Dino Risi. Il sorpasso. Ediz. illustrata 8871806557, 9788871806556

È difficile parlare del "Sorpasso" senza fargli torto. Raccontare dello spessore della leggerezza di Risi senz

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Dino Risi. Il sorpasso. Ediz. illustrata
 8871806557, 9788871806556

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Universale / Film 31

© 2002 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Seconda edizione: aprile 2007 ISBN 978-88-7180-???????

Mariapia Comand

DINO RISI IL SORPASSO

DINO RISI IL SORPASSO

Grazie a Francesco Casetti e a Leonardo Quaresima che hanno visionato lo scritto. Per l’aiuto nel reperimento di alcuni materiali ringrazio Aldo Grasso, Paolo D’Agostini e Fabrizio Natalini.

Prefazione

È difficile parlare del Sorpasso senza fargli torto. Raccontare dello spessore della leggerezza di Risi senza cadere nella declamatoria che tanto accuratamente il regista ha sempre evitato. Descrivere i sentimenti contraddittori e potenti che si muovono dietro il cinismo goliardico di superficie, occultati dal gusto salace, genuinamente infantile, irresistibile dello sberleffo. Rintracciare la presenza di un cineasta il cui timor di retorica o lo sguardo mai compiaciuto di sé, tende istintivamente a occultarsi. Parlare del Sorpasso vuol dire produrre una teoria inarrestabile di ossimori. Perché Dino Risi ama i suoi personaggi anche quando sono imperfetti o addirittura sgradevoli e comunque non propriamente politically correct. Così come ama il tempo in cui vive anche se ha intuito, prima di altri, l’imbarbarimento dei costumi e delle emozioni, senza però mai giudicarli, anzi esaltandone paradossalmente i colori vitali. E ama il cinema senza complessi, rifuggendo con ironia la spocchia d’autore. Eppure Risi è Autore, inequivocabilmente Autore nella capacità del suo «dire per im-

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magini», nella felice ambiguità del suo «guardare» alle cose. Ed è con la stessa libertà di pensiero (anche critico) che Il sorpasso va rivisto, senza pregiudizi teorici né pregiudiziali analitiche. Parlare del Sorpasso è difficile anche perché è un film molto amato. E le battute folgoranti ma anche certi struggenti controcampi silenziosi, l’allegria che si respira così subitaneamente malinconica e naturalmente la prepotenza solare di Bruno Cortona, così come l’esitazione del vivere di Roberto Mariani, restano, anche oggi, momenti di cinema – di culto – mai «sorpassati».

«Il sorpasso» e la commedia del boom

La commedia del boom, la forma più pura di commedia all’italiana, occupa il periodo compreso tra il 1958 e la prima metà degli anni ’60 e storicamente coincide con il miracolo economico italiano, di cui racconta la fase ascendente (conclusa nella prima metà degli anni ’60), la cieca euforia, i luoghi (comuni) e i novelli status symbol, ma anche le prime vaghe nevrosi che già iniziano a inocularsi sottopelle nel tessuto sociale, politico ed economico nazionale. Da un punto di vista cinematografico l’esordio di tale commedia viene fatto coincidere con l’uscita di I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, che è generalmente indicato come il prototipo del genere 1, di cui contiene molte delle caratteristiche narrative e stilistiche tipiche: una certa eleganza espressiva (ravvisabile nella splendida fotografia di Gianni Di Venanzo), la cura in fase di sceneggiatura e la ricerca di un linguaggio dinamico (evidente nella scelta del commento sonoro del jazzista Piero Umiliani), esprimono una presenza in qualche modo autoriale o comunque cinéphile (intuibile nell’omaggio al cinema muto, presente nel film

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attraverso le didascalie che incorniciano la vicenda) che innesta su formule di genere consolidate i germi della modernizzazione. Si tratta pur sempre di un atteggiamento scanzonato e canzonatorio, ma che trasuda comunque certe frequentazioni intellettuali e ideologiche e un comune modo di guardare alle cose. I soliti ignoti conquista una nomination all’Oscar come migliore film straniero; La grande guerra, sempre di Monicelli (1959), guadagna l’anno successivo il Leone d’oro al Festival di Venezia; è noto il successo, anche internazionale, di Il sorpasso (il cui titolo della versione americana, Easy Life, pare abbia addirittura influenzato il Dennis Hopper di Easy Rider, del 1969). Riconoscimenti, premi nazionali e stranieri ratificano la capacità creativa e autoriale del cinema italiano di genere del periodo, su cui oramai anche la letteratura concorda: «Con La grande guerra la commedia entra in terreni riservati alla produzione alta, partecipa delle tensioni e dello sviluppo linguistico ed espressivo e va a costituire una linea mediana del sistema. Gli eroi della commedia indossano vecchie e nuove maschere, ma impongono alle loro scelte un carattere di indicazione etica anche nei confronti del pubblico. Le miserie e gli stracci sono lontani: i protagonisti popolari dell’Italia alle soglie del boom si muovono entro nuovi scenari, hanno nuove capacità linguistiche e s’adattano presto alla nuova condizione di benessere. La commedia è la via più rapida e meno sofisticata per raccontare l’ingresso nella modernità. […] La commedia rivendica il suo diritto a essere considerato prodotto d’autore. [...] Senza celebrare il boom, registi e sceneggiatori ne osservano al microscopio le trasformazioni prodotte nel territorio e nei

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comportamenti. [...] Importante diventa l’apparire: il cinema degli anni ’60 racconta la messa in scena di un’opulenza illusoria, costruita sulle sabbie mobili. L’italiano popolare, il piccolo e medio-borghese, mimetizza sempre più le proprie povere origini ed entra di slancio nella civiltà dei consumi. Il nuovo status non gli impedisce di accorgersi che la rapidità del mutamento è stata eccessiva, il cammino alle sue spalle è disseminato di rovine sentimentali e il benessere economico è raggiunto al prezzo del deserto affettivo e alla rinuncia di non pochi ideali e valori» 2. Il sorpasso si inserisce in questo contesto e spesso ne è stato considerato l’espressione più perfetta 3. Vi sono infatti alcuni elementi tematici ricorrenti nella commedia del boom, la maggior parte dei quali trovano una traduzione assai nitida nel film di Risi.

L’odissea della commedia del boom Il tema del viaggio, che domina il genere, rappresenta la facile metafora di una ricerca d’identità che fatica a ricomporsi, perduta e confusa nel mare magnum delle trasformazioni epocali che investono quel periodo italiano. È veramente sorprendente notare, ad esempio, in quali e quante diverse declinazioni (narrative o allegoriche) il tema del viaggio si insinui nella prima commedia all’italiana. A volte il viaggio è un tema che dà forma e sostanza all’intero film, come nel Sorpasso ma anche in molte delle commedie resistenziali dell’epoca: è il caso del già citato La grande guerra, Tutti a casa (1960, di Luigi Comencini), La marcia su

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Roma (1962, di Dino Risi). In altri casi il tema del viaggio rappresenta il detonatore diegetico della vicenda, come accade per Crimen (1960, di Mario Camerini), Il federale (1961, di Luciano Salce), Il mafioso (1962, di Alberto Lattuada), La voglia matta (1962, di Luciano Salce), Gli anni ruggenti (1961-1962, di Luigi Zampa), Il gaucho (1964, di Dino Risi). Altrove si tratta di un viaggio simbolico nella memoria (Divorzio all’italiana, 1961, di Pietro Germi; L’attico, 1961, di Gianni Puccini) o nel tempo (Una vita difficile, 1961, di Dino Risi) o anche nel sogno (L’impiegato, 1959, di Gianni Puccini). Eppure capita di frequente che nonostante questo frenetico «ipercinetismo» il genere sembri risentire di una certa sostanziale inazione, poiché molte delle vicende si concludono con un nulla di fatto (molte addirittura si rannicchiano su se stesse, ritornando al punto – se non altro geografico – d’avvio), facendo spesso coincidere lo status ad quem e lo status quo narrativi; o perlomeno si assiste a una trasformazione che agisce più sui caratteri dei personaggi che non sugli eventi. Così accade nel Sorpasso, dove nessuno degli obiettivi iniziali viene centrato (Roberto, ad esempio, non raggiungerà Valeria a Viareggio né riuscirà a tornare a Roma). Ai margini di questi viaggi e spesso attraverso di essi, s’incontrano sempre le stesse facce e gli stessi posti, luoghi pubblici in cui esplodono l’ebbrezza e la malinconia collettive e lo scivolamento dell’una nell’altra, in un tracimare emotivo che è una delle connotazioni passionali del genere. Come è stato osservato 4 uno di questi scenari prediletti sono le spiagge, preferibilmente quelle formicolanti e colonizzate dagli ombrelloni, dai riti del consumismo, dall’im-

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perativo categorico al divertimento di massa, della riviera adriatica (Ombrellone, 1965, di Dino Risi), della Versilia (Il sorpasso), del litorale romano (Il giovedì, 1963, di Dino Risi), dove floridi commendatori e traboccanti bikini esibiscono irrefrenabili desideri narcisistici annegati nell’euforia generale. La dialettica tra l’individualità e il gruppo sociale che prende forma così vividamente nella spiaggia, è nel Sorpasso particolarmente evidente. «Gli individui […] vengono bruscamente travolti dal “tutti”, come attesta la sequenza balneare del Sorpasso. Non avendo trovato una sistemazione migliore, Gassman e Trintignant sono andati a dormire in riva al mare, e sulla spiaggia silenziosa e deserta si scambiano persino qualche confidenza notturna. Ma una brusca dissolvenza incrociata ci porta al mattino dopo, ferragosto, con le canzonette a tutto volume, le sedie a sdraio straripanti di corpi, e Gassman che viene risvegliato non dalla brezza mattutina ma da una pallonata in testa. È l’invasione del “tutti”, che entra violentemente nel campo privato dei due protagonisti, provocando opposte reazioni: Gassman, maestro dell’integrazione, si adegua subito al nuovo clima, e dopo pochi minuti è già al centro dell’attenzione generale, come se fosse su quella spiaggia da sempre; Trintignant, modello perfetto di asociale, resta in camicia e pantaloni per tutta la sequenza. Il modo in cui Risi svolge la sequenza balneare del Sorpasso è tipico di quegli anni: un’introduzione folgorante, uno sguardo d’insieme sulla spiaggia-carnaio (preferibilmente dall’alto), una serie di piccoli aneddoti e curiosità» 5. E quel senso di inquietudine che serpeggia – offuscata dal solleone – tra la folla dei bagnanti, spesso si manifesta

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con virulenza durante le feste (Una vita difficile; Il gaucho; I complessi, 1965, episodio «Una giornata decisiva» di Dino Risi), nelle sale da ballo o nei nightclub alla moda. In qualche modo faccia notturna e speculare della spiaggia, il party ne costituisce il lato oscuro, luogo dove le irrequietezze segrete o rimosse (ma pur sempre presenti) si allungano, si distendono, si tendono, infine esplodono nel climax drammatico. Nel Sorpasso i due protagonisti sono sia spettatori che attori di feste. Nel primo caso, quando per la prima volta davvero complici irridono una festicciola paesana incontrata casualmente durante il loro viaggio e osservata, dall’auto, sul ciglio della strada (sotto di loro, visivamente e metaforicamente); è una sagra all’aperto, tra le lampadine penzolanti sugli alberi che alla bell’e meglio illuminano la notte e la piccola gente di pessimo gusto che balla sgangheratamente: una fiera gioiosa dei «poveri ma belli», fiera del passato rurale, del «volemose bene» genuino e un po’ kitsch, dei divertimenti semplici lasciati alle spalle dalla borghesia «arrivata». Che invece si celebra durante il ritrovo notturno al Cormorano Night Club, locale trendy della riviera toscana, emporio dei look appariscenti, delle mise ricercate, dei drink esotici e abbondanti, dei facili business. Eppure, e nonostante lo sfolgorio, è proprio qui che la sfrontatezza di vita paga il proprio conto e un sorpasso avventato (a una Seicento!) scatenerà il pandemonio, causerà una rissa, impedirà il buon esito degli affari e l’allontanamento dei due: stracciati, sconfitti, soli. Così succede nella commedia del boom: i luoghi dell’euforia, per definizione deputati al divertimento (la spiaggia, i night) spesso di colorano di tinte fosche. Ma ac-

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cade anche il contrario e proprio in virtù di quella capacità di capovolgimento dell’esistente che è propria del genere, i luoghi per definizione «tristi», come la galera (I soliti ignoti) o i funerali (ancora in I soliti ignoti ma anche in Il vedovo, 1959, di Dino Risi o in Divorzio all’italiana) assumono toni comici o grotteschi. Ma sempre, il luogo comune nella prima commedia all’italiana, costringe il piccolo protagonista del boom a un confronto difficile con il proprio contesto sociale, quello del miracolo economico: ed esiste un luogo che più di altri incarna questa competizione strisciante, cioé l’autogrill, territorio eletto della modernità massiva che abbandonata la stabilità dei propri riferimenti tradizionali, imbocca la strada dinamica e vacillante della contemporaneità. L’autogrill – «non-luogo» per eccellenza e luogo comune per antonomasia – è la metafora toponomastica più eclatante dell’identità fantasmatica, collettiva e materialistica nella civiltà del boom. Così felicemente raccontato in «Il pollo ruspante» di Ugo Gregoretti (episodio di Ro.Go.Pa.G., 1963, di Roberto Rossellini, Ugo Gregoretti, Jean-Luc Godard e Pier Paolo Pasolini), come pure, ancora una volta emblema lucidissimo del genere, nel Sorpasso, dove la speranza di poter spegnere la sete (con la benzina, con le sigarette, l’aperitivo o l’attenzione della cassiera) si risolve in una nuova frustrazione (per Roberto, che resta imprigionato nella toilette). Come sempre succede ai protagonisti della prima commedia all’italiana, i quali inanellano una frustrazione dietro l’altra, una sconfitta dietro l’altra, una sequela inarrestabile e inevitabile di insuccessi. Perché, alla fin fine, gli eroi della commedia del boom han-

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no sempre le solite facce, indossano gli stessi abiti un po’ logori, quelli dei cantori dell’italian easy way of life nata sull’onda della golden age nostrana di cui rappresentano in realtà i «grandi esclusi», i guitti che arrancano più o meno vistosamente nell’arte di arrangiarsi, i parassiti del miracolo che mirano a partecipare al luculliano banchetto senza riuscirvi e dovendosi accontentare delle poche briciole che avanzano dalla spartizione della torta degli «altri». Così Sordi (in Il boom, 1963, di Vittorio De Sica o in Il maestro di Vigevano, 1963, di Elio Petri, solo a titolo esemplificativo) o Gassman (nel Sorpasso come pure in Il gaucho) disegnano ritratti che riportano a un’unica fisionomia sociale, già così splendidamente delineata nella carrellata dei caratteri di I soliti ignoti. E per accentuarne il tratto dominante attraverso il conflitto dialettico (tra il protagonista perdente e l’inevitabile vincente di turno), enfatizzando in questo modo la connotazione fallimentare, la commedia del boom dissemina qua e là figure di deuteragonisti superegoici. Che poi queste figure assumano forme differenti, poco importa: se il protagonista è un podestà ci sarà uno spietato ispettore (Gli anni ruggenti); se è un maestro, un crudele preside (Il maestro di Vigevano); se uno spiantato, un danaroso e sarcastico «commenda» (Il sorpasso); se un marito, una moglie aguzzina (Il vedovo); se un padre sconsiderato, un figlio comprensivo (Il sorpasso) o virtuoso (Il giovedì); se un cittadino comune, sarà la «gente» il suo giudice impietoso (come accade in tutta la filmografia di Germi). Si sa da subito come va a finire la commedia del boom, perché è sempre impregnata di umori di minaccia, di «spade di Damocle» sospese pericolosamente sulla materia

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narrativa, elementi perturbatori che possono deflagrare da un momento all’altro; piccoli o grandi campanelli d’allarme che non fanno altro che rendere più ineluttabile quell’elastico patemico che è il genere in senso proprio. Finché succede l’irreparabile, come nel Sorpasso. Ma ancora prima, c’è sempre «qualcosa che sta per accadere»: identità che possono essere scoperte (Gli anni ruggenti), verità che possono venire a galla (Il commissario, 1962, di Luigi Comencini), crimini che stanno per essere commessi (Divorzio all’italiana, I soliti ignoti, Il vedovo, Il mafioso), tracolli economici sul punto di scoppiare (Il boom). E scoppi improvvisi ci tengono costantemente all’erta, facendoci sobbalzare sulla poltrona: scoppi di pioggia (Il giovedì, I complessi), di risa (sguaiate come in Il boom), di armi (Sedotta e abbandonata, 1964, di Pietro Germi), di campane (Sedotta e abbandonata o Divorzio all’italiana), di proiettili (I compagni, 1963, di Mario Monicelli), di ordigni esplosivi (I mostri, 1963, episodio «L’oppio dei popoli» di Dino Risi). E di clacson, come nel Sorpasso. Perché tutto può precipitare da un momento all’altro, tutto può capovolgersi, quando ci si muove ai margini, quando si vive sul ciglio di un burrone. È un niente scivolare giù.

La commedia del boom: una vita in bilico Ma questa «vita in bilico» che è tipica della commedia del boom, questo scivolare da una dimensione all’altra – che assume colorazioni diverse (patemiche e narrative) –

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investe il genere anche in senso più ampio, impregnandolo di fragranze e aromi intertestuali e di presenze intermediali, attraverso cioè citazioni, allusioni, ammiccamenti ad altri film o generi oppure con echi di altri linguaggi. Si ha talvolta, guardando queste commedie, la sensazione di precipitare in un genere diverso rispetto a quello proprio di appartenenza. Davanti a Sedotta e abbandonata sembra a tratti di essere catapultati dentro a un western (di trovarsi in un luogo di nessuno, un novello Sud, nostrano West, in cui la partita tra il bene e il male è ancora tutta da giocarsi); in Il mafioso si muovono personaggi e logiche che arrivano direttamente dal gangster-film (con tanto di cappelli a tesa, sigari che rendono biascicata, enigmatica e temibile ogni parola pronunciata a denti stretti, sgargianti gessati indosso a figuri oscuri, sparizioni e apparizioni improvvise, pistolettate contro il malvivente di turno inschiumato ad arte dal correo barbiere e così preparato per l’esecuzione capitale); e che dire del delitto preparato e cadenzato dallo scandire di lancette, così angoscioso nel thriller e così solennemente deriso attraverso applicazioni maldestre in Il vedovo o in I soliti ignoti? Anche Il sorpasso – pur essendo pienamente una commedia all’italiana – mutua l’archetipo del viaggio, ma senza la solennità edificante del western e con una lievità (in realtà apparente) assai poco «road-movie». Dietro a queste commedie c’è spesso la visione – disincantata, canzonatoria – di tanto cinema. È celebre la battuta del Sorpasso rivolta ad Antonioni, quando Bruno chiede a Roberto: «L’hai vista L’eclisse? Io ci ho dormito, una bella pennichella! Bel regista Antonioni, c’ha una Flaminia Za-

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gato. Una volta, sulla fettuccia di Terracina, m’ha fatto allungà il collo». Risi ironizza su Antonioni e così esprime la sua idea di cinema. Perché questi prestiti intertestuali, che spesso cercano la via parodica, permettono di testualizzare un conflitto fra modellizzazioni del mondo tra loro discordi. La commedia del boom – attraverso il connotato intertestuale – irride l’assiologia enfatica e celebrativa del cinema hollywoodiano per esempio o la retorica magniloquente di certo cinema «alto». Prende un dispositivo ideologico – come il genere ma non esclusivamente – e lo motteggia, rovesciandolo. Ma tutto ciò avviene cercando la complicità del pubblico su un terreno d’intesa che è assolutamente popular, medio e inter-mediale in senso stretto. Per prendere le distanze (da certa ideologia) la commedia del boom accorcia quelle col proprio pubblico sullo sfondo dei nuovi scenari della comunicazione di massa: il jukebox e le canzonette del Sorpasso, ad esempio, novelle coordinate dell’orizzonte culturale ed esistenziale dell’italiano (vacanziero) medio. O la televisione sempre più presente come fucina di immagini necessarie a riscrivere la mitologia sociale e a costruire un nuovo immaginario in cui consumare simbolicamente nuovi incontri con il pubblico: Cesare Polacco (il celebre ispettore Rock di Carosello) fa il verso a se stesso in L’impiegato , così come Mario Riva in Il vigile (1960, di Luigi Zampa) o il maestro Cutolo in Il commissario , oppure ancora le Kessler (in Il giovedì o in I complessi, episodio «Guglielmo il dentone» di Luigi Filippo D’Amico). Ma se nella commedia del boom la convocazione del piccolo schermo (attraverso le sue star) ha un significato pragmatico, ciò non accade nel Sorpasso dove l’evo-

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cazione della tv – fugacemente nominata da Roberto durante il suo rituale giro di perlustrazione nella vecchia casa d’infanzia, il quale davanti a una porta dice con malinconia: «La stanza dei lettini... adesso la chiameranno la stanza della tv» – acquista il sapore amaro di un presente «lontano» da sé e di un passato rimpianto con un po’ di nostalgia.

Si veda a questo proposito Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese, Roma 1990, p. 41. 2 Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. L’Europa, le cinematografie nazionali, vol. 3 (tomo 2), Einaudi, Torino 2000, pp. 943944. 3 Rileva Claudio Camerini – in Riccardo Napolitano (a cura di), Commedia all’italiana. Angolazioni controcampi, Gangemi, Roma 1985, pp. 179192 –, attraverso la ricognizione delle critiche degli anni ’60, che già allora Il sorpasso veniva indicato come un film di riferimento in questo senso. Tale considerazione sembra essere un dato ormai acquisito dalla letteratura; dice infatti Giacovelli: «C’è tutto eppure non c’è niente di troppo in questo film che rappresenta la commedia all’italiana al suo grado più alto» (Enrico Giacovelli, Un secolo di cinema italiano, 19001999. Dalle origini agli anni Sessanta, Lindau, Torino 2002, p. 262). 4 Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana cit., pp. 114-119. 5 Ivi, p. 117. 1

Il film

Titolo: Il sorpasso Origine: Italia Anno: 1962 Regia: Dino Risi Soggetto e sceneggiatura: Dino Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari Dialoghi: Ettore Scola, Ruggero Maccari Fotografia (b/n, 1 x 1,85): Alfio Contini Scenografia e costumi: Ugo Pericoli Montaggio: Maurizio Lucidi Aiuto regista: Guglielmo Ambrosi Operatore: Maurizio Scanzani Segretario di edizione: Renato Rizzuto Arredamento: Enrico Fiorentini Musiche: Riz Ortolani Canzoni: Guarda come dondolo e Pinne fucile ed occhiali di Rossi e Vianello (cantate da Edoardo Vianello); Per un attimo di Naddeo (cantata da Peppino di Capri); St. Tropez twist di Cenci e Faiella (cantata da Peppino di Capri); Don’t

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Play That Song (You Lied) di Ertegun, Nelson (cantata da Peppino di Capri); Quando quando quando di Renis, Testa (cantata da Emilio Pericoli); Vecchio frac composta e cantata da Domenico Modugno; Gianni di Tassone, Cassia (cantata da Miranda Martino). Edizioni musicali: Simphony Effetti speciali: Aurelio Pennacchia Truccatore: Gustavo Sisi Fotografo di scena: Bruno Bruni Interpreti: Vittorio Gassman (Bruno Cortona), Jean-Louis Trintignant (Roberto Mariani), Catherine Spaak (Lilly, figlia di Bruno), Claudio Gora (Bibì, fidanzato di Lilly), Luciana Angiolillo (Gianna, moglie di Bruno), Luigi Zerbinati (il commendatore), Franca Polesello (moglie del commendatore), Linda Sini (zia Lidia), Bruna Simionato (zia Enrica), John Francis Lane (cugino Alfredo), Mila Stanic (Clara, la ragazza della stazione), Nando Angelini (contadino che balla il twist), Edda Ferronao (ragazza senza valigia a Civitavecchia), Annette Stroyberg e Margaretha Robsam (turiste tedesche), Lilli Dorelli. Produzione: Mario Cecchi Gori (per la Fair Film, Incei Film, Sancro Film) Direttore di produzione: Pio Angeletti Ispettore di produzione: Umberto Santoni Segretari di produzione: Franco Recine, Adriano De Micheli Ragioniere di produzione: Bruno Altissimi Distribuzione: Incei Film Nulla osta: 1.12.1962, divieto ai minori di 14 anni Durata: 106’

IL FILM

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Premi: Premio per la miglior regia al Festival di Mar del Plata del 1963 (Argentina). Nastro d’argento 1963 a Vittorio Gassman (migliore attore protagonista).

La storia della storia

Racconta Risi che l’idea del Sorpasso nacque mentre lui e Sonego stavano lavorando a Una vita difficile 1. L’idea – del road movie allegro e disperato di due compagni casuali di avventura – fu suggerita al regista da un viaggio in auto con un certo avvocato Martello, milanese, patito di macchine e corridore della Millemiglia, il quale gli propose di accompagnarlo a trovare la sorella a Varese e lì, improvvisando le mete strada facendo, arrivarono nel Liechtenstein dove finirono a pranzo alla corte del principe. Nei ricordi del regista a questo viaggio se ne associò un altro, altrettanto veloce e assurdo, da Roma a Maratea, col produttore romano Pio Angeletti, «pessimo guidatore, sorpassi in curva, radio a tutto volume, esplorati cinque o sei ristoranti prima di trovare quello giusto. Fornito – diceva – di una memoria topografica di ferro, si rifiutava di consultare la carta. Arrivati a notte fonda non trovammo l’albergo e dormimmo in macchina aspettando l’alba» 2. «In piccolo era già la storia di Il sorpasso» 3. Racconta Sonego di aver scritto e venduto il trattamen-

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to del Sorpasso a De Laurentiis, pensando di affidare il ruolo del protagonista inizialmente a Franco Fabrizi, «il quale si sentiva confinato da registi e produttori in un piccolo cliché di bello stronzo antipatico» 4 e poi a Sordi, il quale rifiutò; e il produttore «non digerì l’ostinazione di Sordi e così, per ripicca o per affare […] cedette il film a Mario Cecchi Gori» 5. Il passaggio di mano della produzione – da De Laurentiis a Cecchi Gori – provocò anche un cambio di guardia alla sceneggiatura: subentrarono Scola e Maccari e il nome di Sonego non comparve, nemmeno come soggettista, nei titoli di testa. Racconta Scola che lui e Maccari scrissero la sceneggiatura del Sorpasso da soli, «con delle visite di Risi che erano molto importanti però perché […] Risi non è autore di macchina da scrivere e di scrittura ma è autore di dialogo con gli sceneggiatori» 6; «con Risi il lavoro procedeva speditamente, le riunioni con lui erano molto rapide e il lavoro degli sceneggiatori godeva di ampia autonomia. […] L’ottica con cui abbiamo guardato la società del benessere in Il sorpasso faceva parte della nostra formazione. Intendo il “Marc’Aurelio”, dove sia io che Maccari avevamo lavorato, e dove si “inventava”proprio dalla realtà, dalle notizie dei quotidiani, dall’osservazione su ciò che c’era intorno, anche se poi il giornale in sé tendeva più al qualunquismo che alla vera critica e alla vera storia. […] Comunque la tecnica di lavoro era questa, qualsiasi cosa distaccata dalla realtà non veniva accettata, quando portavo vignette che non parlavano di realtà italiana, anche se erano divertenti, mi sentivo dire: “No, in fondo questo è umorismo inglese, dove mai accadrebbe in Italia una cosa così?”. E ve-

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nivano scartate. Questo sistema di lavoro […] ha nutrito noi e lo stesso Sorpasso, che è zeppo di osservazioni sulla realtà, con il personaggio costruito con attenzione ai discorsi correnti, alle notizie fresche. Per esempio il pezzo in cui Gassman dice: “Se due astronavi si scontrano, chi paga?”, lo avevamo scritto in seguito a una notizia letta sui quotidiani pochi giorni prima, che annunciava l’avvio di una branca di giurisprudenza spaziale. Per dire come in noi ci fosse sempre quest’attenzione per ciò che accadeva nel quotidiano» 7. Per quanto riguarda la suddivisione dei ruoli nella sceneggiatura, Scola aggiunge che «durante i mesi di scambio di idee, che precedono la scrittura di un film, si parla molto, si prendono molti appunti, sulle situazioni, sul carattere dei personaggi, sui dialoghi: quindi è sempre difficile individuare la paternità di una scena o di una battuta. Tenendo conto che io a quell’epoca studiavo ancora Legge, forse mi occupai particolarmente del personaggio dello studente, dei riferimenti ai suoi studi, agli esami che sta facendo. E anche il mio carattere è forse più vicino a quello di Trintignant. Il meridionale o è fastidiosamente estroverso o è piuttosto schivo, tendente alla depressione…» 8. In fase di sceneggiatura si definì anche il finale drammatico, inizialmente diverso 9, non solo perché si risolse per l’epilogo tragico della vicenda – che si conclude con un incidente mortale in auto – ma anche per l’identità della vittima, che in un primo momento si era immaginato fosse quella di Bruno Cortona. Racconta Maccari che «tra le varie idee che avevamo sul finale la più giusta, quella su cui è caduta la scelta, è stata quella drammatica perché dava il giusto valore alla storia.

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Certo ci piaceva anche evitare il classico “lieto fine” […] ma non ci ponevamo problemi di “nobilitare” perché sapevamo che il giudizio della critica sarebbe stato ugualmente negativo» 10. Nel frattempo il cast si andava definendo. Abbandonata l’ipotesi di Sordi 11 per la parte del protagonista, il superficiale vulcanico Bruno Cortona, si pensò a Vittorio Gassman (in quel periodo sotto contratto con Cecchi Gori), con una decisione piuttosto audace per l’epoca, perché l’attore, ritenuto essenzialmente una personalità drammatica fino ad allora, aveva interpretato pochi ruoli comici al cinema (alcuni mirabili, come quello di Giovanni Busacca in La grande guerra) e comunque sempre addolcendo o contraffacendo la nobiltà classica della propria fisionomia col trucco (come in I soliti ignoti) o attraverso travestimenti (come in Il mattatore, 1959, sempre di Dino Risi). Liberato dagli orpelli somatici posticci e grotteschi (le orecchie allungate, la fronte abbassata, il naso ammorbidito di I soliti ignoti per esempio) e alleggerito della maschera espressionistica che Monicelli aveva creato per imporlo come attore comico, Gassman nel Sorpasso raggiunse pure nella recitazione – la cui espressività barocca risentiva dell’indole teatrale anche al cinema – la massima naturalezza e asciuttezza possibile, arrivando a indossare perfettamente la «maschera» dell’uomo qualunque. Un uomo qualunque naturalmente sui generis, velleitario, incostante, vitale, euforico e cupo, con una sua dirompente forza d’urto. Per la parte del suo compagno di vagabondaggio – il timido, gentile, controllato Roberto Mariani, ideale contraltare del debordante Bruno – a Risi venne offerto Jean-Louis Trintignant, conosciuto in

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Italia per la sua partecipazione al film di Valerio Zurlini, Estate violenta (1959) ma su cui Risi nutriva qualche dubbio; invece l’incontro de visu12 con il giovane attore francese eliminò ogni perplessità. Racconta Gassman che le riprese – iniziate il giorno di ferragosto del ’62 in una Roma deserta e assolata – durarono «meno di sei settimane, giocando sempre, improvvisando. È costato pochissimo, fatto da un produttore che non ci credeva per niente e che lo odiava. Era costruito su un’idea buona ma con un buon quaranta per cento d’improvvisazione, improvvisazione di buona vena, perché andò bene, c’era un momento felice tra me e Trintignant e fra me e Dino soprattutto» 13. In realtà le perplessità di Cecchi Gori non nascevano tanto dall’idea centrale del film (il viaggio in automobile al contrario rappresentava una realtà così quotidiana in quel periodo italiano che prometteva l’identificazione dell’intera nazione) quanto dalla visione dei giornalieri, visione ovviamente muta e non ancora sonorizzata, che sembrava sconfortante e priva di tenuta narrativa. E invece il ritmo del film ne costituisce uno degli elementi di forza, come pure i dialoghi o la colonna sonora, così attenta al gusto del tempo. Racconta Alfio Contini 14, direttore della fotografia, che l’idea di costruire una storia di personaggi su uno sfondo ben preciso – quello dell’Italia del boom già minata dai primi segnali di inquietudini sotto la patina euforica e lucente del consumismo, portando lo sfondo in primo piano attraverso la narrazione di individualità in qualche modo emblematiche – si tradusse in precise indicazioni registiche, che determinarono quella luce forte e solare del film

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(mantenendo a fuoco il contesto), la scelta di interni perlopiù dal vero 15, l’ostilità verso i primissimi piani e la predilezione per i piani di ripresa che immergessero gli attori nell’ambiente circostante. Anche la scelta del teleobiettivo – e Il sorpasso fu uno dei primi film in cui se ne fece un uso massiccio – rispondeva a questa volontà non solo stilistica ma anche narrativa, di isolare e «rubare» fisionomie, particolari e dettagli e ricostruire attraverso il racconto di essi un quadro d’insieme. Così la storia di Bruno e Roberto diventa la storia di un tempo, di un momento, di una società «sul ciglio». Un orlo che da un momento all’altro può diventare burrone e tragedia, come accadrà nella scogliera di Calafuria 16, luogo dove si consuma l’incidente mortale. Racconta Cecchi Gori, a proposito dell’uscita avvenuta nel dicembre del ’62, che il film «uscì in prima visione al cinema Corso, l’odierno Etoile. Come al solito era un venerdì, il giorno della settimana in cui si facevano le “prime”. L’incasso della serata fu misero. Rimasi di ghiaccio, anche se quei pochi che erano entrati l’avevano giudicato bello e divertente: ma era una consolazione di poco conto. La sera stessa il film fu proiettato ai David di Donatello, in un ambiente completamente diverso, più raffinato, ma neanche lì ebbe un risultato apprezzabile. La sera dopo, il sabato, sempre al Corso, il film incassò 400-450 mila lire, che erano poche anche allora, perché il biglietto costava 500 lire. Il proprietario del cinema, il dottor Marino, già pensava in cuor suo di smontarlo intorno al mercoledì o giovedì successivo. La domenica l’incasso si avvicinò al milione: non era disastroso, ma rimaneva ancora la minaccia dello smontaggio. Il lunedì sera fece un incasso mag-

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giore della domenica: la gente si era passata la voce, il film cominciava a piacere» 17. E nonostante le critiche non fossero entusiasmanti (si veda l’antologia critica), l’ascesa del gradimento del pubblico risultò inarrestabile, tanto che il film incassò in quell’anno più di un miliardo 18, essendo il film italiano più visto del 1962 19.

Dice Risi a questo proposito che il film «non si chiamava ancora Il sorpasso e non finiva allo stesso modo; [...]siamo stati due giorni in giro io e Sonego in macchina, per la campagna romana, parlando di questa cosa». In Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1960-1969, Feltrinelli, Milano 1981, p. 122. 2 Valerio Caprara, Dino Risi. Maestro per caso, Gremese, Roma 1993, p. 91. 3 Tratto da un’intervista televisiva a Dino Risi, all’interno di Storie. Un viaggio nella vita di persone non banali, programma ideato e condotto da Gianni Minà per Rai2. 4 Tatti Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego, Transeuropa, Bologna 2000, p. 147. 5 Sulla paternità del Sorpasso le versioni sono discordanti, come rileva Oreste De Fornari che così ricostruisce la vicenda: «C’è un piccolo giallo filologico intorno al soggetto del Sorpasso, a causa di certe dichiarazioni di Alberto Sordi: “Ero andato da Sonego e gli avevo detto: ‘C’è un diavolo, uno stronzo che ti batte sempre la mano sulla spalla ecc. Uno che conosci, che ti offre l’aperitivo, che ti condiziona perché ti sta sempre appresso... Bisognerebbe cercare di realizzare questo personaggio, perché è un protagonista della vita di oggi in via Veneto, in tutti questi posti un po’ alla moda’. Mentre stavamo in Svezia ci giunse la notizia che Dino Risi stava realizzando Il diavolo e lo chiamava Il Sorpasso... per noi fu molto grave, soprattutto per Sonego che era, diciamo, quello che aveva concepito la cosa. Volevamo veramente intraprendere un’azione legale perché Risi aveva preso l’idea e l’aveva realizzata senza dircelo”. 1

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Sonego conferma con qualche variante questa versione dei fatti, precisando che il soggetto, da lui scritto per Sordi e Gérard Blain e intitolato Il diavolo (“tutto uguale al film, compreso l’itinerario e il finale”) fu offerto a De Laurentiis. Ma Sordi riluttava. Così decisero di partire col regista Polidoro per la Svezia, dove Il diavolo divenne il titolo di un film tra il comico e il turistico sulle disavventure di un maschio latino in libera uscita, fra vichinghe disinibite, pastori luterani, premi nobel, saune miste. In seguito, prosegue Sonego, “Sordi ha protestato con De Laurentiis perché gli hanno levato il più bel soggetto della sua vita. ‘Ti sta bene’ gli ha risposto Dino. Per la cessione dei diritti sul soggetto ci siamo messi d’accordo tra di noi, alla buona, come usa in questi casi”. Risi dà un resoconto differente. “L’idea è mia. Avevo scritto il soggetto e l’avevo venduto a Marcello Girosi, il quale poi l’ha ceduto a Cecchi Gori. È nato da un viaggio che ho fatto con due personaggi straordinari. [...] Avendo pensato a Sordi, mi ero rivolto a Sonego, che era il suo autore. Con Sonego abbiamo chiacchierato per un paio di giorni, non di più”. Poi si optò per Gassman e per il tandem Maccari-Scola. Dal canto suo Cecchi Gori afferma di aver acquistato il soggetto da Girosi, accreditando così la versione Risi, sebbene non sia affatto sicuro che il soggetto fosse stato scritto proprio dal regista». In Oreste De Fornari (a cura di), Il sorpasso: 1962-1992. I filobus sono pieni di gente onesta, Edizioni Carte Segrete, Roma 1992, pp. 13-14. In occasione della redazione di questo volume di De Fornari, Sonego ha recuperato il manoscritto della scaletta del film, di cui De Fornari pubblica un breve stralcio. Sulla questione Scola altrove ha dichiarato: «Il sorpasso era un soggetto di Risi, nato dall’osservazione dei comportamenti di un ispettore di produzione, durante un viaggio per i sopralluoghi di un film [...]. Su Il sorpasso ho letto qua e là strane affermazioni di Sordi e di Sonego, secondo i quali Il sorpasso era un film che avrebbero dovuto fare loro. È vero soltanto che di quella sua idea di soggetto Risi aveva parlato, prima che con noi, con Sordi, pensando a lui come protagonista; ma poi il film non andò avanti, forse perché non interessava a De Laurentiis, forse perché Sordi partì per un altro film: Risi pensò a Gassman e per la sceneggiatura si rivolse a Maccari e a me» (Antonio Bertini, Ettore Scola. Il cinema e io, Officina Edizioni, Roma 1996, p. 53). 6 La dichiarazione è tratta dalla terza puntata di Ciak si scrive, documen-

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tario Rai di Pino Adriano (con la consulenza di Ugo Pirro), dedicato alla sceneggiatura. 7 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano cit., pp. 122-123. 8 Antonio Bertini, Ettore Scola cit., p. 53. De Fornari rileva altre curiosità a proposito della stesura della sceneggiatura: «Per esempio in una prima stesura le due turiste nel cimitero militare tedesco scambiavano battute tra il didascalico e l’improbabile (“Però, quanti! Ma che ci facevano qua in Italia?”, ”Mah! Una generazione ottusa, senza fantasia. Non trovavano di meglio che fare la guerra e schiattare”, “Per dar retta a quel matto coi baffetti. Come si chiamava?”, “Hitler, Himmer, boh!”) [...]. Ma poi quelle battute sono state cancellate con un tratto di penna; è rimasto solo, a suggerire la memoria corta della nuova generazione, “Però, quanti! Ma che ci facevano qua in Italia?”, a sua volta sparito in fase di riprese», in Oreste De Fornari (a cura di), Il sorpasso: 1962-1992 cit., p. 37. 9 Risi afferma che le prime discussioni di sceneggiatura non prevedevano il finale che poi ebbe il film e ipotizzavano che Trintignant si ribellasse a Gassman e il corruttore morisse; in Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano cit., p. 123. Sonego sostiene che «l’amore che portavo al mio film mi fece convincere Dino Risi, il quale in un primo tempo non se l’era sentita nemmeno lui, di girare il finale previsto, lo schianto»; in Tatti Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego cit, p. 148. Sempre a proposito del finale, dice Scola che «nelle conversazioni con Dino, una delle possibilità che valutammo per il finale era che il “timido”, contagiato da quella cicala implacabile, trovasse un migliore contatto con la realtà, con la gente, con le ragazze, acquistasse una più sana vitalità: il breve viaggio serviva a maturare questo giovanotto. Ci parve insufficiente e così – scartata l’idea moralistica di far morire il corruttore – venne il finale giusto» (affermazione tratta da Antonio Bertini, Ettore Scola cit., pp. 53-54). 10 Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’Italiana, parlano i protagonisti, Gangemi, Roma 1985, p. 127. 11 Anche in questo caso le versioni non collimano perfettamente, poiché Sordi ha dichiarato che «quando hanno fatto Il sorpasso, io e Sonego eravamo in Svezia a fare Il diavolo. Peccato, è un film molto bello, mi è dispiaciuto non farlo, soprattutto per Sonego. Al ritorno dalla Svezia ci fu l’idea

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di fare causa a De Laurentiis e a Risi, ma poi lasciammo correre»; mentre Risi sostiene che «se Sordi non ha fatto Il sorpasso è solo colpa sua, è lui che ha rifiutato. […] Sordi ha detto no perché sosteneva “questa è una storia in cui io mi do un gran daffare e poi tutto il merito se lo prende quell’altro!”e si è ritirato». Entrambe le dichiarazioni sono tratte da Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano cit. 12 Il primo giorno delle riprese, 15 agosto 1962, Risi ancora non aveva il secondo attore, Trintignant; la sagoma che appare in penombra dietro la finestra, nella prima sequenza, è una controfigura. Vedi Angela Prudenti, Cristina Scognamillo (a cura di), Dino Risi. Maestro dell’equilibrio e della leggerezza, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002, p. 29. 13 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano cit., p. 122. 14 Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’Italiana, parlano i protagonisti cit., p. 54. 15 Nel suo volume De Fornari scrive che la via Aurelia del Sorpasso è in parte autentica e in parte apocrifa: «Tra i set autentici la trattoria Ernestino al tredicesimo chilometro, il ristorante di Civitavecchia e la curva fatale di Calafuria. Quasi autentico il cimitero tedesco nei pressi di Pomezia (a sud di Roma e quindi in direzione contraria al film). Inautentiche la villa degli zii nei pressi di Grosseto, in realtà un castello-casale a Rota, nell’alto Lazio, e la stazione di Castiglioncello, che è invece la stazione di santa Marinella, truccata. L’insegna del night-club “Il cormorano” fu costruita appositamente per il film, con allusione alla rapacità del personaggio Gassman». In Oreste De Fornari (a cura di), Il sorpasso: 1962-1992 cit., p. 12. 16 La sequenza è una delle poche che richiese il ricorso a più di una macchina da presa, poiché normalmente Il sorpasso venne girato con una sola cinepresa. 17 Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’Italiana, parlano i protagonisti cit., p. 37. 18 Più precisamente 1.187.000.000, secondo il dato desunto da Roberto Poppi, Mario Pecorari, Dizionario del cinema italiano. I film. Dal 1960 al 1969, vol. 3, Gremese, Roma 1992. 19 Come si evince da Maurizio Baroni, Platea in piedi: manifesti, numeri e dati statistici del cinema italiano 1959-1968, Bolelli, Roma 1995.

Sinossi

Sequenza 1 Ore 12.00. L’incontro: Roma Balduina. Un uomo percorre – su una rombante Lancia Aurelia Sport supercompressa – le strade della periferia romana deserta e assolata cercando un telefono pubblico che non riesce a trovare; si ferma a bere a una fontanella e alzando lo sguardo nota un ragazzo che timidamente l’osserva da una finestra; gli chiede di usare il telefono, sale in casa, si presenta: così Bruno Cortona finisce nell’appartamento di Roberto Mariani, studente fuori sede di legge impegnato nella preparazione degli esami. Bruno si informa distrattamente degli studi di Roberto (apprende che è di Rieti, provoca con qualche svogliata domanda notizie sulla famiglia del ragazzo, intuisce l’interesse di Roberto per la vicina di casa) mentre inveisce contro gli amici che non l’hanno aspettato all’appuntamento convenuto (per le undici ed è mezzogiorno) e manifesta un certo nervosismo per la prospettiva di un ferragosto solitario o ancor peggio in compagnia della madre. Poi Bruno saluta, esce dall’apparta-

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mento, ma subito risuona e propone un aperitivo a Roberto per sdebitarsi. Roberto nicchia, ma la sua educata gentilezza gli impedisce di liberarsi dell’invadenza vulcanica e smargiassa di Bruno. Sequenza 2 Ore 13.00. L’inizio del viaggio: da Roma a Civitavecchia. La proposta dell’aperitivo si trasforma in invito a pranzo fuori porta (essendo quasi l’una), cui Roberto seppur controvoglia non riesce a sottrarsi. I suoi pensieri vengono sempre contraddetti dalle sue parole. Cortona guida spericolatamente per le strade del centro di Roma e viene multato dal sonoro fischio di un vigile senza neppure accorgersene; Roberto si sente «nelle mani di un pazzo» ma non manifesta esplicitamente la propria preoccupazione. I due iniziano il viaggio alla ricerca di un ristorante che non trovano e nel mentre Bruno racconta di sé («a me la poesia mica me convince tanto, me piace la musica, questo per esempio... questo è forte... è mistico sa’… è ’na cosa che te fa pensà... eh... la musica... a me Modugno me piace sempre... quest’Uomo in frac me fa impazzì... perché... pare una cosa da gnente e invece... ahò... c’è tutto la solitudine, l’incomunicabilità e poi quell’altra cosa quella che vada di moda oggi l’a... l’alienazione») strombazzando il clacson, salutando o insultando passanti, ciclisti e automobilisti che supera. Nel frattempo sono fermati da un prete mentre inseguono due ragazze tedesche in macchina; nel tentativo di adescare le due straniere, rinunciano alla sosta in una trattoria fuori porta e finiscono in un cimitero, che scambiano per un’abitazione privata: Roberto cerca di dissua-

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dere Bruno dall’entrare ma vanamente. Resosi conto del luogo, Bruno desiste e decide di ripartire. Mentre vanno verso Civitavecchia (dice Roberto: «Sono già le due») la silenziosa diffidenza di Roberto verso Bruno, per la sua guida sconsiderata, per i suoi modi guasconi, non trova voce ed espressione e inizia a incrinarsi. Mentre si fermano vicino a un camion incidentato col suo carico di frigidaire rovesciati, e un corpo coperto a terra, Cortona viene nuovamente multato malgrado l’escamotage truffaldino di esibire sul tergicristallo un segno distintivo della Camera dei deputati. Sequenza 3 Ore 14.00. La sosta: il distributore di benzina. La sosta al distributore di benzina si trasforma per Roberto in nuove occasioni di disagio: è incapace di rifiutare i soldi che Bruno con disinvoltura gli chiede in prestito, inoltre resta inavvertitamente chiuso dentro il bagno dell’autogrill e ne esce, grazie a Bruno, con grande imbarazzo. La spavalderia di Bruno fa vacillare le sue scelte (chiede all’amico: «Senti... perché hai detto che sto sbagliando tutto?»). Ma, nonostante la sua irruenza, anche Bruno è costretto a frustrare molte delle sue ambizioni: la cassiera lo disdegna, le sigarette non si riescono a trovare. Sequenza 4 Ora di pranzo. La prima meta: il ristorante a Civitavecchia. Sulla strada verso Civitavecchia, a causa del pestilenziale fumo del sigaro di un contadino a cui hanno dato un passaggio, Roberto si sente male. Arrivati a Civitavecchia

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Bruno si ferma in divieto di sosta, sfila una contravvenzione da un’auto di fianco («Se non ci aiutiamo tra noi automobilisti!») e l’appoggia sul parabrezza dell’Aurelia. Al ristorante Bruno spadroneggia, visita la cucina, deride due suore che chiedono un’offerta, flirta con il personale, impone a Roberto una zuppa di pesce non gradita; Roberto racconta timidamente del suo amore platonico per Valeria. Dopo pranzo, approfittando della siesta di Bruno (che medita di concupire la cameriera), Roberto, stanco della situazione e dell’attesa, se ne va in cerca di una corriera per andare da dei parenti che abitano in zona; ma Bruno lo raggiunge, lo trova coinvolto in un parapiglia scoppiato alla stazione delle corriere, lo dissuade dal testimoniare contro un ladro, lo trascina via e si offre di accompagnarlo dai parenti. In auto, ridendo in modo complice, Bruno racconta dell’insuccesso con la cameriera. Nel tragitto verso la casa avita Roberto, più rilassato, racconta a Bruno della sua infanzia incantata presso i parenti, dell’amore puerile verso la zia Lidia, dell’adorazione verso zio Michele. Sequenza 5 Pomeriggio. La seconda meta: verso Grosseto, dagli zii di Roberto. Bruno, arrivati a destinazione, sovverte le convinzioni e i ricordi dello studente, guardando alle cose in modo disincantato e smascherando certe realtà percepite diversamente da Roberto; gli fa notare l’omosessualità del cameriere «Occhifino»(e l’evidenza del soprannome, che capovolto suona come «Finocchio») e la paternità del fattore dello spocchioso cugino Alfredo (non figlio dello zio Mi-

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chele ma frutto di una relazione adulterina tra la zia Enrica e il fattore). Roberto guarda al passato e osserva il presente: la triste vacuità dei suoi sogni (la laurea, un lavoro, una moglie devota) si materializza nell’immagine, odiosa e sconfortante, del cugino. Il passato è stravolto dal passaggio di Bruno, il presente è capovolto (coi parenti che mostrano un’incredibile e inimmaginabile affabilità e simpatia per quell’estraneo millantatore e sbruffone), il futuro perde ogni forma, certezza e desiderabilità. Il tempo sembra fermarsi, come il rumoroso lugubre orologio a pendolo che Bruno arresta. Poi guarda l’orologio poiché s’è fatto tardi e sollecita i saluti, riprendendo la strada per Roma. Di nuovo in auto sulla via Aurelia verso Roma, i due si imbattono in una festa campagnola, irridono i balli dei campagnoli e tra le risate il rapporto inizia a sciogliersi e a scaldarsi (dice Roberto: «Capisco che è più facile diventare amico di un estraneo che di un conoscente»). Bruno fa notare che è sera e propone una sosta a Castiglioncello per la cena. L’amico accetta. Nel tragitto Bruno ingaggia un duello stradale con una Seicento. Sequenza 6 Sera. La terza meta: Castiglioncello e il Cormorano Night Club. Arrivati a Castiglioncello, al Cormorano Night Club, Bruno incontra un commendatore con cui è in affari, ma l’imbarazzo per un prestito non onorato lo porta a cercare di rappezzare la situazione andando a cena col commendatore e i suoi amici. Liquida sbrigativamente Roberto il quale va in stazione per prendere un treno per Roma, ma non trovandolo (l’orologio della stazione segna le 22.30 e il

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treno successivo è alle cinque del mattino) e dopo qualche chiacchiera con una ragazza lì incontrata – e scambiata per l’amata Valeria –, ritorna al night. Lì, sedutosi in disparte, osserva Bruno avvinghiato a una bionda, presto interrotto però dagli strepiti degli automobilisti della Seicento, i quali hanno fatto irruzione nel locale in cerca di rivalsa; a causa del parapiglia che si scatena, il commendatore se ne va. I due, stracciati, soli e ormai squattrinati, si attaccano a una bottiglia sopravvissuta al banchetto del commendatore. Sequenza 7 La notte e il giorno dopo. La quarta meta: Versilia, dalla ex moglie di Bruno. Roberto ubriaco guida l’Aurelia indossando un naso posticcio verso la casa di Gianna, ex moglie di Bruno; arrivano a tarda notte, accolti con materna e caustica indifferenza dalla donna. Bruno, incapace di un ruolo paterno tradizionale (che pure improvvisa stigmatizzando l’anziano fidanzato Bibì della figlia Lilly, la quale rientra a tarda ora: «All’una di notte sta ancora in giro?», dice Bruno) e respinto in una patetica avance dalla moglie, decide di non accettare l’ospitalità della sua ex famiglia e di trascorrere la notte in spiaggia con Roberto, scambiandosi confidenze intime (dice Roberto: «Prima di buttarmi mi chiedo sempre dove andrò a cadere, così non mi butto mai, sono un cretino» e risponde Bruno: «Noooo, che cretino, anzi sei in gamba, so’ io che sono un balordo, bé ne riparliamo domani»). Al mattino successivo i due vengono svegliati dai rumori festosi dei bagnanti, da un pallone, dalle canzoni da spiaggia. La giornata trascorre tra le spacconate di Bruno

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(fa sci d’acqua, cerca una puerile rivalsa con Bibì in una forsennata gara a ping pong, sperando di spillargli qualche soldo) e le sue incapacità paterne, e le deboli pressioni di Roberto che vorrebbe ripartire (ma il suo orologio è fermo, crede siano le nove e invece è già l’una passata); infine Roberto telefona a Valeria ma non la trova; i due decidono di andare a Viareggio a cercare la ragazza. Sequenza 8 L’ultimo viaggio: verso Viareggio. In un ultimo folle duello stradale sulla strada, Roberto appare ormai galvanizzato (dice all’amico: «Bruno ho passato con te i due giorni più belli della mia vita»): incita al sorpasso e alla corsa forsennata; e mentre Bruno è impegnato in una serie di sorpassi temerari, tra l’urlo degli pneumatici sull’asfalto e il clacson impazzito, Roberto guarda con un ultimo lampo di preoccupata prudenza il contachilometri, sfiora il corno portafortuna che penzola dal cruscotto e saluta con gesto chiaroveggente un bimbo seduto su un Ape che si allontana. Dietro a una curva, sulla scogliera di Calafuria, l’Aurelia esce di strada: Bruno riesce miracolosamente a saltare fuori dalla macchina e a salvarsi ma l’auto precipita giù dalla scogliera e per Roberto non c’è speranza. Ai poliziotti accorsi che chiedono notizie della vittima, Bruno risponde che si chiamava Roberto ma che non ne conosceva il cognome.

Viaggio nel film. Come Lucignolo e Pollicino, come Huck e Jim, prima di Billy e Wyatt

Il viaggio è nel Sorpasso un viaggio di presa o perdita di co(no)sc(i)enza 1. Sotto la superficie lieve del film si muovono temi, personaggi e situazioni in qualche modo archetipiche, come accade nelle grandi favole 2. Secondo De Fornari ad esempio, «Gassman-Lucignolo induce TrintignantPinocchio a mettere da parte l’abbecedario (i libri di giurisprudenza) e a seguirlo. Gli spilla qualche biglietto da mille (stile il Gatto e la Volpe), lo sottrae all’influsso noioso della famiglia (lo zio sembra proprio un Geppetto), ma al paese dei Balocchi (che è dalle parti di Castiglioncello) Pinocchio, che intanto ha imparato a dire le bugie, non si diverte troppo. Finirà vicino al mare, nel ventre di una balena meccanica, intrappolato. Come per Pinocchio, è possibile leggere nel viaggio di Trintignant un rito di passaggio, un’iniziazione, con tanto di rapimento, discesa agli inferi (la casa degli zii), prove fisico-mondane (si ubriaca, tenta di guidare, di sedurre la piemontese, si ferisce) e di morterinascita finale, qui scambiate di posto: la rinascita-cresci-

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ta, cioé la telefonata a Valeria, la ragazza dei suoi sogni, precede la morte» 3. Che Il sorpasso sia (anche) un viaggio iniziatico è evidente fin dalle prime battute. L’apparizione dei due protagonisti sulla scena sottolinea il loro «essere bambini» – eroi «nascenti» – attraverso l’enfasi sul loro ruolo filiale: Bruno, che nella prima sequenza a più riprese invoca la propria madre 4, guardando una foto sul tavolo di studio di Roberto chiede: «Chi è ’sta cicciona?» e alla risposta: «Mia mamma», corregge: «Ah... bella donna!». Bruno è un Peter Pan bighellone, un piccolo (che si rifiuta di diventare grande) grande vagabondo e il suo viaggio, puerile, fantasioso, ludico, non lo porta da nessuna parte perché in effetti non ha una meta precisa (ma piuttosto tante mete suggerite lì per lì dall’istinto giocoso del momento: «Facciamo che andavamo…»). Il suo viaggiare è semplicemente un’andare. Roberto è un po’ Pollicino, che «tenta invano di tornare a casa affidandosi al servizio pubblico, prima la corriera e poi il treno» 5. Andare per andare o andare per tornare, in ogni caso il viaggio dei nostri Eroi è da subito un viaggio di non-conquista: del ristorante, delle sigarette, né tantomeno delle donne che il Dongiovanni non riesce ad avere o dell’Amore platonico che il timido non riesce a capire, degli affari e dei denari. Ma in fondo né Bruno né Roberto inseguono alcunché con grande impegno, Bruno demorde docilmente davanti ai dinieghi delle donne e agli affari sballati, Roberto abbandona tutto sommato facilmente i suoi studi (e ciò che rappresentano) per uno sconosciuto.

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Viaggio contro Ed è da subito, quello del Sorpasso, un viaggio di fuga: dai fischietti dei vigili, dalle multe che, come le «briciole» di Pollicino, i due disseminano lungo il percorso; dai preti che intimano di fermarsi... dalla madre (con cui Bruno non vuole passare il ferragosto), dalla moglie (liquidata subito da Bruno, ma presto, come ipotetica immagine futura, anche da Roberto), dalla figlia (Lilly), dalle responsabilità, dagli Altri (automobilisti e dunque propri simili). Una coppia in fuga 6. Come in Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, dove Huck e Jim inaugurano il viaggio «della fuga. Fuga da qualcosa o da qualcuno», in genere dalla «società» 7. Come in Huckleberry Finn la strada diventa il luogo degli incontri, che disegnano on the road una società sempre ostile e a tratti orribile: e nel Sorpasso alcuni incontri – con la società degli «arrivati», con la volgarità gradassa del commendatore ad esempio o con la spocchia qualunquistica del cugino Alfredo – sono davvero ripugnanti, anche se raccontati con ironia. Perché sulla strada stanno gli emarginati: come Bruno e Roberto, appunto e come, ben dopo di loro, Billy e Wyatt, i misfits di Easy Rider (id., 1969, di Dennis Hopper). Come il loro, anche il viaggio del Sorpasso è un po’ un viaggio «nel quale la strada inizia a farsi narrazione essa stessa: da un lato, ambiente privilegiato in cui si svolgono le azioni dei personaggi [...]; dall’altro, la strada non si limita [...] a essere un elemento contenitore di azioni e avvenimenti, ma stimola di continuo con la sua ingombrante presenza gli eventi e la situazione

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esistenziale in cui sono collocati i personaggi della storia, assumendo di fatto una precisa valenza diegetica capace di sublimare a livello simbolico» 8. La strada diventa medium per raccontare la marginalità rispetto a una realtà sociale patita dai personaggi. Perché attraverso la storia di due «uomini di strada», Risi racconta gli scricchiolii di una società che, arroccandosi gelosamente nelle nuove torri d’avorio, ha sacrificato nella corsa al benessere molte cose. Viaggio di strada come in Easy Rider, anche quello di Bruno e Roberto è, in modi diversi, anche un viaggio un po’ «contro». Contro la società del Miracolo, che li esclude, e che comunque si rivela essere meno favolosa di quanto promette. Ed è, il loro, anche un viaggio contro il tempo. Per quanto non abbiano in realtà nulla di preciso o importante da fare, Bruno e Roberto sono sempre in lotta contro il tempo: cercano di sconfiggere l’orario di chiusura dei negozi, dei ristoranti, dei treni o di arrivare da qualche parte in tempo utile (per pranzare, cenare, per dormire). Un assillo il tempo nel Sorpasso: tutti guardano continuamente l’orologio al polso, ricordano l’ora, sottolineano i ritardi… E specialmente all’inizio, sappiamo sempre che ora è: l’incontro tra i due avviene alle 12, la partenza del viaggio alle 13, la sosta all’autogrill intorno alle 14. E anche dopo, quando la cadenza temporale sembra farsi meno determinata e incisiva, e il tempo diegetico pare dilatarsi, ogni sequenza viene marcata da un tempo e un luogo precisi: l’ora di pranzo viene trascorsa a Civitavecchia, il pomeriggio nel casale intorno a Grosseto, la sera a Castiglioncello, la notte e il giorno dopo in Versilia, con una costruzione del-

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la sceneggiatura «potente, con valvole, cinghie, cilindri, pistoni» 9. Perché se inizialmente il ritmo del racconto è ottenuto attraverso il battito nervoso del tempo diegetico (ogni sequenza narrativa equivale a un’ora nella vicenda) nel prosieguo questo si allunga (occupando ogni sequenza un arco diegetico-temporale maggiore), fermandosi addirittura due volte (quando Bruno, nella casa degli zii arresta l’orologio a pendolo; e quando a Roberto si ferma l’orologio da polso in spiaggia). Eppure quand’anche il tempo diegetico sembri meno incombente e pressante, il ritmo del racconto resta comunque vorticoso: e ciò avviene perché le sequenze centrali si concatenano l’una all’altra attraverso una sorta di enjambement narrativo, un tracimare di situazioni (fatti o parole) da una sequenza alla successiva, un accendere in un blocco del racconto una «miccia» narrativa che esploderà in quello seguente. Durante il tragitto verso Grosseto (sequenza 4), i ricordi d’infanzia di Roberto preparano il colpo di scena che si consumerà nella casa degli zii (sequenza 5) e cioè la scoperta di una realtà diversa, la vera paternità del cugino, l’omosessualità del cameriere. Nell’abbandonare Grosseto, nel tragitto verso il mare (sequenza 5), il sorpasso di una Seicento da parte dell’Aurelia porterà alle conseguenze dell’incresciosa conclusione della serata al Cormorano Night Club di Castiglioncello (sequenza 6), con la rissa scatenata dai «sorpassati» in cerca di soddisfazione, che impedirà a Bruno di condurre a compimento i suoi affari e il concupimento della bionda compiacente a cui è avvinghiato. La decisione di raggiungere Valeria a Viareggio, presa in spiaggia (sequenza 7), determinerà il tragico epilogo (sequenza 8), consumatosi

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nella curva di Calafuria. Una lotta contro il tempo dunque che a un certo punto diventa lotta contro gli eventi, i quali precipitano, di sequenza in sequenza (la quarta nella quinta, la quinta nella sesta, la settimana nell’ottava) e nell’intera vicenda. E sempre sfavorevolmente, fino al terribile finale.

Viaggio a rischio La velocità del racconto (il suo ritmo inarrestabile, inizialmente diegetico-temporale e poi diegetico-narrativo) presentifica l’inevitabilità della vicenda. E lanciati (sopra l’Aurelia, dentro il tempo, a causa degli avvenimenti) a tutta velocità verso la fine ne temiamo la fatalità drammatica. Che sia un viaggio a rischio è evidente fin dall’inizio. Una quantità di indizi di pericolo grava su questa corsa. Il cartello segnaletico del divieto d’accesso della prima sequenza è un invito alla cautela. Ma viene immediatamente disatteso. E che il richiamo alla prudenza arrivi attraverso la foto (in bella mostra, sul cruscotto dell’auto, con tanto di targhetta «Sii prudente. A casa ti aspetto io») di Brigitte Bardot, icona per eccellenza in quegli anni della trasgressione più sconsiderata, suona come un’irrisione beffarda di ogni monito all’assennatezza. B.B., il simbolo della ribellione come nume tutelare dell’avvedutezza: avremmo dovuto insospettirci. Ma i sospetti diventano presto macabri presagi: l’alea della morte risuona nelle parole di Roberto attraverso il suo riferimento alle «tombe (etrusche)» presenti nella zona: e se la vitalità ignorante di Bru-

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no lì per lì le tiene lontane scacciando con istinto presago la visita ai loculi, non può evitarli di lì a poco quando vi si imbatte involontariamente contro, finendo nel cimitero tedesco mentre dà la caccia alle bionde straniere. E poi in macchina, sulla strada le insidie sono sempre presenti: nel richiamo ai «freni che non vanno» di Bruno, nell’incontro con l’auto (dei preti) in panne o attraverso la visione di un incidente mortale, col cadavere che giace sull’asfalto coperto da un pietoso lenzuolo, avvenuto sull’Aurelia poco prima dell’arrivo dei due protagonisti. Ai quali viene gridato dietro un esplicito rabbioso avvertimento («Vi possiate rompere il collo... eh ma non campano mica tanto...»), lanciatogli dai «sorpassati» di turno, quelli della Seicento. Tutto è vacillante nel Sorpasso. Come il lampadario che dondola sul soffitto traballante di un salotto piccolissimo, stretto tra i troppi mobili, dove un uomo in canottiera e sandali sta mangiando una pagnotta: ma una carrellata all’indietro svela che si tratta dell’interno di un camion di una ditta di traslochi che procede con il suo carico davanti all’Aurelia di Bruno. Tutto vacilla, anche la nostra percezione, che appena prende forma (vediamo una casa) viene subito smentita (ma in realtà è un furgone) attraverso un astuto, malizioso movimento di macchina. D’altronde l’instabilità è un fatto (linguistico) congenito nel road movie, dovuto ovviamente all’uso della cameracar 10, che pur consentendo un movimento piuttosto ampio e fluido, conferisce all’immagine un senso di dinamicità o non-stabilità (profilmica e filmica). Su un piano pragmatico, tale sensazione è acuita dalla scelta dei punti di vista in cui lo spettatore è chiamato a

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identificarsi 11. Nella gran parte dei casi, a cominciare dalla prima sequenza, la macchina da presa – e lo spettatore con essa 12 – è collocata alle spalle e a ridosso di un conducente, Bruno Cortona, che da subito si capisce essere un dissennato e scriteriato pirata della strada. Di certo la condizione del passeggero già induce un’impressione di malfermità, enormemente amplificata in questo caso dalle caratteristiche del guidatore. «Sono nelle mani di un pazzo» dice Roberto e noi (quasi sempre, e virtualmente, ospiti del sedile posteriore) con lui. Non fa piacere «sentirsi nelle mani di un pazzo». Tanto più che il nostro alter-ego virtuale sullo schermo 13 – Roberto – non sembra avere la saldezza né la fermezza necessarie per poterlo contrastare, per poter impedire i suoi folli sorpassi, i suoi sconsiderati duelli autostradali, la sua inevitabile corsa verso il tracollo. Roberto dice sempre qualcosa di diverso da quello che pensa e i suoi stessi pensieri sono mutevoli, cangianti, pronti a scardinarsi sotto le sollecitazioni degli accadimenti: abbandona i libri e con essi il futuro che aveva progettato, mette incessantemente in discussione le sue scelte, almanacca su ogni cosa, persona, decisione o evento, facendoci sprofondare nel magma fluttuante delle sue elucubrazioni. Perché esse dominano, attraverso il monologo interiore 14, perlomeno per tutta la prima metà del film, provocando la continua immedesimazione dello spettatore con i dubbi, i rimuginii, i ripensamenti di Roberto e con Roberto tout court. Ebbene su questi «presentimenti funesti» che pesano sul viaggio del Sorpasso (quegli oscuri presagi che invadono la diegesi), su questo «sentimento dell’instabilità» che

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pervade il film (sia linguistica che enunciativa), nella vertigine del ritmo inarrestabile (di una sceneggiatura-freccia), irrompe il suono, squillante, indisponente e provocatorio, del clacson, che è – è il caso di dirlo – l’icona sonora del film, la sua punteggiatura acustica. Il sorpasso si ricorda nel suono (del clacson, prima di ogni altro) prima ancora che nelle immagini, perché un «suono estremamente breve ma ben definito ha il privilegio di fissare direttamente la propria forma e il proprio timbro nella coscienza, dove si ripete come eco» 15. Così accade per il clacson – irridente, prepotente, che squarcia le immagini, facendoci sobbalzare sulla sedia – della Lancia Aurelia Sport supercompressa.

1 La concezione del viaggio come re-azione (psicologica, emotiva) di personaggi ad avvenimenti, anziché come azione di personaggi sugli ambienti, evidenzia tutta la modernità ideologica del Sorpasso. D’altronde la distribuzione assiologica sui due personaggi subisce continui ribaltamenti (Bruno, in un primo momento incarnazione della vacua superficialità, coglie con acume la verità di certe situazioni, come la vera paternità del cugino Michele; d’altro canto la solidità di Roberto ben presto scivola nell’indeterminazione e nell’inadeguatezza a vivere). Questo continuo confondere le acque adottando sul piano delle strategie narrative punti di vista differenti, quello «dell’Eroe e quello dell’Antieroe, in un vai e vieni che porta a dissolvere il senso di un fronte netto, di una divisione di campo» dove non si capisce «se il bene sia veramente bene e il male veramente male», è uno degli elementi tipici del regime della «narrazione debole» proprio della modernità cinematografica, come scritto in Francesco Casetti, Federico di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1990, p. 208.

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Ovviamente il riferimento imprescindibile in questo senso è a Vladimir Jakovlevicˇ Propp e al suo Morfologija skazi, coll. Voprosi poetiki, n.12, Gosudarstvennij Insitut Istorii Iskusstva, Leningrad 1928 (trad. it., Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi 1966). Propp ha utilizzato le fiabe russe come repertorio per la costituzione di una grammatica del racconto (in una cultura data e storicamente determinata), in cui elementi archetipici – che possono superficialmente assumere forme diverse nelle singole favole – seguono in realtà, e nell’architettura testuale soggiacente, le medesime logiche narrative. 3 Oreste De Fornari (a cura di), Il sorpasso: 1962-1992. I filobus sono pieni di gente onesta, Edizioni Carte Segrete, Roma 1992, p. 36. 4 Nel trattamento Bruno afferma: «Io senza l’agendina dei telefoni, mi sento perduto. Potrei telefonare a mamma e fargliela cercare...» (facendoci intuire che vive ancora con la madre) ma poi desiste per il timore di dover passare il ferragosto con lei. Nel film la battuta è stata sacrificata (ed è rimasto solo: «Mi sa che mi tocca passà il ferragosto con mamma!»), ma l’evocazione della madre resta comunque forte (per convincere Roberto a seguirlo: «Mamma dice che il lavoro dei giorni festivi non rende!»). 5 Oreste De Fornari, (a cura di), Il sorpasso: 1962-1992 cit., p. 36. 6 Frasca osserva che «la coppia serve solitamente al narratore (letterario o cinematografico) per fornire un ritratto sfaccettato e profondo dei personaggi attraverso il loro dialettico interagire, in modo che essi formino due personalità molto differenti, suscettibili di completarsi dall’unione che ne scaturisce. In base ai dialoghi, ai diversi atteggiamenti, alle antitetiche reazioni di fronte ad eventi improvvisi e in relazione al vario modo di intendere pensieri, esistenza e situazioni, il narratore ha sempre l’intenzione di offrire uno spaccato di personalità pronte ad integrarsi, compenetrarsi e anche trasformarsi strutturalmente» (in Giampiero Frasca, Road movie. Immaginario, genesi, struttura e forma del cinema americano on the road, UTET, Torino 2001, p. 17). 7 Ivi, p. 15 8 Ivi, p. 109 9 Oreste De Fornari, (a cura di), Il sorpasso: 1962-1992 cit., p. 51. 10 La camera-car, che consente le riprese di oggetti in movimento, è «quell’automezzo dotato di sospensioni morbide e di un sistema di ammor2

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tizzatori che attutiscono i sussulti che il congegno incontra nel suo spostamento. Questo dispositivo può essere considerato la cifra stilistica per eccellenza dei film sulla strada perché con il suo movimento fluido permette spostamenti di considerevole entità a una velocità variabile, utilissimi nelle occasioni in cui è necessario illustrare i movimenti di personaggi dotati di auto, motociclette, camion, o di qualunque altro mezzo si muova sulla strada», in Giampiero Frasca, Road movie cit., p. 92. 11 Sulla posizione, sul ruolo e il percorso che lo «spettatore modello» è indotto a compiere (in relazione alle scelte enunciazionali operate) all’interno di un testo filmico dato, si veda Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986. 12 Secondo Metz perché lo spettatore possa calarsi nella realtà del testo filmico è necessario che si inneschino dei processi simbolici di identificazione. La prima forma di identificazione (identificazione primaria) operata dallo spettatore è con il proprio sguardo e dunque, con la macchina da presa; l’identificazione primaria si produce innanzitutto sul piano dell’enunciazione linguistica. Su un piano narrativo invece lo spettatore si immedesima con uno o più personaggi diegetici (attuando l’identificazione secondaria). Si veda Christian Metz, Le signifiant imaginaire, UGE, Paris 1977 (trad. it. Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 1980). 13 Il doppio ruolo – di personaggio e di narratore – attraverso cui si definisce Roberto (fino alla sequenza in casa della ex moglie di Bruno), rafforza la sua presenza e il suo peso all’interno degli equilibri enunciazionali del testo filmico, offrendo allo spettatore implicito un punto di vista (emotivo-psicologico) assai marcato al quale ancorarsi. 14 Interessante il ruolo – in senso diacronico – assunto dalla voce del narratore over nel Sorpasso, poiché, come ricostruisce Federica Villa, «con i primi anni ’60 i narratori in voce over si fanno presenza sporadica e sprofondano sempre più nel mondo rappresentato. È il caso di Il sorpasso […], dove la voce che si sente non è più strettamente over, ma è quella chiaramente di un monologo interiore, precisamente la verbalizzazione del pensiero di Roberto. Da “Forse era meglio se telefonavo io, non so neanche chi è, non lo conosco… magari con la scusa, ma no” a “Adesso ci lascia soli e che le dico a questa”, tutti gli interventi di Roberto rap-

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presentano un commento tra sé e sé che il personaggio fa a ridosso di accadimenti, di situazioni, di possibili sviluppi della propria personale vicenda». In tal senso, per l’autrice, il film rappresenta il culmine di un processo narratologico, storicamente iniziato negli anni precedenti e che giunge a compimento proprio con Il sorpasso, testo che emblematicamente rappresenta il collassare del soggetto locutore nella diegesi, come guida delle istanze enunciazionali. Si veda Federica Villa, Il narratore essenziale della commedia cinematografica italiana degli anni Cinquanta, ETS, Pisa 1999, p. 271. 15 Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Natha, Paris 1990 (trad. it. L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, p. 57).

L’inizio del viaggio: l’incipit del film

Mentre scorrono i titoli di testa Inquadratura 1 Esterno giorno. Primo piano di spalle di un uomo che guida spregiudicatamente un’Aurelia Sport; il suo volto è vagamente intuibile nel riflesso dello specchietto retrovisore; l’uomo si guarda intorno, si passa accaldato la mano intorno al collo; una nervosa musica (jazz) off accompagna l’immagine, con un crescendo di fiati e un commento percussionistico sincopato. Inquadratura 2 Campo lungo della periferia romana deserta; da dietro un’angolo, sulla destra, sbuca l’Aurelia che si avvicina alla macchina da presa e, seguita in panoramica, imbocca sgommando un senso vietato. Inquadratura 3 Campo medio di una strada desolata; da sinistra compare l’Aurelia, percorre qualche metro e si ferma; l’auto-

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mobilista si alza, si appoggia sullo schienale del sedile, si guarda intorno alla ricerca di qualcosa. Inquadratura 4 Panoramica in soggettiva delle saracinesche abbassate dei negozi, sopra a cui sono affissi una serie di avvisi commerciali. Inquadratura 5 Campo medio dell’Aurelia; l’uomo si risiede in auto, ingrana la retromarcia riparte a tutta velocità e si allontana sul fondo del campo. Inquadratura 6 Campo lungo della strada periferica, sullo sfondo di palazzoni e di esercizi chiusi; da sinistra si vede arrivare, dietro una nuvola di polvere, l’automobile che percorre il campo da destra a sinistra, compie una curva a «U» e affianca un negozio che, proprio in quel momento sta abbassando l’ultima saracinesca ancora semiaperta; l’auto riparte, riattraversa la strada, poi rallenta e si ferma davanti all’insegna di un telefono pubblico; l’uomo scende, cerca uno spicciolo nella tasca, si avvicina alla saracinesca che protegge il telefono e infila una mano tra le maglie, sforzandosi di raggiungerlo. Inquadratura 7 Dettaglio della mano che si sforza spasmodicamente ma inutilmente di raggiungere il telefono a muro per infilarvi un gettone.

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Inquadratura 8 Mezza figura dell’uomo che si guarda intorno pensando al da farsi e con passo baldanzoso ritorna alla macchina, sale, si rimette alla guida e riparte con rabbiosa allegria. Inquadratura 9 Campo medio dell’Aurelia che arriva dal fondo della strada, attraversa il campo seguito in panoramica, si ferma; l’uomo scende scavalcando la portiera e si avvicina a una fontanella, seguito da una brevissima zoomata. Conclusi i titoli di testa Inquadratura 10 Breve zoomata sull’uomo, in piano americano, che beve a una fontanella sulla strada mentre qualcosa in fuori campo attrae la sua attenzione. Inquadratura 11 Soggettiva in controcampo: contreplongée in campo lungo di un palazzo con persiane totalmente abbassate; dietro all’unica tapparella sollevata, s’intravede la sagoma seminascosta di qualcuno che guarda fuori dalla finestra. Inquadratura 12 Controcampo dell’uomo (in piano americano) che beve alla fontanella mentre si discosta dal rubinetto rivolgendosi all’estraneo che lo osserva dalla finestra: «Ehi lei, dica un po’…».

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Inquadratura 13 Controcampo del ragazzo in mezza figura alla finestra, che istintivamente sentendosi scoperto, si ritrae dalla finestra. Inquadratura 14 Soggettiva in controcampo dell’automobilista alla fontanella: plongée in campo lungo dell’uomo che si stacca dalla fontanella e si avvicina allo stabile. Inquadratura 15 Mezza figura dell’automobilista che guardando verso l’alto dice: «Aò, ma che fa, scappa?». Inquadratura 16 Controcampo del ragazzo in mezza figura alla finestra che, imbarazzato, si riavvicina al davanzale negando con un cenno della testa. Inquadratura 17 Contocampo dell’uomo in mezza figura che guardando verso l’altro, chiede al ragazzo: «Senta qui è tutto chiuso, che c’ha il telefono?». Inquadratura 18 Controcampo del ragazzo in mezza figura alla finestra che esitante risponde: «Sì...»; e poi rispondendo all’uomo in fuori campo che gli chiede: «Me lo fa un piacere?», continua: «Sì… certo...».

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Inquadratura 19 Soggettiva in controcampo: plongée dell’uomo che replica: «Mi fa il 1326624 chiede di Marcella grazie eh!». Inquadratura 20 Controcampo del ragazzo in mezza figura alla finestra che ascolta le richieste dell’uomo, la cui voce in fuoricampo insiste: «Le dica che arrivo subito... aspetti... così passiamo a prendere gli altri…». Inquadratura 21 Controcampo dell’uomo in mezza figura che continua, rivolgendosi verso la finestra e gesticolando: «Se lo ricorda il numero, è facile no? 13 raddoppia 26 inverte 62…». Inquadratura 22 Controcampo del ragazzo alla finestra che ascolta le ultime indicazioni della voce dell’uomo in fuoricampo «... e c’ammolla il 4», e poi si ritira verso l’interno della stanza. Inquadratura 23 Interno della stanza. In sottofondo una musica classica. Il ragazzo in piano americano si allontana dalla finestra e avvicinandosi al telefono sulla scrivania, ripete mentalmente: «1326624 chiedo di Marcella... le dica che…». Inquadratura 24 Esterno della strada. Contre-plongée dell’uomo che di spalle si allontana, andandosi a sedere sulla fontanella.

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Inquadratura 25 Interno della stanza. Piano americano del ragazzo alla scrivania, che sollevato il ricevitore, esita, si ferma e riflette, tra sé e sé: «Chi arrivano... non mi ha neanche detto il suo nome?…», indicando l’uomo fuori dalla finestra. Quindi posa il telefono, si dirige verso la finestra e prima di affacciarsi spegne il giradischi. Inquadratura 26 Mezza figura del ragazzo che sporgendosi dal davanzale, propone con voce strozzata all’uomo in strada: «Sent...». Inquadratura 27 Esterno della strada. Contre-plongée dell’uomo che seduto sulla fontanella si sistema le scarpe; in fuori campo il ragazzo schiarendosi la voce, gli grida: «Se... senta?» e l’automobilista chiede svogliato: «Ha già chiamato?». Inquadratura 28 Mezza figura del giovane che affacciato al balcone, risponde: «No pensavo che... se vuole salire su così chiama lei stesso». Inquadratura 29 Esterno della strada. Contre-plongée dell’uomo che seduto, replica: «Buona idea, che interno è?»; «Quattro» spiega in fuori campo il ragazzo; l’uomo avvicinandosi alla macchina ammonisce: «Arivo! Senta dia un po’ un’occhiata alla macchina che qui a ferragosto con tutta ’sta gente in

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giro…». Inquadratura 30 Esterno della strada. Campo medio dell’uomo che si accosta all’Aurelia, da cui prende le chiavi e poi sempre rivolgendosi al ragazzo: «Che ha detto, interno quattro? Vengo volando», e poi andando verso il portone saltellando e canticchiando: «Con le pinne, il fucil gli occhiali … Arivoo» ed entra nel portone. Inquadratura 31 Interno della stanza. Mezza figura del ragazzo alla scrivania che pensa a voce alta: «Forse era meglio se telefonavo io... non so neanche chi è... non lo conosco... magari con la scusa... ma no!», ma i suoi pensieri sono interrotti da uno scampanellio vivace, quindi prudentemente prende i soldi sul tavolo, se li mette in tasca ed esce di campo. Inquadratura 32 Interno della stanza. Totale dell’ingresso. Il ragazzo si avvicina alla porta d’ingresso mentre il campanello continua a strepitare e apre la porta all’uomo che entrando in casa, chiede: «Ma che non funziona il campanello? Scusi tanto eh... ma è mezz’ora che giro è tutto chiuso... Roma sembra un cimitero... Permette? Bruno Cortona» e gli stringe la mano avviandosi al telefono; «Roberto Mariani» si presenta il ragazzo.

Analisi della prima sequenza. Spaziando nei luoghi (comuni), perennemente sulla soglia del Miracolo (economico)

Tutto nel road movie, e in questo particolarissimo road movie all’italiana che è Il sorpasso, avviene attraverso lo spazio, o meglio tramite la metaforizzazione dello spazio 1. Ogni cosa è spazio nel Sorpasso. I desideri sensuali prendono forma e vita al sole delle spiagge roventi e caotiche della Versilia, gli affari si stringono e si concludono nei nightclub rumorosi della costa, gli appetiti si soddisfano nelle trattorie festose e volgari fuori porta: e così eros, portafoglio e pancia trovano scenari ideali in cui identificarsi, prima ancora che soddisfarsi. E l’oggetto più desiderato e celebrato di tutti – un’automobile – è in effetti un mezzo capace di aggredire ogni luogo e di percorrerli, virtualmente impossessandosene, tutti. Anche le canzoni, anzi le canzonette del film – Guarda come dondolo e Pinne fucile ed occhiali, St. Tropez twist e Quando quando quando – diventano luoghi collettivi in cui riconoscersi e ritrovarsi. Perché è più in generale nel luogo – comune innanzitutto – che nel Sorpasso si cerca, si rincorre e si smarrisce il senso di sé. L’inizio del Sorpasso, a ben vedere, è una sorta di matrioska del re-

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sto del film, già contenendolo tutto in nuce, il suo senso riposto o nascosto, la ricerca infruttuosa e fallita in partenza di un proprio spazio vitale. Nella prima sequenza un uomo percorre con spavalderia nervosa il quartiere romano della Balduina alla ricerca di un telefono pubblico e di un pacchetto di sigarette. Davanti a lui si «srotolano» solamente luoghi desolati, abbandonati dalla frenesia festaiola del ferragosto: con lo sguardo percorre in successione una serie di esercizi chiusi sopra a cui compaiono piccole affissioni (presumibilmente con le indicazioni del periodo di vacanza), disegnando in soggettiva una lunga simbolica teoria di insegne listate a lutto (dirà infatti, Bruno Cortona, nel primo dialogo con Roberto Mariani, che «Roma pare un cimitero!»). Perché è attraverso il racconto delle ferie – una sorta di metafora ferale della civiltà dei consumi – che nel Sorpasso si intravedono da subito, in filigrana, i germi della malattia, i sintomi patologici di quel mondo del boom, apparentemente così appetibile e luminoso. Anche gli emblemi del boom – ad esempio il telefono pubblico, medium di una massa desiderosa di celebrare collettivamente il favoloso benessere economico – sono in realtà irraggiungibili, protetti dietro alle maglie di una saracinesca, una specie di tabernacolo che imprigiona religiosamente gli oggetti di culto, rendendoli inaccessibili e trasformandoli in reliquie del Miracolo (economico). L’incipit del film potrebbe virtualmente rappresentare allora l’epitaffio di una società dell’oro che ancora impegnata a officiare in allegorici rituali pagani il proprio apologo, è incapace di vedere il proprio declino. L’inizio del Sorpasso, costellato com’è da un insieme di allusio-

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ni funeree, scrive l’epigrafe tropologica della mitica golden age all’italiana e sardonicamente irride i ciechi ministri e i fedeli che ancora la solennizzano. Sarà un caso, ma la vicenda del Sorpasso ruota proprio attorno al 15 agosto, festività religiosa secondo il calendario ecclesiale che la bramosia epicurea e gaudente così nitidamente raccontata dal film vive come festeggiamento laico, al quale però tributare una assoluta devozione. Le divinità profanizzate – e materializzate in oggetti e spazi precisi – non impediscono l’adorazione.

Un inizio «periodico» In questo quadro si comprende anche l’ansia di Bruno Cortona così spasmodicamente teso, fin dalle prime battute, a non restare escluso dal rito per eccellenza, quello del ferragosto (che teme, riottoso figliol prodigo, di dover trascorrere con la madre!). Invece sarà proprio il suo punto di vista – dell’uomo perennemente e ineluttabilmente «a parte» dell’Eden nostrano, entro cui sembra sempre in procinto di entrare senza mai riuscire a oltrepassarne la «dorata» soglia – che più acutamente scopre le crepe della società del boom, anch’essa sull’orlo del baratro. È l’uomo «a margine» del consumismo che spingerà la società che lo esclude nel dirupo. Nelle prime immagini questo suo essere perennemente «in limine» assume un’evidenza eclatante: e l’ultima saracinesca dell’ultimo negozio che sta per abbassarsi e che si inabissa proprio nel momento in cui lui sta arrivando,

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sembra quasi una beffa, l’ultimo spazio che gli si preclude dopo averlo illuso. Gli accessi e le uscite marcano i confini degli spazi 2: e sembrano costantemente enfatizzati nell’incipit. Un inizio (di «ingressi-inizi periodici») che non smette mai di iniziare. In poco più di quattro minuti filmici Bruno Cortona segna diegeticamente la propria uscita e il proprio ingresso – il proprio soggiorno sulla soglia, simbolicamente marcandola – una quantità innumerevole di volte: sbuca rombante da dietro un palazzo, s’immette in un senso vietato, scende dalla spider, tenta di infiltrarsi oltre la rete della protezione dietro la quale di trova il telefono, risale sulla Lancia, riappare dal fondo di altri vicoli, si precipita davanti alla serranda dell’ultima bottega dischiusa tentando di entrarvi, spunta dall’ennesima laterale, smonta dall’auto, irrompe nel portone dello stabile di Mariani, piomba nell’appartamento dello studente, s’infila nel suo bagno… Anche in seguito questo suo perenne «transito in limine» continuerà incessante: emblematica in questo senso la sequenza in cui i due neo-amici, impegnati nell’abbordaggio delle turiste tedesche (e dunque, intenzionati a penetrare nei loro cuori), si trovano davanti all’ingresso di quella che credono essere un’abitazione privata e restano pensosi sull’uscio, dubbiosi se varcarlo o meno; ma naturalmente, incurante dell’invito di Roberto che cerca di dissuaderlo, Bruno deciderà di superare anche quell’accesso, scoprendo che si tratta di un camposanto e decidendo di abbandonare l’impresa. E anche prima, hanno atteso fuori dal ristorante, trattenuti nell’entrata dalla proprietaria che, incorniciata nello specchio della porta, quasi a sbarrargli il

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passo, gli comunica che la trattoria è chiusa (mangiandogli in faccia un debordante piatto di spaghetti!). E hanno indugiato all’imbocco di un bivio, tentennanti sulla strada da prendere. E si ricordi anche l’episodio del Cormorano Night Club e la lunga sosta di perplessità davanti alla porta del locale: il dubbio sul da farsi (Bruno sta naturalmente per entrare, Roberto non sa decidersi se seguirlo o meno) che li trattiene in quel luogo-non luogo per un lungo tempo. E ancora si pensi alla scena nel bagno nell’area di rifornimento e alla titubanza davanti alle porte dei bagni: che Roberto non riesce ad aprire, salvato da Bruno che la disincastra, entrando a sua volta nella porta, in quella sbagliata però (!), perché riservata alle donne. Nel Sorpasso questo continuo sosstare nell’incertezza della «soglia» rende i due protagonisti eternamente condannati a una sorta di Limbo: il che non ci stupisce, essendo loro in effetti dei quasi-dannati al limbo di quell’Eldorado italiano che è il boom del secondo dopoguerra. Nell’inizio in particolare c’è una volontà precisa in Risi – regista pure così attento al ritmo e ai raccordi nervosi – di enfatizzare il momento dell’entrata di Bruno, attraverso la durata del campo vuoto: e ciò avviene tramite la descrizione di un tempo morto, in cui lo spazio – nudo, desolato, puramente scenografico – si offre alla vista dello spettatore prima che l’eroe vi faccia irruzione. C’è in Risi quest’accortezza di descrivere il luogo sgombro (sia la strada o l’ingresso dell’appartamento) prima di renderlo abitato, celebrando il rito dell’ingresso attraverso una sorta di retorica dell’invasione di campo. D’altronde la figura dell’ingresso riveste un valore sim-

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bolico preciso, come ha acutamente evidenziato l’analisi compiuta da Maurizio Grande sulla commedia all’italiana, genere basato, in una prospettiva semiotica, sul motivo dell’entrata (o del tentativo d’ingresso) nella società, che è anche «l’ingresso nella vita adulta, che comporta la limitazione delle pulsioni soggettive e la ridefinizione dei desideri individuali e delle mete sulla base del riconoscimento di obbiettivi socialmente prefigurati. Il nuovo membro accoglie valori e norme circolanti, assume la maschera dell’io come espressione di un’identità psicologica e di un ruolo sociale consoni alle posizioni occupate e alla correlativa sfera di prestazioni, norme, comportamenti, valori. Pertanto, quando la commedia ci parla dell’ingresso nella società (sia che lo descriva come matrimonio, come ingresso nella vita coniugale, sia che lo descriva come assunzione di responsabilità professionali e come scelta di vita che “istruisce” il futuro del soggetto), ci parla anche dell’ingresso del soggetto nella vita adulta e nella legge, del passaggio al regime delle prestazioni e della assunzione della “maschera” corrispondente e del comportamento ad essa appropriato» 3 . E a seconda di come questo motivo dell’ingresso viene tematizzato, e dunque si realizza, si risolve oppure viene frustrato, si possono ipotizzare nella lettura di Grande alcuni modelli dominanti: le commedie legate al mythos dell’ingresso nella società (in cui i protagonisti di fatto rinunciano all’io «pre-sociale» per aderire alle aspettative del gruppo); le commedie legate al mythos dell’adattamento forzato alle norme sociali (in cui l’ingresso nella società viene di fatto rinviato o eluso o dilazionato all’infinito); le commedie legate al mythos della truffa e del travestimento

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(in cui, come nel Sorpasso, il soggetto soccombe nella corsa folle e cieca per inseguire sogni impossibili); infine vi sono le commedie legate al mythos dell’innocenza perduta (dominate dall’integrazione alla vita sociale). Se in quest’ottica la commedia testualizza in senso ampio il rapporto dell’individuo con la società e il confronto tra l’Io e le attese, le norme, le regole dell’ambiente, Il sorpasso è la «storia sociale» di un soggetto marchiato da uno iato incolmabile tra la potenza del proprio desiderio e l’effettiva possibilità di realizzarlo: e potremmo aggiungere che la reiterazione dell’atto di ingresso nei luoghi comuni (dunque nel territorio del sociale) non fa che ribadire virtualmente la sua impossibilità o incapacità di aderire agli obbiettivi del reale; e dunque il rito di iniziazione protratto all’infinito, e figurativizzato nella persistenza dell’ingresso, rappresenta virtualmente l’inattualizzabilità delle sue aspirazioni. Bruno non fa altro che entrare perché non riesce a re-stare dentro la società. Più in generale l’attenzione allo spazio e la predilezione per i luoghi pubblici sposta da subito la vicenda del Sorpasso su un terreno di confronto sociale (cos’altro è lo spazio se non l’espressione dell’identità nel proscenio del mondo?). Certo non è l’unica chiave di lettura del film, ma una delle possibili. Importante oltretutto se pensiamo a quale significato rivestano i cognomi – simbolo del riconoscimento o disconoscimento col contesto di appartenenza – nel corso della storia: che è tutto un fiorire di cognomi; e in fondo anche l’automobile non è una spider qualsiasi ma un’Aurelia Sport, una vettura la cui denominazione suona quasi come un nome e un cognome. E i cognomi giocano

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un ruolo significativo nella definizione dell’opposizione tra i due personaggi. Bruno – animale sociale o sedicente tale – viene designato più volte attraverso il proprio cognome: quando si trova tra i parenti di Roberto, dal commendatore al Cormorano Night Club, dal fidanzato della figlia di Lilly ecc. Mentre Roberto – il non-integrato, colui che è fuori dal sistema e non sa nemmeno se vuole o non vuole «buttarsi nella mischia» – quasi mai viene identificato col proprio cognome: il quale, notificato durante l’incontro iniziale tra i due protagonisti (nella prima sequenza), nel prosieguo della vicenda viene ripetuto solo due volte, quando si presenta alla ragazza della stazione (che però lo ignora) e quando si presenta a Bibì, il quale prontamente lo sminuisce: «Mariani? No, non conosco nessun Mariani». L’anonimato sociale di Roberto resta tale fino alla fine (seguendolo o perseguitandolo anche nella morte) e cristallizzandosi per l’eternità nella frase di Bruno che, alla domanda del poliziotto che gli chiede notizie della vittima dell’incidente, risponde: «Si chiamava Roberto... Il cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina». Perché Bruno è Cortona e Roberto è Roberto: due isolati o comunque ai bordi della società e mossi da una diversa propensione o motivazione a farvi parte; spinta che in Cortona è fortissima (anche se infruttuosa) perché assiomatica e in Roberto è fragile perché indebolita dalla sua continua problematizzazione. Due emarginati, dunque, ai margini del boom. Il quale si manifesta in tutta la sua evidenza attraverso (ennesima metafora spaziale) i suoi ambienti, le città abbandonate dalla furia godereccia, le strade invase dalle «quattroruo-

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te» e dai ciclomotori, le soste di servizio pullulanti di tentazioni, le spiagge brulicanti di divertimento, i locali notturni, le stazioni dei torpedoni e dei treni; gli ambienti e Roma sopra tutti (immortalata nella prima sequenza), raccontata nel presente dei palazzoni della periferia velocemente accresciuta dalla frenesia edizia del Miracolo economico e nel passato storico (del centro) lasciato alle spalle; e poi Civitavecchia, l’ultima vestigia del dopoguerra contadino e burino, liquidato dalla supponenza degli «arrivati»; i quali hanno eletto a loro nuovo sfolgorante habitat, la costa tirrenica, la Versilia innanzitutto, Castiglioncello e Viareggio, templi dell’evasione, del tempo libero e gaudente.

Oltre lo splendore dell’effimero E pure, nonostante il lusso e il sollazzo che questi luoghi trasudano, non riescono ad abbagliarci del tutto (così come il Miracolo raccontato da Risi non ci sembra mai veramente tale). Si avverte, si percepisce, sottotraccia, un invito ad andare oltre lo splendore effimero delle apparenze. Un invito certo posto secondo i modi, scapigliati, dissacranti, gioiosamente cinici e mai moralistici di Risi. E però invito preciso. E questo monito all’andare «oltre» si traduce linguisticamente nella richiesta di guardare «altrove» e, ad esempio, nell’allusione costante al fuoricampo (cioè a quello spazio off che viene escluso, supposto o richiamato, dalla messa in quadro del profilmico). Luogo potentissimo, come ricorda Burch 4, di evocazione dell’invisibile o dell’indicibile. Abbiamo già visto, in particolare nella pri-

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ma sequenza, come la maggior parte delle inquadrature vengano contrassegnate dalle entrate e dalle uscite di campo di Bruno (sia diegetiche: nelle porte o nei portoni ripresi; sia filmiche: cioè dentro e fuori i bordi dell’inquadratura), precedute o seguite da immagini del campo prima e (o) dopo. Ora, «è soprattutto il campo vuoto ad attirare l’attenzione su quanto succede in campo (e quindi sullo spazio-fuori-campo in sé) dato che niente, in linea di massima, trattiene più (o ancora) l’occhio nel campo propriamente detto» 5. Ma non è l’unico modo. «Il secondo modo in cui il regista può definire lo spazio fuori campo è con lo sguardo off» 6; e anche a questo escamotage linguistico Risi ricorre una quantità consistente di volte. Nella prima sequenza Bruno, di spalle, guarda fuoricampo cercando qualcosa; la prima apparizione di Roberto ci è una suggerita da una soggettiva di Bruno verso lo spazio off (e l’interesse che manifesta verso ciò che lui vede e noi no, garantisce dell’importanza dello spazio a noi precluso); il primo dialogo tra i protagonisti si sviluppa attraverso un campo-controcampo che rende ciò che non si può vedere (le reazioni dell’uno all’altro, per esempio) altrettanto interessanti, se non di più, di ciò che ci è consentito vedere; nell’appartamento l’evocazione dello spazio off è altrettanto intensa, quando per esempio Roberto, seduto alla scrivania, guarda verso la porta socchiusa del bagno, dove sappiamo trovarsi Bruno che pure non è inquadrato; e la sua apprensione in primo piano, le sue occhiate off, traducono tutta la rilevanza di quel luogo al di fuori della nostra portata visiva. Nel seguito i protagonisti, una volta nell’appartamento,

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guardano fuori dalla finestra di Roberto (accrescendo il nostro interesse per quanto avviene, da noi non visto, sotto i loro occhi) e solo in un secondo momento scopriremo che si tratta dell’appartamento di Valeria (la ragazza segretamente amata e spiata da Roberto), lasciandoci immaginare lo spazio off che solo successivamente, «retrospettivamente» direbbe Burch, assume una propria concretezza. L’elenco potrebbe continuare, perché in tutto il film succede sempre qualcosa nel fuori campo che lo anima: l’irruzione delle fanciulle tedesche «accade» nel (grazie al) primo piano e nelle parole di Bruno prima che davanti ai nostri occhi; l’elicottero che rileva la folle velocità della spider si «palesa» nella sbirciata di Bruno verso l’alto e ci costringe a domandarci (senza possibilità immediata di verifica) cosa sta capitando sopra alle nostre teste. E così via. Ma, oltre all’invasione o evasione di un campo che resta vuoto e allo sguardo off, esiste un’ultima modalità di definizione di tale spazio; «il terzo modo in cui si determina lo spazio fuori campo […] è mediante i personaggi che hanno una parte del corpo fuori dall’inquadratura» 7: situazione questa, tipica del Sorpasso, in cui sempre i primi piani di uno dei due protagonisti vengono «sporcati» dalla presenza parziale (la nuca, le spalle, le braccia o altri particolari) dell’altro; o in cui i dettagli del fuoricampo diegetico (per esempio una parte di lamiera del cofano del’auto, che taglia il primo piano di Roberto nell’inizio) entrano nell’immagine, tagliandola, spezzandola, frammentandola e rendendola sempre in qualche modo «parziale». Dunque guardare altrove, oltre ciò che ci è possibile vedere o che si vede nell’immediatezza dell’evidenza, perché

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ciò che si vede è sempre appunto parvente, parziale, parvenza. E ciò vale anche, e soprattutto, per la facile felicità promessa dal boom, descritto con disincantata partecipazione attraverso i suoi spazi, i suoi status symbol, i suoi protagonisti o aspiranti tali. Bruno e Roberto: spazi confusi, volti a fuoco Se pure lo sfondo della vicenda è rappresentato dall’allegra, vacua, effervescente e spregiudicata civiltà del benessere, Il sorpasso non è semplicemente un ficcante affresco sociologico ma è anche un penetrante racconto di caratteri e di personaggi, di fisionomie psicologiche che prendono forma nel caos di un incontro fortuito. Al di là del contesto socio-culturale (pure fondamentale) in cui la vicenda si colloca, Il sorpasso è la storia affascinante di due persone che casualmente inciampano l’uno nell’altro, si conoscono sfidando le reciproce diffidenze – ognuno a proprio modo: Roberto analizzando Bruno, Bruno «annusando» Roberto –, si raccontano disorientandosi, si sentono lontani, si scoprono vicini, a volte si perdono, incredibilmente si trovano, si confondono l’uno nell’altro, infine si lasciano. Come in ogni incontro importante, i confini dell’uno si slabbrano per accogliere l’altro, poi si riformano e ricuciono, ma su tracciati diversi. Roberto ospita Bruno nel suo presente, che è la sua casa: nella malinconia della periferia, nell’isolamento (la madre, racconta una foto, è lontana, a Rieti), nella solitudine spartana, nell’intensità dei suoi pensieri (da subito così «materici» grazie al monologo interiore), nella timidezza compiacente (che lo fa agire diversamente da come vorreb-

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be), nella solidità dell’impegno zelante e nell’acquiescenza noiosa al dovere (le «sudate carte» che lo inchiodano a Roma troneggiano sul tavolo). Poi lo invita nel suo passato, nella casa avita degli zii e nei luoghi dell’infanzia felice e mai veramente abbandonata. Anche Bruno trascina Roberto nel suo presente «volante» e vacillante, su quella macchina con la quale si identifica simbioticamente e che per lui è «la sua casa», perché come lì sopra lui non si sente «in nessun posto». Lo coinvolge nel suo passato fallimentare, portandolo nella casa della ex moglie e della figlia Lilly, da cui viene nuovamente respinto. Roberto e Bruno entrano l’uno nello spazio (e nella vita) dell’altro e in questa confusione le loro personalità acquistano nitore. Così, nella prima sequenza il viso di Bruno – ripreso di spalle – viene riflesso nello specchietto retrovisore, ma è piccolo, lontano e quasi indistinguibile. Mentre in seguito, quando Roberto sale sull’auto (e grazie a un avvicinamento della macchina da presa che da quel momento in poi si colloca a ridosso dei due), il volto di Bruno assume un’evidenza icastica imponente: il volto di Bruno diventa grande, vicino, evidentissimo. Un piccolo trucco, forse, ma illuminante. All’inizio le loro storie, i loro territori, gli spazi nei quali si inscrivono (e che li descrivono), sono separati: nella prima sequenza l’abboccamento – in campo-controcampo – disegna due universi distanti e inconciliabili: l’uno (Bruno) si staglia su un fondale agreste, l’altro (Roberto) ha come scenografia il cemento del condominio; l’uno è in basso, l’altro è in alto e soprattutto la presenza dell’uno esclu-

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de l’altro (anche sul piano sonoro, inizialmente). E invece da quando Roberto e Bruno diventano coppia la presenza di uno in campo implica sempre la compresenza (accennata o parziale) dell’altro, di cui s’intravede un qualche particolare. Perché è l’ingresso di Roberto nella vita di Bruno, che ci permette di vederla, di leggerla, di comprenderla; e ciò accade sul piano visivo prima che su quello narrativo. È perché si mescolano che i personaggi si definiscono. Che possiamo conoscere la vocazione di Bruno ad aggredire il mondo e lo spazio circostante: spostandosi freneticamente in qua e in là, saltellando con balzi improvvisi o con movimenti felini, ballando anziché camminare e invadendo con la sua gioiosa, vitalissima, pervicace prepotenza qualunque luogo (la strada, la cucina del ristorante, la vecchia casa dei parenti di Roberto, il mare che cavalca con lo sci d’acqua e la spiaggia dove s’improvvisa acrobata guardando il mondo alla rovescia). E Risi, suo complice, racconta le aspirazioni megalomani di Bruno prendendo le misure dello spazio in base alle sue dimensioni: spesso lo inquadra in campo lungo o in piano americano, in posizione centrale rispetto al quadro dell’immagine; oppure gli offre la scena anche quando è in fuori campo, garantendola attraverso la presenza – con suoni off – della sua voce stentorea e debordante (di canti, fischi, urli, sfottò, parole gridate e toni sempre alle stelle). Roberto invece è «agito» dallo spazio: quasi sempre fermo, isolato, relegato dalla macchina da presa negli angoli dell’inquadratura o schiacciato da plongée (come nell’ingresso al Cormorano Night-Club) che ne traducono lo sperdimento esistenziale. Uno spazio – quello in cui si muove Roberto – che lo domina senza

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però mai riuscire a inglobarlo, a inghiottirlo, perché Roberto specialmente in mezzo alla gente risulta sempre una figura schiva, appartata, sfocata. Persino il villico a cui danno un passaggio, una volta in auto gli ruba il posto, nella macchina e nell’inquadrautra, costringendolo a scendere. Solamente nell’ultima sequenza (precedente di poco la sua uscita di scena definitiva), quando in spiaggia attraversa vestito due ali di natanti danzanti, solamente allora il volto di Roberto è a fuoco – in un primo piano bellissimo, luminoso e triste, accompagnato dalle note di Don’t Play That Song (You Lied) – al contrario degli altri, folla festosa e indistinta. Del resto anche il rapporto con le canzonette – si è detto, un importante luogo comune di quegli anni – ci parla di una dialettica antinomica: Bruno canticchia quasi come un intercalare, una punteggiatura del proprio agire. Roberto (che nel suo appartamento ascolta musica classica) non si sa muovere in quel mondo (canoro) che anzi sembra disturbarlo: come quando decide finalmente di telefonare a Valeria dalla spiaggia, ostacolato dalla musica assordante che gli impedisce di capire e di farsi sentire.

Due vicende speculari Due modi diversi di muoversi nel mondo, due storie che sembrano opposte, ma che in realtà, come abbiamo visto, sono declinazioni diverse di uno stesso percorso fallimentare. Roberto non riuscirà a laurearsi né a raggiungere Valeria, né a ritornare a Roma; ma anche Bruno, dietro una parvenza da vincente, non raggiunge in fondo nessuno dei

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suoi scopi: né il denaro (perché non va in porto l’affare dei frigidaire ammaccati e il commendatore davanti ai suoi pasticci se la dà a gambe), né le donne (respinto dalla cassiera dell’autogrill, dalla cameriera del ristorante, dalla moglie del commendatore e addirittura dall’ex moglie); e perde anche l’amata auto, che finisce distrutta, schiantata nell’incidente. Due personalità diverse, egualmente sconfitte. Illuminante per comprendere il percorso dei due protagonisti, risulta l’analisi narratologica compiuta a questo proposito da Federica Villa 8, la quale esplora il ruolo della voce over (che materializza nello spazio sonoro il monologo interiore di Roberto) in quanto spia significante delle traiettorie narrative presenti nel film. Secondo l’autrice nel Sorpasso scorrono parallelamente due vicende in qualche modo speculari: se Roberto inizialmente si rappresenta come una personalità assolutamente ed esclusivamente «mentale», essendo nei fatti una sorta di «pensiero incapace di azione» troverà nell’incontro con Bruno lo stimolo per assumere delle iniziative, Bruno viceversa passerà da uno stato di vitalità frenetica e istintuale a una capacità di riflessione sull’esistente che inizialmente gli era sconosciuta. Dunque i due protagonisti «partono da poli opposti, s’incontrano, si sorpassano, e tendono rispettivamente l’uno al punto di partenza dell’altro» 9. Tutto ciò è individuabile analizzando il ruolo del monologo interiore, curiosamente molto presente all’inizio del film (già dalla prima sequenza), per poi svaporare fino a dileguarsi del tutto. Nelle prime sequenze le azioni di Roberto imboccano sempre strade opposte rispetto a quanto dichiarato nei suoi pensieri: Roberto si dice contrario ad andare a pranzo con

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quell’estraneo, eppure ci va, restio a prestargli dei soldi eppure li presta, e così via; «la parola si atrofizza nel pensiero e non si scioglie nell’azione» 10. E in effetti la presenza di Bruno nei pensieri di Roberto si configura sempre come una presenza assolutamente distante da sé, «altra»: Roberto ne parla come di un «pazzo» o di «uno che vive chiedendo soldi in prestito», e comunque sempre convocandolo nelle sue riflessioni silenziose con asettici pronomi personali. Nelle sequenze successive Roberto – soprattutto a partire dalla visita ai parenti in cui rilegge il proprio passato grazie allo sguardo lucido di Bruno (che intuisce molte verità fino ad allora oscure per Roberto) – incomincia un lento progressivo avvicinamento alla realtà, propria e realtà tout court, abbandonando la dimensione astratta delle meditazioni. «Il pensiero si abbarbica al reale circostante, cerca un contatto diretto con esso» 11. Ed ecco che Bruno – in qualche modo responsabile di questo processo – incomincia ad acquistare una certa fisionomia familiare anche nei pensieri di Roberto, che ne parla come di «Bruno», elevandolo alla prossimità del nome proprio. La vicenda del Cormorano Night Club assume un ruolo centrale (non a caso situandosi all’incirca a metà del film): in questo momento infatti, i due attraverso il contatto, l’incontro, il riconoscimento di un legame che si stabilisce tra loro, «per così dire, si sorpassano e iniziano a prendere un poco l’uno dell’altro» 12. Roberto infatti abbandona la sterilità del suo pensiero a favore di iniziative concrete: decide di tornare a Roma da solo, tenta di abbordare una ragazza alla stazione (anziché spiarla da lontano, come aveva fatto fino a quel momento con Valeria), si butta in difesa dell’amico

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durante la rissa dentro il locale. E il suo monologo interiore – che addirittura ripete una frase pronunciata da Bruno – riflette questo nuovo stato di cose. Roberto diventa un po’ Bruno, mentre Bruno diventa un po’ Roberto: la scazzottata lo rende pensoso, si abbandona a riflessioni sulla vita che, contrariamente a quelle distaccate e buffonesche fatte fino a quel momento, sembrano sincere e spontaneamente partorite da un suo movimento interiore. Dopodiché, anche il monologo interiore sembra affievolirsi; pochi i pensieri di Roberto pronunciati tra sé a casa della ex moglie di Bruno e a lei rivolti: «Adesso ci lascia soli e che gli dico io a questa»; ma tutto sommato, malgrado la sbornia, il giovane studente sembra padroneggiare la situazione senza subirla: agisce come farebbe Bruno. Il suo percorso è compiuto e il climax di questa trasformazione è la sua decisione di andare a Viareggio per cercare Valeria. Per questo motivo il monologo interiore si esaurisce, perché «il pensiero abdica all’azione, e Roberto, dopo aver introiettato l’essere Bruno, non può che dire, anzi gridare “Urrà”. E il monologo interiore viene definitivamente soppiantato da questa nuova modalità d’espressione: Roberto tornerà infatti a gridare, qualche istante prima della morte, pronunciando questa volta il nome di Bruno. Quasi un appello estremo per restare aggrappato alla vita, a quella realtà con la quale ha cercato di imparare a confrontarsi» 13. Eppure, nonostante questo movimento interiore, «i due percorsi in effetti “tendono” verso una nuova dimensione dell’esistere, che non riescono però a raggiungere, ad assaporare appieno. Non esiste cioè un autentico riscatto né per Roberto né per Bruno: il primo in-

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fatti trova la morte, il secondo resta solo e vuoto» 14. Due storie diverse, due percorsi speculari anche se opposti, desideri differenti, ma un identico destino.

1 Dice Magrelli: «Il viaggio è, da subito, movimento attraverso lo spazio nel testo e movimento del testo stesso, movimento dell’autore e del lettore nel testo e, infine, in alcuni casi, di quest’ultimo verso i propri principi organizzativi. […] Il viaggio consente allo spazio di farsi testo e al testo di raccontare lo spazio, e a entrambi di assumere, a loro volta, i tempi e i rischi di un percorso da seguire, una collocazione mitica da svelare». Enrico Magrelli, Ad ovest di nessun Est, in Giorgio Simonelli, Paolo Taggi (a cura di), L’altrove perduto. Il viaggio nel cinema e nei mass media, Gremese, Roma 1987, p. 25. 2 Come osserva Villa, è l’intero film che è «teso tra un’entrata e un’uscita di strada». Federica Villa, L’inventio del quotidiano in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Marsilio, Venezia 1996, p. 282. 3 Maurizio Grande, Abiti nuziali e biglietti di banca, Bulzoni, Roma 1986, p. 69. 4 Noël Burch, Praxis du cinéma, Gallimard, Paris 1969 (trad. it. Prassi del cinema, Il Castoro, Milano 2000). 5 Ivi, p. 30. 6 Ivi. 7 Ivi. 8 Federica Villa, L’inventio del quotidiano cit. 9 Ivi, p. 282. 10 Ivi. 11 Ivi. 12 Ivi. 13 Ivi. 14 Ivi.

Antologia critica

Poteva essere una finissima commedia di caratteri, per significare da una parte la rivoluzione psicologica provocata nel ragazzo dall’esuberanza e dall’ottimismo del compagno di viaggio, e dall’altra il prezzo di solitudine e di cinismo pagato dal piccolo avventuriero. Temi che il film tocca appena, requisiti appunto dalla macchietta dipinta benissimo da Gassman, ma che soltanto con più attento tratteggio avrebbero espresso il significato della tragica conclusione. Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 9 dicembre 1962.

Il valore allegorico della vicenda è anche troppo chiaro. Ma la figura di Bruno, che nella sua massiccia aggressività, nella sua vacua tensione, ha sull’inizio una grottesca, seppur univoca corpulenza, si perde e minaccia di banalizzarsi proprio laddove inclina ad acquisire maggiore complessità. Ed ugualmente, nel secondo tempo, il racconto si spezzetta in un’episodica a volte marginale, rincorre effetti farseschi a sé stanti, rendendo ancora più cruda la fragilità dell’altro personaggio, quello di Roberto: il quale finisce con l’incarnare, più che un termine dialettico del

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dramma, un suo pallido sottofondo morale. Aggeo Savioli, «L’Unità», 9 dicembre 1962.

Non tutto, certo, nel film è ineccepibile: lo stesso umorismo, non di rado si vena, specie nei dialoghi, di scurrilità gratuite e eccessive, riprovevoli anche sul piano del buon gusto, e il respiro del racconto, svelto, agile, velocissimo agli inizi, più avanti si inceppa, ristagna, si concede delle pause non sempre sorrette da uno stile egualmente brioso. […] Sono però contraddizioni e scompensi che non tolgono molto all’impegno di Risi e alla compiutezza parodistica dei suoi risultati. Gian Luigi Rondi, «Rotosei», 17 dicembre 1962.

Film d’innegabile interesse che ruota attorno alla breve vacanza di due occasionali amici. […] Due caratteri si fronteggiano, a tratti resi con finezza d’intuito psicologico. […] Un pallido senso morale sopravvive nel personaggio istrionicamente interpretato da un Gassman ossessivo e narcisistico. […] Il tragico epilogo che la platea respinge e non prevede, ha un’amarezza di origine esistenziale. Mino Argentieri, «Cinema 60», gennaio 1963.

Il Sorpasso è la vera tesi di laurea di Vittorio Gassman come attore cinematografico […], finalmente arrivato a essere se stesso anche sullo schermo. Bruno è un quarantenne ossessionato dalla furia di vivere, dall’ansia dei rapporti familiari, dal timore della decadenza e della morte. Per lui, come per tanti uomini

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d’oggi, l’automobile è il pretesto di un atto esistenziale, la proiezione dei suoi scompensi profondi: e il sorpasso diventa una rivincita sui fallimenti dell’esistenza, un modo comodo per sentirsi vincitori quando si sono perdute molte battaglie. Nel ritratto c’è una componente autobiografica e romanzata nelle dimensioni della fantasia. Dino Risi ha fatto un film interessante non soltanto come traguardo di un attore giunto al culmine delle sue possibilità. Pur con qualche episodio meno risolto, Il sorpasso ha un suo andamento libero e picaresco che avvince e interessa. Il personaggio che rimpalla le sparate di Bruno è uno studentello di legge, timido e sommesso (Jean-Louis Trintignant), letteralmente strappato alla sua scrivania dall’entusiasmo contagioso e un po’ vuoto dell’amico improvvisato. Ma Bruno, anche se ha un tipo di materia che può dar l’angoscia al di là del divertimento, è un fortunato; il suo amico, invece, no. La vita, che nell’agitarsi del compagno sembra tanto facile, respinge implacabilmente il giovane fino a una morte ingiusta e inaspettata. La breve vicenda imbocca senza stonature una conclusione tragica ed è un apologo su ciò che serve e non serve all’uomo contemporaneo per attraversare un’esistenza invasa dal frastuono. Gli eccessi di sensibilità, la delicatezza d’animo che trapela dalla sequenza del castello, un po’ in stile Le grand Meaulnes (e vagamente in peccato di intellettualismo) sono di troppo […]; ma anche abbandonarsi alla corrente, come fa il protagonista del film, è soltanto una soluzione provvisoria. Mentre diverte il film offre motivi di riflessione. I personaggi minori, gli ambienti attraversati dalla rombante macchina di Bruno, le canzoni da spiaggia che arrivano a folate, tutto è giustamente dosato, senza moralismo né presunzione, da un regista che conosce l’alchimia dello spettacolo moderno. Tullio Kezich, «Sipario», gennaio 1963.

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Un ultimo fattore di squilibrio è rappresentato dal finale, inopinatamente tragico: ormai scrollata la timidezza e risoluto a imitare in baldanza l’amico, Roberto incoraggia Bruno a un rischioso sorpasso e nell’incidente perde la vita. Morale coerente con la sotterranea amarezza del film (Roberto è la vittima innocente di un’emulazione sbagliata e completa la definizione negativa di Bruno), questo epilogo ha però l’effetto di una brusca mazzata sullo spettatore impreparato e sviato dai toni troppo ilari del resto dell’opera. Giulio Cattivelli, «Cinema Nuovo», n. 161, febbraio 1963.

Il sorpasso è un film divertente nel senso proprio del termine, e in più ha in sé più di un motivo aperto alla riflessione e all’approfondimento: quell’inizio così pazzoide e picaresco, ad esempio, quel finale imprevedibile eppure tutt’altro che psicologicamente ingiustificato, quella parte centrale con la distruzione della poesia dell’infanzia e dei ricordi più belli dello studente, il senso delle differenti prospettive che deformano il medesimo tema e le medesime forze. Nel cinema italiano, è noto, mancano opere che possano aspirare con dignità a un piano artigianale di interessi superiori alla media. Il sorpasso va a far parte dei pochi film del gruppo, anche perché coglie i sintomi di un’aria estremamente italiana, in un tema vicino a una sorta di improvvisazione emotivamente caratteristica nelle circostanze, nei personaggi e, perfino, negli istinti di cui il personaggio è eroe e vittima. In un certo senso l’attualità del film va a scapito di un’introspezione di relazioni più ampia e più diretta; ma sotto un altro profilo vale la pena sottolineare che Risi ha colto una situazione in atto, che è di sfacelo e di disintegrazione morale e materiale. È anche tutto questo che ribadisce la consequenzialità del finale,

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con la tragica conclusione della doppia avventura di Bruno, il bullo, e dello studente: una guida pazzesca porta l’automobile a uno sbandamento che lancia il giovanotto fuori dalla portiera, e per la prima volta sul viso di Bruno appare un’ombra di stupore e di angoscia, di pensierosa coscienza delle proprie azioni, di senso di responsabilità legato all’affiorare del dubbio che la sua vita di tutti i giorni possa non essere giusta, se aperta a tali terribili improvvisazioni, e se chi paga è ancora una volta l’innocente. La conclusione del film è più forte e valida anche in virtù dell’anticonformismo di rinuncia a un lieto fine che avrebbe potuto presumere, invece, di andare più vicino alla natura della storia o, per lo meno, ai gusti del pubblico. In un certo senso, quindi, Risi ha sfidato le consuetudini e ha effettuato una sorta di esperimento addirittura sulle clausole e sul «corpus vile» del film leggero italiano, da un lato incatenando lo spettatore e dall’altro piegando il film alle proprie esigenze, non tanto di «messaggio» quanto di spirito e di umanità. Ed è stato aiutato […] anche da una collaborazione attenta e interessata da parte degli attori. Gassman, in primo luogo, che dà fondo al suo repertorio e ha trovato con Risi una affinità di rapporti e di intendimenti inferiore forse soltanto a quella di un tempo con Monicelli […]; e poi Jean-Louis Trintignant, il timido Roberto improvvisamente costretto a guardare alla vita con una prospettiva nuova, più amara e piccolo-drammatica, e infine Catherine Spaak, Luciana Angiolillo, Claudio Gora, in figurazioni limitate ma efficaci. Giacomo Gambetti, «Bianco & Nero», n. 1/2, febbraio 1963.

Quello di cui dubitiamo è però che la lezione impartita nel Sorpasso sia intesa da coloro ai quali è rivolta. Abbiamo la sensazione che l’aspetto comico di cui il film si ammanta sia il solo che troppi spettatori comprendano. Non si capirebbe, altrimenti,

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l’entusiasmo con cui la platea segue e sottolinea le azioni del protagonista: urla di giubilo quando Gassman rivolge gesti sconci ai sorpassati o quando escogita la trovata di trasferire sulla propria vettura il foglietto di contravvenzione data ad un’altra automobile in sosta vietata. Il commento più frequente che abbiamo ascoltato alla conclusione del film è stato: «Peccato che finisca male!», mentre all’indirizzo dell’«eroe» andavano giovanili e ammirative esclamazioni del tipo: «Che elemento!», «Che dritto!», «Che mago!». Angelo Solmi, «Oggi», 3 marzo 1963.

Il sorpasso è un film di superficie, che vi tocca sulla superficie, ma non manca di stuzzicare nel profondo. Risi fu, si dice, medico, lo è sempre: pratica l’agopuntura. […] Fatto di mille accidenti che situano un destino, un luogo, un’epoca, di mille riferimenti che ne stabiliscono le coordinate, il film ci restituisce tutti questi imponderabili che, prima dell’invenzione dei fratelli Lumière, sparivano per sempre, queste piccole peripezie del secolo che formano l’aria del tempo. Michel Delahaye, «Cahiers du cinéma», n. 147, settembre 1963.

Il sorpasso: un miliardo di incassi. Un risultato straordinario, tanto più straordinario se si considera che il film non è un capolavoro, non è un «colosso» (è anzi, girato in bianco e nero e destinato allo schermo normale), annovera nel cast un solo divo, Vittorio Gassman (Catherine Spaak, che del resto qui appare in una parte di fianco, non era ancora una stella quando il film fu proiettato), e non fu preceduto né accompagnato da particolari clamori pubblicitari. Perché, dunque, un così enorme successo?

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Ricercarne le componenti può essere utile, e non soltanto per comprendere meglio gusti ed esigenze del pubblico italiano più largo. […] Il sorpasso è la prima commedia cinematografica che affronta i temi del «boom». E ne tratta in modo indiretto, ma non evasivo: lo stesso titolo, al di là dell’immediato riferimento alla sequenza finale imperniata su un incidente stradale, contiene una scoperta allusione al «boom». La vicenda e il linguaggio del film sono gremiti di agganci alla cronaca quotidiana: in chiave comica più che satirica, il regista Dino Risi e gli sceneggiatori Scola e Maccari colgono con piglio robusto numerosi tratti tipici del costume italiano contemporaneo, pur se li fissano poi, in buona misura, nei limiti del macchiettismo. Giovanni Cesareo, Le commedie del «boom», in Vittorio Spinazzola (a cura di), Film 1964, Feltrinelli, Milano 1964.

In tutta la serie di film che trova forse nel Sorpasso di Risi una delle opere iniziali più significative, i motivi del viaggio, la molteplicità degli incontri, l’accumulazione dei tipi, se consentono di estendere lo sguardo alle stratificazioni sociali ed alla tipicità dei fenomeni di massa, non consentono di produrre individualmente un senso assai relativo. Il senso nasce più per accumulazione che da un discorso diretto e i simboli fluttuanti dell’evasione di massa (automobili, feste, alberghi e pensioni familiari, incontri sotto l’ombrellone, colonne sonore di canzoni di successo) consentono di registrare, come un termometro sensibilissimo, tutte le trasformazioni più massicce ed evidenti dei modelli sociali e culturali degli italiani inebriati dalla scoperta del consumismo. Si giunge al boom, lo si rappresenta, ed è subito crisi. Jean-A. Gili, Arrivano i mostri. I volti della commedia all’italiana, Cappelli, Bologna 1980.

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Nel Sorpasso abbiamo una storia di castrazione, dove ciò che manca è immaginario: è ciò che non si può avere. […] Ciò che Bruno (Vittorio Gassman) non può avere senza pagare è il successo facile, la sicurezza sociale e emotiva, l’affermazione al di fuori dei patti, al di fuori di quel dare e avere (materiale e simbolico) che ci inscrive nell’ordine simbolico della legge. Bruno Cortona non può mantenere la sua condizione di «nomade» e di «miles gloriosus» che vive di scorribande sentimentali da una casa all’altra, da una donna all’altra, da un luogo all’altro, da un pasticcio all’altro, senza mai pagare. Nella sua corsa folle per eludere il «debito simbolico», per rinviare la sanzione, per sfuggire all’ordine della legge, Bruno Cortona non fa altro che eludere (e mascherare) la castrazione che lo attende. E in parte gli riesce, perché il debito verrà pagato dal suo giovane amico, dal suo alter ego; il quale muore «dando alla luce» il suo ego alter: quell’io che è sempre «altrove», maschera molle e friabile di un’identità debole che fugge, che obbedisce al registro dei mascheramenti e delle metamorfosi per non lasciarsi cogliere sul fatto. Maurizio Grande, Abiti nuziali e biglietti di banca, Bulzoni, Roma 1986.

Tutte le doti di Risi vengono nuovamente a galla, dopo Una vita difficile, nel Sorpasso […], che è un classico del cinema mondiale, ammirato e copiato anche in America. Realizzato da un produttore (Mario Cecchi Gori) che non ci credeva molto, costato pochissimo, girato in sei settimane, per buona parte improvvisato, Il sorpasso presenta attraverso la struttura del road-movie, il ritratto acutissimo e penetrante di un’Italia al culmine della ricchezza, dove però l’euforia è già turbata dai primi presentimenti. Il viaggio attraverso il benessere dei due amici occasiona-

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li (Gassman e Trintignant) uniti da un auto e dal ferragosto si rivela in realtà un viaggio verso la morte: nel film vi sono automobili, spiagge folleggianti, locali di baldoria, ma anche un cimitero premonitore (in cui i due uomini vanno a corteggiare le straniere) e fin dall’inizio un primo incidente mortale, per il momento altrui (Gassman comunque non si lascia impressionare: vorrebbe trarne spunto per una speculazione, cercando di esorcizzare la morte con la forza del benessere). Come ogni classico, Il sorpasso è un’opera essenziale, non c’è niente di troppo. Anche il personaggio esuberante di Gassman non diventa mai macchietta, sia per la statura (anche fisica) del protagonista, sia perché l’intera società dell’epoca aveva qualcosa di eccessivo: piacevole, seducente, a tratti inebriante, ma azzardata, spaccona, spericolata, a cento all’ora sull’orlo del precipizio. Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese, Roma 1990.

La perfezione di Il sorpasso, cui non potresti togliere né aggiungere una sequenza o una battuta, non va cercata nella virulenza dell’Atto d’accusa quanto, piuttosto, nei dubbi, nei sintomi d’inquietudine che lo attraversano e lo elettrizzano: tra i quali c’è sicuramente quello sull’irritante entusiasmo delle folle, ma mai disgiunto da quello sui rovelli spossanti ogni individuo. Valerio Caprara, Dino Risi. Maestro per caso, Gremese, Roma 1993.

Il racconto di Risi, anche se si sottrae agli effetti facili, è tra i più spogli ed ellittici di tutta la commedia: egli punta direttamente all’effetto che vuol raggiungere. […] Bruno Cortona, il personaggio interpretato da Gassman nel Sorpasso, è il prototipo di quegli individui «mostruosi» onnipresenti nella realtà del

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boom. In lui Risi scopre un tipo di italiano che, pur vivendo ventiquattr’ore su ventiquattro in maschera, in perpetuo movimento, inventando nuovi riti, celebrando nuovi miti, è completamente svuotato di ogni profondità umana. Al di là della maschera (all’inizio divertente, poi grottescha e funerea) c’è tutto un itinerario di comportamenti obbligati, di condizionamenti. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 4, Editori Riuniti, Roma 1993.

Tutto il film è percorso da un sonoro incalzante formato dalle canzoni del momento, dai tipici motivi da spiaggia di Edoardo Vianello a Peppino di Capri a Modugno. Il gesto di inserire nel «mangiadischi» che Bruno porta con sé nell’auto, il 45 giri di Vecchio frac, suggerisce al protagonista la sarcastica parodia di pensieri profondi – e la celebre autodefinizione: «Perché io so’ un tipo chiuso» – così come il richiamo al nome di Antonioni. Cui Risi, con cattiveria (che egli dice ricambiata, all’epoca), non risparmia la battuta irriverente. […] L’anno dopo Il sorpasso propongono a Risi di «ripetere» […]. Risi però questa volta non accetta. O meglio: non firma il film Il successo (la regia è ufficialmente di Mauro Morassi) ma di fatto vi collabora attivamente. Il Bruno del primo film è diventato Giulio, è stanziale e non vive, è meno spiantato di quello, ha una posizione in una società immobiliare, ha una moglie, un amico anche lui, e molta ambizione: di denaro, di «cose», di simboli tangibili e appariscenti dell’«arrivato»: del successo. L’affare, la svolta, in quegli anni non può che essere nell’edilizia. Tramite il suo lavoro Giulio sa di un lotto sulla costa della Sardegna, lo compra, s’indebita fino al collo. Arriverà infine a vedere i frutti della sua spregiudicata speculazione, ad avere la villa in Sardegna. Ma moglie e amico non li ha più. […] C’è l’intenzione molto dichiarata, molto co-

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struita e forzata, di farne un apologo, una denuncia sulla salute morale che gli affanni materiali stanno facendo perdere. Un appello, un allarme sui prezzi umani che un dissennato agitarsi intorno all’effimero fanno pagare. Un po’ facilone, un po’ mistificatorio: il fascino diabolico dei Cortona era anche nel loro osare, nella loro irresponsabile audacia, mista a conformismo, egoismo, pusillanimità. Merito del Sorpasso era stato proprio di coglierne questo valore, spiandolo con curiosità e un pizzico di ammirazione, non solo condannandolo, pregiudizialmente. Paolo D’Agostini, Dino Risi, Il Castoro, Roma 1995.

Sotto gli pneumatici della lancia Aurelia Sport supercompressa che sfreccia con il suo clacson rumoroso per le strade deserte di Roma, per le provinciali che conducono al rito di massa delle vacanze al mare, per le vie della speranza sul filo della scogliera toscana, scorre tutta l’Italia del boom: con l’illusione di riscattare, nell’ebbrezza della velocità e nel gusto del potere al volante, tutte le frustrazioni e i fallimenti del dopoguerra. Il sorpasso appare ancora oggi come un film profetico. È l’ombra della morte, che incombe su quelle frenetiche esperienze di quel week-end di mezza estate, si protende rivelatrice su un’intera società tesa a bruciare le proprie illusioni in un eterno presente, lasciandosi dietro una lunga scia di rimorsi. Ma Il sorpasso non può essere ridotto a contenitore sociologico. Il cinema di Risi non ammette catene ideologiche, in poche inquadrature sa tratteggiare un ambiente, una situazione o un personaggio e, soprattutto, sa sempre offrire vitale realtà a un quotidiano che poi fa esplodere in commedia, per mezzo della straordinaria ricchezza di una sceneggiatura e di una regia quanto mai inventive. Aldo Viganò, Commedia all’italiana in cento film, Le Mani, Genova 1995.

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Il sorpasso […] titolo emblematico nel duplice senso materiale e, appunto, morale. Il termine squisitamente automobilistico mette in primo piano la macchina […] come la vera protagonista della vicenda. Questa guizzante spider bianca, questa Lancia sport dalla ripresa favolosa, questa Aurelia decappottabile e supercompressa, insomma questa macchina da sogno […] compie nella calura del ferragosto il suo itinerario dal deserto di Roma al mare di Toscana […]. Al volante l’uomo, «lo splendido quarantenne» accattivante e fanfarone, per cui l’auto è un prolungamento, una protesi meccanica incorporata al suo vitalismo e alla sua vanagloria. Non è nemmeno, propriamente, uno status-symbol personale: semmai è il simbolo di uno status che sembra essere a portata di tutti, ma che ad ogni buon conto il rombante Bruno non ha ancora raggiunto. […] Per il giovannottaccio impunito, il romanaccio d’assalto, quella vettura di rappresentanza non rappresenta in effetti un benessere costituito, ma un privilegio estemporaneo. A che gli serve, personalmente, un oggetto così al di sopra delle sue condizioni, e che si apre al vento esattamente come il suo carattere, se non a ben figurare nel vuoto spinto della sua coscienza, a millantare una presunta libertà […], a «rimorchiare» prendendo al volo ragazze di passaggio? Nella sua funzione più nobile, l’Aurelia sprint è soltanto il veicolo che gli permette, diciamo così, di far propaganda al boom. […] Nei riguardi del grande fenomeno economico e di costume egli si sente un commesso viaggiatore spavaldamente alle prese con l’inventario dei beni che il Miracolo squaderna alla vista dell’italiano rapito. Il sorpasso è lo specchio di quest’Italia da sballo, che ironizza sul centrosinistra appena lanciato, che prende in giro Antonioni con tutta la sua alienazione, e che si butta a corpo perduto a comprare tutto il comprabile. Un paese che sta irresistibilmente cambiando i propri connotati. […] Ed ecco il significato morale del ti-

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tolo, l’arte del «sorpasso» è quella di irridere gli altri, di piazzarsi con disinvoltura al posto giusto, di carpire alla vita ciò che si può afferrare sul momento, cullati e divertiti da un’ondata di allegro cinismo. Il cinismo diventa vita, e quel mentore affascinante e devastante, attraverso il vortice degli occasionali incontri gustati con intrepida facciatosta, guida il suo povero allievo alla morte. Ugo Casiraghi, Il cinema in edicola. Un anno di film con L’Unità, L’Unità Iniziative Editoriali, Roma 1995.

I due protagonisti […] compiono un percorso speculare: partono da poli opposti, s’incontrano, si sorpassano, e tendono rispettivamente l’uno al punto di partenza dell’altro. Se infatti Roberto da una situazione esistenziale tutta risolta nel pensiero […] intraprende una strada che lo porterà ad un massimo di iniziativa, nel momento culminante in cui inciterà l’amico al sorpasso, l’esuberante Bruno si muoverà da uno stato di minima riflessività […] a un grado di coscienza, che per lui coincide con il massimo della meditazione sulla vita, ovvero con lo sguardo sulla fine dell’amico. […] Il racconto della commedia con Il sorpasso muta d’aspetto. È proprio il suo articolarsi secondo la logica della specularità […] può suggerircelo. Nel racconto infatti […] è inscritta una regola di circolarità degli elementi che vede ritornare l’esistente su se stesso, che ne inibisce una risoluzione in qualcosa d’altro, radicalmente mutato. In questo senso il film di Risi risulta emblematico di quella fase transitoria del genere commedia da semplicemente italiana a decisamente all’italiana, laddove quest’ultima è proprio vista alla luce di una sclerotizzazione di tipi e di figure, che portano lontano il racconto dal consueto happy end, reale mutamento di stato delle cose, proprio della commedia anni Cinquanta.

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Federica Villa, L’inventio del quotidiano, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Marsilio, Venezia 1996.

La natura problematica della normalità e dell’adesione ai valori della società […] è il soggetto del maggior numero delle commedie di Risi. […] Il suo Sorpasso, impiega una struttura narrativa libera e picaresca – un automobile va da Roma a Viareggio – per esplorare i valori dell’Italia che cambia durante gli anni del boom del primo dopoguerra. Contrapponendo due tipi di caratteri – Bruno […], il superficiale estroverso ossessionato dalla propria macchina, e Roberto […], un pensoso, introverso intellettuale – Risi segue la coppia in quello che è stato acutamente definito l’equivalente italiano di Easy Rider. Il film finisce brutalmente con un incidente d’auto, di cui resta vittima Roberto. Il disastro aleggia sotto l’apparenza della recente prosperità italiana rappresentata dall’automobile. Peter Bondanella, Italian Cinema. From Neorealism to the Present, New Expanded Edition, New York 1997.

Il sorpasso, il migliore risultato della pur densa filmografia risiana e, forse, in assoluto la più bella «commedia all’italiana» […] del decennio. Qui, due personaggi contrapposti, Roberto e Bruno, sono rispettivamente un introverso e un estroverso, un pensoso e un superficiale, ma anche un problematico e un cinico, uno che si fa la vita «difficile» e uno che se la fa oltremodo «facile». La commedia, alla fine, si piega amaramente in dramma; ma non è in questa conclusione, forse alquanto posticcia (così come lo era quella del film precedente), che sta la morale della favola. L’interesse del film, che ha nel complesso una splendi-

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da tenuta ed è confortato da una duplice buona interpretazione di Trintignant e di Gassman (quest’ultimo soltanto a tratti eccessivo), sta nella intelligenza del confronto Roberto/Bruno che, per quanto sovente diluito in una episodica costruita attorno alla battuta divertente e non sempre con il necessario senso della misura, assume il rilievo abbastanza corposo di un contrasto esistenziale: ma non tanto, o non soltanto, tra psicologie diverse, quanto fra scelte opposte e opposte tendenze dei tempi e della società. Lino Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia 1998.

Il sorpasso è essenzialmente l’unione di due caratteri diversissimi in un contesto ben definito a livello sociale, tanto da far risultare le azioni e gli avvenimenti che si susseguono nella narrazione come dei precisi riferimenti allegorici che forniscono con precisione l’immagine di un dato periodo della storia e della società italiana. […] Bruno vive pienamente l’ottimismo che la penisola sta attraversando […] Roberto, di contro, è l’emblema di chi non riesce ad allinearsi con l’ottimismo esasperato presente nella società, il simbolo di coloro che non riescono a vivere pienamente l’ottimismo del periodo cogliendo i tempi giusti per l’azione. […] Bruno è l’azione, Roberto l’indecisione; Bruno è la tensione vitalistica ammantata di facile progresso, Roberto è il quieto vivere e l’incapacità di approfittare degli eventi. […] La mancanza di allineamento alla mentalità a lui contemporanea pone Roberto fuori da ogni contesto, emarginato dalla sua indolenza caratteriale e quindi corpo morto in una collettività in continuo movimento. […] Così l’auto, che nella prima inquadratura del film veniva mostrata in pieno movimento ed attività sulla strada, trova il suo annullamento (e triste capovolgimento, visto il suo cappottamento) nell’ultima immagine del film, fuori dalla

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striscia d’asfalto, sugli scogli toscani, mentre le onde che mestamente vanno sulle rocce sottolineano connotativamente la deriva esistenziale degli individui vittime dell’incidente. Il sorpasso concentra sulla strada l’emblema del suo assunto: l’attenzione non è posta sul vuoto tragitto (le decisioni sono sempre frutto di umori estemporanei) o sulle relazioni con il contesto spaziale, bensì sulla relazione simbolica che si instaura tra l’Aurelia sport di Bruno e le altre automobili, le quali diventano, sul piano denotativo, semplicemente un ostacolo alla piena velocità dell’auto, mentre, ad un livello più profondo, dimostrano il bisogno di eliminare gli intoppi che si frappongono sulla via che conduce al raggiungimento del totale benessere. Giampiero Frasca, Road movie. Immaginario, genesi, struttura e forma del cinema americano on the road, UTET, Torino 2001.

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