Dietro ai nostri occhi. Un diario
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Lie DARDENNE Dietro i nostri occhi

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l ii diario

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I) figlio

1/Enfant Il matrimonio di l>»rna

02/12/1991 Resistere fino allo stremo al destino dell'opera d’arte, alla potenza sorda

che irrigidisce, ostacola, mura, soffoca, imbalsama. La lotta contro questo destino firma la vera opera d'arte.

03/12/1991 Fare delle immagini con la pennellessa e non con il pennello. La cosa da

mostrare è ispida, piena di asperità. La stessa indelicatezza con il suono.

09/12/1991 Soffoco nelle immagini e nella musica di questo cinema che riesce a immaginare solo bloccando i movimenti del respiro della realtà. Fantasie

ma non metafore. Assenza di trasporto, costrizione, passaggio chiuso. Aiuto! Contro queste immagini tappo, queste immagini/musiche tappate da scop­

piare ma che non scoppiano mai, contro queste immagini piene e chiuse, bisogno insopprimibile di immagini e di suoni che vibrino, gridino, colpi­

scano con i piedi e le mani fino a far esplodere la bolla. Un buco. Un’inqua­ dratura.

19/12/1991 Bisogna ancora scioccare, infrangere codici? L’importante per un film è riuscire a ricostruire una qualche esperienza umana. Uno choc, vista l’as­ senza di una simile esperienza nel nostro presente.

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26/12/1991 «Non vedo nessuna differenza di principio» scrive Paul Celan a Hans

Bender «tra una stretta di mano e una poesia.» Citando questa frase Lévinas apre un testo dedicato a Paul Celan.

Vorrei che riuscissimo a fare un film che fosse una stretta di mano.

29/12/1991 Cosa fare? Bisogna continuare a voler filmare? A fare dei film? Perché

mai! D brutto film che abbiamo appena girato dovrebbe guarirci definitiva­ mente da questa illusione, da questa pretesa. D nostro paese, la nostra storia

possono produrre dei cineasti come noi, un cinema come quello che vorrem­

mo fare? Ad ogni modo tutto è già stato fatto e meglio di come noi potremmo

mai fare. Hanno ragione i vecchi e nuovi cineasti che annunciano la morte del cinema, che ne commentano la sepoltura. Hanno ragione. Per l’appunto!

Proprio perché hanno ragione ci spingono, me e mio fratello, a contraddirli, a credere che possiamo ancora filmare, inventare, fare qualcosa di nuovo.

La camera obscura non è una camera mortuaria dove vegliare il corpo del defunto. Oggetto perso per sempre! Oggetto che mai ritroveremo! Non ce ne

importa niente! Non ci lasciamo contagiare dalla loro malinconia! Sputiamo fuori la bile nera! Che i morti seppelliscano i morti! Vivere! Vivere il cinema

futuro! Sta a noi esserne all’altezza. Abitare un paese piccolo come il nostro. Non frequentare l’ambiente del cinema. L’isolamento necessario.

03/01/1992 Non pensare di piacere o dispiacere il pubblico. Lanciare un occhio a questa speculazione infernale basta a inghiottirvi interamente e per sempre. Fuggire tutti gli agguati che ci tende, fare il buio, fare il vuoto per avvicinare il movimento essenziale, il movimento del senso che cerca di esprimersi,

il movimento della forma che cerca di inquadrare. Quando sentiamo che questo movimento ci prende, quando lo avvertiamo come qualcosa che ci comanda, che ci obbliga e al contempo libera, apre, è il segno della presen­ za dell’altro, dell’altro incontrato al centro della nostra solitudine. L’opera

d’arte che emerge in questo movimento è una richiesta all’altro. Ci sarà il pubblico a ricevere questa richiesta e a risponderle? Non è questa la doman­

da che dobbiamo farci.

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19/01/1992 Uscire. Semplicemente uscire. Incontrare qualcosa, qualcuno, una mate­

ria, una superficie, un corpo estraneo, sconosciuto, non so cosa ma uscire da me stesso, essere raggiunto, toccato. Non ne posso più di stare all’interno.

Johan Van Der Keuken ha ragione a dire che il cinema non è un linguag­ gio ma uno stato. Arrivare a trasporre nei nostri film (se ne faremo ancora) lo

stato ispido, bruto, imprevedibile, teso (sistema economico di produzione «a flusso teso») della realtà attuale. L'argomentazione secondo la quale un'opera d’arte mostra l’orribile per­

ché la realtà è orribile è solo una piroetta dialettica.

21/01/1992 Dobbiamo ripartire da zero anche se sappiamo che è impossibile. Biso­ gno di cominciare, di non ripetere. Sensazione di una necessità che ci obbli­

ga a dire così, senza che questo sia scelto in funzione di ciò che è stato già

visto o di ciò che non è stato mai visto. Discendere nella propria solitudine

e restarci il tempo necessario. Necessario per sfuggire a ogni tentazione di

utilizzare procedimenti, effetti, e per provare sulla nostra pelle ciò che ab­ biamo o non abbiamo da dire.

23/01/1992 Facciamo ciò che sappiamo fare. Né più. Né meno.

26/01/1992 Quando non sapete più a che punto siete e vi siete smarriti, vi ricordate

di chi vi indicò il cammino la prima volta. In arte, nel cinema per noi fu Gat­ ti. Ci fece uscire dal nostro torpore, ci proiettò nella poesia, alla ricerca dei

segni dell’uomo, della sua indistruttibile speranza. Ci insegnò a inventare

a partire dalla nostra verità, indipendentemente dalla povertà dei mezzi, ci insegnò il rigore, la demistificazione della tecnica. Ci siamo ricordati oggi di questo aneddoto che ci aveva raccontato a proposito delle riprese di Otto

ore al buio. Era il primo giorno delle riprese. Non sapeva che per guardare l'inquadratura della macchina da presa doveva appoggiare l’occhio sul mi­

rino, esercitando una pressione tale da fare aprire l’otturatore. Ogni volta che l’operatore capo gli chiedeva di guardare I’inquadratura, lui appoggiava

l’occhio sul mirino, ma non vedeva niente. Dopo una breve pausa sollevava la testa e diceva: «Possiamo girare».

10/02/1992 Che le nostre immagini non siano un destino. Che sfascino le imposte

della camera mortuaria in cui soffochiamo. Che non cadano nella caricatura

che rinchiude i personaggi in una somiglianza a se stessi che impedisce loro di accedere a sé. Che non diffondano potenza plastica. Che siano malmena­

te, rovinate, lacerate da ciò che non si mostra. Che non si guardino. Dagli occhi alzati allo schermo sale una violenta preghiera: «Liberaci da) male».

15/05/1992 «Se mi avessi amato(a) mi avresti cambiala).» Questa è la battuta che lo spettatore rivolge al film che non è riuscito ad amarlo. Amare lo spettatore

al punto da mettere in moto il suo desiderio, di aprirlo al tempo del film. In Des cilés détruites au monde inalterable, Max Picard scrive: «Con

l’amore si crea presenza e nel tempo generato dall’amore un evento può

durare, non fugge, permane». Il film genera tempo per lo spettatore che ri­ mane, lo spettatore che non è lo strumento del prodotto audiovisivo che si serve di lui, di tutto ciò che in lui è dominabile. Si dirà che questo amore

del film per lo spettatore è impossibile poiché lo spettatore è socialmente e

culturalmente costruito per non ricevere questa istanza. Eppure bisogna che qualcuno cominci. È nostro compito cominciare anche se l’insuccesso sarà nell’ordine delle cose, più della riuscita.

25/06/1992 Lunga discussione con Jean-Pierre sul modo in cui continueremo a fare

i nostri film dopo la brutta esperienza di Je pense à vous. Una cosa è cer­

ta: piccolo budget e semplicità ovunque (racconto, scenario, luci, troupe,

attori). Avere la nostra troupe, trovare degli attori che abbiano realmente voglia di lavorare con noi, che non ci blocchino con il loro professionismo, degli sconosciuti che non ci conducano nostro malgrado verso ciò che è già

conosciuto e riconosciuto. Contro l’affettazione, il manierismo prevalente: pensare povero, semplice, nudo.

Essere nudi, spogliarsi di tutti quei discorsi, quei commenti che dicono cosa è il cinema, cosa non è e dovrebbe essere, ecc. Non voler fare del cinema e gira­

re alla larga da tutto ciò che vorrebbe farci entrare nell’ambiente del cinema.

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18/07/1992 Emmanuelle è a Venezia per presentare Je pense à vous alla Settimana della Critica. Probabilmente una risposta negativa. Perché abbiamo fatto

questo film?

25/08/1992 I nazisti organizzarono un concorso fotografico il cui soggetto era Vistante

esatto prima della morte. Le foto erano scattate durante le esecuzioni. Tutto quello che l’uomo può fare, lo farà, e in quest’uomo ci sarà sempre l’artista

pronto a vedervi una formidabile sfida alla sua arte e il teorico pronto a giu­

stificare l’avventura.

04/09/1992 Ho rivisto L'uomo che uccise Liberty Valance. Ho appena letto una poesia di Henri Michaux dal titolo Mains élues. Se

la parola meditazione fosse sinonimo di visione, è cosi che vorrei fosse il cinema. Non tutto il cinema, ma almeno un film su mille.

Uscire da una sala cinematografica rassicurato, guarito... puro sentimen­

to di essere un uomo tra gli uomini. Più tardi, il ricordo di questo istante

come un istante di felicità.

06/09/1992 Ho l’impressione che molti film siano delle rese in immagine e musica

di una meccanica drammatica sempre più triviale, piattamente evidente, senza ombra eccetto quella calcolata dal funzionario-ideatore allo scopo di

mantenere in allerta il consumatore. Nessuna ombra reale, nessun mistero,

nessuna densità, nessuna contraddizione, nessuna domanda senza risposta e soprattutto non quella che tormenta ogni opera d’arte e che è il nocciolo

duro di ogni espressione artistica: chi rifiuta, resiste, lotta contro questa espressione?

12/09/1992 «L’albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce.»

Noi filmiamo gli alberi che cadono. Attenzione al fascino per il movi­

mento della caduta, per il paesaggio del disastro, per il rumore e per il fra­

casso. Attenzione al silenzio di fronte alla potenza plastica. La morte. Ma è possibile filmare la foresta che cresce senza filmare l’albero che cade? Un

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albero la cui caduta non ha niente di spettacolare, il cui rumore si fa sentire

nel silenzio della foresta che cresce. Impossibile dimenticarlo. Impossibile

metterlo a tacere. Si fa sentire nel silenzio del fiore che cresce sul bordo della strada. Il bulbo del fiore è prigioniero dello scheletro della mano di un corpo assassinato e sepolto da quelli che volevano nascondere il loro

delitto.

15/09/1992 Mi ricordo di una donna seduta ad alcuni metri di distanza da me al Mokafé, che parlava da sola, ogni tanto mi guardava senza vedermi, presa

nel suo delirio. Ho annotato qualche sua parola: «... quel che mi dispiace

è che la legge non preveda una punizione per gli assassini. Io sono stata assassinata due volte e nessuno è stato punito...».

25/09/1992 L’operaio è diventato un uomo solo, il membro di una specie in via d’estinzione. È quello che volevamo mostrare con Je pense à vous. In questo

processo di estinzione, c’è un’eredità? Di cosa?

07/11/1992 L’incidente e l’omicidio. La sordida intimità in cui si confondono l’omi­

cidio e il sesso. Il sangue e le lacrime della vittima. A noi piace questo. Gioiamo di essere sottoposti a fleboelisi, di essere vaccinati al sangue, al

sudore, allo sperma e alle lacrime altrui. Siamo in comunione con il loro corpo e al tempo stesso lo siamo con il grande corpo mediatico in cui tutti i liquidi umorali circolano massicciamente e a getto continuo.

08/11/1992 Il cinema ha la vocazione di catturare lo sguardo umano, quello in cui possiamo leggere simultaneamente il desiderio dell’omicidio e il suo divieto.

Fare attenzione: sembianza etica dell’immagine simultanea e conflittuale con la sembianza estetica.

Emmanuel Lévinas ha scritto che «l’etica è un’ottica». Ottica del volto,

rapporti di sguardi che le immagini si vietano di idolatrare riducendole a una plastica. Il volto umano come prima parola, come prima istanza.

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01/12/1992 Usciamo lentamente dall’infelice avventura di Je pense à vous. Fu un malinteso sin dall’inizio. Non sapevamo cosa volevamo e ci eravamo convin­

ti di saperlo. Mai più un’esperienza simile. Riuscire a dire di no agli altri,

ma anche a se stessi, il che non è facile. L’unico bel ricordo è il lavoro di

scrittura con Jean Gruault nella camera dell’albergo Le Chariot d’Or, in rue de Turbigo. Abbiamo riso molto, bevuto molto e scherzato parecchio. Ci ha insegnato come estrarre un personaggio di finzione dalla realtà e a diffidare

della magniloquenza. Mantenere freddezza come in Scarface. Lavoriamo su una nuova sceneggiatura. Cerchiamo un titolo per inqua­ drare, limitare, conoscere le nostre intenzioni.

Ho visto Assassinio di un allibratore cinese.

02/12/1992 Dirigo un laboratorio di scrittura cinematografica alla Libera Università

di Bruxelles. Non so perché ho accettato questo incarico tre anni fa. Forse

per il desiderio di insegnare. A che titolo? Non ho ancora scritto niente di interessante. Mi sento un impostore. Figura così ricorrente nel nostro pae­ se. Inoltre, quando scrivo una sceneggiatura non sono solo. Tìnte le lunghe

conversazioni con mio fratello per trovare la situazione e i personaggi, il movimento generale. Attenzione a non burocratizzare la fantasia degli stu­

denti con modelli/ricette drammaturgiche che si propongono di risolvere

la cosiddetta crisi della sceneggiatura.

06/12/1992 Lavoro alla sceneggiatura. Titolo provvisorio: Lo spiraglio. Non dispongo

di elementi autentici che solo un’inchiesta potrà fornirmi. Uno degli aspetti interessanti del film sarà mostrare i circuiti reali seguiti dai lavoratori clan­ destini. Non inventarli perché ne uscirebbero inevitabilmente degli stereo­

tipi. Inventare dei rapporti tra personaggi che siano la radicalizzazione di ciò che la realtà propone. Dobbiamo spingere fino al limite il nostro rifiuto

dell’estetismo. Non prendere attori noti sarà già un primo modo per evitare

che lo spettatore fraintenda. Non si deve sentire la (ri)mediazione attraverso

lo scenario, l’attore, la luce, ecc. Occorre che tutti questi elementi siano rifusi nello stesso sentimento, nella stessa impressione di vita bruta, al na-

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turale, che si svolge davanti alla macchina da presa, ma che avrebbe potuto

svolgersi in assenza di questa. La macchina da presa cerca di seguire, non aspetta, non sa.

26/12/1992 Il titolo della nuova sceneggiatura non è più Lo spiraglio, ma La promessa.

17/01/1993 Quello che oggi la televisione chiama reality show prova di nuovo che

la vocazione del cinema è di squarciare questa realtà. Da questo squarcio

appare il vuoto. Accesso a ciò che non esiste. Umana, vera, bella evasione! Uscire da ciò che è, da ciò che è solo di troppo. Il cinema si rivolge a ciò

che non esiste più, al vuoto, al niente, all’Altro che non c’è mai. Senza di lui, mangeremmo la carne dei nostri troppo simili, berremmo il loro sangue. Saremmo sazi del cuore della nostra realtà. Dio è morto. Il posto è vuoto. E

soprattutto non va occupato.

20/01/1993 Il bambino, la sua assoluta ignoranza dell’intreccio. Isacco, con la legna in spalla, accompagna suo padre. Probabilmente cammina dietro di lui, lo

vede di spalle, con il coltello in mano... «Dov’è l’agnello per l’olocausto?...»

Quelli che partecipano all’intreccio lo sanno, ma lui no. Dio, che ne è l’istigatore, lo sa. Abramo, che è il suo servitore prostrato,

lo sa. Isacco non lo sa e può porre la vera domanda, la domanda dell’inno­ cente, di colui che ignora l’intreccio.

Essere innocenti, forse è questo: essere fuori dall’intreccio. L’innocen­ za stessa della domanda di Isacco sembra poter dissolvere l’intreccio, dire

che il sacrificio non avrà luogo. Preso tra la parola di Dio che gli chiede di sacrificare il bambino e la parola del bambino che gli chiede dov’è l’agnello

per l’olocausto, risponde: «Dio stesso prowederà all’agnello». Queste parole annunciano che il sacrificio non avverrà, che il solo sacrificio sarà quello dell’intreccio stesso; sono uscite dalla bocca di Abramo senza che lui le senta, come se le avesse pronunciate soltanto per rassicurare il bambino.

Abramo non poteva dare altre risposte. Non lo sapeva ancora, ma aveva appena sentito Dio e gli rispondeva. Dio parla attraverso l’innocente. Dio ha

manovrato l’intreccio solo per dissolverlo.

Contrariamente al testo biblico, la storia metterà l’innocente alle prese

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con un intreccio senza Dio, un intreccio in cui avrà a che fare con FAvver­ sario, l’intrigante, che si farà beffe della sua domanda e lo ucciderà. In un

mondo senza Dio, nessuno è fuori dall’intreccio, eccetto l’innocente. Solo, continua a porre la sua domanda, la vera domanda, quella per cui l’umano sopravvive. Come «ereditare» significati dalle nostre letture bibliche dell’infanzia,

quando non ci troviamo più Dio?

27/01/1993 «Davide: “Tu”, disse a Useppe con una serietà quasi amara, “sei cosi ca*

rino che il solo fatto che esisti, in certi momenti mi rende felice. 'Ri mi faresti

credere a... a tutto! a TUTTO! Sei troppo carino per questo mondo”».

Elsa Morante, La Stona

19/02/1993 Ho sognato che Arda scendeva sulla spiaggia con il paracadute. Da questo sogno è nato tutto lo scenario dell’adattamento che potremmo fare

dell’opera teatrale Aida vaincue di René Kalisky.

Il cielo, il mare, la sabbia, le tende, un labirinto di tende, di tessuti per proteggersi dal vento.

I corpi che uscirebbero dalla sabbia. La spiaggia sarebbe un vero luogo

vitale.

25/02/1993 A Liverpool due bambini di dieci anni hanno assassinato un bambino di due anni. Cosa avevano ereditato per commettere questo atto? Stato delle

cose del nostro mondo.

03/03/1993 «Su ciò di cui non possiamo parlare, è meglio tacere», ha scritto Witt­ genstein. Vale anche per la scrittura dei dialoghi. Non far dire ai personaggi ciò che non possono dire. Non possono uscire dalla loro situazione per espri­

merla con le parole. Ci sono dentro. Sta a noi dare loro le parole attraverso

cui possa farsi sentire il silenzio delle parole che loro non possono dire.

04/03/1993 Ho finito la prima stesura de La promessa. Lettura con Jean-Pierre. La

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prima metà e alcune scene della seconda sono buone. Nella seconda parte

perdo il ritmo e il vigore dei personaggi. Attenzione alla mia compassione per i personaggi. Trovare dialoghi da cui scaturisca una tensione. Andare a stringere attorno al nucleo, attorno alla scena che progressivamente diventa inevitabile. Andare fino in fondo. È la cosa più difficile. Ricordarsi di Ordet.

18/03/1993 «Non avere maniera fu sempre Punica grande maniera.»

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, I

28/03/1993 «Ecco come sono le cose in questo paese. Tbtto scompare, persone e oggetti, vita e morte. Piansi la perdita del mio amico e mi sentii annientata dalla gravità del fatto in sé. Non c'era neppure la certezza della morte a con­

solarmi - niente di più di una specie di vuoto, un nulla divorante.» Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

15/04/1993 Molte trasmissioni televisive si fanno a spese di un certo strato sociale

basso le cui situazioni e comportamenti esibiti in modi caricaturali provoca­ no il riso nello spettatore. Tanto più quest’ultimo è vicino allo strato basso

(e consapevole che oggi si fa presto a finire in quello stato), tanto più il suo riso è forte e tradisce l’angoscia della caduta. Tanto più è lontano da questo

strato basso, tanto più il suo riso è divertito e intriso di una certa compassio­ ne. Invece, il riso degli operatori dei media che concepiscono e inventano

queste trasmissioni è lo stesso di una banda di piccole canaglie che ha ap­ pena fatto un colpaccio.

27/04/1993 André Bazin scrive nel suo libro su Jean Renoir «Renoir ha capito la vera natura dello schermo, che non è affatto inquadrare l’immagine quanto

nasconderne i contomi (...) Alla struttura più tradizionale dell’immagine, al

cinema aneddotico e teatrale ereditato in blocco dalla pittura e dal teatro,

all'unità plastica e drammatica dell'inquadratura”, Renoir sostituisce lo

sguardo ideale e insieme concreto della macchina da presa. Di conseguenza lo schermo non cerca di dare un senso alla realtà, ma ce la consegna come

una griglia crittografica ruotata sul testo cifrato».

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Continuare in questa direzione. Non inquadrare l’immagine quanto na­ sconderne i contomi. Spingerei fino a nascondere l’immagine stessa, fino a perdere l’inquadratura nella materia. Che l’immagine diventi materia alla

ricerca dell’inquadratura. Che la griglia crittografica non si possa più ruota­

re, che il documento resti cifrato.

29/04/1993 Oltre alle tecniche per produrre la suspense, trovare la pura tensione. D nucleo invisibile si irradia e non si sa cosa questa irradiazione produrrà e quando la produrrà. Non siamo più veramente in attesa di qualcosa di nomi­

nabile, in quello scarto che attiva il desiderio di vedere, di sapere cosa c’è

al di là della porta. Siamo dentro, al di là della porta, nel nodo. Permeabili alle minime scosse del filo che lega le parole, i gesti, gli sguardi. Sentiamo

il filo sfiorarci la gola, avvolgersi attorno al nostro collo, allentarsi, stringerei di nuovo. Saremo liberi solo allo scioglimento, all’epilogo, quando il filo sarà rotto, lasciandoci i suoi segni sul corpo. Ah, che belle cicatrici!

25/05/1993 Racconto mossi:

Due fratelli partivano per andare nei campi. Sul cammino che li condu­ ceva al lavoro, uno di loro disse: «È dolce».

Passò l’inverno. Tornando ai campi, nello stesso luogo dell’anno precedente, il secondo

fratello disse: «Cosa?» Il primo rispose: «D miele».

Il racconto chiede quale dei due fratelli abbia più memoria.

12/06/1993 Incontro con un distributore cinematografico di ritomo dal Cairo. È stato sconvolto dal fanatismo dei movimenti fondamentalisti e dall’apatia degli

intellettuali. Anch’io ho paura. Il discorso degli intellettuali arabi rimane

troppo ambiguo, rimasticano troppo spesso le loro umiliazioni, spiegano troppo facilmente l’oggi con l’eterno ieri della colonizzazione e del disprezzo

occidentale. Se continueranno a invocare le colpe dell’occidente per spie­ gare la loro situazione, rafforzeranno il sentimento di odio contro di noi e non prepareranno gli animi del loro paese alla democrazia.

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13/06/1993 Visto alla televisione: primo giorno di saldi in un ipermercato in Austra­

lia. Dietro ogni porta gli addetti, al segnale del caposervizio, le aprono, e poi di corsa si rifugiano dietro le casse, mentre la folla, che era ammassata davanti alle porte già da due ore, si precipita sulla merce e sulle scale mo­

bili, travolgendo e talvolta calpestando i più deboli. Il peggio deve ancora venire.

16/06/1993 Ho appena letto Casa d'altri di Silvio D’Arzo. È proprio questo che io chiamo creazione e trasmissione della durata.

30/06/1993 Mio fratello. Non potrei fare questo film senza di lui e lui non potrebbe farlo senza di me. Dipendenza reciproca che non suscita risentimento. Forse

potrebbe fare questo film senza di me e forse io senza di lui, ma tutti e due sapremmo che non sarebbe il film che avremmo fatto insieme e lo rimpian­

geremmo per sempre. Anche se scrivo questi appunti alla prima persona singolare, so che sono scritti alla prima persona plurale. Le sue domande sono le mie. Spesso sono queste che mi spingono a scrivere questi appunti

come se fossi il trascrittore di una riflessione, di un pensiero condiviso. È la stessa cosa per la sceneggiatura. Io tengo la penna ma essa scrive a

due mani. Difficile da spiegare, tanto più che durante la scrittura in ognuno è presente una forte e a volte opprimente sensazione di solitudine.

01/07/1993 Fai film. Non leggere più i testi che parlano di film. Impara facendo. Il pericolo per l’autodidatta: essere affascinato e quindi annientato dal sapere

che riguarda ciò che fa. E nonostante.

Proiezione di Je pense à vous a Dunkerque. La gita di Fabrice con suo fi­ glio tra le rovine industriali e i) cimitero delle tombe d’acciaio dove è sepolto suo padre è una digressione che forse dice qualcosa sul proletariato di oggi: un uomo che mostra a suo figlio le rovine abitate dal fantasma del padre.

22/08/1993 Ieri sera ho finito la seconda stesura de La promessa. Sento già il desi­

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derio di bruciare la sceneggiatura nel fuoco del film. Spero che Jean-Pierre apporterà nuovi elementi per il personaggio del padre che forse è ancora

troppo astratto. Ciò di cui sono sicuro: questa sceneggiatura implica uno

stile di ripresa che va nella direzione di ciò che vogliamo fare (piccolo bud­ get, una troupe che sia vicina, lavoro intenso con attori sconosciuti) e sono

potenzialmente presenti molti momenti di reale. Sta alla nostra macchina da presa rivelarli. Mi sembra che ci sia una miseria materiale che arriva a far

esistere l’angoscia spirituale. Pensare lo scenario come un deserto.

©9/09/1993 «Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo

guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impos­ sibile? fl Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto,

poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. Noi vogliamo glo­ rificare la guerra - sola igiene de) mondo -, il militarismo, il patriottismo,

il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.»

Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del futurismo, 1909 «Forse la storia corre oggi così rapidamente perché l’uomo non ha più alcuna presenza. [...] Soltanto la dedizione dell’uomo tiene saldo un evento,

solo grazie alla dedizione un evento diventa presente. Con l’amoie si crea presenza e nel tempo generato dall’amore un evento può durare, non fugge,

permane.»

Max Picard, Des cités détruites au monde inalterable, 1949

11/09/1993 Sono andato con Kevin a vedere Le vacanze di Monsieur Hulot. Un gran­ dissimo piacere. Abbiamo riso entrambi e spesso negli stessi momenti. H bambino al volante dell’autobus, il muso della volpe e lo sperone dello sti­

vale del cavaliere, il colonnello nella jeep che sembra parta per la guerra, la partita di tennis, la barca che si metamorfosa in muso di pescecane, la ca­

mera ad aria diventata corona mortuaria che si sgonfia sulla tomba, il suono

della macchina... Una delle caratteristiche delle vere opere d’arte è quella di permettere l’incontro di generazioni diverse, di allontanare l’assassinio latente.

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14/09/1993 Un cinema senza stile. Ogni stile è una caricatura, una somiglianza a

se stesso, un destino, una mummificazione, una vittoria del necrofilo che risiede in noi, sempre pronto a raffreddare quel che si muove, non trova la

sua forma, la sua immagine. Avviene un assassinio. Appare la forma. Impos­ sibile sfuggire. Eppure qualcosa deve sfuggire.

20/09/1993 Ho visto Mr Smith va a Washington. Una tensione che mi piace. Non va

per le lunghe e sa fermarsi quando bisogna.

23/09/1993 Ho visto Film Blu di Kieslowski. Non sono stato sensibile a quanto vo­ leva mostrare. Troppe formule, troppo manierismo. Non ritrovo l’incisività e la libertà del Decalogo. Cosa succede? Perché un cineasta così ispirato, così denso e misurato cade nei difetti dell’estetismo magniloquente? Come se la

forza della sua arte dipendesse dal fatto che filmava i corpi, i volti, le voci, gli sguardi, i paesaggi, le case, i rumori, i colori, la lingua, la luce del suo

paese. Difficile emigrare per un cineasta.

29/09/1993 Ho visto Piovono pietre di Loach. Magnifica fiaba. Stesso movimento che c’è in Brecht, senza che il punto di vista «ristretto» del personaggio sia soltanto pretesto alla scoperta di quel che ne è veramente. Siamo con lui,

fino alla fine. La scena del prete che lancia il libro dei conti nel fuoco è

straordinaria.

17/10/1993 Alla fine del Disagio della civiltà, Freud scrive: «Gli uomini adesso han­

no esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensio­

ne». Freud lo ha scritto nel 1929, ma forse è stata proprio questa agitazione,

questa infelicità, questa angoscia, sorta alla fine del diciannovesimo secolo europeo, a condizionare la nascita della psicanalisi come nuova forma di conoscenza capace di riflettere la crescita delle pulsioni di aggressione e

autodistruzione.

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11 cinematografo nato nello stesso momento e nella stessa Europa forse

è, anch’esso, un tentativo per aiutare l’essere umano a trovare una via nel labirinto delle sue pulsioni distruttrici di vita, una via attraverso la quale «l’Eros eterno» possa «tentare uno sforzo al fine di affermarsi nella lotta che conduce contro il suo avversario non meno immortale».

Alleanza tra il cinematografo e l’Eros suggellata nello sguardo capace di registrare i movimenti della vita nella loro unicità, grazie all’obiettività meccanica della registrazione, movimenti infimi e unici che tessono il tempo vivente, che sono un tentativo di fare crescere in noi, nella nostra cultura,

uno stupore, un’emozione, un singolo movimento intemo capace di svuotare

per un momento le pulsioni distruttive della loro energia, capace di aprire il nostro sguardo al silenzio dove nascono i movimenti della vita. Sappiamo,

peraltro, che il cinematografo ha mostrato con forza di essere capace del contrario.

24/10/1993 Edgardo: «0 mondo! mondo! mondo! Se non fossero i tuoi capricci e i tuoi rovesci a farti così odioso, la vita non si acconcerebbe alla vecchiaia!».

William Shakespeare, Re Lear, IV, 1

24/11/1993 «La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando

sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa, nel senso più lette­

rale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere.» Simone Weil, L'Iliade o il Poema della fona

«Come il gas, l’anima tende a occupare la totalità dello spazio che le è accordato. Un gas che si ritraesse e lasciasse del vuoto sarebbe contrario

alla legge dell’entropia. Tucidide: “Ciascuno esercita tutto il potere di cui dispone”. Ciascuno si espande quanto può. Arrestarsi, trattenersi vuol dire

creare del vuoto in sé.» Simone Weil, Quaderni Se le immagini si arrestassero, si trattenessero, creassero del vuoto in sé... È possibile? L’immagine, ivi compresa l’immagine cinematografica, non

appartiene al regno della forza? Potremmo proiettare un’immagine che sia come il volto altrui, ugualmente vulnerabile e intenso al di là della sua forma

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plastica? E se quest’immagine fosse possibile, lascerebbe una traccia d’in­ tensità nell’animo dello spettatore?

26/11/1993 Nenen mi ha raccontato la storia di una donna di un paese che partorì un bambino meticcio avuto da un soldato americano, quando il suo fidanzato

era sempre prigioniero di guerra in Germania. Gli abitanti del paese si coa­

lizzarono contro di lei e il bambino. Una sera lei si buttò nel fiume. Quando ripescarono il cadavere, scoprirono, stretto contro il suo petto, anche quello

del figlio, tenuto da una corda che lei aveva legato attorno ai loro due corpi.

27/11/1993 Salviamo le apparenze! Le apparenze diverse, distinte, molteplici, uni­ che, imprevedibili, fragili, mutevoli. Esse vivono. Dietro di esse non c’è

niente che possa togliere loro la realtà, niente di più essenziale di cui po­

tremmo rallegrarci. Dedichiamoci alle apparenze. Smettiamo di distruggerle. Fermiamoci davanti a loro. Riconosciamole. Viviamoci insieme. Sì, viverci insieme, molto semplicemente. Sono loro che tornano a vivere sulla tela, salvate, risuscitate tra tutte le

nostre dimenticanze, i nostri fantasmi, le nostre menzogne, i nostri assassi­

ni!, e per questo più vive, più intense, più reali.

Contro i mistici di tutte le specie. La pallottola che attraversa il corpo di un essere vivente da una parte all’altra sa che dietro non c’è niente. Di questo folgorante attraversamento delle apparenze non resta niente, eccetto proprio il resto: il cadavere, la

trasformazione più radicale delle apparenze.

«Togliete tutto affinché ci possa vedere!» ha chiesto. Possiamo rispon­ dergli: «Noi vediamo solo mucchi di cadaveri».

28/11/1993 «Quando fu sfinita dalle lacrime, pensò a mangiare.» George Steiner ci

ricorda queste parole di Achille. Ricordo salutare per chi inventa personag­ gi e rapporti tra personaggi. Rifiutare ai nostri personaggi la complicità nella

loro infelicità, lasciarli soli e restare sordi ai loro appelli, non precipitarci

mai verso di loro per abbracciarli come una madre possessiva che non ne può più di sentirli piangere sul suo petto. Saper essere padri. Non lasciargli

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fare tutto, non perdonare facilmente i loro eccessi o le loro mancanze. Essere

severi e dire loro: «Basta! Smetti di piangere! Va’ a giocare con gli altri!».

01/12/1993 Fare cinema in due? Mio fratello e io che inventiamo un film insieme?

Come capire questa cosa? Forse sono ancora troppo giovane per capire. For­ se il giorno che faremo quel film a due voci sulla nostra infanzia, capiremo

meglio ciò che ci tiene uniti. Mi piacerebbe che questo film cominciasse con uno schermo nero che si illumina scoprendo una camera con due letti

gemelli con dentro due ragazzini in pigiama. Tra i due letti: un interruttore. Non appena si scopre questo scenario uno dei due ragazzini preme l’inter­ ruttore: buio. L’altro preme di nuovo l’interruttore: luce e nuovamente lo scenario. L’altro preme ancora: buio. L’altro preme ancora: luce... Una voce

fuori campo (a due voci) su queste aperture/chiusure potrebbe dire: «Ogni sera litigavamo. Una sera litigammo così accanitamente che in poco tempo

spegnemmo e accendemmo la luce ventiquattro volte».

Questa prima scena potrebbe concludersi, o meglio essere interrotta dall’entrata in camera del padre che urla: «Spegnete la luce!».

Le mani dei due ragazzini si dovrebbero scagliare insieme sull’interrut­ tore per spegnere la luce. Nel buio ricominciano a litigare sottovoce. 11 pa­ dre, voce fuori campo proveniente dal corridoio, urla a voce più alta: «Silen­

zio!». Dopo un momento di silenzio assoluto, si sente la voce di un ragazzino

sussurrare: «Motore». La voce dell’altro: «Si gira». Poi i due insieme: «Azio­ ne». Dissiparsi del buio e, sulle arie di un valzer: comparsa di una coppia di belle donne attraenti che ballano... Voce fuori campo di uno dei ragazzini:

«Mamma...». Voce fuori campo dell’altro: «Zia Nenen». Poi una coppia di ragazzine, le nostre sorelle Marie-Claire e Bernadette, poi papà che separa le due donne e balla con la mamma... poi Richard il miope che invita Ne­ nen... poi Victor e Victoria... poi Georges e Maria... poi Georges e Léa... poi Gustave e Octavie... poi Louise e Juliette... poi Philippe e Jeanine... poi

Monsieur e Madame Levieux... Madame e Monsieur Maes... Madame Shisha e il parroco... Rica e il suo bambino nero... Marcel il Giallo e Georgette...

la figlia Lefot e Robert... Ci attardiamo su mamma e papà... poi su mamma da sola con le voci fuori campo dei due ragazzini: «Ave, o Maria, piena di grazia... Tu sei benedetta fra le donne...». Poi sul viso di papà, turbato dalle

voci che gli sembra di udire: «Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato

il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà...». La musica copre

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le voci dei due ragazzini... Sul viso di mamma, intento a guardare amorevol­ mente papà che non si vede, si sente ancora: «Non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male...». Appare il titolo del film: Pater Noster.

27/12/1993 Igor, il ragazzo della sceneggiatura che stiamo finendo, non sa perché fa ciò che fa e troverà quello che non sa.

02/01/1994 Comincia un nuovo anno. Spero che potremo girare La promessa.

Sto leggendo / masnadieri di Schiller. Ho finito due pièce di Brecht.

Tonico. Tentazione delle tentazioni per Kartista: la lamentela. Resistervi a ogni

costo.

05/01/1994 I tedeschi non avrebbe dovuto far cadere il muro di Berlino il nove no­ vembre, giorno della Notte dei cristalli. Il muro sarebbe dovuto cadere fon­

dici. Dopo aver ricordato la Notte dei cristalli.

10/01/1994 Il cinema mostra ciò che avvicina, ciò che si avvicina. Ha cominciato con una locomotiva, ha continuato con corpi, occhi, bocche. Il teatro proferi­

sce la parola, mantiene la distanza. D cinema vede la nuvoletta di condensa

emessa dalla bocca incollata al vetro, ma non sente la voce che proviene dal palco. La lingua si muove, bacia, lecca, ma non articola. Gli occhi desidera­ no, invidiano, si inumidiscono, ma non giudicano. Le labbra si arrotondano,

gonfiano, tremano, ma non dicono. Come possiamo immaginare Tiresia al cinema? Questo vecchio cieco pieno di risentimento che, privato della vista del corpo di Giocasta, non può

capire l'immensità del desiderio di Edipo? Tiresia che parla e che attraver­ so le sue parole impedisce che il desiderio si accenda di nuovo, condurrà

Giocasta al suicidio ed Edipo a imitare la sua cecità. Un tale personaggio, una tale parola non potevano nascere dal cinema. È Giocaste, il corpo del­

la sensuale Giocasta, che si avvicina sempre al corpo dello spettatore che

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allenta le difese e non cerca di sapere. A voler sapere troppo si finisce per trafiggerci gli occhi come quell’eroe teatrale. Il cinema dice sì al non sapere,

alla profonda ignoranza. Forse è l’eco di questo «sì» che mi accompagna ogni volta che entro in un cinema e mi opprime fino al momento in cui sullo

schermo non compare la prima immagine. Finalmente solo, finalmente di­

menticato, abbandonato, liberato da Tiresia e da tutti i suoi saperi.

11/01/1994 Rivisto di nuovo Germania anno zero. Sempre la stessa intensità, la stes­ sa incisività. È il nostro modello.

12/01/1994 Forse il teatro di Tiresia avrà sempre nostalgia del cinema di Giocaste,

ma il cinema nutrirà sempre un’ammirazione filiale per il teatro, per la pa­ rola del volto cieco, senza la quale le immagini cinematografiche sarebbero

solo fantasmi incapaci di creare un’opera, di rivolgersi a un altro, di essere

un’arte.

14/01/1994 Ho rivisto il nostro documentario Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois. Mi ricordo che abbiamo montato le sequenze, scritto i testi della voce fuori campo e fatto il missaggio in condizioni di

estrema emergenza. Jean-Paul Itèfois ci telefonava ogni sera per sapere se

la copia sarebbe stata finita per l’andata in onda prevista. Rispondevamo «sì», ma la realtà era chiaramente tutt’altra. L’ultima settimana, dopo aver girato nuove testimonianze, abbiamo lavorato giorno e notte, prendendo mol­ tissimi farmaci. Il loro effetto è evidente nella voce e nel lirismo del testo.

Ho un gran ricordo di quella settimana insonne nella camera di rue des Wallons. Jean-Pierre alle immagini e Lue al suono! Che squadra! Abbiamo

perso tutto ciò ma lo ritroveremo.

19/01/1994 Scrivo (quasi finita) la terza stesura de La promessa. Molti problemi con il personaggio della donna che non dobbiamo rinchiudere nell’immagine

della vittima. Scrivere una sceneggiatura non è semplice. Tutto nasce con difficoltà. E

sempre accompagnato da gemiti. Per fortuna siamo in due.

21/01/1994 Nella sua lunga intervista, Wells mette in relazione irrealtà/teatralità/verità. La teatralità è un passaggio all’irreale che produce una verità più pregnante.

Il falso come accesso al vero.

22/01/1994 «Ma rientra nella sottile economia artistica del poeta non permettere che il suo eroe esprima apertamente e completamente tutte le sue motivazioni

segrete. In questo modo obbliga noi a integrarle, impegna la nostra attività

intellettuale distogliendola dalla riflessione critica, e ci ancora saldamente

all’identificazione col suo eroe. Uno spirito più grossolano, al suo posto, da­

rebbe espressione cosciente a tutto quanto volesse comunicarci, e si trove­ rebbe poi di fronte alla nostra intelligenza, fredda e libera da impacci, che

renderebbe impossibile qualunque approfondimento dell’illusione.» Sigmund Freud, Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico

01/02/1994 La terza stesura de La promessa è finita. Spero che il percorso morale del giovane Igor sfugga alla sceneggiatura.

08/02/1994 Nel testo «L’altro in Proust», Emmanuel Lévinas scrive: «[...] la stessa struttura delle apparenze, che sono quello che sono e, contemporaneamente,

l’infinito di quello che escludono». Qualunque fosse il nome che gli umani tentarono di dare a questa esclusione nel corso della loro storia, essa è la struttura stessa dell’istituzione dell’umano che l’arte continuamente ricrea.

15/02/1994 La conversione di un individuo nel buio della sala cinematografica. D

destinatario segreto dei nostri film.

16/02/1994 Sul tuo dorso Il peso di un corpo ferito Il suo cuore massaggiato dalla cadenza dei tuoi passi

I tuoi passi sulla strada I tuoi passi immobili davanti al muro

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Non fermarti Cammina

22/02/1994 Ho visto con Baptiste Free Willy - Un amico da salvare. Raramente ho assistito a uno sfruttamento simile del dispositivo emozionale. Asserven­

do la nostra anima al profitto, queste macchine distruggono i sentimenti, sfruttandoli spudoratamente. Avamposti della moltiplicazione massiccia del

capitale nella cultura. La distruzione delle mediazioni che costituiscono il

mondo umano raggiunge l'apice.

23/02/1994 Lucie, Harimalala, è arrivata all’aeroporto stamane. Indossava una man­ tellina blu con il cappuccio. I suoi occhi neri ci guardavano. Così vicini. Così lontani.

05/03/1994 Il consenso dell’etica della pietà che regna oggi si nutre di un’estetica del corpo biologico sofferente, straziato, sfigurato, che i media, principalmente

le immagini televisive, diffondono senza sosta. Anziché focalizzarsi sui car­

nai e i corpi biologici sofferenti, le televisioni farebbero meglio a esaminare i motivi e le cause di queste morti e di queste sofferenze, a guardare la re­

altà sotto l’angolazione del male da combattere e non del male di cui avere pietà. Filmare il corpo di un affamato per i media significa filmare un corpo

muto (non a caso, la fotografia in questo eccelle), la sofferenza di un oggetto

vivente sprovvisto della parola per esprimere la sua sofferenza, per espri­

mere la sua rivolta contro questa sofferenza, per accusare i responsabili. Le telecamere televisive non vogliono che questi corpi parlino, esistano come

qualcosa di diverso dalla materia biologica offerta al sacrificio. Di questa visione sacrificale assolutizzata dalle immagini in primo piano, si nutrono

(e ci nutrono) al punto che capita che si sbaglino sulla merce, si ingannino sulla qualità sacrificale della carne umana, come successe con il carnaio di Timisoara (shoara, significante sinistramente sintomatico del loro equivoco).

L’immagine del corpo biologico sofferente e l’estetica sacrificale erano così

pregnanti che impedirono loro di vedere ciò che, peraltro, le loro telecamere avevano filmato: cadaveri umani incisi, ricuciti, provenienti dall’obitorio di un ospedale, corpi che non attestavano il massacro compiuto dal boia ma

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piuttosto il lavoro dei medici contro la morte e la sofferenza. Filmare un es­ sere umano che non sia una vittima, che non sia ridotto a supporto vivente di

una sofferenza, che rifiuta di essere oggetto di pietà, filmare questo essere è

diventato un atto di resistenza cinematografica contro il disprezzo dell’uomo che si regge sulla pietà morbosa di questa estetica sacrificale.

16/03/1994 Vorrei trovare una conclusione «ottimista» per la sceneggiatura. Non ri­ conciliare l’inconciliabile, ma lottare contro la perdita di fiducia nell’uomo,

contro quel pensiero falsamente lucido secondo cui tutti gli sforzi e tutte le

azioni degli uomini sono vani. Senza azione, senza dramma l’umano spari­ sce. Nel dramma, «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Questo è il signifi­

cato della lotta di Giacobbe con l’angelo.

25/04/1994 Sono malato. Leggo Rimbaud: «Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. [...] Accanto al suo caro corpo addormentato, quante ore

della notte ho mai vegliato, cercando di capire perché volesse tanto fuggire

la realtà. [...] Io! io che mi son detto mago o angelo, esente da ogni morale,

eccomi per terra, in cerca di un dovere, e con la scabrosa realtà da stringere! Bifolco! [...] Cogliamo ogni influsso di vigore e di reale tenerezza. E all’auro­ ra, armati di ardente pazienza, entreremo nelle splendide città». L’arte è dalla parte del bifolco. Non certo del mago né dell’angelo.

26/04/1994 Per la prima volta in vita loro, i neri del Sudafrica votano. Armati di

ardente pazienza hanno vinto, entrano nelle splendide città.

17/05/1994 Cena con Dirk a La Taverne du Passage. Lunga discussione. Dobbiamo girare con piccoli budget e gente a noi vicina, degli amici. Come ha detto Je-

an-Piene: «Probabilmente è la nostra verità». Questa costrizione economica forse sarà un’occasione per ritrovare la nostra grinta, il nostro rapporto con

il reale che non può vivere con il professionismo sempre più schiacciante

della produzione cinematografica.

19/05/1994 «Il tuo stile è il tuo culo!» È l’enigma! Resiste! Fa buio! Ci urtiamo. Non

si vede niente! Dobbiamo subire! Ma cosa? Cosa? Niente! Niente da spiega­ re! Chiudi quella bocca!

Niente da vedere! Niente da dire! Dentro. Nella notte. Al bivio.

22/05/1994 Ho appena finito di riscrivere una scena della sceneggiatura. Se non l’avessi scritta stasera ma domani mattina, probabilmente non sarebbe

uguale. Ma ecco, l’ho scritta stasera. È l’unicità della temporalità umana. Lo stesso vale per la mia vita, per la vita di ogni individuo. La vita di un indivi­

duo è quello che è e non può essere paragonata a un’altra vita che potrebbe essere anche sua. Sicuramente potrei paragonare la versione della scena scritta stasera con quella che scriverei domani mattina, ma questo paragone

sarebbe falsato dal fatto stesso che ho già scritto la versione di stasera e scrivendo quella di domani mattina non potrei fare come se quella di stasera

non l’avesse preceduta. Siamo tutti esseri unici. È questo il fatto sorprendente. Impossibile sfug­ gire all’unicità e questa impossibilità è l’impronta dell’esistenza, della realtà

di questa esistenza. Anche ciò che il cinema coglie è l’unicità di un gesto, di un movimento del corpo, di una voce, un silenzio, un’andatura... Evidente­

mente c’è un rapporto tra il corpo e l’unicità.

27/05/1994 «[...] le mie miserabili combinazioni, i concatenamenti “ben filati”» ha

scritto Henri Michaux.

Proprio a questi materiali senza vita il cinema di oggi fa di nuovo appello per risolvere la cosiddetta crisi della sceneggiatura. Da questo punto di vista il cinema è un’arte superata.

La danza sembra molto più adatta a parlare del qui e dell’ora. La sua

figurazione è più viva, più intempestiva, più libera, più selvaggia, meno co­ struita, meno romanzesca, esorcizza meno la violenza che sgorga dai nostri

corpi, dalla nostra società. Agguanta il disordine, affonda nei movimenti disorientati, nei turbini senza accertarsi dei seguito, senza tutelarsi con mi­

serabili combinazioni.

on

31/05/1994 Mattino. Nove e mezza. Nella mia strada. Pignoramento. Un camion ca­ rica un divano e due poltrone di velluto logoro, una scala di legno bianco, un fornello a cui è rimasto attaccato il tubo del gas rosso, un piccolo comò

di compensato verniciato. Tutto quello che avevano che potesse valere qual­ cosa. Estrema violenza.

04/06/1994 Violenza del cinema in relazione alla violenza della realtà. Che tipo di

relazione? La violenza cinematografica non è una rappresentazione della violenza della realtà, non è la trasposizione di quest’ultima su un’altra sce­ na, si accontenta di esserne il doppio saturato nella violenza dell’effetto.

La colonna sonora prodotta oggi da fonici e rumoristi è esemplare di questo effetto di reale fantasmatico che paralizza e uccide qualsiasi tentativo di

rappresentazione.

05/06/1994 La coscienza cinica è una coscienza che vive accanto alla sua infelicità. Sa di essere infelice, sa che i suoi ideali sono migliori dello stato della re­

altà che essi potrebbero trasformare ma accetta di essere separata dai suoi ideali. È così! È la realtà! Con il pretesto del realismo, la coscienza si adatta

alla sua infelicità e poiché questo adattarsi non può liberarla totalmente dalla sua infelicità, la coscienza si fa arrogante, cattiva, piena di disprez­

zo. Questa coscienza si incontra principalmente in ambiente televisivo e

pubblicitario, laddove la crescita delle cifre dell’audience e degli introiti gratifica la scelta del disprezzo.

06/06/1994 «Jude riusciva a vedere se stesso prendere forma negli occhi di lei.»

Toni Morrison, Sula Jude vede che riesce a prendere forma nello sguardo di Nel. Vedere che riusciamo a prendere forma. «Arrivederci, graziosa piccola forma» dice la voce di Johan Van Der Keuken a Herman Slobbe, il bambino cieco. È questa l’istanza del cinema.

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07/06/1994 Ho appena visto il montaggio di Bichorai di Pierpont, girato in Burundi.

Le immagini e i suoni hanno registrato le vite di individui unici e così appa­ iono sullo schermo. Nessuno slittamento verso una messinscena dissimulata

e tesa a drammatizzare il reale. Registrare e salvaguardare il più possibile

questa registrazione anche se sappiamo che necessariamente ci sono punto

di vista, costruzione, ecc. Insopportabili gli autori di documentari che fanno passare per documenti le loro manipolazioni. Lévinas ha scritto ne La difficile libertà che l’anima non è possibilità

d’immortalità (la m’a) ma impossibilità di uccidere (gli altri). L’arte, per

molti, è una manifestazione della nostra possibilità di immortalità, come tenace desiderio di perdurare, come antidestino. Potrebbe essere una moda­

lità dell’istituzione dell’impossibilità di uccidere? Potrebbe aprire a questa anima che si scopre come impossibilità di dare la morte ad altri? Guardare

lo schermo, il quadro, la scena, la scultura, la pagina, ascoltare il canto, la

musica, sarebbe: non uccidere.

09/06/1994 I bambini ruandesi che hanno subito o visto gli orrori non parlano più.

Sono necessari quindici giorni, tre settimane perché recuperino l’uso della parola. Secondo un appartenente a Medici senza frontiere intervistato in

televisione.

12/06/1994 «Tu avesti un padre, lascia che un tuo figlio dica lo stesso.»

William Shakespeare, sonetto 13

24/06/1994 Sensazione di intasamento, di ingorgo. Bisognerebbe spazzare, sgombe­ rare, scoprire una lingua più spoglia, una prosa più limpida, incisiva, adatta

a nominare di nuovo, a distinguere, a discemere, a tagliar corto con le chiac­

chiere, a uscire dai maneggi. C’è troppo, decisamente troppo.

31/07/1994 «Spesso mi sono reso conto, e spesso ho detto, che quando tutto è per­ messo, non è più possibile la sorpresa. Il Caos e il capriccio sono noiosi,

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sono entropici: ci si scoccia presto della loro somiglianza. L’arte, come ogni

ordine dello spinto è intrinsecamente anti-entropica. La sua efficacia si basa

sull’approfondimento di gradi di articolazione sempre più elevati.» Vaclav Havel, Lettres à Olga, n°106

10/08/1994 C’è qualcosa di pesante, di opprimente nell’esistenza. Da qui il bisogno incontenibile di un’apertura, di un fuori. Una richiesta di aria lanciata da

tutti i nostri sguardi, tutte le nostre parole, tutti i nostri volti, tutti i nostri corpi oppressi. Bisogno estremo di ciò che non esiste. La nostra epoca ha dei

gravi problemi di respirazione.

19/08/1994 In Massa e potere, Elias Canetti, a proposito di Stendhal, scrive: «[...] conservò intatto l’elemento individuale: non ricondusse nulla entro una pre­ caria, globale unità».

21/08/1994 Non potremo girare La promessa questo inverno. Problemi con i finan­ ziamenti della Comunità francese del Belgio. Com’è possibile che il governo accetti che la produzione cinematografica si fermi per un anno? È mortifi­

cante. Cerco di lavorare su una nuova sceneggiatura ma non riesco a comincia­

re. Leggerò qualche pièce di Bond. Mi rendo conto di aver visto pochissimi film. Per fortuna c’è la Cineteca

di Bruxelles. Se non ci fosse, non avrei visto niente, non avrei ricevuto l’im­

pronta di Mumau, di Rossellini, di Mizoguchi.

28/08/1994 «Un bel giorno, a vent’anni, gli venne una brusca illuminazione. Final­

mente, si rese conto della sua controvita, e che bisognava provare partendo dall’altro capo. Visitare la terra a domicilio e muovere dal modesto. E partì.»

Henri Michaux, Difficoltà

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29/08/1994 Mi concentro a vuoto. Non mi viene niente per la prossima sceneggiatu­ ra. Vedo dei film di Satyajit Ray.

Ripenso al libro di Tobia, a ciò che Kierkegaard ha scritto su Tobia. Leggo la pièce UHistoire de Tobie et de Sara di Claudel.

30/08/1994 Deluso da Claudel. Leggo Michaux. «La pellicola della vita è esile, colonnello. Com’è esile! Chiunque lo sa. Ma possiamo dimenticarlo. La pellicola della vita...*

«Duomo va nel granaio delle idee. Questa idea lo ucciderà. Non importa, deve andarci.»

Henri Michaux, Prove, esorcismi

01/09/1994 La sceneggiatura de La promessa è stata ben accolta dai produttori. JeanLuc Ormières la trova straordinaria ma non si fida di una messinscena a due

teste. Cerchiamo un altro produttore francese.

D titolo della nuova sceneggiatura: Rosetta. Un personaggio femminile (delegata sindacale?) che rifiuta lo scoraggiamento, la paura che la circon­

dano. Sarà un modo per continuare a filmare la politica oggi. Non sulle disil­ lusioni ma sulle lotte giorno dopo giorno di uomini e donne che rifiutano le

ingiustizie concrete, quelle che fanno male.

Il nome Rosetta lo ha suggerito Emmanuelle perché stava leggendo un romanzo di Rosetta Loy. D titolo della sceneggiatura che racconta la storia della famiglia o del

gruppo a cui viene intimato di scegliere quale dei suoi sarà messo a morte potrebbe essere: La Décision. Scriverò questo testo dopo o durante Rosetta.

Ho già sofferto realmente?

03/09/1994 «Chi pensa più profondamente, ama con più ardore.» Friedrich Holderlin (citato da Karl Jaspers)

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11/09/1994 «L’umorismo è la più discreta delle utopie.» Ernst Bloch

24/09/1994 Leonardo: «Dicono di non farlo mentre lo stanno facendo. Le parole non

hanno alcun senso per loro: comunicano a segni con le dita imbrattate di

sangue». Edward Bond, La compagnia degli uomini

15/10/1994 «Solo la mano che cancella può scrivere la verità.» Meister Eckhart

05/11/1994 Rimaneggiamo ancora la sceneggiatura de La promessa. Dobbiamo spin­ gere lino in fondo quel che abbiamo approntato. Andare fino in fondo, anda­

re fino in fondo è la sola regola.

06/11/1994 La promessa ovvero come un figlio sfugge all’omicidio del padre. Omici­ dio invisibile e così potente, così soffocante, così perfetto. Come sfuggire a

colui che vi ama e che voi amate? Chi vi tirerà fuori da lì? Chi permetterà

che il figlio arrivi a vedere, inquadrare, creare un foro, un vuoto? Un altro. E

dovrà venire da lontano, da molto lontano.

16/11/1994 Ho rivisto Nanuk l'eschimese. La sequenza della costruzione dell’igloo,

la sistemazione della finestra di ghiaccio e del riflettore. Siano i nostri film un igloo come il tuo, Nanuk. È tutto ciò che desidero.

21/11/1994 Insopportabili tutti questi documentari che attraverso una messinscena

scotomizzata drammatizzano il documento presentato come semplicemen­ te registrato. Tra il documentario e il suo spettatore c’è un accordo tacito riguardo allo statuto di una macchina da presa che registra una realtà che

magari è stata ricostituita, ma che non è stata segretamente manipolata per

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drammatizzare. Gli autori di questi documentari sanno che è per via di que­ sto accordo che lo spettatore crede alla verità delle loro immagini e sanno anche che la drammatizzazione delle loro immagini darà un’apparenza più

veritiera a questa verità. Da qui il loro imbroglio per ottenere un effetto più vero, più reale, più forte, che sarà tanto più forte, più vero e reale se le loro

immagini continueranno ad apparire allo spettatore come immagini di una realtà non manipolata. Questi documentari non ci insegnano più niente sul mondo, non ci insegnano più niente sulla nostra vita o su quella degli altri. Ci insegnano, loro malgrado, che drammatizzare la realtà dissolve la realtà

negli stereotipi. Ancora una volta il cinema preso in trappola dalla potenza delle immagini.

22/11/1994 Proseguo la lettura di Proust. A volte difficile concentrarmi. Non so per­ ché, ma resisto.

27/11/1994 Produttori, giornalisti, autori intonano il solito ritornello: il cinema belga

è immaginario. Con «immaginario» intendono «fuori dalla realtà». Perché questo paese rifiuta di guardarsi? Di che cosa ha paura? Perché questo di­ sprezzo per la vita sociale, la storia? Perché questa fuga in ciò che chiama­

no «immaginario»? Sintomatico che nessuno abbia realizzato un film sulla deportazione di venticinquemila ebrei nei campi. Nessuno, nel «paese del

documentario»! Nessuno! Ci sono molte testimonianze, ci sono i bei film

di Frans Buyens e Lydia Chagoll, ma un film su cosa fu la deportazione degli ebrei del Belgio, sul comportamento delle autorità, della stampa, de­ gli intellettuali, della gendarmeria, della popolazione, il film che potremmo mostrare ai nostri figli e ai figli dei nostri figli perché sappiano come dilagò l’antisemitismo nel nostro paese. Dov’è un film così? Dove? In nessun luogo.

Siamo un paese in nessun luogo, dicono alcuni, tendenti al surrealismo. Come può succedere qualcosa in un paese in nessun luogo? Oggi come ieri,

noi continuiamo a pensare che nel nostro paese non sia veramente successo qualcosa. Questo breve trafiletto apparso nel gennaio del millenovecentotrentanove sul giornale Le Soir è stato e rimane il nostro modo di metterci a posto, di respingere, di girare la testa dall’altra parte: «All’inizio di gennaio,

nel bosco di Nidrum la gendarmeria di Elsenbom ha arrestato un gruppo di ventiquattro israeliti, perlopiù donne, che cercavano di introdursi clandesti-

riamente in Belgio. Erano condotti da due trafficanti del luogo. Questi ultimi, grazie alla loro conoscenza della zona, sono riusciti a fuggire nei boschi. Gli

israeliti sono stati rispediti in Germania».

08/12/1994 «Un uomo passa la sera qui solo, seduto: magari legge dei libri o pensa

o altro. Qualche volta pensa e non ha niente che possa dirgli se una cosa è o non è come lui crede. Magari, se vede qualcosa, non sa dire se ha ragione o

se sbaglia. Non può rivolgersi a qualcuno e domandargli se vede anche lui la stessa cosa. Non può mai dire. Non ha niente per regolarsi. Io qui ho veduto

delle cose. Non avevo bevuto. Non so se dormivo. Se con me ci fosse stato qualcuno, poteva dirmi se dormivo e sarebbe andato tutto bene. Io invece non so.» Le parole di Crooks, lo stalliere nero di Uomini e topi, ci dicono

la nostra condizione di oggi. Abbiamo perso il contatto con la realtà, siamo diventati incapaci di produrre, di dire, di mostrare la realtà. Non siamo mai

stati così soli, confusi nella follia stessa, smarriti in un mondo che ha la consistenza di una fantasia. Questo ci angoscia terribilmente.

22/12/1994 «La vera diversità consiste in questa pienezza d'elementi reali e impre­ vedibili, nel ramo carico di fiori azzurri che si slancia inaspettatamente dalla

siepe primaverile che sembrava già colma, mentre l’imitazione puramente

formale della diversità (e il ragionamento, allo stesso modo, potrebbe valere per tutte le diverse qualità dello stile) non è che vuoto e uniformità, vale a dire ciò che c’è di più antitetico della diversità [...]»

Marcel Proust, All'ombra delle fanciulle infiore

09/01/1995 «Per le donne che non ci amano come per i “dispersi”, sapere che non si

ha più nulla da sperare non impedisce di continuare ad attendere.»

Marcel Proust, All'ombra dellefanciulle in fiore

11/01/1995 Ho parlato con André Dartevelle e Henri Orfinger della realizzazione di un film sulla deportazione degli ebrei del Belgio. Sono interessati soprattutto

se ci soffermiamo sul ruolo che hanno avuto le autorità belghe. Avremo biso­ gno di una persona che parli perfettamente il neerlandese.

36

14/01/1995 Aumentano le 4x4 sulle strade e nelle vie cittadine. Arnesi alti sulle

ruote, con paraurti d’acciaio e fari schermati da una grata. Sono l’espres­ sione della nuova posizione del ricco: protezione e aggressività. Viaggiano protetti nel loro mezzo militarizzato. Loro non sanno dove vanno, ma il loro

veicolo sì. Vanno allo scontro. Le loro automobili sono carri armati di una guerra civile latente. Un giorno, i cosiddetti esclusi, rovesceranno questi

attrezzi e gli appiccheranno il fuoco. I ricchi penseranno di essere vittime di un’improvvisa esplosione di barbarie. Vedendo i loro figli coperti di sangue

sul sedile posteriore, di colpo saranno presi dalla rabbia omicida e scopri­ ranno che sui roll bar di protezione della loro auto c’era una torretta con una

mitraglia pronta all’uso. Spareranno senza tregua, percorreranno in lungo e

in largo la città e la campagna, in cerca del nemico. Saranno spietati. E lo stesso i loro nemici.

15/01/1995 Abbiamo visto Gérard Preszow per proporgli la realizzazione del film sulla deportazione degli ebrei del Belgio. Ci ha ringraziato di aver pensato a lui, ma della deportazione ne ha già avuto fin troppo con il suo libro e non è

in condizione di rituffarcisi. Troppo doloroso. Sensazione di chiusura. Forse tra qualche anno.

10/02/1995 «Forse era a questo che si riducevano tutti i rapporti umani: mi salvere­ sti la vita? 0 me la toglieresti?»

Toni Morrison, Canto di Salomone Lettura di Toni Morrison importante per la scrittura de La promessa. Non solo per il personaggio di Assita ma per il ritmo, l’avvio delle scene senza le

informazioni per capire, il tono ruvido, selvaggio, incisivo.

25/02/1995 Ricomincio con la scrittura de La Décision. Non bisogna cercare la ri­

conciliazione. Avere il coraggio di essere cattivi.

01/03/1995 Ho visto il film di Richard Dindo su Che Guevara. La testimonianza del­

0'7

la maestra della scuola dove fu ucciso mi ha scosso. La marcia dei guerrilleros fu un fallimento, ma sembra dire anche che questo fallimento conteneva

una parte che è andata oltre. Pensare che gli esseri umani fanno quello che

fanno solo in funzione del preciso momento in cui lo fanno è un errore valu­ tativo. C’è uno strato, una componente dei loro atti che parla agli uomini e

alle donne che non ci sono ancora. Questa componente parlava già nel volto

e nelle parole della maestra.

02/03/1995 I professionisti dell’audiovisivo che vogliono fare soldi, nel loro prodotto cercano quel che può costituire uno «slogan». Quando hanno trovato lo slo­

gan, questa parola d’ordine, diventano euforici, si sentono bene, bene come se già vivessero il bagno di folla che acclama il loro prodotto.

04/03/1995 La sceneggiatura de La promessa è stata ben accolta dalla Commission

du film de la Communauté franf aise de Belgique. Ci accorda quindici dei venti milioni richiesti. Gireremo a ottobre/novembre.

05/03/1995 Ho parlato al telefono con Assita Ouedraogo che probabilmente interpre­

terà Assita nel film. La sua voce mi piace molto, è come quella che ho sem­ pre attribuito all’Assita della sceneggiatura. Mi piace anche che sia un’inse­

gnante e non una professionista. A maggio andremo a Ouagadougou.

11/04/1995 Rosetta. Forse la storia di una donna (trentacinque anni) che vuole porre rimedio a un’ingiustizia. Davanti a una realtà che rifiuta questa riparazione

e perfino il senso di tale riparazione, sprofonda nella follia.

11/07/1995 Ho appena visto cinque film di Pelechian. Il mistero della nascita non

mi era mai apparso in questa luce. Ancora troppo presto per interpretare ciò che ho visto, ciò che mi ha visto. È un cinema che filma le masse: masse funebri, in festa, in fuga, montagne, fuoco, fumo. Immagini elementari da cui

sorgono volti, dove si incrostano sguardi solitari. Impressione di disastro.

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13/07/1995 «Passò rasente i vagoni, offrendo caffè e latte a qualche viaggiatore che

si era risvegliato. Imporporato dai riflessi del mattino, il suo volto era più rosa del cielo, e dinanzi a lei riprovai quel desiderio di vivere che rinasce

in noi ogni volta che prendiamo di nuovo coscienza della bellezza e della felicità. Dimentichiamo sempre che bellezza e felicità sono individuali e,

sostituendo ad esse nella nostra mente un tipo convenzionale che ci prefigu­ riamo facendo una specie di media tra i diversi volti che ci sono piaciuti, tra

i piaceri che abbiamo assaporato, non abbiamo che immagini astratte, lan­ guide e insignificanti perché manca ad esse, appunto, quel carattere di cosa nuova, diversa da ciò che abbiamo conosciuto, quel carattere che è proprio

della bellezza e della felicità.»

Marcel Proust, All'ombra dellefanciulle infiore

14/07/1995 Ho appena visto II grande sentiero di John Ford. Splendido. Qualcuno ha scritto che a questo film manca la costruzione drammatica, ritmica. È proprio questa mancanza a essere straordinaria. L’ultimo sguardo di Ford

poteva vedere con gli occhi dell’altro, dell’indiano. Poteva vedere oltre l’in­

treccio.

05/08/1995 Sui media molte immagini che mostrano l’orrore di Hiroshima. Nessuna esperienza umana giunge sino a me. Squarciare la sfera estetica.

12/08/1995 Rosetta non impazzisce. Lotta e ottiene qualcosa. Il film deve interessar­

si più alla realtà della vita di questa donna che al dramma. Filmare la vita, ci riusciremo noi un giorno?

26/08/1995 Sono andato in un multisela a vedere una delle ultime produzioni del­ la Columbia. Durante la proiezione alcune persone escono per rifornirsi di

dolciumi, pop-corn, ecc. La posizione del telespettatore trapiantato nelle

sale cinematografiche. L’arte e la vita comune si confondono. Il confine fra palco e platea sparisce. Fare un film davanti al quale il pubblico dimentica

di mangiare e bere.

ao

27/08/1995 L’arte non salva il mondo, non salva nessuno. Arriva dopo. Troppo tardi

quindi. Arriva dopo che l’assassinio ha avuto luogo. Fa sì che ce ne ricor­

diamo, ma non lo impedisce né impedisce che si ripeta ancora. Perché con­ tinuare allora? Perché continuare a fare film? Perché, se siamo sicuri che

un’opera d’arte non fermerà il braccio dell’assassino? Forse perché non ne

siamo davvero così sicuri. Ho appena visto una serie televisiva. Parlano, parlano. Allucinante!

Ogni gesto è accompagnato da parole che lo commentano. L’immagine non esiste, non è dotata di parola.

31/08/1995 C’è la sfera e, come tutti, l’artista è nella sfera e lotta come un forsennato per staccare un pezzo di materia e lanciarlo fuori. Spesso ciò che lancia

rimbalza sulla parete della sfera ma a volte riesce a bucarla.

22/09/1995 C’è gente cattiva, malvagia. È difficile da accettare, desolante. Richiede

uno sforzo enorme. Eppure solo dopo questo sforzo si ha la sensazione di essere umani. Occorre che molte immagini (le immagini di noi stessi che

chiediamo agli altri di rinviarci indietro) cadano perché si cominci a diven­ tare qualcuno in mezzo agli altri qualcuno.

23/09/1995 Jean-Pierré ha trovato delle buone scenografie che faranno uscire il film dall’immaginario vallone in cui ad alcuni piacerebbe rinchiuderci. Nei luo­

ghi, nei volti, nei corpi, negli abiti, cerchiamo una mescolanza, un’indeter­ minatezza proprie della nostra epoca. Niente più è puro, niente appartiene a

una sola eredità individuale, niente è vergine di un incontro che l’abbia reso bastardo. Da questo punto di vista, la nostra epoca è una bella epoca.

25/11/1995 Perché raccontare una storia? Per ricordarsi del dramma e poi rallegrarsi

di esserne usciti. Ogni storia raccontata è al passato, perfino quella che rac­ conta ciò che accadrà tra diecimila anni.

in

02/12/1995 Fine delia seconda settimana di riprese de La promessa. Gli attori sono

ottimi. La macchina da presa non si atteggia. Forse stiamo scoprendo quel che cerchiamo di fare da molto tempo. Abbiamo l’impressione di realizzare

un’opera prima. Ci rendiamo conto di quanto l’insuccesso di Je pense à vous sia stato salutare. Senza di esso, non avremo mai vissuto la solitudine che

ci ha permesso di porci la sola domanda che contiene tutte le altre: dove mettere la macchina da presa? Ovvero: cosa faccio vedere? Ovvero: cosa nascondo? L’essenziale forse è nascondere.

17/01/1996 Sono le venti e cinquanta. Abbiamo appena girato l’ultima ripresa dell’ultima scena. Jean-Pierre e io siamo sfiniti. L’impressione di aver cer­ cato qualcosa e in parte averla trovata. Alla fine delle riprese precedenti ero

privo di entusiasmo. Stavolta è il contrario.

19/01/1996 Emmanuel Lévinas è morto durante le riprese. 11 film deve molto alla

lettura dei suoi libri. La sua interpretazione del faccia a faccia, del viso

come primo discorso. Senza queste letture avremmo immaginato le scene di

Roger e Igor nel garage, di Assita e Igor nell’ufficio del garage e sulle scale della stazione? Tutto il film può essere visto come un tentativo di arrivare

finalmente al faccia a faccia.

Per queste riprese, Jean-Pierre e io abbiamo davvero funzionato in coppia senza compromessi. Era straordinario. Come durante i primi documentari.

02/03/1996 «Ogni essere è distrutto quando smettiamo di vederlo; la sua successiva

apparizione è una creazione nuova, diversa da quella che l’ha immediata­

mente preceduta, se non da tutte.» Marcel Proust, All'ombra delle fanciulle infiore

03/03/1996 Ieri sono uscito dall’ospedale. Ho un busto per sostenermi la schiena. La mia visione di Rosetta non è ancora avvenuta. Credevo che la degenza in

ospedale l’avrebbe provocata, invece niente. Jean-Pierre è nella stessa impasse.

4,1

10/04/1996 In tutte le scene Igor/Assita durante le quali si guardano, è sempre Igor

il primo a distogliere lo sguardo. Igor non può guardare in faccia Assita poi­

ché vi intuisce il comandamento morale a cui non può rispondere. Eccetto nella scena finale.

14/04/1996 La promessa è selezionata nella Quinzaine des Réalisateurs a Cannes.

Contenti. Anche angosciati.

16/04/1996 Contro tutti i discorsi che vantano e vendono l’immagine interattiva:

l’elogio della passività.

Essere passivi al punto da sentire il richiamo, da lasciarci trascinare, da perderci, da non sapere più dove siamo, chi siamo. Oggi tutto ci ricorda chi siamo: i re del nostro culo, dei nostri diritti, delle nostre immagini... Sinistro

reame in cui ci annoiamo da morire con noi stessi, in cui l’unica passione che possa dominare è la gelosia morbosa, la voglia di distruggere tutto ciò che mette in dubbio le frontiere del nostro regno. Stavolta Biancaneve non sopravviverà. Impossibile trovare un cacciatore la cui passività sia tale da

dimenticare l’eventualità della propria morte per lasciar vivere la bambina.

18/04/1996 Potrebbe venire da noi a fare una conferenza sul cinema? No, ho risposto,

sono troppo impegnato con il nostro film. Cosa avrei potuto raccontare alla conferenza se non avessi avuto questa scusa per defilarmi? Forse la storia

dello specchio e del commesso viaggiatore letta in un libro di Ernst Bloch. In America negli anni cinquanta un commesso viaggiatore bianco entra in un alberghetto a chiedere una camera per la notte. Non ci sono più camere libere. È rimasta solo una camera con due letti, uno dei quali già occupato

da un «negro»... Non avendo altre soluzioni, il commesso viaggiatore accetta e, accompagnato dal groom, sale in camera, posa i bagagli e si raccomanda caldamente con il groom di svegliarlo alle cinque del mattino, di venire

a bussare alla porta e anche di andarlo a scuotere nel letto, qualora non

rispondesse, il letto vicino alla finestra beninteso, non quello del «negro».

Prima di addormentarsi il commesso viaggiatore decide di scendere al bar dove fa conoscenza con alcune persone bevendo, poi cantando e ballando

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dei motivi jazz. A un certo punto uno dei festaioli, con l'aiuto di un tappo di

champagne bruciacchiato, trucca di nero il viso del commesso viaggiatore mentre lui, alticcio, canta. A notte fonda, il commesso viaggiatore ubriaco

viene accompagnato in camera e messo a letto dai suoi amici occasionali.

Il mattino alle cinque, svegliato dal groom, prende i bagagli e corre alla stazione dove deve prendere il treno. Riesce a salire per un pelo, sistema i bagagli, si dirige alla toilette per lavarsi il viso e, quando vede la sua imma­

gine riflessa nello specchio sopra al lavandino, grida: «Quell'imbecille ha

svegliato il negro!». Istante vertiginoso in cui, osserva Ernst Bloch, l'uomo «fu così confusa-

mente vicino a se stesso che la sua bianchezza gli cadde dal corpo».

Forse lo specchio dell’arte cinematografica è questo. Permettere allo spettatore di sbagliarsi sulla sua stessa persona. Non riconoscersi, pren­

dersi per un altro, essere un altro. Intravedere nel buio della proiezione cinematografica l’altro che è voi stesso e che proprio lo sguardo del giorno occultava.

21/04/1996 Dio è morto. È risaputo. Siamo soli. È risaputo. Non c’è niente dopo la morte. È risaputo. Queste cose oggi sono tutte risapute. A chi si riferiscono queste frasi impersonali? A una sorta di voce che si diffonde in Europa da due secoli. Facile lasciarsi cullare dalle voci mentre ci stordiamo tra i molte­

plici vitelli d’oro. Tutt'altro è scendere nella propria solitudine ed entrare in contatto con questa ovvietà: sono solo e sotto mortale, questa è la mia condi­

zione, la condizione di noi tutti. Colui che azzarda questa discesa risalirà più

libero. Sarà anche tormentato da una domanda che non lo abbandonerà più:

perché mai l’assassinio non potrebbe tornare a essere un fatto ammissibile?

08/06/1996 Diverse ore di fronte allo schermo televisivo: diffusione di un flusso neu­ tro, sordo, continuo, avvolgente, di una presenza indefinita che intorpidisce.

Stato di torpore. Vicino a quello che Lévinas scrive a proposito del «il y a»,

il «mormorio dell'essere». Nessuna parola, nessun suono, nessuna immagi­ ne che stacchi.

«È come una densità del vuoto, un mormorio del silenzio. Non c'è nulla,

ma c'è essere, come un campo di forze. L’oscurità è il gioco stesso dell’esi­

stenza che, anche se non ci fosse nulla, si giocherebbe ugualmente.» Emmanuel Lévinas, Dall'esistenza all’esistenle

Annegarsi nel flusso, nella densità del vuoto, disfarsi del peso dei propri

limiti, dissolversi nella voce del niente, non esistere più, questo è il deside­

rio profondo del telespettatore. Che tutto si annulli, che lui stesso sia niente

che partecipa del niente. Che tutte queste immagini e questo rumore produ­ cano un’oscurità in cui possa fondersi, sparire. Gli individui sono stanchi di

essere individui. Il desiderio di non essere più un individuo: la televisione si

nutre di questo e a sua volta è proprio questo che essa diffonde.

13/08/1996 All’inizio la scrittura della sceneggiatura segna uno spazio chiuso, dise­

gna un cerchio, costruisce un’arena in cui i personaggi sono racchiusi e si

fronteggiano. Questo fronteggiamento diventa fronteggiamento con il cerchio stesso, con la sceneggiatura, e il movimento del film può apparire. Abbiamo

bisogno di questo primo cerchio, di questa chiusura iniziale.

22/08/1996 «[...] l’opera d’arte non si riduce all’idea: anzitutto perché è produzione o

riproduzione di un essere, cioè di qualcosa che non si lascia mai pensare del tutto, in secondo luogo perché l’essere è totalmente permeato di un’esistenza,

cioè di una libertà, che decide della sorte stessa e del valore del pensiero.

Anche per questo l’artista ha sempre avuto una sua comprensione particola­ re del Male, che non è isolamento provvisorio e rimediabile di un’idea, ma

irriducibilità del mondo e dell’uomo al Pensiero.» Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?

23/08/1996 «L’uomo fugge l’asfissia» ha scritto René Char. Questo raccontiamo,

nient’altro.

30/08/1996 Ritorno da Montréal. Un festival insipido. Molti film ma niente di nuovo

sotto il proiettore. Per fortuna il pubblico è molto presente e intelligente. Salva

il festival. Allo stesso modo la popolazione di Montréal, cosmopolita e ospita­ le, salva la città, che con la sua architettura non suscita nessuna emozione.

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31/08/1996 Il più grande pericolo per l’artista: i complimenti di quelli che lo attor* niano, i quali, senza saperlo e spesso con le migliori intenzioni, lavorano alla sua rovina. Rifiutare ogni entourage benevolo, ogni forma di corte. Restare in

solitudine. Solitudine a due, per quanto ci riguarda, ma che può esistere solo se ognuno di noi resta solo in se stesso, senza trasformarsi in corte dell’altro. Nessuna concessione per se stessi. Nessuna concessione per l’altro.

01/09/1996 Che significa sperimentare qualcosa? C’è l’idea della prova e dell’uscita.

Provare qualcosa è un modo sicuro per uscire da quel qualcosa.

02/09/1996 Rosetta non progredisce. Ancora priva di struttura. Continuo la lettura di Proust ma questo non innesca niente per la scrittura della sceneggiatura.

Niente nemmeno da parte di Jean-Pierre.

31/10/1996 Rifiutare ogni proposta di finanziamento, casting, «supporto tecnico»

che ci permetta di fare «un grande film». Troppo giovani per morire.

11/11/1996 Facoltà patologica di calarmi nel corpo altrui. Tanto da non riuscire più a sapere con certezza se sono io, se posso pretendere di essere un io.

24/11/1996 Compleanno di Lucie. Passeggiata in famiglia nel parco di Meise. Anco­

ra bloccati con la sceneggiatura.

27/11/1996 Senza Dio saremmo capaci di non uccidere ma viviamo ancora in balia di quel Dio che, essendo morto, permetterebbe tutto. Come trovare ciò che, senza il soccorso di Dio, sarebbe infinito nell’uomo?

Filmare l’apparizione dell’umano, captare il passaggio della bontà nel

semplice commercio umano. A volte l’arte può precedere la vita.

28/11/1996 La nostra domanda non è: lo spettatore amerà il film? ma: il film amerà lo spettatore?

29/11/1996 Lettera a tre mogli. La schiena e la capigliatura di Linda Damell, sola

nell’inquadratura... In attesa di un movimento, in attesa di un volto...

01/12/1996 Contro l’estetismo in agguato, contro la plastica, contro tutto questo ar­ mamentario artistico che impedisce ai raggi umani di filtrare.

09/12/1996 Rosetta, la donna che si indurisce per sopravvivere e alla fine perde ciò che ha di piò caro? È una drogata di lavoro. Da lì e solo da lì potrà venirle il riconoscimento da parte degli altri. Appartenere alla comunità umana.

Rifiutare con tutte le forze la morte sociale.

17/12/1996 Ho letto Un uomo è un uomo e riletto Madre Coraggio e i suoi figli. Ho

letto Andromaca. Sto leggendo Tormenta di Russell Banks.

18/12/1996 Perché raccontare delle storie? Per non avere paura di stare da soli al buio.

29/12/1996 Rosetta progredisce. Non ho ancora scritto ma abbiamo parlato molto del personaggio. Esiste. Il racconto sarà meno articolato di quello de La

promessa. Mi sorprendo a rifare gli stessi gesti di mio padre. Stasera, prima di

andare a letto, quando mi sono diretto al portone per chiuderlo a chiave... camminavo come lui, erano i suoi passi, i suoi movimenti delle braccia... A

queste cose non si sfugge.

30/12/1996 Dopo Russell Banks leggerò Vita e destino di Vasilij Grossman e poi

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Psaume di Gorenstein. Forse ci troverò l’ambiente, l’energia, lo stato di bi­ sogno che avvertiamo per Rosetta. Non so perché ma ho bisogno di leggere e ascoltare della musica (le sonate e i concerti per pianoforte di Beethoven) prima di lanciarmi nella scrittura di una sceneggiatura. Mi rallegro di aver

finito la prima stesura e di rielaborarla con Jean-Pierre. Abbiamo la stessa intuizione del personaggio di Rosetta. Alla fine del film, non dovrebbe più

essere sola.

31/12/1996 Rosetta ha un dolore, un male fisico? Odia il vento?

07/01/1997 Ho ricevuto gli auguri da diverse persone o organizzazioni alla moda. Non mi augurano un buon anno, ma un bell’anno. L’estetismo sta bene. La

gente sta male.

12/01/1997 Abbiamo un primo piano per il racconto di Rosetta. Seguiremo il perso­

naggio e il racconto avrà la forma della sua vita, cioè senza romanzesco, sen­ za sviluppo di una storia. Dovrà svilupparsi qualcosa di invisibile: il destino di Rosetta, in cui è rinchiusa e contro cui lei inciampa. È una ragazza senza

compassione per se stessa né per gli altri. Vuole uscirne. Certo non per sali­ re nella scala sociale (quello è il diciannovesimo secolo) ma semplicemente

per esistere, per non scomparire.

15/01/1997 Non temere di attingere il materiale dei nostri film dagli aspetti più sor­

didi della realtà.

20/01/1997 «È nella natura del perdono che, quando si è perdonata una persona, non

ci si debba più proteggere da lei [...]» Russell Banks, Tormenta

25/01/1997 Rosetta è una ragazza arrabbiata, furiosa, attaccata al lavoro che le dà la

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sensazione di esistere, di non scomparire. Alla fine dovrà lasciare quel lavo­

ro che l’ha indotta a tradire il ragazzo che voleva aiutarla e forse amarla.

Esplorare la complessità dell’essere umano, spingendosi oltre La pro­ messa. Come La promessa, è un’iniziazione, una nascita, un nuovo principio. Ancora una volta Hannah Arendt può illuminarci. In Vila adiva, scrive: «Il

corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente

ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e, di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente

all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono mo­

rire, non sono nati per morire ma per incominciare. [...] Il miracolo che pre­ serva il mondo, la sfera delle faccende umane, della sua normale, “naturale”

rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo

inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati». Senza imporlo, senza sceneggiarlo, lasciare che sia la materia stessa del

film a trovare il miracolo che salverà Rosetta, il gesto, lo sguardo, la parola,

che verrà alla luce da una nuova Rosetta. Come Igor, proverà il fatto umano di incominciare. È ancora misterioso ma dobbiamo arrivare a questo.

26/01/1997 Rosetta è in stato di guerra. La violenza che ha luogo nel suo corpo, nelle sue parole, nei suoi andirivieni per ottenere un lavoro, la sua incapacità di

aprirsi a Riquet, l’odio furioso tra lei e la madre, la morte del fratello assi­

derato che lei cerca di scaldare con l’unico calore di cui dispone, quello del suo corpo, l’alloggio simile a un bivacco, tutte queste cose concorrono

a stillare un clima di guerra tra il campo di Rosetta e quello della società. Così appare la società per chi si trova buttato fuori: come una fortezza in cui non può entrare. La paura che circola nel sangue di Rosetta si dissiperà con le scene della riconciliazione con la madre e del riscatto del tradimento

attraverso l’abbandono del lavoro rubato a Riquet. Non avrà più paura di

scomparire. Sarà dovuta passare dal tradimento e dall’omicidio.

29/01/1997 Rosetta è ossessionata dalla paura di scomparire. Proprio in questa os­

sessione germoglia l’idea dell’omicidio. Uccidere sua madre, quella che le

ha dato la vita? Riquet, il nemico? La paura è dominante, più dell’amore. Riconduce immediatamente l’essere umano al suo stato animale.

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31/01/1997 Facciamo questo invece dell’altra cosa. L’altra cosa è: uccidere. Vivere

un momento dimenticandoci di quest’altra cosa è quello che si chiama un momento di felicità.

08/02/1997 Rosetta, la soprannumeraria.

09/02/1997 Dopo Rosetta probabilmente faremo un film che approfondirà la parabo­

la del figlio! prodigo. Non è il ritorno di Ulisse. Perché toma e perché era partito? Perché il padre lo festeggia? Che rapporto con il Padre di Caino e Abele?

10/02/1997 Uscire da... Esodo... Tirarsi fuori... Usciamo stasera?... Usciamo per an­ dare a veder un film... Che film?... Naturalmente una commedia... Un giorno riusciremo a girare una commedia?

18/02/1997 Per Rosetta, un titolo in relazione alla guerra? La scomparsa? Importan­ za dei corpi e di parole, la cui brutalità, l’animalità non fanno che conferma­

re l’angoscia della scomparsa.

20/02/1997 Vedere più volte lo stesso film a intervalli abbastanza lunghi può provo­ care un’esperienza di elezione. Questo film mi ha scelto, sono il suo eletto, si

ricorda di me, nelle sue immagini, nei suoi suoni, tra le une, tra gli altri, tra

le une e gli altri, non so dove, sono rimasto in lui, ha conservato in memoria

il mio sguardo. Poter rimanere nell’altro vuol dire essere amati.

21/02/1997 La violenza dell’odio che separa e lega Rosetta e sua madre è una forma

di resistenza alla loro scomparsa.

13/03/1997 Non costruire un intreccio, non raccóntare, non organizzare uno svol-

4.9

gimento. Stare con Rosetta, stare con lei e vedere come va verso le cose e

come le cose vengono a lei. Le situazioni giungano, sopraggiungano senza

che siano preparate, come eventi imprevedibili. La cosa richiederà un lavo­ ro di costruzione minuziosa di inquadrature e di montaggio.

17/03/1997 In Rosetta ci sarà una maggiore compressione rispetto a La promessa. Comprimere i sentimenti, comprimere lo spazio, comprimere i corpi, com­

primere le parole. Comunicare l’imminenza di un’esplosione.

19/03/1997 Il «viso armato» di Rosetta. Trovato in Marguerite Dura». Pensando a Rosetta, a volte mi viene in mente Suzanne di Una diga sul Pacifico, a volte anche Sachenka del Rachat di Gorestein.

03/04/1997 Inutile cercare di captare il male più da vicino e più strettamente possi­

bile, al centro. Appare là, così, senza un perché, all’angolo di un’inquadra­

tura troppo prolungata, in campo troppo lungo, che non ci ha visto giusto. È in questo sguardo inadeguato che sopraggiunge l’umano disumano e che possiamo farci un’idea della sua realtà. Quando abbiamo filmato la sepoltura

del corpo di Hamidou sotto i calcinacci in campo relativamente lungo, «mal

illuminato», inquadrando uno spazio cosparso di ostacoli che riducevano la visibilità, volevamo comunicare questa realtà del male. Forse ci sono altri

modi ma tutti, mi sembra, devono evitare di assumere un punto di vista che presuma di poter dare una visione chiara del male, della sua espressione. Il male è inimmaginabile, non appare come immagine.

12/94/1997 I pensieri delle origini riemergono. Ancora il delirio logico, tremenda­ mente logico, per dire ciò che siamo e ciò che non siamo. Ebbene l’uomo è ciò che non è, non è mai ciò che è.

14/04/1997 Alcuni adulti manifestano la loro ostilità verso altre persone con parole e mimiche che lasciano intravedere quella parte d’infanzia che decisamente non muore mai: la crudeltà.

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22/04/1997 Un giornalista radiofonico dopo un’intervista in cui ci aveva rivolto do­ mande fuori tema ci disse: «I miei ascoltatori vogliono sapere tutto di tutto

per non pensare a niente». Lavorando alla sceneggiatura di Rosetta* ripenso a quello che ci siamo detti: non raccontare una storia, non costruire un racconto, non disegnare una linea drammatica forte che intralci la vita di Rosetta. Eppure c’è ugual­

mente un racconto. Rileggere Dostoevskij. Le storie di Memorie da una casa di morti non sono costruite come la storia di Delitto e castigo.

05/05/1997 Rosetta non è forse troppo orribile? 0 forse è la sua vita a essere troppo

orribile? Non accontentarsi di questo mimetismo. Trovare l’altro. Forse non è così orribile come lei crede, come ciò che è socialmente determinata a

credere? Come se la società complottasse contro di lei, la spingesse verso la morte. D suicidio o l’omicidio.

09/05/1997 Rosetta si chiude a tutto, agli altri, alla vita, a se stessa. Si è adatta­

ta (sovra-adattata) per paura di non essere all’altezza di quello che doveva affrontare. Non vuole sprofondare. Vuole salvare un’immagine di se stessa

che ha a che vedere con una fedeltà all’immagine (idealizzata) del padre? A volte penso che in un modo o in un altro dovrebbe apparire un padre, e a volte mi dico che inevitabilmente finirebbe per essere come la spiegazione

psicologica ultima del comportamento di Rosetta. 11 che è assolutamente da

evitare.

10/05/1997 Paradosso contemporaneo: l’estetizzazione della realtà esige la de-este-

tizzazione dell’arte. Perché questi personaggi che soffrono e fanno soffrire? A volte mi dico

che deve esserci qualcosa di sadico nel nostro sguardo. A volte mi dico che vogliamo far sorgere dei corpi vivi, reali, e che la sofferenza è l’attestazione

di questa esistenza carnale, di questa incarnazione. A volte mi dico che

forse noi pensiamo che solo la gente che soffre può dare vita a una storia op­

!»1

pure che non c’è storia senza sofferenza, senza modifica, senza cambiamento

e passaggio: quindi anche (ma non solo) sofferenza. A volte mi dico che nel

profondo (e forse anche per mio fratello è così) ho paura del nostro essere umani, paura del male di cui siamo capaci, di cui sono capace. Forse è per esorcizzare questa paura che mostriamo l’opera del male. È sicuramente per questo... e anche per l’attimo in cui un essere umano, un personaggio, sfugge

all’influenza di questa opera.

11/05/1997 «La vita spirituale è essenzialmente vita morale e il suo luogo privile­ giato è l’economia.» Questa constatazione di Lévinas è propria anche del

nostro cinema.

15/05/1997 Rosetta non ha una psicologia perché ha dei compiti da assolvere, delle cose da fare. Tutto il suo essere è occupato, assillato, obnubilato, assediato da ciò che deve fare, cercare, trovare.

16/05/1997 Ho appena letto due testi di Arendt su Kafka. Anche Rosetta è una paria

che semplicemente pretende i diritti elementari di ogni essere umano; dubi­ ta perfino della propria realtà.

«Però, malgrado questa constatazione, chi come il “paria” viene messo

alla porta dalla società non può parlare di fortuna perché la società pretende di essere reale e di fargli credere che lui è irreale, cioè un nessuno.

Il conflitto tra la società ed il “paria” non verte quindi semplicemente sul problema se la società si sia comportata in modo giusto o ingiusto nei suoi

confronti, ma piuttosto se a chi ne è stato espulso o ad essa si oppone tocchi ancora un’esistenza “reale”.» Hannah Arendt, Ilfuturo alle spalle

26/05/1997 Non cerchiamo di raccontare una storia ma di descrivere il comportamento di una persona di cui l’intero essere è preso dall’ossessione di esistere in modo

normale, di fare parte della società, di non essere esclusa, di non scomparire. Come se Chariot si vergognasse di essere Chariot, come una vagabonda che

uccida per abbandonare la sua condizione. Niente umorismo. Angoscia.

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31/05/1997 Gli imprenditori che regnano oggi nell’industria cinematografica ameri­ cana ed europea producono film che appartengono a una pianificazione dei

bisogni e dei gusti in cui l’amante del cinema riconosce, fin dai titoli di testa,

il segnale della servitù generalizzata e compiaciuta. Per loro è affascinante, favoloso, sorprendente, geniale. Per lui è volgare, kitsch, facile, brutto.

01/06/1997 Il primo passo per uscire dalla riproduzione cinematografica è quello di non far ricomparire i corpi impiegati in questa riproduzione. Trovare nuovi corpi. Non partecipare alla vasta impresa di clonazione che fa sì che niente

di nuovo abbia accesso alla vita cinematografica.

20/06/1997 «(...] nel linguaggio quotidiano ci accostiamo al prossimo invece di di­

menticarlo nell’“entusiasmo” dell’eloquenza. [...] è anche nella prossimità del prossimo, totalmente altro in questa prossimità, che, al di là degli scarti della retorica, nasce la significatività di una trascendenza che va da un uomo

all’altro, ed a cui si riferiscono le metafore capaci di significare l’infinito.» Emmanuel Lévinas, Fuori dal soggetto

23/06/1997 Mangiare. Bere. Alloggio. La vita economica, luogo della vita morale, os­ sia spirituale. Il film Rosetta sarà fatto di questo e di ciò che connette questi

tre elementi: il lavoro e il denaro.

25/06/1997 «[...] questo rapporto faccia a faccia in cui l’altro è interlocutore prima ancora di essere conosciuto. Si guarda uno sguardo. Guardare uno sguardo

è guardare quanto non si abbandona, non si libera, ma vi rivolge lo sguardo: è guardare il volto.» Emmanuel Lévinas, La difficile libertà È questo sguardo di Rosetta che cercheremo di far apparire per lo spet­

tatore. Che arrivi a esistere come volto, sia l’interlocutrice prima di essere conosciuta, e non possa mai essere conoscibile. Non daremo informazioni

per spiegare il suo passato, la sua storia, i suoi comportamenti. Lei ci sarà,

sa

volto che si rivolge agli occhi che la guardano nel buio della sala.

26/06/1997 Scrivendo la sceneggiatura con Jean-Pierre mi rendo conto che forse troviamo qualcosa di nuovo. Non lavoriamo sui rapporti di causalità, sui

concatenamenti. Mostriamo Rosetta così com’è qui, così com’è là, così come

agisce qui, così come agisce là, e questo essere qui, questo essere là, questo agire qui, questo agire là, costruiscono un universo, uno spessore, un mondo

che appare come ciò da cui lei vuole uscire, come ciò che deve sparire (al­ trimenti lo farà lei). Lotta fra questo mondo e il personaggio di questo stesso

mondo, la cui posta in gioco ultima è la scomparsa, la morte di uno dei con­ tendenti. Movimento di uscita contro movimento di chiusura.

22/07/1997 Per noi autori, essere con il personaggio (Rosetta) significa: rifiutare di

smarcarci, di prendere la distanza attraverso un dialogp, un altro personag­ gio, la costruzione di una scena che offra un punto di vista che il personag­

gio non potrebbe avere. Se Rosetta è totalmente occupata, ossessionata da una cosa, dobbiamo restare in questa occupazione, in questa ossessione. Lo

stesso vale per la macchina da presa: dovrà essere più addentro possibile.

Questo limita molto le possibilità di scrittura e forse è impossibile. Tanto

meglio. Essere ossessionati da qualcosa vuol dire avere questa cosa davanti a sé, di fronte a sé, senza nessuna possibilità di spostarla. Qualsiasi movimento facciate, continua a stare lì, davanti a voi, vicinissima a voi, non vi molla, vi assedia. È lì, irrimediabilmente, irrevocabilmente, eternamente lì. E voi non

ne potete più di stare lì.

Ho letto Psaume di Gorestein, L’onta di Annie Emaux. Leggo Madame

Bovary. Poi leggerò di nuovo Proust. Ho terminato la lettura di Vila e destina e di Una diga sul Pacifico. Suzanne presta questa battuta a Rosetta: «Ho voglia di non essere tra le braccia di nessuno».

04/08/1997 Buona discussione con Jean-Pierre sul Thalys. Credo che abbiamo l’ul­

tima parte della sceneggiatura. Non so che film ne uscirà fuori, ma abbiamo

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trovato i movimenti lunghi e intensi che vorremmo filmare.

10/08/1997 C., che abita a Bruxelles e non ha lavoro, cammina tutto il giorno in città. La sera rientra sfinita. Anche Rosetta è una che cammina. Anche in

Dostoevskij i personaggi camminano senza tregua. Un movimento fisico che

■è-movimento mentale. Ricerca di un posto, di un luogo dove andare. Final* mente riposare la mente!

17/08/1997 Ho visto Ifigli della violenza al museo. Rosetta esisteva prima di entrare nel film e, dopo la fine dell’ultima in­ quadratura del film, continuerà a esistere. Come se fosse il personaggio di

un documentario che esiste al di là del fatto che viene filmata dalla nostra

macchina da presa. Filmiamo un momento della sua vita.

19/08/1997 Alain Berenboom mi ha detto che ne La promessa avvertiva un clima da

superstiti come in certi romanzi di fantascienza. In Rosetta il clima è lo stes­ so. I nostri personaggi devono imparare di nuovo a esistere andando oltre la loro volontà di sopravvivere, devono imparare di nuovo «cosa c’è di umano

nell’uomo», avrebbe detto Vasilij Grossman.

20/08/1997 La libertà non comincia dove finisce la necessità. Senza la necessità l’uomo si annoia, perde il rapporto con la realtà e finisce per ricercarla in atti

di distruzione. Rosetta è un personaggio decisamente contemporaneo, una rappresentante di una nuova specie votata all’inattività forzata, alla libertà

privata di ogni necessità. La sua lotta per conquistare un lavoro è dettata anche dalla paura del vuoto che avverte. Sa che un giorno gli uomini e le

donne dovranno battersi per ritrovare una forma di lavoro.

29/08/1997 «Non dimentichiamoci che la storia di ognuno si fa attraverso il bisogno incessante di essere riconosciuti...»

Robert Anteime

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La possibilità di trovare un lavoro per Rosetta è qualcosa che le darà ri­

conoscimento, che le permetterà di sentirsi viva, di esistere agli occhi degli altri e ai propri.

30/08/1997 «Insemina» mi chiese la giornalista «lei come si sente? Si sente belga? Vallone? Di Bruxelles? Europeo...» «Mi sento male» risposi «quando devo pormi questo tipo di domande.»

02/09/1997 Terminata la prima stesura di Rosetta. Ho riletto. Mi è sembrata pes­ sima. Anche Jean-Pierre la pensa così. Il racconto non prende vita. Non

dovremmo ritrovare la costrizione, la chiusura drammatica dell’intreccio? È il contrario di quello che cerchiamo di fare. Il solo punto positivo è il

personaggio di Rosetta.

07/09/1997 Una giornata di discussioni. Rimettiamo al centro Rosetta e sua madre.

Ricomincio a scrivere. Difficile non ripensare a La promessa mentre cer­ chiamo la traiettoria di Rosetta. Eppure bisogna dimenticare Roger, Igor e Assita. Trio infernale! Il problema resta: riuscire a far nascere il racconto a

partire da una realtà ordinaria.

09/09/1997 Ripenso alle bozze della sceneggiatura de La Decision e La Tentation. In

entrambi, la morte violenta (l’omicidio compiuto o meditato) di un bambino. Sento che dopo Rosetta ci torneremo. Quest’idea mi assilla, mi perseguita.

23/09/1997 D. Perché fate questi film? R. Facciamo quello che sappiamo fare.

D. Cioè? R. Solo i film stessi possono rispondere, perché quello che noi facciamo non è necessariamente quello che crediamo di fare.

Un principio da rispettare sempre e comunque: «Fai ciò che sai fare e non pretendere di sapere quello che fai».

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25/09/1997 Ieri buona giornata di lavoro con Jean-Pierre. Abbiamo il perimetro della

storia all’interno del quale Rosetta condurrà la sua lotta mortale. È la genesi di un omicidio. Come Rosetta, per ottenere quello che cerca, giungerà fino a

uccidere. La ragazza che era all’inizio ricomparirà, ma troppo tardi. Rappre­

senta quello che avrebbe potuto non succedere mai, ma arriva troppo tardi. Rosetta sopprime l’altro per prenderne il posto e con questo comportamen­

to dimostra di essere un puro prodotto della concorrenza brutale imposta

dall’economia ultraliberale della nostra epoca. Non ci sono nuovi posti (il lavoro scarseggia) e quindi lotta all’ultimo sangue per i posti esistenti anche se già occupati. All’inizio si desidera il posto, poi, non potendolo ottenere

visto che è occupato, si desidera la soppressione dell’occupante. In tutte le scene in cui sia possibile (senza che si avverta l’artificio della

sceneggiatura) introdurremo la situazione di qualcuno che prende il posto di un altro. Prendere il posto di un altro per non scomparire.

01/10/1997 «Non c’è arte che valga a scoprire dal viso il colore dell’animo.»

William Shakespeare, Macbeth, atto I, scena 4

24/10/1997 Il determinismo sociale ed economico è tomato ad essere la forma del destino per il quindici per cento della popolazione occidentale che si allinea

alle popolazioni del Sud del mondo. Forma contemporanea del tragico. Con questo si scontra Rosetta. Ci rimproverano poi di non avere humour. Come potrebbe Rosetta, che è

chiusa nel suo destino, prendere le distanze da quello stesso destino?

04/11/1997 Ho appena letto Madame Bovary. Il destino di Rosetta somiglia a quello

di Emma. L’una cerca un vero lavoro, l’altra un vero amore, un lavoro intro­ vabile, un amore introvabile. Ricerca tanto più ossessiva in quanto l’oggetto non esiste.

Questo passo del romanzo riassume mirabilmente, terribilmente il lavoro

del destino nella ricerca sfrenata di Emma: «Tuttavia, su quella fronte im­

perlata di gocce fredde, su quelle labbra balbettanti, in quelle pupille sbar­ rate, nella stretta di quelle braccia, era qualcosa d’eccessivo, di confuso, di

lugubre che a Léon pareva si insinuasse tra loro, come per separarli».

Quel qualcosa d’eccessivo, di confuso e di lugubre che si insinua tra

loro, impercettibilmente, come per separarli è il segno, il sintomo di una nuova epoca che ancora oggi viviamo, la fuoriuscita dall’epoca (quella che

ancora sento leggendo Stendhal) in cui i corpi potevano diffondere un calore che li avvolgeva e li conduceva, magari solo per un attimo, al cuore (che

parola!) della passione amorosa, della sua estasi, della sua eternità, della sua beatitudine. Emma non può più provare tutto questo e lo sognerà, ne morirà addirittura.

La separazione dei corpi di Léon ed Emma la vivo anche come lettore. Si propaga tra me e il romanzo. Sono trasportato in uno sguardo che non può permettermi l’identificazione con il personaggio. Tra me e lui aleggia sempre

quel qualcosa di freddo, d’eccessivo, di confuso e di lugubre. Rosetta è la pronipote di Emma, la nipote di Berthe. Berthe che lavorò

nei cotonifici e nella vita dei proletari ritrovò qualche momento di calore fraterno che le consentì di dimenticare quel qualcosa di freddo che aveva

abbattuto sua madre. Passati quei momenti (quelli descritti da Zola), Roset­

ta ritrova il «qualcosa» di Emma. Né l’amore né il lavoro le danno calore. Sei così sola Rosetta. Così sola.

10/11/1997 In seguito alle osservazioni di Jean-Piene ho fatto una nuova struttura. Mi sento che ci stiamo avvicinando alla forma e allo stato che cerchiamo. Rosetta non ucciderà. Riquet, che finalmente comincia a esistere, è uno che

vuole aiutare Rosetta, niente più, al di là di ogni intreccio. Il suo modo di apparire nell’immagine, di essere inquadrato, non rinvierà a nessun dise­ gno nascosto, a nessuna dissimulazione. Lui c’è, ed è tutto lì. La madre di

Rosetta diventa viva, esce dall’astrazione. La conversazione telefonica di

domenica mattina con la signora degli Alcolisti anonimi mi ha aiutato molto

a darle vita. Jean-Piene ha paura che divenga troppo presente con i suoi problemi di cure ecc. Ha ragione. Pensa anche che ciò che accade tra Ro­ setta e Riquet non rientra nell’ordine dell’abbordaggio amoroso. Ha ragione anche su questo. Il film si svolge altrove. Non sappiamo dove, ma altrove. In

qualche posto dove si scende nella genesi dell’èssere umano. Per modo di

dire, perché noi filmiamo le tracce del passaggio umano in superficie, fra gli indizi. Sarà forse lo spettatore a scendere (se il film ne è all’altezza).



16/11/1997 «Frédéric rabbrividì, preso da un’inquietudine senza motivo.» Gustave Flaubert, L'educazione sentimentale

Come filmare una cosa del genere? È possibile? Dove sistemare la mac­ china da presa?

18/11/1997 _ ^Rosetta diventa di nuovo un personaggio che scopre, esce da se stesso, finalmente desidera. Tre perdite alla fine della sceneggiatura. La perdita (vo­

lontaria) del lavoro, del suo posto. La perdita della vita (suicidio interrotto per mancanza di carburante, la sua povertà). La perdita delle immagini in cui si era murata (vede l’altro, Riquet). Nascita di una nuova Rosetta.

In Rosetta il racconto appare meno che ne La promessa. Meno costru­ zione, più posto a quello che succede e dà forma al destino del personaggio

(che allora tenta di sfuggirgli, di resistergli).

22/11/1997 Rosetta toma ad essere un personaggio che scopre, esce da se stessa,

desidera infine. Tre perdite al termine della sceneggiatura. La perdita (vo­ lontaria) del lavoro, del suo posto. La perdita della vita (il suicidio impedito

dall’assenza di carburante, la povertà). La perdita delle immagini di cui si era circondata (lei vede l’altro, Riquet). La nascita di una nuova Rosetta.

In Rosetta il récit è meno apparente che ne La Promessa. Meno costru­

zione, più spazio a quello che succede e che si predispone come destino del personaggio (che tenta dunque di sfuggirgli, di resistergli).

26/11/1997 Brecht ha scritto che il realismo non consisteva nel dire cose vere ma nel dire come stanno veramente le cose. Mentre le sue pièce dicevano come

stavano veramente le cose, un prigioniero del gulag raccoglieva fatti, cose

vere che dicevano che quelle pièce teatrali erano false. Quando dire come

stanno veramente le cose richiede di dire cose false, dire cose vere diventa il modo per dire come stanno veramente le cose.

no

27/11/1997 Questo pomeriggio vado ad Aubagne a incontrare un vecchio amico che organizza il festiva) Méridien. Gli abbiamo chiesto di mettere in programma

liuti lo chiamano All - La paura mangia l'anima di Rainer Werner Fassbin­

der. Se Rosetta è prigioniera del suo destino, di ciò che la ossessiona, biso­ gna imprigionarla anche nell'immagine? Ricordarsi che un essere umano

sorprende. Non è solo sorpreso.

01/12/1997 Sembra che Mozart a proposito di certi suoi concerti abbia detto: «È brillante ma manca di povertà».

02/12/1997 La lettura della Bibbia insegna ad attenersi alla lettera. Filmare la lette­

ra. Senza voler filmare lo spirito. Emergerà da solo. E non troppo in rilievo, perché la lettera deve restare visibile. È proprio mantenendo il contatto con essa che lo spirito acquista profondità.

22/12/1997 La resurrezione dei corpi. Perché dei corpi? Perché solo il corpo può morire e di conseguenza solo il corpo può resuscitare. E siccome solo il cor­ po può essere filmato, c’è un rapporto fra il cinema e la resurrezione. È una

constatazione idiota, ma continua a stupirmi.

0S/01/1998 Jean-Pierre ha letto la quarta versione della sceneggiatura. Pensa che sia carente di intenti, che sia ancora troppo documentaristica. Sono d’accor­

do. Metterò al centro la scoperta di Riquet da parte di Rosetta, la sua colpe­

volezza, la sua domanda di «perdono», il suo parto. Tutte cose che erano in germe in questa stesura.

07/01/1998 Il padre entra nella sceneggiatura. Legato al bisogno di riconoscimento

di Rosetta.

An

18/01/1998 Il padre di Rosetta non serve a movimentare l’intreccio, a far procede­ re l'azione. È qualcuno da cui Rosetta vuole ottenere riconoscimento, solo quando si sente male, quando non è più riconosciuta, quando dubita della propria esistenza.

19/01/1998 Ho riletto Amleto. Nel momento in cui ha tutti i motivi per vendicarsi, per vendicare il padre, Amleto pensa alla vacuità delle vicende umane, pen­ sa a morire. Non si tratta di una peripezia dell’anima prima di perseguire lo

scopo prefissato. Non è un'astuzia drammaturgica. Questo pensiero lo abita

davvero e lo pervade per intero. Perché questo? Perché Amleto esita a en­ trare nella concatenazione della tragedia, nella storia, nella Storia? Perché aspira a ritirarsi, a non essere? La vendetta dà luogo al racconto, procura i motivi e gli obiettivi al personaggio, lo nutre e gli dà uno scopo. Insomma,

uno scopo da realizzare. Uno scopo fondato su valide ragioni, su un’idea alta di giustizia e di morale! Amleto esita, non vuole dar luogo al racconto,

non vuole realizzare lo scopo. Ma non può neppure dimenticare la colpa commessa da suo zio e da sua madre. E che altro allora?... Di fronte a una

tale profondità umana la maggior parte dei racconti suonano vuoti. Non dar luogo al racconto, non entrare nella storia, rinunciare alla propria missione, uscire dal gioco infernale dell’intreccio, poter finalmente rimanere fuori da ogni intreccio, cominciare un’altra vita, nuova, veramente nuova, e per que­

sto non essere. Amleto fa il possibile per non dar luogo al racconto, per non diventare il personaggio di una storia, ma il tragico attiene proprio all’impossibilità di

non dar luogo al racconto.

22/02/1998 Ancora una volta Amleto. Immagina la rappresentazione teatrale dell’omi­ cidio commesso dallo zio perché crede che, di fronte allo spettacolo del pro­

prio crimine, l’assassino possa tradirsi e, forse, ammettere il male commesso. Nell’immaginare questo, Amleto esprime l’essenza della rappresentazione

tragica: ripetere la trasgressione del divieto per rifondarlo. La condizione di Claudio, la condizione dello spettatore assassino (e incestuoso) è quella di ogni spettatore di fronte ai più subdoli intrighi umani. E un’altra cosa, ancora: se Claudio, impressionato dallo spettacolo del proprio crimine, fi-

A1

nisse per confessare, rinunciando al posto che occupa grazie a quel crimine,

Amleto non dovrebbe più uccìderlo per vendicare il padre. L’arte avrebbe operato la conversione del colpevole. Non ci sarebbe bisogno di commettere

un nuovo assassinio. Tutte illusioni.

06/02/1998 Jean-Pierre è entusiasta della quinta versione della sceneggiatura. An­

diamo a Casteau per scrivere la sesta stesura. Credo che abbiamo il per­

sonaggio e la storia stia nascendo, si stia costruendo senza diventare una storia. Chi può capire, capisca. Io so cosa intendo dire.

«La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto delia dispera­

zione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione.»

Theodor Adorno, Minima moralia

07/02/1998 E. è sempre disoccupato. Situazione difficile da vivere e pochi si rendo­ no conto di cosa significhi per chi la provi.

15/02/1998 A Casteau abbiamo finito la sesta stesura della sceneggiatura. Ci siamo resi conto che si trattava di un insieme di variazioni sulla situazione dram­ matica della vergogna. L’ultima forma di vergogna è quella morale (la ver­

gogna di ciò che Rosetta ha fatto a Riquet). Riquet aiuta Rosetta a superare

la vergogna.

17/02/1998 D. Perché non c’è musica nei vostri film? R. Per non tapparvi gli occhi.

02/03/1998 Dopo la lettura della sceneggiatura da parte di Leon Michaux, soppri­ miamo il personaggio del padre. Non solo è scontato, ma oltretutto spiega

Rosetta. Grazie Leon.

62

07/03/1998 Quasi finita la settima stesura della sceneggiatura. Giusto sopprimere il padre. Eppure poche settimane fa mi sembrava essenziale. Perù sentivo che

rischiava di spiegare Rosetta. Era quello il rischio.

Credo che abbiamo la struttura personaggio/situazione che ci permette­ rà di scavare ancora nel corso delle riprese. Scavare nella materia umana. Mettere a nudo, andare nel vivo.

18/04/1998 La nona versione della sceneggiatura è stata depositata presso la com­

missione di selezione del film, poi sarà depositata presso Canal +. Speriamo che la «capiscano». Gireremo a ottobre.

Dopo averne discusso con Jean-Pierre, inizio a lavorare a un'altra sce­ neggiatura. Vorremmo mettere in scena un gruppo, una famiglia con due o tre bambini. Forse potremmo riprendere in modo diverso la storia della

donna che si batte fino alla follia perché venga riassunto l’operaio licenziato.

Sciopero della fame insensato, con una tenda nel parcheggio. Lei ha bisogno di cure. Aiuto reciproco fra la moglie e suo marito. All’inizio il marito ha paura. Un film sulla paura.

19/04/1998 Questa dovrebbe essere la nota di intenti che accompagna la sceneggia­

tura di Rosetta:

Esplorazione di un’esistenza, di un personaggio, che vorrebbe essere il ritratto di un’epoca.

11 personaggio: Rosetta, una ragazza di diciassette anni alla ricerca di un

lavoro, di un posto, di un’esistenza, del riconoscimento. L’epoca: quella di oggi, della riduzione alla sopravvivenza provocata dal­

la scarsità di lavoro, che ha come corollario i problemi di soldi, alloggio, cibo, salute, esclusione... È un film di guerra. Rosetta va al fronte alla ricerca di un lavoro che

trova, che perde, che ritrova, che le prendono, che lei si riprende, sempre in agguato, ossessionata dalla paura di scomparire, dalla vergogna di essere una disadattata, prigioniera del suo orgoglio, talmente indurita da tradire l’unico amico apparso per aiutarla. Conta solo la vittoria: avere un lavoro,

trovare un posto.

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Riprenderemo il corpo di Rosetta sul limite dell’esplosione, compresso,

teso, in guerra, intoccabile, inquadrato in lunghi movimenti che a volte re­ steranno sospesi in inquadrature nelle quali il suo volto verrà a respirare, il

suo sguardo verrà a riposarsi.

20/04/1998 Ci serve un titolo prima di cominciare la redazione della sceneggiatura. Assolutamente necessario per inquadrare, per circoscrivere la posta in gioco

del film, il «che cosa vogliamo riprendere, in pratica?», il «di cosa parla, in

pratica?».

27/04/1998 «Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non es­ sere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che erano state loro fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli:

che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare.» Albert Camus, La peste

06/05/1998 Stiamo pensando a una nuova sceneggiatura da girare dopo Rosella. Olivier Gourmet interpreterà il personaggio principale. Nuovo modo di co­

minciare, nuova esperienza, perché non siamo mai partiti da un attore per immaginare un film. Vorremmo che non ci fosse nessun soggetto, solo delle persone e i loro rapporti.

10/05/1998 «Molte cose indicibili sarebbero di ben poco valore se si potessero

dire.» Georg Christoph Lichtenberg

12/05/1998 A volte la necessità di far soffrire gli altri. È cosi. Bisogna saperlo.

31/05/1998 Conversazione telefonica con Jean-Piene riguardo alla prossima sceneg­ giatura. Riparliamo dello smarrimento del delegato sindacale di fronte a una

squadra di operai che ha dato il suo consenso alla direzione perché licen-

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ziasse l’operaio che, con la sua poca dedizione al lavoro, faceva loro perdere i premi di produzione. Un uomo che sente il terreno franargli sotto ai piedi. Un uomo arrabbiato che, pur non avendo sempre e comunque ragione, ha

ragione di essere arrabbiato.

01/06/1998 Di notte, in un commissariato di Chaleroi. Un poliziotto conclude l’inter­

rogatorio di un adolescente di quattordici anni, preso in flagranza di furto. Telefona ai genitori per avvertirli e per chiedergli di venire a riprendere il

figlio. Il padre risponde: «Tenelevelo» e riaggancia.

26/07/1998 Ho appena letto II sacrificio interdetto. Freud e la Bibbia di Marie Balmary. Scrive l’autrice nella conclusione: «La coscienza umana non si è costrui­

ta per possesso e dominio, ma per spossessamento e liberazione». Rosetta si libera, è liberata. Riquet è lo sconosciuto, il «primo venuto»

che aiuta questa uscita, questo passaggio, questa liberazione.

22/07/1998 Ho appena visto i primi due film di Bill Douglas. Ellissi che danno vita a una tensione sul punto di far esplodere le inquadrature. Il senso acuto di

qualcosa che finisce improvvisamente, senza spiegazioni, da prendere così, come viene, nello stesso modo in cui la vita si rivolge a Jimmy.

14/08/1998 Rosetta è sola perché lo spettatore possa essere con lei. Lei soffre e chi la guarda può fare l’esperienza di soffrire per l’altro che soffre. Perché non sia solo un’esperienza narcisistica, occorre che Rosetta opponga resistenza a ciò che permette allo spettatore di rispecchiarsi e di piangersi addosso. Lei

deve sfuggirgli, a volte deve essere sgradevole, non sedurlo, non deve diven­

tare una vittima alla ricerca della sua comoda pietà. Provocare nello spetta­ tore l’esperienza della sofferenza per l’altro, della sofferenza alla vista della

sofferenza dell’altro, consente all’arte di ricostruire l’esperienza umana.

«0 poveri straccioni, dovunque siate, in giro, mezzo ignudi sotto la sferza

di questa empia bufera! Come potete, così, a testa scoperta, con i fianchi digiuni e i vostri stracci crivellati di buchi e di finestre, ripararvi da simili stagioni? Eh, troppo poco pensiero mi son dato, di questo. Purgati qui, lus­

so! Esponiti a soffrire quel che soffrono i poveri: sì che tu possa un giorno scrollare su loro il superfluo e mostrare più giusti i cieli.» William Shakespeare, Re Lear, III, 4

«Morirei di pietà se vedessi, io, un altro così trattato...» William Shakespeare, Re Lear, IV, 7

30/08/1998 Rosetta è il nome di una persona che noi riprenderemo, è un film su qualcuno. Quasi un «documentario» su una ragazza di oggi. Credo che la giovane sconosciuta che interpreterà quel qualcuno diverrà Rosetta.

15/10/1998 Riquet è inafferrabile. Non arrivo a capire chi sia e credo di non doverci più nemmeno provare. Accontentarsi di un semplice «c’è». È una specie di idiota? L’attore (Fabrizio Rongione) ci ha chiesto chi fosse Riquet. Gli

abbiamo risposto che non lo sapevamo, sapevamo solo che c’era.

16/10/1998 Jean-Pierre ha proposto di sopprimere tutte le battute e gli atteggiamenti

che potrebbero ancora fare di Riquet un seduttore. Un ragazzo misterioso. In attesa. In attesa di una Rosetta che ancora non c’è. Una rassicurazione, un

legame di fronte alla solitaria Rosetta che lo guarda.

25/10/1998 Rosetta o la nascita. I suoi mal di pancia sono le contrazioni di un parto

di cui non si riesce a trovare il bambino.

18/11/1998 Più giriamo, più sentiamo che Rosetta è un film senza soggetto. L’attrice (Émilie Dequenne) e gli altri attori si trovano in questo gioco trattenuto e

bruciante che noi cerchiamo di ottenere.

07/12/1998 Rosetta potrebbe essere un film muto. Tutta la sua energia va in collera

per reggere, perché lei si mantenga in vita. Non resta niente per tirar fuori una parola. E poi a che servirebbe parlare?

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23/12/1998 Abbiamo finito di girare Rosetta. Fisicamente logorante. Ci rimane una

forza, un’energia, anche se non sappiamo che ritmo avrà il film. Tutti hanno contribuito a creare sul set la tensione che ci voleva. Abbiamo ripetuto le scene di cui non eravamo soddisfatti, cosa che non avevamo fatto per La promessa. Abbiamo riscritto delle scene durante le riprese. Per La promessa non avevamo fatto neppure questo.

03/01/1999 Un elemento per la prossima sceneggiatura: la porta smontata che nes­

suno ripara.

10/01/1999 La vera constatazione: l’assenza dell’uomo nell’uomo. L’assenza di Dio

era un’interpretazione di questa constatazione, un modo di ingaggiare la lot­ ta rifiutandosi però di riconoscere la nostra solitudine. Oggi l’arte si pone di

fronte a questa vera constatazione che spaventa. Dalla lotta contro di essa

nascono le opere d’arte.

29/01/1999 Un ragazzo assistito dal cpas, il Centro pubblico di assistenza sociale di

Charleroi, ha tentato di immolarsi dandosi fuoco nei locali del Centro. Ci ha provato due volte. È questa la violenza della risposta alla violenza del

discredito, dell’offesa, dell’umiliazione sociale. Noi che dovremmo vedere, noi chiudiamo gli occhi sperando che passi, ma domani resteremo sorpresi dalla violenza dello schiaffo che ci colpirà. Commisurato alla violenza che avremo commesso o lasciato commettere.

30/01/1999 Gigi, Monica et Bianca, il film di Benoft Dervaux, è molto bello. Mi

ha profondamente commosso la scena sotto la tettoia di vetro. L’acqua, la

pioggia che cade da quei vetri, raccolta con le mani da Gigi e Monica per

schizzarsi, bagnarsi, lavarsi, amarsi. Un momento d’amore che salva tutto, loro, noi, il cinema, il mondo.

03/02/1999 Il montaggio di Rosetta è difficile. Come trovare il ritmo giusto per questo

ritratto? Il ritmo, il respiro è la nostra forma cinematografica. Penso spesso al

ritmo che Schumann riesce a dare ad alcuni movimenti. Una specie di febbre, di affanno, di frenesia, di irrequietezza interrotta da calme respirazioni ancora

percorse da un brivido inestinguibile. Rosetta si muove, si muove, si muove.

Non sa dove appoggiare la testa. Se avete fame o sete, c’è qualcuno che vi caccia. Un solo rifugio, una sola notte in cui la sua testa potrà riposare: sulla

brandina di Riquet, sulle parole dolci del suo monologo bambinesco.

07/02/1999 Rosetta cammina fra i soldi, il lavoro, l’acqua, l’uovo, la branda, la cialda e il gas. Geografia dei bisogni dell’economia primaria. Cammina sul bordo

del precipizio, cammina per non cadere. Quando arriverà l’altro, qualcuno ad aiutarla, lei non lo riconoscerà. Lo getterà nel precipizio, lui e tutto ciò

che le fa del male, tutto ciò che le mangia il ventre: i soldi, il lavoro, l’acqua, l’uovo, la branda, la cialda e il gas.

13/02/1999 Rosetta. Cominciamo a trovare il ritmo, il soffio. Tutte le sere penso a Olivier Gourmet. Occupa la mia mente, personaggio principale di scene sconnesse. È la prima volta che mi sorprendo a fanta­

sticare su situazioni immaginarie a partire da un attore. Mi perseguita, mi

ossessiona.

Leggo La condizione umana di Malraux.

14/03/1999 Forse abbiamo una pista da seguire per la nuova sceneggiatura. Un uomo il cui figlio è stato assassinato. L’uomo non si vendica, salva o almeno prova a salvare (finendo per impazzire?) l’assassino. Dopo la morte del figlio c’è

qualcun altro che lo riguardi, a parte l’assassino? Attenzione al perdono. Ancora niente titolo.

20/03/1999 Il male ha sconfitto l’analisi. Si avvicina all’arte, che lo aspetta...

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21/03/1999 D lupo e l’agnello. Se l’agnello rispondesse all’animale pieno di rabbia:

«Sì, Sua Maestà, l’anno scorso mio fratello ha sparlato di lei. Se lo prenda e se lo mangi. Si prenda anche tutta la mia famiglia e se la mangi. Sono laggiù,

nascosti nella boscaglia». Di fronte a una risposta del genere, il lettore che

si limitasse a giudicare dall’alto del suo senso morale direbbe che si tratta

di un agnello veramente cattivo. Tradire così il fratello e tutta la famiglia! Il lettore che si sforzasse di capire vedrebbe, invece, in che modo il regi­ me dei lupi possa trasformare l’agnello in un personaggio perfino peggiore

del lupo. Si accorgerebbe anche che, tra il lettore che giudica in base alla

propria morale e il lupo, si stabilisce una sottile connivenza. Il lupo, dopo aver divorato la famiglia dell’agnello, toma da quest’ultimo e si appresta a

mangiarlo, nonostante le sue ultime suppliche, perché pensa che «è vera­

mente un cattivo agnello questo: ha denunciato così il fratello e i familiari. Si merita di morire». E lo mangia senza nessuna forma di processo, sentendo di compiere un atto morale.

22/03/1999 Prossima sceneggiatura: la vendetta/il perdono. Senza sdolcinatezze. Af­

frontare il momento del perdono senza cadere nel sentimentalismo umano, troppo umano. Affrontare questo momento non vuol dire per forza arrivare al

perdono. Bisogna provare scrivendo e girando. A volte mi dico «sì, è possi­ bile» poi qualcosa mi trattiene e mi dice «no, è impossibile».

27/03/1999 Forse il padre del bambino assassinato non scoprirà il perdono, ma l’im­

possibilità di uccidere. L’anima umana secondo Lévinas.

30/03/1999 Ripensiamo a quell’episodio di cronaca di Auderghem. L’uomo incari­ cato dall’amante di uccidere il bambino piccolo avuto con il marito. L’uomo

parte in macchina con il bambino per annegarlo, ma non riesce a decidersi.

Alla fine abbandona il bambino sul bordo dell’autostrada.

31/03/1999 In una cartella dove archivio spezzoni di dialogo e idee di racconti, ho ri­ trovato questi appunti datati 22/08/1997: «Un uomo uccide il marito di una

donna. Il fratello dell’assassino sacrificherà la sua vita a quella donna per

espiare l’atto del fratello e anche la sua personale colpa: aver lasciato che il

fratello diventasse un omicida. La domanda posta a Caino, girata ad Abele: perché hai lasciato che tuo fratello diventasse un assassino?»

Attenzione al narcisismo di questo fratello che si sacrifica. Può annidarsi al fondo di colui che si sacrifica per salvare negli altri l’immagine di se stes­ so che non vuole assolutamente compromettere, che non vuole sacrificare.

Bisognerebbe che la sua volontà di sacrifìcio per gli altri lo portasse a essere sopraffatto da ciò che ha intrapreso.

01/04/1999 Discussione con Jean-Piene a Bruxelles. Ancora niente titolo per la prossima sceneggiatura, ma c’è il movimento. Intorno al figlio assassinato,

alla vendetta del padre, al perdono. Abbiamo trovato l’arena: un centro di formazione professionale per giovani da reinserire (trasmissione, eredità).

Un mestiere legato al cibo? La terza persona sarà una ragazza. Una terza persona viva che aprirà la possibilità del perdono senza che ci sia la scena

del perdono fra il padre e l’assassino. La terza persona viva «contro» la ter­ za persona morta (il figlio assassinato). Senza questa terza persona vivente,

come potrebbe il padre non uccidere l’assassino del figlio? Momento di furia vendicatrice del padre prima della scena fra l’assassino e questa ragazza. Non si può parlare di perdono perché l’assassino non chiederà perdono, ma

grazie alla ragazza potrebbe riuscire a confessare a se stesso cosa ha fatto. Potrebbe crollare. L’assassino ha ucciso quando aveva undici o dodici anni. Pensare al primo omicidio (Caino e Abele) anche se questi non sono fratelli. Il personaggio del padre li renderà fratelli. Inevitabilmente.

09/04/1999 Il film è stato selezionato per la competizione ufficiale a Cannes. Il de­ legato generale del festival, Gilles Jacob, ha detto che Rosetta è un missile

Exocet.

13/05/1999 Proiezione di Rosetta nella sala delle Dames Augustines a Parigi, per verificare i livelli del missaggio. È un film su qualcuno che cerca di stare in

piedi. Nient’altro.

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15/05/1999 Lasciamo perdere la storia sulla vendetta e il perdono del padre. Quando

ci pensiamo abbiamo l’impressione di averlo già fatto. Nessun rischio, nes­

suna scommessa, niente avventura. L’impressione di ricominciare in altro

modo La promessa?

31/05/1999 Torniamo sulla terra, dopo Cannes. Proviamo a ripensare a Olivier, al prossimo film. Dovrebbe avere qualcosa a che fare col cibo.

01/06/1999 L’avventura di Rosetta ci ha sfinito. Mi sento svuotato. Impossibile concen­ trarsi. Anche per Jean-Pierre, che ho appena sentito per telefono, è lo stesso. Ci ha portato al di là. Al di là di cosa non saprei dirlo, ma al di là. Adesso

bisogna tornare, dobbiamo rimetterci al lavoro con calma e regolarità.

20/06/1999 Vado a dormire. Contento di pensare a Olivier Gourmet, al personaggio che diventerà nel nostro prossimo film. Ancora la notte in cui tutte le vacche

sono nere.

30/07/1999 Filmare o dare vita all’inquadratura. Lo sguardo ficcato, imprigionato, perso, soffocato, annegato nella materia. Cerca di uscire, di creare un varco,

l’inquadratura. Rosetta incarna questo movimento di uscita, questa respira­

zione da annegato.

01/08/1999 Mio padre. Mi sono scontrato a lungo con lui. Senza tregua. Non ero solo.

Nella lotta contro di lui, mio fratello era con me e io con lui. Non lo diceva­

mo mai a voce alta, ma sapevamo che il nostro legame era indefettibile. Può darsi che abbia sancito il nostro destino di cineasti bicefali? Non lo so. La sola cosa che mi sembra di sapere è che nei nostri film parliamo molto di

nostro padre, dei suoi figli e di lui. Non ho mai parlato con mio padre. Non

c’è niente di eccezionale. Forse è la regola. Mi ci sono voluti molti anni per capire quanto gli devo, quanto gli dobbiamo, per comprendere cosa, seppure

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con i suoi modi privi di tatto e con tutte le sue ossessioni, aveva tentato di

trasmetterci: l’esigenza morale, quella che forse l’aveva portato a impegnarsi

nella lotta partigiana quando aveva diciassette anni. Di questo impegno non ne aveva mai parlato.

07/08/1999 «Ed essi [i genitori] intuiscono in lui questo loro essere-tolti. Essi si conoscono in lui come genere, come un altro da ciò che essi stessi sono, cioè

come unità divenuta. Ma questa unità divenuta è essa stessa una coscienza

ed invero una coscienza in cui si intuisce l’essere-tolto dei genitori, cioè è

una coscienza in cui diviene la coscienza dei genitori; ovvero i genitori de­ vono [mUssen] educare il figlio. Nella misura in cui lo educano, essi pongono

in lui la loro coscienza divenuta, e producono la propria morte in quanto essi

lo fanno vivere come coscienza.»

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filosofia dello spirito jenese In questo testo io leggo il significato che i genitori non mangiano i propri figli. Muoiono sopravvivendo a se stessi, si ritirano prolungandosi. Educare

è morire.

13/08/1999 Alcune frasi di un articolo del giornale Le Monde a proposito del culto

dei morti mi riportano ad Amleto: vorrebbe sfuggire (e sa di non potere) al culto dei morti. La vendetta richiede un morto per permettere la morte, e

finché il morto non è vendicato con la morte (di colui che lo ha ucciso), non sarà veramente morto. Tornerà come lo spettro del padre di Amleto, morto

vivente che non cessa di tormentare il figlio con la sua richiesta di uccidere.

Questa situazione (con altri rapporti genealogici) potrebbe essere quella del prossimo film. Come si fa a vivere con un morto che chiede soddisfazione?

Ritorno al padre e al figlio assassinato.

15/08/1999 Qualche giorno a Roma. Ho rivisto dei Morandi. Le bottiglie, i bicchieri,

le brocche, i vasi, le ciotole... stanno sul tavolo come piccole colonne, pic­ coli templi innalzati in onore della nostra umanità giorno per giorno, fingili,

sfuggiti all’utilità che ci faceva dimenticare della loro presenza. Stanno lì, in gruppo, sul tavolo, qualche volta rifugiati uno contro l’altro come se incom-

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besse una minaccia, e mi guardano... E la loro vulnerabilità è disarmante,

vibra, fa vibrare tutto e mi crepa gli occhi. Sì, esistono, stanno lì, si rivolgono a me che non li avevo mai visti, quegli sguardi sul tavolo... il tavolo che ba­

sterebbe una pedata a rovesciare.

17/08/1999 II culto dei morti alla base di ogni rivalsa, di ogni vendetta, forse ad­ dirittura di ogni risentimento. Come sfuggirgli? Che fare con il morto che

vi tiene sotto tiro, che esige una riparazione. E perché non dovremmo fare

vendetta? Perché mai la vendetta non dovrebbe essere giusta tanto quanto la giustizia?

11 film potrebbe (riprendendo il padre, il figlio assassinato, l’assassino,

la figlia o la moglie, cioè la sorella o la madre del bambino assassinato) ver­ tere su una famiglia abitata dal bisogno di vendetta, che forse ritrova la vita

liberandosi dal giogo di questo bisogno ineluttabile. Attenzione al perdono,

all’illusione su se stessi che il perdono seceme (narcisismo di chi perdona, come se potesse essere al di sopra degli altri, al di sopra della condizione umana). Il titolo, se non fosse già quello di un capolavoro, potrebbe essere

Vivere!*. La prima parte del film dovrebbe mostrare un tempo dominato dal morto che deve essere vendicato, mentre una seconda parte dovrebbe mo­

strare la traversata di questo mare ghiacciato che riscaldandosi potrebbe li­

berare la famiglia. Una traversata da cui nessuno dovrebbe uscire indenne.

Verificare se la coppia padre/figlia invece della coppia padre/moglie po­

trebbe permettere di incrociare omicidio e incesto. L’omicidio dell’assassino del figlio (del fratello, dal punto di vista della figlia) commesso dal padre con sua figlia sarebbe l’atto incestuoso. Se questo omicidio meditato, alla fine,

non viene commesso, la vita potrà nuovamente mettersi in moto, la figlia potrà spostarsi verso qualcun altro.

D padre potrà diventare padre solo se non commetterà l’omicidio, se di­

verrà in qualche modo padre dell’assassino di suo figlio. Tutto sarà possibile solo se l’assassino è un adolescente.

La vita è più fluida, più larga, più viva di qualunque immagine in cui

noi possiamo chiuderci/essere chiusi/chiudere gli altri. Allo stesso tempo non possiamo guarire del tutto le nostre ferite se ci tuffiamo nel flusso della

* Vivere! (Huozhe), film del cineasta cinese Zhang Yimou [N.d.T.].

‘70

vita. Resta qualcosa di quello che ci ha fatto male. Ci conviviamo. La vita continua e chi non c’è più trova un posto. Non occuperà tutto il posto, ma un

posto. La vita è larga, più larga di quanto noi possiamo immaginare.

19/08/1999 Leggo Avec Shakespeare di Daniel Sibony. Poi leggerò il libro di André

Green su Amleto. Jacques Taminiaux mi ha inviato il suo articolo sulla pro­

messa e il perdono in Hannah Arendt. Sono impaziente di poter riparlare

della sceneggiatura con Jean-Pierre all’inizio di settembre. Dobbiamo pro­ seguire la sua scrittura? Forse ci porterà in un vicolo cieco da cui ci vorrà del tempo per uscire. Sempre che ne usciamo.

24/08/1999 Un film più libero, più variopinto. Movimenti che trascinino la vita. Mo­ vimenti nei quali si insinui il male da vincere.

27/08/1999 Emmanuelle toma domani dal suo viaggio ornitologico sul delta del Da­ nubio. Ha un contatto segreto con i dettagli, le molteplici distinzioni della vita. Lei mi apre a questo tipo di sguardo.

«Nel cinema, è preferibile aver sentito il brivido che nasce dalla cadu­ ta di una goccia per terra, ed essere riusciti a comunicare questo brivido, piuttosto che esporre il miglior programma di solidarietà sociale. Questa

goccia creerà nello spettatore più spiritualità di qualunque incoraggiamento

a innalzare il proprio cuore e più umanità di qualsiasi inno umanitario.» Henri Michaux, L’Avenir de la poésie

29/08/1999 Ho appena letto Le particelle elementari di Michel Houellebecq. Siamo

nella prosa. Fa bene. Era da tanto che la letteratura non cacciava il muso nella nostra epoca. Anestesia della nostra mortalità. Estinzione dei sessi. Crescita della neutralità rassicurante. Niente accadrà più davvero. Nascere,

morire, uccidere, soffrire, amare, odiare, illusioni dissolte nel grande regno

liquido del nichilismo finalmente compiuto. La scimmia avrà recuperato la sua testa e in modo civile, senza rumore né furia. È l’orrore! È la felicità!

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06/11/1999 «[...] e il re vivrà senza erede, se quello perduto non sarà trovato.» William Shakespeare, Il racconto d'inverno, III, 2

22/11/1999 Smettiamo di lavorare sulla sceneggiatura della vendetta e dell'impossibilità dell’omicidio. Troppo lineare. Troppo meccanico. Mancanza di vita. Personaggio troppo ossessivo che avanza verso e contro tutto (anche

se all’ultimo momento si ferma). Ci vorrebbe un personaggio assorbito dagli

altri, incalzato dalle loro domande (famiglia? casa? posto di lavoro?). Qual­ cuno che sia disperso, stiracchiato dall’urgenza di varie situazioni alle quali

si sente obbligato a rispondere. Questo personaggio è spinto da un senso di rabbia contro il mondo così come va. Non accetta, rifiuta. Qualcuno che sia

troppo occupato, che viva momenti di stanchezza, di abbandono. In mezzo a tutto questo deve ancora costruirsi un racconto centrale. Un gruppo e, in

questo gruppo, un personaggio più importante.

05/12/1999 Ancora niente di nuovo per la sceneggiatura. In attesa. In panne.

10/12/1999 Ci rimettiamo a lavorare alla sceneggiatura della vendetta, della scoper­

ta dell’impossibilità di uccidere.

16/12/1999 Come la vita ritorni e come il rispetto del divieto dell’omicidio preservi questo ritomo alla vita. Il vendicatore che va per uccidere e si trattiene dal

farlo ritrova il divieto dell’omicidio e perde la giustificazione dell’omicidio.

22/12/1999 Si può spiegare come uno sia arrivato a uccidere ma non si potrà mai

spiegare perché dovesse necessariamente arrivare a uccidere.

23/12/1999 Un film che riprenda la storia di Edipo. Il mito fin dall’inizio (Laio che

non può avere il posto che gli spetta in quanto figlio del re di Tebe e fogge, la violazione di Crisippo, il suicidio...). Non essere al proprio posto, non

conoscere il proprio posto, essere strappato dal proprio posto, mischiare i

posti, confondere le generazioni, questo è la trasgressione della legge, la scomparsa del divieto. Oggi il padre e la madre non vietano più (in nome di che cosa? di chi?).

Lasciano che il figlio sia da sé, per sé, in sé, con sé. Un modo di mangiarlo perché lui non mangi loro. La loro paura, il loro terrore è questo: essere mangiati da coloro che hanno messo al mondo, coloro che vengono da loro.

Allora i genitori non dicono loro da dove vengono, li lasciano credere di non

venire da un altro, ma di venire da se stessi e di doversela prendere soltanto con se stessi. Che si mangino tra di loro, questi figli!

24/12/1999 Un titolo che permetta di dire, di dirci, i movimenti per uscire da una ripetizione, dai ciclo della vendetta. Qualcosa in comune con La promessa e Rosetta. Uno stesso movimento di uscita. Tre passaggi. Tre nascite. Una

sorta di trilogia.

01/01/2000 Nuovo titolo: La prova. Il giovane assassino arriva dove si trova Olivier. Lui non sa chi sia Olivier ma quest’ultimo sa chi è il giovane assassino. Olivier accetta la prova. È in preda a diversi sentimenti, a diversi desideri. Questi due

esseri umani, questo «padre» e questo «figlio» come si avvicineranno, come

si affronteranno? Tentazione dell’omicidio, bisogno di vendetta, impossibilità dell’omicidio, istante del perdono, illusione del perdono, follia del perdono.

11/01/2000 Molte persone ci hanno parlato di Dogma e del nostro rapporto con il

movimento danese. Quando abbiamo girato La promessa, non sapevamo che Dogma esistesse. Il nostro lavoro sull’inquadratura corrispondeva a una ri­ cerca legata ai ritmi e agli angoli secondo cui i nostri due personaggi prin­

cipali potevano vedere il mondo e gli altri. C’era anche il nostro desiderio di liberarci del peso della tecnica che ci aveva paralizzato in Je pense à vous.

Desiderio di liberazione che è proprio anche di Dogma. Si tratta di cineasti

di due piccoli paesi che si sono fatti forti della povertà dei mezzi per trovare la forma del loro cinema.

13/01/2000 Ieri riunione con Jean-Pierre a Bruxelles. Si comincia a vedere il perso­

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naggio, il suo rapporto con il giovane assassino. La cosa si semplifica. Forse la situazione è troppo forte?

14/01/2000 Mi parlano di nuovo della disputa francese sulla critica. Questa disputa

mi sembra priva di interesse e infondata. La vera critica non appartiene alle dinamiche dell’industria cinematografica. Il cineasta stesso talvolta è costretto a condividere con il produttore e con il distributore una strategia

per vendere il film ma questa è una necessità che deve accettare. La vera

critica non deve immischiarsi in queste strategie. Può essere il punto di vista esterno di cui, sia il pubblico che noi registi, abbiamo un bisogno urgente.

La critica che si inserisce in queste strategie è essa stessa industrializzata e non ha più niente da dire sul cinema, né al pubblico né ai registi. È penoso vedere come i cineasti sostenuti dalla critica industriale sperino nella scom­

parsa della vera critica.

20/01/2000 Trovare la parola che dice il silenzio delle altre parole. Trovare il piano

che inquadra l’invisibilità degli altri piani.

26/01/2000 Rosetta (anche La promessa) è una carrellata indietro per uscire dalla ma­ teria che rinchiude, soffoca, assorbe ogni tentativo di inquadratura. Rosetta

o la nascita di un’inquadratura. Un’inquadratura o la nascita di Rosetta.

28/01/2000 L’attore non ha nessuna «interiorità» che possa aver voglia di esprime­ re. Sta davanti alla macchina da presa, agisce. Quando vuole tirare fuori

qualcosa di suo, è un cattivo attore. La macchina impietosa ha registrato

la sua volontà, la sua recitazione diretta a tirare fuori quel qualcosa. Deve

astrarsi da qualunque volontà e raggiungere l’involontario, l’automatismo di una macchina, della macchina da presa. Quello che Bresson ha osservato a proposito dell’automatismo, citando Montaigne, è assolutamente vero. Le istruzioni che noi diamo agli attori sono fisiche e per lo più negative, per fermarli ogni volta che ci accorgiamo che escono dal comportamento che

rappresentano per la macchina da presa. Registrando quel comportamento, la macchina potrà registrare la comparsa di sguardi e di corpi molto più inte­ riori di qualunque interiorità che la recitazione degli attori possa esprimere.

Per la macchina da presa, gli attori sono dei reagenti, non dei costruttori. Cosa questa che richiede molto lavoro.

Ci parlano di Rosetta. La vedono esclusivamente come una ragazza co*

raggiosa che si batte, che non demorde, che li commuove con la sua tenacia. Non vedono quanto il destino di Rosetta assomigli a quello di Galy Gay in Un uomo è un uomo di Bertold Brecht.

03/02/2000 Siamo a Tokyo per le interviste in occasione dell’uscita di Rosetta. Ieri sera ripensavo a quello che ci disse un giovane attore di Falsch, pieno di ingenua fiducia in quello che gli avevano insegnato i suoi professori. Inter­

pretava un personaggio morto nelle camere a gas di Auschwitz. Disse: «Mi

chiedo se ci sia in me qualcosa che possa esprimere la sua sofferenza, che possa permettermi di interpretarlo». Noi rispondemmo: «Non c’è niente».

Lui disse: «Allora è impossibile recitarlo!». Noi gli rispondemmo: «In effetti è proprio impossibile».

07/02/2000 Tokyo, ore otto e quaranta. Ultimi minuti nella mia camera d’albergo. Penso che dobbiamo fare il film a proposito dell’omicidio e del possibile/

impossibile perdono. Concentrarci di nuovo su un uomo e una donna, una famiglia, un gruppo. Un movimento più variopinto di quello di Rosetta. In tutte queste notti ho dormito male e sono stato assalito da mille dubbi. An­

che Jean-Pierre ne ha.

08/02/2000 Discussione con Jean-Pierre sulla nuova sceneggiatura. Una storia

d’amore. La storia di un uomo che salva la moglie che ha perso la stima de­ gli altri e la stima verso se stessa. Lei potrebbe essere stata licenziata con il

consenso dei suoi colleghi. Ancora il lavoro, la fabbrica, la solidarietà. Non è un modo per ricominciare Rosetta? Evitare anche di rifare Una mogUe. L’uomo (Olivier Gourmet) potrebbe essere cuoco in una scuola; lei potrebbe

andare a sedersi in cucina, con l’aria assente, per annunciargli la cattiva notizia. Ma lui è troppo occupato nella preparazione dei pasti per poterle ac­ cordare l’attenzione che lei richiede, gli dispiace. Lei capisce. Lui potrebbe

dirle che la raggiungerà a casa appena possibile. Lei se ne va. Lui però non

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la ritroverà a casa. Storia di una scomparsa? Delle persone che scompaiono,

che interiorizzano l’eutanasia sociale distillata dall’inconscio del sistema di competizione fra gli individui. Jean-Pierre ricorda questa frase di Bonnard: «Il problema non è dipin­

gere la vita, ma fare un dipinto vivo».

11/02/2000 Interrompiamo la scrittura de La prova. Manca qualcosa. Troppo psico­ logico. La situazione è troppo adatta alla narrativa e non è un documento

sulla nostra epoca.

15/02/2000 Il cinema è troppo a immagine e somiglianza dell’esistente, troppo ed esclusivamente visivo, come ha scritto Serge Daney. Imitazione e caricatura

di un essere che è completamente occupato da se stesso, di se stesso, che non nasconde più nessuna cavità, nessun nascondiglio per il desiderio, per il sogno di un'altra vita migliore. Possono le immagini dei nostri film aprire

una faglia, un’apertura nell’esistente? Possono far sentire la sonorità spiri­ tuale di uno sguardo, di un gesto, di una voce? Dei film la cui visione sia

l’ascolto di una musica che riconduca l’uomo a se stesso.

Raccogliendo materiale per il nostro film Ernst Bloch ou enquète sur le corps de Prométhée, mi ero appuntato questo brano di Spirito dell'utopia

(scritto alla fine della Prima guerra mondiale): «Solo il suono, questo enig­

ma della sensibilità, è abbastanza vuoto di mondo ed è sufficientemente

fenomenico per ilfinis, per ritornare [...] come ultimo momento materiale di compimento del percepirsi mistico; poggiando soltanto sull’aureo fondamen­

to della latenza ricettiva degli uomini».

18/02/2000 Ho letto su una rivista la pubblicità di una 4x4: «Built to cross the most

hostile environments. Like the Champs Elysees».

24/02/2000 Riunione di un giorno intero a Liegi con Jean-Pierre. Torniamo al rac­ conto del padre e del giovane assassino del figlio, assassino che diviene lui

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stesso «il figlio» di un «padre» che ha la tentazione di ucciderlo. Appare un titolo: Il figlio. Come può il giovane assassino prendere coscienza del

male commesso e come può il padre resistere al desiderio del male? Ucci­

dere cosa? Cosa ci può tirare fuori da questa fatalità? Due solitudini quasi assolute. Due corpi che si affrontano. Olivier farà il falegname, un mestiere di misure. Misura di lunghezze, larghezze, spessori e angoli, e misura della

distanza fra lui e l’assassino di suo figlio.

24/03/2000 Ero uscito per comprare le sigarette. Un uomo mi si avvicina e mi chiede una sigaretta. Gli rispondo che stavo proprio andando a comprarle, basta che mi aspetti due minuti. Tomo con il mio pacchetto di sigarette e gliene offro

una. Mi domanda se conosco l’istituto psichiatrico Sanità. Gli rispondo che è proprio vicino a casa mia. Mi accompagna e camminando mi dice: «Mia

moglie è tornata alle droghe pesanti, non ne posso più, devo rifugiarmi da qualche parte. Mi hanno detto che quell’istituto andava bene per rifugiarsi un po’ di tempo». Ha suonato alla porta dell’istituto. Gli hanno aperto. È entrato ed è scomparso dietro la porta. Avrei dovuto dirgli di venire da me,

per parlare un po’, se ne aveva voglia, per prendere un caffè.

06/04/2000 Ci domandano perché abbiamo smesso di fare documentari e ogni volta

noi rispondiamo in modo evasivo, dicendo che sentivamo un limite, una resi­ stenza causata dalle persone che riprendevamo e dal modo in cui gli avveni­

menti si dipanavano. Una resistenza che in parte si può vincere con accorgi­ menti della messinscena e con il montaggio, ma comunque una resistenza, e

la perenne tentazione di manipolare. E poi, la perenne insoddisfazione. Non è una risposta inesatta, ma io credo che in fondo, per noi, il vero ostacolo fosse quello di non poter riprendere l’omicidio, la sua preparazione e la sua perpetrazione. Noi desideravamo filmare questa morte, di fronte alla quale il documentarista perde il diritto di guardare. Pensavamo che ci avrebbe

permesso di rivelare una verità più essenziale. Anche la macchina da presa del cinema di finzione può perdere il diritto di guardare, come accade di fronte alla realtà della morte nei campi di sterminio. Il film Shoah di Claude

Lanzmann è unico, perché il suo sguardo non mostra niente di quello che è successo, non perché non ci siano immagini a disposizione, ma per prin­

cipio. Mostra delle tracce, dei luoghi e delle facce che parlano. Mettendoli

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in rapporto Ira loro, senza utilizzare l’immagine, nascono un racconto, una

poesia e una verità che nessuna opera di finzione e nessun documentario po­ trebbero svelare. Lo sterminio degli uomini, delle donne e dei bambini ebrei non si vede in immagini. Al di là dell’immagine. Nella parola. Da ascoltare oltre ogni immagine. La parola. Il loro santuario.

11/04/2000 Già con La promessa e con Rosetta, e di nuovo con questa nuova sce­

neggiatura, siamo nel perimetro, nell’arena della domanda: cosa vuol dire essere umani oggi? Guardare come un essere umano, non in generale, ma nelle situazioni concrete ed estreme create dalla società di oggi.

13/04/2000 La mano, le mani saranno i personaggi del film, la sua materia.

«Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!» Genesi 22,12

14/04/2000 Le possibilità delle mani sono innumerevoli, imprevedibili, contraddit­ torie. Zampe che graffiano e lacerano. Ali che sfiorano e carezzano. Non dicono mai niente prima. Calde e larghe nella stretta. Fredde e chiuse nella percossa. Dare, prendere, aprire, chiudere, proteggere, strangolare, lasciare,

afferrare, spingere, trattenere, lanciare, mostrare, nascondere, legare, slega­

re, pregare, colpire. Eterna e inquietante incertezza delle mani. A confronto della duplicità inestricabile delle mani, il membro virile è

di un candore disarmante.

16/04/2000 Il reticolato sensoriale che costituisce il film si compone di molti ele­ menti (inquadrature, recitazione, colori, costumi, accessori, parole, scene, suoni...) che agiscono per contagio e non devono reificarsi in simboli. Sono

come pesci nell’acqua, la visione che ne abbiamo è problematica, sfocata. Se escono dall’acqua per farsi vedere meglio, muoiono.

27/04/2000 «L’uomo si ritrova così erede della missione del Dio morto: strappare

l’Essere al continuo sprofondamento nell’assoluta indistinzione della notte. Missione infinita. Quando Pascal scrive: il silenzio eterno di quegli spazi

infiniti mi sgomenta, sta parlando da non credente, non da credente. Giac­

ché se Dio esiste, non c’è silenzio, c’è armonia delle sfere. Ma se Dio non esiste allora sì, quel silenzio è spaventoso perché non è né il nulla d’essere né l’Essere illuminato dallo sguardo. È l’appello dell’Essere all’uomo. E Pa­

scal si presuppone già come passione trascinato da solo in quegli spazi per integrarli al mondo. A questo punto vedere equivale a strappare l’Essere dal suo sprofondamento.»

Jean-Paul Sartre, Quaderni per una morale Missione infinita per il cineasta: far sì che il mondo sia, far sì che l’uomo sia, vedendolo e facendolo vedere. La sua solitudine è maggiore che ai tem­

pi di Pascal, e anche il suo spavento, poiché il silenzio degli spazi infiniti

adesso è nello sguardo degli uomini.

05/05/2000 Le parole pronunciate dalle nostre labbra, le immagini viste dai nostri occhi dicono e vedono ciò che noi non diciamo e non vediamo. Parole e

immagini che vengono da più lontano e vanno più fontano. Certo, dice lo psicanalista, ma cosa intende per «più lontano»? Lo psicanalista è un vec­

chio amico, ma non ho voglia di rispondergli perché so che per lui ciò che va lontano non può mai varcare il confine tracciato da ciò che viene da lontano. Vorrei dirgli che forse esiste un modo di andare lontano che è come vivere

un amore folle che allontana la morte, tutte le paure. Un amore che, quelle

paure, nemmeno le combatte, perché significherebbe che intrattiene ancora

un rapporto con loro. No, esso semplicemente vive, esiste solo lui, regna, le ha allontanate e non possono più raggiungerlo. Vorrei dirgli che alcuni film

mi hanno trasportato in questo regno lontano. Ma a cosa servirebbe? Alla fine mi inviterebbe ugualmente a voltarmi indietro.

17/05/2000 Roger Van Der Weyden ha raffigurato San Luca dipinge la Vergine. La

nascita, il tempo dell’inizio (il Bambino in braccio alla Vergine). Il tempo

che passa, che scorre verso il tempo della fine (i due che passeggiano sul ponte, di spalle, intenti a guardare il fiume scorrere verso l’orizzonte). Carte

di san Luca che dipinge, come quella del pittore, vorrebbe fermare il tempo.

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etemizzare ristante della vita.

14/06/2000 Il desiderio di un movimento, di una linea, è più profondo dell’immagi­

nazione delle immagini. H ritmo, il soffio, la «musica» prima dell’immagine. Per noi, impossibilità di restare nel nostro desiderio attraverso l’immagi­ nazione di immagini C’è un ritmo, un’intensità, una tensione che cerca le

proprie immagini e trova l’inquadratura. Noi arriviamo sul set e lavoriamo con gli attori per trovare questa tensione, senza sceneggiatura dettagliata, senza macchina da presa. Certo, la ricerca dell’inquadratura dapprima con il visore e poi con la macchina da presa partecipa della costruzione di questo

ritmo, di questa tensione, ma credo che la nostra ricerca dell’inquadratura sia anche una ricerca per ritrovare la tensione, il ritmo originario e ancora

oscuro. Jean-Pierre è bravissimo a creare sulla scena una tensione contagio­

sa che ci aiuti in questa ricerca.

17/07/2000 Domani, partenza per l’Estremadura con la famiglia. Lascio dormire la

sceneggiatura. Spero di poter dormire anch’io senza pensarci troppo. Che lei pensi a me segretamente e mi riservi una bella sorpresa al ritomo.

Due domande in questa sceneggiatura: cosa è successo? Cosa accadrà? Come possiamo fare coesistere le due domande? Come svilupparle in­

sieme senza occupare il posto del regista scambiatore che combina, coniuga a partire dal suo sapere? Come restare nell’innocenza di ciò che accade? 0 ancora, come evitare tutti i manierismi, tutte le costruzioni di intrecci, tutti

i colpi di scena sottili? 0 ancora, come restare addormentati? Trovare la posizione del dormiente che intuisce e lascia venire il sogno e ne modifica il corso impercettibilmente con un leggero, involontario e insignificante cam­

biamento della posizione del corpo.

06/09/2000 Ho visto Yuki Fujin Ezu di Mizoguchi. Quando, all’avvicinarsi della fine

del film, Madame Yuki, sola, in una larga inquadratura di pura emozione, sale verso il caffè accanto al lago dove si suiciderà, si siede a un tavolo bianco intorno al quale ci sono due sedie bianche. Due! È tutta la tragedia di Madame Yuki. Non poter vivere in due, né con suo marito, né con il suo amante, impossibile, né con il bambino che porta in grembo. È ciò che le

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rimprovera la sua domestica Hanaka, non riuscire a vivere in due. Ma for­

se qualcosa in Madame Yuki sapeva che il tentativo di appartenere ancora al mondo era vano. Impossibile per lei, l’aristocratica di un’epoca passata, unirsi ancora a un altro per creare qualcosa di nuovo. Forse è una parte del segreto di Madame Yuki.

10/09/2000 La sceneggiatura procede lentamente. Temo di nascondere troppo, di co­ struire troppo fuori campo. Dopo IIfiglio forse avremo bisogno di respirare

perché avventurarsi in un simile labirinto di passioni mette a dura prova. Spero che il film venga capito e che non ci oppongano un falso dibattito sul

perdono ecc. Ciò che vogliamo filmare (il cosa e il come sono inseparabili) è la genesi di un rapporto genealogico apparentemente impossibile.

11/09/2000 Dopo IIfiglio forse un film che sia un racconto, un film per bambini, ov­

viamente senza designare con questo termine una categoria di età definita. Molte scene (a causa della falegnameria, del rapporto di apprendistato) in cui un personaggio si sostituisce all’altro. Sostituirsi all’altro? È possibi­

le? La nostra immaginazione ha una tale forza morale? È questa la scommes­ sa del rapporto tra Olivier e René.

20/09/2000 Ho appena soppresso tutte le scene che mettevano in relazione Olivier

e suo padre. TYoppo sceneggiate. Me ne sono reso conto parlando al tele­

fono con Jean-Piene. Ogni volta che scrivo delle scene con il padre del protagonista, finisco poi per rendermi conto che sono di troppo, che devo

sopprimerle. Era già successo con le scene del padre di Rosetta. Come se

dovessi passare da lì perché lui sparisca. Passare da lì perché lui divenga il

fantasma dei nostri film?

05/10/2000 Olivier e Francis si scambiano poche parole, quasi impossibili. Emergo­ no con difficoltà, quasi asfissiate. Dicono il silenzio che li annoda, lo spes­ sore, la densità, l’immensità della notte in cui si trovano. Perduti, smarriti,

sotto choc, senza capire ciò che è loro successo, parlano ancora un’ultima

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volta per tentare di ritrovarsi, di ritrovare Tessere umano che potrebbero essere, che furono, del quale non riescono a ricordarsi ma al quale ancora

le loro parole credono.

10/10/2000 Finisco l’ultima scena della sceneggiatura de II figlio. Va bene? Non lo

so. Forse, come dicevano i miei maestri, sono troppo emotivo. Per fortuna

siamo due. «Il male non è un principio mistico che si può cancellare con un rito:

è un’offesa che l’uomo fa all’uomo. Nessuno, nemmeno Dio, può sostituirsi alla vittima. Il mondo in cui il perdono è onnipotente diviene inumano.» Emmanuel Lévinas, La difficile libertà

Il perdono tra Olivier e Francis non deve essere onnipotente. Non è il perdono, ma l’impossibilità dell’omicidio. Come non vederci al tempo stesso anche un perdono? Non sappiamo come sarà la fine del film ma non dob­

biamo cadere in una riconciliazione dove nessuno rimanga imperdonabile.

Olivier non può sostituirsi completamente a suo figlio. Il punto nel film è il padre e non il perdono. Non uccidendo Francis, Olivier è il padre che forse permetterà a Francis di riallacciarsi alla vita.

20/10/2000 Ho visto Comment je me suis disputò... (ma vie sexuelle) di Amaud Desplechin. Un capolavoro. La materia cinematografica è lì, come la verità,

senza imbrogli. La solitudine di Esther è il movimento più bello.

03/11/2000 Sto di nuovo lavorando sulla seconda versione della sceneggiatura. Le osservazioni di Jean-Pierre sulla prima versione: più movimenti lunghi, af­

frettare l’incontro Olivier/Francis, meno frontalità per le confessioni, più vita per Olivier perché la situazione resta stagnante. Attenzione all’ellissi del volto di Francis. Forse si deve vedere prima?

Ascolto le sonate di Beethoven. Mi aiutano a scrivere, a vivere. Se i no­ stri film potessero fare lo stesso, ce Tavremmo fatta.

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07/11/2000 Iniziando II figlio, pensavo che forse sarebbe stata possibile una forma di riconciliazione attraverso il perdono, ma andando avanti con la scrittura, vivendo con e dentro il personaggio di Olivier, ho avvertito l’impossibilità di questo perdono. Eppure dobbiamo trovare qualcosa.

10/12/2000 Omicidio a Disneyland è il titolo della nostra realtà. Sotto le acque vor­

ticose della distrazione generalizzata stagna l’acqua scura della noia che trasuda l’omicidio.

15/12/2000 Lo spirito della nostra epoca tenta di liquidare il senso di colpa. Cosa

fa per operare questa liquidazione? Cerca i colpevoli dell’esistenza di tale senso di colpa. Gli odori di sacrificio riaffiorano. In perfetta buonafede.

22/12/2000 Il movimento del film e il movimento di Olivier andare/tomare/andare.

Enigmatica esitazione. Labirinto. Ancora più enigmatica se facciamo ellissi del suo sguardo.

fl film deve essere al tempo stesso l’imminenza dell’omicidio e il suo

impedimento.

08/01/2001 Perché dei personaggi come Roger, Igor, Riquet, Rosetta, Olivier, Fran­

cis? Perché resistono all’interpretazione, all’assimilazione? Perché sono

nodi duri, imprevedibili, insondabili che incarnano la violenza inaudita de­ gli individui senza legami della nostra epoca? Sono privi, e in attesa, di un

altro.

10/01/2001 L’intreccio è il personaggio opaco, enigmatico. Forse non il personaggio,

ma l’attore stesso*. Olivier Gourmet, il suo corpo, la sua nuca, il suo viso, gli occhi smarriti dietro le lenti degli occhiali. Non potremmo immaginare lo stesso film partendo da un altro corpo, da un altro attore. È la terza cosa per me e mio fratello, quello che condividiamo per desiderare lo stesso film.

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14/01/2001 Jorge Luis Borges avrebbe scritto: «Non invento finzioni, invento fatti».

Sto leggendo Shalamov. Ci sono dei legami tra la sua critica sui procedi­ menti della finzione e ciò che cerchiamo di fare.

19/01/2001 Si dice sempre più che bisogna salvaguardare gli animali in via d’estin­

zione e tutti, dalle famiglie agli esperti del mondo scientifico passando per i responsabili politici, manifestano il loro entusiasmo per un simile progetto o meglio: una simile missione. In effetti come possiamo non simpatizzare

per una condotta finalizzata a proteggere la vita, a preservare il patrimo­ nio ecologico, a bloccare il processo di scomparsa delle «minoranze» non adattatesi o iper-sfruttate da quel grande predatore che è il genere umano,

una condotta finalizzata alla scoperta di eventuali rimedi che le specie in via d’estinzione potrebbero celare contro le malattie del domani? Tutto giu­ sto. Eccetto forse la diffusione lenta, sorda, malvagia, di un punto di vista sull’umanità di cui non immaginiamo ancora i rischi. La religione, in questo

più perspicace della razionalità scientifica, ci insegna che il male avanza mascherato, ma non ci piace ammetterlo, pur facendone spesso le spese con

reazioni sempre troppo tardive. Quale sarà la nostra reazione di fronte a chi domani porrà la questione di scegliere se, davanti al miscuglio di tutte le

popolazioni umane, bisogna salvaguardare gli individui non misti, gli «indi­ vidui puri» in via di estinzione? Si può sperare che non venga sostenuta con

lo stesso impeto di simpatia che al momento sostiene la salvaguardia degli animali in via di estinzione, ma ormai, solo per il fatto che la questione si sia potuta porre, il male si sarà già insinuato nella nostra cultura. Vedremo

comitati di ogni genere dibattere sulla necessità o meno, sulla fondatezza o meno di mantenere in vita o in frigorifero l’uno o l’altro esemplare (parola

adatta!) umano. Si evocherà una moltitudine di argomentazioni, tra cui quel­

le legate alla conservazione della diversità della specie umana, contro una moltitudine di argomentazioni morali tra cui quelle riguardanti la strumen­ talizzazione dell’essere umano, e il dibattito si concluderà a favore dei primi

che avranno dimostrato in modo convincente, in nome dell’incrollabile idolo che sarà diventata la vita, che esistono forti probabilità per cui queste specie

umane, questi «tipi puri» celino elementi ancora sconosciuti che potrebbero permettere a noi «tipi ibridi» di prolungare, proteggere, rendere la nostra

«7

vita immune da certe malattie ancora ignote. Ci troveremo in questo stato di

estrema perversione senza rendercene nemmeno conto.

26/01/2001 Sui dialoghi della prima scena della sceneggiatura (Il figlio) poggia la scommessa del film. «Vuoi vederlo?» dice Catherine. «Non posso... ce n'ho

già quattro...» risponde Olivier. Non si deve capire che Francis non sarebbe di troppo solo per il soprannumero degli apprendisti ma che sarebbe di trop­

po per il suo sguardo. Olivier non può vederlo.

13/02/2001 Gli ammassi di ceppi e tavole nella scena della segheria accrescono la sensazione di potenza in Olivier. La possibilità dell'omicidio è rafforzata.

L'autorizzazione a uccidere è data.

15/02/2001 U prossimo film. La storia di una donna giovane che si espone alla luce, che si brucia, che vuole fondersi. È una piromane. Appicca gli incendi, li guarda, li racconta al telefono. Spogliarellista? Top model? Un lavoro più misterioso? Un lavoro di giorno e uno di notte? Essere vista, esporsi mortal­

mente è il suo assoluto.

16/02/2001 Museo del cinema con Baptiste. Abbiamo visto Sono innocente di Fritz Lang. È costruito (sceneggiatura, inquadratura, montaggio, il protagoni­ sta Eddie) in modo che lo spettatore non creda più in niente (eccetto che nell'immagine cinematografica) e cominci a funzionare solo a partire dalle

proiezioni. Ovviamente questa perdita di credibilità si focalizzerà sul per­ sonaggio di Eddie al punto che a un certo momento lo spettatore non gli

tributerà più nessun credito (cadendo così nella trappola tesa dal regista) e lo porterà a commettere l’omicidio che non aveva ancora commesso e che

commette perché non è stato creduto. Alla fine del film lo spettatore che avrà creduto alla colpevolezza del personaggio, contro la convinzione di Jo

che lo ama, si ritroverà sul ciglio della strada, con la schiera dei «poliziotti»

che sparano sui due che, contro tutto e tutti, hanno creduto all’innocenza e all'amore. È la loro vittoria. Appartiene a loro. Solo a loro. È la nostra scon­ fitta, la sconfitta dello spettatore.

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19/02/2001 Ho visto Perfidia. Tutto mi è sembrato asservito al testo di Cocteau, a cominciare dalle voci. Asfissiante. Impossibile ritrovarci ciò che la sola fisi­ cità dei piani di Bresson mi ha già fatto vivere. L'ultima inquadratura di Un

condannato a morte è fuggito mi ha consegnato immediatamente e comple­

tamente alla sensazione di essere fuori, libero, evaso.

20/02/2001 Questa osservazione di Dostoevskij: «Cosa strana, quanti carnefici mi è

occorso di vedere erano tutti gente evoluta, dotati di giudizio, d’intelligenza

e di un non comune amor proprio».

03/03/2001 Costruire, costruire, costruire la sorpresa impossibile da costruire.

04/03/2001 Una storia vera sulla quale meditare. Una donna di ottanta anni ago­

nizza circondata dalle tre figlie. Con un ultimo sforzo, quasi incosciente, pronuncia il nome di due delle figlie che si chinano su di lei, le prendono

la mano... Muore. Non ha pronunciato il nome della terza figlia, che si sente

quasi rinnegata, abbandonata. Lei la figlia fedele, affettuosa, che ha sempre

aiutato la madre in tutta la sua vita di vedova, nella vecchiaia e durante tutta la lunga malattia, perché non l’ha chiamata? Come accettare questa ingiusti­ zia? Forse deve accettare di avere avuto qualche colpa nell’allontanamento

delle due sorelle. Forse, che abbia o meno qualche colpa, deve capire che alla madre in quegli ultimi istanti interessava più di tutto riconciliarsi con

le altre due figlie, con le figlie prodighe?

05/03/2001 Interveniamo ancora sulla terza parte della sceneggiatura. Introduciamo qualcosa da fare, qualcosa di fìsico, qualcosa da fare in due. Non solo andare

in segheria per vedere i tipi di legno. Jean-Pierre propone che trasporti­

no delle tavole, delle assi che un solo uomo non potrebbe portare. Questo

permetterebbe di continuare a distillare il rapporto padre/fìglio attraverso i gesti del lavoro. Trasmissione del sapere nell’apprendimento dei gesti della falegnameria. Non aver paura di riprendere questi gesti, di registrarli, di

vederli e, vedendoli, di assistere alla genesi di un legame invisibile, di una

on

paternità, di una filiazione. Per noi che riprendiamo, l’immagine non è in­

carnazione dell’invisibile né disincamazione del visibile, è il visibile che a

forza di essere visibile parla la lingua dell’invisibile.

11/03/2001 Abbiamo finito l’ottava versione della sceneggiatura de II figlio. Com­

paiono già altre possibilità di costruzione, specialmente per il finale. Pro­ veremo sul set. Lasciamo la sceneggiatura. Per la lettura va bene. Adesso è

tempo di andare a impregnarci di luoghi, di ambientazioni. Leggo II sosia di Dostoevskij.

19/03/2001 Jean-Pierre mi ha consigliato di leggere i due romanzi di Laurent Mauvignier. In Loin d’eux, dopo l’incidente al quale Céline sopravvive, mentre

il marito muore: «E io, non che tutto quello che succedeva non mi toccasse, ma io pensavo a Céline, dov’era, cosa faceva, e non ci pensavo solo per lei, ma anche perché mi domandavo: quando succedono queste cose, queste cose qui, e tu sei quello che se la cava con un livido, a cosa pensi, dove le

metti le mani, cosa fai, dopo?».

«Dove le metti le mani?» Che domanda sorprendente e giusta.

27/03/2001 Ne II figlio, dobbiamo trovare una lentezza assente nei due film prece­

denti. Un altro silenzio. Il silenzio dell’attesa. Un’attesa più profonda, più

nascosta, più lontana di quella vissuta dal personaggio e dagli spettatori, un’attesa che cammina lentamente attraversando tutte le altre attese, tutte le altre aspettative, un’attesa che non attende niente, il cui oggetto si mani­

festerà a sorprésa, come un sovrappiù, e si impadronirà del personaggio e dello spettatore che non potranno evitare di sentire nel più profondo di sé

stessi: ecco cos’era, era questo, era proprio questo! Non ucciderlo! Non lo

hai ucciso! Non lo ucciderai affatto! Con questo film Jean-Pierre e io abbiamo l’impressione di arrivare a un

punto fermo, di terminare un ciclo.

/' / 28/03/2001 Il film è il personaggio, è l’attore, è Olivier Gourmet, è l’enigma pulsante

on

rappresentato dall’apparizione del volto, dello sguardo, del corpo di Olivier Gourmet.

02/04/2001 Due corpi divisi da qualcosa di ignoto. Due corpi attratti da qualcosa di

ignoto. Gesti, parole, sguardi che misurano incessantemente la distanza che li separa e allo stesso tempo la potenza del segreto che li avvicina. Dovremo

cercare di misurare tutto questo con la macchina da presa.

11/04/2001 Il corpo di Olivier in permanente squilibrio. La macchina da presa Mi­ nima forse ci sarà utile per riprendere questo stato di sospensione. Questa piccola macchina ci consentirà di girare in un solo pianosequenza la scena

in automobile, quando Francis si sposta dal davanti al sedile posteriore.

01/05/2001 Gli spigoli dei muri, le scale, gli angoli, i corridoi. Rompere le linee rette. Marcia avanti, marcia indietro. Movimenti esitanti. Labirinto. Forse

nella testa di Olivier.

21/05/2001 L’orgoglio di Olivier. «Chi credi di essere?» gli domanda Magali. Nella sua orgogliosa arroganza, lui crede di essere capace di perdonare, di ricon­

ciliarsi con l’assassino di suo figlio. Si crede al di sopra dell’umanità. Si crede Dio.

27/06/2001 Arroganza di Olivier, ma anche speranza folle del disperato. Non sa dove

sta andando né perché, né per cosa, ma va. Non si sa mai. Qualcosa forse mi aspetta, qualcosa che non posso immaginare qui e ora, ma che forse scoprirò nel luogo dove sto andando. Un qualcosa capace di far sì che l’awenuto non

sia avvenuto, un qualcosa capace forse di resuscitare mio figlio.

28/06/2001 Abbiamo scelto gli attori per i ruoli di Francis e Magali. Il casting è stato molto lungo. Isabella Soupart, l’attrice che interpreterà Magali è molto

slanciata, vibratile. Morgan Marrone, il ragazzo che interpreterà Francis, è opaco, inquieto/inquietante, come Olivier. Tra Francis e Olivier c’è un pas­

sato comune, sconosciuto e invisibile, presente nei due corpi, nell’opacità

inquietante che i corpi di entrambi manifestano. Qualcosa è rimasto, resta senza riuscire a trovare il suo posto nei loro corpi, non li lascia stare al loro posto, non permette che trovino il loro posto. È qualcosa che lega i due corpi

e proprio su quello lo spettatore proietterà la paternità e la filiazione.

29/06/2001 Pensiamo al film che faremo dopo Jl figlio. Un film in cui il personaggio

sia un gruppo. Ci pensavamo già dopo Rosetta.

18/07/2001 Ho visto La stanza delfiglio di Nanni Moretti. Il viaggio finale è bello per semplicità, semplice per bellezza. Un’acqua invisibile scorre nelle inqua­

drature, irriga lentamente. Toma una vita fragile, molto fiagile. Ritorno della

vita. Ritorno alla vita. Sentirsi di nuovo vivi tra gli altri, è uno dei passaggi più difficili da riprendere, e ci è riuscito. Grazie.

08/09/2001 Ci avviciniamo alle riprese. Molte incertezze per tutte le decisioni. Jean-

Pierre quanto me. Il film sarà difficile da realizzare. Lo stato da raggiungere è la neutralità.

18/09/2001 L’undici settembre eravamo nel nostro ufficio di boulevard Émile de Laveleye quando il nostro assistente, che l’aveva appena saputo ascoltando la

radio in auto, ci annunciò che un aereo si era abbattuto su una delle due

torri del World Trade Center di New York. Mezz’ora dopo ci telefonò per

dirci che un altro aereo si era abbattuto sulla seconda torre. Nel corso della giornata apprendemmo che si trattava verosimilmente di un attentato orga­ nizzato da estremisti islamici. La sera, uscendo dall’ufficio, incontrammo

un professore universitario che non sembrava scontento di questo attentato degli estremisti islamici. «È un po’ come Davide contro Golia» ci disse. Due

* In italiano nel testo [N.d.T.]

Q2

giorni dopo ho ricevuto una sua lettera con la quale mi pregava di scusare

le sue considerazioni leggere sull’attentato del quale, al momento del nostro incontro, non aveva ancora avuto modo di valutare la gravità. Stamane, su un giornale, una scrittrice ci dice che, malgrado l'orrore della situazione

vissuta da migliaia di persone, bisogna avere il coraggio di dire che l’im­

magine degli aerei che sprofondano dentro le torri ed esplodono, è bella.

Da cosa nascono quelle parole così spontanee del professore che simpatizza per i terroristi islamici e questa interpretazione cinica della scrittrice, che le permette di dimenticare la sofferenza delle persone nelle torri per gioire

della spettacolarità dell’immagine? Quali trame si sviluppano nella testa dell’Europa perché quel professore possa rallegrarsi in quel modo prima di sentirsi in colpa, perché quella scrittrice possa compiacersi del coraggio di dire che quest’opera di barbarie è anche un’opera d’arte?

29/10/2001 Riprendiamo Olivier di spalle. Spesso. Forse troppo spesso? Non so

esattamente perché, ma io e Jean-Pierre sentiamo che dobbiamo riprenderlo proprio cosi. Non è una cosa premeditata. È nata durante le riprese della

prima inquadratura del film, che è stata anche la prima inquadratura girata

(che abbiamo appena girato di nuovo per ottenere un tempo più lento all’ini­ zio e per poter scrivere i titoli di testa sulla schiena di Olivier, inizialmente non identificabile). Quello che speriamo di fare con queste inquadrature di

schiena, di nuca, con questi andirivieni fra la schiena e la nuca di Olivier nella costruzione delle inquadrature, è mettere lo spettatore di fronte al mi­ stero, all’impossibilità di sapere, di vedere. Il volto, gli occhi, non devono cercare di esprimere la situazione, che è sufficiente a provocare la proiezio­

ne dello spettatore. Quell’espressione finirebbe per orientare, limitare e for­ se perfino impedire la proiezione, mentre la schiena, la nuca, le permettono

di sprofondare, come un’auto sprofonda nella notte. Altra cosa che abbiamo

avvertito fin dalla prima inquadratura: la minaccia, quella di Olivier per chi si trova nella feritoia del suo sguardo e, reciprocamente, quella per Olivier stes­

so, che offre la schiena, la nuca ai colpi che potrebbero arrivare da dietro.

23/11/2001 Sessantatreesimo giorno di riprese. Per tutti è una prova fisica. In quello

che fa Olivier c’è qualcosa di impossibile. Magali probabilmente ha ragio­ ne quando gli dice: «Perché lo fai allora?» e probabilmente ha ragione lui

no

quando le risponde: «Non lo so». Neppure noi, lo sappiamo. La troupe e gli attori ci stanno molto vicini. Altrimenti non ce la farem­

mo. Olivier è veramente un grande attore. Ha trasmesso a Francis la sobrietà della sua interpretazione. A volte sentiamo che il racconto è molto chiuso. Il

prossimo film sarà più aperto.

07/12/2001 Volevamo intitolare il film La prova, pensando alla prova di Abramo.

La fine del film che abbiamo girato ci ha portato a questo. Forse è proprio

questo che ha guidato tutto il film fin dall’inizio, fin dalla scrittura. Abramo non uccide Isacco. Olivier non uccide Francis. Olivier diventa il «padre»,

Francis diventa il «figlio» e la corda allora può servire a unire insieme le

tavole come servì ad Abramo a legare l’ariete.

08/12/2001 Necessario abbandonare la nostra vita per dare vita al film, ai personaggi. Sulla scena non sopportiamo che un membro della troupe o un attore evochi la sua vita personale. È come una fuga di intensità, una perdita irrimediabile

per il film. Mi ricordo Alain Marcoen, il nostro direttore alla fotografia, che,

sul set di Rosella, dice a qualcuno che si lamentava del freddo: «Come vuoi che si arrivi a dare vita a dei personaggi di fantasia, se ci ricordi continuamente la nostra vita?».

11/12/2001 Girando la sequenza del bar dove Olivier e Francis mangiano la torta

di mele, mi sono accorto che l’inquadratura non poteva accettare la donna

che serviva loro da bere. Ho ripensato alla scena del parcheggio con Magali

che arriva per escludersi dalla vita di Olivier e al tempo stesso dal film. Strana «necessità» l’esclusione delle donne perché il racconto vada avanti. È perché richiama l’omicidio e la vendetta? Il perdono? Perché noi, questo racconto lo abbiamo potuto pensare solo tra un padre che ha perduto il figlio

e incontra un altro «figlio» e non tra una madre che ha perduto il figlio e incontra un altro «figlio»? E perché non tra una madre e una figlia?

14/12/2001 Abbiamo appena visto il premontaggio de II figlio. Olivier e Francis sono

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soli. Non immaginavamo fino a che punto fossero soli, murati nel loro pas­

sato. Ci siamo resi conto che Olivier è ripreso di spalle ancora più spesso di

quanto avessimo creduto sul set. Ovviamente questo accade anche per la

presenza di quasi tutte le inquadrature nel premontaggio. Eppure succede qualcosa con la sua schiena. Riprendere la schiena. L’enigma umano che si situa nell’oscurità della schiena. La grande ellissi.

16/12/2001 Anche riprendendo Rosetta pensavamo di riprendere la sua schiena, di

stare alle sue spalle per dare allo spettatore l’impressione di essere die­

tro un soldato in guerra. Probabilmente anche per non riprendere il viso, troppo visto, troppo inquadrato, troppo codificato, troppo venduto, troppo

«pubblicizzato». Contro le immagini che non riescono più (qualunque sia

la qualità recitativa dell’attore o dell’attrice) a rompere l’immagine già vista e conosciuta dallo spettatore, l’immagine del viso che sorride, del viso spa­ ventato, del viso assorto ecc. L’unicità di ogni viso non riesce più a vincere gli stereotipi. È tremendo.

Per quanto riguarda la schiena di Olivier, mi sembra che possiamo ve­ derla anche come un viso, è come se quella schiena, quella nuca parlassero.

Più volte durante le riprese ho avuto questa impressione e anche adesso, in

fase di montaggio, soprattutto per la scena dello spogliatoio, quando Olivier

chiude il suo armadietto e Francis (fuori campo) fischietta in bagno, poi esce e passa alle spalle di Olivier.

17/12/2001 Un punto in comune tra Olivier e Rosetta: il mistero. Quando ripren­

devamo Rosetta guardando dallo spiraglio dello sportello del chiosco delle cialde, cercavamo di mettere l’occhio della macchina da presa in modo da

non poter vedere tutto ciò che poteva vedere Rosetta, pur essendo molto vicini al suo punto di vista, vedendo quasi quello che vedeva lei. Tra vedere

ciò che vede Rosetta e vedere quasi ciò che vede Rosetta c’è lo scarto che

crea la tensione del mistero nello spettatore. Più i confini di questo scarto si

avvicinano senza potersi toccare, più il movimento del mistero che li lega si intensifica. Quando Olivier, in punta di piedi, guarda dalla finestra dell’uf­ ficio della direttrice, vede Francis, la sua mano che firma un documento,

il braccio, il petto, il viso. L’occhio della macchina da presa, che non può occupare lo stesso posto occupato dagli occhi di Olivier perché uno stipite della finestra o la massa della testa di Olivier gli fanno da ostacolo, può ve­ dere una porzione del corpo di Francis, ma non il suo viso. Quando l’occhio

della macchina da presa riesce a focalizzare la mano di Francis che firma il

documento, nello spettatore la tensione del mistero aumenta perché il fatto di vedere distintamente ciò che vede Olivier senza poter vedere il viso che

lui vede accresce il desiderio di vedere quel viso. Trovare «la cattiva posi­ zione» alla macchina da presa, fare in modo che pur cercando di metterla

nella buona posizione, al posto dello sguardo del personaggio, non possa

starci a causa della posizione del personaggio, di un ostacolo, di un ritardo, è

il nostro modo di creare il mistero per lo spettatore e al tempo stesso di con­

ferire mistero, quindi vita, ai nostri personaggi. Kieslowski, con il Decalogo

e il suo cortometraggio Dappartement è stato l’iniziatore di questo sguardo.

29/12/2001 L’immaginazione morale, o la capacità di mettersi nei panni di un altro. È un po’ questo che il film richiede allo spettatore. E l’altro sorprende. Lo

spettatore sorpreso si rende conto che l’altro lo ha portato altrove, si rimpro­

vera di non esser riuscito a immaginarsi che l’altro sarebbe stato capace di portarlo fin lì, di spingerlo fino a quelle altezze. E lo ringrazia.

Per il prossimo film: la storia del ragazzo che scopre l’omicidio commes­ so da suo padre e diventa il testimone da sopprimere. Jean-Pierre pensa che

dovremmo lasciare l’omicidio. Anch’io lo penso, ma una parte di me non ne

è convinta.

30/01/2001 Rivediamo le sequenze di Olivier nel laboratorio, in macchina. A tratti

sulla sua nuca sento il soffio di suo figlio.

08/01/2002 Ho visto Rancho Notorious di Fritz Lang. Mitico. In rapporto con gli

estremi orizzonti dell’uomo come se niente fosse, anzi con appaiente in­ genuità. Il film comincia con la scena che conclude gli altri film di quel genere: il bacio dei futuri sposi ai quali il tempo riserva dei figli. Quindi

comincia al contrario, come se il tempo potesse scorrere all’inverso, come

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se Crono potesse mangiare i suoi figli un’altra volta. La lotta tragica contro

questa inversione, questa carneficina così umana, è compito della vecchia e sempre giovane Marlene. Sacrificandosi per salvare il suo vecchio amante, risparmia il giovane, lo salva, restituisce vita alla vita.

17/02/2002 Daniel Pearl è stato assassinato da alcuni estremisti islamici. Prima di sgozzarlo, gli hanno fatto dire che era ebreo e figlio di ebrei. Questo omicidio antisemita è stato filmato. Cosa vogliono dimostrare? Il sacrifìcio di Isacco

tardivamente realizzato? La vendetta dell’umiliazione inflitta a Ismaele? Uno snuff-movie contro il libro della genesi dell’umanità. Non possono vincere.

18/02/2002 Problema con la scena notturna (incontro fortuito tra Olivier e Francis). Ho l’impressione che anestetizzi tutto il film. Forse mi sbaglio. Jean-Pierre

talvolta ha la stessa sensazione. Allo stesso tempo, sentiamo che quella sce­

na, a considerarla fuori dal contesto, è intensa, strana. Forse dobbiamo ac­ cettare l’idea di non aver fatto un film meccanicista, compatto.

26/02/2002 Il nostro film è di qualche interesse? È ben riuscito? Non lo sappiamo più. La situazione non sarà troppo abnorme?

14/03/2002 Alla fine il film ha preso corpo. Contiamo che Denis Freyd ne sia en­

tusiasta. Le sue opinioni sul primo montaggio dimostrano che è un grande produttore, con il quale potremo sviluppare una vera complicità. Abbiamo incontrato il nostro terzo sguardo.

22/03/2002 È fuggito in un paese lontano. Si nasconde. Tutti quelli che lo cercano finiscono comunque per trovarlo e lo uccidono. Ecco la breve storia del te­ stimone.

04/04/2002 Il film si chiama IIfiglio. Avrebbe potuto chiamarsi II padre.

07

07/04/2002 Ho riparlato a Gérard Preszow del film sulla deportazione degli ebrei

belgi. Non credo che lo farà.

14/05/2002 Ecco a cosa ho pensato tornando dall’ultima proiezione del film: c’è

qualcosa di legittimo nella vendetta e al tempo stesso qualcosa di illegittimo nelTusufruire di questa legittimità.

29/05/2002 Ritomo da Cannes. Felici per Olivier, per il nostro film. Sentiamo che

con questi tre film qualcosa si è concluso. Bisogna proseguire e al tempo stesso cambiare. Diversi personaggi? Un gruppo?

02/06/2002 La macchina da presa è vicina, poi meno vicina come per fare il punto senza riuscirci, come per trovare il punto di vibrazione del corpo di Olivier.

La distanza si modifica, si ricerca finché non arriva il momento in cui, come ha detto Jean-Pierre a un critico, il corpo diventa una membrana. Non ci interessano la pelle e la sua grana, ma l’affiorare del corpo invisibile nel corpo visibile.

02/07/2002 Cominciamo a lavorare al nuovo film. Non esce niente. Mi sento arido,

sterile, troppo nervoso, alle strette, come se occupassi tutto lo spazio. Non c’entra nienfaltro.

03/07/2002 Toma quell’immagine della ragazza che spingeva una carrozzina nella quale dormiva un bambino. Scendeva per rue du Molinay, mal vestita, guar­

dava dritto davanti a sé, senza salutare nessuno, guidava con modi bruschi,

come se nella carrozzina non ci fosse nessun bambino. Da dove veniva? Dove andava?... Più tardi l’ho vista di nuovo, al tramonto, mentre risaliva la strada con lo stesso piglio deciso, lo stesso sguardo selvaggio, con il bambi­

no ancora immobile e muto nel sonno. Sembrava fuggisse, che fuggisse dal bambino che spingeva.

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11/08/2002 Sono immerso nell’inglese a tempo parziale. La prossima settimana sarà a tempo pieno. Tutte le mattine sento lo stesso genere di apprensione di

quando dovevo andare in piscina. Non ho voglia di andare in acqua. Nella pancia in subbuglio qualcosa mi impedisce di respirare normalmente, mec­

canicamente, senza pensarci. Mi chiedo se ci riuscirò. In fondo, a nuotare ci sono riuscito. Guardo e riguardo Sentieri selvaggi.

12/08/2002 «[...] quando codeste catastrofi avvengono tra persone legate da vincoli di parentela, come quando, per esempio, un fratello uccida o mediti di ucci­

dere il fratello, o un figlio il padre, o una madre il figlio, o un figlio la madre, o comunque l’uno nuoccia all’altro in qualche simile modo, ecco quali sono i soggetti [veramente tragici] che il poeta deve ricercare.»

Aristotele, Poetica Perché sono proprio quelli i soggetti che il poeta deve ricercare? Perché

l’amore e l’odio sono più intensi in famiglia, tra il padre, la madre, il figlio, la figlia, il fratello, la sorella. Fra loro germina il primo potente desiderio di darsi, il primo potente desiderio di dare la morte, le prime terribili e fatali

rivalità. Tra loro germinano i primi divieti in cui entra in gioco la rinuncia a tali desideri e rivalità. In principio c’è la famiglia. Ci torniamo necessaria­

mente ogni volta che vogliamo inventare una storia.

09/09/2002 Tomo dalla Svizzera dove II figlio ha avuto le sue prime proiezioni per

un pubblico diverso da quello dei festival. Le reazioni hanno dimostrato che il film è capace di far vivere un’esperienza intensa. Qualcuno è stato irritato

dai movimenti della macchina da presa. Ci hanno detto: «Guardate Oliveira o Kiarostami, sono intensi e non hanno bisogno di questi movimenti. Perché

usate questi movimenti?». Cosa avremmo dovuto rispondere? Naturalmente avevano ragione. Non è necessario utilizzare movimenti di camera per ot­ tenere intensità. Lo consentono anche le inquadrature fisse, in campo più o meno lungo. Abbiamo risposto: «È così, è il nostro modo di vedere, di

riprendere, di mettere in scena. Non c’è niente da spiegare, e soprattutto non possiamo spiegarlo noi». Effettivamente penso che non ci sia niente da

spiegare. E tuttavia la domanda mi perseguita... Impossibile rispondere al

no

«perché». Forse è possibile il «per cosa», cosa cerchiamo di tradurre in e

con quei movimenti... Un’inquadratura è tanto per cominciare un flusso di energia che passa sopra e attraverso i corpi e gli oggetti, non per metterli a posto, non per comporne un quadro, ma per accerchiarli, per metterli nel­

lo stesso stato di tensione, di vibrazione, perché tutto il film sia un corpo vibrante, perché lo sguardo dello spettatore, perché l’intero spettatore sia scosso da questa vibrazione. Energia, flusso, vibrazione, movimento conti­

nuo, teso, talvolta filato, vicino, a volte quasi addosso ai corpi e agli oggetti, per provocare inquietudine, perdita dei punti di riferimento spaziali, per rapire lo spettatore nella spirale di un movimento che lo incolla, lo attacca ai corpi, agli oggetti ripresi, un movimento troppo rapido, troppo completo

perché ci sia il tempo di prendere le benché minime distanze. Qualcosa di fisico che vorrebbe scambiarsi, un’esperienza, una prova, una danza, una

febbre. La macchina da presa è come una fiamma ossidrica. Scaldare i corpi

e gli oggetti. Starle vicinissimo per raggiungere uno stato di incandescenza, un’intensità che brucia, che manda fuori di sé, fino ad accedere a qualcosa che sia pura vibrazione umana. La nostra macchina da presa non filma il sesso. La nostra macchina da presa è sessuale. Quando riprende è connessa alla pulsione dei corpi, la comunica agli oggetti, cerca nei suoi movimenti

qualcosa che plachi la sua eccitazione, la sua tensione esasperata. In un certo senso, uno stato di trance. Una trance morale. Se per morale si intende ciò che riflette la lotta, ancestrale ma attuale e inestricabile, tra le nostre

pulsioni e la legge. Una lotta dalla quale l’essere rinchiuso, bruciato, eccita­

to, esce diretto verso l'altro, passa a un altro stato.

15/09/2002 Ritorno da Montréal e Toronto. Montréal mi è apparsa diversa dalla mia prima visita. Mi è piaciuto il suo lato variopinto, i suoi stacchi brutali. Molti

senzatetto per le strade.

05/11/2002 Ancora nessun punto di partenza per il nuovo film. Forse più corpi. Una o due donne? Riprendere una donna! È possibile per noi? In due? Sul set,

Rosetta la chiamavamo Rosetto.

06/11/2002 Nel silenzio di Abramo c’è la speranza che l’omicidio non avvenga, che

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Dio provveda. Nel silenzio di Olivier c’è l’avanzare del desiderio dell’omi­ cidio.

16/11/2002 Guardando una foto di Dorothea Lange in cui si vede una donna, già avanti nell’età, seduta su una panchina il cui schienale occupa quasi un ter­

zo dell’inquadratura, ripenso alla nuca di Olivier. I due terzi in alto, in primo piano, sono occupati dalla nuca della donna, dal colletto del cappotto da cui

esce un lembo del foulard, dalla testa voltata leggermente verso destra che

mostra l’orecchio, dal profilo del viso rugoso, non si riesce a vedere l’oc­ chio, ma solo lo spuntare dell’orbita verso la quale convergono, come linee

di fuga, le rughe di profonde zampe di gallina. Sui capelli ha una reticella quasi invisibile. Sullo sfondo un viale dove passano, sfocate, delle automo­

bili. La donna non le guarda, il suo sguardo sembra cadere su qualcosa più in basso, più vicino, che richiama il mio sguardo allo schienale scuro della

panchina, al colletto del cappotto, al lembo del foulard, alla nuca rugosa...

La nuca che vive in disparte rispetto al mondo, a) corpo, ai margini di ogni attività, sprovvista di ogni possibilità di prendere, di partecipare, di vedere, la nuca, l’innocenza del corpo, così segreta, cosi vulnerabile quando è vista

dall’altro, necessariamente dall’altro, noi non vediamo la nostra nuca, la nuca, pura carne passiva nella quale si scrive la sofferenza di una vita.

17/11/2002 In arte, per inventare, a volte è interessante provare a fare il contrario di quello che fa la maggioranza. Come quando abbiamo costruito una scena che non ci soddisfa e proviamo a rifarla ma all’inverso. Le virtù euristiche dell’inverso sono immense.

23/11/2002 Sono a Hanoi per provare a trasmettere qualcosa della nostra esperienza

di cineasti a dei giovani cineasti di qui. Ho rivisto i nostri film. 1 movimenti

della nostra macchina da presa sono resi necessari dal nostro desiderio di essere nelle cose, all’interno dei rapporti tra gli sguardi e i corpi, i corpi e la

scenografia. Se la macchina da presa riprende un corpo di profilo, immobile, con un muro dietro, e questo corpo comincia a camminare lungo il muro, la

macchina da presa, passando davanti al corpo, andrà a infilarsi tra il muro e il corpo facendo un movimento che avrà inquadrato il corpo di profilo e

il muro dietro, poi il muro e il corpo sulla sinistra dell’inquadratura, poi il

corpo (l’altro profilo) riempie l’inquadratura (poiché è sparito il muro a de­

stra dell’inquadratura), poi la schiena del corpo, poi la schiena del corpo e il muro a sinistra dell’inquadratura. La macchina da presa avrà fatto un giro di 360 gradi attorno al corpo nel momento stesso in cui lo avrà isolato. Per­

ché questo desiderio di essere nelle cose, di essere dentro? Perché questo desiderio che mio fratello e io condividiamo pienamente? Perché non ci al­

lontaniamo dai corpi? Perché non li vediamo in un paesaggio? Perché questi corpi solitari, sradicati, nervosi, che non possono abitare un paesaggio, che non possono esistere in campo lungo, in un campo di terra e cielo, di natura?

Lo vorremmo, lo vorremmo tanto ma qualcosa in noi oppone resistenza, sem­

bra che ci costringa, ci dà la sensazione di mentire non appena allarghiamo

troppo l’inquadratura, come se volessimo far credere alla riconciliazione tra l’uomo e la vita. Forse lì, in prossimità delle cose, tra i corpi, troviamo una

presenza della realtà umana, un fuoco, un calore che irradia, che brucia e

isola dal triste freddo che regna nel vuoto, nel vuoto esageratamente grande della vita. Il nostro modo di non disperare, di continuare a credere.

05/12/2002 Eutanasia sociale. I senzatetto, i tossicodipendenti, chiunque si tro­ vi fuori dai circuiti sociali può morire di fame, di freddo di overdose... È nell’ordine delle cose, quasi un sollievo. Nessuno osa rallegrarsene, ma nes­ suno nemmeno protesta. Viene vissuto come un naturale processo di elimi­

nazione.

11/12/2002 «[...] voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del

padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, per­ ché è menzognero e padre della menzogna.» Vangelo secondo Giovanni, 8,44

Questo testo sembra parlare di ciò che è all’origine. Sembra associare

nella figura del diavolo il padre, l’omicidio, la menzogna e il desiderio di imitare il padre omicida/menzognero. Ripenso alla storia su cui avevamo già riflettuto (il ragazzo che scopre l’assassinio commesso dal padre). Non

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si tratterebbe solo di riprendere i legami tra la menzogna e l’omicidio che

sono molteplici e costituiscono la molla di molti intrecci (l’assassino mente per non essere scoperto in quanto autore dell’omicidio, mente perché la sua vittima non scopra la sua intenzione di uccidere, una menzogna che non

deve essere scoperta conduce all’omicidio ecc.), ma di filmare un omicidio che è una menzogna, un assassinio che è anche uccisione della parola. Per questo romicida/menzognero deve essere un padre. In altre parole, il diavo­

lo è un padre che non può più essere padre, eppure continua a esserlo e il figlio deve accettarlo perché non può più trovare in questo padre diabolico

ciò che gli permetterebbe di dire la verità, di sfuggire a questo padre, di contestarlo in nome della verità, della legge. Questo terribile intreccio do­

vrebbe condurre il figlio a uccidere/mentire come il padre o, meglio ancora, a uccidere suo padre, poiché in fondo è questo che desidera il padre diabo­

lico: uccidere il padre. Il ragazzino della nostra storia rimetterebbe a posto l’omicidio del padre, in quanto la sua volontà coinciderebbe con quella del

padre diabolico.

13/12/2002 Cominciamo a parlare dei personaggi del nostro prossimo film. Una don­

na giovane (albanese?) e un uomo giovane, magro, senza soldi e in astinenza da droga. Jean-Pierre ha ripensato alla storia che ci ha raccontato una la­ voratrice del sesso a proposito di suo fratello, eroinomane, a cui degli alba­

nesi avevano proposto un matrimonio con una giovane prostituta albanese in cambio di duecentomila franchi belgi (cinquemila euro circa) perché lei

acquisisse la nazionalità belga. Una parte della somma è versata prima del

matrimonio e l’altra (la più sostanziosa) sarà versata al momento del divorzio nei mesi successivi. Di fatto il divorzio non è avvenuto e la seconda parte

della somma non è mai stata versata perché l’eroinomane è morto di overdo­ se. Potremmo immaginare che la donna si innamori dell’eroinomane e chie­

da alla mala albanese di non ucciderlo. A un certo punto saranno in fuga. Attenzione a non-cadere nel rocambolesco con la mala albanese. Attenzione

anche alla vicenda forse troppo melodrammatica. A volte evochiamo anche

un personaggio di donna medico. Una scena che ritorna è quella del paria che chiede alla dottoressa di aiutarlo a morire. Lei lo riporta alla vita. Lega­ me con l’eutanasia sociale di oggi.

inQ

14/12/2002 Gérard Preszow ci ha risposto che non farà il film sulla deportazione degli ebrei belgi. Dopo la sua telefonata e il pranzo insieme pensavo che avrebbe accettato. Capisco la sua risposta. Chi lo farà?

16/12/2002 Perché Hitto o niente di Mike Leigh non è stato visto? È passato così,

senza che uno sguardo si fermasse davvero su di esso, sui corpi degli attori, pesanti, così pesanti, così esatti nelle loro cadute, nelle loro lotte silenziose, nelle ferite, nelle parole che non riescono a dire, a dirci. È quella la gente

che muore nelle nostre strade, nelle città, nelle periferie. Noi non li vediamo

più. Il cinema, che potrebbe farceli vedere, non ha più voglia di vederli. Qualche cineasta che qua e là ci prova ancora. La nostra epoca ne ha abba­

stanza di poveri e paria. Chariot è solo un artista da strapazzo.

18/12/2002 Ho appena visto De l’autre còté di Chantal Akerman. Lungo faccia a faccia con il muro. La macchina da presa resta alle corde, osserva, spia l’av­ versario, poi dà battaglia... Ne uscirà vincitrice con l’aiuto di un suono, di

una voce. Lo spettatore si ricorderà degli sguardi e delle voci di coloro che il muro costringe all’attesa, all’esilio, alla rinuncia, alla solitudine, alia paura,

alla morte. La donna clandestina che ha varcato il muro ed è scomparsa,

che la macchina da presa non ha potuto vedere, non potrà mai vedere, per sempre sconosciuta, solo la voce della cineasta la salva dall’oblio. Nemmeno

un’immagine. Nessuna immagine. Una voce, il timbro di una voce per la clandestina sconosciuta. Da quest’ultimo colpo, il muro non si riprenderà.

20/12/2002 «Un valore sminuito e un’illusione smascherata hanno gli stessi miseri corpi, si rassomigliano, e non c’è niente di più facile che confonderli.» Milan Kundera, Lo scherzo

Filmare il corpo pietoso di un valore sminuito così da distinguerlo da quello di un’illusione smascherata, Una nuova vita per questo corpo, una

vita conquistata remando contro la nostra epoca di cinica confusione. L’arte non può salvare il mondo ma può ricordarci che è possibile salvarlo.

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30/12/2002 Quando davamo le istruzioni di recitazione a Olivier Gourmet, ci è ca­

pitato di dire scherzosamente che non aveva niente da recitare, perché non

era lui a parlare ma un altro, qualcuno in lui. Riprendere Olivier di spalle,

riprendere la sua schiena, la sua nuca, forse era il modo che avevamo trovato per far parlare, per far sentire quel qualcuno, quel movimento non recitabi­ le, inconscio, verso Francis.

10/01/2003 Parliamo del prossimo film. Laborioso. Paura di ripeterci, di fare siste­ ma. Pericolo tanto più grave visto che siamo in due, che funzioniamo come

un sistema? Cambiare si, ma deve corrispondere a qualcosa di sentito, a una forma di necessità, una necessità autentica. Aspettare, continuando a parlare.

26/01/2003 Ritomo dalla Svizzera tedesca, dove abbiamo incontrato dei critici cine­

matografici e discusso del film con il pubblico. Uno spettatore ha detto che la tensione così violenta del film nasceva dalla coesistenza della continuità dei pianosequenza con dei tagli netti. Più la continuità coinvolge lo spetta­ tore nel suo lungo movimento ininterrotto, più il sopraggiungere del taglio è sorprendente, disarmante. Invece di un personaggio da seguire, da assediare, pensiamo a due per­

sonaggi, una coppia. Come ottenere questo risultato, meno facile da inqua­

drare? Dobbiamo scrivere meno con la nostra macchina da presa? Lasciar venire, apparire. Registrare. Attenzione anche alla noia, all’entropia che si

insinua nella registrazione della vita.

30/01/2003 Un film su Gesù? Ho riletto quel che diceva Dreyer sul suo progetto.

Bisognerebbe girare la Passione? Credo di no. Interessarci all'uomo concre­ to che fu nella sua comunità. Riprendere la vita di Gesù e non la storia di

Gesù. Un titolo: Viro di un uomo chiamato Gesù, o Vita di un ebreo chiamato

Gesù.

05/02/2003 In una sala cinematografica ho visto una pubblicità che mostrava una

lapidazione per immagini. Un ragazzo si fa rubare il telefonino da un uomo

(grasso) che, al momento del furto, si fa fotografare con il telefonino. Questa foto è istantaneamente inviata ai telefonini delle persone che stanno utiliz­ zando il cellulare nei dintorni, cioè dappertutto. Queste persone riconoscono

il ladro quando passa nel loro campo visivo, corrono verso di lui, lo accer­ chiano e brandiscono il loro telefonino mostrando l’immagine accusatrice,

come tante mani che gettano pietre. Questa pubblicità esprime il principio della pubblicità: fabbricare l’unanimità. In questo caso preciso: con la desi­

gnazione di un colpevole, di un capro espiatorio. Risorgere dell’età mitica. Sto leggendo Vedo Satana cadere come la folgore, di René Girard.

06/02/2003 Per la sceneggiatura, niente. Né un personaggio. Né la situazione. Né l’inizio. Né il finale. Evochiamo la storia di una donna che, lavorando come

conciliatrice per la Società del gas e dell’elettricità, dopo aver negoziato e aver proposto una transazione, accetta che vengano staccati i contatori della

casa dove vive una famiglia povera. Poco dopo saprà che quella famiglia

si è «suicidata». Si sente colpevole. Forse è la sola a sentirsi in colpevole.

Intorno a lei (colleghi, amici) nessuno capisce il suo senso di colpa. La con­ fortano dicendole che ha fatto il suo lavoro, che le ha provate tutte perché

quelle persone trovassero un accordo con la Società del gas e dell’elettrici­

tà, che non poteva prevedere una reazione così sproporzionata, folle, ecc. Che succederà a questa donna? Cosa farà per «espiare» quello che ha com­ messo? Qualcosa che ricorda Europa 51. Quali sono le scelte possibili per

questa donna colpevole? Cinismo? Impegno politico? Impegno a favore dei «poveri»? Cos’altro ancora? L’interesse sta tutto nell’avere un’unica persona

a sentirsi colpevole.

21/02/2003 Ho visto II vento di SjOstrOm. Un racconto sul divenire donna. Magnifico.

Il vento le fa paura, la opprime, la rinchiude. «Non ho più paura» dirà alla

fine. L’ho sentito fisicamente. Ho sentito la sua liberazione, la sua nascita all’amore, al desiderio. Tempesta di sensi! Finalmente il soffio del suo corpo

è più forte, la porta via, porta via la sabbia spinta dal vento, il mucchio di sabbia che bloccava la porta della sua casa, del suo corpo.

inA

25/02/2003 Riparliamo del nostro racconto su un bambino venduto dai suoi genitori. Venduto e poi ricomprato? Ripensiamo alla ragazza con la carrozzina di Se*

raing. Il titolo potrebbe essere: La ragazza con la carrozzina.

30/03/2003 Scopro il pensiero di Gilles Deleuze. L’uomo è sempre in trappola, nella condizione di dovere sempre fuggire, seguire delle linee di fuga. È come un topo! Deve assolutamente vanificare tutte le trappole dell’altro, della nega­

zione, della trascendenza che ricompare sempre dove meno te lo aspetti. Lotta radicale, senza fine, strategia incessante dell’immanenza per apparte­

nere a se stessa, solo e unicamente a se stessa, multipla, deterritorializzante, orizzontale. Ogni altezza nasconde una torretta di guardia! Libero dopo aver

portato il lutto per la morte di Dio, la sua intrepidezza costringe all’ammi­ razione. Costantemente in guardia, interamente assorbito ad affilare i suoi

concetti, forse la sua lotta ha qualcosa di troppo accanito. Come se temesse un incontro, che sa tuttavia essere inevitabile, che la obbligherà a fermarsi

e alzare lo sguardo. Non verso Dio. Semplicemente verso l’altro. Colui per

mezzo del quale il bene e il male si manifestano. Altezza non del potere, ma della legge. Altezza nella quale non si nasconde una torretta di guardia.

05/04/2003 Museo del cinema. Ho rivisto L’Enfance nue di Maurice Pialat. Incon­

solabile Francois. Ma la nonnina e il nonnino ci provano, e anche la vec­ chissima nonnina con le sue canzoni e con i suoi racconti. La vendetta del bambino sgorga da una ferita troppo profonda. Niente può cicatrizzarla. Non sono stato amato, voi non potrete mai amarmi, d’altra parte io non vi amo.

Circolo infernale nel quale l’amore non può aprirsi nessun varco. Grumo di carne viva, nervoso, solitario, che rotola, rotola solo per fare del male,

per incontrare solo quello che fa male. Qualche volta, tuttavia, il nonno e la nonna permettono a Francois di cominciare a vivere l’infanzia, accettano

che lui attiri la loro attenzione, che li inquieti, senza picchiarlo e senza mandarlo via.

La prima coppia che aveva accolto Francois non aveva niente da tra­

smettergli, niente da dargli. Durante la manifestazione operaia la moglie

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comprava una giacca al marito e lui, invece di andare alla manifestazione

con gli altri, comprava un giocattolo alla figlia. Per loro Francois rappre­ sentava solo del denaro in più. Il nonno invece, racconta la sua storia di partigiano, la storia del momento in cui è stato con gli altri. Lui ha qualcosa

da dirgli, da trasmettergli, da dargli, qualcosa che rappresentò il culmine della sua vita e che ancora oggi la irriga, qualcosa di inestimabile, senza prezzo. Due coppie, due generazioni della classe operaia, e dall’ima all'altra

non si è trasmesso niente di ciò che sarebbe stato essenziale. Niente dei sogni di gioventù, niente del gusto dell’avventura, niente della vita comune,

della solidarietà, della speranza di coloro che avevano vissuto la fabbrica, il sindacato, gli scioperi, la Resistenza. Niente. Grande momento di montaggio, con le scene di massa, poi quelle dei corpi immobili, soprattutto quella della famiglia a tavola, con le due schie­

ne in primo piano. Anche le inquadrature fìsse di Francois solo a letto: i lenzuoli, il cuscino, la faccia del bambino. Come se solo allora la ferita

smettesse di far male. Come se il piccolo Francois, da solo nel suo letto, trovasse finalmente lo sguardo e le braccia di sua madre. Finalmente un po’

di amore. Finalmente. Addormentati, Francois. Donni più profondamente e

più a lungo che puoi. Al tuo risveglio troverai l’odio. Ti recluterà di nuovo. Ucciderai. È inevitabile.

10/04/2003 Abbiamo un titolo per lavorare alla nostra sceneggiatura: La fona dell'amore. Non sarà un rapporto tra generazioni ma tra due persone, un

uomo e una donna giovani, della stessa generazione. Continua comunque a esserci il padre che non riconosce il figlio, che lo vende come se fosse un

oggetto qualunque. Questo titolo non definisce un intreccio, ci lascia libe­ ri per sviluppare dei movimenti. Abbiamo già redatto il piano della prima mezz’ora. Ripensiamo continuamente ad Aurora. Questo film deve avere dei solidi appigli nel nostro «inconscio» comune perché ne parliamo ogni volta

che cominciamo con un nuovo film. Jean-Pierre pensa che il movimento della riconciliazione tra il ragazzo e la ragazza debba occupare molto posto

e tempo.

16/04/2003 La forza dell'amore. Forse è un titolo che dice troppo, soprattutto sulla

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fine del film. Forse lo cambieremo. Per 1’intanto ci aiuta a trovare i movi­ menti, le grandi scene e le azioni concrete dei personaggi. Abbiamo redatto

quasi tutto il canovaccio.

26/04/2003 Sonia e Bruno, i nomi dei personaggi de La force de I'amour (La forza

dell’amore). Siamo ancora incerti sul nome del bambino (neonato). Cosa si­

gnifica vendere il proprio figlio? Significa che lui non accetta che il bambino gli si rivolga come figlio, il figlio di cui lui è padre? Non poter diventare

padre? Non sappiamo molto bene dove ci porterà questo film, ma sentiamo di essere dentro la sostanza della nostra epoca. L’idea della vendita di un

bambino proposta da Jean-Pierre nasce da un fatto di cronaca che lui aveva letto sul giornale qualche mese fa. 11 contesto è diverso ma c’è il fatto che i

genitori cedono il figlio per soldi.

27/04/2003 Un possibile finale per il film: Sonia, Bruno e il bambino (nel passeggi­

no? in braccio a Sonia?). Bruno piange... poi Sonia... Piangono a lungo... Le lacrime di ognuno, di entrambi... Pensiamo a questo finale dopo aver letto il

libro di Catherine Chalier. Trattato delle lacrime. Fragilità di Dio, fragilità dell’anima. Alla fine del libro scrive: «Ma quando gli uni e gli altri scoprono l’acqua della rugiada mattutina, tradizionalmente associata al risveglio e alla risurrezione, non provano forse gioia? Questa fragile felicità? Questo tremore

di fronte alla speranza di vita, nella loro pura nudità, è a volte possibile pro­ varli grazie alle lacrime umane». Le lacrime di Bruno e Sonia. Quelle dello

spettatore forse. Lacqua delle lacrime umane. La risurrezione di Bruno.

28/04/2003 È un lunedì. Comincio a scrivere la prima stesura della sceneggiatura.

Dopo due mesi di conversazioni, abbiamo il piano della storia e i personaggi principali. Il terzo movimento sarà il più lungo. Penso al film che faremo

dopo questo e, vedendo un libro di René Girard sullo scaffale della libreria,

mi ricordo delle nostre conversazioni sul capro espiatorio. Non so perché,

ma quando comincio la scrittura di una sceneggiatura, non posso fare a meno di pensare a quella del film successivo. Si direbbe che mi rassicuri.

ino

29/04/2003 Forse in questo film ci sarà una dolcezza che non c’era negli altri.

26/05/2003 Non va bene. Senza forza. Pesante. Disilluso. Ho aperto Zio Vanja... Ho

letto qua e là... A poco a poco la vita è tornata, fragile, fresca, come l’acqua

che in riva alla sorgente scopre i primi sassi.

24/06/2003 Museo del cinema. Ho visto diversi Hawks. Un ritmo unico. Qualcosa

che marcia al passo, accelera, rallenta, fa del surplace, si riposa, lascia esistere i gesti, gli sguardi, le parole di situazioni estranee all’intreccio, come un pasto, una sosta attorno a un fuoco, una canzone accompagnata da una

chitarra, una ferita da curare, poi riparte con un’improvvisa accelerazione...

Come se a Hawks non interessasse il ritmo dettato dall’intreccio ma qual­ cosa di più difficile da riprendere, qualcosa che sia come la vita. Sì, questo possiamo chiamarlo vita. La vita di un gregge in transumanza. Il ritmo della

vita di un gregge in transumanza. Quello de IIfiume rosso.

27/06/2003 Rileggerò Luce d'agosto di Faulkner. Dopo la prima lettura (maggio 1986)

mi è rimasto qualcosa di forte e oscuro. Qualcosa sulla paternità. Forse questo ci aiuterà a diventare Bruno, a entrare in lui.

30/06/2003 Dopo questo film vorrei che ne facessimo uno asciutto, dalla logica im­

placabile, su un fenomeno di capro espiatorio.

02/07/2003 Quando provo a immaginare Bruno e Sonia, mi capita di vedere Eddie

e Joan in Sono innocente di Lang. Devo cercare di costruire l’intreccio per

filmare una coppia di fuggiaschi? Riparlarne con Jean-Pierre. Le lacrime di Bruno al momento della loro fuga? Prima della morte che io coglierà? Che li coglierà? Il bambino si salverà? Forse così sarà troppo costruito, troppo

ordinato, legato, intrecciato. Non perdere la vita. Né il mondo.

un

11/07/2003 Prima volta in vita mia a Gerusalemme. Ho incontrato persone che hanno paura per la loro vita, per quella del

loro popolo e che vorrebbero sinceramente fare pace con i palestinesi, una

pace vera che possa durare, senza le grida della vittoria da una parte e l’amarezza della sconfitta dall’altra. Conversazione sull’ebreo chiamato Gesù. Se mai faremo un film sulla

sua vita, lo gireremo in Israele.

15/07/2003 Gerusalemme. La proiezione del film IIfiglio è andata benissimo. Molte discussioni animate nell’atrio del teatro, sia sui movimenti morali che su quelli formali del film. Abbiamo avuto la sensazione che il flusso del film

avesse penetrato gli spettatori e che loro ce lo comunicassero o se lo comu­

nicassero l’un l’altro. La vivacità e la profondità di questi scambi mi hanno ricordato le discussioni dopo la proiezione de La promessa al Lincoln Center di New York. Momenti in cui ci si dice (vanità?) che il film esiste realmente

anche per altre persone oltre a noi che l’abbiamo fatto, che conterà per loro, nella loro vita, che lo faranno vedere ad altri, ai figli, che se ne ricorderan­

no.

16/07/2003 Tel Aviv. Abbiamo trascorso la notte sull’auto di Raphi a percorrere la città. L’abbiamo lasciata solo per recarci in fondo alla scala dove fu assassi­

nato Yitzhak Rabin.

11/08/2003 Ho visto Dogville di Lars von Trier. Grace è uno strano capro espiato­

rio. Non dice mai di no, neppure al bambino che le chiede di picchiarlo

per poterla poi accusare di questo gesto scandaloso. Perché commette quel gesto? Perché non rifiuta mai niente? Perché non rivolge alcun rimprovero a nessuno degli abitanti di Dogville? Da dove viene questa passione della condiscendenza? È uno strumento di seduzione perché il male sorga da tutta

questa gente di Dogville per contaminarla tutta? Che Grace sia una figlia di Satana, una tentatrice tanto più pericolosa in quanto ha assunto l’atteg-

iii

giamento del capro espiatorio? Che sia andata a Dogville solo per spingere quei cani e quelle cagne di paesani a mostrare senza ritegno la loro natura

di cani? Niente affatto per amarli, educarli o salvarli, ma solo per metterli in

guerra con se stessi, per lasciare libero sfogo alla loro bestialità. Dire sem­

pre di si agli altri perché si sviliscano, sarebbe questa la tecnica diabolica di

Grace. Il riavvicinamento finale fra Giace e il padre non ci sorprenderebbe più. Lei è venuta a Dogville per ritrovarlo meglio. Lavorava per lui. Lavorava

per compiacerlo, e lui è venuto a ringraziarla. Lui le rimprovererà la sua arroganza: aver creduto di poter amare e salvare quei cani e quelle cagne

di Dogville. Un rimprovero fittizio che suggella la suprema complicità che lega il padre e la figlia che ha finto di amare coloro che suo padre finge di

rimproverarle di aver amato. In questa finzione che i due si recitano, Grace riconquista ciò che ha finto di perdere, ciò che la fa gioire nel profondo. Solo suo padre la ama! Solo suo padre non è un cane! E per sancire tanto amore, suo padre le offrirà di sterminare tutti quei cani e quelle cagne che l'hanno

fatta soffrire. Nessuno sarà risparmiato perché tutti coloro che Grace ha in­ contrato a Dogville si sono coalizzati contro di lei, perfino quello che credeva di amarla e che finisce per tradirla. È chiaro, nessuno poteva mettersi tra lei

e suo padre. Oh Grace! Piccola perversa che giocando a ingannarsi è quasi riuscita a farci credere che suo padre l'avesse abbandonata. Come se la scenografia di Dogville avesse potuto essere qualcosa di diverso dal campo del suo gioco.

20/08/2003 Tomo a un titolo che avevamo pensato: Il riscatto. Mi sembra più adatto,

perché si tratta proprio del riscatto finanziario del bambino venduto e del

riscatto morale di Bruno. L'amore di Sonia, ritrovato da Bruno durante la loro fuga, potrebbe coronare il riscatto di Bruno, che comunque dovrebbe morire.

La mala (i delinquenti) non può partecipare al riscatto di un traditore. Chi

ha tradito deve pagare, e quindi morire. La violenza dovrebbe esplodere subito prima o durante le scene che condurranno alla morte di Bruno. Non chiudere Bruno nella dialettica di colpa e riscatto.

Il tradimento di Bruno nei confronti della mala: non è il fatto di avergli venduto un bambino che non poteva essere venduto, ma quello di non aver

fatto ciò che avrebbe dovuto per riscattare il bambino, oltre a rimborsare il denaro. Forse avrebbe dovuto uccidere qualcuno, o attirare questo qualcuno

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in un luogo dove i delinquenti lo potessero uccidere. Ancora l’omicidio?

Ancora l’omicidio e il suo rifiuto, l’impossibilità di commetterlo come ri­

scatto di Bruno? Ci ripetiamo. Jean-Piene pensa che bisogna assolutamente trovare qualcos’altro. Anch’io, ma non so cosa. Sarebbe meglio che Bruno

non dovesse ripassare per il male, e per la resistenza al male, per cambiare.

Trovare una situazione che lo spinga a uscire dal suo coma morale, senza

che il male da commettere svolga un ruolo di appoggio a questa uscita. Una situazione che lo metta in condizione di fare qualcosa di buono, un gesto di bontà che sorprenda lui per primo.

Sento che dobbiamo girare una scena violenta, molto violenta (la morte di Bruno? il suo tradimento della mala prima della morte?) Questa scena

dovrebbe svolgersi nei locali di servizio di una discoteca, un dancing, di un luogo molto rumoroso, con una musica molto stridente (o al contrario molto dolce, languida). Penso alla scena con Lee Marvin in Senza un attimo di

tregua di Boorman.

30/08/2003 La bugia richiede molta costruzione. Il male è una costruzione appas­

sionata (e appassionante per lo spettatore) di cui bisogna mostrare tutti gli ingranaggi, tutte le sovrapposizioni. La verità, il bene appaiono allora come una rivelazione. Rivelazione che è una liberazione da ogni intreccio.

31/08/2003 Bruno fa questo... poi quello... poi si interrompe... fa un’altra cosa anco­

ra.. Passa da un’azione all’altra, è qui, poi improvvisamente va da qualche parte dove possa divertirsi ancora di più... Si direbbe che niente lo interessi

davvero, è come stanco di tutto.

03/09/2003 Se piange, dovrà piangere mangiando, per esempio mangiando un pani­

no. Così le lacrime non saranno lacrimevoli.

11/09/2003 Siamo a Tokyo per le interviste in occasione dell’uscita de 11 figlio in novembre. Alla domanda se avevamo scelto la professione di Olivier come riferimento al lavoro del padre di Gesù, abbiamo risposto che deve esserci

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un legame oscuro fra il lavoro di falegnameria e la paternità. Anche la storia

di Pinocchio testimonia questo legame oscuro.

12/09/2003 Ancora a Tokyo. Proiezione del film seguita da un dibattito nel corso del quale ha preso la parola un uomo a cui hanno ucciso il figlio, e ha raccontato

come vive quel lutto impossibile e come sia diventato un oppositore della pena di morte, che in Giappone è ancora in vigore. Parlando del film ha detto: «In Giappone si dice che un bambino cresce guardando la schiena

del padre».

14/09/2003 Rientro da Tokyo. In aereo abbiamo passato in rassegna tutta la struttura della sceneggiatura che adesso chiamiamo II riscatto. Jean-Pierre ha pro­ posto delle semplificazioni per la vendita del bambino e teme che le scene

della coppia in fuga siano troppo arbitrarie. In effetti c’è da domandarsi perché Sonia dovrebbe fuggire con Bruno. Cosa potrebbe produrre questo

cambio di rotta? Perché correre questo rischio? Una coppia in fuga è bella.

Forse per un altro film. Sentiamo tutti e due che il momento delle lacrime del riscatto e della riconciliazione deve essere compreso nel movimento di qualcos’altro. Qualcos'altro da fare e, mentre questo qualcos’altro si compie,

sopraggiungono le lacrime.

17/09/2003 La fatica di Bruno. È abissale. Nessun desiderio di vivere né paura di

morire. Niente che lo turbi. Niente che valga la pena. Per lui non c’è niente che conti. Salvo lui stesso? No, nemmeno lui stesso.

22/09/2003 Il percorso di Bruno lo porterà fino alle lacrime perché le proprie lacrime non si decidono. Arriveranno, e quelle di Sonia anche, e sarà una riconci­

liazione improvvisa, imprevedibile. Lo spettatore vivrà con loro un momento che sfugge al destino, alla morte.

30/09/2003 Lavoro alla sceneggiatura. Jean-Pierre mi ha telefonato per fare delle proposte sulla scena della vendita del bambino. L’ascensore potrebbe essere

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fuori servizio e Bruno non riesce a salire le scale con la carrozzina, così do­ vrebbe prendere il bambino in braccio. Siccome l’appartamento è compieta-

mente vuoto e non c’è nemmeno una poltrona dove posare il bambino, Bruno si toglierà il giubbotto per posarci sopra il bambino. Mi ha anche raccontato un fatto di cronaca accaduto di recente a Liegi. Un giovane ladro che aveva

strappato di mano la borsa a una signora era inseguito dalle persone che ave­ vano assistito al furto. Per sfuggirgli, si è rifugiato sugli argini della Mosa. A

quanto pare si è nascosto infilandosi parzialmente in acqua, aggrappandosi con le mani alla vegetazione dell’argine. Sembra che sia morto perché la ve­ getazione ha ceduto (non sapeva nuotare). Il giornale che riporta i fatti evoca anche la possibilità di un lancio di pietre da parte degli inseguitori. Questa

potrebbe essere la morte di Bruno.

10/10/2003 Ho appena scritto la scena della vendita del bambino. Bruno prende per la prima volta in braccio il bambino quando lo vende. Anche il giubbotto di

pelle come giaciglio funziona molto bene. Per la prima volta si dovrebbe ve­

dere il bambino per intero. Densità misteriosa nel comportamento di Bruno. Molte possibili associazioni che non avranno il tempo di arrivare alla co­ scienza dello spettatore (e nemmeno a quella di Bruno). Il cellulare dimen­

ticato nel giubbotto, che lui tornerà a prendere. Distanza improvvisamente creata da questa preoccupazione. Distanza in cui mi è apparsa l’incapacità di comprendere i simboli in cui vive Bruno.

11/10/2003 Se non fosse già il titolo di un film di Bergman, potremmo intitolare il

nostro film Le lien’, il legame. Il bambino di Bruno e Sonia si chiama Jimmy.

13/10/2003 Morgan (Francis ne IIfiglio) è tornato sui tetti come apprendista zinca­ tole. La madre, vedendolo tutto il giorno davanti allo schermo del computer,

* Titolo francese del film Bertìringen, del 1971, uscito in Italia con il titolo L’adultera. [N.d.T.].

11S

lo ha obbligato a ricominciare a lavorare, perché avesse degli orari e una

vita sociale. Ha recitato in un film e in un telefilm, poi nessuno lo ha più chiamato. Aspetta. Bruno non trama, non calcola, non ha strategie. Vive nell’immediatezza.

Ha voglia: prende. Non ha più voglia: butta via, dimentica. Nella sua soddi­ sfazione c’è qualche nesso con l’attrattiva della morte.

21/10/2003 Rimettere al centro Bruno, che non può diventare padre. Non sa perché (e io nemmeno) ma questo proprio non fa parte di lui. Nel terzo movimento del film, vivrà qualcosa con uno dei ragazzi della banda che lavora per lui.

Forse (rimando al fatto di cronaca di Liegi) potrebbe commettere un furto con quel ragazzo (dodici, tredici anni) e potrebbero esser inseguiti dalle

persone che li hanno visti. Potrebbero andare a nascondersi sull’argine del

fiume, con i corpi in parte immersi nell’acqua, le mani aggrappate agli ar­

busti. Gli arbusti ai quali si aggrappa il ragazzo cedono, lui scivola e sta per annegare. Bruno lo aiuta, lo salva, e con questo gesto cambia, diventa padre. È un po’ grossolano, ma forse si può approfondire. Bisogna che questo mo­

mento sia rapido, appena intravisto, che non appaia (agii occhi di Bruno e a

quelli dello spettatore) il punto di svolta. Bruno non deve rendersi conto di quanto accade, di quanto è appena accaduto, deve continuare a comportarsi

come prima. I moti dell’anima restano invisibili, sotterranei. Il suo gesto di fronte al ragazzo non deve sembrare eroico. Non ha deciso lui di compierlo. È sorpreso da questo gesto che gli è uscito. Muore subito dopo, oppure se­ gretamente qualcosa è cominciato, qualcosa che proseguirà? Quale legame tra tutto questo e Sonia? Non sparirà troppo a lungo dallo schermo? È ancora

necessaria? L’amore di Sonia, e l’amore per Sonia hanno ancora qualche importanza nel cammino verso il riscatto di Bruno? Non starò sopprimendo

il ruolo di Sonia, il ruolo della donna?

23/10/2003 Bruno vende suo figlio. Sceglie la morte. Come ritrovare la vita? La sceneggiatura è ancora troppo persa nelle idee, nei moti psicologi­

ci dei personaggi. Bisogna trovare degli , oggetti, dei piccoli gesti concreti,

degli stratagemmi. Ne La promessa avevamo trovato il Tippex con cui Igor maschera i denti cariati, in Rosetta la pesca con la bottiglia e il filo di ferro

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usato per chiudersi dentro il chiosco delle cialde, ne II figlio la cintura di cuoio di Olivier e il metro pieghevole con cui Francis misura la distanza fra

il suo piede e quello di Olivier. Qui non c'è ancora nessun attrezzo, nessun accessorio come quelli. È brutto segno. 0 cinema consiste comunque nel

filmare degli attrezzi molto concreti come le soprammaniche di Chariot su cui la monella scrive le parole della canzone, come la corda per l'evasione intrecciata dal luogotenente Fontaine con i brandelli di lenzuola e il filo di

ferro della rete del letto. Il cinema si interessa all’accessorio. Nel cinema, l’essenziale è l’accessorio.

24/10/2003 Chi è Bruno? Cosa vuole? Cosa cerca? Non lo so affatto. Jean-Pierre

neppure. Ci sfugge. Più di ogni altro personaggio che abbiamo mai inventato

finora. Come non portarlo alla morte? Sembra che cerchi proprio quella.

26/10/2003 Ho visto Mystic River di Clint Elastwood. Non c’è catarsi in questa tra­

gedia. Le mogli degli eroi, specialmente la moglie di Dave, impediscono che abbia luogo il processo di riconoscimento, che la verità si manifesti e fermi la propagazione del male. Alla fine del film, il figlio di Dave in cima a un carro di carnevale passa fra tutti i protagonisti riuniti per la festa del

quartiere. Murato nella sua sofferenza, in cima al carro di carnevale, questo bambino ci dice che il male non ha ancora finito il suo corso e che ha già ar­

ruolato la prossima generazione. Nessuno può fermarlo. Jimmy non parlerà e non sarà mai un nuovo padre per il bambino. Sua moglie lo esorta a sogni di potere ben più gratificanti. Nemmeno la madre del bambino parlerà. Il

suo sguardo esprime già la follia che sta per annientarla. Nemmeno Sean parlerà. È contento di aver ritrovato sua moglie e il suo bebé. Starà zitto.

Sarà appena capace di un gesto infantile privo di qualunque influenza sul corso delle cose. E allora chi salverà questo bambino? Chi lo libererà dal male? Chi li libererà, lui e tutti quelli che lo seguiranno? Chi? Resta solo il bambino stesso. Il bambino che si suiciderà. Forse è proprio per questo che

si trova già in cima al carro.

01/11/2003 Il film che scriviamo non appartiene a un’altra famiglia. Assomiglia ai

tre precedenti. Se dobbiamo cambiare, sarà per la prossima volta, o anche

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più in là. Vedremo. Strano, e dire che noi avevamo cominciato con l’idea di fare un film differente. Come diceva Michaux, l’artista non è padrone a casa

propria. Fortunatamente.

04/11/2003 Riparlando al telefono con Jean-Pierre di Scene da un matrimonio di Bergman, del modo in cui ha evitato gli stereotipi nelle scene di lite, ho ripensato alla scena dell’ospedale, quando Bruno si avvicina a Sonia distesa

sul letto, incosciente. Benché abbia fatto quel che ha fatto, Bruno potrebbe

avere un gesto d’amore per lei. Dal suo punto di vista, il fatto di aver ven­ duto il bambino non ha intaccato il suo amore per Sonia, né l’amore che

Sonia ha per lui. Potrebbe accarezzare il volto di Sonia, o baciarla. Questo

rafforzerebbe l’incoscienza, l’irrealtà, l’irresponsabilità nella quale fluttua e nello stesso tempo sarebbe un gesto d’amore per Sonia. Prendere sul serio il fatto che Bruno non capisca come Sonia possa soffrire per la scomparsa

di suo figlio. Lui la ama ma vende loro figlio e non vede perché Sonia non

dovrebbe amarlo più.

06/11/2003 Ho appena riletto II racconto d’inverno di Shakespeare. Avevo bisogno di rimettermi alla ricerca di Mamilio, il giovane principe, figlio di Leonte ed

Ermione. Non ho mai capito perché la sua morte sia così dimenticata nella

riconciliazione finale. Perché Ermione non ricorda la morte di suo figlio?

Certo, Leonte spende per lui qualche parola prima di incontrare il giovane Florizel, ma è così poco, così poco per uno che è morto innocente. Durante la mia ultima lettura mi è apparso qualcosa di nuovo. Se Ermione non dice niente su Mamilio forse è solo perché non vuole dire niente, perché sa che

solo il silenzio consente di non ricomprendere Mamilio nella riconciliazione

generale, che solo il silenzio, ben diverso dal silenzio dell’oblio, può dire,

proprio in mezzo a questi bei ritrovamenti, che il perdono non permette co­ munque il riscatto della morte del suo bambino innocente.

La scena (3, atto III) della scoperta del nuovo nato (Perdita) da parte del

pastore, mentre il figlio gli racconta le scene spettacolari di morte e di mas­ sacro che ha appena scoperto, è una scena magnifica, che vive di contrasti.

E, senza troppo sembrare, ci dice molte cose sul lavoro del cineasta, sul suo

sguardo. Al figlio che gli racconta gli spettacoli terribili che ha appena visto

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(un anziano uomo ucciso e divorato da un orso e l'intero equipaggio di un va­

scello morto annegato nelle onde della tempesta), il pastore risponde: «Fossi stato lì vicino, per aiutare il vecchio!». Il figlio gli risponde: «Meglio se foste

stato vicino alla nave, per aiutare lei - alla vostra carità sarebbe mancato il terreno sotto i piedi». E il pastore aggiunge: «Brutto aliare, brutto affare! Ma

guarda qui, ragazzo. Coraggio: tu t’imbatti in cose che muoiono, io in cose appena nate. Ecco uno spettacolo per te!». Un bambino appena nato, la na­ scita di un movimento, la vita, sono cose da guardare! Dunque sono cose da

filmare! Il nostro modo di andare in soccorso del vecchio. Se il cinema perde questa illusione, perde la sua ragion d'essere.

Ho rivisto (in dvd) Accattone di Pasolini. Accattone è stanco, al limite

dello sfinimento. Cammina, cammina molto, sempre vacillante, sul punto di crollare. Anche Bruno è stanco. Qualcosa avvicina questi due giovani

uomini, questi due ladri. Preso dalla polizia durante l’ultimo furto, il furto della mortadella. Accattone riesce a fuggire. Un poliziotto gli urla: «Perché scappi, tanto ti conosciamo!». «Per morire» risponde l’ultima inquadratura

del film. Bruno morirà? Lo penso spesso, e anche Jean-Pierre. A volte invece penso il contrario. Accattone muore, ma c’è la musica di Johann Sebastian Bach. Mouchette muore ma c'è la musica di Monteverdi. E se Bruno muore,

non c’è nessuna musica?

07/11/2003 «[Christmas] pensava che fosse la solitudine quello che tentava di sfug­

gire, e non se stesso. Ma la strada andava avanti: come per un gatto, anche

per lui un posto valeva l’altro. Ma da nessuna parte riusciva a essere sereno. E la strada andava avanti, secondo i suoi stati d’animo e le sue fasi, sempre deserta: avrebbe potuto vedersi in un’incarnazione dietro l’altra, sempre in

silenzio, condannato a muoversi, spinto dal coraggio di una disperazione...»

Come Christmas di Luce d'agosto, come Accattone, Bruno è condannato al movimento, sospinto dal coraggio della disperazione... Come Christmas, po­

trebbe arrivare a pensare: «Questa non è la mia vita. Cosa ci faccio, io, qui».

Come Accattone al momento di morire, potrebbe dire: «Mo’ sto bene». Potrà pensare che si tratti della sua vita, di essere al suo posto lì, senza che quella vita, quel posto e quel momento siano quelli della sua morte? Potrà salvarsi

da se stesso, essere salvato da se stesso senza passare per la morte?

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Non so spiegare perché, ma mi rendo conto che più vado avanti nella scrittura della sceneggiatura, più il fiume (la Mosa) acquista importanza.

Jean-Pierre crede che sia bene aver sistemato il rifugio di Bruno lungo il fiume.

21/11/2003 Discussione con Jean-Pierre sul terzo movimento del film. Non possiamo

procedere in linea retta. Deve essere più carico. Essere nella materia, non nella costruzione drammatica, nello sguardo, non nell’intreccio.

30/11/2003 Lunga conversazione telefonica con Jean-Pierre. Rischio di spingermi

troppo nella drammaturgia del riscatto. Tornare ai corpi, agli accessori, ai luoghi, ai muri, alle porte, al fiume. Partire dal concreto, non dalle idee, o al­

meno aspettare che l’idea sia dimenticata ed eventualmente ricompaia come

qualcosa di concreto che ne rappresenti la traccia. 1 momenti essenziali per la scrittura delle nostre sceneggiature sono quelli spesi nel dimenticare le idee. È per questo che ci vuole così tanto tempo.

04/12/2003 Il film potrebbe intitolarsi II ragazzo con la carrozzina. Questo titolo ri­

manda a un accessorio. Anche se il titolo è brutto, potrebbe innescare un

meccanismo che riguarda la carrozzina. Eppure era lì, quella carrozzina,

abbandonata sul lungofiume dove tornavo con Bruno, ma non la vedevo. Ho telefonato a Jean-Pierre che la pensa come me. La carrozzina potrebbe salvarci. Altro accessorio che ha guadagnato spazio e permette di costruire

delle scene: il cellulare di Bruno.

08/12/2003 Museo del cinema. Ho visto La ragazza con la valigia di Valerio Zurli-

ni. Molto bello. Intenso. Aida (Claudia Cardinale) nella scena delle scale è piena di desiderio, quando si ferma, si toglie il turbante e guarda Lorenzo (Jacques Perrin). Ho avuto l’impressione di mettere radici in quel punto. Mi è piaciuta anche la scena della spiaggia. È costruita ma resta viva, impreve­

dibile. Il finale del film con la scena della busta è formidabile. Povera Aida. Bella e viva Aida. Ho pensato a Sonia e Bruno, al desiderio che li attira l’uno verso l’altra. Non devo dimenticare che il loro corpo è sessuato, che

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si attraggono, sono attratti l’uno dall’altra. Il desiderio circola fra loro, non smette di circolare, altrimenti il film non riuscirà. Dimenticare la Sonia di

Dostoevskij. Sonia è un corpo di donna, una natura erotica. Ricordarsi però anche della Sonia di Dostoevskij perchè la natura erotica di Sonia non basta

a provocare la conversione di Bruno.

12/12/2003 Alla fine Sonia e Bruno piangono. Piangono. Lacrime, lacrime e ancora lacrime. E non è triste.

30/12/2003 Mi è caduto l’occhio su una foto di Semira Adamu su un giornale. Mi

guarda da sopra la sua mano, la sua bella, lunga e fragile mano... Oggi avrebbe venticinque anni. Vivrebbe qui in Belgio o in Nigeria, o forse altro­ ve. È stata uccisa a Bruxelles il ventidue settembre millenovecentonovan-

totto, sull’aereo che la riportava con la forza nel suo paese. È stata uccisa da tre membri delle forze dell’ordine che la tenevano ferma sul suo seggiolino

premendole un cuscino sul viso per soffocare le sue urla di protesta. Non

aveva neppure vent’anni.

31/12/2003 Ogni volta che devo descrivere il comportamento di Bruno ho voglia di scrivere: come se quello che faceva o quello che gli facevano non lo riguar­

dasse, come se lui non ci fosse. Incontro sempre più spesso gente che non c’è. Non so dove siano (forse

nella loro immagine?), ma non ci sono. Strana società, questa, che produce individui che non ci sono, che non ci sono per gli altri, che non ci sono per

se stessi, per i quali non c’è nessuno. Alla fine del film, Bruno ci sarà.

02/01/2004 Cambio tutta la terza parte della sceneggiatura. Siamo troppo sbilanciati

verso l’amore. Sul cammino di Bruno c’è anche la legge. Bruno non cambia

solo grazie all’amore di Sonia. Ha bisogno di vivere qualcosa che faccia in modo che la legge cominci a esistere per lui, che le cose acquistino peso,

che alla fine lui ci sia, fermato, in debito, che veda per la prima volta cosa ha fatto, finalmente capace di dire: «Sono io». Quando abbiamo redatto un

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primo schema della sceneggiatura, abbiamo appuntato che Bruno potreb­

be essere malato, che questo stato potrebbe immobilizzarlo e costringerlo

a stare da solo. Sentivamo che gli ci voleva questo ritomo a se stesso per cambiare, per liberarsi da quel vortice di immagini nelle quali lui si ama e

che gli impediscono di amare. La malattia non basta a fermare quel vortice. Inoltre permetterebbe a Bruno di presentarsi come vittima di fronte a Sonia,

che finirebbe per diventare la sua infermiera, la madre. Brutto guazzabuglio

melodrammatico. Bisogna che Sonia resti ferma nel suo rifiuto di Bruno, che sia proprio lui, invece, a vivere una situazione concreta e inattesa che lo tra­

sforma (forse con Steve, quando lo tira fuori dal fiume, lo porta sulle spalle, accende un fuoco nel camino di una casa abbandonata per scaldarlo?) solo dopo questa trasformazione Sonia potrà tornare da lui. Trasformazione che

però la situazione vissuta con Steve non deve spiegare. Questo resta opaco, misterioso.

03/01/2004 Alla fine del film, c’è una riconciliazione come quella di Giuseppe con i

suoi fratelli che l’avevano venduto e avevano mentito al padre. Eccetto che qui è il colpevole, Bruno, a piangere per primo. La scena non scadrà nel cat­

tivo melodramma? Vedremo durante le riprese. Per vedere se funziona, per

trovare il modo di farlo funzionare, bisogna essere sul set, girare le scene.

06/01/2004 Bruno si costituirà. Un lungo movimento dopo aver tirato fuori Steve dall’acqua, dopo averlo visto arrestato dalla polizia. È il movimento solitario di Bruno che mancava, il suo rapporto con la legge. Restano da trovare le

inquadrature che non esprimano questo movimento ma che gli permettano di svilupparsi come al loro interno, invisibile, segreto. Abbiamo chiamato Jérémie Renier. Potrebbe essere Bruno. Ci vedremo presto a Bruxelles. Ha l’indolenza, la leggerezza, il riso di Bruno. È strano

che non ci avessimo pensato prima. Forse è grazie a Bruno che abbiamo pensato a lui. Sono contento di rivederlo.

10/01/2004 Alla fine Sonia aspetterà Bruno da sola, senza Jimmy. Lui schiuderà le

labbra per parlare. Nominerà il figlio per la prima volta, dirà: «Jimmy». Sarà

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tanto più forte se il bambino è assente. Forse bisognerà girare la scena anche con il bambino? Vedremo man mano che le riprese procederanno. Anche per

questo film gireremo in continuità per sentire l’evoluzione dei personaggi,

per essere impregnati di loro, diventare loro, per essere in grado di decidere cosa possono o non possono fare e dire, se bisogna oppure no girare in una

certa ambientazione prevista dalla sceneggiatura. Girare in continuità è il nostro metodo da La promessa. Più andiamo avanti con le riprese e più i per­

sonaggi prendono corpo, le loro parole e i loro comportamenti si impongono

(tanto agli attori quanto a noi), più abbiamo il coraggio di riscrivere delle

scene o di sopprimerle.

12/01/2004 Forse bisognerebbe fare una scena di Bruno che spinge lo scooter con una gomma forata nel mercato di Seraing? Farlo passare in mezzo a tutta quella frutta, quegli ortaggi, quei tessuti, quei colori, quelle lingue, quei

suoni, tutta quella vita variopinta, gli farebbe sentire la vita che sta per la­ sciare, o che, al contrario, sta per ritrovare. Tutta una vita che continuerebbe

ad accompagnarlo anche nella sua solitaria attraversata del ponte. Vederlo

in mezzo alla gente e poi senza nessuno intomo potrebbe essere una buona cosa per il ritmo. Da venticinque anni cerchiamo di filmare questo mercato

di Seraing, di trovargli un posto nei nostri film.

16/01/2004 Ho appena riletto le ultime pagine di Psicanalisi delle acque di Gaston Bachelard. Scrive: «[...] la liquidità è (...) il desiderio stesso del linguaggio. Il linguaggio vuole scorrere. [...] Dov’è il nostro originario dolore? È perché abbiamo esitato a parlare... Esso è nato nelle ore in cui abbiamo accumulato

in noi le cose mute. Il ruscello vi insegnerà a parlare ugualmente, nonostan­

te le pene e i ricordi [...].» Ripenso al film Ce gamin-là di Renaud Victor, a Janmari, questo ragazzino autistico che viveva con Deligny nelle Cevenne. Bruno potrebbe guardare lo scorrere dell’acqua, con la voglia di parlare, con

la voglia di piangere. Forse fare una scena con Bruno e l’acqua della Mosa.

Ci sarà un motivo se il suo rifugio è sull’argine della Mosa. Attenzione a non

fare una scena in cui Bruno «esprima» la sua interiorità.

23/01/2004 Ho finito la prima versione della sceneggiatura ma non ho un titolo. Ne-

anche Jean-Pierre. Strano, perché troviamo sempre abbastanza presto un ti­ tolo per inquadrare la nostra storia, ci aiuta ad arrivare all’essenziale. È vero che abbiamo lavorato con tre titoli che ci hanno permesso di andare avanti: La forza deU'amore, il riscatto, Vivere. L’ultimo titolo mi ha permesso di non

bloccarmi negli sviluppi di un intreccio chiuso. Insomma, lo spero.

03/02/2004 Jean-Pierre ha letto la prima versione della sceneggiatura che abbia­ mo provvisoriamente intitolato L'enfanl. Il primo lungo movimento, fino alla scena in cui Sonia molla Bruno, gli è piaciuto, ma il secondo, fino alla fine, gli è sembrato troppo costruito, soprattutto il modo in cui Sonia si riavvicina

a Bruno. Gli sembra che il personaggio della madre arrivi in modo troppo

arbitrario. Pensa che la costruzione troppo chiusa del secondo movimento

dipenda dalla presenza dei malviventi che reclamano i loro soldi. Questo introduce una necessità drammatica che impedisce al personaggio di Bruno di esistere come nel primo movimento. Ha ragione. Credo anche che sia ne­

cessario fare in modo che la madre arrivi in qualche altra maniera, chiamata per qualcosa che serve a Bruno, perché ha bisogno di lei, le domanderà dei

soldi, un documento ufficiale o qualcos’altro. Non credo che lei debba spa­ rire. Bisogna portare a termine il ritorno di Sonia verso Bruno diversamente

che con la scena dello snack bar dove Bruno va a guardare Sonia al lavoro. Inutile dare un lavoro a Sonia. Siamo troppo avanti nella storia e troppo

incentrati su Bruno per introdurre questo nuovo elemento. Qualcosa verso Sonia prima di andare a costituirsi, ma cosa? Passare di nuovo da Sonia, ma

lei non c’è? Ci troviamo venerdì per rivedere le scene una per una e per fare

un nuovo schema del secondo movimento. Per fortuna siamo in due.

09/02/2004 Scrivo la seconda versione della sceneggiatura. Mi sforzo di evitare gli

«io» e i «tu» nei dialoghi tra Bruno e la mala durante gli scambi di oggetti e di soldi. Tutto viene fatto in nome di nessuno. Nessuno è responsabile. Nessuno è colpevole.

14/03/2004 Ho appena terminato la quarta versione della sceneggiatura. Credo che il titolo L'enfant sia giusto anche se forse è un po’ astratto come titolo di un

film. Ho scritto una nuova scena tra Bruno e sua madre, con apparizione

104

fugace di un «patrigno». Scena banale e tremenda.

26/03/2004 Lavoro sulla sesta stesura tenendo conto delle osservazioni di Jean-

Pierre e Denis sulle scene che seguono l’annegamento di Steve. Sopprimo la scena nella casa abbandonata con Bruno che accendeva il fuoco per ri­

scaldare Steve. Troppo lunga e soprattutto uno scenario in più che li isola, li protegge. Se restano all’imbarcadero sono più in pericolo, la polizia può

sorprenderli. Bruno sfrega i piedi e i polpacci di Steve per riscaldarlo. Tomo

suUa stesura precedente per la partenza di Bruno al momento dell’arresto di Steve. Non importa far credere che Bruno stesse per fuggire con i soldi

quando si accorge che Steve è arrestato dalla polizia. Nessun motivo di ag­ giungergli quest’ultimo tradimento. È fuori luogo e sarà interpretato come un abbandono che replica l’abbandono di Jimmy e porta Bruno al pentimento.

Significherebbe dare una spiegazione all’evoluzione di Bruno, rendere espli­ cito, visibile ciò che lo modifica. Non credo che Bruno sia portato verso il riscatto da un nuovo errore morale e quindi dal rafforzamento del senso di colpa. Vivendo quello che vive con Steve, si scopre diverso da com’era, esce dalla sua disperazione.

02/06/2004 Ho visto Sarabanda di Ingmar Bergman. Filmare delle donne, non delle attrici ma delle donne. Solo Bergman lo sa fare. 11 corpo di una donna filmato

da Bergman. Non c’è più corpo in quel corpo che morte nella morte. L’ultima

inquadratura del suo ultimo film è quella di una donna. Non un’attrice ma una donna. Noi sapremo mai filmare il corpo di una donna? Forse la nostra

impossibilità.

11/06/2004 Ho parlato con Morgan al telefono. Non lavora più sui tetti. Gli hanno proposto due film.

06/07/2004 L’osservazione principale dei primi lettori e lettrici della sceneggiatu­

ra è stata notare che stavamo per girare in campi più lunghi e quindi con

meno movimento. In effetti deve esserci questo desiderio. Forse a causa del fiume oppure il contrario: c’è il fiume perché c’era questo desiderio di

toc

allargamento. Non lo so. In ogni caso faremo ciò che sentiremo necessario nel momento in cui lo faremo. Il fatto di pensare che gireremo in campo più

lungo, in modo più calmo rassicura i distributori. Noi non ne siamo per nien­ te rassicurati. Diffidare dei paesaggi industriali che soffocano i volti, i corpi. Non filmare scenari. Non appena qualcuno della troupe dirà: «È bello» noi

dovremo dirci: «Ci inganniamo». Diffidare più che mai della sindrome di Je

pense à vous, anche quella una storia tra uomo e donna negli scenari indu­ striali di Seraing.

11/07/2004 Ho rivisto II ragazzo selvaggio di Francois Thiffaut. Ogni volta mi com­ muove l’immagine del ragazzo selvaggio che corre sotto la pioggia in giar­

dino. La sua ultima corsa da ragazzo selvaggio. La sua ultima ebbrezza. Im­ magine vista attraverso il vetro di una finestra di casa. Ricordo. Paradiso perduto. Necessariamente attraverso il vetro della finestra. L’allegra marma­

glia di bambini di Mandelstam. Sento le loro urla, le loro risate attraverso la finestra.

16/07/2004 Abbiamo fatto più riprese possibili con la nostra videocamera digitale nello scenario della tana di Bruno in riva alla Mosa. Una specie di picco­

lo bunker abbandonato che riparava delle saracinesche servite a trattenere

l’acqua che passava negli impianti di pulitura e raffreddamento di un lami­ natoio. È in larga parte ricoperto da piante rampicanti e davanti alla porta di

ferro arrugginito cade dal tetto un fitto intreccio di liane e vilucchi. Abbiamo la sensazione di essere in un luogo delle origini. Scrivendo la sceneggiatura e durante i nostri primi sopralluoghi, non pensavamo a un posto simile. È un apporto della realtà.

18/07/2004 A Londra con Emmanuelle per vedere l’esposizione di Edward Hopper.

La luce cade in rettangoli sul pavimento, sui muri. Cade orizzontale. Un

brutto scherzo. Niente per accoglierla. Niente per rinviarla. I corpi, come sulla scena, si mettono in posa per riscaldarsi lì ma non sentono nessun

calore, non ne trasmettono nessuno. Il pittore vorrebbe dipingere ma non ci riesce più. Trucca. È diventato un tassidermista. Le case, i corpi, gli spazi

tra i corpi, il cielo, il suolo, tutto è riempito, pieno di un silenzio denso. Più

19A

nessuno grida né griderà. Nessun bambino è scappato. È troppo vero. Mi

mette di cattivo umore.

21/07/2004 Narciso non si sente mai così bello come quando può disperare di se

stesso.

22/07/2004 Ho visto (in televisione) Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures di Claude Lanzmann. Un atto di vendetta. Un atto di giustizia. Indissociabili. Un atto

umano, così degnamente umano.

27/07/2004 Parliamo senza tregua del modo in cui gireremo L’enfant. Cercheremo di non congelare la vita nelle inquadrature, di lasciarla passare, traboccare. Vedremo. Soprattutto non fare il film prima di farlo. Restare al bivio! Al bivio! Dentro!

29/07/2004 Possono le nostre immagini sfuggire alla prima immagine, al cadavere?

Come sfuggire alla potenza paralizzante della prima immagine? Non è forse essa che dal fondo di tutte le altre immagini continua a tenerci in pugno? Non è forse essa che continua ad affascinarci, che inchioda le nostre im­

magini e i nostri sguardi, che ci spinge alla ricerca dello «stile», della per­

fezione? Solo la morte è perfetta. Qualcosa che tende a irrigidirmi e contro cui lotto.

30/07/2004 Da un mese passiamo ore e ore negli spazi scenici a discutere di tutto e niente, ogni tanto del film. A volte con la nostra macchina da presa digitale

ci riprendiamo, Jean-Pierre e io, interpretando i gesti dei personaggi. Ne­

cessario per impregnarci dei luoghi, dei personaggi. Necessario anche per condividere ancor meglio la stessa intuizione del film.

03/08/2004 Abbiamo visionato tutte le prove delle inquadrature girate con la mac­

china da presa digitale negli spazi scenici. La cucina dell’appartamento di

197

Sonia è troppo grande. Torniamo a quello che aveva progettato Igor Gabriel

(il nostro scenografo): una cucina senza finestre, un metro e mezzo di lar­ ghezza. Se la cucina è troppo grande, non occorre più che la lotta tra Bruno

e Sonia si svolga prima in cucina e poi in soggiorno. Basta la cucina. Prefe­

riamo che la lotta cominci in cucina e poi continui in soggiorno, in campo più lungo, senza spostare la macchina da presa dalla cucina. Forse ci inte­

resserà la cornice della porta.

10/08/2004 Fatto di cronaca a Liegi. Due individui di una trentina d'anni hanno liti­

gato sul prezzo di una PlayStation che l'uno rivendeva all’altro. Sono venuti alle mani. Uno ha ucciso l’altro.

11/08/2004

,

Raccontato da un insegnante: dopo la scuola riaccompagna a casa un bambino. La famiglia è povera, la casa piccola. Il padre lo fa entrare nella

stanza di casa che si è riservato e che è vietata ai figli. Vi ha installato un impianto hi-fi con cuffie, uno schermo televisivo con la PlayStation e un

computer.

20/08/2004 Gli attori (Jérémie Renier et Déborah Francois, presto anche Jérémie Segard) sono con noi. Cominceremo le prove negli spazi scenici e passeremo un po' di tempo con la capo costumista (Monic Parelle) per trovare gli abiti

dei personaggi. Per noi la prova costumi è fondamentale per scoprire i per­

sonaggi, per vederli. Esitiamo molto e a lungo. Il fatto che gli attori passino molte ore con noi a provare gli abiti li aiuta a diventare il loro personaggio, a disfarsi delle immagini che hanno di se stessi e del personaggio. Con gli at­

tori parliamo raramente dei personaggi, eccetto durante queste sedute della

prova costumi. Ne parliamo scegliendo una gonna invece di un’altra, il colo­ re di una T-shirt invece di un altro, un tessuto invece di un altro e tornando continuamente sulle nostre scelte. Abbiamo deciso di girare per dodici settimane (tredici o quattordici se

necessario) e in super 16 mm. Preferiamo investire i soldi nel tempo. Ci vor­ rà tempo per girare questo film. Tenteremo di girare ogni scena in vari piano sequenza anche se alcuni comporteranno momenti privi di interesse. Accu-

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mulare i materiali, cercare di non chiudersi in un solo piano sequenza anche

se quest’ultimo ci sembra il migliore e l’unico modo di filmare la scena.

26/08/2004 Proviamo le scene principali. La prima cosa che cerchiamo di fare con gli attori (professionisti o no) è annullare le immagini di cui sono prigionieri

e le immagini, strettamente legate alle altre, in cui gli attori imprigionano il personaggio che devono interpretare, diventare. Quando queste immagini

cadono, è come una liberazione. Finalmente i personaggi sono lì, sempli­

cemente lì. Cerchiamo di fare questo lavoro anche su noi stessi per quelle immagini in cui rischiamo di chiudere i personaggi.

Abbiamo telefonato a Jérémie Renier per sapere quale cognome voleva

mettere sulla carta di identità di Bruno che gli servirà al momento del ri­ conoscimento del bambino. Ha risposto spontaneamente: « Michaux. » È il cognome di Igor ne La promessa, il figlio di Roger.

18/09/2004 Cominciamo le riprese lunedì. Non dobbiamo essere prigionieri della nostra esperienza ascoltandola o restandole sordi. Facile a dirsi! Avere espe­ rienza non è bene per il cineasta. L’esperienza lo sterilizza, rende triste tutto

ciò che lui vede. Crede di poterci fare affidamento, ma essa l’ha intrappolato in una forma in seno alla quale la sua arte ha cominciato a evolvere. Rosalinda: «E la vostra esperienza vi rende triste. Preferisco un matto che mi renda allegro a un’esperienza che mi faccia triste». Dato che a questo punto abbiamo una comune esperienza come cineasti, forse è impossibile che io possa essere il matto di mio fratello o lui il mio. Chi o cosa sarà il nostro matto in questo film? L’attore? Jérémie Renier?

Peter Brook ha scritto che l’attore può essere il matto del regista. Il matto,

più leggero, sente prima e meglio in quale direzione muoversi e, come se

niente fosse, vi guida.

29/09/2004 Buona giornata di riprese lungo la Mosa. Ancora una volta abbiamo sperimentato che un’inquadratura inventata insieme ad altri (con gli attori,

ion

l’operatore, il direttore della fotografia, il tecnico del suono...) è migliore, più viva di quella che proponevamo noi all’inizio.

01/10/2004 I movimenti del corpo di Benott Dervaux (l’operatore) dietro la macchi­

na da presa sono più delicati, più vivi, più sentiti e complessi di qualsiasi movimento realizzato con l’aiuto di un macchinario. Il suo busto, il bacino,

le gambe, i piedi sono quelli di un ballerino. Con Amaury Duquenne (il suo assistente) che lo accompagna e lo sostiene nei movimenti, formano un solo

corpo-macchina da presa.

10/10/2004 Abbiamo girato giù diverse scene che prevedono «piccole parti» inter­

pretate da attori che arrivano sul set la mattina e con cui non abbiamo potuto lavorare insieme prima. È un peccato per loro e per il film. Mancanza di tempo! Abbiamo notato che a questi attori che, viste le circostanze, tendo­

no a interpretare il personaggio ricorrendo alla loro tecnica, a un momento ben preciso dovevamo dare delle indicazioni che li disorientassero perché

fossero più vivi e ritrovassero ciò che la loro tecnica tendeva a celare. In­

tanto bisogna provare la scena una decina di volte, lasciando loro il tempo

di ambientarsi, di bloccarsi nella loro tecnica, e poi dare un’indicazione che freni la tecnica e al tempo stesso annunciare che le prove sono finite e

si gira immediatamente. Stamane abbiamo lavorato con un attore (un bravo

attore) che durante le prove volgeva lo sguardo al compagno in un punto preciso della battuta. Esattamente prima di girare gli abbiamo detto: «Non offrirgli il tuo sguardo su questa parola ma su quella precedente». È stato

disorientato ed è stato molto bravo, è stato molto vivo. Anche il suo partner. Anche l’inquadratura.

11/10/2004 Molte risate nelle scene d’apertura tra Bruno e Sonia. Più di quante

avessimo immaginato scrivendo la sceneggiatura o provando. La risata di Bruno deve esserci anche nelle scene in cui è solo, senza Sonia. C’è la scena

della scoreggia con Steve ma non basta.

23/10/2004 Abbiamo girato due volte la scena del momento in cui Bruno annun-

130

eia a Sonia che ha venduto il bambino. Entrambe pessime. Il giorno dopo ne abbiamo provata una terza con Bruno che aspetta l’arrivo di Sonia nel nascondiglio. Quando abbiamo cominciato le prove, Jérémie è andato nel nascondiglio. Poco dopo siamo entrati lì dentro per parlargli e l’abbiamo tro­ vato seduto per terra, le ginocchia vicino al viso. Quella posizione del corpo che tradiva un misto di vergogna e sfida poteva essere solo una posizione

del corpo di Bruno. Ci è balzato agli occhi. Bruno era lì davanti a noi, in un modo che ancora non avevamo immaginato. Jérémie era diventato Bruno e ci stava guidando verso la nuova realizzazione della scena, quella buona.

17/11/2004 Le parole non possono venire dove lui si aspetta. Solo gli occhi. Possono rimetterlo in piedi. All’incrocio! L’asfalto! All’incrocio! Lui te ne supplica.

Prendilo. Prendilo integralmente negli occhi. Le sue labbra tremano. I tuoi occhi! fl respiro dei tuoi occhi! Scorre di nuovo il sangue di sua madre sul

suo corpo. I tuoi occhi! All’incrocio!

09/12/2004 Sono le diciotto. Abbiamo finito le riprese alle quindici e quaranta con l’inquadratura di Bruno che attraversa il pont d’Ougrée spingendo lo scoo­

ter con la ruota forata. La stessa inquadratura (girata un mese fa) di Bruno quando spinge la carrozzina. La stessa inquadratura di Igor quando porta la

borsa di Assita ne La promessa. Jérémie aveva appena compiuto quindici anni, aveva dato vita a Igor, il figlio di Roger. Ha appena dato vita a Bruno, oltre le nostre aspettative. Ha continuamente proposto, provato delle varian­

ti. Mai nessuna rigidità. Sempre complessità, vita. Grazie, Jérémie.

06/01/200S Incontro a Liegi con Jean-Pierre Limosin per preparare il suo film sul nostro lavoro. Ci ha ricordato che all’uscita di Rosetta avevamo detto che il

personaggio di Rosetta richiama il personaggio di un documentario di Johan Van Der Keuken, una ragazza di Groninger che appare in De nieuwe ijstijd (La nuova era glaciale). Non me ne ricordavo più ma è vero. Quella ragazza

fa l’operaia in una fabbrica di gelati e anche Rosetta, all’inizio del nostro film, lavora in una fabbrica di gelati. È analfabeta come i genitori e il fratel­ lo. Una famiglia umiliata, degradata. Come Rosetta e sua madre. Mi ricordo

del momento in cui è seduta sul letto nella sua minuscola camera e cerca di

leggere una lettera d’amore che le ha scritto il ragazzo che ama. Soffre di non

riuscire a leggere. Si scontra con ogni lettera, ogni sillaba, ogni parola. La macchina da presa del cineasta, come se non potesse fare altro che testimo­

niare, portare soccorso a quella sofferenza, allo sforzo inaudito per decifrare

le parole d’amore inaccessibili, comincia a spostarsi con piccoli movimenti

panoramici tesi, i movimenti poi si allargano, sbattono contro i muri della minuscola camera al ritmo delle lettere, delle sillabe, delle parole che, con difficoltà, vittoriosamente, escono dalla bocca della ragazza. Lo sguardo del cineasta è stato chiamato dallo sgomento della persona che lui filmava. Da

quel richiamo è nata un’inquadratura, una forma unica, nuova, che altrimen­ ti non sarebbe mai nata.

21/01/2005 Nell’ambito di un dossier intitolato «Da Auschwitz a Norimberga», il

quotidiano Le Monde di oggi, venerdì 21 gennaio 2005, pubblica la foto

di George Rodger che ritrae Sieg Maandag, un giovane ebreo olandese so­

pravvissuto, mentre avanza lungo un cammino disseminato di cadaveri dei

detenuti a Bergen-Belsen, intomo al 20 aprile 1945. Quel ragazzo ebreo non aveva nessun motivo per camminare, lui, sopravvissuto, solo, così vicino ai

margini di quel cammino cosparso di cadaveri di detenuti, probabilmente

glielo aveva chiesto il fotografo. Quello che il fotografo non poteva avergli chiesto, quello che appartiene a Sieg Maandag, è il suo modo di esserci,

di camminare a fianco dei cadaveri, con la faccia leggermente girata come se esprimesse la sofferenza di camminare lungo tutti quei morti. Cammina verso il fotografo cercando di guardare l’obiettivo, socchiudendo gli occhi

con una smorfia, come infastidito dal sole o forse dall’odore dei cadaveri.

Lui c’è, l’orrore c’è e anche il rispetto per tutti quei morti ai quali presta il suo volto.

André Green, in Perché il male?, scrive: «Uimmagine per me più elo­ quente di un film sul ghetto di Varsavia è quella dell’indifferenza sovrana di

due ufficiali nazisti che attraversano una strada disseminata di cadaveri, che sembra non vedano. Il sadico non può che identificarsi col masochismo del proprio compagno (l’inverso è ugualmente vero). Qui, il male riposa sull’in­ differenza del boia verso il volto del suo simile, considerato come estraneo

assoluto e, perfino, come estraneo dell’umanità».

Il»

27/01/2005 Sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Sessantanni

dopo, che atteggiamento assumere di fronte ad Auschwitz? L’emozione che

ci vince di fronte alle immagini, alle testimonianze dei sopravvissuti, è un momento di vera compassione per tutti gli ebrei che sono stati vittime del

genocidio. Una compassione reale e sorprendente che sembra autorizzare una nuova fiammata di sospetto, di risentimento, di odio nei confronti degli ebrei israeliani, che fuoriescono dall’immagine della vittima. L’antisemiti­ smo vive nelle profondità abissali, viene da lontano, da molto lontano, da

lontanissimo, da sempre più lontano. Sessantanni dopo, che atteggiamento

assumere di fronte ad Auschwitz? Scendere più possibile nel profondo, negli estremi recessi di noi stessi, delle nostre famiglie, delle nostre religioni e

tradizioni, delle nostre nazioni, delle nostre più oscure genealogie, per cer­ care di vedere come e perché «l’ebreo» sia inesorabilmente identificato con

il «colpevole». Noi siamo colpevoli di questa mancata discesa. Sessantanni

dopo, che atteggiamento assumere di fronte ad Auschwitz? Pensare che Au­ schwitz non sia mai stata liberata, cioè non credere mai di esserci liberati

dell’antisemitismo.

05/02/2005 Viviamo soli, barricati dietro le nostre immagini, in allerta, pronti a di­ fenderci, ad attaccare, a comunicare noi stessi, come se fossimo angosciati

dall’imminenza della nostra morte. Noi moriamo più vecchi di cinquantanni

fa, ma viviamo con il sentimento sempre più opprimente dell’imminenza della morte. Non ne possiamo più di farci esistere di fronte agli altri, di fron­ te a noi stessi. A volte, la sera, soli nel nostro letto o in bagno, scoppiamo

in singhiozzi.

08/02/2005 Per il prossimo film, probabilmente una giovane donna che ha tutti i

motivi per essere disperata e che continua a credere che tutto sia possibile.

Una credente in un certo senso, anche se Dio è morto. Esplorazione di que­ ste poche frasi di Kierkegaard ne La malattia mortale: «Il credente possiede il contravveleno assolutamente sicuro contro la disperazione: la possibilità,

perché a Dio tutto è possibile in qualunque momento. [...] Mancare di pos­

sibilità significa o che per un uomo tutto è diventato necessario, o che tutto

è diventato trivialità». Contro coloro che la circondano, lei rifiuta di pensare

che tutto sia necessario o triviale, lei continua a credere che tutto sia pos­

sibile. Forse riesce a trasmettere questa convinzione, questa «possibilità» a un altro. Una donna che non crede in Dio come può credere che tutto sia possibile? Da dove le viene questa folle speranza? È strana, controcorrente. Un personaggio di fantasia vola sempre contro il vento.

12/02/2005 Versione numero undici del montaggio de L’enfant. Il film dura circa

novantadue minuti. Forse dovremo montare ancora qualche altra versione,

ma il ritmo sembra esserci. Ci accorgiamo che ciò che abbiamo filmato è

Bruno che aspetta (spesso con un muro alle spalle) e a quanto pare ci piace filmarlo così (Bruno, ovvero l’attore, Jérémie), mentre aspetta, in piedi o seduto. Aspetta l’uomo che deve uscire dal bistrot, aspetta i soldi, aspetta

che suoni il cellulare, aspetta l’apertura delle porte dell’autobus, aspetta l’ascensore, aspetta il passaggio della commessa per rubarle la borsa, aspet­

ta che sua madre apra la porta di casa, aspetta che il poliziotto arrivi dietro

lo sportello, aspetta Sonia, aspetta il bambino, aspetta Steve, aspetta i traf­ ficanti, aspetta l’infermiera... Cosa aspetta durante tutte queste attese? Cosa

aspetta? Aspetta le lacrime, aspetta il cedimento, la perdita delle forze. Non il movimento di un riscatto, di una risurrezione, ma la rottura di un movi­ mento, la tregua, il cedimento che gli permette di vedere Sonia lì, davanti a lui e di vedere Jimmy che, pur non essendoci fisicamente, è comunque lì davanti a lui, davanti a Bruno, in lacrime.

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