Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo 9788885716254, 9788885716261

«Unde nihil»? Riallacciandosi alla «magna quaestio» che scuote e anima il filosofare, il volume raccoglie quattro studi

104 72 560KB

Italian Pages 85 [88] Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo
 9788885716254, 9788885716261

Table of contents :
Nomen Nullius
Verba Trutinantes
Via Moderna
Apocalyptica Tuba

Citation preview

1

Federico Croci

Deus Terribilis Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo

2

3

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

4

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 10 - Proposte

5

Federico Croci

Deus Terribilis

Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo

6

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 10 - gennaio 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716254 ISBN – E-book: 9788885716261

Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Rome - The fresco The God the Father giving his blessing by Aiuto del Pinturicchio (1489-1491) in Basso della Rovere chapel in church Basilica di Santa Maria del Popolo. © Fotolia. Autore - Renáta Sedmáková

7

8

9

Antes de volver a dormirme imaginé (vi) un universo plástico, cambiante, lleno de maravilloso azar, un cielo elástico, un sol que de pronto falta o se queda fijo o cambia de forma. Ansié la dispersión de las duras constelaciones, esa sucia propaganda luminosa del Trust Divino Relojero. Julio Cortázar, Rayuela

10

11

Nota introduttiva

«Vuoi imparare la grammatica, fratello? Apprendi a declinare ‘Dio’ al plurale». Per il tema oggetto del volume, nessuna citazione appare più indicata di questa di Pier Damiani. Netta e caustica: soprattutto, perché rende con incisività la centralità del rapporto, nella riflessione medioevale, tra il problema dell’onnipotenza divina e la filosofia del linguaggio. Quattro studi, quattro autori: Fredegiso di Tours, Pier Damiani, Guglielmo da Ockham, Nicola di Autrecourt. Il legame tra costoro, più che storico, è speculativo. Vanamente si potrebbe cercare una qualche lettura di Fredegiso in un autore come Nicola: eppure, l’abisso aporetico che Fredegiso spalanca, riproponendo in forma antifrastica la celebre aporetica del nulla, ha moltissimo a che vedere con la dissoluzione scettica della logica che Nicola ha tenacemente perseguito negli ultimi decenni, controversi e incandescenti, della scolastica. Parimenti, Pier Damiani non è un autore che Guglielmo da Ockham prenda seriamente in considerazione discutendo il tema dell’onnipotenza divina: ciononostante, il contingenti-

12

smo occamiano non sarebbe mai sorto senza la reazione anselmiana al discorso del Ravennate. Per la loro brevità, i quattro saggi non pretendono né a una completezza storico-filologica, né a un’esaustività teoretica: piuttosto, li presentiamo come tracce a coloro che vogliano addentrarsi nella silva delle dispute medievali. Ogni foresta custodisce in sé rovi intricati, agevoli sentieri, radure luminose: sta a ciascuno scegliere il cammino che preferisce, optando per un percorso breve, che permetta uno sguardo d’insieme sulla vasta ricchezza che gli si presenta allo sguardo, oppure prediligendo un passo lento e meditativo. Per la brevità dei quattro scritti, crediamo che sia del tutto inutile e contro-produttivo esporre in una nota introduttiva una loro sinossi: inutile, in quanto si rischierebbe una ripetizione meccanica e imprecisa del loro contenuto; contro-produttivo, poiché riteniamo che la filosofia si maturi per viam, seguendo passo passo lo svolgersi del ragionamento. Va precisato, invece, il significato dell’opera, vale a dire la ragione che ci ha spinti ad accostare quattro autori così diversi tra loro per epoca, biografia, temperamento, convinzioni filosofiche. L’aporetica del nulla, suscitata da Platone nel Sofista e radicalizzata nel Parmenide sino a esiti scettici, riemerge in tutta la sua portata nella brevissima epistula di Fredegiso, la cui rilevanza è attestata dalla reazione di sconcerto che immediatamente suscitò nell’Augustus Carolus. Essa rifiuta in toto la soluzione aristotelico-agostiniana, legando direttamente il problema della significatività del nulla al tema dello statuto del linguaggio e della creazione divina. Si comprende l’interessamento angosciato di Carlo, allora impegnato nel sogno di una ricostruzione dell’Impero Romano

13

per mezzo di una unificazione religiosa e linguistica, fondata sul comune Cristianesimo e sulla riscoperta del latino. Il tentativo anselmiano di recuperare l’argomentazione di Agostino si muove sul piano linguistico contro Fredegiso e sul livello teologico contro Pier Damiani: proprio una teoria del linguaggio come quella di Fredegiso offre la più salda fondazione a una trattazione dell’onnipotenza divina come quella esposta da Pier Damiani. Una gnoseologia scettica, che faccia del linguaggio niente più che una trappola per i vaniloqui dei vichiani ‘dotti boriosi’, è ciò che di meglio si accosta a un Dio concepito come assolutamente arbitrario. Proprio il tema dell’onnipotenza divina rappresenta uno dei cardini della filosofia medievale. La scolastica si sviluppa in netta opposizione alle conclusioni sconcertanti a cui giunge Pier Damiani: autori diversissimi come Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto, Guglielmo da Ockham sono tutti accomunati dalla radicata convinzione che a Dio sia indisponibile una creazione de potentia absoluta, cioè tale che permetta di sovvertire le leggi logiche che ordinano la realtà. Ammettere la revocabilità del principio di contraddizione, infatti, porrebbe capo a un concetto di Dio come puro Arbitrio – un ‘Dio s-catenato’, per riprendere un’incisiva espressione di Alfredo Gatto1 –, nella cui disponibilità rientrerebbe la stessa distinzione tra bene e male. Rientrerebbe, in ultima istanza, anche se stesso: un Dio che potrebbe anche non essere Dio, un Dio che, prima di essere Dio, È.

1. A. Gatto, Giovanni Gentile e il dramma della modernità. Percorsi storicocritici nell’attualismo, in F. Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile, Inschibboleth, Roma 2016, p. 98.

14

Mai bestemmia più grave potrebbe profanare le orecchie dei grandi dottori. Pier Damiani è ben lontano da una simile ammissione: pur tuttavia, essa è la conseguenza diretta del suo ragionamento, che solo come postulato può ammettere una presunta irrevocabilità dell’essenza morale di Dio. Il cor inquietum di Descartes, del tutto ignaro del precedente illustre del Ravennate, trarrà l’ultima conseguenza, dissolvendo simbolicamente la scolastica in un ritorno al punto dal quale aveva preso avvio la sua parabola storica. La via moderna appare, paradossalmente, precedere e seguire la via antiqua, in un chiastico intreccio di nodi irrisolti.

15

Capitolo primo Nomen Nullius

L’aporetica del nulla rappresenta il problema sicuramente più spinoso in cui la filosofia sia incappata nel suo sorgere. Si può affermare che la storia dell’indagine di quest’aporia abbia due direzioni fondamentali. La prima, che coincide con l’analisi platonica del Sofista, porta a concludere che il nulla sia semantizzabile secondo due modalità distinte: come quel non-essere che si riduce al non-ente, cioè all’ente diverso dall’ente in esame; come non-essere opposto all’essere, vale a dire come nulla assoluto. Platone esclude il secondo tipo di semantizzazione, che conduce a esiti parmenidei, sebbene un discorso diverso dovrebbe essere fatto intorno al Parmenide1. La seconda è quella di Aristotele: sviluppando l’argomentazione platonica, lo Stagirita conclude che l’aporia di questo secondo tipo di semantizzazione nemmeno si costituisce, in quanto la proposizione ‘il nulla è nulla’ non predica l’esistenza del nulla, ma solo la propria identità con sé.

1. Cfr. F. Croci, Il gioco senza fine. Henologia ed epistemologia nel Sofista e nel Parmenide di Platone, in “Giornale di Metafisica”, 2 (2015), pp. 497-512.

16

Come è evidente, la soluzione aristotelica è lungi dall’essere accettabile, poiché nella proposizione il soggetto e il predicato sono trattati come due res: potrebbe darsi identità di ciò che non ha un positivo significare? E, anche ammettendo che il soggetto e il predicato esprimano la pura insignificanza, che cosa è la pura insignificanza2? In sintesi, Aristotele suggerisce che il nome ‘nulla’ sia una nozione priva di referente reale, una pura entità mentale, una costruzione dialettica. Questo tipo di argomentazione, come si vedrà a breve, verrà ritenuto indiscutibile da buona parte della tradizione successiva, per giungere a innervare la meditazione medievale. Scontrandosi in questa sede, tuttavia, con un’obiezione radicale, che affonda le sue radici nel dettato scritturistico: se la Sacra Scrittura insegna che Dio crea ex nihilo, che cosa è, allora, questo nulla? L’aporetica risorge, con rinnovata potenza, nell’alveo del circolo franco di Alcuino di York, per opera di uno dei suoi più stretti collaboratori: Fredegiso di Tours. All’interno di un brevissimo scritto, Fredegiso pone in forma antinomica la domanda cruciale dell’aporetica del nulla: ‘nihilne aliquid sit, an non’. La questione, che Fredegiso ha la pretesa di aver sciolto, riannodato e ricondotto alla luce («absolvi atque enodavi, detersoque nubilo in lucem restitui»)3, è tutta raccolta nella 2. Cfr. F. Croci, Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele, in “Il Pensare”, III (2014), pp. 46-53. Cfr. anche F. Croci, Dell’Uno e dei Molti. Henologia e henofania da Platone a Schelling, pref. di V. Vitiello, Le Lettere, Firenze 2017, pp. 16-107. 3. Cfr. Fredegisus Turonensis, De nihilo et tenebris, a cura di F. D’Agostini, Il Melangolo, Genova 1998, p. 140.

17

celebre antifrasi4 del nulla: il nulla non è nulla. Se così si risponde alla domanda se il nulla sia o meno qualcosa, o tale risposta è o una contraddizione (il nulla non è ciò che è, cioè nulla), oppure si deve ammettere che non solo il nulla esiste, ma, pure, che è qualcosa, poiché gli si applica il principio di identità. Anche quando si voglia negare esistenza al nulla – dicendo, appunto, che il nulla è nulla –, lo si esistentifica necessariamente: colui che vuol negare il nulla, dum dicit, lo afferma. Come è noto, la logica alto-medievale è una logica del nome, più che dell’inferenza: non a caso, essa sarà la base della disputa sugli universali. L’elemento davvero notevole dell’argomentazione riposa nel fatto che Fredegiso è del tutto pedissequo ad Aristotele in questa formulazione5: il soggetto di una proposizione vera indica una res. Ciò comporta che non si può imputare a Fredegiso la confusione tra uso esistentivo e uso predicativo della copula, poiché l’uso predicativo implica l’esistenza del soggetto di cui si predica qualcosa. L’aporetica conduce, pertanto, al problema della referenzialità: la sintassi logica mostra l’impossibilità di negare il nulla e, al contempo, ne espone la contraddittorietà semantica. Fredegiso procede con un secondo ordine di domande, che specificano l’aporetica e la riconducono al suo sfondo linguistico: i termini ‘nulla’ e ‘tenebre’ hanno un significato? Se sì, essi sono nomina finita, cioè voces significativae che si riferiscono a cose esistenti: infatti, ogni nome finito significa qualcosa; ‘nulla’, essendo un suono dotato di significato, si riferisce (refertur) alla cosa che significa, che comprendiamo proprio per mezzo del nome. Infatti, ogni significato si riferisce a ciò 4. L’antifrasi è una parola o un’espressione che afferma il contrario di ciò che dice: una forma logica di ironia, che implica il ribaltamento continuo di ciò che viene significato nel proprio opposto. 5. Cfr. Aristotele, Categorie, 10, 13b, 12-19.

18

che per mezzo della vox viene significato come a qualcosa di esistente. Questa precisazione pare tagliare alla radice ogni controbiezione di tipo agostiniano-anselmiano, che considera il nulla come un nomen infinitum – come un elemento operazionale, per utilizzare la terminologia freghiana –: per questa tradizione, di chiara filiazione aristotelica, il nulla non sarebbe un aliquid, ma la mera indicazione della privazione-assenza dell’aliquid (come è, ad esempio, ‘non-uomo’). Fredegiso, invece, non si volge al significato relativo del nulla come negazione del determinato: egli vuole scrutare il nulla nel suo significato assoluto e radicale. Nel De magistro6 Agostino aveva affermato che il nihil non può significare una res, in quanto l’id quod non est, che il nulla significa, non è una res, pena la contraddizione di un positivo significare del nulla; di conseguenza, esso non è un signum. Sorgeva, allora, il problema di spiegare come mai vi sia la parola nihil, se essa non è il signum di una res: Agostino concludeva che tale termine è un signum che significa l’affectio subita dall’anima, la quale, tuttavia, non è causata da una res né a una res si riferisce, bensì da una suppositio mentis. Per Agostino il nihil non significa una res, ma un modo soggettivo di rapportarci alla realtà: non pertiene al piano ontologico, ma a quello psicologico. Se il nihil fosse un qualcosa, ci si troverebbe invischiati in una absurdissima res7.

6. Cfr. Aurelius Augustinus, De magistro, II,3-4. 7. Cfr. J.A. Mora Angarita, Signo y lenguage en los principios de la catequética de San Agustin. Del De Magistro al De catechizandis rudibus, LUP, Roma 2016, pp. 37-59.

19

La questione era stata approfondita da Agostino nel De Genesi ad litteram8: il nihil non sta più a indicare un’affectio animae, bensì viene definito una res cogitabile per privazione da ciò che è; tale soluzione permette di affermare con più rigore che il nihil non rimanda a una res, ma a un mero concetto costruito per privazione dal concetto di esse. Agostino, pertanto, veniva a sostenere che la pensabilità di X non richiede la sua esistenza, in quanto può essere dedotta dall’esistenza del suo contrario: in questo modo veniva spiegata anche la pensabilità di realtà non attuali, come la Resurrezione del Cristo, il cui significato è eterno. Ogni affermazione positiva sul nihil del tipo ‘il nihil è nihil’ si rivela, concludeva Agostino, sempre come una proposizione negativa, essendo il nihil nulla più che non aliquid: ‘nihil est non aliquid’ equivale a dire ‘nihil non est aliquid’. Agostino, tuttavia, era restato perfettamente cosciente che il problema non veniva così risolto: «Transeamus ergo inc, quomodo se habet, ne res assurdissima nobis accidat. – Quae tandem? – Si nihil nos teneat, et moras patiamur»9. Contro Agostino, Fredegiso è netto nell’optare per un realismo-naturalismo onomastico puro, secondo cui il linguaggio si riferisce perfettamente alla realtà e ogni parola corrisponde per natura a una cosa: pertanto, pronunciando una vox, immediatamente se ne comprende il significato e il referente reale. Questa aderenza è garantita da Dio, che nell’atto della creazione pone in essere le cose con la parola: non può esistere un nome che si riferisca a qualcosa di esistente solamente nella 8. Cfr. Aurelius Augustinus, De Genesi ad litteram, VIII,16,34. 9. Aurelius Augustinus, De magistro, I,2.

20

mente o che sia il mero segno di un’operazione, poiché ciò implicherebbe distinguere il linguaggio dalla realtà; sostenere che nella realtà ci siano diversi modi di esistenza (mentale, fisico ecc.) non toglie che tutti siano ugualmente reali. Significatum secundum forma loquendi e significatum secundum rem si identificano: una vox è significativa quando designa un concetto (intellectus), il cui significatum è una res10. Questo non è un presupposto, ma il risultato dell’indagine di Fredegiso: grammaticalmente egli ritiene impossibile negare la parola nihil in virtù della sua struttura grammaticale: nomen finitum, vox significativa e significatio si rivelano aspetti della res. Il nulla non è negabile identificandolo alla pura insignificanza. Tuttavia, se il discorso arriva a concludere che il nulla è aliquid, non può dire che cosa e come esso sia. Il nulla è innegabile è, al contempo, non esiste, poiché è nulla.

10. Sulle fonti di Fredegiso, cfr. l’introduzione di D’Agostino all’Epistula, pp. 31-34. Quello che pare sfuggire alla curatrice nelle sue conclusioni (pp. 118-134) è che il nulla non è il soggetto di una contraddizione, ma è la realtà della contraddizione stessa: il nulla non è il mero soggetto della proposizione, ma è il soggetto, il predicato e la relazione di entrambi; è l’intera proposizione. Da qui il fraintendimento che muove l’ultima parte della sua ottima introduzione, in cui si intende il nulla come il non esistere della totalità delle cose, o come una sorta di vuoto interno all’essere e suo limite (il contorno di un buco), o come ciò che è totalmente al di là dell’essere: visione viziata da fisicalismo (i limiti dell’essere come confini dell’universo, la singolarità che ‘precede’ il Big Bang) e che riporta a una visione del nulla come mera assenza-privazione di qualcosa, foss’anche della totalità delle cose, o come un orizzonte meta-linguistico; visione che, paradossalmente, è proprio la contraria di quella avanzata da Fredegiso, essendo propria di Agostino e Anselmo. Ciò diviene chiaro se si considera il punto di partenza della discussione, cioè l’equivalenza tra realtà e linguaggio: se tutto è linguaggio, il dissolversi del linguaggio non è un trascendere il linguaggio o la realtà, ma rilevarne l’implicita contraddittorietà; dire dis-dicendo.

21

Anselmo d’Aosta tenterà di risolvere la questione, sostenendo che si è dinanzi a un difetto dell’usus loquendi, poiché il linguaggio, negando l’esistenza di ciò che non è, implicitamente lo esistentifica e lo tratta come una cosa, ingenerando una contraddizione. Per Anselmo il linguaggio, in quanto relazione ad altro (alla cosa), non può esprimere se non ciò che è strutturalmente relazionale: nel caso del nulla il linguaggio è deficiente, poiché pone in relazione la parola all’assenza di una cosa, così come, riferendosi a Dio, il linguaggio è manchevole in quanto esprime nella differenza e nella relazione la perfetta identità dell’essenza11. La strategia di Anselmo ha ben presente i risultati di Fredegiso12: se la questione del nulla è trattata solo da un punto di vista grammaticale, l’aporia è irrisolvibile; pertanto, l’attenzione va spostata dalla locutio sulla semantica, integrando la prolatio con la sententia, le quali si collegano, rispettivamente, all’appellatio e alla significatio13. La semantica, infatti, permette di distinguere la mera locutio, il significato grammaticale (sensus) e il significato logico (intellectus), la cui confusione porta all’impossibilis inconvenientia. Non si può, afferma Anselmo con tono deciso, essere pazzi al punto da sostenere, seguendo i deliramenta hominum, che il nulla sia una realtà, ma neppure si può negare che ‘nulla’ sia un nome. 11. Cfr. Anselmus Cantuariensis, De casu diaboli, XI. Cfr. anche Anselmus Cantuariensis, Monologion, 7-8 e 19. Inoltre, va rilevata l’oscillazione anselmiana tra ex nihilo e de nihilo. 12. Cfr. I. Sciuto, La semantica del nulla in Anselmo d’Aosta, in “Medioevo”, XV (1989), pp. 39-66. Sciuto ricostruisce analiticamente la continuità tra la formazione di Anselmo e la filosofia del linguaggio dell’Epistula. In particolare, chiaro è il parallelo tra l’evidenza del dum dicit di Fredegiso, riferito al nulla, e il cum audit di Anselmo, riferito al nome di Dio udito dall’insipiens. 13. Cfr. Anselmus Cantuariensis, De grammatico, 12.

22

Infatti, se la parola ‘nulla’ non significa una realtà, allora non significa nulla e non è una parola, contro l’assunto che la vuole come parola dotata di significato; se, invece, si afferma che essa significa una realtà, allora tale parola non significherà più il nulla e si avrà uno dei corni della contraddizione di Fredegiso. È qui che Anselmo sposta l’attenzione dalla grammatica alla semantica: concede a Fredegiso che il nulla, come tutti i termini, sia una vox significativa; soltanto, precisa che non significa un aliquid. La soluzione offerta rileva che, essendo equivalenti ‘nulla’ e ‘non-ente’, il termine ‘nulla’ è una parola che significa l’esclusione e la privazione della totalità della positività, cioè dell’ente: la significazione offerta è in un certo modo obliqua e negativa, poiché significa la realtà esclusa, ma non la rende presente, anzi ne sottolinea l’assenza; il termine ‘nulla’ è la significazione di una privazione di realtà. In altre parole, l’antifrasi di Fredegiso è decostruita nei suoi due momenti. Il nihil si riferisce a nihil e ad aliquid, ma non sub eodem, poiché, equivalendo il nihil a non-aliquid, comprende l’aliquid, ma come ciò che removet da sé. Il discepolo deuteragonista del dialogo, tuttavia, è insoddisfatto e incalza il maestro: il quale, pur ritenendo legittima l’insistenza, ribadisce che la soluzione offerta è l’unica razionale e che, al più, si può aggiungere che il termine ‘nulla’ significa solo una realtà (o, meglio, una funzione) grammaticale, «quae significat removendo, non costituendo». In quanto annulla (destruendo), il nihil non significa nulla, bensì qualcosa; in quanto costruisce [costituendo], non significa qualcosa, bensì nulla. Pertanto, conclude Anselmo, il nihil è un aliquid non secundum rem, ma solo secundum formam loquendi. La conclusione lascia aperta l’aporia, nonostante l’intento risolutorio di Anselmo: il nulla è una quasi-realtà, un non aliquid, la cui aporetica è impossibile da illuminare e domina-

23

re. In un certo senso, la realtà, che inevitabilmente gli si riferisce, non è tratta dall’oggettività esterna, ma dal pensiero. Il nulla è un aliquid che sorge in virtù della vis creativa del cogito e, pertanto, equivale a quello che sarà definito dagli scolastici come l’ens rationis, prodotto di un atto riflessivo dell’intelletto che toglie ogni positività noematica: nella locutio il pensare ‘esistentifica’ la vox che ha immaginato, pur mancando un riferimento reale oggettivo. In conclusione, quella che emerge in Anselmo è una teoria semantica del linguaggio, secondo cui la verità di una proposizione non coincide mai con la sua struttura formale, ma si fonda sul riferimento alla realtà oggettiva. Altrove, Anselmo14 precisa che una enunciatio è vera in primo luogo «quia significat ad quod significandum facta est», in secondo luogo in quanto mostra la realtà per come è o non è: il discorso, parlato o scritto, è arbitrario, dunque imperfetto e insufficiente. In altre parole, per Anselmo la validità del discorso si fonda non tanto sulla mera incontraddittorietà formale, bensì sulla rectitudo, cioè sull’adeguazione della res alla vox: qualora, come nel caso del nihil, si impieghino parole a cui non corrispondono cose, il parlare risultare vano esercizio. Fredegiso, nella sua discussione dell’antifrasi, è ben più radicale: sebbene questo assurdo sia impensabile – «impossibilis inconvenientia consequitur», aveva chiosato Anselmo –, l’identità di realtà e linguaggio deve condurre alla necessità di ammetterlo, poiché non ci si può accontentare di affermare, come fa Anselmo, che il linguaggio non riesce a esprimere tutto ciò che pensiamo. 14. Cfr. Anselmus Cantuariensis, De veritate, 2.

24

L’antifrasi assume i caratteri spettrali del procedimento elenchico: non solo perché il logo esige la conclusione, ma, pure, in quanto l’aporia è posta dall’esperienza, che in qualche modo incontra il nulla come un oggetto, sebbene paradossale. L’assunto realistico di Fredegiso è in esatta antitesi alla soluzione agostiniana: si assume che la negazione è sempre negazione di qualcosa che è positivamente affermato, anche solo implicitamente: essa presuppone una positività che, proprio in quanto negata, è affermata; se ciò non comporta alcun problema in riferimento agli enti, negare che il nulla sia implica assumerne la realtà, ingenerando l’identità degli opposti trascendentali. Il problema che Fredegiso solleva, non avvedendosene, è enorme: affermare l’esistere del nulla implica affermare, di fatto, la realtà della contraddizione, essendo la contraddizione affermare l’essere del non-essere (A) e il non-essere dell’essere (B) sub eodem, dove a essere contraddittori sono anche i due termini della contraddizione. Sono contraddittori, infatti, A, B e la loro identificazione. Unde nihil? Tale domanda, che scardina la dottrina dell’ex nihilo nihil, pone il discorso di fronte al tremendo: il nulla, come contraddizione reale, è ciò da cui il mondo è sorto; se è così, o il nulla è increato – ma si cadrebbe in una forma larvata di manicheismo –, oppure è a sua volta creato da Dio. Se in Agostino tale nulla, inteso come materia prima, era una quasi-realtà, Fredegiso lo intende come il puro nulla: si deve concludere che Dio crea il mondo operando, in primo luogo, la contraddizione, cioè facendo essere il nulla. Non vi sarebbe l’essere, se non vi fosse il nulla: non vi sarebbe l’incontraddittorio, se non vi fosse la contraddizione come orizzonte abissale che ricomprende l’incontraddittorio stesso e ne è la condizione di possibilità. Si è dinanzi a una contrad-

25

dizione esistente che precede la creazione del mondo incontraddittorio. Fredegiso porta all’innegabilità il celebre gioco proposto da Alcuino di York nella Disputatio Pippini cum Albino15, in cui alla domanda «Quid est quod est et non est?» l’ambigua risposta suonava «Nihil», potendo significare la parola sia l’assenza di un termine così designato, sia il nulla. Il dramma di quest’aporia è tutto raccolto nel «Videtur mihi nihil nec aliquid esse»: che cosa, dunque, mi appare essere mero nulla e non un qualcosa? Lo sfondo di realismo linguistico adottato non poteva portare che a questa conclusione, in cui si sottolinea l’innegabilità della contraddizione. Si richiama l’inizio dell’Epistula: l’aporetica del nulla è e risulta innegabile, pur essendo impossibile ad explicandum. Nihil nos teneat, et moras patiamur: nulla ci trattiene, eppure siamo trattenuti16. 15. Alcuinus, Disputatio Pippini, in PL 101, 980A. 16. F. d’Agostini, Il nulla e altri esistenti impensabili: una rilettura del De nihilo et tenebris, in “Divus Thomas”, CXVIII (2015), p. 25: «L’esperienza è comunque e sempre esperienza di qualcosa, dice ragionevolmente Fredegiso, ciò che assolutamente in nessun modo è non può essere esperito, neppure come assente. “Quod si aliquid esse videtur, ut non sit, quodammodo videri non potest”. Occorre prestare attenzione a questo scarto, perché mette in campo implicitamente una seconda figura dell’argomentazione, una figura che si potrebbe chiamare la continuità dell’esperienza. L’esperienza continua a essere esperienza di fronte al nulla, e alla mancanza; anche il negativo sta dentro all’esperire: esso “appare” fenomenicamente come qualsiasi altra cosa. Siamo di fronte a un elenchos analogo a quello che Agostino mette in campo nei Soliloqui per dimostrare l’innegabilità della verità: “se tutto il mondo perisse e con esso la verità stessa, sarebbe vero che il mondo e la verità stessa sono periti” (“verum erit veritatem occidisse”, II, 3). La verità ‘fa orizzonte’, diventa luogo onniabbracciante, e include anche la fine della verità; allo stesso modo, l’esperienza è l’orizzonte onnicomprensivo in cui si manifesta anche l’esperienza del nulla, dell’assente».

26

27

Capitolo secondo Verba Trutinantes

La filosofia è interrogazione e, in quanto tale, dubbio. Dubbio intorno agli enti, ma in primo luogo dubbio intorno alle cause degli enti e al Principio di essi. La filosofia interroga l’uomo intorno a Dio, intende tessere la trama che lega questi due poli. Quale la soluzione? Quale relatio corre tra il Principio delle cose e gli enti? Disperava già Damascio, l’ultimo dei neoplatonici, nell’esporre il chiasmo divino nel De principiis1: il Principio è anteriore o posteriore agli enti? Trascendente o immanente? Per l’ultimo dei neoplatonici pagani, nessuna salda risposta offre il logo. Nessun firmissimo principio. Se il Principio è il totalmente trascendente, allora di necessità tutte le cose procedono dopo di Esso e da Esso, che, in quanto Causa, diviene un coordinato al tutto, un immanente; viceversa, se esso è la parte somma della totalità delle cose, allora è parte del tutto e non più sua Causa.

1. Damascius, Traité des premiers principes, testo elaborato per L.G. Westerink e tradotto per J. Combès, 3 voll., Paris 1986-1991, aporie 1-8.

28

Per trovare la radicalizzazione del lato trascendentista dell’antinomia, si deve porre attenzione a un’epistola di uno schivo monaco ravennate. Il problema, su cui la teologia cristiana innesta il tentativo di preservare la trascendenza divina da possibili esiti immanentistici o panteistici derivati dalla filosofia di Giovanni Scoto Eriugena, è la domanda se la precedenza sia da attribuirsi all’intelletto o alla volontà divina, alla potenza o alla giustizia di Dio: come già si domandava Platone nell’Eutifrone, la questione è discernere se sia buono ciò che piace agli dèi o se piaccia agli dèi ciò che è buono. Fredegiso pone le basi epistemologiche che, da un punto di vista teoretico, permettono di comprendere la tematica teologica di Pier Damiani, tutta centrata sulla dimostrazione dell’assoluta trascendenza di Dio in virtù della sua onnipotenza, tanto estesa da poter operare la contraddizione nella forma della de-creazione del passato. Non è un caso che Anselmo formuli i principali argomenti di risposta sia a Fredegiso – ripresa della soluzione agostianiana del nulla come privazione-assenza dell’aliquid – sia a Pier Damiani – Dio è l’esistente necessario che non può non essere, né può operare la contraddizione2. Anselmo nega che Dio possa operare imperfezioni o malvagità sulla base dell’assunto che esse sono nulla e il nulla è nulla: Dio può volere solo qualcosa di positivo e il suo potere è sempre effettivo. Sebbene la conclusione sia identica a quella di Pier Damiani, l’intento è antitetico: entrambi rifiutano di ammettere che l’onnipotenza di Dio sia potenza di operare il male, ma, se Anselmo indaga le rationes necessariae dell’agi-

2. Cfr. F. Corvino, Necessità e libertà di Dio in Pier Damiani e Anselmo d’Aosta, in F. Corvino, Studi di filosofia medievale, Adriatica, Bari 1974, pp. 97-122.

29

re divino, Pier Damiani, invece, mira a sostenere la radicale contingenza del mondo e dell’agire divino stesso3. Teoreticamente Pier Damiani sviluppa e acuisce l’aporetica sollevata da Fredegiso: per l’abate di Tours, se il nome dice la cosa necessariamente, cioè si riferisce a qualcosa di esistente e creato da Dio, nulla può far sì che tale cosa non sia mai stata, poiché, altrimenti, la possibilità di revocare l’esser stata della cosa implicherebbe un nome senza riferimento4. La domanda con cui Pier Damiani apre il De divina omnipotentia è, pertanto, audace (audenter, 596C, 5): temerarietà è vizio che trascende la medietà, avrebbe incalzato Aristotele, quella μεσότης che è perfetta determinatezza e in campo etico riflette la compiuta stabilità del firmissimo principio, regolante l’esser ente in quanto ente, l’ente in atto – ché mai la potenza pura è, mai sono Notte e Chaos5. Le parole di Aristotele su questo punto risuonano chiare, nette, inappellabili: «Mόνου γὰρ αὐτοῦ καὶ ϑεὸς στερίσκεται, ἀγένητα ποιεῖν ἅσσ᾽ ἂν ᾖ πεπραγμένα»6. Sfidando l’autorità della filosofia, Pier Damiani si domanda se Dio possa tutto.

3. Cfr. anche W.J. Courtenay, Necessity and freedom in Anselm’s conception of God, in “Analecta Anselmiana”, 4 (1975), n. 2, pp. 39-64. Un’evoluzione dell’aporetica, più attenta alla posizione del Ravennate, si ha nel Cur Deus homo e nel dialogo incompiuto De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate, in cui si tenta una soluzione ‘grammaticale’ della problematica, fondata sullo studio dei significati dei verbi velle, posse e debere. 4. Fredegisus Turonensis, De nihilo et tenebris, p. 152: «Quod factum est, effici non potest, ut factum non fuerit. Quod vero semper non est, nec umquam fit, id numquam est». 5. Cfr. Aristotele, Metafisica, Λ, 1072a, 5-10. 6. Aristotele, Etica a Nicomaco, 1139b, 10, traduzione nostra: «La sola cosa vietata anche a dio è il far sì che ciò che è stato non sia mai stato». Il passo è una citazione di Agatone.

30

Può il Principio, incalza, annullare anche il passato? Può fare in modo che ciò che è stato non sia mai stato? Per il Ravennate il logo dei dialectici, allora emergenti allievi dello Stagirita, vuole imbrigliare Dio nella catena degli enunciati determinati, nella demoniaca struttura del sillogismo. La pretesa degli scolastici di tradizione tomista sarà di conoscere la natura come riflesso divino, come via a esso, in virtù dell’analogia entis: la natura deve essere perfettamente scrutata e posseduta nel concetto, mostrata come assolutamente regolare. Una natura perfettamente ‘naturale’, in cui il contro natura non ha posto. Echi stoici in queste proposizioni di sapore tomista. Tuttavia, se Dio è pensato come Colui-che-tutto-può, come il Principio che può in ogni istante ricreare il mondo – poiché modificare un elemento implica modificare l’infinita catena delle sue conseguenze, cioè ricreare l’intera storia universale –, la natura si mostra non avvinta nelle strette maglie delle regulae, ma metamorfica, flusso inesausto e mirabolante, continuo mutare di contingenze dove l’eccezione non conferma la regola, ma è vero proprio scacco alle mura, credute inespugnabili, del pensiero. La natura della natura, incalza Pier Damiani, è la volontà divina: la natura del creato è contro-natura per essenza, in quanto creata dal nulla da cui, secondo i logici, nulla è né può essere7. Voluntas naturans contra voluntas naturata. La logica finita dell’uomo, creatura fra creature, si scopre incapace di penetrare nei misteri dei consilia Dei.

7. Cfr. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, 612C, 33-35 e 46-48. Si veda anche: A. Gatto, Pier Damiani. Una teologia dell’onnipotenza, Aracne, Milano 2013.

31

«Ecce, frater, vis grammaticam discere? Disce Deum pluraliter declinare»8. Pier Damiani, osserva Wilhelm Weischedel9, è il perfetto contro-altare di Sigieri di Brabante, l’eretico averroista assurto da Dante nella corona tomista degli spiriti sapienti, intrecciato dal Poeta a quel Gioacchino da Fiore che chiude la corona di Bonaventura. La ragione domina e assorbe la fede, osserva il Brabantino. L’intelletto è famulus dell’illuminazione e del simbolo, della lectio scritturistica, controbatte il Ravennate10. L’assoluta onnipotenza che Damiani descrive è quella di un Dio totalmente altro, assolutamente trascendente: la spada che taglia il nodo del chiasmo damasciano è, per il monaco cardinale, solo l’intendere il Principio come Persona, al fine di salvarne la trascendenza. Contro quanto sostenuto da Agostino, per Pier Damiani non vi è in Dio alcuna memoria, né la memoria è traccia privilegiata per risalire a quell’Oblio in cui siede Dio, poiché, come l’ars disserendi, essa è strumento fluttuante tra le onde della contingenza, appiglio troppo malsicuro. L’intento di Damiani è mostrare che l’ars dialectica, in quanto finita, non può essere applicata a Dio, pena il ricavarne assurde bestemmie, quali quelle inerenti una presunta impotenza divina: al contrario, Dio è la fonte di validità della logica ed essa non può dimostrare nulla che vada contro il suo proprio Principio11.

8. Petrus Damiani, De sancta simplicitate scientiae inflanti anteponenda, in Die Briefe des Petrus Damiani, ed. K. Reindel, 4 voll., München, 19831993, vol. III (Brief 117), p. 317, 20-21. 9. Cfr. W. Weischedel, Il Dio dei filosofi. Fondamenti di una teologia filosofica nell’epoca del nichilismo, 3 voll., a cura di L. Mauro, Il Melangolo, Genova, 1988-1991, vol. I, pp. 141-142. 10. Cfr. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, 603D, 56-62. 11. La disputa tra i dialectici e i loro avversari, che giungerà al suo culmine nella disputa sulla transustanziazione tra Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia, nasceva da un diverso utilizzo delle fonti patristiche, in particolare di Agostino. Il vescovo di Ippona, infatti, sembra oscillare tra una conside-

32

L’avversario dialettico con cui Pier Damiani nel De divina omnipotentia deve confrontarsi è niente di meno che Girolamo, il quale, in un passo dell’Epistola a Eustachio, nega che Dio possa restituire la verginità a una donna che l’abbia persa12. La questione era stata sollevata da Gilberto Porretano13, che aveva preso posizione contro Girolamo in nome della radicale contingenza del reale, suscitando la reazione di Guglielmo d’Auxerre14. Tuttavia, Pier Damiani si muove su un terreno diverso da quello degli altri antidialettici, primo fra tutti Lanfranco di

razione negativa della dialettica, intesa come disciplina disputationis che è fonte della libido rixandi (De doctrina christiana, II,31,48), ed una positiva, secondo cui essa è consacrata quale disciplina disciplinarum (De ordine, II,13,18). 12. Cfr. Sophronius Eusebius Hieronymus, Epistula ad Eustochium de verginitatem, 5. Il problema, proposto in guisa più generale, suona così: può Dio fare in modo che ciò che è stato non sia mai stato, può cioè Dio annullare il passato? Pier Damiani non si avvede che l’autorità con cui si scontra non è più Girolamo, ma addirittura Agostino, il quale nel Contra Faustum manicheum (XXVI, 5) afferma esplicitamente che Dio non può negare o modificare il passato, poiché ciò equivarrebbe a identificare il vero con il falso. Per Agostino il principio di contraddizione è momento necessario della perfezione divina. 13. Gilbertus Porretanus, In Boethii De Trinitate, in PL LXIV, col. 1287: «Dicitur enim Deum semper esse, non modo quia fuit omni praeterito, est omni praesenti, erit omni futuro; verum etiam ante et post omnia tempora, vel actu et natura, vel saltem natura temporalium. Nam omne quod fuit, vel est, vel erit, essendi initium vel habuit, vel habet, vel habebit; finem verum quantum ad actum quidem non omnia, sed quantum ad naturam, et illius quo auctore sunt potestatem, omnia habent. Aeque etenim universa subiecta ejus potestati sunt, ut scilicet, sicut quaecumque fuerunt, possunt non fuisse, et quaecumque sunt vel erunt, possunt non esse». 14. Cfr. Guillelmus Autisiodorensis, Summa aurea, lib. I, tr. XI, c. VI, Quaracchi, 1980. Per Guglielmo l’atemporalità divina implica non solo l’immodificabilità di ciò che per noi appare come il passato, ma pure di ciò che appare come il futuro.

33

Pavia, pur condividendo con essi l’intendimento della dialectica come rhetorica, cioè quale arte formale della discussione, senza alcuna pretesa dimostrativo-fondativa e finalizzata a chiarificare e rendere esplicito ciò che è già offerto dalla fede come dato rivelato, autoevidente ex auctoritate. Il suo avversario è uno dei più venerandi Padri e il Ravennate non può negare forza alla ragione in virtù di un presunto primato dell’autorità fondato sul magistero della Chiesa15. In particolare, Pier Damiani rifiuta sia la lettera del testo, per cui si sostiene che in Dio vi sia qualche impotenza, sia l’interpretazione di Desiderio, abate di Montecassino e futuro papa Vittore III, per cui Dio non può in quanto non vuole. L’esegesi di Desiderio è, a parere del Ravennate, pericolosa, in quanto può essere ribaltata nell’affermazione che Dio non solo non può perché non vuole, ma non vuole perché non può: se la potenza divina coincide con la divina volontà in estensione, si potrebbe concludere che Egli può solo ciò che attualmente vuole, cioè ciò che fa, finendo con l’essere incatenato alla più ferrea necessità. Se Dio fa e può fare solo ciò che vuole e realizza, allora si giunge a una delineazione del divino identica a quella del necessitarismo avicenniano. Anzi, a ben vedere, l’uomo risulterebbe più potente di Dio, in quanto può fare anche cose che attualmente non fa. Contro l’interpretazione di Desiderio, Pier Damiani sottolinea che Dio è causa dell’esistenza delle cose e della loro sussistenza: ciò che Dio non compie non lo fa per impotenza, ma in quanto a fianco dell’onnipotenza e 15. Cfr. E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio. Due immagini di Dio nel dibattito sulla «potentia absoluta» fra XIII e XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 25, nota 37. Randi individua un altro possibile bersaglio polemico in Mario Vittorino, che, nell’Explanationes in Ciceronis Rhetoricam (I, 29), aveva presentato proprio questo caso come esemplificazione di argumentum necessarium.

34

della volontà vi sono pure la bontà e la giustizia divina. Il non potere il male non è un’impotenza divina, ma riflesso della sua essenziale bontà, quella medesima bontà, aliena da solitudine e mancanza, che lo spinse a creare16. L’elemento più interessante della diatriba è presentato poco dopo e consiste nell’affermazione che Dio può tutto, anche fare in modo che il passato non sia mai stato. I logici affermano che ciò che è e ciò che sta per avvenire sono necessariamente e sono fintanto che sono: allo stesso modo il passato, in quanto era, era necessariamente finché era. Si può dire che il passato non è più, ma non che non è stato e nemmeno che potesse non essere17. Su questo punto si incardina la feroce reazione del Ravennate, per cui la discussione dei saeculi sapientes, inoculatori di un dogma sacrilego («sacrilegi dogmatis inductores»), si mostra futile, qualora si ponga seriamente attenzione anche solo al modo e all’ordine della discussione, da lui giudicato vanamente formale18: per Pier Damiani, infatti, Dio contiene tutti i tempi e tutti gli spazi nell’assoluta e immobile onnipresenza; l’arte del dire deve limitarsi al campo dell’esposizione e della chiarificazione, magari colorita e fiorita, senza pretendere di disporre dell’essenza delle cose o di Dio. La prima critica pertiene lo statuto e i limiti dell’utilizzo del discorso: l’ars disserendi è mera logica, mai retorica. Operata questa precisazione, per cui si dovrebbe semplicemente impedire ai dialettici di occuparsi di simili problemi,

16. Cfr. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, 600A-B. 17. Ivi, 602D-603B. 18. Ivi, 604A-B.

35

Pier Damiani si concentra su una confutazione di essi nel loro stesso campo. La Scrittura non testimonia, forse, che il roveto ardeva dinanzi agli occhi di Mosè senza consumarsi, o che dal bastone di Aronne sono germogliate delle mandorle? E, ancora, il Figlio non è venuto nel mondo per mezzo del parto di una vergine? La legalità del creato è posta in ogni istante dalla libertà assoluta del potere divino: in ogni momento Dio può sovvertire l’ordine che Egli stesso ha posto. Perfino il principio firmissimo è, allora, una ‘creatura’ e rientra, pertanto, nell’ambito del contingente19. Il capitolo X espone con chiarezza che per i dialettici ciò che è risulta essere bene e non può non esser stato, cioè non esser stato bene: la bontà divina impedisce che Dio decrei il passato, pena il suo contraddirsi. Ciò è impedito non solo dall’essenza divina, ma da quella dell’ente stesso: l’ente non può, al contempo, esser-stato o non-esser-stato, per cui, parlando di un ente che è stato e non è stato, si discute, in realtà, di due enti diversi20. In sintesi, per i dialettici ciò che è stato mostra di essere un bene e Dio non può fare che non sia stato, poiché, altrimenti, lo farebbe divenire un male; parimenti, ciò che non è stato è un male e, se Dio facesse sì che fosse stato, farebbe di un bene un male, il che è altrettanto impossibile21. Pier Damiani controbatte che ciò implica assumere la trascendentalità del principio firmissimo a discapito dell’onnipotenza, cioè presumere che la bontà divina non possa far essere due contraddittori, qualora ciò sia buono: i dialettici operano 19. Cfr. I.M. Resnick, Divine power and possibility in St. Peter Damian’s De divina omnipotentia, Brill, Leiden 1992, p. 105. 20. Cfr. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, 612A, 14-20. 21. Ivi, 618B-C.

36

una petizione di principio, presupponendo che la bontà divina originariamente impedisca che Dio possa operare contraddittoriamente. La conclusione è inappellabile: «Cum ergo Deus omnia possit, cur addubitas Deum hoc posse ut aliquid simul sit et non sit, si hoc fieri bonum est?»22. Ciò che sfugge alla considerazione dei maestri della vana sapienza mondana, incalza Pier Damiani, è la contingenza del mondo: il Ravennate ribadisce che l’arte del dire è uno strumento importante per la chiarificazione dei concetti e delle verità di fede, ma non ha mai una sua autonomia. Nella considerazione del fatto anche la necessità logica, che il discorso esibisce, si fonda su quel ‘se’ in cui si concentra l’essenza assolutamente contingente di ogni ente creato: ogni creato è logicamente necessario, ma fenomenologicamente contingente. La contingenza dell’ente, l’accidentalità non solo del suo esistere, ma pure della sua essenza, è il fondamento di ogni necessità di tipo logico: un pensiero che voglia muoversi sola ratione, negando questo presupposto, nega, in realtà, se stesso. Una ragione che pretenda di discorrere di Dio come se fosse un oggetto come tanti è vana follia. La soluzione che sarà adottata dalla scolastica, per cui le leggi del pensiero umano sono valide con necessità assoluta in quanto sono le leggi stesse del pensiero divino, è ben presente all’attenzione del Ravennate, il quale ne coglie le potenzialità perniciose: se il principio di contraddizione fosse innegabile in quanto principio dell’intelletto divino, non solo si romperebbe la perfetta circolarità che sussiste tra intelletto e volontà divina, limitando

22. Ivi, 608D.

37

quest’ultima e l’onnipotenza divina – le quali non sarebbero più libere di creare le essenze, ma solo di esistentificarle –, ma, pure, si introdurrebbe il pericolo di intendere la differenza tra pensiero divino e umano non più in senso qualitativo – l’unica differenza che davvero mantiene l’infinità della distanza metafisica –, ma in senso quantitativo23. L’intera tradizione aristotelica è rigettata di colpo. Per lo Stagirita il volontarismo radicale che si prospetta sarebbe stato pura follia, poiché il fatto di ciò che esiste è ciò da cui si parte, il dato indubitabile: «Tὸ δ’ὅτι πρῶτον καὶ ἀρχή»24. Per Pier Damiani l’unico limite all’onnipotenza di Dio è che Egli non può il male: a suo parere, ciò non implica una vera limitazione, perché il male è nulla, non è né può essere, essendo l’assoluta negatività opposta all’assoluta positività divina; la bontà divina esige che Dio non possa il male, ma, non essendo il male una realtà, Dio può tutto25. 23. Galilei, in questo senso, è l’erede naturale di talune posizioni scolastiche. Cfr. Nicolaus de Autricuria, Tractatus utilis, a cura di A. Musu, ETS, Pisa 2009, pp. 244-246. Già il filosofo francese affermava che la differenza tra la sapienza di Dio e quella dell’uomo è una differenza nel numero di concetti posseduti, esauribile nel tempo con l’approssimarsi dell’Ultimo Giorno; l’uomo e Dio possiedono lo stesso grado di evidenza e di certezza circa ciò che conoscono. Per Galilei l’uomo nuovo, l’uomo divinizzato che vive la Gerusalemme celeste, è l’uomo che chiude il tempo, aprendosi all’eternità della perfetta comprensione che tutto conosce e tutto manipola, cioè tutto crea, non riconoscendo altro fine dalla perpetuazione della propria umanità. L’uomo nuovo evangelico è divenuto spirito assoluto, uomo-Dio (non più uomo divinizzato): l’epoca del sapere assoluto è il Tempo dove la quantità, hegelianamente, risolve in sé la qualità. 24. Cfr. Aristotele, Etica a Nicomaco, 1098b 2. 25. La conclusione di Pier Damiani va accuratamente distinta da quella di Gregorio di Rimini. Il Doctor Acutus, presentando la problematica dell’onnipotenza come una usitata quaestio, ammette sì che Dio passa modificare o annullare il passato, ma ritiene che ciò sia possibile in quanto non implica

38

Al contempo, l’onnipotenza divina non può esser tale da far sì che Dio neghi se stesso, cioè la propria bontà, ma in un senso ben diverso da come lo intendono i dialettici: la bontà divina è il sigillo e il limite della volontà divina e della creazione, per cui Dio crea in virtù della propria pura bontà, che nulla aggiunge alla sua essenza26. Perciò, limitata non è l’onnipotenza divina, ma la sua libertà: Dio non è libero di decreare se stesso, di abdicare alla propria essenza di Bene sommo. Al di sopra del caos inordinato del mondo, dove la contingenza non assicura nulla e tutto scorre, vi è l’immutabilità dell’essenza divina, la quale si mostra alla creatura come l’Ordine sommo, intrinsecamente morale: il sommo Bene. L’essenza divina è l’intrinseco ordine morale del Principio, il quale governa ogni manifestarsi ad intra e ad extra della potenza di Dio. Nel suo agire Dio è legato a un paradigma morale immutabile, che coincide con la sua stessa essenza: in quanto Egli è il Bene, non può che volere il bene. Tuttavia, si potrebbe domandare, è bene ciò che Dio vuole, o Dio vuole il bene? Infatti, se è bene ciò che Dio vuole, la posizione di Pier Damiani scivola nel volontarismo e arbitrarismo assoluto, dove alcun limite è posto all’onnipotenza divina, giacché è bene tutto ciò che essa vuole proprio in quanto è voluto dalla divina volontà. Una tale indifferenza divina alcuna contraddizione. Cfr. Gregorius Ariminensis, In I Sent., dist. 42-44, q. 1, art. 2, in Gregorius Ariminensis, Lectura supra primum et secundum librum Sententiarum, 7 voll., ed. A.D. Trapp, V. Marcolino, W. Eckermann, M. Santos-Noya, W. Schulze, W. Simon, W. Urban, V. Vendland, De Gruyter, Berlino-New York, 1979-1987, vol. III, p. 362, 2-6: «Tertia conclusio est quod quamlibet rem praeteritam potest dues facere non fuisse. Hanc probo primo sic: quamlibet rem praeteritam non fuisse non implicat contradictionem; igitur quamlibet praeteritam rem potest Deus facere non fuisse». 26. Cfr. Aurelius Augustinus, Enarrationes in Psalmos, 134,10.

39

renderebbe il volere divino un mistero imperscrutabile per la creatura e, come sottolineerà Leibniz, vano ogni tentativo di teodicea27. La potenza divina è infinita ad extra, non ad intra: seguendo Agostino, Pier Damiani vuole salvare l’assoluta trascendenza e personalità di Dio, mostrando l’assoluta necessità e immutabilità della sua essenza. Dio può tutto, anche la contraddizione, purché essa non contraddica l’incontraddittorietà della propria essenza, cioè fintanto che il contradditorio sia buono. La contraddizione che Dio può volere nel creato si fonda sull’incontraddittorietà trascendentale del proprio essere: la contraddittorietà è la legge del diveniente e del contingente solo perché sua Causa è l’Immutabile incontraddittorio. Gli scolastici si manterranno su posizione ben più miti di quella di Damiani. L’Angelico28 affermerà che Dio non può la contraddizione, cioè non può violare o modificare le nozioni degli enti, in particolare la nozione di ente in quanto ente: tutto ciò che si oppone alla nozione di ente in quanto ente (tutto ciò che nella propria nozione implica contraddizione) è escluso dall’onnipotenza divina. Perciò, per il Dottor Angelico in Dio sono limitate sia la potenza assoluta sia la potenza ordinata, sia l’intelletto sia la volontà: è più opportuno dire che ciò che viola la ratio entis non può essere fatto, piuttosto che affermare che

27. Cfr. A. Gatto, La possibilità di un inizio. Leibniz e la critica dell’indifferenza divina negli Essais de Théodicée, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”, 6 (2012), pp. 139-150. 28. Cfr. Thomas de Aquino, Summa theologiae, I, q. 25, a. 3.

40

Dio non lo può fare. Infatti, precisa Tommaso29, il possibile è per definizione ciò che può essere fatto o non fatto, ma che, in atto, è sempre fatto o non fatto; qualcosa che, al contempo, fosse fatta e non fatta sarebbe, pertanto, impossibile, cioè infattibile, anche per Dio. Pier Damiani sembra privilegiare l’onnipotenza rispetto all’infallibilità della prescienza divina30, ma il contrasto è solo apparente: per il monaco di Ravenna, più semplicemente, l’enfasi esclusiva sull’infallibilità divina porta a privilegiare alla genuina fede la coerenza dei discorsi logici umani, empiamente considerati quali strumenti valutativi dell’operare divino. Il logo umano, finito e temporale, costretto alla diacronicità del discorso, non può che affermare che Dio ha potuto far sì che ciò che è stato non sia stato e viceversa, cioè non può che accertare che Dio poteva far sì che il passato fosse differente, ma ora questa possibilità gli è preclusa. L’illuminazione, invece, insegna che l’onnipotenza divina non è soggetta al tempo, ma è sempre nell’istante, in cui sono tutti i tempi e i luoghi: sempre presente a Dio è ogni possibilità e solo il potest gli si addice, mai il potuit. Che il logo non riesca a concepirlo non implica una contraddizione in Dio o una limitazione della sua onnipotenza, bensì evidenzia la caducità della ragione umana, che può pensare

29. Cfr. anche Thomas de Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, I, dist. 42, q. 2, a. 2, a cura di R. Coggi, 10 voll., ESD, Bologna 1999-2002, vol. II, p. 840. 30. Una presa di posizione non così decisa, ma sempre volta ad affermare la libertà divina anche contro l’impossibilità, che gli uomini attribuiscono a Dio, di mutare volontà è quella del vescovo Tempiers: negli articoli 20, 23 e 24 della celebre condanna del 1277, marcatamente anti-necessitarista, il prelato afferma che niente, se non la contraddizione, si pone come limite all’azione divina, cosicché Egli può mutare opinione e ordine al mondo.

41

solo per momenti, rifrangendo il punto dell’essenza divina nell’articolazione triadica dei tempi in sé estranea a Dio31. In Dio tutto è presente: perciò, propriamente, anche il passato è in Lui un presente e la sua decreazione è un atto eterno. La particolarità della posizione di Damiani riposa nell’affermazione che l’atto con cui Dio decrea ciò che per l’uomo, immerso nella diacronicità temporale, è passato, coincide con il realizzare una contraddizione. La precarietà dell’ordo dicendi si fonda sulla fragilità o finitezza dell’ordo rerum: la conoscenza è precaria sia in quanto il suo oggetto è essenzialmente instabile, sia in quanto Dio potrebbe in ogni istante modificare completamente la modalità di apprensione degli enti. L’onnipotenza, coeterna a Dio, implica che ciò che Dio ha potuto dall’eternità, sempre può32. Questa conclusione è esattamente antitetica a quella esposta da Abelardo33, per cui concepire in questo modo l’onnipotenza implica distruggere l’idea di perfectio dell’agire divino, volto all’ordinatio. La perfezione della creazione implica la necessità sia dell’essere del mondo, sia del suo modo (la determinata configurazione in cui si esplicita) e l’onnipotenza è risolta nella puntualità dell’istante atemporale dell’aver creato. In Damiani, al contrario, l’assoluta onnipotenza divina implica l’assoluta contingenza del mondo, il totale ‘cum vult’: non solo Dio avrebbe potuto creare un mondo differente da questo, ma in ogni istante potrebbe totalmente modificarlo.

31. Cfr. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, 619B, 49-74. 32. Ivi, 17, 620A-B, 93-111. 33. Cfr. Abelardus, Theologia christiana, in PL 178, in particolare 1330B-C.

42

Nulla è impossibile a Dio34, poiché alcun limite è posto alla sua potenza assoluta e alla sua potenza ordinata. Potenza, ovviamente, infinita ad extra: l’infinita onnipotenza, l’attributo divino per eccellenza, rimane subordinata e dipendente dall’essenza divina, dal mistero inindagabile della sua Personalità. Dio tutto può, pure la contraddizione, ma non ad intra: la sua essenza è l’immutabile, l’ultima trascendenza che eccede anche il potere di Dio stesso. La trascendenza del Deus-Trinitas, su cui si fonda la sua Personalità, è l’immutabile giogo della necessità ultima, da cui nemmeno Dio è libero. Il Deus-Trinitas fonda la propria essenza assolutamente immutabile e necessaria sulla trascendenza di questa rispetto al campo del proprio potere e al proprio volere. Affinché Dio sia immutabile e necessario, perfettamente e totalmente presente e immanente a sé nella pericoresi, deve esservi un che (la sua essenza) di trascendente Dio stesso, perlomeno nel suo aspetto volitivo, spirituale, giacché il volere divino è elemento proprio dello Spirito. Lo Spirito, il Terzo Volto, la Persona della perfetta autoreferenzialità interna di Dio, in cui Dio mostra la propria compiuta e immutabile essenza di Uno-Trino, rompe la circolarità nell’atto di fondarla e chiuderla. Proprio il fatto che lo Spirito mostra come si dia in Dio un eccedente se stesso, proprio questo implica l’abissale frattura della perfetta circolarità pericoretica, per cui Dio, proprio in quanto dotato di un’essenza immutabile e necessaria che lo trascende, si apre alla libertà di un Abisso che lo precede. La libertà dell’essenza divina, dirà Schelling35, è sovramateriale, indipendente anche 34. Lc, 1,37. 35. Cfr. J.W.F. Schelling, Filosofia della Rivelazione, a cura di A. Bausola, Bompiani, Milano 2002, in particolare la lezione XII.

43

dalla struttura formale e necessaria dei Volti divini a cui si incatena nel processo teo-cosmogonico. Senza che Pier Damiani se ne avveda, l’onnipotenza, pensata radicalmente come infinita e propria di una Persona trascendente, conduce alla rottura della teologia trinitaria agostiniana, di cui, probabilmente, il Ravennate è erede e continuatore: l’onnipotenza, se pensata anche al di là del limite morale posto alla sua azione da Pier Damiani, implica che Dio sia solo accidentalmente l’ens necessarium e che, dunque, potrebbe anche la propria inesistenza. È interessante rilevare che quando Pier Damiani afferma che Dio potrebbe far sì che anche Roma, la Città Eterna per eccellenza, non sia mai stata, non impiega un esempio casuale: Roma era intesa ancora come il cuore dell’imperium, cioè dell’ordine stabilito dall’uomo nel creato; inoltre, la storia di Roma rientrava in quella che Eusebio di Cesarea aveva indicato come la pagana praeparatio al Cristianesimo. Affermare che Roma potrebbe non esser mai stata, implica che Dio potrebbe operare un piano salvifico completamente differente. Se per gli scolastici l’intelletto divino è avvinto dalla necessità delle verità eterne e la sua libertà si gioca nell’ambito della volontà36, per il Ravennate Dio è assolutamente libero in ciò

36. Netta l’antitesi a Thomas de Aquino, Quaestiones quodlibetales, V, q. 2, a. 1, in Thomas de Aquino, Quaestiones disputatae, 11 voll., a cura di R. Coggi, ESD, Bologna 1992-2003, vol. XI, pp. 504-506: «In virginitate duo possumus considerare. Quorum unum est ipsa integritas mentis et corporis […], aliud autem est causa integritatis praedictae, quia scilicet mulier virgo non fuit cognita a viro; et quantum ad hoc Deus non potest virginem post ruinam reparare; non enim potest facere ut ea quae iam est cognita a viro non fuerit cognita, sicut nec de aliquo quod factum est, potest facere quod factum non fuerit. Potentia enim Dei se extendit ad totum ens, unde solum id a Dei potentia excluditur quod repugnat rationi entis; et hoc est simul esse et non esse, et eiusdem rationis est quod fuit non fuisse».

44

che pensa e crea, ma non in ciò che è. Il principio di contraddizione si rivela, di nuovo, la regola di Dio, in quanto Dio è potenza di violarlo ad extra solo in quanto lo rispetta ad intra: l’Ens necessarium tutto può pensare e creare, anche i contraddittori, perché Egli è l’Incontraddittorio37. «Factum est sacramentum, et solutum est argumentum»38. Pier Damiani fu animato dalla profonda convinzione che il Cristianesimo non sia fondato nel sapere, né nella fede: esso riposa nella speranza. Nella speranza che si esprime nell’infinità di un’unica contraddizione, scandalo per i Giudei, follia per i Pagani: mortuus erat et resurrexit.

37. Per una lettura antitetica a quella che qui si offre, cfr. L. Moonan, Impossibility and Peter Damiani, in “Archiv für Geschichte der Philosophie”, LXII (1980), pp. 146-163. Per Moonan Pier Damiani ha solo sostenuto che Dio avrebbe potuto agire diversamente da come ha effettivamente agito, creando, ad esempio, un mondo dove Roma non sia mai esistita. 38. Cfr. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, 611B 40-50. Il passo in latino è retoricamente assai incisivo e ha un parallelo nell’invettiva contro i dialecticae haeretici di Anselmo d’Aosta (Epistula de incarnatione Verbi, I): «Veniant dialectici, sive potius, ut putantur, haeretici, ipsi viderint; veniant, inquam, verba trutinantes, quaestiones suas buccis concrepantibus veritilantes, proponentes, adsumentes, et, ut illis videtur, inevitabilia concludentes, ac dicant: si peperit, concubuit; sed peperit; ergo, concubuit. Numquid hoc ante redemptionis humanae mysterium non videbatur inexpugnabilis roboris argumentum? Sed factum est sacramentum, et solutum est argumentum».

45

Capitolo terzo Via Moderna

Pier Damiani salva, contro Avicenna, non solo la contingenza passata del mondo – la libertà della creazione del mondo –, ma, più radicalmente, la contingenza presente e futura di esso, poiché il campo di azione dell’onnipotenza divina non è più limitato alla decisione originaria: impiegando, benché sia ancora estranea a Pier Damiani, la terminologia che emergerà nelle dispute sul tema, si può concludere che per il Ravennate Dio può intervenire in ogni momento sia de potentia ordinata, sconvolgendo l’ordine del mondo, sia de potentia absoluta, modificando il concetto stesso di ordine come estraneo a ogni possibilità di contraddizione. Per Duns Scoto, invece, Dio può sì stravolgere l’ordine del mondo, ma solo nel senso di sostituire a un ordine un altro ordine: per il francescano Dio è infinitamente libero riguardo alla propria potenza ordinata, ma l’incontraddittorietà è il limite della sua potenza assoluta, poiché le verità eterne (i possibili), che si mostrano all’intelletto divino per necessità, sono contraddittori. Tommaso, ancor più recisamente, nega a Dio la stessa possibilità di operare nuovamente de potentia ordinata, poiché

46

reputa che questo intervento implicherebbe una modificazione dei decreti divini, per essenza immutabili: Dio avrebbe potuto scegliere un ordine diverso da quello che ha istituito, ma liberamente ha deciso di realizzare il presente. Per Pier Damiani, lontano da ogni altro autore medievale, il primo miracolo, la creazione contingente di un qualcosa di finito dal nulla, si perpetua in ogni istante in un mondo strutturalmente aperto al sovvertimento delle proprie leggi: la natura emerge, dichiara espressamente il monaco ravennate, dal contro-natura. Un’ulteriore posizione si riflette in un autore di qualche secolo posteriore: Guglielmo da Ockham. Essa assume un particolare spessore, in quanto riallaccia esplicitamente il problema dell’onnipotenza divina a quello della semantizzazione linguistica. La riflessione occamiana, infatti, vuole essere una glossa al primo verso del Simbolo: Credo in unum Deum, Patrem Omnipotentem. La domanda che sorge spontanea è se, allora, ci si ritrovi a fare i conti con la nozione di onnipotenza posta in gioco da Pier Damiani. Va precisato, in primo luogo, che nella filosofia occamiana la conseguenza immediata dell’onnipotenza divina è, come per Pier Damiani, la totale contingenza del mondo: il mondo è un volitum e, solo in seconda battuta, un effectum; Dio crea non quia bonus, bensì quia vult. Precisando ancor meglio la questione, si dovrebbe dire che Dio crea poiché ciò che vuole è buono ed è buono ciò che vuole: la correlazione tra l’ordine morale e l’effettività della potenza divina è immediata. La ripresa di alcuni nuclei scotisti è fondamentale: Ockham rifiuta la tesi agostiniano-bonaventuriana che all’unico Dio corrisponda necessariamente un unico mondo, quale espres-

47

sione esterna della sua parola (sermo). Pertanto, proseguendo lungo la linea scotista, Ockham pensa l’onnipotenza divina non come meramente estensiva (potenza di un movimento infinito nel tempo propria di un primo motore), bensì quale potenza intensiva: capacità, cioè, di produrre simultaneamente tutti i compossibili (tutti i possibili che non sono tra loro contraddittori) senza l’intervento di cause seconde. La contingenza del mondo è il risultato della radicale libertà divina, a cui si identifica la sua onnipotenza: poiché Dio può creare un’infinità di possibili immediatamente, l’ordine attuale di questo mondo, che è uno degli infiniti possibili che Dio avrebbe potuto creare, non è assicurato da alcuna strutturale essenziale, eterna e necessaria, di cui i singoli sarebbero ripetizioni e che renderebbe finita la serie di combinazioni possibili delle individuazioni. Come rileva Ghisalberti1, Ockham condivide la tesi scotista che l’onnipotenza, come capacità di creare senza il concorso delle cause seconde, sia indimostrabile: tuttavia, a differenza di Duns Scoto, Ockham vede un nesso di implicazione necessaria tra libertà e onnipotenza. Se Dio è libero, allora è onnipotente: ferma restando, contro l’opinione del Sottile, l’indimostrabilità della libertà di Dio, poiché, altrimenti, ne sarebbe dimostrabile l’onnipotenza. Appurare che un agente possieda una volontà non implica dimostrarne la libertà, che per Ockham è constatabile solo empiricamente e, pertanto, sono relativamente all’agire umano: inferire dalla libertà umana quella divina, come fa il Sottile, comporta per Ockham l’assurdo di assumere implici-

1. Cfr. A. Ghisalberti, Onnipotenza divina e contingenza del mondo in Guglielmo da Ockham, in AA. VV., Sopra la volta del mondo. Onnipotenza e potenza assoluta di Dio tra Medioevo e Età Moderna, Lubrina, Bergamo 1986, pp. 33-55.

48

tamente che Dio sia causa del peccato, giacché l’agire della creatura sarebbe dipendente da quello del Creatore. Al rifiuto del tema della causalità come via privilegiata a Dio si collega la vexata quaestio della cognitio intuitiva de obiecto non existente2: infatti, essendo possibile per Dio creare una causa senza effetto o un effetto senza causa, Gli sarebbe possibile dare l’intuizione di un oggetto inesistente, essendo l’atto dell’intuizione e l’oggetto termine dell’intuizione realmente distinti. A Dio è impossibile solo la contraddizione, ma questo non implica che Egli possa ingannare e che, quindi, si dia un ambito di tromperie divine3: infatti, se può dare l’intuizione di un oggetto inesistente, non può, però, dare l’evidenza di esso, cioè non può far credere che esista un oggetto inesistente; le cogitationes non possono mai essere rese da Dio mere ludificationes. L’ambito dell’evidenza dà la notizia dell’esistenza o dell’inesistenza del singolo e, pertanto, in esso non vi è possibilità di errore, giacché affermare la presenza dell’assente è contraddizione: tuttavia, Ockham problematizza il rapporto tra l’oggetto e la sua percezione soggettiva, risolvendola sì con l’appello all’evidenza, ma aprendo alla radicalizzazione ‘esplosiva’ che

2. Cfr. Gulielmus Occamus, Quodlibet, V, q. 5, ad instantiam 4, in Gulielmus Occamus, Opera theologica, 9 voll., ed. S.F. Brown, G. Gàl, G.I. Etzkorn, F.E. Kelley, St. Bonaventure, New York 1967-1980, vol. IX, p. 499: «Ad ultimum dico quod Deus non potest facere assensum evidentem huius contigentis “haec albedo est” quando albedo non est, propter contradictionem quae sequit». 3. Cfr. A. de Muralt, Epoché – Malin Génie – Théologie de la toute-puissance divine. Le concept objectif sans object. Recerche d’une structure de pensée, in «Studia Philosophica», XXVI (1966), pp. 159-190. Cfr., inoltre, R.C. Richards, Ockham and Scepticism, in “New Scholasticism”, 42 (1968), pp. 345-363.

49

emergerà nel dibattito tra Nicola di Autrecourt e Bernardo di Arezzo. L’antiaristotelismo occamiano è profondo4. In primo luogo, Ockham rifiuta l’impiego del principio di causalità secondo i dettami aristotelico-tomistici, in quanto si avvede che implicherebbe, in qualche modo, l’affermazione di una causalità seconda: infatti, se lo si ammette, si deve concludere che Dio può creare immediatamente un raggio di luce senza il concorso di un’altra causa, ma non un raggio di luce del sole, poiché questo ultimo implicherebbe la relazione e la mediazione del sole quale causa dell’effetto. Parimenti, Ockham rifiuta la distinzione tra l’essenza di una cosa e la cosa stessa, che causerebbe un’ipostatizzazione archetipale, di cui gli individui sarebbero mere singolarizzazioni evenienti, imperfette e caduche, di contro all’adamantina e cristallina eternità dell’essenza. Per Aristotele l’individuo nasce e muore al fine di perpetuare l’esemplificazione della specie, che eternamente sta. Per Ockham, al contrario, a ogni individuo corrisponde un’essenza, una forma e una materia, che gli sono identiche realmente: non si dà l’uomo quale essenza di Pietro, ma Pietro, poiché Pietro e la sua essenza sarebbero realmente distinti solo se fossero pensabili separati l’uno dall’altro, cioè se l’essenza dell’uomo in generale sussistesse ante rem. 4. Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1990, (orig.: M. Heidegger, Grundprobleme Der Phanomenologie, in Gesamtausgabe, 58, Klostermann, Frankfurt am Main 20102) p. 101: «L’aspetto anticipato [della cosa], l’eidos, viene anche detto to ti en einai, ciò che un ente già era (quod quid erat esse). Ciò che l’ente già era prima del suo attuarsi […]. L’eidos, ciò che una cosa già era preliminarmente, indica la stirpe della cosa, la sua origine, il suo genos».

50

Il reale è il singolo, o non è: con l’eccezione del mysterium Trinitatis, le distinzioni sono sempre o reali, vale a dire distinzioni tra singoli, o logiche, cioè strumenti del debole intelletto atti a cogliere aspetti diversi delle singolarità. Questo rende superfluo il principio di individuazione, crux Scoti, ma implica la giustificazione dello statuto logico e genealogico dell’universale, che per Ockham si costituisce per habitus, cioè per reiterata esperienza di cose simili5. Da ciò segue che ogni concetto si applica a Dio e alle creature in senso equivoco, come già accadeva per Enrico di Gand6. Per il Doctor Solemnis tra Dio e la creatura non vi è alcuna forma di identità o comunicazione reale: ciò non impedisce che la nozione di ens largissimo modo acceptum, che è il soggetto della metafisica, sia intesa dall’uomo in senso univoco in virtù dell’imperfezione della sua conoscenza, essendo applicabile a Dio e alle creature solo in senso equivoco. Infatti, tale nozione è totalmente indeterminata: se nel caso della creatura essa è di fatto determinabile – conoscere una res significa ottenerne una determinazione e definizione quanto più precise –, relativamente a Dio essa è totalmente e realmente indeterminata e indeterminabile.

5. Per la critica di Ockham a ogni stilizzazione matematica dell’esperienza, cfr. pure O. Todisco, Guglielmo d’Occam. Filosofo della contingenza, Messaggero, Padova 1998, p. 56: «[Per Ockham] resta inalterato l’interrogativo: a che pro ripetere in maniera difettiva ciò che dall’eternità è in Dio in modo ben più perfetto? Il regno ideale non solo prende il posto dell’esperienza ma la soppianta e ne mostra l’irrilevanza. Dal mondo delle cose, direttamente esperite e interrogate, ci si ritrova sospinti al mondo delle idee perfette e senza tempo. Il sapere cambia luogo, non più l’incontro-scontro con le creature, ma il regno della coerenza ideale. È un sapere intellettualmente pacificante». 6. Cfr. P. Porro, Enrico di Gand. La via delle proposizioni universali, Edizioni Levante, Bari 1990.

51

A livello della conoscenza primaria e confusa l’uomo non sa distinguere l’indeterminatio per abnegationem propria di Dio dall’indeterminatio per privationem propria della nozione generalissima dell’ente creaturale: pertanto, ritiene che siano una medesima nozione; per la limitatezza del suo conoscere l’uomo considera inizialmente che tale nozione si applichi in senso univoco a Dio e alle creature e da qui conclude di poter derivare un impiego analogico delle nozioni degli enti in riferimento a Dio. Per Enrico di Gand la via analogica è il frutto della limitatezza e imperfezione strutturali del nostro intelletto, ma, paradossalmente, è proprio questa confusione che permette di riferirsi a Dio: se l’uomo fosse immediatamente conscio dell’equivocità della nozione di ens in riferimento a Dio e alle creature, o l’esistenza di Dio dovrebbe essergli nota in modo soprannaturale, o non potrebbe inferirla in alcun modo. La posizione del Solenne implica la negazione del valore degli universali e, conseguentemente, apre la via al nominalismo, all’agnosticismo e al fideismo. Anche per Ockham viene meno, pertanto, la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, sia essa ottenuta in virtù di un uso analogico o univoco di nozioni7. In particolare, Ockham nega valore alla via eminentiae, in quanto ritiene che, partendo dal relativo, si può certo pensare un ente eminente, ma non si può dimostrare che esso sia infinito: qualora lo si dimostrasse, ci si ritroverebbe per le mani, in ogni caso, solo una nozione di infinità estensiva, non intensiva. La critica non coglie nel segno, qualora si ponga attenzione all’impiego dell’argomento di eminenza operato da Anselmo e da Duns Scoto. Una seconda critica pare, invece, più cogen-

7. Cfr. Gulielmus Occamus, Quodlibet, VII, q. 11 e 15.

52

te, specie nei confronti di Anselmo, sebbene presupponga la specifica filosofia del linguaggio occamista, in quanto rileva che le idee, a differenza che le proposizioni, non sono né vere né false: per determinare la verità o falsità di una proposizione, precisa Ockham, è necessario appurare per intuizione che essa possiede un referente reale, avvolgendo il discorso, nel caso specifico della proposizione che afferma l’esistenza di Dio, in un circolo vizioso. Per dimostrare l’esistenza di Dio si dovrebbe appurare la verità di tale proposizione, cioè esibire il referente reale esistente che la sostanzia. Si possono mostrare, al più, le tautologie (per esempio, ‘un uomo è un uomo’) sulla base dell’intuizione: intuitio che, nel caso specifico di Dio, non si possiede8. Dio non è libero di essere Dio, ma non è Dio se non è libero. L’uomo, pertanto, è immagine di Dio non perché sapiente, bensì in quanto libero: libero di volere o non volere e di volere questo o quello: come il mondo fisico è il volitum divino, così il mondo storico è il volitum umano. Il mondo è fatto da Dio, ma non viene da Lui come da una Causa aristotelicamente connotata, bensì dal nulla radicale, non essendo presupposta alcuna essenzialità in mente Dei: ab eo, non ex eo9.

8. Cfr. O. Todisco, Guglielmo d’Occam, p. 116. Todisco sottolinea come in Ockham il pensare sia solo una forma provvisoria dell’amore, in quanto strutturalmente incapace di elevarsi a Dio: Dio non crea perché ama, ma ama ciò che crea. Cfr. anche pp. 132-135: i nomi attribuiti a Dio propriamente non lo significano, ma sono istituiti convenzionalmente dalla comunità dei credenti con la volontà di significare qualcosa che non è conosciuto 9. Cfr. Gulielmus Occamus, Ordinatio (= Scriptum in librum primum Sententiarum), I, d. 42, q. unica, in Gulielmus Occamus, Opera theologica, vol. IV.

53

Ockham precisa che la ragione naturale non può arrivare a concepire la nozione di onnipotenza come causalità immediata dei compossibili (tesi, peraltro, già di Duns Scoto), né può dimostrare l’assoluta libertà e contingenza di tale atto causativo. È interessante rilevare che l’onnipotenza divina ‘scardina’ il principio del ‘rasoio di Ockham’: infatti, l’economia dell’agire avrebbe richiesto che Dio causasse immediatamente tutto, senza l’intervento di cause seconde; il fatto che Dio non lo abbia fatto implica che la soluzione più semplice non è razionalmente necessaria. È buono ciò che Dio vuole e fa, poiché è falso ed empio affermare che Dio voglia e faccia ciò che è buono, quasi che il bene si costituisca come un orizzonte oggettivo ed eterno che preceda e normi la volontà divina: Dio agisce sempre per il bene e ogni sua azione habet bonum finem. Come ha sottolineato Gatto10, nella filosofia occamista Dio, la sua volontà, la sua libertà e il bene sono una sola e medesima Realtà: Dio potrebbe concedere la grazia e la beatitudine al malvagio e dannare il buono, così come avrebbe potuto redimire l’uomo caduto in altro modo, o non redimerlo affatto, di contro a quanto il Magnifico aveva argomentato nel Cur Deus homo. Se non si riconoscesse come unico limite dell’agire divino la contraddizione, si legherebbe la volontà di Dio al principio di causalità, secondo cui, per esempio, al retto agire umano corrisponde la grazia. Dio nullius debitor est, quia, quaecumque facere potest, faciendo iusta sunt et iusta sic ea facit: l’idea di una necessità dell’economia dell’agire divino è fortemente

10. Cfr. A. Gatto, William of Ockham and the odium Dei, in “Mediaevalia”, 30 (2011), pp. 127-138.

54

estranea a Ockham, secondo cui l’agire di Dio è liberissimo e, dunque, dono e amore gratuiti, senza fondamento. Tuttavia, l’onnipotenza divina, per come è pensata da Ockham, si delinea ben più limitata rispetto a quella del Deus terribilis di Pier Damiani: in primo luogo, Dio non opera la contraddizione11; in secondo luogo, la potenza assoluta non implica la potenza, propria di Dio, di sovvertire in ogni istante l’ordine del mondo – un tale Dio, anche per Ockham, sarebbe un Dio arbitrario, non onnipotente –, bensì sottolinea la libertà divina che, in origine, avrebbe potuto creare infiniti altri mondi possibili e, in maniera del tutto contingente, ha, invece, scelto questo. Va precisato che la possibilità logica, come anche per Duns Scoto, non coincide con la mera incontraddittorietà: in tal caso, Dio potrebbe autocrearsi, poiché la sua possibilità non include contraddizione; invece, Dio non può fare ciò che è contraddittorio che accada, come nel caso della sua creazione. In Ockham la nozione di incontraddittorio si slega in maniera netta dall’ambito del possibile logico e si lega a quella della possibilità reale: pur essendo incontraddittorio, Dio non può creare se stesso12. La distinzione di potenza assoluta e ordinata è puramente logica13: sottolinea la contingenza del mondo, ma non implica il venir meno dell’ordine del mondo, poiché esso, pur prodot11. Cfr. Gulielmus Occamus, Ordinatio, I, d. 20, q. unica. 12. Cfr. Id., Tractatus de principiis theologiae, prop. 1, ed. L. Baudry, rec. F.E. Kelley, in Id., Opera philosophica, 7 voll., St. Bonaventure, New York, 1974-1988, vol. VII (dubia et spuria), p. 507: «Deus potest facere omne quod fieri non includit contradictionem. Nota quod non dico quod Deus potest facere omne quod non includit contradictionem, quia tunc posset facere seipsum. Ipse enim non includit contradictionem». 13. Per la storia della distinzione tra potentia absoluta e potentia ordinata e per la sua applicazione anche in ambito giuridico e politico, il testo clas-

55

to in ogni istante dalla libera e insondabile volontà divina, ultima ratio da nulla fondata, riposa sulla fedeltà di Dio alla sua promessa. «Fidelis permanet, negare se ipsum non potest»14. Per Ockham, a cui preme salvaguardare l’immutabilità della volontà divina, Dio opera sempre de potentia ordinata, in quanto la distinzione tra essa e la potentia assoluta è solo de iure15. Emerge a questo livello l’impiego differente dell’espressione rispetto a Duns Scoto. Il Sottile equipara il rapporto de facto-de iure a quello potentia absoluta-potentia ordinata, laddove per l’Invincibile questo corrisponde a de iure-de facto, in virtù di una diversa semantizzazione dei termini: se per Duns Scoto ogni agente intelligente è dotato sia di potenza assoluta che di potenza ordinata, poiché la prima comprende tutto ciò che può compiere e la seconda i limiti che le condizioni presenti pongono al suo volere (limiti che solo che nel caso di Dio sono autoimposti), per Ockham l’espressione de iure implica ciò che ‘formalmente’ Dio avrebbe potuto operare (tutto, eccetto la contraddizione), anche se de facto ha scelto liberamente un ordine, a cui rimane legato in virtù della sua immutabilità. Per il Sottile vi sono realmente due modi di agire di Dio, sempre presenti, tanto che potrebbe in ogni attimo mutare l’ordine del mondo; per l’Invincibile la distinzione tra i due sico, soprattutto per gli ampi rimandi bibliografici, è E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio, cit. 14. 2Tm, 2. 15. Cfr. M. Beonio-Brocchieri Fumagalli, Più cose in cielo che in terra, in AA. VV., Sopra la volta del mondo, pp. 22-23.

56

aspetti della potentia è solo logica, a indicare un’antecedenza già da sempre risolta nell’atto eterno con cui Dio si è liberamente deciso alla creazione di questo ordine del mondo. In altri termini, per Ockham, come anche per Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, la potentia absoluta precede logicamente l’instaurarsi di un ordo mundi: l’emergere dell’aspetto ordinato dell’unica potenza divina richiede necessariamente il ‘tramontare’ del suo aspetto assoluto, in quanto l’immutabilità della volontà divina implica che il volontario e libero ‘incatenamento’ della potentia absoluta sia irrevocabile. Al contrario, per Duns Scoto la distinzione è de facto: per il Sottile la possibilità che Dio sconvolga o revochi l’ordine attuale del mondo è reale e concreta in ogni istante16. Non è solo una distinzione logica che serva a sottolineare l’infinità del possibile, cioè l’eccedenza di diritto di ciò che Dio può fare rispetto a ciò che fa: fatta salva, anche per Duns Scoto l’impossibilità di operare la contraddizione17.

16. Ioannis Duns Scoto, Reportata Parisiensia, IV, d. I, q. 5, n. 2, in Id., Opera omnia, ed. Vivès, 26 tt., Parisiis, 1891-1895, t. XXIII, p. 559: «Aliquid autem est possibile Deo dupliciter: vel secundum eius potentiam absolutam, qua potest omne id quod non includit contradictionem; autem secundum potentiam eius ordinatam, secundum quam fit omne illud quod consonat legibus divinae iustitiae, et regulis sapientiae eius; quod si fieret aliter, et secundum alias leges statutas et ordinatas a divina voluntate non inordinate fieret, sed ita ordinate, sicut modo secundum ista». 17. Id., Ordinatio, I, d. 44, q. u., in Id., Opera omnia, ed. Commissio Scotistica, 16 voll., Typis Polyglottis Vaticanis, Civitas Vaticana, 1950-2015, vol. VI, p. 366: «Unde dico quod multa alia potest agere ordinate; et multa alia posse fieri ordinate, ab illis quae fiunt conformiter illis legibus, non includit contradictionem quando rectitudo huiusmodi legis – secundum quam dicitur quis recte et ordinate agere – est in potestate ipsius agentis. Ideo sicut potest aliter agere, ita potest aliam lex recta statuere […] et tunc potentia eius absoluta ad aliquid, non se extendit ad aliud quam ad illud quod ordinate fieret, si fieret: non quidem fieret ordinate secundum istum ordinem, sed

57

Per il Sottile potentia absoluta e potentia ordinata convivono come due momenti sempre compresenti e attuabili, cioè come il lato straordinario e ordinario dell’unica potenza divina. Scriveva già Seneca: «Ipse omnium conditor et rector […] semper paret, semel iussit»18. Per quanto detto, la distinzione dei due aspetti della potenza non sta nell’occhio della creatura, che pone i due ambiti per sottolineare la differenza logica di due momenti dell’operare divino – non è una distinctio ad usum loquendi19 –, bensì rivela i due modi agendi di Dio in quanto tale.

fieret ordinate secundum alium ordinem, quem ordinem ita posset voluntas divina statuere sicut potest agere». 18. Lucius Annaeus Seneca, De Providentia, V,8. Cfr. L. Šestov, Atene e Gerusalemme, Saggio di filosofia religiosa, a cura di A. Paris, Bompiani, Milano 2005 (orig.: L. Šestov, Afininy i Ierusalìm, Ymca Press, Paris 1951), pp. 215-217: «Così pensava Seneca, così pensavano gli antichi, così pensiamo tutti. Dio ha comandato soltanto una volta e in seguito, come ogni altro essere, ha sempre obbedito. Dio ha comandato, tanto ma tanto tempo fa, di modo che ha dimenticato, anche Lui, quando e in quali circostanze si verificò quell’evento unico nel suo genere e assurdo, e di conseguenza antinaturale. […] Il pensiero espresso da Seneca ha sedotto gli uomini perché il momento misterioso e inconcepibile dello jubere è stato respinto nell’eternità del passato ed è stato dichiarato unico (semel jussit)». E aggiunge (p. 327): «Un pensatore così profondamente libero e così cristiano come Duns Scoto non si sentiva in pace se non quando riusciva a convincersi che esiste al di sopra di Dio qualcosa che lo vincola, che per Dio stesso esiste l’impossibile: lapidem nec potest Deus beatificare potentia absoluta nec ordinata. […] Perché aveva bisogno di una simile affermazione? Volendo, avrebbe potuto ricordarsi facilmente di quel che si racconta nella Genesi: Dio ha creato l’uomo dalla polvere e ha benedetto l’uomo che ha creato dalla polvere». 19. Gulielmus Occamus, Quodlibet, VI, q. unica, pp. 585-586: «Quaedam Deus potest facere de potentia ordinata et aliqua de potentia absoluta. Haec distinctio non est sic intelligenda quod in Deo sint realiter duae potentiae quarum una sit ordinata et alia absoluta, quia unica potentia est in Deo ad extra, quae omni modo est ipse Deus. Nec est sic intelligenda quod aliqua

58

Fermo restando, anche per il Sottile, l’unicità della potenza divina: per Ockham ammettere due modi agendi rischierebbe di duplicare la potenza divina e comprometterne l’immutabilità; per Duns Scoto è lecito a Dio superare (praeter agere) o addirittura infrangere (contra agere) le regole che Egli stesso ha poste20. Per Ockham anche il miracolo, che per Duns Scoto è un’espressione de potentia absoluta, è eternamente inscritto e previsto nell’ordine che Dio ha dato al mondo e, pertanto, è anch’esso espressione della potentia ordinata. In un certo senso, i due aspetti della potenza divina non corrispondono più alla coppia straordinario-ordinario, bensì a quella libertànecessità: Ockham non ragiona più sul possibile intervento divino sul mondo, di per sé sconvolgente il suo ordine, ma sulla possibilità di mondi alternativi. La conseguenza più rimarchevole è che per Duns Scoto l’idea di più mondi possibili esistenti attualmente non ripugna alla

potest Deus ordinate facere, et aliqua potest absolute et non ordinate, quia Deus nihil potest facere inordinate. Sed est sic intelligenda quod ‘posse aliquid’ quandoque accipitur secundum leges ordinatas et institutas a Deo, et illa dicitur Deus posse facere de potentia ordinata. Aliter accipitur ‘posse’ pro posse facere omne illud quod non includit contradictionem fieri, sive Deus ordinavit se facturum sive non». 20. Per l’introduzione, operata da Ugo di Novocastro, del concetto di potentia ordinabilis come medio tra la potentia absoluta e la potentia ordinata, al fine di una mediazione tra Duns Scoto e Ockham, rimandiamo al testo di Randi. Si tratterebbe, in sostanza, di mediare una visione di Dio quale Sovrano (Duns Scoto) con quella di Dio quale Orologiaio (Ockham). Vicina alla dottrina di Ugo di Novocastro è la posizione di Francesco di Meyronnes (pp. 95-100): lo scotista francese sottolinea come la potentia absoluta sia sempre da considerarsi executiva, poiché, pur essendo superiore a ogni ordine in cui si ‘incatena’, non può che esprimersi determinandosi necessariamente in un ordine, fatta salva la possibilità di interventi straordinari e di costituzione di nuove ordinationes.

59

ragione21: potrebbe darsi un mondo dove non si verifichi l’avvento della sera e dove splenda eternamente il sole, o più soli22. Per il Sottile voluntas e iustitia si identificano perfettamente in Dio: poiché lex est in potestate agentis, per Dio è lecito e possibile infrangere l’ordine del mondo, poiché ne è l’autore, mentre ciò è illecito e impossibile per la creatura23. La distinzione indica una logica possibilità di altri mondi, che è la garanzia, come lo sarà per Leibniz, della contingenza di quello esistente24. 21. E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio, p. 99: «L’azione divina non può che manifestarsi secondo un ordine. Ma il punto è: l’ordine non ha validità autonoma rispetto al volere di Dio, quest’ordine può essere mutevole (naturalmente, riguardando la cosa dal nostro punto di vista). L’affermazione che “de potentia absoluta Dio può effettivamente modificare il corso degli avvenimenti” va intesa sospensivamente: qualunque intervento di tal genere rientrerebbe nel piano eterno divino. Ma non per questo è meno radicale: il piano eterno divino essendo imperscrutabile, l’intervento de potentia absoluta resta per noi inevitabilmente ‘inordinato’ (perché aptitudinaliter ordinatus) e destabilizzante». 22. Sulla stessa linea di Ockham troviamo l’Angelico. Cfr. Thomas de Aquino, Quaestiones de potentia, q. I, a. 5, resp. 5, in Id., Quaestiones disputatae, vol. VIII, p. 90: «Absolutum et regulatum non attribuuntur divinae potentiae nisi ex nostra consideratione: quae potentiae Dei in se consideratae, quae absoluta dicitur, aliquid attribuit quod non attribuit ei secundum quod ad sapientiam comparatur, prout dicitur ordinata». 23. Quella di Duns Scoto è forse la fondazione più rimarchevole, in ambito medievale, dell’assolutezza del potere del monarca: colui che istituisce la legge può legittimamente infrangerla in ogni istante, possedendo la potestas dispensationis; fatto salvo che, nella scala gerarchica che da Dio prende avvio, la potenza assoluta propria di ciascun ambito creaturale si restringe sempre più, poiché si rivela vincolata agli ambiti ordinati istituiti nei livelli superiori. 24. Cfr. E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio, p. 29, nota 45: «Dire, come Tommaso nella Summa Theologiae, che Dio “potuit alia facere, de potentia absoluta, quam quae praescivit et praeordinavit se facturum”, significa svuotare il concetto di potentia absoluta di ogni ‘effettiva’ dirompenza; il piano della eterna preordinazione è il piano della potentia ordinata, ed include ogni variazione e sospensione delle leggi che stabilisce. […] Parreb-

60

Quanto detto assume una portata dirompente se lo si relaziona alla filosofia del linguaggio che intesse e struttura le argomentazioni che si sono riportare. La struttura costitutivamente aperta del linguaggio, i cui termini sono segni che rimandano ai singoli, si rivela essere il cuore della via moderna. In particolare, il Dottore Invincibile sottolinea a più riprese che l’uomo non conosce le cose, ma solo le proposizioni intorno a esse: l’ontologia, ricondotta alla filosofia del linguaggio, mostra che la conoscenza umana non ha mai a che fare con i singoli, poiché essi non sono veri o falsi, bensì esistono o non esistono25. L’obbiettivo esplicito è la tesi dell’isomorfismo realisticonaturalistico tra linguaggio e realtà: ben più radicale di Anselmo, tuttavia, Ockham sposta l’attenzione non più dalla grammatica alla semantica, ma da quella alla semiotica. La seconda condanna parigina dell’occamismo, datata 1340, dà lo spessore del timore che la dottrina suscitava: se si può be (questa è la mia opinione) che nelle Sentenze Tommaso abbia in mente, più che il senso ‘metodologico’ in seguito approfondito, una opposizione di absoluta a ordinata molto vicina alla opposizione di extraordinaria a ordinaria. […Tommaso] verrebbe allora modificando una distinzione (che in definitiva poi abbandonerà, o quasi) che gli si presenta, verso il 1260, anche come opposizione di modi agendi; seguendo in questo Alberto, e come lui esitante, egli la accoglie invece come distinzione di modi loquendi, ponendosi sulla via che percorrerà anche Ockham». Cfr. anche p. 59: «Abbiamo visto il Venerabilis Inceptor definire l’azione de potentia absoluta come componente dell’insieme delle possibilità de iure, e l’azione de potentia ordinata come componente dell’insieme delle possibilità de facto; il primo è l’insieme dei possibili, il secondo l’insieme dei contingenti (passati, presenti e futuri). Per Scoto, è il contrario: egli accosta potentia absoluta a de facto, potentia ordinata a de iure. Il rapporto tra l’una e l’altra appare per il Doctor Subtilis un rapporto di limitazione: l’ordo limita, regola (continuamente ma non definitivamente) una forza che non esaurisce le proprie potenzialità nell’agire ordinate; e che può, appunto, manifestarsi inordinate». 25. Cfr. Gulielmus Occamus, Ordinatio, I, d. 2, q. 4.

61

giudicare una proposizione solo virtute sermonis, il rischio è quello del verbalismo ridondante e circolare. Per Ockham la verità o falsità di una proposizione sono diretta conseguenza della sua costruzione logicamente-sintatticamente corretta o scorretta, controllabile per mezzo dell’analisi linguistica. La posizione occamiana è assai vicina a quella esposta da Platone nel Sofista, nonostante il filosofo inglese, ancora permeato da una vulgata iperealista della dottrina dell’Ateniese, vi si appelli spesso con toni irrisori, definendolo phantasticus Plato. La proposizione diviene signum rei: modus essendi, modus significandi e modus dicendi si disarticolano e destrutturano, in un deciso ribaltamento della prospettiva di Fredegiso di Tours. Il rapporto tra la cosa e il segno è analogo a quello tra il fumo e il fuoco, o tra il riso e la gioia: il concetto e la parola non sono né immagini né rappresentazioni della cosa, bensì incarnano il movimento immediato e la tensione a fuoriuscire da sé che l’oggetto suscita nell’anima. L’ideale della gramatica speculativa è dissezionato e annichilito. Per Ockham i concetti sono naturali, le parole convenzionali: i primi, come gli agostiniani verba mentis, incarnano i significati delle cose, i quali sono identici per tutte le anime che esperiscono e si impongono necessariamente, mentre i termini sono frutto dell’uso e delle stratificazioni culturali della storia. A essere necessariamente vere sono solo le proposizioni ipotetiche, in quanto valide nell’infinità dei mondi possibili, le proposizioni negative (per esempio, ‘la sedia non è la finestra’), in quanto non corrispondono ad alcuna realtà contingente o necessaria e indicano che il loro contraddittorio è necessariamente falso in tutti i mondi possibili, e le proposizioni relative al passato, che sono eternamente vere in virtù dell’immutabilità di ciò che è accaduto.

62

Proposizioni categoriche, necessarie e universali non vengono mai a costituirsi: equus est equus, si equus est; la notizia di una cosa è vera e necessaria solo se la cosa è presente, cioè sulla base della constatazione empirica della sua contingente esistenza; la contingenza investe non solo la cosa, ma, pure la sua essenza, che non solo non è eterna, ma non si distingue dalla cosa singola stessa, se non logicamente. La logica assertoria è decostruita alla radice: la semiologia si accorda a una logica ex suppositione, che dà origine a una necessitas ex hypothesis che avrà filiazioni eccellenti. Per Ockham i realisti, paradossalmente, cadono nel proporzionalismo di cui accusano i loro oppositori: pensando che a ogni nomen corrisponda una res, si illudono che la realtà sia maneggiabile in virtù di un’implicita onnipotenza linguistica26; si ingannano, poiché sono proprio costoro, e non i fautori della via moderna, a muoversi solo tra le proposizioni, identificate con il mondo. L’aporetica del nesso tra parola e cosa, sollevata in tutta la sua radicalità già nel Cratilo di Platone, ha il proprio referente diretto, per quanto riguarda la filosofia medievale latina, in Agostino27. L’aporetica della significatività del nulla, di cui già si è trattato, è solo un momento notevole di una problematica più ampia. Agostino si interroga a più riprese su come fondare e spiegare la significatività delle parole. La parola o ci insegna qualcosa di nuovo, invitando alla ricerca – ad quaerendum admoneri: ma come, allora, possiamo comprenderla per la prima volta? –, oppure chiarisce e struttura un rapporto reale

26. É. Gilson, The road to scepticism, in Id., The unity of philosophical experience, Sheed & Ward, London, 1938, p. 91: «Mediaeval philosophy broke down when, having mistaken philosophy for reality itself, the best minds were surprised to find reason empty and began to despite it». 27. Aurelius Augustinus, De magistro, XI,36.

63

che la precede e che essa non costituisce in alcun modo, ma semplicemente rammemora. Null’altro è il linguaggio, se non un platonico commemorari.

64

65

Capitolo quarto Apocalyptica Tuba

«Insurrexit amicus veritatis […] et suam fecit sonare tubam ut dormientes a somno excitaret»1. Con Nicola d’Autrecourt, il movimento anti-aristotelico2, sempre più accesamente ostile alla vana curiositas dei filosofi,

1. Nicolaus de Autricuria, Tractatus utilis, pp. 24-26: «Consideravi quarto qualiter omnes propter logicos sermones Aristotelis et Averrois deserebant res morales et curam boni communis; immo inter caetera de quo maxime dovendum, si verum sit, vidi, licet visionem non plena, quod aliqui reverendi patres quorum capita iam albescunt canitiae ad quorum pedes in pulvere propter compositionem animi eorum in moribus rectam vix dicere ausus fuisse deliberatur iudico dignum me sedere, sic proh dolor illum habitum qui secudum mores dicitur visi sunt sprevisse quod, cum insurrexit amicus veritatis et suam fecit sonare tubam ut dormientes a somno excitaret, emiserunt suspiria omnimo fecerunt signa tristitiae, et resumpto spiritu quasi armati ad capitale proelium in eum irruerunt. Et qui pro Deo de istis? Et certe nedum caritas non videtur [non] fervere in eis, sed aemulationibus, invidiis, susurrationibus, amplexibus vanae laudis et omnibus miseriis quibus involvuntur homines sic apparent subiecti, quod in nullo nisi in peius vitae eorum a vita vulgi differens esse propter esse videtur». 2. Per un’analisi storica del ruolo di Nicola nella disputa occamista del 13391340, cfr. E.A.Moody, Ockham, Buridan and Nicholas of Autrecourt, in “Franciscan Studies”, 7/2 (1947), pp. 113-146.

66

assume in tutta la sua portata lo strumento del ragionamento per decostruire alla radice le pretese dimostrative della ratio naturalis3. La distinzione netta degli ambiti di fede e ragione e la separazione tra teologia e filosofia si fa ormai aperta opposizione. Contro i canuti e senescenti dottori parigini, che invecchiano su Aristotele e sopra i suoi commentatori, adorati come divinità oracolari infallibili e incriticabili, Nicola lancia strali violenti: che ne è del cristiano e del teologo? Che ne è della morale e della vita attiva, della semplicità evangelica, che spinge a vivere rettamente e a credere, e non di certo a sprecare la vita sui tomi, immersi in discussioni cavillose, futili ed empie, che ardiscono dimostrare la fede per mezzo di sillogismi vani, sterili e verbosi? Con Nicola di Autrecourt il cerchio si chiude, secondo il celebre adagio «non est senescendum in artibus»: lo spirito anti-dialettico, che aveva avuto in Pier Damiani il suo campione, torna più agguerrito di prima e fa propri gli strumenti della logica, ormai raffinati e affilati. L’imperativo è sempre quello: la fede dispone lo sfondo immutabile delle verità etiche e religiose, a cui il buon cristiano deve tendere in semplicità e amore di concretezza. «Pietas est sapientia»4: tutto il resto è sproloquio, orgoglioso e saccente. A esserne prova eloquente è la crisi della cristianità (l’esilio avignonese, l’esaurimento del papato nella lotta contro l’impero, lo scisma francescano), incarnata nella dissoluzione nominalistica della scolastica e dell’armonia tra fede e ragione.

3. Per un esame generale della dottrina del filosofo francese, cfr. M. Dal Pra, Nicola di Autrecourt, Bocca, Milano 1951 e C. Grellard, Croire et savoir. Les principes de la conaissance selon Nicolas d’Autrécourt, Vrin, Paris 2005. 4. Cfr. Aurelius Augustinus, Confessiones,V,5,8.

67

Ciò che più viene in evidenza è la portata distruttiva che l’onnipotenza, concepita sine limite, assume non solo in campo epistemologico, ma, pure etico: i tentativi che sia Pier Damiani che Nicola di Autrecourt operano per ancorare l’ordine etico del mondo, rispettivamente alla natura essenzialmente buona di Dio e alla lettera della scriptura, appaiono profondamente incoerenti con l’andamento radicale del discorso: nel loro sforzo di distruggere qualsiasi pretesa della ratio, non si avvedono di minare alla base anche le legalità delle norme dell’agire. Come il divenire del mondo è totalmente imprevedibile, così l’agire diviene totalmente arbitrario. Per Nicola la storia mostra agli occhi del credente ciò che la ragione deve ora dimostrare: se la teologia si identifica alla filosofia, necessariamente viene ridotta a logica e a grammatica, con conseguenze funeste per la vita buona. Se si presume di poter fondare la res publica christianorum sull’onnipotenza della ratio, o anche solo sulla sua indipendenza dal lumen fidei, il risultato è quello dell’anarchia (religiosa, politica, teologica). I magistri accompagnano le interminabili e futili disquisizioni sui testi di Aristotele a una vita viziosa, fondata sull’invidia, il carrierismo, l’adulazione, il compromesso, la delazione, la superbia. Poveri di carità, gonfi di orgoglio: avvinghiati al primato del sapere e dell’ostentazione, invece che attenti all’esempio della frugalità nella condotta. «Scientia inflat, caritas aedificat»5. Il criterio da seguire è, paradossalmente, il medesimo che aveva guidato Aristotele: la claritas-σαφήνεια, il ritorno alle cose stesse, al pensare in proprio, abbandonando le discussioni minuziose sui testi aristotelici, le cui conclusioni sono date per scontate.

5. 1Cor, 8,1.

68

Il primo momento della critica nicolaita parte dalla questione sollevata da Ockham circa la conoscenza del non-esistente: contro Bernardo di Arezzo, Nicola precisa che, anche ammettendo che Dio possa creare in noi l’intuizione del non-esistente, nulla, allora, ci potrà ‘rassicurare’, non potendosi dimostrare se conosciamo davvero una realtà esistente o se tale conoscenza, invece, sia stata creata da Dio6. In altre parole, nulla ci assicura dalla possibilità di un irretimento divino. Risulta impossibile, pertanto, determinare il confine tra l’illusione di conoscere e la conoscenza reale: per quanto ne sappiamo, una realtà esterna potrebbe non esistere. Dall’evidenza – dalla certezza, diranno, di lì a poco, i moderni – alla verità non c’è passaggio: si conoscono sempre e solo rappresentazioni, la cui relazione con eventuali realtà esterne è del tutto infondata. Bernardo di Arezzo si spinge ancora più in là: non solo non si ha certezza dell’esistenza delle cose di cui possediamo rappresentazione, ma, più radicalmente, nemmeno si ha certezza delle rappresentazioni stesse, giacché l’atto di cui si ha certezza e l’atto con cui si ‘assicura’ la certezza del primo atto non sono lo stesso atto. L’atto con cui si dovrebbe essere certi dell’esistenza di una realtà esterna è un atto di cui, a sua volta, si dovrebbe divenire certi: tra la certezza della rappresentazione di una cosa, la rappresentazione e la cosa corre un abisso duplice.

6. Cfr. Nicolaus de Autricuria, I Epist. ad Bernardum, in Nicholas of Autrocourt: his corrispondence with Master Giles and Bernard of Arezzo, ed. L.M. de Rijk, Brill Academic Pub, Leiden 1994. Le nove lettere, di cui solo due ci sono pervenute, segnano il proseguimento di una collatio (una disputa pubblica) sul principio di contraddizione, volta a stabilire il grado di certezza raggiungibile dal sapere naturale.

69

In altri termini, per Bernardo non si ha certezza né dell’esistenza di ciò che appare, né della ‘verità’ dell’apparire. Tra apparire ed essere, tra la cognitio intuitiva e la res cognita corre un baratro. Nicola, che è ben lontano da voler sostenere posizioni di assoluto scetticismo, non può accettare la conclusione di Bernardo circa l’irriducibilità di atto diretto e atto riflesso, pena l’impossibilità di fondare non solo la conoscenza, ma, pure, l’etica. Se è vero che l’evidenza dell’apparire e dell’essere del contenuto dell’apparire sono inammissibili proprie ac ultimative, pur tuttavia la sensazione, a suo parere, permette di discriminare in maniera probabile l’evidente dall’inevidente, il sonno dalla veglia: si deve presupporre, per salvare la ratio, almeno l’identità tra apparenza ed esistenza della cosa; pertanto, almeno all’apparentia sensibile corrisponde sempre la presentia. Tale presupposizione era già stata rifiutata da Pietro Aureolo, poiché, se ogni concetto ha un referente esterno reale, diviene impossibile distinguere il vero dal falso. Secondo Nicola, in virtù di un’inspiegabile consecutio quaedam naturalis, l’ultimatività dell’apparire coincide con il suo lumen, cioè con l’evidenza dell’evidenza, garantita dall’esperienza puntuale e diretta. Semplificando la questione, per Nicola il principio di contraddizione è l’esplicazione discorsiva dell’esperienza sensibile del mondo, intesa come un’intuizione primaria. L’opposizione ad Aristotele non potrebbe essere più netta: se Platone7 concludeva che l’esperienza diretta della cosa, intraducibile in concetti, è la sola forma di reale ‘contatto’ con la realtà, Aristotele8 non esitava ad affermare che le cose si

7. Platone, Lettera VII, 341C-D. 8. Aristotele, Analitici secondi, I, 2, 71b 17.

70

conoscono attraverso le dimostrazioni, senza che ciò implichi l’instaurarsi di un regresso infinito9.

9. C. Grellad, Scepticism, Demonstration and the Infinite Regress Argument (Nicholas of Autrecourt and John Buridan), in “Vivarium”, 45 (2007), pp. 331-332: «Aristotle gives a two-fold reply to this sceptical argument, a logical one and an epistemological one. The logical answer is found in Book I, 19-23, and it aims to prove that the requirements of essential predication make a regression impossible whether it is based on the middle terms or the first and last (extreme) ones. The logical solution (it might be called the negative one) consists in rejecting the possibility of infinite regress by showing that the extreme terms reciprocally limit each other: given the meaning of each of the terms, there is only a finite number of predications possible. Thus Chapter 22 shows, in a first argument, that infinity is excluded both in essential and non-essential predication. If infinite regress were allowed where essential predication is concerned, it would be impossible to construct a definition. But we are in fact able to give (essential) definitions. This argument is therefore constructed as a reductio (82b37-83a1). Then Aristotle generalizes his point to cover all predications, that is to say, non-essential predication too. The second argument is linked more directly to the problem raised in Chapter Three (83b35-84a5). The finite nature of the predication of middle terms is presented as a necessary condition for it to be possible to make a demonstration and so to gain scientific knowledge. Aristotle reasons here as if the problem raised by the sceptics (and which resists both on infinite regress and the hypothetical mode) had been resolved. And so Aristotle seems ultimately to presuppose that any solution to the problem of infinite regress is found on the epistemological side. This is effectively the conclusion of this group of chapters (84a29-b2). It has just been proved that a demonstration is made by placing a middle term between two extreme ones, and that this placing cannot go on and on to infinity. We know, therefore, negatively that not every proposition is demonstrable because not every proposition has a middle term. But it remains to explain, positively, how the principles can be known. How can one know truths that are indemonstrable because they lack a middle term? What logic allows us to affirm is that not every thing can be demonstrated. This is the first step in refuting the adversaries mentioned in Chapter 3, but it remains to explain how these indemonstrables can be known, if one wants to escape from the hypothetical mode. Aristotle is therefore led to defend the idea that certain truths can be established without arguments. Ultimately, then, founding a system supposes finding foundations outside the system. Thus

71

Nicola ritiene che, poiché l’apparire è sempre apparire-a, la certezza e l’evidenza sono tali sempre e solo soggettivamente, quali affectiones animae: lo scetticismo protagoreo-pirroniano di Nicola, di sapore probabilista, supera l’obiezione aristotelica che, allora, una stessa cosa sarebbe del pari dolce e amara in quanto appare dolce a uno e amara a un altro, affermando che tale conclusione nasce ex malitia intellectus, vale a dire dalla confusione tra evidenza soggettiva e contraddizione oggettiva, la quale è propria dell’actus dicendi e non dell’apparire. In altre parole, nel giudizio si trasforma il ‘così mi appare’ nel ‘così è’ (la certezza in verità), unificando più evidenze esperienziali in unico concetto: l’esempio di Nicola è quello di un oratore relativamente a cui, osservando il muoversi delle labbra, ma non comprendendone bene le parole, uno concludesse che ha espresso un certo concetto, collegando due evidenze (il movimento delle labbra, il concetto) secondo un nesso inevidente10. L’evidenza è propria solo dei giudizi tautologici, mentre ogni tipo di inferenza ad altro, specie l’inferenza causativa (se the conclusion of Chapter 22 echoes that of Chapter 3. Aristotle’s solution is known, but it is debated because of its ambiguity. As early as Chapter 3, Aristotle introduces the idea of a ‘principle of science that makes us capable of knowing definitions.’ For a medieval reader, the sense is different, and in a certain way more precise and reductive: principium scientie esse quoddam dicimus, in quantum terminos cognoscimus. Following this translation, the principles which put a stop to infinite regress are those principles that are known from the examination of their terms—that is to say, analytic propositions. Here, after ruling out innate knowledge of principles, Aristotle seems to hesitate between, on the one hand, an empirical production of principles, through induction, which would start from sensation and rise up to the universal thanks to memory and experience; and, on the other hand, an intellectual intuition—a direct grasp of principles. In this second alternative, what is involved is the intellectual faculty of apprehension of simples, which is completely free from error (On the Soul III,6; 430a26—430b30)». 10. Cfr. Nicolaus de Autricuria, Tractatus utilis, pp. 232 e 330.

72

esiste A, allora esiste B quale sua causa) è impropria, perché si presuppone implicitamente nel soggetto il predicato. A informare dell’esistenza di una cosa è sempre e solo la sensazione: il principio primo conferma solo l’evidenza dell’esistenza della cosa conosciuta dai sensi, esprimendola in un giudizio d’identità, ma non consente alcuna inferenza all’esistenza o inesistenza di altre cose. Se l’esperienza ci mostra che ad A segue B, questo non implica che si possa affermare la necessità di un nesso causativo tra le due realtà, giacché si esperisce solo la congiunzione di due fatti nella forma della coesistenza o della successione: non si ha esperienza né del nesso causativo, né dell’attività causativa. L’esperienza attesta solo che le cose si susseguono secondo un certo ordine: nulla può dire intorno alla contingenza o alla necessità dell’ordine e del suo svolgimento, né, tantomeno, può informare circa una causa efficiente o finale di essi. L’evidenza non è mai contraddittoria, poiché all’anima non può mai apparire una cosa che, sub eodem, sia dolce e amara. Il discrimine tra un giudizio vero e un giudizio falso è l’evidenza: il circolo vizioso diviene qui evidente, in quanto l’evidenza non può fondare la sua certezza indiscutibile su un’evidenza ulteriore, pena il regresso infinito. Per risolvere l’aporia, Nicola introduce il principio di finalità, sostenendo che l’intelletto è naturalmente orientato al bene e al vero. Pertanto, conclude, tutto ciò che appare è vero, anche se non tutto ciò che appare esiste: il bastone che si vede spezzato nell’acqua è vero, perché così appare all’osservatore, ma non esiste realmente. La debolezza della soluzione è di per sé manifesta, poiché rigetta Nicola nell’obiezione di Bernardo: se tutto ciò che appare è vero, ma non necessariamente esistente, nulla assicura il legame tra apparentia e presentia, né si dispone di un criterio per discernere ciò che è illusorio da ciò che è reale.

73

Sogno e veglia sono indistinguibili: a rigore, tutto potrebbe essere solo sogno o solo veglia. Ogni cosa, dunque, si riduce alla mera probabilità? Sinora, le obiezioni di Nicola a Bernardo sono state assai deboli: per tentare di rimediare, Nicola precisa che vi è qualcosa che è dotato di evidenza non sperimentale, ma razionale e, dunque, necessaria. Tale è l’evidenza che viene esibita da una conoscenza ricavata dal principio di contraddizione. Qui l’obiezione di Bernardo circa la differenza tra atto diretto e atto riflesso si fa decisiva: infatti, come si può determinare quale conoscenza sia incontraddittoria? Come determinare un’evidenza come incontraddittoria, se non sulla base della sua incontraddittorietà? La petitio principii è palese: l’evidenza incontraddittoria di una conoscenza è accertata in base alla sua evidenza incontraddittoria; inoltre, si dimostra la validità del criterio di contraddizione sulla base del criterio stesso, cioè accettandolo. In altri termini, come determinare l’evidenza incontrovertibile dell’evidenza, la certezza irrefutabile della certezza? Che cosa significa avere una conoscenza proprie ac ultimative11? Il principio di contraddizione fonda l’incontrovertibilità dell’evidenza e, al contempo, esso è ‘fondato’ sulla propria evidenza: anche per Nicola il circolo tra evidenza e incontrovertibilità, cioè tra esperienza e logo, è irrisolvibile12. Tuttavia, se Nicola

11. Ivi, p. 204: «Dico igitur quod haec conclusio est probabilis, quod omne illud quod apparet proprie et ultimate est, et quod apparet esse verum est verum. Pono istam conclusionem ut probabiliorem opposita, non ut veriorem». 12. Cfr. ivi, pp. 46-48. È interessante rilevare che Nicola, al fine di mostrare la plausibilità di una metafisica alternativa a quella aristotelica, ne costruisca una per mezzo della quale, presupposto il principio del meglio e del fine, sostiene l’eternità di tutte le cose, negando il divenire quale processo

74

non ammettesse questa evidenza razionale e indimostrabile del principio di contraddizione, nulla potrebbe impedire la caduta in un regresso infinito delle dimostrazioni, che implicherebbe uno scetticismo radicale. In un certo senso, il principio di contraddizione è assunto per fede, in quanto, quando si sostiene la certezza di ciò di cui si ha evidenza, implicitamente si sostiene l’inevidenza del contrario: nell’atto di percepire l’evidenza, si esclude di necessità l’evidenza del contrario. Nell’atto con cui si attesta un’evidenza, non si può sostenere che essa possa essere falsa:

di generazione e corruzione. L’esperienza attesta solo l’apparire o lo scomparire delle determinazioni, non il loro crearsi o annullarsi: «Nullus intellectus, cui est certum et evidens aliquam rem esse pro tempore aliquo, pro tempore posteriori potest sub certo dicere illam rem non esse nisi habeat aliquod medium virtualiter inferens notitiam illius negativae propositionis qua dicit rem non esse quae fuit prius. […] Illud solum experimur in nobis, videlicet quod quando succedit nigredo videtur desinere actus apparitionis qui in nobis erat, ita quod amplius non experimur in nobis actum visionis qui inerat prius». Cfr. anche p. 56: «Homines huius temporis non possunt dicere sub certo se scire quod aliqua res transiverit de esse ad non esse. E t ex istis videtur quod si alterum habet ponere intellectus meus, debet ponere res esse aeternas, praecipue permanentes; nam si in unoquoque est melior aeternitas quam eius corruptio, sic videbitur universum magis perfectum si ponantur aeternae suae partes, praecipue permanentes, sicut et suum esse aeternum conceditur». La dottrina è fondata su una riproposizione dell’atomismo classico. La sistematica distruzione della fisica e della metafisica aristoteliche, operata sulla ripresa della logica dello Stagirita, mira a mostrare come lo scetticismo protagoreo e l’atomismo democriteo siano sistemi anche più probabili di quello aristotelico, nonostante contraddicano la fede. L’uso della ragione può portare a esiti ragionevoli, ma empi: perché, allora, ostinarsi a incensare i testi di Aristotele e Averroè? Cfr. p. 64: «Desiderat enim omnis homo aeternitatem sui et in eam naturaliter tendit; unde circumscribe omnem legem positivam et propone communitati hominum quo ipsi desinent esse ad modum equorum, de quibus aestimant quod simpliciter desinunt naturaliter, tristabuntur et videbitur eis quod non sit nisi ludus baterellorum, modo est modo non est, or i est, or n’i est une». Cfr. anche pp. 274-278 e 290-292.

75

implicitamente, la si deve assumere come vera incontraddittoriamente, cioè si deve riconoscere la validità necessaria del principio di contraddizione, al di là che tale evidenza sia, in effetti, vera oggettivamente13. Nicola non sfugge all’obiezione di Bernardo: l’assunzione implicita del principio di contraddizione è operata perché si presuppone l’identità di atto diretto e atto riflesso; senza tale concessione, è impossibile sostenere che il primo principio sia conosciuto come vero per conoscenza evidente, giacché è esso a dover essere fondamento della verità dell’evidenza di tutto ciò che si conosce. Non a caso, rispondendo a Nicola, Egidio, succeduto a Bernardo nella polemica epistolare, affermerà che Dio potrebbe benissimo operare una contraddizione, poiché l’evidenza del primo principio non è assicurata da nulla. La certezza dell’evidenza è legata alla certezza del principio di contraddizione, la cui evidenza, a sua volta, è fondata su se stessa, cioè è infondata: pertanto, conclude Egidio, non si può essere certi di nulla. Si tenga presente, del resto, che qui si è al livello delle mere rappresentazioni: quello della certezza dell’esistenza oggettiva esterna è già stato dichiarato sin da subito infondabile. Il discorso occamiano è radicalizzato da Egidio: Dio potrebbe

13. «Nona conclusio est, quod aliquis posse per consuetudinem aut alias resilire, ut non assentire indubitanter ei quod est primum principium esse verum, utpote si sic nutriretur, ut sibi diceretur quod est aliquod agens omnipotens quod potest facere contrarium et quod non debet ipsum movere evidentia, quia oppositum potest stare cum ea, ut declararetur in multis. Decima conclusio est quod non posset non assentire quin esset sibi clarum et evidens». Ivi, p. 236. Ciò implica che non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio né propter quid, a causa dell’inevidenza del principio di contraddizione, né quia, a causa dell’inevidenza del principio di causalità.

76

non solo dare evidenza intuitiva di una realtà inesistente, ma, pure, ingannare anche a livello ‘soggettivo’, creando l’inevidenza di una realtà evidente (possibilità esclusa da Ockham, in quanto ritenuta contraddittoria). In sintesi, per Nicola si deve presupporre l’identità di atto diretto e atto riflesso e, da un punto di vista etico, il criterio della finalità e della bontà, che permette di affermare l’autoevidenza del primo principio, sebbene non possa garantire il passaggio dalla certezza alla verità, dalla rappresentazione alla cosa, dall’evidenza all’oggettività. Per Nicola si è certi pleno lumine almeno degli oggetti dei sensi (conoscenza intuitiva esterna), degli atti soggettivi (conoscenza intuitiva interna) e dei principii che sono analiticamente derivati dal principio primo (conoscenza intuitiva intellettiva): ogni passaggio dalla certezza alla verità rimane, in ogni caso, problematico, sebbene probabile, a causa della malitia intellectus che è alla base dei giudizi; per il filosofo francese è ragionevole ammettere che l’evidenza sia certa e che, rimandando a una realtà esistente, sia anche vera14. Ragionevole, tuttavia, non significa razionale. La disputa si conclude con la vittoria di Bernardo ed Egidio: tutto è infondato e infondabile. Per Bernardo ed Egidio ogni concessione probabilista è strutturalmente impossibile e, pertanto, tutto diviene vero e falso, certo e incerto, esistente e inesistente, sia a livello delle rappresentazioni che delle cose, poiché potrebbe essere vero il contrario di ciò che risulta evidente, stante l’assoluta onnipotenza divina15.

14. Cfr. ivi, p. 210. 15. Ivi, p. 208: «Ex praedictis igitur videtur probabilis conclusio proposita ut, licet actus iudicandi et assentiendi stent cum falsitate, actus ultimatae apparentiae non, et quare sicut de aliis esset una persuasio, quia apparentia talis est principium fundamentale omnis veritatis scitae a nobis; et ita

77

La via di Bernardo di Arezzo è precisamente quella che imboccherà Descartes: nella lettera ad Arnauld del 29 giugno 1649 egli preciserà come Dio possa creare un monte senza valle, poiché ciò appare impossibile al nostro intelletto solo in quanto Dio lo ha creato vincolato a un certo legalismo epistemologico: in altri termini, Descartes ripropone la tesi secondo cui l’evidenza dell’esperienza è sempre soggettiva, anche se in forma trascendentale, cioè come comune per natura a tutti gli enti razionali, poiché non assicura nulla circa la verità della realtà. La natura, precisa Descartes, non è una veritas aeterna emancipata a Deo, bensì il prodotto contingente della sua libera volontà16. Ben si adattano, al termine di questo percorso, le parole di Giovanni di Salisbury: «Absurdum obsurdescit»17. Dinanzi all’impossibilità di districare il mirabile miraculum dell’aporia, le orecchie divengono sorde.

tolleretur certitudo si sic esset quod staret cum non esse. Sed non si in actu iudicandi qui, etsi quando sit falsus, poterit iudicium quodammodo rectificari per istum actum». 16. Per una disamina analitica di questi temi cartesiani, cfr. A. Gatto, René Descartes e il teatro della modernità, Inschibboleth, Roma 2015. 17. Ioannes Saresberiensis, Metalogicon, I,15.

78

79

Bibliografia

Alcuinus, Disputatio Pippini cum Albino, in PL 101, coll. 975-980. Anselmus Cantuariensis, Opera omnia, 6 voll. ed. F.S. Schmitt, Thomas Nelson and Sons, Edinburgh 1946-1961. In particolare: Monologion Proslogion De grammatico De veritate De casu diaboli Epistula de incarnatione Verbi Cur Deus homo. Exemplum meditandi de ratione fidei Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004. Aristotele, Organon, a cura di G. Colli, 3 voll., Laterza, RomaBari 1970. Aristotele, Etica a Nicomaco, 2 voll., a cura di M. Zanatta, Milano 200710 (1986).

80

Aurelius Augustinus, De magistro, in M. Bettetini (a cura di), Il maestro e la parola, Bompiani, Milano 2004. Aurelius Augustinus, De Genesi ad litteram, a cura di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1989. Aurelius Augustinus, Contra Faustum manicheum, a cura di U. Pizzani, L. Alici, A. Di Pilla, 2 voll., Città Nuova, Roma 2004. Aurelius Augustinus, De doctrina christiana, a cura di M. Naldini, V. Tarulli, F. Monteverde, Città Nuova, Roma 1992. Beonio-Brocchieri Fumagalli M., Più cose in cielo che in terra, in Aa. Vv., Sopra la volta del mondo. Onnipotenza e potenza assoluta di Dio tra Medioevo e Età Moderna, Lubrina, Bergamo 1986, pp. 17-31. Croci F., Dell’Uno e dei Molti. Henologia e Henofania da Platone a Schelling, pref. di V. Vitiello, Le Lettere, Firenze 2017. Croci F., Il gioco senza fine. Henologia ed epistemologia nel Sofista e nel Parmenide di Platone, in “Giornale di Metafisica”, 2 (2015), pp. 497-512. Croci F., Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele, in “Il Pensare”, III (2014), pp. 46-53. D’Agostini F., Il nulla e altri esistenti impensabili: una rilettura del De nihilo et tenebris, in “Divus Thomas”, CXVIII (2015), pp. 17-42. Dal Pra M., Nicola di Autrecourt, Bocca, Milano 1951. Damascius, Traité des premiers principes, testo elaborato per L.G. Westerink e tradotto per J. Combès, 3 voll., Paris 1986-1991, aporie 1-8.

81

De Muralt A., Epoché – Malin Génie – Théologie de la toutepuissance divine. Le concept objectif sans object. Recerche d’une structure de pensée, “Studia Philosophica”, XXVI (1966), pp. 159-190. Fredegisus Turonensis, De nihilo et tenebris, a cura di F. D’Agostini, Il Melangolo, Genova 1998. Gatto A., William of Ockham and the odium Dei, “Mediaevalia”, 30 (2011), pp. 127-138. Gatto A., La possibilità di un inizio. Leibniz e la critica dell’indifferenza divina negli Essais de Théodicée, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”, 6 (2012), pp. 139-150. Gatto A., Pier Damiani. Una teologia dell’onnipotenza, Aracne, Milano 2013. Gatto A., René Descartes e il teatro della modernità, Inschibboleth, Roma 2015. Gatto A., Giovanni Gentile e il dramma della modernità. Percorsi storico-critici nell’attualismo, in Croci F. (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile, Inschibboleth, Roma 2016, pp. 81-100. Ghisalberti A., Onnipotenza divina e contingenza del mondo in Guglielmo da Ockham, in AA. VV., Sopra la volta del mondo, pp. 33-55. Gilbertus Porretanus: In Boethii De Trinitate, in PL LXIV, coll. 1255, 1301, 1313, 1353. Gilson É., The road to scepticism, in Id., The unity of philosophical experience, Sheed & Ward, London 1938, pp. 61-91. Grellard C., Croire et savoir. Les principes de la conaissance selon Nicolas d’Autrécourt, Vrin, Paris 2005.

82

Grellad C., Scepticism, Demonstration and the Infinite Regress Argument (Nicholas of Autrecourt and John Buridan), in “Vivarium”, 45 (2007), pp. 328-342. Gregorius Ariminensis, Lectura super Primum et Secundum Sententiarum, 7 voll., ed. A.D. Trapp, V. Marcolino, W. Eckermann, M. Santos-Noya, W. Schulze, W. Simon, W. Urban, V. Vendland, De Gruyter, Berlino-New York 1979-1987. Guillelmus Autisiodorensis, Summa aurea, 7 voll., Quaracchi, Grottaferrata 1980-1987. Gulielmus Occamus, Ordinatio (= Scriptum in librum primum Sententiarum), in Id., Opera theologica, 9 voll., ed. S.F. Brown, G. Gàl, G. I. Etzkorn, F.E. Kelly, St. Bonaventure, New York 1967-1980, vol. I-IV. Gulielmus Occamus, Quodlibeta Septem, in Id., Opera theologica, vol. IX. Gulielmus Occamus, Tractatus de principiis theologiae, ed. L. Baudry, rec. F.E. Kelley, in Id., Opera philosophica, 7 voll., St. Bonaventure, New York 1974-1988, vol. VII (dubia et spuria). Heidegger M., I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1990 (orig.: Heidegger M., Grundprobleme Der Phanomenologie, in Gesamtausgabe, 58, Klostermann, Frankfurt am Main 20102). Ioannis Duns Scoto, Reportata Parisiensia, in Id., Opera omnia, ed. Vivès, 26 tt., tt. XXII-XXIV, Paris 1891-1895. Ioannis Duns Scoto, Ordinatio, in Id., Opera omnia, ed. Commissio Scotistica, 16 voll., Typis Polyglottis Vaticanis, Civitas Vaticana 1950-2015.

83

Ioannes Saresberiensis, Metalogicon, ed. J.B. Hall e Katharine S.B. Keats-Rohan, Brepols, Turnhout 1991. Lucius Annaeus Seneca, De Providentia, in Id., Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. Moody E.A., Ockham, Buridan and Nicholas of Autrecourt, in “Franciscan Studies”, 7/2 (1947), pp. 113-146. Moonan L., Impossibility and Peter Damiani, in “Archiv für Geschichte der Philosophie”, LXII (1980), pp. 146-163. Mora Angarita J.A., Signo y lenguage en los principios de la catequética de San Agustin. Del De Magistro al De catechizandis rudibus, LUP, Roma 2016. Nicolaus de Autricuria, Epistulae, in Nicholas of Autrocourt: his corrispondence with Master Giles and Bernard of Arezzo, ed. L.M. de Rijk, Brill Academic Pub, Leiden 1994. Nicolaus de Autricuria, Tractatus utilis, a cura di A. Musu, ETS, Pisa 2009. Petrus Abaelardus, Theologia christiana, in PL 178, coll. 1113-1330. Petrus Damiani, De divina omnipotentia, a cura di A. Gatto, Il Prato, Padova 2013. Petrus Damiani, De sancta simplicitate scientiae inflanti anteponenda, in Die Briefe des Petrus Damiani, ed. K. Reindel, 4 voll., München 1983-1993, vol. III (Brief 117). Porro P., Enrico di Gand. La via delle proposizioni universali, Edizioni Levante, Bari 1990.

84

Randi E., Il sovrano e l’orologiaio. Due immagini di Dio nel dibattito sulla «potentia absoluta» fra XIII e XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1987. Resnick I.M., Divine power and possibility in St. Peter Damian’s De divina omnipotentia, Brill, Leiden 1992. Richards R.C., Ockham and Scepticism, in “New Scholasticism”, 42 (1968), pp. 345-363. Sciuto I., La semantica del nulla in Anselmo d’Aosta, in “Medioevo”, XV (1989), pp. 39-66. Šestov L., Atene e Gerusalemme. Saggio di filosofia religiosa, a cura di A. Paris, Bompiani, Milano 2005 (orig.: Šestov L., Afininy i Ierusalìm, Ymca Press, Paris 1951). Sophronius Eusebius Hieronymus, Epistula ad Eustochium de verginitatem, in Sophronius Eusebius Hieronymus, Epistulae, a cura di R. Palla, BUR, Milano 1989. Sophronius Eusebius Hieronymus, Adversus Pelagianos, CCL 80. Thomas de Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, a cura di R. Coggi, 10 voll., ESD, Bologna 1999-2002. Thomas de Aquino, Summa theologiae, a cura di T.S. Centi, R. Coggi, G. Barzaghi, 4 voll., ESD, Bologna 2014. Thomas de Aquino, Quaestiones de potentia, in Id., Quaestiones disputatae, 11 voll., a cura di R. Coggi, ESD, Bologna 1992-2003, voll. VIII-IX. Thomas de Aquino, Quaestiones quodlibetales, in Id., Quaestiones disputatae, voll. X-XI.

85

Todisco O., Guglielmo d’Occam. Filosofo della contingenza, Messaggero, Padova 1998. Weischedel W., Il Dio dei filosofi. Fondamenti di una teologia filosofica nell’epoca del nichilismo, 3 voll., a cura di L. Mauro, Il Melangolo, Genova 1988-1991 (orig.: Weischedel W., Der Gott der Philosophen. Grundlegung einer philosophischen Theologie im Zeitalter des Nihilismus, 2 B.de, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971-1972).

86

87

Indice

Nota introduttiva

p. 11

Capitolo primo Nomen Nullius

p. 15

Capitolo secondo Verba Trutinantes

p. 27

Capitolo terzo Via Moderna

p. 45

Capitolo quarto Apocalyptica Tuba

p. 65

Bibliografia

p. 79

88

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 10 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 978-88-85716-26-1

Unde nihil? Riallacciandosi alla magna quaestio che scuote e anima il filosofare, il volume raccoglie quattro studi che indagano il rapporto tra l’onnipotenza divina e la filosofia del linguaggio, nell’alveo della riflessione medievale. Il primo è dedicato alla riproposizione dell’aporetica del nulla da parte di Fredegiso di Tours e all’analisi del tentativo anselmiano di recuperare l’argomentazione di Agostino. Il secondo intende mostrare come il realismo linguistico di Fredegiso di Tours offra la più salda fondazione alla trattazione dell’onnipotenza divina esposta da Pier Damiani. Il terzo e il quarto approfondiscono gli stessi temi nella filosofia di Guglielmo da Ockham e di Nicola di Autrecourt, nelle cui speculazioni si affaccia con sempre maggior vigore una gnoseologia scettica: un’epistemologia che vede nel linguaggio non più il mezzo privilegiato di accesso alla conoscenza di Dio, bensì una trappola insidiosa per i vaniloqui di quelli che Vico definirà, causticamente, i “dotti boriosi”

Federico Croci (Milano, 1989) è dottore di ricerca e cultore della materia presso l’Università Vita-Salute San Raffele. Allievo di Vincenzo Vitiello e Giuseppe Girgenti, ha studiato con Massimo Cacciari e Massimo Donà, approfondendo l’indagine della tradizione neoplatonica e della filosofia classica tedesca. La sua ricerca si concentra sul rapporto tra filosofia e teologia. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Del Principio. Meditazioni su mistica e henologia (Il Prato, 2012) e Dell’Uno e dei Molti. Henologia e henofania da Platone a Schelling (Le Lettere, 2017).

€ 7,00