David Lynch. Ediz. illustrata 8831793934, 9788831793933

David Lynch con i suoi film realizza un universo di straordinaria intensità in cui realtà e sogno, corpi e fantasmi si i

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David Lynch. Ediz. illustrata
 8831793934, 9788831793933

Table of contents :
Il cinema di David Lynch. L’enigma e l’eccesso
L’enigma dell’immaginario
Il racconto dei fantasmi e dei corpi
La scrittura dell’eccesso
Eraserhead. La mente che cancella
Struttura e straniamento
Prima parte
Seconda parte
Orrore per la vita
Materia che precipita
Figure e forme che proliferano
L’ostentazione del video e l’incombenza dell’audio
Separazione/identificazione/cancellazione
Velluto blu
Fuoco cammina con me
Strade perdute
Sentieri interrotti e strade perdute
Prima esposizione della struttura narrativa. Due interrogativi preliminari
Il primo blocco narrativo
Figure dello sguardo (1)
Figure dello sguardo (2)
Attivazione (e inscrizione) del fuoricampo
Ritorno sull’intrigo (o della pulsione narrativa)
Identificazione
Mulholland Drive
Il mistero dei corpi
La malattia dell’immaginazione
La cura elettro-ipnotica
Inland Empire
Ce l’ha un senso Inland Empire?
I punti di sutura
La frantumazione del personaggio
La struttura a domino
Le lacerazioni del tessuto
Il buco nero del linguaggio
Il ritorno sul set
Note al testo
Biografia
Filmografia
Bibliografia

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David Lynch con i suoi film realizza un universo di straordinaria intensità in cui realtà e sogno, corpi e fantasmi si intrecciano inestricabilmente; un mondo visionario che possiamo abitare. PAOLO BERTETTO è professore di cinema nell’Università di Roma La

Sapienza. Ha pubblicato vari libri e cataloghi, tra cui L’enigma del desiderio (Premio Umberto Barbaro Filmcritica), Lo specchio e il simulacro e per Marsilio, Il cinema d’avanguardia (1910-30) e L’interpretazione dei film.

David Lynch a cura di Paolo Bertetto Marsilio

elementi sequenze d’autore a cura di Paolo Bertetto © 2008 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Seconda edizione digitale 2015 ISBN 978-88-317-3628-2 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter

Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Copyright Il cinema di David Lynch. L’enigma e l’eccesso L’enigma dell’immaginario Il racconto dei fantasmi e dei corpi La scrittura dell’eccesso Eraserhead. La mente che cancella Struttura e straniamento Prima parte Seconda parte Orrore per la vita Materia che precipita Figure e forme che proliferano L’ostentazione del video e l’incombenza dell’audio Separazione/identificazione/cancellazione Velluto blu Fuoco cammina con me Strade perdute Sentieri interrotti e strade perdute Prima esposizione della struttura narrativa. Due interrogativi preliminari

Il primo blocco narrativo Figure dello sguardo (1) Figure dello sguardo (2) Attivazione (e inscrizione) del fuoricampo Ritorno sull’intrigo (o della pulsione narrativa) Identificazione Mulholland Drive Il mistero dei corpi La malattia dell’immaginazione La cura elettro-ipnotica Inland Empire Ce l’ha un senso Inland Empire? I punti di sutura La frantumazione del personaggio La struttura a domino Le lacerazioni del tessuto Il buco nero del linguaggio Il ritorno sul set Note al testo Biografia Filmografia Bibliografia

Il cinema di David Lynch. L’enigma e l’eccesso di Paolo Bertetto Nel cinema contemporaneo David Lynch si è imposto come un autore di film che costruisce un proprio universo personale e una configurazione complessa di fantasmi psichici non dissimili dai mondi soggettivi di uno scrittore o di un artista. Per questo, parlare di Lynch vuol dire anche riconoscere una specificità e una rilevanza particolare ai suoi percorsi mentali, alle forme della sua immaginazione creativa, come non si potrebbe fare di altri autori come Hitchcock e Lang. Nel suo percorso Lynch appare infatti come un artista che persegue uno sviluppo e una intensificazione coerente dei suoi fantasmi e delle sue ossessioni personali, salvaguardate e rafforzate con straordinaria abilità e resistenza anche nel sistema hollywoodiano. Per lui diventano davvero produttivi non tanto i discorsi leggermente obsoleti sull’autorialità, ma soprattutto le ricostruzioni di un percorso psichico, di un insieme di grumi immaginari, che uno straordinario lavoro di messa in scena ha trasformato in configurazioni visivo-dinamiche proiettate sullo schermo. L’ENIGMA DELL’IMMAGINARIO

Nel cinema di oggi, i film di Lynch costituiscono l’esperienza più radicale di superamento del tradizionale ordine della realtà e di invenzione di un nuovo, anomalo ed enigmatico orizzonte del visibile. Il mondo dell’immaginario nella sua complessità di sintesi di visione e scena di fantasmi, di «immagine e di immaginazione», come scriveva Morin, trova nel cinema di Lynch una realizzazione esemplare. Fantasmi e figure molteplici lo attraversano e delineano progressivamente una dimensione segnata dalla somiglianza e dalla differenza. Da Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella) a Inland Empire, da Twin Peaks/Fire Walks with Me (Fuoco cammina con me) a Lost Highway (Strade perdute) a Mulholland Drive, Lynch sviluppa un grande inseguimento dell’altro, dell’invisibile, del segreto nascosto nell’immagine, per allargare infinitamente la nostra concezione del mondo. In questo modo Lynch si afferma come un creatore di universi, come un auctor che aggiunge

all’orizzonte intersoggettivo un altro orizzonte, complesso e personale, che è fatto per diventare collettivo. Come pochi altri Lynch realizza un autorismo radicale, anche soggettivistico, simile a quello teorizzato negli anni della Nouvelle vague, e insieme molto diverso, che richiede di essere interpretato non solo nelle sue qualità formali e registiche, ma anche e innanzitutto nella sua capacità di configurazione creativa e complessa di un altro mondo, che si aggiunge alla cosiddetta realtà. L’immaginario di Lynch si presenta subito non come un insieme di configurazioni che organizzano narrativamente il visibile, ma come un universo ulteriore e supplementare, estremamente ricco e indubbiamente misterioso, retto da logiche e da leggi inusuali e nascoste. Attraverso la dimensione dell’immaginario Lynch mette in discussione il mondo esterno ed effettua una sistematica derealizzazione del visibile. Il grande tema culturale e filosofico della contemporaneità, la fine del mondo vero, per citare Nietzsche1, o la perdita della credenza nella realtà, per citare Deleuze2, sono l’orizzonte centrale di riferimento della sua immaginazione, e vengono rielaborati da Lynch con una radicalità e una suggestione nuova nell’orizzonte cinematografico. Certo Lynch non è il primo autore che opera un intreccio e magari anche una intenzionale confusione tra mondo e immaginario, tra realtà e sogno, tra fenomeni e fantasmi psichici. Ma altri hanno costruito meccanismi più definiti o più facilmente riconducibili a un percorso interpretativo. Buñuel ha lavorato prevalentemente sui sogni e sui fantasmi inconsci e preconsci, da Un Chien andalou a Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio) e soltanto in alcuni film come Belle de jour (Bella di giorno) e Le Charme discret de la bourgeosie (Il fascino discreto della borghesia) ha creato una mescolanza enigmatica di mondo esterno e produzione fantasmatica o onirica, difficilmente districabile. Resnais ha intrecciato in maniera indubbiamente complessa il presente e il passato, il mondo e l’orizzonte della memoria, creando poemi visivi in cui la temporalità si moltiplica e la memoria diventa la dimensione più rilevante della soggettività: da L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad) a Providence, il cinema è lo spazio di un’avventura nella psiche che subordina l’azione al ricordo, la vita presente ad altri strati della psiche. Alcuni film di Robbe-Grillet, poi, hanno lavorato sistematicamente sulla menzogna e sul raddoppiamento della menzogna all’interno della finzione narrativa,

realizzando con L’Immortelle e soprattutto con L’Homme qui ment dei meccanismi in cui l’illogicità programmata e la menzogna paiono dominare incontrastate. Il lavoro di Lynch è sotto vari aspetti ancora più complesso. Perché Lynch non si limita a mescolare il sogno e la realtà, il delirio e i fenomeni, ma introduce all’interno dei meccanismi della finzione filmica l’illogicità e la contraddizione più radicale. Da un lato Lynch introduce nell’orizzonte filmico una dimensione non reale di forze oscure, di fantasmi parapsichici, di oltrepassamento dell’orizzonte abituale che scardina la credibilità dei mondi e li rende ancora più inquietanti. In Eraserhead. La mente che cancella, in Fuoco cammina con me, l’apertura al mistero si fa apertura alle forze segrete e malvagie nascoste nelle pieghe del mondo, tra realtà e irrealtà. Dall’altro Lynch introduce configurazioni palesemente alternative e contraddittorie all’interno dell’immaginario testuale. In Strade perdute a metà del film il protagonista (Fred/Pete) cambia identità e immagine pur continuando a essere il personaggio di riferimento della narrazione. In Mulholland Drive le due protagoniste femminili (Betty/Diane Selwyn, Rita/Camilla Rhodes) e anche alcuni altri personaggi mutano di identità, di nome e di ruolo a un certo punto del film, mentre un mondo finzionale subentra al precedente, con spazi simili o comuni e logiche intersoggettive differenti. In Inland Empire, che alla lettera è l’impero dell’interno, l’universo dell’interiorità, i frammenti molteplici e contraddittori della vita della protagonista si mescolano e si intrecciano con immagini del mondo del cinema, in un gioco di rifrazioni e di specchi in cui diventa difficile distinguere le componenti e le funzioni. In Lynch l’universo del cinema non costituisce soltanto un orizzonte citazionistico, ma è diventato un mondo di riferimento posto sullo stesso piano degli altri mondi possibili, o addirittura il mondo centrale di riferimento, l’orizzonte in cui si produce un immaginario che si sostituisce alla realtà esterna. Come scrive Julia Kristeva «l’immaginario mediatico sta per divenire non soltanto la realtà della coscienza, ma la Sola Realtà Oggettiva»3. Questa affermazione progressiva della molteplicità degli universi immaginari si realizza in Lynch attraverso una sorta di sviluppo interno e di ampliamento della struttura genetica del suo stesso cinema. Il mondo di Lynch è infatti segnato, sin dal suo primo manifestarsi, dall’emergenza forte del fantasma e dalla sua

centralità psichica, come Eraserhead mostra con indubbia evidenza. Lynch non guarda il mondo esterno, ma semmai, per parafrasare Handke, il mondo interno dell’esterno dell’interno4. Lynch non solo mostra la povertà del realismo, ma attesta come una via di possibile allargamento del pensiero e dell’immaginazione implichi il distacco dalla banalità del tipico, dalla rappresentazione della realtà e vada nella direzione opposta, nell’universo del non visibile e della mente. Questo percorso non è tanto il risultato di una opzione intellettuale, ma è in un certo senso reso necessario dall’urgenza delle figure interne, dall’irrompere dei fantasmi soggettivi, che diventano dominanti nel mondo di Lynch e rendono debole e secondario il rapporto con l’esterno5. È perché il fantasma è forte e dominante e afferma la propria ossessività che la realtà perde consistenza e diventa un territorio manipolabile e trasformabile. È perché l’urgenza dei percorsi del desiderio e dell’angoscia diventa incontrollabile che il visibile può rifigurarsi come il terreno di affermazione dell’allucinazione e dell’ossessivo. Sin dal primo Lynch, la scena psichica è così forte da diventare non un altro mondo, ma il mondo più rilevante, la dimensione in cui si giocano le relazioni, gli eventi e i destini. Così il primo lungometraggio di Lynch è una visualizzazione di un fantasma, un’oggettivazione visiva di una figura psichica e assume la forma dell’allucinazione. Una scena familiare è trasformata in un incubo a occhi aperti, diventa un nightmare da cui non è possibile svegliarsi. La mostruosità si inserisce nel quotidiano e attesta la presenza dominante del tragico. I soggetti perdono l’integrità psicofisica, appaiono come figure deboli, insufficienze, fragilità viventi, presenze che hanno perduto l’identità antropologica e sembrano inscritte in un incubo metafisico di Kafka (autore particolarmente amato da Lynch). L’altro, il diverso inadeguato si accampa dentro la struttura stessa dell’ordine e della sicurezza, incrina la forza costruttiva dell’universo familiare. L’evocazione lynchana della mostruosità in ogni modo non ha in Eraserhead nulla di estrinseco e di spettacolare, ma segna piuttosto l’avvio di un percorso intenzionale nell’orizzonte del dolore e dell’angoscia. La presentazione della mostruosità sofferente non è solo l’oggettivazione allucinatoria di un fantasma. È anche un’esperienza di angoscia che afferma un modello autonomo di cinema, legato a un progetto diverso, non solo rispetto a Hollywood, ma anche rispetto al cinema d’autore, e sembra riprendere quella radicale esperienza del mostruoso e dell’Angst che è Freaks di

Browning. In Lynch la condizione esistenziale di negatività descritta è la registrazione di un itinerario di sofferenza che ha un palese carattere finzionale, ma che in ogni modo si riversa sullo spettatore, lo aggredisce e lo invade. In questo senso Lynch comincia con Eraserhead a costruire il suo spettatore particolare, che è uno spettatore dominato dall’angoscia e quindi da un’esperienza di non piacere: uno spettatore che all’inizio sembra concepito in opposizione ai modelli hollywoodiani, ma che in seguito si intreccerà con alcuni aspetti della spettatorialità postclassica americana. Già all’inizio, tuttavia, Lynch costruisce un meccanismo duale, in cui sadismo e masochismo sono strettamente connessi: il percorso nella sofferenza di Eraserhead, infatti, unisce insieme il sadomasochismo del regista e il masochismo dello spettatore, entrambi coinvolti in un processo dominato dalla produzione e dalla sperimentazione dell’angoscia. L’ossessione della mostruosità e del diverso tragico, d’altronde, segna la prima fase dell’attività di Lynch e ritorna in forma meno pura e astratta, più spettacolare, ma sempre estremamente forte in un altro film, Elephant Man. È un film ispirato alla vita di un mostro da luna park, che viene presentato ancora una volta come un soggetto e insieme un vettore di sofferenza. Emozionalità e pathos sono correlati in una prospettiva che sfrutta non tanto l’identificazione quanto i meccanismi di compassione del pubblico, per realizzare una nuova tensione spettatoriale. Lynch lavora ancora sul fantasma dell’alterità come alienità inaccettabile e nella narrazione potenzia il meccanismo di dolore e di esclusione dalla vita sperimentato dal protagonista. L’alterità è colta come estraneità radicale che produce solitudine e dolore, come impossibilità dell’esistenza, come infinita fragilità del soggetto, secondo una tradizione che ha certo ascendenze nella cultura del romanticismo. Questa inscrizione dell’altro accanto al medesimo è un modo di elaborare l’orizzonte dei fantasmi come prima moltiplicazione del possibile, come estensione dell’immaginabile, e comincia a delineare l’apertura a un altro mondo. Ma i fantasmi lynchani non sono soltanto allargamenti al diverso o al mostruoso presente dentro e oltre l’universo consueto, ma anche emergenze di figure profonde dominate dalle condensazioni e dagli

spostamenti anomali e intensivi della pulsione e del desiderio. Un film come Velluto blu è l’irruzione di un desiderio inaccettabile, filtrato e chiuso dalla censura psichica, che assume la forma dell’allucinazione onirica per trovare una via di configurazione. Il desiderio sadomasochistico, reso impossibile dal contesto ordinato e repressivo della vita nella provincia americana, si sviluppa come ossessione psichica che emerge dirompente nel sogno (o nell’allucinazione – il film resta ambiguo su questo aspetto) del soggetto desiderante. La pressione pulsionale organizza scene dell’eros e della violenza, in cui la volontà di sopraffazione e di sofferenza del protagonista sognante si manifesta in modi molteplici. La scena della violenza del gangster psicotico non presta semplicemente ad altri la pulsionalità aggressiva del protagonista stesso, Jeffrey, ma oggettiva la dimensione sadomasochistica come l’orizzonte dell’intensità e del delirio in cui il desiderio può configurarsi con la forza necessaria. La violenza esercitata sulla cantante sfiatata, che ha le medesime fattezze di una vicina del sognatore, madre affettuosa e sorridente, è strettamente integrata al desiderio del protagonista di essere posto lui stesso in una condizione di violenza subita, come se la forza del desiderio sadico non potesse non implicare anche l’irrompere di un desiderio di diventare oggetto di violenza, vivendo una situazione di angoscia e di pericolo prolungati. L’ossessione sadomasochistica trasforma quindi i soggetti e i corpi lynchani in vettori di intensificazione pura, segnati dalla violazione dell’integrità e dall’inscrizione del negativo. I soggetti e i corpi sono inseriti in una situazione di anomalia, verificano tutta la loro fragilità, sono portati al parossismo: sperimentano l’esistenza a un grado elevatissimo di tensione. Proprio all’opposto dell’immagine conclusiva che sembra registrare un mondo di tranquillità e di pura armonia, l’esperienza del protagonista nel mondo del sogno/allucinazione è segnata dall’eccesso, dalla rottura, dalla disgregazione delle regole, dall’irruzione della sensazione pura. Come i corpi dipinti da Bacon, i personaggi dell’allucinazione sono segnati dal disfacimento, portano inscritti i segni della violenza e dell’aggressione, hanno la fragilità della carne destinata a essere tormentata e torturata. All’infermità e all’anomalia dei corpi di Eraserhead e di Elephant Man subentra un’altra fragilità, legata all’esperienza perversa della visione masochistica. Ai fantasmi di diversità e di sofferenza dei primi film, si sovrappongono i fantasmi dell’intensificazione deviata delle

sensazioni, propri del desiderio sadomasochistico. Sono entrambi movimenti dell’immaginario che finiscono per sottrarre rilevanza all’orizzonte mondano e sostituirgli la forza travolgente della sensazione, dell’eccesso del sentire, che sradica entità, regole e confini e finisce per piegare e subordinare totalmente il mondo esterno. È un processo che scopre progressivamente l’intensità dell’emozione come forza dominante e piega alla fantasia dispiegata ed eccitata tutte le determinazioni esistenziali. Su questo grumo forte di tensione sensitiva e di emozionalità, la realtà oggettiva perde progressivamente di valore e si mescola indifferentemente all’attività immaginativa, con i suoi sogni, le allucinazioni e i deliri. E i mondi interni possono intrecciarsi con il mondo esterno, proporsi ora in alternativa ora in compenetrazione, creando una irrealtà tensiva e ipertrofica che assorbe tutte le determinazioni. L’emergenza e l’affermazione di un universo filmico di mondi paralleli e allucinatori sembra essere in Lynch il risultato di un percorso psichico coerente e segnato da una progressiva affermazione dell’eccesso e del delirio come dimensioni privilegiate della invenzione creativa. Ma insieme Lynch è sempre perfettamente consapevole di essere un uomo di cinema, immerso nell’universo filmico e costituito non solo dai suoi fantasmi psichici, ma anche dall’immaginario cinematografico. Il mondo di Hollywood è non solo un orizzonte dominante nella comunicazione sociale della contemporaneità, ma anche un enorme patrimonio che invade insieme l’immaginario collettivo e quello individuale di Lynch. Al di là dei fantasmi soggettivi, della forza delle immagini allucinatorie prodotte dalla psiche, Hollywood è un grande mondo parallelo che sembra sostituirsi gradualmente al dominio della realtà. L’universo hollywoodiano è uno dei mondi possibili che infestano la contemporaneità. Non solo i film di Lynch sono intessuti di rinvii e di citazioni del cinema hollywoodiano, ma è proprio l’universo hollywoodiano nella sua dimensione sistemica a diventare una componente essenziale del mondo di Lynch. Non a caso Lynch cita tra i suoi film preferiti un film come Sunset Boulevard (Viale del tramonto) (definito da Lynch uno dei suoi cinque top film6), che configura la quintessenza del mondo e del mito hollywoodiano. Perché l’immaginario hollywoodiano – e per estensione cinematografico – è per lui non solo un enorme patrimonio di

immagini e di emozioni, ma è anche il Grande Mito del Novecento, la grande macchina immaginaria che si è sovrapposta alla realtà sino a subordinarla. Il meccanismo di riferimento di Lynch al cinema hollywoodiano non ha quindi un semplice carattere citazionistico, non è una procedura di riscrittura del cinema classico e del noir in particolare, ma l’attivazione di un rapporto con un altro mondo, che vive accanto al mondo esterno e si intreccia oramai inestricabilmente con esso. Il cinema hollywoodiano costituisce infatti un orizzonte dell’immaginario che si colloca accanto ad altri orizzonti fantasmatici, legati all’esperienza vissuta o alle dinamiche libidiche. È qualcosa che vive come una scena psichica, che attraversa la coscienza e l’inconscio per diventare un elemento rilevante del grande patrimonio fantasmatico che assedia il cinema di Lynch. Eraserhead ed Elephant Man sono entrambi dominati dal forte e inquietante riferimento al terribile Freaks di Browning e alla sua immersione nell’universo del mostruoso. Ma insieme qualcosa di The Fly (La mosca) di Cronenberg o di The Thing (La cosa) di Carpenter ritorna, soprattutto nel disegno degli interni claustrofobici. E in Strade perdute i riferimenti al noir e al thriller hollywoodiano sono evidenti, da Double Indemnity (La fiamma del peccato) a Kiss Me Deadly (Un bacio, una pistola), da Viale del tramonto a Vertigo (La donna che visse due volte). In Mulholland Drive, sorta di grande ed esplicita rivisitazione di Viale del tramonto all’inizio del 2000 (la scritta «Sunset Boulevard» appare esplicitamente poco dopo l’inizio del film), l’oggettivazione del mondo del cinema è effettuata mediante un riattraversamento della Hollywood classica, indirettamente comparata con la Hollywood di oggi, e grazie alla ripresa di immagini e procedure che rimandano al grande cinema internazionale, da Das Cabinet des Doktor Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari) a Persona, da The Woman in the Window (La donna del ritratto) a, ancora, La donna che visse due volte7. Inland Empire è poi tutto intessuto di intrecci non solo con Hollywood, ma soprattutto con il mondo della neotelevisione e dei serials, che diventano centrali nell’intreccio delle esperienze esistenziali dei personaggi. Tutto il cinema di Lynch lavora con il patrimonio audiovisivo del Novecento. Lynch d’altronde si muove con la lucidità assoluta di un artista consapevole che lo sviluppo e l’affermazione di una ricerca personale non può non articolarsi all’interno della saturazione del simbolico e dell’immaginario che caratterizza il mondo

contemporaneo. Lynch sa che «il mondo vero è diventato favola», come scriveva Nietzsche già nel 1888 ne Il crepuscolo degli idoli8, e persegue la propria originalità mediante un’evocazione rapsodica e inventiva, ma costante, dell’immaginario più potente e diffuso del secolo scorso. Il suo mondo cinematografico si intreccia con la favolizzazione del mondo che la diffusione estrema degli immaginari e delle narrazioni popolari ha prodotto nel Novecento. Lynch non è soltanto consapevole di lavorare dentro un simbolico saturato, ma è persuaso che la ricchezza del simbolico diffuso sia un orizzonte, quasi un ente, di grande rilevanza, che va considerato non meno del mondo oggettivo. Hollywood e il cinema sono il secondo mondo parallelo con cui si confronta Lynch, e forse dal punto di vista della potenza, della vastità e della diffusione, addirittura il primo. I mondi paralleli che ossessionano i film più significativi di Lynch hanno forse nell’universo del cinema il primo modello configurativo. IL RACCONTO DEI FANTASMI E DEI CORPI

Dall’intersezione tra il mondo del cinema e i fantasmi psichici, Lynch trae in fondo il modello del suo immaginario e del suo cinema, che è sempre, anche quando sviluppa i percorsi più stravaganti, una grande esperienza di narrazione. L’emergenza dei fantasmi, delle ossessioni, infatti, non diventa mai in Lynch negazione della possibilità del racconto, ma semmai reinvenzione del modo di narrare, sperimentazione di nuove forme di affabulazione. Lynch può arrivare al punto di disgregare la logica del racconto, di mutare i personaggi a metà della narrazione, come fa in Strade perdute e in Mulholland Drive, ma non rinuncia mai alla forza e al fascino del racconto. In fondo Lynch sembra avere la consapevolezza che è attraverso la configurazione del racconto e la rifigurazione del tempo, come scriveva Ricoeur9, che noi riusciamo a comprendere l’esistenza e il suo senso. E tutte le sue ossessioni, le sue emergenze fantasmatiche sono sempre collocate all’interno di un percorso narrativo, perché è proprio l’orizzonte del racconto che permette di attribuire un senso ulteriore ai fantasmi emergenti e di renderli più ricchi e più rilevanti anche per gli altri. Lynch sembra attestare come, paradossalmente, i grandi sperimentatori sappiano essere anche grandi narratori, secondo il modello del Godard degli anni sessanta. Solo attraverso un percorso di reinvenzione e di

ridefinizione dei modi del raccontare è possibile nel cinema (ma anche nel romanzo) elaborare nuove forme e delineare nuovi immaginari forti e credibili. Nel cinema, la sperimentazione avulsa dai meccanismi della narrazione e dell’identificazione rischia di non funzionare: come dimostrano i film cosiddetti brechtiani o i film sperimentali svincolati da tracce o componenti narrative. In Lynch l’attivazione intenzionale e forzosa del racconto non riflette semplicemente la salvaguardia di un patto con lo spettatore, ma costituisce un passaggio produttivo che problematizza e arricchisce il senso. L’oscurità dei film di Lynch, infatti, allarga e infinitizza le possibilità del senso, attribuisce una tensione ulteriore allo sviluppo narrativo del film e coinvolge lo spettatore in un ruolo attivo di interprete. Lynch è consapevole che il meccanismo di ambiguazione del film non è dilatabile oltre un certo limite. L’illogicità può investire anche un nodo narrativo essenziale, come accade in Strade perdute e in Inland Empire (e non in Mulholland Drive o in Velluto blu), ma non può arrivare al punto di rendere tutto caotico, illogico e insensato. Deve mantenere dei punti si riferimento, magari flessibili, complicati, ma tuttavia capaci di ancorare fortemente al racconto lo spettatore. Inland Empire è sotto questo profilo un punto estremo, in cui non solo comprensibilità e incomprensibilità si bilanciano, ma la pluralizzazione dei sensi non supera un livello di accessibilità, non esplode. In Lynch il racconto, invece di essere una struttura vincolante che limita la sperimentazione e frena l’invenzione, diventa una forza produttiva che rende più complessi i passaggi e più ricche le possibilità di significazione.Dentro l’orizzonte della narratività i fantasmi e le scene emergenti dall’inconscio non solo possono trovare un’adeguata collocazione, ma insieme sembrano acquistare una nuova produttività significante. Oggettivare un fantasma psichico ha il valore di un’inscrizione nel simbolico di una scena spesso di origine inconscia: è una inscrizione del figurale nell’orizzonte del film10. Inserire il fantasma psichico dentro una forma narrativa vuol dire creare nuove costellazioni di elementi, produrre contrasti tra materiali compositivi eterogenei e per questa via aprire a nuovi percorsi del senso, in cui il figurale gioca un ruolo rilevante. Le scene psichiche, i materiali di probabile origine inconscia attraversano il suo cinema, lo sottopongono a improvvise variazioni della narrazione, a trasformazioni del tono e dell’atmosfera: creano una dinamica di rottura e di allargamento, di innovazione e di

complessità. Non sono solo l’orecchio di Velluto blu o la scatola blu di Mulholland Drive: sono tutta una serie di situazioni in cui l’ossessione dell’angoscia o del desiderio emergono con tutta la loro forza esplosiva. La testa di mostro di Eraserhead o quella di Elephant Man non sono meno dirompenti delle dinamiche della sessualità e del sadomasochismo in Velluto blu e in Strade perdute. Ma sempre la loro forza dirompente è resa più complessa e più ricca dall’inserimento in un racconto che allarga la significazione e l’avvicina all’enigma. Nei film senza narrazione, cioè senza un contesto logico di riferimento, senza strutture spazio-temporali coordinate, non ci sarebbe la possibilità di creare un enigma. L’enigma è l’affermarsi di una condizione di irresoluzione logica di un insieme di elementi strutturati: e nel cinema la garanzia di struttura è assicurata proprio dal racconto. Nei film più significativi di Lynch l’enigma assume la forma della configurazione narrativa e la configurazione narrativa si presenta come enigma. D’altronde proprio l’inserimento delle scene psichiche all’interno di una forma narrativa complessa tende a trasformare la scena conscia o inconscia in una sorta di affabulazione fantasmatica o di teatro della mente, che introduce direttamente nel film la complessità delle operazioni mentali e il loro carattere di visione psichica assolutamente particolare11. Non sono i fantasmi di carne e sangue, di fuoco, di spazi inquietanti variamente illuminati, gli oggetti enigmatici – l’orecchio (Velluto blu), la scatola blu (Mulholland Drive), la fotografia che cambia (Strade perdute) –, i molteplici personaggi misteriosi a creare la tensione e l’enigma, ma il loro inserimento all’interno di percorsi narrativi, la loro forza visiva dirompente, la loro eterogeneità rispetto alla linea narrativa. È il contrasto tra lo sviluppo narrativo e le inserzioni di anomalie figurali, eterogenee a produrre l’effetto inquietante ed enigmatico. Lynch usa il racconto al di là della sua funzione di intrattenimento come vettore di intensità e di produttività significante. Come ha mostrato ancora Ricoeur12, la narrazione è una configurazione degli eventi nel tempo, che costruisce il senso complessivo degli accadimenti, strappandoli alla dispersione e alla frammentarietà. Il racconto produce quindi un senso ulteriore che, fra l’altro, diventa per il soggetto il modello di comprensione del tempo esistenziale. In fondo Lynch sembra avere la consapevolezza che – come spiega Ricoeur – è attraverso la configurazione del racconto e la rifigurazione del tempo che noi riusciamo a comprendere l’esistenza

e il suo senso. Ma in questo processo il racconto elabora una logica dell’intrigo e un ordine simbolico che aggiungono senso al visibile e creano una dinamica del senso estremamente reattiva. Gli interventi di rottura dell’ordine simbolico all’interno del racconto si caricano dunque di una potenzialità significante particolarmente forte, diventano emergenze di un’alterità radicale, che insieme incrina la logica lineare e allarga le possibilità del senso. Questa capacità di sviluppare una prospettiva testuale e insieme di frequentarne anche un’altra, apparentemente opposta, riuscendo a creare una sintesi ulteriore estremamente suggestiva e complessa, costituisce d’altronde una delle determinazioni più rilevanti del modello compositivo lynchano. Lynch innesta il non narrativo dentro il narrativo, un mondo parallelo e/o alternativo accanto al mondo simulato, l’immaginario in opposizione alla realtà, la configurazione dei modi esistenziali accanto alle emergenze pulsionali e fantasmatiche, l’orizzonte della mente accanto alla esaltazione intensiva della corporeità. Questo procedere attraverso le differenze, questa commistione di alterità significanti è in fondo uno dei modi più rilevanti del lavoro di Lynch e spiega forse la straordinaria forza delle sue immagini e dei suoi film. Certo l’immaginario nelle sue forme più stravaganti irrompe spesso nei film di Lynch, disarticolando il tessuto significante, ma sempre si lega e magari si oppone a una linearità narrativa definita. Certo la scena della mente costituisce una dimensione centrale, ma insieme i corpi e gli oggetti hanno una valenza ossessiva. Tutti i percorsi più importanti nell’economia lynchana sono legati all’emergenza di un’alterità oppositiva, di una differenza forte. E la fusione dei diversi o la sintesi di poli contrastanti sono proprio le procedure più produttive della messa in scena lynchana. Prendiamo il teatro della mente e la rilevanza dei corpi. Da un lato i film più radicali di Lynch si presentano come una sorta di grande, complessa e contraddittoria scena psichica in cui si mescolano e si intrecciano percezione e allucinazione, prelevamenti di spazi del vissuto ed emergenze pulsionali, scene fantasmatiche, preconsce e inconsce. Dall’altro nell’intensità degli orizzonti immaginari proposti, la dimensione del corpo assume una rilevanza crescente, appare ora come materialità evidente ed esibita, ora come presenza misteriosa, parvenza simbolica, ora come pelle, sangue. I corpi

attraversano la scena psichica come organi di piacere e di sofferenza, insiemi vibranti dominati dalle dinamiche pulsionali, vettori caldi e intensificati, segnati dalla condensazione e dallo spostamento libidico. La scena psichica è assediata dai corpi, dalla loro pulsionalità scatenata, proprio come la corporeità è non solo il luogo dei fantasmi di desiderio, ma assume anche una rilevanza simbolica ulteriore. Questa interazione sistematica tra mente e corpo, tra cervello e carne sembra oggettivare nel vivo del racconto immaginario non solo l’insistenza freudiana sul rapporto strutturale tra psichico e biologico, sistematicamente studiata soprattutto dalla prima psicanalisi, ma anche le nuove riflessioni delle neuroscienze e ad esempio le ricerche di Damasio: e un concetto estremamente suggestivo come quello di «marcatore somatico»13, delinea i modi diversi di intreccio tra lo «stato somatico» e il cervello, la profondità dell’imbricamento e delle reattività operanti. Questa interconnessione profonda e condizionante tra corpo e psiche appare dunque configurata nel cinema di Lynch in modi particolarmente significativi. In Velluto blu non solo il corpo di lei, ma anche il corpo di lui sono palesemente spazi del desiderio e della sofferenza, territori di una dinamica perversa in cui il masochismo diventa dominante. I corpi sono sempre soggetti a una tensione e a una intensificazione particolare, che ora stringe ed esalta le spinte pulsionali, ora si apre alla violenza e all’aggressione dell’altro. I corpi diventano così spazi aperti all’altro e pulsanti di dolore patito, di esperienze di violazione subita, di violenze che lacerano la protezione della pelle, per fare emergere, attraverso le ferite, la carne, il sangue. Soprattutto il corpo della donna si dà come corpo destinato alla violazione, quasi segnato da una vocazione segreta alla passione masochistica. E il sangue, la carne e la ferita riemergono sistematicamente nel cinema di Lynch, ora in un’improvvisa irruzione di un’immagine fantasmatica e decontestualizzata, come accade più volte in Strade perdute, ora nel ritorno di una scena traumatica che non si riesce a rimuovere, come succede in modi diversi in Twin Peaks e in Fuoco cammina con me. In altri casi invece il corpo appare come spazio dei possibili, come luogo che mostra alternative dei soggetti senza incrinarne l’integrità. L’idea del corpo come orizzonte di inscrizione e di visualizzazione della sofferenza assume in Lynch articolazioni diverse. In

Eraserhead e in Elephant Man, il corpo è insieme non solo qualcosa che porta e oggettiva la sensazione forte di dolore, di infelicità. Nei corpi la mostruosità è percepita come patimento immediatamente visibile, come disagio profondo che si palesa con una evidenza lacerante. Anche nel cortometraggio The Amputee, l’amputazione, la riduzione del corpo a deformità diventa la configurazione di una sofferenza inscritta nel corpo, il segno di una frustrazione e di un’infelicità profonda. La menomazione è d’altronde anche presente in Straight Story (Una storia vera), in cui il protagonista usa le stampelle, e poi in Mulholland Drive, ad esempio nel personaggio di Mr. Roque, come segno di un’infermità sempre possibile, che incombe su tutti. L’insufficienza e la debolezza della soggettività, d’altronde, caratterizzano i personaggi di Lynch, che sono generalmente segnati dalla fragilità e dalla inadeguatezza. Sono innanzitutto soggetti che sembrano accedere a modi di vita insufficienti, inautentici, segnati da una sorta di ineliminabile miseria esistenziale (Eraserhead, Elephant Man, Una storia vera). Appaiono in una condizione di sostanziale anomia, sono segnati da una condizione di assenza o di fragilità delle identità. Spesso sono soggetti divisi, affetti da una sorta di frattura schizoide, che frammenta il carattere e produce comportamenti differenti e a volte opposti (Velluto blu, Twin Peaks/Fuoco cammina con me, Strade perdute, Mulholland Drive, Inland Empire). L’idea del soggetto diviso, della sindrome schizoide, della separazione interna, dell’identità fratturata o molteplice attraversa il cinema di Lynch come una sorta di ossessione profonda, di determinazione radicale. Tutti i soggetti lynchani sono potenzialmente doppi o multipli, quasi un’estensione nel tempo e nell’immaginario delle immagini-identità molteplici del Dr. Mabuse, che fonda la moltiplicazione schizoide e problematica del soggetto plurale nel cinema. Non sono soltanto l’uniformità e la linearità del soggetto naturalistico e ottocentesco che qui vengono disgregate. È il presupposto stesso di una consequenzialità e di una causalità omogenee nei comportamenti, nella gestione delle cose, che è assente nei personaggi del cinema di Lynch. Le logiche di comportamento sono invece del tutto diverse, segnate dalla discontinuità e dalla frammentazione, dalla crisi dell’integrità e dalla irragionevolezza, dall’emergenza di percorsi pulsionali anomali, spesso segnati dalla perversione esplicita, e dalla duplicità, dalla molteplicità delle figure esistenziali

assunte. Questa radicalità della separazione della soggettività giunge in Lynch sino a un livello di rottura estrema e si mostra infine nella duplicazione stessa dei personaggi, che diventa una figura esemplare, una configurazione esponenziale della scissione dei soggetti. L’io diviso plurale diventa nei film più radicali di Lynch un io raddoppiato in personaggi diversi, moltiplicato in configurazioni immaginarie doppie: in Strade perdute la sostituzioneraddoppiamento di Fred/Pete e Renee/Alice e in Mulholland Drive il rovesciamento di identità tra Betty/Laura Selwyn e Rita/Camilla Rhodes sono figure simboliche, oggettivate nella narrazione, dell’idea stessa di soggetto diviso e schizoide. Nella sequenza allo specchio in cui, sul modello del bergmaniano Persona, le due protagoniste, Betty e Rita, attuano un complesso gioco di identificazioni e di raddoppiamenti, di perdita di sé e di ritrovamento dell’altro, la riflessione lynchana sul soggetto schizoide tocca forse uno dei momenti di maggiore intensità eidetica. D’altronde i personaggi lynchani tendono a configurarsi non solo come soggetti deboli e scissi, ma anche, heideggerianamente, come soggetti gettati in una situazione, posti tra le cose, senza nessun riferimento di valore, senza nessun fondamento di identità. La loro è generalmente una condizione di soggetti gettati in una situazione e costretti a reagire a un insieme di problemi e di aggressioni, psichiche e fisiche, di pulsioni contraddittorie e di traumi, di comportamenti spesso irragionevoli e di illogicità diffuse. Ed è una condizione immaginaria che sembra riflettere appunto l’interpretazione dell’esserci e della soggettività elaborata dalla filosofia dell’esistenza del primo Heidegger di Essere e tempo e del primo Sartre di L’essere e il nulla14. Il mistero che spesso avvolge i personaggi lynchani è in fondo anche segnato da questo carattere di improvvisa emergenza di attanti che appaiono catapultati in situazioni preesistenti, a volte estremamente difficili, che sembrano destituiti di ogni retroterra, privi di ogni garanzia e di ogni valore, immersi in un mondo sovente ostile e irragionevole, che si presenta come l’altro solidamente strutturato che il soggetto fatica a comprendere. In questa complessità assolutamente particolare, il cinema di Lynch appare quindi non solo come un orizzonte in cui i fantasmi interiori

si oggettivano e si fondono con l’immaginario diffuso, diventano scene psichiche e incubi condivisi, ma anche come un luogo in cui le fratture, le contraddittorietà, le trasformazioni e gli enigmi del mondo tardomoderno sono figurati in forme narrative intensive. Ma insieme, e soprattutto, appare come una scena in cui le figure del pensiero contemporaneo, i modi concettuali si fanno concrezioni psichiche, diventano fantasmi dell’immaginario e trovano una incredibile oggettivazione nelle forme mobili ed effimere del visibile filmico. Con una straordinaria capacità di sintesi, Lynch configura un grande universo narrativo, in cui il figurale e l’eidetico, il pulsionale e lo psichico, i corpi intensivi e le idee, la gestualità e i sensi nascosti si fondono in una sistematica e quasi illogica e incredibile fusione delle molteplicità. Cinema e filosofia in atto. LA SCRITTURA DELL’ECCESSO

La creazione di un mondo filmico così complesso è realizzata da Lynch attraverso un lavoro di messa in scena quanto mai forte ed elaborato, che sa organizzare e impiegare al massimo grado la ricchezza e le potenzialità del linguaggio filmico. Quello che infatti caratterizza il cinema di Lynch è la volontà di combinare l’invenzione di un universo fantasmatico ed enigmatico con lo sviluppo di una messa in scena di grande forza, segnata da una pratica dell’eccesso15. Mentre altri registi che hanno lavorato sulla dimensione onirica e/o psichica come Buñuel o Robbe-Grillet hanno prevalentemente usato la regia come modo specifico di oggettivazione della complessità dell’immaginario e un autore come Resnais ha sviluppato soluzioni di scrittura molto particolari e sicuramente anticlassiche, Lynch afferma la messa in scena come invenzione di forme e immagini dell’eccesso ed esercizio della potenza spettacolare, ma insieme anche come intensificazione di opzioni di scrittura assolutamente personali. A parte l’esperienza anomala, e certo felice, di Eraserhead, Lynch costruisce un tessuto filmico segnato dalla valorizzazione e dallo sfruttamento intenzionale delle potenzialità particolari della messa in scena. Lynch concepisce la messa in scena come eccedenza, esplosione, come una procedura che non si limita a riprendere un profilmico già di per sé stravagante o anomalo, ma lo trasforma in una potenza esplosiva. Lynch usa tutti gli strumenti che la tecnologia

cinematografica gli mette a disposizione. Non si pone problemi di limitazione e di selezione degli strumenti, né questioni di purismo linguistico. Non esclude assolutamente le tecniche, le procedure e le ricerche di effetti del cinema hollywoodiano, ma le usa in una prospettiva diversa. La sua messa in scena costituisce una sorta di grande ricognizione sulle possibilità del linguaggio filmico, riattivate e funzionalizzate alla realizzazione di immagini e di effetti di grande potenza. Lynch lavora sulla macchina spettacolare, crede alla forza significante e coinvolgente della spettacolarità. Sa che il cinema è seduzione dello spettatore e non sottrae al lavoro realizzativo nessuna possibilità di fascinazione. L’opzione per una scrittura dell’eccesso, per una scrittura della potenza si manifesta innanzitutto nella volontà di catturare e coinvolgere lo spettatore nelle forme più radicali. La messa in scena lynchana quindi non è mai descrittiva o rappresentativa, ma sempre ipnotico-fascinativa, trascinante, immersiva, fortemente emozionale. È progettata e configurata per realizzare un ipercoinvolgimento dello spettatore, per garantire identificazioni particolarmente forti con lo sguardo del film e con i personaggi. Lo spettatore dei film di Lynch è catturato in un meccanismo particolare segnato dalla magia, dall’incantamento. È uno spettatore spellbound, abbacinato, per usare un termine efficacemente usato da Hitchcock nel titolo di un suo film (Spellbound, Io ti salverò). E d’altronde il nome di Hitchcock non è evocato invano. Il lavoro di coinvolgimento e di fascinazione dello spettatore realizzato da Hitchcock corrisponde in fondo, all’interno del cinema d’autore tra classico e moderno, all’operazione seduttiva compiuta da Lynch verso il suo spettatore, muovendosi tra cinema postclassico e postmoderno – se queste formule hanno ancora una validità euristica. Pur di catturare lo spettatore nella magia travolgente del suo cinema, Lynch ricorre a procedimenti di messa in scena molteplici, sofisticati, legati ora a effetti macro- e microspettacolari, ampiamente diffusi nel cinema hollywoodiano, ora a procedure più anomale, più singolari, segnate dall’opzione individualizzante dell’autore. Lynch in fondo non ha un modello unico di costruzione della sequenza. Può aprire una sequenza secondo il modello classico dell’establishing shot (un piano ampio che mostra lo spazio) o partire da un particolare, da un dettaglio o da un primo piano, che intensificano subito

nell’orizzonte dell’anomalia lo stile di messa in scena. Una sequenza aperta da un particolare è in genere più caricata sotto il profilo tensivo, più orientata verso l’ambiguità, la comprensione difficile, l’effetto di mistero. Ma anche una sequenza inaugurata da un establishing shot può svilupparsi poi nella direzione dell’allucinazione, dell’incubo. Quello che è importante nella messa in scena lynchana è la creazione di un mondo altro e visionario, di un orizzonte da incubo allucinatorio, che il lavoro della macchina da presa, del montaggio e del missaggio contribuiscono a rafforzare. Le tecniche di regia più specificamente lynchane vanno allora individuate in alcune procedure particolari e innanzitutto nella realizzazione di soggettive frequenti e assolutamente significative. Le soggettive sono opzioni che innanzitutto mostrano il carattere fortemente personale dell’esperienza del visibile, attestano come la visione sia legata ai personaggi, sia un modo di esercizio della psiche. La soggettiva palesa il fatto che c’è un soggetto, che la storia, il vedere sono legati a uno o più personaggi e alla loro psiche. L’impressione visiva di un teatro della mente, di un luogo psichico, evocato e prodotto dal film, è sicuramente delineato anche grazie al lavoro della soggettiva, che moltiplica i punti di vista e rende centrali le funzioni percettive e allucinatorie dei personaggi. Naturalmente in questa opzione registica qualificante, Lynch mostra ancora l’influenza di Hitchcock e della sua capacità di sviluppare la tensione e l’immedesimazione con il personaggio. Lynch usa vari tipi di soggettiva, ma soprattutto ne valorizza quattro configurazioni specifiche: a. la soggettiva che attesta che c’è un soggetto guardante; b. la soggettiva apertamente voyeuristica, che fa vedere quello che c’è e insieme mostra il voyeurismo; c. la soggettiva che produce movimenti di macchina significativi e soprattutto travelling in avanti che si impadroniscono dello spazio; d. le immagini fantasmatiche che oggettivano le ossessioni dei personaggi e soprattutto dei protagonisti. La prima tipologia, ampiamente diffusa, sottolinea la centralità della funzione del soggetto nel cinema di Lynch. All’opposto della tradizione più narrativa del cinema classico, in cui – secondo il modello aristotelico – la storia prevaleva sul personaggio, Lynch attraverso le soggettive evidenzia come il personaggio con i suoi

punti di vista e le sue ossessioni sia al centro del mondo evocato e giochi un ruolo essenziale nell’immaginario filmico. Il secondo modello, la soggettiva apertamente voyeuristica, assume naturalmente una esplicita valenza metacinematografica e trova nella sequenza centrale di Velluto blu la sua oggettivazione più chiara, suggerendo ancora un parallelo con Hitchcock e con Rear Window (La finestra sul cortile). Il protagonista, costretto a guardare dall’interno di un armadio la violenza usata da un gangster alla donna da lui desiderata, non solo esercita una evidente funzione voyeuristica, ma sembra alludere allo stesso sguardo del cinema, impregnato di curiosità e di piacere. E il suo aperto collegamento con una situazione masochistica evoca anche la componente masochistica della percezione dello spettatore, efficacemente analizzata da Gaylyn Studlar in opposizione all’ipotesi di Metz di uno spettatore sadico16. Ma anche in Strade perdute, in Mulholland Drive o in Inland Empire la soggettiva si carica a volte di un esplicito carattere voyeuristico, oggettivando chiaramente l’analogia tra la posizione e la funzione del personaggio vedente e quello dello spettatore. Tuttavia la forma più personale della soggettiva lynchana è probabilmente costituita dai lunghi travelling in avanti che segnano generalmente l’entrata di un personaggio in uno spazio non conosciuto o ambiguo e la sua progressiva appropriazione. In questa prospettiva i travelling di Mulholland Drive, che segnano la scoperta e l’impadronirsi dei luoghi da parte delle protagoniste, danno non solo il senso dell’ambiguità e della potenzialità minacciosa di ogni spazio, ma anche l’idea di spaesamento del soggetto e di immersione in un orizzonte ambiguo e misterioso che può diventare un incubo tridimensionale. La macchina da presa si muove liberamente nello spazio, effettua svolte, cambiamenti direzione, va a scoprire nuove aree del profilmico. E in questo movimento sottolinea non solo la produttività testuale dello sguardo della mdp, ma la possibilità di creare spazi, di delineare luoghi, di inscrivere nell’immaginario tutte le dimensioni create dalla psiche, tutte le scene del teatro della mente di Lynch. Anche il quarto tipo di soggettiva assume accenti fortemente personali. E come la forma precedente è connessa al movimento, così questo modello è legato al montaggio: assolutamente rilevante nel cinema di Lynch è infatti l’inscrizione frequente nel visibile di

immagini di origine psichica, preconscia, inconscia, onirica, memoriale, allucinatoria. Sono immagini che sembrano emergere dal profondo, che isolano un atto, un gesto, un’ossessione, un fatto traumatico, un dettaglio dalla forte valenza simbolica o eidetica, e che si configurano prevalentemente come soggettive, immagini guardate da un soggetto, generalmente un/una protagonista. Ma sono immagini che garantiscono sempre un’intensificazione della tensione, un’apertura visionaria, un’irruzione del trauma o del fantasma delirante, e che contribuiscono in maniera determinante non solo a inscrivere sistematicamente il fantasma all’interno del mondo visibile del film, ma anche a segnare esemplarmente la scrittura ipertensiva di Lynch. Questi inserti diegeticamente dislocati o palesemente psichici e/o inconsci si presentano a volte non nella forma della soggettiva, ma come irruzione di un’alterità enigmatica, di un visibile misterioso e a volte indecifrabile, che ora attesta la lacerazione e l’ossessione del soggetto, ora introduce l’altro come enigma totale. Nei film più radicali di Lynch, in Strade perdute come in Mulholland Drive o in Inland Empire, queste emergenze dell’alterità costituiscono una linea ondivaga che affiora e scompare, riappare e si inabissa, come un rizoma che assedia il teatro della psiche e ne oggettiva il funzionamento. Altre immagini poi assumono una valenza più specificamente eidetica, in quanto tendono a consolidare nell’immagine un’idea: configurazioni intensive in cui una concrezione concettuale si palesa esemplarmente. Queste inscrizioni di immagini di un altrove, spaziale o mentale, implicano naturalmente lo sviluppo di un lavoro di montaggio particolarmente sofisticato, che opera attraverso la sistematica mescolanza di piani, di dimensioni e di funzioni, per creare un tessuto visivo-dinamico in cui l’orizzonte delle azioni e quello dei fantasmi si intrecciano inestricabilmente. Si tratta di una procedura che ricorda l’avanguardia nelle sue molteplici esperienze e in particolare l’avanguardia surrealista e Buñuel, ma che è presente anche nell’underground americano più radicale, in Kenneth Anger o in Stan Brakhage, ad esempio, o nei registi della memoria e del fantasma come Resnais. Ma in Lynch le immagini che irrompono assumono generalmente un’intensità aggiuntiva e traumatica, una potenza di choc e magari di disperazione assolutamente singolari, che le rendono più potenti e più violente non solo quando mostrano

la carne e il sangue, ma anche quando propongono profili visivi ambigui e magari illeggibili. Questo tipo di montaggio a volte si mescola con un’altra procedura che attraverso l’accostamento di spazi e di dimensioni diverse produce un effetto di illusione o di palese allucinazione: raccordi errati, campi e contro campi ingannevoli, accostamenti smentiti dalla logica e dalla prossemica diegetica contribuiscono a creare un mondo di illusione in cui tutto è possibile e la realtà, nietzscheanamente, si perde per sempre. Spesso questo montaggio accosta o assembla piani ravvicinati, dettagli e particolari di assoluta intensità, che irrompono come una forza singolare dell’immagine in cui l’oggetto o il dettaglio ossessivo dominano tutto l’orizzonte visibile. Particolari di occhi, di bocche, oggetti isolati dal contesto, fonti di luce, insetti, piccole arborescenze diventano nella scrittura lynchana potenze schermiche che invece di concretare il mondo sembrano fare emergere l’irrealtà. D’altronde una funzione rilevante in questa prospettiva è giocata dall’uso particolare dell’illuminazione e dalla prevalenza nei film di Lynch dell’oscurità, del contrasto di luce e ombra, se non addirittura del buio. Lynch costruisce un mondo prevalentemente notturno che pare «eine nächtliche Halluzination», come suona il sottotitolo di un film espressionista, Schatten (Ombre ammonitrici). È un mondo immerso nella paura e nell’incubo della notte, dominato da un’oscurità che assorbe ogni elemento e lo inserisce in una vischiosità opaca, in un’incombenza del mistero, della minaccia, della morte. I personaggi lynchani sembrano in un costante stato di pericolo, anche perché sono immersi nel buio, nelle tenebre e paiono quasi destinati a non vedere la luce. Il lavoro del direttore della fotografia, Deming, realizza effetti di oscurità e contrasti di luci e ombre degni dei grandi fotografi del cinema espressionista, da Fritz Arno Wagner a Hoffmann a Rittau, garantendo a Lynch la possibilità di creare un mondo visionario in cui le tenebre e il male sembrano sempre prevalere: ancora una volta con un sottotitolo di un famoso muto del cinema di Weimar, il suo cinema è «eine Symphonie des Grauens». In questa prospettiva Lynch riserva una funzione rilevante anche al sonoro e alla musica che contribuiscono a intensificare gli effetti filmici, creando un tessuto di ossessioni sonore, ora oggettive ora mentali, che rendono lo spazio del film ancora più minaccioso e

fascinativo. E la musica di Badalamenti (simile per certi versi alla musica di Hermann per Hitchcock), a volte anche eccessiva e certo impegnata nella produzione di effetti spettacolari apparentemente facili, costituisce un ulteriore tassello dello straordinario progetto di Lynch: scrivere con le immagini l’irrealtà che incombe.

Eraserhead. La mente che cancella di Marco Giallonardi Il primo lungometraggio diretto da David Lynch appare condizionato da tematiche ossessive e figure dell’immaginario ricorrenti, inscritte nella struttura del racconto e nei dispositivi di messa in scena. L’indagine che il testo richiede per essere analizzato deve possedere la pretesa di essere onnicomprensiva: da una articolazione narratologica complessa, che punta a nascondere la natura degli accadimenti, il film passa con continuità a una figurazione del mondo diegetico alterata, giocata su moduli rappresentativi e stilistici particolari1. Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella, 1972) è quindi un film che impone una procedura di studio ordinata, che nell’emergenza delle assurdità e delle forzature che presenta, nella natura di esperienza psichica che lo caratterizza, spinge a evidenzare i momenti forti del racconto, i punti di vibrazione da cui emerge con decisione il senso. Si eviterà una lettura psicoanalitica, sia perché in molti si sono sforzati di assegnare ai simboli presenti nel testo una specifica valenza sessuale2, sia perché non si ritiene utile un’analisi delle latenze per un testo filmico molto complesso, che richiede al contrario un’indagine a priori, di stampo narratologico e formale3. Partendo dalla ricostruzione del racconto si cercherà di usare i termini appropriati per descrivere gli accadimenti incorsi e i dati emersi dalla visione, al fine di individuare e interpretare le figure e le forme che si qualificano come temi forti del film; l’attenzione si sposterà successivamente al piano formale, mediante un’analisi dei dispositivi di messa in scena utilizzati da Lynch, nell’uso peculiare delle componenti video e audio, decisivi strumenti di significazione. La vicenda produttiva di Eraserhead è storia affascinante, che meriterebbe un saggio apposito (e in molti si sono soffermati sul carattere emblematico – tanto per il cinema dell’autore, quanto per il cinema indipendente in generale – di questi lunghi e sofferti cinque anni4); in questa sede è tuttavia sufficiente accennare al contesto in cui Lynch si trovò a operare, determinante per la fisionomia del suo primo lungometraggio. Il riferimento è al clima dell’avanguardia studentesca attiva nelle accademie americane all’inizio degli anni settanta, alla commistione tra diverse tecniche

figurative: la pellicola in 16 mm si univa all’animazione, l’effettistica artigianale e il maquillage alla sperimentazione tecnica più avanzata. Il regista era il creatore tout court dell’opera, l’artigiano che creava il trucco e le scenografie, che escogitava gli effetti speciali e la partitura sonora, che scriveva, girava e montava, che viveva del suo prodotto rivestendo più ruoli possibile – un’idea di cinema ancorata all’indipendenza e all’isolamento artistico propri del pittore. La derivazione da scuola d’arte, decisiva nell’estetica di Eraserhead, è il contesto in cui collocare l’operazione per comprenderne alcune scelte formali: solo in questo modo procedure obsolete come la sovrimpressione o creazioni artificiose come la finta testa di Henry, il pianeta su cui si dovrebbe svolgere la vicenda o le forme a spermatozoo che invadono lo schermo possono risultare credibili. Altra storia, ovviamente, per la piccola creatura figlia del protagonista, dal pianto angosciante e dall’aspetto deforme, capace di scatenare le emozioni più violente e contraddittorie. STRUTTURA E STRANIAMENTO

Proprio da questa trovata, sulla cui fabbricazione molti si sono interrogati ma che dalle bocche cucite di Lynch e dei suoi collaboratori non ha mai ottenuto spiegazioni5, prende origine il film. La nascita del bimbo prematuro, senza braccia né gambe, che Henry è costretto a tenere a bada, è l’evento motore della storia, altrimenti povera di azioni. Pur rispettando la grammatica cinematografica Lynch stravolge la sintassi filmica, creando vuoti logici e ritmici, dilatando il tempo e annullando lo spazio propri del racconto cinematografico. Solo la presenza di un protagonista e di un rapporto di causa-effetto tra le azioni da esso compiute permettono a Eraserhead di dotarsi di una narrazione classicamente intesa6. La cesura che divide il film, e confonde definitivamente il sogno con la realtà, giunge dopo 47 minuti; la prima parte risulta strutturata in cinque macrosegmenti mentre la seconda è articolata in scene più brevi, intrecciate tra loro.

Prima parte Prologo: la testa di Henry Spencer oscillante nello spazio e la superficie di un pianeta (o di un cervello) appaiono sovrapposti; all’interno del pianeta scopriamo macerie di civiltà e un uomo sfigurato seduto di fronte a una finestra, che aziona un comando; dalla bocca di Henry fuoriesce un lungo verme che, in concomitanza con l’azione sulla leva, precipita nel vuoto, cadendo in un liquido brillante; dal nero che segue si fuoriesce sul bianco del mondo esterno e sul volto di Henry, teso a guardare fuoricampo. 5’50” Presentazione dell’ambiente e del personaggio: un rumoroso paesaggio industriale fa da sfondo al ritorno di Henry nell’appartamento; qui la sensuale dirimpettaia lo informa che Mary, la sua fidanzata, lo aspetta per cena a casa dei genitori; in camera, Henry mette un po’ di musica, si sfila i calzini, si siede sul letto pensieroso, recupera una fototessera di Mary nel cassetto del comò, quindi esce per raggiungere la sua abitazione. 10’10” Cena dagli X’s: Henry si presenta alla madre di Mary, imbarazzato, dichiarando di fare il tipografo, se pur al momento in vacanza; la cena è pronta: il padre di Mary, Bill, ha preparato dei piccoli polli; mentre Henry taglia il pollo, che si anima e da cui fuoriesce sangue copioso, la madre ha una crisi epilettica e abbandona la tavola, lasciando Henry con Bill; tornata, prende Henry in disparte e gli comunica che Mary ha partorito, sconcertando l’uomo e facendo piangere la figlia: è un bimbo prematuro, e Mary e Henry se ne dovranno occupare, ma solo dopo essersi sposati; Henry sanguina dal naso, la madre di Mary pare eccitarsi; in lacrime, Mary chiede a Henry se gli dispiace sposarla. 13’40” La creatura: il bimbo deforme viene accudito e imboccato a fatica da Mary nella stanza di Henry; l’uomo torna a casa e trova nella buca della posta un semino, contenuto in una minuscola scatolina; salito in camera, Henry lo deposita nel tabernacolo accanto al letto prima di sdraiarsi sul letto a osservare il termosifone; qui dentro compare un palcoscenico illuminato da un faro circolare, perpendicolare al terreno; è notte, il bimbo piange incessantemente, Mary insonne abbandona Henry con la creatura, prende con fatica la sua valigia da sotto il letto e torna a casa. 11’25”

Le cure: solo con il figlio, Henry lo vede ammalarsi sempre più, con la febbre e pieno di pustole sul volto; impedito a uscire per i tempestivi pianti della creatura, Henry si rassegna a restargli accanto e si corica a letto. 5’45” Seconda parte Una buffa donna con le gote rovinate (Lady of the Radiator) danza nel teatrino posto nel termosifone, schiacciando lunghi vermicelli che precipitano dal soffitto. 3’20” Mary, ricomparsa improvvisamente a letto, sgomita e non fa dormire Henry, finendogli addosso; nel tentativo di scansarla, Henry trova sulle lenzuola lunghi spermatozoi/vermicelli che lancia con disgusto contro il muro; il semino trovato in precedenza nella buca della posta si anima all’interno del tabernacolo, facendo precipitare al proprio interno la mdp. 3’20” All’interno del pianeta riappare Henry, sempre nella sua stanza; la vicina entra nella sua stanza e chiede di passare la notte con lui: i due si accoppiano nel letto trasformatosi in una vasca piena di liquido, in cui sprofondano. 6’50” Henry sale sul palcoscenico raggiungendo la Lady, che ha appena finito di cantare In Heaven Everything Is Fine: cerca di toccarla ma un lampo di luce bianca glielo impedisce; finito dietro una sbarra come un imputato, Henry perde la testa che galleggia al centro del palcoscenico e sprofonda nel sangue. 4’50” Raccolta per strada da un ragazzino, la testa viene portata in una fabbrica; qui il cervello di Henry, estratto da una macchina comandata da un operaio, viene utilizzato come materia prima per le gommine poste all’estremità delle matite; soddisfatto, il padrone della fabbrica paga il ragazzino. 4’30” A letto, con la testa tra le braccia, Henry pare aver sognato tutto; in pena, attratto dalla vicina, la scopre mentre rientra in casa in compagnia di un buffo soggetto: Henry brucia di rabbia e pena per se stesso. 6’50” Dirottando l’ira sul figlio, Henry taglia le garze che lo ricoprono e infierisce con un paio di forbici sulle sue disgustose interiora: l’agonia finale della creatura inorridisce Henry e produce un

blackout elettrico nella stanza; la testa del piccolo si fa enorme, volando come un dirigibile. 4’55” Epilogo: il pianeta implode dall’interno, mostrandoci la testa di Henry fumante nello spazio; l’Uomo alla leva tenta di fermare la distruzione ma è troppo tardi: nel bianco, Henry si riunisce alla Lady e l’abbraccia rasserenato. 2’10” «Noi viviamo all’interno di un sogno», affermerà perentorio l’agente Philip Jeffries (David Bowie) nella sua apparizione soprannaturale in Twin Peaks: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me, 1992): una formula appropriata sia per descrivere la vicenda di Eraserhead, sia per precisare l’intento fondante il cinema di David Lynch. La lunghezza dei singoli segmenti, la loro alternanza e la cesura tra la prima e la seconda parte, l’uso anomalo dell’audio e le cadute/transizioni nel nero o nel bianco, sono gli strumenti con cui viene costruito questo senso di indiscernibilità tra sogno e realtà. Come nota Daniele Dottorini, «come in Magritte, Eraserhead dispiega oggetti quotidiani, corpi e narrazioni apparentemente riconoscibili e, allo stesso tempo, integrati in un mondo altro, le cui regole non sono conosciute»7. Il perturbante freudiano si afferma esattamente in questo sfasamento tra normalità e alterazione, nella creazione di uno spazio che funziona logicamente ma che presenta delle diversità inspiegabili: ogni cosa è identica a come la si percepisce nel quotidiano e al contempo risulta drasticamente/orrendamente difforme. Il ritmo del film è in questo senso il primo dato da considerare. La vicenda si sviluppa molto lentamente, nel seguire Henry che si muove in un ambiente industriale indefinito, privo di altri esseri umani. I dialoghi tardano ad arrivare, nessuna azione in particolare avviene e nessuno scopo pare guidare il personaggio. Dopo poco si scoprirà che Henry è in vacanza, quasi quest’informazione sia sufficiente a giustificare il suo vagare senza meta. La caratterizzazione del personaggio, motore delle tante gag del film, contribuisce a rafforzare questo senso di spaesamento. Henry è buffo, la sua capigliatura esagerata, i pantaloni troppo corti e le espressioni ridicole, con lo sguardo perso e la faccia comica. Un piede messo in una pozzanghera ci fa comprendere molto bene anche quanto sia goffo, un clown che sembra uscito dalle comiche di Jacques Tati o Buster Keaton. Ma soprattutto Henry, a dispetto di

quanto notarono alcuni commentatori dell’epoca, non è così insensibile alle stramberie dell’ambiente che lo circonda: pare terrorizzato, sempre indeciso, impaurito da ogni cosa, persino dall’ascensore che troppo lentamente lo trasporta al piano del suo appartamento. Non appare imbambolato, lo scemo mezzo handicappato che molti descrissero nelle loro affaticate sinossi8, quanto l’uomo sbagliato nel posto sbagliato, che esaspera ogni espressione rendendola caricaturale (fig. 1). Lo stupore di Henry diviene così lo stupore dello spettatore mentre gli episodi, concatenati l’uno all’altro, si susseguono nella seconda parte del film, confondendo la veglia del protagonista con il sonno, impedendo di distinguere con certezza il piano fenomenico da quello dell’immaginario – una misura del discorso analoga ai più noti lavori di Luis Buñuel, tanto al suo esordio surrealista, Un Chien andalou (Id., 1929), quanto alla seconda parte di uno dei suoi lavori più noti, Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia, 1972). L’incontro con la vicina e la successiva sequenza a casa di Mary rafforzano quest’inadeguatezza del personaggio alle situazioni di cui è protagonista e all’ambiente che lo circonda. La sensualità della dirimpettaia mette Henry in imbarazzo, rivelando il desiderio che il protagonista non riesce (o non vuole riuscire) a realizzare. La sequenza della cena dagli X accentua invece il taglio grottesco della vicenda: mostrata a un possibile finanziatore, scatenò una reazione inorridita e una frase sintomatica: «La gente non parla così, non si comporta così! Voi siete pazzi! Che pensate di fare?»9. Tra piccoli polli meccanici che si animano nel piatto mettendosi a sanguinare, crisi epilettiche o catatoniche di madre e figlia, sorrisi ebeti del padre di famiglia e automatismo indotto nella nonnetta seduta in cucina, questa lunga scena insiste su alcune alterazioni del quotidiano perseguendo un duplice scopo: da un lato propone una forte distorsione percettiva, assommando senza giustificazione numerosi e bizzarri elementi nello spazio della diegesi, dall’altro racconta, con toni alterati e fortemente simbolici, l’angusto spazio della famiglia, un ambiente in cui è difficile sopravvivere e in cui si possono verificare eventi inattesi e terrificanti. Quando, subito dopo, Henry sarà costretto in prima persona a dover affrontare il traumatico ménage familiare, la sua mente fuggirà dalla realtà cercando disperatamente una possibilità di salvezza.

ORRORE PER LA VITA

Come ha sintetizzato il critico Jonathan Rosenbaum, Eraserhead è contraddistinto da un evidente «orrore del sesso, della procreazione e della paternità»10. Gli studiosi che si sono soffermati sulla biografia di Lynch hanno potuto agevolmente collegare questa caustica visione della vita familiare con la vicenda personale dell’autore, giovane padre a soli ventidue anni11. Seppur pretestuosamente, questo collegamento permette di interpretare il testo in maniera inequivocabile. La condizione paterna, descritta nelle sue conseguenze più problematiche, muta di volta in volta in una drammatica osservazione di un figlio deforme, nell’impossibilità di dormire accanto alla propria compagna, in una vile fuga nella menzogna per difendere il proprio folle spazio vitale (Henry nega di aver ricevuto la posta e nasconde nel tabernacolo il semino trovato nella buca delle lettere), nel continuo litigare per i pianti reiterati del bambino, nell’impossibilità di essere dolci nel primo faccia a faccia sia con il figlio che con la moglie (Henry tenta di toccare Mary e di vivere un po’ d’intimità durante la notte ma la donna scatta inorridita, lasciandolo a occhi sbarrati, fig. 2). I momenti caratterizzanti la vita di coppia si tingono di nero, raccontano di esperienze comuni alterate dalla negatività del mondo di Henry, dalla trappola in cui l’uomo precipita una volta che il figlio si ammala ed è costretto a fargli da balia: il mondo «altro» di Henry pare cioè molto più vicino a quello comune di quanto a un primo approccio non si sarebbe detto, innescando quel sentimento perturbante che caratterizza la visione del film. Ma il nero che colora Eraserhead conosce sempre una salvifica dimensione ironica, capace di smussarne gli accenti rendendoli meno inquietanti: l’analisi non può evitare di considerare le continue virate grottesche con cui viene edulcorata la tragedia umana del protagonista. Si pensi alla situazione familiare di partenza: Henry torna a casa, sorride verso la creatura imboccata a fatica da una Mary sull’orlo di una crisi di nervi, si sforza di provare tenerezza per quella «cosa» che al contempo suscita repulsione e vergogna (l’interpretazione di Jack Nance è indispensabile nel rendere questo ambivalente senso di paternità). L’ironia sottesa alla scena e alla condizione di Henry ristabilisce un ordine nella visione, bilanciando le difficoltà date dalla prima apparizione della creatura,

quasi a voler dimostrare che la direzione del perturbante non è a senso unico, ma può variare su terreni alternativi ma non certo rassicuranti. Il terrore per la famiglia è conseguenza diretta del dramma della nascita. Durante il prologo, l’atto generativo viene mostrato in tutta la sua coercizione, raccontando il mondo di Henry come conseguenza del movimento sulla leva compiuto dall’Uomo del Pianeta: azionato il meccanismo fermo da tempo (ciò viene suggerito dalla fatica con cui l’uomo interviene sulla macchina), il Pianeta su cui pare svolgersi il film può finalmente ospitare la storia. È una nascita, una liberazione e un’uscita, forse la nascita del figlio di cui Henry verrà a sapere poco dopo, in ogni caso una nascita privata dell’atto sessuale necessario al suo verificarsi. Il sesso infatti non compare mai in Eraserhead, se non nella forma sublimata del rapporto con la vicina, un rapporto che solo grazie al proprio successivo sviluppo fantastico rivela la matrice onirica che lo contraddistingue (il mistero pare risolversi quando Henry scopre la donna rientrare in casa con uno strano personaggio, come se nulla tra loro due fosse successo). Il sesso quindi non solo è mancato, ma forse mai accaduto: Henry continua a ripetere infatti che non è possibile che il bimbo sia suo, davvero convinto di non esserne il padre. Quando Mary scompare dal film, fuggendo dai pianti che le impediscono di dormire, fatica non poco a liberare la valigia da sotto il letto, causando un rumore e un movimento che rimandano alla dinamica dell’atto sessuale, o meglio ad alcune conseguenze di un sesso mai mostrato: Mary soffre e piange, proiettando sull’atto sessuale così ri-figurato una luce drammatica, comunicando di conseguenza l’angoscia verso il sesso (fig. 3). Anche il movimento del pollo nel piatto di Henry durante la cena da Mary, con le zampe a fare su e giù e il liquido interno che fuoriesce, va interpretato come un’ulteriore rappresentazione del movimento del sesso, dal carattere drammatico e violento. L’ossessione per la copula produce in seconda istanza figurazioni deformate sia dell’atto che delle sue conseguenze. I lunghi spermatozoi/cordoni che Henry trova sul lenzuolo durante la notte, in un momento in cui Mary pare essere tornata da lui (anche Mary sembra partorita dalla mente di Henry, bagnata/sudata come fosse all’interno di una vagina, con le braccia bloccate nelle lenzuola a

ricordare la deformità dell’orrida creatura), non costituiscono altro che riproduzioni deformate della creatura stessa, senza arti e con la testa di dimensioni eccessive. Disgustato, Henry estrae questi lunghi vermi e li lancia contro il muro, spappolandoli; ripete in questo modo il gesto ideale compiuto dalla Lady durante la sua prima esibizione: distruggere i lunghi cordoni, facendone fuoriuscire un liquido bianco, permette alla mente di Henry una momentanea liberazione dall’invadente e terrificante pensiero (fig. 4). Analogamente, la breve sottotrama del semino trovato nella buca della posta racconta tanto il desiderio di Henry di controllare la forma della vita (desiderio rimarcato dal terriccio che custodisce il termosifone e dalla pianta dai rami secchi che tiene sul comodino), quanto la gelosia con cui l’uomo si sforza di preservare uno spazio autonomo e vitale, lontano da Mary. L’orrore verso la vita, che nel finale volge in violenza omicida, è anche conseguenza dei desideri repressi di Henry, primo tra tutti quello di accoppiarsi con la vicina. In questo senso, è utile constatare come la vicina si presenti come una prostituta o una drogata, con lo sguardo spento e barcollante, e questo suo «godersi la vita» sia per Henry irresistibile fonte d’attrattiva. Egli cioè non solo sogna ma altera la realtà, anche grazie a una spiccata sensibilità: quando immagina la scena del loro accoppiamento, la vicina si mostra attiva e volitiva, manifestando la propria eccitazione con un sensuale gesto sulla barra ai piedi del letto (un gesto che «appartiene» a Henry, che l’uomo ripete da dietro la sbarra degli imputati sul palcoscenico del teatrino); quando al contrario la vede rientrare in casa, nel segmento già menzionato, sempre spenta e disperata, Henry interpreta la sua passività come rivolta nei propri confronti e sprofonda nella vergogna, vittima di una confusa percezione della realtà. MATERIA CHE PRECIPITA

Del terrore per il sesso e le sue conseguenze Eraserhead è informato anche a un livello specificatamente visivo, in cui l’azione scopica del regista si rivolge con insistenza alla superficie e alla sostanza degli oggetti. Il prologo e l’epilogo del film propongono due diverse modalità di indagine della materia: da una parte il viaggio sulla crosta del Pianeta, che la mdp sfiora e in cui spesso

finisce per sprofondare; dall’altra l’uccisione finale del figlio di Henry, il dettaglio sui suoi organi interni, sulla materia che fuoriesce dal corpicino, in un impossibile gioco di quantità contenute in uno spazio che non le può ospitare (il riferimento è alla purea montante che fuoriesce dalla creatura). Si tratta in questo secondo caso di una verità oscena, che solo con un atto radicale può essere dis-velata: così, nell’agonia finale, il corpo del piccolo si apre, dis-chiudendosi sull’esterno e mostrando le sue repellenti viscere (fig. 5). Una volta scrutata, la materia, che prima presentava un determinato aspetto esteriore, subisce un’avaria destinata a mettere in crisi l’ordine delle cose. Il tilt elettrico o blackout, che lascia la stanza nella semioscurità (come a casa degli X) o del tutto al buio (come nel finale del film), manifestazione inspiegabile che tornerà sovente a caratterizzare le apparizioni ultraterrene nei film di Lynch, definisce proprio questa normalità dell’alterazione, quest’inevitabile e impercettibile rottura costitutiva dell’esistente in quanto tale. Con la stessa inopportuna tempestività giunge infatti anche la malattia della creatura, coprendole il muso di orribili pustole: non c’è tempo per la consapevolezza del problema, Henry si volta e il bimbo pare immediatamente in crisi respiratoria, ammalato, e la modificazione viene resa con un effetto audio dirompente, necessario per sottolineare l’imprevedibilità dell’accaduto. In questo suo mutare di forma, la materia può subire un passaggio di stato e permettere il succedersi di due condizioni che sono alla base della vita fisica. La caduta del solido nel liquido, l’incontro di diversi e sostanzialmente difformi stati, si pone quindi come una delle principali figure presenti nel testo. Ancora una volta, si tratta di un evento che determina una creazione, e che nel testo del film si espande, assumendo forme molteplici: basti pensare alle pozzanghere degli esterni, in cui Henry sprofonda con il piede o che fanno da sfondo a un litigio tra due uomini osservati dalla finestra, al sasso gettato nella ciotola che si trova nel cassetto del comò della sua stanza, all’accoppiamento nel letto divenuto una vasca in cui i due amanti sprofondano (fig. 6), alla testa di Henry che precipita nel lago di sangue formatosi sul palcoscenico e cade sull’esterno. Si ripete in questo modo un movimento ancestrale, di contatto e contaminazione, che è alla base della fecondazione; si ripete e si

diversifica tuttavia anch’esso, assumendo ogni volta fattezze differenti, denunciando in questo modo la cifra dell’operazione attivata da Eraserhead, dettata dall’andamento ripetizione/cambiamento/diffusione/morte: l’incedere inarrestabile di un virus che distrugge il corpo e la mente, che divora la materia per ridurla in polvere. FIGURE E FORME CHE PROLIFERANO

Il circuito di figure proposto da Eraserhead racconta le ossessioni del punto di vista narrante, il proliferare delle forme ne mostra i modi dell’insistenza. Nel testo del film si può notare il reiterarsi di una figura stilistica particolare, che diverrà usuale nel cinema di Lynch: un movimento di macchina che non sembra condurre in alcun luogo, che trasporta lo spettatore con una sorta di soggettiva impossibile da uno spazio a un altro, passando attraverso un buco, una feritoia o una fessura12. Il prologo del film è costruito interamente su questo moto di superamento di soglie: dentro il buco della paratia posta sul Pianeta per giungere al cospetto dell’Uomo alla leva, dentro il liquido in cui cade lo spermatozoo, dentro il buco circolare che conduce sul bianco del mondo esterno, sul primo piano di Henry. È il passaggio dal dentro al fuori, la scoperta dello spazio contenuto oltre il nero o il bianco; è la manifestazione di un’idea di cinema e di spazio indefinito che vuole far precipitare lo spettatore verso l’ignoto, che ancora una volta mira a stravolgerne le coordinate spazio-temporali. Come il salto nel nero della scatola blu di Mulholland Drive, così la mdp si tuffa nella voragine che il piccolo semino ha creato sulla sua «testa»: animatosi durante la notte, il buffo vermicello spalanca le «fauci» e urla un sibilo sottile, inghiottendo la mdp e costringendo a tornare sull’esterno del Pianeta, a osservarne la superficie squarciata e il profilo di Henry all’interno, seduto sul bordo del letto (fig. 7). Allo stesso modo, il termosifone della stanza di Henry contiene un altro spazio, seppur solo creato dalla sua mente: un teatrino «riscaldato», ultimo rifugio in cui trovare serenità. A questo non-luogo Henry potrà effettivamente accedere, prima che la sua testa, sprofondando nel pavimento insanguinato, finisca in esterni, sulla strada di una periferia urbana degradata: nessun collegamento regola il succedersi degli spazi, nessuna logica (se non onirica) giustifica

questo disorientante gioco di scatole cinesi. Se Henry appartenga al Pianeta, sia il demiurgo della storia, vale a dire sia lui il sognatore o al contrario sia sognato da qualcun altro, è dilemma irrisolvibile che condiziona le interpretazioni possibili, e lo spaesamento prodotto dalla regia di Lynch non facilita la comprensione13. Eraserhead propone dunque uno spazio limitato, indefinito e immaginario, in cui poche e ricorrenti forme si affermano, alterando le proporzioni del loro fenomenizzarsi in conseguenza dei differenti stati d’animo del protagonista. L’isomorfismo tra la testa della creatura e la forma del Pianeta risulta evidente, entrambe scolpite da cavità o protuberanze e allo stesso modo passibili di disfacimento materiale, così come si pone con forza l’analogia tra la pelle rovinata dell’uomo sul Pianeta e le gote gonfie/malate della Lady of the Radiator, personaggi costretti all’isolamento forse per il loro aspetto ripugnante, ma non per questo caratterizzati in modo negativo (fig. 8). Con identiche modalità di proliferazione ritorna più volte nel testo la forma spermatozoo, dal prologo fino all’epilogo, come un filo conduttore necessario per raccontare il terrore della nascita: si stabilizza, contraendosi nella sagoma della creatura deforme, ma può anche moltiplicarsi, invadendo lo schermo (come durante l’epilogo), allungandosi e recuperando così l’originaria silhouette. Il carattere allucinatorio delle immagini conclusive arriva a mettere in discussione la fragile distinzione tra sogno e realtà: forse allora anche il figlio, come proiezione immaginaria di sé, è stata un’invenzione di Henry, e questa recuperata forma iniziale suscita ulteriori interrogativi invece di risolverli. L’OSTENTAZIONE DEL VIDEO E L’INCOMBENZA DELL’AUDIO

Il motivo della fuga mentale, centrale in tutta la filmografia di David Lynch, si configura in Eraserhead quale possibilità di riscatto offerta al protagonista, altrimenti imprigionato in un mondo senza via di scampo. Henry sogna, e trova nel termosifone della sua stanza uno spazio di salvezza: dopo 12 minuti di film, quando l’angoscia per l’imminente cena da Mary inizia a farsi strada, un movimento di macchina a stringere sul volto del protagonista, seduto sul letto a osservare il radiatore, interrompe la sobrietà

registica fino allora vigente, fatta di poche inquadrature fisse e di lunga durata. Si tratta di un movimento di cruciale importanza, proprio perché in contrapposizione a uno stile visivo statico, estremamente rallentato nell’alternanza delle inquadrature, e perché è collocato in un particolare momento di vibrazione del testo, a conclusione del primo segmento in cui è operativo il protagonista e in cui lo stesso Henry pare smarrirsi in una prima fuga mentale. Un movimento di macchina analogo si ripete in almeno altre due occasioni: prima quando a casa di Mary la mdp supera il volto di Henry, impegnato a tamponarsi il naso sanguinante, per muoversi ondivaga nella stanza e uscire dalla finestra, poi sul palcoscenico del teatro, quando Henry può finalmente avvicinare la Lady. In quest’ultimo caso la regia di Lynch ottiene un interessante effetto di tridimensionalità, attraverso una semplice opzione di montaggio: mostrare la Lady, durante la sua prima esibizione, con una secca alternanza di piani frontali larghi e stretti, quindi avanzare con la mdp durante questo secondo incontro, salendo sul palco insieme a Henry e mostrandoci la donna da un punto di vista laterale nuovo, analogo a quello del protagonista, costituisce una procedura di notevole efficacia spettacolare e di osmosi tra il punto di vista del protagonista e lo sguardo dello spettatore. Henry diviene cioè il punto di focalizzazione interna al racconto: le sue allucinazioni si fenomenizzano, inserendolo nel suo stesso spazio mentale, mentre il sogno e la realtà si confondono di conseguenza, rivendicando medesime procedure logiche. Al di là di queste misurate e significative mobilità di macchina, l’impianto visivo di Eraserhead si affida a lunghi piani fissi, durante i quali la mdp indugia a mostrare il visibile. Si era già accennato alle diversificate modalità d’indagine della superficie materica presenti nel testo; qui si vuole considerare la misura eccessiva di questa spinta a «vedere tutto», una sorta di sfida che, dopo aver risposto a precise esigenze discorsive, si rivolge direttamente allo spettatore, al suo livello di tollerabilità verso un’immagine insistita e repellente. Ciò avviene da una parte mediante un utilizzo esteso del dettaglio, nella sequenza che preannuncia l’imminente fuga mentale (parte 1, sequenza 5: il termometro, l’acqua che bolle nella teiera, l’occhio gigante della creatura) o nel tragico finale, dall’altra attraverso tecniche di specificazione del visibile quali lo stacco

sull’asse o l’avvicinamento della mdp all’oggetto, allo scopo di mostrare il particolare di una figura già intuito nel campo mediolungo: si pensi ad esempio allo stacco sul volto di Bill, il padre di Mary, che sorride impassibile a Henry, seduti a tavola in silenzio dopo la fuga in cucina di madre e figlia. Si determina una forzatura visiva pregnante, una sottolineatura che infastidisce, soprattutto perché insiste su significanti di difficile interpretazione: identica ostinazione sul quadro si ha al termine della scena nel teatro in cui Henry perde la testa, quando viene offerto un sin troppo esplicativo totale del palcoscenico, con tutti gli assurdi elementi protagonisti dell’azione compresi nell’immagine (fig. 9). Anche il montaggio contribuisce a queste evidenziazioni del visibile, dilatando la durata delle inquadrature e oscurando eventi cruciali per la comprensione del film e dei rapporti in campo (Henry e Mary si sono quindi sposati, stando alle parole della madre, ma di questo matrimonio nulla viene detto o mostrato). Parallelamente, attraverso il montaggio Lynch rallenta la visione, come sempre alla ricerca di un giusto pace14, ma produce anche ritmo, come nel salto dalla fototessera spezzata di Mary al primo piano della donna, dietro la finestra della cucina della sua abitazione, oppure nel caso ancor più singolare del drastico taglio di montaggio durante il cambio d’abito di Mary, prima che scappi a casa a dormire. È necessario menzionare questo breve segmento per dovere di chiarezza. Esausta per i pianti della creatura, Mary entra in bagno per vestirsi e tornarsene a casa; Henry resta a letto, mezzo addormentato, poco consapevole di cosa sta accadendo. La mdp si sofferma alcuni secondi sulla porta chiusa, quindi si sposta su Henry steso a letto e col capo reclinato. Subito dopo Mary esce dal bagno, miracolosamente già vestita e pronta per andarsene, nonostante sia trascorso un lasso di tempo troppo breve per permetterle il cambio d’abito. La scena assume cioè il punto di vista di Henry, la sua falsata percezione dello scorrere del tempo, tipica del dormiente, che influirà anche in seguito e che ne deciderà, probabilmente, le scelte più estreme: inevitabile collegare infatti il coraggio trovato nell’affrontare la vicina, aprendo di colpo la porta, con il desiderio di sesso provocato dal sogno appena concluso. Per quanto riguarda il complesso «ambiente sonoro» di Eraserhead, è necessario tornare a quesiti fondamentali sull’origine del fuori campo del film, definito da molti commentatori «assoluto»15. Da

dove provengono i rumori industriali che, onnipresenti ed eccessivi, accompagnano Henry per tutto il film? Si tratta di suoni off, di cui la fonte viene tenuta fuori campo, oppure sono rumori «finti» che non hanno derivazione, che mirano a suggerire l’idea di un riferimento ambientale più che rimandare con precisione a un contesto industriale? Non si tratta semplicemente di suoni di carattere macchinico, quanto di una sinfonia proteiforme composta da stridii, fischi, rombi e boati, generante un frastuono invisibile che rimanda anche, spesso con chiarezza (si veda in proposito la sequenza notturna della fuga di Mary), a rumori naturali, vento e tuoni, quasi lo scopo della colonna audio fosse quello di ibridare l’aspetto dei diversi suoni, naturale e industriale, di contaminarli e diffonderne la presenza, per raccontare una città deserta, svuotata della presenza umana ma non per questo divenuta silente. Quando Lynch definiva Eraserhead un «film su Philadelphia» denunciava una fonte d’ispirazione importante. Negli anni della lavorazione, il regista visse con la famiglia in una zona industriale della città, violenta e abbandonata, e da questa esperienza rimase profondamente scosso16. La città del film, che si sente e non si vede, che incombe come una presenza inquietante su chi la vive, nelle cui strade la gente si uccide e in cui le persone normali non si vedono in giro, forse impaurite dall’oscurità e dal degrado dilaganti, funge da sfondo naturale indispensabile al testo per caricarsi di ambiguità e al contempo potenziare la propria caratteristica misura angosciante. Il peculiare missaggio sonoro di Eraserhead viene analizzato con cura da Chion, attento a notare come l’audio punti a mantenersi costantemente in sincrono con il video, con una conseguenza importante: fortemente indipendenti, visivamente e uditivamente, le inquadrature riescono a integrarsi in un insieme armonico, per quanto paradossale possa sembrare, offrendo la sensazione di uno spazio chiuso, concentrato e protetto17. Tale sensazione risulta confermata dal livello di definizione e di intensità che i suoni del film possiedono, sempre allo stesso volume, vale a dire senza una crescita e una caduta, sempre e inevitabilmente presenti nello spazio d’ascolto. All’esasperazione del volume dei suoni off si accompagna la definizione di quelli in, prodotti da oggetti o persone in campo, sempre violenti e disturbanti: si consideri ad esempio il rumore del pulsante e delle porte dell’ascensore, il fischio del termosifone, la poppata multipla dei cuccioli a casa di Mary o

ancora il gommoso rimbombo del dito di Mary nell’occhio, durante il sonno. Il respiro affannato e rauco della creatura, unito ai pianti continui e al russare rumoroso, completano il campionario fonico di Eraserhead e dimostrano come, soprattutto grazie all’uso dell’audio, il testo del film si ponga come una deliberata provocazione volta a ottenere quel senso di spaesamento, di familiare e sconosciuto prima analizzato, per cui una formabambino non credibile, avvalendosi dei suoni reali di un neonato, possa risultare verosimile, o quantomeno ammissibile, all’interno del mondo diegetico. In conclusione, pare utile riconoscere il duplice intervento che le componenti visiva e sonora compiono sul testo filmico, un lavoro costante di elisione e proliferazione: elisione di alcuni passaggi della catena significante (le cose assumono un nuovo aspetto pur restando le medesime, ora divenute inquietanti) e proliferazione, come una cancrena osservata al microscopio, di figure e rumori che divengono materia di un’ossessione insostenibile. SEPARAZIONE/IDENTIFICAZIONE/CANCELLAZIONE

Parallelamente e non in contrapposizione con il movimento viscerale proprio delle forme e delle figure presenti nel testo, Eraserhead propone un secondo moto che dal prologo, attraverso specifici punti di vibrazione, giunge fino all’epilogo del film. Si tratta di una dinamica identificatoria tra padre e figlio che scatena nel protagonista la terribile vergogna che lo condurrà all’omicidio finale. In principio, lo slittamento del lungo spermatozoo sull’immagine del volto di Henry cui si sovrappone consente la nascita di Henry come personaggio, metaforizzata dalla caduta a precipizio nel liquido fecondante; nel corso del film, rimasto solo ad accudire la creatura, Henry smarrisce progressivamente la propria identità e le proprie sembianze, percorso ravvisabile in particolare in due segmenti: quando perde la testa sul palcoscenico, e al suo posto compare il muso da «cane scuoiato» della creatura, e mentre si trova al cospetto della vicina, quando similarmente il suo volto viene sostituito dalla testa urlante del figlio (fig. 10) (in questo caso, la rottura fonica contribuisce a caricare di significazione il momento,

immediatamente antecedente all’uccisione finale); infine, l’omicidio stesso del figlio, dall’amaro sapore di suicidio, suggella e conclude un preciso iter di identificazione tra i due, che trasporta Henry nel «suo» tanto agognato paradiso. Risulta inevitabile allora scontrarsi con la lettura psicoanalitica dominante del film, effettuata da K. George Godwin, secondo cui il piccolo mostro costituirebbe il pene di Henry, che una volta ucciso impedisce allo stesso Henry di continuare a vivere18; pare al contrario più opportuno vedere nell’orrida creatura una riproduzione dello stesso Henry, una sorta di proiezione rivelatrice, capace di acuirne le fobie e le difficoltà mostrate nella prima parte di film. Solo in questo modo è spiegabile la morte di Henry, prima fisica poi mentale: una morte psichica che equivale alla cancellazione del titolo, unica possibile via di fuga dal trauma di un’identificazione impossibile, estrema ancora di salvezza per ottenere l’agognato e salvifico abbraccio con la Lady of the Radiator, depositaria della tranquillità in cui «ogni cosa va bene».

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Velluto blu di Ofelia Catanea Esistono molti modi per entrare in un film di David Lynch. Vie d’ingresso più o meno accreditate che portano in gioco ora i concetti di autorialità, ora quelli di surrealismo, o di gusto del perverso, o di rivelazione del lato inquietante dell’America di provincia. Ognuna di queste letture costituisce in se stessa un atto forte e netto di interpretazione del testo filmico, per quanto alcune delle letture più note possano suonare tanto familiari da passare per contenuti del film stesso. Nell’ormai vasto panorama delle pellicole firmate da David Lynch, Blue Velvet1 (Velluto blu, 1986) per anni (almeno fino al più acclamato Lost Highway, Strade perdute, 1997) è stato il film più discusso, se non altro perché è stata la prima pellicola di Lynch ad avere un discreto successo di pubblico senza essere considerata un’operazione commerciale, come invece è stato Dune (Id., 1984)2. Michael Atkinson descrive il film come «una visione della vita vista attraverso occhi iniettati di desiderio»3, ponendo l’accento sul carattere ambiguo e inconsistente della trama. La struttura di Velluto blu sembra ricalcare l’andamento di un sogno a occhi aperti, un viaggio nell’illogicità dei desideri segreti del protagonista, il giovane Jeffrey Beaumont. Il prologo e l’epilogo del film fanno da cornice a una storia che solo apparentemente riguarda un crimine. Velluto blu, infatti, pur partendo da una misteriosa storia di ricatto, ruota intorno alle quattro sequenze di incontro tra Jeffrey e l’affascinante Dorothy Vallens. Esse scandiscono il film e ne costituiscono il fulcro centrale. Come si vedrà, ogni altro elemento, dalla parallela storia d’amore con Sandy alla misteriosa vita del criminale Frank, è alterato, se non addirittura totalmente generato, dal desiderio del protagonista. In ogni caso, la struttura del film rivela la sua appartenenza più o meno canonica al genere noir o neo-noir. Yvonne Tasker inserisce Velluto blu tra i «new film noir», considerandone l’«interesse per la moda del sadomasochismo»4, mentre Fred Pfeil puntualizza che «è fin troppo facile individuare gli elementi noir nel film di culto Velluto blu … qualsiasi studente del secondo anno di università che abbia seguito un corso di cinema può individuarli, così come chiunque abbia seguito un corso introduttivo di psicologia può

cogliere i motivi edipici evidenti nel sottotesto»5. Oltre ogni elemento «scenografico» (stanze buie, colori cupi, nightclubs e strade deserte), Velluto blu esibisce i nodi narrativi tipici del genere noir: un uomo fatalmente attratto da una donna misteriosa; un gangster; un poliziotto corrotto; una fumosa vicenda di abduzione e ricatti a sfondo sessuale; violenza fisica e verbale. Eppure gli elementi elencati sembrano rivelare un’appartenenza piuttosto superficiale al neo-noir, relegando la descrizione di un genere alla sola dimensione narrativa. Velluto blu, come la maggior parte dei neo-noir, è anche un film fortemente «postclassico». Sembra infatti guadagnare in senso e pregnanza se viene interpretato attraverso alcuni nodi postclassici essenziali, come lo stretto rapporto affettivo e pre-linguistico tra spettatore e immagine, l’elaborazione di traumi personali e collettivi, la preponderante presenza di un’estetica masochista sia sul piano narrativo (o meglio, nei rapporti di potere tra i personaggi) sia a livello visivo6. Se l’interpretazione di un film è «una processualità che si rafforza sia nello sperimentare teorie nuove, sia nel sostituirle con altre teorie, con altre suggestioni metodologiche»7, l’interpretazione di Velluto blu che viene proposta in questa sede è legata a un orizzonte metodologico che in nessun caso ambisce a escludere altre possibile letture, ma, anzi, tenta di moltiplicare le suggestioni e gli interventi possibili per far emergere nuove significazioni. Più specificamente, è possibile leggere Velluto blu all’insegna di un’estetica del masochismo che si distingua però dalle interpretazioni tradizionali freudiane della dinamica psicosessuale sadomasochistica. Rileggendo l’opera di Leopold von Sacher Masoch attraverso il lavoro prima di Gilles Deleuze e poi di Gaylyn Studlar, si può infatti scoprire una inedita relazione tra lo stile visivo del film, la sua struttura narrativa e il più generale rapporto spettatore-immagine cinematografica8. Naturalmente, come già accennato, tale tipo di lettura non esclude la possibilità di interpretazioni diverse, non soltanto più tradizionali, ma anche legate alla stessa accezione di postclassicità. Una lettura alternativa potrebbe concentrarsi sul concetto di affetto. Nel cinema postclassico, il meccanismo percettivo che porta a un piacere pre-identificatorio, contagioso, per le immagini, è

spesso legato all’effetto che produce la prima sequenza: la maggior parte dei neo-noir si apre con immagini incomprensibili o violentemente mosse, senza soggetto o logica, senza presentazione del contesto o illustrazione dello scopo, puro eccesso il cui fine ultimo è introdurre lo spettatore alla visione del film, trascinarlo all’interno del meccanismo percettivo, fargli espellere violentemente ogni strumento di distanziamento ed eccitare i sensi. Il concetto di affetto può arricchire di senso l’analisi della sequenza iniziale di Velluto blu. Il montaggio di elementi visivi apparentemente non narrativi apre a una dimensione della fruizione «affettiva». Pre-linguistico, pre-identificatorio, l’affetto si definisce come un momento di emersione di un «intermezzo escluso, precedente alla distinzione tra attività e passività»9. Eminentemente sinestetico, l’affetto è un movimento, dunque illocalizzabile, sempre precedente a qualsiasi forma di simbolizzazione: non a caso le immagini iniziali di Velluto blu si qualificano prima di tutto attraverso delle opposizioni di natura non simbolica, ma piuttosto aptica. Il film si apre su un drappo di velluto blu che si muove leggermente e il piano è tanto ravvicinato da permettere allo spettatore di cogliere le increspature del tessuto e le variazioni di colore determinate dall’alternanza tra luce e ombra. Analogamente, la prima sequenza mostra fiori sgargianti che adornano una staccionata bianca contro un cielo azzurro. I colori diventano stimoli sensoriali puramente sinestetici, mentre le diverse superfici esaltano la materialità dello sguardo aptico. Il pompiere che saluta dal furgone rosso, mentre questo scorre in ralenti, come i bambini che attraversano la strada in fila indiana, lascia emergere l’affetto nella «coesistenza virtuale e interconnessione»10 tra l’immobilità di un’immagine stereotipata e il movimento rallentato di un ricordo ossessivamente ripetuto. L’intera sequenza iniziale può essere dunque inserita all’interno di un più complesso movimento di immersione sensoriale nel film, un’introduzione che sfrutta binari non narrativi e non linguistici, ma sensoriali, affettivi. Allo stesso modo, il ritrovamento di un orecchio reciso a pochi minuti dall’inizio del film può apparire come la materializzazione di un trauma che tenta di emergere, di un ricordo rimosso (non necessariamente in contrasto con una lettura psicoanalitica tradizionale che suggerirebbe uno spostamento alla cui radice vi è la paura di castrazione). L’oggetto/orecchio potrebbe davvero avere

funzione di oggetto parziale in una narrazione del percorso edipico del protagonista11. Al tempo stesso, però, potrebbe semplicemente manifestarsi come il corrispettivo materiale, materializzato, di un impulso contrastato (come il trauma). L’eccesso di desiderio e abiezione che si rende evidente lungo il corso del film, potrebbero suggerire che l’orecchio, esso stesso oggetto abietto, poiché «resto» di un corpo, sia una premonizione della pericolosa attrazione di Jeffrey per l’abietto12. In ogni caso, il celebre orecchio di Velluto blu è anche un riuscitissimo mcguffin, come nella migliore tradizione noir. Tra le possibili interpretazioni del film, Velluto blu sembra produrre significazioni inedite soprattutto alla luce della già citata teoria del masochismo. Il soggetto masochista si definisce come colui che non vuole (o non può) superare la fase orale della propria infanzia, reclamando la ricostruzione di un rapporto basato sul feticismo e sulla ripetizione delle opposizioni punizione/piacere, unione/separazione, soddisfazione/sospensione. Il masochista ha dunque bisogno di convincere la propria amante a rivestire il ruolo della madre orale, mettendo così in scena il rito della sospensione del piacere, dell’angoscia e della punizione che aprono le porte al soddisfacimento finale. La donna del masochista d’altro canto, lungi dal poter essere banalmente identificata con una figura sadica, è pur tuttavia ambigua: «la donna carnefice sfugge al proprio masochismo, facendosi, in quella situazione, “masochizzante”», dunque come in bilico tra «soggetto» ed «elemento» della perversione. In Velluto blu, non soltanto i personaggi principali sembrano impegnati a rivestire a turno i panni del soggetto masochista, o quelli del soggetto masochizzante, ma lo stile visivo del film stesso sembra votato alla creazione di un rapporto pre-soggettivo, affettivo tra lo spettatore e l’immagine. In particolare, le pseudo-soggettive instaurano un regime di profonda ambiguità tra attivo e passivo, tra oggetto dello sguardo e soggetto della visione. Inoltre i dettagli, frammenti di immagini che tendono a ripresentarsi sotto forma di schegge mnemoniche/oniriche del protagonista, accentuano il legame tra eccesso di desiderio e trauma, tra masochismo e stile visivo.

Per comprendere a fondo il legame tra l’estetica masochista e Velluto blu è fondamentale l’analisi della lunga sequenza centrale del film, che dura ben diciassette minuti, il cui climax è rappresentato dalla prima apparizione del maniaco Frank Booth in casa di Dorothy Vallens, mentre Jeffrey è nascosto nell’armadio a spiare il loro incontro. Questa lunga sequenza può essere divisa in quattro sottosequenze, attraverso le quali si specifica in maniera estremamente illuminante la dinamica e l’estetica del masochismo che pervade l’intero film. La prima sottosequenza si apre con l’inquadratura delle scarpe di Jeffrey, improvvisamente immobili, mentre i rumori fuori campo fanno capire che Dorothy sta rientrando a casa e Jeffrey, che si è introdotto di nascosto, potrebbe essere scoperto da un momento all’altro. Preso dal panico, Jeffrey si nasconde nell’armadio a muro del salotto. Dal momento in cui Jeffrey si chiude nell’armadio, il suo primo piano, inquadrato lateralmente mentre spia attraverso uno spiraglio, è alternato per cinque volte a un totale del salotto, mentre Dorothy accende una luce e si sveste. Allo squillo del telefono, Dorothy, che si avviava verso l’armadio, corre indietro a rispondere e il primo piano di Jeffrey si alterna a dei piani sempre più stretti su Dorothy (due volte in mezza figura, poi in primo piano e infine in primissimo piano), mentre la conversazione al telefono, pur misteriosa, si fa sempre più angosciante. Al termine della telefonata i piani tornano ad allargarsi, mentre Jeffrey spia la donna con crescente partecipazione. L’alternanza di campi va avanti per altre dieci volte, finché Dorothy, dopo aver sentito un rumore, si arma di coltello e spalanca l’anta dell’armadio, scoprendo Jeffrey. Già questa prima sottosequenza è particolarmente rilevante, se letta alla luce dell’estetica masochista. Il voyeurismo accentuato che domina la messa in scena, infatti, permette a Jeffrey come allo spettatore di accedere alla prima delle tante modalità di teatralizzazione del masochismo, ovvero la contemplazione rubata, segreta, della donna amata. Questo tipo di dialogo visivo tra soggetto e oggetto dello sguardo, però, non corrisponde affatto alla tradizionale dinamica attivo/passivo così tipica di tanto cinema classico13. Jeffrey infatti non detiene alcuna forma di potere o controllo sull’oggetto della propria visione, anzi. Non soltanto, infatti, egli è relegato in un armadio in cui può a stento muoversi

senza essere scoperto, ma nessuna delle inquadrature che riguardano Dorothy può essere identificata come una sua soggettiva. Lo spettatore sembra dunque trovarsi in una posizione intermedia, ambigua e instabile almeno quanto i poli di attività e passività generati dalle posizioni di Jeffrey e Dorothy. Se egli può partecipare con piacere alla suspense e al voyeurismo provocati dalla scena, manca sicuramente di quel senso di controllo e oggettivazione così tipici della posizione voyeuristica tradizionale. Durante il breve episodio della telefonata, inoltre, si instaura per la prima volta un legame visivo e concettuale tra soggettiva e desiderio: la macchina da presa inquadra Dorothy in primissimo piano, una scelta che da questo momento si ripete spesso nella sequenza e nel film intero. Infine, l’atto stesso di «esposizione» di Jeffrey che viene scoperto, si riverbera sul voyeurismo dello spettatore, mettendo all’indice il piacere che deriva dalla visione «rubata» del corpo femminile desiderato. Allo spettatore, come a Jeffrey, viene negata la possibilità di farsi soggetto attivo dell’attività scopica che, in un altro film, sarebbe andata avanti senza ostacoli. Lo spettatore è parzialmente «escluso» (poiché mancano vere e proprie soggettive), «esposto» e tenuto «sospeso» in un desiderio che viene amplificato e rimandato. La sottosequenza seguente mette in scena un altro locus classico della dinamica masochista. Dorothy spalanca l’armadio e scopre Jeffrey nascosto tra i suoi vestiti. Seguono cinque campocontrocampo di Dorothy e Jeffrey a terra, in primo piano largo. Jeffrey è visibilmente spaventato, perché Dorothy lo ha appena colpito alla guancia con il coltello, urlandogli ordini e costringendolo all’umiliazione della confessione. Il campocontrocampo in questo caso permette di mostrare il volto stravolto e spaventoso della donna che, scoprendo di essere spiata, si è trasformata da oggetto del desiderio scopico in pericolosa antagonista armata. In realtà è già iniziato il laborioso rito di seduzione nella coppia masochista. Non a caso, dopo aver domandato il motivo della sua intrusione, Dorothy obbliga Jeffrey a spogliarsi e la sequenza cambia nuovamente registro. Non soltanto la musica, che aveva assunto toni vagamente hitchcockiani, si ferma, ma il nuovo campocontrocampo questa volta inquadra Jeffrey in piedi, in primo piano e Dorothy sempre in primo piano ma inginocchiata, mentre guarda

rapita il corpo nudo di Jeffrey. E mentre Dorothy bacia il ventre di Jeffrey, non smette di minacciarlo con il coltello e dargli ordini che egli esegue senza protestare. In questo caso Dorothy ha reso manifesto il suo ruolo di soggetto masochizzante nei confronti di Jeffrey, mostrandosi prima una padrona estremamente violenta e pericolosa, poi una generosa ed estasiata amante. Qui lo stile visivo assolutamente tradizionale14 lascia evidentemente spazio alla manifestazione di una delle più esemplari situazioni della dinamica masochista nella coppia. Il soggetto masochista viene prima punito, aggredito, ridotto a schiavo, poi viene premiato attraverso la promessa del godimento. A questo punto però, il soddisfacimento del soggetto masochista viene sospeso: Dorothy e Jeffrey sentono bussare alla porta, Dorothy è presa dal panico e ordina a Jeffrey di tornare nell’armadio in silenzio. Il piacere di Jeffrey è rimandato. Entra in scena Frank Booth e inizia la terza sottosequenza, forse la più famosa del film: ha luogo la controversa scena di sesso tra Dorothy e Frank, sotto lo sguardo agitato, ma partecipe, di Jeffrey nascosto nell’armadio. Questa volta il primo piano di Jeffrey è ancora più ravvicinato rispetto alla prima sottosequenza ed è leggermente angolato dal basso verso l’alto, mentre la macchina da presa che inquadra il salotto è visibilmente più mossa, anche se ogni movimento è sempre un semplice aggiustamento del piano. Si tratta di 63 inquadrature, che inizialmente alternano totali del salotto a primi piani di Jeffrey e a una mezza figura di Frank. Quando Frank inizia a picchiare Dorothy e a urlarle contro, l’alternanza è esclusivamente tra i primi piani dei due, mentre sono più rari quelli di Jeffrey. Infine, concluso il contorto abuso sessuale, una serie di totali del salotto si alternano al primo piano di Jeffrey nell’armadio. In tutto si tratta di ben 53 primi piani. Il riferimento della sequenza alla scena primaria è evidente. Non soltanto Jeffrey è letteralmente nella posizione fisica del bambino che spia i genitori, ma anche Dorothy e Frank si chiamano a vicenda «mamma» e «papà», mentre mettono in scena quella che può essere facilmente letta come una ricostruzione fantasmatica del rapporto sessuale tra adulti, almeno nella visione non completamente chiara di un bambino: «la feroce stranezza delle espressioni caotiche di

Frank [è una] traccia delle confuse, terrificanti immagini evocate da un bambino che ascolta l’amplesso dei genitori … Jeffrey vive la scena primaria come una serie di interpretazioni infantili errate»15. La teatralizzazione della scena primaria in questa sottosequenza ha portato spesso a definire tutto il film come il resoconto di un travagliato percorso edipico, quello di Jeffrey, alle prese con figure «genitoriali» a loro volta non perfettamente in grado di superare il proprio complesso edipico (in particolare Frank)16. Questo tipo di interpretazione, pur assolutamente legittima, è però solo parzialmente in grado di spiegare il comportamento ambivalente di Dorothy (il suo sorriso quando viene picchiata da Frank, il suo atteggiamento masochizzante nei confronti di Jeffrey) e, a mio avviso, appiattisce la complessità di tutti e tre i personaggi. La scena primaria non esclude lo scenario masochista, anzi. Essa piuttosto rappresenta un momento fondamentale nella dinamica masochista, poiché è intesa come un momento di eccitante «battesimo» nell’abiezione. Lo stesso Sacher Masoch chiarisce il ruolo della scena primaria nel masochismo in modo illuminante. Ricordando un episodio della propria infanzia, Masoch scrive: Guidato da non so quale demonio, andai a nascondermi nella camera di mia zia, dietro a un porta-abiti a cui erano appesi vestiti e mantelli … poco dopo, mia zia entrò nella camera seguita da un bel giovane … Non capivo cosa si dicessero, ancor meno cosa facessero; ma sentivo il mio cuore battere con forza, perché mi rendevo perfettamente conto della situazione in cui mi trovavo: se mi avessero scoperto sarei stato considerato una spia17.

Naturalmente il giovane Sacher Masoch viene scoperto e punito dalla zia a frustate (come Dorothy scopre e attacca Jeffrey), non prima però che nella stanza abbia fatto irruzione il marito della zia, e che lo stesso Sacher Masoch abbia assistito alla ferocia della donna che infierisce sul marito tradito minacciandolo con la frusta. La successiva riappacificazione coniugale lascia intendere la natura masochista del rapporto tra gli zii: «(il marito) non tardò a entrare nella camera, non da vendicatore, ma da umile schiavo; fu lui a gettarsi alle ginocchia della perfida donna chiedendole umilmente perdono mentre lei lo respingeva con il piede»18. Anche in questa occasione il giovane Masoch rimane a spiare, questa volta ascoltando dietro la porta, e scopre per la prima volta «la misteriosa affinità fra la crudeltà e la voluttà»19. Ancora una volta, si nota la profonda ambiguità nelle relazioni tra

potere e sottomissione, attività e passività. Al giovane Masoch nascosto nell’armadio come Jeffrey, fa eco un marito decisamente masochista e un terzo uomo che, mancando di qualsiasi elemento caratteristico, sembra essere piuttosto un prolungamento materiale della fantasia di Masoch. La combinazione della scena primaria con l’atto di spionaggio e con l’intervento di un terzo uomo costituisce dunque il nucleo fondante della dinamica masochista. La donna mette in scena un tradimento sotto gli occhi del proprio amante, anche se nel film, a differenza del racconto di Masoch, Dorothy è implicata in un tradimento se possibile più tragico ancora, poiché perpetrato con un terzo uomo esplicitamente sadico. Il terzo uomo in Sacher Masoch ha spesso qualità vicine al sadismo, poiché quella sadica è proprio la violenza che il masochista non riesce ad accettare. Priva della fondamentale componente teatrale, la violenza sadica non ammette contratti o sentimenti d’amore come avviene invece per l’incontro masochista, in cui la violenza anche eccessiva è sempre strumentale al piacere successivo. L’angoscia e il timore che la propria amata possa tradirlo, o addirittura prostituirsi per ottenere il favore del «Greco» (il terzo uomo viene così chiamato da Sacher Masoch in Venere in pelliccia20) trova conferma in questa sottosequenza, in cui non soltanto il Greco si rivela in tutta la sua crudeltà e mancanza di rispetto nei confronti della donna (al contrario il masochista la idealizza e venera), ma la donna stessa sembra trarre piacere dai maltrattamenti subiti. Non a caso, i primi piani dedicati a Dorothy mostrano un volto intenso, ma disteso e si notano le labbra rosse schiuse. Al primo schiaffo ricevuto Dorothy addirittura sorride e sembra sussurrare un cenno di piacere. Solo con la partenza di Frank, Jeffrey sembra riprendere il controllo uscendo di nuovo dall’armadio, mentre Dorothy assume un aspetto disperato che in presenza di Frank non sembrava avere. La quarta e ultima sottosequenza è molto breve, ma è proprio in questa sezione che Dorothy tenta di capovolgere i rapporti di potere tra sé e Jeffrey. Infatti se dapprima la donna non esita a maltrattare il ragazzo che tenta di consolarla con una coperta, liquidandolo con brevi frasi («sto bene, sto bene»), in un secondo momento tenta, per questa volta senza riuscirci, di porsi lei stessa nella posizione di soggetto masochista, chiedendo a Jeffrey di picchiarla.

Questo cruciale momento di capovolgimento dei rapporti di potere ha luogo in una singola inquadratura e merita una particolare attenzione, poiché assolve a una tale quantità di funzioni da risultare estremamente semplice e molto complessa allo stesso tempo. Si tratta di un primissimo piano del volto di Dorothy che, tra le braccia di Jeffrey, a occhi chiusi, gli chiede di essere toccata (in inglese «feel me», «sentimi»), poi di essere picchiata. Il volto eccessivamente truccato di Dorothy si concentra tutto sulla bocca rossa, socchiusa. Il primissimo piano porta lo spettatore il più vicino possibile all’immagine erotica per eccellenza: il volto estatico di una donna che sussurra qualcosa al proprio amante. Eppure, proprio in virtù di tale fortissimo avvicinamento a quello che è indiscutibilmente un oggetto (del piacere, del desiderio), si verifica un capovolgimento. La donna chiede di essere picchiata, rovinando la fantasia masochista di Jeffrey (e dello spettatore). Dorothy oscilla vertiginosamente tra i poli del masochismo (soggetto masochista/elemento masochizzante) e perciò non è solo rifiutata da Jeffrey, ma anche dallo spettatore in sala, disorientato dalle ambiguità dell’abiezione. Se in realtà gli spettatori sono attratti dall’erotismo della scena inspiegabile cui hanno assistito tra Frank e Dorothy, la reazione non «corretta» della donna di fronte a Jeffrey si trasforma in un incubo. Si comprende dunque con maggiore chiarezza la complessa oscillazione di potere nella dinamica masochista. Se, infatti, superficialmente sembra essere il soggetto masochizzante a detenere una forma di potere sul masochista, in virtù di una maggiore attività, o iniziativa, è in realtà proprio il soggetto masochista a decidere sempre i termini del rapporto, la sua natura e la sua durata. Nick Mansfield, a questo proposito, sostiene: Il soggetto masochista ha bisogno di vedere il proprio desiderio annullato, completamente soppresso dal desiderio di un altro. Ma, l’autonomia di desiderio dell’altro deve essere ugualmente annullata perché ciò sia possibile. In breve, il masochista soddisfa il proprio desiderio annullando il desiderio dell’altro21.

Questo tipo di raddoppiamento del desiderio, annullato o falsamente soppresso, non porta però, come sostiene successivamente Mansfield, a svelare la natura omosessuale o bisessuale dei cosiddetti sadomasochisti, ma piuttosto rivela, l’ambiguità di gender, pre-edipica, che caratterizza entrambi i protagonisti della coppia masochista.

Come si era notato in precedenza, i poli di attività e passività assumono, nel masochismo come in questa lunga sequenza di Velluto blu, un ruolo instabile e ambiguo. Certamente non corrispondono nettamente ai ruoli di potere o, in termini di gender, all’opposizione maschile/femminile. Nello spazio di un primissimo piano, Dorothy tenta di capovolgere non soltanto i termini della dinamica masochista, ma anche i rapporti di potere tra sé e Jeffrey, provando a porsi come la parte più forte della coppia. Ma non solo. Dorothy si rivela, nel proprio eccesso, abietta: La stessa esperienza di «desublimazione» era già ben nota nella tradizione dell’amor cortese, nella forma della figura della Frau-Welt (la donna che si erge a simbolo del mondo, della vita terrena): ella appare bella alla giusta distanza, ma nel momento in cui il poeta o il cavaliere per servirla le si avvicina troppo … ella volge a lui il proprio altro lato opposto, e quella che prima appariva come una bellezza affascinante si rivela all’improvviso come carne putrefatta, brulicante di serpenti e vermi, la disgustosa essenza della vita – come nei film di David Lynch, nei quali un oggetto diventa la disgustosa essenza della vita quando la macchina da presa lo inquadra da troppo vicino22.

Jeffrey è costretto a distanziarsi dal proprio oggetto del desiderio, per tentare di ritrovarne la bellezza, ma, proprio alla fine della quarta sottosequenza, un dettaglio rivela che la vestaglia di velluto blu di Dorothy è stata tagliata in un angolo. Anche in questo caso, l’elemento di disturbo della messa in scena, che per il masochista deve essere perfetta, interviene sotto forma di dettaglio: una pseudo-soggettiva seguita da un primo piano di Jeffrey sempre più sconvolto e preoccupato. L’estetica masochista trova nel primissimo piano la propria espressione più eclatante. L’inquadratura ravvicinata della bocca rossa semiaperta di Dorothy e dei suoi occhi chiusi segnati dall’ombretto blu sulla pelle bianchissima, diventa il frammento visivo di un trauma, l’identificazione dell’abietto proprio nell’oggetto stesso del desiderio. Proprio per questo torna spesso nel film, in qualità di testimone visivo dell’eccesso di desiderio di Jeffrey. Il primissimo piano, infatti, si ripete identico nella sequenza onirica che segue immediatamente la lunga sequenza analizzata, a interrompere una serie spaventosa di figure paterne sgradevoli (prima il vero padre di Jeffrey, poi Frank, in ralenti). Del resto, nella dinamica masochista, almeno secondo l’interpretazione proposta da Deleuze, attraverso la punizione fisica violenta, il masochista

espelle proprio quella parte di sé che rimanda inevitabilmente al padre (o, in termini freudiani, al Super-Io)23. L’espulsione della figura paterna dalla propria psiche porta il soggetto masochista a una rinascita, ri-sessualizzata dopo la de-sessualizzazione della violenza fisica, in virtù della quale la donna amata può finalmente accoglierlo. Il sogno di Jeffrey sembra dunque la riproposizione onirica della minaccia che incombe: diventare egli stesso soggetto masochizzante e non riuscire a liberarsi dalle figure paterne che minacciano la promessa del godimento. Più avanti, un dettaglio ancora più ravvicinato sulla bocca di Dorothy rappresenta un ulteriore punto di svolta nei rapporti di potere tra i due personaggi. Il dettaglio si inserisce al culmine di una sequenza in cui Dorothy per la seconda volta tenta di capovolgere i rapporti di potere tra sé e il giovane amante, mentre Jeffrey tenta di resistere nella (potente) posizione di soggetto masochista. Quando infine, pressato dalla donna e con un’espressione di disgusto sul volto, Jeffrey colpisce Dorothy, un dettaglio mostra la bocca rossa, sorridente della donna, ma lascia apparire la dentatura non perfetta, l’incisivo destro spezzato. Di nuovo, questo dettaglio trattiene in sé il complicato senso della dinamica masochista: il soggetto masochista detiene ed esercita il proprio potere attraverso la falsa deposizione del controllo nelle mani del soggetto masochizzante. Al tempo stesso, il desiderio eccessivo e oscillante di Jeffrey lo porta a riconoscere nel proprio oggetto del desiderio un oggetto abietto. Se dunque si definisce abietto tutto ciò che viene rifiutato perché rompe le regole sociali e i tabù, per dare libera espressione al regno dell’ambiguo, del residuale e di tutto ciò che non si può con nettezza collocare tra il Sé e l’Altro24, Dorothy, vista troppo da vicino, rivela la propria abiezione poiché annulla la distanza necessaria tra soggetto e oggetto del desiderio, ponendo un’ombra minacciosa sulla vera natura dell’attrazione sessuale. La sequenza in cui ha luogo un capovolgimento tanto complesso nello spazio minimo di un dettaglio è in realtà un esempio eclatante dell’estetica masochista, per molti altri motivi. Oltre al capovolgimento della scena di seduzione, infatti, all’interno della sequenza trovano spazio metafore e sinestesie tipiche dell’estetica masochista25.

La sequenza si apre con un movimento laterale della macchina da presa su un dettaglio delle lenzuola, di seta blu. Il movimento rivela i fianchi nudi di Dorothy e Jeffrey e infine si sofferma sui loro volti, mentre si baciano. Durante questo primo piano, Jeffrey rifiuta energicamente di picchiare la donna. Quando, nella stessa inquadratura, Jeffrey nomina la polizia, il volto di Dorothy passa dall’evidente delusione alla disperazione. Segue una prima inquadratura apparentemente illogica: il dettaglio di una fiamma agitata dal vento. Si tratta della ripresa di un oggetto già presentato durante la terza parte della sequenza analizzata precedentemente. In quell’occasione la fiamma viene accesa da Dorothy «in onore» dell’arrivo di Frank in casa. L’evidente incongruenza narrativa dell’inquadratura sembra segnalare l’instaurarsi di un regime eminentemente metonimico: Dorothy ha paura di Frank (e dei suoi legami con la polizia) e l’evocazione del personaggio viene visualizzata attraverso un’immagine che vi è legata narrativamente, seppure in maniera evasiva. Seguono le voci di Dorothy e Jeffrey su nero; un’inquadratura più larga (campo medio, corpi in figura intera) in cui Dorothy allontana a calci Jeffrey dal letto finché il ragazzo non si decide a schiaffeggiarla tanto forte da farla ricadere indietro; un primo piano di Jeffrey che con espressione disperata procede a picchiare la donna; infine il primissimo piano della bocca sorridente di Dorothy. Oltre la stretta consequenzialità di queste tre inquadrature si nasconde il dramma del capovolgimento della dinamica masochista. L’inquadratura seguente è un’altra forte immagine non narrativa: un fuoco, questa volta ancora più potente della fiamma che «denotava» Frank, riempie l’intero schermo. Segue una prosecuzione della prima inquadratura: i corpi di Dorothy e Jeffrey si agitano nel letto in ralenti mentre dei suoni disarticolati, stridenti e animaleschi, sottolineano il carattere più feroce del rapporto carnale. La sequenza si chiude con il nero e la voce over di Dorothy che dichiara: «I have your disease in me now» («Ho la tua malattia in me, adesso»). Secondo Gaylyn Studlar, «la metafora, in quanto conseguenza della sinestesia, si affida al riconoscimento di alcune qualità di somiglianza tra gli elementi, sulla percezione di una relazione analogica tra i segni»26. La metafora visiva, in particolare, pone in relazione gli elementi in base a principi di giustapposizione non

gerarchica, non legata alla logica narrativa di causa/effetto. Essa infatti, come notato da Linda Williams, «imita “i procedimenti dell’inconscio”»27 e tende a instaurare un rapporto, non necessariamente di contenuto, tra ambiti diversi, costruendo legami inediti spesso proprio tra due sfere sensoriali diverse. In questa sequenza, dunque, l’inserimento di immagini non narrative e non immediatamente legate alle altre secondo principi causali apre la strada a una percezione della sequenza intera come metafora, accentuando il carattere sinestetico della fruizione. I rumori incomprensibili e animaleschi sovrapposti all’immagine in ralenti della coppia, collegati alle due immagini «di fuoco», costruiscono una analogia esclusivamente formale e non narrativa. La metafora visiva della fiamma imposta una modalità di fruizione per lo spettatore che non segue i binari «immediati» della metafora tradizionale o quelli ancora più noti della metonimia (il fuoco «sta per» la passione degli amanti, Frank o altro). L’apparente illogicità del montaggio accentua il carattere sinestetico della metafora formale. La seta blu delle lenzuola e i corpi nudi dei personaggi sottolineano la sinestesia costruendo una percezione sensoriale che lega la visione alla tattilità. Le due immagini di fuochi chiosano (pur senza «illustrare» narrativamente) il tragico capovolgimento nella coppia masochista, mentre la doppia sovrapposizione dei suoni non umani sulle immagini dell’amplesso e delle voci umane sul nero esasperano la sinestesia che, secondo Studlar, «porta a una confusione dei confini tra i sensi, tra l’animato e l’inanimato, tra umano e oggetto, realtà percepita e proiezione immaginaria»28. La sequenza chiarisce nello spazio di pochissime inquadrature (sono solo sette, più due schermate nere con le voci over dei personaggi) la ricchezza visiva dell’estetica masochista. L’oggetto del desiderio, troppo vicino, troppo svelato e troppo desiderato si trasforma in oggetto abietto, evidente nell’impianto formale del film. L’attenzione al minimo, al vicinissimo, non comporta soltanto la scoperta dell’ambivalenza (crudeltà/voluttà, meraviglioso/abietto) ma rivela anche la primaria importanza dell’omissione, della ripetizione ossessiva di parti incomplete. La bocca di Dorothy, separata dal suo corpo, assume l’aspetto residuale e abietto che l’orecchio nel prato aveva assunto all’inizio del film. L’ultima frase della sequenza, pronunciata da Dorothy, apre invece a una ulteriore prospettiva della dinamica masochista. «Ho la tua

malattia in me adesso», sussurrato in chiusura sullo schermo nero, sembra voler intendere che il capovolgimento del rapporto masochista è compiuto: Dorothy è un soggetto masochista. È un movimento empatico, quello femminile, che dopo essere stato costretto nel difficile ruolo di soggetto masochizzante, deve quasi forzatamente passare per una fase masochista, sostituendosi al partner maschile e facendo esperienza diretta di quel che lei stessa ha inflitto fino a quel momento. La frase «ho la tua malattia in me adesso» sembra dunque alludere a un passaggio di Dorothy, a una riuscita identificazione con il ruolo appartenuto a Jeffrey. Se Frank, il terzo uomo sadico, non tollera la partecipazione della propria vittima e dunque non permette a Dorothy di fare esperienza come soggetto masochista, Jeffrey invece lascia aperto il varco per il capovolgimento, trasmettendo il proprio «male». La narrazione complessiva del film sembra governata soltanto dalla fragile logica dell’immaginario di Jeffrey, soggetto masochista costantemente minacciato da agenti esterni. Gli elementi misteriosi o contorti della narrazione possono essere compresi solo come prodotti dell’immaginario di un uomo, piuttosto che come elementi di una storia di rapimento e corruzione. Persino Frank, dunque, il sadico che si comporta secondo canoni incomprensibili e inquietanti, è costantemente «scritto» dallo sguardo del soggetto masochista e proprio per questo sempre misterioso e spaventoso. Il travestimento di Frank («l’uomo elegante» che fa affari loschi con un poliziotto corrotto, «l’uomo giallo») è privo di qualsiasi giustificazione narrativa perché è un elemento decorativo del ricco immaginario del soggetto masochista. Come accade in molti altri neo-noir in cui l’estetica masochista è preponderante, il mistero da risolvere nella diegesi, o la minaccia e il crimine che scatenano la narrazione, sono sempre strumentali e poco credibili rispetto al nucleo centrale: la passione di un uomo per una donna irresistibile ma pericolosa29. La coerenza dell’estetica masochista e del punto di vista di Jeffrey su ogni aspetto della vicenda sono assicurati dalla ripetizione di tableaux vivants che ricordano continuamente il carattere eccessivo, fittizio e teatrale delle emozioni mostrate dai personaggi. In particolare, si pensi alle sequenze nel night club in cui si esibisce Dorothy e ai due sguardi maschili (prima Jeffrey, poi Frank, a sua volta spiato da Jeffrey). La costruzione di queste due sequenze sembra mettere in evidenza più il carattere contemplativo e sottomesso dei due uomini che un atteggiamento sadico-

voyeuristico nei confronti del corpo femminile messo in mostra. Si pensi anche alla sequenza al This Is It, locale di dubbia natura in cui un truccatissimo spacciatore/carceriere Ben canta per Frank, senza che questi ponga molta attenzione alla differenza tra effettiva esibizione e imitazione di un’esibizione. Nella sequenza che conclude il film, prima dell’epilogo, Jeffrey ritorna a casa di Dorothy, spazio già denso di significati diversi, per trovare la «messa in scena» di una scena del crimine. L’immobilità inquietante dell’«uomo giallo» e la complicata posizione di Don, apparentemente morto in seguito a terribili torture, sembra la versione capovolta del tableau vivant in cui il soggetto masochista immobilizza e contempla la donna amata. Quando Jeffrey si confronta per l’ultima volta con Dorothy, la donna è diventata un corpo abietto. L’ultimo incontro tra i due amanti ha luogo in una sequenza poco prima della chiusura del film, prima che Jeffrey scopra la succitata «scena del delitto». Il senso di rifiuto che scatena l’oscena e imbarazzante nudità di Dorothy, a braccia aperte davanti al portone di casa di Jeffrey, esposta allo sguardo di Sandy e di altri giovani, è evidentemente il segno che Dorothy non può più essere la sua terribile e meravigliosa Venere. Il corpo martoriato di Dorothy sconvolge e impietosisce, ma impedisce una volta per tutte lo scenario masochista per Jeffrey. Alla chiusura della sequenza, lo schiaffo indignato che la gentile e remissiva Sandy stampa sul volto sorpreso di Jeffrey è forse il dato umoristicamente più indicativo di un nuovo scenario possibile, una speranza per Jeffrey di ricostituire la coppia masochista. L’epilogo indica dunque la «normalizzazione» del rapporto di Jeffrey e Sandy, in un mondo in cui le figure maschili e femminili sono raddoppiate, triplicate (due madri e due padri oltre a Sandy e a Jeffrey), fino a rivelare la fragilità delle strutture discorsive di potere e gender. Ogni elemento del film sembra dunque confermare un rapporto tematico e formale con l’estetica masochista, permettendo una lettura certamente non univoca, ma in grado di produrre una prospettiva inedita. In ogni caso Velluto blu rappresenta un punto di riferimento per comprendere la presenza dell’estetica masochista nel fenomeno cinematografico degli ultimi vent’anni.

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Fuoco cammina con me di Enrico Carocci L’esperienza di Twin Peaks è stata, per David Lynch, il luogo di una sperimentazione sulle forme narrative a partire dal carattere «dispersivo» del racconto a puntate. Pur senza ignorare la natura problematica dei rapporti di Lynch con la forma seriale – né d’altronde il carattere rivoluzionario di Twin Peaks rispetto al panorama delle serie dell’epoca – possiamo considerare lo scontro con le nuove convenzioni televisive come un fattore decisivo, un punto di non ritorno all’interno della filmografia lynchiana. La serie dà a Lynch la possibilità di realizzare un intreccio di trame legate tra loro in maniera più o meno forte, a partire dall’assassinio di una liceale: un evento originario mai mostrato, che ha una funzione di semplice innesco del racconto e dei suoi risvolti. È l’occasione che gli ha consentito di operare un decentramento sistematico, attraverso il continuo differimento della risposta alla domanda fondamentale (chi ha ucciso Laura Palmer?), e la conseguente moltiplicazione dei personaggi, delle trame secondarie, delle connessioni lontane tra eventi, delle rotture improvvise degli equilibri instabili e lentamente costruiti. Si sarebbe trattato di un processo virtualmente infinito: Quello che mi piaceva era l’idea di una lunghissima storia a episodi. […] Il progetto che avevamo proposto era la storia di un omicidio misterioso, ma alla fine quest’ultimo avrebbe dovuto essere relegato sullo sfondo, poi ci sarebbe stato un piano di mezzo, costituito da tutti i personaggi della serie; infine, in primo piano, ci sarebbero stati protagonisti di ogni singola settimana […]. Quanto all’omicidio, volevamo lasciarlo a lungo in sospeso1.

Attraverso la forma della serie televisiva, insomma, Lynch – al di là delle intenzioni più o meno rispecchiate nel prodotto finito, modificato e poi interrotto – costruisce una rete di dinamiche complesse attorno a un personaggio misterioso e sfuggente, Laura Palmer, i cui tratti si delineano soltanto a partire dalle molte storie che ruotano attorno al suo omicidio, senza mai giungere ad alcunché di simile a un ritratto a più voci (che, per sua natura, implicherebbe una riduzione del molteplice a unità: Laura, in questo senso, è il vero e proprio centro sottratto al racconto, o la casella vuota che consente di mantenere in stato di tensione ogni elemento della serie). Le indagini sull’omicidio coincidono con la scoperta progressiva di Twin Peaks e della sua popolazione, dei suoi lati

oscuri, delle relazioni più o meno trasparenti che via via affiorano, attraverso «primi piani» significativi che ogni volta riconfigurano il microcosmo costruito nelle puntate precedenti2. La televisione, in breve, consente a Lynch di operare una sperimentazione permanente, una costruzione del molteplice che sembra fare eco al modello del rizoma tracciato da Deleuze e Guattari nei suoi principi di connessione, eterogeneità, molteplicità, rottura asignificante3. Si tratta di un modello che, dopo l’esperienza televisiva, sarà operativo (con le dovute differenze) anche nei lungometraggi, e proprio a partire dal prequel della serie realizzato da Lynch nel 1992, Twin Peaks. Fire Walk with Me4. Il film, che doveva concludere la serie rimasta incompiuta alla fine della seconda stagione, racconta gli ultimi giorni di vita di Laura Palmer – come se, per portare a termine la serie, non si potesse fare altro che immergersi in quella regione oscura che ne aveva costituito il motore. Fuoco cammina con me costituisce in qualche modo l’atto di riappropriazione, da parte di Lynch, del mistero troppo presto svelato, il requiem cantato in onore della figura che racchiude in sé tutta una popolazione. Laddove la serie televisiva, infatti, presentava degli echi dell’immagine di Laura attraverso le testimonianze dei personaggi che erano entrati in relazione con lei (cioè: quanto di lei rimaneva negli altri, in forme diverse), il film coagula intorno alla ragazza una moltitudine impossibile da riportare a un’identità forte e a un universo stabile (cioè ad esempio i vari modi attraverso cui Laura declina la propria femminilità, ma anche i fantasmi che la abitano e che lei proietta al di fuori di sé). La Laura Palmer della serie è rovesciata come un guanto, osservata finalmente in primo piano, e presentata in tutta la sua complessità, complicando la struttura del film che, come scrive Chion, diventa «il film su tutte-le-donne-in-una, una compilazione di tutte le immagini della madre […] il film in cui la coesistenza dei mondi cessa di essere pacifica e relativamente possibile, ma dove essi tendono invece a diventare uno solo, oscillando pericolosamente dall’uno all’altro e parassitandosi a vicenda»5. Tutto questo si innesta su una disposizione sostanzialmente lineare degli episodi, che ci vengono introdotti con una quantità puntuale di riferimenti spazio-temporali (si pensi ai molti dettagli di orologi che scandiscono l’andamento lineare del tempo): sarebbe addirittura possibile ricostruire il calendario degli eventi che hanno condotto

all’omicidio Palmer6. A questa struttura lineare, che consente la spiegazione della excalation che conduce all’uccisione, corrisponde tutta una serie di trame più sottili, trasversali, talvolta nascoste, che collegano luoghi e momenti diversi del film, creando così una serie di rimandi, associazioni, rime o echi che sostanziano il mondo rappresentato, rendendolo simile agli universi che Lynch sperimenterà nei lungometraggi successivi. È su questo livello che cercheremo di soffermarci, nel tentativo di cercare il senso in dettagli apparentemente insignificanti7. Su fondo blu, mosso dall’agitarsi di macchie chiare e scure, scorrono i titoli di testa. Il commento musicale che li accompagna è la melodia lenta e statica di una tromba con sordina, indifferente rispetto all’andamento caotico del pullulare delle particelle colorate. Inizialmente poco pronunciato, un movimento a retrocedere della mdp rende le macchie informi sempre più piccole e definite fino a mostrarci, poco prima della comparsa dell’ultimo titolo, l’inquadratura frontale di un televisore non sintonizzato che trasmette il tipico effetto di neve elettronica. Questo movimento lineare e continuo, benché attraversato da un sottile contrappunto che mantiene in equilibrio instabile il rapporto tra audio e video, è interrotto da un colpo violento, attraverso un impercettibile stacco di montaggio: la musica viene troncata bruscamente, il televisore esplode colpito da una spranga di metallo, e il cortocircuito produce lampeggiamenti vistosi che invadono l’intero piano. L’ingresso in campo di un personaggio in silhouette, infine, oscura lo schermo, mentre sentiamo le urla di una donna aggredita. Fuoco cammina con me si apre, dunque, mostrando del blu: i contorni sfuocati dei pixel consentono soprattutto l’insorgenza prolungata di un colore in movimento, di piccole masse intermittenti non formate, cioè tutto un dinamismo colorato che solo successivamente, col procedere del movimento della mdp, verrà riportato a una forma, quella dell’oggetto che ne veicola la forza8. A quel punto, racchiuso nel rettangolo dello schermo televisivo, questa sorta di brusio dell’immagine finirà per significare semplicemente un’assenza di comunicazione, la rappresentazione di un medium che non trasmette alcuna immagine. Il frammento narrativo che segue, sottratto a ogni determinazione spaziotemporale precisa (vale semplicemente, qui, come «una donna viene

aggredita»), sarà ricondotto più avanti all’ordine dell’universo diegetico del film; qui interessa soprattutto per il suo sopraggiungere inatteso, per la sua interruzione forte dell’andamento vacillante ma lineare che aveva accompagnato il movimento della prima inquadratura, attraverso la messa in rilievo dei suoi tratti di pura sensazione9. Il luogo di questa dinamica è innanzitutto l’inquadratura, al di là di ciò che all’interno di essa viene mostrato: essa diviene spazio primario e per così dire attrazionale, luogo in cui l’ordine figurativo è momentaneamente negato attraverso un’intensità che opera attraverso l’amplificazione delle componenti ritmiche (visive e sonore) della messa in scena, oltre che attraverso l’intensificazione dei valori luminosi e cromatici dell’immagine, con un procedere caratterizzato dalla discontinuità (il taglio di montaggio e i lampi di luce)10. La funzione mimetica della messa in scena, a ogni modo, è messa in crisi attraverso un utilizzo radicale delle possibilità del linguaggio cinematografico, che complicano l’organicità dell’universo diegetico disgregandola, aprendola a una forza che si dà come estranea ad essa. È un effetto che, almeno in alcune sue emergenze, può essere descritto come quell’irruzione di un’alterità nell’ordine del discorso che Lyotard chiama figurale, apertura del discorso alla logica del desiderio inteso come forza, energia non legata, entità non linguistica che sovverte l’ordine della rappresentazione11. Tuttavia, e più in generale in Fuoco cammina con me, la messa in scena tende a utilizzare la gamma più ampia delle possibilità offerte dalla «trasparenza stratificata» dell’immagine, attraverso un’invenzione figurativa che tende a sovrapporsi/sostituirsi ai valori della rappresentazione intesa come «processo […] che considera coerente e conforme il rapporto oggetto/rappresentazione e quindi mondo/linguaggio»12. Le macchie intermittenti dell’incipit della sequenza e i lampeggiamenti che la concludono sono, in questo senso, pure potenze visive, che operano dapprima sospendendo la figurazione attraverso l’emergenza di un colore puro che si dà come tale il più a lungo possibile, dilatando a dismisura i tempi del riconoscimento; e, in seguito, infrangendola attraverso una luce accecante che si separa dall’oggetto che la genera, cancellandolo letteralmente dall’orizzonte del visibile. Il visibile, in questo modo, si dilata e si dà nelle forme di una

defigurazione per amplificazione e intensificazione degli elementi che lo costituiscono, secondo una logica di isterizzazione delle forme che sembra richiamare la pittura di Francis Bacon13. In questo modo Lynch giunge alla messa in scena di un universo stratificato, o di mondi paralleli che fanno irruzione o si insinuano l’uno all’interno dell’altro, in modi che sperimentano forme visive complesse che, allo stesso tempo, possono risultare funzionali alla narrazione degli eventi. Quando i detective Desmond e Stanley giungono allo Hap’s, il locale in cui aveva lavorato Teresa Banks prima dell’omicidio, sono accolti da Jack, un anziano custode che staziona in una sorta di vestibolo vuoto. L’ambiente è debolmente illuminato da una luce gialla, ma durante la conversazione è rischiarato da lampi di luce azzurra che, accompagnati da uno sfrigolio, investono l’intera inquadratura, con una serie di shock istantanei ripetuti che abbagliano a tratti lo spettatore (i personaggi, al contrario, sembrano non avvedersene). Si tratta di un’intensità luminosa che sembra eccedere lo spazio diegetico rappresentato, staccarsi da esso per indirizzarsi direttamente contro l’occhio dello spettatore, turbandone la visione attraverso un coinvolgimento esclusivamente sensoriale, investendo l’inquadratura intera e, per così dire, destituendo momentaneamente il rappresentato. È per evidenziarne la sproporzione che la messa in scena ce ne mostra, poco dopo, la minuscola fonte: il vestibolo è inquadrato per la prima volta in campo lungo, e mentre gli agenti si dirigono all’interno del locale Jack si volta verso una lampadina malfunzionante, riportando finalmente i suoi lampeggiamenti nell’orizzonte diegetico. L’inquadratura ci mostra anche, accanto a lui, due personaggi rimasti silenziosi fino ad allora, un primo seduto a un piccolo tavolo e un secondo a terra. Questa sproporzione, lungi dall’essere un semplice espediente ludico, funziona come piccolo dissestamento che, a guardare bene, ci dà indizi utili alla comprensione degli eventi (o, per lo meno, alla formulazione di qualche ipotesi). Subito dopo, infatti, mentre i due agenti cominciano a interrogare la proprietaria del locale, è possibile vedere sullo sfondo dell’inquadratura, attraverso la porta che collega il vestibolo al locale, l’uomo seduto al tavolo preso nell’atto di svitare la lampadina (fig. 1). Il vestibolo rimane così al buio, e i due uomini ne escono per andare a sedersi a un tavolo del

locale; ma, ed è quello che conta, di Jack non c’è più traccia: è l’unico dei tre personaggi a non uscire, significativamente, dal vestibolo; e, se questa piccola trama secondaria ci consente di azzardare un’ipotesi, questa non può che andare in una direzione, quella di una discreta sparizione del personaggio. L’ottusità della luce azzurra intermittente, come si vede, è ricompresa dalla messa in scena a vari livelli: (1) è, inizialmente, una presenza la cui fonte è illocalizzabile, e che funziona per lo spettatore come puro shock audiovisivo; (2) si dà in seguito come effetto esagerato di una causa insufficiente a motivarlo: lo shock diviene percezione straniata, che mantiene sospeso il rapporto tra il valore luminoso e l’oggetto che lo produce; (3) se questa sproporzione è mantenuta come tale, però, la sua irruzione ha una funzione sul piano narrativo: quella di focalizzare l’attenzione dello spettatore su una trama secondaria, e che sembra qui fare eco agli eventi della trama principale. La sparizione dei personaggi, infatti, è un motivo ricorrente del film, come vedremo anche in seguito; in particolare, Fuoco cammina con me mette in scena sparizioni che seguono alla scoperta di qualcosa di troppo grande per i personaggi, raddoppiate a livello compositivo da irruzioni di elementi eterogenei che sembrano in grado di mettere in crisi la stabilità del mondo rappresentato. C’è una sequenza che, nella sua quasi totale irrilevanza ai fini del progredire dell’azione, sembra rivelarci qualcosa di essenziale: è l’episodio ambientato nell’aeroporto privato, dove Gordon Cole presenta a Desmond una bizzarra danzatrice vestita di rosso chiamata Lil (fig. 2). Con la sua collaborazione Gordon mette in scena una sorta di rebus che, tra frasi oscure e dettagli più o meno significativi, dovrà servire ai due agenti per orientarsi nel caso dell’omicidio Banks. Poco dopo, in automobile, Desmond spiega a Stanley il significato del messaggio in codice di Gordon, prendendo in esame ogni dettaglio della piccola performance: dall’espressione del viso allo strizzare gli occhi, dal pugno chiuso al movimento dei piedi, fino al filo di diverso colore con cui è rammendato l’abito della danzatrice. Ma i ragionamenti attraverso cui Desmond risolve il piccolo mistero sono in generale contorti, e riferiscono di notizie inessenziali: lo spettatore non ha bisogno di quelle informazioni, che non contribuiscono ad ampliare le competenze necessarie alla

comprensione degli eventi, né a renderle più consapevoli. Il senso della sequenza della danzatrice, evidentemente, va al di là del semplice evento che racconta: c’è un eccesso, un’ipertrofia legata anche al carattere decontestualizzato della presenza di Lil, creatura che sembra provenire da un mondo di cartoons. L’interesse dell’episodio andrà ricercato altrove, soprattutto nel suo carattere esemplare: nel suo essere, in particolare, la messa in scena di un processo interpretativo. Interpretare, per i due agenti, significa qui decodificare: a partire da un sapere esoterico Desmond rivela all’iniziato Stanley, uno per uno, i significati ultimi a cui rimandano univocamente i gesti di Lil. C’è però un dettaglio di cui l’agente non può rivelare il significato: quello della rosa blu appuntata sull’abito della danzatrice. Si tratta verosimilmente di un segreto professionale, ma la rosa blu funziona qui come simbolo impossibile da ricondurre a un sistema di significazione forte: la sua opacità finisce per coincidere col dischiudersi di un mistero, cioè con un’improvvisa apertura di senso o di sensi molteplici, e la pratica interpretativa cessa di essere mera decodifica deduttiva per mutarsi in qualcos’altro. Soffermiamoci sul metodo seguito poco oltre da Desmond allorché, dopo la partenza di Stanley, ritorna al Fat Trout Trailer Park. Il responsabile Carl Rodd lo accoglie indicandogli l’abitazione del vicesceriffo, che l’agente è tornato a perquisire continuando a seguire la pista degli avvertimenti forniti da Gordon tramite Lil. Tra i due avviene tutto un preventivo scambio di gesti tesi a ricostruire la geografia delle abitazioni: al gesto di Carl che indica davanti a sé la roulotte in questione, infatti, Desmond risponde indicando quella di Teresa, sulla sinistra dell’inquadratura. Nel momento in cui rimane solo, però, Desmond si sofferma di fronte a un palo dell’elettricità. Guarda verso l’alto per seguirne i fili sospesi e l’azione, per qualche istante, si sospende per divenire contemplazione, sottolineata da un’inquadratura più ravvicinata, in piano americano, che mostra Chet assorto, con lo sguardo rivolto verso l’alto (fig. 3). A questa immagine segue un dettaglio dei fili sospesi, cui si accompagna un misterioso effetto sonoro intermittente, leggermente distorto, che cessa nel momento in cui Chet torna a guardare il palo per poi voltarsi, come d’istinto, dietro di sé: verso un luogo che non coincide con quelli indicati all’inizio

dell’episodio come interessanti per le ricerche, un punto verso il quale l’agente si dirige subito dopo la percezione intensa del ronzio dell’elettricità. In questo modo Desmond giunge alla roulotte sotto la quale scoprirà il misterioso anello che lo porterà alla sparizione: Desmond, insomma, esce dalla pista rigidamente determinata degli indizi per porsi semplicemente in ascolto, e per poi muoversi a partire da un dettaglio che, apparentemente irrilevante e colto quasi per caso, conduce là dove risiede il mistero della rosa blu, oggettivato nell’anello di Teresa Banks che, nella sequenza dell’autopsia, risultava misteriosamente scomparso. All’organizzazione preventiva dello spazio da indagare, caratterizzata da una connessione orizzontale di riferimenti, Desmond sostituisce una dis-organizzazione delle ricerche, una digressione che segue l’incontro con un elemento inatteso e verticale. La rosa blu coincide con il limite estremo del ristretto paradigma ermeneutico dei due agenti dell’FBI all’inizio dell’episodio: è il simbolo cui non può corrispondere un significato univoco, perché al di là di esso la catena si interrompe, la superficie si lacera, e i significati univoci si dimostrano insufficienti. È un segno opaco, che ha a che fare con qualcosa che non può – non vuole – essere detto, e che rimanda alla funzione benjaminiana del simbolo come rappresentante dell’incomunicabile, cioè di quanto preme per essere detto pur non essendo giunto di fatto alla soglia del comunicabile14. A una logica deduttiva si sostituisce qui, da parte del detective, una logica intuitiva che, a partire da un dettaglio, si dispone al confronto con misteri più profondi e rischiosi, tali da mettere in discussione ogni sapere fatto di griglie troppo rigide. Non solo: vista la collocazione in apertura della sequenza di Lil, quasi subito dopo i titoli, siamo propensi a considerarla come una costruzione en abîme dell’esito ultimo della ricerca dell’agente Desmond; e, più in generale, a considerare l’intero percorso compiuto da Desmond come un’anticipazione, da un lato, della serie di sparizioni che avverranno più oltre, nel corso del film; ma anche, dall’altro, come un invito nei confronti dello spettatore ad agire nella stessa direzione, arrischiandosi nei territori dell’enigma per diventare «un interprete necessariamente impegnato»15. Questo invito è, a un primo livello, funzionale alla costruzione dello

spettatore modello che Fuoco cammina con me prevede: il film, infatti, tende a frustrare sistematicamente le aspettative di uno spettatore-fan alla ricerca di nuove chiavi per pronunciare la parola definitiva sui misteri rimasti irrisolti nella serie televisiva; gli elementi di continuità con Twin Peaks, in generale, garantiscono un certo livello di riconoscimento per situazioni, eventi e personaggi: un livello che la messa in scena del film può risparmiarsi di stabilire, dandolo per scontato. Ma, a un altro livello, l’invito implicito nell’enigma della rosa blu sembra riferirsi a qualcosa di più ampio, che va al di là della situazione contingente che ha accompagnato la realizzazione del film, e che ha a che vedere con l’attività interpretativa apertamente richiesta, ad altri livelli, da un film come Fuoco cammina con me. Nel simbolo della rosa blu, in questo senso, si oggettiva il richiamo a perdersi nei meandri del film, a ricominciare ogni volta le proprie indagini alla ricerca del senso, a mettere in discussione il proprio sapere attraverso una ricettività attenta e in risonanza con suoni e immagini. Il rischio maggiore, cui si espongono i personaggi ma di fronte al quale il film stesso espone lo spettatore, e naturalmente chi analizza il film, è allora quello di trovare quanto non si era cercato, o di scoprire qualcosa malgrado le apparenze e le false piste. L’analisi dovrà andare alla ricerca di una simile sintonia con il film, accentuando quella dimensione sperimentale e intuitiva che la riporta all’esperienza spettatoriale che «accompagna» lo scorrere della pellicola, e rilevando i luoghi in cui questa linearità sembra trasalire, attraverso scosse dovute ai tratti intensivi del film che si danno talvolta come punti oscuri del testo, e che possono coincidere con i punti di vibrazione di cui parla Bertetto: quei luoghi, cioè, che costituiscono delle cesure, delle sincopi, e che aprono la pratica analitica all’interpretazione intesa come pratica intuitiva16. L’interprete dovrà farsi innanzitutto spettatore, cioè «parte ricevente»17, prima di cominciare il gioco che lo porterà a manipolare i dettagli trovati connettendoli in una trama diversa, in una «sperimentazione dei sensi possibili»18 che costituisce la parte attiva del processo interpretativo. I lampi di luce intermittente, nella sequenza del vestibolo dello Hap’s vista sopra, costituiscono un dettaglio di questo genere: evidenti, troppo evidenti per non lasciare un segno, rischiano di

essere posti in secondo piano dal progredire della trama principale, quella delle ricerche degli agenti dell’FBI; eppure, non appena li si prende in considerazione, essi riconducono lo spettatore a una sottotrama che si amplifica e ramifica lungo il film intero, e che in altre zone emerge in maniera più o meno evidente, magari costituendo ulteriori regioni oscure che chiedono di essere analizzate. Prendiamo, ad esempio, il misterioso movimento di macchina che precede la comparsa della vecchia signora che appare sulla soglia della roulotte di Teresa, mentre gli agenti Desmond e Stanley, introdotti da Carl Rodd, bevono una tazza di caffè dopo una lunga nottata di indagini. L’apparizione della «vicina curiosa» è preceduta da un veloce movimento in avanti che, dall’esterno della roulotte, entra nel vestibolo e si dirige verso la porta d’ingresso, per terminare lì con una dissolvenza a nero. Accompagnato da un effetto sonoro che ritroveremo, ha l’aspetto di una soggettiva; ma non sarà possibile attribuirla alla vecchia, che si muove zoppicando lentamente. La donna si guarda intorno con sospetto ma, poiché non le viene rivolta la parola, si ritira impaurita. Questo breve episodio ha i caratteri del perturbante freudiano inteso come «qualità del sentire»19: si fa strada in un momento di familiare intimità – l’unico, tra l’altro, dell’intero film – quando cioè l’instabile roulotte sembra mutarsi per un istante in una casa vera e propria, attraverso la condivisione del caffè; sembra irrompere da un altro mondo (come una sorta di ritorno dei defunti), ma si tratta semplicemente della comparsa di una delle molte persone anziane di Deer Meadow; ed è in grado di turbare il senso di stabilità di Carl che, improvvisamente, si fa pensieroso e commosso. L’apparizione della vecchia è resa inquietante proprio dalla misteriosa soggettiva che la precede. Impossibile da attribuire a una qualunque istanza diegetica, essa non è che puro sguardo in movimento, oggettivazione di una forza proveniente da un altrove non precisato; ed è una delle forme attraverso cui il testo sembra mettere in evidenza i propri meccanismi. In particolare, si tratta dell’isolamento di un’esperienza – l’attraversamento di una soglia – che ritornerà nel seguito del film, ad esempio quando Laura Palmer attraverserà i corridoi della sua casa attratta da un rumore di cui non ci verrà svelata la causa (fig. 4).

Il film, in generale, è cosparso di luoghi che simulano la stabilità dell’ambiente domestico senza averne lo spessore. Il vestibolo è uno di questi: spazio interno ma non familiare, è il luogo in cui risiedono i fantasmi in Fuoco cammina con me; il luogo, cioè, di un’apertura dell’intimità a presenze che ne snaturano il carattere domestico. L’inquadratura in causa, soggettiva senza soggetto – cioè non riconducibile ad alcuna figura percipiente vicaria – mette in gioco l’esperienza dello spettatore conferendo un carattere perturbante al suo stesso atto di vedere, assumendo alcuni caratteri delle apparizioni che popolano il film nel suo complesso: essa infatti (1) è la manifestazione di una forza invisibile di cui tuttavia si percepisce intensamente la presenza; (2) mette in crisi il sapere dello spettatore, aprendolo all’irruzione di un affetto sperimentale (nel senso del termine utilizzato da Schefer)20; (3) si dà come alterità assoluta rispetto al mondo rappresentato, pur essendo ad esso ricollegata tramite lo stratagemma dell’elettricità attraverso cui si muovono i fantasmi. Sarà questo, come vedremo, il motivo fondamentale del percorso di Laura Palmer: la perdita dello spazio domestico e il conseguente tentativo di mantenerlo tale attraverso una finzione necessaria, che postula l’esistenza di fantasmi che provengono dall’esterno anziché dall’interno della casa. Il prologo del film, nel suo complesso, ci narra la storia di un’indagine che conduce a un vicolo cieco: non rivela chi ha ucciso Teresa Banks, né dov’è sparito l’agente Chester Desmond o se l’agente Phillip Jeffrey sia davvero mai apparso. La sua funzione non è dunque quella di costituire un antefatto, né di fornire allo spettatore informazioni utili per la comprensione degli eventi successivi. Si tratta piuttosto di una funzione premonitrice nella forma dell’allusione: è la messa in scena di eventi che anticipano, raddoppiandoli, i fatti di Twin Peaks, creando con essi una risonanza continua che li arricchisce di senso. Teresa assume così la funzione del doppio inquietante di Laura la quale, nel momento in cui appare per la prima volta, è in qualche modo già morta. È possibile descrivere il suo percorso nel film come punteggiato da una serie di addii, di estremi saluti consegnati ai personaggi che le sono vicini, nel tentativo di proteggerli dalla parte mostruosa di sé. Parallelo a questo percorso, tuttavia, corre quello che la avvicina progressivamente alla scoperta dell’identità di Bob, il fantasmaamante che la perseguita minacciando di ucciderla. Quello di Laura,

allora, è il tentativo di ricostruzione del senso di una realtà che le sfugge continuamente, e che si sfalda del tutto con l’affiorare di un elemento impossibile da ricondurre ad essa: l’amore incestuoso di Leland, il vero e proprio indicibile che preme continuamente, nel corso del film – prologo incluso – per essere detto. La morte è l’esito ultimo per questa cancellazione progressiva delle varie maschere attraverso le quali Laura cerca di rivolgersi agli altri, nel tentativo di costruirsi un mondo fatto di appartenenze stabili e di scambi intersoggettivi reali: in Fuoco cammina con me ci viene mostrata la frantumazione dell’identità di una giovane che sembra condannata ad apparire come ognuno vorrebbe che lei fosse; non è un caso il fatto che Laura venga spesso mostrata nel tentativo di sintonizzarsi sulle frequenze dei personaggi che la circondano cercando di soddisfarne le aspettative e finendo per crearsi un’identità multipla, una femminilità che attraversa tutta la gamma compresa tra la fotografia sorridente della reginetta al concorso di bellezza (fig. 5) e la ninfomane conturbante che si offre ai clienti del Roadhouse. Si tratta, ripetiamo, di una ricerca destinata a dissolvere il suo oggetto, dissolvendo, in prima istanza, il fragile mondo che la ragazza tenta disperatamente di tenere unito. Questo accade subito dopo la scoperta dell’identità di Bob e Leland da parte di Laura: Laura esce di casa, come tutte le mattine, ma il mondo che la circonda non è evidentemente più lo stesso. Si altera la sua percezione dello spazio: guarda verso il cielo, e un movimento stordito della mdp si accompagna all’emersione in dissolvenza incrociata dell’effetto neve; le sue soggettive tradiscono, in generale, il suo disorientamento rispetto all’ambiente che la circonda, e che lei sembra non riconoscere più. Si altera la percezione del tempo: a scuola il movimento delle lancette dell’orologio si accelera e il quadrante si sdoppia; le soggettive di Laura sono sfocate, e i movimenti dei compagni di classe sono rallentati quanto più il tempo scandito dall’orologio si accelera. L’aula rimane vuota: neanche James e Donna si accorgono di quanto le sta accadendo; Laura si attarda seduta al suo banco, incapace di alzarsi e in pieno stato confusionale. Con una dissolvenza incrociata, infine, ci viene mostrato il suo banco vuoto. Quest’ultimo passaggio, proprio per la sua apparente gratuità, sembra costituire un altro luogo problematico del testo. La

dissolvenza incrociata come figura codificata di raccordo significherebbe, qui, il passaggio di un certo intervallo di tempo: come a dire «Laura non riesce ad alzarsi dalla sedia mentre tutti i compagni abbandonano l’aula; ma poi in qualche modo ci riesce, e l’aula rimane deserta». Ma la dissolvenza incrociata sul banco vuoto, considerata soprattutto in quanto soluzione figurativa, sembra rinviare a una scelta diversa: essa rimanda a un’altra sedia rimasta vuota, quella di Phillip Jeffrey nel prologo, che indicava la sparizione improvvisa dell’agente (preceduta tra l’altro da un’inquadratura mossa di fili dell’elettricità stagliati contro il cielo, simili a quelli visti da Laura, ma in quel momento del tutto immotivata). La pregnanza della soluzione figurativa è più forte della pertinenza narrativa: la dissolvenza che stiamo considerando ci dice in qualche modo che anche Laura è sparita. È un esempio del modo in cui un evento misterioso, che nel prologo rimaneva irrisolto, può arricchire di senso un altro evento, in sé immediatamente motivabile, appartenente alla seconda parte del film. Ma come interpretare questa sparizione? L’agente Jeffrey, come gli sentiamo dire in voce off mentre scorrono le immagini del suo racconto, è stato fatto sparire perché ha scoperto qualcosa di importante, visitando un luogo in cui i simulacri sono presentati come tali, prima cioè della loro incarnazione, del loro matrimonio col mondo (fig. 6). Ebbene, la scoperta di Laura è dello stesso segno: la storia dell’amante misterioso è una finzione necessaria, Bob è un fantasma, e la carne è quella di Leland. Lei stessa, d’altronde, è consapevole dei risvolti traumatici di questa scoperta, come dice chiaramente a James, la sera stessa: «your Laura disappeared». La sparizione di Laura, in ogni caso, si dà come tale soltanto a chi voglia considerare la dissolvenza che la introduce in quanto soglia tra due inquadrature che corrispondono a dimensioni diverse (si noti l’effetto sonoro intermittente, già incontrato in altri luoghi del film, che accentua l’immagine della sedia vuota): la dissolvenza incrociata è qui, cioè, l’interstizio impercettibile che corrisponde ai vari luoghi di transito che cospargono il film a vari livelli. La figura della soglia trova così, nel percorso di Laura, la sua articolazione definitiva: è il passaggio dall’esterno all’interno sul quale si dovrebbe indugiare, la membrana immateriale ma opaca sulla quale

possono apparire fantasmi e forze inaudite, lo specchio oscurato che consente visioni intollerabili. È ad esempio, nel film, l’effetto neve che riappare continuamente a tutto schermo in dissolvenza incrociata, e che segnala l’emersione più o meno mediata di figure immaginarie, di simboli opachi, ma anche l’affiorare di un passato difficile da sostenere o, appunto, lo sgretolarsi di un mondo21. Si tratta in ogni caso della rovina di una rappresentazione che porta con sé il soggetto che la istituisce: Laura, nel corso del film, perde il carattere di fulcro ideale del proprio mondo, e diviene oggetto guardato, oppure medium attraverso cui si materializzano visioni. La sequenza del sogno è, da questo punto di vista, esemplare: si pensi ai campo-controcampo tra Laura e il quadro appeso alla parete dove quest’ultimo, oggetto guardato, finisce per assumere il ruolo di un quasi-soggetto che getta il suo sguardo su Laura, che nel frattempo si è addormentata, per assorbirla al proprio interno (fig. 7); solo lì, all’interno del sogno, Laura tornerà ad essere titolare dello sguardo per poi sdoppiarsi, come abbiamo visto, in soggetto e oggetto della visione. È qualcosa di molto vicino alla scoperta di Jeffrey, nel prologo del film («We live inside a dream»): la solidità del mondo si fonda sulla soppressione di un sentire perturbante, e sulla costruzione di un soggetto forte che dà forma al mondo stesso; ma, nel momento in cui l’apparizione di un simulacro si fa strada, come avviene appunto nel sogno (oppure nell’allucinazione), ogni effetto di rappresentazione precipita nel mondo del dubbio, e lo sguardo viene colpito e quasi accecato dal suo carattere di presenza; come scrive Louis Marin, «è piuttosto il simulacro a tendere la sua apparizione fantomatica verso il nostro sguardo, verso il nostro corpo», allucinando così «il soggetto produttore e autoproduttore» nella rappresentazione22. L’allargamento degli orizzonti del visibile messo in scena da Lynch è dunque del tutto omologo all’esperienza della protagonista, alle cui vicende lo stile del film partecipa in maniera per così dire empatica: Lynch esplora e interroga le possibilità della rappresentazione cinematografica, allo stesso modo in cui Laura Palmer mette continuamente alla prova la stabilità del proprio mondo. Ecco allora che Laura, in molti luoghi del film (caratterizzati tra l’altro da un uso radicale degli strumenti della messa in scena23), sembra trasformarsi in una visionaria: posseduta da un’entità che

proviene da un altrove illocalizzabile, la sua identità sembra assottigliarsi e il suo corpo smaterializzarsi. È un’esperienza che ricorda a tratti quella dei mistici: si veda, ad esempio, il primo degli inserti del film in cui Laura è immobile e come in preda a un’estasi, con gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta, mentre una luce azzurra diffusa dall’alto la inonda; e si pensi alle parole di Bob, «I want to taste through your mouth», che sembrano voler fare di Laura un’intermediaria, un filtro, proprio come accade ai personaggi raffigurati nei quadri barocchi di visioni24 (fig. 8). Se lì, attraverso l’organizzazione pittorica di questa esperienza di comunicazione immaginaria con il divino, la pittura era in grado di manifestare la trascendenza allo spettatore, qui, attraverso l’estasi di Laura, la messa in scena tenta di rappresentare l’irruzione di un invisibile nella realtà. Ma questa versione della trascendenza, nell’universo «senza più angeli» di Laura Palmer, non rimanda ad alcunché di divino. Se il suo modello compositivo è riconducibile ad alcuni canoni della rappresentazione di estasi mistiche, il senso di queste visioni rimanda a un immateriale che può essere descritto, secondo una prospettiva diversa, come una perdita di realtà, qui attivata dalla progressiva scoperta della natura mostruosa dei comportamenti della figura paterna. È il senso che Slavoj Zizek – in un paragrafo di The Ticklish Subject intitolato «Kant con David Lynch» – attribuisce al concetto lacaniano di traversée du fantasme: «nell’“attraversare” il fantasma non impariamo a fare a meno delle nostre produzioni fantasmagoriche ma, al contrario, ci identifichiamo con il lavoro della nostra “immaginazione” in modo ancor più radicale, in tutta la sua assurdità precedente alla trasformazione dell’immaginazione stessa in una cornice fantasmatica che garantisce il nostro accesso alla realtà», scrive, aggiungendo subito che «a questo “livello zero”, impossibile da sostenere, troviamo soltanto il puro vuoto della soggettività, messo di fronte a una moltitudine di “oggetti parziali” spettrali»25. Si tratta di quel Mostruoso che Zizek riporta a una dimensione preontologica dell’immaginazione, quella della «notte del mondo» attraverso cui vediamo soltanto organi senza corpo; e che, a un altro livello, rimanda alla nozione freudiana-lacaniana del vicino, cioè a quell’altro che, prima dello stabilirsi di un rapporto di comunicazione intersoggettiva, si dà come «corpo estraneo ex-timo

assolutamente vicino a noi», e che attraverso l’instaurazione della Legge paterna dovrebbe progressivamente «ingentilirsi»26. Ora, è proprio questa dimensione originaria che, come conseguenza dell’incesto, preme per emergere pienamente, frantumando il fantasma simbolizzato (fantasy) che consente di mantenere saldo il senso della realtà. Si pensi, di nuovo, alla sequenza del sogno: la funzione del «vicino» mostruoso è lì incarnata dall’apparizione, dentro il letto di Laura, del cadavere parlante di Annie, la cui alterità inquietante è data in particolare dal suo utilizzo della terza persona per indicare Laura, che pure è sdraiata proprio accanto a lei. D’altra parte, poco prima, anche il nano vestito di rosso si era presentato come un vero e proprio organo disperso: «Do you know who I am? I am the arm». Il nano, che incarna il mostruoso nella sua versione deforme (laddove Bob, che continuamente lo segue, ne sarebbe la versione animalesca), prosegue emettendo un suono acuto intermittente, simile a quello dei segnali di guerra di certe tribù di indiani d’America. Si tratta di quell’effetto sonoro che, magari leggermente distorto o amplificato e con riverbero, sentiamo più volte nel corso del film: è il suono che segue l’apparizione della vicina curiosa nella roulotte di Teresa Banks, che conduce Desmond alla scoperta dell’anello, poco prima della sua sparizione, e che segnala come abbiamo visto anche la sparizione di Laura. Il suono torna in altri luoghi del film: nel corso dello stesso sogno di Laura, innanzitutto; poi durante l’apparizione dell’utilitaria di Gerard, l’uomo con un braccio solo; infine, associato all’immagine dell’effetto neve del televisore, durante il flashback in cui Leland rievoca il giorno in cui uccise Teresa Banks. Un’espansione del senso di questo effetto sonoro, inoltre, può essere data dall’utilizzo dello stesso termine inglese (to hoot) per indicare anche altri suoni: quello del richiamo della civetta (il che rimanderebbe alla formula oscura, presente per la verità soltanto nella serie televisiva, The owls are not what they seem) ma soprattutto quello del clacson, le cui molte emergenze nel film si fanno, in questo senso, rilevanti. Si pensi, ad esempio, alla prima sequenza dopo i titoli, quella in cui Gordon Cole convoca l’agente Desmond presso l’aeroporto privato, luogo in cui gli mostrerà l’enigma della rosa azzurra. La chiamata di Cole, introdotta per l’appunto dal suono del clacson, funziona come

una premonizione dell’ineluttabilità del viaggio nei territori oscuri che l’agente sarà chiamato ad attraversare: si noti anche la dismisura del suono amplificato, raddoppiato dalle urla di Cole che, nell’apparecchio ricevente, sono tradotte in un rumore metallico incomprensibile e assordante (tanto che Desmond deve ritirare l’orecchio dalla cornetta, e abbassare del tutto l’antenna dell’automobile, per poterlo sostenere). L’orizzonte del suono all’interno della composizione filmica diviene così di fondamentale importanza: che si tratti di suoni semplici o rielaborati, appena udibili o potenziati, essi premono sull’immagine come da un altrove caricandola di senso, insistendo su di essa27, e lacerandone la superficie. Il suono è la dimensione della composizione filmica che contribuisce a intensificare l’immagine, accentuandone gli effetti di presenza, e conferendo al suo essere senso sensibile una modalità ostensiva non rappresentativa28. Nella dialettica suono-immagine, dunque, si raddoppia il lavoro – tutto portato sul versante del visivo – di quegli eccessi di presenza che spingono la rappresentazione al suo limite. Il suono è talvolta in grado di conferire all’immagine un senso di pienezza, ad esempio costruendo un ambiente che non vediamo; può creare una continuità forte tra due immagini slegate tra loro, e addirittura sostituire l’immagine, come accade quando non si vuole mostrare qualcosa di osceno o di troppo violento. Il suono può insomma, a volte, creare un potente effetto di realtà: la fine del sogno di Laura, ad esempio, non viene percepita come tale a partire da particolari qualità dell’immagine, quanto piuttosto dal cinguettio di uccelli che ci indicano che è mattina e che siamo tornati nel mondo della veglia. Si tratta, per così dire, di una funzione di mediazione simbolica del suono, cioè del suo essere cornice fantasmatica nel senso lacaniano, che conferisce all’immagine la pienezza di un mondo abitabile. Ma il suono in Lynch, come abbiamo visto, può anche capovolgere questa funzione, e assumere una funzione derealizzante, che scioglie ogni legame causale tra due oggetti nell’inquadratura, o tra due immagini: si pensi ad esempio, ancora all’interno del sogno, alla potenza sonora che sembra scatenare l’anello; o ancora, al rumore di carta strappata nel momento in cui Laura scopre due pagine mancanti nel suo diario. Ma è, più in generale, l’effetto di tutti quei suoni ricorrenti che agitano l’immagine, e che segnalano – in essa o

nel passaggio attraverso essa – l’abolizione di qualsiasi struttura fantasmatica a vantaggio di una funzione perturbante e non localizzabile (in senso assoluto) del suono stesso. È quanto Zizek descrive in termini di distanza radicale tra Reale spettrale e realtà «mediata simbolicamente, cioè costituita ontologicamente», rifacendosi ancora una volta ai termini di Lacan: «ciò che la psicanalisi chiama “fantasma” rappresenta il tentativo di colmare questa distanza (fra)intendendo il Reale preontologico semplicemente come un altro livello della realtà, “più essenziale”»; e il cinema di Lynch resiste a questa tentazione, proprio attraverso un utilizzo estremo delle strategie della messa in scena. Attraverso l’attivazione di dialettiche operanti a vari livelli Lynch, infatti, mette in scena «l’insufficienza della realtà»29, cioè gli esperimenti ripetuti di uno o più soggetti nel tentativo di costruire mondi caratterizzati da un senso della realtà dilatato, che mal dissimulano le presenze intollerabili del Reale30. Fuoco cammina con me è il punto della filmografia lynchiana in cui la ricerca sui mondi paralleli comincia ad assumere una rilevanza tale da stravolgere le strutture narrative e complicare le strategie figurative. A partire da qui il carattere perturbante di alcune apparizioni sembra farsi indipendente dall’attività più o meno cosciente dei personaggi, a vantaggio di una messa in scena che interroga continuamente le forme della rappresentazione cinematografica. Di questa logica abbiamo cercato in parte di dare conto, in queste pagine, a partire da alcuni dettagli che, come sarà facile constatare, sostanziano alcune delle dinamiche in gioco anche a livelli più immediatamente riconoscibili: perché, ad ogni modo, è nel dettaglio che l’esperienza cinematografica prende corpo, ed è lì che – attraverso l’intimità che il dettaglio pretende – un film può assumere la consistenza di un mondo.

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Strade perdute di Andrea Minuz SENTIERI INTERROTTI E STRADE PERDUTE

Lost Highway (Strade perdute, 1997) si colloca indubbiamente, nel solco dei più recenti Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), tra gli esiti più radicali della sperimentazione condotta da David Lynch sulla narrazione cinematografica1, ed è soprattutto per questo aspetto, ossia per la riorganizzazione in modi inediti della struttura del racconto, che il film ha sin da subito attirato l’attenzione di numerosi critici e studiosi2. Assumendo dunque la questione del racconto come il luogo più «esposto» al rilancio dei processi di significazione iscritti nel film, anche la nostra analisi si muoverà nel tentativo di cogliere i presupposti e i modi dell’allargamento dell’orizzonte narrativo (nel solco degli studi più decisivi già proposti in questa direzione, cercando, se possibile, di cogliere ed evidenziare aspetti ulteriori). D’altronde, com’è noto, è sin dalla cosiddetta «ricostruzione degli eventi narrati» che i film di David Lynch attirano su di loro numerose perplessità, tanto che nel corso della presentazione al Festival di Venezia di Inland Empire era stato ironicamente proposto di istituire un apposito «premio» al critico in grado di riportare nel modo più efficace e sintetico la trama del film. Dall’altro lato, sappiamo che è proprio attorno a questa operazione «aperta» che i suoi estimatori costruiscono gran parte del proprio godimento. Declinato in termini narratologici questo assunto ci ricorda dunque che vi sono dei casi in cui l’intensità della cooperazione richiesta (cioè l’operazione che un testo attiva nel lettore/spettatore per potersi sviluppare e in qualche modo “chiudere”) può diventare un elemento di valutazione estetica dell’opera3. Ma allora fino a quanto, per così dire, un testo narrativo può far leva su questo solo elemento? Innanzitutto, si dirà che nel misurarsi con una struttura quale quella di Strade perdute, diventa preferibile indagare il carattere e le forme di tale intensità, anziché tentare per così dire di risolverla in una qualche coerenza. Non si tratta né di accettare la confusione degli eventi nel modo in cui investono l’esperienza spettatoriale a una prima visione, né di ricostruirli ossessivamente secondo un procedimento e una logica,

per così dire, da enigmista. Potremmo dire che l’intentio operis (l’intenzione del testo considerata come ciò da cui scaturisce il senso)4 si disperde qui in una serie di «possibili», se non di registri tra loro contradditori, che possono essere attualizzati in una intensità, anziché in una o più «intenzioni» del testo. Del carattere di tale intensità cercheremo di dar conto nei paragrafi successivi. Prima di tentare un’interpretazione complessiva del film, ci occuperemo soprattutto del primo blocco narrativo, all’interno del quale selezioneremo dei frammenti che ci sembrano decisivi per rivelare alcune possibilità dei modi di significazione. In particolare, isolando il processo di sostituzione dei punti di vista che si dipana attraverso il ritorno ossessivo di alcune inquadrature, individueremo nelle modalità di costruzione e figurazione dello sguardo una delle chiavi di accesso per definire l’anomala progressione del testo (innescata dal microcircuito che lega e sdoppia il punto di vista tra immagini filmiche e video). Una breve parentesi sarà dedicata ai rapporti tra campo e fuoricampo attivati dal film, che appare come una delle opzioni di scrittura decisive per riorganizzare lo spazio – incrinandone la topologia – dell’azione. Come si vedrà si è scelto preferibilmente di lavorare sul frammento, anziché su intere sequenze del film5, anche perché la loro individuazione sintattica appare non tanto problematica, quanto piuttosto apertamente fuorviante per il lavoro di analisi. Torneremo infine sulla costruzione complessiva dell’intrigo, cercando di riordinare gli elementi emersi in una possibilità interpretativa dell’orizzonte di senso attivato dal film che, possiamo anticiparlo, leggeremo nel solco di una radicale interrogazione dell’istanza narrativa e della struttura di identificazione implicate nel cinema. Come nel celebre «bosco» degli Holzwege heideggeriani6, tutti i sentieri percorribili non conducono verso l’uscita, ma semmai al tentativo di comprensione del bosco stesso. PRIMA ESPOSIZIONE DELLA STRUTTURA NARRATIVA. DUE INTERROGATIVI PRELIMINARI

Innanzitutto dividiamo il film in due grandi blocchi narrativi, la vicenda di Fred e Renee e quella di Pete e Alice. Nonostante le vistose analogie e gli intrecci tra le due (a cominciare dal fatto che i ruoli di Renee e Alice sono interpretati dalla stessa attrice – Patricia

Arquette – in un caso bruna e nell’altro biondo platino) si tratta di due blocchi narrativi autonomi. A questi va poi aggiunto una sorta di epilogo che torna nuovamente sulla vicenda di Fred, non tanto per riprenderla al punto in cui la avevamo lasciata, quanto per ricondurla inspiegabilmente al proprio inizio (lasciando così «aperte» entrambe le vicende, visto che anche quella di Pete viene per così dire abbandonata). Torniamo, ovvero, a quel messaggio che innesca il racconto – «Dick Laurent è morto» – recapitato per citofono a Fred in avvio del film, e che ora è egli stesso a portare – sempre al citofono della sua abitazione – prima di darsi alla fuga in macchina inseguito dalla polizia. Questa struttura narrativa è infine «incorniciata» dalla stessa immagine su cui scorrono sia titoli di testa che di coda. Un’autostrada di notte, a due corsie, con la striscia tratteggiata che appare e scompare a intermittenza appena al di sotto del nostro punto di vista. Tuttavia si tratta di un’immagine che ricorrerà, assumendo una motivazione diegetica, anche all’interno del racconto. È un punto sul quale dovremo tornare. Com’è noto la seconda vicenda prende avvio inspiegabilmente attraverso la misteriosa trasformazione – che il film invita a prendere alla lettera – di Fred in Pete. Dunque risulta evidente, anche dopo questa sommaria ricapitolazione del film che dobbiamo, anziché dipanare, accettare la sua struttura circolare e le domande senza risposta che essa, per così dire, riavvolge su se stessa e rilancia all’infinito. Non si tratta di trovare una spiegazione in grado di sistemare gli eventi in modo coerente, quanto di proporre una interpretazione che innanzitutto tenga conto dei due più vistosi interrogativi che si impongono sin dalla prima visione: come è possibile che Fred sia colui che riceve il messaggio e colui che lo reca? Come è possibile che Fred, una volta in cella, si trasformi in Pete? Naturalmente si tratta di domande che non ci porremmo mai in un testo che ammette l’orizzonte del fantastico come regola narrativa. Ma qui – ed è il bilico in cui Lynch ama condurre lo spettatore – non siamo alle prese né con una «fiaba», né con un horror7. Siamo portati ad accettare gli eventi narrativi e le loro incongruenze, ma non a spiegarli. Avviene insomma esattamente il contrario del genere fantasy, ad esempio, dove attraverso le regole previste da quello specifico mondo diegetico possiamo spiegare ogni evento – in base ad esempio ai «poteri» di un dato personaggio – anche se non lo «accettiamo». Ora, se queste domande non hanno una spiegazione interna al

racconto di Strade perdute (non sono cioè occultate da una narrazione intricata, ma sono palesemente lasciate irrisolte) significa che, lungi dal reclamare una spiegazione narrativa, si aprono al lavoro dell’interpretazione. E una interpretazione non è un risposta a una domanda complicata, ma il suo rilancio all’interno di un altro orizzonte di senso. È un attività intellettiva e inventiva, il cui carattere determinato si inscrive, ad esempio, nel metodo della intuizione così come elaborato dalla filosofia di Bergson (ripreso com’è noto da Gilles Deleuze): «La verità è che si tratta, in filosofia e anche altrove, di trovare il problema e poi di porlo, più ancora che di risolverlo […] Porre il problema non è semplicemente scoprire, è inventare»8. Strade perdute rientra così in quei testi che inscrivono l’attività interpretativa al loro interno, come un valore specifico su cui fanno leva. Per rifarci all’analisi di Mulholland Drive compiuta da Bertetto, si dirà anche qui che si tratta di un testo la cui configurazione «richiede apertamente l’interpretazione come lacuna che va colmata, come apertura infinita al senso che lo spettatore interprete non può rifiutarsi di fornire»9. IL PRIMO BLOCCO NARRATIVO

Come è possibile che Fred sia colui che riceve il messaggio e colui che lo reca? Innanzitutto potremmo dire che siamo alle prese con una drammaturgia che lavora sul ritardo e sul differimento di questa rivelazione, nel solco insomma dell’interpretazione freudiana dell’Edipo re e del conflitto tra «volontà di sapere» e «volontà di non sapere» che contraddistingue il personaggio della tragedia di Sofocle10. Tuttavia il tòpos dell’identità tra investigatore e colpevole, per così dire, viene qui interrogato (più che costruito) in modo radicale. Come cercheremo di vedere, questo differimento radicale che avvolge prologo ed epilogo viene ribadito anche dall’interno del testo nel microcircuito che rinvia e avvolge, tramite un intricato gioco di specchi, due regimi figurativi dell’immagine (il film, e i video recapitati alla coppia). Riportiamo innanzitutto in dettaglio l’avvicendarsi del primo blocco narrativo. Questo (della durata di 50 minuti rispetto alle complessive 2 ore e 05 minuti) può essere a sua volta suddiviso in otto segmenti:

a. Fred è in casa. Qualcuno suona al citofono e annuncia: «Dick Laurent è morto». Va alla finestra per cercare di scorgere l’uomo che gli ha appena parlato, ma la strada è deserta. b. Fred (che è un sassofonista di free jazz) vive con la moglie Renee. Si reca in un locale per un concerto. c. Al mattino, la coppia riceve una busta anonima che contiene una videocassetta. Le riprese mostrano la facciata del loro appartamento, ma i due sembrano non darvi troppo peso. d. Fred e Renee sono a letto. Dopo aver fatto l’amore, Fred racconta di uno strano sogno a sua moglie. e. Giunge una seconda videocassetta. Questa volta le riprese mostrano l’interno dell’abitazione e la camera da letto con la coppia colta nel sonno. I due, spaventati, chiamano la polizia. Due agenti si recano sul posto per perlustrare la casa, senza trovare nulla di significativo. f. Fred e Renee sono a una festa. Fred incontra uno strano uomo («Mistery Man», secondo le indicazioni di sceneggiatura) che gli dice di conoscerlo, e avvicina poi Andy, un amico della coppia. A proposito dell’uomo appena incontrato, Andy dice a Fred che si tratta di un amico di Dick Laurent. Fred turbato, trascina via dalla festa Renee. g. Giunti a casa, nel corso della notte, Fred e Renee si preparano per andare a dormire, non prima che Fred colto da sospetti abbia perlustrato l’appartamento. Poi vediamo Fred inserire una nuova videocassetta. Questa volta le riprese lo mostrano insanguinato accanto al corpo smembrato di Renee. h. Improvvisamente, dopo la vista di queste immagini, scopriamo Fred in carcere. Viene condannato a morte per l’omicidio della moglie. Ma del tutto inspiegabilmente la sua cella è ora occupata da un ragazzo di nome Pete che, nello stupore generale della polizia, viene rilasciato. Il ragazzo sembra infatti totalmente estraneo (e inconsapevole) di quanto accaduto. Da qui in poi ha dunque inizio la seconda parte del film. I genitori di Pete vengono a prendere il ragazzo in carcere, ma nessuno sembra in grado di ricostruire gli eventi. Scopriamo, nel corso della vicenda di Pete, che lavora come meccanico presso un’officina, una serie di cose legate al boss e pornografo Dick Laurent/Mr Eddy e alla sua fidanzata Alice, con cui Pete intreccia una pericolosa storia d’amore. Alice rivela in fondo ciò che Renee aveva tenuto nascosto a Fred, raccontando la storia che la lega al losco giro di Andy e Mr

Eddy. Ritroviamo il «Mistery Man» che aveva avvicinato Fred alla festa, ma per il resto si tratta di una vicenda da cui Fred appare totalmente escluso, almeno fino alla sua nuova apparizione nel finale. Pete e Alice, si danno alla fuga dopo aver compiuto un colpo a casa di Andy (uccidendolo accidentalmente). Giunti nel deserto i due fanno l’amore, ma ora è dunque Fred a rialzarsi al posto di Pete, mentre Renee scompare. Arrivato poi al Lost Highway Motel Fred scopre Mr Eddy a letto con sua moglie Alice e lo uccide infine con la complicità del Mistery Man (che ora ipotizziamo come l’autore dei video). Tornato a casa suona al citofono e ripete il messaggio iniziale («Dick Laurent è morto»). Poi scappa inseguito dalla polizia. In ogni caso, prima di tentare una interpretazione, è al lavoro del frammento filmico e ai modi della figurazione che dobbiamo rivolgerci. E indubbiamente, come già anticipato, è addentrandoci nel gioco di rinvii e nel circuito di sovrapposizioni costruito da alcuni segmenti del racconto e dal loro riflettersi nelle immagini video, che possiamo formulare le prime ipotesi di lavoro. FIGURE DELLO SGUARDO (1)

Vediamo di capire in che tipo di struttura vengono coinvolti questi frammenti occupandoci innanzitutto del rapporto tra il prologo e le riprese mostrate nella prima videocassetta, evidenziando sin da subito due analogie: Entrambe le immagini si focalizzano sull’esterno dell’edifico (nel caso del prologo attraverso le soggettive di Fred; nel caso del video attraverso un establishing shot). Il movimento “agganciato” allo sguardo di Fred nella chiusura del prologo presenta lo stesso andamento (da destra verso sinistra) del movimento della videocamera posta di fronte all’edificio. Vediamo nel dettaglio le ultime sei inquadrature del prologo: 1. Soggettiva di Fred (macchina fissa) dalla finestra posta sopra l’ingresso. 2. Fred (PA) ripreso di spalle mentre percorre il corridoio verso l’altra finestra più esterna all’ingresso.

3. Soggettiva di Fred: movimento di macchina che inquadra dall’alto la strada antistante all’edificio. Il movimento si compie da destra (ingresso) verso sinistra (la strada antistante la casa). 4. PP di Fred vicino alla finestra. 5. Fred (PA) inquadrato dall’esterno, in piedi alla finestra. 6. Establishing shot dell’edificio. Le immagini del video si aprono lì dove terminano quelle del prologo (establishing shot dell’edificio, fig. 1) e ripropongono il movimento dello sguardo di Fred (da destra verso sinistra), fino a stringere sull’ingresso come nella prima soggettiva. Da un punto di vista narrativo potremmo dire che il prologo preannuncia così lo spazio scenico del primo video. Mentre per ciò che concerne la costruzione dello sguardo si genera un enigmatico rapporto di reversibilità, uno sdoppiamento della stessa scena in due sguardi che vi aderiscono con un percorso visivo del tutto simile. Possiamo aggiungere che dal punto di vista figurativo entrambe le scene prendono avvio da uno «sguardo cieco», per così dire. Al buio della prima inquadratura su cui si apre il film (da cui emerge lentamente il PP di Fred che fuma una sigaretta) fa da contrappunto l’immagine sgranata, non sintonizzata, con cui inizia il video. Questo gioco di rinvii (cognitivi e figurativi) che intreccia il prologo e il primo video, si ribadisce tra il segmento del sogno raccontato da Fred e il secondo video. Tuttavia si aggiunge qui un significativo enigmatico elemento. Vediamo. Il racconto del sogno (in voce fuoricampo di Fred) si compone di otto inquadrature. Quattro primi piani di Fred che cammina nella casa buia e altre quattro inquadrature riconducibili a un effetto-soggettiva, in modo marcato, nei due travelling che chiudono il sogno: il primo, lungo il corridoio, e il secondo – dopo un inserto del PP di Fred – lungo la tenda rossa e la stanza da letto con Renee distesa sotto le lenzuola. Qui la mdp stringe all’improvviso bruscamente sul volto di lei che grida, guardando in macchina, colta dallo spavento. Ecco il racconto che accompagna le immagini: «Ho fatto un sogno, la notte scorsa. Tu eri in casa e mi chiamavi per nome. Non riuscivo a trovarti … a un certo punto eri sdraiata nel letto. Non eri tu sembravi tu … ma non eri tu…». Come abbiamo visto, nel segmento successivo viene recapitata una seconda videocassetta alla coppia. Le immagini ripropongono sempre l’esterno dell’appartamento, ma questa volta proseguono

sino all’interno dell’abitazione. Ritroviamo ora i due travelling del sogno (il corridoio, e il dettaglio della tenda rossa all’ingresso della camera da letto) e anche il video termina in camera da letto. Ma le immagini ci mostrano ora entrambi, Fred e Renee, sotto le lenzuola. Ciò esclude a prima vista che Fred possa essere l’autore delle riprese, e tuttavia allo stesso tempo vi allude riproponendo (come nel caso del prologo e del primo video) una medesima dinamica dello sguardo. Per addentrarci in questo ulteriore enigma dovremmo occuparci dell’ultimo segmento del blocco narrativo di Fred, in cui ci viene mostrata la terza videocassetta. FIGURE DELLO SGUARDO (2)

Se quindi assumiamo il prologo e il sogno di Fred come un preannuncio di quanto vedremo nei primi due video, notiamo come questa sorta di circuito di differimento venga meno con la visione della terza (e ultima) videocassetta collocata all’interno dello stesso segmento. È qui che le stesse immagini, sia in video che in pellicola, si trovano sovrapposte. Ecco dunque cosa accade. Dopo avere trascinato via dalla festa Renee, i due giungono nel loro appartamento. Qui Fred decide di far attendere Renee in macchina ed entra in casa per perlustrare l’appartamento. Nonostante egli non trovi nessuno l’atmosfera è decisamente ambigua e inquietante. Occupiamoci di un insieme di otto inquadrature: 1. Piano ravvicinato di Fred che entra nell’appartamento, senza accendere la luce. 2. Dall’oscurità pressoché totale vediamo avanzare Fred (MF) nella direzione opposta a quella ingresso. 3. Inserto del telefono. 4. Raccordo di sguardo. Fred (sempre in MF) si volta e prosegue. 5. Immagini quasi completamente al buio per qualche istante. Un travelling verso sinistra. 6. Continuando il movimento iniziato nell’inquadratura precedente la mdp ora torna su volto di Fred (sempre in MF). 7. Inserto del telefono che comincia a squillare. La mdp dall’alto come in soggettiva di Fred compie un rapido movimento verso destra.

8. Travelling che prosegue, ma ora verso sinistra. La mdp si avvicina radente verso la tenda rossa. Poi dopo qualche istante di buio in cui non definiamo le immagini, ritrova Fred (MF) e stringe in PP. Il telefono cessa di squillare. Sguardo in macchina di Fred e crescendo dei rumori di sottofondo. Mdp fissa, mentre Fred si volta. Nell’inquadratura successiva (establishing shot dell’esterno di fronte alla casa) Renee chiede a Fred appena uscito dall’ingresso: «Perché hai voluto che restassi qui fuori?» «Perché pensavo che ci fosse qualcuno in casa…», risponde lui. «E c’era?» «No, certo che no», è la risposta sicura di Fred che è però in contraddizione con lo sgomento da lui mostrato all’interno della casa. Anche qui noteremo, comunque, il ritorno ossessivo sull’inquadratura in esterno dell’edificio (come negli inizi dei video). Le inquadrature (3) e (4) ci invitano ad assumere il punto di vista di Fred con un evidente raccordo di sguardo (il telefono inquadrato dall’alto; lo sguardo di Fred leggermente inclinato verso il basso). Il travelling che comincia in (5) sembrerebbe ancorato allo sguardo di Fred, mentre con la fine del movimento (6) si palesa come una falsa soggettiva che ritrova Fred inquadrato in MF. Tuttavia il ritorno sull’inserto del telefono che ora comincia a squillare ci ripropone un punto di vista verosimilmente ancora agganciato a Fred (il cui sguardo dovrebbe essere stato attirato dal trillo del telefono). Il movimento che ha inizio dall’alto si rivela però anch’esso come un falsa soggettiva (8). Le immagini delle ultime due inquadrature (prima di tornare su Fred) ci ripropongono lo stesso punto di vista sul corridoio e sulla tenda rossa che avevamo già visto, sia nel racconto del sogno da parte di Fred, sia nelle immagini della seconda videocassetta. Questo ci conferma il loro statuto palesemente ambiguo, sospeso per così dire tra: interiorità soggettiva (il sogno di Fred); oggettività (il video); falsa soggettiva (l’ingresso in casa di Fred). L’ultimo regime di sguardo (la falsa soggettiva) si fa carico così di intrecciare e rilanciare ulteriormente entrambe le configurazioni precedenti. A partire da qui possiamo individuare una lunga sequenza racchiusa tra due dissolvenze incrociate che conclude la vicenda con la carcerazione di Fred. Si tratta di una sequenza

composta di 35 inquadrature che lega però tre momenti diversi. Una dissolvenza incrociata con l’establishing shot precedente ci porta dunque nella camera da letto dei due che si preparano per andare a dormire. La prima parte (inq. 1-16) è l’oggettivazione del sogno raccontato da Fred. La seconda (inq. 17-29) mostra Fred intento a vedere la terza e ultima videocassetta. Infine con l’ultimo segmento (inq. 30-35) siamo improvvisamente catapultati nel corso dell’interrogatorio di Fred. Nell’inq. 35 Fred (in PP di fronte ai due detective) ha appena ricevuto un pugno in pieno viso e si dispera («ditemi che non l’ho uccisa io…»). Poi con una dissolvenza incrociata l’inquadratura successiva lo mostra ammanettato mentre è condotto in cella. Le due dissolvenze ci invitano dunque (provocatoriamente, potremmo dire) ad accettare come una sequenza di eventi contigui ciò che avviene tra l’ingresso in casa della coppia e la carcerazione di Fred, inserendovi all’interno le immagini della terza videocassetta. Il sogno raccontato da Fred si componeva per così dire di due «movimenti». Renee che lo cerca chiamandolo per nome. Poi lei nel letto, che urla spaventata mentre lui si avvicina. Questo sogno viene ora interamente oggettivato nel doppio regime delle immagini del racconto (Renee cerca Fred chiamandolo per nome dopo che questi sembra scomparso nel buio del corridoio – inq. 1-16) e nelle immagini delle riprese video che ci mostrano la scena dell’omicidio, lì dove il sogno si interrompeva bruscamente (inq. 17-29). Dunque il regime onirico coincide qui con il regime narrativo, ma soprattutto viene meno il circuito che separava le immagini video e il film, annullando così quella sorta di oggettività «allestita», messa in atto da Fred stesso. Questo cortocircuito viene attivato dalla stessa figurazione che alterna un’immagine identica (Fred accanto al cadavere smembrato di Renee) sia in video che in pellicola (inq. 23 e inq. 24). D’altronde la terza videocassetta riprende e completa le altre: l’ingresso dell’edificio ripreso dall’esterno della prima era stato annunciato dal prologo (qualcuno ha suonato al citofono); le riprese del corridoio e della stanza da letto erano state preannunciate dal sogno (qualcuno si aggirava nella casa). Ma è solo ora, con la terza videocassetta, che questo gioco di rinvii temporali si annulla nel presente di Fred che rivede il proprio omicidio, come se la «distanza» creata tra sé e il proprio gesto estremo venisse a mancare. Il gioco di richiami tra il doppio regime figurativo (film/video) viene così differito e poi sviluppato fino alla

loro coincidenza. ATTIVAZIONE (E INSCRIZIONE) DEL FUORICAMPO

Seguendo le indicazioni dello stesso Lynch, questa anomala struttura narrativa è stata da più critici ricondotta al paradosso del celebre nastro di Möbius11, una figura infinitamente percorribile che contraddice il principio delle superfici ordinarie, le quali presentano sempre due facce. L’anomalia topologica non consiste così in una paradossale struttura ciclica (coincidenza di «inizio» e «fine» del percorso). Piuttosto, ciò che viene mancare è la possibilità percettiva di scindere l’interno dall’esterno. Esiste infatti un solo bordo a partire dal quale è impossibile stabilire convenzionalmente un «dentro» e un «fuori» del nastro (da cui si deve la sua percorribilità infinita). In tal senso il nastro di Möbius non ci aiuta a spiegare il «ritorno al punto di partenza» della struttura narrativa di Strade perdute, ma può forse offrirci una buona metafora per addentrarci nei dettagli della costruzione del film. Infatti, se decliniamo interno ed esterno (o se si preferisce «fuori» e «dentro») in «campo» e «fuoricampo» il paradosso della loro inscindibilità si impone sin dall’apertura del film con la doppia presenza di Fred (in campo) che riceve il messaggio da se stesso (la sua voce fuoricampo). Una dinamica del tutto simile si ripete nella sequenza della festa, durante la conversazione tra Fred e il Mistery Man. Quest’ultimo infatti si trova contemporaneamente di fronte a Fred e a casa del jazzista, come indubitabilmente ci dimostra l’allucinata conversazione telefonica che si svolge tra i due mentre sono uno di fronte all’altro. L’ubiquità manifesta del Mystery Man mette insomma in evidenza il meccanismo che, invece, nel caso del prologo si paleserà soltanto con la fine del film: la voce (fuoricampo) che sentiamo parlare al citofono nel prologo è in effetti quella di Fred, ma sarà solo nell’ultima scena che saremo chiamati ad accettare una paradossalità che è invece qui palesemente imposta nello stesso breve segmento. Il procedimento che l’apertura del film occulta – vale a dire la compresenza in campo e fuoricampo dello stesso personaggio – viene qui per così dire esibito. Si tratta di una traccia che potremmo considerare come un decisivo elemento di autoanalisi inscritto nel testo12. Un passaggio che oggettiva non tanto una eventuale allucinazione di

Fred, quanto lo stesso procedimento che non permette al film di chiudersi in una logica progressione causale. Secondo Stephen Heath13 la costante e progressiva riappropriazione del fuoricampo è infatti una delle strategie decisive del cinema classico, e del cosiddetto découpage analitico in particolare. È nella conversione di «seen into scene» («chiusura» dello spazio, del punto di vista, e dello spettatore nella catena narrativa) che la superficie bidimensionale del film diviene pienamente significante nei termini di una «scena»; lo spazio cioè funziona come il «contenitore» dell’azione non solamente attraverso l’illusione di profondità costitutiva dell’immagine filmica, ma anche, appunto, attraverso lo scavalcamento e l’estensione dei propri margini, la ri-presa (nel senso letterale) dell’azione. Ora, nel caso di Strade perdute, non si tratta di riappropriarsi progressivamente del fuoricampo, ma appunto di imporlo in modi del tutto paradossali all’interno della stessa scena, per costruire il procedimento inverso: riconvertire la scena, o se si preferisce decostruirla, in qualcosa di «già visto». Come dice il Mystery Man avvicinando Fred alla festa: «Noi ci siamo già incontrati vero?» Dunque anche le immagini del secondo video (che terminano con Fred e Renee a letto) insinuano il dubbio che il soggetto in campo (Fred) possa contemporaneamente essere «fuoricampo» (colui che si «vede» da fuori)? A questo proposito concediamoci una breve digressione. Com’è noto una distinzione fondamentale della terminologia filmica separa la nozione di campo da quella di quadro. Nonostante il campo sia visibile e il fuoricampo non lo sia, entrambi costituiscono in modo inscindibile la scena filmica, mentre la nozione di quadro entra in gioco per definire appunto lo spartiacque tra due universi radicalmente eterogenei quale quello della scena filmica da un lato e della produzione del film dall’altro (il lavoro di regia e di scrittura non è cioè fuoricampo ma più precisamente fuoriquadro – perché questo termine ha il vantaggio di riferirsi a un artefatto della produzione del film e non al fuoricampo coinvolto comunque nell’illusione filmica). L’autore delle riprese video di Strade perdute si colloca invece in una sorta di fuoriquadro diegetico, interno cioè all’universo del film. Pascal Bonitzer ha proposto a suo tempo un utilizzo «anti-classico» della nozione di fuoricampo che convoglia in sé tutto lo spazio della produzione (nel senso ampio del termine) del film14. La coincidenza di vedente/visto si esplicita così in Strade perdute nel gioco di specchi in cui viene

coinvolta la scrittura filmica. Le immagini video oggettivano il gesto di Fred (l’uccisione della moglie) ma, poiché sono interne al suo universo diegetico, egli vi inscrive se stesso in un disperato tentativo di sganciarle dalla propria memoria. Il breve colloquio che Fred ha con i detective Ed e Al (giunti in casa dopo l’arrivo della seconda videocassetta) appare indubbiamente significativo: Al: Avete una videocamera? Renee: No. Fred le detesta. Ed e Al sembrano aspettare una precisazione da Fred. Fred: Mi piace ricordare le cose a modo mio. Al: Si spieghi meglio. Fred: Che il modo in cui le ricordo non è necessariamente quello in cui sono accadute.

RITORNO SULL’INTRIGO (O DELLA PULSIONE NARRATIVA)

L’intensità della figurazione che contraddistingue il cinema di Lynch ricade nell’intensità della cooperazione richiesta sul piano narrativo in modi assolutamente inscindibili. È su questo piano che si genera anche una feconda circolarità tra fascinazione spettatoriale e investimento analitico, chiamate qui a misurarsi non solo con l’attività interpretativa ma anche e soprattutto con l’intrinseca necessità dell’innesco di tale processo15. A questo luogo originario si affidano anche la dimensione e il carattere del racconto di Strade perdute. La domanda «perché dovrebbe esservi una storia?» va cioè qui intesa in modo originario e profondo, pienamente filosofico. Se la comprensione del racconto si impone come uno dei nodi rilevanti per l’analisi e l’interpretazione dei film, i lavori di Paul Ricoeur hanno anche mostrato come vi sia una stretta relazione tra la configurazione degli eventi narrativi, le pratiche di figurazione del tempo, e la stessa esperienza vissuta del soggetto16. Se il tempo si lascia comprendere (solo) assumendo una forma narrativa, la centralità del racconto si assume nella necessità dell’esperienza umana di «potersi narrare» al fine di acquisire un senso. Detto in altri termini, «la vita è certamente più simile all’Ulysses che ai Tre moschettieri, e tuttavia noi siamo più propensi a leggerla come se fosse un racconto di Dumas che non come se fosse un racconto di Joyce»17. Dunque è nel tentativo di interrogare e forzare i limiti di questa intrinseca necessità dell’esistenza che si inscrivono

configurazioni narrative come quella di Strade perdute. Non si tratta di annullare il racconto in quanto tale, quanto di «far ritornare sull’istanza del racconto la complessità della prestazione immaginativa originaria»18. Ed è questa indubbiamente l’intensità che si percorre attraverso Strade perdute, come una forza che gira a vuoto e non riesce a indirizzarsi verso il proprio oggetto, ma si inabissa lungo una «strada perduta». Non vi è schema plausibile in grado di dar conto dello sdoppiarsi nello stesso di prologo ed epilogo, se non assumendo la prospettiva di uno scacco del tentativo di Fred di configurare narrativamente la propria esperienza estrema – il compimento dell’uxoricidio per gelosia. Sotto la spinta irresistibile della pulsione di morte che innesca la coazione a ripetere e spinge a ripercorrere sempre le stesse vie e a cercare lo stesso oggetto, il meccanismo narrativo che porta il soggetto a eliminare le tensioni e a generare un racconto viene così a trovarsi sotto scacco. Com’è noto il concetto di pulsione è uno tra i più difficili della psicoanalisi, una sorta di concetto-limite. In riferimento ai rapporti tra l’attività del raccontare e l’esperienza umana, potremmo parlare in questo caso di una sorta di pulsione narrativa (che rientrerebbe così tra quelle autoconservative) che qui fallisce nel suo tentativo di rimuovere o ordinare ciò che accaduto. Come nota Montani, «il racconto – che pur si produce – fallisce infatti nel suo obiettivo più prezioso, vale a dire quello di concludersi»19. Ma qui si crea anche uno stretto legame tra il desiderio di «redenzione narrativa» di Fred e quello di comprensione dell’ordine degli eventi proprio dello spettatore. Infatti secondo una tradizione narratologica, il finale di un testo narrativo non si fa soltanto carico di verificare l’ultima previsione compiuta dal lettore, ma «anche certe sue anticipazioni più remote, e in generale pronuncia una implicita valutazione sulle capacità previsionali manifestate dal lettore nel corso dell’intera lettura»20. La paradossale coincidenza tra emittente e ricevente del messaggio «Dick Laurent è morto» va dunque intesa come un enunciato metaforico sulla neutralizzazione del tentativo narrativo/autoconservativo di Fred, nonché sulla comprensibile «attesa di chiusura» da parte dello spettatore. IDENTIFICAZIONE

Se la narrazione diviene qui un’indagine sulla necessità di un «racconto», parallelamente le dinamiche dell’identificazione sono forzate all’interno di una riflessione sull’identità dei personaggi. Così, occupandoci dell’altra incongruenza manifesta nel testo, qual è la trasformazione di Fred in Pete, potremmo dire che gli eventi che strutturano l’intrigo di Strade perdute ci invitano palesemente ad assumere un’«inedita» prospettiva teorica che consideri «il personaggio come una possibilità di identificazione per gli altri personaggi»21 anziché per lo spettatore. Lo sconfinamento di una vicenda nell’altra può cioè essere letto non tanto attraverso la struttura del doppio, quanto nel solco di una costruzione identificativa assoluta che posiziona il soggetto Fred nella vicenda di Pete. Se il racconto non si chiude, si dirà che anche l’identificazione viene dichiaratamente lasciata aperta, se non apertamente contraddetta. Nel cinema la struttura di campo e controcampo (ad esempio in una sequenza di dialogo) garantisce il posizionamento del soggetto. Ma qui, alla fine del film, scopriamo che il «campo» (prologo) e il «controcampo» (epilogo) appartengono allo stesso Fred. Lo spettatore posizionato nel prologo crede di dover risolvere – attraverso Fred – l’enigma circa la morte di Dick Laurent e di svelare l’identità della voce iniziale. Si tratta dunque di un falso posizionamento. Se non ci sono due soggetti, sarà lo stesso personaggio a dover creare le strutture della propria possibilità di identificazione. La prima possibilità di identificazione di Fred sembrerebbe attivarsi attraverso l’iscrizione di sé all’interno dell’oggettività «allestita» delle immagini video. Tuttavia potremmo dire che si tratta di una identificazione debole, che non appare sufficiente all’elaborazione di un’altra scena e di un altro racconto. Poco prima che ci vengano mostrate le immagini dell’omicidio consumato, Fred si guarda allo specchio. Sembra avanzare verso la mdp, e tuttavia ci accorgiamo che invece è lui stesso ad andare incontro alla propria immagine (e al proprio «svelarsi», potremmo aggiungere, fig. 2). Lo sconfinamento in un’altra persona (Pete) garantisce invece una identificazione indubbiamente più forte. Se Alice è un doppio di Renee, Fred è invece in tutto e per tutto Pete, abolisce qualsiasi confine tra se stesso e la propria possibilità di identificazione. Non si costruisce un doppio (come nei video, potremmo dire), ma letteralmente diventa un altro. Così mentre possiamo vedere la coesistenza di Renee e Alice, nella fotografia nell’appartamento di Andy (fig. 3), non può darsi la con-presenza di

Fred e Pete, ma solo l’entrata e l’uscita per così dire di uno nell’altro. Il processo dell’identificazione attivato da un personaggio all’altro diviene così una riflessione sulle strutture relazionali dell’identità. Pensiamo qui anche all’immagine dei titoli di testa (fig. 4), che oltre a riproporsi come sfondo su cui scorrono i titoli di coda, viene attivata in altri tre momenti del film: poco prima della «trasformazione» in cella di Fred (un breve inserto con la strada iniziale, percorsa in velocità, ci mostra per la prima volta nel film Pete, in piedi al bordo dell’asfalto, fig. 5); poi in due ulteriori segmenti, è inserita attraverso una motivazione diegetica: Pete e Alice, in macchina di notte, mentre tentano la fuga (fig. 6); Fred da solo alla guida, diretto al Lost Highway Motel (fig. 7). Come abbiamo visto le ultime immagini del film mostrano Fred alla guida inseguito dalla polizia, dunque anche l’immagine dei titoli di coda (diversamente da quelli di testa) può essere motivata diegeticamente. L’ultima inquadratura su Fred alla guida suggerisce inoltre il ripetersi di quella dinamica di metamorfosi del personaggio già mostrata alla fine della prima vicenda, alludendo a un ulteriore rilancio dello «scambio» tra Pete e Fred (fig. 8). Dunque, potremmo dire, l’immagine dell’autostrada si trova sospesa tra la propria autoreferenzialità (titoli di testa), la propria diegetizzazione – assegnabile tanto a Pete che a Fred – e una configurazione, infine, che avvolge entrambe le funzioni (titoli di coda), in cui l’immagine cioè può leggersi come controcampo sia di Fred, sia della sua ulteriore trasformazione in atto, sia in un ritorno alla propria autoreferenzialità dell’inizio. Necessità del racconto e necessità dell’identificazione, ovvero i due grandi regimi di senso del cinema narrativo, sono dunque in Strade perdute interrogati sino al cuore del proprio enigma, vale a dire nella propria costitutiva fascinazione. Sospesi tra il proprio svolgimento e il ritorno infinito su di sé.

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Mulholland Drive di Barbara Grespi A dispetto del suo fascino figurale e della sua esibita resistenza alla verbalizzazione, Mulholland Drive è un curioso caso di film da leggere. Sia perché è difficile separarlo dall’immensa produzione critica che lo ha accompagnato fin dall’uscita nelle sale, tra saggistica erudita, firmata ad esempio Slavoj Zizek, e incontenibile ekphrasis cinefila, sia perché il film è a tutti gli effetti proseguito su carta, nel racconto degli spettatori, che su stimolo dello stesso regista e dei dieci indizi da lui forniti al quotidiano britannico «The Observer», ne hanno ricostruito lo sviluppo logico e disambiguato i misteri1. Se la seduzione di Mulholland Drive non fosse ancora irresistibile, sarebbe già tempo di tracciare le linee della sua assai movimentata vicenda ermeneutica, rinunciando ad aggiungere l’ennesima lettura alle molte circolanti. A scatenare il furore critico internazionale, è stata in primo luogo la struttura enigmatica del film in cui, come nel precedente Lost Highway (Strade perdute), i personaggi possiedono identità multiple e il racconto si sviluppa su diversi piani non sempre ricomponibili. Mulholland Drive vi aggiunge una spiccata vocazione oggettuale (il tratto che più avvicina Lynch a Hitchcock), a rafforzare da un lato il carattere onirico della storia, in cui chiavi, lampade, borse, scatole blu, tazzine da caffè, barattoli di vernice fluttuano come sintomi di un altrove quantomeno psichico, dall’altro il suo carattere espositivo, vicino all’installazione d’arte contemporanea2. La questione essenziale è che a un certo punto le due protagoniste, Betty Elms e Rita, due giovani donne legate da una relazione sentimentale sullo sfondo dello sfavillante e grottesco universo di Hollywood, diventano l’una Diane Selwyn e l’altra Camilla Rhodes; siamo ancora a Hollywood, ma il loro rapporto si è sostanzialmente rovesciato. Si tratta di due mondi diversi, qualunque cosa essi siano, e a collegarli è un piccolo cubo blu che Rita tiene in borsetta e che una volta aperto con una misteriosa chiave dissolve una realtà e conduce nell’altra. In uno dei più ricchi e stimolanti saggi sul film, il recente intervento di Paolo Bertetto3, sono individuate e discusse tutte le possibili relazioni fra queste due dimensioni finzionali. Una prima interpretazione, la più diffusa, propende per una distinzione netta

fra i primi tre quinti della storia, il lungo sogno di Diane, e la restante parte in cui Diane si risveglia per vivere la sua vita: è il mondo reale, anche se invaso dai fantasmi della memoria. Il sogno di Diane si configura come un delirio di risarcimento, di compensazione del dolore: la ragazza, abbandonata dall’amata Camilla, sogna che lei torni nella sua vita nei panni di Rita, bellissima ma inerte, completamente dipendente perché in stato di amnesia, ancora desiderabile ma priva di potere, cioè incapace di ferire4. Sogna che l’uomo per cui Camilla l’ha lasciata, il giovane regista Adam Kesher, venga tradito dalla moglie, spodestato sul set da un boss mafioso e minacciato da una semplice comparsa dei suoi film, un uomo vestito da cowboy; sogna che la sussiegosa madre di Adam sia niente più che la custode del complesso residenziale in cui vive sua zia; sogna di essere lei l’attrice di talento e Camilla Rhodes la pietosa raccomandata del boss, e sogna infine che il killer a cui ha commissionato l’omicidio della ex amante sia un pasticcione e fallisca il proprio compito. La realtà, evidentemente, è tutta diversa: Diane è un’attricetta senza speranze, che vivacchia sui set in cui Camilla trionfa da protagonista e Adam da regista; Camilla non la ama, anzi, la fa soffrire sadicamente baciando un’altra donna davanti a lei e annunciandole in pubblico il suo prossimo matrimonio con il regista; il killer non fallirà, e Diane, avuta la prova del suo misfatto, finirà per suicidarsi tormentata dai sensi di colpa. In questo modello, avvalorato dagli indizi disseminati soprattutto nella scena che salda le due dimensioni, quella in cui Diane viene risvegliata dal cow boy (il segmento inizia appunto con la frase: «Hey, pretty girl… time to wake up» – «Ehi bella ragazza, è ora di svegliarsi»), realtà e sogno arrivano a congiungersi circolarmente: l’inizio della storia d’amore onirica fra le due donne, l’incidente d’auto che toglie la memoria a Diane, è la fine della loro storia d’amore reale (è così che verrà uccisa Camilla, anche se il film non lo mostrerà mai); viceversa, l’inizio del segmento reale coincide con il punto di impasse del segmento onirico, la scena in cui Betty si trova di fronte al proprio cadavere, il corpo decomposto di Diane. Il momento del risveglio è infatti costituito da due immagini intervallate dalla mezza figura del cowboy: nella prima il corpo sul letto in posizione fetale è ancora vivo, nella seconda si riconosce la carne in putrefazione, quindi inizia la scena del risveglio. Inoltre è chiaro che il segmento reale è contraddistinto da una seconda circolarità interna, perché finisce proprio come è

iniziato, cioè con la scena in cui Diane, disperata, si butta sul lenzuolo e si spara, diventando cadavere. La seconda interpretazione potrebbe invece partire dall’episodio apparentemente marginale di Dan, un uomo che si fa psicanalizzare da Winkie’s raccontando i due sogni che lo ossessionano, nei quali un barbone dietro l’angolo del cortile, semplicemente apparendo, lo terrorizza. Quando verifica se sia davvero lì, e ce lo trova, muore d’infarto. L’episodio è compreso fra due immagini di Rita che si addormenta e si risveglia, dunque potrebbe rappresentare il suo sogno incastonato in quello di Diane. Il bar Winkie’s costituisce sostanzialmente il luogo della riemersione memoriale, prima per Rita, che ricorda qualcosa leggendo il nome della cameriera e risale all’abitazione in cui si trova morta Diane, poi per Diane che ricorda di aver commissionato in quel locale l’omicidio di Camilla; nel flashback, Diane incrocia lo sguardo insistito di Dan. Il Winkie’s diventa così il luogo in cui viene enunciata – questa è l’ipotesi – la struttura generale del film: un doppio sogno orrifico che si conclude con la morte del sognatore. Dan si rivela essere una proiezione di Diane, un fantasma che preconizza il destino della ragazza: sognare due volte e poi morire. Questa lettura rende possibile una terza ipotesi, secondo cui i due sogni sono più precisamente «processi allucinatori di un soggetto psicotico che ha ormai perduto la possibilità di sviluppare rapporti produttivi ed equilibrati con il mondo»5. Sono due forme patologiche attraverso cui Diane cerca di elaborare la propria identità, l’una narcisistica, l’altra schiacciata dal Super Io parentale (l’allucinazione finale che la induce al suicidio rappresenta proprio due anziani coniugi in dimensione lillipuziana che la assalgono, gli stessi che nel sogno erano i bonari compagni di viaggio in aereo di Betty). Infine, il complesso intreccio lynchiano potrebbe essere oggetto di un’ulteriore interpretazione: le due versioni della storia potrebbero mettere in scena due mondi paralleli, sotto il segno di un reale che non è mai univoco, ma sempre plurimo. Come se Lynch, nel suo cinema, dimostrasse di continuo che nessuna storia è mai una, e che nell’universo ne esiste sempre almeno un’altra uguale e contraria (sebbene questa molteplicità sia alla fine solo apparente: il destino di morte di Diane non cambia…). Cosa che vale peraltro anche per la stessa interpretazione: se si sostiene che entrambi i segmenti del

film possano essere «veri», bisogna ammettere anche che entrambi possano non esserlo. In quest’ultimo caso, il film si collocherebbe interamente in un orizzonte di non-attualità, cioè di potenzialità, uno spazio ancora vergine in cui niente è avvenuto e due cose opposte potrebbero accadere. IL MISTERO DEI CORPI

A questo punto, dopo l’irrinunciabile operazione ricostruttiva, quasi tutte le analisi concludono che l’essenza del film, la sua qualità estetica, risiede altrove, in ciò che sfugge alla logica: un dettaglio, una percezione, un’incongruenza irriducibile che costringe a ricominciare tutto dapprincipio. È abbastanza vero, anche se chiaramente nemmeno questa è una risposta: non è nella circolarità infinita del processo ermeneutico che un film può trovare il proprio senso. Nel saggio citato, Bertetto esce dall’impasse portando l’attenzione su un fondamentale tratto del film che, stringendo insieme i due mondi rappresentati, permette di comprendere la loro fascinazione. È la dimensione del perturbante freudiano: il ritorno del familiare, del domestico e dell’intimo in una versione ignota, lugubre e sinistra. Un effetto che per Freud si produce attraverso la ripetizione, strategia chiave del film: scene che tornano (il viaggio in auto, il provino, il Winkie’s), immagini sdoppiate (il jitterbug iniziale, i volti delle donne all’uscita dalla casa di Diane), frasi che riecheggiano («È lei la ragazza»), figure del doppio (i riflessi speculari, il travestimento di Rita in Betty). La ripetizione produce uno stato di insicurezza perenne, che appunto corrisponde all’indecisione strutturale dello spettatore di fronte a un mondo incerto fra la realtà e il suo doppio fantasmatico. Ma la conseguenza più interessante riguarda la rappresentazione dell’umano: sulla scia di Freud, secondo cui la più intensa esperienza del perturbante si vive di fronte a ciò che oscilla fra animato e inanimato, dunque di fronte ai doppi, ai manichini, alle marionette, Bertetto arriva a dire che le protagoniste sono «due copie di cui si è perso l’originale, due automi che si sovrappongono e sostituiscono, oltrepassando l’umano […] del resto tutto il film è percorso da figure inquietanti che rappresentano un umano enigmatico, di cui non si capisce la natura»6. Questa idea mi sembra apra la strada a un nuovo percorso

di analisi, incentrato appunto sulle figure del corpo costruite dal film. I corpi nel cinema di Lynch sono da sempre uno strumento importante, lavorato ai limiti della body art. La testa è una forma (vedi Eraserhead, Eraserhead. La mente che cancella, 1976, ed Elephant Man, 1980, in cui la deformazione cranica è fondamentale), il resto del corpo è materia, cioè carne (penzolante e illividita nel nudo di Isabella Rossellini in Blue Velvet, Velluto blu, 1986) o massa (cadaveri che restano in piedi, sempre in Velluto blu, arti appesantiti, ingombranti, inefficienti, come in The Straight Story, Una storia vera, 1999). Michel Chion sostiene che il corpo in Lynch si presenta sempre come una struttura principale in continuità con gli arti inferiori, saldati al tronco, cui si aggiungono due estremità opposte e staccabili, cioè testa e braccia7. Nei primi film il corpo umano era effettivamente qualcosa di simile a un «vegetale» (il sistema di idratazione artificiale/«irrigazione» di Dune, peraltro, lo confermerebbe), una sorta di albero che non si può sradicare, se non abbattendolo, ma solo sfrondare. Eppure in Lost Highway (Strade perdute, 1997) e Mulholland Drive, il corpo diventa qualcosa di molto meno organico, meno vivo di una pianta. Da un lato si assiste a una mostruosizzazione diffusa, quasi circense, cioè all’apparizione di esseri che comunicano con la loro sola, disturbante presenza corporea. Il finanziatore Castigliane non risponde (dice solo «espresso», «tovagliolo» e «questa è la ragazza»), cioè non usa la bocca per dialogare ma per esprimere approvazione o disapprovazione, introducendo o espellendo liquidi: quando Adam si ribella alle sue prepotenze, Castigliane, come in un riflesso incondizionato, rigetta il caffè sul tovagliolo e se ne va. Ma lo stesso vale per Mr Roque, il produttore in sedia a rotelle interpretato dal nano di Twin Peaks rivestito da un corpo artificiale. La ferita alle gambe è ricorrente in Lynch (dai monconi della giovane donna di The Amputee, alle stampelle del protagonista di Una storia vera) e segnala insieme uno stato di estrema fragilità e di estrema forza. Mr Roque è un corpo statua, deforme ma potente nella sua immobilità, capace di controllare gli eventi attraverso le orecchie, organo fondamentale in Lynch (una protesi tecnologica gli permette di sentire quel che avviene alla riunione con i Castigliane). L’ordine di sospendere la produzione del film di Adam viene da lui, anche se il suo comando non è fatto di parole, ma di silenzio e

impassibilità. A dare una lezione al giovane regista indipendente, Roque manderà un gigante, il suo opposto morfologico, ma in sostanza un analogo essere muto e roccioso, che parla con il corpo e non interagisce. Infine il barbone che terrorizza Dan: occhi chiari sulla pelle bruciata, capelli lanosi, lineamenti vagamente amerindi. Un umano degradato, un corpo fossile, subumano nella sua primitività ma insieme sovrumano nel custodire il mistero, la scatola blu che nel finale depone a terra facendo uscire i due anziani coniugi: due esseri che nel mondo A sono i semplici compagni di volo di Betty, ma nel mondo B, probabilmente, i suoi implacabili genitori, immagine dei sensi di colpa che la condanneranno. Costoro appartengono però a un’altra specie, quella per cui il corpo non è carne inerte, fossilizzata, ma un esterno simbolico che, come un abito, può rivestire anche interni diversi. In Mulholland Drive, il nesso interno/esterno è scollegato da molteplici espedienti: ad esempio, il sentire di un personaggio viene rappresentato spesso attraverso la percezione invisibile del suo corpo, come nelle soggettive ondeggianti che legano uno sguardo a una presenza corporea (una massa, un movimento), ma la lasciano fuori campo (Dan che si incammina fuori dal Winkie’s verso l’uomo che lo terrorizza, oppure Betty e Rita che si avviano verso l’appartamento di Diane); si tratta di immagini della paura lontane anni luce dalle classiche posture del volto ricavabili da un catalogo di fisiognomica, proprio perché si radicano nel corpo ma prescindono dalla sua apparenza esterna. La quale peraltro non è necessaria – Betty può tranquillamente sparire all’uscita del Club Silencio, appena Rita apre la cappelliera, come in un numero di presdigitazione – e nemmeno rigida, tanto che i due anziani coniugi sorridenti si «restringono» a dimensioni lillipuziane, diventano ipercinetici, emettono un suono stridulo simile all’urlo dei rapaci, e si avventano con movimenti meccanici su Diane. Sembrano giocattoli impazziti, massimo esempio di un umano meccanizzato e feticizzato che include le candidate al ruolo da protagonista nei provini di Adam, specie di bambole anni cinquanta con un bottone per il sonoro sulla schiena. Il tema del playback le collega a Rebeckah del Rio, la cantante del Club Silencio che si esibisce sul palco e sviene, mentre la sua voce prosegue il canto. Riprenderemo l’analisi di questa sequenza, per ora limitiamoci a dire che il carattere automatico del suo corpo è assai evidente. Ciò che Lynch inquadra è in verità il volto di tre quarti, la cui caratteristica

principale è un trucco pesante, sui toni del rosa, un orecchino e una lacrima disegnata. Rebeckah è sostanzialmente una lastra su cui sono dipinte le emozioni, una maschera della sofferenza. Così come è una maschera dell’allegria e della cordialità la madre in miniatura di Diane, che nel segmento A vediamo per l’ultima volta in taxi con il volto «inceppato», cioè bloccato come in uno stop frame in un sorriso forzato; ha lo stesso viso disegnato anche la burbera Coco, custode del complesso residenziale dove vive zia Ruth, matrigna contraffatta da un eccesso di lifting o maquillage mummificante. Il vistoso trucco sui visi contribuisce a creare l’idea del corpo come teatro, come pura rappresentazione di un sentire che non si radica nel profondo dei personaggi: quando la loro identità muta, e con essa le passioni, il corpo mantiene lo stesso «allestimento» (il trucco di Camilla è uguale a quello di Rita, così come il look di Coco è identico a quello della madre di Adam). Solo il corpo di Diane muta in relazione al suo interno: è lei l’unica ad apparire «nuda», cioè con un corpo che non è pura messa in scena, ma teoricamente riflette uno stato d’animo. Quando entra in campo all’inizio del segmento B nella cucina di casa sua, in accappatoio, senza trucco, con il volto gonfio e corrucciato, ci è subito chiaro che, pur avendo le stesse fattezze di Betty, non è Betty. Ma è anche vero che, vedendola in quella situazione, ricordiamo di averla già vista così, esattamente in cucina e in accappatoio, aggressiva nei confronti di Rita: succede quando l’aspirante attrice studia la parte in casa prima del provino, con l’amica che le dà la battuta. Anche l’incipit, peraltro, si ripete: Diane inizia con la frase «Camilla… you’ve come back…» («Camilla… sei tornata…»), così come la battuta di Betty suona «You’re still here?» («Sei ancora qui?»), a cui Rita risponde «I came back» («Sono tornata»). Ma qui, subito dopo, una carrellata indietro scioglie l’ambiguità, portando in campo il copione nelle mani di Rita, e alla fine inquadrando la risata inaspettata di Betty, che dissolve in un istante la sua espressione seria e minacciosa. È così che anche il suo corpo ci abitua alla simulazione, alla possibilità che tutto ciò che manifesta sia recitato. Quanto a Rita, il suo esterno, a causa dell’amnesia, è completamente scollegato dal suo interno, che le è appunto ignoto. Rita si porta in giro un corpo che potrebbe appartenere a chiunque e che in quanto rappresentazione, immaginario, appartiene solo agli spettatori: la sua identità oscilla fra pittura e cinema, cioè fra

l’ideale cinquecentesco della sensualità femminile (la Beatrice Cenci di Guido Reni, donna sospesa fra storia e leggenda, nel quadro che si intravede più volte alle pareti della casa di zia Ruth8), e il mito hollywoodiano della femme fatale (il poster di Gilda, appeso in bagno, al quale si ispira per darsi un nome)9. LA MALATTIA DELL’IMMAGINAZIONE

Ma il corpo di Rita non è propriamente falso, bensì neutro, è materia inerte ancora priva di una forma. La Hayworth è il primo modello che tenta di riempire questo vuoto di senso, Betty il secondo. Infatti, appena uscita dalla doccia, Rita si stende sul letto e Betty la copre con una vestaglia sulla quale è appuntato un vistoso biglietto di carta su cui si legge «Enjoy yourself, Bettie. Loves. Aunt Ruth» («Divertiti Bettie, con amore, zia Ruth»; il dettaglio è abbastanza insistito). L’indumento è dunque destinato al corpo di Betty, ma a indossarlo sarà Rita in varie scene domestiche. Si insinua così l’idea che i due corpi siano intercambiabili, l’uno il riflesso speculare dell’altro, come del resto si evince da una ricorrente inquadratura del film, che affianca sempre le due attrici in primo piano o mezza figura: lo sguardo rivolto dalla stessa parte, le teste quasi unite a formare un leggero angolo, come se fosse il punto di rifrazione di un corpo a contatto con uno specchio (figg. 1 e 2). Succede in innumerevoli sequenze, ma la principale è forse quella della visita alla casa di Diane, quando le due donne sincronizzano il loro passo fianco a fianco sul sentiero, e si abbassano all’unisono sotto la siepe, per non essere viste. Entrate in casa si chiudono il naso con la mano destra e continuano ad avanzare affiancate, poi entrambe riportano il braccio al fianco, infine Betty apre la porta della camera da letto e a quel punto è Rita la prima a entrare e a dirigersi verso il letto; la luce è soffusa, ma un faro le illumina il volto fisso in una posa estremamente enfatica: la bocca aperta in un’espressione di dolore, come nell’attesa di emettere un urlo, che infatti davanti al cadavere arriva; ma Betty, molto più controllata, lo smorza con una mano, e spinge l’amica fuori dall’appartamento; la musica sovrasta le voci, e il volto di Rita, muto ma sfigurato dall’urlo, si moltiplica: un effetto visivo fa sì che il corpo muovendosi lasci una scia di immagini dietro di sé, come se la

figura si frammentasse in vari istanti di dolore e poi si ricomponesse. La sequenza si chiude con il gesto chiave di Rita: le due mani aperte a coprire il volto (l’abbiamo già visto al suo risveglio sul letto di zia Ruth) (figg. 3 e 4). La descrizione della sequenza a partire dai gesti rappresentati non è casuale. Il gesto è un aspetto fondamentale nella costruzione del personaggio scenico, dipendente da molteplici fattori: scuola di recitazione, direzione dell’attore, traduzione sintomatica di alcune memorie corporee. Quanto al primo fattore, è noto che fra il metodo delsartiano e kuleshoviano che domina a Hollywood fino alla fine degli anni quaranta e quello stanislavskiano che si diffonde soprattutto a partire dal decennio successivo, esiste una differenza fondamentale: semplificando, si potrebbe dire che nel primo caso il gesto è un atto controllato e misurato, scelto a partire da un sistema di corrispondenze «semiotiche» fra attitudini del corpo e passioni10; nel secondo caso, il gesto è l’espressione dei moti interiori, spesso inconsci, che tradiscono il sentire profondo del personaggio, non il suo stato d’animo evidente11. Allo stesso modo, la regia può essere più o meno incentrata sui corpi, tanto che in alcuni casi è evidente la costruzione di forme a partire dalla figura umana, mentre in altri la forma nasce soprattutto dallo spazio e dall’inquadratura nel suo complesso. Quanto al gesto come memoria sintomatica, si tratta di un aspetto molto più complesso, e ancora non applicato al cinema, benché già ampiamente teorizzato nel campo della storia dell’arte, a partire dalla rilettura che Georges Didi-Huberman compie di Warburg alla luce di Freud12. In estrema sintesi, in questo approccio il gesto appare come il momento della riemersione di una memoria sepolta, fossilizzata e involontariamente riportata in vita, come se le figure rappresentate avessero somatizzato una rimozione collettiva (l’approccio è non a caso definito «psicopatologia storica dell’espressione»). Un gesto, soprattutto se ambiguo ed enigmatico, rianima il fantasma di un passato, prosegue al presente la vita di un’antica passione, non limitandosi a ripeterla, ma trasformandola in qualcosa di nuovo. Nel caso della sequenza ricordata, è evidente che il lavoro delle due attrici non ruota attorno a un catalogo di posture codificate, alla Delsarte, ma attorno a processi di interiorizzazione psicologica dei personaggi; e tuttavia Lynch sembra dirigere i corpi con estrema precisione, costruendo appunto forme assai controllate. Dichiara

Naomi Watts: «David è un regista che enfatizza molto l’espressione e la gestualità degli attori, riesci a percepire quello che vuole perché ti fa lavorare fino alla follia sull’espressività, finché la rende efficace»13. Si direbbe che Lynch lavori a una mise en geste alla maniera di Ejzenstejn, cioè da un lato lasciando che il gesto si configuri come un lapsus che apre squarci profondi sui personaggi (il capitolo di Ejzenstejn sulla differenza fra mise en jeu e mise en geste parte proprio da una citazione di Freud e da una ripresa di Stanislavskij), dall’altro costruendo, a partire da una formula di base, una partitura organica di azioni corporee che corrono parallele a quelle narrative e producono un ulteriore livello di senso14. Qual è dunque la formula base che struttura i gesti delle due protagoniste? Il corpo di Rita riassume le diverse dimensioni disseminate negli altri personaggi: la semi-immobilità, quasi inerzia della carne, l’automatismo, quello di una bambola/marionetta guidata da fili invisibili, la maschera, data dal trucco ma anche dal gesto enfatico (la bocca spalancata a precedere l’urlo, quasi ad aspettarlo). È un corpo manipolato, e in questo senso l’insistita immagine delle mani sul volto assume un valore emblematico: autooccultamento dell’identità, corpo che si offre e si nega insieme, ma soprattutto sostituzione delle mani al volto, della dimensione dell’agire a quella del sentire. Rita possiede un corpo imitativo, cioè che non si modifica a partire da una spinta interiore, ma riproducendo l’esterno (sembra essere lei l’immagine allo specchio). Nel seguito della storia, il suo impulso mimetico sarà esplicito, come nella scena del travestimento, quando una parrucca bionda acconciata come il caschetto di Betty andrà a coprire la sua chioma bruna. Anche Betty, però, è un corpo imitativo, benché la cosa sia meno evidente, dato che il modello a cui si ispira viene posticipato alla sua riproduzione. Il modello è evidentemente Camilla, che nella seconda parte del film ci appare come corpo ancor più feticizzato, truccato, acconciato, immobile, tranne che per un gesto da vamp piuttosto insistito che ricordiamo di avere già visto: alla cena in cui si celebra il suo successo e il suo imminente matrimonio con Adam, Camilla fuma (figg. 5 e 6). Lo stesso fa Betty, simulando superiorità, quando Rita si complimenta con lei per il suo talento. Ma nello stesso schema di

posticipazione dei modelli, è anche vero che Rita «imita» contemporaneamente Diane: entrambe al risveglio, sedute sul bordo del letto, portano le mani alle tempie in un atto di disperazione. Il circuito delle imitazioni è dunque insolubile: Mulholland Drive è la storia di due corpi che si imitano reciprocamente, entrambi senza storia e senza memoria. Il corpo imitativo, fatto di cera plasmabile, è storicamente il corpo isterico. Malattia specificatamente femminile (la sua versione maschile è rarissima e assai diversa15), l’isteria, scoperta da Charcot all’ospedale parigino della Salpêtrière nel 1888, è stata uno dei più grandi misteri del diciannovesimo secolo. Come è noto, la malattia era inizialmente confusa con l’epilessia, perché caratterizzata da convulsioni e movimenti irregolari, e anche dopo la riabilitazione di Charcot ebbe vita breve, dato che Freud, dando fondazione al metodo psicanalitico, la riportò nell’alveo dei disturbi psicologici, contrastando l’ipotesi neurologica del suo maestro. Ma il suo fascino visuale, come dimostrano i molti studi che l’hanno di recente riscoperta16, è tutt’altro che sopito. L’immaginario isterico, anche perché basato su un corpo in sé «artistico», ha largamente influenzato le arti. Didi-Huberman scrive che l’isteria è la «malattia del dolore inventato come spettacolo e come immagine», alludendo soprattutto al fatto che le crisi isteriche e la loro cura ipnotica, che portava i corpi a uno stato catalettico, altamente suggestionabile, era uno dei più grandi spettacoli dell’Ottocento. Nella fase delle attitudini passionali, inoltre, le isteriche si bloccavano in pose antiche (preghiera, estasi, passione), esibendosi nell’arte del tableaux vivant, attrici del loro stesso disagio psichico. Se c’è qualcosa di antico che riaffiora nei gesti di Mulholland Drive, è appunto la memoria ottocentesca dell’isteria. Non solo imitazione, reciproca costruzione isterica delle identità delle protagoniste, ma anche un preciso catalogo gestuale che si rivela sintomatico: l’attitudine passionale di Rita davanti al cadavere di Diane, la catalessi di Rita e di Diane al risveglio (peraltro nella stessa posa fetale), la trance notturna di Rita che dorme a occhi aperti ripetendo parole misteriose («Silencio, no hay banda»), l’arco isterico, nella seconda scena erotica, quando al rifiuto di Camilla, Diane le solleva la vita cercando di provocarle una crisi, le convulsioni di Betty al Club Silencio. È così che in una tragedia contemporanea del femminile riaffiora la memoria dello storico

disagio delle donne. Per Foucault l’isterica è strutturalmente la figlia che trasmette con il corpo il messaggio del proprio malessere entro la famiglia borghese, e Diane, come si è detto, è anche tale, dato il ruolo finale delle due figure parentali. Più in generale, l’isteria racconta la debolezza di un femminile strutturalmente imitativo e condizionabile dall’esterno (cioè dal maschile), ma insieme la sua resistenza attraverso un linguaggio altamente creativo, che lo stesso Freud collega alla fantasia oltre che alla bisessualità: la «malattia dell’immaginazione», dell’appropriazione indebita dei racconti dell’Altro, è da un lato già una storia che ha per protagoniste delle attrici, corpi in sé capaci di simulare, di scollegarsi dal proprio interno, dall’altro una chiave di lettura dell’amore lesbico in cui, come si legge in «Fantasie isteriche e loro relazione con la bisessualità»17, il processo di immaginarsi due, aggressore e aggredito, e di desiderare due cose contraddittorie, è all’origine della sofferenza. LA CURA ELETTRO-IPNOTICA

La performance del corpo isterico arriva a un impasse nella sequenza al Club Silencio. Quando dalla memoria di Rita, nel cuore della notte, riemerge il nome del locale misterioso, le due donne si precipitano là e assistono a uno spettacolo in playback che è la versione tenebrosa dei provini di Adam. Un teatro in stile settecentesco, una spettatrice su un palchetto in costume storico con la parrucca azzurra, il neo su una maschera bianca, il corpo immobile come una statua di cera. In scena un presentatore mefistofelico introduce una banda che non c’è, cioè ci fa sentire i suoni di strumenti invisibili, finché alzando le braccia innesca un lampo elettrico che illumina il teatro. In platea, Betty ha le convulsioni, Rita la stringe. L’imbonitore sparisce, ne compare un altro più anziano ma con gli stessi baffi; costui presenta la cantante Rebeckah del Rio. La donna, che esibisce un vistoso trucco in rosa e una lacrima d’argento disegnata sul volto, interpreta una versione spagnola di Crying di Roy Orbison; Betty e Rita si commuovono. Rebeckah sviene, mentre la sua voce le sopravvive riecheggiando in teatro. Betty apre la borsa e trova il cubo blu. Ritorno a casa. La sequenza è costituita da un montaggio di campi e controcampi fra gli artisti sul palco e le due spettatrici, quasi sempre inquadrate

insieme. Il montaggio si fa più serrato all’entrata in scena della cantante, di cui le due donne, corpi imitativi, non possono che riprodurre le lacrime dipinte sul volto in due controcampi fra loro simmetrici e speculari a quello di Rebeckah, loro superficie riflettente. Il volto di Rebeckah, che assomma il rosa di Betty e l’orecchino di Rita (l’unico indizio dell’esistenza della donna trovato sul luogo dell’incidente stradale), plasma come una matrice i volti delle due donne, che diventano uno solo (figg. 7 e 8). Ma il punto è che quella che vedono rappresentata non è semplicemente sofferenza femminile, ma una morte, la loro morte. A questa seconda morte, che rispetto a quella «reale» di Diane si presenta come inscenata, allestita, è più sensibile Betty: la ragazza reagisce con le convulsioni al lampo elettrico e ai gesti del direttore d’orchestra, che con la sua bacchetta pare dirigere soprattutto il suo corpo in sala. L’uomo, sorta di Svengali contemporaneo, ha infatti tratti luciferini dell’ipnotizzatore che governa i fili dei fantocci sul palco, compreso se stesso: incrociando le braccia sparisce in una nuvola di fumo, la stessa che rivedremo nel momento in cui Diane, a letto, si spara. Al Silencio, dunque, non prende forma solo il tema del falso, del playback come rivelazione della dimensione immaginaria di tutto quello che gli spettatori vedono (compreso lo spettatore del film), ma si rafforza anche il tema del teatro dei nervi: il luogo e il fondamentale motivo dell’elettricità fanno pensare al mesmerismo, ovvero alla teoria tardosettecentesca dell’elettromagnetismo e dei flussi nervosi che permeano l’universo18. Come nelle ipotesi di Franz Anton Mesmer, il Club Silencio, metafora del film stesso, è un universo-corpo rivestito da correnti nervose che si propagano nell’etere simili a onde elettriche, producendo un’osmosi assoluta fra i corpi, ma anche fra i corpi e le cose, fra l’uomo e l’ambiente. La scossa elettrica stempera tutto in un unico colore, il bluastro, e il colore nel film è senz’altro il segno della porosità fra corpi e cose: il rosa fonde Betty (il golfino, il trucco) con il suo lenzuolo di morte, con le attrici in playback, con Rebekah del Rio, ma anche con Adam che, per danneggiare i gioielli della moglie fedifraga, rovescia nello scrigno un enorme barattolo di vernice fucsia imbrattandosi l’abito nero e da quel momento in poi presentandosi ovunque in quella mise. Le macchie rosa sono un segno della porosità del corpo isterico, che assorbe e riflette tutto quanto lo circonda: le isteriche della

Salpêtrière, in base al principio del movimento simulato e automatizzato del reticolo nervoso, noto come «trazione», imitavano anche le macchine fotografiche che le immortalavano. E in generale gli apparecchi di riproduzione tecnica nell’Ottocento rivitalizzano l’immaginario fluidifico mesmeriano, diventando la prova di questa osmosi: in un interessante saggio sul tema, Alessandra Violi ricorda uno scritto di Rilke (Suono originario, 1919) che paragona il solco tracciato dall’ago del fonografo sui cilindri rotanti di cera al solco di sutura cranica, impronta delle onde che il cervello ha captato e rilasciato. Scrive: Che cosa accadrebbe se cambiassimo direzione all’ago e lo dirigessimo nel suo viaggio di ritorno […] lungo una traccia che esistesse in sé naturalmente, […] per esempio lungo la sutura del cranio? Che cosa succederebbe? Ne deriverebbe necessariamente un suono, una serie di suoni, una musica…19

Rilke immagina di produrre in questo modo una musica originaria: la musica del cervello. Il playback del Club Silencio è una sorta di musica del cervello prodotta da un fonografo che scorre sui solchi cranici delle due donne, raccontando la loro tragedia. Nel film l’immaginario elettrico, isterizzante, ha un ruolo centrale anche in altre sequenze. L’incidente a cui Rita sopravvive è preceduto da un fascio di luce accecante che sovraespone il suo primo piano (in modo peraltro non realistico, dato che l’auto arriva da dietro e i suoi fari non possono essere direttamente puntati sul viso della donna sul sedile posteriore). La scena si ripete una seconda volta, quando Rita, stordita, comincia a vagare nei boschi intorno a Mulholland Drive rischiando di finire sotto un’altra auto, che nuovamente la investe con i suoi fari accecanti (figg. 9 e 10). Rita di fatto è morta, ma l’energia elettrica, che può rianimare la materia organica e inorganica, come il mito di Frankenstein ci ha insegnato, la riporta in vita. È questo il momento che Betty rivive con le convulsioni al Club Silencio: la morte di Camilla e insieme la sua resurrezione elettrica in automa; un’esperienza appunto vicina alla suggestione ipnotica, paradossale stato di attenzione passiva combinata a un’azione automatica in cui si vede il puro funzionamento della macchina nervosa interna al corpo. Anche il personaggio più fantasmatico del film, il cowboy, è legato al motivo dell’elettricità. Nel ranch surreale in cui incontra Adam, una lampadina si accende al suo arrivo e si spegne, come consumandosi,

alla sua uscita di scena. Il cowboy ha un particolare fisico: l’assenza di sopracciglia, tratto che da un lato lo collega, entro il cinema di Lynch, ad altre figure mefistofeliche, come il Mistery Man di Strade perdute, dall’altro accentua l’imperturbabilità della sua espressione, non esattamente minacciosa, semmai ipnotica: l’uomo non aggredisce ma blandisce Adam, ripetendo la frase suadente «Can you do that for me?» («Potrebbe farlo per me?») e intanto tenta di indurre in lui una sorta di riflesso condizionato suggerendogli le parole «This is the girl» («È lei la ragazza»). Adam le ripeterà sul set come in un atto automatico, che deriva appunto da un condizionamento ipnotico. L’elettrizzazione dei corpi è infine evidente anche nella scena iniziale del jitterbug, il ballo su cromakey rosa che apre il film. Un alone di luce inspiegabile macchia l’immagine alla fine dell’esibizione, quasi cancellando i lineamenti del volto di Betty, la vincitrice della gara. Qualcosa di simile succede nell’ultima sequenza, che ripropone i due primi piani delle attrici affiancati e sovraesposti alla luce, sullo sfondo della città di Los Angeles. Infine riappare vuoto il Club Silencio, e da ultimo la dama settecentesca con parrucca blu, che si anima dalla sua immobilità di cera e chiude il film con la parola «Silencio». Volto vistosamente truccato, automaticità corporea che la sospende fra il vero e il falso (donna o bambola, morta o viva), spettatrice ma anche regista di corpi che muoiono e risorgono: forse è lei l’archetipo di tutte le donne del film, il soggetto originario, mummificato, che le due protagoniste riportano in vita.

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Inland Empire di Andrea Bellavita Inland Empire1 pone un problema di tipo ermeneutico, perché la sua esistenza rimette in questione alcuni assunti di base del sistema filmico: lo statuto dell’immagine e il suo rapporto con la realtà rappresentata e quello spettatoriale. Inland Empire è il testo lynchano della crisi, che nasce dalla rottura dei due «patti» stretti, attraverso il suo cinema precedente, con lo spettatore: il patto della «bella forma» e quello della «comprensione». Il primo si definisce a livello estetico-sintattico: stabilito storicamente con Elephant Man e sublimato in due forme parallele di «bella forma», entrambe basate sul principio di piacere visivo: una che possiamo definire «classica», caratterizzata dalla linearità, dall’armonia, da una serenità estetica che apparentemente riflette quella psicologica dei personaggi (A Straight Story, Una storia vera, 1999), e una seconda più «barocca», segnata da un immaginario di sensualità e ricchezza (cromatica, di corpi, di soluzioni linguistiche), fatta di fratture e ricomposizioni, di provocazioni ed eccitamenti visivi (Mulholland Drive, 2001). Con Inland Empire si ritorna alla percezione difficile e disturbata di Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella, 1980)2. E non tanto per ciò che le immagini mostrano, quanto piuttosto per la superficie dell’immagine stessa (cioè le sue caratteristiche tecniche e iconiche): la passione di Lynch per la ripresa digitale con camera DV (una normalissima Sony PD 150) ha condotto l’immagine al grado zero della rappresentazione e della comprensione, sperimentando la possibilità di raggiungere la deformazione della visione senza passare attraverso una deformazione dell’oggetto. Alla ripresa del mostro (nani, giganti e storpi del circo lynchano) si sostituisce la ripresa mostruosa, in cui il nuovo statuto dell’immagine è quello della prossimità tra il punto di vista della ripresa e il suo oggetto, come passo per cogliere e insieme per deformare la realtà. Quasi che, avvicinandosi troppo al fuoco della visione, la mdp e lo spettatore rischiassero di bruciarsi (fig. 1). Alla categoria del piacere della visione (e della fruizione) si sostituisce quella del godimento. Il soddisfacimento delle attese dello spettatore lascia il posto a una pratica più complessa, in cui l’incontro con l’oggetto di godimento presuppone una messa in crisi dei sistemi valoriali e

interpretativi (in ottica barthesiana), o addirittura attiva una pulsione di morte come al di là del principio di piacere, una relazione con la dimensione mortifera del godere (in ottica freudiana e lacaniana). Produce insomma un «piacere doloroso», una sensazione contraddittoria di fascino e fastidio. Il secondo patto si definisce a livello semantico-narrativo, e implica non tanto la possibilità di trovare una spiegazione all’enigma del film (si pensi a Lost Highway, Strade perdute, 1997, e Mulholland Drive, ma anche a Twin Peaks), ma piuttosto la centralità e la salienza di una domanda di comprensione. Ovvero non importa che si trovi una soluzione all’enigma, ma che lo spettatore sia impegnato nella sua ricerca, fino, anche, al piacere della sconfitta, alla futilità della soluzione, alla subordinazione della conquista ermeneutica rispetto al lavoro interpretativo. Alla categoria di comprensione si sostituisce quella di «assorbimento»3, in cui lo spettatore è insieme liberato dall’impegno di una ricerca della chiave interpretativa e privato di una guida alla comprensione. La sostituzione delle categorie interpretative non è sufficiente a risolvere la crisi posta in atto dal film, che possiamo definire meglio facendo riferimento alla modalità dell’irrappresentazione, cioè della rappresentazione dell’irrappresentabile, di ciò che non può essere rappresentato. Inland Empire mette in scena la crisi del linguaggio filmico di fronte al tentativo di esplorare ciò che esorbita i codici di comprensione testuale: linearità e consequenzialità narrativa, corrispondenza attore-personaggio, leggibilità del livello sintattico, della costruzione dell’inquadratura e dei nessi causali del montaggio. Come leggere allora Inland Empire? La risposta passa per un’applicazione di alcune categorie interpretative della psicoanalisi lacaniana all’analisi formale e linguistica del testo filmico. Ciò che caratterizza il testo filmico lynchano è la facoltà di mettere in scena il non rappresentabile attraverso l’uso rigoroso del linguaggio cinematografico: non una sovversione, un annullamento della facoltà significante, ma al contrario una sorta di raffinazione, di sublimazione, che consente di sfiorare, toccare, intercettare l’eccedenza. Non una semplice distorsione delle regole del linguaggio filmico, una retorica dell’anti-forma linguistica, un’esibizione dell’errore e della frattura delle norme di composizione: al contrario si tratta di un uso particolarmente

consapevole del linguaggio stesso, di un uso «raffinato», che esplora i limiti sintattici e grammaticali dell’audiovisivo e che proprio lungo il margine, ai confini con l’incomprensibilità, incontra e sfiora nuove forme di espressione. È un uso che non saprei definire altrimenti, e in modo più efficace, di quanto Jacques Lacan fa a proposito di Joyce e dell’inglese, esprimendosi in questi termini: «lo scrive con una raffinatezza tale da arrivare a disarticolare quella lingua»4. Ci troviamo dunque di fronte a un «uso joyciano» del linguaggio filmico. Ciò che accade in Inland Empire è un incontro con l’irrappresentabile condotto attraverso la torsione del linguaggio, un incontro con qualcosa che trascende la rappresentazione5 della realtà fattuale o narrativa: quello che la psicoanalisi lacaniana descrive come un «incontro con il Reale». In questo senso Inland Empire descrive un’emersione del Reale, in quanto indicibile e irrapresentabile, che deve passare necessariamente attraverso una pratica linguistica. Ricercare l’emersione del Reale significa ricercare in che modo l’impiego del linguaggio specifico adottato per la produzione dell’immagine (in questo caso il linguaggio cinematografico) possa mostrare degli allentamenti, dei varchi, dei luoghi in cui le difese del Simbolico vengono aggirate. Non è questa la sede per approfondire diffusamente le prospettive di una psicoanalisi implicata al cinema, e quindi cerchiamo di tradurre immediatamente il lessico lacaniano in una forma più agevole all’analisi testuale del film. Ricercare le pratiche attraverso le quali il Reale può emergere tra le maglie del Simbolico, significa ricercare in che modo il linguaggio cinematografico, in particolar modo il suo livello sintattico, è in grado di consentire l’incontro con l’irrappresentabile. Ma significa anche stabilire la reversibilità di questo principio: che cioè l’irrappresentazione deve sempre passare attraverso una pratica linguistica, e non attraverso la sua negazione. Se a livello narrativo il film lavora sull’impossibilità/inutilità dello spettatore di dominare il testo, al contrario il livello sintattico può essere esplorato, scomposto, interrogato analiticamente, proprio per vedere in che termini il linguaggio viene usato e torto per raggiungere il suo effetto. CE L’HA UN SENSO INLAND EMPIRE?

Se la polisemia è ormai riconosciuta come la marca caratterizzante il cinema di David Lynch6, si tratta ora di stabilire un a priori ancora più radicale: ce l’ha un senso Inland Empire? Cioè, almeno, un senso di lettura, una traccia principale da seguire tanto nella fruizione spettatoriale quanto nell’analisi critica. La domanda ha una sua traduzione distesa: qual è la relazione tra i diversi mondi (e piani narrativi) che comprendono il testo? Due le possibilità: una relazione di «incassamento»7 secondo il modello Lost Highway-Mulholland Drive, in cui i diversi livelli del racconto sviluppano tra di loro delle relazioni ordinate e regolari, secondo un gioco di scatole cinesi o di contenimento a cerchi concentrici, secondo la modalità dell’eterno ritorno simbolizzata dalla figura del nastro di Moebius, secondo la contrapposizione binaria sonno/veglia o veglia/allucinazione. Oppure una relazione di «arborescenza»8, come cercheremo di argomentare qui. Nel primo caso il patto con lo spettatore rimane stabile, per quanto difficile: una stabilità fatta di slabbrature, ma circoscritte, riconoscibili, puntuali, dove la stessa presenza di una funzione destrutturante si rivela come la spia di persistenza di una macrostruttura garantita. In questo Inland Empire sarebbe assimilabile a Lost Highway e a Mulholland Drive, ed è possibile esercitarsi nella nobile arte di trovare una spiegazione al cinema di Lynch. Almeno una è così semplice da essere quasi banale: la Lost Girl è prigioniera di una sorta di maledizione narrativa (chiamiamola «radiodramma Axxon N.» o «film polacco 47»: poco importa), in cui subisce l’oppressione del Fantasma, e Sue/Nikki è il suo alter ego catartico che, attraverso la narrazione esorcizzante del film On High in Blue Tomorrows, riesce a liberarla. La macrocornice è evidente: la Lost Girl osserva Nikki/Sue in uno schermo televisivo, la Lost Girl ha interpretato una narrazione e, nel momento in cui Nikki uccide il Fantasma, lei può uscire dalla stanza e rincontrare marito e figlio. Nikki/Sue in questo modo avrebbe preso su di sé tutte le azioni/funzioni della Lost Girl (amore, tradimento, confessione, morte) e avrebbe salvato il suo alter ego. Il punto è che se davvero «le cose sono andate in questo modo», allora la differenza rispetto al passato risiede semplicemente in una complessificazione: Inland Empire è un puzzle scomposto più complesso di Lost Highway e Mulholland Drive. E per questo, paradossalmente, poco interessante. Ma forse Inland Empire è

davvero qualcos’altro, cioè il risultato di una modalità di produzione narrativa alternativa (l’assenza di una scrittura stabile prima delle riprese, il farsi progressivo del testo, la casualità del montaggio finale che si sostituisce alla causalità del progetto), insieme a una sperimentazione linguistica (l’uso del digitale). Certo è possibile ricondurre il film a una formula, anche perché la rinuncia all’interpretazione e il relativismo ermeneutico rappresentano una sconfitta dell’analisi al pari della sovrainterpretazione. Si può considerare la vicenda della Lost Girl come un frame a cornice, in grado di contenere e di fornire una giustificazione ai vari livelli interni che compongono il film, ma ciò che importa è la sua funzione di configurazione della realtà attraverso il racconto: non la relazione tra il racconto della Lost Girl e quelli interni, ma il fatto che la sua presenza (la sua funzione di spettatore interno: in fondo non fa altro che «guardare in televisione» una storia che forse ha interpretato in precedenza) renda necessaria l’esistenza di un racconto plurimo9. Sotto/dentro questa cornice si pone in atto un meccanismo che, più che a un incassamento o a una concentricità, rimanda a un differimento. Viene continuamente esplicitato che si sta raccontando una storia, e che la vicenda dei protagonisti viene differita nel prisma delle narrazione plurime e che non viene vissuta, né in quanto attori, né in quanto characters. E questo differimento viene dilatato in una specie di «catalogo» di forme narrative, che si sviluppa fin dalle prime sequenze: oltre alla forma dell’allucinazione (il Fantasma che incontra il «vecchio polacco» nella grande sala), abbiamo subito quella del racconto profetico del pazzo (la visita della Vicina10), la confessione come rinarrazione (quella della donna ipnotizzata, poi Doris moglie di Billy, all’agente). E naturalmente quelle canoniche della narrazione audiovisiva televisiva (in forma metatestuale: l’oggetto di visione della Lost Girl, la sitcom Rabbits, preesistente al film e realizzata dallo stesso Lynch) e cinematografica, entrambe caratterizzate dal cortocircuito realtà/finzione (la coppia primigenia Nikki/Sue-Devon/Billy, prima delle duplicazioni che costellano il film). Inland Empire, il testo filmico che nega lo statuto della narrazione, si offre dunque nelle prime sequenze come un campionario di narrazioni e sancisce il meccanismo della diffrazione narrativa, in cui tutto è raccontato attraverso un’altra storia11.

Dopo aver certificato questo passaggio dalla narrazione del film (raccontare una storia) alla narrazione nel film (raccontare il raccontare), che raggiunge il suo climax nelle scene allo stage 4, il film esplode e si dissolve, e noi possiamo assistere (assorbire) la deriva dei mondi paralleli, delle narrazioni stratificate e autonome12. Il fatto poi che tutte le storie si ricongiungano in una scena extra-diegetica (la soluzione del film non è l’incontro tra Nikki e la Lost Girl, ma l’incontro di tutto il cinema di Lynch con Nina Simone nei titoli di coda), rende semplicemente il procedimento metalinguistico trasparente. Ma la chiave originale del film, rimane la dimensione di «arborescenza» dei livelli narrativi, e non il disegno organico che li struttura, il modo in cui essi scorrono paralleli e sono reciprocamente permeati da una sorta di osmosi, in cui il senso è costantemente guidato (e quindi, anche, interrotto) nel suo fluire da due forze attive. A livello narrativo: partendo dall’affermazione (più volte ripetuta nel film: dalla Vicina a Nikki, dal Marito a Devon) che «tutte le azioni hanno delle conseguenze», i nessi di causa ed effetto scivolano da un piano all’altro e il peccato consumato in un livello (il tradimento di Nikki, quello di Sue, quello della Lost Girl) produce un’espiazione in qualche altro livello (le punizioni di Nikki, di Sue, della Lost Girl). A livello sintattico-linguistico: i differenti piani sono saldati fra di loro da alcuni punti di sutura iconico-linguistici, che costituiscono i rimandi, le ricorrenze, le ripetizioni, e che stabiliscono quello che chiameremo, il «modello del domino». I PUNTI DI SUTURA

È possibile allora leggere il tessuto linguistico e sintattico del film, per far emergere (come in una decantazione) le tracce di Reale, o di irrappresentazione, contenute. È una pratica innaturale, in cui l’agire dell’analista si allontana radicalmente da quella dello spettatore, al quale si lascia il godimento del testo. È una pratica disciplinata, che riparte dal riconoscimento di quelli che abbiamo definito come «punti di sutura»: la logica rifrattiva del personaggio e la «struttura a domino» del montaggio. La frantumazione del personaggio

La logica rifrattiva è ben esemplificata dalla frantumazione del personaggio di Nikki/Sue: non si tratta qui di stabilire una «mappa» dei personaggi, ma di far emergere delle pratiche trasformative. «Sicuramente esiste» una Nikki (Grace): sposata con un Marito geloso, impegnata come attrice nel film On High in Blue Tomorrows, visitata dalla Vicina e colpevole di un rapporto adulterino con Devon. La sua esistenza è sottolineata dalla nominazione costante: nella prima parte del film viene continuamente chiamata per nome (in quanto attrice) dal regista Kingsley, dal coprotagonista Devon e dalla conduttrice di talk-show Marilyn Levens, mentre nel sottofinale, il suo ritorno allo «stadio di Nikki» è sottolineato dal richiamo all’ovazione compiuto da Kingsley (che assolve la funzione enunciazionale di definire i personaggi del film): «Nikki Grace! Nikki Grace! Everybody: bravo!» La sua identità è imprescindibile dal nome: durante la scena di sesso con Devon (che apre, come in Lost Highway, l’entropia del racconto), chiede sconvolta che le venga restituito il suo nome, urlando: «It’s me: Nikki!», mentre già Devon ha incominciato a confonderla chiamandola Sue. Altrettanto «sicuramente esiste» la Sue/Susan (Blue) protagonista delle prime scene di On High in Blue Tomorrows (cioè di quelle provate prima del rientro di Nikki/Sue nel retro dello stage 4): di lei sappiamo che è sposata, ma non ne vediamo il marito, e che ha una storia con Billy. Poi abbiamo sicuramente una «Nikki/Sue confusa», che incomincia a sovrapporre i due livelli nelle scene che cercheremo di analizzare nel dettaglio. Dopo l’entrata nella Smithee House si definisce una «nuova Sue confusa», che ha completamente perduto coscienza di essere Nikki e ha aperto verso un altro mondo, nel quale «perde il nome» (nessuno la nomina nelle scene successive), fino alla scena della sua morte. Tutto ciò che accade dopo che la porta della Smithee House è stata aperta può essere considerato (livello polacco e allucinazioni a parte) come facente parte di On High in Blue Tomorrows, ma la dimensione metafilmica è simbolica più che diegetica. Così come sono simbolici e metaforici i tre livelli paralleli in cui Sue declina le sue azioni e la sua personalità: la «prima» vive con il marito alla Smithee House (interpretato dallo stesso attore del Marito di Nikki,

anticipato in flash allo stage 4, che afferma di essere sterile e che scappa con un circo di zingari polacchi), è remissiva e subisce le decisioni e le violenze dell’uomo senza reagire. La «seconda», indossa una canottiera a righe, frequenta il gruppo di prostitute fantasmatiche in una stanza della Smithee House, sperimenta il «buco nella seta», si ritrova in una strada polacca innevata, ed è al centro di una serie di allucinazioni e derive oniriche: funziona come elemento di collante tra i diversi mondi, è estranea alla diegesi, e infesta (non abita) la Smithee House, come un fantasma (al pari della Lost Girl nella sua camera d’albergo). La «terza» è quella che si confessa all’Uomo con gli Occhiali: racconta particolari coincidenti con la «prima» (ne è una derivazione anche diegetica, perché viene generata logicamente dopo l’incontro con Doris, moglie di Billy, la rivelazione che il marito è sterile, e l’incontro con il vicino Krimp-Fantasma, e di ognuno di questi eventi riporta una marca: il livido, i vestiti, il cacciavite), ma con una declinazione diversa, violenta, volgare, aggressiva. Ciascuna di queste diverse Sue viene in qualche modo assorbita dalla Sue che si ritrova sulla Walk of Fame, dotata di cacciavite, livido e frequentazione con le prostitute: l’ultima incarnazione si sdoppierà ancora (vedendosi agire dall’altra parte della strada), ritroverà l’Uomo con gli Occhiali (dando una paradossale interpretazione di flashforward a tutto quanto visto in precedenza), e poi andrà a morire sulla scena del film13. Quello che ci interessa ancora una volta non è costruire una mappa, ma sottolineare come, una volta esplicitata la rottura della relazione attore/personaggio, tutti i livelli si articolano secondo un regime osmotico che risponde a criteri di specularità e rifrazione, piuttosto che di contrapposizione e alternativa. La struttura a domino La relazione che stringe nel montaggio i diversi elementi narrativi non è di consequenzialità, e nemmeno di parallelismo: le sequenze, o le singole scene, funzionano come tessere del domino. Ciascuna è collegata alla precedente e alla successiva da una specie di vicinanza al limite, in cui soltanto i lembi della scena combaciano, ma il contenuto può rappresentare un ribaltamento o uno stacco

rispetto ai moduli visivi e narrativi adiacenti. C’è una relazione metonimica tra i vari livelli, che si congiungono per adiacenza fisica: ci sono dei corpi o degli oggetti che passano tra un mondo e l’altro, cioè tra una tessera di ripresa e l’altra. Gli snodi più importanti del film sono costellati da questa relazione fisicospaziale. Nel passaggio tra la camera della prostituta polacca (la prima sequenza narrativa del film, che inaugura la diegesi, dopo il radiodramma Axxon N.) e la prima epifania della Lost Girl (che inaugura le cornici), il tramite è il corpo nudo: entrambe sono nude, sedute su un letto, e si coprono il corpo con il vestito sfilato. In posa identica, occupano la stessa camera: il confronto tra i singoli frame (figg. 2 e 3) rivela che il letto, gli arredi, le lampade, sono gli stessi. La scena in cui Devon insegue Sue nello stage 4, si chiude con un pp di Nikki, e la successiva si apre con un altro pp analogo ma totalmente deformato. Nel passaggio di Sue dalla Smithee House alla strada innevata polacca, la donna si copre gli occhi con le mani, per poi riaprirli in modo speculare in un’altra dimensione. E anche il salto analogo e contrario (dalle prostitute sulla Walk of Fame a quelle polacche) si struttura intorno a un’identica continuità: pp di una prostituta, stacco su una seconda che guarda fuori campo e raccordo impossibile su un altro pp della prima prostituta, uguale al precedente, ma ambientato in un’altra dimensione. Nel passaggio dalla confessione di Doris all’agente alla scena girata di On High in Blue Tomorrows, il tramite è lo sguardo fuori campo a destra di un uomo, perfettamente sovrapponibile: l’agente prima (verso Doris), Billy poi (verso Sue), a disegnare un perfetto chiasmo di pp (Doris-agente-Billy-Sue). La stessa funzione può essere assolta dal livello sonoro acusmatico: fatto di echi, di note basse che rimbombano, di fruscii, di «dietro il suono», di fuori campo sonori, e spesso di un singolo elemento (una nota, un lamento) che passa da una scena/situazione, da una tessera, all’altra. Ogni passaggio nasconde crepe, diffrazioni, minime varianti: nella Smithee House, Sue cerca di telefonare in piena notte, ma si sente distintamente il suono della chiamata che cade. Risponde Jack

Rabbit e fuori campo Sue chiama «Billy!» (l’unica volta in cui viene evocato, dopo l’entrata di Sue nella Smithee House), provocando le risate registrate della sit-com. È più complesso di una semplice sostituzione (i Rabbits funzionano spesso come luogo di transizione): qui prima la chiamata cade, stabilendo che un rapporto con un certo mondo è impossibile, e poi ne parte una seconda, che noi vediamo ricevere da Rabbits. Come se Sue venisse deviata su Rabbits, perché è imprigionata (al pari della Lost Girl) nella Smithee House: possiamo ancora chiamarla Sue se vogliamo, ma il suo mondo non è più raggiungibile. LE LACERAZIONI DEL TESSUTO

Ma come entra Sue nella Smithee House? Scegliamo proprio questo passaggio (che in realtà si consuma ancor prima della metà del film) come luogo esemplare per descrivere la rappresentazione dell’irrappresentabile, l’emersione del Reale all’interno del Simbolico filmico. Ci limitiamo a costeggiare la Smithee House, fermandoci proprio sulla soglia. Attraverso due sequenze esemplari, che descrivono (pur non essendo adiacenti) l’apertura della soglia tra i due mondi e il suo varco: la sequenza in cui Devon insegue per la prima volta l’intruso sul fondo dello stage 4 e quella in cui l’intruso, Nikki/Sue, inseguita, riesce ad aprire la porta della Smithee House. Il buco nero del linguaggio La scena si apre con una contestualizzazione delle riprese del film: Nikki arriva allo stage 4, e la mdp si sofferma sulla copertina del copione, sul quale sono riportati il titolo, l’autore e la data di consegna («On High in Blue Tomorrows, by Lawrence Ashton, received 6 april 2005»). Arrivano Kingsley e Freddie e dopo i convenevoli del caso si siedono intorno a un tavolo per incominciare a provare la scena. Il regime dell’ambiguità esplode: la performance decontestualizzata rispetto al set, agita da due attori che siedono uno di fianco all’altro con in mano il copione aperto, apre a poco a poco a una interazione personale. Quando Devon chiede «piangi?» la sensazione è quella di una sovrapposizione immediata tra attore e personaggio: chi chiede? Devon o Billy? A Sue o a Nikki? E mentre

Nikki piange, nel momento di massimo climax, Freddie «sente un rumore». La domanda inopportuna di un personaggio inopportuno («cosa è stato?») si rivela fondamentale, perché frantuma tutte le illusioni filmiche: quelle del film On High in Blue Tomorrows, perché proprio sul picco emotivo della scena Freddie interrompe la magia del cinema, la relazione tra i due attori, l’alchimia della recitazione; quelle del livello più piano e narrativo di Inland Empire, perché proprio quando incomincia ad affiorare la relazione sentimentale tra Nikki e Devon mediata da quella di Sue e Billy, lui li interrompe; ma soprattutto le illusioni di una coesione e di una consequenzialità ordinata e stabile tra i vari livelli e le varie fasi narrative di Inland Empire. Da questo preciso momento, da quel «cosa è stato?», da quel rumore di fondo (e quante volte si sentiranno dei rumori di fondo nel film: da «click» che disturba Kingsley sul set, all’eco costante e ai fruscii di distorsione che segnano il livello audio acusmatico), l’intera linearità narrativa del film si scompone. Il primo livello a sfaldarsi è quello linguistico. Si alza Kingsley e poi Devon per «andare a vedere»: in questo modo costringono anche la mdp ad allargare il quadro su di loro, e rompono l’armonia elegante del piano ravvicinato costruito intorno ai quattro personaggi e dei campo/ccontrocampo tra Nikki/Devon e tra i due lati del tavolo (Nikki/Devon vs Kingsley/Freddie). Devon va a guardare e si muove verso il fondo dello stage, anticipato da una camera a mano all’indietro: è un’altra frattura, perché fino a questo punto la messa in scena aveva sempre mantenuto una forma stabile, lineare, senza i tentennamenti della ripresa manuale. Il digitale aveva espresso le sue potenzialità di deformazione del corpo e del volto attraverso la prossimità (nell’incontro tra Laura e la Vicina, la mdp si spinge così vicino ai volti da trasformarli in maschere grottesche), ma non era ancora stato così instabile: viene esplicitata una rottura del frame visivo e interpretativo, l’entrata della camera a mano fa percepire che qualcosa sta cambiando, e che stiamo entrando in un nuovo regime. In controcampo rispetto alla ripresa precedente, la camera a mano (in pseudosoggettiva di Devon) si avvicina verso il fondo, e poi, con un nuovo stacco, lo zoom ottico torna sul tavolo in cui gli altri aspettano: dopo i due punti di vista sporchi, questo ritorno alla ripresa pulita (lo zoom in avanti, veloce, lineare, immediato)

sottolinea ancora di più la differenza che si sta consumando tra i due mondi. A questo punto l’inquadratura va completamente a nero, Devon compare dal fuori campo a destra, sente dei passi ed esce fuori campo a sinistra lasciando ancora lo schermo nero. È la soluzione che Lynch adotta varie volte per definire il «varco della soglia”, fase di transizione tra mondi differenti descritta attraverso un buco nero diegetico: si intuisce come Devon sia passato dietro al tendaggio nero che si è visto in pseudosoggettiva, e pertanto lo schermo nero è diegetico e giustificato (secondo una spazialità diegetica), così come il suo attraversamento significa «soltanto» che si sta spostando da una zona in ombra a una di luce. Insieme però sappiamo bene che il passaggio in realtà è «di mondo» e che quel nero assoluto è un vero buco nero, secondo un procedimento che ritroviamo identico non solo in molte scene successive, ma in tutti gli snodi di passaggio tra mondi in Lost Highway e Mulholland Drive14. Siamo piombati in un buco nero del linguaggio, nel quale ci siamo fatti accompagnare da una raffinazione del linguaggio e del Simbolico. Sono questi buchi neri a costituire le soglie attraverso le quali il Reale emerge nel testo filmico. Luoghi eccezionali, differenti da tutti gli altri in cui al contrario Lynch mette in scena esplicitamente stati di allucinazione o di delirio (frequenti anche in Inland Empire). La «cornice» dei due buchi neri (quello da cui entra e quello che lascia) disegna il passaggio da un universo all’altro, anche perché «adesso» sappiamo benissimo che quei passi sono/saranno di Nikki/Sue. È chiaro che ciò a cui ci sta spingendo Inland Empire è una condizione paradossale della pratica dell’analisi del testo: la necessità di concentrare la nostra attenzione sui singoli luoghi del testo filmico (ai confini con l’analisi e la destrutturazione dei singoli fotogrammi), con il rischio di smarrire il disegno complessivo del film15. Ma quello che il film ci offre è una possibilità di superamento di questa impasse: nella definizione di questi luoghi così circoscritti del film (che sono prima di tutto «luoghi linguistici», condensazioni sintattiche di costruzione del senso), è nascosta la possibilità di dare vita all’irrappresentabile. Luoghi di densità linguistica, che siamo costretti a percorrere attraverso un’indagine serrata delle singole scelte di messa in scena, in cui il linguaggio viene «disarticolato» (secondo l’accezione lacaniana-joyciana), per

costruire delle aporie, delle apparenti contraddizioni, degli stati di spaesamento. Che si rivelano varchi per il passaggio da un livello all’altro: varchi di emersione del Reale. Avanzando nella sequenza, Devon raggiunge la facciata artificiale della Smithee House sul fondo dello stage: qui viene ripreso in primo piano da «dietro la finestra impolverata», in una sorta di soggettiva impossibile. Si ritorna in breve al regime diegetico «stabile»: Devon si muove dietro la facciata e «vede» che si tratta semplicemente di una finzione e che nessuno può essere passato attraverso la porta. Lo «vede» con un campo lungo su di lui e poi con una soggettiva lenta e insistita, per quanto turbata dall’ondeggiamento della mdp che era già nelle soggettive fantasmatiche di Mulholland Drive, e che tornerà costantemente nel film: come una distorsione, una specie di «giramento di testa» linguistico. Ad aspettarlo c’è un primo piano di Nikki: dal campo lungo l’uomo emerge dal buio e arriva fino al tavolo. Alla domanda «chi era?» risponde che «è scomparso dove era impossibile scomparire» (in originale very hard, quindi non «impossibile», ma «molto difficile», con più ironia). Adesso la camera è fissa, e aspetta l’avvicinamento di Devon, passo dopo passo, fino a ricostituire il quadro con Nikki, entrambi impegnati a guardare interrogativi Kingsley. Il ritorno sul set

Dopo il varco della soglia di Devon la linearità narrativa del film si è definitivamente sfilacciata e sullo schermo sono accadute molte cose, tutte pertinenti al tema del tradimento: la donna che riconosceremo come Doris, moglie di Billy, ha confessato a un agente di polizia di essere stata ipnotizzata da un uomo e costretta a uccidere una persona, il Marito di Nikki ha minacciato Devon, e soprattutto Devon e Nikki hanno consumato il loro adulterio. La messa in atto del tradimento (evocato dalla Vicina, dalla conduttrice del talk e dal Marito) funziona come un centro di forza destrutturante, che produce il cortocircuito narrativo e la sovrapposizione tra i mondi e i livelli: tutto il film non ruota che intorno al tema unico del tradimento e della colpa, che possiede una specie di incandescenza semantica in grado di far bruciare tutto ciò che lo circonda.

In un vicolo dietro lo stage 4 avanza Nikki/Sue, un sacchetto della spesa tra le braccia, in direzione di una macchina sportiva parcheggiata. Ci troviamo nel registro della pura indecidibilità: è Nikki o Sue, impegnata in una scena di On High in Blue Tomorrows? La borsa della spesa, il vicolo e l’automobile stringono una serie di riferimenti che abbiamo già trovato nel delirio della Vicina e in quello di Nikki a Devon: forse ci troviamo all’interno della scena che «è stata girata ieri, ma che sarà domani». L’abbigliamento della donna non offre elementi (a differenza di Devon, che si trasforma per diventare Billy, Nikki/Sue sono indistinguibili: il sottile gusto retrò del film diventa un vezzo per Nikki). Però: perché girare una scena di On High in Blue Tomorrows dietro allo stage 4, in un teatro di posa? E perché con una macchina così moderna (quella di Sue, nelle sequenze successive, sarà diversa, oltre che più «povera»)? Non è davvero importante o necessario decidere, perché da qui incomincia a marcarsi l’indecidibilità fra i due livelli. La camera è ondeggiante: lo stesso stile adottato per il punto di vista fantasmatico di Mulholland Drive, e così «aspetta» Nikki fino alla figura intera. Poi stacca sulla donna e, in raccordo sullo sguardo, sulla scritta Axxon N. (fig. 4) disegnata con calligrafia malferma sulla porta posteriore dello stage 4. Nikki/Sue, come ipnotizzata, entra: letteralmente, entra in Axxon N. (in un altro mondo, che si apre all’universo polacco), e insieme entra in un nuovo buco nero diegetico. È un buco nero molto grande (cioè molto lungo: dura più di 20”), ma anche facilmente spiegabile: Nikki/Sue entra dal pieno sole al buio interno del retro dello stage. Ma funziona ancora come un nuovo varco della soglia, e subito il livello video, come quello audio, viene interrotto dal «pop» di un flash, brevissimo, che illumina la scena e interrompe l’eco di fondo. Risulta quasi indefinibile, ma è una importante figura sintattica, un segno di interpunzione stabile, che si ritrova identico in Lost Highway: Lynch dimostra di avere una sintassi del passaggio interdimensionale e fra mondi. Il flash ha l’effetto di capovolgere il punto di vista: Nikki è entrata in soggettiva, è stata seguita dalla mdp a mano e dopo il flash viene «aspettata» da davanti, per comparire dal buio fuori fuoco e arrivare a fuoco in primo piano. Fuori campo sentiamo Nikki che, nella sequenza precedente, prova la scena con Devon e la mdp stacca sui quattro personaggi (Nikki, Devon, Kingsley e Freddie) seduti intorno al tavolo. Freddie «sente»

il rumore delle scarpe di Nikki/Sue e chiede «cosa è stato»? Tutto questo ci viene mostrato attraverso un punto di vista che non può essere quello della donna, perché si intravede una parte del suo corpo che si muove di fronte alla mdp (fig. 5): è una ripresa in oggettiva, o in soggettiva innaturale. La posizione è la stessa da cui Devon veniva «guardato» nella sequenza precedente quando si alzava per ispezionare il retro (fig. 6), ma l’inquadratura non è la stessa: l’intera scena è stata girata da due punti di vista diversi, vicini ma autonomi. Prima la camera era a mano, molto mobile, si allargava e arretrava, oppure zoomava in avanti, mentre adesso è fissa, e non coincide perfettamente. Siamo di fronte a un nuovo paradosso: Nikki ritorna a rivedersi, ma il suo punto di vista non è quello di chi “vedeva prima”. È più fisso e stabile (cinematografico, e in un certo senso finzionale, se assumiamo che la mobilità della mdp sia una forma sintattica della presenza e della prossimità, o almeno di una visione interna al film rispetto alla visione “del film”, dell’oggettiva) e non coincide né con la sua soggettiva, né con la precedente soggettiva fantasmatica. La mdp stacca sul primo piano di Nikki/Sue, poi va in campo lungo sui quattro al tavolo, e Devon si alza per «andare a vedere»: questa volta la camera è fissa ed è Devon a venirle incontro. Ancora in campo/controcampo tra il primo piano di Nikki/Sue e la figura intera di Kingsley e Freddie: non solo non c’è più Devon, ma non c’è nemmeno Nikki (fig. 7), come se la Nikki seduta che provava la scena fosse stata assorbita da questa nuova, e Kingsley adesso la guardasse recitare. La donna vede la propria assenza e, turbata, corre verso il fondo dello studio, verso la Smithee House, inseguita da Devon (che chiama ripetutamente «Billy!») e dall’immagine fantasmatica del marito che compare nel riquadro di una finestra. Il passaggio di mondo si è compiuto: la donna non scappa più da Devon, ma dal marito, non è più Nikki, ma Sue: sconvolta gira la maniglia e la porta si apre. Sue si ritrova dentro (fig. 8): ma che cosa/chi è diventata? Il film ricomincia.

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Note al testo Paolo Bertetto Il cinema di David Lynch. L’enigma e l’eccesso 1 Si vedano le riflessioni più rigorose di Nietzsche: «È di radicale importanza che si

abolisca il mondo vero … Guerra a tutti presupposti in base ai quali si è creata la finzione di un mondo vero». E: «Il mondo … non esiste come mondo in sé». F.W. Nietzsche, Frammenti postumi 1888/89, in Id., Opere, trad. it. Milano, Adelphi, vol. VIII, t. 3, pp. 71 e 70. 2 G. Deleuze, L’immagine-tempo, trad. it. Milano, Ubu, 1989 (ed.or. 1985). 3 J. Kristeva, La Révolte intime, Paris, Fayard, 1997, p. 262. 4 P. Handke, Il mondo interno dell’esterno dell’interno, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1980. 5 La produzione di un film come Eraserhead è d’altronde un evento assolutamente

particolare, anche nell’ambito del cinema indipendente americano e meriterebbe un’ampia descrizione, che qui non è possibile fare. 6 Sul mondo culturale di Lynch si veda il libro intervista di Ch. Rodley, Lynch secondo

Lynch, trad. it. Milano, Baldini e Castoldi, 1997 (ed. or. 1997). 7Su Mulholland Drive si veda P. Bertetto, L’analisi interpretativa. “Mulholland Drive” e

“Une femme mariée”, in Id. (a cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006. 8 F.W. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, trad. it. Id., Opere, vol. VI, t. 3, Milano, Adelphi. 9 P. Ricoeur, Tempo e racconto, 3 voll.,trad. it. Milano, Jaca Book, 1986-88 (ed. or. 1983-

85). 10 Sul figurale si veda innanzitutto il saggio di J.F. Lyotard, Discorso figura, trad. it. Milano,

Unicopli, 1998 (ed. or. 1971). Sul figurale e il cinema si veda P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007. 11 In questa prospettiva si veda il concetto di immagine cristallo in Deleuze, L’immagine

tempo, cit. 12 Ricoeur, Tempo e racconto, cit. 13 A. Damasio, L’errore di Cartesio, trad.it. Milano, Adelphi, 1994 (ed. or. 1995). 14 M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Milano, Bocca, 1953 (ed. or. 1927); J.P. Sartre,

L’Essere e il nulla, trad.it. Milano, Il Saggiatore, 1965 (ed. or. 1943). 15 In Lynch confluiscono due percorsi dell’eccesso. Da un lato la sperimentazione sull’eccesso e la dépense del pensiero francese e dell’avanguardia eterodossa, da Bataille ad Artaud al surrealismo, ripresa poi variamente da Lyotard, da Deleuze, e da DidiHuberman. Dall’altro il modello del tutto diverso del family melodramma del cinema americano (si vedano a proposito T.H. Elsaesser, Storie di rumore e di furore. Osservazioni sul melodramma familiare, trad. it. in Forme del melodramma, a cura di A. Pezzotta, Roma, Bulzoni, 1992, e V. Pravadelli, La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Venezia, Marsilio, 2007). Lynch realizza una straordinaria sintesi tra i due modelli. 16 G. Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic

Aesthetic, New York, Columbia U.P., 1988, M.A. Doane, Donne fatali, Parma, Pratiche, 1995, Ch. Metz, Cinema e psicanalisi, trad. it. Venezia, Marsilio, 1980 (ed. or. 1977).

Marco Giallonardi Eraserhead. La mente che cancella 1 Per una breve sinossi del film: Henry Spencer è un tipografo che vive solitario in una

stanzetta di un condominio. Invitato a cena dai genitori di Mary, la sua fidanzata, Henry apprende che Mary ha dato al mondo un bimbo prematuro, di cui lui dice di non essere il padre. Nonostante ciò, è costretto ad accudirlo in casa, dove lo raggiunge anche Mary. I pianti della creatura impediscono a Mary di dormire, spingendola a fuggire dall’appartamento. Henry resta perciò solo con il figlio, nel frattempo ammalatosi. Costretto in casa, Henry osserva nel teatrino che si trova nel suo termosifone la danza di una donna sfigurata, che schiaccia lunghi vermi precipitati dal soffitto. Nel frattempo, la sensuale vicina chiede a Henry di passare la notte insieme: i due si accoppiano nel letto, divenuto una vasca piena di liquido bianco. Subito dopo Henry finisce all’interno del teatrino posto nel radiatore, dove cerca invano un contatto con la donna sfigurata. La testa di Henry si stacca dal corpo e precipita in strada; qui viene raccolta da un ragazzino e portata in una fabbrica dove, dal suo cervello, viene tratta la materia per la gomma da cancellare delle matite. Insofferente per i pianti del figlio, Henry taglia le garze che lo ricoprono e infierisce con le forbici sulle sue interiora: la testa della creatura diviene enorme e fluttua nell’aria. Il pianeta visto nel prologo implode. Nel bianco, Henry abbraccia la donna sfigurata, sereno. 2 Per un’interpretazione psicoanalitica del film si vedano M. Nochimson, The Passion of

David Lynch. Wild at Heart in Hollywood, Austin, University of Texas Press, 1997, pp. 151165; S. Schneider contenuto nella raccolta The Cinema of David Lynch. American Dreams, Nightmare Visions, London, Wallflower Press, 2004, pp. 5-18; K.G. Godwin in «Film Quarterly», vol. XXXIX, n. 1, autumn 1985. 3 Sui punti di vibrazione (o di ignizione) e le latenze del testo filmico si veda P. Bertetto (a

cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 210-211 e 225-226 (in particolare). 4 Per una ricostruzione delle vicende produttive del film si vedano: C. Rodley, Lynch On

Lynch, London-Boston, Faber & Faber, 1997; G. Andrew, Stranger Than Paradise. Maverick Film-makers in Recent American Cinema, London, Prion Books, 1998; P.A. Woods, Weirdsville USA. The Obsessive Universe of David Lynch, London, Plexus, 1997. 5 Tra le note poste a margine del capitolo su Eraserhead, la Nochimson offre il proprio

personale ma decisivo punto di vista sulla questione: «È vero che, come è stato detto, alle persone che lavoravano al film era stata fatta giurare segretezza. Ma io credo che il rifiuto dell’informazione non nasconda nulla di bizzarro o strano; è un altro esempio, come il pettirosso alla fine di Blue Velvet, del desiderio di Lynch di proteggerci dalla nostra stessa tendenza a ridurre ogni cosa a una spiegazione logica. Sapere che si tratti di un dispositivo meccanico non ha, in ogni caso, diminuito il mio stupore». 6 Il riferimento è a un passaggio di Michel Chion su Lynch, poi ripreso da molti studiosi

dell’opera del regista, soprattutto italiani: M. Chion, David Lynch, Paris, Editions de l’Etoile, 1992 [1997], cap. 1, § 20. 7 Cfr. D. Dottorini, Il cinema del sentire, Recco (GE), Le Mani, 2004, p. 48. 88 Per un quadro generale degli interventi brevi sul film si vedano almeno: S. Kaganski in

«Les Inrockuptibles», n. 58, 1994; J. Rosenbaum in «Cahiers du Cinema», n. 322, aprile 1981; S. Seban in «Soho Weekly News», 20/10/1977; L. Stefanoni in «Cineforum», n. 212, marzo 1982. 9 Cfr. «CinéFantastique», vol. 4, n. 4-5, sett. 1984. 10 Cfr. Rosenbaum in «Cahiers du Cinema», cit. 11 Cfr. Chion, David Lynch, cit., e Rodley, Lynch On Lynch, cit.

12 Nel suo volume su Lynch, Riccardo Caccia utilizza l’espressione ossimorica «soggettive

senza soggetto» per descrivere i suadenti movimenti di macchina in Mulholland Drive; pare adattarsi molto bene anche per descrivere i travelling di Eraserhead (Cfr. R. Caccia, David Lynch, Milano, Il Castoro, 2004). 13 Durante l’intervista di Chris Rodley, Lynch viene spinto verso questa possibile interpretazione, ma come sempre rimane fastidiosamente reticente a dare spiegazioni, dichiarando di «non saperlo»; sollecitato dall’intervistatore su dove si trovi il punto di vista del film, Lynch risponde: «Non saprei nemmeno cosa dire in proposito. Probabilmente se scrivessi lo farei in prima persona, oppure in terza… Non lo so, è così e basta!» (Cfr. Rodley, Lynch On Lynch, cit., p. 108 [ed. italiana]). 14 Termine americano per definire ritmo, sovente utilizzato dal regista per giustificare la

lentezza dei suoi lavori. 15 Sul concetto di fuori campo assoluto in Lynch, si veda ancora Dottorini, Il cinema del

sentire, cit. 16 L’autore ne discute approfonditamente con Rodley nella lunga intervista già citata: cfr.

Rodley, Lynch On Lynch, cit., p. 87. 17 Cfr. Chion, David Lynch, cit., pp. 56-57. 18 Cfr. Godwin in «Film Quarterly», cit.

Ofelia Catanea Velluto blu 1 In seguito al ritrovamento di un orecchio umano nascosto in un prato, il giovane Jeffrey

Beaumont decide di imbarcarsi in un’indagine personale per scoprire quali misteri si celano dietro allo strano reperto umano. Aiutato da Sandy, la figlia del commissario di polizia, Jeffrey riesce a introdursi nella casa della misteriosa cantante di nightclub Dorothy Vallens, in qualche modo, ancora oscuro, legata all’orecchio reciso. Egli scopre così che la donna è ricattata e molestata da Frank, un criminale folle e drogato che tiene in ostaggio il figlio e il marito di Dorothy, cui l’orecchio appartiene. La volontà di Jeffrey di proteggere e aiutare la donna si trasforma in desiderio e attrazione e i due intrecciano una breve relazione, ma ben presto Frank si accorge dell’intrusione e il triangolo Jeffrey-Dorothy-Frank degenera in una spirale di perversione e violenza che culmina con la morte di Frank per mano di Jeffrey. Solo la giovane e innocente Sandy sembra poter garantire a Jeffrey la promessa di un amore salvo da pericoli ed eccessi. 2 Michael Atkinson, Blue Velvet, London, BFI, 1997. Traduzione a cura dell’autore del

saggio. In seguito, tutte le traduzioni da testi sprovvisti di edizione italiana sono da considerarsi a opera dell’autore di questo saggio. 3 Atkinson, Blue Velvet, cit., p. 76. 4 Yvonne Tasker, Working Girls. Gender and Sexuality in Popular Cinema, New York-

London, Routledge, 1998, p. 124. 5 Fred Pfeil, Home Fires Burning: Family Noir in Blue Velvet and Terminator 2, in J. Copjec

(a cura di), Shades of Noir, New York-London, Verso, 1993, p. 231. 6 Per un’introduzione all’argomento molto dibattuto della definizione di cinema

postclassico, cfr. Thomas Elsaesser, Warren Buckland, Studying Contemporary American Film. A Guide to Movie Analysis, London, Arnold, 2002, e David Bordwell, The Way Hollywood Tells It. Story and Style in Modern Movies, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 2006.

7 Paolo Bertetto, Analisi come interpretazione. Ermeneutica e decostruzione, in Id. (a cura

di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 195. 8 Cfr. Gilles Deleuze, Presentation de Sacher-Masoch. Le froi et le cruel, Paris, Minuit, 1967

(trad. it. Il freddo e il crudele, Milano, SE, 1996) e Gaylyn Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, New York, Columbia University Press, 1988. 9 Brian Massumi, Parables for the Virtual. Movement, Affect, Sensation, Durham, Duke

University Press, 2002, p. 32. 10 Ibidem, p. 33. 11 Per una lettura edipica di Velluto blu cfr. Atkinson, Blue Velvet, cit., e Pfeil, Home Fires

Burning, cit. 12 Per il concetto di abiezione, cfr. Julia Kristeva, Pouvoirs de l’horreur. Essai sur

l’abjection, Paris, Éditions de Seuil, 1980 (trad. it. Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Milano, Spirali Edizioni, 1981). 13 Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., p. 45. 14 Per un’introduzione alla Feminist Film Theory e alla sua vasta bibliografia, cfr. Veronica

Pravadelli, Feminist Film Theory e Gender Studies, in Bertetto, Metodologie di analisi del film, cit., p. 102. 15 24 inquadrature di cui 22 in alternanza di campo-controcampo, la 23esima prolungata

fino alle figure intere di Jeffrey e Dorothy che si dirigono verso il divano e la 24esima in piano ravvicinato in cui Dorothy è stesa sopra Jeffrey in piano americano, mentre lo bacia con trasporto, pur continuando a minacciarlo con il coltello. 16 Atkinson, Blue Velvet, cit., p. 49. 17 Cfr. ancora una volta, Atkinson, Blue Velvet, cit., Pfeil, Home Fires Burning, cit. I testi di

questi due autori suggeriscono delle interpretazioni sorprendentemente analoghe del film, partendo comunque da punti di vista diversi. 18 Leopold von Sacher-Masoch, Cose vissute, in «Revue Bleue», 1888; ora in Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., pp. 152-153. 19 Ibidem. 20 Ibidem. 21 Cfr. L. Von Sacher Masoch, Venere in pelliccia, Milano, ES, 1993. 22 Nick Mansfield, Masochism. The Art of Power, Westport, Praeger, 1997, p. 8. 23 Slavoj Zizek, The Plague of Fantasies, Verso, London-New York, 1997 (trad. it. L’epidemia dell’immaginario, Roma, Meltemi, 2004, pp. 98-99). 24 Cfr. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit. 25 Cfr. Kristeva, Poteri dell’orrore, cit. 26 Cfr. a proposito il fondamentale lavoro di Studlar, In the Realm of Pleasure, cit., in

particolare il capitolo 6. 27 Ivi, p. 136. 28 Studlar, In the Realm of Pleasure, cit., p. 137, cita L. Williams, Figures of Desire,

Urbana, University of Illinois Press, 1981, p. 72. 29 Studlar, In the Realm of Pleasure, cit., pp. 138-139.

Enrico Carocci Fuoco cammina con me 1 Ch. Rodley, Lynch secondo Lynch (1997), Milano, Baldini&Castoldi, 1998, pp. 223 e 251.

Al capitolo relativo rimandiamo per una ricostruzione degli eventi che accompagnarono le vicende produttive della serie, dalla collaborazione con Mark Frost al crescente distacco da parte di Lynch dal progetto complessivo. 2 La serie stessa è stata oggetto di analisi e interpretazioni varie, alcune delle quali illuminanti anche per il film; per avere un’idea dell’ampiezza delle prospettive possibili si vedano almeno: «Literature/Film Quarterly», 4, 1993 (Twin Peaks); alcuni numeri speciali di «Générations Séries» (2, 1992; 3, 1992; 1 h.s., 1994); D. Lavery (ed.), Full of secrets. Critical approaches to Twin Peaks, Detroit, Wayne State University Press, 1995. Si vedano anche: M. Gheude, Twin Peaks: le cercle interdit, in «Trafic», 30, 1999; «Éclipses», 34, 2002 (David Lynch, l’écran omnivore); G. Astic, Twin Peaks. Les laboratoires de David Lynch, Pertuis, Rouge Profond, 2005. Sulla centralità di Twin Peaks nella storia delle forme narrative televisive si veda K. Thompson, Storytelling in Film and Television, Cambridge-London, Harvard University Press, 2003 (dove si attribuisce alla serie lo statuto di art television; ringrazio Veronica Pravadelli per la segnalazione). 3 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani (1980), Roma, Castelvecchi, 2006, pp. 34 ss. 4 Stato di Washington. Gli agenti dell’FBI Chester Desmond e Sam Stanley indagano

sull’omicidio di Teresa Banks, una giovane prostituta. Le indagini hanno luogo a Deer Meadow, una cittadina poco ospitale dove nessuno sembra aiutare di buon grado i due agenti. Dopo aver ottenuto il trasferimento del cadavere gli agenti si separano e Desmond, rimasto solo, sparisce in circostanze misteriose. Philadelphia. Presso gli uffici dell’FBI Gordon Cole e Dale Cooper assistono all’apparizione di un agente scomparso da anni, Phillip Jeffrey. L’uomo parla di universi misteriosi abitati da strane creature ma, giunto a metà del suo racconto, sparisce nuovamente. Non è chiaro se sia mai apparso; ma, in compenso, gli agenti ricevono la notizia della sparizione di Desmond. A questo punto Cooper prende in mano il caso; ma, come racconta al registratore Diane, le indagini sembrano aver portato a un vicolo cieco. Twin Peaks. Laura Palmer e l’amica Donna si recano a scuola, dove Laura incontra James, teneramente innamorato di lei, e Bobby, l’amante che le procura la cocaina. Tornata a casa, Laura scopre due pagine strappate dal suo diario segreto; impaurita, si reca da Harold Smith per affidargli il diario che ormai, in casa Palmer, sembra non essere più al sicuro. Gli racconta di essere posseduta fin dall’età di dodici anni da Bob, un amante misterioso che entra in casa sua dalla finestra. Nel frattempo, a Philadelphia, Cooper sembra prevedere chi sarà la futura vittima del killer di Teresa. Laura, che lavora come cameriera, torna a casa dietro il suggerimento di due strane creature (i Tremond); lì trova Bob intento a frugare dietro il mobile che nasconde il diario: fugge impaurita ma quando, nascosta nel giardino, alza lo sguardo verso l’ingresso della casa, ne vede uscire il padre Leland. La sera i due hanno una lite; in seguito Laura appende nella sua stanza un quadro regalatogli dai Tremond, raffigurante una porta socchiusa. La notte sogna di entrare, tramite quella soglia, in un’altra dimensione. La sera successiva Laura, seguita a distanza da Donna, si reca al Roadhouse, il locale di Jacques presso cui si prostituisce. Insieme a due clienti e a Donna, che tenta invano di allontanare, si reca in un locale in Canada dove, tra l’altro, incontra l’amica Ronette Pulaski che le parla dell’amica Teresa Banks, uccisa perché ricattava un misterioso cliente. Il giorno dopo Laura e Leland sono insieme in automobile e ricevono un’inquietante premonizione da parte di Mike. I due, spaventati, hanno un lungo colloquio. Flashback di Leland: le ragazze che Teresa aveva invitato per un’orgia voluta da Leland erano Laura e Ronette. Leland fugge via e, in seguito, uccide Teresa. Lentamente Laura comprende il legame tra Leland e Bob, e scopre di essere vittima di incesto. La sera, dopo

aver dato l’ultimo addio a James, Laura partecipa a un’orgia con Jacques, Leo e Ronette. Le due ragazze, legate e poi abbandonate, vengono ritrovate da Leland, che le trascina presso un vecchio vagone dove uccide Laura. Nell’ultima scena Laura, finalmente serena, è con Dale Cooper nella Stanza Rossa, dove le appare un angelo. 5 M. Chion, David Lynch (1992), Torino, Lindau, 20002, p. 175. 6 Una scansione di questo tipo è stata fatta, per il film come per la serie: cfr. ad es.

l’appendice D in Lavery (ed.), Full of secrets, cit., pp. 204 ss. Gli eventi del film sono suddivisi in tre grandi blocchi, introdotti da cartelli: (1) il macrosegmento «Teresa Banks», che mostra le indagini degli agenti Desmond e Stanley sull’omicidio che anticipa oscuramente quello di Laura; (2) «Philadelphia», che comincia con l’indicazione della data e dell’ora, e che sposta l’azione negli uffici dell’FBI, dove Dale Cooper viene a conoscenza della sparizione improvvisa di Desmond e comincia a occuparsi del caso ancora irrisolto; (3) «One year later», che si apre sull’inquadratura del noto cartello di benvenuto a Twin Peaks (indicando così immediatamente, accanto alla determinazione temporale, quella spaziale): l’intera vicenda si concentra su Laura e, a partire da qui (è il 16 febbraio), si dispiega fino alla notte del 23 febbraio, data dell’omicidio. 7 Alcune delle interpretazioni più significative del film – spesso considerato alla stregua di

uno dei molti paratesti della serie, e nel complesso poco studiato – sono contenute in monografia. Segnaliamo in particolare Chion, David Lynch, cit.; M. Nochimson, The Passion of David Lynch. Wild at Heart in Hollywood, Austin, University of Texas Press, 1997; D. Hughes, The Complete Lynch, London, Virgin Books, 2001; P. Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Pisa, ETS, 2006; cfr. anche O. De Bruyn, Twin Peaks. De l’autre côté du miroir, in «Positif», 431, 1997; H. Aubron, David Lynch et l’enfer des images, in «Trafic», 30, 1999. 8 La nozione di insorgenza del colore come evento visuale è introdotta in J. Aumont,

L’occhio interminabile. Cinema e pittura (1989), Venezia, Marsilio, 1991; sull’insorgenza come figura dell’esposizione cromatica si veda soprattutto L. Venzi, Il colore e la composizione filmica, Pisa, ETS, 2006. 9 Sul superamento della narrazione per estrazione o isolamento, nella direzione di una

logica della sensazione che tende a esaltare i valori del ritmo come potenza, cfr. G. Deleuze, Francis Bacon. Logica delle sensazione (1981), Macerata, Quodlibet, 1995. 10 La dimensione sonora contribuisce naturalmente alla creazione di questo effetto,

attraverso quello che Chion definisce punto di sincronizzazione, momento saliente dovuto a una accentuazione dell’effetto di sincresi (cioè «la saldatura inevitabile e spontanea che si produce tra un fenomeno sonoro e un fenomeno visivo puntuale quando questi accadono contemporaneamente»): attraverso la doppia cesura audio e video, infatti, la messa in scena intensifica ulteriormente il senso di interruzione dovuto a un colpo di spranga che noi, di fatto, non vediamo (M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema (1990), Torino, Lindau, 1997; si vedano, in generale, le pp. 55-60). 11 J.-F. Lyotard, Discorso, figura (1971), Milano, Unicopli, 1988. Si vedano almeno, sul

concetto di figurale nel cinema: J. Aumont, A quoi pensent les films?, Paris, Séguier, 1996; F. Aubral, D. Chateau (sous la dir. de), Figure, figural, Paris, L’Harmattan, 1999; P. Bertetto, Il figurale tra cinema e letteratura, in I. Perniola (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Venezia, Marsilio, 2002. 12 P. Bertetto, La figurazione e la visualizzazione nell’immagine filmica, in L. De Franceschi (a cura di), Cinema/pittura, Torino, Lindau, 2003, pp. 61 e 55. 13 Cfr. Deleuze, Francis Bacon, cit., pp. 103 ss. 14 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916-17), in Id., Angelus

Novus, Torino, Einaudi, 1995 («…la lingua non è mai soltanto comunicazione del

comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile», p. 69). Il film è disseminato di simboli di questo tipo, dall’anello agli alberi della foresta; a questo statuto giungono talvolta anche oggetti quotidiani che non si danno immediatamente come apparizioni (il ventilatore, la zuppa di cereali). 15 P. Bertetto, L’analisi interpretativa. “Mulholland Drive” e “Un femme mariée”, in Id. (a cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 225. 16 L’interpretazione, in questo senso, arricchisce l’analisi attraverso una messa in gioco

forte del soggetto interpretante, «contro il pensiero assiologico e universalistico e contro i procedimenti di deduzione gerarchica del senso» (laddove «il circolo ermeneutico […] pratica un esercizio di interpretazione che propone una intuizione e quindi una precomprensione sottoposta immediatamente a una verifica di pertinenza testuale»): cfr. Bertetto, L’analisi come interpretazione. Ermeneutica e decostruzione, in Id. (a cura di), Metodologie di analisi del film, cit., p. 218. 17 G. Didi-Huberman, Ninfa moderna (2002), Milano, Il Saggiatore, 2004, p. 119. 18 Bertetto, L’analisi come interpretazione, cit., p. 220. 19 S. Freud, Il perturbante (1919), in Opere 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, Torino,

Bollati Boringhieri, 1989. 20 J.L. Schefer, L’uomo comune del cinema (1980), Macerata, Quodlibet, 2006. 21 La sequenza dei titoli di testa, in questo senso, mette in scena proprio il passaggio

traumatico tra l’indugiare sulla soglia del non comunicabile e l’irruzione violenta della forza che su essa premeva, che costituisce il movimento fondamentale del film. Si pensi alla sequenza in cui Laura scopre Leland nel suo letto, e al movimento che la caratterizza: dall’attesa estatica dell’amante misterioso (segnalato da una luce azzurra diffusa che è come la versione ammorbidita di quella dell’effetto neve) all’interruzione brusca dovuta alla comparsa improvvisa del primo piano di Leland. 22 L. Marin, Rappresentazione e simulacro (1978), in Id., Della rappresentazione, Roma,

Meltemi, 2001, pp. 150 e 153. 23 Cfr. a questo proposito M. Vass, Cinematic Meaning in the Works of David Lynch.

Revisiting Twin Peaks: Fire Walk With Me, Lost Highway, and Mulholland Drive, in «CineAction», 67, 2005. 24 Rimandiamo, sulle implicazioni teoriche dell’argomento, allo studio di V. Stoichita, Cieli

in cornice. Mistica e pittura nel Secolo d’Oro dell’arte spagnola (1995), Roma, Meltemi, 2002, in cui l’analisi dell’arte spagnola della Controriforma finisce per diventare riflessione su «un caso-limite della rappresentazione pittorica occidentale», tra paradossi e retoriche che costituiscono un’esteriorizzazione dell’irrappresentabile, «il punto d’incontro tra esperienza-limite e rappresentazione-limite» (p. 241). 25 S. Zizek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica (2000), Milano, Cortina,

2003, pp. 64 e 65. 26 Ibidem, p. 66. 27 Si veda a proposito G. Deleuze, Logica del senso (1969), Milano, Feltrinelli, 2005. 28 Cfr. J.-L. Nancy, All’ascolto (2002), Milano, Cortina, 2004, p. 23. 29 Zizek, Il soggetto scabroso, cit., pp. 71-72. Sul concetto di Reale in Lacan si veda almeno J. Lacan, Il simbolico, l’immaginario e il reale (1953), in Id., Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Torino, Einaudi, 2006. 30 Bisogna ricordare che se, in Lacan, il Reale si dà come inattingibile, queste parole di Zizek andranno intese a partire dall’altra nozione, specificata altrove dallo studioso sloveno, di Reale-immaginario – che consiste, in breve, in una versione non simbolizzata

dell’immaginario stesso («quando l’efficacia simbolica viene sospesa, l’Immaginario precipita nel Reale», Il soggetto scabroso, cit., p. 476). Sulla nozione di Reale-immaginario, che rimette in discussione l’idea lacaniana di Reale come impossibile, si veda anche S. Zizek, G. Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo (2004), Bari, Dedalo, 2006, pp. 79-106.

Andrea Minuz Strade perdute 1 Fred Madison, sassofonista che vive con la moglie Renee, è informato al citofono della

morte di un certo Dick Laurent. Nonostante vada prontamente alla finestra, non riesce a vedere chi sia stato a recapitargli il messaggio. Nei giorni seguenti la coppia comincia a ricevere delle videocassette anonime in cui una telecamera mostra di potersi introdurre nella loro abitazione, fino a coglierli nell’intimità del sonno. Spaventati i due si rivolgono alla polizia, la quale non riesce a trovare spiegazioni logiche. Arriva una nuova videocassetta che ritrae Fred accanto al corpo smembrato della moglie. Arrestato per omicidio, Fred è condotto in carcere. Mentre è in cella, un’improvvisa mutazione gli fa assumere le sembianze di un altro. La polizia, sgomenta, ricostruisce l’identità del «nuovo» inquilino della cella. Si tratta di un giovane meccanico di nome Pete, totalmente estraneo alla vicenda di Fred e Renee. Pete viene liberato e riprende il suo lavoro. Il ragazzo è molto stimato da un boss di nome M. Eddy, il quale si fida ciecamente delle sue abilità di meccanico. Alice, la ragazza di Mr Eddy (praticamente una copia di Renee, ma bionda) seduce Pete, e i due intrecciano una pericolosa relazione alle spalle del boss. Progettano un colpo per poi scappare con il bottino, decidendo di rapinare Andy, vecchia conoscenza di Alice, nell’epoca in cui era entrata a far parte di un losco giro di pornografi, gestito peraltro da Mr Eddy. Durante il colpo Andy resta ucciso e Pete e Alice si danno alla fuga verso il deserto. Mentre fanno l’amore, al posto di Pete riappare improvvisamente Fred. Questi scopre Mr Eddy, alias Dick Laurent, in compagnia di sua moglie Renee. Ucciso Dick Laurent, Fred torna a casa e, premuto il tasto del citofono, ripete il messaggio «Dick Laurent è morto». Poi fugge in auto inseguito dalla polizia. 2 Si rinvia innanzitutto alla recente monografia dedicata al film da Enrico Carocci,

Tormenti ed estasi. «Strade perdute» di David Lynch, Torino, Lindau, 2007. Vedi anche, S. Zizek, The Art of Ridicolous Sublime. On David Lynch’s Lost Highway, Seattle, University of Washignton Press, 2000, e il libro (alquanto discutibile) di G. Astic, Le Purgatoire des sens. «Lost Highway» de David Lynch, Paris, Dreamland éditeur, 2000. Tra gli interventi più importanti segnaliamo inoltre l’analisi del film – realizzata in una «allargata» prospettiva cognitivista – che Elsaesser e Buckland hanno condotto nel loro Studying Contemporary American Cinema, London, Arnold, 2002; la prospettiva semiotica con cui guarda al film Pierluigi Basso Fossali nel suo Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Pisa, ETS, 2007; nonché infine le pagine su Lost Highway del filosofo italiano Pietro Montani, nel suo L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Milano, Guerini e Associati, 1999 (di cui questa analisi si è avvalsa in modo particolare). 3 Un assunto indagato da Umberto Eco sin dal suo Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962. 4 Id., Interpretazione sovrainterpretazione, trad. it., Bompiani, Milano, 1992. 5 Sull’utilizzo del «frammento» nell’analisi filmica si rinvia innanzitutto a R. Bellour,

L’analisi del film, trad. it., Torino, Kaplan, 2006, pp. 81-122. 6 M. Heidegger, I sentieri interrotti, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1968. 7 Nel suo lavoro su Lost Highway scrive infatti Carocci: «Il cinema di David Lynch non è, in

generale, un cinema del sovrannaturale: mostri, doppi, apparizioni, situazioni paradossali e

impossibili sono comunque generati dalla realtà ordinaria. Questo, va da sé, non vale per tutti i suoi film (basterebbe citare il caso della fantascienza di Dune): ma quando accade, Lynch raggiunge i suoi risultati più sottili, perché arriva ad affermare dimensioni parallele fin dentro l’esperienza quotidiana, mostrando il carattere fondamentalmente allucinatorio e onirico di ogni esperienza». Carocci, Tormenti ed estasi, cit., p. 21. In proposito si veda anche D. Tomasi, Il cerchio ambiguo. «Strade perdute» e il racconto fantastico, in «Garage», n. 17, Milano, Paravia/Bruno Mondadori, 2000. 8 H. Bergson, Pensiero e Movimento, trad. it., Milano, Bompiani, p. 43. Vedi anche G.

Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, trad. it., Torino, Einaudi, 2001. 9 P. Bertetto, L’analisi interpretativa. “Mulholland Drive” e “Une femme mariée”, in Id. (a

cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 224. 10 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. III, Torino, Boringhieri, 1967. 11 Cfr. M. Henry, Le ruban de Mœbius. Entretien avec David Lynch, in «Positif», n. 431, 1997, pp. 8-13. 12 In riferimento al concetto di autoanalisi/autodecostruzione, si veda P. De Man, Allegories of Reading, New Haven, Yale University Press, 1979. Per la sua applicazione all’analisi del testo filmico vedi Bertetto, L’analisi come interpretazione. Ermeneutica e decostruzione, in Id. (a cura di), Metodologie di analisi del film, cit., pp. 293-205. 13 Cfr. S. Heath, Questions of Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1981. 14 Cfr P. Bonitzer, Le champ aveugle. Essais sur le cinéma, Paris, Gallimard, 1982; e Id.,

Décadrages, Paris, L’Etoile, 1985. 15 Da questo punto di vista gran parte dei film di Lynch appaiono particolarmente fecondi

per interrogare questa vicinanza tra spettatore e analista – rilevata anche da Bertetto in apertura del suo saggio su Mulholland Drive: vedi Bertetto, L’analisi interpretativa. “Mulholland Drive” e “Une femme mariée”, in Id. (a cura di), Metodologie di analisi del film, cit., pp. 224-225. 16 P. Ricouer, Tempo e Racconto (1983-1985), 3 voll. Milano, Jaca Book, 1986-1988. In

riferimento all’utilizzo dei concetti di Ricoeur nell’interpretazione del film, vedi anche Montani, L’immaginazione narrativa, cit. e Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, cit. 17 U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, p. 146. 18 Montani, L’immaginazione narrativa, cit., p. 91. 19 Ivi, p. 95. 20 U. Eco, Lector in Fabula, Milano, Bompiani, 1979, p. 113. 21 Secondo Giovanni Bottiroli si tratta di una prospettiva che evita di uscire dal testo (che

è il solo luogo in cui i personaggi vivono, come egli stesso scrive) e che abbandona il piano psico-sociologico delle attribuzioni caratteriali nei confronti dei personaggi. Inedita, nel senso che «una teoria del personaggio che sviluppi questa impostazione è ancora ampiamente da costruire: appartiene al futuro». G. Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura?,Torino, Einaudi, 2006, p. 287.

Barbara Grespi Mulholland Drive 1 Los Angeles, oggi. Una donna bruna, scampata a un agguato e a un incidente d’auto, si

rifugia nella casa di Ruth, un’attrice in partenza. La trova qui, in stato di choc, la bionda Betty, nipote di Ruth, che è arrivata dall’Ontario per sfondare come attrice a Hollywood; la bruna non sa chi è, ma si fa chiamare Rita, Betty decide di aiutarla a scoprirlo. Intanto nel mondo del cinema il regista Adam Kesher perde il controllo del set a causa di due finanziatori mafiosi, i fratelli Castigliane, che vogliono imporre l’attrice, una certa Camilla Rhodes. Betty supera brillantemente la sua audizione, poi accompagna l’amica a casa di Diane Selwyn, un nome riaffiorato improvvisamente nella memoria di Rita, e un corpo, scoprono, che da giorni è cadavere. Tornando a casa fanno l’amore, ma nel cuore della notte Rita si sveglia ricordando un teatro chiamato Silencio; le due si precipitano lì e assistono a un misterioso spettacolo in playback. Rita trova nella sua borsetta una scatola blu, la apre e il film continua nell’appartamento di Diane, che però ha il volto di Betty. Diane è distrutta perché la sua amante, Camilla, una diva che ha il volto di Rita, l’ha abbandonata per sposare Adam, il regista. Per questo, Diane ha commissionato a un killer l’omicidio di Camilla, e la chiave blu che sta sul suo tavolino è la prova che il lavoro è stato fatto. Per i sensi di colpa, Diane si spara. 2 È l’idea di Thierry Jousse ripresa da Claudio Bisoni, «Straight story/Lost Highway», in C.

Bisoni (a cura di), Attraverso Mulholland Drive, Pozzuolo del Friuli, Il principe costante, 2004, p. 27. 3 P. Bertetto, L’analisi interpretativa. “Mulholland Drive” e “Une femme mariée”, in Id. (a

cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 223-255. 4 Emanuele Trevi intuisce che la rilettura lynchiana dell’archetipo dell’abbandono trova la

sua forza proprio nel tema dell’amnesia, rovesciamento perfetto dell’onnipotenza che dimostra chi è in grado di abbandonare. E. Trevi, «Raccontare l’abbandono», in Bisoni, Attraverso Mulholland Drive, cit., pp. 37-43. 5 La sequenza è commentata in Bertetto, Metodologie di analisi del film, cit., p. 237. 6 Ivi, pp. 245-246. 7 M. Chion, David Lynch, Torino, Lindau, 1995, p. 190. 8 Identifica il quadro Luca Malavasi, Mulholland Drive, Torino, Lindau, (in corso di

pubblicazione), a cui rimandiamo soprattutto per l’interessante confronto fra il film in versione serie televisiva e il film uscito sullo schermo. 9 È il commento di Bertetto, Metodologie di analisi del film, cit., p. 248. 10 Sugli stili di recitazione rimando a Andrew Klevan, Film performance. From

achievement to appreciation, London-New York, Wallflower, 2005. 11 Per alcune applicazioni analitiche dei due metodi rimando a James Naremore, Acting in

the cinema, Berkeley, University of California Press, 1988. 12 Didi-Huberman intreccia la teoria del sintomo di Freud con l’idea di una «sismografia delle passioni» di Aby Warburg. Cfr. Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. 13 Dall’intervista a Naomi Watts sul set, inclusa nel DVD del film. 14 In questo senso Ejzenstejn propone un approccio al gesto misto, cioè a metà fra il

meccanicismo delsartiano e lo psicologismo stanislavskiano. Cfr. Sergej M. Ejzenstejn, Stili di regia, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 237-265. 15 Spesso l’isteria maschile viene fatta coincidere con la cosiddetta sindrome di Gilles de

la Tourette, proliferare incontrollato di tic, spasmi e smorfie. 16 Per primo George Didi-Huberman, Invention de l’hysterie, Paris, Macula, 1982. 17 Sigmund Freud, «Fantasie isteriche e loro relazione con la bisessualità», in Opere, V,

pp. 389-395.

18 Sull’immaginario mesmerico fra Ottocento e Novecento vedi Alessandra Violi, Il teatro

dei nervi, Milano, Bruno Mondadori, 2004. Sul tema cinema e ipnosi cfr. Ruggero Eugeni, La relazione d’incanto, Milano, Vita e Pensiero, 2002. 19 A. Violi, «L’isteria e i fantasmi della sensibilità», in D. Giglioli, A. Violi (a cura di),

L’immaginario dell’isteria, «Locus Solus», n. 3, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 34.

Andrea Bellavita Inland Empire 1 Nikki è un’attrice che sta aspettando il risultato di un provino per interpretare un film

«maledetto» (On High in Blue Tomorrows: remake di un originale polacco, 47, basato su una leggenda gitana, e interrotto perché i due attori protagonisti erano stati assassinati), e riceve nella sua lussuosa villa la visita di un’inquietante vicina. La donna le anticipa, tra le altre cose, che la parte è sua. Nonostante la gelosia del marito, Nikki intraprende una relazione adulterina con il suo partner nel film, Devon, che riflette quella dei loro personaggi (Sue/Billy). Dopo che il tradimento si è consumato, e dopo il «varco della soglia» da parte di Nikki nel retro dello stage 4 e la sua entrata nella Smithee House (che è mostrata in precedenza come semplice facciata bidimensionale di ricostruzione scenografica), la donna si ritrova in un livello ulteriore, in cui sviluppa il personaggio di Sue. Viene in contatto con altri universi più o meno realistici (la sua confessione all’Uomo con gli occhiali, il gruppo di prostitute, il vicino di casa Krimp, che ha le stesse fattezze del Fantasma che perseguita la protagonista del film 47, la fuga del marito con il circo viaggiante polacco). Parallelamente si sviluppano storie in universi paralleli diegetici o antidiegetici (la stanza cui una donna misteriosa, la Lost Girl, osserva in televisione quello che accade a Sue; la sit-com Rabbits interpretata da conigli antropomorfi; il film polacco 47). Dopo averli variamente attraversati o costeggiati, Sue si trova nel ruolo di una prostituta che batte la Walk of Fame: qui viene raggiunta dalla moglie di Billy e pugnalata a morte. Quando Nikki «muore», la voce fuori campo che urla «stop» ci rivela che il racconto apparteneva alla finzione del film On High in Blue Tomorrows. Nikki, fuori dal suo ruolo, uccide il Fantasma attraversando un dedalo onirico di ambienti e porte, e incontra la Lost Girl. Questa, liberata dalla sua maledizione, può abbracciare marito e figlio, prima dei titoli di coda in cui vengono raccolti tutti i personaggi 2 Non casualmente Inland Empire arriva (crono-logicamente) «dopo» una serie di

sperimentazioni a lato del testo filmico (Dumbland, Rabbits, Darkened Room), così come Eraserhead rappresentava la messa in forma cinematografica dei precedenti Six Figures Getting Sick, The Alphabet, The Grandmother, The Amputee. 3 Per un maggiore approfondimento sul concetto di «assorbimento» rimandiamo a A.

Bellavita, L’emersione del Reale. Perché una psicoanalisi del cinema contemporaneo, in «Paragrafo», II, 2007, pp. 7-25. 4 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII. Le Sinthome, Paris, Seuil, 2005; trad. it. Il Seminario.

Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-1976, Roma, Astrolabio, 2006, p. 71. 5 Paolo Bertetto illustra in modo approfondito ed esemplare la potenziale

contrapposizione tra l’uso del concetto di «modo di configurazione» e di «modo di rappresentazione», sostenendo che «nell’analisi del film il concetto di modo di configurazione […] risulta senz’altro più appropriato, duttile e persuasivo della nozione di modo rappresentazione che ha avuto un’ampia diffusione negli studi di cinema», in P. Bertetto, L’analisi come interpretazione, Ermeneutica e decostruzione, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari,Laterza, 2006, p. 215. L’uso che viene fatto in questa sede del concetto di «rappresentazione» risponde a due necessità: in primo luogo

quella di una semplificazione di ordine linguistico, per facilitare la comprensione di uno spettatore che, come esplicita lo stesso Bertetto, si riconosce facilmente in «una serie di determinazioni filosofiche tradizionali: la convinzione della capacità del linguaggio di riprodurre il mondo, l’idea di un rapporto organico tra essere e modi comunicativi, la persuasione che la mimesi garantisca la conoscenza della realtà, l’idea che la realtà sia qualcosa di definito e di riconoscibile per tutti: cioè una serie di concetti che fanno parte di quella che Heidegger e Gadamer hanno considerato la tradizione della metafisica occidentale», ivi, pp. 216-217. Ma c’è una seconda ragione, più profonda: possiamo tradurre il concetto di «riproduzione del mondo attraverso il linguaggio» in categorie lacaniane, descrivendolo come possibilità del registro del Simbolico di codificare il mondo, e quindi possibilità del soggetto di far rientrare l’esperienza all’interno dell’ordine del Simbolico. È soltanto a partire dal processo di simbolizzazione del mondo che è possibile esperire il resto (sempre presente, inevitabile) di questa significantizzazione, e quindi l’emersione del Reale. È soltanto a partire dalla possibilità di una codificazione attraverso il Simbolico che è possibile realizzare l’incontro con il resto di questa codificazione e quindi con il Reale: è soltanto attraverso il Simbolico che è possibile sfiorare, intercettare tangenzialmente, il Reale. Dunque, per ritornare al nostro ambito, è soltanto attraverso una modalità di rappresentazione che è possibile esperire la possibilità di una irrappresentazione. 6 Tra gli interventi più recenti in questa direzione segnaliamo: G. Astic, Le purgatoire de

sens. Lost Highway de David Lynch, Pertuis, Rouge profond, 2004 7 È la proposta di Pierluigi Basso, contenuta nell’ultimo capitolo di P. Basso Fossali,

Interpretazioni tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Pisa, ETS, 2006. 8 Preleviamo la figura dell’arborescenza dalla definizione che Jean-Claud Milner fa del

concetto lacaniano di lalangue: «Lalangue est alors une foule d’arborescences foisonnantes, où le sujet accroche son désir, n’importe quel nœud pouvant être élu par lui pour qu’il y fasse signe», J.C. Milner, L’amour de la langue, Paris, Seuil, 1978, p. 104. 9 La Lost Girl assolve perfettamente alla funzione di configurazione che Paolo Bertetto

approfondisce in Bertetto, Metodologie di analisi del film, cit. La Lost Girl si presenta come il soggetto di configurazione di Inland Empire. 10 Non solo anticipa a Sue l’esito del provino e la presenza di un brutal fucked murder nel

suo film-vita, e che con l’indicazione della mano le «mostra l’inquadratura» della telefonata dell’agente. 11 In fondo tutto il film è già racchiuso nei due apologhi della Vicina: quello in cui «un

bambino un giorno uscì a giocare, aprì una porta, causò un riflesso e il male nacque, evil was born» e quello della «bambina che uscì per giocare ma si perse nel mercato». 12 Che coincide esattamente con la pratica che lo stesso Lynch ammette di aver seguito

nella realizzazione del film: «[…] cette fois je n’écrivais pas les scènes, je les filmais. Longtemps je n’ai pas su si cet assemblage de scènes déboucherait sur une autre chose. Il n’y avait pas de désir [à l’origine]. Il y avait une scène, juste une scène, et pas du tout de projet de long métrage. Et ensuite j’ai eu une autre idée pour une autre scène. Et je ne voyais pas le rapport entre les deux scènes. Alors j’ai eu l’idée d’une troisième», in Un sphinx souriant. Entretien avec David Lynch, in «Cahiers de Cinéma», 620, février 2007, pp. 12-13. 13 Complessificando ulteriormente si può vedere che ciascuno dei personaggi vive a sua

volta ulteriori moltiplicazioni: la Lost Girl è protagonista del film 47, insieme al Fantasma e a una versione «polacca» (con baffi) del Marito, il Fantasma è anche Krimp e «capo degli zingari del circo» (ma anche marine del Nord Carolina, con sorella con gamba di legno intarsiata). E ciascuno di essi interseca le storie presenti nei vari livelli, in un gioco di continue specularità: la Lost Girl è «prostituta polacca» che chiede alle colleghe se «l’hanno mai vista prima» (come Sue), il Fantasma è l’ipnotizzatore di Doris, moglie di Billy, il Marito

di Sue compare per la prima volta nello stage 4 e la «accoglie a letto» nella sua prima entrata alla Smithee House. 14 Per un’analisi dettagliata della fenomenologia dei «buchi neri diegetici» in Lost

Highway e Mulholland Drive, rimandiamo ad A. Bellavita, Schermi perturbanti, Milano, Vita&Pensiero, 2005. Per una lettura del concetto di «nero» in Mulholland Drive, e di «punto di vibrazione», si veda Bertetto, Metodologie di analisi del film, cit., pp. 223-255. 15 Su questa questione, che è alla base della teoria generale dell’analisi del film a partire

dagli anni sessanta, rimandiamo soltanto al contributo più recente in merito: L. Mulvey, Death 24x a second: stilness and the moving image, London, Reaktion Book, 2006.

Biografia a cura di Andrea Minuz Artista poliedrico (cineasta, pittore, musicista e disegnatore) David Lynch nasce il 20 gennaio 1946 a Missoula, una piccola cittadina nello stato del Montana. A causa del lavoro del padre, un dipendente del Dipartimento di Agricoltura, la sua infanzia trascorre tra continui spostamenti lungo il nord-est americano. Se spesso i suoi film verranno descritti come opere a forte connotazione pittorica, e se indubbiamente il suo talento visionario è ormai riconosciuto come uno dei più originali del cinema contemporaneo, è perché la scoperta della pittura cambia ben presto l’esistenza del giovane Lynch che, abbandonati gli studi, si dedica intensamente all’attività artistica. Si iscrive alla Boston Museum School, dove al termine del primo anno progetta un viaggio in Europa allo scopo di studiare con il pittore Oskar Kokoschka. Giunto a Salisburgo con l’amico Jack Fish, fa invece ritorno in America dopo appena 15 giorni. Nel 1965 è ammesso alla Pennsylvania Academy of Fine Arts Philadelphia. È in questo periodo che il suo stile matura e si dirige ossessivamente verso oscure astrazioni materiche, componendo dei grandi mosaici di figure geometriche che intitola Industrial Symphonies. A Philadelphia comincia a interessarsi al cinema e soprattutto alle sperimentazioni che possono generarsi tra la pellicola e la pittura. Nascono lavori come Six Figures Getting Sick (1966) e The Alphabet (1968) a metà tra l’installazione e il cinema sperimentale. Dal 1970 si dedica quasi esclusivamente al cinema e ottiene una sovvenzione di 5.000 dollari dall’American Film Institute, con cui realizza The Grandmother, film in 34 minuti in cui si palesano già alcuni temi e ossessioni, come l’ontogenesi delle forme e l’oscurità pervadente della messa in scena (gira questo film nella sua casa dipingendo per l’occasione le pareti completamente di nero). Nel 1971 si sposta a Los Angeles per frequentare il Conservatorio dell’American Film Institute, ed è qui che, ottenuta una nuova sovvenzione di 10.000 dollari dall’afi, comincia a lavorare al suo primo lungometraggio, Eraserhead, che verrà però ultimato e distribuito dopo varie peripezie solo nel 1976. Durante la lunga lavorazione di Eraserhead, Lynch gira The Amputee (1974), un piccolo macabro film di cinque minuti, in cui figura come attore, realizzato con due videocassette di prova che un suo amico aveva in prestito dalla afi. Giudicato impossibile da distribuire, Eraserhead diviene ben presto un film di culto, grazie all’aiuto del

distributore Ben Barenholtz che organizza proiezioni presso il circuito dei cinema notturni. La critica elegge David Lynch a capostipite dell’avanguardia cinematografica postindustriale, e Stanley Kubrick definisce il film come uno dei suoi preferiti di tutti i tempi. In uno dei primi articoli dedicati a Eraserhead, un critico parla di un opera che bisogna «sentire» più che «spiegare», anticipando così la caratteristica di ciò che verrà via via definendosi come un «film lynchano». Se Eraserhead annuncia un talento e un’immaginazione visiva assolutamente originali, è meno evidente riuscire a prevedere quali potranno essere i suoi sviluppi all’interno dell’industria cinematografica. L’attenzione sviluppatasi attorno a David Lynch convince il produttore Mel Brooks ad affidargli la regia di The Elephant Man (1980), un biopic basato sulla storia di Joseph Marrick, uomo affetto da una atroce mostruosità al volto, vissuto nell’epoca vittoriana. Il film è un successo e ottiene otto nominations all’Oscar, incluse miglior regia e migliore sceneggiatura. Se Elephant Man costituisce una sorpresa, soprattutto per quei fan di Eraserhead incapaci di immaginare la visionarietà di Lynch al servizio di Hollywood, il successivo Dune (1984) costituisce un vero e proprio passo falso. Rinchiuso all’interno della grande macchina dello spettacolo, in un film di fantascienza ad alto budget (che si rivelerà poi un flop) prodotto da Dino De Laurentis, Lynch appare incapace di far valere la propria intenzionalità autoriale. In questo periodo riprende fervidamente la propria attività di pittore e si dedica alla fotografia, realizzando una serie di paesaggi industriali. Il successivo Velluto blu (1986) marca l’inizio di un nuovo fecondo periodo creativo del regista, a cominciare dall’incontro con Angelo Badalamenti che da lì in poi diverrà responsabile delle colonne sonore dei suoi film (nonché collaboratore per una serie di dischi realizzati assieme). L’approccio sperimentale che Lynch ha nei confronti del suono e nei rapporti differenziali che esso istituisce con l’immagine, si impone via via come un’altra cifra stilistica decisiva nel suo lavoro. Altro incontro fondamentale è quello con Mary Sweeney, assistente per Blue Velvet e poi montatrice e produttrice di molti lavori successivi di Lynch. Blue Velvet, che riscuote un ampio successo di critica, è un neo-noir che si avvale di ottimi interpreti come Isabella Rossellini, nel ruolo di una inquieta cantante di nightclub e Dennis Hopper, che veste i panni di un gangster spietato, e vale a Lynch la seconda nomination all’Oscar (miglior regia). A partire da qui (e in modo dirompente con la serie Twin Peaks) una

certa iconologia dei mondi di finzione costruiti da Lynch si incarna nella tipica cittadina di provincia dell’america rurale, uno «sfondo» utilizzato piuttosto come pretesto scenografico per trasfigurare il luogo in un universo propriamente mentale (luoghi che verranno appunto definiti come Lynchland). L’incontro con il produttore televisivo Mark Frost dà avvio a un progetto ispirato alla vita di Marilyn Monroe che dovrebbe intitolarsi The Goddess (come la biografia da cui prende spunto). Durante le sedute il lavoro prende però un’altra direzione e ben presto si trasforma nella serie televisiva prodotta dalla abc Network, Twin Peaks incentrata sulle indagini dell’agente fbi, Dale Cooper, circa la misteriosa morte della studentessa Laura Palmer. L’8 aprile 1990 va in onda la prima puntata, e in breve tempo la serie cattura un numero sempre maggiore di spettatori fino a divenire uno dei più grandi fenomeni di culto della televisione degli anni novanta. Una popolarità che vale a Lynch la copertina di «Time». I problemi insorti con i produttori della abc circa la rivelazione dell’omicida di Laura Palmer (che Lynch vorrebbe invece continuare a eludere) fanno naufragare il progetto che non supera la seconda serie. Nel frattempo aveva già cominciato la lavorazione del suo nuovo film, Cuore selvaggio. Il 1990 è per il regista un anno di grandi trionfi, la sua popolarità esplosa con Twin Peaks si riconferma con la Palma d’Oro al Festival di Cannes per Cuore selvaggio. Alla Brooklyn Academy of Music va in scena Industrial Symphony N° 1, uno spettacolo di suoni e installazioni video concepito con Angelo Badalamenti, e cinque esposizioni personali (tenute tra il 1989 e il 1991) fanno conoscere nel mondo il suo talento di pittore, senza contare i numerosi spot pubblicitari che diffondono nell’immaginario collettivo il «Lynch touch». Libero adattamento di un romanzo di Barry Gifford (The Story of Sailor and Lula), Cuore selvaggio è un allucinato road-movie, la cui violenza viscerale è sintomatica di gran parte del cinema americano (indipendente e non) caratteristico degli anni novanta (da Reservoir Dogs di Quentin Tarantino a Natural Born Killers di Oliver Stone). Il successivo Fuoco cammina con me (1992) una sorta di prequel della serie tv che ricostruisce gli ultimi giorni di Laura Palmer, non ottiene invece alcun successo presso il pubblico (il cui interesse per il caso Laura Palmer era probabilmente venuto meno) e vale, tra la critica, le recensioni più negative che un film di Lynch abbia ricevuto. Forse anche a seguito di questo insuccesso si dedica a una serie di produzioni televisive, On the Air sempre per la abc e Hotel Room per

la hbo, entrambe del 1992. È da quest’ultima (una trilogia che mescola eventi avvenuti in tempi diversi nella stessa camera d’albergo) che provengono le prime suggestioni per il film successivo, Strade perdute (1997). Nonostante lo scarso successo commerciale, il film ricolloca Lynch tra i più ambiziosi sperimentatori della narrazione cinematografica, ed è certo anche uno dei punti più alti raggiunti dalla sua immaginazione visiva, che qui coinvolge figurazione e astrazione in un’unica, oscura, materia audiovisiva. Il successivo Una storia vera (1999) prodotto dalla Disney, capovolge completamente le atmosfere e la costruzione di Strade perdute, in quello che ancora oggi sembra una sorta di esperimento isolato nell’opera dell’autore. L’opposizione (già inscritta nei due titoli) tra le strade perdute della psiche, e quelle «lineari” attraversate dall’anziano Alvin Straight, a bordo del suo trattore, per raggiungere il lontano fratello, non potrebbe essere più evidente. Scritto da Mary Sweeney, il film avvicina infatti al cinema di David Lynch un nuovo pubblico, e riceve comunque ampi consensi dalla critica. Nello stesso anno prende forma il progetto che porterà al successivo Mulholland Drive (2001). La proposta è quella di un nuovo serial televisivo per la abc, ma la puntata pilota realizzata da Lynch non convince i produttori del network. Grazie all’intervento finanziario della produzione francese StudioCanal, il pilota di Mulholland Drive si trasforma nell’omonimo film che vale a Lynch la Palma d’Oro per la miglior regia al Festival di Cannes. Riprendendo la struttura dello sdoppiamento del racconto e dei personaggi avviata con Strade perdute, il film è un altro oscuro «puzzle» che esplora le possibilità dell’intrigo narrativo, aprendosi a una molteplicità pressoché infinita di interpretazioni (attestata dall’ampio numero di studi che gli verranno tributati). I lavori per il web distribuiti sul suo sito ufficiale (tra cui i disegni animati di Dumbland e la surreale sitcom Rabbits) sono gli ultimi progetti che impegnano Lynch prima del suo nuovo film presentato a Venezia nel 2006, Inland Empire, opera che radicalizza sul piano visuale la meditazione sul mondo del cinema avviata con Mulholland Drive.

Filmografia a cura di Andrea Minuz 1967 Six Men Getting sick (Six Figures) L’apparizione di sei figure umane (proiettata in loop su uno schermoscultura) in una deformazione animata che ne rende visibili gli organi interni. Una sostanza colorata riempie i loro stomaci fino a farli rigettare. Regia, fotografia (animazione e colore 16 mm) e produzione: David Lynch. Collaborazione: Jack Fisk; 1’. 1968 The Alphabet Disegni animati che formano alcune lettere dell’alfabeto si sovrappongono alle immagini in presa reale di una donna che giace su un letto bianco avvolto nelle tenebre. Una voce maschile intona l’incedere dell’alfabeto e le lettere appaiono una a una nel nero. All’improvviso la donna si desta e vomita del sangue tra le lenzuola. Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia (colore 16 mm, presa reale e animazione): David Lynch. Interprete: Peggy Lynch (la ragazza). Produzione: H. Barton Wasserman; 4’. 1970 The Grandmother Una famiglia «generata» dalla terra del loro giardino. Il figlio, costantemente maltrattato dai genitori, scopre in soffitta un sacca piena di semi dalla quale proviene un sibilo sinistro. Da un seme, che pianta tra le lenzuola del suo letto, cresce un baccello che genera a sua volta una donna anziana. La donna comincia a prendersi cura del ragazzo ma ben presto si ammala. Una volta morta, il ragazzo si trasforma anch’esso in una pianta. Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia (colore 16 mm, presa reale e animazione) e montaggio: David Lynch. Suono: David Lynch, Margaret Lynch, Robert Chadwick, Alan Splet. Musiche originali: Tractor. Interpreti: Richard White (il bambino), Dorothy McGinnis (la donna anziana), Virgina Maitland (la madre), Robert Chadwick (il

padre). Produzione: AFI (American Film Institute); 34’. 1974 The Amputee Una donna legge e compone fra sé e sé una lettera che sembra alludere a una storia d’amore non corrisposta. Un medico entra nella sua stanza e comincia a praticare l’amputazione delle gambe mentre la donna resta assorta nella sua lettera. Regia, soggetto, sceneggiatura, montaggio e produzione: David Lynch. Fotografia (b/n; video): Herb Cardwell. Interpreti: Catherine Coulson (la donna), David Lynch (il dottore); 5’. 1976 Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella) Regia, soggetto, sceneggiatura, montaggio, scenografia ed effetti speciali: David Lynch. Assistente alla regia e operatore: Catherine Coulson. Direttore di produzione: Doreen G. Small. Fotografia (b/n; 35 mm): Frederick Elmes e Herbert Cardwell. Scenografie: David Lynch. Suono ed effetti speciali sonori: Alan R. Splet e David Lynch. Missaggio del suono: Alan R. Splet. Musica originale: Peter Ivers. Esecuzione delle musiche: «Fats» Waller. Interpreti: John Nance (Henry Spencer), Charlotte Stewart (Mary X), Allen Joseph (Bill X), Jeanne Bates (madre di Mary), Judith Anna Roberts (la vicina di casa), Jack Fisk (l’uomo del Pianeta), Laureal Near (la donna del termosifone), Thomas Coulson (il bambino), John Monez (il barbone), Neil Moran (il padrone della fabbrica), Hal Landon jr. (l’operatore alla macchina delle matite), Jean Lange (la nonna), Darwin Joston (Paul), V. Philipps-Wilson (la proprietaria)*, Jennyfer Lynch (la ragazzina)*, Brad Keeler (il ragazzino)*, Peggy Lynch, Doddy Keeler (donne che scavano)*, Gil Dennis (l’uomo col Sigaro)*, Toby Keeler (il litigioso)*, Raymond Walsh (il signor Roundheels)*. I ruoli contrassegnati con l’asterisco sono accreditati nel titoli ma non compaiono nel film, a causa dei tagli effettuati da Lynch sulla copia finale. Produzione: David Lynch con The American Film Institute, Center for Advanced Film Studies; 89’. 1980 The Elephant Man (Id.) Le vicende di John Merrick, uomo afflitto da una rarissima malattia

che ne deturpa orribilmente il volto, vissuto realmente nell’Inghilterra del XIX secolo. Dai baracconi delle fiere dove viene esposto tra altre mostruosità, l’uomo viene raccolto da un medico e ricoverato in un ospedale, dove attira la curiosità dell’aristocrazia inglese, rivelando grande intelligenza e sensibilità d’animo. Grazie all’amicizia dell’attrice Magde Kendal, Merrick diviene via via più popolare presso il «bel mondo». Dopo alcune peripezie l’uomo si ritrova però nuovamente chiuso in un circo e sfruttato dai suoi padroni. Viene liberato grazie all’intervento di altri uomini mostruosi. Merrick si ammala, ma prima di morire riuscirà e rivedere la sua amata Magde Kendal. Regia: David Lynch. Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren e David Lynch. Fotografia (b/n; 35 mm; Panavision): Freddie Francis. Montaggio: Anne V. Coates. Scenografia: Stuart Craig. Suono: Alan R. Splet. Effetti speciali sonori: Alan R. Splet e David Lynch. Musica originale: John Morris. Costumi: Patricia Norris. Trucco: Chris Tucker. Interpreti principali: Anthony Hopkins (Frederick Treves), John Hurt (John Merrick), Sir John Gielgud (Carr Gomm), Anne Bancroft (Madge Kendal), Freddie Jones (Bytes), Wendy Hiller (la capoinfermiera), Michael Elphick (il portiere di notte), Hannah Gordon (Anne Treves). Produzione: Jonathan Sanger per Brooks Film. Produzione esecutiva: Stuart Cornfeld; 124’. 1984 Dune (Id.) Anno 10991. Le sorti di tutto l’impero delle galassie dipendono dall’esplorazione di un inospitale pianeta di sabbia chiamato Dune. Qui si estrae una droga che allunga la vita e annulla il tempo. La missione affidata alla famiglia Atreides si rivela in realtà una trappola. I superstiti trovano rifugio presso i Fremen (abitanti-paria del pianeta) e muovono la loro vendetta. I Fremen eleggono Paul (figlio di Leto, il capostipite degli Atreides) come loro «messia» destinato a condurli in una guerra santa che ridonerà la fertilità al pianeta Dune. Vinte le forze imperiali, Paul diviene imperatore di Dune nonché «essere supremo» dell’Universo. Regia: David Lynch. Soggetto: dal romanzo omonimo di Frank Herbert. Sceneggiatura: David Lynch. Fotografia (colore; 70 mm): Freddie Francis. Montaggio: Anthony Gibbs. Scenografia: Anthony Masters. Suono: Alan R. Splet. Musica originale: Toto, Brian Eno e

Daniel Lanosi. Costumi: Bob Ringwood. Creature meccaniche: Carlo Rambaldi. Assistente alla regia: Jose Lopez Rodero. Direttrice di produzione: Golda Offenheim. Interpreti principali: Kyle MacLachlan (Paul Atreides), Francesca Annis (Lady Jessica), Kenneth McMillan (barone Vladimir Arkonnen), Jose Ferrer (Imperatore Padiscia Shaddam IV), Jurgen Prochnow (Duca Leto Atreides), Max Von Sydow (Dottor Keynes), Silvana Mangano (Reverenda Madre Ramallo), Virginia Madsen (la Principessa Irulan), Sting (Feyd Rautha), Dean Stockwell (Dottor Wellington Yueh). Produzione: Raffaella De Laurentis per Dino De Laurentis; 140’. 1986 Blue Velvet (Velluto Blu) Regia, soggetto e sceneggiatura: David Lynch. Fotografia (Technicolor; Cinemascope): Frederick Elmes. Montaggio: Duwayne Dunham. Scenografia: Patricia Norris. Suono: Alan R. Splet. Musica originale: Angelo Badalamenti. Interpreti principali: Kyle MacLachlan (Jeffrey Baumont), Isabella Rossellini (Dorothy Vallens), Dennis Hopper (Frank Booth), Laura Dern (Sandy Williams), George Dickerson (Detective Williams), Hope Lange (Mrs. Williams), Dean Stockwell (Ben), Brad Dourif (Raymond), John Nance (Paul). Produzione: Fred Caruso per De Laurentis Entertainment Group. Produzione esecutiva: Gail Kearns; 120’. 1990 Wild at Heart (Cuore Selvaggio) Sailor Ripley (un carcerato in libertà vigilata) incontra Lula Pace, una giovanissima ragazza fuggita da casa. I due si uniscono in una fuga verso il Texas per far perdere le proprie tracce, ma la madre di Lula ingaggia due killer per recuperare la figlia e uccidere Sailor. Di motel in motel i due si trascinano in una serie di orge sessuali, fino a che Sailor a seguito di una rapina finisce nuovamente in prigione. Dopo cinque anni, all’uscita dal carcere, trova ad attenderlo Lula con la figlia avuta nel frattempo da lui. Regia: David Lynch. Soggetto: dal romanzo di Barry Gifford The Story of Sailor and Lula. Sceneggiatura: David Lynch. Fotografia (Technicolor; Cinemascope): Frederick Elmes. Montaggio: Duwayne Dunham. Scenografia: Patricia Norris. Suono: Randy Thom. Musica originale: Angelo Badalamenti. Interpreti principali: Nicolas Cage

(Sailor Ripley), Laura Dern (Lula Pace Fortune), Diane Ladd (Marietta Pace), Willem Dafoe (Bobby Peru), Isabella Rossellini (Perdita Durango), Harry Dean Stanton (Johnnie Farragut), Crispin Glover (Dell), Grace Zabriskie (Juana). Produzione: Polygram/Propaganda Films. Produzione esecutiva: Monty Montgomery, Steve Golin e Joni Sighvatsson; 124’. 1992 Twin Peaks: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me) Regia: David Lynch. Soggetto e sceneggiatura: David Lynch e Robert Engels. Fotografia (colore; 35 mm): Ron Garcia; Montaggio: Mary Sweeney. Scenografia: Patricia Norris. Suono: David Lynch e John Huck. Musica originale: Angelo Badalamenti. Interpreti principali: Sheryl Lee (Laura Palmer), Ray Wise (Leland Palmer), Kyle MacLachlan (Dale Cooper), Moira Kelly (Donna), Dana Ashbrook (Bobby Briggs), Chris Isaak (Chester Desmond), Kiefer Sutherland (Sam Stanley), Madchen Amick (Shelley Johnson), Grace Zabriskie (Sarah Palmer). Produzione: Gregg Fienberg e John Wentworth per Francis Bouygues/Lynch-Frost Production/Ciby Pictures. Produzione esecutiva: Mark Frost e David Lynch; 134’. 1995 Premonitions Following an Evil Deed (episodio di Lumière et compagnie) Frammenti oscuri ed enigmatici di una vicenda che prende avvio dal ritrovamento di un cadavere da parte di tre poliziotti. In un’officina ci vengono mostrati dei corpi mostruosi accanto al corpo di una donna che urla. Un poliziotto arriva per tranquillizzare la donna… Regia: David Lynch. Soggetto, sceneggiatura e montaggio: David Lynch. Fotografia (b/n; 35 mm): Peter Deming. Scenografia: Patricia Norris. Interpreti: Jeff Alperi, Mark Wood, Stan Lothridge, Russ Pearlman, Pam Pierrocish, Clyde Small. Produzione: Neal Edelstein per Lumière et cie, film muto per la serie francese di film di un minuto commissionata a 40 registi in occasione del centenario del cinema, girato con la macchina da presa utilizzata all’epoca dei Lumière. Origine: Francia; 55’’. 1997 Lost Highway (Strade perdute)

Regia: David Lynch. Soggetto e sceneggiatura: David Lynch e Barry Gifford. Fotografia (colore; 35 mm): Peter Deming. Montaggio: Mary Sweeney. Scenografia: Patricia Norris. Suono: David Lynch. Musica originale: Angelo Badalamenti. Interpreti principali: Bill Pullman (Fred Madison), Patricia Arquette (Renee Madison/Alice Wakefield), Balthazar Getty (Pete Dayton), Robert Loggia (Dick Laurant/Mr. Eddy), Robert Blake (l’Uomo Misterioso), Natasha Gregson Wagner (Sheila), Gary Busey (Bill Dayton), Richard Pryor (Arnie). Produzione: Deepak Nayar, Tom Sternberg e Mary Sweeney per Ciby 2000/Asymmetrical Production; 135’. 1999 The Straight Story (Una storia vera) Dopo aver appreso di un infarto che ha colpito suo fratello che non vede da molto tempo, Alvin Straight, un uomo di 73 anni decide di andare a trovarlo. Non avendo la patente, sceglie di raggiungerlo alla guida del suo vecchio tosaerba, e si dirige verso Zion nel Wisconsin a 317 miglia di distanza da dove vive. Dopo varie peripezie, trova infine il fratello. I due si siedono uno di fronte all’altro senza proferire parola, ma visibilmente soddisfatti di ritrovarsi dopo tanti anni. Regia: David Lynch. Soggetto e sceneggiatura: John Roach e Mary Sweeney. Fotografia (colore; Panavision): Freddie Francis. Montaggio: Mary Sweeney. Scenografia: Jack Fisk. Suono: David Lynch. Musica originale: Angelo Badalamenti. Costumista: Patricia Norris. Interpreti principali: Richard Farnsworth (Alvin Straight), Sissy Spacek (Rose Straight), Harry Dean Stanton (Lyle Straight), Everett McGill (Tom), John Farley (Thorvad Olsen), Kevin Farley (Harald Olsen). Produzione: Mary Sweeney e Neal Edelstein per Picture Factory Production. Produzione esecutiva: Pierre Edelman e Michael Polaire; 111’. 2001 Mulholland Drive (Id.) Regia, soggetto e sceneggiatura: David Lynch. Fotografia (colore; 35 mm): Peter Deming. Montaggio: Mary Sweeney. Scenografie: Jack Fisk. Costumi: Amy Strofsky. Trucco: Rendy West Gate. Suono: David Lynch. Musica originale: Angelo Badalamenti. Musiche supplementari: David Lynch, John Neff. Orchestra: Filarmonica di Praga. Direttore d’orchestra: Stepan Konicek. Casting: Joanna Rey. Primi assistenti alla regia: Mark Cotone, Scott Cameron. Operatore

alla macchina: Paul Hughen. Supervisore alla sceneggiatura: Cori Blazer. Assistente di David Lynch: Gaye Pope. Interpreti: Naomi Watts (Betty Elms/Diane Selwyn), Laura Elena Harring (Rita/Camilla Rhodes), Justin Theroux (Adam Kesher), Ann Miller (Coco Lenoix), Dan Hedaya (Vincenzo Castigliani), Angelo Badalamenti (Luigi Castigliani), Mark Pellegrino (Joe), Maya Bond (zia Ruth), Michael J. Anderson (Mr. Roque), Melissa George (Camilla Rhodes/Biondina alla Cena), Lafayette Montgomery (il Cowboy), Rebekah Del Rio (se stessa), Richard Green (Il «mago» del Club Silencio), Chad Everett (Woody Katz), James Karen (Wally Brown), Wayne Grace (Bob Brooker), Rita Taggart (Lynnie James), Nicki (Michele Hicks), Kate Forster (Martha Johnson), Elisabeth Lackey (Carol), Lee Grant (Louise Bonner), Cori Glazer (Donna dai Capelli Blu), Jeanne Bates (Irene), Dan Birnbaun (Compagno di Irene), Robert Forster (detective McKnight), Brent Briscoe (detective Domgaard), Patrick Fishler (Dan) Mickail Cooke (Herb), Bonnie Aarons (Barbone), David Shroeder (Robert Smith), Robert Katims (Ray Hote), Vincent Castellanos (Ed), Lory Heuring (Lorraine), Billy Ray Cyrus (Gene), Melissa Crider (cameriera del Winkie’s), Geno Silva (Cookie/presentatore di Rebecca del Rio), Catharine Downe (Cynthia), Joanna Stein (vicina di casa di Diane). Produzione: Mary Sweeney, Alain Sarde, Neal Edelstein, Michael Polaire, Tony Krantz per Les Film Alain Sarde/Studio Canal Plus/Asymmetrical Production. Produzione esecutiva: Pierre Edelman;146’. 2006 Inland Empire (Id.) Regia, soggetto e sceneggiatura: David Lynch. Fotografia (colore; 35 mm): Old-Geir Saether. Montaggio: David Lynch. Musica originale: Angelo Badalamenti. Suono: David Lynch. Scenografie: Christina N. Wilson. Costumi: Heidi Bivens, Karen Baird, Paulina Polom. Produzione: Mary Sweeny, Phil DeSanti, David Kern, Josh Mann per la Inland Empire Productions, Studio Canal, Camerimage, Tumult Foundation. Produzione esecutiva: Marek Zydowicz. Distribuzione: Mars Distribution. Interpreti: Laura Dern (Nikki Grace /Susan Blu), Jeremy Irons (Kingsley Stewart), Justin Theroux (Devon Berk/Billy Side), Harry Dean Stanton (Freddie Howard), Karolina Gruszka (giovane donna), Jan Hench (Janek), Krysztof Majchrzak (il fantasma), Grace Zabriskie (prima visitatrice), Ian Abercrombie (Henry), Karen Baird (domestica), Bellina Logan (Linda), Amanda Foreman (Tracy),

Peter J. Lucas (Piotrek Krol), Cameron Daddo (manager di Devon Berk), Jerry Stahl (agente di Devon Berk), John Churchill (Chuck Ross), Phil DeSanti (Tim Hurst), Chamonix Bosch (Sally Irwin), Sara Glaser (Ellen Thomas), Neil Dickson (il produttore), Dianne Ladd (Marilyn Levens), Melissa Lowndes (assistente di Marilyn Levens), Marsha Lewis (parrucchiera di Marilyn Levens), William H. Macy (il presentatore), Austin Lynch (autista di Devon Berk), Jason Weinberg (manager di Nikki Grace), Stanislaw Kazimierz Cybulski (sig. Zydowicz), Henryka Cybulski (sig.na Zydowicz), Robert Charles Hunter (detective Hutchinson), Ewa Jerzykowski (la governante), Scott Resler (l’operatore), Emily Stofle (Lanni), Jordan Ladd (Terri), Kristen Kerr (Lori), Terryn Westbrook (Chelsi), Jamie Eifert (Sandi), Kathryn Turner (Dori), Micelle Renea (Kari), Erik Crary (sig. K.), Wendy Rhodes (Sally); 172 m. Televisione

1988 The Cow-boy and the Frenchman (Episodio della serie Les Français vu par…) Un gruppo di cow-boy, con a capo un uomo di nome Slim, si imbatte in un francese di nome Pierre. Tra i due c’è diffidenza. Pierre ha con sé delle baguette, del vino rosso e delle Gauloises. All’arrivo di alcune ragazze con della birra ha inizio una festa. Regia, soggetto e sceneggiatura: David Lynch. Fotografia (colore; video): Frederick Elmes. Montaggio: Scott Chesnut. Scenografia e costumi: Patricia Norris e Nancy Martinelli. Interpreti principali: Harry Dean Stanton (Slim), Frederic Golchan (il Francese), John Nance, Michael Horse. Produzione: David Varfield e Daniel Toscan du Plantier per EratoFilm/Socpresse/Figaro. Produzione esecutiva: Paul Cameron e Pierre Olivier Bardet. Origine: Francia; 22’. 1990-1991 Twin Peaks (una puntata pilota e 29 episodi) Durante l’inchiesta sulla morte di una giovane studentessa, Laura Palmer, diviene via via più evidente che la cittadina di Twin Peaks,

dove il fatto è accaduto, nasconde numerosi segreti e misteri. Ben presto tutti gli abitanti divengono dei sospetti. L’agente speciale Dale Cooper viene assalito da strani e inquietanti presagi (ha una visione di Laura in una stanza rossa con un nano). Nella cittadina intanto alcuni abitanti cominciano a svolgere in proprio le ricerche sul caso di Laura Palmer. Giunta a Twin Peaks per la sepoltura, Maddie (cugina di Laura) si unisce a James (fidanzato segreto di Laura) e Donna (la sua migliore amica) per risolvere l’enigma. Più tardi anche lei verrà assassinata. Dale Cooper è rimosso dall’incarico e al suo posto è inviato il vendicativo Windom Eart. Ma Cooper viene in contatto con il mistero legato alla «Black Lodge» una sorta di «altra zona» della psiche in cui si ritroverà di fronte a se stesso, sdoppiato in due. Mentre il Cooper «buono» resta intrappolato nella Lodge, il Cooper «cattivo» fa il suo ritorno a Twin Peaks… Soggetto e sceneggiatura: Mark Frost e David Lynch. Fotografia (colore; 35 mm): Ron Garcia. Montaggio: Duwayne Dunham. Scenografia: Patricia Norris. Musiche originali: Angelo Badalamenti. Suono: John Wentworth. Interpreti della puntata pilota diretta da David Lynch: Kyle MacLachlan (Dale Cooper), Sheryl Lee (Laura Palmer), Ray Wise (Leland Palmer), Michael Ontkean (Sceriffo Harry S. Truman), Grace Zabriskie (Sarah Palmer), Dana Ashbrook (Bobby Briggs), James Marshall (James Hurley). Produzione: David J. Latt per Lynch-Frost Production/Propaganda Films/Spelling Entertainment inc./Worldvision Enterprises inc. Produzione esecutiva: David Lynch e Mark Frost.Regia: David Lynch (1, 2, 8, 9, 14, 29); Tina Rathbone (3, 17); Tim Hunter (4, 16, 28); lesile Linka Glatter (5, 10, 13, 23); Caleb Deschanel (6, 15, 19); Mark Frost (7); Todd Holland (11, 20); Graeme Clifford (12); Duwayne Duntham (18, 25); Uli Edel (21); Diane Keaton (22); James Foley (24); Jonathan Ranger (26); Stephen Gyllenhaal (27). 1990-1991 American Chronicles Serie di documentari televisivi prodotti dalla Lynch/Frost Productions, di cui Lynch è uno dei produttori esecutivi. Lynch e Frost hanno corealizzato un film della serie «Champions». 1991-1992 On the Air

Sitcom ambientata nel 1957. Le vicende ruotano attorno a uno studio televisivo, la Zoblotnik Television di New York. Serie inizialmente prevista di sette episodi di cui il primo è l’unico diretto da Lynch. Regia: David Lynch. Sceneggiatura: Mark Frost e David Lynch. Fotografia (video; colore): Ron Garcia. Montaggio: Mary Sweeney. Scenografia: Okowita. Musiche originali: Angelo Badalamenti. Interpreti principali: Ian Buchanan (Betty Hudson), Nancye Ferguson (Buddy Budwaller), Miguel Ferrer. Produzione: Lynch-Frost Production e Twin Peaks Productions Inc. per ABC Worldvision Entertainments; 30’. 1992 Hotel Room Trilogia ambientata nella stanza 603 del Railroad Hotel di New York. Al centro dei tre episodi di cui si compone il film è il riverbero di eventi, angosciosi e inquietanti, che nel tempo hanno avuto luogo nella stessa camera d’albergo. Lynch ha diretto il secondo e il terzo episodio («Tricks» e «Blackout»). Tricks - Regia: David Lynch. Sceneggiatura: Barry Gifford. Montaggio: Mary Sweeney. Interpreti: Harry Dean Stanton (Boca), Glenne Headly (Darlene). Blackout -Regia: David Lynch. Sceneggiatura: Barry Gifford. Montaggio: Tony Morgan. Interpreti: Crispin Glover (Danny), Alicia Witt (Diane). Produzione: Asymetrical Production/Worldvision Enterprises/Propaganda Films per HBO; 96’. 1999 Mulholland Drive (puntata pilota) Regia: David Lynch. Sceneggiatura: David Lynch e Joyce Eliason. Fotografia (colore; 35 mm): Peter Deming. Montaggio: Mary Sweeney. Musiche originali: Angelo Badalamenti. Interpreti principali: Justin Theroux (Adam Kesher), Laura Elena Harring (Rita), Naomi Watts (Betty Elms), Ann Miller (Coco Lenoix), Stuart Coffey (Wilkins). Produzione: David Lynch, Joyce Eliason, Neal Edelstein e Michael Polaire per ABC; 125’ (poi 88’).

Pubblicità, spot promozionali, videoclip

1988 Obsession Quattro pubblicità per Calvin Klein. 1991 Dangerous Spot promozionale per la tournée Dangerous di Michael Jackson. Wicked Game Videoclip del brano interpretato da Chris Isaak e presente in Wild at Heart. Georgia Coffee Quattro spot pubblicitari per la televisione giapponese «girati» a Twin Peaks con alcuni degli attori principali della serie. We care about New York Pubblicità istituzionale girata per conto del comune di New York sull’emergenza dei ratti nella città. 1992 Who is Gio Pubblicità per il profumo di Armani, «Gio». Opium Pubblicità del profumo omonimo di Yves Saint-Laurent. 1993 Alka-Seltzer Plus Due pubblicità. Pasta Barilla Pubblicità. The Wall Pubblicità per la Adidas. Revelead

Pubblicità istituzionale per conto della «America Cancer Society» sulle prevenzione del cancro al seno. The Instinct of Life Pubblicità per Jill Sander American Cancer Society Pubblicità per l’omonima associazione 1994 Sun Moon Stars Pubblicità per il profumo di Karl Lagerfeld. 1995 Longing Spot promozionale per il cantante giapponese Yoshiki. 1997 Olgivy and Mother Pubblicità per il test di gravidanza Clear Blue Easy One Minute 1999 Parisienne Pubblicità per l’omonima marca di sigarette 2000 The Third Place Pubblicità per la Playstation2 JC Decaux Pubblicità per l’omonima impresa di forniture stradali 2003 Do You Speak Micra? Pubblicità per la Nissan Micra Musica, spettacoli, fumetti, animazioni, film per il web

1983-1992 The Angriest Dog in The World Serie di brevi strisce satiriche che hanno per protagonista un ferocissimo cane. Pubblicata abitualmente nel giornale «LA Reader». 1989 Floating Into the Night Album composto di 10 canzoni originali provenienti da Blue Velvet, Twin Peaks e Industrial Symphony N° 1. Testi di David Lynch, musica di Angelo Badalamenti. Interprete: Julee Cruise. Prodotto da David Lynch e Angelo Badalamenti. Warner Bros. Record Inc. 1990 Industrial Symphony N°1: The Dream of The Broken Hearted Spettacolo andato in scena alla Brooklyn Academy of Music di New York il 10 novembre 1989, nell’ambito del New American Festival. Descritto dallo stesso Lynch come «un happening di musica ed effetti sonori che ha a che fare con la fine di una relazione sentimentale». Diffuso in video dalla Warner Music Vision. Regia: David Lynch. Musica: Angelo Badalmenti. Coreografia: Martha Clarck. Produttori: Steve Golden, Monty Montgomery. Interpreti: Laura Dern, Nicolas Cage, Juleee Cruise, Michale Anderson, Angelo Badalmenti; 50’. 1993 The Voice of Love Album composto di 11 canzoni originali, di cui alcune provenienti da Wild at Heart e Twin Peaks: Fire Walk with Me. Testi di David Lynch. Musica di Angelo Badalamenti. Interprete: Julee Cruise. Prodotto da David Lynch e Angelo Badalamenti. Warner Bros Inc. 1998 Lux Vixens (Living Night): The Music of Hildegard Von Bingen Album di 20 canzoni interpretate da Jecelyn Montgomery (voce, violino). Prodotto da David Lynch e registrato agli Asymmetrical Studios. Mammoth/Pdg Records. 2001 Blue Bob

Album di 12 brani, registrati e composti da David Lynch e John Neff, sotto il nome di Blue Bob. Lynch suona la chitarra e la batteria. Solitude/Mri Records. 2002 DumbLand Serie di «online shorts» disegnati da David Lynch. Bianco e nero e intenzionalmente minimalista nel tratto, il cartone animato racconta per frammenti le disavventure di un burbero e truculento personaggio. Brevissimi episodi della durata di circa un minuto ciascuno (http://www.davidlynch.com). Rabbits Serie di nove cortometraggi. Ogni episodio si svolge in una stanza in cui tre uomini dalla testa di coniglio si muovono e dialogano in maniera stravagante. Alle lunghe pause di silenzio e immobilità si alternano le risate registrate del pubblico, alla maniera delle sit-com statunitensi. Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia (colore; DV), montaggio: David Lynch. Musiche: Angelo Badalamenti. Interpreti: Scott Coffey (Jack), Rebekah Del Rio, Laura Harring (Jane), Naomi Watts (Suzie). Produzione: David Lynch; 50’ (distribuito sul sito http://www.davidlynch.com). Darkened Room Una ragazza orientale, rivolgendosi allo spettatore, parla di un’amica chiusa in una stanza. La ragazza rapita nella darkened room è raggiunta da una complice del rapitore, che si rivolge a lei in un lungo, oscuro monologo che allude agli eventi che hanno portato alla segregazione. Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia (colore; DV), montaggio: David Lynch. Musiche: Angelo Badalamenti. Interpreti: Jordan Ladd (ragazza rapita), Cerina Vincent (sequestratrice). Produzione: David Lynch; 8’ (distribuito sul sito http://www.davidlynch.com).

Bibliografia OPERE DI DAVID LYNCH

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http://www.davidlynch.com (sito ufficiale di David Lynch) http://www.davidlynchfoundation.com (sito della Fondazione ufficiale «David Lynch») http://davidlynch.de (filmografia, raccolta di articoli e saggi su David Lynch) Si segnalano infine i documentari David Lynch: Don’t Look at Me (1989), realizzato da Guy Girard, Janine Bazin, André S. Labarthe e Alain Plagne nell’ambito della serie televisiva «Cinéma de notre temps» e Pretty as a Picture: the Art of David Lynch di Toby Keeler (Usa, 1997).