area dei Lavini di Marco vicino Rovereto.

bile; altre volte ancora questa sostituzione riguarda tutte le sostanze delle ossa, che si trasformano così completamente in pietra. Di un dinosauro non sempre resta l’intero scheletro fossilizzato. Spesso non si trovano che i denti, cioè le parti più dure, o poche ossa sopravvissute al tempo. Oppure si possono trovare tracce di vita, fossilizzate anch’esse nella roccia: le impronte dei piedi, lasciate dall’animale nel fango della riva di un fiume o nell’acqua bassa di una palude, sulla sabbia del deserto o sulla cenere ancora tiepida di una recente eruzione vulcanica. Le orme dei dinosauri, impresse nel suolo come quelle dei nostri piedi su una spiaggia umida,

PELLE FOSSILE Un dettaglio dell’impronta fossile dell’epidermide di uno Scolosaurus, dinosauro erbivoro corazzato vissuto durante il Cretacico: sono evidenti placche ossee e tubercoli intercalati da zone dove la pelle più sottile doveva consentire una certa elasticità.

se nessun agente esterno (pioggia, onde o vento) le cancellava, rimanevano pietrificate nei materiali in cui erano state lasciate man mano che essi si trasformavano in roccia. Lo stesso fenomeno poteva aver luogo anche quando un dinosauro si adagiava sul terreno

PASSEGGIANDO NEL PASSATO A destra: un dettaglio di alcune impronte fossili. Dalla loro conformazione, profondità e disposizione è possibile risalire al genere di animale che le ha lasciate, alla sua andatura, al suo peso e alla sua velocità. Impronte simili si possono osservare anche nell’area dei Lavini di Marco, vicino Rovereto.

molle: sono rimaste allora impronte di pelle, di una pelle squamosa, quasi di coccodrillo, impresse in una pietra che era soffice fango. Altri fossili testimoniano il passaggio dei dinosauri sul nostro Pianeta. Sono fossili di escrementi, i cosiddetti coproliti, ricchi di informazioni sulle preferenze alimentari e sul processo digestivo; o i numerosi piccoli sassi consumati e levigati che si trovano spesso associati agli scheletri: sono i cosiddetti gastroliti, per i quali si pensa a una funzione fisiologica. Forse venivano inghiottiti dai dinosauri erbivori per aiutare meccanicamente la digestione delle fibre vegetali, mossi in una sorta di stomaco muscolare, un po’ come succede oggi nei nostri polli. Rimangono poi anche numerose uova mai schiuse, fossilizzate così come erano state deposte nel nido, o più lontano, spostate e rotolate via prima di essere trasformate in roccia, alcune in stato già avanzato di sviluppo, con gli embrioni fossilizzati all’interno. Sui nidi abbandonati, sulle diverse tracce della vita dei dinosauri, sugli scheletri in disfacimento e sulle impronte, continuarono ad accumularsi i depositi del tempo, strato su strato,

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anno dopo anno. In decine, centinaia, migliaia, milioni di anni, sotto la pressione immane del loro stesso peso, i depositi si trasformavano in nuova roccia, uno strato sopra l’altro, l’uno diverso dall’altro. L’aumentare del peso soprastante determinava negli strati inferiori una metamorfosi: depositi di materiale incoerente si compattavano, la sabbia e il fango diventavano roccia sedimentaria e i resti organici dei dinosauri, schiacciati e deformati, diventavano fossili, sprofondando sempre più lontani dalla superficie terrestre. Ma la crosta terrestre, ormai lo sappiamo, è in continua trasformazione, in continuo movimento. Quelli che sono fondi marini, compressi fra due continenti alla deriva, si possono sollevare a formare montagne. E i movimenti orogenetici, i sollevamenti connessi al formarsi delle nuove catene montuose, le spaccature nella crosta terrestre, gli scorrimenti di un blocco roccioso sull’altro, coinvolgono va-

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UOVA A volte, nei casi più fortunati, la fossilizzazione ha conservato fino ai nostri giorni non solo le parti più dure degli organismi, ma anche elementi fragili come queste uova di dinosauro.

stissime aree all’interno dei continenti. Ciò che una volta era sprofondato vari chilometri sotto i sedimenti può essere così spinto in superficie e riportato alla luce del sole dall’azione del mare, del vento o della pioggia. Così i fossili tornano a contatto con l’aria, fonte di vita e di distruzione. In breve tempo, ri-

IL LIBRO DELLA ROCCIA L’erosione ha messo a nudo gli strati sedimentari che formano queste montagne, nella catena dei Pirenei. È in formazioni come queste che diventa più probabile rinvenire fossili di epoche lontane.

manendo dove sono, possono essere distrutti per sempre dagli agenti atmosferici, come una roccia qualsiasi. Se raccolti dagli studiosi, possono invece riprendere vita nella nostra conoscenza, fantasmi immortali di un tempo vertiginosamente lontano.

LE COORDINATE DEL TEMPO Le forze della dinamica terrestre aprono il libro della storia della vita, un libro scritto nella pietra. Non è facile riordinare le pagine, scompigliate dal vento del tempo. Prima di tutto occorre riconoscere l’ordine con cui si sono depositati, nel corso di milioni di anni, gli strati di sedimenti. In una serie indisturbata, in cui cioè gli strati giacciono l’uno sopra l’altro secondo l’originale senso di deposizione, dove i depositi sono sovrapposti chiaramente senza che siano intervenuti movimenti terrestri a capovolgere, ondulare, spezzare o tormentare in qualche modo la disposizione degli strati, si dà per scon-

tato che quelli inferiori siano i più antichi e quelli superiori i più recenti. Ogni strato di sedimenti contiene un determinato corredo di fossili di animali e vegetali viventi al tempo della sua formazione. Alcune piante e alcuni animali sono caratteristici di una determinata epoca della vita terrestre e diventano perciò indicativi per lo strato di roccia in cui vengono trovati, dando un’idea relativa della sua età. Se due strati in zone diverse, o addirittura in continenti diversi, presentano lo stesso tipo di fossili, si può dire che si sono formati nello stesso periodo. Con l’aiuto dei fossili è dunque possibile determinare quale fra due strati è il più antico: si parla così di datazioni relative, perché mettono in relazione, o meglio, correlazione, gli strati di roccia di tutto il mondo stabilendo una successione temporale. La determinazione dell’età assoluta va invece fatta seguendo un’altra via. Per misurare il tempo geologico si ricorre dunque a un orolo-

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Paleogene

201.3

MESOZOICO

Cretacico 145.0

caldo freddo secco umido

procarioti alghe funghi licheni muschi felci gimnosperme angiosperme

invertebrati eucarioti

Clima

potassio-argon

66.0

Quaternario Neogene CH4

2.58 23.03

racemizzazione

Età (Ma) CENOZOICO

Eoni

Ssisteme di misurazione mammiferi uccelli rettili anfibi pesci vertebrati

Ere e periodi geologici

Giurassico Triassico

251.902

Carbonifero

419.2

Devoniano

Siluriano

rubidio-stronzio

358.9

PALEOZOICO

FANEROZOICO

Permiano 298.9

443.8 Ordoviciano 485.4

1800 2050 2300 2500

ARCHEANO

2800

3200

EOARC.

3600

Statheriano Orosiriano

ADEANO

4000

animali

vegetali

?

Calymmiano

Rhyaciano Sideriano

uranio-torio-piombo

1600

MESOPROT. NEOPROT.

1400

PALEOARC. MESOARC. NEOARC.

PROTEROZOICO

635 720 1000 1200

Ediacariano Cryogeniano Toniano Steniano Ectasiano

PALEOPROT.

Cambriano 541.0

4600

L’EVOLUZIONE DELLA TERRA Un’ipotetica “carota” di rocce sedimentarie continentali viene suddivisa dalla scala geologica in eoni, ere e periodi che si estendono nel tempo in modo diverso, scanditi dai grandi eventi dell’evoluzione della vita. Accanto al lento procedere del tempo, individuabile, a livello atomico, dal

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progressivo decadimento degli isotopi radioattivi di particolari elementi quali il potassio, l’argo, il carbonio e l’uranio (impiegati per la determinazione dell’età “assoluta” di un reperto fossile), uno schematico “albero” della vita riassume l’evoluzione biologica mentre un’ultima colonna ci fornisce una sintesi dell’andamento climatico del nostro Pianeta.

gio che ne segna il trascorrere in modo estremamente preciso: il decadimento degli isotopi radioattivi, cioè le varianti instabili di alcuni atomi, e la loro conseguente trasformazione in elementi diversi. Isotopi radioattivi sono quelli che, nel tempo, perdono particelle (che i fisici chiamano alfa e beta) dal nucleo per arrivare a una condizione di stabilità in cui il processo si arresta. Poiché è il numero di particelle presenti in un nucleo atomico a determinare le caratteristiche di un elemento, questi isotopi di un elemento si trasformano in un elemento diverso: l’uranio diventa piombo, il potassio-40 diventa argo-40 e così via. Si è scoperto poi che il processo di decadimento radioattivo è costante nel tempo: la metà di una qualsiasi quantità di potassio-40 si trasforma in argo-40 in 1.310 milioni di anni (a questo periodo, diverso per ogni elemento radioattivo e sua caratteristica costante, è stato dato il nome di “tempo di dimezzamento”). Se misuriamo le quantità relative di potassio-40 e di argo-40 presenti in una data roccia, si può determinare da quanto tempo il potassio-40 ha iniziato a decadere: sapendo che il potassio-40 inizia a decadere nel momento della sua formazione, e quindi della formazione della roccia che lo contiene (per esempio, il momento in cui la lava solidifica dopo un’eruzione vulcanica dando origine a una nuova roccia), si otterrà in questo modo l’età della roccia stessa. Combinando le informazioni fornite dai fossili a quelle date dall’analisi degli elementi radioattivi presenti nelle rocce, si può scrivere così la storia dei sedimenti che formano le nostre montagne, o i fondi marini. Al passare del tempo corrisponde sempre il formarsi di strati di roccia sedimentaria. I geologi raggruppano in sistemi gli strati formatisi in un determinato periodo geologico, e i nomi che indicano questi sistemi sono gli stessi che vengono usati per il periodo nel quale si sono formati: il sistema triassico si è formato nel Triassico, il carbonifero nel Carbonifero, e così via.

Ai più antichi, ai medi e ai più recenti strati geologici che formano un sistema, si fanno corrispondere diverse suddivisioni del periodo geologico: così come al sistema corrisponde il periodo, alla serie corrisponde l’epoca. Si parla così di Triassico inferiore (nel quale si sono formati gli strati inferiori del sistema triassico, i più antichi), Triassico medio e Triassico superiore. Sono milioni, miliardi di anni: 4 miliardi e 600 milioni, tale è la durata della storia geologica della Terra. L’uomo la divide in eoni, a loro volta suddivisi in ere, ciascuna delle quali comprende più periodi: l’eone Adeano, data da poco dopo la formazione del Pianeta a circa 4 miliardi di anni fa, mentre il successivo eone Archeano si chiuse circa 2,5 miliardi di anni fa. Fu l’eone Proterozoico, che terminò circa 541 milioni di anni fa, a vedere lo sviluppo della vita sulla Terra fino alla comparsa dei primi animali pluricellulari. Seguì l’eone Fanero-

ROCCIA LIQUIDA Misurando il decadimento radioattivo di alcuni elementi si ottiene una stima piuttosto precisa dell’età di una roccia. Sapendo che il potassio-40 inizia a decadere nel momento della sua formazione, che corrisponde alla formazione della roccia che lo contiene, si può per esempio sapere qual è il momento in cui la lava solidificò dopo un’eruzione vulcanica e successivamente usare questa datazione per dare un’età anche agli strati sopra e sotto di essa.

zoico che comprende l’era Paleozoica, o della vita antica, iniziata col periodo Cambriano e terminata col Permiano 251 milioni di anni fa; l’era Mesozoica, o della vita di mezzo, suddivisa nei periodi Triassico, Giurassico e Cretacico e la cui fine si colloca intorno ai 66 milioni di anni fa; infine l’era Cenozoica, che comprende i periodi Paleogene, Neogene e Quaternario. Quest’ultimo è il periodo che vide la comparsa e l’evoluzione del genere Homo: nel Quaternario viviamo a tutt’oggi. Il libro della vita comincia a parlare dei dinosauri nel Triassico superiore: i primi fossili appaiono infatti attorno ai 230 milioni di anni fa. Via via che si sale verso la superficie, più su, fino agli strati del periodo Giurassico prima e del Cretacico poi, attraverso una fascia temporale che comprende buona parte dell’Era Mesozoica, la presenza (o l’assenza) di fossili testimonia la fine delle felci giganti e degli enormi equiseti e

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il progressivo successo dapprima delle conifere e poi delle piante con fiori; il dominio dei rettili sulla terraferma, nel mare e nell’aria; la comparsa dei primi mammiferi, quasi contemporanea a quella dei dinosauri; la supremazia, infine, dei dinosauri. Poi improvvisamente, nelle rocce di confine fra il Cretacico e il Paleogene, non si trovano più fossili di dinosauri. Come non si trovano più fossili di molte altre specie animali e vegetali allora viventi. Si è calcolato che più del 75% delle specie fino allora esistenti sia scomparso in breve tempo dalla faccia della Terra. Scompaiono dalla terraferma tutti gli animali di peso superiore a 25 chili, e tutti i rettili volanti; scompaiono dai mari i grandi rettili marini, e così pure le ammoniti e le belemniti; scompaiono anche gli organismi piccolissimi del plancton di superficie, a scheletro calcareo. Qui finisce il racconto della vita dei dinosauri e di gran parte delle forme viventi in quel periodo. Scompaiono tutte nel mistero: un’estinzione di massa, la più famosa e inquietante fra quelle che hanno segnato la storia della vita.

A CACCIA DI DINOSAURI Per trovare fossili di dinosauri bisogna cercare su tutte le terre emerse, ma non ovunque: i loro resti si trovano in quelle rocce formate fra 230 e 66 milioni di anni fa da sedimenti depositati fra il Triassico superiore, momento della loro comparsa e diffusione, e il Cretacico superiore, momento della loro scomparsa. È inutile cercarli in rocce intrusive di diretta origine vulcanica, nelle quali è impossibile che si formino fossili, ed è inutile, probabilmente, cercarli in rocce di origine marina, poiché i dinosauri finora ritrovati sono tipicamente terrestri, e si pensa che essi non abbiano mai colonizzato il mare (fossili di dinosauri si trovano solo raramente in sedimenti marini, e si tratta sempre di resti portati al mare dalle acque dilavanti). Ci si deve orientare piuttosto verso i sedimenti di antichi laghi e di paludi, di lagune costiere e di fiumi, verso le rocce di antichi deserti, o

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RICERCA ED ESTRAZIONE Fasi di estrazione di un fossile di dinosauro dalla sua sede originaria, in Niger (Africa). Per impedire che si rompano, le ossa, dure ma fragili, vengono consolidate e protette con delle garze imbevute di gesso. Esse formano un guscio protettivo che verrà rimosso una volta che le ossa saranno giunte in laboratorio.

verso quelle formate dalla cenere vulcanica. Un occhio esperto sa riconoscere, dalla disposizione dei resti fossili, quale può essere stato il destino della carcassa dell’animale. Si può distinguere chiaramente se essa è rimasta intatta, nella posizione stessa della morte, e nello stesso luogo in cui l’animale si è accasciato, o se è stata trasportata sul posto dalla violenza di un fiume in piena; se è stata smembrata e se le ossa sono state disperse in una vasta zona dalla voracità dei necrofagi o se sono state trasportate e accumulate contro un ostacolo dalle acque di un torrente; oppure se il corpo è stato mummificato nell’aridità del deserto. Perciò, prima ancora di raccogliere un fossile, lo studioso deve prendere nota della sua esatta posizione con fotografie e mappe, dividendo in riquadri la zona del ritrovamento in modo da poter collegare con precisione i ritrovamenti successivi. Ma trovare un fossile è solo l’inizio. Quando esso affiora, deve essere trattato con estrema cautela sia durante l’estrazione dalla roccia sia durante il trasporto: bisogna evitare che il contatto con l’aria e le manipolazioni lo rovinino definitivamente. In una spedizione di Cope, avvenuta nel 1870, quando ancora la raccolta dei fossili aveva un carattere dilettantesco, la maggior parte delle ossa estratte dalla roccia,

dove erano rimaste per milioni di anni, fu ridotta in pochi giorni dagli scossoni dei carri lungo le piste del West a un mucchio di frammenti privi di significato e di valore. Fu proprio Cope il primo a mettere a punto la tecnica per preservare le ossa fossili da questa deludente fine. Prima di tutto venivano rivestite con carta umida, quindi erano avvolte con strisce di iuta imbevute di salsa d’amido (ottenuta facendo bollire del riso) che, indurendo, formava un involucro duro intorno alle ossa, preservandole dalla frattura. Un metodo pionieristico ma geniale, che fu migliorato negli anni successivi solo sostituendo alla salsa d’amido il gesso e alla iuta le bende di tela: imbevute di gesso venivano disposte sull’involucro di carta umida prima longitudinalmente, poi trasversalmente, per aumentarne la resistenza secondo tutte le direzioni e quindi lisciate con le mani per limitare al massimo la presenza dell’aria che poteva indebolire tutta la struttura. Oggi, se la tecnica è immutata, è aumentata la varietà di materiali: fogli d’alluminio possono sostituire

COME ORAFI Un paleontologo al lavoro nel Dinosaur National Monument, nello Utah. Martello e scalpello sono i suoi strumenti al momento di estrarre un fossile dalla roccia originaria. Sotto i leggeri colpi torneranno lentamente alla luce le ossa di un sauropode gigante.

la carta bagnata mentre al posto del gesso si può utilizzare la schiuma di poliuretano. Un grande osso, un femore di un grande dinosauro, per esempio, si libera dalla roccia che lo contiene scalpellandola via poco per volta. A mano a mano che affiora, esso viene protetto e sistemato, infine, in una cassa dove i vuoti vengono riempiti di gesso. In questa “pietra sostitutiva”, i fossili lasciano i luoghi dove sono stati ritrovati (luoghi spesso impervi, la maggior parte delle volte collegati al mondo solo con piste disagevoli) e viaggiano verso i musei e i laboratori. Senza un’adeguata protezione, il viaggio, pur fatto su un veicolo moderno, provocherebbe ancor oggi le stesse conseguenze disastrose che ebbe durante la famosa spedizione di Cope. Le impronte fossili, invece, sono inseparabili dalla roccia che le contiene e che fa loro da cornice. Tuttavia, se da una parte il trasporto e il rilevamento di questo tipo di fossili è più facile (si usa materiale plastico o gomma per riempirle, evidenziando così la forma originale di ossa, di piedi o della pelle), dall’altra essi richie-

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dono una ancora maggiore abilità del ricercatore: spesso infatti è molto difficile distinguere un’impronta fossile da una banale asperità della roccia, e solo un occhio allenato riesce a farlo, spesso in condizioni di luce particolari come quella radente che si ha dopo l’alba o prima del tramonto e che accentua i contorni e le ombre.

LA RICOSTRUZIONE Quando le ossa fossili dei dinosauri arrivano in laboratorio, vengono liberate dai loro involucri e ripulite completamente dai resti di roccia che ancora le ricoprono. Per questo lavoro si ricorre alle tecniche più disparate, che vanno dall’uso di forti getti d’aria compressa e sabbia, a quello di abrasivi metallici, dall’uso di seghe con denti di diamante e di martelli a quello di sostanze chimiche diverse, a seconda della natura della roccia. Ripresa la loro forma, i fossili vengono analizzati minuziosamente. Con un lavoro da detective, cercando di decifrare i messaggi che essi portano dal loro lontano passato e confrontandoli con quello che conosciamo degli animali viventi, si cerca di ri-

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SBAGLIANDO SI IMPARA Questo disegno rappresenta la prima ricostruzione di Iguanodon fatta da Gideon Mantell, che immaginò il dinosauro come un’iguana gigante e pose sul muso dell’animale il temibile artiglio del pollice, come se fosse stato un corno.

costruire l’anatomia dell’animale cui appartennero, di identificarne la specie, la biologia che ne regolava le funzioni, di ricreare l’ambiente in cui visse e morì. Le ossa vengono fotografate e descritte nei minimi particolari per mettere in evidenza analogie e differenze con quelle di altri dinosauri già noti. La prima domanda cui si deve trovare una risposta è: di che animale si tratta? Bisogna stabilire cioè la specie di appartenenza, incasellare l’animale nella rete dei nomi tassonomici, aggiungerlo a uno dei raggruppamenti di animali già noti e definiti da un insieme di caratteristiche ben precise, o creare apposta una casella fatta su misura per lui: bisogna trovargli insomma un nome e cognome. E questo lavoro, in sé apparentemente semplice e banale, richiede molti studi ed è spesso causa di lunghe controversie. Dopo aver preso atto delle caratteristiche determinanti, che possono dare un’idea del tipo di animale che ci troviamo di fronte (la tipologia dei denti, del cranio o di alcune ossa può indicare quale sia l’ipotesi più verosimile), si procede a riunire i frammenti e le ossa secondo

i loro rapporti anatomici, nell’intento di ricostruire lo scheletro dell’animale per intero. I dinosauri erano rettili arcosauri: la loro anatomia e biologia doveva avere quindi molti punti in comune con i loro parenti più stretti e in particolare con i coccodrilli, loro lontani “cugini”, e con gli uccelli, loro discendenti. Inizia così un lungo lavoro di anatomia comparata: su un osso è possibile vedere il punto di attacco di un tendine, il percorso dei vasi sanguigni e le facce di articolazione con le ossa contigue. Ma la ricostruzione dello scheletro non è un’operazione facile, perché l’anatomia di alcuni dinosauri ha aspetti del tutto peculiari, sconosciuti negli animali di oggi. Si può immaginare, per esempio, l’incertezza dei primi paleontologi quando si trovarono a dover sistemare le piastre degli stegosauri (che ora sono state poste lungo la schiena) o la posizione degli arti anteriori e del cinto scapolare, o perfino le ossa della testa di alcuni dinosauri. La storia dei dinosauri inizia proprio con l’errore di ricostruzione di Mantell, che pose sul muso dell’animale il temibile artiglio del pollice di Iguanodon come se fosse stato un corno. Lo stesso Cope rimontò lo scheletro di un rettile marino con la testa al posto della coda, mentre il suo rivale Marsh scambiò le corna di un triceratopo, allora sconosciuto, per quelle di un bisonte, dandosi l’un l’altro più di un’occasione per reciproche critiche feroci. Spesso i dinosauri conosciuti hanno

IPOTESI DI LAVORO La ricostruzione dell’aspetto esteriore di un dinosauro eseguita da artisti affiancati dai paleontologi prende in esame anche elementi che non si conservano durante la fossilizzazione. Il colore della pelle e alcune strutture dermiche, ricostruite basandosi sull’analogia dei dinosauri con gli attuali rettili e uccelli, vanno considerate come ipotesi di lavoro aperte a ogni verifica. Il disegno ritrae (da sinistra a destra) una femmina, un maschio e un giovane di Lambeosaurus.

cambiato connotati, nome scientifico, gruppo di appartenenza e habitat a seconda di come i loro resti venivano ricostruiti e reinterpretati nel corso degli anni. Un aiuto per la ricostruzione di uno scheletro viene dall’osservazione dell’anatomia delle zampe e dall’analisi delle impronte lasciate sul terreno, e fossilizzatesi. Probabilmente un animale con le gambe più sviluppate delle braccia era un bipede: come il tirannosauro, dalle zampe anteriori molto ridotte e quelle posteriori molto potenti, necessarie per potersi muovere. Se, viceversa, le zampe anteriori erano più lunghe di quelle posteriori, come nel brachiosauro, l’animale non poteva che essere quadrupede e col dorso inclinato come una giraffa odierna. Dalla struttura della zampa e del piede si può capire se l’animale era un saltatore, un corridore, o un dinosauro dai movimenti lenti. Non tutti i reperti fossili però sono ricomponibili in scheletri completi, e non tutti gli scheletri vengono ricostruiti come siamo soliti vedere in un museo. La maggior parte dei fossili arricchisce le collezioni, fornendo ugualmente elementi utili allo studio. Montare lo scheletro di un dinosauro, che può arrivare a un’altezza di 13 metri (come una casa di quattro piani!), crea infatti una serie di enormi problemi. Prima di tutto bisogna avere a disposizione un ambiente adatto, che a volte deve essere addirittura costruito apposta. Poi viene la fase vera e propria del montaggio dello

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FASI DI RICOSTRUZIONE Il procedimento seguito generalmente per ricostruire un dinosauro: dopo aver montato lo scheletro, lo si riveste di quei fasci muscolari che devono essere stati necessari per

scheletro, per la quale si ricorre spesso a un’impalcatura da edilizia con cavi d’acciaio e paranchi che permettano di sollevare all’altezza giusta le ossa pietrificate, fragili e pesanti. Dopo aver trovato la loro posizione più opportuna, esse vengono “legate” fra loro con strutture in ferro che sostituiscono i legamenti, i tendini e i fasci muscolari che un giorno le tenevano insieme e che il tempo ha polverizzato. Questo è il lavoro più delicato e difficile, e richiede l’intervento di professionisti altamente specializzati che sappiano lavorare il ferro senza danneggiare le vecchie ossa. Lo scheletro così ricostruito non può tuttavia dare una serie di informazioni, per le quali sarebbe necessario poterlo maneggiare facilmente. Si ricorre dunque ai modellini: riprodotto lo scheletro in scala ridotta, si ricostruisce un’ipotetica massa muscolare intorno all’impalcatura delle ossa, tenendo presente i punti di attacco dei tendini e soprattutto l’anatomia dei coccodrilli e degli uccelli. Lo stesso passaggio al giorno d’oggi può essere fatto ripor-

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DAI VOLUMI AL PESO Un modellino di ipsilofodonte completato. È utilizzando ricostruzioni come questa che si possono avanzare ipotesi concrete sul peso e sulla mole che questi animali avevano da vivi.

sostenerlo e farlo muovere, tenendo conto dei segni che essi hanno lasciato sulle ossa. Viene infine ricoperto con una ipotetica pelle: quest’ultima è la parte della ricostruzione più legata alla fantasia.

tando lo scheletro su computer, attraverso le TAC, il laser scanner o la fotogrammetria, e ricostruendo poi le masse muscolari con programmi di modellazione digitale. Su tutto si disegna infine un’epidermide di squame, spesso irta di piastre ossee: l’animale adesso è lì, con il suo aspetto di milioni di anni fa, ma nelle dimensioni ridotte di un modellino in scala o di un modello digitale. Se pure abbiamo informazioni fossili su come era fatta la pelle, ci mancano però spesso le indicazioni sul colore, che di solito non lascia tracce (ma si veda il paragrafo sull’origine degli uccelli). Non possiamo dire, perciò, di che colore fossero gran parte dei dinosauri, possiamo solamente lavorare col ragionamento, considerando che la maggior parte dei loro parenti (rettili e uccelli) sfoggiano un’ampia gamma di colori. Dobbiamo comunque tener presente che il colore nel mondo animale non è mai casuale, ed è selezionato come un segnale dai significati diversi ma precisi: di attrazione sessuale, di proprietà territoriale, di rango sociale, di intimidazione, di mimetizzazione a fini difensivi (per

confondere un predatore) o aggressivi (per confondere la preda). Difficile è anche stabilire il sesso di questi animali fossili. Anche i genitali non hanno lasciato traccia. Il problema si può affrontare allora da un altro punto di vista, e cioè cercando di identificare eventuali differenze di taglia e di anatomia che possano essere senza dubbio legate al sesso. Purtroppo, nel caso in cui si conoscono più scheletri di una stessa popolazione, come per gli iguanodonti di Bernissart, le differenze esistenti fra i vari individui non sono tali da poter distinguere individui maschi da individui femmine. A Bernissart sono stati ritrovati iguanodonti di due tipi ben distinti: uno più grande e robusto e uno più piccolo e gracile, diversi nel cranio, nelle ossa della mano, dell’anca e del piede. Secondo alcuni studiosi è una variabilità che si riscontra normalmente all’interno di una stessa popolazione, mentre secondo altri si

MODELLI VEROSIMILI La moderna tecnologia permette anche la realizzazione di modelli di dinosauro dalle dimensioni paragonabili agli originali. Ecco un tirannosauro molto verosimile: si tratta di un robot dallo scheletro di alluminio e dall’epidermide in plastica, in grado di muoversi e di emettere suoni.

tratta di due animali diversi, Iguanodon bernissartensis la forma robusta e Mantellisaurus atherfieldensis la forma gracile, rinvenuta anche in Inghilterra; sono rarissimi tra i dinosauri i casi di un evidente dimorfismo sessuale, con i maschi più grandi e dotati di ornamentazioni più vistose e le femmine più piccole, o viceversa. Un aiuto per la determinazione del sesso arriva dallo studio dell’interno delle ossa: le femmine mature hanno infatti all’interno delle loro ossa lunghe, quelle degli arti per intenderci, una riserva di calcio che viene mobilitata per costruire il guscio delle uova dopo la fecondazione. Dallo scheletro si calcola l’altezza e la lunghezza dell’animale. Si può calcolare anche il peso che doveva avere in vita, utilizzando il modellino della ricostruzione. Per quello digitale devono essere calcolati i volumi direttamente al computer, mentre la scultura in scala ridotta deve essere immersa nell’acqua per misurare la quan-

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SCENE DI CACCIA Un Velociraptor sta dando la caccia a un piccolo mammifero cretacico. I raptor sono tra i dinosauri più famosi, ma ancora oggi vengono spesso ricostruiti nel modo sbagliato, cioè con la pelle a squame. Sappiamo, infatti, che il loro corpo doveva essere ricoperto di piume e che avevano lunghe penne sulle braccia e sulla coda.

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tità del liquido spostato, che corrisponde al suo volume. Con una semplice proporzione si risale quindi al volume che deve aver occupato l’animale vivente e moltiplicando i centimetri cubi per 0,9 (il peso specifico di molti vertebrati terrestri moderni) si ottiene un peso ipotetico, ma verosimile. Ma un dinosauro, così resuscitato nelle sue caratteristiche anatomiche e nel suo aspetto esteriore, pone ancora dei quesiti, e una serie di domande esige ancora studi comparati e difficili: la fisiologia dell’animale resta infatti tutta da chiarire, bisogna definire il tipo di ambiente in cui esso viveva e il comportamento che lo caratterizzava. Uno dei problemi più dibattuti anche nel mondo non specialistico riguarda le caratteristiche fisiologiche e mentali di questi animali. È ancora opinione comune che questi rettili fossero solo dei bestioni lenti, goffi e stupidi nonostante il romanzo Jurassic Park di Michael Crichton, da cui è stato tratto l’omonimo film di Steven Spielberg, abbia fatto entrare nell’immaginario collettivo anche dinosauri rapidi e intelligenti, come il deinonico di Ostrom (il Velociraptor del film). Avere informazioni a questo riguardo è ovviamente molto difficile e bisogna lavorare su indizi. Il cervello è l’organo dei vertebrati che deperisce più in fretta dopo la morte. A volte, nel caso dei dinosauri, il suo posto fu occupato immediatamente da fango, e oggi ne abbiamo l’impronta fossile sulla quale studiare lo sviluppo dei vasi sanguigni e delle varie zone cerebrali, l’uscita dei nervi cranici, e perfino i canali semicircolari dell’orecchio interno, l’organo preposto all’equilibrio. In mancanza di un’impronta fossile se ne può creare una artificiale, riempiendo di materiale plastico l’interno del cranio o realizzando al computer un modello virtuale. Con tutte queste informazioni, acquisite in tempi relativamente recenti, la scienza sta ora rivalutando l’immagine dei dinosauri: in molte specie il cervello era più grande delle misure

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standard dei rettili moderni; le zone cerebrali sedi dei centri nervosi sensoriali (dell’olfatto e della vista, in particolare) erano molto sviluppate e così pure quelle preposte al coordinamento dei movimenti. Oggi si può affermare che molti dinosauri avevano sensi sviluppati, erano agili, scattanti nella caccia e nella fuga, e potevano avere anche una vita sociale complessa, simile a quella dei coccodrilli e degli uccelli. Ma altri problemi, meno noti al grande pubblico, portano lavoro quotidiano ai paleontologi. Sono problemi di paleoecologia, di fisiologia, di etologia. Bisogna ancora dare a questi animali un ambiente in cui farli rivivere, con un determinato clima e determinate caratteristiche di vegetazione, bisogna dar loro un comportamento specifico, una dieta, un rituale di vita. Per tutto questo serve molto ragionamento, ma soprattutto ulteriori dati fossili.

IMPRONTE Quel giorno, lungo rive sabbiose, vicino all’acqua di un lago, forse, o forse di un fiume, un apatosauro lasciò una traccia nel fango, 150 milioni di anni fa. Le impronte dei piedi sono enormi e molto profonde, lunghe più di 1 metro, quelle delle mani più piccole. Manca la traccia della coda: il dinosauro probabilmente camminava nell’acqua bassa, ignaro del pericolo incombente. Dietro le sue orme, a volte sovrimpresse a esse, avanzano infatti quelle dei piedi, a tre dita, di un grande carnivoro bipede, probabilmente un allosauro. Il grande predatore seguiva chiaramente, passo per passo, l’enorme erbivoro: quando l’apatosauro girò a sinistra l’allosauro fece altrettanto, forse nello stesso momento, forse a distanza di un giorno. Un inseguimento, 150 milioni di anni fa, senza traccia della sua conclusione. Oggi, in questo stesso luogo, scorre il fiume Paluxy: siamo a Glen Rose, nel Texas. Di tutte le impronte che i dinosauri hanno lasciato nel loro mondo, migliaia e migliaia sono

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TRACCE DI ACQUA I ripple marks lasciati dall’acqua su una spiaggia dove la differenza del livello di marea è notevole. Formazioni fossili simili indicano la passata presenza di una costa marina, lacustre o fluviale soggetta allo stesso fenomeno.

rimaste inalterate, pietrificate, impresse nelle rocce, e noi le possiamo vedere: dalle isole Spitzbergen alle Montagne Rocciose, dal Sahara alla Cina, dal Trentino alla Puglia. Esse sono spesso associate ai ripple marks, i segni fossili di quelle piccole onde che caratterizzano le rive di un fiume, di un lago o di un mare basso e calmo, oppure sono accompagnate dalle impronte a cratere delle gocce di pioggia. La pista non porta mai allo scheletro di chi le ha lasciate, perché le condizioni di fossilizzazione sono molto diverse e, in ogni caso, bisognerebbe aver la fortuna di imbattersi nelle ultime orme lasciate da un animale prima della morte, fatto assai poco probabile. Possiamo immaginare però lo scenario in cui furono impresse: la fine della stagione delle piogge e i dinosauri che si muovono su e giù sulle rive di specchi d’acqua che prosciugano, mentre cadono poche gocce degli ultimi, leggerissimi rovesci. Le impronte dei dinosauri hanno una nomenclatura loro propria, si parla di icnospecie che vengono poi riferite a particolari gruppi in base alle caratteristiche dell’orma stessa, confrontate con l’anatomia del piede degli scheletri noti e inserite in un contesto paleogeografico e temporale. La stessa difficoltà di capire a quale animale si debba pensare a partire dalle orme, la si incontra quando si cerca di dare una collocazione più precisa ad altri relitti fossili di

SCENE DI VITA A destra: l’immagine mostra una traccia fossile di un possibile inseguimento a Glen Rose, nel Texas. Si vedono le impronte di un allosauro (a tre dita) che sembrano seguire quelle di un apatosauro.

Sotto: partendo dalle testimonianze lasciate in una pista fossile un artista ha provato a immaginare una scena realmente accaduta milioni di anni fa. In questo caso un allosauro affamato bracca un camptosauro sulla spiaggia.

questi animali come le uova, gli escrementi o i gastroliti. Tuttavia da queste impronte imprecise, sfumate nel fango pietrificato, oppure profondamente impresse nella roccia, si possono ottenere molte informazioni. Analizzando la forma, la grandezza, la profondità, la distanza fra due orme successive, il percorso della pista di uno stesso animale e la distribuzione (che può indicare la presenza di più animali), pos-

LE PROVE FOSSILI

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siamo ricavare la mole e l’altezza, e ipotizzare abitudini e vita sociale di chi le ha lasciate. Si può ricostruire il tipo di andatura: se un dinosauro ha lasciato solo le impronte dei piedi doveva essere bipede e la mancanza della traccia della coda indica che questa doveva essere tenuta sollevata nel movimento; se si trovano impronte di tutte e quattro le zampe, l’animale era quadrupede. In qualche caso si sono trovate solo le orme delle mani, e l’unica spiegazione plausibile è che l’animale si muovesse nell’acqua e con queste si desse la spinta sul fondo, lasciando galleggiare le zampe posteriori e la coda. Dalla distribuzione e dalla forma delle orme si può dedurre anche la velocità a cui l’animale si stava muovendo e quali erano le sue abitudini: se era di passaggio o se si trovava con altri a una pozza per bere, se c’erano più animali della stessa specie o di specie diverse e in che relazione erano fra loro, se si erano trovati in quel luogo nello stesso momento o in tempi successivi. Come a Glen Rose, anche in molti altri luoghi è possibile leggere una storia di dinosauri impressa nella pietra. Così nella vallata del Connecticut, dove migliaia di tracce a tre dita si sono aggiunte a quelle trovate, nel 1800, da Plinio Moody. Esse ci narrano una storia ben diversa da quella del Diluvio Universale, che il contadino aveva creduto di leggervi: parlano di rive di fiumi e di laghi, e di grandi e piccoli dinosauri bipedi che camminano su e giù in cerca

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VARIETÀ DI VITA E FORME Un gruppo di diplodocidi esce dall’acqua, dopo aver attraversato un lago. Le impronte sono diverse a seconda del modo di appoggiare le zampe sul fondo. Nel fango intorno alla pozza, restano le tracce di zampe e di code. La ricostruzione si basa sul ritrovamento altrimenti inspiegabile di impronte delle sole mani lasciate da questi quadrupedi.

di cibo, corrono, inseguiti da un predatore, scivolano sul fango, si fermano all’improvviso. A Bandera, non lontano da Glen Rose, la pietra racconta un’altra storia. Ventitré sauropodi, giovani e adulti, vanno e vengono intorno all’acqua bassa, come farebbe oggi un branco di elefanti. Alcuni si immergono, e rimangono dentro più a lungo, spingendosi sul fondo melmoso con le zampe anteriori. Poi, in un certo punto, tutti escono fuori lasciando le loro tracce sul fango della riva. Allora come oggi il bisogno di un bagno e lo stimolo della sete portavano gli animali allo stesso specchio d’acqua e spesso un incontro poteva concludersi con un agguato: anche a Bandera le tracce di un grande carnivoro si sovrappongono a quelle del branco dei sauropodi, e altre vengono dopo il loro passaggio. Un mondo perduto rivive, per noi, in una fantasia che ha le sue radici nella scienza. Il riferimento continuo al nostro mondo rende queste immagini di rettili vive e credibili, come in una fotografia tridimensionale.

RICOSTRUIRE UN MONDO PERDUTO La fantasia fa parte del corredo di un paleontologo, come lo scalpello e gli altri attrezzi del suo mestiere. Solo uno scienziato capace di sognare, di fantasticare, di portarsi nel mondo del passato con la stessa curiosità di un bambino, può cogliere il messaggio segreto di un frammento

di pietra, che attende da milioni di anni di essere raccolto e interpretato. Le immagini della vita e degli ambienti di giorni lontani affiorano nella sua mente. Per trovare una risposta alle domande basilari sul metabolismo, egli indaga sulla struttura microscopica delle ossa che i minerali che le hanno pietrificate non hanno alterato, ne ricava indicazioni preziose, e ipotizza possibili soluzioni. Identifica sulle ossa lesioni o fratture rimarginate, i segni di cadute rovinose

DIFFERENZIAZIONE DELLE ZAMPE Le zampe anteriori (sopra) avevano funzione di presa, attacco, difesa, sostegno; quelle posteriori (sotto) di appoggio e a volte di offesa. Da sinistra a destra e non in scala

le zampe anteriori (sopra) e posteriori (sotto) di un tirannosauro e di un ornitomimosauro (bipedi), di un iguanodonte (bipede facoltativo), di un deinonicosauro (bipede) e di un apatosauro (quadupede).

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o di lotte, e cerca di capire il comportamento di questi animali. Anche certe strutture anatomiche come artigli, corna o code a frusta, che in natura hanno significati precisi (possono servire per catturare una preda, per non essere catturati, per difendere un territorio, per stabilire il proprio ruolo sociale o per conquistare una femmina), gli suggeriscono possibili strategie. Un paleontologo può dedurre dalle orme lasciate dai dinosauri se essi vivessero in branchi o solitari: più impronte parallele in una stessa direzione e lasciate nello stesso momento possono indicargli il percorso seguito da un gruppo, mentre tracce di giovani collocati al centro del branco, in una posizione protetta dagli adulti, possono dargli indicazioni sulla struttura sociale. Così, poco alla volta, emergono nuovi dettagli di vita. Dalla disposizione dei nidi, poi, il paleontologo può capire dove e come venivano deposte le uova, quanto numerosa era la nidiata, se la femmina le deponeva in un buco scavato appositamente, se provvedeva alla cova o se invece la affidava al calore del sole o a quello della fermentazione di materiale organico, se alcuni dinosauri avevano cure parentali come i coccodrilli e gli uccelli o se vi provvedevano da soli, in coppia o in gruppi sociali, quanto erano grandi i piccoli rispetto all’adulto e per

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IN ESPOSIZIONE Il “mondo perduto” dei dinosauri attira ogni anno milioni di visitatori che affollano i principali musei per vedere in mostra il risultato del lungo lavoro di ricerca e di ricostruzione dei paleontologi. Sopra: una sala del Museo di Storia Naturale di Parigi.

quanto tempo rimanevano nel nido, affidati alle cure dei genitori. Dalla forma e dalla disposizione dei denti, può capire molto sull’identità dell’animale e sulle sue abitudini dietetiche: alcuni dinosauri hanno denti leggermente curvati all’indietro e con i bordi seghettati proprio come i coltelli per tagliare la carne, tipici del carnivoro che mordeva per ferire; altri predatori li hanno conici, più adatti ad afferrare e trattenere; alcuni erbivori invece li hanno a cuneo o a cucchiaio, tipici di una dieta specializzata in vegetali teneri come le piante acquatiche. Altri ancora hanno denti solcati e scanalati nell’interno, disposti

VITA IN BRANCHI In questa ricostruzione artistica, branchi misti di erbivori, come i triceratopi e gli alamosauri, si abbeverano insieme nella stessa pozza. È in situazioni come questa che i dinosauri possono aver lasciato le impronte che fossilizzate sono giunte fino a noi.

uno attaccato all’altro su una o più file, consumati come le due lame di una cesoia: sono tipici di un erbivoro specializzato in una dieta a base di vegetali dalle fibre dure. Ma queste osservazioni preludono necessariamente a una rappresentazione dell’ambiente nel quale ciascuno di questi animali poteva vivere. Dall’esame delle rocce, il paleontologo cerca dunque di ricostruire il clima e la configurazione geografica dei luoghi dove vivevano i dinosauri, la vegetazione che li circondava e il loro comportamento più probabile. Studiando i fossili di altri animali, di piante e pollini presenti nei luoghi del ritrovamento degli scheletri

LE PROVE FOSSILI

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di dinosauri, analizzando la natura della roccia che li ha protetti per milioni di anni, egli ricostruisce l’habitat, la flora e la fauna locali di quel periodo. La Terra di allora viene così ricostruita a poco a poco, con i suoi animali, le sue piante, i climi diversi, i fiumi scomparsi e i suoi deserti. Se tuttavia andassimo a cercare sul mappamondo del passato i continenti e gli oceani dove sono oggi e con le stesse configurazioni, resteremmo disorientati.

LA TERRA DEI DINOSAURI Due generi di piccole piante, Glossopteris e Gangamopteris, erano così abbondanti, fra il Carbonifero e il Permiano, che hanno lasciato grandi giacimenti di carbone in America meridionale, Antartide, India e Australia. La presenza dello stesso tipo di vegetazione in luoghi separati da interi oceani è un’assurdità dal punto di vista

L’IPOTESI DI WEGENER La Terra come doveva presentarsi al tempo della comparsa dei dinosauri, 230 milioni di anni fa, secondo l’ipotesi di Wegener. I continenti erano uniti in un unico blocco, la Pangea, circondato da un immenso oceano, la Panthalassa. Un’ampia insenatura, il golfo di Tetide, incomincia a insinuarsi fra le terre emerse man mano che la dinamica interna del Pianeta provoca lo smembramento della Pangea. Nel disegno sono stati indicati i confini degli attuali continenti così come probabilmente erano uniti, ed è stata evidenziata la distribuzione, che convalida la teoria, dei fossili delle felci Gangamopteris e Glossopteris, e del rettile Mesosaurus.

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biologico, dato che, a volte, bastano solo poche decine di chilometri di mare per impedire la diffusione di un insieme di piante. Per giustificare questo dato di fatto, dunque, bisognerebbe supporre che 250 milioni di anni fa tali distanze non esistessero e che i continenti fossero riuniti in un unica massa. Già nel 1622 Francis Bacon aveva intuito qualcosa; del resto, da tempo si discuteva sulla straordinaria complementarità delle coste africana e sudamericana. Tuttavia fu solo all’inizio del ventesimo secolo che l’astronomo e meteorologo tedesco Alfred L. Wegener avanzò questa ipotesi, ordinandola in un’articolata teoria e cercandone le prove nella geologia e nella paleontologia. Wegener era rimasto impressionato dalla corrispondenza delle strutture geologiche esistenti fra le due sponde dell’Oceano Atlantico, quella africana da una parte e quella brasiliana dall’al-

Mesosaurus Glossopteris e Gangamopteris

ASIA PANTHALASSA NORD AMERICA

TETIDE AFRICA SUD AMERICA

INDIA AUSTRALIA ANTARTIDE

sedimenti marini

sedimenti innalzati

crosta oceanica

corrugamento montuoso

crosta continentale

celle convettive

tra, e dalla presenza in questi due continenti di fossili di Mesosaurus, un piccolo rettile permiano d’acqua dolce che si nutriva di pesci. Nel 1924 egli rese note le sue idee pubblicando La formazione dei continenti e degli oceani. Wegener, che geologo non era, irruppe nell’ambiente geologico del tempo senza le dovute credenziali, come un ciclone nella placida quiete di un villaggio tropicale, attaccando le teorie sulla struttura della Terra allora universalmente accettate. Si pensava, a quel tempo, che l’aspetto della Terra fosse così da sempre, con i continenti e i mari nella stessa posizione fin dal momento in cui, nei primi stadi della sua solidificazione, la materia terrestre si era distribuita secondo il peso specifico: le rocce granitiche, meno dense, si erano consolidate in superficie formando i continenti; quelle basaltiche, più dense, avevano invece costituito i fondi oceanici. La presenza di fossili uguali in continenti separati da oceani veniva giustificata con l’ipotetica esistenza di fasce di terra emersa, che, come ponti, avrebbero collegato nel passato le due terre e che sarebbero scomparse, sprofondate o erose dagli elementi in tempi successivi. Wegener rifiutò questa spiegazione basandosi sugli stessi argomenti degli oppositori: i ponti intercontinentali non potevano sprofondare poiché costituiti di materiale continentale, più “leggero” di quello su cui poggiavano. Un’erosione completa e così totale era, ovviamente, difficile da accettare. Le sue argomentazioni si basavano sulla conoscenza dei climi antichi, ricavata da precise os-

servazioni geologiche e paleontologiche. Nell’emisfero meridionale, in India, in Australia, in Africa e in Sud America, esiste infatti una corrispondenza diretta fra le rocce che risalgono al periodo fra il Carbonifero e il Permiano, dove si alternano rocce striate dai ghiacciai e strati carboniferi composti dalle medesime associazioni vegetali di Glossopteris e Gangamopteris. Ciò provava, secondo Wegener, che quelle regioni, oggi così lontane l’una dall’altra, avevano avuto un’evoluzione climatica simile, con un’alternanza di glaciazioni e di periodi più caldi e umidi che avevano favorito lo sviluppo della vegetazione. D’altro canto, nell’emisfero settentrionale, anche il Nord America, l’Europa occidentale e la Cina settentrionale avevano alcune caratteristiche geologiche analoghe tali da far supporre che anche questi continenti avessero avuto lo stesso passato climatico. Questa uniformità era inspiegabile per continenti nettamente separati e geograficamente lontani, ma diventava ovvia se si supponeva che, al tempo in cui quelle formazioni geologiche si erano formate, i continenti fossero uniti fra loro. Questa

RIVOLUZIONE IN GEOLOGIA Un raro ritratto di Alfred L. Wegener (1880-1930), l’incompreso astronomo, geografo, meteorologo, geofisico ed esploratore che, per primo, ebbe il coraggio di proporre una

DINAMICA TERRESTRE Una rappresentazione della zona di convergenza di una zolla oceanica e di una zolla continentale: il fondo oceanico si inabissa verso il mantello formando una fossa, mentre lo zoccolo continentale, originariamente sommerso, si solleva, schiacciato e compresso, a formare montagne. I fossili di animali marini, inglobati in rocce sedimentarie sottomarine, possono trovarsi così, dopo milioni di anni, dentro rocce continentali, anche a migliaia di metri di altitudine.

complessa teoria sulla “deriva” dei continenti basandosi su analogie paleoclimatiche, geologiche e paleontologiche riscontrabili in continenti oggi separati da oceani.

LE PROVE FOSSILI

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conclusione veniva avvalorata dalla continua scoperta di fossili simili in ciascuna di queste serie sedimentarie. Basandosi sui dati climatologici, sulle corrispondenze geologiche e paleontologiche e sulle analogie geografiche dei contorni dei continenti, Wegener avanzò l’ipotesi che circa 275 milioni di anni fa esistesse un’unica massa continentale (che chiamò Pangea), che il Polo Sud si trovasse nel punto di congiunzione fra America meridionale, Africa, India e Australia, e che l’Equatore passasse per l’America settentrionale, l’Europa occidentale, la Siberia e la Cina. La Pangea si sarebbe poi CONTINENTI IN MOVIMENTO Lo schema mostra la dinamica terrestre che determina la “deriva” dei continenti. A causa delle differenze di temperatura presenti nel mantello, si generano celle convettive che provocano la fuoriuscita di magmi basaltici lungo le dorsali oceaniche, dove si forma dunque continuamente nuovo fondo sottomarino. Per l’apporto di materiali, le due zolle si separano progressivamente, con un movimento che è evidente, in modo marcato, solo dopo tempi geologici. Nelle zone in cui una zolla oceanica incontra una zolla continentale (costituita da rocce meno dense), essa viene spinta a inabissarsi nel mantello: la distruzione di crosta terrestre che ne consegue chiude questo lentissimo ciclo.

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CAPITOLO 2

litosfera continentale scudo continentale o cratone

piattaforma continentale

guyot

spostamento della zolla

delle variazioni del paleomagnetismo terrestre e nell’applicazione dell’elaborazione computerizzata dei dati nella ricostruzione cartografica, si tornò a parlare della teoria della “deriva dei continenti”, dando un postumo riconoscimento allo sfortunato meteorologo tedesco. L’esplorazione dei fondi oceanici con metodi sismici, iniziata poco prima della seconda guerra mondiale, rivelò un fatto sorprendente: essi erano ricoperti da uno strato di sedimenti che si assottigliava sempre più man mano che ci si allontanava dai continenti. Si scoprì inoltre che gran parte dei sedimenti più antichi dei fondali dorsale oceanica (vulcanismo effusivo)

vulcanismo esplosivo

subduzione del fondo oceanico

litosfera continentale magma

celle convettive zona di rifusione

spezzata in vari continenti che, allontanatisi fra loro andando “alla deriva”, avrebbero raggiunto, col tempo, le attuali posizioni. Wegener non riuscì però a trovare una spiegazione fisica a sostegno della sua teoria. Denigrato perciò in patria, dove non riuscì neppure ad avere un posto come insegnante, morì in Groenlandia, mentre ancora cercava quelle prove che dimostrassero al mondo, senza possibilità di dubbio, come la sua intuizione fosse realtà. Quando finalmente il movimento delle croste continentali trovò conferme dirette nell’esplorazione dei fondali oceanici, nella scoperta

dell’Oceano Atlantico si è formata a partire dal Cretacico inferiore, e solo in pochi casi nel Giurassico medio e superiore. Gli attuali fondi oceanici, quindi, hanno un’età relativamente giovane rispetto alla durata della storia geologica della Terra. Le esplorazioni rivelarono poi la presenza di lunghe catene montuose, le dorsali medio-oceaniche, che interrompevano la monotonia pianeggiante dei fondali e avevano caratteristiche completamente diverse dalle catene montuose fino ad allora conosciute sulle terre emerse. All’inizio degli anni Sessanta, venne formulata l’ipotesi che materiale fuso del man-

tello terrestre risalisse verso la superficie, spinto da correnti convettive ascensionali, e fuoriuscisse dalle dorsali medio-oceaniche. Il fatto che lungo le dorsali vi fosse una continua emissione di lave basaltiche venne confermato dai rilevamenti sottomarini: da una spaccatura larga una cinquantina di chilometri sviluppata per tutta la lunghezza della dorsale, usciva il materiale lavico fuso, solidificando lungo i fianchi e formando così di continuo nuovo fondale sottomarino. Per questo costante apporto di materiale, i fondi oceanici dovevano essere in continua espansione, e lo sviluppo delle dorsali doveva essere stata la ragione della rottura della Pangea in continenti diversi e del loro allontanamento. Si trattava di trovare una traccia che mettesse in evidenza il percorso di “deriva” e il movimento di espansione dei fondi oceanici, e di seguirla a ritroso, per ricostruire l’aspetto di Pangea. Quando si scoprì che il campo magnetico

RICERCA SOTTOMARINA Il batiscafo Alvin, capace di scendere a notevoli profondità, è stato impiegato dalla Marina militare degli Stati Uniti anche per l’esplorazione delle dorsali mediooceaniche e delle fosse tettoniche sottomarine.

terrestre subisce un’inversione di polarità ogni mezzo milione di anni circa, e che questa polarità, insieme alla direzione del polo magnetico, rimane “congelata” nei cristalli di magnetite al momento della solidificazione, si scandagliarono i fondi oceanici con un magnetometro trainato da una nave. Si scoprì così che i fondi marini non avevano una polarità magnetica uniforme ma erano formati da enormi strisce basaltiche, con polarità alternativamente invertita, simmetriche da una parte e dall’altra della dorsale. La storia magnetica di gran parte dei fondi oceanici fu ricostruita così fino a 80 milioni di anni fa. L’espansione dei fondali oceanici, non era tuttavia una prova definitiva per la deriva dei continenti. I rilevamenti magnetici vennero estesi alle rocce effusive continentali, ricche di magnetite. Esse indicavano la direzione del polo nel momento della loro solidificazione, e sem-

LE PROVE FOSSILI

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brava che il Polo Nord magnetico avesse vagato negli ultimi 200 milioni di anni in modo inspiegabile, seguendo contemporaneamente percorsi diversi a seconda del continente dove il fenomeno era studiato. Era più probabile, invece, che così venisse messo in evidenza il movimento inverso, cioè non quello del polo, ma quello dei continenti, come quando un paesaggio scorre davanti al finestrino di un treno in movimento. Le diverse posizioni del polo potevano infatti essere ricondotte a una sola, se si ipotizzava che le masse continentali fossero, circa 200 milioni di anni fa, alla fine del Paleozoico, tutte riunite insieme. Un’ulteriore verifica venne dallo studio cartografico. Una delle maggiori obiezioni all’esistenza della Pangea era che i profili dell’Africa e dell’America meridionale, se accostati, non combaciavano completamente. Si pensò poi che il limite da considerare non doveva essere quello delle terre emerse, ma quello della scarpata continentale, e quando si stabilì a 1000 metri di profondità il vero confine delle masse continentali, i conti finalmente tornarono. Usando un calcolatore si ottenne all’Università

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CAPITOLO 2

CONTINENTI ALLA DERIVA Un esempio di frattura creata anticamente dallo spostamento delle placche tettoniche a Thingvellir, in Islanda. Questo parco nazionale, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, si trova proprio su una frattura dovuta alla deriva dei continenti.

di Cambridge una chiara corrispondenza delle due sponde dell’Oceano Atlantico. Oggi non si hanno più dubbi che la deriva dei continenti sia il modello più valido per spiegare la disposizione attuale delle terre e dei mari, e che la loro evoluzione sia collegata all’espansione dei fondi oceanici. Sebbene le masse continentali si spostino solo di pochi centimetri all’anno, col passare dei milioni di anni questo fenomeno ha prodotto (e continua a produrre) effetti su scala planetaria. Oggi si pensa che anche le variazioni del livello marino facciano parte di questa dinamica: a una maggiore velocità di espansione dei fondi oceanici corrisponde una regressione marina, a una minore velocità un avanzamento delle acque (trasgressione). Alla stessa dinamica delle zolle crostali si deve la geologia dei continenti, la formazione delle catene montuose e degli arcipelaghi oceanici, l’origine del vulcanesimo e dei terremoti. Oggi pensiamo che gli oceani attuali abbiano cominciato ad aprirsi circa 200 milioni di anni fa, quando profonde fratture iniziarono a incidere le terre della Pangea, ai tempi circondata dall’enorme oceano della Panthalassa. Su questa Terra ebbe inizio il regno dei dinosauri; i loro fossili, distribuiti dall’America all’Europa, dalla Mongolia alla Cina, confermano un’iniziale continuità continentale grazie alla quale essi poterono diffondersi su tutte le terre emerse. Ma durante i 160 milioni di anni del loro dominio, la superficie terrestre, soggetta alle potenti forze subcrostali, si andava modificando. Alla fine del Cretacico la grande massa continentale era profondamente spezzata al punto che i continenti erano ormai vicini alla posizione attuale, il mare aveva interrotto la continuità delle terre e gli equilibri climatici si erano alterati. Nasceva un mondo nuovo: il nostro. Furono i radicali cambiamenti ambientali, conseguenza della deriva dei continenti, a segnare la fine dei dinosauri? È una domanda che ha suscitato un acceso dibattito, come vedremo nell’ultimo capitolo.

3,3

2,5

0,7

0,7

2,5

Gilbert (invertita)

Gauss (normale)

Matuyama (invertita)

Brunhes (normale)

Dorsale oceanica

Brunhes (normale)

Matuyama (invertita)

Gauss (normale)

Gilbert (invertita)

epoche di polarità magnetica diversa

3,3

FASCE MAGNETIZZATE Lo schema mostra quattro zolle di crosta terrestre separate da due fratture trasversali e da un segmento di dorsale oceanica. Le rocce che formano milioni di anni

i due fianchi della dorsale presentano zone simmetriche magnetizzate con polarità ripetutamente invertita: in chiaro sono le zone che mostrano una polarità uguale a quella attuale, in scuro sono quelle con polarità opposta. Supponendo che queste rocce siano formate da magmi fuoriusciti in tempi successivi dalla dorsale, la distribuzione simmetrica di queste zone magnetizzate costituisce una valida prova dell’espansione dei fondi oceanici.

GEOGRAFIA AL CALCOLATORE Quest’immagine ottenuta all’Università di Cambridge, impiegando un sofisticato calcolatore elettronico, mostra la corrispondenza delle masse continentali: i contorni degli attuali continenti, considerando anche tutta la scarpata continentale sommersa fino a 1000 metri, combaciano fra loro con impressionante evidenza. In violetto sono le zone in cui si ha sovrapposizione, in arancione le zone in cui i continenti restano distanziati: la loro originaria unità risulta indiscutibilmente evidente.

LE PROVE FOSSILI

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3. Le vie della vita

L’EVOLUZIONE: LE IDEE E I FATTI I dinosauri presentarono, in 160 milioni di anni, un’incredibile varietà di forme e di adattamenti agli ambienti più disparati. Poi, in un tempo relativamente rapido, scomparvero improvvisamente dalla faccia della Terra. Si estinsero, diciamo oggi. Questa storia si ripete, come sappiamo, di era in era: la fine di una specie (come la sua nascita) fa parte del grande quadro dell’evoluzione. Sembra scontato. Ma fino a quando Darwin non pubblicò la sua opera, non si possedeva un’idea unitaria nella quale l’estinzione acquistasse significato. A più di 160 anni di distanza, la teoria di Darwin si è fatta molto più articolata e complessa della sua formulazione originale. La genetica l’ha pienamente confermata, ma, nonostante tutto, è ancora aperta al dubbio e dà luogo a diverse interpretazioni. E, a causa delle forti implicazioni filosofiche, è ancora fortemente contestata. L’evoluzione è la trasformazione graduale di forme e comportamenti degli esseri viventi che, nel corso della storia della vita, ha portato alla comparsa di nuove specie e all’estinzione di altre. Un fenomeno grandioso, che si realizza in tempi lunghissimi, e che può essere messo in evidenza attraverso l’analisi comparata di forme fossili e viventi. Più specie attuali, che si somigliano in molti caratteri, mostrano di discendere da uno stesso progenitore. Più fossili di animali estinti presentano caratteri intermedi che coprono le zone di discontinuità fra un gruppo e un altro, come fra gli anfibi e i rettili o fra i rettili e gli uccelli, in-

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CAPITOLO 3

dicando la gradualità del processo evolutivo. Alla base della teoria darwiniana stanno due concetti: la selezione naturale e la gradualità. La selezione naturale si basa sul fatto che gli individui di una stessa popolazione interagiscono con l’ambiente in modi diversi: hanno cioè capacità diverse di utilizzare le risorse, di trovare cibo, ripari, nascondigli o di conquistare partner sessuali per riprodursi. Ma le risorse ambientali sono limitate e non riescono a soddisfare le necessità di tutti gli individui generati.

DARWIN La statua di Charles Darwin al Museo di Storia Naturale di Londra. Se non fu il primo ad avanzare una teoria sull’evoluzione della vita, fu l’unico a darne una spiegazione unitaria attraverso il meccanismo della selezione naturale. Oggi, dopo oltre un secolo di ricerche nei vari ambiti, la sua teoria è stata largamente confermata.

Si ha così una competizione fin dalle prime fasi della vita: i giovani nati per sopravvivere e crescere, gli adulti anche per riprodursi. Non tutti riusciranno a vincere. Ma chi sopravvive, e si riproduce, trasmette alle generazioni successive, attraverso i suoi geni, quelle caratteristiche vitali che gli hanno garantito il successo. Darwin non aveva le conoscenze per capire quale fosse il meccanismo biologico che determina la variabilità, ma oggi si sa che le differenze individuali sono sottese da differenze genetiche. Sono i geni (unità ereditarie di DNA, l’acido desossiribonucleico contenuto nei cromosomi e capace di duplicarsi) a determinare ciascuna caratteristica di un essere vivente rendendolo

LA SELEZIONE NATURALE Il DNA, che ha la forma di una doppia elica, contiene il programma per costruire le diverse proteine necessarie a un essere vivente. Grazie a esso vengono trasferite da una generazione all’altra le informazioni genetiche ricevute dai genitori. Esemplari di una stessa specie condividono parte del patrimonio genetico. Variazioni minori nel DNA sono molto comuni,

unico e irripetibile: dal colore degli occhi alla lunghezza della coda, dalla forma delle foglie alla struttura del tronco. Ai geni si devono, nello stesso tempo, anche le somiglianze fra gli individui di una stessa specie. È il patrimonio genetico che dà significato al concetto stesso di specie, intesa, in linea di massima, come un insieme di popolazioni i cui individui possono liberamente incrociarsi, generando prole feconda. È questa identità genetica che impedisce gli incroci fra specie diverse. Quando ciò avviene, nella migliore delle ipotesi si ottiene solo la prima, sterile generazione, come nel caso del mulo che nasce da un asino e da una cavalla. I geni passano, attraverso i figli, di generazione

EVOLUZIONE IN ATTO La farfalla del geometra delle betulle (Biston betularia) è un esempio ormai famoso di evoluzione in atto: la forma originaria si mimetizza facilmente su un tronco di betulla coperto di licheni; la forma mutante scura, invece, è molto evidente, come si vede nell’immagine a sinistra. Prima della rivoluzione industriale, nella popolazione inglese di queste farfalle prevaleva la forma chiara; dopo, in seguito al progressivo inquinamento atmosferico legato allo sviluppo industriale, scomparsi i licheni e anneritisi i tronchi delle betulle, la selezione naturale operata dai predatori ha quasi eliminato la forma argentata a vantaggio di quella metanica: nell’immagine a destra, è evidente come sul tronco annerito dallo smog la situazione sia ribaltata.

ma quando si replicano nelle copie successive diventano mutazioni. Esse possono essere causate anche da fattori esterni. La sopravvivenza degli organismi portatori di una mutazione è dettata dalla capacità, che essa determina nel soggetto, di adattarsi all’ambiente in cui vive. Se essa sarà positiva garantirà un maggiore tasso di sopravvivenza e sarà trasmessa alla discendenza.

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in generazione: godono quindi di una singolare immortalità. Tuttavia non sono unità immutabili: possono cambiare a causa di errori nel processo di replicazione del corredo genetico durante la formazione delle cellule sessuali, o a causa di fattori ambientali come radiazioni o sostanze mutagene. Questi cambiamenti, del tutto casuali, vengono detti mutazioni. L’insieme dei geni di una popolazione presenta quindi una grande variabilità, che è data dalla frequenza (regolata dalle leggi probabilistiche

del caso) con cui si presentano i vari geni o con cui ne sorgono di nuovi. È invece l’ambiente a determinare l’affermazione di un gene o il suo insuccesso. L’ambiente non è stabile nel tempo: può cambiare, per esempio, il clima, o la geografia del luogo; può scomparire una fonte di cibo, possono comparire nuovi predatori o scomparirne altri, oppure possono subentrare competitori meglio attrezzati a sfruttare le stesse risorse. Di fronte a questi cambiamenti chi si rivela più adatto rispetto ai suoi simili ha più probabilità di passare attraverso il vaglio della selezione naturale. Possono essere allora proprio i geni mutanti quelli che conferiscono un simile vantaggio, e chi li possiede trasmette la sua diversità ai fi-

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MOSCHE E DDT I “diversi” sono il motore dell’evoluzione. Supponiamo che l’1% di una determinata popolazione di mosche sia insensibile al DDT, abbia cioè una “resistenza” al veleno, dovuta a una particolare mutazione genetica. Quando la popolazione viene sterminata, i pochissimi sopravvissuti non avranno più competitori: riproducendosi e tramandando ai loro discendenti la peculiare caratteristica genetica, daranno origine a una nuova popolazione, resistente al veleno.

gli: moltiplicata di generazione in generazione, questa diverrà la nuova norma. Se un processo del genere avviene in una popolazione geograficamente isolata dalle altre, chiusa nello spazio ristretto di un’isola o in una valle fra catene montuose, senza la possibilità di incrociarsi con popolazioni limitrofe e priva così della possibilità di importare nuovi geni, il suo corredo genetico cambia a tal punto che ha origine una nuova specie. Le mutazioni sono quindi il materiale grezzo su cui l’evoluzione lavora; sono i “diversi”, gli individui cui è affidato il destino di una specie. Se mancassero, la variabilità sarebbe ridotta a zero, e il destino di una specie sarebbe segnato da un’irrimediabile estinzione. L’origine di una nuova specie (come la sua estinzione) deriva dunque dall’interazione fra geni e ambiente. Non si deve pensare, però, che questo processo selezioni in modo automatico i geni in assoluto più adatti, e ciascuno in modo indipendente dagli altri. Anche individui meno adatti, pur vivendo male, sopravvivono: la loro percentuale è solo molto minore. In ogni specie, poi, esistono limiti strutturali che rallentano o impediscono qualsiasi tipo di adattamento: una struttura anatomica o un comportamento evolvono compatibilmente con la presenza di altre caratteristiche. Per esempio, fino a che punto può crescere la dimensione corporea di un animale? Essere superdotati in questo senso può costituire un vantaggio, e l’affermazione di moli gigantesche nei dinosauri lo dimostra, anche se sul significato adattativo di questa evoluzione i pareri sono discordi. È indubbio che, nell’ambito di una popolazione, i maschi più grossi hanno maggiori probabilità di successo nelle competizioni amorose. Ma le dimensioni corporee devono essere abbinate, per esempio, a sviluppo e funzionalità adeguati dell’apparato respiratorio: per esempio, un animale grosso ma fiacco nel respiro perde le competizioni amorose, e quanto ha acquistato in mole non gli conferisce un vantaggio riproduttivo.

sarebbe sviluppato in numerose specie diverse attraverso il tempo. L’evoluzione delle specie secondo l’interpretazione gradualistica di Darwin (in giallo). In questa concezione, un’intera popolazione subisce trasformazioni graduali in un tempo lunghissimo, modificandosi talmente da costituire alla fine una

nuova specie. In questi ultimi anni, numerose prove fossili sono emerse a confermare il gradualismo darwiniano, dalla scoperta di “anelli mancanti” a quella di “serie di fossili” come i trilobiti ordoviciani del Galles, che permettono di leggere l’evoluzione delle specie lungo 3 miliardi di anni.

tempo

tempo

INTERPRETAZIONI A CONFRONTO L’evoluzione delle specie schematizzata secondo l’interpretazione di Eldredge e Gould (in rosso). Saltuariamente, attraverso brusche trasformazioni a carico di popolazioni isolate rispetto alla popolazione d’origine, l’albero della vita si

morfologia (grado di differenza dalla forma originale)

L’origine di una nuova specie o la sua estinzione si realizzano in tempi più o meno lunghi, e per cambiamenti graduali attraverso forme intermedie. Tuttavia, la maggiore sfida alla teoria di Darwin arriva proprio dalla paleontologia, la scienza che dovrebbe convalidare, con le sue prove fossili, il processo evolutivo, portando alla luce i cosiddetti anelli mancanti, le forme intermedie tra una specie e l’altra. In effetti ne esistono ottimi esempi. Archaeopteryx, del Giurassico superiore, può essere considerato un dinosauro con caratteristiche da uccello, o un uccello che conserva ancora caratteri rettiliani. La documentazione paleontologica, però, non è sempre sufficiente a dimostrare la gradualità del processo evolutivo. Darwin stesso sentiva

morfologia (grado di differenza dalla forma originale)

questo limite e avvertiva che la serie dei reperti fossili è come un libro di cui sono rimaste solo poche pagine, e di ogni pagina poche righe, e di ogni riga poche parole. Questa carenza dimostra che l’evoluzione procede per salti, hanno sostenuto i paleontologi Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. La loro teoria “degli equilibri punteggiati” parte dall’osservazione che nei reperti fossili la maggior parte delle specie rimane invariata per milioni di anni. Esse infatti presentano lo stesso aspetto dal loro primo apparire fino alla loro scomparsa e vengono sostituite da una nuova specie in modo improvviso. Secondo loro le forme intermedie sono rare perché tali sono realmente nella storia naturale. Inoltre, hanno ipotizzato, la comparsa di un

EVOLUZIONE A SALTI Sopra: il paleontologo e biologo statunitense Stephen Jay Gould (1941-2002), convinto sostenitore dell’evoluzione darwiniana, non ne accettava tuttavia il gradualismo. Insieme a Niles Eldredge, anch’egli paleontologo, elaborò, nel 1972, la cosiddetta “teoria degli equilibri punteggiati”: la scarsità di “anelli mancanti” fra i fossili proverebbe che le nuove specie si staccano in modo “improvviso” dal ceppo originario, e poi permangono inalterate nell’aspetto dal momento della loro origine fino al momento della loro scomparsa. La specie progenitrice continua a sopravvivere.

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nuovo carattere morfologico (come per esempio le penne con funzione portante al volo) richiede una serie di mutazioni complementari, finalizzate e non casuali: l’opposto di ciò che accade nel processo evolutivo. Se la penna si è evoluta dalla squama dei rettili, quale funzione avevano le forme intermedie fra l’una e l’altra, che non erano più squame e non ancora penne? La teoria degli equilibri discontinui rifiuta quindi il gradualismo darwiniano. Secondo questa idea, una nuova specie si forma per cambiamenti rapidi e improvvisi, che avvengono a carico di piccole popolazioni isolate in zone limite fra due ambienti diversi (come per esempio foresta e savana) dove le pressioni selettive sono molto forti. L’evoluzione è probabilmente un fenomeno così complesso che il pensiero dei gradualisti (che sono per la maggior parte genetisti) non esclude quello dei catastrofisti (per lo più paleontologi),

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BATTERI Nella foto grande, dei batteri. Furono cellule procariote, molto simili a questi organismi, il seme da cui si originarono creature sempre più complesse. Nel dettaglio: la struttura di un batterio, con evidenziate le parti più importanti della sua anatomia.

come invece vuole la loro contrapposizione ideologica. In effetti genetisti e paleontologi hanno una diversa visione del tempo. I primi, lavorando su materiale genetico, sono in grado di rivelare differenze morfologiche nell’arco di poche generazioni; i secondi, operando su reperti fossili, si muovono su una scala temporale definita dagli strati geologici, nell’arco quindi di milioni di anni. L’evoluzione non procede, a quanto sembra, a velocità costante; negli ambienti instabili le modificazioni sono molto più rapide e possono apparire nei reperti paleontologici come improvvise. D’altra parte, i caratteri normalmente utilizzati per distinguere specie viventi spesso non possono essere impiegati per catalogare organismi fossili. Alcune specie viventi, per esempio, pur essendo morfologicamente del tutto simili tra loro, si discostano soltanto nel comportamento riproduttivo e non possono incrociarsi. Il com-

portamento, però, non lascia fossili e in questa situazione le due specie si presentano al paleontologo come una singola unità. Oggi si pensa che le nuove strutture delle forme intermedie non compaiano con la stessa funzione che assumono successivamente nelle forme discendenti. Le prime squame di rettile che acquistarono caratteristiche di penna furono selezionate perché mantenevano meglio il calore del corpo. Archaeopteryx certamente non volava, ma correva e svolazzava; e le sue braccia pennute provviste di dita servivano a catturare gli insetti. Furono le successive trasformazioni dello scheletro che portarono i pennuti al volo. Solo allora la penna acquistò un nuovo ruolo. Le parti di un organismo si evolvono quindi a

AMBIENTI PRIMITIVI Secondo alcune teorie, le prime forme di vita cellulare potrebbero essersi sviluppate sulla terraferma in pozze di fango vulcanico come questa, o in ambienti oceanici, nei pressi dei camini idrotermali.

velocità diverse, perché rispondono di volta in volta a nuove pressioni selettive. Una forma intermedia si può paragonare allora a un mosaico di caratteri: in parte conserva quelli arcaici della forma ancestrale e in parte ha già gli abbozzi di quelli delle forme che seguiranno. Con l’aiuto dei paleontologi e grazie ai contributi dell’anatomia comparata, della biologia molecolare e della genetica, possiamo così ricostruire la storia di una possibile evoluzione. Confrontando le specie fossili con quelle attuali è possibile verificare somiglianze e differenze in base alle quali collegare fra loro gli esseri viventi e quelli estinti. Quanto più numerose sono le somiglianze fra due specie, tanto più alto è il loro grado di parentela, e ciò significa che si sono evolute da un progenitore comune solo in tempi recenti. Analogamente, maggiori sono le differenze e più lontano sarà il tempo in cui le due specie si sono differenziate da un comune predecessore. Si possono ripercorrere così le strade ramificate seguite dall’evoluzione. In questo viaggio a ritroso nel passato ritroviamo i dinosauri, ma per capire perché si sono originati e da quali progenitori, e come si sono evoluti, dobbiamo inquadrarli nella storia della vita e ripercorrerla fin dall’inizio, fin dalle forme più elementari, da quei batteri, dalle alghe unicellulari che furono probabilmente i primi esseri viventi, i capostipiti di noi tutti, 3 miliardi e mezzo di anni fa.

I PRIMI ORGANISMI Dieci micron di vita, un millesimo di centimetro di proteine, zuccheri, grassi e acidi nucleici, qualche sale e molta acqua: è il ritratto di una cellula procariota, la cellula più semplice che esista. Mancano strutture più complesse, come nucleo, organelli e cromosomi: il materiale genetico si trova inglobato insieme alle proteine strutturali, ai ribosomi, agli enzimi e ai sali necessari, chiuso da una membrana di fosfolipidi e proteine già complessa per struttura e funzioni. È il ritratto di un batterio, e fu un organismo molto

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MONOCELLULARI E PLURICELLULARI Volvox, un’alga verde monocellulare appartenente ai flagellati, conduce vita coloniale: più di 50.000 cellule unite in una sfera cava, con una certa suddivisione dei compiti vitali, sono coordinate fra loro nei movimenti dei flagelli così che la colonia si sposta rotolando come una palla. Le sferule interne alla colonia sono “minicolonie figlie”, protette all’interno

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della colonia originaria. Ciascun organismo unicellulare facente parte della colonia è incapace di vita indipendente: in un certo senso la colonia di Volvox è un prototipo di organismo pluricellulare. Sotto: oggi, i protozoi sono ciò che più da vicino può richiamare le prime forme di vita che hanno popolato il nostro Pianeta. In questa immagine al microscopio i delicati scheletri silicei di alcuni organismi planctonici attuali.

simile a questo il seme della vita da cui si sono evolute creature sempre più complesse, dotate di strutture sempre più articolate. Tecniche raffinate, applicate alla paleontologia, hanno permesso di scoprirne i fossili: si possono vedere al microscopio, in sezioni finissime di rocce silicee che risalgono a 3 miliardi e mezzo di anni fa. I primi esseri viventi avevano funzioni estremamente semplici: dovevano assorbire materiale organico dall’ambiente e riprodursi per scissione, l’uno identico all’altro. Secondo le ipotesi attualmente più accettate, essi trovavano le sostanze nutritive intorno a loro, nel mare. Formatisi spontaneamente nell’atmosfera, aminoacidi, protidi, glucidi, lipidi e basi nucleotidiche giungevano con la pioggia fino al mare, dove si erano andati concentrando per millenni. Poi, più di 2 miliardi di anni fa, la concentrazione delle molecole nutritive nel brodo primordiale cominciò gradualmente a diminuire a causa di una riduzione del flusso energetico che rallentava sempre più sensibilmente i processi di sintesi nell’atmosfera. Vennero così selezionati quegli organismi che riuscivano a produrre energia in proprio, sintetizzando materia organica da quella inorganica. Erano organismi che, tramite vie metaboliche diverse, potevano sfruttare fonti diverse di energia: l’energia presente in determinati legami chimici, quella sviluppata da determinate reazioni, l’energia solare o quella termica terrestre. Fra tutte prevalse la via metabolica più efficiente: la fotosintesi, che trasforma la luce del sole in energia chimica, combinando anidride carbonica e acqua a formare i composti organici. Erano materiali da costruzione disponibili ovunque, e gli organismi di allora, simili alle alghe azzurre di oggi, conobbero un successo esplosivo. La loro proliferazione portò a un nuovo, rapido cambiamento ambientale su scala planetaria: la fotosintesi sviluppava, come prodotto secondario, l’ossigeno, e mentre l’atmosfera si andava progressivamente arricchendo di questo gas, per azione dei raggi ultravioletti si formò a grandi

VITA PRIMITIVA Noctiluca potrebbe essere presa a esempio per farsi un’idea di come erano gli organismi che devono aver popolato in passato i nostri mari. Quest’alga monocellulare ha la caratteristica di difendersi dall’eccesso di ossigeno liberato durante le reazioni organiche (in particolare durante la fotosintesi) impiegandolo per sostenere i processi di bioluminescenza.

altezze quella coltre di ozono che ancora oggi ci protegge dalle radiazioni dannose. L’ossigeno, però, creava anche grossi problemi: in grado di combinarsi facilmente col carbonio, l’elemento costitutivo di tutti gli organismi viventi, l’ossigeno libero stava diventando un grave pericolo per la loro sopravvivenza. Questa nuova pressione ambientale selezionò drasticamente le forme di vita esistenti. Fra gli organismi incapaci di neutralizzare l’ossigeno sopravvissero solo quelli che vivevano nelle profondità marine, o negli anfratti terrestri, là dove il gas non riusciva a diffondersi. Pochi esseri, invece, furono in grado di trarre vantaggio dalla nuova situazione: erano quelli che avevano un metabolismo in grado di “guidare” la reazione carbonio-ossigeno, di far combinare, cioè, i due elementi in modo graduale, così da poter usare per le loro funzioni vitali l’energia liberata dalle reazioni del processo. Erano i primi organismi capaci di respirare, e la respirazione, utilizzando i prodotti ultimi della fotosintesi, chiudeva il ciclo del carbonio. “Fossili viventi” di quegli organismi primordiali sono forse quelle strutture delle cellule eucariote (tipiche degli organismi pluricellulari) che chiamiamo cloroplasti e mitocondri. Questi organelli hanno infatti un proprio materiale genetico, e sono la sede dei processi metabolici della fotosintesi e della respirazione: può darsi

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che la prima cellula eucariota, una cellula complessa (come una qualsiasi cellula di un animale o vegetale pluricellulare), dotata di nucleo, cromosomi e altri organelli demandati a precise funzioni fisiologiche, si sia formata proprio grazie alla simbiosi di più organismi con caratteristiche diverse. Questa nuova forma di vita aveva un’autonomia più grande rispetto ai simbionti presi isolatamente: era molto più complicata, ma molto più efficiente di loro. Per circa 2 miliardi di anni lo scenario terrestre fu dominato da organismi unicellulari. Generazione dopo generazione, i figli, nati per scissione della cellula madre, furono identici fra loro, e indistinguibili dai genitori. La variabilità delle popolazioni dipendeva esclusivamente dalle mutazioni e dagli errori di duplicazione. Il passaggio dalla riproduzione asessuata a quella sessuata aumentò rapidamente la variabilità delle popolazioni su cui agiva la selezione naturale. La comparsa degli eucarioti, simili agli attuali protozoi, aprì le porte a un’innumerevole quantità di opportunità evolutive, imprimendo un’accelerazione all’evoluzione. Si passò così rapidamente dalle forme di vita unicellulari a quelle coloniali (Volvox sono un esempio vivente: più di 50.000 cellule non differenziate strutturalmente che vivono in colonia, traendo vantaggio dalla divisione dei compiti della digestione, della riproduzione e del movimento), agli organismi, infine, formati da più cellule differenziate, specializzate in compiti predeterminati. Indubbiamente un organismo formato da più cellule con diverse funzioni è più efficiente di uno costituito da una cellula sola, che deve fare tutto da sé. Circa 700 milioni di anni fa, imboccata la strada verso i pluricellulari, furono poste le basi per una straordinaria diversificazione delle forme viventi. Specializzandosi in tessuti, in organi, in apparati, le cellule perdevano la loro capacità di vita indipendente e, legate fra loro da messaggi chimici, costruivano organismi superiori, animali e vegetali, che conquistavano, a poco a poco, tutta la Terra.

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I PRIMI ANIMALI

AI PRIMORDI Dickinsonia, uno dei primi organismi che apparvero sulla Terra, aveva un corpo ellissoidale lungo oltre 60 centimetri ma spesso soltanto 6 millimetri.

Esistono pochissimi esempi fossili delle prime forme pluricellulari: si suppone che esse abbiano avuto un corpo molle e la struttura di una spugna o di una medusa, e un essere simile non lascia facilmente impronte fossili. Probabilmente erano sacchetti formati da due superfici di cellule separate da uno strato gelatinoso, capaci di creare una corrente d’acqua per filtrarla e trarne cibo. Gli esseri viventi di quel tempo risolvevano così il problema del nutrimento, o vivevano in simbiosi con alghe fotosintetiche. I pochi fossili ritrovati hanno una forma appiat-

tita, determinata forse dalle stesse esigenze che modellano una foglia che deve assorbire al massimo la luce. Dickinsonia, per esempio, aveva un corpo ellissoidale lungo oltre 60 centimetri e dello spessore di 6 millimetri. Poi, improvvisamente, nel Cambriano, “scoppia” la vita, che si differenzia in un gran numero di specie. Tra 541 e 485 milioni di anni fa, come testimoniano i resti fossili di cui sono ricchissime le rocce formatesi in questo periodo geologico, una grande varietà di esseri popola la Terra. Si sono trovati resti fossili ascrivibili a quasi tutti i grandi raggruppamenti degli invertebrati marini: i Poriferi (spugne), i Celenterati (coralli e meduse), gli Anellidi (antenati dei lombrichi), gli Artropodi (antenati di insetti, ragni e crostacei), i Molluschi (antenati delle attuali vongole) e gli Echinodermi (che comprendono gli attuali ricci e stelle di mare). Prima della scoperta dei fossili precambriani come Dickinsonia, la vita sembrava iniziare solo da questo periodo, dal Cambriano. Per questo i primi paleontologi cominciarono a misurare il tempo geologico proprio da qui: secondo una denominazione che sopravvive ancora oggi i primi 2 miliardi di anni della storia del nostro Pianeta vennero chiamati Precambriano, e gli ultimi 500 milioni furono suddivisi in periodi, a cominciare da questo, compreso fra 541 e 485 milioni di anni fa: il Cambriano. Gli animali avevano già raggiunto una straordinaria efficienza riproduttiva, metabolica ed ecologica, premessa necessaria per lo sviluppo di maggiori dimensioni e ruoli differenziati. I loro corpi avevano apparati per la digestione, la riproduzione, la respirazione, la circolazione sanguigna, l’escrezione e sistemi sensoriali di comunicazione con l’ambiente esterno. Chele e zampe atte a ghermire testimoniano il netto passaggio del mondo animale alla predazione, che determinò un grande salto evolutivo: si aggiunse un anello alla catena alimentare e

si crearono nuove nicchie, in un mondo così poco abitato. Al Cambriano risalgono le prime prove fossili di morsi o tracce di ferite sulle conchiglie dei molluschi o sulle zampe dei trilobiti. L’evoluzione di esseri sempre più specializzati nella predazione indusse quella dei caratteri difensivi nelle prede: nacquero così le prime corazze, gli aculei. Contemporaneamente, già dall’inizio del Cambriano, si differenziò anche quel ramo evolutivo dei Cordati da cui presero origine i Vertebrati (e cioè i Pesci, gli Anfibi, i Rettili, gli Uccelli e i Mammiferi, uomo compreso) caratterizzati da una tipica impalcatura di sostegno: la colonna vertebrale, cui

si attaccano tutte le altre parti dello scheletro osseo. I nostri più probabili antenati furono le larve di alcuni echinodermi che raggiunsero la maturità sessuale prima della metamorfosi. Ancora oggi i cordati marini più primitivi passano dall’uovo a uno stadio larvale vagante (o, come si dice, pelagico, simile a un pesciolino) prima di trasformarsi in adulti sessili, saldati al substrato marino. L’ipotesi è che alcune di queste larve si siano riprodotte senza assumere la forma adulta, e che abbiano imboccato così una via evolutiva diversa da quella tuttora seguita dai loro simili. Quest’idea non è poi così balzana: la neotenia (questo è il termine scientifico che definisce questo fenomeno) non è un evento raro in natura. Anche noi uomini, secondo alcuni antropologi, potremmo aver avuto origine da alcuni primati

PRIMI PREDATORI? Spriggina è un animale enigmatico, lungo circa tre centimetri, forse un antichissimo predatore. I suoi fossili sono stati rinvenuti in Australia.

LE VIE DELLA VITA

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pinne, cadendo cioè la necessità di una strenua difesa in favore di una possibilità di fuga, il corpo si alleggerì dell’armatura. Nuovi animali coperti di scaglie, più mobili, più funzionali al nuoto e meno pesanti, trovarono ad attenderli un vasto mondo acquatico da conquistare: erano i pesci. Senza più antagonisti, l’immensità degli oceani era a loro disposizione. Si andava delineando sempre più la loro tipica forma idrodinamica e dotata di vere e proprie pinne con funzione di remi, di timone, di stabilizzatore e di motore. Comparvero gli squali e le razze a scheletro cartilagineo, comparvero i primi pesci ossei, popolando rapidamente i mari e le acque dolci della Terra di 400 milioni di anni fa. Era il Devoniano, il periodo dei pesci. adolescenti e sessualmente precoci, dei quali conserviamo ancora l’aspetto infantile. Quasi 300 milioni di anni prima della comparsa dei dinosauri apparvero dunque in mare i primi vertebrati. Dovevano essere simili alle lamprede: i loro fossili, lunghi poco più di 20 centimetri, avevano membrane al posto di pinne e coda. La mancanza di mascella e mandibola ad armare la bocca li rendeva incapaci di predazione: i loro resti sono frammenti di armature dermiche, vere e proprie corazze, formate da un nuovo tessuto: il tessuto osseo. Pesanti, strisciavano sul fondo di mari, estuari e fiumi, nutrendosi di materia organica filtrata dal fango. Con la graduale trasformazione dei primi tre archi branchiali in mandibola e mascella, questi primi vertebrati acquistarono finalmente, 440 milioni di anni fa, la possibilità di mordere e di masticare. Con la concomitante evoluzione delle INCREDIBILI CREATURE I trilobiti, un gruppo di artropodi marini vissuti nell’era Paleozoica, sono tra i più noti animali del passato, presenti nel record fossile con

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centinaia di specie distribuite su un grande intervallo temporale. Nella foto, alcuni grandi esemplari su lastra (circa 30 cm) appartenenti al genere Paradoxides.

SCORPIONI DI MARE Gli euripteridi, o scorpioni di mare, furono tra i primi predatori a raggiungere grandi dimensioni (oltre due metri di lunghezza), collocandosi così tra i più grandi invertebrati mai esistiti.

DAI PANTANI AL DESERTO Mancavano ancora 100 milioni di anni alla comparsa dei primi dinosauri. Il clima, in una delle sue variazioni ricorrenti, diveniva sempre più secco. Laghi e fiumi si prosciugavano lasciando aride distese di terreni spaccati dal sole. I pesci d’acqua dolce si trovarono ben presto di fronte a problemi ambientali tali da rischiare l’estinzione. Le acque interne, salate, calde, e povere d’ossigeno, si riducevano, nei periodi di maggior siccità, a misere pozze separate da distese di fango. I pesci

polmonati fra cui i ripidisti (diversi dagli altri per le narici olfattive in comunicazione con il retrobocca anziché a fondo cieco e per un polmone rudimentale costituito dalla vescica natatoria fortemente vascolarizzata) e i pesci branchiati combattevano la loro silenziosa lotta per la vita. Vennero selezionati positivamente gli animali capaci di superare periodi sempre più lunghi di lontananza dall’acqua. Fu l’inizio dell’avventura dei pesci polmonati, che potevano provvisoriamente respirare anche l’ossigeno dell’aria e superare, con diverse strategie, i periodi di secca. I dipnoi si arrotolavano nel fango, entrando in una sorta di letargo e riprendendo vita non appena l’acqua tornava. Nello stesso modo i loro pronipoti, che oggi vivono nei fiumi africani, superano i periodi più aridi. I

LA SPIRALE DEL TEMPO Questa illustrazione schematizza la lunga storia della vita sulla Terra mettendo in evidenza gli ultimi 500 milioni di anni.

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ripidisti strisciavano invece da una pozza all’altra in cerca d’acqua. Paradossalmente, dunque, fu proprio il bisogno d’acqua a spingere questi vertebrati alla conquista della terraferma. La struttura delle pinne consentì loro il grande passo: erano lobate (cioè attaccate al corpo mediante un’appendice, contrariamente a quanto succede in tutti gli altri pesci) e sostenute da numerose ossa disposte non più a ventaglio ma in fila, come sono oggi le ossa nell’arto dei vertebrati terrestri a quattro zampe, dagli anfibi ai mammiferi. Anche la presenza di un’articolazione delle pinne lobate con la spina dorsale (primo rudimento del cinto pelvico) era un’innovazione che dava maggior sostegno al corpo permettendo il movimento sulla terraferma. La storia dei vertebrati che escono dall’acqua

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LA CONQUISTA DELLA TERRAFERMA Nel Devoniano la conquista della terraferma è in pieno svolgimento. Dopo le piante e i primi artropodi, anche i vertebrati con il gruppo degli anfibi (come Ichthyostega) si trascinano fuori dall’acqua.

PROTO-PESCE Un fossile di Cephalaspis. Questi animali hanno popolato i mari del Siluriano in un periodo compreso fra 443 e 419 milioni di anni fa. Il corpo, protetto nella parte anteriore da una corazza, ha una coda dalla struttura “segmentata” ancora simile a quella dell’anfiosso.

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CAPITOLO 3

è ben documentata dai fossili del Devoniano. Non solo. Al largo del Madagascar vive ancora oggi un sarcopterigio, Latimeria, che nuota in modo assai peculiare per un pesce, muovendo in modo alternato e sincrono le pinne lobate: di fatto nuota come un cane, usando le pinne

come quasi tutti i vertebrati quadrupedi terrestri usano le zampe. Il modo di nuotare di Latimeria è la chiave del passaggio dei pesci polmonati dal mare alla terraferma: anziché rintanarsi nel fango come i dipnoi, gli antenati di questo “fossile vivente” si spostavano da una pozza all’altra

strisciando ventre a terra e spingendosi con le pinne così come si muovevano nell’acqua. La terraferma si aprì a questi pesci con le sue enormi distese di piante che popolavano, già da milioni di anni, i continenti emersi. Man mano che la selezione naturale aveva favorito nelle alghe la formazione di cuticole di rivestimento e di strutture di sostegno, le piante, sempre meno dipendenti dall’acqua, si erano allontanate dalle coste, addentrandosi sulla terraferma. Erano epatiche, muschi, equiseti e felci, e al loro seguito mosse un esercito di invertebrati. Questa Terra, coperta di piante primitive e popolata di milioni di ragni, di insetti, di scorpioni e di blatte, accolse i nuovi esseri in cerca d’acqua. Senza competitori né predatori, i sarcopterigi si trasformarono lentamente, sottoposti a selezione in funzione di una maggiore indipendenza dall’acqua: la terraferma era un mondo sterminato, ricco di nicchie ecologiche non ancora sfruttate e offriva, rispetto all’oceano, una maggiore possibilità di sopravvivere e di riprodursi. Verso la fine del Devoniano, 365 milioni di anni fa, comparve Ichthyostega, una forma intermedia fra pesce e anfibio. La coda è chiara-

PESCI IN EVOLUZIONE Una volta acquisite la forma idrodinamica e la particolare struttura articolata delle pinne che hanno garantito loro il successo nell’ambiente acquatico, i pesci hanno mantenuto fino a oggi le loro caratteristiche principali, così come testimoniano questi esemplari. Quello sopra è un raro fossile di Eoplatax papilio, rinvenuto nell’area di Bolca.

mente legata al nuoto, ma le zampe sono già adatte a strisciare ventre a terra. Come negli anfibi attuali, Ichthyostega respirava probabilmente con i polmoni nella fase di adulto e con le branchie allo stadio di girino. Furono dunque gli anfibi i primi vertebrati terrestri. Profondamente legati all’acqua per la fecondazione esterna, lo sviluppo dell’uovo e lo stadio di girino branchiato prima della metamorfosi, questi animali dovevano vivere nelle sue dirette vicinanze. Di acqua avevano continuamente bisogno perché ne eliminavano una grande quantità con le urine e le feci e perché l’epidermide, non protetta da uno strato corneo che impedisse la disidratazione, doveva essere sempre bagnata: attraverso la pelle umida avveniva parzialmente la respirazione, poiché i polmoni, non sufficientemente sviluppati, erano incapaci di svolgere da soli questa funzione. Lentamente il clima stava cambiando di nuovo. Nel periodo caldo-umido che seguì al Devoniano, le piante, ancora dipendenti dall’acqua per la riproduzione, coprirono la Pangea di imponenti foreste, di lussureggiante vegetazione. Felci e licopodi raggiunsero i 20 metri, le dimensioni di alberi

VERSO LA TERRAFERMA Un perioftalmo si arrampica su una radice di mangrovia, in Malesia: particolari adattamenti gli consentono di sfruttare la nicchia costiera di terraferma, molto ricca di insetti. Si può supporre che in un passato remoto siano esistiti pesci in grado

di muoversi nel fango, impiegando le pinne come fossero zampe: si sarebbero così conquistati un habitat ricco di nutrimento e sicuro dai predatori.

LE VIE DELLA VITA

enormi, mentre gli equiseti giganti svettavano con tronchi alti fino a 30 metri. Tutto grondava acqua, nelle foreste del Carbonifero. Il sottobosco immerso nel pantano, coperto di epatiche e muschi, era ingombro dei tronchi di quelle piante gigantesche che, prive di vere radici, cadevano a terra facilmente. Ovunque brulicava la vita. Gli invertebrati fitofagi e demolitori erano il secondo gradino della piramide alimentare sorretta dall’enorme biomassa vegetale, e gli invertebrati carnivori e necrofagi erano il terzo: milioni di insetti, millepiedi e scorpioni, libellule e ragni che si mangiavano l’un l’altro. All’apice, dominatori incontrastati erano gli anfibi, che si differenziarono in forme diverse, raggiungendo dimensioni gigantesche: Eryops, per esempio, raggiunse i 3 metri di lunghezza, dei quali uno tutto di cranio. Poi, circa 250 milioni di anni fa, in un gruppo di anfibi che chiamiamo rettilomorfi avvenne qualcosa di speciale. Per analogia con il comportamento che presentano oggi alcune rane tropicali, possiamo ipotizzare cosa più probabilmente successe in quei giorni lontani: alcuni rettilomorfi

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CAPITOLO 3

DAI PESCI AI TETRAPODI Un celacanto del genere Latimeria fotografato al largo delle coste del Madagascar. La struttura delle pinne di questo pesce prelude a quella degli arti dei tetrapodi, i vertebrati terrestri dotati di quattro zampe. Da forme simili a Latimeria, considerata oggi come un “fossile vivente”, si presume che possano discendere i vertebrati terrestri.

iniziarono a deporre le uova non più nell’acqua ma nelle cavità degli alberi o sulle foglie. E poiché l’ambiente acquatico era infestato da predatori voraci, questo comportamento venne selezionato favorevolmente per il fatto che garantiva un maggior successo riproduttivo. Le uova dovevano però resistere all’essiccamento dell’aria e già avevano, probabilmente, un abbozzo di quelle strutture (gli annessi embrionali) che consentono lo sviluppo dell’embrione quando l’uovo è deposto sulla terraferma. Anche le rane tropicali che abbiamo preso a esempio hanno un uovo con annessi embrionali molto primitivi: una membrana avvolge l’embrione, un’altra ha un compito respiratorio e un ridottissimo sacco vitellino ha funzione nutritiva. Fu questo, forse, il primo passo verso l’uovo amniotico, la conquista evolutiva che svincolava completamente dall’acqua i vertebrati. Avvenne forse così il passaggio da anfibio a rettile: grazie all’adattamento dell’embrione alla terraferma mentre gli adulti, più abili a nuotare che a strisciare, vivevano forse ancora nell’acqua. Per ora quest’ipotesi non ha

LA VITA VERDE Le piante colonizzarono le terre emerse milioni di anni prima dei vertebrati. Favorite dal clima caldo umido, ebbero un enorme sviluppo nel Carbonifero, coprendo la terraferma di foreste molto diverse da quelle di oggi, con felci, equiseti e licopodi giganti.

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GOCCE DI RESINA In questo blocco d’ambra opportunamente illuminato si distingue un insetto. La sua forma è quasi del tutto identica a quelli dei giorni nostri. Rimasto invischiato nella resina secreta dalle conifere del passato è giunto fino a noi racchiuso in questo frammento. Insieme alle piante, gli invertebrati furono tra i primi organismi colonizzatori delle terre emerse.

conferme: le prime uova fossili, infatti, risalgono “solo” a 200 milioni di anni fa, milioni di anni dopo gli avvenimenti appena descritti, e sono già uova amniotiche di rettili. Già nel Carbonifero, alcuni anfibi, i seimuriamorfi, cominciarono a sviluppare caratteristiche rettiliane. Seymouria, per esempio, che visse nel Permiano, aveva ancora il cranio largo e appiattito dei suoi predecessori, ma la struttura delle vertebre, delle scapole, degli arti e delle dita era già simile a quella di un rettile. E può darsi che anche le sue uova avessero una struttura molto simile a quella di un uovo amniotico. Comunque sia andata, alla fine del Carbonifero, Hylonomus mostra inequivocabilmente i caratteri di un rettile dall’aspetto di una lucertola: lungo appena 30 centimetri, si nutriva probabilmente di insetti e, incapace di camminare con agilità, viveva nelle paludi. Ma ormai la grande metamorfosi era compiuta: tutti gli elementi che avrebbero permesso ai rettili di diventare i padroni del mondo erano già messi a punto. Alla fine del Permiano, l’era degli anfibi era ormai al termine. Finché il clima caldo-umido

UN REGNO DI ANFIBI Una salamandra, rappresentante vivente degli anfibi. Dei suoi antenati, che raggiunsero forme gigantesche dominando il mondo del Carbonifero, conserva ancora la struttura, il metabolismo e la dipendenza dall’acqua.

si era mantenuto costante, erano rimasti, per oltre 70 milioni di anni, padroni incontrastati delle terre emerse. Ma una vasta glaciazione colpì la parte australe del Pianeta, disturbando l’equilibrio climatico che durava da millenni. Grandi quantità di acqua furono bloccate sotto forma di ghiacci, sottratte al ciclo atmosferico. Le paludi, i fiumi e vasti laghi evaporarono, lasciando ampi deserti di sabbia e pietre. La temperatura si abbassò, il clima divenne arido e molto meno caldo. Per gli anfibi fu l’inizio del declino. Per i nuovi vertebrati della Terra, i rettili, fu l’inizio di un grande futuro.

IL VANTAGGIO DI ESSERE RETTILE Il progressivo inaridimento del clima creò altre nicchie ecologiche e nuove possibilità evolutive per i rettili. Tutto, in un rettile, sembra infatti progettato al risparmio dell’acqua e adatto a un clima caldo-secco. A partire dalla loro innovazione più grande: l’uovo amniotico che i rettili, a differenza degli anfibi, depongono sulla terra. Qui dentro, equipaggiato di tre sacchetti (gli annessi embrionali) che gli consentono di sopravvivere in un ambiente ostile, ogni individuo passa, per così dire, lo stadio di girino: la membrana

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CAPITOLO 3

LA DIFESA DELLE UOVA Su una foglia della foresta tropicale, un maschio di rana di vetro monta la guardia alle sue uova: il compito è di inumidirle e di difenderle da parassiti e predatori come vespe,

ragni e serpenti. A destra: al sicuro, incapsulati in spessi strati di gelatina che prevengono l’essiccamento, i girini di rana dorata si sviluppano nelle uova deposte su una foglia.

amniotica mantiene l’embrione in un ambiente liquido fin quasi alla nascita; il sacco vitellino, collegato con l’intestino, gli fornisce il nutrimento e l’allantoide raccoglie i prodotti di rifiuto; il tutto racchiuso in un guscio poroso che impedisce la disidratazione e permette la respirazione a opera della membrana interna molto vascolarizzata. Una struttura particolarmente efficiente, tanto che si mantiene, per-

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CAMBIA IL CLIMA A destra: il più grande ghiacciaio del Nord America, la catena dei monti S. Elia, in Alaska. Alla fine del Permiano, una vasta glaciazione colpì la parte australe del Pianeta; la segregazione dell’acqua in forma solida aggravò il profondo cambiamento climatico in atto: l’umidità atmosferica e le precipitazioni diminuirono con la conseguente formazione di vasti deserti. L’avanzata dei deserti determinò il successo evolutivo dei rettili. Il massiccio dello Hoggar, nel Sahara algerino (sotto) e il lago Band-i-Amir, in Afghanistan (nella pagina accanto, sotto), danno un’idea del mondo che li accolse.

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PROTO-RETTILI Fossile di Seymouria che risale al Permiano: si tratta di una forma intermedia fra anfibi e rettili, dal cranio largo e appiattito tipico degli anfibi labirintodonti, ma con le vertebre e gli arti già rettiliani, tipico degli anfibi suoi predecessori. Più che un diretto antenato dei rettili, appartenne forse a una linea laterale del loro albero genealogico, che si estinse.

fezionata di poco, anche nell’uovo d’uccello. Una volta uscito dall’uovo, un rettile è già in grado di affrontare qualsiasi ambiente, a parte le regioni troppo fredde. Per raggiungere la temperatura interna necessaria alle reazioni chimiche della vita, infatti, esso dipende dal sole: è cioè un animale ectotermo. A differenza dei mammiferi e degli uccelli che sono endotermi (traggono cioè energia termica da quello che mangiano, e sono perciò perennemente affamati), i rettili sono poco dipendenti dal cibo e possono vivere anche in ambienti poveri di

vita come i deserti. Questi animali non possono però sopportare né il freddo né il caldo eccessivi. Se gli endotermi infatti riescono a sopravvivere anche a temperature molto rigide grazie agli strati di grasso sottocutaneo, alle piume o al pelo, i rettili non hanno alcuna risorsa contro il freddo, e l’unica difesa per superare i periodi rigidi è quella di rintanarsi sottoterra, in una sorta di letargo. D’altra parte sono pochi gli esseri viventi che tollerano una temperatura interna più alta di 40 °C: una volta raggiunte al sole le condizioni ottimali i rettili si riparano dunque all’ombra o nelle cavità delle rocce. A differenza dell’endotermia, l’ectotermia implica

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RAGIONI DI SUCCESSO L’uovo amniotico dei rettili (sopra) fornisce all’embrione l’ambiente acquatico necessario allo sviluppo: è per le sue caratteristiche rivoluzionarie che questi animali sono affrancati dall’acqua. Grazie alle caratteristiche della loro pelle e del loro metabolismo, inoltre, i rettili possono vivere in ambienti aridi come i deserti (al centro): la loro

capacità di adattamento, ha consentito ai rettili di occupare anche le nicchie acquatiche un tempo dominio dei grandi anfibi. A destra in alto: per la necessità di nutrirsi di alghe, l’iguana delle Galapagos, adattatasi alla nicchia della costa marina, ha imparato a rimanere sott’acqua in apnea per molti minuti. A lato: un coccodrillo in agguato emerge da uno stagno mimetizzato dalle alghe.

un metabolismo poco elevato (una condizione compatibile anche con la struttura rettiliana del cuore dove il sangue venoso ed arterioso si mescolano) e un rettile non può svolgere a lungo un’attività fisica intensa. La pelle, resa impermeabile da uno strato corneo superficiale di cellule morte, impedisce la perdita di liquidi per evaporazione. Al contrario degli anfibi, dunque, la respirazione avviene completamente per mezzo dei polmoni che sopperiscono da soli ai bisogni del corpo grazie ai numerosi alveoli in cui sono divisi e che aumentano notevolmente la superficie utile agli scambi gassosi. Un particolare metabolismo, infine, consente ai rettili un ulteriore, notevole risparmio idrico. Essi, infatti, producono nel processo di demo-

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CAPITOLO 3

lizione delle proteine, l’acido urico, un composto non tossico. Pesci e anfibi invece, durante lo stesso processo, sintetizzano ammoniaca, una sostanza estremamente reattiva che deve essere fortemente diluita per non danneggiare le cellule: una via metabolica più semplice, particolarmente adatta ad animali che vivono in un ambiente acquatico. Così i rettili possono avere prodotti di rifiuto pressoché solidi, dato che l’acqua viene quasi completamente riassorbita nell’ultimo tratto dell’intestino, mentre pesci e anfibi ne eliminano in grande quantità con le urine e le feci. Particolarmente adatti alla nuova situazione climatica, i rettili partirono alla conquista della Terra. Nei 150 milioni di anni successivi alla loro comparsa, mentre la Terra manteneva costantemente un clima caldo e arido, questi animali occuparono tutti gli ambienti disponibili con forme perfettamente adatte a popolare la terraferma, a planare nell’aria o a nuotare nei vasti mari.

EVOLUZIONE DEI RETTILI Già alla fine del Carbonifero, subito dopo la comparsa dei primi Hylonomus, dal ceppo originario dei rettili si staccarono rapidamente diverse linee evolutive tra le quali se ne possono identificare quattro principali, caratterizzate dal progressivo aumento di aperture nel cranio. I rettili più primitivi hanno, oltre alle cavità

PELLE A CONFRONTO Il primo piano dell’iguana (sotto) permette di riconoscere immediatamente le caratteristiche principali e diversificate dell’epidermide dei rettili. Questo tipo di pelle è impermeabile perché ricoperta da uno strato corneo formato dai residui di cellule morte: qui sono evidenti le squame, prodotte da un ispessimento dello strato corneo, intervallate da zone più sottili ed elastiche. Accanto e sotto, un dettaglio di pelle di un pesce osseo, ricoperta di scaglie, e un dettaglio di pelle di un anfibio. In questi ultimi animali lo strato corneo è quasi assente: non protetti dalla disidratazione, essi devono mantenere la pelle sempre umida.

orbitali e nasali (presenti in tutti i vertebrati), una cavità pineale, sede di un rudimentale organo di percezione luminosa; a queste, nelle linee più evolute, se ne aggiungono altre dette “finestre” e poste lateralmente alle orbite o sopra al tetto cranico. La loro presenza è dovuta probabilmente a ragioni statiche (alleggeriscono il cranio) e a ragioni funzionali (più spazio a disposizione dei muscoli che muovevano la mandibola e che, contraendosi, aumentavano di volume). I rettili più primitivi, gli anapsidi, hanno dunque un cranio compatto. I rettili che presentavano una sola finestra nella parte inferiore (sinapsidi) hanno dato origine ai mammiferi. Ai diapsidi, con due finestre (una superiore e una inferiore) separate da una barra ossea appartengono le tartarughe, che hanno evoluto un cranio compatto come quello dei primi rettili, i lepidosauri (antenati di lucertole,

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serpenti e di gran parte dei rettili marini) e gli arcosauri. Capostipiti di quella linea evolutiva che diede origine a coccodrilli, pterosauri, dinosauri e quindi anche uccelli, gli arcosauri cominciarono a differenziarsi 230 milioni di anni fa, dimostrandosi il gruppo più versatile.

Alla fine del Carbonifero, i primi a comparire furono i pelicosauri. Piccoli insettivori non più grandi di una lucertola, essi iniziarono la lunga strada dell’evoluzione dei mammiferi e, evolvendosi rapidamente in forme sempre più grandi, raggiunsero, nel Permiano, le dimen-

NON-EVOLUZIONE Fossile di Crocodilemus robustus, “l’antenato” dell’attuale coccodrillo che visse nel Triassico circa 240 milioni di anni fa: già allora adattati perfettamente all’ambiente in cui vivevano, i coccodrilli hanno sostanzialmente mantenuto la stessa struttura.

UN TURBO NATURALE Con la grande cresta sul dorso, Dimetrodon era forse in grado di regolare la propria temperatura corporea ed essere attivo già dalle prime ore dell’alba.

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TERZIARIO

5 ofidi

uccelli

mammiferi

cheloni

65

CRETACICO

sauri

loricati

plesiosauri rincocefali 136

GIURASSICO

ARCOSAURI

ittiosauri 195

TRIASSICO

TERAPSIDI

225

placodonti

PERMIANO

eosuchi

COTILOSAURI

PELICOSAURI

CARBONIFERO

280

milioni di anni fa 345 EURIAPSIDI

EVOLUZIONE E TASSONOMIA In base alla presenza di aperture nel cranio si possono mettere in evidenza le linee evolutive dei rettili a partire dal Permiano. Il cranio compatto, senza aperture, è tipico degli anapsidi, rappresentati oggi dai cheloni

ANAPSIDI

DIAPSIDI

(tartarughe e testuggini). I sinapsidi hanno invece il cranio con una sola finestra, collocata verso il basso: questo gruppo accoglie tutti animali estinti, antenati dei mammiferi. I rettili euriapsidi avevano anch’essi un cranio con una sola finestra, ma spostata

SINAPSIDI

verso l’alto: questo gruppo accoglie i numerosi rettili marini estinti. Alla linea evolutiva dei diapsidi, rettili dal cranio alleggerito da due finestre, appartengono i coccodrilli, i dinosauri, gli uccelli, i tecodonti e gli pterosauri, i grandi rettili volanti del passato.

sioni di un rinoceronte. È difficile riconoscere in Dimetrodon un nostro antenato: una grossa lucertola di 2 metri e mezzo con una lunga coda e un’enorme cresta sul dorso, forse molto vascolarizzata, che aveva probabilmente un ruolo importante nella regolazione della temperatura corporea. Esponendo la cresta al sole del mattino, infatti, la temperatura del sangue si innalzava, consentendo all’animale di affrontare le sue attività di caccia più rapidamente di quanto avrebbe fatto se ne fosse stato privo, e se Dimetrodon era surriscaldato, la sua vela al vento o all’ombra poteva smaltire il calore eccessivo altrettanto velocemente. Iniziò così, con la cresta dorsale di Dimetrodon, la lunga via che portò i mammiferi all’omeotermia. La fine del Permiano, 251 milioni di anni fa, vide la scomparsa dei pelicosauri più arcaici, e l’affermazione dei terapsidi. Detti rettili-mammiferi per le loro caratteristiche (denti, arti e cranio sono già molto simili a quelli dei mammiferi), questi animali avevano una struttura scheletrica completamente nuova e molto più idonea al movimento sulla terraferma: la coda era ridotta, il corpo compatto, le zampe posteriori più lunghe, in grado di sostenere una breve corsa al trotto. Essi furono, probabilmente, per la prima volta nella storia dei vertebrati, animali endotermi: forse già coperti di un pelo primitivo e ormai indipendenti dal clima dell’ambiente, questi rettili riuscivano infatti a vivere anche in regioni con temperature rigide. Alcuni erano erbivori: erano i dicinodonti che, forniti di due zanne nella mascella e di un becco privo di denti simile a quello di una tartaruga, si nutrivano di piante d’ogni tipo, dalle tenere felci alle coriacee cicadee. Erano i più grandi vertebrati del tempo e pascolavano in mandrie, cacciati dai terapsidi cinodonti, voraci carnivori dall’aspetto di un cane. Alla fine del Permiano comparve dunque sulla Terra, per la prima volta, una comunità ecologica simile a quella delle odierne savane afri-

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cane, con grandi mandrie di erbivori grossi come rinoceronti cacciate da piccoli gruppi di predatori.

I PROGENITORI DEI DINOSAURI Contemporaneamente, i diapsidi, comparsi alla fine del Permiano, si differenziavano in lepidosauri e arcosauri. Nei primi si specializzarono progressivamente le strutture del cranio fino a quella flessibilità che oggi consente a un serpente o a una lucertola, loro discendenti, di addentare e ingoiare una preda. Il resto del corpo rimase invece primitivo: una lucertola si muove ancora in modo molto simile a un anfibio come la salamandra. Le zampe sono poste lateralmente al corpo; il primo osso (omero o femore) è parallelo al suolo, l’articolazione (del gomito o del ginocchio) è rivolta in fuori: questi animali, di fatto, “nuotano” sul terreno ondulando la colonna vertebrale. Lo si

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CAPITOLO 3

VERSO I DINOSAURI Raffronto fra l’andatura, la conformazione morfologica, la struttura del bacino e l’impianto degli arti di un coccodrillo attuale e di Euparkeria, un arcosauriforme proterosuchide. In generale, gli arti dei rettili volti lateralmente rispetto al corpo, non sono in grado di sostenere il peso corporeo durante il movimento: più che camminare, essi strisciano sul terreno. I coccodrilli si sollevano sulle zampe per brevi tratti di corsa al trotto; Euparkeria possedeva probabilmente questa andatura semieretta, ma era anche in grado di sostenere il proprio peso in modo più efficiente, acquistando un’andatura a passi più lunghi.

vede bene nei serpenti, lepidosauri che hanno “perso” le zampe durante la loro evoluzione. Gli arcosauri, invece, subirono una profonda modificazione delle strutture del bacino e dell’articolazione delle zampe che vennero a disporsi sotto il corpo. Un abbozzo di questa struttura, che li porterà a diventare i primi veri camminatori terrestri, si trova già nei primi arcosauriformi, i proterosuchidi. Il loro rapidissimo successo fu dovuto al differenziarsi di varie specie in grado di occupare tutti gli ambienti disponibili nel clima caldo-arido della Pangea fin dalla fine del Permiano: alcuni vivevano nelle acque dolci come i coccodrilli, altri erano predatori terrestri, altri ancora colonizzarono persino gli alberi. Le caratteristiche anatomiche di Euparkeria, piccolo arcosauriforme proterosuchide dall’aspetto di una lucertola, poco più grande di un metro, agile e snello, la lunga coda a bilanciare il peso del corpo appoggiato sulle zampe

posteriori, riassumono molto bene le doti che qualificano questi arcosauriformi come lontani progenitori degli arcosauri. Il cranio è snello e alleggerito da un totale di dieci aperture, dette finestre. Le finestre sono separate da ponti ossei, ma la scatola cranica è compatta e priva dell’occhio pineale, mentre la mandibola ha due aperture laterali. La leggerezza e, allo stesso tempo, la robustezza di questo tipo di cranio che doveva proteggere validamente il cervello e dare impianto ai muscoli masticatori, si sono dimostrate caratteristiche importanti che hanno poi consentito nei dinosauri lo sviluppo di dimensioni enormi: il cranio del tirannosauro raggiunse addirittura il metro e mezzo di lunghezza. La struttura del bacino e delle zampe di Euparkeria possiede già quei caratteri speciali che fecero degli arcosauri degli efficienti camminatori e corridori terrestri. L’ileo, allungato, è in rapporto con un osso sacro formato da più di due vertebre fuse, come è invece nei rettili più

DIFFERENZE FONDAMENTALI Un fossile di Coelophysis, uno dei dinosauri saurischi più antichi, è molto simile a Euparkeria. A differenza di quest’ultimo, però, ha cinque vertebre sacrali fuse, e gli arti posti verticalmente sotto il corpo, a sostenerne il peso: queste strutture differenziano i dinosauri da tutti gli altri rettili mai esistiti. Coelophysis doveva essere molto simile a Euparkeria oltre che per la forma slanciata anche per le sue abitudini predatorie; a differenza di Euparkeria, bipede facoltativo, era sicuramente in grado di muoversi sulle zampe posteriori con sicurezza e velocità.

primitivi. La maggiore estensione dell’attacco fra l’ileo e l’osso sacro testimonia la possibilità del bacino di sostenere un carico maggiore e consentire così un’andatura bipede. Ischio e pube sono allungati e parzialmente rivolti verso il basso, per inserire i muscoli legati al movimento dell’arto posteriore. Il femore, curvato, ha la testa, spostata lateralmente e fortemente accentuata, alloggiata nell’acetabolo, una tasca laterale dell’anca formata dall’unione delle tre ossa del bacino. Questa particolare articolazione del femore, capace di sostenere il peso del corpo, permetteva ai proterosuchidi di tenere la zampa sia lateralmente in fuori, come nelle lucertole, sia parzialmente diritta sotto al corpo, come nei mammiferi. Le zampe anteriori, infine, erano più corte, adatte ad afferrare il cibo: Euparkeria poteva dunque essere anche bipede. I proterosuchidi avevano quindi un’andatura “semieretta”, con il corpo sollevato da terra. Ed è proprio una struttura dell’anca simile a questa la caratteristica ana-

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tomica che ha permesso ai dinosauri, quadrupedi e bipedi, di reggersi perfettamente eretti. Anche per l’impianto dei denti, che per la prima volta nel mondo animale sono accolti in una cavità dell’osso, l’alveolo, ed è dunque detto “tecodonte”, Euparkeria fornisce un buon esempio delle caratteristiche vincenti del gruppo. I nuovi denti, infissi negli alveoli anziché semplicemente appoggiati alle ossa della bocca come negli altri rettili, avevano una capacità, fino allora limitata, di strappare, dilaniare, triturare, macinare e masticare il cibo, e aprivano le porte a una straordinaria varietà di diete. E infatti gli arcosauriformi carnivori, divenuti veri e propri arcosauri, veloci nella corsa ed equipaggiati con denti tecodonti taglienti, parzialmente rivolti all’indietro, specializzati a tagliare e a dilaniare, affiancarono rapidamente i terapsidi ai vertici delle catene alimentari di tutta la Pangea, per poi arrivare a spodestarli: era la fine del Triassico e apparvero sulla scena della vita i primi dinosauri.

ANATOMIA DI UN DINOSAURO Già quarant’anni dopo la loro scoperta, ci si rese conto che i dinosauri erano un gruppo ampio ed eterogeneo. Il modo di raggruppare questi animali proposto da Owen fu per un certo periodo abbandonato, e il gruppo dei dinosauri venne sostituito da due gruppi: gli ornitischi e i saurischi. Oggi saurischi e ornitischi sono di nuovo considerati parte di un unico gruppo, detto Dinosauria, ma ci sono ancora studiosi che non concordano sul contenuto del gruppo Saurischia. La struttura che più accomuna tutti i dinosauri è l’acetabolo bucato, con l’apertura sormontata da una cresta dell’ileo in modo che il femore, con una testa molto accentuata, è incastrato saldamente in questa tasca dell’anca. Questa particolare articolazione, che non compare in altri rettili, permette alle gambe di disporsi diritte come colonne sotto al corpo, così che questi animali possono camminare perfettamente eretti come oggi fanno solo mammiferi e uccelli.

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L’impianto colonnare degli arti è un’innovazione strutturale di enorme importanza: non solo permette movimenti agili e veloci, ma è anche condizione indispensabile per sviluppare una grande mole corporea. Animali come il brachiosauro, alto 13 metri, o l’apatosauro, di oltre 30 tonnellate, si sono potuti evolvere solamente perché avevano proprio questo tipo di impianto colonnare delle zampe posteriori. La differenza più evidente fra i due gruppi di dinosauri sta nella struttura del bacino: nei saurischi ha caratteristiche più rettiliane, negli ornitischi assume un aspetto paragonabile a quello degli uccelli, anche se non c’è relazione evolutiva fra questi due gruppi di animali (gli uccelli, infatti, discendono dai saurischi). Ma altre e più sottili differenze strutturali li separano. I saurischi più antichi, come Coelophysis, avevano un’architettura scheletrica molto leggera: le ossa lunghe erano cave, quelle piatte molto sottili; il cranio alleggerito da due finestre in più rispetto a quello di Euparkeria. La bocca era armata di denti aguzzi e sottili, il collo e la coda molto lunghi, le gambe tipiche del bipede e le braccia, corte e artigliate, adatte ad afferrare. Nel complesso avevano la struttura snella e leggera di un carnivoro bipede aggressivo, veloce ed efficiente. Anche il bacino di Coelophysis è chiaramente distinguibile da quello di un arcosauriforme come Euparkeria. Il lungo ileo è in rapporto con un osso sacro formato da cinque vertebre fuse. Ischio e pube sono lunghi e sottili: il primo rivolto indietro, il secondo in avanti. Ma il pube si allunga quasi quanto il femore. Infine la testa del femore entra profondamente nell’acetabolo. Ed è proprio nella struttura del bacino che Coelophysis si differenzia anche dagli ornitischi: mentre infatti i saurischi hanno il pube rivolto in avanti e l’ischio rivolto indietro, negli ornitischi anche il pube è rivolto all’indietro, parallelo all’ischio, e perde la sua funzione di attacco dei muscoli che viene assunta invece da un processo prepubico allungato nella parte anteriore.

RETTILI A CONFRONTO La struttura scheletrica, la postura, il cranio e la probabile articolazione dell’anca di Euparkeria, tipico arcosauriforme proterosuchide, sono messi a confronto con quelli di Coelophysis, dinosauro primitivo. Negli arcosauriformi antenati dei dinosauri, la postura è semieretta; il femore, alloggiato con la testa in una tasca dell’anca, è volto lateralmente e verso il basso: la zampa perciò può anche oscillare in avanti oltre che lateralmente. La tasca chiusa in cui alloggia la testa del femore è evidente nel bacino di Ticinosuchus (a), un rettile fossile ritrovato in Svizzera probabilmente molto simile a Euparkeria: è una struttura diversa da quella di Coelophysis, dove le ossa che formano il bacino permettono alla testa del femore, girata all’interno, di incastrarsi nell’acetabolo, un incavo forato. Nei dinosauri, dunque, la postura è completamente eretta, e il femore è saldamente trattenuto nell’articolazione da una cresta ossea. Gli arti possono così sostenere il peso del corpo oscillando esclusivamente avanti e indietro: ciò comporta ulteriori modificazioni scheletriche come il potenziamento delle ossa dal bacino ottenuto con la funzione delle cinque vertebre sacrali; la modifica della posizione del ginocchio rispetto all’anca e al piede; l’allungamento delle ossa del piede. A differenza dei rettili semieretti come Sphenodon (b), nel quale lo scheletro dell’arto mostra la posizione appiattita a terra assunta dal piede, i dinosauri si sollevano sulle dita, diventano digitigradi: grazie a questa postura, essi possono realizzare l’andatura bipede e, primi veri camminatori terrestri, evolversi fino ad assumere dimensioni davvero enormi.

EUPARKERIA

POSTURA

CRANIO

ARTICOLAZIONE DELL’ANCA ilio pelvi

ischio

acetabolo acetabolo femore

femore (b)

pube (a)

caviglia

COELOPHYSIS

POSTURA

femore CRANIO

ARTICOLAZIONE DELL’ANCA ilio cartilagine?

ilio

cresta sopra-acetabolare testa del femore

acetabolo bucato ischio

pube-ischio femore

caviglia metatarso

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BACINI ORNITISCHI

Hypsilophodon

Iguanodon

Triceratops

Dyoplosaurus

Negli ornitischi il cranio, quello tipico degli arcosauri con dieci aperture, è più massiccio, senza finestre supplementari. La spina dorsale è spesso irrobustita e irrigidita da tendini ossificati che legano fra loro le vertebre, e, unici fra i rettili, hanno le due mandibole unite anteriormente da un osso impari, il predentale, che forma il mento. I saurischi furono sia carnivori che erbivori; gli ornitischi per la quasi totalità erbivori. Rimangono quindi ancora aperti alcuni problemi: che relazione c’è fra questi due gruppi di animali? Che via ha seguito la loro evoluzione?

EVOLUZIONE DI UN ORGANISMO DI SUCCESSO Poiché le forme più primitive di saurischi e di ornitischi si assomigliano (bipedi, zampe anteriori ridotte e posteriori sviluppate, coda e collo lunghi), è probabile che si debba cercare il progenitore di tutti i dinosauri tra i dinosauromorfi dalle caratteristiche ancestrali, comparsi milioni di anni prima. In questo antenato comune si sarebbe sviluppata una

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CAPITOLO 3

DUE GRANDI GRUPPI I dinosauri vengono tradizionalmente suddivisi per la conformazione delle ossa del bacino in due grandi gruppi: ornitischi e saurischi. Gli ornitischi, con l’osso pubico allungato posteriormente, parallelamente all’ischio, hanno un cinto pelvico simile a quello degli uccelli attuali (e da questo deriva il loro nome).

nuova soluzione strutturale del bacino. La precisa origine dei dinosauri è sempre meno oscura, grazie ai ritrovamenti avvenuti nel nuovo millennio. Simili ai primi dinosauri vi furono i silesauridi, da subito in competizione con i terapsidi che fino ad allora avevano avuto il dominio delle terre emerse. Se entrambe le linee evolutive dei mammiferi e dei dinosauri erano già presenti sul finire del Triassico, non è chiaro perché la seconda abbia preso il sopravvento, né perché i mammiferi abbiano condotto una vita quasi “in sordina” per 160 milioni di anni, prima di evolversi pienamente nella grande varietà di forme che hanno oggi. Per capire la ragione evolutiva dei dinosauri, bisogna ripercorrere le tappe dell’evoluzione che portarono dalla stazione strisciante tipica dei rettili a quella eretta caratteristica degli arcosauri. Secondo un’ipotesi, questo cambiamento nella locomozione prese l’avvio dal ritorno di alcuni arcosauri primitivi all’ambiente acquatico. Circa 250 milioni di anni fa, all’inizio del Triassico, gli arcosauri proterosuchidi occuparono la nicchia ecologica semiacquatica delle rive

BACINI NI SAURISCHI

Gallimimus

Tyrannosaurus

Diplodocus

di fiume o di lago lasciata vuota dai terapsidi in estinzione. Predatori, conducevano una vita simile a quella dei coccodrilli, catturando animali acquatici e terrestri. La necessità di muoversi nell’acqua con scatti potenti avrebbe favorito l’evoluzione di animali con una coda dalle funzioni stabilizzanti e di timone, e con arti posteriori robusti adatti alla propulsione. Vennero selezionate positivamente quelle forme di arcosauri che avevano l’articolazione dell’arto posteriore sull’anca raddrizzata in modo da poter estendere l’arto completamente, utilizzandolo come remo molto più facilmente di quanto non potessero fare gli altri arcosauri che avevano un impianto laterale. Questo tipo di articolazione permetteva all’animale anche di sollevarsi da terra quando era a riva e di camminare. Reggendosi sulle sole zampe posteriori per non essere impacciati da quelle anteriori meno sviluppate e bilanciati dalla coda robusta, questi arcosauri sarebbero stati capaci, anche sulla terraferma, di scatti repentini ed efficaci. Sarebbe stata quindi la vita acquatica a selezionare quelle modificazioni strutturali del

GLI ANTENATI DEGLI UCCELLI I saurischi, con il pube rivolto in avanti, hanno un cinto pelvico simile a quello dei rettili attuali. Mentre gli ornitischi accolgono solamente forme erbivore, i saurischi comprendono forme erbivore, carnivore e anche, diversamente da quanto potrebbe far intendere il loro nome, gli uccelli moderni.

bacino, dell’arto posteriore e della coda che furono condizioni necessarie all’evoluzione dei dinosauri bipedi, più efficienti dei mammiferi arcaici. La nuova andatura bipede e l’impianto colonnare degli arti avrebbero dato ai carnivori maggiore agilità e consentito agli erbivori di raggiungere una grande mole. Sebbene quest’ipotesi si basi su resti fossili come quelli di Ticinosuchus ferox, rinvenuti anche in Italia, alcuni paleontologi ritengono che sia stato l’estendersi delle zone desertiche a privilegiare evolutivamente questi rettili, più adatti dei mammiferi a sopportare un clima arido. D’altra parte, accurati esami dei fossili hanno mostrato l’estinzione nel Triassico di numerosi gruppi di rettili: i terapsidi (a eccezione dei mammiferi), quasi tutti i rincocefali e molti arcosauri. Fu il fatto che molte nicchie ecologiche vennero a trovarsi vuote che dette ai dinosauri una possibilità in più di affermazione? È certo che questo deve aver contribuito in maniera determinante alla loro differenziazione. Ebbero origine così le forme innumerevoli e bizzarre che oggi conosciamo.

LE VIE DELLA VITA

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4. La varietà delle forme

PERCHÉ CLASSIFICARE «Quando avevo quattro anni, dicevo che da grande volevo diventare spazzino. Mi piaceva il rumore dei bidoni e del compressore: pensavo che tutti i rifiuti di New York potessero essere compressi in un unico grande camion. Poi, a cinque anni, mio padre mi portò a vedere il tirannosauro esposto al Museo di Storia Naturale di New York. Mentre me ne stavo immobile di fronte alla grande bestia, un uomo nella sala starnutì: io sobbalzai e mi preparai a recitare le

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UN’INCREDIBILE BIODIVERSITÀ Le immagini che appaiono sul video-wall ci danno un’idea dell’incredibile diversità di forme di vita presenti sulla Terra.

mie preghiere. L’animale, tuttavia, non si mosse e io, uscendo dal museo, annunciai a mio padre che da grande avrei fatto il paleontologo». Stephen Jay Gould fu di parola: da grande diventò un eccezionale divulgatore scientifico nonché una delle menti più brillanti della paleontologia moderna, ritrovandosi ancora molte e molte volte faccia a faccia con un dinosauro. Per descrivere i dinosauri nella varietà di specie che presentarono durante i 160 milioni di anni della loro esistenza, si deve trovare un nome

per ciascuna di esse. Il racconto di Gould non avrebbe significato se, invece di poter dire “tirannosauro”, avesse dovuto descriverne accuratamente lo scheletro. Bisogna, dunque, classificare. Il che, per un lettore condizionato dal ricordo di aride esperienze scolastiche, può suonare terrificante, più o meno come quello starnuto per il piccolo Gould. Ma la classificazione è l’unico mezzo che abbiamo per sapere di cosa si stia parlando, e, al pari della ricostruzione dello scheletro, essa può rivelarsi, alla fine, ricca di significati affascinanti. Oggi si conoscono oltre due milioni di specie di esseri viventi e si stima ve ne siano più di otto milioni: per riconoscerle è indispensabile metterle in ordine. Catalogare, del resto, è un’operazione usuale, spesso inconscia, e ogni criterio, più o meno efficace che sia, è sempre arbitrario. Anche la classificazione degli esseri viventi segue criteri arbitrari. Possono essere raggruppati per l’ambiente in cui vivono, per la presenza di zampe, secondo la forma della coda o quella delle radici, e così via. Chi si occupa di classificarli, tuttavia, cerca in qualche modo di ovviare all’inevitabile sogget-

IL RIFORMATORE La statua di Carlo Linneo, il nome italianizzato di Carl von Linné, il medico e botanico svedese, nel museo all’aperto di Skansen, a Stoccolma.

LA CLASSIFICAZIONE DI LINNEO Sotto: una tavola presa da un volume dell’opera Species Plantarum di Linneo, dove lo scienziato presentò un innovativo e funzionale metodo di classificazione degli esseri viventi, partendo dal mondo vegetale.

tività di questa operazione, scegliendo caratteristiche selettive che possano aiutare a costruire un quadro il più possibile aderente a un ordine naturale, ammesso che ne esista uno.

L’ORDINE DI LINNEO Fra il 1753 e il 1759 Carl von Linné, detto Linneo, pubblicò il lavoro che lo aveva visto impegnato per lunghi anni: iniziando con i due volumi del suo Species Plantarum, dove classificava tutte le piante allora conosciute, Linneo intendeva descrivere con i successivi tre volumi del Systema Naturae per Regna tria Naturae tutte le specie di animali e piante conosciute al suo tempo. Il primo volume, il famoso Systema Naturae, fu pubblicato nel 1758; un secondo volume sulle piante, di portata inferiore al precedente, vide la luce l’anno successivo mentre il terzo rimase solo una buona intenzione. Tuttavia, ciò che Linneo aveva fatto era già più che sufficiente a immortalarlo nella storia della scienza. Per mettere un po’ di ordine nelle conoscenze di allora sul mondo naturale, egli escogitò un metodo di classificazione che ancora oggi è il più valido che possediamo. Linneo riunì fra loro in uno stesso gruppo, tutti gli esseri che mostravano evidenti somiglianze fisiche, mettendo in luce quei caratteri distintivi e unici che differenziano una specie dall’altra.

LA VARIETÀ DELLE FORME

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La specie fu infatti l’unità più piccola del suo articolato sistema: un insieme di individui, simili nell’aspetto e nel comportamento che erano in grado, incrociandosi liberamente, di generare prole feconda. Linneo dette a ciascuna specie anche un cognome e un nome: in latino, ovviamente, che a quei tempi era la lingua della cultura. Il primo (il cognome) indica il genere cui la specie appartiene, una categoria di ordine superiore con caratteristiche più generali; il secondo (il nome) indica la specie vera e propria, definita nelle caratteristiche che la differenziano da qualsiasi altra. Questa classificazione binomia ha un’evidente struttura gerarchica: secondo lo stesso criterio che raggruppa in un genere specie diverse ma con caratteristiche simili, anche generi diversi vengono raggruppati in un’altra categoria di ordine superiore, la famiglia. Più famiglie formano un ordine, più ordini una classe, più classi un tipo, o phylum, più tipi un Regno. A “semplificare” il procedimento di catalogazione, vennero poi istituite una serie di categorie intermedie, indicate con i due suffissi super e infra. Classificare un gatto domestico usando questo sistema diventa un gioco di scatole cinesi: si parte prendendo in considerazione le caratteristiche meno specifiche fino a giungere a quelle che tutti gli riconosciamo. È un animale: dunque Regno Animale; è un animale che ha la “corda” (quella struttura anatomica che, nell’embrione, prelude alla colonna vertebrale): dunque tipo Cordati. È un animale cordato provvisto di vertebre: sottotipo Vertebrati; è un animale cordato vertebrato che allatta la prole: classe Mammiferi. È un animale cordato vertebrato mammifero che si nutre di carne: ordine Carnivori. Fin qui questa stessa classificazione potrebbe andar bene anche per la volpe o la foca. Vanno ora considerati, dunque, i caratteri anatomici e comportamentali tipici dei gatti: si crea così prima la famiglia Felidi, che raggruppa anche leoni, tigri, giaguari e puma; poi il genere

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IL PROBLEMA DEI FOSSILI La classificazione di Linneo funziona bene fino a che non ci si trova davanti agli organismi fossili, soprattutto quelli che, per le loro caratteristiche, sembrano appartenere a gruppi intermedi rispetto a quelli tradizionali.

Felis, dove restano insieme al gatto solo animali come il puma, l’ocelot, il serval e lo yaguarondi, e infine si crea la specie Felis catus, una “scatola” dove trova spazio solo il gatto, appunto. In questo modo Linneo incasellò tutto il mondo vivente che conosceva. Il suo lavoro rispecchiava il pensiero, proprio del suo tempo, che il mondo animale e vegetale fosse rimasto inalterato dai tempi della Creazione, strutturato in maniera gerarchica dai protozoi fino al sommo gradino dell’uomo. Era ben lontano, dunque, dall’idea di evoluzione: niente collega fra loro i raggruppamenti tassonomici (o sistematici): sono veri e propri insiemi di esseri “unici”, creati indipendentemente l’uno dall’altro. Ma con la classificazione di Linneo un essere vivente, entrando a far parte di un gruppo, ne assume automaticamente tutte le proprietà. Così un animale considerato mammifero perché ha il pelo, assume tutte le altre caratteristiche della classe: è endotermo, partorisce figli vivi, li allatta, ha un cuore diviso in quattro cavità e così via. Questa maniera di catalogare funziona bene solo finché non ci si trova di fronte a quegli esseri che difficilmente rientrano in una sola

categoria: gli “anelli di congiunzione” che, segnando l’evoluzione dei viventi da un gruppo all’altro, costituiscono i punti d’incontro tra le grandi categorie sistematiche. Doveva intervenire Darwin a rivoluzionare le idee sistematiche e a dare un nuovo significato al Sistema di Linneo.

L’EVOLUZIONE ENTRA NELLA TASSONOMIA Linneo aveva creato un sistema geniale che sopravvisse alla rivoluzione darwiniana. La specie, che egli aveva scelto come unità del suo schema di classificazione, si può infatti inquadrare perfettamente in un’ottica evolutiva. Alla luce di quanto sappiamo oggi, ogni specie è unica e irripetibile, risultato di una storia particolare in un determinato ambiente, altrettanto unico. Selezionata dai meccanismi dell’evoluzione, la specie è una unità genetica, per cui tutti gli individui che le appartengono hanno lo stesso patrimonio ereditario e sono pertanto

IL CONTRIBUTO DELL’EVOLUZIONE Trasformando la rete gerarchica di Linneo in una rete di parentele si riesce a ricostruire la storia della vita sulla Terra tenendo conto della varietà di forme mostrata dai fossili, come esemplificato da questa collezione di ammoniti conservata del Museo di storia naturale a Parigi.

isolati da un punto di vista riproduttivo (non possono cioè che incrociarsi fra loro). Le specie che fanno parte di uno stesso genere, derivano da uno stesso progenitore e sono adattamenti recenti a situazioni ambientali diverse. Analogamente, anche le categorie di ordine superiore rispecchiano parentele fra gli organismi che risalgono a tempi remoti, a progenitori tanto più lontani nel tempo quanto più ampia è la categoria che viene considerata. Ecco quindi che la rete gerarchica del sistema di Linneo si trasforma in una rete di parentele. Lo schema di Linneo era dunque un sistema di classificazione che rispecchiava un ordine naturale, determinato dalle relazioni filogenetiche fra gli esseri viventi. Oggi, per quanto è possibile, si cerca di rappresentare la filogenesi di ciascun gruppo, la sua storia evolutiva, per mezzo di “alberi filogenetici”: gli alberi genealogici degli esseri viventi che sono l’espressione grafica della loro evoluzione più probabile.

LA VARIETÀ DELLE FORME

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ANFIBIO rana

RETTILE tartaruga PESCE crossopterigio (fossile)

MAMMIFERO uomo UCCELLO piccione MAMMIFERO pipistrello

La ricostruzione filogenetica si basa sulle omologie presenti in animali di specie diverse. Per “omologia” si intende una similitudine fra strutture anatomiche presenti in specie diverse, una somiglianza che si giustifica pensando che queste specie derivino da un progenitore comune. Un’omologia tipica è quella fra il braccio di un uomo, l’ala di un pipistrello, la pinna di un delfino e la zampa di un cavallo: questi arti hanno tutti lo stesso progetto strutturale, e le differenze che si riscontrano sono dovute all’adattamento ad ambienti diversi. La presenza di questa omologia (e di altre ancora) indica che uomo, pipistrello, delfino e cavallo discendono da uno stesso antenato e che formano dunque una cosiddetta “categoria naturale”. Se ci fermassimo però a considerare solo la struttura del braccio, dovremmo includere in questa stessa categoria naturale anche rettili, uccelli e anfibi. In effetti una simile categoria

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OMOLOGIE In questa immagine si possono comprendere le omologie nella struttura del braccio di diversi gruppi di animali, tutti legati tra loro da una lunga storia evolutiva.

esiste: è il sottotipo Vertebrati. Ma uomo, pipistrello, delfino e cavallo condividono un’altra omologia che li accomuna esclusivamente fra loro e li differenzia da pesci, anfibi, rettili e uccelli: partoriscono figli vivi e li allattano. Quante più omologie uniche sono condivise da due specie, tanto più strettamente esse saranno imparentate. Classificare, dunque, non è più dare solamente un nome e un cognome a un animale, ma anche capire la sua origine, interpretare l’evoluzione delle sue strutture anatomiche, collegarlo nella rete di parentele con gli altri esseri viventi nel quadro dell’evoluzione. Bisogna dunque saper identificare, e scartare, le “analogie”: quelle somiglianze fra caratteri che si manifestano in specie non imparentate fra loro per il fatto che svolgono una funzione analoga, per adattamento a uno stesso ambiente, motivo per cui vengono anche dette convergenze evolutive

(un esempio: l’ala di un uccello e quella di un insetto, oppure la pinna di un cetaceo e quella di un pesce). Questa ricerca comparata viene estesa anche ai fossili, e le specie estinte vengono incluse nello stesso schema tassonomico di quelle viventi. Le categorie tassonomiche cominciano così a sfumare l’una nell’altra: Seymouria è ancora un anfibio o è già un rettile? Archaeopteryx è ancora un dinosauro o è già un uccello? A questo punto le categorie linneane smettono di funzionare: poiché gli uccelli sono dinosauri, come possono rientrare in una classe che a sua volta sarebbe inclusa in un’altra classe, quella dei rettili? Addentrandoci nel passato, l’operazione del classificare si fa sempre più complessa e difficile, man mano che si devono ricostruire alberi evolutivi di gruppi di animali ormai scomparsi. Spesso molti caratteri necessari a catalogare una specie sono assenti: molte caratteristiche anatomiche non lasciano fossili, e in ogni caso dall’esame di un fossile non si possono ricavare dati certi sul comportamento o sulla fisiologia. La definizione stessa di appartenenza a una specie basata sulla possibilità di riprodursi generando prole feconda non è applicabile al mondo del passato. L’unico modo che si ha per catalogare animali fossili, dunque, è quello di esaminare la loro struttura ossea: un cranio di anfibio si riconosce dalla presenza dei solchi dove alloggiava la linea laterale (un organo di senso); quello di rettile dalla presenza delle due ossa quadrato e articolare; quello di un mammifero dalla presenza dell’incudine e del martello, i due ossicini dell’orecchio medio in cui si sono trasformati, durante l’evoluzione, il quadrato e l’articolare. Analogamente, la suddivisione dei rettili in gruppi dipende dal numero di aperture (o finestre) presenti ai lati del cranio. Anche la classificazione dei dinosauri è la ricostruzione di una storia evolutiva: diventa essenziale perciò una profonda conoscenza delle strutture anatomiche di questi animali, così da

poter riconoscere le omologie e capire quali caratteristiche debbano essere considerate per permetterne la classificazione.

IL LABIRINTO DEI NOMI Seguendo la ricostruzione filogenetica delle parentele tra i vari esseri viventi, i paleontologi di oggi collocano le varie specie di dinosauri in determinati raggruppamenti di gerarchia crescente e basati sulle omologie condivise. Essi vengono chiamati semplicemente gruppi e identificati da un nome riconosciuto dalla comunità scientifica. La specie Tyrannosaurus rex è dunque classificata come segue: Animalia > Chordata > Vertebrata > Tetrapoda > Amniota > Sauropsida > Eureptilia > Diapsida > Archosauria > Dinosauria > Saurischia > Theropoda > Tetanurae > Coelurosauria > Tyrannosauroidea > Tyrannosauridae > Tyrannosaurinae > Tyrannosaurus > Tyrannosaurus rex. Si tratta di un vero labirinto di nomi, e abbiamo indicato solo quelli principali! Non c’è dubbio però che i dinosauri debbano essere classificati tra

LA PREPARAZIONE DEI FOSSILI Per esaminare la struttura ossea di un vertebrato estinto e arrivare a catalogarlo, il fossile deve prima essere completamente estratto in laboratorio dalla roccia che lo contiene.

LA VARIETÀ DELLE FORME

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gli animali, ed è quasi pleonastico dire che avevano una colonna vertebrale: dovevano dunque avere, allo stadio embrionale, una corda, e questa caratteristica li inquadra nei cordati e nel loro sottogruppo dei vertebrati. Per la presenza nel cranio del quadrato e dell’articolare vanno inclusi nei rettili, mentre per quella di due aperture temporali vanno nel gruppo dei diapsidi. Insieme agli uccelli, agli pterosauri e ai coccodrilli, i dinosauri formano poi il gruppo degli arcosauri, accomunati a questi altri animali da un’apertura antorbitale (cioè davanti all’orbita) che poteva servire ad alleggerire il cranio. Come nell’esempio del gatto, poi, dobbiamo analizzare tutti quei caratteri peculiari dei dinosauri che li distinguono dagli altri rettili, così da poterli dividere in gruppi più ristretti. La tassonomia dei dinosauri è sottoposta costantemente a revisione, per il susseguirsi di nuove scoperte scientifiche che arricchiscono la visione degli studiosi sull’evoluzione di questi animali. Il rapporto delle parentele ha confer-

IL RE DEI DINOSAURI Lo scheletro di Tyrannosaurus rex, esposto nel Museo di Storia Naturale di Kitakyushu, in Giappone. Questo enorme dinosauro apparteneva al gruppo dei Saurischia.

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CAPITOLO 4

mato che essi discendono tutti da forme primitive, i dinosauriformi, e che costituiscono una categoria naturale, Dinosauria, suddivisa in gruppi più ristretti, gli ornitischi, i teropodi e i sauropodomorfi. Questi ultimi due gruppi sono spesso riuniti a formare i saurischi, ma classificazioni alternative vedono i teropodi più vicini agli ornitischi che ai sauropodomorfi. In attesa di conferme o smentite da parte degli specialisti su quest’ultima teoria, ci atterremo alla classificazione tradizionale che vede i saurischi come gruppo naturale. I dinosauriformi compaiono nel record fossile circa 245 milioni di anni fa: si tratta di piccoli animali in cui il braccio è ridotto in lunghezza rispetto alla gamba e l’acetabolo, cioè la concavità del bacino che ospita la testa del femore, è parzialmente o totalmente perforato. Alcune tra le forme più basali (cioè alla base del gruppo)

sono raggruppate tra i silesauridi, mentre le altre fanno invece parte di quel grande gruppo che oggi chiamiamo Dinosauria. Caratterizzati da una lunga serie di caratteri condivisi, molti dei quali legati al potenziamento dell’arto posteriore, i dinosauri erano inizialmente piccoli predatori bipedi in un mondo dominato da una gran varietà di altri arcosauri, dai cinodonti e dai rincosauri erbivori. Essi divennero le forme dominanti su tutte le terre emerse subito dopo la grande estinzione che segna il passaggio tra il Triassico e il Giurassico.

VARIETÀ DI FORME E DIMENSIONI Queste ricostruzioni mostrano un esempio della varietà delle forme e delle dimensioni che hanno caratterizzato il mondo perduto dei dinosauri. Da sinistra (dal più piccolo al più grande): Compsognathus, Ornitholestes, Dilophosaurus, Torosaurus, Giganotosaurus e Camarasaurus.

LA VARIETÀ DELLE FORME

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Herrerasauridi Celofisoidi Abelisauridi

Teropodi

Ceratosauri

Compsognatidi

Saurischi

Noasauridi Tirannosauridi Megalosauroidi Ornitomimosauri

Tetanuri Allosauroidi Alvarezsauri Celurosauri Terizinosauri

Prosauropodi Diplodocoidi

DINOSAURI

Sauropodomorfi Oviraptorosauri

Sauropodi

Brachiosauri Deinonicosauri Titanosauri Uccelli

Stegosauri

Tireofori

Ornitischi

Anchilosauri

Ipsilofodonti

Ornitopodi Iguanodontidi

Adrosauridi

Eterodontosauri

Marginocefali Pachicefalosauri

Ceratopsi

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CAPITOLO 4

GRUPPO SAURISCHIA La caratteristica che già a una prima occhiata rende i saurischi diversi dagli ornitischi è la disposizione delle ossa del bacino: l’ileo è largo, l’ischio lungo e stretto e rivolto in basso e all’indietro. Il pube, rivolto in basso e in avanti, è stretto e lungo quasi quanto il femore. Il cranio, come in altri arcosauri, è alleggerito da due aperture supplementari, una antorbitale e una mandibolare. Seguendo la loro evoluzione, passando cioè dalle forme più primitive a quelle più specializzate, il gruppo comprende gli herrerasauridi, i teropodi e i sauropodomorfi.

IL GRUPPO DEI DINOSAURI A sinistra, uno schema semplificato che mostra le relazioni di parentela tra i principali gruppi di dinosauri. I saurischi comprendono gli herrerasauridi (le forme più primitive, simili agli antenati di tutti i dinosauri), i teropodi (bipedi e spesso carnivori, ne fanno parte i più grandi predatori terrestri nella storia della vita sulla Terra e hanno dato origine agli uccelli) e i sauropodomorfi (in gran parte quadrupedi erbivori e di gran lunga i più grandi animali terrestri mai esistiti). Gli ornitischi, quasi tutti erbivori, comprendono i tireofori (quadrupedi corazzati protetti da piastre e spine di vario genere), gli ornitopodi (bipedi o quadrupedi, gregari, di taglia da piccola a molto grande) e i marginocefali (bipedi o quadrupedi, spesso con una grande testa ornata da corna, spine e collari).

HERRERASAURIDI: sono tra i dinosauri più antichi, presenti in Sud America già 233 milioni di anni fa. Agili e di dimensioni modeste (non superavano i 4 metri di lunghezza), erano per lo più predatori. Si estinsero alla fine del Triassico. TEROPODI: sono dinosauri prevalentemente carnivori, con le mascelle armate di denti potenti e appuntiti. Bipedi, avevano braccia corte e inadatte a camminare ma munite di artigli per afferrare le prede, e gambe sviluppate e potenti per correre sul terreno compatto. Comprendono vari gruppi con una enorme varietà di forme e adattamenti. Semplificandone le parentele, li possiamo suddividere in celofisoidi, ceratosauri, tetanuri non-celurosauri e celurosauri. Questi ultimi comprendono numerosi gruppi, compresi gli uccelli. I celofisoidi raggruppano i teropodi più antichi, vissuti tra la fine del Triassico e l’inizio del Giurassico su tutte le terre emerse. Di costituzione leggera e dal corpo slanciato, un tempo erano erroneamente classificati con i celurosauri. Coelophysis, lungo fino a 3 metri, ne è il rappresentante tipico, conosciuto grazie a numerosi ritrovamenti fossili. I giganti del gruppo sono i dilofosauri, che potevano superare i 6 metri

di lunghezza e il cranio aveva come ornamento una coppia di sottili creste ossee. I ceratosauri prendono il nome da Ceratosaurus del Nord America e comprendono i primi dinosauri predatori ad avere raggiunto una taglia ragguardevole, con pesi superiori alla tonnellata, come l’italiano Saltriovenator. Durante il Giurassico erano diffusi in tutto il mondo, mentre nella seconda metà del Cretacico, con il differenziarsi delle faune a causa della deriva dei continenti, diventano i carnivori dominanti nei continenti meridionali. In genere avevano un cranio robusto con creste o corna, delle braccia piuttosto corte, e gambe e code possenti adatte a compiere rapidi scatti. Le forme cretaciche come gli abelisauridi, tra cui ricordiamo Carnotaurus e Majungasaurus, avevano un muso piuttosto alto e breve, denti molto più corti dei ceratosauri giurassici e braccia minuscole. Tra i ceratosauri vi erano anche dinosauri agili e slanciati, i noasauridi, con particolari adattamenti alimentari: Limusaurus aveva forme giovanili onnivore e regolarmente dotate di denti, ma adulti sdentati e completamente erbivori. Masiakasaurus aveva i denti anteriori sporgenti e proiettati in avanti, forse adatti ad afferrare pesci. I tetanuri comprendono i più grandi predatori mai esistiti sulla terraferma, ma anche forme piccole e agili, e gli uccelli. Sono caratterizzati da un irrigidimento della coda (il nome significa proprio questo), dalla tendenza a ridurre il numero delle dita nella mano (da quattro a tre), da un sistema respiratorio sofisticato simile a quello degli uccelli odierni e da varie caratteristiche craniche (i sottogruppi principali sono i megalosauroidi, gli allosauroidi e i celurosauri. Questi ultimi meritano una trattazione a parte). I megalosauroidi furono tra i primi dinosauri a essere scoperti e studiati nonché i primi grandi predatori della terraferma, al pari dei ceratosauri. Nel corso della loro evoluzione si osserva

LA VARIETÀ DELLE FORME

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lo sviluppo di musi più allungati e la tendenza a sfruttare la ricchezza di prede negli ambienti fluviali, abitudine massimizzata negli spinosauridi che hanno fauci da coccodrilli, denti conici adatti ad afferrare prede scivolose e numerose altre caratteristiche utili a trascorrere gran parte del tempo in acqua. Gli spinosauridi furono anche i più lunghi, se non i più grandi in senso assoluto, tra i teropodi, con Spinosaurus che superava i 15 metri dalla punta del muso e quella della coda. Gli allosauroidi sono lo stereotipo del dinosauro teropode e la loro anatomia è ben esemplificata da Allosaurus, tra i più comuni predatori del Giurassico superiore. I denti sono lame robustissime e taglienti, dai bordi seghettati, acuminate e appiattite lateralmente. Le braccia hanno tre dita lunghe, forti e ricurve, che terminano con grossi artigli taglienti. Nel corso del Cretacico tra gli allosauroidi si affermarono i carcharodontosauri (come per esempio Acrocanthosau-

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CAPITOLO 4

rus, Giganotosaurus e Carcharodontosaurus), dal cranio enorme, che contendono a spinosauri e tirannosauri il primato di più grandi dinosauri predatori mai esistiti.

QUATTRO ALI Sotto, ricostruzione di come doveva essere in vita Microraptor, piccolo deinonicosauro che aveva lunghe penne sulla coda, sulle braccia e perfino sui metatarsi.

I celurosauri comprendono in generale teropodi dal corpo leggero, snello e di taglia da media a piccolissima (Microraptor è tra i più piccoli dinosauri predatori noti) ma anche veri e propri giganti: è il caso di Tyrannosaurus e Deinocheirus. Anatomicamente i celurosauri mostrano un cervello ben sviluppato, non solo nelle aree sensoriali, un bacino molto robusto e modifiche nella mobilità, nella forma e nelle proporzioni degli arti. Ai celurosauri appartengono tutti i dinosauri piumati rinvenuti principalmente in Cina, nonché gli uccelli veri e propri, fossili e attuali. Comparsi più di 160 milioni di anni fa nel Giurassico medio, nel Giurassico superiore avevano già dato origine a tutti i sottogruppi principali, uccelli compresi.

Durante i 100 milioni di anni che precedettero la Grande Estinzione del Cretacico, svilupparono una straordinaria varietà di forme, di taglie e di adattamenti alimentari: gli agili compsognatidi, gruppo a cui appartiene anche il cucciolo di dinosauro italiano Scipionyx, detto “Ciro”, predavano insetti e piccoli vertebrati; i tirannosauroidi divennero sempre più grandi e possenti, sviluppando un cranio sempre più voluminoso a fronte di braccia sempre più piccole; con Tyrannosaurus raggiunsero un morso dalla potenza ineguagliata tra gli animali della terraferma, capace di rompere con facilità anche le ossa; gli ornitomimosauri, come l’ornitomimo e il gallimimo, superficialmente simili agli struzzi odierni nell’aspetto, erano onnivori e potevano raggiungere in corsa la velocità di 70 chilometri orari; le forme più grandi, come Deinocheirus, avevano le braccia più lunghe tra i dinosauri bipedi e pesavano quanto un tirannosauro; i piccoli alvarezsauri si erano specializzati nello stanare dai nidi insetti come le termiti; gli oviraptorosauri, mediamente lunghi 2 o 3 metri, ma che potevano arrivare anche a 8 con Gigantoraptor, erano anch’essi onnivori e avevano sviluppato crani corti, spesso ornati da elaborate creste, con becchi sdentati e protuberanze sul palato forse utili a rompere il guscio delle uova e le conchiglie degli invertebrati; i terizinosauri avevano braccia formidabili,

DIMENSIONI DEL CERVELLO Ricostruzione del cranio di un tirannosauro che mostra in sovraimpressione le dimensioni e la forma dell’encefalo e, in particolare quelle del piccolo telencefalo, la porzione pensante che costituisce invece la maggior parte del cervello umano.

dotate di lunghi artigli affilati, e un grosso ventre adatto a ospitare un intestino da erbivoro; i deinonicosauri, mediamente di piccola taglia ma lunghi anche oltre 6 metri, sono i dinosauri più prossimi agli uccelli e annoverano nel loro gruppo forme come Deinonychus, Velociraptor, Microraptor, Buitreraptor e Troodon. Avevano braccia artigliate e pennute, gambe adatte ad arrampicarsi e a trattenere la preda tra gli artigli serrati, e code estremamente rigide. In generale, ogni caratteristica dei celurosauri sembra selezionata per fare di loro animali astuti e agili: le dita della mano erano mobili, opponibili, artigliate, atte a ghermire e a non mollare la preda oppure a respingere un rivale o un assalitore; anche gli arti posteriori erano armati di artigli taglienti e aguzzi. Le orbite, spesso grandi, dovevano contenere occhi dalla vista acuta, forse anche notturna. La regione interorbitale del cranio ricorda molto quella degli uccelli: accoglieva probabilmente un cervello con lobi ottici espansi che coordinava movimenti molto complessi. Sensibili a molti stimoli e capaci di reazioni fulminee, i celurosauri dovevano essere agili e intelligenti, capaci di sfruttare la velocità e lo scatto. SAUROPODOMORFI: sono dinosauri erbivori, i più grandi vertebrati mai esistiti sulla terraferma: potevano superare i 35 metri di lunghezza e le 60 tonnellate di peso. Quadrupedi evoluti da forme semibipedi come i prosauropodi primitivi, hanno quasi sempre le gambe di poco più lunghe delle braccia, coda e collo lunghissimi, testa piccola, denti a piolo o a cucchiaio adatti a strappare le foglie dai rami e non a masticare. Si distinguono due sezioni: prosauropodi e sauropodi. I prosauropodi sono un gruppo eterogeneo di saurischi che vissero alla fine del Triassico e nel primo Giurassico, prima di dare origine ai sauropodi veri e propri. Si diffusero su tutte le terre emerse assumendo probabilmente il ruolo

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ecologico di erbivori. Progenitori dei giganteschi sauropodi che, grazie ai lunghi colli, erano in grado di arrivare anche alle foglie più alte, si estinsero forse proprio a causa della competizione con questi animali più evoluti e con gli ornitischi erbivori, dai denti più specializzati. L’origine dei prosauropodi è incerta: alcuni studiosi ritengono che questi animali derivino, così come i teropodi, da piccoli bipedi carnivori che, mutando dieta e aumentando di dimensioni, sarebbero diventati dapprima onnivori e poi erbivori quadrupedi. Essere quadrupede, per un erbivoro è, infatti, una condizione necessaria per equilibrare il peso di un grande addome durante il movimento. Un erbivoro deve supplire con la quantità allo scarso po-

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SCENA DI CACCIA Due Massospondylus, dinosauri erbivori, tentano di sfuggire all’attacco di un Prestosuchus, tra i più temibili predatori del Triassico. Associati ai fossili di Massospondylus sono stati rinvenuti numerosi gastroliti.

tere nutritivo del cibo, e la digestione dei vegetali, lunga e laboriosa, può aver luogo efficacemente solo in un apparato digerente molto sviluppato e ingombrante. Nei prosauropodi il pube rivolto in avanti, tipico dei saurischi, poteva dare un ulteriore sostegno alla massa dei visceri. I primi prosauropodi avevano denti seghettati che avrebbero potuto essere adatti a tagliare anche la carne. Tuttavia, l’iguana che vive oggi nel Centro-Sud America ha lo stesso tipo di denti ed è erbivora. Secondo l’ipotesi prevalente, dunque, i prosauropodi sarebbero stati erbivori primitivi, non ancora in grado di utilizzare completa-

mente la cellulosa delle fibre vegetali, come invece fanno gli erbivori attuali che uniscono alla masticazione la digestione mediante succhi gastrici e l’aiuto di batteri intestinali simbionti. Associati ai resti di Massospondylus, per esempio, sono stati ritrovati numerosi gastroliti: in uno stomaco muscolare (come il ventriglio degli uccelli) questi piccoli sassi possono aver avuto la funzione di triturare meccanicamente i vegetali riducendoli a una poltiglia più digeribile. Anche la struttura del corpo fa pensare che i prosauropodi fossero erbivori: in genere tozzi e pesanti, dotati di una lunga coda, normalmente si appoggiavano sulle quattro zampe. Avevano una testa piccola, sproporzionata alla mole, che non poneva problemi statici. Il lungo collo permetteva loro di brucare anche le parti alte degli alberi, oltre ai vegetali del terreno, come era avvenuto per gli altri animali esistiti fino ad allora. Unico mezzo di difesa era un potente artiglio che armava il pollice e che forse serviva principalmente a sradicare una pianta o a portare un ramo alla bocca. I sauropodi: formata dagli erbivori più giganteschi che siano mai esistiti sulla Terra, questa sezione comprende animali lunghi 20-30 me-

I GASTROLITI Molti dinosauri erbivori, tra cui alcuni sauropodomorfi, ingerivano sassi appuntiti che mossi dalle pareti dello stomaco aiutavano a triturare i vegetali. Una volta usurati e levigati dai movimenti gastrici, essi venivano rigettati e sostituiti con altri.

tri (come quattro elefanti messi in fila), in grado di alzare la testa a un’altezza di 13-15 metri (come una casa di 5 piani) e che pesavano fino a 60 tonnellate (come una dozzina di elefanti maschi adulti). Qualche altra misura: lo spessore di una vertebra del collo, che nell’uomo è di soli 2 centimetri, poteva raggiungere il metro; la larghezza di una scapola poteva essere anche di 2 metri e mezzo; così come il femore, l’osso più lungo della gamba, mentre l’omero e l’ulna arrivavano a 2 metri. L’impianto generale era pressoché uguale per tutti: corpo cilindrico appoggiato su quattro zampe colonnari, collo e coda lunghissimi, testa sproporzionatamente piccola. I diplodocoidi raccolgono alcune delle forme più famose, come il diplodoco, l’apatosauro e il brontosauro (non è ancora chiaro se quest’ultimo sia un nome valido o sia un sinonimo dell’apatosauro) e avevano una lunga coda a frusta. A loro spetta il primato di vertebrati più lunghi mai esistiti, ma alcuni diplodocoidi come i dicreosauri e gli amargasauri erano di dimensioni moderate per un sauropode e avevano bizzarre ornamentazioni, come le lunghe spine sul collo. I brachiosauri, le forme più alte, avevano le braccia più lunghe delle gambe e, di

I DINOSAURI PIÙ LUNGHI I diplodocoidi furono i più lunghi tra tutti i dinosauri, anche grazie alla loro coda a frusta.

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gionamento quotidiano: come i prosauropodi, loro progenitori, utilizzavano quindi i gastroliti. Sul loro stile di vita, come vedremo più avanti nel libro, sono state avanzate più ipotesi.

GRUPPO ORNITHISCHIA

conseguenza, la schiena marcatamente inclinata come quella di una giraffa. I titanosauri si caratterizzano per le ossa molto massicce e il corpo ancora più largo che negli altri sauropodi, come si vede anche dalle impronte che mostrano mani e piedi del lato destro molto distanziate da quelle del lato sinistro. Sul muso, le aperture del naso nel cranio erano molto grandi e spostate in alto, subito sotto quelle degli occhi: in vita però l’apertura delle narici doveva essere verso la punta del muso, collegata al foro cranico da un condotto con la stessa funzione del nostro naso, in cui l’aria poteva umidificarsi e adattarsi alla temperatura corporea. I denti, piccoli, non sono adatti a masticare la quantità di fibre vegetali dure di cui, si suppone, questi animali avessero bisogno per l’approvvi-

UNA VERA ARMATURA Gli anchilosauri erano veri e propri “dinosauri corazzati”, protetti da un’armatura costituita da placche ossee e piastre dermiche. Sopra: un particolare di quelle che proteggevano il cranio in un fossile conservato nel Royal Ontario Museum, a Toronto, in Canada.

Questi dinosauri sono contraddistinti da un bacino con pube e ischio rivolti entrambi all’indietro, come nella pelvi degli uccelli. Questa somiglianza strutturale con gli uccelli è, però, solo un’analogia, poiché uccelli e ornitischi non hanno progenitori comuni. Si tratterebbe cioè di una convergenza evolutiva: entrambi si sono trovati con la necessità di spostare il centro di massa ben al di sotto del bacino, negli ornitischi per poter supportare meglio il grande intestino da erbivori mentre negli uccelli per una questione di bilanciamento. Inoltre, negli ornitischi, pur essendo rivolto all’indietro, il pube sviluppa un processo prepubico rivolto in avanti. Gli ornitischi hanno fra loro anche altre omologie esclusive che li isolano nell’ambito dei dinosauri: un osso predentale che unisce le due mandibole a formare il mento e tendini ossificati che rinforzano l’unione fra le vertebre. I denti, inoltre, non coprono interamente l’arcata dentale, ma lasciano uno spazio vuoto fra gli anteriori, spesso sostituiti da un becco, e i posteriori, che in molte specie sono adatti a tranciare finemente il cibo formando un ap-

ORNITISCHI PRIMITIVI Ipotetica ricostruzione dell’aspetto in vita di un piccolo scutellosauro, un ornitischio primitivo.

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parato masticatore efficace. Questi animali formano dunque un gruppo naturale. Rispetto ai saurischi, gli ornitischi cominciano a diversificarsi più tardi, all’inizio del Giurassico. Il cranio, nel suo complesso, è più massiccio di quello dei saurischi, per la mancanza di aperture supplementari oltre quelle tipiche degli arcosauri. Questi dinosauri ebbero un’evoluzione piuttosto complessa, che determinò il differenziarsi di tre sottogruppi principali: tireofori, ornitopodi e marginocefali. TIREOFORI: sono gli ornitischi corazzati, con un’armatura composta da file di placche dermiche che nelle forme più avanzate diede origine a strutture elaborate composte da piastre e spine, disposte su varie parti del corpo. Erbivori lenti e massicci, erano in grado di opporre resistenza ma non di darsi alla fuga. Avevano in proporzione il cervello più piccolo tra i dinosauri. Comprendono forme primitive come lo scutellosauro, forme già più corazzate come lo scelidosauro, e poi due grandi gruppi di quadrupedi di taglia medio-grande, gli stegosauri e gli anchilosauri. Gli scelidosauri, coperti lungo il dorso, sui fianchi e sulla coda, da serie longitudinali di piccole piastre, placche e coni ossei, adottavano probabilmente una strategia di difesa passiva. Stegosauri, anchilosauri e nodosauri potevano difendersi passivamente grazie alle loro corazze irte di aculei, o fronteggiare il nemico con armi in grado di procurargli serie lesioni. Gli stegosauri comparvero nel Giurassico ed ebbero la loro massima espansione nel Giurassico superiore, per poi estinguersi all’inizio del Cretacico. Quadrupedi di oltre 7 metri di lunghezza, con collo e coda molto lunghi, stavano piegati in avanti sulle braccia molto più corte delle gambe, avevano una testa molto piccola e una caratteristica duplice fila di placche dermiche o spine lungo il dorso, quasi verticali, a partire dalla testa fino alla coda. Quest’ultima, nella

parte terminale ospitava spine dirette ai lati, una formidabile arma di difesa dai predatori. Gli anchilosauri, i veri e propri “dinosauri corazzati”, erano quadrupedi dall’andatura lenta. Avevano, con molta probabilità, una strategia difensiva simile a quella delle tartarughe o degli armadilli, protetti dalla testa alla coda, sul dorso e sui fianchi, da un’armatura costituita da un mosaico di placche ossee e piastre dermiche spesso dotate di aculei o di protuberanze coniche. Nei nodosauridi, il collo e le spalle erano ulteriormente protetti da lunghissime spine rivolte ai lati e in avanti, mentre negli anchilosauridi l’estremità della coda era armata di una mazza ossea che poteva essere utilizzata anche come arma di difesa.

STEGOSAURI Ricostruzione dello scheletro di Stegosaurus, esposta al Royal Tyrrell Museum, a Drumheller, in Canada.

ORNITOPODI: comprendono forme di piccola taglia, spesso bipedi, e altre di taglia da media a enorme, generalmente quadrupedi negli

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CRESTE E BECCHI D’ANATRA Molti adrosauridi, come questo Lambeosaurus esposto al Royal Ontario Museum, a Toronto, oltre al muso foggiato a becco d’anatra avevano anche delle creste cave sul capo che potevano funzionare come cassa di risonanza per modulare e amplificare i suoni per i richiami.

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spostamenti e solo bipedi nella corsa (per esempio, durante la fuga da un predatore). Furono gli ornitischi di maggior successo e gli unici diffusi in tutto il mondo, e sopravvissero fino alla fine del Cretacico. Ipsilofodonti, iguanodontidi e adrosauroidi sono i gruppi più noti. Nati come piccoli erbivori prevalentemente bipedi e non più lunghi di un metro, nel corso del Giurassico e del Cretacico, poi, gli ornitopodi colonizzarono tutti i continenti, dando luogo a forme sempre più grandi e massicce. Arrivarono a misurare, in media, 8 metri di lunghezza e a pesare circa 3 tonnellate. Si ebbero però anche forme più grandi, specialmente fra gli iguanodontidi e gli adrosauridi: questi ultimi arrivarono a misurare 15 metri e a superare le 9 tonnellate di peso. Anche se così diversi fra loro, gli ornitopodi costituiscono un gruppo abbastanza omogeneo. Erano capaci di reggersi sulle zampe posteriori, potenti come pilastri, ma, a differenza dei teropodi, avevano gli arti anteriori svilup-

pati in modo da consentire anche un’andatura quadrupede: erano dunque bipedi facoltativi. La coda svolgeva un ruolo importante nell’equilibrio del corpo: potente, massiccia, compressa lateralmente e irrobustita da numerosi tendini ossificati, era tenuta sollevata durante la corsa bipede. Gli adrosauridi avevano apparati masticatori molto efficienti, con batterie di centinaia di denti funzionali e di ricambio, il che li identifica inequivocabilmente come erbivori altamente specializzati. Un’altra caratteristica di questi animali dal muso a becco d’anatra, fu lo sviluppo di un complesso sistema di creste, talora formate dall’espansione delle ossa nasali, talora carnose, sulla cui funzione e sul cui significato adattativo sono state avanzate molte ipotesi ma che sicuramente potevano fungere da segnale di riconoscimento visivo e probabilmente potevano funzionare come cassa di risonanza per emettere richiami. Tra gli ornitischi, gli ornitopodi furono le forme con il

cervello più sviluppato e dai fossili sappiamo che vivevano in grandi branchi e che avevano una vita sociale piuttosto complessa e cure parentali prolungate. MARGINOCEFALI: originatisi in Asia e migrati poi anche in Nord America, sono un gruppo di dinosauri caratterizzati da un allargamento delle ossa nella parte posteriore del cranio, e da una serie di protuberanze sul muso. Potrebbero essere derivati dagli eterodontosauri, piccoli dinosauri erbivori o onnivori vissuti all’inizio del Giurassico, che avevano il corpo coperto da squame filamentose, simili alle protopiume dei teropodi. La maggior parte dei marginocefali è del Cretacico, soprattutto della fine del periodo. Il gruppo comprende i pachicefalosauri, o dinosauri dalla testa spessa, e i ceratopsi, o dinosauri con le corna. Di taglia medio-piccola, i pachicefalosauri erano bipedi obbligati, dotati di un apparato masticatore non particolarmente specializzato. Nel corso della loro evoluzione svilupparono teste con una cupola ossea molto marcata nella regione della fronte, che un tempo si riteneva venisse utilizzata per fare a testate nella lotta tra rivali. È più probabile invece che si trattasse di una struttura ornamentale e che gli animali evitassero impatti forti e diretti per non danneggiare la scatola cranica e il collo. I ceratopsi sono caratterizzati da un becco da pappagallo e dallo sviluppo di un collare osseo formato dalle ossa parietali e squamose del cranio, che si proiettavano indietro verso il collo. I più primitivi furono gli psittacosauridi, bipedi, che presentano nella parte posteriore del cranio

UNA TESTA A CUPOLA Un cranio di Pachycephalosaurus. È ben evidente la cupola ossea nella regione frontale dell’animale, che ha fatto ipotizzare che i maschi di questa specie facessero a testate per la supremazia nel branco.

solo un abbozzo di quel collare osseo che nelle forme più evolute poteva estendersi anche sul collo, servendo da attacco ai potenti muscoli preposti al movimento della testa. I successsivi protoceratopsidi erano quadrupedi e avevano un collare già molto evidente. I ceratopsidi, infine, vissuti nell’ultima parte del Cretacico, furono quadrupedi obbligati, lunghi fino a 8 metri e pesanti fino a 9 tonnellate, avevano oltre a un collare molto sviluppato ornato da spine di ogni forma e dimensione, enormi corna appuntite, poste sulle ossa sopraorbitali e nasali e una pelle spessa con grosse squame e spuntoni. La combinazione di corna e collari era utile per il riconoscimento tra le varie specie e, all’interno di una stessa specie, per il riconoscimento individuale: uno strumento molto utile per animali che vivevano in grandi gruppi. Nel peggiore dei casi le corna potevano anche essere utilizzate come difesa dagli aggressori. Comunque, al di là delle loro effettive capacità di difesa, il loro successo evolutivo va attribuito anche all’apparato masticatore particolarmente efficace.

IDEE NUOVE E NUOVE CLASSIFICAZIONI Quella che abbiamo presentato è la classificazione che viene attualmente seguita dalla maggioranza degli studiosi. Ma la scoperta di nuovi fossili o, ancora, un nuovo modo di interpretarli, tenderà a mettere in discussione ciò che sembrava ormai definitivo. Già in passato ciò è accaduto. Per esempio, negli anni Settanta, Robert T. Bakker elaborò una teoria che rivoluzionava l’idea tradizionale dei dinosauri. Secondo questo studioso l’endotermia, la capacità cioè di mantenere il corpo caldo indipendentemente dalla temperatura esterna, si sarebbe realizzata, prima di comparire nei mammiferi e ne-

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ANIMALI A SANGUE “TIEPIDO” L’echidna, assieme all’ornitorinco, appartiene a un gruppo di mammiferi primitivi, i monotremi. Questo animale ha una produzione di calore molto inferiore rispetto a quella dei mammiferi più evoluti: è appena sufficiente a raggiungere i 30 °C.

DINOSAURI DI OGGI Probabilmente già a partire da 200 milioni di anni fa, i dinosauri anticiparono quelle innovazioni fisiologiche e anatomiche che assicurano ai loro eredi, gli uccelli, l’attuale posizione di rilievo.

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gli uccelli, per lo meno due volte nella storia dei vertebrati. I primi animali endotermi sarebbero stati i terapsidi del Permiano, quei rettili-mammiferi che abitavano le regioni meridionali del Gondwana, allora parzialmente ricoperte di ghiacci e di Glossopteris, la piccola felce adatta ai climi freddi. Essi avevano forse una produzione di calore inferiore a quella dei mammiferi attuali, tuttavia doveva essere sufficiente a raggiungere i 30 °C, come ancora oggi succede in alcuni mammiferi primitivi (l’echidna australiana, per esempio, o il tenrec del Madagascar).

Bakker basa questa affermazione anche sull’osservazione dell’odierna distribuzione dei rettili: quelli di grande taglia si trovano solo in zone tropicali dove la loro mole consente di mantenere più a lungo il calore corporeo, mentre quelli più piccoli sono diffusi anche nelle zone meno calde, dove superano i periodi di freddo ibernandosi in rifugi sotterranei. Alcuni terapsidi, grossi quanto un rinoceronte, erano troppo massicci per trovare rifugio sottoterra e sopravvivere così al rigore dell’inverno. Questi rettili dovevano quindi avere altre risorse: dovevano possedere cioè strutture anatomiche e fisiologiche tali da garantire loro la sopravvivenza anche in un clima rigido, mettendoli in condizione di muoversi e nutrirsi nella neve e nel freddo. È possibile che, oltre ad avere un metabolismo elevato tipico degli animali endotermi, fossero coperti di pelo, o comunque di un rivestimento protettivo analogo. L’endotermia sarebbe comparsa una seconda volta, e in modo del tutto indipendente, negli arcosauri del Triassico che popolavano le regioni meridionali del Gondwana. In quel periodo il continente, appena uscito da una glaciazione, doveva avere un clima rigido. Quindi è possibile che questi arcosauri avessero una

fisiologia da endotermi e rivestimenti protettivi adatti a limitare la dispersione del calore. Anche se non si hanno molte prove a sostegno di questa affermazione, i resti fossili sembrano dimostrare che essi potevano avere un rivestimento di squame filamentose in grado di proteggerli dal freddo. Sordes pilosus, per esempio, uno pterosauro del Giurassico dal nome esemplificativo, forse era tutto coperto da un fitto strato di “pelo”. Se si accetta l’ipotesi che i terapsidi del Permiano, gli arcosauri del Triassico, alcuni pterosauri, i dinosauri e gli uccelli primitivi come Archaeopteryx fossero endotermi, come sostiene Bakker, le classi tradizionali dei Mammiferi e degli Uccelli non sarebbero più in grado di riflettere l’evoluzione bioenergetica di mammiferi, uccelli e rettili, più fedelmente di quanto non faccia la tassonomia tradizionale. In particolare, ammesso che tutti gli elementi essenziali della biologia degli uccelli (produzione di calore, metabolismo elevato e isolamento ter-

LA RICERCA CONTINUA Pur essendo scomparsi dai vertici delle catene alimentari nella grande estinzione di massa di 66 milioni di anni fa, i dinosauri sono ancora ben presenti sul nostro Pianeta, sia con i loro scheletri fossili in mostra nelle collezioni dei più importanti musei del mondo sia nell’incredibile varietà di forme che noi chiamiamo uccelli.

mico) fossero già presenti nei dinosauri, loro diretti predecessori filogenetici, dinosauri e uccelli dovrebbero formare una classe a sé stante. Secondo questa classificazione dunque, gli uccelli sono, in realtà, dinosauri viventi, gli unici che sono stati in grado di superare la barriera della quinta estinzione di massa di 66 milioni di anni fa. I dinosauri svolsero, a partire da 200 milioni di anni fa, tutti i ruoli ecologici che nel mondo biologico di oggi hanno i mammiferi. E forse ciò fu possibile proprio perché essi anticiparono quelle innovazioni fisiologiche e anatomiche che assicurano ai loro eredi l’attuale posizione di rilievo. Forse erano endotermi, forse avevano il cuore già segmentato in quattro cavità, una circolazione sanguigna e un sistema respiratorio tali da consentire una potente attività fisica. Per verificare la validità di queste ipotesi, bisogna guardare oltre gli scheletri, e ricostruire la biologia di questi animali: vederli, insomma, come se essi fossero ancora vivi. Chi erano dunque i dinosauri?

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5. Dinosauri dal vivo

UN PROBLEMA DIFFICILE Dire quali animali siano stati i dinosauri sembra davvero impossibile, considerato che appaiono tanto diversi gli uni dagli altri e di forme anatomiche così strane: esseri grandi, talora giganteschi, piccoli, corazzati o no, cacciatori o erbivori, lenti o veloci nei movimenti, agili o impacciati, a volte adatti alla vita in ambienti umidi, a volte a quella in ambienti aridi. Riuscire poi a trovare un’identità per gli scheletri fossili che ci restano, non è un compito facile. Il discorso sulla biologia dei dinosauri, sulla loro fisiologia e sul loro comportamento, viene affrontato dagli studiosi sulla base soprattutto di analogie con il mondo animale attuale. Essi prendono in considerazione i caratteri di quegli animali di oggi che si ritiene siano in più stretta relazione evolutiva con i dinosauri e cercano di immaginare quali potrebbero essere le tracce che essi lascerebbero se dovessero fossilizzare. In questo modo, con un procedimento paziente e minuzioso, gli studiosi cercano di dare una risposta plausibile alle molte domande ancora insolute. In base alle prove fossili vengono formulate ipotesi sulla fisiologia e sull’etologia dei dinosauri. Ma una stessa prova, interpretata spesso in modi diversi, può convalidare anche tesi opposte. Ogni ricostruzione della biologia dei dinosauri, dunque, non è solo un punto di arrivo di lunghi anni di ricerche, né tantomeno una certezza, quanto piuttosto un provvisorio punto di partenza, uno schema di lavoro per dare forma a teorie, ancora suscettibili di profonde e sostanziali modifiche. Non stupisce, dunque, che questo della biologia

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ENDOTERMI Bisonti americani e un’aquila testabianca in un paesaggio invernale: la possibilità di essere attivi anche a temperature molto basse è un esempio

del vantaggio di cui godono gli animali a sangue caldo (endotermi) che ricavano il calore necessario alla vita “bruciando” energia che si procurano con il cibo.

sia il campo nel quale le controversie paleontologiche sono più accese. Nella biologia di un animale, del resto, sono racchiuse le ragioni del suo successo evolutivo. Se il mondo dei vertebrati è dominato oggi da mammiferi e uccelli, i rettili, rappresentati da quattro ordini appena, hanno invece un ruolo di secondaria importanza. La ragione della superiorità competitiva di uccelli e mammiferi deriva dal fatto che sono animali endotermi, a “sangue caldo”, indipendenti cioè dal calore esterno, che mantengono la temperatura del corpo elevata e costante grazie ai processi metabolici interni. Gli endotermi hanno un metabolismo basale molto elevato, circa quattro volte superiore a quello degli ec-

totermi, quegli animali che assorbono dall’ambiente esterno il calore necessario alle attività fisiologiche e regolano la temperatura corporea con strategie comportamentali, ossia esponendosi o no al sole. È grazie a questo loro metabolismo che i mammiferi e gli uccelli (endotermi, protetti dal grasso sottocutaneo e da peli o piume) sono più attivi dei rettili (ectotermi, a temperatura variabile e privi di strutture anatomiche isolanti) anche quando il freddo è intenso. Per i rettili è invece sufficiente un temporale, una giornata nuvolosa o una notte fredda perché non possano muoversi con efficacia.

ETEROTERMI Sopra: una raganella si scalda al sole. Gli animali a sangue freddo (eterotermi) ricavano il calore necessario alle funzioni vitali direttamente dalla radiazione solare, e ciò limita fortemente le loro capacità di sopravvivere in climi rigidi. I ritrovamenti recenti di resti di dinosauri in Antartide, in aree caratterizzate probabilmente da un clima molto rigido anche durante il Mesozoico, fanno supporre che alcuni di questi animali avessero un metabolismo diverso da quello tipico dei rettili attuali.

DINOSAURI DAL VIVO

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Grazie all’endotermia, che mantiene la temperatura corporea entro margini limitati (condizione necessaria allo sviluppo del sistema nervoso), uccelli e mammiferi sviluppano inoltre cervelli sempre più grandi: sono cioè più pronti a risolvere le difficoltà che si presentano nella competizione per la sopravvivenza. Ma in passato, ossia nel Mesozoico, e per ben 160 milioni di anni, le posizioni di questi gruppi di animali erano ribaltate: dinosauri, apl e: i dino u i, rettili ap punto, dominavano il mondo, mentree i mammindo ment PIRAMIDE DI ENERGIA Il trasporto di energia dai produttori (piante, in basso) ai consumatori primari (erbivori, il secondo livello), ai consumatori secondari (carnivori, predatori, terzo livello, e superpredatori, al vertice) ricostruito sulla base dei reperti fossili e per analogia con il mondo attuale. È probabile che anche nel Mesozoico solo il 10% circa dell’energia passasse al livello successivo mentre il resto si disperdeva mantenendo attive le funzioni vitali. Il disegno non ritrae tutti i dinosauri estinti e non rispetta le proporzioni reciproche degli animali, né si è tenuto conto di altre specie animali che integravano o costituivano la principale fonte di alimentazione dei carnivori.

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feri, seppur diversificati, non superavano le dimensioni di un gatto e si muovevano all’ombra dei grandi sauri. Eppure, coperti di una pelliccia che manteneva il calore corporeo, in grado di assicurare lo sviluppo dell’embrione nel grembo materno, con denti differenziati tali da permettere un’alimentazione complessa, un cervello grande in rapporto al peso del corpo indice di prontezza e di intelligenza, i mammiferi avevvano no già allora llo tutte ut le carte in n regola ol per occupare ogni nicchia disponibile a e ogn icch ecologica dis nibil ed evolversi specie di diverse. Se ques questo ruolo fu ersi in mille ille speci nello iinvece v ce occupato occ pat dai dinosauri comparsi omp stessoo momento sulla Terra, si deve ste ul faccia ddella lla Ter dodedurre che questi qu rettili re il erano no competitivi, compe averee cioè che li vevano av o alcune caratteristiche atteristi particolarmente rendevano pa ticolarmente adatti ti al loro ambiente, paragonabili, nel mo mondo d’o d’oggi, più ai bien e pa go a li, ne mammiferi agli uccelli La ramamm feri e agl c i che ai rettili. et potrebbe essere gione della lla lloro ro superiorità u er stata, e uccelli, sta a, come ome oggi gg per mammiferi m un n pparticolare t ola e tipo i di metabolismo. Se alle caratteristiche he ttipiche dei rettili li che he ne facevanoo organismi vincenti per ill cl clima e l’ecologia del cent Mesozoico oico essi avessero ro unito un metabolismo m bolismo elevato tipico di mammiferi e uccelli? Se fosseroo stati an animali endotermi, se con tutti i vantaggi ag che ciò È su questo ccomporta? mpo semplice ragionamento mp ra basò il paleoncchee si bas

ERBIVORI E CARNIVORI Un carnivoro su venti erbivori: è il rapporto che si trova analizzando i fossili che risalgono al Cretacico superiore, rinvenuti nell’Alberta, in Canada. Questa cifra può forse avvalorare l’ipotesi che almeno i carnivori fossero animali a sangue caldo. La fossilizzazione, tuttavia, è un processo troppo casuale per rispecchiare una situazione reale.

tologo Robert Bakker quando propose l’ipotesi che il successo dei dinosauri possa essere stato una conseguenza dell’endotermia.

OSTROM E BAKKER: VERSO NUOVE PROSPETTIVE Il punto centrale dell’ipotesi secondo la quale i dinosauri erano animali endotermi poggia sull’analisi della loro alimentazione. L’endotermia infatti ha un costo assai elevato, perché la maggior parte del cibo (circa l’80%) viene “bruciato” per produrre calore corporeo. Per questa ragione un animale a sangue caldo ha un consumo calorico dieci volte superiore a quello di uno a sangue freddo della stessa taglia, che ha quindi molto meno bisogno di cibo. Analizzando un determinato ecosistema, ossia gli esseri viventi che popolano un certo ambiente, i biologi indicano le relazioni alimentari fra piante e animali mediante le cosiddette “piramidi alimentari”. In ciascuna piramide si riconoscono dunque determinati “strati”, in cui sono raggruppati gli esseri viventi che si nutrono allo stesso modo. Alla base di ogni piramide alimentare si trovano gli autotrofi, soprattutto piante;

poi, più in alto, gli animali erbivori, e quindi i carnivori predatori. In generale si può dire che in una popolazione formata da mammiferi, i predatori sono in numero nettamente inferiore rispetto alle loro prede, gli erbivori: in una popolazione standard rappresentano solo l’1-6%. L’idea geniale di Bakker fu quella di applicare i principi dell’ecologia all’indagine paleontologica, per capire se l’ipotesi dell’endotermia dei dinosauri rispecchiava una situazione reale. Se avesse potuto dimostrare che negli ecosistemi del Mesozoico le popolazioni di predatori e di prede avevano le stesse proporzioni di quelle calcolate per gli animali a sangue caldo di oggi, il gioco, secondo lui, era fatto. Non potendo ovviamente compiere osservazioni dirette su animali vivi nei loro habitat, decise di censire le popolazioni fossili di erbivori e di carnivori giunteci dal Mesozoico, attraverso le collezioni dei musei. In dieci anni di lavoro fra migliaia e migliaia di ossa polverose, poté calcolare un rapporto predatore/preda che va dal 3 al 5%, a seconda della collezione esaminata. Ciò significa che nei ritrovamenti paleontologici i carnivori sono estremamente più rari degli erbivori e, secondo Bakker, questa è una prova sufficiente a dimostrare che la loro incidenza nella popolazione, allora come oggi, doveva essere altrettanto piccola: una prova più che convincente a favore dell’endotermia dei dinosauri.

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A confutare le asserzioni di Bakker si concentrarono gli sforzi dei paleontologi che rifiutavano la sua idea. Un conto, essi dicevano, è osservare, per esempio, una comunità di erbivori e di carnivori in una savana, dove si registra anche il più piccolo particolare, e un conto è pretendere di fare lo stesso tipo di lavoro su animali fossili, o comparare con i dati provenienti da un’ecosistema attuale i risultati ottenuti dall’analisi di una popolazione incompleta come può essere quella di una collezione di un museo, priva di riferimenti all’ambiente scomparso. I fossili, formatisi in un modo del tutto casuale e in gran parte distrutti prima di essere ritrovati, non possono valere come specchio di una situazione reale. Non si potrà mai controllare cosa sia andato perduto. Le popolazioni di predatori e prede vengono poi considerate nell’analisi di Bakker come se la densità della prima fosse limitata unicamente da quella della seconda, e a sua volta questa solo dalla pressione della prima. Molti altri fattori

LA CATENA ALIMENTARE Rapporti alimentari nel Giurassico superiore. Gli erbivori specializzati (colorati in verde) si ripartivano i diversi livelli della vegetazione: gli stegosauri brucavano in basso mentre i camptosauri e i diplodocidi si nutrivano di fronde sempre più alte. Anche i carnivori (colorati in marrone) erano specializzati ognuno per una particolare nicchia, non disdegnando all’occorrenza il ruolo di spazzini, nutrendosi di carogne.

ERBIVORI CARNIVORI

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possono invece avere influito sull’equilibrio fra preda e predatore, o sul numero stesso dei predatori del Mesozoico: le malattie, per esempio, o uno scarso indice di natalità, un’alta mortalità infantile, una strenua competizione per il cibo oppure la pressione di altri predatori. Il rapporto predatore/preda calcolato da Bakker può aiutare, eventualmente, a capire la fisiologia del predatore, ma non ci dice nulla su quella della preda. Se i dinosauri avevano una varietà tanto elevata di forme e di soluzioni anatomiche, perché non avrebbero potuto avere anche metabolismi diversi? Anche ammesso, allora, che i predatori fossero endotermi, nulla vieta di pensare che le prede, invece, fossero a “sangue freddo”. In effetti la struttura di un allosauro, alto 3,5 metri, con le potenti gambe che indicano una camminata veloce, suggerisce la possibilità che avesse un metabolismo elevato, da “atleta”. E questa considerazione vale ancor più per Deinonychus, molto più piccolo, che, a

GIGANTI TERRESTRI Gli elefanti, i più grandi animali terrestri oggi esistenti, hanno bisogno di grosse quantità di cibo ogni giorno, e per reperirlo sono spesso costretti a lunghe migrazioni. Sulla base delle necessità quotidiane di cibo (250 kg) di questi grossi erbivori viventi che raggiungono le 7 tonnellate di peso, si possono estrapolare quelle dei dinosauri erbivori, di dimensioni ancor più gigantesche: nell’ipotesi che fossero animali a sangue caldo, questi dinosauri avrebbero dovuto divorare ogni giorno una tonnellata di vegetali!

giudicare dall’impalcatura ossea, doveva essere un predatore veloce nell’attacco, in grado di saltare con un balzo sulla preda. È quanto ha sostenuto il maestro di Bakker, J. Ostrom, che è stato professore di geologia alla Yale University. Ostrom ha avuto una posizione di notevole prestigio nel mondo della paleontologia moderna: a lui si deve il ritrovamento di Deinonychus, rivelatosi non solo uno dei più straordinari vertebrati terrestri predatori, ma anche un punto chiave lungo la linea evolutiva dinosauri-uccelli. Ostrom fu il primo paleontologo ad avanzare l’ipotesi dell’endotermia dei dinosauri. A mano a mano che procedeva la ricostruzione di questo dinosauro scattante, veloce ed intelligente, l’idea dell’endotermia prendeva sempre più corpo nella mente dello studioso. Mentre il suo allievo Bakker, l’enfant terrible della Yale University, si buttava a capofitto in questa ipotesi affascinante, la prudenza suggerì a Ostrom un atteggiamento più distaccato. L’obiezione più forte contro l’endotermia, egli diceva, sta proprio nell’alimentazione: quanto cibo dovevano ingurgitare i dinosauri giganti per mantenere il metabolismo ai livelli elevati propri dell’endotermia? Se l’elefante africano consuma 250 chili di foraggio al giorno, un apatosauro, che pesava quattro o cinque volte di più, doveva consumarne una tonnellata, una quantità impossibile per qualsiasi essere vivente: se l’elefante spende quasi 15 ore al giorno per mangiare, nel caso dell’apatosauro questa operazione sarebbe stata un’impresa disperata. È anche vero, però, che molti dinosauri erbivori ornitopodi, come i ceratopsidi e gli adrosauri, mostrano apparati dentali sofisticati, formati da batterie di centinaia di denti, paragonabili, in animali viventi, solo ai molari degli elefanti. Non si può escludere perciò che questi animali fossero endotermi. I sauropodi, gli enormi quadrupedi erbivori, avevano invece denti assolutamente inadatti a masticare grandi quantità di cibo, e probabilmente erano ectotermi.

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GRANDI MANGIATORI Grazie al loro lungo collo, i diplodochi potevano brucare sia al suolo sia le fronde degli alberi, avendo così a disposizione una grande quantità di cibo. Se però fossero stati a sangue caldo, avrebbero avuto bisogno di tonnellate di vegetali ogni giorno, una quantità impossibile non solo da reperire ma anche da masticare e inghiottire. Questo dato avvalora l’ipotesi che i dinosauri erbivori giganti fossero animali a sangue freddo che godevano di una temperatura corporea sufficientemente elevata e costante grazie all’inerzia termica della loro mole.

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La loro mole, tuttavia, nel clima caldo e arido del Mesozoico, poteva assicurare di per sé una sufficiente stabilità termica: se ci vuole molto tempo perché un corpo massiccio raggiunga una temperatura troppo elevata, ce ne vuole altrettanto perché perda troppo calore. Si può immaginare allora che questi dinosauri fossero, piuttosto, “omeotermi inerziali”, che avessero cioè un corpo costantemente caldo grazie, appunto, alla mole, senza peraltro avere i meccanismi termoregolatori propri degli animali endotermi. La gigantesca corporatura dei dinosauri acquista così una giustificazione adattativa: essa assicurava il mantenimento della temperatura corporea a livelli elevati e uniformi. Secondo Ostrom, quindi, si può avanzare l’ipotesi che i dinosauri avessero strategie di termoregolazione differenziate a seconda dei gruppi: i teropodi, i ceratopsidi e gli ornitopodi sarebbero stati endotermi, i sauropodi giganti invece ectotermi ma, in virtù della loro mole, avrebbero goduto

ugualmente dei vantaggi dell’omeotermia. «Perché no?» si chiedeva Ostrom, «L’omeotermia non ha l’alto costo dell’endotermia e funziona altrettanto bene. Nonostante molti argomenti sembrino indicare l’endotermia, non c’è infatti alcuna prova conclusiva a suo favore». Un’altra possibilità è che i dinosauri avessero un sistema respiratorio molto simile a quello degli uccelli e un metabolismo estremamente efficiente che li rendeva capaci di mangiare in proporzione un po’ meno di un mammifero di pari massa corporea e quindi, in ultima analisi, permetteva loro di raggiungere taglie colossali. Dallo studio dei fossili ci vengono spesso indizi sulla fisiologia dei dinosauri che sembrano avvalorare la tesi dell’endotermia. A volte però le testimonianze sembrano quasi prove “incontestabili”, come per esempio nel caso dei dati sulla crescita rapida del tessuto osseo durante lo sviluppo o l’intestino sorprendentemente corto di alcuni carnivori. Ancora oggi l’ipotesi di

Ostrom rimane probabilmente la più corretta: non nega che i dinosauri avessero un metabolismo elevato, ma regge bene anche di fronte alle critiche che l’endotermia comporta.

FISIOLOGIA DI UN DINOSAURO Secondo Robert Bakker, un’ulteriore prova dell’endotermia dei dinosauri ci viene dal fatto che essi erano animali capaci di assumere la stazione eretta e di mantenerla anche nella camminata bipede, come i mammiferi e gli uccelli. Gli ectotermi, infatti, non sono in grado di farlo e tutti trascinano il corpo sul terreno. Per quanto ragionevole possa apparire questa affermazione basata sull’osservazione delle odierne forme di vita, essa può, a sua volta, essere suscettibile di critiche. Secondo gli oppositori di Bakker infatti, la stazione eretta non comporta necessariamente l’endotermia. Si può dire soltanto che è una struttura anatomica in grado di sostenere sulla terraferma un corpo di mole notevole, argomento semmai più a favore dell’ipotesi dell’omeotermia inerziale. Ciò nonostante, le considerazioni anatomiche che hanno portato Bakker alle sue conclusioni hanno un indubbio valore. La stazione eretta, infatti, porta la testa di un animale in una posizione elevata rispetto al cuore. Se si pensa che in un brachiosauro la testa viene a trovarsi circa 6 metri più in alto del cuore, si può presumere che questo dovesse conferire al sangue una pressione notevole a ogni contrazione. Si può pensare, dunque, (e prima di tutti l’aveva posto in risalto Ostrom) che questi dinosauri non possedessero un sistema circolatorio simile a quello che contraddistingue i rettili attuali, nei quali la circolazione del sangue nei polmoni non è separata da quella corporea. In un animale come il brachiosauro, infatti, la forte pressione necessaria alla circolazione corporea avrebbe determinato massicce emorragie nei capillari polmonari: solo un cuore completamente diviso in quattro parti, capace di irro-

I VANTAGGI DEGLI UCCELLI Mentre i rettili, dotati di un metabolismo a sangue freddo, hanno polmoni poco sviluppati, “a sacco” e suddivisi da setti poco strutturati, gli uccelli hanno polmoni simili a quelli dei mammiferi, strutturati con una fitta rete di bronchi, parabronchi e alveoli. I sacchi aeriferi, una sorta di espansioni dei parabronchi che si allargano nelle cavità del corpo e delle ossa, mossi dalla muscolatura determinano durante il volo un continuo flusso d’aria negli alveoli. Così il sangue rimane sempre ossigenato consentendo un rapido utilizzo dell’energia.

rare i polmoni e il resto del corpo secondo due vie separate, avrebbe impedito questo inconveniente. Un cuore e una circolazione come quella, appunto, di mammiferi e uccelli. Non solo. Se la struttura di alcuni dinosauri (soprattutto i celurosauri e, tra loro, i “raptor” come Deinonychus) sembra indicare che questi animali possedessero un metabolismo elevato, si deve pensare che, oltre a un cuore potente, avessero anche una respirazione efficace e adeguata. Anche i polmoni, dunque, dovevano assomigliare più ai polmoni degli uccelli che a quelli dei coccodrilli o dei mammiferi. La struttura del polmone di un mammifero è infatti quella di una semplice sacca a fondo cieco di tessuto vascolarizzato, divisa in moltissime UCCELLO

RETTILE

narice

narice laringe

bocca

trachea bronco

bocca

para bronchi polmone

sacchi aerei

bronchi secondari

vasi sanguigni

alveoli polmonari

scambio gassoso

sacchi aerei globuli rossi (poveri di ossigeno ricchi di anidride carbonica)

vescicola polmonare

globuli rossi (ricchi di ossigeno) vena polmonare (sangue arterioso)

arteria polmonare (sangue venoso)

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TEMPERATURA CORPOREA La temperatura corporea negli attuali animali a sangue freddo (anfibi e rettili) oscilla tra valori molto ampi a differenza di ciò che si verifica negli animali a sangue caldo (mammiferi e uccelli).

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cavità che aumentano la superficie utile agli scambi gassosi. L’aria giunge a contatto della superficie interna del polmone passando attraverso i bronchi, rinnova il carico di ossigeno del sangue negli alveoli e viene nuovamente emessa, ricca di anidride carbonica, attraverso la stessa via. Negli uccelli, invece, i polmoni hanno una quantità variabile di diverticoli, detti sacchi aerei, che occupano le cavità del corpo fra gli strati del muscolo pettorale, in mezzo ai visceri,

ETEROTERMI O ECTOTERMI

camere d’aria di riserva: la respirazione degli uccelli può così svolgersi a ciclo continuo, poiché l’aria che entra dai bronchi va nei sacchi, e da qui, spinta dai movimenti muscolari, viene pompata a getto continuo negli alveoli polmonari dove ossigena il sangue con un’efficienza molte volte maggiore di quella raggiunta nel polmone di un mammifero. Le direzioni di scorrimento del sangue e dell’aria negli alveoli polmonari, infatti, sono opposte, così che l’assunzione di ossigeno e l’eliminazione dell’aOMEOTERMI O ENDOTERMI

temperatura corporea (°C)

40

30

20

10

0

FREDDO AI PIEDI Se un apatosauro avesse accumulato calore grazie all’inerzia termica della mole, la parte massiccia del corpo sarebbe stata più calda rispetto alle estremità.

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nelle cavità delle ossa. Questi sacchi, presenti anche in pochi rettili attuali, possono essere considerati come estremità esageratamente dilatate di alcuni bronchi, che sporgono dalla superficie del polmone. I sacchi aerei, scarsamente vascolarizzati, sono delle vere e proprie

nidride carbonica avvengono con grande efficacia. Successivamente, l’aria “sporca” viene riemessa, spinta dal successivo afflusso d’aria dai sacchi aerei. Queste strutture hanno poi una funzione polivalente: oltre a permettere un’ossigenazione continua del sangue (indispensabile a sostenere gli sforzi muscolari del volo) hanno con molta probabilità anche un ruolo termoregolatore, poiché sono in grado di disperdere rapidamente l’eccesso di calore accumulato durante il lavoro muscolare. Oggi sappiamo che molti dinosauri avevano una respirazione simile: intricate cavità pneumatiche nelle loro vertebre e anche in altre ossa sono omologhe a

quelle che hanno gli uccelli. È facile che l’apatosauro e il deinonico, per esempio, potessero sfruttare per potersi muovere agevolmente questo tipo di respirazione, l’unica in grado di produrre l’energia necessaria a spostare i loro corpi enormi. Oltre ai sacchi aerei alloggiati nelle cavità delle ossa, essi dovevano averne altri, molto sviluppati, per esempio nei loro giganteschi addomi. Rimane tuttavia il dubbio che queste caratteristiche fossero davvero un’esigenza legata all’endotermia o non fossero, più semplicemente, un fatto dovuto all’enorme stazza di questi animali. Ancora una volta, questi stessi argomenti impiegati per ipotizzare la loro endotermia, possono essere considerati anche come una conferma dell’ipotesi dell’omeotermia inerziale.

DUE CERVELLI Oltre alla massa cerebrale situata nel cranio, i dinosauri possedevano un ingrossamento del midollo spinale all’altezza dell’anca. Sebbene sia presente in tutti i vertebrati terrestri per il controllo dei movimenti e delle informazioni sensoriali del bacino e delle zampe, nei dinosauri esso raggiungeva dimensioni notevoli: in Stegosaurus era trenta volte più grande del cervello.

più modeste variazioni, possa svilupparsi solo in animali che abbiano una temperatura corporea quasi costante. Le dimensioni del cervello dei dinosauri, calcolate dal volume delle loro scatole craniche, non costituiscono però un argomento che avvalori l’ipotesi omeotermica in tutti i gruppi: a parità di peso corporeo, il cervello di uno stegosauro è 30 volte più piccolo di quello di un elefante. A differenza dell’elefante tuttavia, lo stegosauro aveva un’espansione del midollo spinale all’altezza del bacino, 30 volte più sviluppata del cervello stesso: una sorta di centro nervoso sacrale che certamente non serviva a “pensare”, ma a coordinare i movimenti e le informazioni sensoriali del bacino e delle zampe. Pensando alla complessità di comportamenti messi in atto da rettili arcosauri attuali come i coccodrilli, che pure hanno

UN’ALTRA PROVA: IL CERVELLO Animali grandi e veloci nel muoversi richiedono un sistema nervoso complesso, che riesca a gestire l’invio dei segnali motori da una parte, e la ricezione e la rapida elaborazione delle informazioni sensoriali dall’altra. I dinosauri, piccoli o grandi, dotati di movimenti scattanti, dovevano possedere un cervello in grado di farli reagire repentinamente alle sollecitazioni esterne. Il tessuto nervoso, però, è molto sensibile alle variazioni di temperatura, e una volta danneggiato non è in grado di riformarsi. Si può pensare dunque che un cervello grande, particolarmente delicato e sensibile anche alle

CERVELLI A CONFRONTO Il calco interno di un cranio fossile può dare un’idea della conformazione e del volume del cervello dei dinosauri. Qui sono

a confronto quelli di un tirannosauro (sopra) e di un ceratopside. Dal rapporto fra il volume del cervello e il volume corporeo si possono trarre

indicazioni sull’intelligenza: in base a questi valori il tirannosauro, come predatore, animale più vigile ed efficiente, risulta più dotato dell’erbivoro.

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un cervello molto più piccolo di quello di mammiferi di taglia simile, risulta evidente che la massa cerebrale complessiva dei dinosauri era adeguata alla loro massa corporea, anche nelle specie con il cervello meno sviluppato. D’altra parte alcuni studi comparati condotti su rettili estinti e su rettili viventi hanno messo in evidenza come il rapporto peso cerebrale/peso corporeo di molti dinosauri teropodi e ornitopodi fosse decisamente maggiore rispetto a quello che si riscontra nei coccodrilli attuali, e alcuni teropodi come i deinonicosauri avevano cervelli paragonabili a quelli degli uccelli. L’osservazione delle tracce fossili fornisce altri indizi sullo sviluppo cerebrale dei dinosauri, sulla loro intelligenza, sulla loro capacità di apprendere, ricordare e prendere decisioni. Le forme di vita sociale testimoniate dalle impronte e da altri resti fossili (come i nidi, per esempio) sono tipiche di animali che hanno notevoli capacità cerebrali.

UN GRANDE CERVELLO Tra tutti i dinosauri, i troodonti erano quelli con il cervello più sviluppato, considerate le loro dimensioni piuttosto ridotte.

Grazie al filone di ricerca iniziato da Dale Russell, del Canadian National Museum, possiamo affermare che alcuni di essi avevano un’intelligenza molto sviluppata. Egli scoprì, non senza una profonda emozione, l’impronta fossile di due grandi lobi del cervello medio impressa in una scatola cranica di Stenonychosaurus, un predatore grande non più di un tacchino appartenente al gruppo dei deinonicosauri troodonti. I calcoli di Russell dimostrano che il cervello di questo piccolo dinosauro aveva dimensioni paragonabili a quelle di un uccello attuale. Dale Russell provò anche a immaginare quali avrebbero potuto essere le caratteristiche di questi dinosauri se, superata la crisi del Cretacico, si fossero ulteriormente evoluti: sarebbero diventati esseri di circa 45 chili, bipedi e perfettamente eretti, con una testa sviluppata per accogliere un grande cervello, una fronte sporgente, gli occhi frontali e le mani, dalle dita opponibili, capaci di afferrare e manipolare gli oggetti. Un’immagine che assomiglia in modo sconcertante all’uomo. Russell si riferì a questi esseri immaginari con il nome di “dinosauroidi”. Molti paleontologi oggi ritengono che il dinosauroide di Russell sia anatomicamente una forzatura e che, se proprio si vuole immaginarlo al termine di un’evoluzione più lunga di quella interrotta dalla sua estinzione, bisognerebbe figurarselo come un animale con un aspetto non molto diverso da quello degli uccelli odierni. Tra questi ultimi non mancano esempi, come nel caso dei corvidi, di specie estremamente intelligenti, capaci persino di manipolare oggetti con il becco.

CRESCITA E METABOLISMO Un piccolo adrosauro pesava alla nascita 16.000 volte meno di sua madre: un etto e mezzo contro 3 tonnellate. Prima di raggiungere la maturità sessuale doveva crescere moltissimo, e in fretta: per lo meno con la stessa velocità di un rinoceronte o di un bufalo. Il ritmo di crescita dipende dal tipo di metabolismo, ed è tanto più

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alto quanto più questo è elevato: se un gatto raggiunge la maturità sessuale in 6 mesi, una tartaruga ci impiega 10 anni. Si possono ottenere informazioni sulla velocità di crescita di un animale dall’analisi delle sezioni trasversali delle sue ossa. Il tessuto osseo è percorso, in genere, dai canali di Havers, attraverso i quali passano i vasi sanguigni che irrorano il midollo. Nei rettili attuali il tessuto osseo è molto compatto: i canali di Havers sono scarsi, e l’irrorazione sanguigna povera. Dove la stagione invernale o i periodi ricorrenti di siccità li costringono a una sorta di letargo (la latenza), i rettili odierni hanno ossa che, sezionate trasversalmente ed esaminate al microscopio, presentano un’alternanza di anelli scuri e chiari dalla struttura diversa, paragonabili agli anelli del tronco di un albero. Si tratta anche in questo caso di anelli di crescita, dovuti a una di-

UNA CRESCITA VELOCE Questo scheletro di adrosauro esposto al Royal Ontario Museum (Toronto, Canada) appartiene a un esemplare giovanile. La crescita in questi animali era piuttosto veloce, paragonabile a quella dei mammiferi e degli uccelli odierni.

versa velocità di accrescimento del tessuto nei periodi di attività e di latenza. Le ossa dei mammiferi presentano invece gli anelli di crescita solo in alcune specie. In genere il loro tessuto osseo è ricco di vasi sanguigni e di canali di Havers: una struttura che indica uno sviluppo rapido e un metabolismo elevato. Si può dire, in generale, che mentre i rettili hanno un accrescimento corporeo (e quindi anche delle ossa) lento ma continuo, e che dura tutta la vita, nei mammiferi esso è più rapido e, una volta raggiunta la maturità sessuale, si arresta. Le sezioni delle ossa fossili dei dinosauri assomigliano in modo straordinario a quelle dei mammiferi attuali. Esse conservano peraltro un carattere tipicamente rettiliano: pur avendo le ossa dei giovani una velocità di accrescimento molto elevata, paragonabile a quella dei mammiferi, quelle degli adulti non raggiungono mai

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la stasi di crescita dei mammiferi, ma presentano caratteri tali che indicano un continuo accrescimento. Dopo una “rapida” infanzia, i dinosauri continuavano dunque a crescere per tutta la vita, che era più breve di quanto si potrebbe pensare (non più di una trentina d’anni nelle specie studiate finora). Secondo Robert Bakker, e anche secondo Armand de Ricqlès dell’Università di Parigi, le ossa fortemente vascolarizzate dei dinosauri sono un’ulteriore conferma della loro endotermia. Ma anche quest’ultima affermazione può essere facilmente utilizzata per dimostrare il contrario: un tessuto osseo ricco di canali di Havers e altamente vascolarizzato può essere

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dovuto anche esclusivamente alla presenza di una grande massa corporea. Questa caratteristica potrebbe essere infatti indispensabile perché le ossa possano acquisire quella struttura elastica e nello stesso tempo solida di cui hanno bisogno per sostenere un peso notevole.

AGGRESSIONE E DIFESA L’esame di nidi e impronte lasciate dai dinosauri mostra chiaramente che molti di essi erano sociali e che erbivori come per esempio i diplodocidi si spostavano in gruppo, tenendo i piccoli al centro. È probabile che mantenessero questa formazione anche in altri momenti della loro vita. Vivere insieme, in una popolazione comporta costi elevati: una maggiore diffusione delle ma-

STRATEGIE DI ATTACCO Un Acrocanthosaurus, grande teropode carnivoro ai vertici delle catene alimentari nel Cretacico inferiore nordamericano, osserva, pronto ad approfittarne facendo valere la sua mole, tre agili Deinonychus mentre cercano di abbattere un Tenontosaurus.

lattie, una più pesante competizione per il cibo e per la conquista di un partner sessuale. Tuttavia, se la pressione dei predatori è forte, o, come nel caso di alcuni carnivori, se l’approvvigionamento è difficile, i vantaggi del vivere in gruppo superano i costi. Nascono così varie forme di aggregazione sociale. I piccoli predatori come Coelophysis, o i tirannosauridi nella fase giovanile, potevano senza dubbio cacciare prede più grandi di loro solo rimanendo in gruppo. Certamente gli erbivori potevano trarre vantaggio dal vivere insieme, e sfuggire più facilmente al predatore che “pesca” nel gruppo, o addirittura fronteggiarne gli attacchi schierandosi uniti e compatti. Già allora dovevano esistere tattiche difensive o aggressive che ancora ritroviamo fra gli animali gregari. Anche se non vi sono indicazioni di questo comportamento nei fossili, si può presupporre che i ceratopsidi potessero disporsi a cerchio intorno ai piccoli, per difenderli dagli attacchi dei tirannosauri e opporre ai predatori un muro di corna e di collari ossei, proprio come fanno i buoi muschiati di fronte ai lupi. Se l’aggregazione sociale può aver risolto già nel Mesozoico molti problemi di predazione e di difesa, né più né meno come succede oggi, tuttavia la sopravvivenza di una specie non è affidata solamente alle tattiche sociali. Per avere il sopravvento, un predatore deve disporre di buone armi. La preda, a sua volta, deve essere altrettanto abile a difendersi o a fuggire. In termini evolutivi, la sconfitta significa, per una specie, l’estinzione. Ecco quindi che preda e predatore sono impegnati in una rincorsa evolutiva nella quale la selezione naturale permette una maggiore probabilità di sopravvivenza alle forme particolarmente dotate. Ciascuna forma si evolve sotto la pressione

dell’altra, e viceversa, in quella che nel corso di millenni è diventata una vera e propria “corsa alle armi”. Anche nel Mesozoico, fra gli erbivori, avevano più probabilità di sopravvivere gli individui dotati di efficaci mezzi di difesa attivi o passivi: placche ossee, piastre dermiche, corna, protuberanze, unghioni, code robuste e armate di spuntoni o di vere e proprie mazze ossee, fecero la loro comparsa e vennero rapidamente selezionate verso dimensioni e capacità sempre maggiori. Fra i carnivori, ugualmente, avevano più probabilità di sopravvivere i predatori più abili: si svilupparono dunque zanne e apparati boccali poderosi, dai muscoli potenti e dalle arti-

DIFESA ATTIVA Un momento di lotta fra un carnivoro (Tarbosaurus) e un erbivoro (Tarchia): fra i mezzi utili alla difesa, gli anchilosauri univano alla corazza di placche ossee e cornee un ingrossamento osseo nella parte terminale della coda che consentiva loro di rispondere con pericolosi colpi di mazza alle aggressioni di un predatore.

colazioni mobili, che permettevano di mordere la preda in modo più efficiente, mani armate di artigli taglienti, capaci di afferrare e stringere la vittima in una morsa sanguinosa, e gambe sempre più forti, capaci non solo di scalciare e dilaniare con gli unghioni, ma anche di correre, di divincolarsi, di saltare con un’agilità che permetteva di superare anche la difesa più ostinata di un erbivoro armato. Non solo. La selezione favorì anche l’aumento corporeo dei due contendenti: più la preda era grossa, più facilmente riusciva a fronteggiare il

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STRATEGIE DI DIFESA Due carnivori affamati (Daspletosaurus) attaccano un gruppo di Anchiceratops. Per similitudine con gli attuali erbivori dotati di una stessa mole possente e di corna (i buoi muschiati, per esempio, riprodotti sotto) si suppone che i ceratopsidi mettessero in atto un analogo comportamento di difesa: disponendosi in cerchio intorno ai piccoli, forse opponevano ai predatori un muro fatto di scudi nucali e di corna appuntite.

predatore; più un predatore era grosso, più facilmente riusciva ad aver ragione della sua preda. Nel Cretacico, la corsa alle armi di prede e predatori raggiunse l’apice. Tyrannosaurus è stato davvero la macchina predatrice più efficace che l’evoluzione abbia mai prodotto: il cranio, massiccio e spaventoso sopra un corpo lungo oltre 12 metri, aveva nell’articolazione fra mandibola e mascella il suo unico punto mobile; i denti,

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una via di mezzo tra un coltello dal bordo seghettato e un punteruolo, lunghi fino a 18 centimetri, erano strumenti formidabili per lacerare la carne e rompere le ossa, mentre muscoli potentissimi davano forza al morso delle enormi fauci. Con lui i cacciatori sulla terraferma raggiunsero livelli di grandezza e forza mai eguagliati nella storia del Pianeta. Di fronte alla potenza aggressiva di carnivori

LA DIFESA DEL GIGANTE Una lotta fra uno scattante allosauro e un lento diplodoco: è possibile che, oltre a rizzarsi sulle zampe posteriori opponendo all’aggressore gli unghioni degli arti anteriori, questi giganteschi animali usassero la lunga coda come una terribile frusta.

tanto specializzati, gli erbivori dovevano avere mezzi difensivi adeguati. Gli anchilosauri, per esempio, erano coperti di placche e spine, e avevano un corpo osseo all’estremità della coda, con cui potevano difendersi come a colpi di mazza. Le spine che lo stegosauro aveva sulla coda, manovrate da un animale di quasi 2 tonnellate, sono fra le difese più potenti che un erbivoro abbia mai avuto. E così pure le corna che i triceratopi avevano sul muso, lunghe fino a 90 centimetri: pur essendo principalmente strutture ornamentali, potevano essere anche usate come armi in grado di infliggere ferite mortali anche a un carnivoro rapido e feroce come il tirannosauro. Altri dinosauri, corazzati ma privi di armi supplementari, adottavano forse una difesa passiva, acquattandosi sul terreno per proteggere il ventre indifeso. Gli enormi diplodocidi, lunghi oltre 30 metri, si difendevano probabilmente menando colpi terribili con la coda lunghissima e flessuosa come una frusta; i dinosauri a becco d’anatra sferravano calci e codate, anche se più probabilmente la loro miglior difesa era la fuga. Infine, è probabile che molti, specialmente i più piccoli e i più indifesi, facessero ricorso al mimetismo, così da confondersi, grazie al disegno delle squame e ai toni della livrea, con l’am-

SESSO, LOTTE E DECORAZIONI Un momento dell’accoppiamento fra due dinosauri erbivori: l’accoppiamento dei dinosauri avveniva probabilmente con modalità analoghe a quelle riscontrabili nei sauri attuali, dove il maschio si pone dorsalmente alla femmina in modo che le due zone della cloaca combacino.

biente in cui vivevano. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, è davvero solo una supposizione, perché non sappiamo che colori avessero. Fanno eccezione i dinosauri piumati per i quali si è potuta studiare la colorazione grazie alla presenza dei melanosomi: se infatti è certa l’evoluzione parallela di mezzi anatomici di difesa e di attacco, per quanto riguarda il colore, o per ciò che concerne determinati comportamenti non suffragati da prove fossili, tutto quel che si dice è ipotetico.

DINOSAURI IN AMORE Il sesso è il motore dell’evoluzione. È attraverso il sesso che si realizzano, all’interno di una popolazione, tutte le combinazioni genetiche responsabili delle diversità fra gli individui su cui

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agisce la selezione naturale. Il fine di ogni individuo (naturalmente non cosciente ma frutto di un processo selettivo) è la riproduzione, perché lo fa sopravvivere alla morte biologica nella continuità genetica dei suoi discendenti. Nella riproduzione si concentrano perciò le energie degli adulti di ogni tipo di animale, secondo infinite modalità di comportamento poste in atto durante il corteggiamento e le competizioni sessuali, nei sistemi nuziali o nella cura della prole. Dal 1970 i paleontologi cercano negli scheletri dei dinosauri segni che ne evidenzino il comportamento sessuale. Non c’è dubbio infatti che la selezione naturale favorisca lo sviluppo di quelle strutture anatomiche che conferiscono un successo riproduttivo per chi ne è fornito, determinando la vittoria nelle competizioni fra maschi, o la scelta sessuale delle femmine. Si suppone che anche allora fosse la femmina a garantire lo sviluppo dell’embrione, fornendo il nutrimento contenuto nell’uovo, e si pensa che i maschi combattessero fra loro per conquistarne una: il solo modo per avere un successo riproduttivo. Probabilmente, allora come oggi, le femmine “ritrose” sceglievano il compagno con cautela, evitando così di “sprecare” le loro uova. Se questa ipotesi è valida, anche i maschi

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TESTA A TESTA Una ricostruzione ci mostra un momento della lotta fra due pachicefalosauri maschi. La particolare conformazione del cranio di questi dinosauri, con un forte ispessimento della volta cranica, ha suggerito per analogia con animali attuali l’ipotesi che essi si scontrassero “testa a testa” per la supremazia sulle femmine o sul gruppo.

dei dinosauri, come quelli di molte specie attuali, dovevano essere dotati di ornamenti sessuali (colori sgargianti o appendici più o meno inutili ma vistose) che promuovevano la scelta delle femmine; o essere forniti di strutture anatomiche particolari, demandate esclusivamente alle tenzoni amorose. Una conferma di questa supposizione potrebbe essere il fatto che alcuni esemplari fossili presentano apparati ossei che sembrano adatti a queste funzioni. Protoceratops, per esempio, aveva un collare a cresta dietro il capo, più sviluppato in alcuni individui piuttosto che in altri. Si è supposto che fosse sviluppato soprattutto nei maschi: è probabile che questo fregio fosse un fattore di intimidazione per i rivali e di scelta per le femmine; quanto più il collare era grande, tanto maggiore era il successo sessuale del suo possessore. I pachicefalosauridi avevano invece la parte superiore della scatola cranica fortemente ispessita e massiccia, così che la testa, sormontata da una cupola, assumeva un aspetto “a pera”. Si può ragionevolmente pensare che gli scontri fra maschi a suon di spintoni risolvessero le dispute amorose senza che alcuno dei contendenti ci lasciasse la vita con zuccate troppo violente. La selezione naturale promuove infatti l’evolu-

zione di strutture e comportamenti che evitano la conclusione tragica dei conflitti amorosi: un contendente morto non può più riprodursi. Così le creste ossee sul muso dell’allosauro o del dilofosauro possono essere interpretate come ornamenti (e non come armi letali usate con ferocia e potenza) utili per risolvere, attraverso comportamenti rituali (quindi nel modo meno cruento possibile) le competizioni sessuali, come succede oggi in alcune specie di iguana. Oltre alle caratteristiche anatomiche o ai colori, i maschi dei dinosauri facevano forse ricorso anche a comportamenti stereotipati di corteggiamento. Gli adrosauri, per esempio, avevano uno straordinario sistema di creste frontali, formate dall’espansione delle ossa nasali, con all’interno una tortuosa rete di cavità. Si pensa che questo complesso sistema di canali, dove passava l’aria prima di uscire dalle narici, costituisse una elaborata cassa di risonanza che permetteva agli adrosauri di usare il loro naso come una potente tromba, a cui davano fiato due enormi polmoni. Se l’interpretazione di queste strutture anatomiche è corretta, i canti d’amore di questi dinosauri furono i più potenti segnali sonori che mai animale abbia

STRUTTURE ORNAMENTALI Scaglie cornee e creste ornano la testa di un’iguana: è probabile che anche per i dinosauri questi ornamenti avessero una funzione nelle competizioni sessuali.

BELLI E COLORATI Un sauro agamide della Tanzania mostra i colori vivaci che segnalano il suo rango. È un maschio dominante che controlla un territorio e una mezza dozzina di femmine. In questa specie, i maschi subordinati sono bruni: può darsi che anche per i dinosauri il colore della pelle avesse una funzione nelle competizioni sessuali, nel segnalare il rango sociale o nel determinare la scelta delle femmine.

prodotto. Come succede fra i cervi, è probabile che il bramito più potente fosse indice di maggior forza e avesse una capacità intimidatoria sui rivali. Più forte era il segnale, più alte erano le possibilità di chi lo aveva lanciato di riprodursi o di avere un ruolo dominante nel gruppo. Se gli adrosauri furono i più chiassosi, dobbiamo tuttavia credere che i suoni fossero di vitale importanza anche per gli altri dinosauri: tutti erano dotati infatti di un efficace

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RICHIAMI DAL PASSATO È possibile che i dinosauri producessero lo stesso tipo di richiami a bassa frequenza che oggi sentiamo emettere dagli uccelli terricoli come il casuario (sotto) dell’Australia e Nuova Guinea.

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sistema uditivo, a giudicare dalle tacche presenti nel cranio, atte a sostenere la membrana ben tesa del timpano. Tutti inoltre possedevano ossa dell’orecchio medio sottili e delicate come quelle degli uccelli, in grado probabilmente di captare un buon numero di frequenze, specialmente quelle più basse. Gli uccelli odierni hanno un organo, chiamato siringe, che permette loro di modulare canti alle alte frequenze. La siringe non era presente nei dinosauri e anche in molti uccelli mesozoici. Tuttavia gli uccelli attuali, specie le forme terricole e più primitive come struzzi, emù, nandù e casuari, emettono tutta una serie di richiami alle basse frequenze simili al suono di un tamburo, e anche i coccodrilli sono in grado di produrre soffi, suoni bassi e pigolii o di sbattere rumorosamente le mascelle. Tutti i dinosauri erano sicuramente in grado di emettere questa gamma di suoni. Se vogliamo immaginare il ruggito di un T. rex, dovremmo pensare a un suono basso e profondo, simile alle note delle colonne sonore dei film dell’orrore, emesso a bocca chiusa, senza quindi il bisogno

di spalancare le fauci come fa invece un leone. Nessuno dei rettili attuali (tartarughe, serpenti, lucertole o coccodrilli) ha un orecchio sofisticato come quello dei dinosauri, capace di udire i suoni sopra ipotizzati, e, d’altra parte, nessuno di loro, tranne i coccodrilli, ne ha bisogno, visto che non usano richiami sonori. Riassumendo, possiamo affermare che a differenza dei rettili sopravvissuti all’estinzione del Cretacico, i dinosauri potevano emettere richiami e usare in modi diversi le loro capacità uditive e vocali. Grazie agli amori intrecciati da questi animali, ai loro scontri e alle loro lotte, il mondo del Mesozoico doveva essere rumoroso quanto il nostro, e vibrare di una straordinaria cacofonia.

NIDIFICAZIONE E VITA FAMILIARE La predazione e la difesa, le competizioni sessuali e i comportamenti sociali sono per Bakker ulteriori prove a favore della sua tesi. Non sono però le sole prove su cui si basa chi sostiene l’ipotesi di un elevato metabolismo nei dinosauri: vi sono infatti numerose informazioni sulle abi-

CURE PARENTALI Due adrosauridi (Maiasaura) impegnati a curare la prole. Il ritrovamento di più nidi fossili, la presenza di uova non schiuse e di scheletri di adulti e nidiacei, fa supporre che essi nidificassero in gruppo per proteggersi dai predatori, e avessero cure parentali.

tudini di nidificazione e di cura della prole di alcuni dinosauri. Circa 80 milioni di anni fa il Nord America era diviso in due longitudinalmente da un grande mare interno. La parte occidentale, percorsa dalle Montagne Rocciose, si affacciava sulle sue rive con un’ampia pianura di sedimenti. Lungo la costa dal clima monsonico, gli acquitrini, i delta fluviali e le paludi, coperti di fitta vegetazione, ospitavano pesci, testuggini acquatiche, coccodrilli, piccoli mammiferi primitivi e molti dinosauri: adrosauri erbivori, ceratopsidi dalle lunghe corna, anchilosauri corazzati, grandi tirannosauri, dinosauri struzzo e deinonicosauri. Qui vivevano gli adulti, ma pochi vi deponevano le uova, che sarebbero state troppo esposte ai predatori. Al tempo della riproduzione, gli adrosauri, i ceratopsidi e gli ipsilofodonti, si spostavano più a occidente, verso le montagne, in zone più asciutte e meno densamente popolate. Vi costruivano i nidi e deponevano le uova che poi accudivano. Là dove in passato si estendevano la penisola e l’isola di un grande lago dalle acque alcaline sono stati ritrovati i resti di due veri e propri siti di nidificazione: distese di nidi fossili vicini l’uno all’altro, uova e piccoli appena usciti dal guscio, resti di vegetali, fossilizzati.

UOVA A CONFRONTO Confronto dimensionale fra un uovo di gallina (a destra), uno di struzzo (al centro) e uno di titanosauro (Hypselosaurus, a sinistra).

Gli adrosauri come Maiasaura (Maia siginifica “madre premurosa”), usando forse il fango, costruivano un nido circolare rialzato da terra come un catino, con un diametro di 2 metri e la profondità di uno. I fossili trovati in Montana e descritti nel 1979 da Jack Horner e Robert Makela sembrano indicare che questi animali tornassero ogni anno nello stesso luogo e ricostruissero lo stesso nido, come fanno molti uccelli migratori attuali quando tornano ai siti di riproduzione. All’interno deponevano una trentina di uova, grandi come un pompelmo. Questi pacifici dinosauri, lunghi mediamente da 7 a 9 metri, avevano scarse capacità di difesa: forse reagivano a un’aggressione scalciando, ma più probabilmente fuggivano via correndo. Forse questo è il motivo che li spingeva a nidificare in folti gruppi, con i nidi addossati gli uni agli altri, a una distanza pari alla lunghezza di un animale adulto. Questa distanza costante è una delle principali prove del fatto che accudissero le loro uova. La nidificazione in gruppi a difesa delle uova e dei piccoli si è realizzata più volte nel corso dell’evoluzione e oggi è adottata da molti uccelli coloniali come gabbiani, albatri o pinguini: anche nel loro caso

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le distanze fra i nidi dipendono dalla grandezza degli animali e sono ridotte al minimo indispensabile. I nidi erano in parte coperti con vegetali che, fermentando, producevano calore: ciò potrebbe essere considerata un’ulteriore prova del fatto che i genitori, o uno solo di essi, accudissero le uova. Al momento di allontanarsi in cerca di cibo, essi avrebbero usato quel materiale come coperta per mantenere calde le uova o i piccoli, fino al loro ritorno. Queste cure parentali possono essere interpretate come prove indirette dell’endotermia di questi animali. È l’endotermia, infatti, che impone agli uccelli la cova delle uova: lo sviluppo dell’embrione avviene solo a una temperatura costante. Perciò i genitori scaldano con il loro corpo l’embrione che si sta sviluppando nell’uovo, e adottano strategie comportamentali perché rimanga caldo anche nei momenti in cui essi sono obbligati ad allontanarsi. Poiché gli adrosauri erano troppo grandi per scaldare le proprie uova con il calore del corpo, le mantenevano costantemente coperte con la vegetazione marcescente. Quando le uova infine si schiudevano, venivano alla luce piccoli dinosauri che, nati inetti, lunghi a malapena una cinquantina di centimetri, non

CERCHIO DI UOVA La forma delle uova di dinosauro rinvenute finora varia da quasi sferica a molto allungata, come nell’immagine sopra che ritrae le uova di un oviraptorosauro. Esse venivano generalmente deposte in cerchi concentrici all’interno del nido scavato nella sabbia, o nei “catini” rialzati, costruiti appositamente.

potevano lasciare il nido finché non erano in grado di nutrirsi da soli. I genitori provvedevano anche a questo, come fanno oggi uccelli e mammiferi, e portavano al nido semi, bacche, frammenti di arbusti e altri vegetali. Forse i giovani adrosauri, incapaci di difendersi, erano facile preda dei carnivori, e l’atteggiamento di guardia degli adulti doveva essere di tipo collaborativo se, al comparire del pericolo, emettevano (com’è probabile) grida di allarme. Gli ipsilofodonti deponevano nel nido le uova secondo una spirale. Anche i loro nidi erano distanziati a intervalli regolari: 2 metri, la lunghezza di un animale adulto. A differenza di quanto succedeva fra gli adrosauri, tuttavia, gli adulti molto probabilmente non accudivano la prole. I piccoli di questi dinosauri erano capaci, forse già alla nascita, di correre veloci, rimanendo uniti fino a quando non erano in grado di lasciare il luogo dove erano nati. Questa loro aggregazione sociale doveva costituire una sorta

UN’INFANZIA PROTETTA A sinistra: la schiusa delle uova in un nido di dinosauri sotto la presenza vigile di un genitore. Anche nel Mesozoico i predatori

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facevano strage di uova e di nidiacei: deporre un alto numero di uova e curare la prole erano strategie di difesa per garantirsi un minimo di discendenti.

di difesa: uniti potevano avvistare per tempo un predatore e fuggire; uniti avevano ciascuno una minore probabilità di cadere vittima di un carnivoro, secondo la strategia di difesa applicata da numerosi erbivori. Anche in questi ambienti, infatti, non mancavano predatori affamati: gli pterosauri, per esempio, che perlustrando dall’alto la colonia e piombando di sorpresa su un nido, erano forse i più accaniti divoratori di neonati. Anche i varanidi, forse, svolgevano una pressione predatoria: sembrano testimoniarlo i nidi distrutti. Inoltre, come ancora oggi succede in comunità simili, anche predatori specifici venivano a nidificare nella stessa zona, approfittando di una così grande concentrazione di prede. Tro-

odon, un piccolo cacciatore, giungeva a nidificare proprio nelle loro vicinanze. Mentre nei nidi degli ornitischi le uova venivano deposte in modo concentrico, la femmina di Troodon deponeva le sue in più file lineari. Invece Citipati, un oviraptorosauro, faceva le uova in cerchio, lasciando al centro del nido lo spazio per poterci entrare in piedi e accovacciarsi, in modo da proteggerle o mantenerle alla temperatura giusta utilizzando le lunghe penne che aveva sulle braccia. Adulti di oviraptorosauri trovati morti sul nido, nel tentativo estremo di proteggerlo da una violenta tempesta di sabbia, mostrano quanto questi dinosauri fossero attaccati

alla futura prole, che non lasciavano nemmeno in situazioni di grande pericolo. Anche i sauropodi titanosauri, infine, nidificavano in colonie, come testimoniato dai ritrovamenti fossili avvenuti tra il 1997 e il 1999 nel sito di Auca Mahuevo, nella Provincia di Neuquén, in Patagonia, a opera dei paleontologi Luis Chiappe, Lowell Dingus e Rodolfo Coria. Questi esempi di nidificazione e di cure parentali dei dinosauri sono suffragati da molti ritrovamenti fossili. Tutto lascia pensare però che, come grande fu la diversità fisica di questi ani-

MIGRARE IN GRUPPO La migrazione di un gruppo di sauropodi così come si può ricostruire dalle impronte fossili di questi animali. In alcuni ritrovamenti, le orme più piccole sono al centro del branco: ciò suffraga l’ipotesi che, analogamente a quanto succede oggi nel caso di alcuni erbivori, i giovani occupassero il centro del gruppo, difesi dagli adulti.

mali, altrettanto vasta sia stata la varietà del loro comportamento parentale. Nel ricostruire la loro biologia, l’immagine tradizionale dei dinosauri è stata più volte messa in discussione. Molti pregiudizi sono caduti: non più animali lenti, goffi e impacciati dalla mole, ma scattanti, veloci e dinamici; non più animali di scarsa intelligenza, ma pronti, vivi, capaci di comportamenti complessi; forse non più animali a sangue freddo, ma dotati di un metabolismo elevato, garantito nei più piccoli e nelle forme bipedi dai meccanismi termoregolatori dell’endotermia, e nei giganteschi erbivori, probabilmente dall’inerzia termica dovuta alla grande mole. E, nonostante l’aspetto terribile e a dispetto del nome, molti erano anche capaci di cure e protezione verso i piccoli, come genitori attenti e solleciti.

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UNA SINTESI DEL TRIASSICO Questa ricostruzione (non in scala) mostra i vegetali e gli animali più rappresentativi vissuti circa 50 milioni di anni (fra 251,9 e 201,3), nel Triassico. Il disegno non rispecchia alcun paesaggio realmente

esistito: per questa ragione, i contorni sono sfumati, e, su uno sfondo evanescente, spiccano solo alcune immagini. Nonostante il progressivo inaridimento del clima e l’avanzare dei deserti, felci ed equiseti sopravvivono in ampie zone umide:

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Pleuromeia (14), eleganti pteridofite, vissero solo nel Triassico, le Marattiales (15), felci arboree primitive, le Equisetaceae (16) delle quali troviamo oggi il genere Equisetum. Il clima arido seleziona piante sempre meno dipendenti dall’acqua: le pteridosperme (19), le Cycadatae (17), gimnosperme primitive sopravvissute fino a oggi, le conifere più primitive (come le Voltziales, 18) che costituirono le foreste del Triassico e Giurassico. Il clima seleziona anche gli animali: i Mastodonsaurus (12) sono gli ultimi anfibi giganti. I rettili occupano il mondo e compaiono i primi dinosauri. Sono i giganti plateosauridi (1), i celofisidi come Syntarsus (3) e gli eterodontosauridi (13), i più piccoli dinosauri del Triassico. I rettili occupano tutti gli ambienti: i teratosauridi (2), Proterosuchus (4), simile agli attuali coccodrilli; Proganochelys (8); Eudimorphodon (9), uno dei primi pterosauri; Longisquama (5) e Kuehneosaurus (6) a caccia di una libellula (11): gli invertebrati sono dovunque e costituiscono un importante anello della catena alimentare. Rettili anche nei mari: Nothosaurus (7) ha abitudini simili a quelle degli attuali leoni marini. Ma un evento di rilievo caratterizza il Triassico: la comparsa dei mammiferi. Morganucodon (10) segna l’inizio della lenta evoluzione che porterà anche all’uomo.

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riere naturali: né catene montuose elevate, né istmi, né oceani. Gli E AM RD EUROPA animali, spinti dalle loro ne­ NO cessità vitali, potevano migrare AFRICA spaziando da un estremo all’al­ INDIA LIA tro del continente. Se ne trovano AUSTRA ANTARTIDE oggi le prove fossili: i plateosauridi, ad esempio, che furono i dinosauri erbivori più comuni di questo tempo, lasciarono i loro LA TERRA NEL TRIASSICO Secondo le ipotesi più resti in America settentrionale e meridionale, accreditate, agli inizi del in Europa e in Cina, in Sud Africa e in Austra­ periodo le terre emerse lia, spostandosi su percorsi di migliaia di chilo­ sono unite in un unico, vasto supercontinente metri in tutte le direzioni, probabilmente alla (Pangea) circondato ricerca di nuovi pascoli, proprio come fanno dall’oceano (Panthalassa). oggi le mandrie di gnu nella savana africana. Tuttavia, un grande golfo (Mare della Tetide) si apre I paesaggi del Triassico, anche se presenta­ a oriente, primo indizio vano la stessa straordinaria varietà dovuta ai della frantumazione della diversi climi (vaste foreste equatoriali, simili crosta terrestre che avverrà nei periodi successivi. a quelle che coprono oggi le zone montane della Malesia e dell’America centro­meridio­ nale, boschi, ampie paludi, laghi e vasti deserti di sabbia e di pietra, solcati A RIC E da verdi valli, da fiumi o costel­ AM RD EUROPA NO lati da piccole e grandi oasi, praterie sconfinate) erano SU OCEANO DA ME però molto diversi da quelli TETIDE RIC A attuali. Ovunque, poi, manca­ vano i mammiferi, e nessun canto ANTARTIDE d’uccello risuonava nell’aria. Alla fine del Triassico, Nel Triassico, durante i suoi circa 50 milioni di la Pangea è già suddivisa anni, avvenne un graduale ma profondo cam­ in due grandi blocchi: biamento nel clima della Terra: la glaciazione, Laurasia a nord, Gondwana che dalla fine del Paleozoico si era estesa nella a sud. Quest’ultimo blocco, poi, è già in fase di ulteriore parte meridionale di Gondwana, sottraeva frantumazione: l’India grandissime quantità di acqua al ciclo atmosfe­ si è già distaccata e ha rico, immobilizzandole sotto forma di ghiacci. iniziato il suo movimento verso nord, mentre il Dal clima estremamente umido del Carboni­ blocco Antartide-Australia fero e del Permiano, si passò così, gradualmente si dirige verso sud. ma sensibilmente, a un clima sempre più secco dalla temperatura media più elevata di quella attuale. L’entroterra aveva un clima con carat­ teristiche continentali e lunghi periodi di sic­ cità; sulle rive dei fiumi o sulle coste dei laghi e del mare si potevano invece trovare ancora ASIA

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Alla fine del Triassico, 201 milioni di anni fa, i primi dinosauri fa­ cevano la loro comparsa sulla Terra. Un tempo enormemente lungo. Non può stupire che in questa Era la faccia del nostro Pianeta fosse ben diversa da quella che siamo abituati a vedere. Né può stupire che di quei tempi lontani non rimanga oggi che pietra. Il nome di Triassico (o Trias) deriva proprio dalla geologia, la scienza che studia le rocce, e fu proposto nel 1834 da F. Alberti che notò come nelle formazioni geologiche datate fra 251 e 201 milioni di anni, si potessero di­ stinguere successioni sedimentarie. Il Triassico è l’alba del Mesozoico, l’età “di mezzo” nella storia della Terra: come il Medioevo per la sto­ ria dell’uomo, questo periodo segna il passaggio dal mondo remoto del passato a quello in dive­ nire del presente. In questo periodo le terre emerse for­ mavano l’unico, vastissimo con­ tinente di Pangea, con estese pianure e altopiani, re­ lativamente tranquillo dal punto di vista geologico e circondato dal Panthalassa, un oceano sconfinato. La continuità delle terre era interrotta nella regione centro­orientale dal grande e profondo golfo della Tetide. L’azione delle forze interne della Terra, provo­ cando l’espansione dei fondi oceanici attuali, avrebbe determinato nella Pangea lo sviluppo di due profonde fratture. La prima, approssima­ tivamente parallela all’equatore, avrebbe sepa­ rato Laurasia a nord (costituita da ciò che di­ venterà l’America settentrionale e l’Eurasia) da Gondwana a sud (costituito da America meri­ dionale, Africa, India, Australia e Antartide). La seconda avrebbe iniziato invece la forma­ zione dell’Oceano Indiano, determinando la deriva dell’India. Nella vastità della Pangea del Triassico però, non c’erano ancora grandi bar­

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zone umide tipicamente tropicali o subtropicali. L’estendersi dei deserti causò profondi cam­ biamenti nel mondo vivente: gli animali e le piante più strettamente dipendenti dall’acqua si estinsero a poco a poco, sostituiti da altre specie (ad essa sempre meno legate) che finirono col prevalere. Scomparvero così i grandi anfibi, ed è proprio in questo periodo che avvenne una sostanziale e radicale metamorfosi nel mondo delle piante: gli equiseti giganti, le felci arboree, le epatiche, i licopodi arborescenti e i muschi che avevano dominato il paesaggio del Carbo­ nifero svolgendo un ruolo essenziale nella for­ mazione dei grandi depositi di carbon fossile, si trovarono gradatamente confinati in zone sempre più ristrette di alta umidità e clima tro­ picale, dove formavano ancora grandi foreste

UNA ROCCIA, UN NOME Rocce triassiche in un tratto della via ferrata Astaldi, nei pressi di Cortina d’Ampezzo. La denominazione di Triassico, o Trias, proposta dal geologo F. Alberti nel 1834, deriva dal fatto che nelle formazioni geologiche della Germania e di zone geologicamente simili che risalgono a questo periodo, compreso fra 251,9 e 201,3 milioni di anni fa, si possono distinguere tre piani di sedimentazione principali, ben distinti tra loro. In rocce come queste è probabile rinvenire fossili caratteristici di questo periodo geologico.

grondanti d’acqua e ingombre di tronchi riversi, mentre, in un mondo che inaridiva, altre piante venivano favorite dalla selezione naturale. Co­ minciarono a diffondersi le gimnosperme, le piante a seme nudo: nelle zone interne, a clima continentale secco, esse si trovavano ad avere un grande vantaggio evolutivo: queste piante avevano caratteristiche essenziali vincenti, come la riproduzione svincolata dall’acqua, il frutto legnoso e la forma vegetativa resistente agli eccessi del clima. Erano le prime forme di pini e di abeti, che popolano ancora oggi gli ambienti cosiddetti estremi della Terra: i lito­ rali marini, le montagne, le regioni più fredde e quelle più aride. Nel Triassico, per la prima volta nella storia della vita gli alberi affidavano al vento nuvole di polline destinate a fecondare

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LE PIANTE DEL MESOZOICO Fino al Cretacico inferiore, la varietà della flora mesozoica fu piuttosto uniforme sulla Terra. L’inaridirsi del clima determinò la riduzione delle zone umide che avevano caratterizzato Carbonifero e Permiano: si fecero sempre più rare e localizzate le pteridofite, o “piante con radici, fusto e foglie, prive di fiori e di semi”, e cioè i licopodi arborei come Sagillaria (1) e Lepidodendron (2), dei quali si vede qui anche la struttura esterna del tronco tormentato dalle cicatrici foliari; gli equiseti giganti come Neocalamites (3) ed Equisetis (4), e le felci arboree come Megaphyton (15), Asophillites (7), Matonidium (12) e Psaronius (9) che oggi vive nelle foreste tropicali.

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i coni femminili. Mentre i primi semi protegge­ vano (anche per anni) l’embrione della nuova vita, le radici affondavano nella terra fino agli strati profondi, più umidi, e tronchi rivestiti di spessa corteccia e foglie coperte di chitina resi­ stevano al caldo e al gelo, al vento e alla siccità. Di fronte all’avanzata di questi nuovi e raffi­ nati organismi, molte specie di gimnosperme primitive, già esistenti nel Permiano, si estin­ sero rapidamente. Nello stesso tempo fecero la loro comparsa Cycadatae, le piante più comuni e rigogliose di questo periodo: simili nel fusto alle palme e nelle foglie alle felci, costituirono la principale fonte di nutrimento per numerose specie di erbivori, tra cui anche alcuni dino­ sauri. Cominciarono a diffondersi successiva­ mente Taxidae e Ginkgoatae (parenti di Taxus baccata e di Ginkgo biloba, che abbelliscono i nostri giardini) seguite dalle conifere, ultime a comparire in quest’epoca di metamorfosi: alberi spesso alti più di 30 metri e con un diametro di oltre 2 metri, colonizzarono probabilmente tutta la Pangea. In questo mondo verde, ricco di elementi nuovi, si svolgeva la vita animale. Da oltre 200 milioni di anni sulla Terra dominavano gli invertebrati.

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Insetti, miriapodi, crostacei e molluschi brulica­ vano sulla terraferma, ronzavano nell’aria, stri­ sciavano ovunque e nuotavano negli stagni. Si nutrivano, oltre che dei propri simili, di piante, di materiale marcescente, di animali in decom­ posizione, e non mancavano le forme parassite. Il mondo vegetale e quest’esercito brulicante di invertebrati, costituivano la base della pi­ ramide alimentare della vita. All’apice di que­ sta piramide si trovavano gli anfibi e i rettili: i vertebrati carnivori predatori. Proprio nel periodo del loro declino evolutivo, gli anfibi, confinati nelle zone umide, presentavano ora una notevole diversificazione morfologica. Si­ mili nell’aspetto alle salamandre oggi ancora viventi, si differenziavano in forme dalle di­ mensioni estreme: accanto a Micropholis stowi, di appena 20 centimetri, si trovavano i temno­ spondili, che potevano raggiungere anche i 5 metri. Verso la fine del Triassico però, le forme giganti e molte altre specie anfibie andarono incontro a un inarrestabile declino, sostituite nei loro ruoli ecologici dai rettili, più adatti alle nuove condizioni ambientali. La diffusione dei rettili era comunque già evi­ dente all’inizio dell’Era. Due gruppi si sparti­

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Favorite dal clima più secco, le spermatofite, o “piante con radici, fusto e foglie, con fiori e con semi”, si differenziano rapidamente. Fino al Mesozoico medio prevalgono le “piante a seme nudo”, o gimnosperme: le variabilissime leptosporangiate (6), quasi estinte; le bennettitate come Williamsoniella (13), Williamsonia (14, 17) e Cycadeoidea (18) oggi scomparse; le pteridosperme come Medullosa (10), le cicadate come Podozamites (8), Palaeocycas (11) e Nilssoniales (16) simili alle palme e sopravvissute nelle nostre regioni calde. Piante che conosceranno una vasta diffusione alla fine del Triassico sono le voltziale come

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Pseudovoltzia (23), estinte nel Giurassico; le Araucariacee come Proaraucaria (5), oggi estinta, o come Araucaria (24), apprezzata pianta ornamentale; e le taxacee con Taxus baccata (21), l’unica specie europea attuale, di cui vediamo qui il germoglio maschile fiorito. Compaiono anche le sequoie, (25) che formano tutt’oggi vaste foreste nell’Asia orientale e nel Nord America: alcune hanno un’età superiore ai 3.000 anni, altezze fino a 100 metri e diametri di 8 metri circa. Comparse nel Permiano, Ginkgoatae ebbero nel Triassico la loro

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maggiore diversità di forme: il più diffuso fu il genere Baiera (22), mentre nel Giurassico compaiono specie come Ginkgo huttoni (20) molto simili al nostro Ginkgo biloba, l’unico sopravvissuto della classe. Nel Cretacico superiore, si sviluppano le spermatofite angiosperme, o “piante a seme protetto” che vinceranno la competizione con gimnosperme e pteridofite contribuendo a determinarne la forte

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riduzione. e. Tra le più comuni ricordiamo icordiamo le salicacee ee (19), le magnolie olie con i generi Liriodendrum, riodendrum, Magnolia, a, Myristica, e le rosacee, ee, ancora oggi numerose merose sia in natura ura che in parchi e giardini.

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IL TRIASSICO: ALBA DI UN NUOVO MONDO

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vano la Pangea: Gondwana era dominato dai terapsidi, mentre in Laurasia ai vertici delle ca­ tene alimentari vi erano gli arcosauri. I primi, dopo aver occupato per 70 milioni di anni tutte le nicchie ecologiche disponibili, erano ormai in fase di declino ma vicini al dare origine ai mammiferi; i secondi invece, comparsi pro­ prio in questo periodo, conoscevano una fase di veloce evoluzione: erbivori, insettivori, car­ nivori, acquatici, terricoli, arboricoli, coloniz­ zarono valli aride e sabbiose, acquitrini, laghi e altipiani, foreste e deserti. I carnivori più te­ mibili di questo periodo vivevano nelle acque dolci: erano i fitosauri dai corpi simili a quelli dei coccodrilli, la coda potente e il muso allun­ gato armato di denti. Nelle foreste di conifere, invece, rettili come Sharovipteryx mirabilis pla­ navano da un ramo all’altro degli alberi, come fanno ancora oggi i rettili agamidi nelle foreste tropicali dell’India e dell’Indocina. Di ambiente in ambiente, gli arcosauri colonizzarono tutta la Pangea fino a sostituire i terapsidi, e nella loro rapida evoluzione dettero origine agli pte­ rosauri, ai coccodrilli e ai dinosauri. Ovunque si poteva trovare un rettile. C’erano le tartarughe e le testuggini, chiuse nelle loro scatole ossee che ben poche modifiche hanno subito con il lento trascorrere delle ere; i pen­ dii rocciosi brulicavano di Trilophosaurus, simili a lucertole e probabilmente insettivori; molto

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CAPITOLO 6

RETTILI DI TUTTI I TIPI Sopra: fossile di un placodonte corazzato, Henodus, rinvenuto in un giacimento triassico della Germania. Questi rettili marini usavano i denti appiattiti del palato per rompere il guscio dei molluschi. Sotto: Rhynchosaurus appartiene ai rincocefali, uno dei gruppi di rettili terrestri più diffusi nel Triassico e oggi rappresentato solo dal piccolo tuatara (Sphenodon punctatus) una specie confinata in alcune isole della Nuova Zelanda.

diffusi erano i rincocefali, lunghi fino a 4 metri e dal muso armato di un grosso becco (il loro unico discendente, Sphenodon punctatus, vive oggi in un ridotto areale su alcune sperdute isole della Nuova Zelanda); perfino le coste ma­ rine brulicavano di rettili, e ai rettili predatori spettava un ruolo dominante. C’erano i proto­ rosauri, come Tanystropheus longobardicus, dal collo lunghissimo (fino a 3 metri) a causa dello sviluppo eccezionale delle vertebre, capace di catturare le prede nelle acque costiere; c’erano i notosauri, dalle abitudini presumibilmente anfibie, simili a quelle delle foche, o, ancora, i placodonti, simili alle tartarughe per il loro dorso corazzato, con denti e palato in grado di triturare anche i gusci più duri dei molluschi. Perfino le acque profonde del mare erano po­ polate di rettili: erano gli ittiosauri, fra i quali Mixosaurus, che somigliavano in modo impres­ sionante ai nostri delfini a causa di una evi­ dente convergenza evolutiva dovuta all’adatta­ mento ai mari aperti. Avevano il collo possente, un corpo fusiforme (lungo fino a 15 metri) e zampe modificate in pinne. Vivipari, non dovevano tornare a terra per deporre le uova: erano animali marini completamente svinco­ lati dalla terraferma. Ma l’avvenimento di rilievo nel mondo animale del Triassico è rappresentato dalla comparsa di due nuove forme di vita destinate a dominare le terre emerse: i mammiferi e i dinosauri.

I caratteri peculiari dei mammiferi (metabo­ lismo basale elevato, corpo coperto di pelo, gestazione e parto di figli vivi che devono es­ sere allattati) sono caratteri che non possono lasciare tracce fossili: quando siano effettiva­ mente comparsi resterà perciò una domanda senza risposta. D’altra parte alcuni resti fossili di terapsidi testimoniano come questi animali avessero già caratteristiche ossee (nel cranio, nei denti, negli arti) molto simili a quelle dei mammiferi: l’unico elemento che determina la loro classificazione fra i rettili è la presenza nel cranio del quadrato e dell’articolare, che nei mammiferi sono trasformati nell’incudine e nel martello dell’orecchio medio. I primi fossili catalogabili fra i mammiferi, per esempio quelli di Morganucodon, risalgono alla fine del Triassico e sono fossili di piccoli ani­ mali, lunghi appena 12 centimetri coda esclusa, plantigradi, simili agli attuali insettivori (come il toporagno, per intendersi) che, grazie all’en­ dotermia e alla capacità di vedere nel buio, erano probabilmente in grado di rimanere at­ tivi nelle ore notturne, quando gli altri animali, e soprattutto i dinosauri, dormivano. All’imbrunire, i piccoli mammiferi si mettevano a caccia di insetti, di ragni, di piccoli anfibi e di rettili che sorprendevano nelle tane, e potevano forse nutrirsi anche di semi e radici: per 160 mi­ lioni di anni (tanto dura la supremazia dei dino­ sauri), schiacciati dalla competizione, obbligati

SULLA TERRAFERMA Sotto: un Trilophosaurus, rettile di dubbia collocazione sistematica. Dotato di un becco, provvisto di denti larghi e taglienti adatti a strappare, ha lasciato resti fossili nel Nord America. In basso: Cynognathus crateronotus, un rettilemammifero molto diffuso nel Triassico, era carnivoro. I fossili di questo animale lungo fino a un metro, e più simile a un cane che a una lucertola, sono stati trovati nell’Africa meridionale. Anche la dentatura, che presenta canini sviluppati e molari potenti, ricorda quella del cane.

a nascondersi e a muoversi furtivi nelle foreste o nelle tenebre, rimarranno costretti in questo ruolo di animali di piccola taglia. I primi dinosauri comparvero circa 230 milioni di anni fa, in seguito alla progressiva evoluzione degli arcosauri. In generale, non è possibile sta­ bilire il momento esatto dell’insorgere di una nuova specie di animali a partire da quella pro­ genitrice: l’evoluzione procede infatti per cam­ biamenti graduali ai quali male si adattano le nostre classificazioni. I reperti fossili, inoltre, non possono essere organizzati in serie conti­ nue. Ecco dunque che i primi dinosauri, con il tipico bacino dei saurischi, compaiono fra i fossili all’improvviso. Ecco i primi teropodi, come Eoraptor: carnivori bipedi, snelli e leggeri,

di corporatura piccola, estremamente attivi, at­ tenti a ogni minimo movimento dell’ambiente circostante, pronti a scattare veloci dietro una preda e a ghermirla con le mani o a fuggire di fronte a un nemico, sorprendendolo con cambi improvvisi di direzione. Dagli stessi dinosauri progenitori presero paral­ lelamente origine altre forme di dinosauri, di taglia maggiore e più specializzati: comparvero dunque i celofisoidi carnivori e i prosauropodi erbivori, gli uni e gli altri impegnati in una sorta di reciproco inseguimento evolutivo, gli uni e gli altri proiettati verso dimensioni giganti. Dai primi prosauropodi, e per progressivi adat­ tamenti a una nicchia ecologica meno sfrut­ tata, si svilupparono gli erbivori plateosauridi. Stando ritti sulle gambe, essi riuscivano a bru­

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care le fronde degli alberi: fu proprio questo tipo di dieta che implica un aumento della massa in­ testinale (indispensabile alla digestione delle fi­ bre) a indurre una nuova modifica anatomica, costringendoli a poggiare sul terreno anche le braccia, diventando quadrupedi. Le linee evolutive dei saurischi erano già trac­ ciate quando fecero il loro silenzioso ingresso nel regno animale gli ornitischi: erbivori lunghi poco più di un metro, anch’essi bipedi e snelli, le gambe forti, tipiche di corridori agili e veloci, che in un mondo dominato dai carnivori erano pronti a salvarsi con la fuga. Prima di raggiungere una posizione dominante e il possesso della Pangea, saurischi e ornitischi dovettero misurarsi duramente con gli altri ret­ tili. Rettili essi stessi, avevano però qualcosa in più, qualcosa di vincente che assicurava loro il sopravvento e li portava a popolare ogni am­ biente, a eccezione del mare, e ogni nicchia delle terre emerse, a eccezione degli spazi aerei dove arrivarono nel corso del Giurassico. Car­ nivori molto evoluti o erbivori specializzati alle prese con un cibo difficile da masticare e da digerire, essi eliminarono gli altri animali dalla competizione, e la loro afferma­ zione determinò drastici cambia­ menti nel mondo vivente: ster­ minati dai nuovi, efficacissimi cacciatori, o sopraffatti nel loro stesso ruolo da nuove e più effi­ cienti forme di vita, i terapsidi e molti tipi di arcosauri, infatti, si estinsero, non prima però di

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CAPITOLO 6

ARRIVANO I MAMMIFERI A sinistra: crani di Thrinaxodon di differenti dimensioni. In base alle indagini osteologiche si suppone che si tratti di crani appartenenti a un adulto e a un neonato. A destra: mascella e mandibola (lunghezza reale 2 cm) di Morganucodon, uno dei primi mammiferi comparsi sulla Terra. Diversamente dai rettili, i denti dei primi mammiferi sono differenziati a seconda della funzione in incisivi piccoli e sottili, in canini sviluppati, in premolari e premolari appuntiti. Questi animali dovevano essere molto simili agli attuali insettivori. Sotto: lo scheletro fossile di un Thrinaxodon (lunghezza reale 10 cm). La posizione acciambellata è quella tipica dei mammiferi in letargo.

aver dato origine, rispettivamente, ai mammi­ feri e alla linea dei coccodrilli. I primi saurischi e i primi ornitischi entrarono silenziosamente sulla scena naturale: poco più di lucertole bipedi, avevano però nella loro struttura di agili corridori, di validi predatori o di efficienti brucatori già tutti i presupposti in­ dispensabili allo sviluppo delle qualità dei loro discendenti (dalla potenza del tirannosauro, alla mole gigantesca dell’apatosauro o all’effi­ cienza del triceratopo) che garantivano loro un successo esplosivo. La marcia dei dinosauri cominciò dunque nel Triassico. Essi popolarono rapidamente la ter­ raferma con un crescente successo evolutivo che durerà più di due periodi geologici, e che continua, almeno nei cieli, ancora oggi con il gruppo degli uccelli. Anche in Italia sono state rinvenute prove della presenza di questi animali già agli albori della loro storia: orme di animali vicini ai di­ nosauri, forse già teropodi, sono state trovate sul Monte Pisano (Toscana), mentre orme ri­ feribili a teropodi, prosauropodi e forse orni­ tischi sono state riconosciute sul Monte Pel­ metto (Veneto). Altri siti sono quelli delle Tre Cime di Lavaredo (Veneto), di Cima Puez (Alto Adige), del Parco Naturale delle Dolo­ miti Friulane (Friuli) e di Lerici (Liguria): si tratta di orme di dinosauri teropodi celofisoidi, anche di discreta taglia, di prosauropodi e di altri tipi di arcosauri e rettili. SCONTRO FRA DINOSAURI Nel fitto sottobosco di una foresta del Triassico, un celofisoide si avventa su un piccolo eterodontosauro. Furono molto probabilmente questi i primi scontri fra dinosauri, rettili allora comparsi da poco sulla Terra, ma già votati al successo, grazie al rivoluzionario impianto delle zampe posteriori.

Celofisoidi Q Misure a confronto fra l’uomo e il più piccolo celofisoide, Saltopus, che raggiungeva al massimo 60 centimetri di lunghezza. Il più grande, invece, era Halticosaurus, con 5 metri di lunghezza.

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urono tra i primi dinosauri e comparvero a fine Triassico. I resti numerosi, sia scheletrici sia impronte, testimoniano la loro grande diffusione su tutta la Pangea (sono state trovate tracce del loro passaggio anche in Italia). Una delle scoperte più straordinarie è stata fatta però negli Stati Uniti: nel 1947 Edwin Colbert, Thomas Ierardi e George Whitaker trovarono a Ghost Ranch, nel New Mexico, decine di scheletri di Coelophysis perfettamente conservati. Il sito, nei pressi del villaggio di Abiquiù, è oggi una valle di rocce fatte dai fanghi che per quegli animali costituirono una trappola mortale. Individui della stessa specie,

Q Coppia di fossili di Coelophysis del Triassico superiore, rinvenuti nel New Mexico. La presenza di resti di uno scheletro più piccolo fra le ossa della gabbia toracica fece pensare che questi animali fossero cannibali: si tratta invece di un piccolo rettile di un’altra specie. piccoli e adulti, morirono gli uni sugli altri in un intreccio di teste, di lunghi colli, di code, di zampe. La maggior parte dei fossili ritrovati, però, è incompleta: ciò permette di ricostruire con certezza solo alcune specie, i cui rapporti di parentela rimangono di difficile definizione. I celofisoidi avevano numerose finestre nel cranio e ossa cave: il più piccolo pesava solo 900 grammi, e in media non superavano i 50 chili. Saltopus era grande come un pollo, Avipes e Procompsognathus erano lunghi 1 metro; Lukousaurus, Coelophysis e Syntarsus erano ancora più grandi, oltre 3 metri, e Halticosaurus liliensterni, il maggiore tra

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CAPITOLO 6

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di celofisoidi.

le forme triassiche, tria raggiungeva 5 metri di lunghezza e 100 chili di peso. Corridori bipedi, di agili ili e leggeri, con testa cuneiforme, collo snello, la coda lunga, gambe simili a quelle di un uccello, erano predatori abili e feroci, dai denti acuminati. Le dita, lunghe e parzialmente opponibili nelle mani, atte a ghermire, e grandi nei piedi, per far presa sul terreno nella corsa, erano armate di artigli potenti. Il loro stile di vita era, forse, quello di carnivori che cacciano in branchi e si nutrono in modo vario: piccoli insetti, anfibi, lucertole, giovani arcosauri e terapsidi facevano forse parte regolare della loro dieta. Associati a due fossili di Coelophysis bauri si trovarono anche i resti di un piccolo, in corrispondenza della zona ven-

Q Una ricostruzione di un Coelophysis in atteggiamento d’attacco: la sua struttura agile e snella rendeva questi animali particolarmente adatti agli attacchi fulminei delle prede.

trale. Inizialmente si ipotizzò che il fossile fosse il resto dell’ultimo pasto. Un caso di cannibalismo, dunque, da ricondurre alla selezione naturale: l’adulto si sfama eliminando al contempo competitori per i propri discendenti. Oggi sappiamo però che sono i resti di un altro tipo di rettile, e dunque di una semplice preda.

Ornitischi primitivii A

lla fine del Triassico apparvero anche i primi ornitischi, ma l’origine di questo gruppo è ancora oscura. Forme risalenti alla fine del Triassico, come Pisanosaurus, un tempo ritenute tra le prime del gruppo, sono considerate da alcuni paleontologi come facenti parte di quegli arcosauri molto vicini ai dinosauri, ma non ancora dinosauri veri e propri. La documentazione fossile ci porta quindi agli albori del Giurassico. Tuttavia, guardando le caratteristiche dei primi ornitischi giurassici, possiamo presupporre che i loro progenitori triassici non fossero molto diversi dagli eterodontosauri: piccoli, bipedi facoltativi, lunghi poco più di 1 metro, che usavano forse le

Q Misure a confronto fra l’uomo e un eterodontosauro. braccia per raspare il terreno in cerca di cibo. È probabile che normalmente procedessero a quattro zampe, e che fossero in grado di correre veloci sulle gambe se minacciati, arrampicandosi agilmente sulle

rocce. Caratteristica degli eterodontosauri è la forma dei denti: pur possedendo in gran parte denti da erbivoro, avevano anche due lunghe zanne da carnivoro, forse prerogativa dei maschi: in tal caso potrebbero aver avuto un significato sociale. Forniti di tasche guanciali, dovevano essere erbivori molto efficienti.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di ornitischi primitivi.

Q In questa ricostruzione, ambientata all’inizio del Giurassico, un Dracovenator, bipede carnivoro di circa 7 metri di lunghezza, attacca un gruppo di Heterodontosaurus, piccoli dinosauri erbivori.

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Plateosauridi C

aratterizzati da soluzioni morfologiche, ecologiche ed etologiche avanzate, questi grandi prosauropodi erbivori, i più grandi dinosauri del Triassico, si affermarono assumendo un ruolo preminente e diffondendosi su tutta la Pangea. I reperti fossili risalgono a un periodo fra il Triassico superiore e il Giurassico inferiore: testa piccola, collo lungo e massiccio, coda sviluppata, hanno tozzi arti anteriori più corti dei posteriori, tutti terminanti a cinque dita. Camminavano spesso su due zampe, pur potendo appoggiare anche le mani. L’ultimo dito di queste ultime, infatti, sporge di lato offrendo una salda presa sul terreno; il pollice, l’indice e il medio sono armati di robusti artigli, strumenti temibili di difesa, utili per avvicinare il cibo e per trattenere la femmina durante l’accoppiamento. A eccezione di Aristosaurus e di Ammosaurus (fino a 1 metro e mezzo e 2 metri e mezzo di lunghezza), i plateosauridi avevano dimensioni notevoli: Massospondylus 4 metri, Lufengosaurus 6, Plateosaurus 8, Euskelosaurus 12. Il peso di un adulto delle specie

Q Plateosaurus al pascolo. Quadrupede, si sollevava forse sulle zampe posteriori appoggiandosi sulla coda per arrivare a brucare le parti più alte degli alberi.

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Q Confronto fra uomo e Plateosaurus: con i suoi 8 metri di lunghezza era il più grande erbivoro dinosauro del Triassico. Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di plateosauridi.

più grandi poteva aggirarsi sulle due tonnellate. Ritti sulle zampe posteriori, il collo teso, alcuni arrivavano a 5 metri dal suolo, e forse anche più in alto. Per difendersi dai predatori, dovevano avere abitudini sociali molto evolute: lento e goffo rispetto ai carnivori del tempo, un plateosauro isolato era una facile preda. È probabile che strategie di gruppo analoghe a quelle adottate dagli erbivori attuali debbano aver avuto un ruolo importante nella sopravvivenza di questi dinosauri. Il ritrovamento di “cimiteri” di plateosauridi in due località a sud di Stoccarda, conferma quest’ipotesi. Si suppone che affrontassero anche periodiche migrazioni alla ricerca di cibo: l’attraversamento di vaste regioni desertiche può aver stroncato gli individui più deboli. Non tutti gli studiosi però sono d’accordo: si può

infatti pensare che le carcasse appartenessero a individui isolati, morti in epoche successive in un’area densamente popolata. Sono state descritte numerose specie di plateosauridi, ma sulla loro validità tassonomica non c’è accordo: le conoscenze sulla variabilità ossea di questi animali fanno ritenere, ad esempio, che il genere Euskelosaurus a cui appartengono 7 specie giganti possa essere incluso nel gruppo dei Melanorosauridi anziché tra i Plateosauridi. Vi sarebbero inclusi anche i generi Riojasaurus, Roccosaurus e Thotobolosaurus, distinti dal legamento osseo che connette il bacino alla colonna vertebrale, dai denti taglienti e acuminati.

Q Nella pagina accanto: plateosauri trovano scampo in una grotta per sfuggire a una forte tempesta.

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7. Il Giurassico: foreste e giganti 16

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GIURASSICO IN SINTESI In questa ricostruzione si trovano alcuni dei principali organismi vissuti nei 56 milioni di anni del Giurassico, un periodo che inizia 201 milioni di anni fa circa e che si conclude circa 145 milioni di anni fa. In questo grande lasso

di tempo, i movimenti tettonici frammentano la Pangea in più blocchi e le conseguenti variazioni del livello dei mari provocano notevoli cambiamenti ambientali: si avvertono sempre più le variazioni stagionali. Crescono ancora le felci arboree (18),

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le felci (17), gli equiseti, le Cicadeoidee (19) e le cicadine (20) simili a palme. Ginkgo (15) colora d’oro le foreste autunnali con le sue foglie caduche; nelle zone più aride dominano le conifere (16). Nel mondo animale i dinosauri si differenziano in numerose forme, occupando tutte le terre emerse. Ecco i diplodocoidi (2) ed ecco Brachiosaurus (13), tra i più grandi animali di terraferma mai esistiti. Mentre la mole difende questi erbivori, Dryosaurus (5) si affida all’agilità, e altri sviluppano vere armi di difesa: Stegosaurus (11) ha una coda armata di spine temibili. Anche i carnivori hanno ruoli diversi e specializzazioni alimentari: Compsognathus (12), agile e piccolissimo; il gigantesco Allosaurus (3) e Ceratosaurus (8): nell’immagine due esemplari sono intenti a divorare la carcassa di un apatosauro. Ma altri rettili dominano con i dinosauri tutti gli ambienti del Pianeta: in mare troviamo ancora i plesiosauri (9) e gli ittiosauri (10); nei cieli gli pterosauri come Rhamphorhynchus (14), a terra le prime lucertole (4). Archaeopteryx (1) e Megazostrodon (6) annunciano però un nuovo futuro: il primo prelude al successo degli uccelli; il secondo a quello dei mammiferi. Megazostrodon, mammifero primitivo, svolge ancora un ruolo secondario: lo vediamo mentre addenta un dittero (7), uno dei tanti invertebrati che popolavano, numerosissimi, tutto il Pianeta.

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LA TERRA DEL GIURASSICO La dinamica terrestre frammenta ancora la Pangea: a nord Laurasia, costituito da ciò che sarà il Nord America e il continente euroasiatico; a sud Africa e America meridionale iniziano a separarsi per l’apertura dell’Oceano Atlantico. Mentre il blocco AntartideAustralia migra verso sud, l’India si sposta gradualmente verso nord.

M DA SU

L’aspetto della Terra e la disposizione dei continenti erano già profondamente cambiati. All’inizio del Giurassico, 201 milioni di anni fa, i mari, soggetti a una grande espansione, avevano invaso molte terre emerse, coprendole con grandi distese di acque basse. Il vasto continente di Pangea appariva profondamente inciso in grossi blocchi, isole e arcipelaghi, e il fenomeno era evidente soprattutto in Europa, dove il golfo della Tetide, espandendosi verso ovest e verso nord, si era unito al Mar Boreale (il precursore del Mare Artico). Parte della Selva Boema, del Plateau Centrale francese, della Meseta iberica e delle Alpi erano ora un insieme di isole che affiorava da acque poco profonde. Più a est si estendeva il resto di Laurasia, che comprendeva la Scandinavia e la piattaforma russa. Intanto a sud, sotto la pressione delle forze endogene, la grande frattura fra Laurasia e Gondwana progrediva: al di là delle acque profonde della parte meridionale della Tetide cominciava a stagliarsi l’Africa, che formava ancora un blocco unico con il Madagascar, mentre i fenomeni di espansione dei fondi oceanici (ormai evidenti su tutta la Terra) davano inizio alla formazione dell’Oceano Indiano (allontanando rapidamente l’India dal resto di Gondwana) e cominciavano a separare con profonde fratture gli altri continenti l’uno dall’altro. L’America settentrionale era in gran parte coperta dal mare: il Mare di Sundance, un bacino artico che la divideva in due blocchi, si estendeva da nord a sud, mentre un altro braccio marino si insinuava profondamente nella parte meridionale del continente. Un braccio di mare cominciava a estendersi poi nella zona equatoriale, fra il continente americano e quello africano: il primo embrione dell’Oceano Atlantico. Durante tutto il Giurassico la configurazione geografica delle terre emerse era soggetta a continui cambia-

ANTARTIDE

menti, in seguito all’alternarsi di regressioni e invasioni marine. Le terre emerse rimanevano però sempre collegate da ponti continentali e mantenevano una certa continuità, nonostante fossero incise da golfi e insenature, frastagliate in isole e penisole e separate in blocchi da profonde fratture. L’America settentrionale era unita all’Europa da una distesa di terre che oggi fanno parte della Groenlandia; l’Europa e l’Africa erano in comunicazione attraverso il blocco iberico-marocchino e l’Africa, a sua volta, era ancora collegata all’Australia, all’India, all’Antartide e, attraverso il Brasile, all’America meridionale. InOCEANO fatti, quella frattura che si TETIDE delineava a sud e che porterà Africa e America meridionale a

divergere completamente durante il Cretacico (il futuro Oceano Atlantico) è ancora a uno stadio embrionale. Privo di movimenti orogenetici e di attività vulcanica (presente solo nelle cordigliere americane) il Giurassico fu un periodo di quiescenza e di uniforme monotonia. Anche il clima non sfuggiva a questa regola: sulla maggior parte delle terre emerse regnava un uniforme clima tropicale, caldo e umido. Con un’unica eccezione: la Formazione Navajo, una zona straordinaria di dune nella parte sudoccidentale degli Stati Uniti. Grazie all’uniformità del clima e alla continuità delle terre, la vita, vegetale e animale, non conosceva barriere: la diffusione delle piante e la migrazione degli animali portarono a un’uniformità di ambienti. Il Giurassico fu un periodo in cui prosperarono

grandi boschi e giungle tropicali. Nelle foreste umide si trovavano ancora le felci arboree, ma erano le gimnosperme a dominare il paesaggio: accanto alle araucariacee e alle ginkgoate, le sequoie e altre conifere avevano una progressiva diffusione, mentre nell’area boreale, dove il clima era più rigido e secco, cominciava ad affermarsi un ambiente molto simile alla taiga. Fra i vertebrati, gli anfibi erano ancora in fase di declino e ridotti a pochi generi, anche se, proprio in questo periodo, fecero la loro apparizione le prime rane. Questo fu il periodo di dominio dei rettili, che conquistarono tutti gli ambienti. I cieli erano percorsi dalle sagome scure degli pterosauri e le ombre plananti di animali in volo si proiettavano sulle distese dei boschi, si riflettevano nelle acque stagnanti e vagavano sulle pianure verdeggianti: piccoli

PANORAMA GIURASSICO? È probabile che un paesaggio tipico del Giurassico si presentasse così, come una distesa sconfinata di foreste, l’orizzonte privo del profilo di catene montuose svettanti.

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UN MONDO VERDE Un bosco di araucarie discendenti di quelle conifere che, nel Mesozoico, si affermarono per la spiccata resistenza a condizioni climatiche estreme. Questo antichissimo genere di piante sopravvive ancora

in Cile, sia sulla Cordigliera della Costa sia su quella delle Ande, dove costituisce l’unico gruppo di alberi in grado di fronteggiare i marcati contrasti climatici caratteristici di queste zone. Accanto: l’impronta fossile di una foglia di equiseto.

Pterodactylus elegans, grandi come passeri, precipitarono, forse abbattuti da un temporale, nelle lagune di Solnhofen del Giurassico superiore, mentre i grandi Dimorphodon macronyx volavano, nel Giurassico inferiore, nelle regioni costiere dell’Europa occidentale. Erano vertebrati dai crani eccezionalmente grandi e alleggeriti da ampie cavità, costruiti, secondo Owen, in modo eccezionalmente razionale. Dotati di un’apertura alare che poteva raggiungere il metro e sessanta, per la mole notevole della testa e le particolari strutture scheletriche devono essere stati però volatori meno abili dei loro successori del Cretacico. Le ali erano sostenute da un quarto dito della mano esageratamente sviluppato (quello che corrisponde al nostro anulare). Molti rettili che avevano popolato il mondo nel Triassico erano ormai scomparsi, sostituiti da altri più adatti al nuovo ambiente, in un continuo avvicendarsi di specie. Dal mare erano scomparsi i placodonti, che si nutrivano di molluschi, e i notosauri, insaziabili pescatori, sostituiti da plesiosauri e ittiosauri. Sulle terre emerse i fitosauridi dal corpo di coccodrillo non infestavano più i fiumi: ben presto i coccodrilli occuparono questa nicchia vuota mentre si affermavano rapidamente testuggini e tartarughe, e si moltiplicavano le specie dei lacertidi. Una grossa novità caratterizza il Regno Animale del Giurassico: compaiono i primi uccelli, anche se sono molto diversi da

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CAPITOLO 7

Amazzoni: terre basse percorse da lenti fiumi e coperte di vegetazione tropicale, interrotta da radure, laghi e paludi. Qui vivevano gli erbivori più grandi: diplodocidi, camarasauridi e stegosauridi, predati da enormi carnivori, e c’erano anche piccoli teropodi, coccodrilli, anfibi e mammiferi. A Tendaguru, dove il delta di un fiume era separato dal mare da una lunga barriera di dune, le sponde coperte di foreste costituivano i ricchi pascoli dei brachiosauridi, tra i più grandi animali della terraferma che il Pianeta abbia mai conosciuto. Le rocce inglesi testimoniano invece un passato che corrisponde piuttosto a un paesaggio insulare con arcipelaghi e penisole emergenti da un mare tropicale, basse pianure solcate da fiumi dove gli erbivori erano molto diffusi e cacciati da carnivori feroci come i megalosauri, mentre in Germania, in una baia di acque basse e tranquille, con le rive coperte di boschi, si ammassarono i sedimenti finissimi di Solnhofen, fra i quali rimasero imUNA GRANDE VARIETÀ Un mondo popolato da conifere non è necessariamente monotono: questi tronchi dimostrano la grande varietà di forme evoluta all’interno di questi vegetali, dove una spessa corteccia protegge il fusto dall’essiccazione. Da sinistra a destra: un’araucaria, un pino domestico, un peccio di Sitka, un Taxodium ascendens, della famiglia dei cipressi, un larice, un pino marittimo, un pino silvestre, una sequoia e un tasso.

quelli che ci sono familiari ai nostri giorni. Mentre i mammiferi continuavano a vivere nel sottobosco, piccoli protagonisti della notte in attesa di tempi migliori, i dinosauri, signori delle terre, avevano un periodo di intensa evoluzione e le tracce della loro affermazione sono rimaste impresse un po’ dovunque nelle rocce del Giurassico. In particolare, se ne sono trovate in quattro zone divenute famose: la Morrison Formation (nella regione occidentale del Nord America), Tendaguru (nella regione orientale dell’Africa equatoriale), la zona di Oxford (in Inghilterra) e Solnhofen (nella pianura germanica). Pur così distanti fra loro e a latitudini oggi così diverse, questi giacimenti ci hanno consegnato i documenti fossili di paesaggi tropicali molto simili fra loro, testimoniando l’uniformità del clima e la continuità delle terre allora emerse. Nel luogo in cui si trova oggi la Morrison Formation c’era, nel Giurassico, un bacino fluviale simile a quello che conosciamo del Rio delle

RELITTI DEL PASSATO Questa rana fossile presenta già le caratteristiche tipiche di questi anfibi.

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prigionate le penne primitive degli archeopterigidi e le sottili membrane alari degli pterosauri. Erbivori e carnivori si evolsero nel Giurassico verso forme sempre più grandi: per i primi la grande mole era una caratteristica difensiva vincente, per i secondi era una dote indispensabile dovuta a un’evoluzione parallela, limitata solo dalle necessità dell’andatura bipede. I carnivori svilupparono invece armi sempre più efficienti e migliori tecniche di caccia: se Supersaurus con i suoi 30 metri di lunghezza e un peso pari a quello di 10 elefanti africani era una preda difficile, Allosaurus, molto più piccolo ma ben equipaggiato, poteva superarne le difese organizzandosi in branchi. Così, l’aspetto feroce e aggressivo di Ceratosaurus dai lunghi denti anticipa i caratteri ben più temibili a cui porterà nel Cretacico la “corsa alle armi”. Gli erbivori però opposero ai predatori anche altre difese: la rumorosa coda a frusta di Diplodocus e quella armata di spine di Stegosaurus preludono già alle corazze, alle mazze e alle corna che armeranno gli erbivori del periodo successivo. Una grande mole implica sofisticate tecniche di alimentazione: gli erbivori giganti dai lunghissimi colli contavano su spazi trofici molto ampi. Vere e proprie macchine per ingurgitare e digerire il cibo, avevano un apparato digerente complesso e uno stomaco muscolare che muovendo sassi ingeriti appositamente, i gastroliti, macinava i vegetali per poi demolirli con processi di fermentazione lunghi ed elaborati. Al contempo, l’avanzata dei dinosauri erbivori favorì l’evoluzione parallela delle piante verso forme con mezzi difensivi tali da rendere i tessuti poco appetibili (veleni, olii o resine), difficilmente accessibili (spine e aculei), o poco masticabili (fibre dure). Nel Giurassico, dunque, la Terra era dei dinosauri: grandi o piccoli, essi erano tutti già evoluti rispetto a quelli del Triassico; tutti avevano già le strutture che, sviluppate nel periodo successivo, porteranno questi animali al culmine della loro evoluzione.

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CAPITOLO 7

VITA DI GRUPPO Un apatosauro viene isolato dal resto del branco da un torvosauro che lo attacca. Vivendo in un gruppo numeroso diminuiscono le probabilità di essere predati e si possono proteggere con efficacia

i giovani, mantenendoli al centro della formazione di marcia. Queste ipotesi di vita sociale nei diplodocoidi sono rese possibili dal ritrovamento di piste fatte da numerosissime impronte fossilizzate, che questi animali hanno lasciato.

Celofisoidi Q

uesto antico gruppo di teropodi continua la sua evoluzione anche nella prima parte del Giurassico, dando origine a forme di grandi dimensioni (fino a 7 metri di lunghezza) come i dilofosauridi Sinosaurus, Dilophosaurus e Cryolophosaurus. La corporatura era gracile come nei loro pre-

decessori triassici e il cranio si distingueva per la presenza di vistose strutture ornamentali. Ai dilofosauridi potrebbero appartenere numerose impronte del Giurassico inferiore. Si estinsero forse anche a causa della competizione con i ceratosauri e con i tetanuri, fisicamente più forti.

Q Misure a confronto fra l’uomo e un celofisoide.

Ceratosauri Q

uesti teropodi del Giurassico, scoperti e descritti per la prima volta da Marsh nel 1884, furono tra i primi predatori della terraferma a raggiungere grandi dimensioni. Saltriovenator zanellai, trovato in Italia e descritto nel dicembre 2018 da Cristiano Dal Sasso, Simone Maganuco e Andrea Cau, detiene il record di più grande dinosauro predatore del Giurassico inferiore: oltre 7 metri di lunghezza e più di una tonnellata di peso. Misure ragguardevoli, ma non defi-

nitive perché lo studio istologico delle ossa mostra che l’esemplare, al momento della morte, era ancora in crescita. La “corsa agli armamenti” tra predatori sempre più possenti e dinosauri erbivori sempre più grandi era dunque già iniziata 200 milioni di anni fa, come mostrato anche dalle impronte fossili dei Lavini di Marco, presso Rovereto, e il cacciatore di Saltrio (compatibile con le orme tridattili rinvenute lì ma anche in altri siti coevi, per esempio, sui monti Lessini,

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di ceratosauri.

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CAPITOLO 7

Q Misure a confronto fra l’uomo e Ceratosaurus del Nord America, il genere che dà il nome al gruppo. nel veronese) ne fu probabilmente protagonista. Saltriovenator è anche il più antico ceratosauro del mondo, vissuto circa 198 milioni di anni fa, 45 milioni di anni prima del ceratosauro nordamericano. La sua carcassa fu trascinata in mare dove andò alla deriva prima di depositarsi sul fondo. Lì rimase a lungo esposta prima di essere sepolta dai sedimenti, come mostrato dalle numerose rosicchiature e da altre tracce di predazione prodotte da invertebrati marini, probabilmente simili a quelli che al giorno d’oggi abitano sulle carcasse dei cetacei e degli altri grandi animali del mare. Il dinosauro fu scoperto per caso nel 1996 da un appassionato di fossili, Angelo Zanella (a cui è dedicata la specie), in una cava di marmo di Salnova a Saltrio, in provincia di Varese. Dopo lunghi anni di preparazione, gli studi sui reperti del primo dinosauro lombardo, nonché primo dinosauro italiano risalente al Giurassico, conservati presso il Museo di Storia Naturale di Milano, hanno dato

risultati importanti per la paleontologia. Sebbene frammentario, lo scheletro di Saltriovenator mostra un mosaico di caratteri anatomici ancestrali e derivati, che si trovano rispettivamente nei dinosauri con mani a quattro dita, come i dilofosauri e i ceratosauri (gruppo a cui appartiene), e nei teropodi tetanuri come l’allosauro, che hanno mani con tre dita. Come si sia svolta l’evoluzione della mano degli uccelli a partire dai loro antenati dinosauriani è ancora argomento di dibattito, ma la possente

mano a quattro dita di Saltriovenator conferma che i dinosauri predatori persero progressivamente il mignolo e l’anulare, acquisendo la mano a tre dita che poi negli uccelli diventò ala. Di Saltriovenator non si conosce il cranio ma possiamo ipotizzare che non fosse privo di ornamentazioni: il ceratosauro, per esempio, lungo fino a 6 metri, aveva un corno sulle ossa nasali, dalla punta acuta e tagliente, che gli conferiva un aspetto terribile e che deve avere avuto

■ Un gruppo di ceratosauridi affamati aggredisce un giovane apatosauro rimasto isolato. un potere altamente deterrente sui predatori e, nel caso fosse una prerogativa dei maschi, era certamente anche un elemento decisivo nelle dispute territoriali. All’aspetto terrificante del muso contribuiva inoltre una prominenza delle ossa prefrontali, una vera e propria “visiera” sopra gli occhi. Il cranio era alleggerito da numerose cavità, mentre barre e ponti os-

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Ceratosauri ■ Cranio di ceratosauro in visione frontale. ■ Sono evidenti il corno anteriore e le zanne taglienti. Il ceratosauro (letteralmente “lucertola cornuta”) aveva due corna a forma di lama, una sopra il naso e l’altra all’altezza degli occhi. sei sostenevano l’impianto dei muscoli. I denti, appuntiti e ricurvi all’indietro, erano tra i più lunghi mai visti in un dinosauro in proporzione alle dimensioni del cranio: delle vere e proprie lame terribili, eccellenti strumenti per dilaniare la carne. Le prede preferite dal ceratosauro dovevano essere erbivori di grande mole, ben attrezzati alla difesa: gli stegosauri, per esempio, o i camarasauri e i diplodocidi. Tagliare la loro dura epidermide, però, poteva significare anche la caduta di uno di quei denti giunti ormai al termine del loro ciclo vitale e non più infissi saldamente nell’alveolo: ce lo dimostrano i resti fossili di un camarasauro venuti alla luce a Como Bluff, in Colorado, che presentano, oltre a segni analoghi a quelli prodotti dalla lama di un coltello, anche tre denti di ceratosauro che, chiaramente appartenenti a uno stesso individuo, tradiscono l’assalitore. Come gli altri dinosauri, i ceratosauri avevano un efficiente meccanismo di sostituzione dei denti: la dentatura eccezionale (formata da almeno 60 denti compressi e seghettati come coltelli da carne, con corone lunghe anche 5 o 6 centimetri e impiantati ciascuno in un profondo alveolo) subiva continui rimpiazzi programmati dei denti di modo che una buona parte di essi fosse sempre ben sviluppata e molto affilata. Tutto il corpo del ceratosauro indica come questi dinosauri fossero probabilmente tra i più efficienti carnivori del loro tempo: collo breve ma possente, gambe poderose, piede a quattro dita armate di artigli forti e acuminati, adattissimi ad aggredire la preda, braccia corte e mano a quattro dita artigliate, ottime per trattenerla.

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Certamente dovevano competere con altri carnivori: fra i resti del camarasauro di Como Bluff abbattuto da un ceratosauro, hanno lasciato i loro denti anche un allosauro e un celurosauro. È probabile inoltre che i ceratosauri potessero cadere vittime, a loro volta, degli allosauri più grandi. In

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di Saltriovenator, il grande ceratosauro italiano.

termini semplificati, le relazioni ecologiche del loro ecosistema erano probabilmente simili a quelle che vigono oggi nella savana: gli allosauri svolgevano forse un ruolo di superpredatori (come iene e leoni), mentre i ceratosauri erano predatori (come ghepardi, leopardi e licaoni). A loro disposizione c’era una vasta platea di potenziali vittime erbivore: camptosauri, stegosauri e sauropodi. Diffusi in tutto il mondo, i ceratosauri giurassici si estinsero alla fine del periodo, dopo aver dato origine a noasauridi e abelisauridi, i carnivori che dominarono i continenti meridionali nel Cretacico.

Allosauroidi E

rano forse i teropodi più diffusi del Giurassico. I ritrovamenti fossili sono numerosi: nella sola Cleveland-Lloyd Quarry si sono rinvenute le ossa di ben 44 individui fra adulti lunghi fino a 12 metri e giovani di “appena” 6 metri. È stato possibile così ricostruire molti scheletri completi e tracciare un ritratto estremamente verosimile di questi dinosauri. Tutta la struttura di un allosauroide suggerisce forza, potenza, agilità, vigore ed energia, a partire dal cranio grande, alleggerito da molte aperture e rinforzato da ponti e barre ossee per l’impianto dei muscoli masticatori. La scatola cranica e le mascelle erano le uniche parti compatte: la prima a protezione del cervello, le seconde a supporto di un gran

due contendenti. Il collo possente conferiva forza ai movimenti del capo; la colonna vertebrale con protuberanze molto sviluppate dava supporto a forti muscoli; le gambe, vigorose, terminavano con piedi a quattro dita artigliate (tre in appoggio e uno sollevato da terra); le braccia, corte e robustissime, avevano mani a tre dita. La lunga coda, larga alla base, bilanciava l’animale nella corsa e poteva anche essere un valido strumento di offesa e difesa. Gli allosauroidi come Allosaurus erano insomma predatori dotati in modo eccezionale di armi di attacco. Tra le loro vittime c’erano erbivori come i sauropodi ed esistono fossili che raccontano queste battute di caccia: le orme di Glen Rose,

Q Piede (a sinistra) e mano (a destra) di un allosauroide: da notare le falangi con cui terminano le dita, che portavano lunghi artigli affilati.

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e lo scheletro del più grande allosauroide finora rinvenuto. nel Texas, testimoniano per esempio l’inseguimento di un apatosauro; i segni di morsi sulle ossa della coda di un sauropode documentano un assalto nel quale l’aggressore perse anche qualche dente, ritrovato fossilizzato sotto la coda della sua vittima. Come tecnica di caccia, un allosauroide si affidava forse all’agguato: nascosto fra la vegetazione, scrutava l’ambiente circostante da un’altezza pari a quella del secondo piano di un palazzo. Avvicinatosi furtivo alla preda, le saltava addosso spalancando enormemente le mascelle e dilaniandola con ripetuti morsi improvvisi. Se la preda era di grandi dimensioni, forse gli allosauroidi agivano in gruppo, con una strategia di una caccia sociale. Il genere più conosciuto è Allosaurus: descritto da Marsh nel 1877, fu arricchito da numerosi ritrovamenti scoperti in Australia, in Africa, in Europa, in Asia, ma soprattutto in America (Como Bluff Quarries, Morrison Formation, nel Wyoming, nel Colorado, nello Utah, ecc.). Tra i generi più conosciuti c’è anche Yangchuanosaurus, del Giurassico medio della Cina.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di allosauroidi.

numero di denti serrati gli uni agli altri, lunghi e acuminati. Le creste davanti alle orbite erano strutture ornamentali aventi forse un ruolo legato alla riproduzione: lunghi fino a 12 metri e del peso di 2 tonnellate, è possibile che questi animali risolvessero le dispute sessuali a testate piuttosto che a morsi, evitando così che i combattimenti si concludessero con la morte di uno dei

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Megalosauroidi M

egalosaurus bucklandi, il primo dinosauro scientificamente descritto (1832), fece la sua comparsa con un aspetto assai poco veritiero. La sua prima ricostruzione, eseguita dal pittore B. Waterhouse Hawkins nel 1854 sotto l’indiscussa consulenza scientifica di Owen, era un puzzle di caratteristiche diverse prese a prestito dagli animali più disparati: quadrupede, testa da coccodrillo, corpo da pachiderma, coda da lucertola, collo di un bue e zampe a metà strada fra quelle di un leone e quelle di un orso. Solo nel 1866, E. D. Cope restituì ai megalosauroidi un’immagine più aderente alla realtà: animali bipedi, erano simili, per alcuni aspetti, agli attuali sauri, e avevano la testa tipica di un dinosauro carnivoro. I megalosauroidi raggiunsero grandi dimensioni già nel Giurassico medio, rivaleggiando con i ceratosauri. Diffusi in tutti continenti, comprendono numerosi generi tra cui Megalosaurus, Torvosaurus, Piatnitzkysaurus, Afrovenator ed Eustreptospondylus, per citare i più famosi e meglio descritti. Torvosaurus era tra i predatori giganti del Giurassico superiore: rinvenuto sia nella Morrison Formation nordamericana, sia nella Lourinhã Formation del Portogallo, poteva raggiungere le dimen-

sioni dei più grandi allosauri. Da neonato però, come capitava a tutti i dinosauri, aveva dimensioni molto piccole, come testimoniano i ritrovamenti di uova di questo dinosauro, avvenuti a Lourinhã, e contenenti anche resti di embrioni. A un’occhiata superficiale, i megalosauroidi non erano molto diversi dagli allosauroidi nell’aspetto e cacciavano anche loro i sauropodi, gli stegosauri, gli ornitopodi e gli altri vertebrati di terraferma. Tra di loro si assiste tuttavia a un progressivo cambiamento nella forma

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di megalosauroidi.

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e un Eustreptospondylus, della lunghezza di circa 7 metri.

delle fauci che li porterà nel Cretacico a sviluppare musi allungati sempre più adatti a cacciare prede scivolose legate ad ambienti d’acqua dolce. Compariranno così gli spinosauridi, formidabili pescatori dei fiumi del Cretacico.

Q Torvosaurus (sopra) fu uno dei più grandi megalosauroidi giurassici.

Q Nella pagina accanto: nel Giurassico medio, lungo le coste del continente tra il delta di Wealden e la Tetide, un Megalosaurus è alle prese con la carcassa arenata di un Cryptoclidus, uno dei tanti rettili marini che popolavano le acque. Sullo sfondo, un vulcano in eruzione: l’attività vulcanica di questo periodo deve essere stata molto intensa, in collegamento con la “deriva” dei continenti.

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Celurosauri ■ Misure a confronto fra l’uomo e Ornitholestes: in nero le parti fossili ritrovate.

I

l più conosciuto esemplare fossile del Giurassico superiore nordamericano appartenente a questo gruppo di dinosauri venne alla luce nel Wyoming, nel 1900, e fu descritto nel 1903 da Henry Fairfield Osborn con il nome di Ornitholestes, letteralmente “uccello predone”. Spesso è ritratto con una cresta nasale molto sviluppata, ma si tratta di una errata interpretazione della forma delle ossa nasali, rinvenute incomplete e leggermente sollevate all’insù. Nonostante sia vissuto 100 milioni di anni più tardi e sia adatto a un ambiente completamente diverso (quello della foresta del clima caldo-umido del Giurassico), quest’animale presenta la stessa struttura dei celofisoidi, i dinosauri che po-

polavano le lande desertiche del Triassico. Ornitholestes è un animale bipede, di corporatura snella e leggera, collo flessibile e corpo bilanciato da una coda molto lunga. Il cranio è robusto, con denti taglienti, tipici di un carnivoro. Il lungo braccio termina con tre dita: il primo dito è corto e robusto, il secondo molto lungo e sviluppato e il terzo più esile: è una struttura adatta a ghermire la vittima con una presa saldissima. Lungo fino a 2 metri, era uno dei celurosauri giurassici più grandi. Prede tipiche dei celurosauri dovevano essere i piccoli animali del sottobosco: mammiferi, altri rettili, insetti,

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di Ornitholestes, con il corpo ricoperto da protopiume.

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uccelli. È probabile, però, che integrassero la loro dieta anche nutrendosi di carogne: nelle zone dove si trovavano in competizione diretta con i grandi teropodi, forse li seguivano da lontano, attendendo che portassero a termine la loro caccia per buttarsi sui resti del pasto, proprio come oggi sciacalli e iene si avventano sulle carcasse lasciate dai grandi predatori della savana. I loro resti fossili, a riprova della grande diffusione che questi dinosauri ebbero su tutte le terre emerse, sono stati ritrovati in tutti i continenti. Sebbene videro la loro massima diversificazione nel Cretacico, nel Giurassico medio dovevano essere già comparse tutte le principali linee evolutive, come per esempio i tirannosauroidi, i compsognatidi e gli uccelli. I primi erano rappresentati da forme come Proceratosaurus del Giurassico medio inglese, un tempo ritenuto erroneamente un antenato di Ceratosaurus a causa delle sue ornamentazioni craniche. I compsognatidi sono stati per lungo tempo considerati molto affini agli uccelli, poiché i fossili di Compsognathus e Archaeopteryx, oltre ad avere alcuni tratti in comune, furono trovati negli stessi calcari litografici di Solnhofen, in Germania. Alla fine del Giurassico la pianura germanica meridionale era invasa dal mare. Le rive erano coperte da foreste di cicadee, di ginko e di tassi, e da ampie radure di felci. Mentre gli pterosauri planavano nei cieli e si tuffavano in acqua, simili a pellicani bruni, per catturare i pesci, libellule di ogni dimensione si libravano sulle paludi e piccoli dinosauri come Compsognathus, non più grandi di un pollo, si muovevano veloci nel sottobosco a caccia di minuscoli mammiferi. I grandi sauropodi pascolavano qua e là, e fra gli alberi correvano piccoli Archaeopteryx con le

braccia pennute tese a catturare insetti. A volte la furia di violente tempeste seminava la morte e carcasse di animali e resti di vegetali rimanevano imprigionati nel fango che, con il passare di milioni di anni, è diventato il calcare giallo-grigio di Solnhofen. Sei Archaeopteryx, rimasti per millenni serrati in questa pietra a grana fine e uniforme, sono tornati alla luce fra il 1860 e il 1987. Archaeopteryx è considerato l’ “anello mancante” più famoso della paleontologia. Non è infatti solo un celurosauro coperto di penne: è qualcosa di più, è un mosaico di caratteri, un punto d’incontro fra diverse

strade evolutive e un punto di partenza verso nuove forme di vita. Dei dinosauri non-aviani, infatti, ha la bocca armata di denti sottili e appuntiti, la mano con tre dita artigliate e la lunga coda formata da 23 vertebre. I piedi a tre dita con gli alluci opponibili sono invece comuni a celurosauri e uccelli. Sebbene la gabbia toracica non abbia uno sterno carenato (sulla carena negli uccelli si attaccano i muscoli che muovono le ali), Archaeopteryx ha anche una distribuzione delle penne sul corpo e caratteristiche tipiche uguali a quelle degli uccelli viventi.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di celurosauri.

Q Archaeopteryx si lancia su una preda. Si discute molto sulla capacità di volare di questo dinosauro pennuto: alcuni sostengono che esso fosse capace di arrampicarsi sugli alberi grazie alle dita artigliate, e che di qui si lanciasse a volo planato; altri ritengono invece che corresse nel sottobosco, “decollando” in lunghi balzi, starnazzando come i gallinacei. Le polemiche su come considerare e classificare questi fossili cominciarono fino dal 1861, l’anno della prima scoperta. Si doveva stabilire se fossero effettivamente un anello di congiunzione fra dinosauri e uccelli, oppure se archeopterigidi e uccelli avessero strutture simili per un fenomeno di convergenza evolutiva, essendosi adattati gli uni e gli altri all’ambiente aereo. Thomas Huxley fu il primo a sostenere che esistevano troppe somiglianze fra Archaeopteryx e Compsognathus per non considerarli parenti stretti. L’ipotesi che Archaeopteryx discendesse da Compsognathus, però, non sopravvisse alla morte dello studioso, e ancora nel 1926 il paleontologo danese Gerard Heilmann, pur ammettendo che fra celurosauri e uccelli esistevano “singolari” somiglianze, negò che fossero legati da una relazione filogenetica: dato che nei celurosauri mancano le clavicole, come avrebbero potuto i loro discendenti evolvere un osso a forcella dalla fusione di

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Celurosauri ■ Principali differenze fra la struttura scheletrica di Archaeopteryx e di un uccello attuale (Columba livia). Le più evidenti caratteristiche rettiliane di Archaeopteryx sono, oltre alla presenza dei denti, la mano con tre dita artigliate, la breve zona di attacco dell’anca all’osso sacro e la lunga coda formata da 23 vertebre. Caratteristica che ritroviamo negli uccelli è, invece, la presenza di penne. In questo disegno, l’osso pubico è rivolto in avanti in una posizione tipica dei saurischi invece che in quella prostrata che avrebbe avuto secondo la tesi sostenuta da J. H. Ostrom, tipica degli uccelli.

D

B

D

C

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A

A E B

H F I

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J L

M

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K B A

■ L’impronta fossile di Archaeopteryx lithographica, conservata al Museo di Storia naturale dell’Università di Berlino, è lunga 34 cm ed è stata definita “il pezzo più importante di tutta la storia naturale, forse paragonabile come valore alla stele di Rosetta”. In questa immagine, che mostra il fossile intero, si possono distinguere facilmente alcuni dettagli scheletrici caratteristici:

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CAPITOLO 7

M

A

A. B. C. D. E. F. G.

dita artigliate impronte di penne scapola omero vertebre cervicali cranio costole

H. vertebre dorsali I. ilio J. ischio K. pube L. femore M. tibia N. vertebre caudali

due ossa inesistenti? Archaeopteryx, che già presenta un simile osso rudimentale, deve essere dunque un uccello, non un dinosauro, e le somiglianze devono essere ascritte alla discendenza di archeopterigidi e celurosauri da antenati comuni. Nel 1984, John H. Ostrom dimostrò una volta per tutte che la tesi sostenuta da Huxley cent’anni prima era più che fondata e Archaeopteryx fu considerato, per convenzione, il primo degli uccelli dal punto di vista morfologico. L’analisi comparata di numerosi fossili di celurosauri venuti nel frattempo alla luce, mise in evidenza che i dinosauri avevano le clavicole e che esse erano fuse a formare la furcula già nei teropodi più primitivi, mentre la somiglianza fra le gambe e le braccia di Archaeopteryx, Compsognathus, Ornitholestes e Deinonychus, evidente in numerosi piccoli dettagli, era una prova decisiva del loro legame filogenetico. Ostrom portò però a soluzione anche un altro, essenziale problema: quello relativo alla posizione del pube, che nell’impronta calcarea di Solnhofen appare volto all’indietro. Secondo il noto studioso, quest’osso si sarebbe spostato molto (rispetto alla posizione che aveva quando l’animale era in vita) durante i processi di fossilizzazione: non sarebbe stato rivolto all’indietro ma, proprio come in Compsognathus, in avanti. Anche se la polemica non è ancora defi-

nitivamente chiusa, la maggior parte dei paleontologi accetta oggi la tesi di Ostrom. Il dibattito non si limita però all’analisi dello scheletro: anche la presenza delle penne costituisce argomento di discussioni. Negli uccelli, infatti, queste strutture hanno due funzioni: mentre le piume e le penne copritrici tengono caldo il corpo, le penne particolarmente lunghe delle ali e della coda svolgono un ruolo importante durante il volo, le prime come remiganti, le seconde come timoniere. Pur essendo coperto di penne, però, è evidente che Archaeopteryx poteva svolazzare ma non era in grado di praticare a lungo il volo battuto. In primo luogo non aveva uno sterno carenato su cui si attaccassero muscoli capaci di sostenere lo sforzo del volo. Inoltre, anche se aveva ossa cave dalla struttura particolarmente leggera, non aveva un’adeguata muscolatura pettorale che gli permettesse di volare come gli uccelli. La coda così sviluppata, poi, era certamente molto pesante. A cosa servivano, allora, le penne? Sappiamo dall’embriologia che le penne sono, in parole povere, squame di rettile trasformate. È probabile che si siano affermate perché costituivano, in un animale endotermo, una protezione contro la dispersione di calore ben più efficace delle squame. Solo in un secondo tempo, per un animale che viveva cacciando insetti, la penna rivelò ulteriori possibilità adattative. Secondo Ostrom, le braccia pennute di Archaeopteryx erano efficacissimi “pigliamosche” che gli garantivano il massimo successo nella caccia, poiché gli insetti vi rimanevano facilmente intrappolati. Correndo ad “ali” spiegate nel sottobosco, Archaeopteryx certamente saltava, cer-

■ L’arto anteriore di Deinonychus antirrhopus (in alto), di Archaeopteryx lithographica (al centro) e del corvo comune (Corvus frugileus, in basso) a confronto. La struttura del polso, formato da ossa omologhe, mostra che Deinonychus è imparentato con Archaeopteryx e con gli uccelli attuali. Nell’evoluzione dai dinosauri agli uccelli l’arto si trasforma: scompaiono man mano le dita libere, le ossa della mano si saldano e le falangi si riducono. Aumenta così la superficie di inserimento per le penne e cresce anche la portanza dell’ala che acquista maggior resistenza. cando di afferrare le sue prede, e le penne gli offrivano una portanza che accresceva l’efficienza del salto fino a consentirgli brevi voli. C’è però chi obietta che gli alluci opponibili e le dita artigliate sarebbero una prova che Archaeopteryx poteva anche arrampicarsi sugli alberi e appollaiarsi sui rami. Il modo migliore per scendere era certamente un volo planato ad ali distese e con la lunga coda che faceva da timone. La discussione sull’origine del volo prende il via da queste due ipotesi antitetiche: da un lato c’è chi sostiene che esso si sia sviluppato da spinte progressivamente sempre più potenti verso l’alto, dall’altro invece c’è chi sostiene che esso abbia avuto origine da cadute sempre più lunghe, verso il basso. Alla fine del Giurassico, 145 milioni di anni fa, gli pterosauri dominavano i cieli.

Per le sue caratteristiche morfologiche Archaeopteryx non era in competizione con loro: era infatti particolarmente adatto al “piano terra” della foresta, al sottobosco, che gli pterosauri non erano in grado di colonizzare forse perché la folta vegetazione poteva lacerare senza rimedio le delicate membrane alari. Al contrario, le penne di Archaeopteryx potevano dividersi incontrando un ostacolo, oppure, se si spezzavano, crescere di nuovo. Evolvendosi rapidamente Archaeopteryx perse i denti e la coda: fu così in grado di correre, ben eretto sulle zampe posteriori, come i piccoli dinosauri bipedi suoi antenati. Particolarmente adatti sia all’ambiente aereo sia a quello terrestre, gli uccelli, diretti discendenti, si diffusero su tutta la Terra vincendo ogni competizione.

■ Un piccolo compsognatide insegue un geco in una zona lacustre ricca di piante calamitali.

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Sauropodi primitivi G

ià all’inizio del Giurassico i sauropodi sono ben rappresentati, come si evince dai ritrovamenti di resti scheletrici e impronte (queste ultime anche in Italia, ai Lavini di Marco, nei pressi di Rovereto, e in altre località del Trentino). Un tempo raggruppati tra i cetiosauridi, oggi sono considerati non un gruppo naturale ma una sequenza di specie sempre più imparentate con i sauropodi successivi. Il nome cetiosauridi che fu scelto per questi animali (letteralmente “sauri-balena”) rievoca le discussioni che i loro reperti suscitarono fin dai primi ritrovamenti. La vertebra di una na coda proveniente dall’Oxfordshire, in Inghilterra, ghilterra, il primo fossile rinvenuto, fu infatti tti identificata da Cuvier, nel 1830, come

osso di balena. Dieci anni più tardi, Owen vi ravvisò i caratteri di un rettile più che di un mammifero, e lo attribuì a un coccodrillo grande come un cetaceo. Huxley classificò il cetiosauro fra i dinosauri nel 1869. Il nome cetiosauro non deve trarre in inganno: questi animali certamente non erano acquatici e vivevano sulla terraferma nutrendosi di foglie, semi e bacche di conifere. I più grandi tra i sauropodi primitivi sono Jobaria, rinvenuto in Niger, e Mamenchisaurus della Cina. Quest’ul-

Q Ricostruzione di un sauropode primitivo come Jobaria, rinvenuto in Niger.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di sauropodi primitivi.

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CAPITOLO 7

Q Misure a confronto fra l’uomo e Jobaria, uno dei più grandi sauropodi primitivi.

timo genere aveva un collo lunghissimo formato da 19 vertebre e fu uno dei più grandi dinosauri mai esistiti. Altre forme rinvenute in Cina, come Omeisaurus, Shunosaurus e, forse, Zigongosaurus, erano dotate di una sorta di mazza ossea all’estremità della coda, simile a quella degli ornitischi anchilosauri.

Brachiosauridi L

a valle di Mbemkuru e le colline che la delimitano, al confine fra la Tanzania e il Mozambico, sono formate soprattutto da un’alternanza di arenaria e di marne, due tipi di roccia a grana fine derivati da sabbie alluvionali. Qui, a Tendaguru, B. W. Sattler, un ingegnere minerario tedesco, scoprì nel 1907 molte ossa gigantesche di dinosauri sauropodi sparse fra le erbe alte, alcune segnate dall’abrasione della sabbia, altre coperte di gusci di molluschi, altre inframmezzate ai tronchi fossili di piante intaccati da invertebrati marini. Molte altre ossa vennero alla luce negli scavi intrapresi dal Museo di Storia Naturale di Berlino negli anni successivi: Tendaguru era un immenso cimitero di dinosauri. Secondo alcuni paleontologi tedeschi, nel Giurassico superiore si estendeva in questo luogo la foce di un fiume che si riversava in una laguna separata dal mare da un banco di sabbia. Qui vivevano molti animali e probabilmente, di tanto in tanto, qualcuno rimaneva intrappolato nella melma. La carcassa, trascinata lentamente dall’acqua, si disfaceva e si smembrava a poco a poco. Le ossa, trasportate dalla corrente, subivano l’azione abrasiva della sabbia e si accumulavano, infine, le une sulle altre lungo la laguna costiera insieme ai resti vegetali. Secondo altri paleontologi, questa zona era invece una palude che divideva la costa dalle foreste interne. Costretti da un lungo periodo di siccità a muoversi dalle foreste verso la costa, molti dinosauri morirono qui impantanati nel fango, così che le ossa delle loro zampe si ritrovano oggi infisse verticalmente nella roccia. Altri furono sorpresi da improvvisi e violenti uragani e morirono gli uni sopra agli altri, ammassati: ciò spiegherebbe il grande accumulo di ossa di molti Dryosaurus, piccoli ornitopodi erbivori. Comunque siano andate le cose, va notato che associati ai fossili di sauropodi sono stati trovati anche numerosi

Q Misure a confronto fra l’uomo e alcuni rappresentanti dei più grandi brachiosauridi finora rinvenuti.

denti di carnivori, come se le carcasse avessero costituito una riserva naturale di cibo a cui attingevano i predatori che si sarebbero recati spesso in questi luoghi a esercitare il loro ruolo di “spazzini”. Il risultato più stupefacente degli scavi di Tendaguru fu lo scheletro completo di un brachiosauride che venne montato nel Museo di Berlino: ciò permise di ammirare nella sua maestosità uno degli animali più

frammentari appartengono a individui che dovevano superare i 26 metri di lunghezza. I brachiosauridi devono il loro nome al fatto che le braccia erano più lunghe delle gambe, così che il dorso era inclinato verso il basso dalle spalle al bacino, proprio come nelle giraffe. E come nelle giraffe, il collo era molto lungo a causa del gigantismo dei corpi vertebrali. Le vertebre erano cave

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di brachiosauridi.

grandi mai esistiti sulla terraferma. Oggi i paleontologi chiamano questo brachiosauride Giraffatitan, per distinguerlo dal suo parente stretto nordamericano che rappresenta il genere Brachiosaurus. Lungo circa 23 metri, doveva pesare dalle 30 alle 50 tonnellate a seconda delle stime, e non era l’esemplare più grande! Resti

e molto leggere rispetto alla loro dimensione. Numerose spine e protuberanze favorivano su di esse l’attacco di muscoli potenti, in grado di sollevare la testa fino a 13 metri dal suolo, mentre l’articolazione fra vertebra e vertebra era provvista di un complicato sistema di giunzione che dava al collo un notevole grado di flessibilità.

IL GIURASSICO: FORESTE E GIGANTI

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CAPITOLO 7

Brachiosauridi

Le zampe, potenti colonne a sostegno del corpo, erano formate da ossa piene. Muovere una massa di queste dimensioni, sollevare il capo all’altezza di una casa di quattro piani e spostare un corpo pesante più di una mandria di cento mucche, richiede la soluzione di parecchi e notevoli problemi. Come potevano le gambe, che supportavano molto più carico delle braccia durante la deambulazione, per quanto poderose e sostenute da ossa piene (alcuni femori erano più lunghi di 2 metri), sopportare ciascuna un peso di 15 tonnellate? La soluzione più semplice fu ipotizzare che questi animali vivessero in un ambiente acquatico dove la spinta idrostatica avrebbe contribuito a sostenere il peso. L’ipotesi sembrava suffragata dal fatto che nei brachiosauridi le aperture nasali, molto grandi, si trovano in alto sul cranio, subito davanti a quelle orbitali. Una posizione che ricorda pressappoco quella di un mammifero marino, il delfino, per esempio, e che consente di nuotare respirando senza pericolo di venire soffocati dall’acqua.

Q Nella pagina accanto: una coppia di brachiosauridi in una foresta di sequoie.

Q Data la mole che doveva porre seri problemi ai brachiosauridi, ai diplodocidi (in figura) e ad altri dinosauri giganti, gli studiosi pensarono, in un primo momento, che essi sfruttassero la spinta idrostatica per muoversi più facilmente. Si sarebbe trattato, secondo questa ipotesi, di animali prevalentemente acquatici. Dopo studi anatomici più accurati, però, l’ipotesi si è rivelata inattendibile: i brachiosauridi erano certamente animali terrestri.

Si immaginava che un brachiosauride respirasse sporgendo la testa dall’acqua come un periscopio, guardandosi intorno. La posizione arretrata delle narici avrebbe consentito anche di mangiare in continuazione senza dover smettere per respirare. E poiché i denti di Brachiosaurus non sembrano i più adatti a ingurgitare quella tonnellata di cibo quotidiano che doveva essere il suo fabbisogno giornaliero, costituita da vegetali duri e fibrosi tipicamente

terrestri, una dieta di piante acquatiche, molto più tenere, sembrava più idonea alle sue esigenze, anche se essendo queste meno nutrienti, l’animale avrebbe dovuto ingurgitarne una quantità maggiore. Già nel 1904, Elmer S. Riggs, un paleontologo americano che all’inizio del secolo aveva trovato nel Colorado alcune ossa di Brachiosaurus, sostenne che questo animale doveva avere avuto un habitat terrestre. Le sue argomentazioni rimasero però senza seguito, e per molti anni i brachiosauridi e gli altri sauropodi giganti furono raffigurati immersi nelle acque palustri. Solo nel 1971 Robert Bakker riprese l’ipotesi di Riggs, dimostrandone la validità. La forma del corpo, rileva Bakker, è quella tipica di un animale terrestre. Se i brachiosauridi fossero vissuti davvero nell’acqua, avrebbero dovuto assomigliare più a un ippopotamo che a un elefante: avere cioè una cassa toracica appiattita, zampe corte e flesse al ginocchio e al gomito, e piedi con dita allargate, per sostenere il corpo sul terreno soffice e molle del fondo di una palude.

Q Lungo “appena” 6 metri, Europasaurus era un sauropode nano, una sorta di brachiosauro in miniatura.

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Brachiosauridi Le loro zampe a pilastro, lunghe e molto robuste, e le dita corte, incassate in un cuscinetto, ricordano invece molto più gli arti di un elefante. Le ricerche di K. Kermack, dell’University College di Londra, svolte nel 1951, dimostrarono inoltre che un brachiosauro immerso in una palude non avrebbe potuto respirare: già a una profondità di 8 metri, infatti, la pressione è di almeno 500 grammi per centimetro quadrato, che nel caso del brachiosauro sarebbe più che sufficiente per impedire ai polmoni di espandersi e provocare un collasso cardiaco. Quanto alla posizione delle narici, il paleontologo Larry Witmer ha ipotizzato che la loro apertura esterna fosse vicina alla punta del muso e che fosse collegata alle aperture sulla sommità del cranio da un naso carnoso: si può pensare che questa struttura anatomica fosse correlata con un senso dell’olfatto molto sviluppato o con la necessità di regolare le condizioni di temperatura e umidità dell’aria inspirata. In un animale della stazza di un brachiosauro, un organo dell’olfatto molto sensibile, situato su una testa manovrata da un collo così lungo, metteva il suo possessore in grado di spaziare su una grande superficie, allargando a dismisura il suo spazio trofico e permettendogli di arrivare là dove nessun altro animale poteva. Il fatto che i brachiosauridi non avessero un apparato masticatore adeguato, infine, non costituisce una obiezione valida all’ipotesi che fossero animali terrestri: anche gli uccelli ne sono sprovvisti, ma suppliscono a questa carenza macinando il cibo nello stomaco muscolare, grazie all’azione abrasiva di sassolini che ingurgitano a questo scopo. A convalidare l’idea che anche questi dinosauri fossero dotati di un simile apparato digerente sta il fatto che associati ai loro scheletri si trovano moltissimi ciottoli ben levigati che potrebbero aver svolto una funzione del genere.

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Q Bilanciandosi sulla coda, è possibile che anche questi dinosauri riuscissero (quasi come il diplodocide qui illustrato) a brucare ancora più in alto, fino ai germogli più teneri.

di I brachiosauridi erano quindi animali terrestri, ed è probabile che vivessero come gli elefanti, associandosi in branchi per difendersi dai predatori. Di fronte a un carnivoro potevano reagire a colpi di coda, oppure impennandosi sulle zampe posteriori come fanno i cavalli, agitando come immensi titani le zampe anteriori, dove il pollice, dotato di un forte artiglio, poteva costituire una pericolosa arma di difesa. Al gruppo dei brachiosauridi si sono assegnati in passato molti generi. Oggi diverse attribuzioni sono dubbie: Ultrasaurus del Cretacico inferiore del Nord America non sarebbe un genere valido poiché le sue poche ossa apparterrebbero al diplodocoide Supersaurus. Il gigantesco Sauroposeidon, anch’esso del Cretacico, potrebbe essere stato ricostruito erroneamente come un brachiosauro ed essere

Q I brachiosauridi avevano zone midollari espanse a livello toracico e addominale, deputate al controllo muscolare e sensoriale delle zone periferiche.

invece un titanosauro. Altri presunti brachiosauri cretacici sono probabilmente titanosauri, mentre alcune forme giurassiche affini ai brachiosauridi sono in realtà animali leggermente più primitivi, come per esempio i camarasauri. Nel 2000, dopo il ritrovamento di alcuni denti isolati e l’individuazione dello strato da cui provenivano, vennero recuperate in Germania, nelle montagne di Langenberg, 50 tonnellate di roccia contenente centinaia di ossa di piccoli brachiosauridi. Nel 2006 fu pubblicato lo studio scientifico che dava il nome a questi reperti: Europasaurus holgeri. Sensazionale era la taglia, minuscola, degli animali: gli adulti non superavano i sei metri di lunghezza e pesavano quanto una mucca. Si tratta di un caso di nanismo insulare tra i dinosauri, risultante dall’isolamento di una popolazione in un ambiente circoscritto, come una piccola isola, con risorse di cibo limitate che favoriscono la sopravvivenza degli individui di taglia minore.

Diplodocoidi E

ccoli, i giganti del Mesozoico: assieme ai brachiosauridi e ai titanosauri, gli animali più grandi che abbiano mai calpestato il suolo dei continenti, presenti nell’immaginario collettivo con il nome di brontosauri. La loro comparsa nel nostro tempo risale al 1877, quando alcune vertebre, denti e mandibole furono chiusi in un pacco dal capostazione e dal capocompartimento di una piccola stazione della Union Pacific Railroad (l’ancora sconosciuta Como Bluff, nel Wyoming, a ovest di Laramie) e spediti al professor Marsh. Lo studioso classificò questi reperti come appartenenti a un gigantesco brontosauro del Giurassico. Fin dalle prime ricognizioni, Como Bluff si rivelò come uno straordinario giacimento a cielo aperto di fossili di dinosauri, al cui confronto impallidiva anche la Morrison Formation. Negli anni successivi furono eseguiti centinaia di scavi, in un acceso clima di contese e di intrighi fra l’équipe di Marsh e quella di Cope, suo eterno rivale. I primi studi sui diplodocoidi vennero portati avanti, dunque, in una grande confusione. Ciò nonostante, nel 1878, Marsh pubblicò la prima descrizione di Diplodocus longus e, nel 1883, ricostruì il primo schele-

tro di un Brontosaurus. Il cranio originale, simile a quello del diplodoco e vagamente rassomigliante a quello di un cavallo, sembrava troppo piccolo per appartenere a un sauropode dal collo estremamente massiccio, e fu per questo che inizialmente venne scartato e poi dimenticato per anni in una cassa impolverata. Fu così che, nella fretta di produrre a qualunque costo un risultato prima che ci arrivasse l’avversario, Marsh montò in questo scheletro il cranio corto e robusto, alcune ossa delle zampe e dei

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e lo scheletro del più grande diplodocoide finora rinvenuto (in base ai resti un tempo attribuiti a Seismosaurus e ora assegnati al genere Diplodocus).

piedi e parte della coda di un Camarasaurus. Il risultato fu un animale inesistente. La classificazione dei numerosissimi reperti che venivano alla luce risentì analogamente della stessa confusione: le ossa di un’unica specie vennero assegnate infatti in più occasioni a specie diverse.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di diplodocoidi.

Q Ricostruzione dell’aspetto in vita di Diplodocus.

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Diplodocoidi Oggi, rifatto ordine in tutto questo materiale, c’è la tendenza ad attribuire all’unico genere Apatosaurus i reperti descritti sotto i nomi di Atlantosaurus e Brontosaurus, anche se quest’ultimo, in alcuni studi filogenetici sulle parentele tra i sauropodi, risulta un genere valido. Sia Apatosaurus che Diplodocus avevano una testa piccola rispetto al corpo, un collo assai lungo e zampe robuste come massicce colonne. Fra i due, Diplodocus era molto più snello: aveva un collo lunghissimo e slanciato, e ossa degli arti più gracili; la coda lunga e con una sottile estremità a frusta era formata da una ottantina di vertebre. Sebbene fossero più lunghi di altri sauropodi, molti tra i diplodocoidi avevano un peso di gran lunga inferiore. Il corpo, infatti, era più stretto e la colonna vertebrale era molto leggera: ogni vertebra si presentava profondamente incavata e le pareti di queste ossa mostravano singolari sistemi di costolature, di rinforzi obliqui e verticali e numerose sporgenze che davano attacco ai legamenti e ai muscoli. L’impianto delle vertebre aveva una straordinaria ingegneria: esse formavano infatti, da quelle cervicali alle dorsali, un lungo ponte a flessibilità variabile e decrescente. Mentre le primissime vertebre dorsali erano ancora relativamente mobili, la altre formavano un sistema piuttosto rigido che doveva sopportare gli sforzi derivanti dai movimenti del collo e sostenere, nello stesso tempo, il peso notevole dei visceri. Le ossa del bacino avevano una struttura massiccia; quelle degli arti erano robuste. Le zampe erano munite di dita cortissime e il primo dito della mano e i primi tre del piede

■ Cranio di diplodocide di profilo. Sono evidenti la posizione inusuale delle narici, i denti lunghi e sottili e le grandi orbite.

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■ Confronto fra cranio e ricostruzione della testa di un diplodocide (Apatosaurus, a sinistra) e di un camarasauride (Camarasaurus, a destra). erano armati di unghioni. Questa struttura possente era sormontata da una testa piccolissima che conteneva un cervello delle dimensioni di quello di un gatto. I denti erano piccoli e a forma di matita, inadatti alla masticazione di grandi quantità di cibo che doveva essere costituito per lo più da fibre vegetali dure, tipiche delle piante terrestri. La funzione della masticazione era svolta dai gastroliti in uno stomaco muscolare. Una dieta a base di piante acquatiche spiegherebbe certamente meglio un apparato dentale così debole. Come per i brachiosauridi, l’ambiente acquatico è stato quindi considerato a lungo il tipico habitat di questi sauropodi. Anche nel loro caso,

infatti, si riteneva che le zampe non fossero sufficientemente robuste per sopportare l’enorme peso del corpo, e che la spinta idrostatica dell’acqua fosse indispensabile a sostenerlo. Nel 1971, Robert Bakker dimostrò che, al contrario, le zampe di questi animali erano robustissimi pilastri perfettamente in grado di eseguire la loro funzione e che gli unghioni permettevano loro di far saldamente presa sul suolo. Anche nel loro caso, la pressione dell’acqua a 4-5 metri di profondità (dove si sarebbe trovata la gabbia toracica durante l’immersione) avrebbe impedito una normale espansione del torace necessaria per respirare. Il piede relativamente stretto e soprattutto la potente spina dorsale sono strutture tipiche di animali terrestri, e un’ulteriore conferma a questa ipotesi viene dall’esame delle loro impronte. Questi dinosauri vivevano dunque sulla terraferma, nelle zone di marea, nelle paludi costiere e nelle ampie foreste a vegetazione mista che ricoprivano le valli alluvionali, estese dai litorali alle falde dei monti, e dovevano essere in grado di camminare tanto sui terreni compatti quanto su quelli fangosi, umidi e scivolosi. In acqua, come dimostrano le loro impronte, nuotavano

come gli ippopotami, dandosi la spinta con le braccia. Quasi certamente vivevano in branchi, una strategia che consentiva loro di fronteggiare con successo l’attacco dei carnivori. Gli schiocchi di frusta della lunga e flessibile coda, prodotti da più animali, dovevano essere in grado di disorientare l’attacco di qualsiasi predatore. Solo un giovane rimasto fuori dal branco, o un adulto malato e isolato potevano essere sopraffatti dalla furia di un branco di carnivori affamati. I diplodocoidi si dividono in due sottogruppi: uno comprende numerosi generi, talora giganteschi, tra cui Diplodocus, Seismosaurus (dai più ritenuto un esemplare di diplodoco molto grande), Barosaurus (dal collo lunghissimo), Apatosaurus, Brontosaurus (se ritenuto valido) e Supersaurus (che potrebbe essere stato una sorta di apatosauro ancora più grande). Il secondo comprende forme di taglia più piccola, che spesso presentano colli più corti e spine neurali del collo e del dorso allungate, talora simili a spine.

Tra i più famosi vi sono: Dicraeosaurus, Amargasaurus, Bajadasaurus, Brachytrachelopan, Rebbachisaurus, Nigersaurus, Tataouinea e Limaysaurus. Ai diplodocoidi appartiene anche l’enigmatico Amphicoelias fragillimus, rappresentato dall’arco neurale di un’enorme vertebra andata perduta per sempre, forse sbriciolatasi a causa del cattivo stato di conservazione del fossile. Di questo reperto resta solo un vecchio disegno all’interno della pubblica-

■ Mano: sono evidenti le forti unghie.

■ In questa ricostruzione un Amargasaurus si abbevera con un membro del suo branco. Si può vedere la lunga fila di spine che andava dal collo alla coda. zione scientifica di Cope, il paleontologo che gli diede il nome durante la guerra delle ossa. Se ricostruito sulla base del diplodoco, Amphicoelias sarebbe il più grande animale di terraferma mai esistito, lungo forse più di 60 metri e pesante più di 120 tonnellate. Recentemente però è stato proposto che fosse più affine al rebbachisauro, che in proporzione ha spine neurali molto più allungate, e che dunque fosse lungo “solo” 30 metri, dunque in linea con altri sauropodi giganti della Formazione Morrison. Questa ipotesi, più realistica, prevede il suo trasferimento a un nuovo genere appositamente istituito. Maraapunisaurus, perché il nome Amphicoelias è legato a un’altra specie di dimensioni minori affine al diplodoco.

IL GIURASSICO: FORESTE E GIGANTI

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Fabrosauridi, tireofori primitivi e ornitopodi I

nsieme agli eterodontosauri, Lesothosaurus e Fabrosaurus sono gli ornitischi più comuni del Giurassico inferiore. Nel 1964 il paleontologo L. Ginsburg trovò nel Lesotho un frammento di mandibola provvista di denti piccoli, sottili e dalle lunghe radici, con una corona piatta a forma di foglia, scanalati lateralmente e a margine acuminato e tagliente. Riconosciuti come resti di dinosauri e, chiarito l’errore di Owen che aveva interpretato i denti e una mandibola di un eterodontosauride come appartenenti a una lucertola sconosciuta, che aveva chiamato Echinodon, i

resti del Lesotho vennero assegnati a una nuova specie a cui fu dato il nome di Fabrosaurus australis. Il gruppo dei fabrosauridi assunse però un aspetto definito solo nel 1970, quando R.A. Thulborn descrisse nei dettagli uno scheletro completo, proveniente dalla stessa località sudafricana. La somiglianza fra i denti di questo nuovo fossile e quelli di Fabrosaurus australis era chiara, ma – almeno per alcuni studiosi – non sufficiente a far assegnare i due reperti alla stessa specie. Nacque così Lesothosaurus diagnosticus, che rappresenta in modo compiuto tutti i fabrosauridi.

Q Ricostruzione di un fabrosauride. Secondo alcuni autori, da questi dinosauri che presentano caratteri molto primitivi deriverebbero tutti gli altri dinosauri ornitischi.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di fabrosauridi, tireofori primitivi e ornitopodi.

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CAPITOLO 7

Molti sono gli elementi che permettono di assegnare questi rettili agli ornitischi: il bacino con ischio e pube rivolti all’indietro (come negli uccelli), l’osso predentale nella mandibola coperta da un becco corneo, i lunghi tendini che saldano i corpi vertebrali fra loro conferendo robustezza alla colonna. L’aspetto di Lesothosaurus è quello tipico di un corridore bipede, piccolo (misura circa 90 centimetri dalla testa alla coda), leggero, con le gambe molto lunghe e sottili, e con le braccia, più corte, sufficientemente sviluppate per esercitare una presa. La coda molto lunga bilancia il corpo come pure il collo, anch’esso lungo, che permette una notevole mobilità della testa stretta e triangolare, provvista di grandi aperture per gli occhi e di altre per ospitare forse i muscoli della bocca in fase di contrazione. Ma la vera peculiarità dei fabrosauridi è la forma dei denti: piccoli, crestati, con margini taglienti e lunghe radici, sono denti con una struttura generale da erbivoro, adatta però a mangiare anche insetti e piccoli vertebrati. È un apparato dentale che, quando i denti superiori si chiudevano sul margine del becco inferiore, doveva funzionare come farebbero un paio di cesoie: certamente i fabrosauridi non masticavano, ma tagliavano il cibo a pezzetti, digerendolo poi, attraverso complessi processi di fermentazione, in uno stomaco e un intestino molto sviluppati, dove probabilmente il cibo rimaneva a lungo. Quest’ipotesi si basa su una analogia: Conolophus subcristatus, l’iguana terrestre delle Galapagos, ha denti molto simili a quelli dei fabrosauridi, e con essi stacca pezzi di cactus che inghiotte senza masticare, demolendoli nello stomaco con un lungo processo digestivo. Le analogie fra Conolophus subcristatus e i fabrosauridi, però, finiscono qui: il primo è un quadrupede lento e pigro, che striscia sul terreno e che, di fatto, non ha predatori

■ Misure a confronto fra l’uomo e l’unico scheletro completo di fabrosauride finora rinvenuto. nel suo mondo isolato, i secondi dovevano fare i conti con i predatori del Mesozoico e, sprovvisti di corazze difensive, dovevano affidarsi alla corsa veloce per fuggire con scatti repentini. Si può dire quindi che se i fabrosauridi erano simili alle iguane nel nutrirsi, assomigliavano più alle gazzelle nel muoversi. Scutellosaurus, un altro ornitischio primitivo che si colloca però sulla linea evolutiva dei tireofori, fu scoperto nel 1981 da Edwin H. Colbert e aveva invece il dorso armato di piastre e le braccia più sviluppate rispetto ai fabrosauridi. È probabile dunque che quest’animale si muovesse come un quadrupede e avesse per la presenza delle piastre difensive una possibilità in più di fronte al pericolo: era in grado di fuggire veloce o, rannicchiandosi su se stesso, di affidarsi alla protezione della corazza. Si suppone che questi primitivi ornitischi superassero le stagioni aride, che all’inizio del Giurassico interessavano annualmente il Sud Africa, riparandosi in buche sotterranee. Essi trascorrevano così questo periodo sfavorevole in “estivazione” (una sorta di letargo), come forse erano soliti fare anche altri dinosauri. Quest’ipotesi è stata proposta da Tony Thulborn, in base al ritrovamento di due fossili: accucciati nella stessa tana due fabrosauridi evidentemente erano stati sorpresi dalla morte. Le argomentazioni di Thulborn si fondano, oltre che sulla presenza in questo luogo di rocce tipiche di un clima arido, sul fatto che nelle mandibole dei due ornitischi, accanto a denti già fortemente usurati e caduti, si trovano denti nuovi, quasi fosse in atto una loro totale sostituzione. Thulborn suppone che questi dinosauri si nutrissero di piante particolarmente fibrose e che la

sostituzione dei denti consumati non potesse avvenire durante i normali periodi di attività, perché avrebbe fortemente compromesso la loro possibilità di nutrirsi. I denti sarebbero stati perciò sostituiti tutti in una sola volta durante un periodo in cui i fabrosauridi non si alimentavano: l’estivazione, appunto. Ma come accade sempre nelle controversie scientifiche, anche quest’ipotesi, seppure affascinante, trova argomenti contrari: accanto agli scheletri dei due fabrosauridi sono stati infatti ritrovati i denti di un saurischio. Questo luogo, dunque, avrebbe potuto essere anche un sito dove si accumulavano gli scheletri di dinosauri in modo casuale e fortuito, invece che una tana di estivazione.

Tra gli ornitischi erbivori del Giurassico superiore vanno infine citati gli ipsilofodonti (trattati nel capitolo successivo) e i camptosauri. Questi ultimi furono descritti per la prima volta da Marsh nel 1879. Erbivori, lunghi fino a 6 metri e pesanti più di mezza tonnellata, presentano caratteristiche fisiche intermedie tra i primi, piccoli ornitopodi erbivori e i grandi iguanodonti del Cretacico. Camptosaurus è il genere più noto, anche se spesso le ricostruzioni scheletriche presenti nei musei lo mostrano con il cranio sbagliato, quello dal muso squadrato di un altro camptosauro identificato più di recente e assegnato al genere Theiophytalia. Il cranio di Camptosaurus era più triangolare e l’usura dei denti suggerisce che si cibasse di vegetali duri e fibrosi. Impronte di ornitopodi sono state rinvenute anche in Italia, in rocce del Giurassico inferiore presso i Lavini di Marco (Rovereto).

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di Camptosaurus, uno degli erbivori più comuni del Giurassico superiore.

IL GIURASSICO: FORESTE E GIGANTI

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Stegosauri L

e prime ossa di stegosauri, descritte da Owen nel 1875 sulla base di reperti inglesi, furono assegnate a un dinosauro insolitamente armato di piastre: Omosaurus armatus oggi assegnato al genere Dacentrurus. Le scoperte inglesi, tuttavia, furono superate ben presto da quelle americane: Marsh descrisse nel 1877, con il nome di Stegosaurus armatus, i resti incompleti di uno di questi animali provenienti dalla Morrison Formation. Successivamente, nel 1886 fu ritrovato a Garden Park, nel Colorado, uno scheletro completo: si trattava di un grande animale dalla testa insolitamente piccola e con enormi piastre al di sopra della colonna vertebrale, il fossile di un dinosauro morto in un fiume e, trascinato dalla corrente, arenato su un banco di sabbia, riverso sul dorso e con le zampe sollevate in alto. Montato nella Smithsonian Institution di Washington proprio così come era stato ritrovato, fu studiato a lungo da Marsh, che lo chiamò Stegosaurus (letteralmente “sauro dal tetto”) stenops. In effetti quell’insolita copertura di piastre era una struttura del tutto peculiare per la quale era assai difficile trovare un’interpretazione che ne

Q Possibile distribuzione delle piastre ossee sul dorso di uno stegosauride: sfalsate diritte, sfalsate distese, appaiate diritte oppure, secondo l’attuale interpretazione, sfalsate oblique. Quest’ultimo sistema morfologico era il più efficiente per perdere calore per convezione e abbassare così la temperatura del corpo indipendentemente dalla direzione del vento (frecce rosse).

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CAPITOLO 7

spiegasse sia la collocazione nell’anatomia dell’animale, sia la funzione fisiologica. Lo scheletro presentava molti altri aspetti singolari: la testa era molto piccola, stretta e allungata con una cavità cranica in grado di ospitare un cervello non più grande di quello di un gatto; le mascelle erano prive di denti nella parte anteriore e provviste di denti corti, piuttosto deboli, con una corona a forma di foglia crestata nella parte posteriore; il collo era più lungo di quanto si osserva nella maggior parte delle ricostruzioni ed era protetto, in corrispondenza della gola, da una serie di piccole placche ossee immerse nella pelle; il corpo era com-

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e il più grande stegosauride finora rinvenuto. Le teorie più moderne sostengono che avessero la coda molto più sollevata dal suolo. plari di questi dinosauri potessero arrivare agli 8 metri e pesare quasi 3 tonnellate. E c’era poi quella serie di piastre ossee associate alla colonna vertebrale a partire dalla regione post-nucale fino alla coda. Poiché mancava il segno di un diretto rapporto fra queste ossa e le vertebre, si suppose che fossero conficcate nella pelle. Ma su quale fosse la loro disposizione, se verticali, orizzontali, in doppia o semplice fila, si dibatté

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di stegosauri.

presso lateralmente e molto arcuato in corrispondenza del cinto pelvico a causa dello sviluppo asimmetrico delle zampe (le gambe molto più lunghe delle braccia); gli arti, solidi e massicci, terminavano con dita corte e forti, adatte a sopportare un grosso peso, con una struttura simile a quella degli elefanti; la coda, infine, era armata nella parte terminale da una serie di lunghe e acuminate spine ossee. Lunghi in media circa 6 metri, si pensa che i più grandi esem-

a lungo. Marsh suppose che le piastre formassero un’unica sequenza dalla testa alla coda. Le sue argomentazioni poggiavano sulla configurazione del fossile di Stegosauri stenops, dove effettivamente queste ossa sembravano succedersi una dietro l’altra. Altri paleontologi obiettarono però che una simile disposizione era

Q Nella pagina accanto: una coppia di Stegosaurus ai margini di una valle alluvionale.

Stegosauri solo effetto della fossilizzazione: il peso dei sedimenti doveva aver alterato quella reale, che era originariamente a doppia fila. Di fronte a pareri così contrastanti si poteva risolvere la questione solo tenendo conto della funzione fisiologica di queste strutture, bisognava trovare cioè una risposta a una difficile domanda: a cosa serviva un apparato osseo così esagerato? La prima ipotesi fu che si trattasse di una struttura anti-predatoria: in effetti gli stegosauri dovevano difendersi da carnivori potenti come Allosaurus e Ceratosaurus. Ma questa interpretazione non parve convincente, perché comunque si dispongano le piastre sul dorso, verticali o orizzontali,

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CAPITOLO 7

in semplice o in doppia fila, le altre parti del corpo, i fianchi e il ventre, rimangono sguarniti. D’altronde, a scopo difensivo, la potente coda era un’arma più che adeguata, munita com’era di lunghe spine appuntite dirette lateralmente. Fu l’esame istologico delle piastre, eseguito nel 1977, a dare una risposta più esauriente. Sulla loro superficie risultavano evidenti numerose scanalature, probabilmente sede di capillari, mentre l’interno era tormentato da una serie di cavità. Si può presumere che queste, collegate con la rete sanguigna, si riempissero di sangue secondo un

■ Aspetto di due tipi di stegosauridi: quello a destra (genere Huayangosaurus), più primitivo, senza becco e con denti incisiviformi. Il secondo (Stegosaurus) con becco e molari. meccanismo regolato dall’animale stesso. Si può dunque supporre che le piastre degli stegosauri funzionassero come pannelli radiatori, nei quali il sangue aveva una funzione convettiva di calore. Verificata in un tunnel del vento, la struttura

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di due stegosauri, ritratti mentre si abbeverano in un acquitrino.

delle piastre si rivelò quella ideale per dissipare calore, quando erano esposte a una brezza, mentre se venivano esposte al sole, agivano da pannelli solari: sembra che la disposizione più adatta per realizzare una funzione convettiva radiante di questo tipo fosse quella a duplice fila sul dorso, a partire dalla testa fino alla coda. La superficie esterna delle piastre era coperta di cheratina, che le rendeva più appuntite e che, probabilmente, era vivacemente colorata. La presenza di una fitta rete di vasi sanguigni all’interno potrebbe essere stata dettata dalla necessità di far crescere rapidamente le piastre al raggiungimento della maturità. Un nuovo esemplare di stegosauro molto ben conservato dimostra che la distribuzione su due file alternate era meno ordinata di quanto si pensasse, dando alle piastre e alla loro variabilità un potenziale ruolo di riconoscimento individuale. Studi compiuti su Hesperosaurus mostrerebbero inoltre un dimorfismo sessuale ben definito, con esemplari con piastre molto ampie che formavano una struttura molto ingombrante, quasi continua, a nastro (forse dei maschi?) e altri esemplari con piastre strette e alte, più appuntite (femmine?).

■ Ricostruzione degli scheletri quasi completi di 2 generi diversi di stegosauridi: Stegosaurus (sopra) e Kentrosaurus (sotto): in uno stesso gruppo di dinosauri, accomunati da innumerevoli caratteristiche (la testa piccola, le zampe anteriori più corte delle posteriori, la disposizione delle ossa che formano il cinto pelvico, la coda lunga e possente, la presenza di piastre dorsali), si trovano animali dall’aspetto sensibilmente diverso.

■ Le spine appuntite della coda, dirette lateralmente, erano un’arma formidabile per gli stegosauri.

Questi animali dovevano essere quadrupedi lenti e goffi che si muovevano con la testa bassa a livello del terreno. Mentre i sauropodi contemporanei dal collo lungo avevano accesso ai rami alti delle piante per nutrirsi, gli stegosauri si specializzarono nei piani bassi della vegetazione, brucando felci, cicadee e altre piante di piccola taglia. I denti, evidentemente deboli, erano forse solo in grado di tagliare le foglie, e il cibo

veniva digerito rimanendo a lungo nello stomaco e nell’intestino. Le dimensioni cerebrali non giocano certamente a favore dell’intelligenza di questi dinosauri: è per lo meno stupefacente che un animale pesante una tonnellata e mezzo avesse solo 80 grammi di cervello! Tuttavia un’espansione del midollo spinale a livello sacrale integrava notevolmente le funzioni centrali, coordinando l’attività motoria e sensoriale della parte posteriore del corpo. Gli stegosauridi si affermarono in tutto il mondo nel Giurassico superiore: se rimasero sulla Terra così a lungo si deve pensare che il loro sistema nervoso fosse una struttura idonea alla loro sopravvivenza. Resti di stegosauridi si trovano in Europa, Nord America, Africa e Asia. I generi più noti sono: Huayangosaurus, Stegosaurus, Hesperosaurus, Wuerhosaurus, Dacentrurus, Kentrosaurus, Lexovisaurus e Tuojiangosaurus. Il genere Miragaia, dal lungo collo, rinvenuto in Portogallo e conosciuto principalmente attraverso ossa della metà anteriore dello scheletro, potrebbe essere un sinonimo di Dacentrurus, conosciuto invece principalmente per ossa della metà posteriore.

IL GIURASSICO: FORESTE E GIGANTI

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8. Il Cretacico: lÕapogeo e la Grande Estinzione

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CAPITOLO 8

UN MONDO IN EVOLUZIONE Ecco il Cretacico (o Cretaceo), con alcune specie caratteristiche. Nei circa 79 milioni di anni (da 145 milioni di anni fa a 66 milioni di anni fa) la Terra diventa sempre più simile a quella odierna:

la “deriva” dei continenti, invasioni e regressioni marine modificano il clima caldo-umido, e le differenze stagionali si accentuano. Accanto alle piante più primitive (araucarie, 30, o equiseti, 28), si affermano le angiosperme dai fiori appariscenti e dai semi

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protetti dal frutto: sono le magnolie (26), o le ninfee (27). Seguono le monocotiledoni più progredite: i papiri (29), le palme (31) e le graminacee. I dinosauri seguono una linea di tendenza verso la massima specializzazione. Fra gli erbivori si affermano specie con apparati masticatori potenti: gli adrosauroidi come Saurolophus (24) o i ceratopsidi come Torosaurus (3). Si affinano anche i mezzi di difesa: corazze, corna, scudi, spine; l’anchilosauride Panoplosaurus (18), per esempio. Il cranio di Stegoceras (12) era forse un carattere sessuale secondario. Anche i carnivori si specializzano: ornitomimosauri (17), dromeosauridi (23), tirannosauroidi come Albertosaurus (8). Altri rettili dominano il mondo: Quetzalcoatlus (25), Pteranodon (7), Mosasaurus (14), Elasmosaurus (15) e Archelon (13) si estingueranno; sopravviveranno salamandre (20), rane (21), invertebrati (come coleotteri, 2, e chiocciole, 22), serpenti (1), coccodrilli (4), testuggini (19). Nuovi pesci si evolvono: amie (10) e storioni (11). E infine i vertebrati che erediteranno la Terra: gli uccelli che già presentano varie specie (ardeidi, 6; anatidi, 16, e Ichthyornis, 9, che si estinguerà) e i mammiferi che cominciano a differenziarsi (compaiono i marsupiali come l’opossum, 5). Dopo la Grande Estinzione ci vorranno ancora circa 10 milioni di anni prima che il mondo recuperi la grande diversità biologica che caratterizza questo periodo.

IL CRETACICO: LÕAPOGEO E LA GRANDE ESTINZIONE

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Un mondo nuovo ebbe inizio 145 milioni di anni fa. Nell’arco di 79 milioni di anni, durante il Cretacico, un grande innalzamento e due regressioni del livello del mare alterarono a più riprese la geografia delle masse continentali. Profonde fratture interruppero ormai definitivamente la continuità della Pangea e, a poco a poco, sotto la pressione delle forze interne della Terra, i continenti cominciarono ad andare alla “deriva”, spostandosi, lentamente ma inesorabilmente, verso le posizioni che occupano attualmente. All’inizio di questo periodo geologico, però, le terre emerse costituivano ancora due grandi masse continentali: Laurasia e Gon-

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CAPITOLO 8

RESTI CRETACICI Le scogliere di Møns Klint, in Danimarca, alte fino a 143 metri sul livello del mare, sono formate da rocce che risalgono al Cretacico.

dwana, unite dal ponte iberico-marocchino. Proprio intorno a questo punto l’America settentrionale (unita all’Eurasia dalla Groenlandia) compì un movimento di rotazione, spinta in senso orario, verso nord-ovest, dall’apertura di un vasto bacino marino: il primo abbozzo del golfo del Messico e del Mare Caraibico. L’Europa (che alla fine del Giurassico per il forte regresso del mare era una grande distesa di terre comprendente quasi tutta l’Inghilterra, la Francia e parte dell’Europa centrale) venne di nuovo invasa dal mare, riemergendo e tornando a essere sommersa più volte. Alla fine del Cretacico, gran parte delle sue terre erano di nuovo

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sommerse dal mare. Anche le terre di Gondwana venivano invase a più riprese dal mare. Il vasto continente era ora percorso da numerose fratture: le zolle continentali divergevano dall’Africa, che rimaneva relativamente immobile; e mentre alla fine del Cretacico il Madagascar era già un’isola, l’India migrava velocemente verso nord, OCEANO attraverso l’Oceano Indiano TETIDE in direzione del continente cino-siberiano. L’Antartide, l’Australia e la Nuova Zelanda occupavano il polo sud, formando un unico blocco. L’Ame-

LA TERRA DEL CRETACICO I continenti così come li conosciamo noi si stanno già delineando in modo chiaro. Africa e America meridionale sono già separate e si allontanano per il progressivo aprirsi dell’Oceano Atlantico; il Madagascar comincia la sua deriva, mentre l’India si avvicina sempre più al continente euroasiatico, separato quasi completamente dal Nord America. L’Antartide ha già assunto la collocazione attuale, mentre l’Australia inizia a spostarsi verso nord.

ANTARTIDE

rica meridionale andava progressivamente allontanandosi dall’Africa, spinta verso ovest dal movimento di espansione dell’Oceano Atlantico che, alla fine del Cretacico, aveva già un’estensione pari a due terzi di quella attuale. Le immani forze di attrito dovute allo scorrimento delle zolle e alla compressione fra continenti diversi, provocavano il sollevamento di catene montuose: cominciavano così a innalzarsi le Montagne Rocciose sul margine occidentale della zolla nordamericana, le Ande su quello della zolla sudamericana e in Europa cominciava a formarsi la catena delle Alpi. Nel Cretacico superiore una grande distesa di acque si estendeva dal Mar Glaciale Artico al golfo del Messico e separava nell’America settentrionale la parte occidentale (dove cominciavano a innalzarsi le Montagne Rocciose) da quella orientale. In questo stesso periodo anche la parte settentrionale dell’Africa era quasi completamente sommersa, e così pure parte dell’India e dell’Australia. Un braccio di mare si estendeva da nord a sud anche in Eurasia, separando le terre a oriente degli Urali da quelle ancora più orientali dell’Asia. Secondo alcuni studiosi però, durante i periodi di regressione marina, isole e blocchi continentali erano collegati da vasti ponti di terre emerse, così che zone oggi separate da oceani avevano in quel tempo una flora e una fauna molto simili. Particolarmente significative erano probabilmente anche le migrazioni di animali dall’Asia all’America settentrionale attraverso lo stretto di Bering, al tempo non ancora sommerso dal mare. La formazione di vasti bacini marini interni, dove le fredde acque polari si mescolavano a quelle temperate, influenzava il clima che registrava una leggera flesOCEANO sione della temperatura. TETIDE Il clima caldo-tropicale conobbe variazioni stagionali: lo testimoniano le sezioni dei tronchi delle conifere pietrificate che mostrano evidenti cerchi

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LE PIANTE In alto: un tronco fossile, silicizzato, nella Petrified Forest National Park (Arizona, USA). Si può distinguere ancora bene la struttura del legno e alcuni tronchi mostrano evidenti i cerchi annuali che testimoniano le variazioni stagionali del clima.

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CAPITOLO 8

Accanto: nelle foreste del Cretacico le angiosperme (le piante con i semi chiusi in un frutto) subentrano alle gimnosperme nel ruolo di dominanti. Piante sempre più possenti si innalzano nelle foreste pluviali. Al centro: il panorama cretacico assume tratti sempre più simili a quelli

del mondo che conosciamo. Betulle e pioppi, platani e querce, sostituiscono gradatamente le conifere dei boschi temperati: è probabile che il paesaggio autunnale brillasse dei caldi colori delle loro foglie, destinate a cadere per l’avvicinarsi dell’inverno più rigido.

annuali, dipendenti, appunto, dall’alternarsi delle stagioni. Nello stesso tempo, però, quelle stesse invasioni marine mantenevano sulla maggior parte delle terre emerse, e per tutto il periodo, un clima tropicale caldo e umido, molto simile a quello del Giurassico: in Groenlandia crescevano infatti alberi di fichi, alberi del pane e felci arboree, e anche in Alaska, a 70 gradi di latitudine Nord, c’erano fichi, cicadee e palme, tutte piante che sopravvivono oggi solo a latitudini molto più meridionali. Le foreste del Cretacico, però, non erano più i boschi fitti di vegetazione tipici dei paesaggi del Giurassico. Il mondo delle piante si era infatti profondamente trasformato: le angiosperme, quelle piante che nel Giurassico avevano cominciato a circondare i loro organi sessuali del colore e del profumo dei fiori e che maturavano i loro semi racchiusi in un frutto (quelle piante, insomma, che avevano un sistema riproduttivo rivoluzionario rispetto a quello delle gimnosperme) si erano diffuse ormai su tutti i continenti e popolavano la Terra. La monotonia verde delle vastissime foreste che fino ad allora avevano coperto la Pangea si accendeva della luce dei fiori di rododendri e magnolie, mentre le betulle dal bianco fusto, FRUTTI E FIORI Inizia nel Cretacico il predominio delle piante con fiori resi evidenti da una corolla appariscente, e con

un frutto carnoso. A sinistra: “primo piano” del frutto dell’albero del pane. Sotto: il fiore primitivo di Magnolia grandiflora.

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COEVOLUZIONE Una delle ragioni del successo delle angiosperme consiste nel fatto che la maggior parte di esse affida agli insetti il trasporto del polline, un metodo più efficace e selettivo che affidarsi al vento, utilizzato invece dalla totalità delle gimnosperme. Nasce nel Cretacico quel sodalizio fra piante con fiori e gli animali, prevalentemente insetti, ma anche mammiferi (come i pipistrelli) o gli uccelli (come il colibrì ritratto sotto). È un rapporto di mutuo vantaggio che

condiziona l’evoluzione parallela di entrambi. Gli impollinatori evolvono verso forme sempre più adatte a raggiungere il cibo che trovano nella pianta (il nettare), mentre fra le piante hanno un maggior successo riproduttivo quelle che presentano strutture sempre più efficaci ad attirare gli impollinatori. Si evolvono così rapidamente quei vegetali in grado di produrre nettare, di catturare l’attenzione degli impollinatori e di garantire così, con sempre maggior successo, questa fecondazione “mediata”.

i pioppi dalle tremule foglie, i salici dalla chioma fluente, si stagliavano su uno sfondo di noci, querce possenti, platani ombrosi ed eucalipti fruscianti. Le angiosperme avevano, oltre al sistema riproduttivo, anche altre caratteristiche particolarmente evolute che facilitavano la loro diffusione e il loro adattamento a ogni tipo di ambiente. In breve tempo esse soppiantarono per numero e specie le gimnosperme: a diffe-

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renza di queste, per esempio, le nuove piante presentavano forme erbacee oltre che legnose, avevano una più alta differenziazione dei tessuti in vasi dalla struttura più complessa, destinati al trasporto della linfa grezza e della linfa elaborata, mentre le foglie, larghe e appiattite, erano disposte sui rami in modo da poter utilizzare al massimo la luce solare. La diffusione delle angiosperme ebbe conseguenze anche sull’evoluzione degli animali. A poco a poco si sviluppò quel rapporto mutualistico fra piante e insetti impollinatori che è tuttora alla base della riproduzione della maggior parte delle angiosperme. Fu un’evoluzione parallela, nella quale un cambiamento del fiore indusse un cambiamento nel comportamento degli animali impollinatori, e viceversa, in una catena di azioni-reazioni. I coleotteri, le farfalle, e gli altri impollinatori, si nutrivano del polline, ma arrivavano spesso a divorare anche parte del fiore. Venivano così favorite dalla selezione naturale quelle piante che mettevano a disposizione degli “ospiti” prodotti più appetitosi, tali da sviare la loro voracità: secreto in zone sempre più profonde del fiore, il nettare attirava un numero

sempre maggiore di insetti che, sporcandosi di polline, lo trasportavano a destinazione. Così, mentre le angiosperme avevano maggiori probabilità di riproduzione rispetto alle gimnosperme (che affidavano il loro polline al vento), gli insetti trovavano facile fonte di proteine, grassi, carboidrati e vitamine. Si affermava così il sodalizio fra vegetali e animali, con vantaggio di tutti. Anche i dinosauri erbivori, i vertebrati più diffusi e i più forti consumatori di vegetali del tempo, contribuirono probabilmente all’evoluzione delle angiosperme. Mentre scomparivano molti erbivori giganti che si nutrivano di fronde ai piani alti della foresta, si affermavano dinosauri di mole più modesta, tipicamente dediti, come si deduce dal particolare impianto della testa sul collo, a brucare la vegetazione bassa a livello del terreno. Il mondo del Cretacico fu invaso da gruppi di iguanodonti, da dinosauri a becco d’anatra, da mandrie di ceratopsidi: erano tutti erbivori dotati di apparati masticatori molto sofisticati, formati da centinaia di denti funzionali e di ricambio, capaci di tagliare anche le fibre più resistenti. L’azione di questi animali, protratta per lungo tempo sulle piante basse (che comunemente allora erano felci, equiseti, palme e cicadee), consentì forse alle angiosperme primitive, caratterizzate da un più rapido sviluppo, di crescere e di diffondersi indisturbate.

Secondo Robert Bakker, dobbiamo essere grati proprio ai dinosauri erbivori se oggi possiamo apprezzare la bellezza di un fiore. Anche se questa ipotesi è ancora da dimostrare, non c’è dubbio che i dinosauri devono aver svolto un ruolo di primo piano nella vita del Cretacico: in questo periodo essi presentarono infatti il momento di maggiore ricchezza evolutiva. Nelle forme erbivore si affermarono apparati masticatori altamente specializzati e mezzi difensivi estremamente efficaci che permettevano strategie di difesa attiva e passiva: è nel Cretacico che raggiunsero il massimo sviluppo le corazze e le piastre dermiche, le corna e gli aculei, le mazze e gli artigli. Se i nodosauridi potevano opporre solo una resistenza passiva, proteggendosi ventre a terra con la corazza armata di punte, gli anchilosauridi erano anche in grado di passare al contrattacco, manovrando la coda armata di una robusta “mazza” ossea. Dal canto loro gli

FOGLIE ANTICHE, FORME GIÀ MODERNE Una antica foglia fossile accanto a una foglia di acero rosso, una varietà attuale. La somiglianza di forme fra queste due piante, a distanza di milioni di anni, è evidente. Sotto, alcuni esempi di fillite, come vengono chiamate le rocce che portano impronte di piante fossili. La somiglianza di queste foglie con le foglie di piante attualmente esistenti è notevole.

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iguanodontidi si difendevano probabilmente vibrando colpi con il pollice armato di un terribile unghione; i ceratopsidi, saldi sulle quattro zampe, potevano difendersi a testa bassa, confidando sulle lunghe corna appuntite che armavano il muso. C’era però ancora chi, come gli ipsilofodontidi, si affidava alla fuga, o chi, come gli adrosauridi, trovava forza nel branco.

L’IMPORTANZA DI ESSERE MAMMIFERI Piccoli di Opossum virginiana vengono trasportati dalla madre sul dorso dopo che hanno lasciato il marsupio (ci sono rimasti fino a circa 14 settimane). La cura dei piccoli protratta nel tempo consente un maggiore sviluppo cerebrale e una socializzazione molto stretta: intelligenza e senso del gruppo sono caratteristiche particolarmente evolute, tipiche dei mammiferi e degli uccelli.

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CAPITOLO 8

Parallelamente anche i carnivori, che condizionavano la selezione di queste nuove forme di erbivori ed erano a loro volta condizionati da una tale molteplicità di strategie di difesa, si differenziarono e si specializzarono in ruoli diversi. Il tirannosauro, con i suoi quasi 6 metri di altezza, il cranio enorme, i denti affilatissimi e micidiali e le possenti gambe, era certamente uno specialista nell’agguato, mentre Deinonychus puntava sull’agilità. Muovendosi in gruppo e fidando sulla sorpresa, questo dinosauro era in grado di attaccare anche prede molto più grosse di lui: alto poco più di un metro, aveva una struttura snella, mani artigliate, denti affilatissimi, occhi mobili dalla vista acuta e un cervello sviluppato, a cui bisognava aggiungere gambe adatte a compiere balzi e un micidiale artiglio del secondo dito del piede che teneva sollevato durante la corsa. Deinonychus insomma aveva caratteristiche che nessun altro animale mai eguaglierà, raggiungendo una fusione altrettanto armonica

di elementi adatti ad aggredire, abbattere, uccidere e smembrare una preda. I carnivori più diffusi nei tranquilli pascoli del Mesozoico erano i piccoli celurosauri e gli ornitomimosauri, che si specializzarono nella caccia a piccole prede come lucertole e mammiferi o in una dieta onnivora. Nel Cretacico, i sottoboschi, le foreste, le distese aperte, le paludi, le rive di laghi e fiumi, le coste marine, tutti gli ambienti delle terre emerse brulicavano di dinosauri. I giacimenti fossiliferi più importanti che risalgono a questo tempo si trovano ovunque: in Europa (nell’Inghilterra meridionale e in Belgio, in Francia e in Spagna, nei paesi dell’est e anche in Italia), in Asia (in Mongolia e in Cina), nell’America settentrionale (dal Canada al Nuovo Messico) e in quella meridionale (in Patagonia e in Brasile). Anche altri rettili dividevano però questo mondo con i dinosauri: testuggini, lucertole e altri sauri, serpenti e coccodrilli. E, mentre nelle foreste grandi serpenti si attorcigliavano sui rami degli alberi, numerosi coccodrilli, alcuni dei quali davvero giganteschi, infestavano fiumi e paludi, spingendosi fino alle acque costiere. Nel mare, poi, vivevano i mosasauri, dall’aspetto di enormi varani con le pinne, e c’erano anche le grandi tartarughe come Archelon e i plesiosauri, mentre gli ittiosauri, ormai prossimi all’estinzione, si facevano sempre più rari. Rettili e uccelli si contendevano il dominio del cielo. Mentre i primi, nonostante le dimensioni gigantesche raggiunte proprio in questo periodo (va ricordato Quetzalcoatlus northropi, circa quaranta volte più grande di uno pterodattilo), stavano gradatamente perdendo la competizione i secondi, in rapida evoluzione, erano destinati a vincerla. Nelle paludi e lungo i fiumi erano già numerosi gli uccelli acquatici dalle zampe palmate e dalla bocca ancora armata di denti: erano i primi trampolieri e i tuffatori, alcuni già specializzati come Hesperornis dotato di potenti natatorie adatte al nuoto.

SCENARI POSSIBILI Due paesaggi che sarebbero potuti esistere anche nel Cretacico, periodo caratterizzato da un’intensa attività vulcanica, soprattutto negli ultimi milioni di anni. Anche allora la lava solidificata veniva gradualmente colonizzata dalle piante ed è possibile che si coprisse di una selva di palme e di piante tropicali. Accanto: un acquitrino, con la sua ricca varietà di vegetali. Stagni, paludi e luoghi umidi erano popolati da una larga varietà di animali, da uccelli come gli ardeidi o gli anatidi, agli anfibi come le rane e le salamandre, ai pesci, fino ai numerosissimi invertebrati. Non mancavano i rettili come gli adrosauroidi.

C’erano, infine, i mammiferi, probabilmente molto più numerosi che nel Giurassico, interpreti di una silenziosa evoluzione. Sono di questo periodo anche i fossili di Zalambdalestes (probabilmente un insettivoro primitivo) e di Deltatheridium (dal cranio non più lungo di 6 centimetri), ritrovati in Mongolia: le loro strutture scheletriche erano già quelle tipiche dei mammiferi placentati. Lo sviluppo dell’embrione nel grembo materno garantisce un miglior successo riproduttivo, è ciò che dà ai mammiferi nuove possibilità di movimento anche durante lo sviluppo dell’uovo, che viene così sottratto alla predazione e mantenuto in condizioni ottimali durante tutto il tempo della gestazione. Erano carnivori e insettivori, quei primi mammiferi, non più grandi di un topo; tuttavia essi manifestavano già quei caratteri che ne faranno i potenziali padroni di un mondo nuovo. Saranno loro, e non i giganteschi dinosauri, a superare la barriera della Grande Estinzione.

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Megalosauroidi spinosauridi I

n una fredda mattina del gennaio 1983, in una cava di argilla del Surrey presso Dorking, in Gran Bretagna, dove i lavori erano sospesi per la pausa invernale, un idraulico in cerca di fossili coronò il sogno di ogni dilettante: legare il proprio nome a una scoperta scientifica. Una roccia dall’insolita forma di una palla da rugby rivelò, aprendosi sotto l’urto del suo martello da geologo, numerosi frammenti ossei che furono ricomposti in un enorme artiglio adunco, lungo circa 31 centimetri. William Walker aveva trovato il primo reperto di una specie sconosciuta di dinosauri: Baryonyx walkeri (letteralmente “il pesante artiglio di Walker”), come venne chiamata, nel novembre del 1986, dopo 3 anni di studi, dai paleontologi del British Museum of Natural History. Interpellati da Walker, gli esperti del museo intuirono immediatamente l’importanza di quel primo frammento. Con la collaborazione della società proprietaria della cava, che ne protrasse la chiusura fino a giugno, i paleontologi inglesi setacciarono un’area di 15 metri quadrati nella quale si trovarono sparsi i frammenti fossili

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Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di megalosauroidi spinosauridi.

Q L’artiglio osseo del pollice di Baryonyx walkeri poteva raggiungere una lunghezza di 31 cm. L’unghia che lo ricopriva poteva arrivare anche a 35 cm.

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Q Da sinistra: artigli (1), mascella superiore, vista di lato (2) e “palatale” (3), di Baryonyx inglese (sopra) e Suchomimus del Niger (sotto).

■ Confronto dimensionale fra l’uomo e lo scheletro di Baryonyx walkeri. Secondo i paleontologi britannici, questo teropode misurava fino a 9-10 metri di lunghezza, era alto 3-4 metri e poteva pesare fino a 2 tonnellate. di questo dinosauro sconosciuto. Liberate dalla roccia con le tecniche più moderne, le ossa vennero ricomposte nello scheletro, incompleto, di un teropode carnivoro. Alto 3 metri, lungo 9, del peso di circa 1,5 tonnellate, Baryonyx era uno strano miscuglio di elementi molto primitivi e di tratti decisamente più specializzati. Aveva un cranio stretto e allungato, e la mascella più robusta della mandibola dal profilo “a S”, due caratteristiche che si rinvengono anche in molti coccodrilli. Le narici, però, si trovavano a metà del muso anziché all’apice, e una cresta ossea si ergeva sul muso tra l’osso frontale e quello nasale. Mascelle e mandibole erano armate di 128 denti, il doppio rispetto alla normale dotazione di un dinosauro carnivoro. Questi denti non erano appiattiti come la lama di un coltello e risultavano più adatti ad afferrare saldamente che a tagliare. Le braccia erano più robuste rispetto a quelle di ogni altro teropode conosciuto, Deinocheirus escluso, e, sopra ogni altra cosa, terminavano con una mano dal pollice armato di quel terribile artiglio che dà il nome alla specie. Le gambe erano invece quelle tipiche dei teropodi. Baryonyx viveva, 124 milioni di anni fa, nella vastissima pianura che si estendeva fra il sud dell’Inghilterra, il Belgio e la Francia, punteggiata di laghi, attraversata da fiumi e circondata da ripide montagne.

In questo immenso bacino alluvionale erano ancora abbondanti, nel Cretacico inferiore, equiseti e felci; nell’aria si libravano le libellule e le acque erano popolate di pesci, testuggini e coccodrilli. Qui erano comuni anche altri dinosauri: Megalosaurus per esempio, o Hylaeosaurus, Hypsilophodon o Iguanodon. In questi acquitrini Baryonyx si nutriva di pesci, cacciandoli, molto probabilmente, come oggi fanno gli orsi grigi del Nord America: con una fulminea zampata nell’acqua. Che il pollice artigliato fosse un eccellente strumento di pesca viene indirettamente confermato dal fatto

che, negli interstizi dei denti e associate alle ossa toraciche del fossile inglese, sono state ritrovate molte scaglie di Lepidotes, un pesce comune nel Cretacico che raggiungeva il metro di lunghezza: verosimilmente fu questo il suo ultimo pasto. Suchomimus, scoperto in Niger negli anni Novanta da un team guidato dal paleontologo Paul Sereno, doveva essere molto simile a Baryonyx, tanto che alcuni studiosi

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di Baryonyx, in una posa minacciosa.

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CAPITOLO 8

Megalosauroidi spinosauridi ritengono che appartengano allo stesso genere. Spinosaurus fu invece scoperto nel 1914 in Egitto, attraverso resti incompleti che comprendevano vertebre dorsali con spine neurali alte più di un uomo e una mandibola allungata, armata di denti conici. Altri resti attribuibili a Spinosaurus sono stati ritrovati in tutta l’Africa settentrionale, dall’Egitto al Marocco, ma solo recentemente, nel nuovo millennio, questi resti sono risultati sufficientemente completi da poter ricostruire dimensioni, aspetto e stile di vita di questo insolito teropode. Lungo oltre 15 metri e pesante anche 8 tonnellate, fu tra i più grandi predatori della terraferma mai esistiti. Questa definizione, in realtà, non è del tutto corretta perché, grazie agli studi condotti dai paleontologi Nizar Ibrahim, Cristiano Dal Sasso, Simone Maganuco e da altri loro colleghi, sappiamo che Spinosaurus passava gran parte del suo tempo in acqua, nuotando grazie alle gambe corte, ai piedi piatti e con potenti ondulazioni laterali della coda, nei ricchi e pescosi fiumi nordafricani di cento milioni di anni fa. Gli studiosi suppongono che le spine neurali del dorso sostenessero una membrana che formava una sorta di vela, simile a quella di Dimetrodon, percorsa dai capillari: distesa al sole o all’ombra, poteva assolvere a una funzione termoregolatrice. Così, pur rimanendo sommerso nei fiumi con il resto del corpo, allo Spinosaurus era sufficiente esporre la vela al sole per compensare il raffreddamento del corpo dovuto alla temperatura dell’acqua fredda. Se era un animale endotermo con un metabolismo molto elevato, la vela dorsale poteva servire a disperdere calore, come fanno gli elefanti africani con i loro padiglioni auricolari. È anche possibile che la vela indicasse

Q Dagli ultimi studi sappiamo che Spinosaurus passava molto del suo tempo in acqua, nuotando grazie ai piedi piatti e a possenti ondulazioni della coda.

Q Un dente di Spinosaurus aegyptiacus: questi denti sono distinti da profili laterali diritti e lisci, caratteristici e dalla forma conica, come quelli dei coccodrilli. alle femmine l’esemplare più forte e dotato, e allo stesso tempo fosse un deterrente per i rivali nelle dispute territoriali o durante le competizioni sessuali, evitando che si arrivasse allo scontro fisico. Visto che in caso di conflitto la vela era certamente la prima parte del corpo a essere danneggiata, si può supporre che lo spinosauro fosse un animale pacifico, che evitava le lotte; un ulteriore argomento a favore dell’ipotesi secondo cui questi animali avrebbero preferito pescare pesci lunghi fino a un metro anziché lottare con altri grandi vertebrati. Altri generi attribuiti al gruppo degli spinosauridi sono Ichthyovenator dell’Asia e Irritator del Sud America, entrambi basati su resti ancora non completamente descritti. Spinosaurus è l’ultimo rappresentante del gruppo: specializzatosi a vivere negli ecosistemi fluviali, quando l’ambiente mutò e le coste africane furono invase dal mare, non fu in grado di tornare ad abitare la terraferma già invasa da carcarodontosauri e abelisauri, né di adattarsi all’acqua salata.

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Celurosauri compsognatidi Q Appartenenti ai celurosauri, gli alvarezsauridi come Shuvuuia erano molto simili ai compsognatidi, ma avevano un unico dito nella mano.

C

omparsi nel Giurassico, i compsognatidi continuano nel Cretacico a occupare il ruolo di piccoli predatori non specializzati nella caccia a un particolare tipo di preda, come dimostrato dai vari contenuti ritrovati nei loro stomaci, che comprendono tipi diversi di vertebrati. Per esempio Sinocalliopteryx, del Cretacico inferiore cinese, che poteva raggiungere i 2,5 metri di lunghezza (il genere più grande) aveva ingoiato persino una zampa del piccolo deinonicosauro Sinornithosaurus. L’esemplare di compsognatide più straordinario è però, senza alcun dubbio, Scipionyx samniticus. Soprannominato ‘Ciro’ dai giornalisti, è stato il primo dinosauro rinvenuto in Italia. Il fossile, scoperto da Giovanni Todesco nel giacimento di Pietraroja, provincia di Benevento, è inglobato in una lastra di calcare finissimo risalente al Cretacico inferiore, circa 110 milioni di anni fa. È un individuo immaturo che al momento della morte, avvenuta per cause ancora sconosciute, aveva solo qualche giorno di vita. Ce lo dicono alcune sue caratteristiche, come le proporzioni del muso, molto corto, associato alle orbite grandi (sono i cosiddetti segnali infantili comuni a molte specie sia attuali sia estinte, che hanno il vantaggioso effetto di

abbassare l’aggressività degli adulti, anche se questi appartengono a specie diverse), l’ossificazione incompleta dello scheletro, la presenza sulla volta cranica di una fontanella aperta (proprio come nei neonati umani), la dentatura senza tracce di usura. Misura circa 50 centimetri, compresa la lunghissima coda tipica dei compsognatidi, e pesava 200 grammi. Una volta divenuto

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di celurosauri compsognatidi.

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adulto avrebbe raggiunto i due metri circa di lunghezza, come gli altri teropodi appartenenti al gruppo Compsognathidae. Scipionyx è però uno degli esemplari fossili più importanti al mondo per una terza ragione: è conservato in maniera così eccezionale da mostrare alcuni organi interni e dei tessuti molli. Per questo motivo lo studio che ne rivelò, nel 1998, l’esistenza alla comunità paleontologica, a opera di Cristiano Dal Sasso e Marco Signore, guadagnò la copertina di Nature, la più prestigiosa tra le riviste scientifiche. Per descrivere tutte le meraviglie del piccolo dinosauro italiano ci vollero, però, le trecento pagine di una successiva dettagliata monografia, pubblicata nel 2011 a firma di Dal Sasso e Simone Maganuco, e illustrata da Marco Auditore. Per gli studiosi fu come fare una sorta di autopsia fossile: grazie all’esame al microscopio elettronico e anche all’uso dei raggi ultravioletti, Dal Sasso e Maganuco furono i primi a osservare parti anatomiche che mai nessuno aveva visto in un dinosauro dell’Era Mesozoica.

■ Confronto dimensionale tra un uomo e un compsognatide adulto.

■ Il fossile di Scipionyx samniticus è diventato famoso in tutto il mondo perché conserva, fossilizzati, anche alcuni “tessuti molli”, come per esempio l’intestino.

Nella regione addominale Scipionyx conserva, infatti, l’intestino, con tanto di pieghe della mucosa che costituisce la parete intestinale. Si possono osservare poi tracce del sangue (in particolare il ferro dell’emoglobina), che probabilmente era contenuto nel cuore e nel fegato, e, alla base del collo, gli anelli della trachea e tracce dell’esofago. Stupefacente è anche la conservazione di alcuni muscoli striati: nel fascio che serviva

per arretrare la gamba durante il passo si possono distinguere le singole fibre, cioè le cellule muscolari, e la loro struttura (al microscopio elettronico). Inusuale anche la presenza dell’astuccio corneo che riveste ancora l’estremità di ogni artiglio, perché

solitamente le unghie, costituite di cheratina, non si fossilizzano. Infine, l’esemplare conserva anche numerosi resti dei suoi pasti: la zampina di una lucertola, alcune scaglie di pesce, altre squame di lucertola, e si può anche ricostruire l’ordine in cui fu-

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita del cucciolo di dinosauro italiano Scipionyx samniticus. Soprannominato “Ciro”, aveva solo tre giorni di vita quando morì.

rono ingerite. Se Ciro sia stato in grado di catturare da solo queste prede, se le trovò già morte o se fu aiutato nella caccia dai genitori è un mistero che forse non riusciremo mai a svelare. È certo, invece, che già da piccolo era in grado di sgambettare e correre ed era perfettamente equipaggiato per essere un buon cacciatore.

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Tirannosauroidi N

el 1924 il geologo W. Peterson, della Stazione Agraria Sperimentale di Logan (nello Utah), scoprì nella galleria di una miniera di lignite una pista di impronte fossili di piedi tridattili. Larghe in media 79 centimetri, lunghe 76 e distanziate l’una dall’altra da un passo di quasi 4 metri (con una distanza media fra “tallone” sinistro e apice del dito medio destro di 48 centimetri), le orme erano state lasciate da un teropode sul fondo di una palude che con l’andar del tempo si era mutata in torbiera, nella quale si era formata la lignite. Nel 1938 il paleontologo B. Brown, dopo lunghi studi, attribuì quelle impronte a un Tyrannosaurus rex, un celurosauro di notevoli dimensioni. I primi reperti di tirannosauro erano stati alcuni denti ritrovati nella seconda metà del secolo scorso negli scavi del Montana. Paleontologi del calibro di J. Leidy e di E.D. Cope avevano tentato a lungo di classificarli, riuscendo solo a fare una grossa confusione: operazioni di questo genere su materiale incompleto sono infatti estremamente arrischiate. Sfortunatamente per loro, infatti, i denti di tirannosauro, a differenza di ciò che succede in molti altri dinosauri, cambiano forma lungo l’arcata boccale: i due paleontologi dunque vennero facilmente tratti in inganno e assegnarono denti che

Q Scheletro di Tyrannosaurus. La struttura deve conciliare due esigenze evidentemente opposte sostenere un peso enorme e raggiungere una certa velocità di movimento. Il collo corto sorregge un cranio possente, mentre le ossa delle zampe posteriori sono massicce e lunghe adatte alla corsa. La coda robusta e allungata bilancia l’equilibrio come in tutti i dinosauri bipedi.

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Q Confronto dimensionale fra l’uomo e le ricostruzioni di un Tyrannosaurus (a destra) e di un Alioramus (a sinistra), rispettivamente uno dei generi più grandi e il genere più piccolo della famiglia: Alioramus remotus probabilmente raggiungeva i 6 metri di lunghezza, mentre Tyrannosaurus rex arrivava a 12,5 metri, la sua testa poteva ergersi fino a 6 metri dal suolo e il suo peso, negli esemplari maggiori, poteva forse superare le 8 tonnellate. Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di tirannosauroidi.

Q Cranio fossile di Tyrannosaurus rex. Le ossa sono massicce per sostenere il contraccolpo nel momento in cui l’animale azzannava repentinamente una preda in fuga. I più grandi crani finora rinvenuti misurano quasi un metro e mezzo di lunghezza.

appartenevano a un’unica specie a specie diverse. Fu solo nel 1905 che, in seguito al ritrovamento di due scheletri quasi completi, H.F. Osborn potè definire la specie Tyrannosaurus rex e fu finalmente possibile mettere ordine nel materiale già esistente ed erroneamente interpretato. Il nome scelto per questi nuovi dinosauri era certamente appropriato: erano animali lunghi fino a 12,5 metri (dalla testa alla coda), alti al bacino fino a 4 metri (ma la testa poteva svettare fino a 6 metri di altezza in particolari posizioni), con un cranio che sfiorava il metro e mezzo e la bocca armata da più di 50 denti (la cui corona poteva raggiungere i 18 centimetri), taglienti, aguzzi, ricurvi all’indietro, finemente seghettati come la lama di un coltello da carne ma anche sufficientemente tozzi per rompere le ossa. Denti più piccoli, forse adatti a raschiare la carne dalle ossa della vittima, si trovavano, invece, nella parte anteriore del muso. Il cranio era più massiccio di quello degli altri teropodi (dell’allosauro, per esempio) e sebbene fosse alleggerito da numerose finestre, i ponti ossei fra l’una e l’altra erano assai più spessi e pesanti. Per ospitare i possenti muscoli che davano al tirannosauro il morso più potente tra tutti gli animali che vivevano sulla terraferma, la parte posteriore del cranio era allargata, con la conseguenza che le orbite erano ruotate in avanti mettendo gli occhi nella posizione giusta per avere una buona vi-

sione stereoscopica. Il tirannosauro aveva dunque una vista acuta e poteva calcolare bene le distanze che lo separavano dalla potenziale vittima, a differenza della maggior parte dei teropodi che avevano gli occhi rivolti molto più lateralmente. La colonna vertebrale nella parte toracica e

lombare era costituita da corpi vertebrali massicci, costruiti in modo da sopportare il peso del corpo. Questa loro funzione è confermata anche dal ritrovamento di due vertebre dorsali patologicamente fuse fra loro: un’artrosi dovuta molto probabilmente all’immane sforzo sopportato da queste ossa che deve aver causato non pochi dolori al tirannosauro che ne era affetto. Un’analoga funzione di sostegno avevano le ossa dell’anca e quelle della gamba, spesse e molto robuste, ma con caviglie molto lunghe, condizione ereditata dai primi tirannosauroidi che erano ottimi corridori. Il tirannosauro deve quindi esser stato il più veloce tra i grandi predatori bipedi, anche se, data la mole, gli adulti preferivano probabilmente inseguire a bassa velocità prede più lente, come i ceratopsidi, mentre i giovani, forse in gruppo, si lanciavano a tutta velocità all’inseguimento di adrosauri e dinosauri struzzo. A ipotizzare questo cambiamento nel comportamento di caccia è stato il paleontologo Philip J. Currie: questo colmerebbe il gap dimensionale e di adattamenti tra i predatori di piccola taglia della Formazione Hell Creek e i tirannosauri adulti.

Q Un dente di Tyrannosaurus rex che, a grandezza naturale, misurava 18 centimetri. Ogni arcata dentale aveva almeno 14 denti di questa lunghezza: le ferite provocate dai morsi di tirannosauro dovevano essere quasi sempre mortali. Secondo alcuni studiosi, i denti costituivano l’arma potentissima di questo predatore: essi infatti si rinnovavano continuamente così che ogni arcata presentasse sempre denti lunghi associati a denti corti.

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Tirannosauroidi Un particolare davvero singolare dei T. rex erano le braccia: così corte da non arrivare alla bocca. Questo ha suscitato tra gli studiosi molti dibattiti sulla loro funzione. Per quanto fossero relativamente piccole, esse erano però funzionali e forti, e terminavano con mani a due dita munite di robusti artigli. Osborn suppose che servissero per mantenersi in equilibrio durante l’accoppiamento, permettendo una sorta di abbraccio tra i partner. Barney Newman ipotizzò invece che il tirannosauro le usasse per alzarsi da una posizione di riposo a terra, simile a quella assunta da alcune specie di canguri. In questo caso il tirannosauro avrebbe ripiegato sotto il corpo le gambe, appoggiando al suolo la testa, il torace e il ventre. Per sollevarsi poi avrebbe puntato le braccia in modo da non scivolare in avanti mentre stendeva le gambe e, inarcando il capo, avrebbe spostato il baricentro all’indietro, levandosi in piedi con un guizzo. Una volta in piedi, il peso della coda avrebbe bilanciato quello del corpo e della testa. In passato si pensava che il tirannosauro camminasse dondolandosi sulle zampe posteriori, la coda strisciante e il busto eretto, un po’ come fanno oggi le oche. Oggi si sa che camminavano tenendo il torace parallelo al terreno, usando la coda per bilanciare il peso del corpo e della grande testa. È probabile che i tirannosauri sorprendessero le prede con un rapido

■ Un drammatico inseguimento: un Tyrannosaurus piomba su un Edmontosaurus, pacifico dinosauro “a becco d’anatra” che un tempo si pensava passasse parte del suo tempo a mangiare vegetazione acquatica. Secondo le più recenti interpretazioni, invece, Edmontosaurus era un animale tipicamente terrestre, che a volte si rifugiava in acqua per scampare all’attacco dei predatori, grazie alla sua abilità di nuotatore.

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Tirannosauroidi agguato. Un animale di 6-8 tonnellate non era certo in grado di protrarre una corsa troppo a lungo, ma la sua falcata doveva garantirgli comunque la possibilità di rag-

■ Questa sequenza illustra una delle tante ipotesi che sono state fatte a proposito dell’uso che un tirannosauro poteva far delle sue zampe anteriori: è possibile che le esili zampette servissero per alzarsi e stendersi, spingendo il grosso corpo bilanciato dalla coda.

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giungere una preda in pochi balzi. Anche se molto pesanti, infatti, i tirannosauroidi dovevano essere abbastanza agili, come lo sono oggi molti pachidermi (i rinoce-

ronti e gli elefanti, per esempio). Una prova indiretta che questi animali potessero seguire una simile strategia di caccia è costituita dalla stessa struttura del cranio, così massiccio: se le fauci avessero dovuto agguantare un erbivoro in corsa, il cranio era sufficientemente robusto da sopportare un simile, violento impatto. Terribili mezzi di offesa dovevano essere, oltre alle zanne, i tremendi artigli dei forti piedi con i quali questi dinosauri potevano facilmente squarciare il corpo di un erbivoro. È probabile poi che i tirannosauroidi non disdegnassero, all’occasione, di nutrirsi di carogne, anche se il ruolo ecologico di “spazzini” non si concilia molto con la loro struttura fisica, dall’indiscutibile significato predatorio. È verosimile però che essi, e soprattutto le specie di taglia superiore, avessero bisogno di enormi quantità di cibo per muoversi, e che la necrofagia contribuisse all’apporto proteico giornaliero. Durante il Cretacico, nelle valli alluvionali e lungo le rive dei laghi dove con ogni probabilità questi dinosauri vivevano, esistevano migliaia e migliaia di erbivori, in un rapporto preda-predatore di oltre 19 a 1. I paleontologi ritengono, addirittura, che in questo habitat il rapporto delle biomasse fosse tale da permettere ai tirannosauroidi di nutrirsi adeguatamente anche unicamente di carcasse. Qualunque sia stato il loro ruolo ecologico, questi dinosauri appaiono come i più sensazionali predatori terrestri mai esistiti. Essi sono la risposta evolutiva finale dei teropodi allo sviluppo dimensionale e alle corazze di ceratopsidi e anchilosauri. In una corsa evolutiva verso forme sempre più possenti, carnivori ed erbivori raggiunsero, nel Cretacico, dimensioni mediamente molto più grandi di quelle dei loro simili vissuti nel Giurassico. I tirannosauroidi raggiunsero probabilmente le dimensioni più grandi possibili per dei

carnivori terrestri, così come avevano fatto trenta milioni di anni prima i carcarodontosauri tra gli allosauroidi e gli spinosauri tra i megalosauroidi: se fossero stati più pesanti e più grandi, quasi certamente non avrebbero avuto la possibilità di essere bipedi, una condizione adattativa importante per il successo nella caccia. I tirannosauroidi costituiscono il punto di arrivo di una lunga linea filetica che, malgrado numerose lacune, può essere ricostruita attraverso i fossili per circa 100 milioni di anni e della quale il genere Tyrannosaurus è il più specializzato. Dai proceratosauri come Dilong, Guanlong e Yutyrannus ai veri tirannosauridi come Alioramus, Albertosaurus, Gorgosaurus, Daspletosaurus, Tarbosaurus e Tyrannosaurus, assistiamo al progressivo sviluppo della testa, che diventa sempre più potente. A questo sviluppo non corrisponde però un

Q Rapporto dimensionale fra lo scheletro del piede (a sinistra) e della mano (a destra) di un Tyrannosaurus. Questa differenza così marcata pone non pochi problemi di interpretazione sull’uso più probabile che l’animale poteva fare di queste ultime.

adeguato aumento della capacità cranica: si suppone infatti che il volume dell’encefalo, privo del tessuto avvolgente, non superasse i 250 centimetri cubi. Questo valore assume un significato particolare se viene messo in relazione con le dimensioni di questi animali. Raggiunta con Tarbosaurus e, soprattutto, con Tyrannosaurus la massima specializzazione come predatori, i tirannosauroidi si estinsero alla fine del Cretacico. Il genere più conosciuto, e che ha fatto mag-

giore breccia nell’immaginario collettivo, è senza dubbio Tyrannosaurus, che raggruppa gli animali più giganteschi e gli esemplari più studiati (del tirannosauro si conoscono anche alcune patologie, tra cui la gotta, e i ritmi di crescita). Nonostante questo restano ancora molti interrogativi sul modo di vita e sull’aspetto di Tyrannosaurus rex: che tipo di pelle aveva? Era piumato come i suoi antenati proceratosauri oppure no? Lo era solo da cucciolo? Oppure solo in alcune parti del corpo? Soltanto la scoperta di nuovi resti fossili potrà forse dare in futuro queste risposte.

Q Il disegno qui sotto riproduce i resti di un tirannosauride così come sono stati rinvenuti: si tratta di un Albertosaurus.

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Ornitomimosauri E

rano animali bipedi discendenti dei primi celurosauri che, persi i denti, modificarono le abitudini di vita, divenendo onnivori e in alcuni casi erbivori. Basandosi sulla ricostruzione di Struthiomimus fatta da Osborn nel 1917, si può dire che un ornitomimide evoca, nell’insieme, l’immagine di uno struzzo africano o di un emù australiano: di questi uccelli corridori aveva il collo allungato, la testa piccola e leggera e le lunghe e possenti gambe. Gli ornitomimidi non avevano denti, e si può supporre che la loro bocca fosse dotata di un becco corneo con lamelle simili a quelle che si osservano nel becco di un’anatra. Nel cranio leggero e molto esile, due grandi orbite accoglievano occhi sviluppati e sporgenti. Mentre il collo appariva molto flessibile, la parte toracica della colonna vertebrale costituiva un asse portante a cui particolari legamenti conferivano

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e lo scheletro di Ornithomimus. rigidità. Le braccia, molto lunghe, terminavano in una mano con tre dita affusolate e artigliate, adatte a raspare, ghermire e afferrare. Le gambe, con le tibie e le caviglie molto allungate, erano tipiche di un corridore, e il piede aveva tre dita artigliate, adatte a far presa sul terreno. La coda era lunga e assottigliata, piuttosto rigida, utile bilanciere nella corsa. Lunghi mediamente dai 3 ai 4 metri, superarono i 6 con il gallimimo e arrivarono a 11 con Deinocheirus. Eccetto quest’ultimo, gli ornitomimosauri furono probabilmente

i più veloci corridori del Mesozoico: nessun altro dinosauro poteva superarli nella corsa, e la fuga era certamente la loro tattica di difesa. La maggior parte dei fossili è venuta alla luce, infatti, in ambienti che verso la fine del Mesozoico erano molto simili alle attuali savane africane, dove la velocità pura è l’elemento chiave che decide la sopravvivenza di predatori e prede, di inseguitori e inseguiti. Nel corpo degli ornitomimidi, come in quello degli struzzi, tutto è sviluppato in modo da poter avvistare in tempo il pericolo (portamento

Q Ornithomimus e struzzo a confronto: si ritiene che questi dinosauri siano stati, su lunghe distanze e in località aperte, gli animali più veloci dell’epoca. Molto probabilmente il loro modo di vivere era simile a quello dello struzzo al quale assomigliavano sicuramente, perché secondo gli ultimi ritrovamenti erano anche ricoperti di piume.

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bipede, grandi occhi voluminosi e sporgenti) e fuggire, correndo il più velocemente possibile (gambe lunghe e vigorose). Più rapidi di un cavallo, potevano probabilmente superare i 70 chilometri l’ora e percorrevano, come gli struzzi appunto, tratti di molti chilometri a velocità sostenuta muovendosi a lunghe falcate con la coda diritta, tesa nello sforzo di equilibrare la corsa. Gli struzzi, a questo scopo, allargano le ali rudimentali, mentre gli ornitomimidi potevano certamente usare in maniera simile le loro braccia, ricoperte da lunghi filamenti. Varie sono state le ipotesi avanzate sul loro stile di vita. Secondo William Beebe erano insettivori, come i moderni formichieri; i fossili, tuttavia, non mostrano alcuna di quelle strutture anatomiche indispensabili per ricoprire questo ruolo ecologico (una lingua lunga, per esempio, e zampe molto robuste adatte a scavare) che invece poteva essere tipico di altri celurosauri, come gli alvarezsauridi. Barnum Brown, osservando che le ossa degli ornitomimidi sono state rinvenute spesso in zone costiere, propose che questi animali avessero uno stile di vita simile a quello degli attuali trampolieri, che si nutrono

Q Ricostruzione dell’aspetto in vita di Deinocheirus, il più grande tra gli ornitomimosauri. di piccoli crostacei. Essi avrebbero usato le mani per frugare nella sabbia in cerca di piccole prede. Brown non era al corrente della presenza di lamelle cornee nel becco, utili per trattenere in bocca piccoli invertebrati e piante acquatiche lasciando fuoriuscire l’acqua. Osborn suppose, invece, che Struthiomimus fosse erbivoro, capace di accedere con le

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di ornitomimosauri.

sue sottili e lunghissime braccia ai rami più alti di una pianta, afferrandoli per prendere e portare al becco teneri germogli e foglioline. Estendendo questa interpretazione, William King propose che gli ornitomimosauri avessero una dieta simile a quella degli struzzi, che fossero cioè onnivori, e si nutrissero di semi, bacche, foglie, piccoli rettili e mammiferi. Questa sembra l’ipotesi più attendibile: le dita delle mani appaiono adatte a diverse funzioni come raspare il terreno, frugare fra la vegetazione e afferrare rapidamente e con un colpo sicuro qualsiasi piccola preda in movimento. Il gigante tra gli ornitomimosauri è certamente Deinocheirus, conosciuto per lungo tempo solo attraverso i resti di due smisurati arti anteriori, lunghi dalla base dell’omero all’unghia 2 metri e quaranta. L’omero, l’ulna e il radio sono robusti, anche se piuttosto sottili; decisamente eccezionali per potenza e dimensione sono invece le ossa delle tre dita e in particolare gli artigli di cui sono armate: enormi e appuntiti. Nessun vertebrato, vivente o estinto, ne ha di

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Ornitomimosauri

■ Arti anteriori di Deinocheirus, a confronto con lo scheletro di un bradipo didattilo (Choloepus didactylus, nella foto). La somiglianza sembra indicare una convergenza morfologica dovuta all’adattamento a uno stesso ambiente. Gli arti anteriori molto allungati e la robusta clavicola del bradipo sono tipici di un animale arboricolo: Deinocheirus non poteva però condurre una vita sugli alberi, a causa della sua enorme mole.

uguali. Queste ossa che risalgono al Cretacico superiore, furono scoperte nel bacino di Nemegt (nel deserto di Gobi, in Mongolia) dalla spedizione polacca del 1964 e furono attribuite, 3 anni dopo, alla nuova specie Deinocheirus mirificus: “mani terribili e meravigliose”. Attualmente solo Therizinosaurus cheloniformis, di cui conosciamo poche ossa del braccio ma scheletri abbastanza completi di forme affini, può essere paragonato a Deinocheirus: pur avendo le ossa del braccio più corte e robuste di quelle di Deinocheirus, anche Therizinosaurus aveva tre dita munite di artigli possenti. Pur conoscendone solo le braccia, alcuni paleontologi supposero che il deinocheiro assomigliasse agli ornitomimosauri, i di-

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nosauri-struzzo. Altri pensarono che fosse più simile ai dromeosauridi, immaginando la fiera più spaventosa e micidiale di tutti i tempi, in cui la statura e la forza di un tirannosauro si sarebbero unite alla velocità e agli artigli di un Deinonychus. Il paleontologo polacco A.K. Rozhdestvensky, infine, suppose che si trattava di un dinosauro bizzarro e caratteristico che, come gli attuali bradipi, utilizzava gli unghioni e i lunghi arti per starsene pigramente sospeso agli alberi. Reinterpretato nell’aspetto grazie a nuovi scheletri scoperti nel 2013, secondo il paleontologo Thomas R. Holtz Jr. Deinocheirus assomigliava al frutto di un amore segreto tra un gallimimo e un dinosauro a becco d’anatra: era infatti come un galli-

mimo tarchiato e massiccio, con una sorta di vela sulla schiena dovuta all’allungamento delle spine neurali delle vertebre e con un muso stretto e alto, che terminava però in un ampio rostro. Nel suo addome sono stati trovati molti gastroliti ma anche tracce di scaglie di pesce. Forse era un onnivoro che prelevava dai corsi d’acqua e dalle paludi grandi quantità di teneri vegetali acquatici utilizzando le braccia, e poi li ingeriva lasciando al potente stomaco il compito di macinarli tramite i gastroliti. Oltre a Struthiomimus, Gallimimus e Deinocheirus, si conoscono altri generi, tutti provenienti dai continenti settentrionali, tra cui ricordiamo Archaeornithomimus, Sinornithomimus, Dromiceiomimus, Garudimimus, Anserimimus, Ornithomimus e Harpymimus. Orme rinvenute a Rio Martino (Latina) mostrano un dinosauro teropode lungo circa 3 metri, che si accucciò nel fango. Alcuni studiosi ritengono si tratti di un ornitomimosauro, ma è altrettanto probabile che sia un noasauro, cioè uno degli agili ceratosauri cretacici tipici dei continenti meridionali: d’altronde, anche le altre orme cretaciche di teropodi rinvenute in Italia, per esempio ad Altamura, in Puglia, o sull’Appennino abruzzese, sono tradizionalmente attribuite ai ceratosauri abelisauri.

Oviraptorosauri G

li oviraptorosauri, il cui nome significa “sauri ladri di uova”, furono chiamati così dai paleontologi che ne scoprirono i primi resti nel deserto del Gobi, nel lontano 1922. Le ossa apparivano fossilizzate sopra un nido contenente delle uova di forma allungata. Per molti anni si pensò che quelle uova appartenessero a Protoceratops, un dinosauro molto comune in quel giacimento, che poteva aver sorpreso e ucciso l’intruso mentre razziava il suo nido. Ecco il motivo del nome. Nel 1994 fu però trovato un esemplare di Citipati, un oviraptorosauro, anch’esso accovacciato su un nido con uova allungate. Tutto sembrava indicare che fosse morto in quella posizione in seguito a una tempesta di sabbia, apparentemente nel disperato tentativo di proteggere le uova e non di rubarle. La conferma arrivò dalla scoperta di un embrione eccezionalmente fossilizzato all’interno di una delle uova: così l’esemplare sul nido venne soprannominato “big mama” (cioè grande mamma). Altri ritrovamenti (come “big auntie”) seguirono quello di “big mama” e oggi nessun paleontologo mette più in dubbio che gli oviraptorosauri si prendessero cura delle uova amorevolmente. Nel nido di un

Q Sopra: confronto dimensionale tra l’uomo e Citipati, un oviraptorosauro di taglia media.

Q Sotto: ricostruzione dell’aspetto in vita di Citipati, con lunghe penne sotto le braccia e all’estremità della coda.

Citipati vennero trovati anche i resti di due neonati di Byronosaurus. Secondo i paleontologi le ipotesi che potrebbero spiegare la loro presenza sono due: si tratterebbe o di prede portate nel nido dai genitori Citipati per nutrire i loro piccoli, oppure di paras-

siti, imbucati dai genitori naturali nel nido di un altro dinosauro per sfruttarne le cure parentali a vantaggio proprio e della propria prole. Ciò non esclude che gli oviraptosauri integrassero la dieta anche con uova di altre specie. Essi avevano infatti un corpo da celurosauro carnivoro ma una curiosa testa rotonda, alta, con un becco sdentato da uccello e alcuni denti sul palato adatti a frantumare il cibo. Grazie al ritrovamento di gastroliti oggi si pensa che questi animali fossero prevalentemente vegetariani e forse usavano i denti del palato per aprire dei semi, ma potrebbero aver mangiato anche piccoli vertebrati, uova e invertebrati. Alcune specie avevano la testa sormontata da creste, altre ne erano del tutto prive. Alcune forme primitive conservano nei fossili tracce di piumaggio, più esteso sulle braccia e comprendente lunghe e vistose penne caudali, forse utili nel corteggiamento.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di oviraptorosauri.

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Deinonicosauri Q Misure a confronto fra l’uomo e le dimensioni di Deinonychus.

N

ell’immaginario collettivo il tirannosauro è il più terribile predatore di tutti i tempi. Forse sarebbe invece più corretto assegnare questo primato a un altro gruppo di dinosauri, ben rappresentati da quel celurosauro del Cretacico scoperto nell’agosto del 1964 sulle pendici spoglie di un colle del Montana. John Ostrom, della Yale University, curatore di fossili del Peabody Museum, e il suo assistente Grant Meyer, erano al loro terzo anno di scavo in questa zona ricca di fossili di animali vissuti nel Cretacico e fino ad allora sconosciuti. Nella luce radente del tramonto i due scienziati scorsero la sagoma di un grande artiglio che affiorava dalla roccia. Nei giorni successivi, gli scavi portarono alla luce, insieme ad alcuni denti chiaramente appartenenti a un carnivoro, un piede con quattro dita. Esse avevano una struttura del tutto inusuale: il primo dito, molto ridotto, era simile a uno sperone, e doveva svolgere una funzione di presa; il terzo e il quarto, di uguali dimensioni, lunghi e terminanti ad artiglio, dovevano avere invece una funzione deambulatoria, ma era la struttura del secondo dito, assolutamente unica e priva di riscontro in qualsiasi altro animale, che lasciò sconcertati i due paleontologi.

Questo dito terminava infatti con un artiglio grosso, incurvato a forma di falcetto e, a giudicare dalle superfici articolari, dotato di una straordinaria mobilità. Un legamento particolare permetteva all’animale di sottrarlo all’usura o al danneggiamento tenendolo sollevato in posizione verticale, quasi contro la zampa, sia nei periodi di riposo sia nella corsa. Da questa posizione verticale, l’artiglio poteva essere ruotato secondo un arco di 180 gradi per assestare un colpo, proprio come si manovra un falcetto. La sua funzione predatoria era evidente, e Ostrom assegnò a questa nuova specie il nome di Deinonychus (“terribile artiglio”). Negli anni successivi altre ossa appartenenti a tre individui diversi vennero alla luce, e l’aspetto di Deinonychus prese forma. I caratteri di questo dinosauro erano così peculiari da sollevare numerosi problemi di interpretazione e da indurre a considerare questa scoperta come una delle più straordinarie della paleontologia (o più propriamente della paleoerpetologia, quella branca della paleontologia che studia, in particolare, i fossili di rettili

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di deinonicosauri.

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e anfibi). Si trattava di un animale di stazza piccola, alto in media circa 1 metro e mezzo, lungo (dalla testa alla coda) fino a 4 metri circa e del peso approssimativo di 45-75 chili. Il cranio, dalla struttura leggera tipica di tutti i celurosauri, era provvisto di cavità e di archi, dove trovavano attacco i potenti muscoli del morso. Le orbite erano grandi e altrettanto sviluppato era lo spazio nella scatola cranica destinato ad accogliere il cervello. Oltre 70 denti robusti e uncinati (gli anteriori diritti, quelli laterali e posteriori rivolti all’indietro) armavano la bocca, in grado di serrarsi in una morsa potente. Il collo, snello e curvo, doveva avere una notevole mobilità, mentre la colonna vertebrale era costituita nella parte toracica e addominale da vertebre possenti, tenute insieme da forti legamenti: una struttura di sostegno rigida che permetteva all’animale, bipede obbligato, di correre con il corpo parallelo al terreno. Le braccia, sorprendentemente lunghe rispetto a quelle di molti altri teropodi e azionate da forti muscoli, terminavano con tre dita artigliate, dall’indubbia funzione predatoria. Solo due delle dita del piede dovevano avere funzione deambulatoria: il secondo dito era adibito esclusivamente alla predazione e all’arrampicata. Deinonychus, evidentemente, attaccava la preda con un balzo, usando i piedi per afferrarla saldamente, una tattica che richiedeva abilità di manovra molto particolari. La coda gli garantiva la capacità di mantenere l’equilibrio durante gli attacchi e nella corsa: collegata al resto della colonna vertebrale con un’articolazione mobile, era però inguainata in una sorta di fodero rigido formato in parte da tendini ossificati (che coprivano più vertebre), in parte dai processi spinosi delle vertebre stesse insolitamente lunghi, e in

parte dai muscoli. Questa struttura rigida e mobile alla base, mossa con destrezza, era uno straordinario contrappeso che permetteva all’animale di cambiare repentinamente direzione e di correre a lunghe falcate sulle gambe. Con il capo proteso in avanti, la spina dorsale diritta e parallela al terreno, le braccia allungate sotto il collo e il capo, Deinonychus in corsa era in grado probabilmente di raggiungere buone velocità, pur restando molto più lento dei dinosauri struzzo. Abbattendosi fulminei sulla vittima a cui avevano teso un agguato e colpendola forte con gli artigli a “falcetto” per bloccarla a terra, questi veloci carnivori, riuniti in gruppi di più individui, potevano avere ragione anche di un erbivoro molto più grande di loro, un sauropode o un ornitopode rimasto isolato dal resto del branco. Deinonychus doveva però il suo successo anche al cervello, oltre che agli artigli: era infatti un predatore intelligente, dalla vista acuta, estremamente agile e molto attivo, sensibile a molti stimoli e capace di reazioni fulminee. Tutte caratteristiche insolite per un rettile. E fu proprio lo studio di questi caratteri assolutamente unici a suggerire a Ostrom l’idea che i dinosauri, o per lo meno quelli carnivori con andatura bipede obbligata, avessero un metabolismo elevato, tipico degli endotermi. Se dallo studio dell’anatomia di Deinonychus Ostrom non riuscì a trovare che prove indiziarie sull’endotermia dei dinosauri (egli mantenne sempre un atteggiamento più distaccato del suo allievo Robert Bakker), questo gli permise tuttavia di portare ulteriori prove a sostegno della relazione filogenetica fra celurosauri e uccelli: fra tutti i dinosauri Deinonychus è infatti quello che presenta più omologie con Archaeopteryx. Anche se Deinonychus è il genere più studiato, se ne conoscono altri: Velocirap-

Q L’unghia “a falcetto” del secondo dito del piede, lunga quasi 13 centimetri, veniva tenuta sollevata da terra in posizione di riposo e durante la corsa, così da evitarne l’usura. Essa poteva essere ruotata di 180 gradi dall’alto verso il basso, al momento di aggredire una preda e dilaniarla. tor, per esempio, scoperto nel 1924 da una spedizione polacca in Mongolia. Il fossile di uno di questi animali, che aveva trovato la morte in un combattimento con un protoceratopo, ci ha riconsegnato l’immagine di un predatore in lotta, avvinghiato con

le gambe alla testa del suo antagonista che gli stringeva l’avambraccio nel becco. Il nome accattivante di questo dinosauro, associato però alla taglia di Deinonychus, è entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo grazie al libro Jurassic Park di Michael Crichton e ancor più all’omonimo film di Steven Spielberg, del quale sono usciti poi anche numerosi seguiti, tutti di successo planetario. I resti fossili ci dicono che Velociraptor misurava meno di 2 metri di lunghezza, coda compresa, e il suo peso doveva essere di circa 15 kg. L’animale del film è lungo il doppio, quanto Deinonychus. Utahraptor, scoperto mentre il primo film era ancora in lavorazione, e Dakotaraptor, scoperto nel 2005 e studiato una decina di anni dopo, sono addirittura più grandi, avvicinandosi o superando i 6 metri di lunghezza e i 400 kg di peso. Grazie a resti rinvenuti in Cina alcuni anni fa, oggi sappiamo anche che questi dinosauri erano ricoperti da piume e penne, proprio come i loro discendenti, gli uccelli, e non da squame rettiliane come appaiono nei film.

Q Ricostruzione di Deinonychus antirrhopus durante l’attacco. Compiendo un balzo e bilanciandosi con la coda, questo predatore si lanciava sulla preda afferrandola con gli artigli dei piedi, dilaniando la vittima con gli artigli delle mani e con ripetuti morsi.

IL CRETACICO: L’APOGEO E LA GRANDE ESTINZIONE

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Titanosauri I

resti fossili attribuiti al gruppo dei titanosauri sono stati per lungo tempo molto rari. Diffusi in ogni continente, erano particolarmente abbondanti nelle terre gondwaniane, dove i sauropodi non subivano la competizione con gli adrosauroidi e con i ceratopsidi, dotati di apparati masticatori molto efficienti, che li mettevano in grado di occupare un maggior numero di nicchie trofiche. A partire dagli anni Novanta sono numerosi i ritrovamenti di titanosauri. I più noti e completi provengono dalla Patagonia, e alcuni sono di dimensioni gigantesche. I titanosauri più arcaici avevano una testa

grande, con un muso corto e robusti denti a cucchiaio. Dovevano quindi essere simili ai camarasauri giurassici; altri, comparsi in tempi più recenti, avevano un cranio allungato più simile a quello dei diplodocoidi, quasi “da cavallo”, e munito di denti a piolo. Le ossa erano massicce, i fianchi estremamente larghi, il cinto pettorale e il bacino ampi, il ventre pesante e le quattro zampe simili a pilastri spesso prive di unghie e di dita libere. Alcuni, come Saltasaurus, ave-

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di titanosauri.

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e la ricostruzione di un titanosauride di medie dimensioni: si tratta di Titanosaurus australis, che era lungo fino a 12 metri. I suoi resti furono ritrovati a Cinco Saltos (Brasile), a Neuquen (Argentina) e in Uruguay.

vano la pelle del dorso dura, rivestita da tubercoli che delimitavano piastre ossee e spine, ed erano generalmente di taglia modesta (8-12 metri di lunghezza). Altri, come per esempio Puertasaurus, Argentinosaurus, Patagotitan, Paralititan, Futalognkosaurus e Dreadnoughtus, per citare i più famosi, furono tra i più grandi e pesanti animali mai esistiti sulla terraferma. Nonostante di molti di essi siano stati ritrovati solo resti incompleti, e che alcune delle stime fatte all’annuncio della scoperta si siano rivelate esagerate, alla luce di studi più dettagliati è ragionevole immaginarli come animali lunghi intorno ai 30 metri, con un peso che poteva superare le 70 tonnellate.

Q Ricostruzione di un titanosauride del genere Saltasaurus, che possedeva un rivestimento corazzato formato da piastre ossee rotondeggianti intercalate a piccoli noduli ossei fittamente serrati fra loro. La ricostruzione è resa possibile dalle scoperte nella Lecho Formation (provincia di Salta, nell’Argentina nord-occidentale, che ha dato il nome al genere).

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Sappiamo inoltre con certezza (per la maggior parte degli altri dinosauri possiamo solo supporlo) che deponevano le uova: ne sono state infatti trovate un numero considerevole associate ai resti di Hypselosaurus priscus, rinvenuti in Francia e Spagna, o in grandi colonie di nidificazione ad Auca Mahuevo, un sito fossilifero nel cuore della Patagonia. Anche l’Italia ha i suoi titanosauri. Descritto nel 2016 da un gruppo di paleontologi coordinato da Cristiano Dal Sasso, del Museo di Storia Naturale di Milano, “Tito” (questo è il nomignolo che gli è stato assegnato) è stato ritrovato da Antonio Bangrazi mentre costruiva un muretto a secco con alcuni massi recuperati da una parete rocciosa sita tra i Comuni di Cave e Rocca di Cave, sui Monti Prenestini, a meno di 50 chilometri da Roma. Rappresenta il primo sauropode italiano conosciuto attraverso resti scheletrici. Le ossa rinvenute purtroppo non sono molte: si tratta di una vertebra della coda e di due frammenti del bacino. Benché insufficienti per permettere ai paleontologi di coniare una nuova specie (ecco perché è stato utilizzato un soprannome), esse si

Non è chiaro se Tito fosse effettivamente un adulto di piccola taglia o un individuo giovane, ancora in crescita, ma le impronte coeve rinvenute a Sezze, riferibili a titanosauri lunghi più di 10 metri, rendono più verosimile la seconda interpretazione. Osservando la vertebra ritrovata e il modo in cui poteva articolarsi con le altre, i paleontologi ne hanno dedotto che la coda di Tito doveva compiere agevolmente movimenti dall’alto verso il basso, permettendo all’animale di usarla anche come puntello nel caso in cui si

■ Ricostruzione del sauropode italiano conosciuto con il soprannome di “Tito”.

■ Sezione del guscio d’uovo fossile di un Hypselosaurus: si tratta di uova allungate che misurano fino a 30 centimetri e hanno una capacità di poco più di 3 litri. Il guscio mostra una superficie accidentata e irregolare; è verosimile tuttavia che la fratturazione in piccoli pezzi sia dovuta alla pressione subita durante la fossilizzazione.

sono comunque rivelate sufficientemente ricche di informazioni da permettere di attribuire Tito ai sauropodi titanosauri, il gruppo a cui appartengono i più grandi dinosauri mai vissuti. Tuttavia, l’esemplare italiano ha dimensioni molto più ridotte di quelle dei suoi parenti: si stima fosse lungo “solo” 6 metri e pesante 600 chilogrammi.

fosse sollevato in piedi sulle sole gambe. Insieme a impronte fossili lasciate da forme affini, rinvenute negli scorsi anni sia nel Lazio sia in Puglia, Tito conferma che l’Italia nel Cretacico fu abitata per lungo tempo dai dinosauri; era probabilmente un crocevia di rotte migratorie da sud a nord e viceversa.

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Anchilosauri

V

issuti tra la fine del Giurassico e il Cretacico, questi dinosauri sono caratterizzati da una robusta corazza che ricopre gran parte del loro corpo. Il termine anchilosauri (Ankylosaurus = “lucertola unita insieme”), da cui prendono il nome sia il gruppo sia il sottogruppo degli anchilosauridi, deriva dal fatto che questi animali avevano placche ossee esterne saldate fra loro: un vero e proprio scudo protettivo; il nome dei nodosauridi, l’altro sottogruppo principale, invece si rifà all’aspetto bitorzoluto (Nodosaurus = “lucertola a nodi”). Inizialmente è stato difficile ricostruire l’aspetto di questi ornitischi quadrupedi: i fossili rinvenuti non erano mai sufficientemente conservati da fornire informazioni anatomiche precise. In molte formazioni geologiche, le ossa fossili di anchilosauri sono spesso molto abbondanti ma, pro-

Q Confronto dimensionale fra l’uomo, Sauropelta (sinistra), Struthiosaurus (centro) e Ankylosaurus (destra). venendo da diverse carcasse frantumate, costituiscono un vero puzzle per i paleontologi che devono ricostruire gli scheletri. Un esempio è dato da Polacanthoides-Hylaeosaurus. Il primo nodosauro scoperto, che prese il nome di Hylaeosaurus, fu trovato nel 1833 nell’Inghilterra meridionale. Il reperto fossile, che oggi si trova al British Museum of Natural History di Londra, era costituito solo dalla parte anteriore del corpo, tuttora racchiusa in un blocco di roccia. Pochi anni dopo, sempre in Inghilterra, furono rinvenuti la parte posteriore, la coda e le gambe di un dinosauro cui fu dato il nome di Polacanthus: i resti, scoperti dal reverendo William Fox sulla costa

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di anchilosauri.

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dell’isola di Wight, facevano parte forse di uno scheletro semidistrutto dalla forza delle onde. Agli studiosi venne il dubbio che i due fossili appartenessero alla stessa specie di nodosauro ma, avendo a disposizione strutture ossee così diverse, non era possibile fare confronti. Ancora oggi, malgrado siano stati ritrovati nuovi e più numerosi fossili, non si è potuto stabilire se questi due reperti siano da attribuire a un unico genere o a generi distinti. La corazza, caratteristica fondamentale di nodosauridi e anchilosauridi, rivestiva tutto il dorso dell’animale ed era costituita da centinaia di placchette ossee disposte in lunghe file traversali unite fra loro a cerniera: assomigliava molto a quella degli armadilli. Sulla corazza erano presenti grosse spine ossee, spesso allineate, di chiara funzione difensiva. La testa dei nodosauridi, stretta e allungata, vagamente rassomigliante a quella di una pecora, era unita al corpo dal collo più snello di quello degli anchilosauridi. Al contrario, negli anchilosauridi il collo era corto e massiccio, il capo allargato e a forma triangolare. Tutti erano animali molto lenti: lo si capisce dalle zampe corte e massicce che sorreggono l’enorme peso. Anche i piedi, larghi e piatti, hanno una struttura quasi identica a quella dei piedi dello stegosauro. Un corpo tanto compatto e una copertura così robusta vanno messi in relazione con la necessità di difendersi dai predatori: questi animali furono una risposta evolutiva degli erbivori allo sviluppo dei grandi carnivori.

Nodosauridi e anchilosauridi possono essere considerati anzi come il massimo prodotto dell’evoluzione nel campo della difesa in presenza di numerosi predatori efficienti e terribili. Chiusi nelle loro corazze, essi erano in grado di resistere anche a colpi micidiali e potevano diventare a loro volta un grosso pericolo per i predatori. È possibile infatti che adottassero due strategie di difesa molto diverse: agli attacchi di predatori come i tirannosauri, i nodosauridi rispondevano appiattendosi al suolo o caricando i nemici con le lunghe spine delle spalle e del collo, massicce e rivolte in avanti. Un predatore che si fosse scagliato sull’animale avrebbe rischiato di ferirsi con le grosse spine del dorso: solo agendo in gruppo, i carnivori avevano qualche possibilità di vincere le resistenze di una simile preda, capovolgendola e sferrandole colpi mortali nel ventre, la sola regione del corpo non protetta. Gli anchilosauridi potevano invece difendersi adottando una strategia di contrattacco tramite la parte posteriore del corpo: l’estremità della coda, simile a una vera e propria mazza formata da due

■ Un pangolino è ricoperto di scaglie cornee disposte a embrice come le tegole di un tetto, che consentono all’animale la libertà di movimento e una costante difesa dall’attacco dei predatori. Una funzione analoga esercitava la corazza degli anchilosauridi e dei nodosauridi, sebbene la sua struttura fosse diversa.

■ Ricostruzione di Sauropelta, un nodosauro del Montana (USA), erbivoro, lungo oltre 7 metri e protetto da una corazza ossea armata di placche dalla testa alla coda.

grossi lobi ossei, poteva essere un’arma temibile. Questa particolarissima struttura, presente solo in questi animali, era fusa direttamente con le vertebre della coda che acquistavano così una grande rigidità. Non essendo poi la base della coda irrigidita, essi erano in grado di muoverla senza difficoltà: muscoli potenti e robustissimi legamenti permettevano movimenti laterali che si concludevano con colpi di mazza micidiali. Uno di questi animali poteva dunque difendersi, se attaccato da un tirannosauro, sferrandogli potenti “mazzate” sulle gambe, il punto più vulnerabile. Tra tutti i dinosauri erbivori l’unico che presenti una caratteristica anatomica difensiva altrettanto temibile è lo stegosauro, con il suo gruppo di aculei appuntiti al termine della coda. Un’altra particolarità esclusiva di questi dinosauri è la struttura delle vie nasali che formano canali relativamente complessi e avvolti a spirale, molto simili ai turbinati dei mammiferi attuali: si pensa che essa permettesse loro di filtrare, riscaldare e inumidire l’aria respirata. Si suppone dunque che sia gli anchilosauridi sia i nodosauridi vivessero in regioni desertiche o per lo meno in ambienti piuttosto aridi. Il rivestimento di placche ossee e di spine poteva anche servire, infatti, a impedire al loro corpo un’eccessiva traspi-

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Anchilosauri ■ Ricostruzione frontale e di profilo della testa di un di un anchilosauride. È evidente come anche sul muso la corazza armata sia costituita da placche ossee e protuberanze appuntite.

razione. Una prova indiretta della validità di quest’ipotesi è data anche dalla forma dei denti che appaiono piuttosto deboli e frastagliati, adatti a staccare e masticare soltanto foglie o frutti ricchi di succhi acquosi, caratteristici delle piante tipiche di regioni aride. Ritrovamenti di anchilosauridi si sono verificati solo nel Nord America e nell’Asia orientale. Si conoscono numerosi generi: il più piccolo, Pinacosaurus, raggiungeva

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i 5 metri e mezzo, mentre Ankylosaurus, Euoplocephalus, Saichania e Tarchia superavano i 6 metri di lunghezza, arrivando a pesare quasi 3 tonnellate. Resti di reperti asiatici fanno supporre che, come i ceratopsidi, anche questi animali evolutisi in Asia siano poi migrati in America attraverso lo stretto di Bering. Fra i nodosauridi più importanti ricordiamo Nodosaurus, privo delle grosse spine sul dorso, Struthiosaurus, lungo quasi 2 me-

tri, Edmontonia e Sauropelta, lunghi circa 7 metri e pesanti fino a 3 tonnellate, e Hungarosaurus, lungo più di 4 metri, il più completo tra quelli rinvenuti in Europa. Potrebbero essere state forme simili all’ungarosauro a lasciare le proprie impronte anche in Italia: per esempio in siti pugliesi come quello di Altamura.

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di Ankylosaurus, il gigante del gruppo.

Protoceratopsidi N

el 1922 la spedizione scientifica in Mongolia, organizzata da R. C. Andrews per conto dell’American Museum of Natural History di New York, ritrovò un cranio lungo poco più di 40 centimetri, appartenente molto probabilmente a un dinosauro. Questa scoperta, avvenuta nella depressione di Shabarakh Usu, nel deserto del Gobi, era destinata a divenire importantissima: questo era infatti il primo reperto fossile attribuibile a un antenato dei dinosauri cornuti. Il fossile trovato dalla spedizione americana venne assegnato a una nuova specie, Protoceratops andrewsi. Ricerche compiute negli anni successivi condussero al ritrovamento di altri 75 crani e di 12 scheletri completi appartenenti a individui di tutte le età. La scoperta di un numero di scheletri così considerevole suggerì l’ipotesi che questi dinosauri fossero gregari e che conducessero una vita di gruppo. Inoltre, la ricca collezione di scheletri fossili permise di acquisire importanti conoscenze sulla biologia di questi animali. Peter Dodson, della Pennsylvania University, effettuò alcune misurazioni su 24 crani di Protoceratops: in base alla lunghezza delle ossa del naso, alle dimensioni del collare e a quelle

Q Dimensioni a confronto fra l’uomo e un Protoceratops: secondo alcuni studiosi questo dinosauro non superava i 180 centimetri di lunghezza, secondo altri poteva raggiungere i 2 metri e 70 centimetri. totali del cranio, egli ritenne di poter definire alcuni individui come maschi e altri come femmine, dimostrando l’esistenza di un dimorfismo sessuale. È possibile che queste differenze anatomiche fossero legate al comportamento sociale e sessuale dei Protoceratops: la maggiore dimen-

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di protoceratopsidi.

sione del collare nei maschi, per esempio, avrebbe potuto essere per le femmine un carattere che determinava la loro scelta. Questi dinosauri, che raggiungevano sicuramente il metro e ottanta di lunghezza ma (secondo quanto calcolato da alcuni studiosi in base alle dimensioni di resti in-

Q Scheletri di protoceratopi esposti all’American Museum of Natural History di New York. completi) potevano arrivare forse anche ai 2 metri e settanta, avevano infatti un cranio che misurava quasi un terzo del corpo. Gli squamosi e i parietali, ossa della parte posteriore del cranio, si allungavano oltre la nuca estendendosi e congiungendosi sopra il collo formando un collare osseo, altrimenti detto scudo nucale. Nei giovani, lo scudo nucale era appena abbozzato ma, con l’aumentare dell’età e della taglia, andava via via sviluppandosi. In un primo

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Protoceratopsidi tempo i ricercatori americani pensarono che questa voluminosa struttura ossea servisse come protezione. Studiando più nei dettagli le ossa del cranio si accorsero però che la sua ampiezza non era tanto un mezzo di difesa né una base di attacco per i possenti muscoli del collo e della bocca. Poiché lo scudo è alleggerito da due ampie finestre, i muscoli si attaccavano solo alla base del collare, che doveva quindi avere per lo più una funzione ornamentale. La bocca di Protoceratops doveva comunque serrarsi con una forza eccezionale. A differenza degli adrosauridi, che macina-

vano il cibo, Protoceratops tagliavano in piccole porzioni rametti particolarmente duri e foglie anche di grosse dimensioni. I denti erano organizzati in batterie: uno sull’altro, in file verticali, funzionavano al pari di quelli che successivamente ebbero anche i ceratopsidi, come le lame taglienti di un enorme paio di forbici. Anche il becco, simile a quello di un pappagallo, aveva una funzione strettamente legata all’alimentazione. Le piante dominanti all’inizio del Cretacico appartenevano infatti soprattutto a specie quali palme e cicadee, dai tessuti duri e fibrosi che solo denti forti e af-

filati, e bocche potenti riuscivano a tagliare. Oltre ai protoceratopi, molto comuni nell’Asia centrale di 95 milioni di anni fa, ricordiamo anche altri generi: Leptoceratops, Microceratops e Montanoceratops, Bagaceratops e Udanoceratops, che, sebbene di dimensioni molto diverse, presentano fra loro alcune affinità morfologiche. È interessante notare che gli psittacosauridi, forme bipedi già provviste di becco e ritenute affini agli antenati dei protoceratopsidi, avevano la coda ricoperta da setole filamentose probabilmente omologhe alle protopiume dei teropodi.

■ Ricostruzione di un Protoceratops andrewsi e del suo nido. La supposizione che gli adulti avessero particolari cure parentali nei riguardi delle uova prima, e dei piccoli poi, è solo ipotetica.

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Ceratopsidi N

el 1887, Georges L. Cannon trovò sulle rive del Green Mountain Creek (in prossimità di Denver, nel Colorado) un paio di corna fossili apparentemente simili a quelle di alcune specie di bovini viventi. I campioni furono spediti al paleontologo O.C. Marsh della Yale University, perché fossero autorevolmente riconosciuti. Marsh stabilì che le due corna dovevano appartenere a una specie fino ad allora sconosciuta di bisonte, e le attribuì a Bison alticornis. Nel maggio 1888, John B. Hatcher, collaboratore di Marsh, trovò nel Montana numerosi frammenti fossili, fra cui parte di un cranio

Q Schema dell’attacco e del percorso dei muscoli preposti al movimento della mandibola in un ceratopo. È probabile che i grandi scudi nucali di questi dinosauri si siano evoluti perché rendevano disponibile ai forti muscoli necessari al movimento della bocca una superficie d’attacco e supporto sempre più sviluppata. Dotati di apparati masticatori complessi e molto efficienti nel taglio, questi animali potevano esercitare così un morso sempre più efficace. I disegni a fianco riproducono la disposizione “in batterie” dei denti di Triceratops e il loro funzionamento “a cesoia”. Il fatto che i denti fossero disposti in file verticali consentiva l’immediata sostituzione di quelli usurati con denti di ricambio sottostanti. Lo smalto (in nero) che copriva una faccia del dente mascellare e l’altra in quello mandibolare, garantiva un taglio netto, “a cesoia”: forse questi erbivori riducevano in piccoli pezzi i rametti e le foglie, e ne ultimavano la frammentazione in uno stomaco muscolare.

Q Confronto dimensionale fra l’uomo e la ricostruzione di un Triceratops, il genere più grande del gruppo. con due corna sopra le orbite. Nel dicembre dello stesso anno questi resti furono assegnati a una nuova specie di dinosauri cui venne messo il nome di Ceratops montanus. Queste corna assomigliavano in modo evidente non solo a quelle di Bison alticornis ma anche a quelle presenti su un altro cranio (scoperto nel frattempo

nel Wyoming) che ne aveva tre e che, per questa caratteristica, era stato attribuito alla nuova specie di rettile battezzata Triceratops horridus. Bison alticornis perse così la sua identità tassonomica e i suoi reperti vennero annoverati nel genere Triceratops. Fra il 1922 e il 1925 vennero alla luce, durante una spedizione americana in Asia centrale, più di cento esemplari fossili di dinosauri molto simili ai triceratopi. Questo ritrovamento in Mongolia, che per l’abbondanza del materiale permise ai pa-

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di ceratopsidi.

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Ceratopsidi

■ Ricostruzione dell’aspetto di alcuni dei più rappresentativi generi del gruppo. Da sinistra: Monoclonius, Arrhinoceratops, Chasmosaurus, Styracosaurus, Ceratops e Pachyrhinosaurus. È evidente il diverso sviluppo delle corna e dello scudo nucale, che distingue i vari generi.

leontologi di formulare ipotesi abbastanza credibili sulla morfologia, sul comportamento e sulle condizioni biogeografiche ed ecologiche in cui erano vissuti questi animali, consentì di ricostruire la filogenesi dei ceratopsi: i protoceratopi trovati in Asia erano quasi certamente gli antenati dei ceratopsidi (o dinosauri cornuti), attraverso forme intermedie quali Turanoceratops e Zuniceratops. Quasi certamente i protoceratopi erano migrati nel Cretacico dalle steppe dell’Asia centrale, attraverso

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lo stretto di Bering, alle regioni occidentali del Nord America. Nel Cretacico superiore questa parte dell’America rimase isolata dalle regioni orientali da un lungo mare. Fu una barriera insormontabile per i ceratopsidi, animali esclusivamente terrestri, che conclusero qui la loro evoluzione: rispetto ai loro antenati asiatici aumentarono in dimensioni e acquistarono ornamenti sul cranio ancora più vistosi. Tutti i generi di dinosauri appartenenti a questo gruppo avevano un corpo massiccio, simile a quello dei rinoceronti attuali. Quadrupedi, con una coda piuttosto corta, presentavano gambe considerevolmente più lunghe delle braccia. Queste ultime, anch’esse massicce, avevano ampie creste ossee sulle quali si attaccavano muscoli così possenti, da lasciare impronte rugose

sia sulle scapole che sugli arti. I larghi piedi offrivano un sicuro appoggio al corpo muscoloso. L’evoluzione di strutture così robuste nella parte anteriore del corpo (anche il collo di questi dinosauri aveva modificazioni atte a sorreggere un gran peso) è legata alla necessità di sostenere una testa estremamente sviluppata. Il cranio, per molti

■ Nella pagina accanto: una coppia di Triceratops prorsus al pascolo in una foresta temperata del Montana (USA). Lunghi fino a 9 metri e pesanti più di 8 tonnellate, i rappresentanti di questo genere furono i ceratopsidi più grandi. Erano muniti di tre corna che danno loro il nome: due collocate sopra gli occhi, lunghe quasi 1 metro, e una più breve, sopra il naso. Lo scudo nucale, corto e compatto, aveva un margine “frangiato”, con numerose protuberanze ossee.

■ Un Tyrannosaurus e un Triceratops si fronteggiano preparandosi allo scontro. Oltre che per la difesa, le corna dei triceratopi erano probabilmente anche utili al riconoscimento intraspecifico e come elemento di attrazione durante la ricerca del partner. caratteri simile a quello dei protoceratopi, possedeva infatti un collare osseo, compatto o forato, ornato da più tubercoli e spine, che ricopriva a guisa di scudo la parte posteriore della testa, il collo e talvolta anche parte del dorso e che, di specie in specie, assumeva profili e ornamentazioni sempre diversi. Questo straordinario ornamento era associato a una testa molto grande e pesante: in Triceratops il capo era lungo fino a 2 metri e mezzo, quasi un terzo della lunghezza totale dell’animale. La funzione dello scudo, oltre che di protezione, era verosimilmente connessa con lo sviluppo dei muscoli preposti al movimento della bocca e, probabilmente, costituiva

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anche un’area importante per l’attacco dei muscoli di sostegno della testa. È anche probabile che lo scudo nucale fosse un carattere sessuale secondario con un compito di intimidazione dei rivali. Il muso poi era armato di corna sopraorbitali (che in Triceratops potevano superare la lunghezza di 1 metro) e nasali, che costituivano un eccellente mezzo di difesa. Il loro uso è testimoniato dal ritrovamento di esemplari cicatrizzati o spezzati. Mascella e mandibola terminavano anteriormente con un becco simile a quello dei pappagalli, mentre nella parte posteriore presentavano 30-35 colonne di denti disposti l’uno sull’altro nello stesso alveolo in modo da permettere, con la fuoriuscita di un dente nuovo, la rapida sostituzione di uno usurato: una dentatura da erbivoro estremamente specializzata. I denti, sottili e molto taglienti, scorrevano durante la masticazione l’uno accanto all’altro come lame

di una cesoia. Questa bocca dalla dentatura “a forbice”, simile a quella dei protoceratopsi, era mossa da muscoli lunghi fino a 1 metro, inseriti nello scudo nucale. Proprio a questo formidabile apparato masticatore i ceratopsidi hanno dovuto il loro successo evolutivo: potevano nutrirsi di cicadee e palme, piante dai tessuti duri e fibrosi molto comuni nel Cretacico superiore, di modo che non avevano molti competitori e, al tempo stesso, erano probabilmente in grado di adattarsi facilmente ad ambienti diversi senza problemi di nutrizione. Le prime tre vertebre cervicali erano fuse insieme creando una struttura compatta in grado di sostenere il peso della testa, e di prevenire forse la dislocazione del collo quando la testa veniva mossa violentemente. Anche le due principali ossa della cintura scapolare, ampie e ancorate insieme, offrivano un potente attacco ai muscoli delle spalle.

Ceratopsidi Questi dinosauri, presumibilmente, non erano molto veloci e la stabilità offerta dalle zampe era fondamentale per difendersi dai predatori, rappresentati soprattutto dai tirannosauri. È probabile infatti che i ceratopsidi fossero animali gregari e si può supporre che adottassero per la difesa del branco una strategia simile a quella che hanno oggi i buoi muschiati: i maschi formavano un cerchio intorno alle femmine e ai giovani, difendendoli con i solidi scudi nucali e, me-

zione, come sarebbe più corretto, non la lunghezza dell’intero collare ma la disposizione e lo sviluppo delle singole ossa che lo compongono. Triceratops, animali molto conosciuti grazie alle ricerche condotte nel Wyoming da Hatcher che portarono alla scoperta di 32 crani fossili, avevano un collare di solito non fenestrato e con una fila di protuberanze ossee triangolari marginali. Sul muso avevano tre corni: due frontali molto sviluppati e uno nasale che tendeva a essere

Gli arti anteriori, flessi e allargati, permettevano rapidi cambiamenti di direzione; quelli posteriori, a disposizione colonnare, imprimevano movimenti potenti a tutta la massa del corpo. Alcuni Triceratops raggiungevano dimensioni enormi: Triceratops horridus, per esempio, poteva misurare fino a 9 metri di lunghezza e pesare fino a 8 tonnellate e mezzo. Nei ceratopsidi a scudo lungo il muso è più affusolato e, spesso, le corna sopraorbitali sono più lunghe di quelle nasali. Ricor-

più corto. Probabilmente erano in grado di ruotare il cranio di 90 gradi rispetto all’asse longitudinale: questo movimento permetteva loro di procurarsi il cibo smuovendo il terreno con il becco o con le corna. La struttura dello scheletro dimostra infatti che questi animali tenevano il muso inclinato verso terra, puntando le corna in avanti. I movimenti rotatori del capo, resi necessari anche dalla posizione molto laterale degli occhi (che permetteva probabilmente solo una visione frontale insufficiente) erano forse indispensabili anche negli scontri.

diamo i generi vissuti tutti nell’America del Nord durante il tardo Cretacico: Anchiceratops, Arrhinoceratops, Chasmosaurus, Eotriceratops, Kosmoceratops, Pentaceratops, Regaliceratops, Titanoceratops, Torosaurus e Triceratops. Fra i ceratopsidi a scudo corto ritrovati nell’Alberta (in Canada) e negli Stati Uniti sono invece da ricordare Centrosaurus, Diabloceratops, Einiosaurus, Medusaceratops, Nasutoceratops, Pachyrhinosaurus, Styracosaurus e Xenoceratops. È Sinoceratops, al momento, l’unico genere rinvenuto in Asia.

Q Postura, confronto dimensionale e andatura in Chasmosaurus (sopra) e in Torosaurus (sotto): appare evidente come, pur all’interno dello stesso gruppo, esistevano forti differenze strutturali. Robert Bakker contesta questa ricostruzione di Chasmosaurus presentata in molti musei e nella quale la postura delle zampe anteriori è semieretta: egli sostiene infatti che le impronte fossili di questi animali indicano che essi erano perfettamente eretti sulle zampe come tutti i dinosauri.

glio ancora, con le lunghe corna appuntite. Fin dai primi ritrovamenti sono state identificate nell’ambito di questo gruppo due linee evolutive basate sulle dimensioni del collare: si differenziano così i ceratopsi a scudo lungo e quelli a scudo corto. In realtà questa distinzione, anche se utile per lo studio di questi animali e tuttora in uso, è piuttosto inadeguata. Triceratops, per esempio, sono talvolta considerati erroneamente dinosauri a scudo corto, mentre andrebbero classificati tra le forme con lo scudo lungo se si prendesse in considera-

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Pachicefalosauri L’

appartenenza di questo gruppo ai marginocefali, assieme ai ceratopsi, è indicata dalla presenza di una mensola ossea nella parte posteriore del cranio. Come altri ornitischi avevano anche un osso predentale nella punta della mandibola, dei tendini ossificati nella colonna vertebrale e molte altre caratteristiche scheletriche. Tuttavia, la ricostruzione e l’interpretazione dei reperti esistenti di pachicefalosauridi costituirono per la loro incompletezza un problema quasi insolubile per molti anni. Solo nel 1940, grazie al ritrovamento di uno scheletro classificato come Pachycephalosaurus, fu possibile tracciare un quadro più completo dell’anatomia e dell’etologia di questi animali. La caratteristica anatomica più evidente che li contraddistingue è la forma del cranio: esso ha una volta cranica a forma di cupola, in tessuto osseo, che in alcuni generi di piccola taglia, come Stegoceras, raggiungeva anche i 5 centimetri di spessore. A completare questa inconsueta struttura possono essere presenti ai lati della testa o sul muso numerosi tubercoli ossei. Poiché questo ispessimento forma una specie di elmo protettivo, Edwin H. Colbert propose, nel 1955, l’ipotesi che

Q Dimensioni a confronto fra l’uomo e il più grande pachicefalosauride, Pachycephalosaurus, lungo poco più di 4 metri e mezzo. Le dimensioni e i pesi medi di questi dinosauri si aggiravano invece intorno ai 2 metri e mezzo e ai 55 chilogrammi.

esso servisse per combattimenti testa a testa. Negli anni successivi quest’idea venne sviluppata supponendo che questi dinosauri vivessero in piccoli branchi come i mufloni, i bighorn e le attuali pecore selvatiche, e che i maschi nella stagione degli amori si impegnassero in combattimenti testa a testa per le femmine e la supremazia sul branco. Si può supporre infatti che l’ispessimento del cranio potesse essere un carattere sessuale secondario, come lo sviluppo e l’ispessimento delle corna dei caprini. È anche possibile che il maschio

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di pachicefalosauri.

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con il cranio più vistoso, magari arricchito alla base da molti tubercoli, avesse una posizione dominante nel branco. Probabilmente, come succede nelle gerarchie attuali, era sufficiente l’esibizione di questo carattere perché gli individui più deboli riconoscessero la sua dominanza senza arrivare allo scontro. Se però un maschio non accettava questa supremazia, iniziava la lotta. Analizzando la particolare anatomia dell’intero apparato scheletrico di questi animali, si può supporre che nei combattimenti si mettessero uno di fronte all’altro con la testa protesa in avanti allineata con la colonna vertebrale e la coda: le vertebre erano saldamente unite le une alle altre così da formare una struttura rigida su cui potevano scaricarsi le forze dell’impatto. Anche la coda, di notevole lunghezza e capace di controbilanciare il peso della testa, aveva legamenti ossificati che univano le vertebre così da formare con il resto del corpo un’unica struttura compatta. Il cranio, legato al collo da muscoli robusti e da legamenti che potevano attutire i colpi, proteggeva un cervello di piccole dimensioni, forse isolato e difeso grazie a particolari tessuti dalle violente sollecitazioni subite dalle ossa craniche durante lo scontro. Alcuni paleontologi ritengono, però, che le ossa del collo non fossero sufficientemente robuste e il cervello non fosse abbastanza protetto per uno scontro testa a testa. Secondo loro è più probabile che gli animali, anziché cozzare, si spingessero o puntassero ai fianchi del rivale. Studi sull’istologia delle cupole ossee sembrano

confermare l’ipotesi che fossero strutture ornamentali che si sviluppavano enormemente e in breve tempo al raggiungimento della maturità sessuale, modificando l’aspetto dell’animale. La presenza di numerosi traumi e di tessuto osseo in grado di guarire rapidamente avvalorerebbe un frequente utilizzo della testa per caricare. I pachicefalosauri erano dinosauri bipedi che, nelle specie più grandi, potevano raggiungere anche una lunghezza di 4,5 metri (coda compresa). Essi tenevano i cortissimi arti anteriori sollevati e correvano sulle forti gambe. I resti fossili provengono da località rocciose di collina e di montagna nordamericane o da deserti aridi asiatici. In caso di attacco da parte di un predatore gli adulti delle specie di taglia maggiore

(Gravitholus, Homalocephale, Pachycephalosaurus e Prenocephale) dovevano essere in grado di fronteggiare gli assalitori con un certo successo, caricando a testa bassa come arieti. La struttura dei denti indica senza dubbio il loro ruolo di erbivori specializzati: denti piatti e molto allargati, leggermente incurvati, dai bordi seghettati e taglienti, erano certo adatti a tagliare e masticare vegetali coriacei.

■ Il cranio fossile di uno Stegoceras mostra l’inspessimento della calotta cranica. Si vedono bene anche i denti appuntiti e fittamente serrati dal margine dentellato. Questi dinosauri avevano fino a 36 denti e si nutrivano forse di foglie, semi, frutta e insetti come i coleotteri. Secondo altri studiosi, invece, avrebbero brucato l’erba come le attuali pecore. Numerosi crani fossili, quasi indistruttibili a causa della loro particolare struttura, sono stati scoperti in pianure alluvionali dove si ritiene che siano stati trasportati dalle correnti d’acqua superficiali. Non è ancora stato scoperto invece alcuno scheletro completo: tra i pochi pachicefalosauridi di cui sono state rinvenute oltre al cranio anche molte parti dello scheletro c’è Homalocephale calathocercos, portato alla luce in Mongolia e descritto nel 1974. La ricostruzione qui sotto è pertanto frutto di ipotesi: un maschio adulto di Pachycephalosaurus è pronto a impegnarsi in un combattimento “testa a testa” con un rivale.

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Ipsilofodonti C

omparsi già verso la metà del Giurassico, questi dinosauri vissero senza mutare troppo nell’aspetto fino alla fine del Cretacico: essi compongono dunque uno dei gruppi più longevi anche se molti paleontologi pensano che in verità non rappresentino un gruppo naturale, bensì due o tre radiazioni adattative di piccoli ornitopodi che occuparono le medesime nicchie ecologiche in intervalli di tempo differenti, evolvendo dunque una struttura similare e non troppo diversa da quella dei primi ornitischi. Ornitopodi di piccola e media taglia (generalmente erano lunghi 1,70 metri circa e pesavano sui 70 chili, ma alcuni generi potevano superare i 4 metri), questi erbivori erano animali bipedi, snelli e leggeri, con piedi artigliati a 4 dita, gambe molto lunghe e sottili, braccia corte e mani a 5 dita. Tutti, inoltre, usavano la coda, particolarmente lunga, come un bilanciere durante la locomozione (era rigida e diritta nella parte terminale, dove le apofisi delle vertebre erano legate da tendini ossificati). Oltre al becco corneo tipico degli ornitopodi, gli ipsilofodontidi possedevano un ap-

■ Misure a confronto fra l’uomo e un ipsilofodontide. parato masticatore molto efficiente, che permetteva loro di strappare e macinare moltissimi tipi di vegetali, e di adattarsi così molto facilmente agli ambienti più disparati. Mentre due tasche guanciali ammassavano il cibo nella bocca, la mascella, grande e robusta, mostrava nella parte posteriore denti piatti e taglienti, serrati gli uni agli altri in modo da formare una vera e propria lama affilata. Alcuni denti erano presenti anche nella parte anteriore della mandibola. Grazie a questi particolari anatomici, gli ipsilofodontidi erano erbivori certamente molto efficienti e competitivi. Un tempo si pensava che la pelle del dorso, dei fianchi e della coda fosse coperta di placche ossee ma oggi sappiamo

che si trattava in realtà di piastre intercostali che servivano a irrigidire la gabbia toracica. La disposizione delle dita dei piedi, considerate in un primo momento opponibili come quelle degli uccelli, portò James Hulke ad asserire, alla fine dell’Ottocento, che questi dinosauri dovevano condurre una vita arboricola, essendo in grado di arrampicarsi agevolmente sugli alberi. In base a nuove e più recenti scoperte, oggi si ritiene invece che le dita fossero tenute parallele e che gli ipsilofodontidi conducessero una vita tipicamente terrestre, capaci di raggiungere elevatissime velocità nella corsa, paragonabili alle gazzelle attuali. Le gambe, lunghe e con il femore più corto della tibia, una struttura tipica da corridore, dovevano permettere loro di correre e di saltare, con il corpo in posizione orizzontale parallelo al terreno, la testa protesa in avanti e la coda diritta a equilibrare i movimenti. Le braccia servivano verosimilmente solo da punto di appoggio durante il pasto. Ritti sulle gambe, giravano, vigili, la breve testa eretta sul collo snello. Gli occhi, protetti da arcate robuste e relativamente sporgenti, dovevano essere molto mobili, come in alcuni generi di mammiferi artiodattili attuali. La loro estrema agilità doveva metterli in grado di sfuggire facilmente a qualsiasi predatore: erano forse fra i più veloci animali

■ Ricostruzione di un gruppo di ipsilofodonti in corsa. Usavano la coda, che era piuttosto lunga per bilanciarsi.

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allora esistenti, al pari degli ornitomimosauri e dei giovani tirannosauri. Il più importante ritrovamento di ipsilofodontidi si è verificato nell’isola di Wight (nell’Inghilterra meridionale): in un’area particolarmente ristretta, sono stati trovati 23 scheletri interi di Hypsilophodon foxii. Perché tanti animali della stessa specie abbiano trovato la morte insieme e si siano fossilizzati qui, rimane un mistero non chiarito: forse questi scheletri

Q Ricostruzione di Dryosaurus, un dinosauro bipede lungo dai 3 ai 4 metri circa, dotato di un becco corneo e di denti molariformi adatti a triturare il cibo. Attualmente molti paleontologi non lo considerano più un parente stretto dell’ipsilofodonte, e lo collocano invece nel gruppo dei driosauri, affini nell’aspetto e nello stile di vita.

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di ipsilofodonti.

appartengono a un piccolo branco di ipsilofodontidi sorpreso da un’inondazione e rimasto intrappolato nelle sabbie mobili o nel fango di uno specchio d’acqua. Sui loro corpi si sarebbe rapidamente depositato uno strato di fango che conservò perfettamente gli scheletri. Di questa famiglia si conoscono numerosi generi, fra i quali il più noto è Hypsilophodon, chiamato anche “dinosauro-gazzella” per l’agilità che lo doveva caratterizzare e che, come altri generi della famiglia, possedeva una sorta di becco osseo. Il genere più recente è Thescelosaurus della fine del Cretacico. Othnielia, molto piccolo, aveva, a differenza degli altri, denti smaltati su entrambi i lati. Vanno ricordati anche Dryosaurus e Dysalotosaurus.

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Iguanodontidi P

er una serie di circostanze, non ultima probabilmente quella che essi furono animali molto diffusi (che hanno lasciato, perciò, innumerevoli resti fossili), gli iguanodontidi sono stati più volte, nella storia recente dei dinosauri, protagonisti di avvenimenti clamorosi. Appartenevano infatti a un iguanodontide i primi fossili di dinosauro che aprirono la strada al riconoscimento di questo nuovo gruppo di rettili: erano i denti raccolti in una mattina di primavera del 1822 da Mary Ann Woodhouse ai margini di una polverosa strada del Sussex e poi studiati tenacemente, per anni, da suo marito, Gideon Mantell. Fu nel ventre di un Iguanodon, che Richard Owen celebrò la notte di capodanno del 1853, intrattenendo a cena ventuno illustri colleghi. Quella ricostruzione, che lo scienziato

che questo cimitero di dinosauri doveva essere molto grande e ricco di numerose altre testimonianze di vita. Per una serie di sfortunate coincidenze, purtroppo, gli scavi si estesero a una minima parte del giacimento, sospesi più volte a causa di difficoltà di vario genere: naturali (un terremoto determinò l’allagamento delle gallerie), giudiziarie (le contese fra lo stato belga e la società proprietaria della miniera) e storiche (lo scoppio della Prima e della Seconda guerra mondiale). I lavori di recupero furono ripresi solo successivamente per iniziativa dell’Università di

Q Struttura del cranio di un iguanodonte, dove è evidente il becco privo di denti con cui l’animale probabilmente strappava le fronde, e le batterie di denti molariformi strettamente pressati gli uni agli altri, utili a triturare finemente il cibo. Alcuni autori pensano che fosse dotato anche di una lunga lingua prensile.

inglese aveva realizzato insieme al pittore Waterhouse Hawkins nel Crystal Palace, era uno dei primi tentativi di ricostruire un dinosauro a grandezza naturale: purtroppo il modello di iguanodonte che ne risultò aveva ben poco dell’immagine reale di questi animali, essendo piuttosto una brutta copia di un rinoceronte ricoperta di squame. Erano ancora di Iguanodon gli scheletri che vennero alla luce, il primo aprile 1878, nella miniera di lignite di Bernissart: in perfetto stato di conservazione, estratti da un pozzo profondo 300 metri. Gli esami condotti sul posto indicarono

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Q Confronto dimensionale fra l’uomo e la ricostruzione di un Iguanodon. Liegi, che mise insieme i soldi necessari all’impresa. L’eccezionalità del giacimento di Bernissart sta nel fatto che in uno spazio ristretto, separati da rocce alluvionali, sono ammassati fossili di dinosauri, pesci, anfibi, testuggini, coccodrilli e piante. Sulle cause di una simile concentrazione sono state avanzate più ipotesi: scartata quella della catastrofe, oggi si tende a pensare che i corpi degli animali e i resti vegetali venissero accatastati qui dal vortice delle correnti, alla confluenza di due fiumi. Una volta sul fondo, essi venivano rapidamente ricoperti dai detriti alluvionali. Si può spiegare così l’ottimo stato di conservazione dei fossili e la loro relativa abbondanza in un notevole spessore di sedimenti. È probabile che nel Cretacico inferiore questa zona fosse una palude che andava rapidamente inaridendo. Gli iguanodonti, entrando nell’acqua, potevano capitare

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di iguanodontidi.

■ Ricostruzione di una coppia di iguanodonti al pascolo. Questi animali avevano un muso allungato, simile a quello del cavallo. In primo piano, sulla sinistra, il piccolo rettile Ardeosaurus. su un fondo fangoso e molle restando intrappolati e trovandovi la morte. Quest’ipotesi è stata avanzata basandosi sullo studio del comportamento di un branco di ippopotami del lago Rukwa, nell’Africa equatoriale. Qualunque sia stata l’origine di questo giacimento, è però molto probabile che gli iguanodontidi di Bernissart torneranno ancora a far notizia in un prossimo futuro. Animali prevalentemente quadrupedi, questi dinosauri avevano crani grandi ben proporzionati al resto del corpo, il muso allungato simile a quello del cavallo e terminante, come questo, con due larghe narici. La parte anteriore della bocca presentava

un becco corneo, che doveva essere molto efficace nel tagliare rami e foglie. I denti impiantati nella parte posteriore della bocca erano un centinaio e venivano sostituiti periodicamente: crestati e fittamente serrati gli uni agli altri, erano ottimi strumenti per triturare il cibo. Le mandibole molto più massicce rispetto a quelle di altri ornitopodi, erano mosse da muscoli potenti, mentre le tasche guanciali accumulavano il cibo prima che venisse gradualmente spinto verso i denti per essere macinato. Questa particolare anatomia della bocca consentiva agli iguanodontidi di ingerire una grande quantità di cibo, indispensabile per tenere in vita un animale di tanta mole. E proprio a queste strutture anatomiche, che li rendevano fortemente competitivi rispetto agli altri erbivori, gli iguanodontidi dovettero il loro successo evolutivo: essi furono infatti largamente predominanti e

diffusi nei pascoli del Cretacico inferiore. Sia la colonna vertebrale che le zampe avevano una struttura molto robusta: le braccia, più corte e a quattro dita, presentavano un pollice armato di un artiglio conico (un’efficace arma di difesa), mentre le gambe, molto più lunghe e possenti, terminavano a tre dita fornite di zoccoli. Le vertebre della coda erano tenute insieme da tendini ossificati e la coda era dunque un valido organo d’equilibrio. Gli iguanodontidi vivevano nelle zone che hanno dato origine alle rocce sedimentarie del Wealdiano, che a quel tempo erano coperte di foreste, interrotte da paludi e ricche di una fauna estremamente varia. Oltre che in Europa, quelle rocce si trovano oggi anche in Africa. Gadoufouà, nel deserto del Ténéré (in Niger), è una di queste: nel Cretacico inferiore, anch’essa era ricoperta di paludi e ricca di vita. Qui i

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Iguanodontidi dinosauri vivevano numerosi e i loro scheletri di pietra emergono oggi dalla sabbia. Gli iguanodontidi di questa regione, più piccoli ed evoluti di quelli europei, erano gli ouranosauri che presentavano, come elemento peculiare, le spine delle vertebre dorsali molto allungate e appiattite, quasi fossero lamine ossee. È probabile che questi iguanodontidi fossero dotati di una cresta dorsale, la cui funzione è ignota: poteva trattarsi sia di un organo deputato alla regolazione termica, sia di un carattere sessuale secondario tipico dei maschi e utile nelle contese territoriali o nelle competizioni sessuali. Gli iguanodontidi furono probabilmente i dinosauri erbivori più diffusi del Cretacico inferiore, lo testimoniano i loro innume-

■ Ricostruzione dell’aspetto in vita di Tethyshadros insularis, dinosauro italiano rinvenuto non lontano da Trieste, in rocce di circa 70 milioni di anni. Soprannominato “Antonio” ha uno scheletro completo e perfettamente articolato. Dal punto di vista evolutivo è una forma intermedia tra il più primitivo Iguanodon e gli adrosauri nordamericani. Rispetto agli altri membri della sua famiglia era relativamente piccolo. Forse a causa di un adattamento tipico degli animali insulari.

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■ I denti di Iguanodon, con le loro caratteristiche seghettature. revoli resti: scheletri e impronte sono stati ritrovati in tutti i continenti, zone polari incluse. Originatisi da animali affini ai camptosauri giurassici, solo nel Cretacico superiore furono rimpiazzati dagli adrosauridi, loro stretti parenti e, probabilmente, loro discendenti. Iguanodon era lungo fino a 9 metri, alto fino a 5 (in posizione eretta)

e pesava fino a 4 tonnellate. Se sorpresi in un luogo circoscritto dove la fuga era impossibile, potevano anche difendersi efficacemente con il pollice artigliato che, manovrato con forza, poteva certamente mettere in seria difficoltà persino un carnivoro di grandi dimensioni. La tassonomia ufficiale per anni ha raccolto tra gli iguano-

donti tutti quegli ornitopodi più derivati dei camptosauri e “non ancora” adrosauridi, come per esempio: Iguanodon, Jinzhousaurus, Mantellisaurus, Muttaburrasaurus, Ouranosaurus, Vectisaurus e Tenontosaurus. Al genere Iguanodon nel tempo sono state riferite numerosissime specie: quella sicuramente valida è Iguanodon bernissartensis mentre Iguanodon atherfieldensis è stato trasferito al genere Mantellisaurus. Su molte altre esistono dubbi: ci si chiede se esse comprendano individui effettivamente appartenenti a specie diverse o forme legate alla variabilità esistente all’interno di una stessa specie. Le differenze riscontrate potrebbero essere anche semplici diversità di statura o sessuali. C’è poi un genere che ha una storia “speciale”: Tethyshadros insularis è il secondo dinosauro scoperto nel nostro Paese (Villaggio del Pescatore, Trieste) in rocce di circa 70 milioni di anni. È stato descritto nel 2009 da Fabio Marco Dalla Vecchia, principalmente sulla base di uno scheletro straordinariamente completo e perfettamente articolato passato alla storia con il

■ Lo scheletro dell’iguanodonte Mantellisaurus, uno dei più completi al mondo, esposto al Natural History Museum di Londra. soprannome di “Antonio”. Un secondo scheletro, leggermente più grande del primo, è stato soprannominato “Bruno”. Dal punto di vista evolutivo Tethyshadros si colloca, all’interno del gruppo degli Iguanodontoidei, tra il più primitivo Iguanodon e i più evoluti “dinosauri dal becco d’anatra” di Asia e Nord America (Adrosauroidi). Possiede tuttavia alcune caratteristiche anatomiche insolite ed esclusive: per esempio il becco corneo porta anteriormente dei denticoli appuntiti e diretti in avanti; la mano ha soltanto tre dita anziché quattro; la coda ha una terminazione sottile, quasi a frusta. Con individui adulti lunghi sui 4 metri e della stazza di una mucca, Tethyshadros era inoltre assai più piccolo delle forme asiatiche e nordamericane: come nel caso del sauropodomorfo Europasaurus holgeri, ci troviamo di fronte a una forma di nanismo, un fenomeno evolutivo tipico della

segregazione in un territorio circoscritto. La ricostruzione della geografia dell’epoca indica che Tethyshadros viveva su un’isola grande più o meno come l’odierna Cuba, parte di una catena emergente nell’antico mare della Tetide, tra l’Africa e la massa continentale nordeuropea. Probabilmente fu proprio “saltando” da un’isola all’altra che gli antenati di Tethyshadros immigrarono dall’Asia nell’Arcipelago Europeo di allora. Le proporzioni delle varie parti del corpo e varie peculiarità scheletriche suggeriscono un adattamento di Tethyshadros alla corsa, con gambe poderose con il femore più corto della tibia e una forte muscolatura che collegava l’arto alla base della coda. La mano non poteva afferrare: fungeva da supporto nella postura quadrupede, appoggiandosi su dita foggiate a zoccolo: la sua gracilità di insieme suggerisce che il braccio poteva contribuire solo marginalmente alla locomozione a quattro zampe e più probabilmente serviva al bilanciamento nell’andatura bipede e alla stabilizzazione in posizione quadrupede durante il riposo.

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Adrosauroidi U

ltimi a evolversi fra gli ornitopodi, gli adrosauridi comparvero a metà Cretacico e sopravvissero per 30 milioni di anni, fino all’estinzione di massa che segnò la fine dell’Era Mesozoica. Erano animali molto particolari che si differenziavano tra di loro principalmente per la forma della testa talora ornata di creste ossee. Il primo scheletro di adrosauroide fu descritto nel 1858 da J. Leidy. A questo Hadrosaurus foulkii si aggiunsero, nel 1908, i resti mummificati scoperti dai fratelli Sternberg. Lunghi in media 8-9 metri e pesanti attorno alle 3 tonnellate, questi dinosauri comprendevano però anche forme gigantesche di 15 metri di lunghezza e 12-15 tonnellate di peso, come Shantungosaurus e Magnapaulia. Avevano la struttura classica dell’ornitopode, con colonna vertebrale rinforzata da legamenti ossei, coda con vertebre dai caratteristici processi spinosi piatti e allungati; gambe più lunghe e potenti delle braccia, altrettanto funzionali: erano animali bipedi facoltativi, in grado di spostarsi su quattro zampe frugando con il muso fra la bassa vegetazione in cerca di cibo e di correre, in caso di pericolo, utiliz-

Q Dimensioni a confronto fra l’uomo e le ricostruzioni di un Lambeosaurus (a sinistra) e un Edmondosaurus (a destra).

zando solo le potenti gambe. Il cranio allungato terminava con un becco simile a quello di un’anatra (da qui il nome confidenziale di “dinosauri a becco d’anatra”) e nel sottogruppo dei lambeosaurini era sormontato da una cresta ossea formata dall’espansione, più o meno complessa a seconda delle specie, delle ossa nasali che mostrano in sezione un complicato insieme di cavità. Come gli iguanodontidi ai quali sono legati filogeneticamente, questi animali avevano nella parte posteriore della bocca molte file di denti funzionali e di ricambio. Essi avevano però un apparato masticatore più evoluto di quello degli iguanodontidi: larghe batterie formate da dozzine di denti

Distribuzione nel mondo dei principali ritrovamenti di fossili di adrosauroidi.

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CAPITOLO 8

serrati fra loro e impilati l’uno sull’altro consentivano la rapida sostituzione di un dente guasto o danneggiato con quello sottostante, senza che mai rimanessero dei vuoti: nella bocca di un adrosauro adulto c’erano da 200 a 400 denti funzionali, e fino a 1.200 denti contando quelli di ricambio. Leggermente ricurvi, i denti superiori erano smaltati sul lato esterno e gli inferiori su quello interno così che le superfici smaltate venendo a contrasto, tagliavano come cesoie anche i tessuti vegetali più duri, come per esempio quelli degli equiseti, ricchi di silicio. Questi animali avevano anche tasche guanciali per immagazzinare nella bocca il cibo non ancora masticato. La presenza di una membrana interdigitale della mano, che l’avrebbe resa palmata, unita alla forma della coda adatta al nuoto, a quella del becco e alla dentatura, considerata a lungo specializzata per la masticazione di piante acquatiche, fecero supporre che questi dinosauri avessero non solo l’aspetto ma anche lo stile di vita delle anatre, e che vivessero in un ambiente acquitrinoso. Essi furono quindi rappresentati immersi nelle acque basse delle paludi e degli stagni, piegati a frugare con il becco nel fango alla ricerca di piante morbide e piccoli crostacei. Oggi sappiamo che essi potevano certamente masticare i vegetali più duri tipici delle piante terrestri. La presunta membrana interdigitale, poi, può essere spiegata come il risultato di una deformazione, avvenuta dopo la morte dell’animale o nel corso della fossilizza-

zione, di un’altra struttura anatomica: Robert Bakker ritiene che gli adrosauroidi avessero sotto le dita cuscinetti analoghi a quelli presenti nelle zampe dei dromedari che, rinsecchendo dopo la morte (come spesso succede appunto anche per questi animali), avrebbero formato una sorta di membrana interdigitale, come quella rinvenuta in alcuni esemplari mummificati di edmontosauro. Ma l’argomento più convincente a favore dell’ipotesi che gli adrosauridi conducessero una vita terrestre viene dall’analisi del contenuto gastrico di una mummia: aghi di pino, ramoscelli e semi di conifera costituirono il suo ultimo pasto. L’analisi dei fossili vegetali rinvenuti insieme ai

■ Ricostruzione di un gruppo di parasaurolofi, adrosauri caratterizzati da una lunga cresta cava sul cranio che forse serviva ad amplificare i loro versi.

■ Parte di una batteria di denti di Edmontosaurus, dinosauro “a becco d’anatra” del Cretacico superiore. La larghezza dei reperti è circa 4 centimetri. A destra, parte estema della batteria: se ne vede la natura composita, costituita da numerosi strati di denti sovrammessi. A sinistra: superficie superiore simile a quella di una lima, dove sono evidenti le creste affilate adatte alla triturazione del cibo.

resti di adrosauridi contribuisce a far supporre che questi animali vivessero in zone basse, dal clima tropicale caldo e umido, coperte di ampie foreste di conifere, pioppi, salici e querce. La coda era invece una zona di ancoraggio per i potenti muscoli delle gambe che permettevano loro di correre velocemente. Forse, oltre che alla fuga, ricorrevano al mimetismo,

assumendo i colori dell’ambiente: dall’analisi delle mummie sappiamo che la loro pelle anziché a squame come negli altri rettili era molto fine, ricoperta di tubercoli convessi e morfologicamente simile a quella degli odierni gila (Heloderma horridum e Heloderma suspectum), sauri velenosi che vivono nelle zone desertiche di Guatemala, Messico e Stati Uniti

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Adrosauroidi sud-occidentali, colorati vistosamente. Molti elementi suggeriscono che gli adrosauroidi avessero una struttura sociale complessa. La maggior parte dei paleontologi, per esempio, interpreta l’evoluzione delle creste ossee che ornavano il loro capo come un elemento legato proprio alla vita sociale: se rese evidenti da colori sgargianti potevano infatti servire da segnali ottici fra individui della stessa specie nelle cerimonie di corteggiamento, o permettere alla femmina di scegliere il partner, o a un maschio di risolvere una competizione con un rivale. La cresta poteva svolgere anche un ruolo decisivo nelle competizioni gerarchiche: più sviluppata era, più elevato era il rango del suo possessore. Il complesso sistema di cavità, infine, poteva essere usato come cassa di risonanza nell’emissione di richiami simili allo squillo di una tromba. Da ritrovamenti eccezionali di esemplari che conservano l’impronta della pelle sappiamo inoltre che alcune specie prive di cresta ossea, come l’edmontosauro, avevano in realtà una cresta carnosa simile a una piccola cupola. Lo sviluppo sociale di questi animali è testimoniato anche da siti di nidificazione scoperti nel Montana che indicano la presenza di cure

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■ Ricostruzione, da sinistra, di Saurolophus, Tsintaosaurus, Edmontosaurus Parasaurolophus, Corythosaurus. Nei generi si ha una notevole differenziazione delle creste frontali, formate dall’espansione delle ossa nasali. Secondo la maggior parte dei paleontologi, si trattava di organi di risonanza per l’emissione di suoni, ma si può avanzare anche l’ipotesi che, nel caso fossero rese evidenti da un particolare colore della pelle che le ricopriva, servissero come segnali del rango sociale o come attributi sessuali.

■ A sinistra: ricostruzione di una femmina Maiasaura adulta con tre piccoli, da poco usciti dal nido.

parentali prolungate, con i piccoli che rimanevano nel nido anche per diverse settimane dopo la nascita. Accanto ai numerosi generi americani (ne ricordiamo solo alcuni: Edmontosaurus, Maiasaura, Gryposaurus, Parasaurolophus, Corythosaurus, Lambeosaurus) sono noti quelli asiatici provenienti dalla Mongolia (Bactrosaurus, Mandschurosaurus), dalla Cina (Tsintaosaurus, Shantungosaurus, Charonosaurus), dal Giappone (Nipponosaurus). La distribuzione dei ritrovamenti indica che probabilmente gli adrosauroidi si sono evoluti nelle regioni settentrionali del nostro Pianeta, allora separate da quelle meridionali. La scoperta di animali molto simili tra loro in Nord America e in Asia, come Saurolophus o come i generi Charonosaurus e Parasaurolophus, è testimonianza del fatto che questi animali utilizzarono lo stretto di Bering per passare da un continente all’altro.

■ Il gila (Heloderma horridum), un rettile ancora vivente oggi, ha probabilmente una pelle molto simile a quella dei dinosauri “a becco d’anatra”: come questi

dinosauri, ha un rivestimento cutaneo molto fine, costituito, anziché da squame, da piccoli, rilevati e numerosi tubercoli convessi.

■ I resti fossili di uno scheletro di Parasaurolophus, così come sono stati ritrovati. La cresta di questo esemplare misura 1 metro, ed è la più lunga che sia stata mai rinvenuta.

IL CRETACICO: LÕAPOGEO E LA GRANDE ESTINZIONE

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9. La scomparsa

L’ESTINZIONE DI MASSA: UN MISTERO INSOLUBILE? All’improvviso, negli strati di rocce sedimentarie deposti intorno a 66 milioni di anni fa non si trova più uno scheletro di dinosauro, né l’impronta di un piede, o di pelle squamata, né uova, né nidi: nulla. Sono scomparsi tutti, completamente: gli adrosauridi dal becco d’anatra, i tirannosauridi dal morso invincibile, i ceratopsidi armati di corna, gli ornitomimosauri dai movimenti fulminei, tutti quegli erbivori e carnivori che avevano popolato le foreste, gli spazi aperti, le rive dei fiumi e le paludi. Non solo: anche molti altri animali e vegetali li hanno accompagnati, inghiottiti dallo stesso gorgo silenzioso e graduale di una grande estinzione. Manca il 75 per cento delle specie. Nel mare non ci sono più gli ittiosauri, i grandi rettili simili ai delfini, i plesiosauri dal corpo a botte e dal lungo collo, e i mosasauri dall’aspetto di grandi lucertole; sono sparite le ammoniti, i molluschi dalla conchiglia a spirale simili a Nautilus, così comuni nel Mesozoico; non si trovano più nemmeno i microscopici foraminiferi dallo scheletro calcareo sottile come un foglio di carta, abitanti delle acque poco profonde vicine ai continenti. Sulla terraferma mancano anche gli pterosauri, rettili volanti dalle gigantesche membrane alari, molti uccelli primitivi, alcuni gruppi di mammiferi e innumerevoli altre

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CAPITOLO 9

LA CHIAVE DEL MISTERO Louis Álvarez, fisico, e suo figlio Walter, geologo, vicino alle rocce della gola del Bottaccione, a Gubbio, dove scoprirono per la prima volta che il passaggio tra Cretacico e Paleogene è marcato da un’anomala concentrazione di iridio, probabilmente di origine extraterrestre.

specie di rettili. Anche le piante, seppure in misura minore, vengono travolte dal fenomeno di questa estinzione di massa: mentre nel Mesozoico metà dei vegetali erano per lo più termofili, essi si trovano ora, ridotti drasticamente a circa un terzo delle specie, solo in zone tropicali sempre più circoscritte, scomparendo definitivamente dalle regioni settentrionali. In un mondo ormai privo di giganti, rimangono i sopravvissuti alla catastrofe: alcuni piccoli mammiferi, alcuni uccelli e i piccoli anfibi, e fra i rettili solo alcune specie di coccodrilli, di serpenti, di sauri, di tartarughe e di testuggini. Sopravvivono anche gli insetti e molti altri invertebrati, e rimane la maggior parte delle piante tipiche dei climi temperati e freddi, mentre si diffondono le conifere più evolute. Nel mare, fra gli altri, sono rimasti alcuni pesci ossei e cartilaginei e i foraminiferi a scheletro siliceo tipici delle acque più profonde. In poco tempo qualcosa è improvvisamente e irrevocabilmente cambiato: un’inappellabile sentenza ha eliminato alcuni e risparmiato altri, selezionando il mondo della vita: sì agli animali di piccola taglia, ai protozoi a scheletro siliceo, alle creature dei mari profondi, alle piante resistenti al freddo; no alle creature di peso superiore ai 25 chili, a quelle delle acque poco profonde, no anche a saurischi e ornitischi, grandi e piccoli, erbivori o carnivori: a tutti i dinosauri, eccezion

fatta per quelli che oggi chiamiamo uccelli. La scomparsa di questi animali, così affascinanti per la molteplicità di forme e di ruoli che hanno assunto, per l’enormità delle dimensioni che hanno raggiunto, per la diffusione che hanno avuto su tutta la Terra nei 160 milioni di anni della loro esistenza, non poteva non destare un fascino particolare. Fin dalla loro entrata in scena sul palcoscenico della scienza, nel 1841, si cercò di trovare una spiegazione alla loro misteriosa scomparsa. Owen stesso propose la prima di una lunga serie di ipotesi: un aumento di ossigeno nell’atmosfera sarebbe stato, secondo lui, la causa della loro estinzione. Da allora, più di cento proposte diverse sono state avanzate, alcune fantastiche, altre più scientificamente corrette, poche però sufficien-

LE PIANTE I drastici cambiamenti ambientali coinvolsero i vegetali in misura minore. Scomparirono molte specie termofile (oggi ridotte a poche supertisti nelle zone tropicali) e furono favorite piante più adatte a climi rigidi, come le conifere di questo paesaggio.

temente convincenti da poter essere considerate definitive. Si è detto che i dinosauri erano anatomicamente e intellettualmente inadeguati; che erano in una fase di senescenza evolutiva; che i mammiferi avrebbero ridotto il loro tasso di natalità a zero nutrendosi delle loro uova; che le uova erano fragili e lo sviluppo dell’embrione non si completava fino alla schiusa; che venne a mancare il cibo; che i dinosauri furono sopraffatti da cambiamenti ambientali quali la formazione di montagne o il prosciugamento di paludi; che la loro estinzione era dovuta a radiazioni nocive prodotte dall’esplosione di una supernova; si è detto anche che tutto è accaduto per volere di Dio o che furono vittima di un attacco alieno.

LA SCOMPARSA

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Tutte queste ipotesi considerano la scomparsa dei dinosauri in modo riduttivo, senza inquadrarla nell’evoluzione della vita e senza studiarla come un aspetto particolare di quell’estinzione in massa che sconvolse il mondo della vita alla fine del Cretacico. Qualsiasi ipotesi valida per spiegare la scomparsa dei dinosauri, in-

TUTTO IN UNO STRATO DÕARGILLA

vece, dovrebbe poter spiegare anche quella di tutte le altre creature che si estinsero insieme a loro e, in termini ancor più generali, giustificare il fenomeno biologico dell’estinzione, evento costantemente presente nella storia della vita, risultato dell’evoluzione. È ormai certo che centinaia di estinzioni si sono susseguite negli ultimi 700 milioni di anni, e cinque di queste furono estinzioni di massa. La fine dell’Ordoviciano, la fine del Devoniano, la fine del Permiano, la fine del Triassico e quella del Cretacico sono caratterizzate da cambiamenti improvvisi nel corredo di fossili presenti nelle rocce. Sono proprio questi cambiamenti improvvisi che per i paleontologi suggellano la fine di un Periodo o di un’Era. Anche la scomparsa dei dinosauri segna dunque la fine di un’Era, il Mesozoico, e l’alba di una nuova, il Cenozoico. Ed è proprio nelle rocce di quel tempo che bisogna andare a cercare, per

Fino al 1977 le rocce che risalivano al periodo di confine fra Cretacico e Paleogene restarono silenti. Furono Louis Álvarez, premio Nobel per la Fisica, e suo figlio Walter, geologo, e i loro collaboratori Frank Asaro e Helen V. Michel, due chimici dell’Università di Berkeley, a scoprire un’anomalia nello straterello di argille marine spesso un centimetro, formatosi proprio fra il Cretacico e il Paleogene, che si trova nella gola del Bottaccione, vicino a Gubbio. Nel punto in cui i fossili dei foraminiferi tipici del Cretacico superiore (Globotruncana) spariscono improvvisamente lasciando il posto a quelli del Cenozoico (Globigerina), gli studiosi registrarono una brusca variazione nella costituzione della roccia che risultò contenere una anormale percentuale di iridio: in quello straterello era concentrato trenta volte più iridio che negli altri strati argillosi sopra e sotto il confine Cretacico/Paleogene. L’iridio è un metallo scarsamente presente nelle rocce terrestri, ma relativamente abbondante nelle meteoriti. Gli autori della scoperta, preoccupati di chiarire se si trattasse di un fenomeno di portata locale o planetaria, estesero la ricerca in altre parti del mondo, e i risultati confermarono le loro supposizioni. Negli strati della rupe marina di Stevns Klint, circa 50 chilometri a sud di Copenaghen, la concentrazione dell’iridio risultò addirittura 160 volte superiore a quella degli strati circostanti, e un’analoga anomalia venne riscontrata in Spagna e in Nuova Zelanda. Qualunque fosse stato l’evento che l’aveva determinata, esso doveva avere interessato il mondo intero e, secondo loro, doveva avere origini extraterrestri. Fu calcolato che 500 miliardi di tonnellate di polveri ad alto contenuto di iridio dovevano es-

CAPITOLO 9

scoprire possibili indizi di ciò che è successo. Ma esiste una testimonianza fossile che possa permetterci di chiarire il mistero di un’estinzione di massa?

LE PIETRE RACCONTANO Le rocce che risalgono al periodo di passaggio fra il Cretacico e il Paleogene mostrano anche un cambiamento nella presenza dei fossili di foraminiferi (protozoi marini con un guscio calcareo): alcuni generi spariscono del tutto lasciando il posto ad altri.

sersi depositate in breve tempo sulla superficie terrestre. Furono avanzate tre ipotesi diverse, in grado di spiegare questo dato: l’esplosione di una supernova, l’impatto con una cometa, lo scontro con una grossa meteorite. La prima ipotesi, che poneva la causa al di fuori del Sistema Solare, ebbe un successo effimero: negli strati Cretacico/Paleogene mancavano infatti quegli elementi chimici, come il plutonio-244 per esempio, che hanno origine in un’esplosione stellare. Cadde così anche l’ipotesi dell’impatto della Terra con una cometa, un corpo appartenente al Sistema Solare ma costituito in massima parte di ghiaccio. La relativa abbondanza degli elementi presenti nello strato di argilla era quella tipica di una meteorite, e se di una sola meteorite si era trattato, a giudicare dalla quantità di iridio diffusa su tutta la Terra, doveva aver avuto un diametro di 10 chilometri. La presenza, poi, di piccoli cristalli di quarzo solcati da righe sottili, interpretabili come conse-

guenze di un urto violento, fu un altro dato, non meno importante del contenuto di iridio, che venne preso come ulteriore conferma alla tesi dell’impatto. Su queste basi, gli Álvarez postularono nel 1979 la loro ipotesi: 66 milioni di anni fa una enorme meteorite cadde sulla Terra, disintegrandosi. Un’enorme nube di polveri, lanciata nella stratosfera dalla forza della collisione, avvolse la Terra. Lentamente, le polveri ricaddero su tutta la superficie del Pianeta, segnandone per sempre i sedimenti. Fu una catastrofe di tali proporzioni a innescare la serie di eventi climatici e ambientali, causa probabile dell’estinzione in massa di quel periodo. LA MORTE DALLO SPAZIO La ricostruzione del momento in cui un enorme asteroide di più di 10 chilometri di diametro attraversa l’atmosfera diventando, per l’attrito, una gigantesca palla infuocata diretta verso la Terra.

DAL CIELO, UNA PALLA DI FERRO INFUOCATA La scoperta degli Álvarez e colleghi, per la statura scientifica degli studiosi e gli argomenti che essi adducevano, non poteva cadere nel vuoto. Da quel momento, molti scienziati hanno studiato la roccia che segna il confine fra Creta-

LA SCOMPARSA

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L’INIZIO DELLA FINE Un gruppo di alamosauri osserva la caduta di piccoli frammenti di meteorite che precedono di alcuni istanti il corpo principale. Quando quest’ultimo si schiantò

sulla Terra, un’enorme nube di polveri avvolse ogni cosa e si scatenarono una serie di disastrosi eventi ambientali e climatici che segnarono per sempre il destino di molte specie.

cico e Paleogene, analizzandola con competenze diverse: dai vulcanologi agli studiosi della meteorologia di Marte (il pianeta del sistema solare più di tutti interessato da tempeste di polveri), dai chimici ai fisici nucleari. Nel 1985 furono così scoperte in quegli stessi strati ad alto contenuto di iridio, anche enormi quantità di fuliggine: erano particelle di grafite prodotte dalla combustione di sostanze organiche. Si stimò che 100 milioni di tonnellate di fuliggine dovevano essersi distribuite sulla superficie terrestre: un incendio di dimensioni enormi doveva aver bruciato circa il 4% del carbonio presente nella biomassa della Terra del Cretacico, come fossero arse tutte le foreste di un intero continente. Le simulazioni al calcolatore ricostruirono uno scenario di dimensioni apocalittiche: un’enorme meteorite, precipitando verso la Terra e resa incandescente dall’attrito con l’atmosfera, cadde nell’oceano in acque poco

IL CRATERE DELL’APOCALISSE Foto satellitari mostrano nella penisola dello Yucatan, in Messico, ciò che resta dei contorni di un enorme cratere da impatto, del diametro di circa 200 chilometri, generato dall’asteroide che colpì la Terra 66 milioni di anni fa.

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CAPITOLO 9

UNA CATASTROFE IN SCALA PLANETARIA Possibile sequenza degli eventi provocati dall’impatto con la Terra di una meteorite di grandi dimensioni. a. Onda d’urto: l’esplosione provoca un violento spostamento d’aria e la liberazione di un’enorme quantità di energia. b. Base surge: violentissimo “vento” che si propaga a velocità elevatissime a livello del terreno, provocando la distruzione immediata di tutto ciò che incontra. Questo fenomeno particolarissimo viene osservato durante eventi che liberano enormi quantità di energia, come per esempio le esplosioni atomiche o quelle vulcaniche. c. Polveri e d. Vapore: a causa della violenza dell’urto e delle elevatissime temperature raggiunte durante l’impatto che provoca la polverizzazione delle rocce e la vaporizzazione delle acque, ingenti quantità di polveri e vapore vengono immesse nell’atmosfera creando una densa cortina di nubi che può ridurre sensibilmente e per lungo tempo la quantità di luce solare che giunge alla superficie terrestre, determinando una forte diminuzione della temperatura planetaria. e. Terremoti: l’impatto provoca violente scosse telluriche. Propagandosi nelle rocce sottomarine, le onde sismiche generano potenti maremoti: si formano così le terrificanti e gigantesche ondate dello Tsunami f., in grado di attraversare a velocità

a

b

c

d

e

f

stupefacente interi oceani. Si è ipotizzato che una sequenza di eventi analoga a questa possa essere provocata da un’esplosione nucleare di enorme potenza: gli effetti climatici dovuti all’oscuramento della luce solare caratterizzerebbero il cosiddetto “inverno nucleare”.

profonde, disintegrandosi in un’enorme nube di polveri e provocando un’immensa colonna di vapore acqueo e onde di tsunami alte più di 100 metri. La radiazione di calore dell’urto si propagò rapidamente anche a grandi distanze, raggiungendo e sconvolgendo interi continenti con vortici di fuoco e uragani di calore. Gigantesche colonne convettive si innalzarono dalle zone incendiate, trasportando la fuliggine fino nell’alta atmosfera. Qui, insieme alle polveri di origine meteoritica e al vapore acqueo, trasportata dalle correnti in quota, essa si distribuì fino ad avvolgere tutta la Terra in un’enorme nube nera. È stato calcolato che una tale quantità di polveri e particelle in sospensione nell’atmosfera sarebbe in grado di assorbire fino al 90% della luce solare: la temperatura al suolo sarebbe dunque scesa rapidamente raggiungendo anche molti gradi sotto lo zero nell’entroterra, mentre la profonda alterazione delle aree cicloniche avrebbe determinato violente tempeste su tutto il Pianeta. Un panorama simile è stato descritto solo per il cosiddetto “inverno nucleare”. La vita sarebbe stata profondamente compromessa dalla catastrofe: la fotosintesi sarebbe stata bloccata e le catene alimentari alterate, mentre gas tossici prodotti dagli incendi avrebbero inquinato l’aria al punto da determinare la morte della maggior parte dei viventi. Seppure suggestiva e suffragata da dati scientifici, la catastrofe da collisione con una meteorite non spiega però la selettività dell’estinzione cretacica. Per integrare anche questo dato nella teoria meteoritica, gli scienziati R.G. Prinn e B. Fegley supposero che l’energia sviluppata dalla collisione avesse determinato la formazione di ossidi di azoto (gas tipici dello smog) in proporzioni tali da raggiungere, diffusi in meno di un anno nell’atmosfera, una percentuale (100 parti per milione) in grado di uccidere qualsiasi essere vivente che vi fosse esposto. Questi stessi

LA SCOMPARSA

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gas, reagendo con il vapore acqueo, avrebbero reso fortemente acida la pioggia che cadde per mesi. Sarebbe così cambiata anche l’acidità degli strati superficiali del mare, fino a una profondità di 75 metri: una delle conseguenze più immediate sarebbe stato così il dissolvimento degli scheletri calcarei dei microorganismi planctonici. Si sarebbero salvati, invece, gli abitanti delle acque più profonde e quelli a scheletro siliceo. Sulla terraferma, sarebbero sopravvissute solo le specie di piccola taglia, le uniche in grado di trovare un rifugio sotterraneo dove cadere in letargo, sottraendosi così all’esposizione diretta dei gas velenosi o limitandone al minimo l’assunzione. Fra le piante sarebbero state privilegiate quelle con semi duri e ben protetti. Un

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ROSSO DI SERA Un fosco paesaggio, arrossato dal tramonto, con marcati toni rossi per la presenza di nubi e polveri nelle parti basse dell’atmosfera. Per gli animali e le piante della fine del Cretacico i tramonti rossi che forse, per lunghissimi anni, caratterizzarono il panorama terrestre, non furono certo di buon auspicio.

periodo di piogge acide con il conseguente aumento di acidità del suolo avrebbe determinato la liberazione di metalli pesanti nelle rocce povere di carbonati. In effetti, le argille di confine Cretacico/Paleogene presentano una notevole variazione del rapporto stronzio-87/stronzio-86: un dato sperimentale che può essere considerato come una conferma del modello teorico proposto. L’ipotesi degli Álvarez è attualmente accettata dai più – almeno come una concausa dell’estinzione – anche a seguito della scoperta delle tracce di un enorme cratere da impatto (200 km di diametro, compatibili con un diametro del corpo celeste di oltre 10 km) nella penisola dello Yucatan (Messico). Nel 2019, uno studio pubblicato da Robert A. Depalma e col-

SELEZIONE IMPLACABILE Una rana greca, un raro esempio di anfibio in grado di superare i rigori dell’inverno sopravvivendo al congelamento grazie

all’alto tasso di glucosio sanguigno. È probabile che il clima abbia contribuito in maniera decisiva a selezionare le specie che superarono l’estinzione.

leghi, compiuto su fossili della Formazione Hell Creek, nel Montana, ha mostrato una impressionante istantanea del disastro meno di un’ora dopo l’impatto dell’asteroide, con ammassi di cadaveri di animali terrestri e acquatici, dai triceratopi ai pesci, mischiati tra loro dopo esser stati travolti dagli effetti provocati da un terremoto di magnitudo 11 della scala Richter. Una delle obiezioni che viene fatta alla teoria dell’impatto meteoritico è che la quantità di iridio presente nello strato di confine Cretacico/ Paleogene è troppo alta per derivare dalla collisione con un solo oggetto celeste che, oltretutto, non è assolutamente detto abbia la concentrazione di iridio ipotizzata. Per risolvere il problema si dovrebbe supporre

UN LUNGO INVERNO Una coltre di neve pesante copre i rami di una foresta di conifere. L’abbassamento della temperatura dovuto alla diminuzione di irraggiamento solare, a causa della presenza di grandi quantità di polveri e vapore nell’atmosfera derivate da un impatto meteorico, avrebbe avuto conseguenze climatiche analoghe a quelle di un “inverno nucleare”.

LA SCOMPARSA

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una successione di cinque impatti meteoritici nell’arco di un milione di anni: un evento questo altamente improbabile. Prendendo tuttavia in esame gli ultimi 250 milioni di anni, si nota che le estinzioni si susseguono con una periodicità relativamente regolare e che la frequenza del fenomeno è di circa 26 milioni di anni: è una frequenza analoga a quella che si osserva nella formazione dei crateri terrestri prodotti dalla caduta di meteoriti. I due fenomeni, allora, non potrebbero essere davvero collegati, e avere veramente una stessa origine?

NEMESIS: LA STELLA DELL’APOCALISSE Per dare una risposta a questa domanda dobbiamo allontanarci dalla Terra ed esplorare quella regione al limite estremo del Sistema Solare, distante 2 milioni di anni luce, che prende il nome di “nube di Oort” dallo scienziato olandese Jan H. Oort che ne ha ipotizzato l’esistenza. Qui si troverebbero i nuclei di potenziali comete: un ammasso di polveri e di blocchi di ghiaccio in cui un minimo cambiamento negli equilibri gravitazionali può determinare una modifica nell’orbita di uno di questi

L’IPOTESI NEMESIS I movimenti orbitali della sconosciuta compagna del nostro Sole determinerebbero variazioni di equilibri gravitazionali all’interno della nube di Oort: i nuclei delle comete precipiterebbero dunque verso il Sole con ricorrenze cicliche. Non si può escludere che se ciò fosse vero la Terra si troverebbe regolarmente ad attraversare un “campo” di comete: le probabilità che un impatto meteorico possa avvenire, dunque, aumenterebbero notevolmente.

Nemesis

Nube di Oort Terra Plutone

Sole

Sistema solare

10 000 UA 10.000 UA

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CAPITOLO CA APITOLO 9

150.000 UA

corpi, che inizia a muoversi su ellissi sempre più ravvicinate al Sole. Avvicinandosi alla nostra stella e colpita dal vento solare, la palla di neve sporca sublima in gas che si accendono nel tipico profilo di una cometa. Se la periodicità della caduta di oggetti extraterrestri sulla Terra è un dato reale, qualcosa sconvolge la nube di Oort ogni 26 milioni di anni determinando il distacco di più nuclei e l’invasione del nostro Sistema da parte di una pioggia di comete. Richard Muller e Marc Davis dell’Università di Berkeley sono convinti che la soluzione di questo mistero si possa trovare a 2,4 anni luce dalla Terra: sarebbe Nemesis, un’ignota stella nana rossa, una sconosciuta compagna del Sole dall’orbita molto ellittica, ad avvicinarsi al Sistema Solare ogni 26 milioni di anni. E ogni 26 milioni di anni, appunto, la sua massa provocherebbe un’alterazione negli equilibri gravitazionali della nube di Oort determinando l’irruzione nel Sistema Solare e la caduta verso il Sole di 2 miliardi di comete. Fra queste, circa una ventina potrebbe trovarsi nell’arco di un milione di anni in rotta di collisione con la Terra. Mentre gli astronomi cercano Nemesis, altre obiezioni vengono sollevate da chi studia la Terra. I vulcanologi non sono convinti infatti che l’anomalia di iridio sia necessariamente di origine extraterrestre. Si è scoperto infatti che i gas emessi durante una recente eruzione del vulcano Kilauea, nelle Hawaii, e provenienti verosimilmente dalle parti più profonde del mantello, contengono una quantità di iridio 10.000 volte più alta di quella delle lave eruttate in precedenza dallo stesso vulcano, e provenienti da zone del mantello più superficiali. L’anomala concentrazione di iridio registrata nelle rocce del confine Cretacico/Paleogene potrebbe dunqque essere causata semplicemente da un’intensa attività vulcanica protrattasi per lungo tempo. attiv geologi avrebbero anche le prove. È di quel I geo periodo per rio infatti la formazione dell’altopiano del

Deccan, in India, costituito da enormi colate di basalto che si estendono per 500.000 chilometri quadrati e hanno uno spessore di 2.000 metri! Le continue eruzioni avrebbero reso difficile la vita sul Pianeta per migliaia di anni, riversando nell’atmosfera tonnellate di polveri e di aerosol sulfureo in grado di riflettere la radiazione solare diretta verso la Terra e di produrre effetti quali il raffreddamento climatico e le piogge acide, simili a quelli descritti per l’impatto di un asteroide. Nella fase culminante delle eruzioni che gli studiosi mettono in relazione con la Grande Estinzione, sarebbe aumentata invece l’emissione di gas serra, con l’esito, opposto, di un aumento delle temperature su scala globale. L’estinzione di massa degli esseri viventi alla fine del Cretacico sarebbe dunque legata a questo fattore ambientale che, nello stesso tempo, sarebbe stato anche la causa di drastiche variazioni del livello marino. Secondo i vulcanologi è verosimile che il meccanismo che innesca un’estinzione faccia parte della dinamica terrestre e che la causa più probabile della Grande Estinzione cretacica vada cercata nel cuore della Terra piuttosto che negli spazi siderali.

NEL CUORE DELLA TERRA È possibile che i fenomeni vulcanici siano caratterizzati da una periodicità che li collega in qualche modo alle crisi biologiche? Kevin McCartney e David Loper, due geologi americani, hanno proposto nel 1989 un modello che attribuisce l’anomala composizione delle argille marine formatesi tra il Cretacico e il Paleogene all’attività endogena terrestre piuttosto che all’impatto con una meteorite o alla pioggia di comete. Essi prendono in esame lo strato del mantello terrestre che si trova a una profondità di 2.900 chilometri, a diretto contatto con il nucleo, in condizioni di temperatura più alta rispetto al mantello sovrastante. Proprio a causa del calore, la densità e la viscosità di questa parte del mantello sarebbero notevolmente ridotte

L’IPOTESI VULCANICA Una drammatica immagine di una famosa esplosione vulcanica: il S. Helens, che esplose nello Stato di Washington nel 1983, lanciò fino ai limiti della troposfera gas, composti volatili e nubi di polveri d’ogni dimensione che rimasero in sospensione nell’atmosfera del nostro Pianeta per anni.

rispetto a quelle delle rocce sovrastanti, così che immense “gocce” di mantello profondo tenderebbero a risalire verso la superficie, attraversando gli strati di roccia superiori meno caldi, più densi e viscosi. In modo semplice e immediato, Loper e McCartney visualizzarono la loro idea usando un recipiente in cui stratificarono sotto un alto spessore di sciroppo, uno molto più sottile di acqua nera, di gran lunga meno viscoso. Lentamente, molto lentamente, una dietro l’altra, bolle nere si staccarono dal fondo e risalirono piano verso l’alto.

LA SCOMPARSA

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Secondo questi studiosi, è probabile che nello stesso modo “gocce” di roccia meno densa e meno viscosa si stacchino dalle parti più profonde del mantello confinanti con il nucleo e salgano verso la crosta terrestre. Le prime si muoverebbero lentamente, le successive, se entrano nella scia di una “goccia” precedente, più velocemente. Avvicinandosi alla superficie la “goccia” si raffredderebbe: contraendosi, i gas presenti in soluzione verrebbero così liberati lentamente e, compressi dalla roccia, raggiungerebbero una pressione tale da provocare una violenta esplosione. Avrebbe così luogo un’eruzione vulcanica con l’emissione di lave, di polveri, ceneri e vapori e, soprattutto, di gas di origine profonda, ricchi di iridio. Si suppone che l’instabilità dello strato più profondo del mantello segua oscillazioni periodiche e che raggiunga il massimo di intensità ogni 30 milioni di anni. Attività vulcanica e crisi biologiche, dunque, potrebbero avere davvero evoluzioni parallele, secondo un ritmo scandito dal cuore della Terra. L’iridio e i cristalli striati di quarzo presenti nelle argille di confine Cretacico/Paleogene sarebbero, in questo caso, le tracce di intense eruzioni vulcaniche. Emesso allo stato gassoso sotto forma di esafluoruro, l’iridio si saLE RAGIONI DEI GEOLOGI Schema che esemplifica la formazione di un vulcano sopra un “punto caldo”. Dalle regioni esterne del nucleo del nostro Pianeta si staccherebbero con regolarità “gocce” di materiale meno denso e più caldo del mantello sovrastante (diapiri) che, muovendosi lentamente attraverso gli strati superiori, giungerebbero in superficie con cadenze più o meno regolari. Trovando sbocco attraverso precise zone del mantello rigido (corrispondenti

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CAPITOLO 9

probabilmente ai cosiddetti “punti caldi”) giungerebbero alla superficie con violente eruzioni vulcaniche. I materiali emessi, in quanto provenienti dagli strati più profondi del nostro Pianeta ricchi di iridio a differenza di quelli più superficiali, avrebbero dunque una costituzione ben diversa da quelli eruttati durante la normale attività vulcanica: si giustificherebbe così la relativa abbondanza di iridio riscontrata nei sedimenti studiati.

crosta terrestre bacino magmatico

mantello rigido

mantello plastico

diapiri

nucleo

rebbe diffuso nell’atmosfera depositandosi poi su tutta la Terra. Le modificazioni climatiche e la regressione dei mari conseguenti all’attività vulcanica più intensa nelle dorsali oceaniche sarebbero state direttamente responsabili di profonde alterazioni biologiche, causa prima delle estinzioni.

UNA QUESTIONE DI EQUILIBRIO Attualmente sono in molti a ritenere che l’estinzione di tante specie vegetali e animali, terrestri e marine, sia ascrivibile alla concomitanza di più fattori: un’intensa attività vulcanica e un’importante regressione marina avrebbero turbato profondamente il sottile equilibrio tra estinzione ed evoluzione in un mondo come quello del Cretacico già segnato da profondi cambiamenti climatici ed ecologici. La caduta dell’asteroide avrebbe assestato il “colpo di grazia” alla crisi in atto. I paleontologi insistono inoltre sul significato biologico dell’estinzione delle specie, implicita nel concetto di evoluzione. Se sono scomparsi interi gruppi di esseri viventi così diversi fra loro, animali e vegetali, terrestri e marini, devono aver concorso a provocare questo fenomeno diversi fattori ecologici e biologici. Bisogna considerare le specie esistenti alla fine del Cretacico in rapporto al loro ambiente per capire quali cambiamenti possono aver determinato, in quel periodo, una diminuzione così drastica della varietà della vita. Perché, in definitiva, la falce dell’estinzione determinò proprio questo: un mondo più monotono. Prima della crisi biologica, dunque, e per tutto il Mesozoico, la Terra era ricca di una straordinaria varietà di animali e di piante, una moltitudine di specie, la maggior parte delle quali si era adattata in modo profondo a una particolare e molto ristretta nicchia ecologica. Gli stessi dinosauri, per esempio, lungi dall’essere in una fase di senescenza evolutiva, conobbero proprio nel Cretacico la massima espres-

Ileret Lago Turkana

Okote Kbs

Basalto

Koobi Fora

Koobi Fora

LA CULLA DELL’UMANITÀ A sinistra: il Turkana, uno dei grandi laghi africani della fossa tettonica che separa il Corno d’Africa dal resto del continente. Sopra: un dettaglio della costa del lago nell’area di Koobi Fora, dove sono stati rinvenuti preziosi reperti fossili di ominidi, i nostri più vicini antenati, in una carta che evidenzia le diverse caratteristiche delle rocce. Qui, secondo le più recenti ipotesi fatte sull’evoluzione umana, i drastici cambiamenti ambientali legati allo sviluppo della fossa tettonica determinarono una drastica accelerazione nell’evoluzione della nostra specie. Vari “tentativi” di uomo si svilupparono e si estinsero rapidamente: le specie di Australopithecus e di Homo habilis si sovrapposero nel tempo, estinguendosi in un periodo relativamente breve, lasciando il campo a Homo erectus e a Homo sapiens. Secondo una delle più accreditate ipotesi, anche l’estinzione dei dinosauri potrebbe rientrare nella normale dinamica evolutiva delle specie: così come per le specie di ominidi, anche per quelle dei dinosauri la fine sarebbe stata determinata dai processi tettonici che, alla fine del Cretacico, avevano ormai sbriciolato l’antica Pangea, modificando radicalmente numerosi microclimi a cui questi animali si erano specificamente adattati.

LA SCOMPARSA

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I SUPERSTITI Un topolino rappresenta nell’aspetto e nelle dimensioni i superstiti dell’estinzione di massa che chiude il Cretacico. Superarono la grande barriera gli animali con un peso di non oltre 25 chilogrammi e dotati di notevole adattabilità. Per essere soddisfacente, un’ipotesi sulle cause di questa estinzione deve spiegare sia perché alcuni organismi sono scomparsi, sia perché altri sono sopravvissuti.

sione delle loro potenzialità, differenziandosi in un caleidoscopio di ruoli ecologici e in una straordinaria varietà di specie, ognuna adatta a un areale molto limitato. Quella del Cretacico era la situazione tipica di un ambiente stabile: qui la strategia migliore per la sopravvivenza è quella di diversificarsi in innumerevoli specie, ognuna delle quali profondamente adattata a una particolare nicchia ecologica. Tipica di queste specie è una bassa variabilità genetica che garantisce di conservare invariate le caratteristiche specifiche ormai perfettamente adatte all’ambiente: in un ambiente che non cambia, conviene non cambiare. Durante il Cretacico, però, l’espansione dei fondi oceanici, protrattasi pochi centimetri all’anno per milioni di anni, determinò la scissione delle grandi masse continentali. È noto che all’attività delle dorsali medio-oceaniche sono legati fenomeni di trasgressione e di regressione marina: quando la velocità di espansione è alta, il mare si ritira; mentre nella situazione opposta invade le terre. Alla fine del Cretacico, in concomitanza con un drastico abbassamento del livello marino, scomparvero

240

CAPITOLO 9

dunque i mari poco profondi che coprivano le zone vicine ai continenti. La scomparsa delle nicchie ecologiche dei mari poco profondi provocò l’estinzione delle specie che erano a esse strettamente legate. L’ampliamento delle terre emerse e la conseguente riduzione della varietà degli habitat causò probabilmente, anche sulla terraferma, una diminuzione delle nicchie ecologiche, creando una situazione di instabilità. Un ambiente instabile è caratterizzato, di norma, da poche e ampie nicchie ecologiche, e da un basso numero di specie che presentano un’alta variabilità genetica e non sono rigidamente legate a un particolare ambiente, ma hanno invece una notevole diffusione. Fu proprio il passaggio da una situazione di stabilità a una di instabilità a determinare la crisi biologica: scomparvero così le specie animali e vegetali adattate da lungo tempo a un ambiente stabile, specializzate a una nicchia ecologica ristretta, prive della possibilità di migrare e incapaci, per la bassa variabilità genetica, di adattarsi in breve tempo alle nuove condizioni ambientali, come la situazione avrebbe imposto. Queste caratteristiche erano proprie dei dinosauri e delle altre creature marine e terrestri che si estinsero con loro. Sopravvissero le specie opportuniste, non rigidamente vincolate a un ambiente particolare: i mammiferi, per esempio, che ormai liberati dalla concorrenza dei dinosauri, occuparono le nuove nicchie ecologiche e conobbero, nell’era successiva, la stessa radiazione evolutiva che aveva caratterizzato l’evoluI NUOVI PADRONI Nella pagina accanto: dopo l’estinzione dei dinosauri, i mammiferi ereditarono la Terra. Ancora una volta, nella storia della vita, grandi branchi di erbivori occupano le praterie tra i fumi vulcanici di una terra inquieta. Sotto le spinte ambientali, come

una volta era toccato ai dinosauri, questo nuovo gruppo di animali a sangue caldo e dalla prole inetta si differenzierà, attraverso milioni di anni, in un caleidoscopio di forme e di specializzazioni, e assumerà gli stessi ruoli ecologici che una volta erano stati tipici dei rettili.

LA SCOMPARSA

241

zione dei rettili. Il modello della crisi biologica determinata dal subentrare di una situazione di instabilità dopo un lungo periodo di stabilità è forse l’unico che può essere applicato anche alle altre estinzioni di massa e costituisce, probabilmente, un quadro di indagine più corretto, poiché riporta la storia dei dinosauri nell’ambito che gli è più proprio: quello della vita; un fenomeno dell’evoluzione. Mai lo studio di un gruppo di animali estinti ha destato tante polemiche e tanto interesse, tanta fantasia e tante ipotesi, tante ricerche e tanto lavoro. Ma, al di là di ogni considerazione, resta il fatto incontestabile che i dinosauri dominarono il mondo per 160 milioni di anni, evolvendo in una incredibile varietà di specie e di adattamenti agli ambienti più disparati. Per noi, scimmie nude che da soli 3 milioni di anni ne abbiamo ereditato la Terra, e che rischiamo con la nostra scriteriata manipolazione dell’ambiente di provocare una crisi biologica analoga a quella ipotizzata per una collisione meteoritica, è questo l’evento straordinario.

I DINOSAURI DI OGGI È ormai convinzione della maggior parte dei paleontologi che, per la loro discendenza diretta dalle “lucertole terribili” del Mesozoico, gli uccelli vadano considerati “dinosauri pennuti”. Questi animali esprimono oggi, nella straordinaria varietà di forme che hanno realizzato (dal passero al colibrì, dallo struzzo al pinguino, dalle aquile agli avvoltoi) la stessa diversità che ha caratterizzato i dinosauri nei 160 milioni di anni di dominio sulle terre emerse. Seguendo gli stessi riti dei loro antenati,

242

CAPITOLO 9

sottoposti alle stesse leggi selettive che legano un individuo all’ambiente e ai suoi simili, si accoppiano, nidificano, sopravvivono in un’evoluzione che li porta verso chissà quali forme future, seguendo vie tanto imprevedibili quanto regolate dal caso. In quest’immagine, spatole rosate, aironi bianchi, anatre selvatiche e gabbiani condividono pacificamente un ambiente nel quale, un centinaio di milioni di anni fa, avremmo potuto scorgere forse un gruppo di adrosauridi nidificanti o un branco di ceratopsidi all’abbeverata.

Indice analitico Abelisauro 23, 189, 200 Abelisauridi 5, 97, 154 Abete 133 Abiquiù 140 Acetabolo 83-84, 95 – bucato 84 Acido urico 79

Ambopteryx 28

Anello mancante 17-18, 159 Anellide 67 Anfibio 58, 67, 69-72, 74, 77-79, 82, 9293, 116, 131, 133-134, 137, 140, 147, 149, 185, 202, 220, 228, 235 Ankylosaurus 206, 208 Anning, Mary 10

Akademie der Wissenschaften 22

America 10, 12, 15, 18, 22-23, 52-54, 56, 76, 97, 100, 105, 127, 132, 135, 137, 146, 149, 152, 155, 166, 175, 178-179, 184, 187, 189, 208, 212, 215, 223, 227 – meridionale 10, 12, 15, 18, 21-23, 5254, 56, 76, 97, 100, 105, 127, 132, 135, 137, 146,149, 152, 155, 158, 166, 175, 178-179, 184, 187, 189, 197, 206, 208, 212, 215, 219, 223, 227 – settentrionale 53-54, 132, 146, 178179, 184, 189, 197

Alaska 27, 76, 181

American Natural History Museum 22

Archaeornithomimus 200

Alberta 111, 215

Amherst College 15

Archeano 37

Alberti, Friedrich Von 132-133

Ammoniaca 79

Archelon 177, 184

Albertosaurus 177, 197

Ammosaurus 142

Alga 63-66, 71, 78 – unicellulare 63-64, 66 – pluricellulare 64-66

Amphicoelias 169 – fragillimus 169

Acrocanthosaurus 98, 120 Adeano 37 Adrosauroide 104, 177, 185, 204, 233, 227 Africa 23, 26, 38, 53-54, 56, 132, 137, 146, 149, 155, 171, 175, 179, 189, 221, 223, 239 Afrovenator 156

Alioramus 192, 197 Allosauroide 97-98, 155-156, 197 Allosauro 46-47, 113, 123, 125, 153-154, 156, 193

244

Ambiente 15-16, 20-21, 26-28, 40-41, 45-46, 51, 53, 58-60, 65, 67, 71-72, 7475, 77-81, 86, 89, 91-92, 109-112, 123, 136-138, 147-148, 155, 158-159, 161, 165-166, 168, 182, 189, 200, 224-225, 238, 240, 242

Anapside 79, 81 Anatomia 10, 14-15, 20-22, 25, 40-43, 46, 62-63, 84, 98, 172, 203, 216, 221 – comparata 10, 14, 41, 58, 63, 93, 160 Anatosaurus 15, 26

Anserimimus 200 Antartide 24, 52, 109, 132, 146, 179 Apatosauro 46-47, 49, 84, 101, 113, 116117, 138, 145, 151, 153, 155, 169 Apatosaurus 19, 168-169 Araucaria 135, 148, 149, 177 Archaeopteryx 17-18, 29, 61, 63, 93, 107, 145, 158-161, 203 – lithographica 17, 160-161

Arcosauro 41, 80, 82-84, 86-87, 94-95, 97, 103, 106-107, 117, 136-138, 140141 Argentinosaurus 204 Argo-40 36 Aristosaurus 142 Arrhinoceratops 212, 215 Arto 13-14, 25, 41, 43, 69, 72, 74, 77, 8184, 87, 92, 95, 98-99, 104, 123, 137, 142, 161, 166, 168, 172, 199-200, 202, 203, 212, 215, 217, 223

Allosaurus 19, 98, 145, 150, 155, 174

Anatotitan 26

Alpi 9, 146, 179

Anca 43, 83-84, 87, 117, 160, 193

Altamura 200, 208

Anchiceratops 122, 215

Alto Adige 138 Altopiano del Deccan 237

Anchilosauro 102-103, 121, 123, 127, 162, 196, 206, 208

Artiglio 8, 12, 27, 41, 50, 97-99, 101, 121, 140, 142, 154-155, 166, 183, 186, 194, 196, 199-200, 203, 221

Álvarez, Louis 228, 230-231, 234

Anchiornis 29

Artropode 67-68, 70

Álvarez, Walter 228, 230-231, 234

Andatura 14, 20, 33, 48, 82-84, 87, 103104, 150, 203, 215, 223

Asaro, Frank 230

Alveolo 14, 78, 84, 115-116, 154, 214 Amargasauro 101

Ande 148, 179

Asia 105, 135, 155, 175, 179, 184, 189, 197, 208, 210-212, 215, 223, 227

Amargasaurus 169

Andrews, Roy Chapman 22, 209

Asophillites 134

Atlantosaurus 168

Bison alticornis 211

Catastrofisti 62

Auca Mahuevo 129, 205

Brachiosauro 27, 41, 84, 101, 115, 165166

Cau, Andrea 28, 152

Australia 27, 52-54, 67, 126, 132, 146, 155, 179

Brachiosauride 149, 163, 165-168

Celenterati 67

Brachiosaurus 22, 145, 163, 165

Aves 18

Brachytrachelopan 169

Avipes 140

Branco 48, 50-51, 104-105, 129, 140, 150-151, 166, 169, 184, 203, 215-216, 219, 221, 240, 242

Cellula 9, 60, 62-66, 78-79, 191 – eucariota 65-66 – procariota 62-63

Auditore, Marco 190

Bacino 13, 21, 82-84, 86-87, 95, 97-98, 102, 117, 137, 142, 146, 149, 163, 168, 170, 178-179, 193, 204-205, 238 Bacon, Francis 52 Bactrosaurus 227 Bagaceratops 210 Baiera 135 Bajadasaurus 169 Bakker, Robert 27, 105-107, 111-113, 115, 120, 126, 165, 168, 183, 203, 215, 225 Bandera 48

Brasile 146, 184, 204 British Association for Advancement of Science 14

Cavità pineale 79

Celofisoide 29, 97, 137-138, 140, 152, 158 Celurosauro 27, 97-99, 115, 154, 158160, 184, 190, 192, 198-199, 201-203 Cenozoico 230

British Museum of Natural History 186, 206

Centrosaurus 215

Brontosauro 19, 101, 167

Ceratopside 105, 113-114, 117, 121-122, 127, 177, 183-184, 193, 196, 204, 208, 210-212, 214-215, 228, 242

Brontosaurus 167-169 Brown, Barnum 192, 199 Buckland, William 11-14 Buitreraptor 99 Byronosaurus 201

Bangrazi, Antonio 205

Ceratops 211-212

Ceratosauro 97, 152-154, 156, 200 Ceratosaurus 97, 145, 150, 152, 158, 174 Cervello 27, 45, 83, 98-99, 103-104, 110, 117-118, 155, 168, 172, 175, 184, 202203, 216

Barosaurus 19, 169

Calvo, Jorge 23

Charonosaurus 227

Baryonyx 186-187 – walkeri 186-187

Camarasauro 154, 166, 204

Chasmosaurus 212, 215

Camarasauride 149, 168

Cheyenne 18

Base Surge 233

Camarasaurus 19, 95, 167-168

Chiappe, Luis 23, 129

Batterio 30, 62-63, 101

Cambriano 16, 37, 67

Choloepus didactylus 200

Becco 15, 20, 22-24, 26, 29, 81, 102, 104105, 118, 123, 136-137, 170, 174, 183, 194, 198-201, 203, 210, 214-215, 218221, 223-225, 227-228 – d’anatra 15, 20, 22, 24, 26, 104, 123, 183, 194, 200, 223-225, 227-228

Camptosaurus 171

Cicadeoidee 145

Canadian National Museum 118

Cicadine 145

Canali di Havers 119-120

Cima Puez 138

Cannibale 140

Cimitero 8, 18, 22, 25, 31, 142, 163, 220

Cannon, Georges L. 211

Beebe, William 199

Cañon City 18

Cina 22, 24, 27-28, 46, 53-54, 56, 98, 132, 155, 162, 184, 203, 227

Belgio 13, 20, 184, 187

Carbon Fossile 20, 133

Cinodonti 81, 95

Berlino 22, 160, 163

Citipati 129, 201

Bernissart 13, 20-21, 43, 220-221

Carbonifero 36, 52-53, 72-74, 79-80, 132-134

Betulla 59, 180-181

Carbonio 36, 65, 232

Bibbia 9

Carcarodontosauro 23, 189, 197

Classificazione 21-22, 89-91, 93, 95, 105, 107, 137, 167

Billings 8

Carcharodontosaurus 98

Clavicola 159, 160, 200

Biologia 8-9, 16-17, 25, 27, 40-41, 63, 107-109, 129, 209

Carne 20, 32, 51, 90, 100, 122, 154, 193

Cleveland-Lloyd Quarry 155

Carnivoro 8, 10, 13, 19, 21, 24, 46, 48, 51, 72, 81, 84, 86-87, 90, 97, 100, 110-112, 114, 120-123, 128-129, 134, 136-138, 140-142, 145, 149-150, 154, 156, 158, 163, 166, 169, 174, 177, 184-185, 187, 196, 201-203, 206-207, 222, 228

Clima 9-11, 20, 46, 51, 60, 68, 71, 73-74, 76, 79, 81-82, 87, 106, 109-110, 114, 127, 131-135, 147, 149, 158, 167, 171, 177, 179-181, 225, 235

Bipede 8, 14-15, 18, 20-21, 32, 41, 46, 48-49, 83-84, 86-87, 95, 97, 99-100, 103-105, 115, 118, 129, 137-138, 140141, 150, 156, 158, 161, 170, 192-193, 197-199, 202-203, 210, 217-219, 223224

Carnotaurus 97

Classe 90, 93, 107, 135

Cloroplasti 65 Coccodrillo 20, 33, 41-42, 46, 50, 78, 8082, 87, 94, 98, 115, 117-118, 126-127,

INDICE ANALITICO

245

131, 136, 138, 148-149, 156, 162, 177, 184, 187, 189, 220, 228 Coda 14, 17, 19-20, 23, 28-29, 41, 44, 46, 48, 50, 59, 68, 70-71, 81-82, 84, 8687, 89, 97-99, 101, 103-104, 121, 123, 136-137, 140, 142, 145, 150, 155-156, 158-162, 166-170, 172, 174-175, 183, 189-190, 192-194, 196, 198-199, 201203, 205-207, 210, 212, 216-218, 221, 223-225 Coelophysis 29, 83-85, 97, 121, 140 – bauri 140 Colbert, Edwin 140, 171, 216 Collagene 32 Collare a cresta 124 Collo 19, 28, 84, 86, 99, 101, 103, 105, 114, 136, 140, 142, 154-156, 158, 162163, 166-170, 172, 175, 183, 191-192, 198, 202-203, 206-207, 209-210, 212, 214, 216, 218, 228

189, 192-193, 198, 201-202, 204, 208, 210-211, 214, 217-222, 224-225 Denver 211 Depalma, Robert 234 Deriva dei continenti 53-56, 97, 156, 177 Deserto del Gobi 22, 201, 209

Crichton, Michael 45, 203

Devoniano 68, 70-71, 230

Crosta terrestre 17, 30, 34, 54, 57, 132, 238

Diabloceratops 215

Crow 19

Dicinodonte 81

Cryolophosaurus 152

Dickinsonia 66-67

Cuvier, Georges 10-13, 162

Dicraeosaurus 169

Cycadatae 131, 134

Dicreosauro 101

Cycadeoidea 135

Dilofosauro 97, 125, 153

Cynognathus 137

Dilofosauride 152

Crateronotus 137

Dilong 197

Currie, Philip 193

Dilophosaurus 95, 152

Diapside 79, 81-82, 94

Diluvio Universale 9-10, 13, 48

Colorado 18, 20, 154-155, 165, 172, 211

Dacentrurus 172, 175

Dimetrodon 80-81, 189

Columba livia 160

Dakotaraptor 203

Dimorphodon macronyx 148

Como Bluff 18-19, 154-155, 167

Dal Sasso, Cristiano 26, 152, 189-190, 205

Dingus, Lowell 129

Comportamento sessuale 124 Compsognathidae 190

Dalla Vecchia, Fabio Marco 223

Compsognatide 27, 99, 158, 161, 190191

Dalton, John 9

Datazioni relative 35

Dinosauro 8-15, 18-34, 37-46, 48, 50-52, 56, 58, 60-61, 63, 68, 80-84, 86-88, 9395, 97-103, 105-111, 113-120, 123-129, 131-132, 134, 136-138, 140-142, 145, 149-150, 152-156, 158-163, 165-168, 170-172, 175, 177, 183-187, 190-194, 196, 198, 200-203, 205-207, 209, 211212, 215-225, 227-230, 238-240, 242

Davis, Marc 236

Dinosauria 14, 84, 93, 95

Compsognathus 18, 95, 145, 158-160

Darwin, Charles Robert 14-18, 58-59, 61, 91

Conifere 38, 74, 131, 134, 136, 145, 147149, 162, 179-180, 225, 228-229, 235

Daspletosaurus 122, 197

Connecticut 10, 15, 18, 48 Conolophus subcristatus 170

De Ricqlès, Armand 120

Diplodoco 101, 114, 123, 167, 169

Cope, Edward Drinker 18-19, 38-39, 41, 156, 167, 169, 192

Dean, Dennis R. 11

Diplodocoide 101, 145, 151, 166-169

Corazzato 24, 33, 97, 102-103, 108, 123, 127, 136, 204

Decadimento radioattivo 9, 36 Deinocheiro 24, 200

Diplodocus 19, 87, 150, 167-169 – longus 167

Cordati 67, 90, 94 Coria, Rodolfo 23, 129 Corna 21, 24, 26-27, 41, 50, 97, 105, 121-123, 127, 150, 154, 177, 183-184, 211-212, 214-216, 228 Corythosaurus 226-227 Cranio 10, 17, 25, 40, 43, 45, 72, 74, 77, 79, 81-84, 86, 93-94, 97-99, 102103, 105, 117, 122, 124, 126, 137, 140, 152-155, 158, 160, 165-168, 171, 177, 184-185, 187, 192-193, 196, 198, 202, 204, 209-212, 215-217, 220, 224-225 Cresta ossea 84, 187, 224, 226

246

Cretacico 11, 13, 20, 24-26, 33, 37-38, 44, 54, 56, 97-99, 103-105, 111, 118, 120, 122, 126, 134-135, 147-148, 150, 154, 156, 158, 166, 171, 177-185, 187, 190, 196-197, 200, 202, 205-206, 210, 212, 214-215, 218-222, 224-225, 228, 230232, 234-240

INDICE ANALITICO

Deinocheirus 24, 98-99, 187, 198-200 – mirificus 200 Deinodon 15 Deinonicosauro 28, 49, 98-99, 118, 127, 190, 202 Deinonychus 8, 27, 29, 99, 113, 115, 120, 160-161, 184, 200, 202-203 Delfino 92, 136, 165, 228 Deltatheridium 185 Dente 8, 11-14, 18, 29, 32, 40, 51, 81, 84, 97-100, 102, 104, 110, 113, 122, 136-138, 140-142, 150, 154-155, 158-161, 163, 165-168, 170-172, 174-175, 183-184, 187,

Dipnoi 69-70 Dita 8, 10, 15, 17, 28-29, 46-48, 63, 74, 84, 97-99, 118, 140, 142, 153-155, 158161, 165-166, 168, 172, 194, 198-200, 202, 204, 218, 221, 223, 225 DNA 29, 59 Dodson, Peter 209 Dollo, Louis 20-21 Dorking 186 Dorsali medio-oceaniche 54-55, 240 Dracorex 25 Dreadnoughtus 204 Dromeosauride 177, 200

Dromiceiomimus 200

Euskelosaurus 142

Galilei, Galileo 8-9

Dryosaurus 145, 163, 219

Eustreptospondylus 156

Gallimimo 99, 198, 200

Dysalotosaurus 219

Evoluzione 14-18, 29, 36-37, 53, 56, 5863, 66-68, 71, 79-82, 86-87, 90-94, 97, 103, 105, 107, 118, 122-124, 127, 131, 136-137, 149-150, 152-153, 161, 177, 182-185, 207, 212, 226, 230, 238-239, 242

Gallimimus 87, 200

Echinoderma 67 Echinodon 170 Ecologia 20, 110-111 Ecosistema 19, 24, 26, 111-112, 154, 189

Gambe 23, 28-29, 41, 84, 97, 99, 101, 103, 113, 121, 137-138, 140-141, 154155, 160, 163, 165, 170, 172, 184, 187, 189, 194, 197-199, 203, 205-207, 212, 217-218, 221, 223-225 Gangamopteris 52-53

Ectotermo 77, 109, 113-115

Fabbri, Matteo 26

Garudimimus 200

Edmontonia 208

Fabrosauride 170-171

Gas 9, 65, 233-234, 236-238

Edmontosauro 225-226

Fabrosaurus 170 – australis 170

Gastroliti 33, 47, 100-102, 150, 168, 200201

Famiglia 10, 90, 149, 192, 219, 222

Geni 59-60

Fanerozoico 37

Geological Society 12-13

Fanti, Federico 27

Germania 17, 21, 133, 136, 149, 158, 166

Farfalla 59, 182

Ghost Ranch 140

Fasci muscolari 42

Giganotosaurus 95, 98

Eone 37

Fegley, B. 233

Gigantoraptor 99

Eoraptor 137

Felci 20, 37, 52, 71, 73, 81, 106, 131, 133134, 145, 147, 158, 175, 181, 183, 187

Gimnosperme 131, 133-135, 147, 180183

Femmina 27, 41, 43, 50, 123-125, 129, 142, 175, 189, 209, 215-216, 226-227

Ginkgo biloba 134-135 – huttoni 135

Equisetaceae 131

Femore 9-10, 12, 15, 39, 82-84, 95, 97, 101, 160, 165, 218, 223

Ginkgoatae 134-5

Equiseti 37, 71-73, 131, 133-134, 145, 148, 177, 183, 187, 224

Filogenetica 18, 92-93, 159, 203

Erbivoro 11-13, 15, 20-23, 26, 33, 46, 51, 81-82, 86-87, 95, 97, 99-105, 108, 110114, 117, 120-123, 127, 129, 132, 134, 136-138, 141-142, 145, 149-150, 152, 154-155, 163, 170-171, 177, 183-184, 196, 198-199, 203, 206-207, 211, 214, 217-218, 221-222, 228, 240

Fitosauro 136

Edmontosaurus 26, 194, 225-227 Egitto 189 Einiosaurus 215 Eldredge, Niles 61 Endotermo 77, 81, 90, 105-111, 113114, 161, 189, 203

Eotriceratops 215 Equatore 54, 132 Equilibri punteggiati 61

Fisiologia 45-46, 93, 106, 108, 113-115

Ginsburg, L. 170 Giraffatitan 22, 163

Fondi marini 34, 36, 55

Giurassico 17, 25, 32, 37, 54, 61, 95, 9799, 103-105, 107, 112, 131, 135, 138, 141-142, 144-150, 152, 155-156, 158, 161-163, 167, 170-171, 175, 178, 181, 185, 190, 196, 206, 218

Formazione Hell Creek 25, 193, 235

Glen Rose 46-48, 155

Formazione Navajo 147

Globotruncana 230

Fosfato di Calcio 32

Glossopteris 52-53, 106 Gola del Bottaccione 228, 230

Euoplocephalus 208

Fossile 8-15, 17-31, 33-43, 45-47, 51-54, 56, 58, 61-63, 65-68, 70-72, 74, 77, 80, 83-84, 87, 90-93, 95, 97-98, 100, 102, 104-105, 107-108, 110-112, 114, 117119, 121, 123-124, 127, 129, 132-133, 136-138, 140-142, 148-149, 152, 154156, 158-160, 162-163, 167, 169-172, 180, 183, 185-187, 190-193, 197-199, 201-206, 209, 211, 215-217, 219-220, 224-225, 227, 230, 235, 239

Euparkeria 82-85

Fotosintesi 65, 233

Europa 9, 15, 22, 53-54, 56, 132, 146, 148, 155, 175, 178-179, 184, 208, 221

Fox, William 206

Grande Estinzione 14, 16, 38, 58, 60-61, 68, 87, 95, 99, 107, 118, 121, 126, 177, 184-185, 224, 228-231, 233-235, 237240

Friuli 138

Gravitholus 217

Europasaurus holgeri 166, 223

Futalognkosaurus 204

Green Mountain Creek 211

Eryops 72 Escrementi 33, 47 Estinzione 13-14, 16, 38, 58, 60-61, 68, 87, 95, 99, 107, 118, 121, 126, 177, 184185, 224, 228-231, 233, 240, 242 Eterodontosauro 105, 138, 141, 170 Eterodontosauride 131, 170 Etologia 46, 108, 216 Eudimorphodon 131

Fiume Paluxy 46 Flogisto 9

Gondwana 106, 132, 136, 146, 179 Gorgosaurus 197 Gould, Stephen Jay 61, 88-89 Gradualisti 62 Gradualità 58, 61 Graminacee 177

INDICE ANALITICO

247

– atherfieldensis 43, 223 – bernissartensis 43, 223

Lamarck, Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet 14-15

Iguanodonte 20-21, 24, 43, 49, 171, 183, 220-223

Lambeosaurini 224

Iguanodontide 104, 184, 220-222, 224

Langenberg 166

Ileo 83-84, 97

Latimeria 70, 72

Impianto colonnare degli arti 25, 84, 87

Laurasia 132, 136, 146, 178

Impollinatore 182

Lavini di Marco 32-33, 152, 162, 171 Leidy, Joseph 15, 18, 192, 224

Harpymimus 200

Impronta 10, 15, 18, 20, 24, 32-33, 39-41, 45-48, 50, 66, 102, 118, 120, 129, 140, 148, 151-152, 160, 162, 168, 171, 183, 192, 205, 208, 212, 215, 222, 226, 228

Hatcher, John B. 211, 215

India 13, 52-54, 132, 136, 146, 179, 237

Lepidotes 187

Hawaii 236

Indocina 136

Leptoceratops 210

Heilmann, Gerard 159

Inghilterra 8-12, 15, 43, 149, 162, 178, 184, 187, 206, 219

Lerici 138

Insettivoro 80, 136-138, 185, 199

Lesothosaurus 170 – diagnosticus 170

Groenlandia 54, 146, 178, 181 Gryposaurus 227 Guanlong 197 Guatemala 225 Gubbio 228, 230 Habitat 26, 41, 52, 71, 111, 165, 168, 196, 240 Hadrosaurus foulkii 15, 18, 224 Halticosaurus liliensterni 140

Heloderma – horridum 225, 227 – suspectum 225 Hennig, Edwin 22

Ipsilofodonte 26, 42, 104, 127-128, 171, 218-219

Lambeosaurus 41, 104, 224, 227

Lepidodendron 134 Lepidosauro 79, 82

Lesotho 170

Lewes 11

Herrerasauridi 97

Irritator 189

Lexovisaurus 175

Hesperornis 184

Ischio 83-84, 86, 97, 102, 160, 170

Licopode 71, 73, 133-134

Hesperosaurus 175

Isola di Wight 206, 219

Liguria 138

Himalaya 9

Isole Spitzbergen 46

Limaysaurus 169

Hitchock, Edward B. 15, 18

Isole Svalbard 24

Limusaurus 97

Holtz Jr., Thomas R. 200

Isotopi radioattivi 36

Lindi 22

Homalocephale 217

Ittiosauro 10, 136, 145, 148, 184, 228

Linné, Carl Von (Linneo) 89-91 Liriodendrum 135

Horner, Jack 22, 25, 29, 127 Huene, Friedrich Von 21-22

Janensch, Werner 22

Little Bighorn 18-19

Hungarosaurus 208

Jinzhousaurus 223

Logan 192

Hunterian Museum 12

Jobaria 162

Londra 12-15, 21, 58, 166, 206, 223

Huxley, Thomas Henry 18, 159-160, 162

Judith River 19

Longisquama 131

Hylaeosaurus 187, 206

Jurassic Park 45, 203

Loper, David 237 Lourinhã Formation 156

Hylonomus 74, 79 Hypselosaurus priscus 205

Kentrosaurus 175

Lufengosaurus 142

Hypsilophodon 86, 187, 219 – foxii 219

Kermack, K. 166

Lukousaurus 140

Kielan-Jaworowska, Zofia 23

Lyme Regis 10

Kilauea 236 Ibrahim, Nizar 23, 189

King, William 21, 199

Macrodontophion 14

Ichthyornis 177

King’s College 21

Madagascar 23, 70, 72, 106, 146, 179

Ichthyostega 70-71

Kosmoceratops 215

Maganuco, Simone 26, 152, 189-190

Ichthyovenator 189

Kuehneosaurus 131

Magnapaulia 224 Magnolia 135, 177, 181

Icnospecie 46 Iconologia del New England 15

L’origine delle specie 14

Maiasaura 127, 227

Ierardi, Thomas 140

La formazione dei continenti e degli oceani 53

Majungasaurus 97

Lago Rukwa 221

Malesia 71, 132

Iguanodon 12-14, 18, 20-21, 40-41, 43, 86, 187, 220, 222-223

248

INDICE ANALITICO

Makela, Robert 127

Mamenchisaurus 162 Mammifero 11-12, 14, 24, 27-28, 38, 44, 67, 69, 77, 79-81, 83-84, 86-87, 90, 92-93, 105-107, 109-111, 114-116, 118120, 127-128, 131-132, 136-138, 145, 149, 158, 162, 165, 177, 182, 184-185, 199, 207, 218, 228-229, 240 Mandibola 13, 68, 79, 83, 86-102, 122, 138, 167, 170-174, 187, 189, 211, 214, 216, 218, 221

Metabolismo 27, 49, 65, 74, 78, 106-107, 109-110, 113-115, 118-119, 126, 129, 137, 189, 203

Mutazione 59-60, 62, 66 Muttaburrasaurus 223 Myristica 135

Meteorite 230-233, 236-237 Meyer, Grant 8, 202 Michel, Helen V. 230 Microceratops 210 Micropholis stowi 134 Microraptor 28-29, 98-99

Nanotyrannus 25 Nasutoceratops 215 Natural History Museum di Londra 223 Necrofago 30, 38, 72 Nemegt 200

Mandschurosaurus 227

Microscopio 64-65, 119, 190-191

Mantell, Gideon 11-13, 18, 20, 40-41, 220

Min Wang 28

Mantellisaurus 43, 223 – atherfieldensis 43

Miragaia 175 Mitocondri 65

Mar Boreale 146

Neotenia 67

Mixosaurus 136

Mar Glaciale Artico 179

Neuquén 129

Modello biblico 8

Maraapunisaurus 169

New Mexico 18, 140

Mollusco 67, 134, 136, 148, 163, 228

Marattiales 131

New York 22, 88, 209

Mare di Sundance 146

Mongolia 22-23, 56, 184-185, 200, 203, 209, 211, 217, 227

Nido 22, 33, 50-51, 99, 118, 120, 127129, 201, 210, 227-228

Marginocefalo 97, 103, 105, 216

Monocotiledone 177

Nigersaurus 5, 169

Marocco 189

Montagne Rocciose 9, 18, 46, 127, 179

Nilssoniales 135

Marsh, Othniel Charles 18-19, 41, 152, 155, 167, 171-172, 211

Montana 8, 18-19, 22-23, 25, 127, 192, 202, 207, 211-212, 226, 235

Ninfee 177

Mascella 10-11, 68, 81, 97, 122, 138, 155, 172, 186-187, 214, 218

Montanoceratops 210

Maschio 27, 41, 43, 60, 75, 101, 105, 123125, 141, 153, 175, 209, 215-217, 222, 226

Monte Pisano 138

Massospondylus 100-101, 142 Mastodonsaurus 131 Matonidium 134 Mbemkuru 163 McCartney, Kevin 237 Medullosa 135 Medusaceratops 215 Megalosauro 13-14, 20, 149, 156 Megalosauroide 97, 156, 186, 189, 197 Megalosaurus 13-14, 156, 187 – bucklandi 156

Monte Pelmetto 138 Monti Prenestini 205 Moody, Plinio 10, 15, 48 Morganucodon 131, 137-138 Morosaurus 19 Morrison Formation 18-19, 25, 149, 155156, 167, 172 Mosasaurus 10-11, 177 Mozambico 163 Muller, Richard 236 Muschio 71-72, 133

Nemesis 236 Neocalamites 134 Neogene 37

Nipponosaurus 227 Noasauro 23, 200 Noasauride 97, 154 Nodosauro 103, 206-207 Nodosauride 103, 183, 206-208 Nodosaurus 206, 208 Nothosaurus 131 Novas, Fernando 23 Nube di Oort 236 Nuova Zelanda 136, 179, 230 Oceano Atlantico 52, 54, 56, 146-147, 179 Oceano Indiano 22, 132, 146, 179

Megazostrodon 145

Muscolo 28, 79, 83-84, 105, 116, 121122, 154-155, 159, 161, 163, 168, 170, 191, 193, 202-203, 207, 210-212, 214, 216, 221, 225

Mei 23

Musée Royal d’Histoire Naturelle 20

Omeotermia 81, 114-115, 117

Melanorosauride 142

Museo di Storia Naturale 22, 50, 58, 88, 91, 94, 152, 160, 163, 205

Omero 15, 82, 101, 160, 199

Museo di Storia Naturale Di Berlino 22, 163

Omosaurus armatus 172

Museo di Storia Naturale di Milano 152, 205

Ordine 13, 21, 35, 89-91, 109, 167, 191, 193

Megaphyton 134

Melanosomi 28-29, 123 Meseta 146 Mesozoico 10, 21, 109-111, 113-114, 121, 126, 128, 132, 134-135, 148, 167, 171, 184, 198, 228, 230, 238, 242

Museum of Natural History 186, 206, 209

Olanda 10 Omeisaurus 162 Omeotermo 114

Ominus Moud 8 Oort, Jan H. 236

INDICE ANALITICO

249

Ordoviciano 61, 230 Orecchio 45, 93, 126, 137 Orma 15, 32, 46-48, 50, 129, 138, 152, 155, 192, 200 Ornitholestes 95, 158, 160 Ornithomimus 198, 200

Paleontologia 10-11, 17-18, 20, 27, 52, 61, 65, 88, 113, 153, 159, 202

196-198, 202-203, 205-206, 212, 218, 228 Pietraroja 190 Pinacosaurus 208 Pino 133, 149, 225 Piombo 36

Ornitisco 21, 84, 86-87, 95, 97, 100, 102104, 129, 138, 141, 162, 170-171, 206, 216, 218, 228 – primitivo 21, 63, 67, 72, 79, 83, 86, 99100, 102, 105-107, 127, 141, 160, 162, 166, 170-171, 187, 228

Paleozoico 56, 132

Piramide alimentare 72, 111, 134

Palma 134-135, 145, 177, 181, 183, 185, 210, 214

Pisanosaurus 141

Ornitomimosauro 27, 49, 99, 177, 184, 198-200, 219, 228

Panoplosaurus 177

Plantigrade 137

Panthalassa 52, 56, 132

Plateau Centrale 146

Ornitopode 5, 97, 103-104, 113-114, 118, 156, 163, 170-171, 203, 218, 221, 223-224

Papiri 177

Plateosauride 131-132, 137, 142

Paralititan 204

Plateosaurus 14, 21, 142

Parasaurolophus 226-227

Pleuromeia 131

Parco Naturale delle Dolomiti Friulane 138

Plot, Robert 10

Parigi 10, 50, 91, 120

Podozamites 135

Patagonia 23, 129, 184, 204-205

Polacanthoides 206

Patagotitan 204

Polmone 69, 71, 78, 115-116, 125, 166

Peabody Museum 8, 202

Polo Nord 24, 56

Pelicosauro 80-81

Poriferi 67

Pelle 20, 28, 32-33, 39, 41-42, 44, 71, 78-79, 105, 125, 172, 197, 204, 218, 225-228

Portogallo 32, 156, 175

Oryctodromeus 23 Osborn, Henry Fairfield 158, 193-194, 198-199 Osso 8-10, 13-14, 19-22, 24-26, 28, 30-32, 38-43, 49, 69, 82-84, 86, 93, 97, 99, 101102, 104-105, 111, 115-117, 119-120, 122, 125-126, 140, 152-153, 155, 158-163, 165-170, 172, 175, 187, 192-193, 199-202, 204-206, 209-210, 214-216, 224, 226 Ossigeno 65, 68-69, 116, 229 Ostrom, John 8, 27, 45, 111, 113-115, 160-161, 202-203

Pangea 52, 54-56, 71, 82, 84, 132, 134, 136, 138, 140, 142, 145-146, 178, 181, 239

Placche ossee 33, 102-103, 121, 172, 206-208, 218 Placodonte 136, 148

Plymouth 14

Potassio-40 36-37 Predatore 8, 20, 23, 27, 30, 43, 46, 48, 51, 59-60, 67-68, 71-72, 75, 82, 87, 95, 97-98, 100, 103, 110-113, 117-118, 121122, 127-129, 134, 136, 138, 140, 142, 150, 152-156, 158, 163, 166, 169-171, 189-190, 193-194, 196-198, 202-203, 206-207, 215, 217-218

Othnielia 219

Penne 17-18, 25, 27-29, 44, 62, 98, 129, 150, 159-161, 201, 203

Ouranosaurus 5, 223

Pennsylvania University 209

Oviraptorosauro 22, 27, 34, 99, 128-129, 201

Pentaceratops 215

Owen, Richard 14-15, 18, 21, 84, 148, 156, 162, 170, 172, 220, 229

Permiano 37, 52-53, 74, 76-77, 80-82, 106-107, 132, 134-135, 230

Oxford 10, 12-13, 149

Prinn, R. G. 233

Ozono 65

Pesce 10, 20, 24, 26, 53, 67-72, 79, 92-93, 97, 127, 158, 177, 185, 187, 189, 191, 200, 220, 228, 235

Pachicefalosauro 25, 105, 124, 216-217

Peterson, W. 192

Procompsognathus 140

Pachicefalosauride 124, 216-217

Phylum 90

Proganochelys 131

Pachirinosauro 27

Prosauropode 99-102, 137-138, 142

Pachyrhinosaurus 212, 215

Piastre 27, 41-42, 97, 102-103, 121, 171172, 174-175, 183, 204, 218 – dermiche 102-103, 121, 183 – ossee 42, 172, 204

Palaeocycas 135

Piatnitzkysaurus 156

Proterozoico 37

Paleogene 37-38, 228, 230-232, 234-238

Piattaforma russa 146

Paleomagnetismo 54

Piede 8, 14, 21-22, 27-28, 32, 39, 41, 43, 46, 48, 84, 102, 116, 129, 140, 154-155, 159, 165, 167-168, 184, 189, 192, 194,

Protoceratops 22-23, 124, 201, 209-210 – andrewsi 209-210

Pachycephalosaurus 25-26, 105, 216-217

Paleontologo 8, 11, 18, 20, 22, 24-28, 39, 41, 46, 48, 50-51, 61-63, 67, 87-88, 93,

250

110, 112-113, 118, 124, 129, 141, 159, 161, 163, 165-166, 169-170, 172, 186187, 189, 192-193, 196-197, 200-202, 205-206, 211, 216, 218-219, 226, 230, 238, 242

INDICE ANALITICO

Periodo geologico 36-37, 67, 133, 178

Prenocephale 217 Proaraucaria 135 Proceratosaurus 158

Proterosuchide 82-84, 86 Proterosuchus 131

Protopiume 27-29, 105, 158, 210 Protozoo 64, 66, 90, 228, 230

231, 233-234, 236-239

Protuberanze 99, 103, 105, 121, 155, 163, 208, 212, 215

Rocca di Cave 205

Seely, Harry Govier 21-22

Psaronius 134

Roccosaurus 142

Seismosaurus 167, 169

Pseudovoltzia 135

Rovereto 32-33, 152, 162, 171

Pteranodon 177

Royal School of Mines 18

Selezione naturale 14-16, 18, 58-60, 66, 71, 121, 124, 133, 140, 182

Pteridofite 131, 134-135

Rozhdestvensky, A. K. 200

Selva Boema 146

Pteridosperme 131, 135

Russell, Dale 118

Sequoia 135, 147, 149, 165

149, 152, 174, 220, 231, 238

Sereno, Paul 23, 187

Pterodactylus elegans 148 Pterosauro 80-81, 94, 107, 129, 131, 136, 145, 147, 150, 158, 161, 228

Sacchi aerei 116-117

Sesso 43, 123

Sagillaria 134

Seymouria 74, 77, 93

Pube 83-84, 87, 97, 100, 102, 160, 170

Sahara 23, 46, 76

Sezze 205

Puertasaurus 204

Saichania 208

Shabarakh Usu 209

Puglia 46, 200, 205

Saltasaurus 204

Shantungosaurus 224, 227

Saltopus 140

Sharovipteryx mirabilis 136

Quadrupede 15, 22, 41, 48, 70, 84, 97, 99-100, 103-105, 113, 138, 142, 156, 170-171, 175, 206, 212, 221, 223

Saltriovenator 97, 152-154 – zanellai 152

Shunosaurus 162

Sarcopterigi 70-71

Quaternario 37

Signore, Marco 190

Sattler, W. B. 163

Quetzalcoatlus 177, 184 – northropi 184

Sinapsidi 79, 81

Sauri 13-14, 110, 123, 125, 156, 162, 172, 184, 201, 225, 228

Sinocalliopteryx 190

Rebbachisaurus 169

Saurisco 21, 83-84, 86-87, 95, 97, 99-100, 103, 137-138, 160, 171, 228

Sinornithosaurus 28, 190

Regaliceratops 215

Saurischia 84, 93-94, 97

Regno 56, 74, 90, 138, 148

Saurolophus 177, 226-227

Respirazione 65, 67, 71, 75, 78, 115-117

Sauropelta 206-208

Rettile 8, 10-15, 17-18, 20-23, 27, 30-31, 38, 41-42, 45-46, 48, 52-53, 58, 62-63, 67, 72, 74, 76-84, 86-87, 92-94, 106107, 109-110, 115-119, 126, 131, 134, 136-138, 140, 145, 147-148, 156, 158, 161-162, 170, 177, 184-185, 199, 202203, 211, 220-221, 225, 227-228, 240, 242

Sauropode 5, 23-24, 39, 48, 99-102, 113114, 129, 154-156, 158, 162-163, 165, 167-169, 175, 203-205 – primitivo 162

Rhamphorhynchus 145 Rhynchosaurus 136 Riggs, Elmer S. 165 Rio delle Amazzoni 149 Rio Martino 200 Riojasaurus 142 Ripidisti 69 Ripple marks 46 Riproduzione 22, 66-67, 71, 124, 127, 133, 155, 182-183 Roccia 20-21, 25, 27-28, 30-40, 4647, 51-55, 57, 65, 67, 77, 93, 132-133, 140-141, 149, 163, 166, 171, 178, 183, 186-187, 202, 206, 220-223, 228, 230-

Siberia 54

Sinoceratops 215 Sinosauropteryx 27-29 Sinosaurus 152 Sioux 18-19 Sistema – circolatorio 27, 115 – nervoso 110, 117, 175 Smithsonian Institution 172

Sauropodomorfo 95, 97, 99, 101, 223

Solnhofen 17-18, 148-149, 158-160

Sauroposeidon 166

Sordes pilosus 107

Scandinavia 146

Sostanza – biologica 31 – minerale 31

Scapola 13, 74, 101, 160, 212 Scavi 8, 18-19, 22, 25, 163, 167, 192, 202, 220

Spagna 184, 205, 230

Scelidosauro 103

Species plantarum 89

Scheletro 11, 14, 17, 20, 22, 30, 32, 38, 4143, 46, 63, 67-68, 84, 89, 94, 103, 119, 138, 140, 153, 155, 161, 163, 167, 170172, 175, 187, 190, 192, 197-198, 200, 206, 215-217, 222-224, 227-228, 234

Sphenodon punctatus 136

Scimmie nude 242

Spinosauro 5, 23, 26, 98, 189, 197

Scipionyx 99, 190-191 – samniticus 190-191

Spinosauride 5, 98, 156, 186, 189

Scutellosauro 102-103 Scutellosaurus 171 Sedimenti 17, 30-31, 34-36, 38, 54, 127,

Spielberg, Steven 45, 203 Spine 21, 27, 97, 101, 103, 105, 123, 145, 150, 163, 169, 172, 174-175, 177, 189, 200, 204, 206-208, 214, 222

Spinosaurus 26, 98, 189 Squame 21, 25, 27-28, 42, 44, 62-63, 79, 105, 107, 123, 161, 191, 203, 220, 225, 227

INDICE ANALITICO

251

Stazione Agraria Sperimentale 192

202, 216, 218, 221

Stegoceras 177, 216-217

Tenontosaurus 120, 223

Toscana 138

Stegosauro 41, 103, 112, 117, 123, 154, 156, 172, 174-175, 206-207

Terapside 81, 84, 86-87, 106-107, 136138, 140

Trachodon 15

Stegosaurus 19, 103, 117, 145, 150, 172, 174-175 – armatus 172 – stenops 172

Teratosauro 142

Trentino 46, 162

Teratosauride 131

Triassico 29, 36-38, 80, 84, 86-87, 95, 97, 99-100, 106-107, 130-138, 140-142, 148, 150, 158, 230

Stenonychosaurus 118 Sternberg 20, 224 Stoccarda 22, 142 Stomaco muscolare 33, 101, 150, 166, 168, 211 Storia Naturale della Contea di Oxford 9-10 Stretto di Bering 179, 208, 212, 227 Struthiomimus 198-200 Strutture ornamentali 25, 27, 105, 123, 125, 152, 155, 217 Stygimoloch 25 Styracosaurus 212, 215 Suchomimus 5, 186-187 Suono 43, 104, 124-126 Supersaurus 150, 166, 169 Sussex 11, 220 Syntarsus 131, 140 Systema Naturae per Regna Tria Naturae 89

Terizinosauro 24, 27, 99 Teropode 26-29, 95, 97-98, 100, 104-105, 114, 118, 120, 137-138, 149, 152-153, 155, 158, 160, 187, 189-190, 192-193, 196-197, 200, 202, 210 Terra 9-11, 13-14, 22, 27, 30, 36-38, 5254, 56, 58, 66-69, 71-72, 74, 79, 81, 83-84, 87-88, 91, 97, 101, 110, 127, 132134, 136, 138, 145-146, 150, 155, 161, 175, 177-179, 181, 183, 194, 203, 215, 229, 231-233, 236-238, 240, 242

TAC 25-26, 42 Tanganika 22 Tanystropheus longobardicus 136 Tanzania 125, 163 Tarbosaurus 121, 197 Tarchia 121, 208 Tartaruga 20, 79, 81, 92, 103, 119, 126, 136, 148, 184, 228 Tasche guanciali 141, 218, 221, 224

Tre Cime di Lavaredo 138

Triceratopo 26, 41, 51, 123, 138, 211, 214, 235 Triceratops 19, 26, 86, 211-212, 214-215 – horridus 211, 215 Trilophosaurus 136-137 Troodon 99, 129 Troodontide 23 Tsintaosaurus 226-227

Terremoto 56, 220, 233, 235

Tuojiangosaurus 175

Testuggine 81, 127, 136, 148, 177, 184, 187, 220, 228

Turanoceratops 212

Tetanuri 97, 152-153 Tethyshadros insularis 222-223

Tyrannosaurus 25, 28, 87, 93-94, 98-99, 122, 192-194, 197, 214 – rex 28, 93-94, 126, 192-194, 197

Tetide 52, 132, 146, 156, 179, 223 Texas 46-47, 155 Thecodontosaurus 14 Theiophytalia 171 Therizinosaurus 200 – cheloniformis 200 Thescelosaurus 219

252

Torvosaurus 156

Thotobolosaurus 142 Thrinaxodon 138 Thulborn, Richard Antony 170-171 Ticinosuchus ferox 87 Tilgate Forest 11 Tirannosauro 25, 41, 43, 49, 83, 88-89, 98-99, 117, 121, 123, 127, 138, 184, 192-194, 196-197, 200, 202, 207, 215, 219

Uccello 10, 15, 17-18, 21, 23, 26-29, 4142, 46, 50, 58, 61, 67, 77, 80-81, 84, 86-87, 92-94, 97-99, 101-102, 105-107, 109-110, 113-119, 126-128, 132, 138, 140, 145, 148, 153, 158-161, 166, 170, 177, 182, 184-185, 198, 201, 203, 218, 228-229, 242 Udanoceratops 210 Ultrasaurus 166 Unghione 20, 121, 123, 168, 184, 200 Università del Wisconsin 11 Università di Cambridge 56-57 Università di Liegi 220 Università di Parigi 120 Università di Tubinga 21 University College di Londra 166

Tataouinea 169

Tirannosauroide 27-28, 99, 158, 177, 193, 195-197

Taxidae 134

Tireoforo 97, 103, 170-171

Taxodium ascendens 149

Titanoceratops 215

Taxus baccata 134-135

Urali 179

Tecodonte 81, 84

Titanosauro 24, 101, 127, 129, 166-167, 204-205

Tempo di dimezzamento 36

Tito 205

Ussher, James 9

Tendaguru 22, 149, 163

Todesco, Giovanni 190

Utah 31, 39, 155, 192

Tendine 20, 41-42, 86, 102, 104, 170,

Torosaurus 26, 95, 177, 215

Utahraptor 203

INDICE ANALITICO

Universo 9, 30 Uovo 22-23, 33-34, 43, 47, 50, 67, 7172, 74-75, 77-78, 99, 124, 127-129, 136, 156, 185, 201, 205, 210, 228-229 Uranio 9, 36

Valle del Neckar 21

Voltziales 131

Yangchuanosaurus 155

Vectisaurus 223

Volvox 64, 66

Yucatan 232, 234

Vegetale 30, 33, 35, 38, 51, 53, 66, 72, 89-90, 100-102, 113-114, 127-128, 131, 134, 147, 149-150, 159, 163, 165, 168, 171, 182-183, 185, 200, 217-218, 220, 224-225, 228-229, 238, 240 Velociraptor 23, 27, 44-45, 99, 203 Velocità 9, 26, 33, 48, 56, 62-63, 83, 99, 118-119, 192-193, 198-200, 203, 218, 233, 240

Yutyrannus 197 Walker, William 186 Washington 172, 237 Waterhouse Hawkins, Benjamin 156, 220 Wegener, Alfred L. 52-54 Whitaker, George 140 Williamsonia 135

Veneto 138

Williamsoniella 135

Vertebrato 5, 18, 20, 25, 27, 30, 45, 6774, 79, 81, 90, 92-94, 99, 101, 105, 109, 113, 117, 134, 147-148, 156, 170, 177, 183, 189-190, 199, 201

Witmer, Lawrence 166

Vertebra 13-14, 17, 20, 74, 77, 83-84, 86, 90, 101-102, 116, 136, 159-160, 162163, 167-169, 172, 189, 193, 200, 202, 205, 207, 214, 216, 218, 221-222, 224

Woodhouse, Mary Ann 11-12, 220 Wuerhosaurus 175 Wyoming 19-20, 155, 158, 167, 211, 215

Zalambdalestes 185 Zampe 10, 14-15, 17, 20, 41, 48-49, 67, 69-72, 81-84, 86-87, 89, 92, 101, 104, 117, 123, 136, 138, 140-142, 156, 161, 163, 165-168, 172, 175, 184, 190, 192, 194, 196, 199, 202, 204, 206, 215, 221, 223-225 – anteriori 20, 41, 48-49, 83, 86, 166, 175, 196, 215 – posteriori 15, 48, 81-84, 87, 104, 123, 138, 142, 161, 166, 192, 194 Zanella, Angelo 152

Xenoceratops 215

Zigongosaurus 162

Xing, Xu 28

Zuniceratops 212

INDICE ANALITICO

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CREDITI ICONOGRAFICI Capitolo 1 ©Shutterstock: Morphart Creation 11, 13, 14a; Andreas Wolochow 12a; Tricia Daniel 15; JuliusKielaitis 16b; Everett Historical 18a; lcrms 20; Elenarts 24; Danny Ye 25a; Kathy Hutchins 25b; Herschel Hoffmeyer 26; Akkharat Jarusilawong 28, 29a. ©123rf: Georgios Kollidas 8; Kevin Carden 9; natursports 17. ©Alamy/IPA: Art Collection 2 10a; ART Collection 12c; Science History Images 12b; Arterra Picture Library / Clement Philippe 21; Natural History Museum, London 22; Yuriy Priymak / Stocktrek Images 23; Q-Images 27. ©GettyImages: phototropic 10b. ©CreativeCommons 14b, 16a, 18b, 19. Archivio Giunti/Davide Bonadonna: 29b. Capitolo 2 ©Shutterstock: Alizada Studios 32; Matteo Fes 33b; Marisa Estivill 34a-5; Martin Leber 34b; Sekar B 37a; Karol Kozlowski 37b; Daniel Eskridge 44-5; W. Scott McGill 47a; Computer Earth 50b-1; Vitalii Matokha 56. ©123rf: Alexey Fedorenko 50a.

254

©Alamy/IPA: Natural History Museum, London 40; Granger Historical Picture Archive 53b. ©GettyImages: Peter Unger 31; Lowell Georgia/National Geographic 39; Getty Images Europe 43; De Agostini Editorial 46; Corbis Documentary 55. ©Science Photo Library/AGF: Natural History Museum, London 33a, 38. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 30, 41, 42a, 47b, 48-9. Capitolo 3 ©Shutterstock: r.nagy 58; IanRedding 59b; urfin 62a; sciencepics 62b; Jarous 63; 3d_man 64b; Nicolas Primola 67, 69, 70a; MarcelClemens 71a, 71c; Rachasie 71b; Atypeek Dsgn 72; Morphart Creation 73a; servickuz 73b; Sophie Leguil 73c; hjochen 74b; Valerio Pardi 74a-5a; Dr Morley Read 75b; Thorsten Spoerlein 75c; BlueBarronPhoto 76a-7a; Dmitry Pichugin 76b; caorarua 76c-7c; siloto 77b; Heiko Kiera 78a; Matt Jeppson 78b; buteo 78c; Yudho W 78d; FJAH 79b; Gaschwald 79c; Dinoton 80a; Daniel Eskridge 80b. ©123rf: Sergey Nivens 59c; Razvan Cornel Constantin 60; William Roberts 68a;

Artur Maltsau 68b; Nina Demianenko 79a. ©Alamy/IPA: Universal Images Group North America LLC / De Agostini Picture Library 66; Sabena Jane Blackbird 70b; Science History Images/Photo Researchers 73d. ©Science Photo Library/AGF: Gerd Guenther 65; Ken Lucas, Visuals Unlimited 83. ©Nature Picture Library/Contrasto: Kim Taylor 59a. ©Contrasto: Courtesy Everett Collection 61a. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 64a, 82, 85a-b, 86-7. Capitolo 4 ©Shutterstock: luisrsphoto 88; Liub Shtein 89a; Artur Balytskyi 90; Danny Ye 91; Kriengsak Wiriyakrieng 93; K. Nakao 94a; Linda Bucklin 94b-5; Cynthia Chotvacs 101a; Reimar 104. ©123rf: Michael Rosskothen 98; Linda Bucklin 100a; Leonello Calvetti: 100b-1b; yelo34 102a; jewhyte 103; Paul Looyen 106a; Ross Taylor 106b. ©Alamy/IPA: The Picture Art Collection 89b; Mohamad Haghani 99 H. Kyoht Luterman / Stocktrek Images 102b; Natural History Museum, London 105; MARK GARLICK / Science Photo Library 107. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 92.

Capitolo 5 ©Shutterstock: David Osborn 108-9c; Jane Rix 112a-3 Reimar 119; longtaildog 122b; Paulo Miguel Costa 125a; Ariane Ribbeck 125b; Torsten Pursche 126; Di Maksim Shchur 128a. ©123rf: Rudmer Zwerver 109a; Sergei Uriadnikov 109b; Corey A Ford 114. ©Alamy/IPA: Natural History Museum, London 118; Mohamad Haghani / Stocktrek Images 120. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 110-1, 112, 115, 116b, 117, 121, 123-4, 127, 128b, 129. Capitolo 6 ©Shutterstock: Mila Kananovych 132a-b; Gianluca Piccin 133; Alizada Studios 136a; wowik 142c. ©Alamy/IPA: Sergey Krasovskiy / Stocktrek Images 141b. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 130-1, 134-5, 136b, 137, 138-9, 126, 127a, 142, 143. Capitolo 7 ©Shutterstock: CherylRamalho 146a-7; Mila Kananovych 146b; Lapis2380 148a; Alberto Loyo 148b; KingTa 149a; PatriciaGR 149b; guentermanaus 149c; Holly Guerrio 149d; boroda 149e; Vahan Abrahamyan 149f; Jarno Holappa 149g; kirillov alexey 149h; Tarashevskiy 149i; MarcelClemens 149l;

Michael Rosskothen 156b; AuntSpray 158b; Daniel Eskridge 159a; Wlad74 160b; Elenarts 161b; Catmando 165b; Warpaint 167b; Elenarts 169a; Catmando 174b. ©123rf: Elena Duvernay 150-1; Mark Turner 171b, 175a. Archivio Giunti/Davide Bonadonna: 154b. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 144-5, 152, 153, 154a, 155a-b, 156a, 157, 158a, 160a, 161a, 162, 163, 164, 165a, 166, 167a, 168, 169b, 170, 171a, 172, 173, 174a, 175b. Capitolo 8 ©Shutterstock: Gestur Gislason 178-9a; Mila Kananovych 179b; Sean Lema 180a; Dirk M. de Boer 180c; Creative Travel Projects 180b-1a; Don Mammoser 181c; Weltenbaum LLC 181b; chanwangrong 182a; David Havel 182b; Nuntiya 183a; Tatiana Grozetskaya 183b; Cbenjasuwan 183c; servickuz 183d; Agnieszka Bacal 184; Ty King 185a; Angela N Perryman 185b; kamomeen 187b; Puwadol Jaturawutthichai 193a; jdross75 200b; Daniel Eskridge 201b, 208b, 225b; Michael Rosskothen 203b; EcoPrin 207a; Goran Bogicevic 209b; Herschel Hoffmeyer 214; Catmando 218, 226a-7a; salajean 223; Jose Angel Astor Rocha 227b.

©Alamy/IPA: Nobumichi Tamura / Stocktrek Images 190; Alice Turner / Stocktrek Images 221. Archivio Giunti/Davide Bonadonna: 188-9a, 191c, 199, 205a, 222b. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 176-7, 186, 189, 192, 193b, 194-8, 200, 202, 203, 204, 205b, 206, 207, 208a, 209a, 210-3, 215, 216-7, 219-20, 222, 224, 225a, 226b, 227c. ©Luciano Parisi: 187, 191a, 201, 218. Capitolo 9 ©Shutterstock: Songquan Deng 229; AuntSpray 232a; Massimo Discepoli 234-5a; Nataliya Nazarova 235b; Wolfgang Simlinger 235c; Christopher P McLeod 240; Nagel Photography 241; Rui Serra Maia 242-3. ©123rf: Aliaksei Marchanka 230; Vadim Sadovski 231; 1xpert 232c; belikova 239a. ©Alamy/IPA: Pictorial Press Ltd 228; Spencer Sutton / Science History Images 232b. ©CreativeCommons: 237. ©Stefano Maugeri/Claudio Pasqualucci: 233, 238, 239b. Immagine a pagina 236 tratta da Naturschönheiten der USA di Andreas Seipelt (Schroll)

©123rf: Alessandro Zocchi 191b.

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