David Lynch 9788871803111, 8871803116

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Italian Pages 336 [286] Year 2000

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David Lynch
 9788871803111, 8871803116

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Traduzione dal francese di Daniela Giuffrida e (capitoli V e VI) di Federica Sorba.

© 1992 Editions de l'Étoile/Cahiers du cinéma © Michel Chion per il capitolo VI © 1995 e 2000 Lindau s.r.L Via Bernardino Galliari 2 bis - 10125 Torino Tel. 011/66939.10 - fax 011 /669.39.29 http: ! / www.lindau.it e-mail: [email protected]

Seconda edizione ISBN 88-7180-311-6

Michel Chion

DAVID LYNCH

Avvertenza alla prima edizione

La prima parte di questo libro su David Lynch segue un ordine crono­ logico che non ha bisogno di spiegazioni e consente di combinare la storia materiale delle circostanze in cui i film sono stati realizzati, l'analisi dei te­ mi che sviluppano, la valorizzazione delle costanti e della loro evoluzione tecnica e stilistica ecc., situandole nella storia del cinema. Quanto alla se­ conda parte, il «Lynch-Kit», sorta di ritratto cinese del cineasta, assume le forme di un alfabeto in cui le voci sono concepite per inanellarsi una di se­ guito all'altra, in un ordine logico e alfabetico al tempo stesso, ossia uto­ pico. Combinando i due livelli che in genere nei testi si trovano separati, ho voluto non soltanto rendere conto più compiutamente di un autore che cre­ de agli stesso alla pluralità dei livelli di senso e di realtà, ma anche mostra­ re che un libro di cinema può, e in alcuni casi deve, fare almeno due cose contemporaneamente: informare e far riflettere, trasmettere e prendere partito - resistendo così allo «specialismo» che tende ormai a imporsi, in questo campo come altrove. Siccome mi sembra poi che la teoria del cineasta-autore si ostina a non volerne sapere delle molteplici collaborazioni necessarie per un film, e so­ prattutto di quelle degli attori, mi ci sono soffermato un po' più di quanto si suole fare in libri del genere. Per giustificare questo partito preso, rinvio a Cinéma et ses metiers, dove si propone di ripensare la teoria del regista/autore, senza rinunciare a ciò che ne abbiamo tratto. Qui, ad esem­ pio, e particolarmente a proposito di Elephant Man, Dune e Twin Peaks, la politica dell'autore viene dialettizzata grazie a una politica dell'opera. Avendo deciso di fare di questo David Lynch il mio ultimo libro scrit­ to direttamente per la pubblicazione in volume (quelli in preparazione sono essenzialmente delle raccolte di articoli già apparsi altrove), ho voluto che fosse il più uniforme e il più completo, ma anche il più concreto possibile, rivolgendo a quel cinema che le teorie baziniane collocano sotto il segno di 5

un realismo ontologico uno sguardo che vuole essere realista ma non ridut­ tivo. Il fatto che questo sguardo venga ora applicato a un cineasta ancora giovane e in piena attività, con i rischi che ciò comporta (in particolar mo­ do quello di vedere le opere future rimettere in discussione tutto ciò che è sembrato di aver colto), non è infine privo di significato: si tratta di appli­ care la passione cinefila a oggetti viventi e al cinema più attuale. Autore che appassiona e sorprende, David Lynch era il soggetto miglio­ re per questa impresa, e io spero che un po' del piacere e dell'emozione che ho provato a ripercorrere per diversi mesi il territorio della sua opera possa essere comunicato dal libro e incontrare, arricchendolo, il piacere e l'emo­ zione dei numerosi ammiratori di Lynch. In questo lavoro, la mia assidua frequentazione degli scritti di Pranqoi$e Dolio e delle sue formulazioni teoriche ha lasciato un'impronta agevol­ mente percepibile, e di cui non mi pento affatto. Ringrazio di cuore Patrice Rollet e Anne-Marie Marsaguet per l'aiuto che mi hanno dato; ringrazio anche Stephen Sarrazin, Nicolas Saada e An­ tonio Pena per le nostre discussioni «lynchologiche» e per i documenti che mi hanno fornito. E adesso largo a Lynch.

Michel Chion

10 ottobre 1992

6

Per Anne Marie Sometimes a wind blows, and the mysteries of Love

come clear»

DAVID LYNCH

CRONO-LYNCH (da Six Figures a Fuoco cammina con me)

«Se si comincia a curare un bambino insoppor­ tabile, si può star certi che la madre rischierà

un suicidio depressivo. Un bambino insopportabile è infatti davvero,

in modo cronico, l'elettroshock dei poveri. Per tutto il giorno impedisce alla madre di cadere preda dei suoi fantasmi depressivi. Siccome è aggressivo, le dà l'occasione di essere anch'es-

sa aggressiva, e le permette di tenersi a galla. (...] Noi sappiamo che il neonato è il primo psi­ coterapeuta della madre».

(Fran^oise Dolto, Séminaire de psychanalyse d'enfitnls, I, Editions du Seuil, Paris 1982).

I. Un film da cui non si ritorna (Six Figures, The Alphabet, The Grandmother, Eraserhead)

1.

All'inizio non c'era un autore, ma soltanto un film: Eraserhead - la mente che cancella (Eraserhead). Nero e atroce, definitivo sulla condi­ zione umana, uno di quei film da cui non si fa ritorno. E accanto al film un nome che ne rivendicava la paternità, un nome a cui non sempre si prestava attenzione anche quando si tornava più volte a rivederlo al Waverly di New York o all'Escurial di Parigi. Insomma, un film perfetto, poiché apparteneva per intero al suo pubblico, e il profilo dell'autore non gli faceva ancora schermo. Poi ne è venuto un altro firmato dallo stesso nome, poi molti altri - anche troppi secondo i puristi che già cominciavano a manifestarsi - ed Era­ serhead è finito col diventare una delle opere dell'autore David Lynch. È vero, da un certo punto di vista, che l'autore sovente rappre­ senta in parte la decadenza dell'opera. Ma poiché l'autore di cui par­ liamo è fedele, continua a lasciare ai suoi film - ad alcuni fra essi al­ meno - la possibilità di liberarsi di lui. E questo lo possono fare sol­ tanto se lui, e questo è il paradosso, si afferma ancor di più. Un autore. Non esiste niente di più diffuso oggi. Più rari restano i «film-autori», quelli che creano il loro autore. Fortunatamente Lynch ne ha realizzati due o tré. La sua condizione particolare, davvero ri­ schiosa, è che da Lynch ci si aspetta che non faccia Lynch. Un cinéphile deluso da Cuore selvaggio (Wild at Heart), intervistato da «Starfix»1 non nasconde la sua collera: Lynch fa Lynch! adesso ci rifilerà un film del genere all'anno. È quasi un onore deludere gente simile, anche se l'opera in que­ stione, secondo noi, non è un film-ricetta, un piatto fatto per piacere al pubblico e che si possa riscaldare a piacere. In un momento di autocompiacimento, Lynch ha dichiarato a 73

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proposito di Eraserhead che era un film «perfetto», che avrebbe potu­ to guardarlo senza mai smettere, come un quadro di Hopper. Lo si perdoni: non si può parlare in modo razionale di un film covato per tanti anni. E infine, da questo film, poetico e terribile, è tuttavia stato costretto, anch'egli, a fare ritorno.

2.

Chi è David Lynch? Com'è fatto un uomo che ha tali visioni? È una domanda che ha cominciato a porsi in seguito al successo di pubblico ottenuto dal suo secondo lungometraggio, Elephant Man. È un inglese, come sembrava indicare la sua regia stringata e il suo ri­ serbo? O un giovane avanguardista newyorchese? Un uomo di città, sicuramente, nato in qualche città rumorosa e fumosa di cui trasfigu­ ra il paesaggio nei suoi film. Niente di tutto questo. «Sono nato nel Montana, l'America profonda. Ma è vero: negli Stati Uniti molti pensano che io sia europeo»2. Il Montana è uno stato del Nord-Ovest ricco di foreste, ai confini del Canada, attraversato in parte dalle Montagne Rocciose. Una del­ le sue più importanti risorse è lo sfruttamento del legno (conifere). Ed è in una delle tante cittadine dello Stato, Missoula, 30.000 abitan­ ti, situata in una vallata e circondata da montagne, laghi e da una ri­ serva indiana, che il 20 gennaio del 1946 nasce, sotto il segno del Ca­ pricorno, David Lynch. È il più vecchio di tre figli: un fratello, John, che nasce a Sand­ point, Idaho, la cui presenza è evocata in alcuni dei suoi ricordi, e una sorella, Margaret, nata a Spokane, «che aveva paura dei piselli perché erano duri fuori e morbidi dentro»’. La famiglia paterna di Lynch è originaria del Montana, dove suo padre trascorre l'infanzia in un ranch situato nel bel mezzo di un campo di grano. 11 mestiere scelto da) padre riflette questa origine: scienziato, ricercatore presso il Ministero dell'Agricoltura, trasferito di frequente, «faceva esperi­ menti sulle malattie del legno e degli insetti. Per i suoi esperimenti aveva a disposizione immense foreste» *. Lynch racconta che accompagnava suo padre quando andava nelle foreste per lavoro. «Adorava il suo lavoro - aggiunge in un'al­ tra intervista - a cui si è interessato fin da giovane. Come dico sem­ pre: se gli si lasciasse la briglia sciolta sul collo, andrebbe nei boschi per non tornarne più» *. È noto che il legno e i boschi occupano uno spazio importante nell'opera di Lynch. 74

UN HI M IM CUI NON SI RIIORNA

Nelle interviste che rilascia, Lynch è sempre più avaro d'informazioni sulla madre. Dice che era una donna di casa, originaria di Brooklyn, insegnante di lingue a domicilio (e nei film è subito evi­ dente un rapporto privilegiato della donna con la scrittura e l'alfabe­ to). Suo padre faceva il tranviere, aveva abbandonato la scuola mol­ to presto per fare lo scaricatore di porto. «Viveva con montagne di dizionari»*, racconta Lynch che dice di essere stato sempre molto impressionato dal nonno. E non è certo un caso, per un cineasta che dichiara più volte il suo rifiuto per la scuola e dedica il primo corto­ metraggio, Alphabet, a una «satira dell'educazione». In compenso Lynch ama raccontare il primo incontro dei suoi ge­ nitori. O meglio, quale circostanza lo ha determinato: «Si trattava di un corso di scienze naturali all'aperto, all'epoca erano entrambi stu­ denti alla Duke University»Ancora sotto il segno dello spazio esterno e della biologia. I suoi genitori non litigavano mai, racconta, non bevevano, non fumavano, e si sarebbe sentito a disagio se l'avessero fatto. Lynch ha sempre avuto buoni rapporti con il fratello e la sorella; ottimi erano anche rapporti con i nonni che venivano a trovare i bambini con la loro bella Buick e portavano un sacco di regali (una parodia della si­ tuazione la troviamo in Velluto blu (Blue Velvet). 11 primo incontro del piccolo Lynch con la grande città, in occa­ sione di una visita alla nonna materna a Brooklyn, doveva essere memorabile: la metropolitana, il vento, l'odore e i suoni costituirono per lui un'impressione straordinaria. In altre interviste, stranamente, Lynch associa Brooklyn a visite alla madre (a meno che il giornalista non abbia mal interpretato le sue dichiarazioni). Bisogna dedurne che i suoi genitori si fossero separati? A ogni modo da queste sensa­ zioni nate da un paragone fra il suo ambiente ovattato di bambino e la metropoli assordante, Lynch ricava il paradigma stesso di ogni differenziazione: «Il contrasto quando andavo a trovarla mi.h.a.pQXr tato a questa passione per le città industriali»8. Lynch si struttura in effetti per contrasti. «È il contrasto che fa funzionare le cose», dichia­ ra quando parla di come concepisce un film. E, quando gli si chiede di parlare dei suoi familiari, ha una rispo­ sta bizzarra: «Le persone sono diverse a seconda dei luoghi»*. La na­ tura primigenia del padre e la natura-macchina della madre?

3.

In data non precisata la famiglia Lynch si stabilisce a Boise, 15

DAVID LYNCH

Idaho, dove David vive fino all'età di quattordici anni, poi a Spoka­ ne, nello Stato di Washington, a Durham, nella Carolina del Sud, in­ fine ad Alexandria in Virginia, dove Lynch prosegue i suoi studi al college (si tratta sempre di stati agricoli e forestali). È proprio l'ambiente di Spokane che Lynch dice di aver voluto evocare all'inizio di Velluto blu - un mondo idilliaco e protetto, un po' irreale, che gli piace descrivere sempre allo stesso modo, modifican­ done soltanto qualche dettaglio qua e là. Ad esempio: «Nella mia testa di bambino, tutto sembrava serenamente bello. Gli aereoplani passa­ vano lentamente nel cielo, pupazzetti di gomma navigavano sull'ac­ qua, i pasti duravano anni e la pennichella sembrava infinita» ” Il cielo, l'acqua (l'idea di superficie e di galleggiamento), i contra­ sti estremi (aerei e giocattoli), il tavolo da pranzo e il letto: Lynch ha infilato qui quasi tutto ciò che ossessiona i suoi film! Altra versione: «Era un mondo di sogni, il cielo blu, gli aerei che lo percorrevano rombando, gli steccati, l'erba verde, i ciliegi... Ma sotto quei ciliegi trasudava ima specie di resina mezza gialla mezza nera...» ". Lynch parla anche di «deli blu, di fiori rossi, di erba verde, di steccati bianchi con uccellini che cinguettano fra gli alberi e un aereo rombante sopra la testa»12. Questi «droni» (rimbombi e ronzìi incessanti) che co­ stituiscono un «avviluppamento sonoro» cominceranno a comparire nel suo cinema a partire dal secondo cortometraggio, The Grandmother. Ma l'esattezza irreale di queste evocazioni suggerisce che avrebbe­ ro anche potuto essere ricomposte attraverso le immagini di un libro. Lynch allude del resto a un manuale che veniva dato a quel tempo agli studenti americani per imparare a leggere, dal titolo Good Times on Our Streets, «che parlava di felicità, dell'ambiente che ci circonda e di buon vicinato. Si imparava a leggere con questo testo seguendo le av­ venture di Dick, Jane e del loro cane Spot» Del resto, egli racconta spesso la sua infanzia come una sceneggiatura da fumetto o da film, fatta di inquadrature molto contrastate: «Vedevo la vita tutta fatta di primissimi piani - in uno, ad esempio, la saliva si mescolava al sangue - o di totali di un ambiente monotono» M. «Avevo decine di amici, ma preferivo rimanere solo a contemplare gli insetti che brulicavano nel giardino»,s. E toma identica una situazione di contrasto, qui fra la moltitudine umana degli amici e quella degli animaletti per terra. Stando a quanto dice, David Lynch da ragazzo non leggeva - fat­ ta eccezione per Kafka -, guardava poco la televisione, disegnava un po', faceva un po' di nuoto e di pallacanestro, ma soprattutto fanta­ sticava molto. Rivela inoltre spesso la sua resistenza precoce contro la scuola e contro le parole, che trovava difficili da usare. Da sempre interessato 16

UN HI M UA CUI NON SI KITOKNA

al disegno, frequentava corsi domenicali di pittura: «Per me la scuola, allora, era un attentalo contro la gioventù perché distruggeva i ger­ mogli di libertà. Non arricchiva la conoscenza né le attitudini positi­ ve. Le persone che mi interessavano non frequentavano la scuola» Nella logica di Lynch, e nel suo personalissimo modo di utilizza­ re alcuni termini - il termine «astratto», ad esempio - c'è qualcosa dell'autodidatta, o comunque di chi si è ricostruito un linguaggio differente e codificato. Anche il cinema appartiene ai primi ricordi di Lynch, ma un cine­ ma di quartiere. Il primo film visto in un drive-in con i suoi genitori, dovrebbe essere Wait Till the Sun Shines, Nellie. Un melodramma del 1952 di Henry King, che racconta la vita del barbiere di una cittadina, dal matrimonio alla pensione, attraverso varie disavventure familiari. «C'era una scena che mi aveva colpito molto, quando un bottone si conficca nella gola di una bambina. Sono sicuro che si trattava di una scena molto breve in cui non si vedeva granché, ma ricordo an­ cora l'impressione che ha provocato in me quel bottone di traverso nell'esofago della bambina»17. Quando abitava a Boise, nell'Idaho, c'era in fondo alla strada un cinema di quartiere che si chiamava «The Vista Theatre» (lo ritrove­ remo in Velluto blu). Programmava film fantastici o di fantascienza (La «cosa» da un altro mondo di Niby c Hawks, Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, L'esperimento del dott. K di Kurt Neumann) e i film di Elvis Presley, che Lynch parodizza con tenerezza in Cuore sel­ vaggio. In quel periodo, esce anche Scandalo al sole di Delmer Daves con Sandra Dee e Troy Donahue, avventure romantiche estive di un gruppo di teenager su un'isola. «Era fantastico vedere una "soap opera" come quella con la propria fidanzatina. Ci faceva sognare!»1’. Amori da adolescente che ritorneranno in Twin Peaks. Ma, per con­ fessarli, Lynch ha avuto bisogno del successo e di una maggior sicu­ rezza in se stesso. Prima, preferiva consegnare ai suoi intervistatori un curriculum da giovane studente cinéphile, molto più rispettabile, che includeva soprattutto film europei, da lui scoperti a Philadelphia quando studiava arti plastiche.

4.

Perché David Lynch, com'è noto, comincia a dedicarsi alla pittu­ ra. Un desiderio d'infanzia che non sapeva prima come realizzare perché credeva, così dice, che i pittori appartenessero ai secoli pas­ sati. Insomma, i suoi genitori non gli avevano spiegato niente, e so77

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prattutto non dovevano averlo particolarmente incoraggiato né as­ secondato nelle sue ambizioni artistiche, almeno all'inizio. Poi una volta, Toby Keeler, un suo compagno di scuola, gli pre­ senta il padre, Bushnell Keeler, che diventerà uno dei suoi pittori preferiti, e Lynch, di colpo, capisce che si può essere artisti. Cosa dipinge Lynch? «Scene di strada, in stile borghese», almeno stando a quanto dice a Paul Grave di «Cinéphage», forse sotto l'in­ fluenza di un pittore per cui nutrirà sempre grande ammirazione: Edward Hopper. Un altro compagno di scuola, altrettanto importante, è Jack Fisk, destinato in seguito ad affermarsi .nel cinema come scenografo cine­ matografico e, occasionalmente, come regista di un bel film, Raggedy Man, in cui dirige la moglie, Sissy Spacek (che aiutò la produzione di Eraserhead). Fisk viene immancabilmente citato da Lynch come il suo miglior amico, insieme con un altro ragazzo, morto giovane in un in­ cidente automobilistico (la valenza drammatica degli incidenti stra­ dali in Cuore selvaggio rinvia forse a questa drammatica esperienza). Lynch comincia dunque a frequentare la Corcoran School of Art di Washington D.C., e affitta uno studio per dipingere con Jack Fisk. «Eravamo continuamente in competizione», testimonia Fisk, ricor­ dando come la sua scelta di accostarsi all'arte astratta dipendesse dal fatto che all'epoca Lynch dipingeva scene realiste. Dopo la maturità Lynch lasciò la cerchia familiare per andare alla Boston Museum School, dove si ferma un solo anno deluso dal basso profilo degli studi e da compagni privi di interesse. Così Lynch e Fisk decidono di progettare un grandioso viaggio-studio in Europa della durata di tre anni, in cui sperano di incontrare il pittore austriaco Oskar Kokoschka, morto nel 1980. La loro prima tappa è Salisburgo, una grossa delusione per un Lynch disorientato. «Pensavo soprattutto al fatto che mi trovavo a 7.000 miglia dal più vicino Mac Donald», è la frase, divenuta prover­ biale, con la quale descrive il suo disappunto e che alimenta il suo personaggio di americano al cento per cento. Fisk e Lynch tornano a Parigi, dov'erano atterrati in Europa, e tirano a sorte per sapere se visiteranno il Portogallo (come vuole Fisk) oppure Atene (come pre­ tende Lynch, che vince). Dopo un viaggio sull'Orient Express, sco­ prono una città che non piace loro per nulla, e dopo vari giorni e notti di treno rientrano a Parigi da dove riprenderanno l'aereo per riguadagnare la loro ca^a americana. Siccome la sua famiglia è riluttante a pagargli gli studi, Lynch lavora in un negozio d'arte e di cornici, da cui si fa licenziare per­ ché non riesce ad alzarsi al mattino; in seguito fa diversi lavoretti 78

UN HIM IM UH NON XI RITORNA

fra i quali >1 portiere. Fisk parla allora a Lynch della Pennsylvania Academy of Fine Arts, a Philadelphia, vicino alla costa Est. Ci vanno insieme e si iscri­ vono nel 1965. La ricerca di Lynch è conclusa. Ha trovato l'ambiente culturale dei suoi sogni. «Le scuole hanno alti e bassi, io sono capitato in un perio­ do eccezionale» Qui come è noto conoscerà il lavoro degli «actionpainters» come Jackson Pollock, Franck Kline e Jack Tworkov (più tar­ di scoprirà anche Francis Bacon, Edward Hopper e il Doganiere Rous­ seau). Ed è sempre sui banchi di questa scuola che conoscerà la donna destinata a diventare la sua prima moglie, Peggy.

5. Di tutti i periodi pittorici che Lynch attraversa nel corso dei suoi anni di studio, le sue opere successive recupereranno qualcosa. Quindi, dopo le scene di strada, ha inizio una serie che chiama «sinfonie industriali». Ed è questo il titolo che darà allo spettacolo musicale realizzato nel 1989 con Angelo Badalamenti. Nel caso spe­ cifico si trattava di complessi mosaici dalle forme geometriche. «Ho anche realizzato alcune serie di "donne meccaniche", donne che si trasformavano in macchine da scrivere»10. Ancora un'idea lynchiana: si ricordi che le vittime dell'omicida in Twin Peaks venivano ritrovate con delle lettere dell'alfabeto infilate sotto le unghie, come se L'auto­ re avesse «l'ossessione della dattilografa» (non hanno forse anch'es­ se le lettere sulla punta delle dita?). La donna, del resto, è un soggetto che il Lynch pittore e scultore, già cultore degli elettroshock, si dedica presto con piacere a manipo­ lare e a fare reagire: «Una volta ho creato una sorta di biliardo elet­ trico, nel quale si lasciava cadere un biglia che, scendendo lungo una rampa, azionava tutta una serie di contatti: uno sfregava un fiammi­ fero su una superficie per accendere un petardo, altri facevano aprire la bocca della donna, accendevano un'ampolla rossa e la facevano urlare quando il petardo prendeva fuoco»21. Poi, dall'oscurità, cominciano a uscire le prime figure... E, un giorno, il cambiamento che Lynch non sa ancora essere quello definitivo: la decisione di realizzare dei «film painting», delle pitture animate. «Ciò che mi mancava quando guardavo quei qua­ dri, era il suono, aspettavo che un suono, un alito di vento forse, ne uscisse fuori. Volevo anche che i bordi del quadro scomparissero, de­ sideravo entrarci dentro. Era spaziale...»22. 79

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Questa possibilità di penetrare in uno dei suoi quadri a un certo punto finisce per concretizzarsi, un giorno che ne osservava uno ap­ pena terminato. «Guardando ciò che avevo fatto, ho sentito un ru­ more. Come un alito di vento. È capitato all'improvviso. Immagina­ vo un mondo in cui la pittura fosse in continuo movimento. Ero molto eccitato e ho incominciato a fare film di animazione che somi­ gliavano né più né meno a dei quadri in movimento»”. È fondamentale notare che proprio l'intersezione di un quadro con un suono (un suono tipicamente lynchiano, il vortice e il vento) ha dato il «la» decisivo e ha messo qualcosa in movimento - come se l'immagine non potesse animarsi da sola. Durante il suo secondo anno di studi a Philadelphia, Lynch rea­ lizza dunque il primo film, della durata di un minuto, che compare nella sua filmografia con il titolo Six Figures. Di fatto questo film, il solo che non abbiamo visto, era stato con­ cepito per essere proiettato su di uno speciale schermo-scultura la cui superficie comportava, in punti precisi, dei rilievi a forma di te­ ste (modellate su quella dell'autore) e braccia a tre dimensioni. Il film (un film di teste e di braccia!) passava sullo schermo in modo che una parte delle teste proiettate ricadesse su quelle in rilievo e ne risultasse deformata. «Nel corso della proiezione, le teste si trasfor­ mavano in stomaci, e si sarebbe detto che questi prendessero fuoco. Tutto cominciava a muoversi, a contorcersi, a vomitare. Poi si ripar­ tiva. Per la colonna sonora avevo scelto una sirena»24. Il film viene girato interamente da Lynch, immagine per immagi­ ne, con una macchina da presa usata, non reflex, che gli fa fare alcu­ ni errori istruttivi (ad esempio, la colloca troppo lontano e riprende un'inquadratura più larga dei disegni). Questo lavoro, che ottiene un premio, viene proiettato in occasione di una mostra della scuola nella primavera del 1966. In quel periodo, David Lynch si mantiene facendo il «graphics printer» (un lavoretto che darà in prestito al protagonista di Era­ serhead) presso un amico pittore, Roger La Pelle, lavorando con la suocera di questi, a sua volta pittrice. Ed è a questa donna dal fisico robusto e rassicurante, Dorothy Me Ginnis, che sembra aver contato molto per lui, che affiderà il ruolo di protagonista nel suo secondo cortometraggio, The Grandmother.

6.

Nell'aprile 1968, Lynch diventa padre della piccola Jennifer (avrà 20

UN HI Al M < III NUN SI Hl I ORNA

altri due figli da due donne differenti: Austin dal matrimonio con la sorella di Jack Risk e Riley nel 1992 da Mary Sweeney). In quel perio­ do Peggy e David Lynch vivono modestamente, un'epoca che suc­ cessivamente Lynch mitizzerà fino a descrivere Eraserhead come l'espressione delle paure e delle tensioni vissute nei cinque anni di Philadelphia. «L'ho già detto e lo ripeto: Philadelphia è la più violenta, degra­ data, malata, decadente, la più sporca e la più buia delle città ame­ ricane. Entrare in questa città, è immergersi in un oceano di paura. Il suo motto è "Città dell'amore fra terno < j 7, Senza dubbio, poiché questo motto è una semplice traduzione dell'etimologia greca del nome. Un'etimologia che Lynch sembra ignorare, il che gli permette di sentirsi maggiormente colpito e se­ dotto dall'aspetto insolito del contrasto. La questione dell'amore fraterno è ancora abbastanza oscura nell'opera di Lynch. Bisogna ricordare che è il primo di tre figli, che ha quindi vissuto il dramma di ogni primogenito privato dell'amore esclusivo dei genitori da un intruso. Il mostruoso bebé di Eraserhead, che viene voglia di uccidere e sopprimere, rappresenta ciò che un primogenito può provare alla vista dell'essere grinzoso e urlante che, catapultato in famiglia, lo priva del suo posto. Una cosa banale, ma la peculiarità di Lynch è appunto quella di tenersi in prossimità di esperienze arcaiche, condivise da tutti, ma alle quali abitualmente non si presta attenzione. David Lynch abita in quegli anni in una zona industriale poco popolata nella zona sud di Philadelphia, vicino all'obitorio. Si sono subito create molte leggende a proposito di questo edificio come fonte d'ispirazione dell'opera di Lynch, il quale, anni dopo, sentirà il bisogno di precisare di esserci entrato una sola volta per curiosità, benché vi sia passato davanti tutte le notti per andare a mangiare. All'esterno, si facevano seccare i sacchi contenenti i morti lascian­ doli aperti - un dettaglio che ispirerà i «sacchi che ridono» di Twin Peaks (formula enigmatica che fa parte degli indizi dati in sogno da un gigante a Dale Cooper). Avendo bisogno di spazio per il suo lavoro di pittore, David e Peggy affittano una casa di dodici stanze in un quartiere povero. La tensione razziale, la violenza, la paura e i furti sono fatti quotidiani. «Un giorno ho detto a della gente: tutto ciò che mi protegge dall'ester­ no è questo muro di mattoni; e loro mi hanno chiesto ridendo che cosa mi serva d'altro. Di fatto, quel muro era come fatto di carta»26. Di sera, quest'area industriale, fatta di vie dritte e di grandi edi­ fici smessi e neri, era praticamente vuota, e si udivano soltanto passi

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isolati e macchine che passavano. Lynch studente fa vita da hippy: capelli lunghi - gli stessi che gli si vedranno quattro anni dopo durante le riprese di Eraserhead e che gli procurano le minacce di un ciclista: «La banda della 24* strada ti romperà il culo». Nemmeno una cosa poi così cattiva, si potrebbe obiettare, ma la violenza c'era, e se ne è rimasto segnato uno come Scorsese che l'ha vissuta quotidianamente per tutta l'infanzia, che dire di chi, abituato a un mondo protetto, la scopre improvvisamente nel momento stes­ so in cui abbandonava la sicurezza della famiglia?

7.

Il suo primo capolavoro di «pittura animata» gli era costato la bellezza di duecento dollari, una somma troppo alta per Lynch, che non pensa di continuare su questa strada, quando H. Barton Wasser­ mann, un milionario che ha visto il suo lavoro, gli propone di acqui­ stare uno dei suoi «filmpainting» commissionandogliene un altro per mille dollari. Con questa somma da capogiro, David si compra una cinepresa nuova, senza accorgersi che ha un problema di messa a fuoco, e si impegna in un nuovo lavoro basato sullo stesso principio: uno scher­ mo scolpito sul quale si proietta a ciclo continuo un film d'animazio­ ne. Ma passati due mesi ad animare fotogramma per fotogramma, di ritorno dal laboratorio, il materiale risulta tutto sfocato. Quando Lynch chiama il suo mecenate per raccontargli la situa­ zione, questi gli risponde di tenere il denaro e di farne ciò che vuole. Lynch chiede aiuto al padre. Si tratterà del suo primo vero film, un cortometraggio a colori di quattro minuti. «A film by David Lynch, Production H. B. Wassermann» recitano i titoli di testa brevissimi di The Alphabet, che secondo l'autore è «un piccolo incubo sulla paura associata all'apprendistato, molto astrat­ to, piuttosto conciso»27. Conciso, astratto e anche sconcertante. La prima immagine presenta una donna allungata su un letto con un grande cuscino bianco su fondo nero. Segue un viso di donna in primo piano, freddo e nascosto dietro a occhiali neri e che una linea astratta collega, come un filo, sul lato sinistro dell'immagine. Il suo­ no: un coro martellante di bambini che ripetono: A, B, C! Compare in animazione un mondo stilizzato: un pavimento spo­ glio visto in prospettiva e un cielo dove troneggia il sole inscritto 22

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nell'inquadratura coinè una bandiera. L'astro del giorno e il canto vi­ goroso di una voce maschile, che sale e scende di tonalità sulle lette­ re dell'alfabeto, sembrano essere la stessa e unica forza generatrice che fa spuntare sul pavimento delle lettere in disordine mentre una nuvola si addensa intorno al sole. Un creatore giocoso e arbitrario sembra regolare l'apparire delle lettere (tra queste una K che cade dal cielo), fino al definirsi di due fila allineate da «1» a «t» e da «u» a «y». Manca la Z. Inquadratura astratta: il viso della donna dietro a un cerchio bar­ rato da una griglia. Un piccolo cerchio avanza in un corridoio verti­ cale. Una grande «A» con delle radici (la si direbbe un rebus, ed è possibile che proprio la forma del rebus abbia ispirato il film) emet­ te, accompagnata dal rumore del vento, uno pseudopodio oblungo che, diventato tubolare, espettora sul pavimento due piccole «a» che vagiscono. Poi, è la volta di una donna seduta ai bordi del letto in una stanza astratta, anch'essa collegata a un cordone ombelicale, il cui viso e corpo sono costantemente rimaneggiati e ridisegnati, in un groviglio inestricabile di forme geometriche e organiche. Il suo viso si fissa in una maschera asimmetrica; in prossimità del viso, una superficie rossa rettangolare, anch'essa collegata al suolo da un cordone ombe­ licale, si riempie, inghiottendo lo spazio vuoto come il Pacman di un videogioco. Dal rettangolo esce un cuore, che diventa peloso. Questo cuore emette dei semi, poi delle piccole «a, b, c,» che si riversano nel cranio aperto della donna seduta. 11 volto-maschera apre la bocca, e anche una donna reale in camicia da notte. La donna disegnata si agita, il suo corpo e i suoi organi si disgregano. Un volto grottesco, in primo piano, urla minaccioso in sincrono: «Please, remember you are dealing with the human form» (Non dimenticare che stai giocan­ do con la forma umana). «A, B, C!», tornano a ripetere con energia i bambini, mentre sull'immagine si muovono delle particelle: sono rosse e cadono come gocce sulla donna coricata e insanguinata e sul­ le lenzuola. Infine, ed è questa la parte più affascinante del film, c'è una serie di inquadrature veloci e di altre quasi fisse, in cui la donna in camicia da notte, coricata in diverse posizioni, tende la mano ver­ so le lettere dell'alfabeto che fuoriescono in diversi punti dello spa­ zio, come bestie che vuole acciuffare o al contrario aggressori da cui vuole difendersi - non è molto chiaro. Parallelamente, una voce di donna dolce e sottomessa recita l'al­ fabeto su un tono da filastrocca e conclude: «Ora che ho recitato l'ABC, dimmi che cosa devo fare». La vediamo rigirarsi nel suo letto come in preda al dolore e coprirsi il viso con una mano. Fine. Tutto 23

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questo non dura più di quattro minuti. L'elemento che più colpisce di The Alphabet è la componente im­ prevedibile e destrutturata. Groviglio di tecniche, forme, ritmi - tut­ to sconcerta e rende difficile un'assimilazione rapida del film a un'idea o a un concetto. 11 suono ha un che di incombente e d'inten­ so, raro nei film d'animazione «artistica» in cui è generalmente sem­ plice e rarefatto. É paradossale se si pensa all'esercizio formale che il tema lascia supporre; qui le lettere si sono velocemente moltiplica­ te nel tempo e nello spazio in un disordine apparente. Infatti, soltanto dopo più visioni è possibile individuare una sor­ ta di sceneggiatura simbolica. Alla voce recitante dell'uomo che can­ ta tutto d'un fiato l'intero alfabeto (fatta eccezione della Z!), si con­ trappone la donna, che assorbe faticosamente le tre prime lettere per poi affrontare le altre discontinue e frammentate e finisce col recitare il tutto come una conta imparata a viva forza. Si confrontano anche una potenza celeste generatrice e una forza creatrice partenogenica (la A che partorisce). La donna sembra dunque essere l'oggetto di una violenza pedagogica: allo stesso tempo essa è collocata dalla parte del discontinuo frazionamento e il suo rapporto con le lettere è più che ambiguo (sono state partorite da lei?). Vedremo più avanti, nel nostro «Lynch-kit», lo sviluppo che Lynch farà di questo tema. È evidentemente difficile ricostituire l'effetto che tutto ciò ha po­ tuto provocare sui primi spettatori e di non leggervi un'anticipazio­ ne di tutta l'opera successiva di Lynch, ma la prima impressione è quella di una violenza particolare unita al fatto che tutto ciò non as­ somiglia a nient'altro, né è retto da una logica già conosciuta.

8. The Alphabet solleva un certo interesse nel giro di Lynch, che riesce a ottenere una borsa di studio per realizzare un altro cortometraggio dall'American Film Institute, di cui gli aveva parlato il suo amico Toby Keeler. Questa volta cambia marcia: c'è una sceneggiatura, di­ versi attori, le immagini vengono per lo più girate dal vero, ma so­ prattutto la durata è quella di un vero cortometraggio, trentaquattro minuti. Il cast di The Grandmother è tutto di amici: nel ruolo del padre, un tecnico che aveva già registrato gli effetti vocali per The Alphabet; un'amica pittrice interpreta il ruolo della madre; un vicino di casa è il bambino (Lynch sarà molto soddisfatto della sua interpretazione) e soprattutto c'è Dorothy McGinnis nella parte della nonna. La tecnica del film, molto eterogenea e contrastata, unisce dise24

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gno animalo, riprese in «pixillation» (tecnica di animazione applica­ ta a esseri viventi già utilizzata da McLaren in Neighbours) e riprese dal vivo a velocità normale. Non sembra esservi presa diretta del suono: anche le urla dei genitori sembrano post-sincronizzate. Tutti i rumori in sincrono sono stati rifatti in maniera irreale e stilizzata, in uno stile che talvolta è vicino a quello di Jacques Tati. Ed è del resto grazie al suono che Lynch scopre in questo film co­ lui che diventerà un collaboratore importante dei suoi primi lungometraggi, Alan Splet, un tecnico e inventore di suoni che lavorava in una piccola società di post-produzione dove missava film industriali, raccomandato a Lynch dal fonico di The Alphabet. Il lavoro sul suono richiede due mesi, sette giorni su sette, a tempo pieno, con l'aiuto di Bob Chadwick e Margaret Lynch per la creazione degli effetti sonori. Ci permetteremo di descrivere The Grandmother nei dettagli per tre ragioni: primo perché è una specie di sintesi ultra compatta che sprizza spontaneamente la problematica lynchiana, dove nulla appa­ re ancora corretto o censurato, una miniera, un vero compendio; in secondo luogo perché il film non è disponibile in cassetta e il lettore non avrà facilmente l'occasione di vederlo; infine i resoconti che si possono leggere in proposito qui e là consentono difficilmente di far­ sene un'idea, poiché la sua complessità e la sua velocità portano so­ vente fuori strada. Il film comincia con una sorta di pittura animata simbolica che rappresenta uno spaccato del mondo in forma stilizzata: una specie di falda freatica sotterranea ricoperta da uno strato di terra. Tre sac­ che scavate nella terra sembrano posate sulla superficie dello spec­ chio d'acqua: quella a sinistra e quella di mezzo si prolungano attra­ verso un corridoio verticale che termina all'esterno, mentre quella di destra è chiusa. Sotto la crosta, nasce e prende forma, seguendo un percorso che passando dalla sacca destra si incurva in direzione di quella centrale, una sorta di periscopio di sottomarino verso cui viene spinta una fal­ lica bocca rossa: questa bocca a tubo sputa un seme nella tasca centra­ le, poi un getto di sostanza bianca che la riempie. Da questa sostanza emerge un corpo umano - disegnato in modo oblungo, dalle lunghe braccia e con le gambe non ancora separate - il quale, spinto verso l'esterno dalla sostanza che sale con lui, percorre un corridoio fino al­ la superficie della terra, rimanendo sempre legato al sottosuolo da un cordone. Immagine reale: un fusto in maglietta spunta nella campa­ gna, su un terreno coperto di foglie. È l'Adamo di questa creazione. Animazione: dalla tasca centrale maschile fuoriesce un tubo-cor­ ridoio, che fa tunnel in direzione della tasca sinistra femminile la

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quale si riempie ugualmente (dettaglio interessante su cui ritornere­ mo: il tubo-corridoio che collega la tasca matrice dell'uomo a quella della donna non è attraversato dalla sostanza, esprime piuttosto un contatto astratto). Un altro corpo, femminile, esce dalla tasca sinistra. Giunti all'aria aperta Adamo ed Èva (tutti vestiti) aprono orizzontal­ mente le braccia come se fossero ali e poi le lasciano ricadere. Un ambiente domestico si disegna intorno a loro sovrastato da un firma­ mento stellato. L'uomo e la donna si uniscono attraverso la testa e le braccia contorcendosi, sempre collegati alla crosta sotterranea dalla sostanza bianca. Immagine reale: la donna vestita di un brutto abito di tela stampa­ ta e l'uomo in maglietta fuoriescono dal suolo con il dorso stringen­ dosi e vibrando elettricamente come due insetti che si accoppiano. Nuova rappresentazione «in animazione»: due semi simili a goc­ ce prendono il volo dalle sacche sotterranee riempite di sostanza. Hanno forma e dimensione simili, ma quella maschile è rossa, quella femminile è bianca (i colori che dominano il film). Esse si nascondo­ no in una nuova tasca sotterranea dove formano un uovo bianco a cui il seme maschile dà un centro rosso. Immagine reale: il viso in primo piano dell'uomo si muove, come messo in guardia, quello della donna è immobile. Dal nucleo rosso divenuto nero esce una sostanza scura che dà vita a un bambino dal collo filiforme, brutalmente «vomitato» all'esterno dalla sostanza bianca. Lo si vede, ripreso dal vero, emer­ gere in superficie: prima la testa, poi il corpo che giace come senza vita. Il padre spaventato urla, la madre vuole invano trattenerlo e si dispera tra sé e sé (forse non voleva figli? Avrebbe preferito una fem­ mina?) ma striscia verso il bambino, che a terra rotola su se stesso. Per descrivere quanto segue Lynch ricorre nuovamente alla pit­ tura animata: il padre si allunga all'infinito e spinge come una pian­ ta in accelerato per passare al di sopra della madre che si trova tra i due; raggiunge suo figlio, lo colpisce, questo emette due grida che lo fanno crescere in altezza. In basso la madre agita le braccia-ali. I tre continuano a essere invischiati di sostanza bianca. Non c'è stato corpo a corpo tra madre e figlio in nessun momento della procreazione e della nascita. Si direbbe la ricostituzione di un dramma vissuto che rivendica, in forma quasi polemica e vendicati­ va (verso la madre), il ruolo del partoriente all'uomo, e il rigetto di una madre in preda alla depressione post parto. Ma tutto ciò svanisce così velocemente che è impossibile accor­ gersene a meno che non si veda più volte il film rallentato. Tanto che alcuni critici dall'onestà e dalla precisione maniacali non hanno visto

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questo momento loniLimviUalv, anche a seguito di più visioni. Im­ possibile fare a meno di pensare che Lynch abbia mostrato qui qual­ cosa di importante quanto nascosto: una sorta di disconoscimento rabbioso della fatalità di essere nato da una madre, di esserle stato organicamente legato. Interno: riprese dal vero. Il ragazzo ha l'aspetto di un Pee-Wee in miniatura: trucco molto pallido, labbra rosse e smoking con tanto di papillon. Questo ragazzetto anticipa il piccolo mago di Twin Peaks, ma soprattutto l'impeccabile Dale Cooper, un damerino lustro e bru­ no. Scopriamo l'ambiente in cui vive: una camera presentata in mo­ do stilizzato, con un letto ricoperto da lenzuola e cuscino bianchi e comò. Si dirige verso il letto, si siede, come sconfitto. Poi prende una pianta in vaso dalla tavola e la osserva. Fuori, i genitori si agitano strisciando carponi. A un primo sguar­ do sembrerebbero cercare il figlio scomparso. In effetti la madre stri­ scia girando su se stessa, emettendo grida disperate mentre il padre va verso di lei con aria interrogativa. Animazione: la perenne sostanza bianca, che si diffonde come crema da spalmare, spinge i due esseri nell'aria e, per la prima volta, i due si separano dalla materia originaria da cui sono stati creati. Riprese reali: la vita squallida dei genitori nel loro ambiente sti­ lizzato. Il padre beve sprofondato in poltrona mentre la madre si pettina con gesti lenti quanto irritati. Il passare de) tempo è rappresentato da un breve disegno animato in cui un bel sole giallo sorge rapidamente in una inquadratura. Al suono del gorgoglio di un ruscello, il ragazzo coricato in pigiama guarda sotto le lenzuola. Nell'inquadratura successiva, è in piedi, in smoking, e il lenzuolo bianco scostato del letto rivela una grossa mac­ chia circolare rosso-giallo, come se il ragazzo avesse pisciato un bel so­ le! Quando il padre lo scopre si mette a gridare, afferra il ragazzo che si dibatte come un animale, e gli mette il naso nelle sue polluzioni. Il ragazzo con la faccia nella macchia si paralizza sentendo un grido (adesso il film è punteggiato da numerosi fermo-immagine simili). La madre, con addosso una sudicia vestaglia aperta sul petto, ha un atteggiamento più ambiguo: il dito teso verso il seno scoperto, fa il gesto di avvicinarsi al figlio ma quando gli è vicina lo palpeggia, mettendogli le braccia sulle spalle come per abbracciarlo, lo scuote, avvicina le labbra in una smorfia lubrica, avvicina la bocca al collo del ragazzo che si ritrae (stesso comportamento avrà la madre X con I lenry in Eraserhead), sfrega il viso con la mano destra, le dita aperte (una sorta di autoerotismo femminile arcaico è uno dei motivi osses­ sionanti in Lynch). Tutto ciò, ancora una volta, è molto veloce, tanto 27

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che a una prima visione resta coscientemente soltanto l'impressione di un ragazzo rimproverato. È comunque chiaro il motivo per cui al­ cuni critici hanno espunto in buona fede l'ambiguità sessuale della sequenza: non tanto perché mostra la seduzione madre-figlio ma perché questa evocazione è così laida, sgraziata e brutale da imbarazzare soltanto al pensiero. Il ragazzo torna in camera sua e si siede sul bordo del letto (come farà Henry Spencer). Un'inquadratura disegnata rappresenta i suoi pensieri, come ai tempi del cinema muto: la sostanza bianca da cui è separato. Richiamato da un sibilo modulato su tre toni, sale una scala che porta a un fienile dove trova un altro letto, questa volta in metallo. Anche qui, i critici che si sono occupati dettagliatamente del film confondono il granaio con la stanza, come se si trattasse di un unico spazio e i due letti fossero uno solo, il che mostra come più o meno consciamente, il film è fatto in modo da produrre questa confusione. Ciò non toglie che il fienile è la prima rappresentazione nell'opera di Lynch di un mondo parallelo, di cui la Red Room di Twin Peaks sarà l'apogeo. Dopo aver tentato di riprendere l'idea del fienile come spa­ zio mentale in una sceneggiatura rimasta incompiuta, Gardenback, Lynch troverà in seguito nuovi mezzi per farci entrare in altri mondi, mezzi differenti dal simbolismo verticale che organizza il mondo di The Grandmother costruito, come si è visto, per livelli sovrapposti.

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Nella soffitta, il ragazzino trova a fianco del letto un grande sacco su cui sta scritto a caratteri cubitali: «seeds» (semi). Li tira fuori uno a uno, li fa risuonare scuotendoli all'orecchio, scarta quelli che fanno un rumore di serpente a sonagli, e quando uno emette il sibilo a tre note che ha attirato la sua attenzione, sorride e lo mette sul cuscino. Poi rovescia dei secchi di terra sul lenzuolo, fino a ottenere un monticello, in cima al quale scava un cratere in cui posa il seme che in­ naffia abbondantemente (ma Lynch non l'ha mostrato mentre estrae e tira fuori la terra e l'acqua). A questo punto, i suoni che si sentono diventano evocazioni della natura: grilli e tuoni, collegati al montaggio, instaurano in questa scena dall'ambientazione astratta un tempo cosmico, come se la na­ tura contribuisse all'opera in corso. Al di sopra del monticeli©, comincia a tutta prima ad apparire una forma allungata simile a un fungo. La forma, innaffiata, diventa 28

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una grossa zucca pelosa che butta fuori dei rami, con un'apertura in basso che il ragazzo accarezza lungamente e impudicamente (con questa pianta ha molti contatti tattili, mentre fugge i contatti con la madre). Lo si vede sdraiato accanto a lei, mentre agita la testa come una donna nell'estasi sessuale. Nuovo sorgere del sole disegnato, inquadratura rapida girata dal vivo della madre che frega con la mano per terra (un'immagine che si ritroverà con l'evocazione rapida della coppia Leo/Shelly in Fuoco amimina con me), e nuova collera del padre che porta il ragazzo in ca­ mera sopra la macchia sul letto, nuovo grido strozzato del ragazzo. Non si tratta di una ripetizione letterale della scena precedente, ma di una variazione, sotto altri angoli di ripresa - variazione che, per il fatto di essere associata al sorgere del sole, suggerisce una relazio­ ne tra il succedersi dei giorni e la ripetizione della macchia circolare (vai la pena di osservare che il lenzuolo sporco non viene mai cam­ biato né lavato). Il ragazzo dalia sua camera sente un gorgoglio, sale la scala e as­ siste, in un fiotto di liquidi e suoni ripugnanti, a ima sorta di parto di un grande corpo che spinge fuori prima la testa... e infine le scarpe. Compare la faccia gigantesca di una donna, la nonna del titolo, se­ duta per terra come una bambola gigante e inespressiva. Il ragazzino le offre la sua pianta. Il dono la fa sorridere (cfr. la scena dello «smi­ le» nello specchio in Fuoco cammina con me fra Laura Palmer e Bobby Briggs, e la canzone che l'accompagna). Un rumore come di crollo li fa voltare d'intesa: la pianta-placenta svuotata del suo contenuto si è schiantata. Nuova scena di famiglia: il padre e la madre si rimpinzano senza dire una parola e il bambino non ha fame. Quando il ragazzo tende una mano verso la bottiglia, il padre ha un accesso d'ira. Indice della madre puntato contro il ragazzo e grida (ma non le si vede la testa). Il ragazzino fugge dai genitori che urlano come bestie e, al piano di sopra, trova la nonna sul letto, addormentata. Sul tavolo c'è anche del cibo che mangia con appetito. La notte (rappresentata da un'immagine disegnata della luna), la nonna sprofondata in una «rocking-chair» lancia un appello, come in un gioco indiano. 11 ragazzino si veste per salire a raggiungerla. I ge­ nitori, sotto la scala che porta al fienile, sembrano quasi volerlo trat­ tenere, quando il ragazzo, in una strana e breve immagine truccata, proietta attraverso la bocca una specie di spaghetti rossastri. Si toma quindi al disegno animato per un simulacro di esecuzio­ ne: in un teatrino, la figurina-bambino tira una corda che fa apparire sulla scena dapprima un corpo-padre coricato su un letto. Un cap­ 29

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pello triangolare cade sulla testa del bambino e la copre. E, quando il bambino tira nuovamente la cordicella in un rumore di scroscio d'acqua, un triangolo con la punta verso il basso cade sul corpo-pa­ dre e gli trancia la testa. Stesso gioco con un corpo-madre su cui la corda fa cadere una palla che la trancia in due. Poi, un uomo e una donna disegnati appaiono come gonfiati da tubi che spingono verso di loro. Il padre ha per una volta le gambe separate, mentre la madre sta sopra una montagnola triangolare ros­ sa a forma di vestito. 11 padre si dilata in larghezza attraverso il bu­ sto, la madre invece in lunghezza attraverso le gambe. Una forma tubolare a Y spunta da terra tra i due personaggi e li collega con le sue estremità. Appena uniti, il busto dell'uno e le gambe dell'altra si disgregano in due puzzle i cui pezzi prendono il volo. Segue una lunga sequenza muta ripresa dal vivo fra il ragazzo e la nonna nel fienile al suono di una voce femminile a cappella che vocalizza in uno stile poetico che ricorda gli anni '70: la nonna vede il bambino buttarsi nel letto dove giace la pianta (per cui lui è in lut­ to?) e lo rasserena sorridendogli e parlandogli dolcemente. Si tocca­ no in punta di dita, e ripetono reciprocamente quel gesto che per la madre rappresentava un gesto di violenza e di divisione: segnare con l'indice diverse parti del corpo dell'altro. Sembrerebbe la scena di un documentario sulla rieducazione al contatto con il corpo per i bambini traumatizzati. Il fermo immagine di un bacio incestuoso sulla bocca chiude questo scambio. Così, questa nonna piantata dal bambino, ignorata dai reali geni­ tori, sembra rappresentare un'altra madre, una madre «di soccorso» che potrebbe rendere più umana la comunicazione del cuore, del corpo e del linguaggio. Al tempo stesso, fisicamente, è una massa unica e rotonda, mentre i genitori sono frammentati in un'agitazione disordinata. È la rappresentazione di un corpo pieno senza estremità che ghermiscono o minacciano, il contrario dei genitori che hanno braccia che palpano e aggrediscono. Altra animazione, dal simbolismo oscuro e di pazzesca comples­ sità: una forma-nonna volante (un corpo largo di bacino e con una parte inferiore articolata) si innesta su una ruota sottoterra e la fa gi­ rare come una pompa. Le spunta fuori un prolungamento oblungo. Un bambino con le braccia incrociate cade dal cielo sulla terra. Un albero gigantesco spinge da terra nel punto in cui il bambino è cadu­ to, poi emette una bocca simile a un megafono o al calice di un fiore, oltre a un prolungamento a forma di tubo da doccia da cui cadono particelle che formano un piccolo mucchio. Da qui, spunta una for­ ma bianca allungata che prende il volo per entrare all'interno della 30

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bocca-fiore, da cui poco dopo esco un essere che volteggiando si li­ bra verso il cielo. Notte. Sottoterra una pianta morta lancia un pro­ lungamento verso un'altra che emette del polline. In breve, una serie di scambi ecologici... ma non si vede come i livelli comunichino e si colleghino l'uno all'altro in un sistema chiuso. Infine, il colpo di scena decisivo: la nonna ha uno spasmo alle mani. Tenta di fischiare, poi si stringe il collo come se stesse soffo­ cando nello sforzo di chiamare qualcuno. Il bambino, che dorme nel suo sudicio letto, la sente e sale. Vedendola soffocare e sgonfiarsi al tempo stesso (due interpretazioni contraddittorie suggerite dal suo­ no, dall'immagine e dalle posizioni), la scuote per le spalle, come aveva fatto suo padre. E mentre scende la scala per andare a cercare soccorso, la nonna si alza. In una serie di inquadrature impressio­ nanti realizzate in pixillation, deambula in modo disordinato, come una talpa impazzita, facendo vacillare i mobili della stanza mentre si sente un sibilo stridente che sembra suggerire l'esaurirsi della sua linfa vitale. Il bambino, al piano di sotto, tenta invano di strattonare il padre per farlo salire. I genitori si burlano di lui con cattiveria. Quando risale, tutto sembra finito, anche se la scomparsa della non­ na non ci è stata mostrata. Torniamo all'ambiente esterno, la campagna, che caratterizzava le prime scene riprese dal vero: il bambino, avanzando triste e pen­ soso, si fa strada in una specie di cimitero in mezzo alle erbacce; qui ritrova la nonna seduta, le mani sulle ginocchia, nuovamente «massa corporale». Lei si china, scuote la testa come a dire «no», poi, brusca­ mente, si tira indietro irrigidita, la bocca aperta - anche il bambino si irrigidisce, in un'espressione di disperazione. Le ultime immagini sono quelle del bambino in camera sul suo letto: gira su se stesso più volte e il film si chiude quando cade, men­ tre in secondo piano una confusa forma-albero continua a tirarsi su. Lo sviluppo, come tutto il resto, è sconcertante: la nonna del ci­ mitero esiste davvero o si tratta di un fantasma? Comunque, ciò che è importante è che ora lei è inserita non nella scena stilizzata e astrat­ ta del fienile, ma posata sulla terra al centro delle piante, localizzata. È legata alla terra/acqua da cui sono stati generati gli altri personag­ gi, mentre il bambino l'aveva fatta nascere nello spazio artificiale di un letto nel fienile, un posto analogo al «letto parallelo» della sua ca­ mera che aveva inseminato con la sua urina. In Eraserhead, dalla terra sarà portata negli spazi artificiali di un comodino e di una scena teatrale. Come può la terra dissotterrata, spostata, conservare la sua natura creatrice? Questa è una delle tante domande poste dal film, che diventa comprensibile solo se visto co­

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me una serie di interrogativi posti attraverso le immagini e i suoni. Non bisogna dunque interpretarlo come un: «È così che succe­ de», ma come una serie di questioni del tipo: «Ho capito bene? È proprio così? Ditemi cosa manca», formulate sul mistero della vita da un bambino che ricostruisce, a partire da brandelli di risposte dei genitori, una teoria fantastica rendendosi conto delle sue lacune.

10.

Rendendo il lettore complice dell'impresa di descrivere pezzo per pezzo un film non raccontabile, perché è anzitutto una successio­ ne di immagini, suoni, gesti, corpi e azioni che richiedono non di es­ sere interpretate di fretta, bensì prima verificate alia lettera, abbiamo voluto, prima d'iniziare un'analisi del cinema di David Lynch, illu­ strare su cosa si basi questo mondo sconcertante: si tratta infatti di una logica tutta particolare, che richiede di rinunciare all'interpreta­ zione a priori dei comportamenti e dei fatti, sia presi singolarmente che nella loro successione. Già presi isolatamente, i gesti e le immagini hanno in The Grand­ mother un significato più inquietante della loro apparenza immedia­ ta: la stranezza di questo cortometraggio si fonda del resto su un scarto fra la logica rigidamente manichea della sua sceneggiatura (in cui i genitori sono «sporchi e cattivi» e la nonna «buona») e un trat­ tamento molto meno semplicistico, che carica ogni immagine di una quantità di significati contraddittori. È per questa ragione che, vo­ lendo riassumere il film, lo si può facilmente tradire: si pensi a quan­ do la madre sembra molestare il figlio e contemporaneamente atti­ rarlo a sé. Quando il bambino soccorre la nonna che sta male, l'ag­ gredisce e la strangola; la madre cattiva e volgare, dai modi villani che mangia o che si pettina, è allo stesso tempo quella che palpeggia il figlio, mentre la nonnina vecchia e gentile (ma non così vecchia, non così rugosa e non così asessuata per la sua età) dà al piccolo un bacio sulla bocca non proprio dei più puri. Del resto, nel loro succedersi, le azioni e le immagini di The Grandmother formano una singolare catena di cause e effetti, che di­ sconosce il primo principio della termodinamica «nulla si perde, nulla si crea», interiorizzato da chiunque nel momento in cui com­ prende il ciclo della nutrizione e dell'escreto, della crescita, della morte, degli scambi interiori/esteriori ecc. In Lynch, ad esempio, pa­ re non esistere il legame fra alimentazione e crescita: come se si po­ tesse crescere di volume e di densità senza nutrirsi della sostanza di

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qualcosa. Dalla terra fuoriescono dei tubi, crescono, si sviluppano e si dividono senza apparentemente trarre la sostanza e l'energia del loro sviluppo altro che da se stessi, o da) movimento ex nihilo dell'arlista che li disegna, li crea e li distrugge. Una buona parte delle catene causa/effetto del film sono, di fat­ to, presentate come misteriose: perché il tirare una corda provoca la caduta dal soffitto di una massa triangolare? E perché quando due esseri umani si strusciano l'uno contro l'altro un terzo spunta dalla terra? Si direbbe quasi che tutto si svolge per magia, come quando un bambino si interroga sull'elettricità: perché premere un interrut­ tore dà origine alla luce? L'universo di The Grandmother sembra dun­ que più di una volta regolato, nei suoi aspetti più organici come in quelli più cosmici, secondo una logica «elettro-magica», quella di un bambino del XX secolo a cui si fosse sommariamente spiegata l'ener­ gia elettrica e che ne avesse dedotto il funzionamento del mondo. In questa logica, tutto si produce per trasmissione astratta. I corpi non sono essi stessi elementi fatti di materia caduca (una materia impa­ stata da altri corpi assorbiti e trasmutati), ma sono come fili, dei transduttori, dei conduttori di questa inspiegabile e astratta energia. I )a qui l'aspetto quasi dimostrativo e stilizzato di molte immagini del film realizzate in animazione. Insomma, nella teoria astratta del mondo di cui The Grandmother ci svela lo schema, la vita secondo Lynch altro non è che un montag­ gio elettrico. Ma questa teoria sa di non poter spiegare, collegare e sublimare ogni cosa. Sa che rimane qualcosa di organico, di materia pullulante, del corpo a corpo e che il risultato degli scambi di energia non è posi­ tivo. Allora imbroglia e The Grandmother, nella sua ricostruzione me­ ticolosa di una logica infantile, è un film straordinario che ha l'onestà di rivelare alla lettera anche le astuzie, che tutti possono vedere, basta aprire un po' gli occhi: così all'inizio il tubo vuoto che collega la tascapadre con quella madre, riempie la seconda della sostanza contenuta nella prima, senza essere tei stessa attraversata da questa sostanza. È un modo questo per non scegliere tra una teoria elettrica (trasmissione astratta dell'energia) e la teoria sostanziale (il mondo come serie di va­ si comunicanti in cui una sostanza cerca di espandersi). Ma The Grandmother non è soltanto l'opera astratta che abbiamo voluto mettere in luce, e che contribuisce a chiarire un recente (e non riconosciuto) tentativo del cineasta: Fuoco cammina con me. The Grandmother traduce anche una sorta di lirismo cosmico che andrà a toccare anche i successivi film di Lynch, senza la paura di mettere in rapporto il piccolo e l'immenso, il disgustoso e il grandioso: la pozza 33

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giallo-rossastra che si allarga sulla bandiera immacolata è al tempo stesso macchia di urina e sole. Ed è questo lirismo, influenzato dall'atmosfera degli anni '70 (la musica di Tractor), che trasfigura un'opera cupa, confusa e brutale, come gettata alla rinfusa e al tem­ po stesso folle e generosa. Tecnicamente si trovano in The Grandmother, in un disordine di­ namico e piacevole, i tratti stilistici del futuro Lynch: illuminazione a macchie di luce molto localizzate, volti molto staccati dall'ombra (Eraserhead) - e, soprattutto per quanto riguarda il suono, l'utilizzo di sonorità tenute che creano un effetto di durata e vengono, a volte, tagliate di netto a metà dell'inquadratura. Altri dettagli traducono, pare, l'influenza dei registi amati da Lynch: il primo piano del viso della nonna, con la percezione della pelle e della maschera, sembra uscito da Persona o da L’ora del lupo. Il brusio in sincrono è, l'abbiamo già detto, vicino a Tati. Molte scene in questo film sonoro sono mute: ad esempio, i passi sulla scala non sono sonorizzati. La nonnetta sorridente emette parole che non si sentono, come nel cinema muto, mentre i genitori abbaiano un solo monosillabo: «Mike? Mike?». La peculiarità di questo film è anche un modo di filmare rapido e vivace: la macchina da presa si muove molto, gli angoli di ripresa cambiano continuamente, e la sceneggiatura è molto più frammen­ tata di quanto dovrebbe essere in un film tanto stilizzato. Si direbbe un film muto sonorizzato alla fine degli anni '20, come i film di Kirsanoff, agitatissimi e incapaci di star fermi. The Grandmother, dun­ que, non anticipa minimamente l'impressione di staticità sviluppata da Eraserhead, ma sa esprimerne al contrario il ribollire sotterraneo.

11. Per terminare il film Lynch dovette chiedere un co-finanziamento all'AFI, e Tony Vellani, uno dei responsabili, diede il suo consenso dopo aver visto a Philadelphia la copia quasi terminata di The Grandmother. Terminato il film (che ottenne diversi premi ai festival di Atlanta, Belleview e San Francisco e che in Europa fu proiettato a Oberhausen), Lynch andò a trovare George Stevens jr., figlio del re­ gista de // gigante, il quale gli disse che i film di solito si classificava­ no in categorie: fiction, animazione..., ma che questo film rappresen­ tava una categoria a sé. Stevens jr. e Vellani confermano tuttavia il loro interesse e suggeriscono a Lynch di chiedere una borsa di studio per seguire gli Advanced Film Studies, una scuola di cinema 34

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dvll'AFI appetiti tiperltiji Beverly I lids a Los Angeles. Così, nel 1970, Lynch si trasferisce dunque in California con l’eggy e la figlia Jennifer. Particolarmente importante sarà per lui l'influenza del cecoslovacco Frank Daniel che io sensibilizzerà suH'importanza della struttura della sceneggiatura e al ruolo del tempo nel cinema - due lezioni di cui Lynch saprà fare tesoro. In Ca­ lifornia, incontrerà inoltre Terence Malick, il rarefatto autore di La rabbia giovane e / giorni del cielo, a cui presenterà Jack Fisk, che Malick ingaggerà come scenografo. Iniziando i suoi studi all'AFI, Lynch smetteva di essere uno stu­ dente di pittura e si immergeva per la prima volta e completamente nel cinema.

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David Lynch ha sempre dichiarato di non essere un cinéphile e di conoscere poco la storia del cinema e i classici, cosa che non gli im­ pediva di avere dei film preferiti, la cui lista, sovente dichiarata nelle interviste all'epoca di Elephant Man e Dune, non variava mai: I vitel­ loni, La strada, Otto e mezzo di Fellini, Lolita di Kubrick, l'opera di Ta­ li, Persona di Bergman e nell'ambito del cinema americano contem­ poraneo, Scorsese. Più tardi si aggiungerà La finestra sul cortile. Si Iratta dunque prevalentemente di cinema europeo e in bianco e nero. Un'assenza: le opere surrealiste a cui lo si è sovente associato. Lynch afferma di aver visto Le chien andalou soltanto dopo aver rea­ lizzato Eraserhead e di non conoscere l'opera di Bufiuel. E all'idea di essere giudicato surrealista, replicava: «Perché preoccuparsi dei ter­ mini, delle classificazioni? Se il surrealismo viene in modo naturale, dal profondo di sé, se si rimane innocenti, è un bene; un surrealismo voluto, costruito, sarebbe terribile»28. Un'altra cosa che lo distingue dai surrealisti è il gusto per la narrazione» «I surrealisti si interessano soltanto al supporto, alla struttura»2*. È esplicito fin da subito il posto d'onore riservato a Fellini. Del resto Lynch ha avuto occasione di incontrare il suo idolo nel 1986'87: «Ammiro profondamente Fellini. Mi sento molto vicino a lui, nonostante sia italiano... ma la sua opera potrebbe essere concepita in qualsiasi paese»30. Un segno sotterraneo li lega: sono nati lo stesso giorno, il 20 gennaio. C'è poi un altro legame comune al destino di questi due cineasti: Dino De Laurentiis, produttore de La strada, che l'aveva arricchito, e di Dune, il cui insuccesso contribuisce al suo fal-

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limento. All'uscita del film di Lynch, De Laurentiis dichiarava: «Quando ho fatto La strada con Fellini [sic], i critici italiani hanno detto: "Mah, Fellini". Ma la critica francese ha scritto che si trattava di uno dei più grandi film mai fatti. Anche per David Lynch è stato così. All'inizio aveva fatto un filmetto demenziale (Eraserhead), poi fece un film vero, Elephant Man. lo l'ho scelto per Dune. E ancora una volta ho creato un nuovo regista»’1. Prendiamo dunque questi film e questi registi uno per uno per vedere ciò che Lynch ha potuto trarne direttamente o indirettamen­ te, cioè, in altre parole, ciò che hanno potuto rivelargli di sé e di ciò che voleva fare. Prima di tutto, Persona e Otto e mezzo che, guarda caso, sono i film più sperimentali di Bergman e Fellini, i più compositi nello stile, nel­ la struttura, nel ritmo, anche se in realtà si tende a dimenticarlo, per­ ché la loro celebrità ha livellato ciò che un tempo colpiva il pubblico. Da Persona, Lynch potrebbe aver derivato il gusto per le rotture di un ritmo a tratti lento e sornione, altre volte brusco e scatenato, e anche il gusto dei monologhi e delle frasi che risuonano nel vuoto (il film di Bergman, che poggia sul mutismo di una dei due protagoni­ sti, non contiene praticamente altro che monologhi). Le brevi se­ quenze che precedono i titoli di testa, con il loro agglomerato di im­ magini confuse e traumatiche, in cui si mescolano disegni animati, primi piani di pellicola, interiora di animali e una mano umana in­ chiodata, non hanno certo lasciato Lynch indifferente. Persona impli­ ca anche una serie di rotture del piano del reale e di fratture, come quelle di cui si ricorderà per Fuoco cammina con me, quando, nel bel mezzo del film, simula un incendio della pellicola e fa riapparire im­ magini erratiche sfuggite a un'altra dimensione. Il ragazzo sul letto di The Grandmother, che «si cura la nonna», può essere stato ispirato dal magrolino con gli occhiali che, nel pro­ logo di Persona, sta ugualmente disteso sul letto, inserito in un am­ biente stilizzato, e con movimenti distratti della mano sembra for­ mare su una superficie un gigantesco volto femminile. D'altronde, Persona è per Lynch un film primigenio, anzitutto per il tema, poiché vi si tratta di un bambino e di due donne (la madre scissa), una delle quali in stato di depressione. Non è certo privo di significato che, in entrambi i registi, lo stesso tema induca, nel mo­ mento culminante, una sorta di dislocazione della realtà. Eppure assumiamo il rischio della bestemmia - se Persona è un film ammire­ vole, nel suo registro è tuttavia un po' volontaristico ed esteriore, e comunque meno spontaneo del film di Lynch. Le tre opere felliniane che Lynch preferisce sono anch'esse piut­ 36

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tosto significative: - / vitelloni, sono le serate che non finiscono mai e i gruppi che passano la notte in interminabili scorrazzate, come in Velluto blu; è l'atmosfera provinciale e le storie minime di famiglia e di vicinato; è l'immobilità, il carattere viscoso del tempo. - La strada, è il sentimentalismo, ma anche il senso intenso del bizzarro, e la poesia cosmica della discussione notturna tra Gelsomina e il Matto. L'insistere del film sulla «testa di carciofo» di Giulietta Masina, quella testa, acconciata in modo tanto singolare, entro cui c'è tutto un mondo non formulato, e che viene mostrata frequente­ mente al centro dello schermo come un astro o un sole, ha colpito il futuro autore di Eraserhead. E la morte improvvisa e inattesa del Mat­ to al bordo di una strada, rispunta fuori in alcuni dettagli dell'inci­ dente notturno in Cuore selvaggio. Ne La strada, infine, si tratta di una donna infelice che cerca le ra­ gioni per vivere e per tirare avanti e che, avendole perdute, si spegne da se stessa, come consumandosi... E vedremo in seguito la forma che questo tema assume nell'universo di David Lynch. - Otto e mezzo è, come Eraserhead, l'ossessione dell'adulterio in quanto tale, l'opposizione della sposa amara e rivendicativa e dell'amante sensuale. L'harem di Otto e mezzo diventa, in Lynch, un piccolo teatro in un termosifone, a misura del personaggio timido di I larry Spencer. In Otto e mezzo bisogna inoltre notare l'andirivieni dal mondo del «reale» (seppure lo è davvero) a quello della fantasia. D'altro canto, il bianco e nero esageratamente contrastato del film ha incoraggiato Lynch ad accentuare nella stessa direzione la fotografia di Eraserhead, anche se il suo riferimento esplicito era Viale del tra­ monto di Billy Wilder, con la fotografia di John Seitz.

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Anche Lolita di Kubrick si presta al nostro gioco delle somiglian­ ze: l'atmosfera della cittadina di provincia dove va a piazzarsi Hum­ bert Humbert per restare vicino a Lolita, con quelle serate che si tra­ scinano e le sue leziose feste da ballo, fa pensare a Velluto blu e a Twin Peaks. Ed è al tempo stesso kubrickiano e pre-lynchiano il modo ili isolare un singolo personaggio dagli altri, sottolineandone dall'inlerno le rotture di tono. 11 personaggio gelidamente inquietante dello scrittore Quilby, interpretato da Peter Sellers, quello intraprendente e isterico della madre di Lolita (Shelley Winters), e infine quello di lames Mason, osservatore pieno di sarcasmo davanti a una Winters 37

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scatenata, sono in costante scarto gli uni rispetto gli altri, come alcu­ ne figure di Cuore selvaggio e di Twin Peaks. La crisi di pianto di Ja­ mes Mason alla fine del film, quando capisce che non potrà più vive­ re con la ragazza, ha probabilmente emozionato Lynch in un modo enormemente differente da come Kubrick la realizza (Lynch sarà del resto un grande regista di pianti). Lolita ci pare comunque essere uno dei riferimenti coscienti di Fuoco cammina con me, dove Ray Wise, che interpreta il ruolo di Leland Palmer, recita come James Mason quan­ do si rivolge a Sue Lyon: stesso tono di voce, stesse lacrime e a tratti la stessa maschera quasi a sfiorare una certa rassomiglianza fisica. Analogamente, quelli che si possono considerare i «difetti» del film di Kubrick - un ritmo incerto, senza impennate - troveranno nuova vita in Lynch, perché quei difetti possono diventare qualità quando si riflettono in un altro temperamento. È da notare che Shelley Winters aveva recitato all'inizio della sua carriera un ruolo molto simile a quello interpretato nel film di Ku­ brick, quello di una madre sedotta da un uomo a cui, di fatto, inte­ ressano i suoi figli. Ci riferiamo ovviamente a La morte corre sul fiume, un film che siamo stati a lungo convinti fosse una delle opere-culto di Lynch, tanto da vederne continue reminiscenze nella sua opera. La fonte del passaggio in cui Lynch avrebbe menzionato questo film, tuttavia, non siamo riusciti a ritrovarla, probabilmente ce la siamo sognata. Un punto d'incontro possibile potrebbe forse essere l'appa­ rizione multipla in Lynch di un volto femminile che parla sullo sfon­ do del cielo (Elephant Man: il ritratto; Dune: la principessa Irulan; Cuore selvaggio: la fata buona), come quello di Lillian Gish all'inizio del capolavoro di Laughton? Altro punto d'incontro potrebbe essere Frank Booth che ruggisce in caccia nella notte in Velluto blu, come il Robert Mitchum in Laughton, così come la notte piena di animali e l'ambiente fatato di Twin Peaks? Bisogna pur decidersi. Ma c'è un altro film di Kubrick che Lynch ammira: 2001: Odissea nello spazio. Non si può infatti descrivere Eraserhead, con le sue lente penetrazioni in un microuniverso, come un 2001 in una stanza da letto? Con le stazioni spaziali sostituite da un termosifone, oppure, in Velluto blu, da un orecchio umano abbandonato nell'erba, dove la macchina da presa si impegna con la stessa solennità delle astronavi kubrickiane. Al feto astrale della fine del film di Kubrick, grande co­ me un pianeta, corrisponderebbe allora il nato prematuro di Lynch. Ma la cosa più importante è che entrambi i cineasti siano preoccupa­ ti dalle stesse cose: l'arcaico, il posto dell'uomo nel vuoto, e la strut­ tura sfaldata di un mondo che entrambi esprimono con tagli «a ra­ soio».

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Come si è visto, Jacques lati viene spesso citato dal nostro autore come uno dei suoi cineasti-feticcio: e, infatti, alcune sequenze degli «•pisodi di Twin Peaks derivano direttamente da Tati: le gag sulla de­ legazione norvegese in hotel, e, nel nono episodio, la scena della banca Mibles, col suo minuscolo guardiano in un ambiente spropor­ zionato. I due autori hanno lo stesso orecchio aperto in direzione del ritmo segreto che può giungere dal cosmo e fluttuare nell'aria (Fuoco < illumina con me è un film alla Tati per il prologo, con i suoi personag­ gi, ma anche per quel suo modo di interrogare il cielo e la superficie dell'inquadratura). Osserviamo ancora che Lynch non è certo stato l'unico america­ no ad ammirare l'autore di Mio zio: al suo fianco si può aggiungere, ad esempio, Blake Edwards - uno dei rari cineasti americani che possiamo avvicinare all'autore di Velluto blu sul piano dello sconve­ niente e del bizzarro, per quel suo senso così particolare del ritmo e del casting, il suo cattivo gusto metafisico, e il suo senso della morte (cfr. S.O.B.). La finestra sul cortile? Certamente sì. Il voyeurismo di Jeffrey Beaumont richiama quello di L. B. Jeffries nel film di Hitchcock. Ma la stessa struttura del film, così poco classico sotto la linearità dell'intrigo principale, è stata probabilmente motivo di profondo in­ teresse per il giovane Lynch. Nel film di Hitchcock c'è infatti una fusione di personaggi autonomi e dettagli secondari che seguono il loro destino e strutturano vari mondi paralleli. Il cortile del caseg­ giato dove abita James Stewart è come il quadro di una soap opera su scala ridotta, e si potrebbe continuare in vari film la vita della si­ gnorina solitaria del pianoterra, o quella della coppia di giovani sposi che si trasferisce di fronte. Ci sono anche dei punti di confronto tra La finestra sul cortile e i film di Tati che ci riportano a Lynch: la visione in piano generale di vari personaggi ripresi singolarmente, come rinchiusi nella loro silhouette, di cui poco si sa e di cui non si riescono a sentire le parole a distanza. La finestra sul cortile infine, con la sua colonna sonora di cortile, di musica radiofonica, di rumori cittadini, è uno dei rari film «acustici» degli anni '50, realizzato in un periodo in cui il suono dei film si limitava in generale ai dialoghi in primo piano e a una musica d'accompagnamento. E si è visto che il rumore, il suono, il «drone» è presente fin dall'inizio nelle opere di Lynch come un elemento sen­ za cui i film non si sa neppure se davvero potrebbero esistere. Non ci sentiamo invece di seguire coloro che tentano di stabilire ima filiazione più generale Hitchcock/Lynch, in particolar modo a proposito di Twin Peaks: le riminiscenze hitchcockiane della serie, su 39

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cui ritorneremo, ci sembrano più frutto della citazione cosciente di un autore che appartiene alla cultura generale, che di un omaggio a un regista con cui si sentono profonde affinità. Infine, Lynch ha spesso dichiarato il suo culto per Viale del tra­ monto, con quel suo bianco e nero espressionista e la sua atmosfera morbida. Nel film di Wilder, l'eroe si prende carico di una donna de­ caduta che potrebbe essere sua madre: tutto il tema lynchiano sog­ giacente all'assistenza alla madre depressa si trova già qui. D'altro canto, si è spesso sottolineato che Lynch dà l'impressione del cinema muto già nello stile di recitazione di alcuni attori: e Lynch ne ha for­ se ricevuto il marchio proprio attraverso l'evocazione che ne fa Viale del tramonto, in particolar modo attraverso l'interpretazione stilizzata e «bigger than life» di Gloria Swanson.

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Durante gli studi all'AFI, a Beverly Hills, Lynch lavora su un nuovo progetto di mediometraggio intitolato Gardenback - un'altra storia vegetale dunque, di cui in seguito così riassume il soggetto, di evidente ispirazione kafkiana: «Quando si guarda una ragazza, qualcosa passa tra te e lei. E in questa storia, questo qualcosa era un insetto che diventava sempre più grande nella soffitta dell'uomo, una soffitta che era come il suo spirito»”. Già il ragazzino di The Grandmother aveva dei fantasmi che spun­ tavano in soffitta, mentre, come si vedrà, in Eraserhead Henry Spen­ cer vive al piano superiore, e l'uomo-elefante abita sotto i tetti, alla Quasimodo, vicino a un campanile, con i rintocchi che gli risuonano nella testa. Ma infine Lynch abbandona l'idea, che non riesce a svilupparsi in modo soddisfacente e, con la borsa di studio di cinquemila dollari offertagli dall'AFI, si dedica a un altro progetto, con l'ambizione di­ chiarata di trame un lungometraggio: Eraserhead. Il problema è che l'AFI, dopo alcuni tentativi di produrre lungometraggi, non vuole rinnovare l'esperienza. Ma la sceneggiatura scritta da Lynch, piuttosto sintetica e con pochi dialoghi, è di sole ventun pagine, c l'AFI lo autorizza a trarne un film di ventun minu­ ti. «Può darsi che risulti un po' più lungo - azzarda Lynch - Faccia­ mo quarantadue minuti». The Grandmother era stato girato in 16mm a colori. Lynch per Era­ serhead intende passare al 35mm, e ottiene l'accordo dei dirigenti dell'AFl a condizione - ma era già nelle sue intenzioni - di girare in 40

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bianco c nero. 1 primi preparativi partono all'inizio del 1972, Lynch prevede all'epoca dieci settimane di riprese. Il lavoro su Eraserhead durerà cinque anni. Lynch riuscirà a farcela soltanto perché la sede dell'AFI nascon­ de un tesoro: una grande quantità di locali e di terreni inutilizzati. I.'American Film Institute, in effetti, aveva acquistato a Beverly Hil­ ls una residenza estiva abbandonata di varie dozzine di stanze, ap­ partenuta al miliardario Donehy, uno dei fondatori della città degli Angeli. Lynch attrezza, con un lavoro di bricolage, cinque o sei stanze nei locali comuni - garage, locali della servitù, dispense - al­ lestendovi uffici e un piccolo studio di registrazione. Così, per tre o quattro anni, avrà a disposizione un piccolo studio di produzione lutto per sé. Con l'aiuto del fratello John e di Alan Splet (divenuto responsa­ bile del dipartimento suono dell'AFI), si cominciano subito a costrui­ re le scenografie: non si tratterà più come in The Grandmother di sce­ ne astratte, stilizzate, e di mobili su sfondo nero o disegnato. Pur se di cartapesta, i muri dovranno avere l'aria solida e concreta. Lo stesso locale serve per varie scene, la fabbrica di matite, il pia­ nerottolo della casa di Henry ecc. David Lynch mette lui stesso le mani in pasta, da vero bricoleur e costruttore di capanne. Nello stesso periodo viene anche creata la grande attrazione del futuro film, un bambino-mostro costituito da un tronco avviluppato in bende (sempre posato su un tavolo), e da cui emerge un lungo collo esile che sostiene una testa di animale scorticato simile a un co­ niglio. Bambino che sullo schermo, reso credibile da grida e gemiti sincronizzati ai movimenti, acquista una vita assolutamente convin­ cente. Lynch rifiuterà sempre, anche di fronte alle domande più pressanti, di rivelarne i segreti di fabbricazione e di animazione, e i suoi collaboratori più stretti resteranno complici di questo black-out che contribuisce alla leggenda del film.

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Eraserhead, almeno in alcune parti, è indubbiamente più raccon­ tabile di The Grandmother, ma per l'essenziale è ancora soprattutto un film che si può soltanto descrivere e a proposito del quale l'onestà impone di raccontare soltanto ciò che si vede e si sente, senza in­ fluenzarne o estrapolarne il significato. Soprattutto il significato psicologico: si può dire ad esempio co­

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me in alcune sinossi del film che l'eroe, Henry Spencer, è il culmine della miseria umana? No, anche di fronte al suo bambino mostruoso e al suo destino apparentemente sordido, noi lo vediamo soltanto ar­ rabbiato e preoccupato. Si tratta dunque di non giocare al sovracca­ rico, per essere fedeli alla storia raccontata dal film. Il film si apre con un prologo cosmico, come The Grandmother, ma con una ripresa dal vero e su un ritmo lento e cerimoniale: si vede l'eroe (o almeno la sua testa) galleggiare orizzontalmente in assenza di gravità, con una sfera a forma di pianeta sovrimpressa sul suo cranio, a suggerire che il mondo del film è un universo mentale (in tutta onestà, servono comunque le dichiarazioni dell'autore per comprendere che questa massa dalla superficie granulosa è il piane­ ta dove si svolgerà l'azione!). Ci si avvicina alla sfera e se ne percorre la superficie accidentata. Poi, arriva l'immagine di un uomo dal viso butterato da brutte bruciature, seduto vicino alla finestra in un am­ biente infernale. Una specie di cordone ombelicale dotato di una te­ sta si sovrappone alla testa dell'eroe. L'uomo seduto aziona due o tre volte una grande leva; il cordone scivola via e poi cade in una pozza. Noi piombiamo in un liquido, nel buio - un buco di luce appare e si ingrandisce fino a raggiungere le dimensioni di un lampo che riem­ pie lo schermo. Questa dissolvenza al bianco apre sull'eroe, solo, in una vasta scenografia urbana. A parte i capelli, tutti dritti sulla testa, si tratta di un impiegatuccio kafkiano, con tre stilografiche nel taschino delia giacca. Ha una borsa di carta da pacchi e si allontana verso il fondo dell'immagine dondolandosi leggermente in modo comico. Insieme con lui scopriamo un mondo gigantesco e deserto da quartiere per metà industriale per metà portuale (rumori di macchine e di sirene da nebbia), con case abbandonate, terreni incolti, sordide viuzze e con pozzanghere dappertutto. Una scoppiettante musica d'organo da cinema risuona, irreale, nell'aria. Questa ispirazione «bleak» (cupa, opprimente) continua quando entriamo nel sinistro caseggiato in cui abita Henry Spencer: nell'in­ gresso, pavimentato con motivi zebrati (come la futura Red Room di Twin Peaks), sembra dover attendere per l'eternità un ascensore lento a venire quanto a ripartire; ci sono delle disfunzioni elettriche nella cabina dell'ascensore ecc. Tutte queste inquadrature, famose per l'ambiente minimale e destroy che descrivono, in seguito banalizzate da imitazioni più o meno riuscite, rivelano una serie di influenze ben assimilate, quelle di Kubrick, di Fellini (grande appassionato delle terre di nessuno, anche se si tende a scordarlo), oltre che di Tati. La sua vicina di pianerottolo, una bella bruna, informa Henry che 42

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una certa Mary è dai suoi genitori e che ha chiamato per invitarlo a cena. Entrato nella sua stanzetta, piena delle vibrazioni di rumori che stanno, a seconda dei momenti, tra il fischio del gas, il ronzio del radiatore, il fracasso della fabbrica e la tempesta cosmica, e ammo­ biliata con uno di quei grandi lettoni a struttura metallica che comin­ ciamo ormai a conoscere, Henry si dedica a piccole attività come ac­ cendere il giradischi, mettere le calze ad asciugare sul termosifone, e frugare in un comò dove trova una foto strappata di Mary. Poi si reca da lei, in un luogo infestato da fumo e rumore. Mary X (si chiama così) è una giovane ragazza timida e sottomessa, mentre la madre è una donna dura e inquisitrice e il padre un vecchio idrauli­ co, che biascica tutto solo sul quartiere che diventa sempre più sordi­ do, sul suo vecchio mestiere di idraulico e sul suo braccio paralizzato. La lunga sequenza della cena a casa degli X viene sempre accolta in sala durante la proiezione con grande successo e grandi risate, per la capacità di accumulare particolari malsani o bizzarri: in cucina sta la vecchia nonna paralizzata, ridotta allo stato vegetale, e in tavola dei polli rinsecchiti (più simili a piccioni), che buttano fuori un san­ gue spesso quando Henry cerca di tagliarli. È in quel preciso mo­ mento che la madre di Mary entra in trance, scappa in cucina, dove in seguito viene raggiunta da Mary, poi, una volta di ritorno, si met­ te a interrogare il giovanotto, mentre il padre, rimasto a tavola, si im­ pietrisce definitivamente in un sorrisino ebete: Henry ha rapporti sessuali con Mary? Lei infatti ha partorito un bambino, anche se non è proprio sicura che quella creatura prematura sia davvero un bam­ bino. Appresa la notizia, ad Henry comincia a sanguinare il naso, e la madre gli si avvicina per esaminarlo dappresso, a metà tra il me­ dico c il vampiro. Più tardi, ritroviamo la famigliola nella stanza di Henry: il papà pigro e beato, la mamma che cerca vanamente di far ingoiare qual­ che cucchiaio di pappa alla cosa che lancia qualche vagito sulla tavo­ la. Tormentata dal pianto del bambino, Mary finisce rapidamente col deprimersi e prende la valigia per ritornare da sua madre per una «buona notte di sonno». Il bambino, già orribile, si becca una brutta malattia che lo ricopre di pustole, ed Henry non può nemmeno più uscire a vedere se è arrivata posta (tra le altre stranezze della sua ca­ mera, segnaliamo una specie di armadio-tabernacolo, dove rinchiu­ de con tutte le precauzioni un semino). La notte (le atmosfere di notte, interminabili, occupano un posto di primaria importanza nel film), Henry fa un sogno in cui il radia­ tore del riscaldamento centrale della sua stanza si illumina e schiude un teatro in miniatura, il cui unico artista è ima piccola donna dalle

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gote stranamente gonfie, che danza a passettini, e schiaccia con il tal­ lone, senza mai smettere il sorriso, dei cordoni ombelicali organici che precipitano sulla scena. Henry si sveglia nel letto, al suo fianco c'è Mary, ritornata nel frattempo (senza che lo spettatore ne sia stato avvertito). Come le donne di Alphabet e di The Grandmother, Mary si agita e si gratta, fa­ cendo tutta una serie di rumori, e partorisce instancabilmente sotto le coperte tutta una serie di creature a forma di cordone ombelicale che Henry tira fuori e schiaccia contro il muro. La porta deH'armadio-tabernacolo si apre e si rischiara, come una seconda scena, sulla quale una piccola cosa a forma di lombrico co­ mincia a muoversi e a lanciare dei gridolini, poi si apre verso la mac­ china da presa come un tubo digestivo che inghiotta lo spettatore. Henry si ritrova di nuovo solo col bambino. La vicina bussa: non può entrare in casa e chiede di passare la notte da lui. Ma è sconvol­ ta dal mostro che Henry si sforza di far tacere. In un ambiente sacra­ lizzato e magico, i due fanno l'amore nel letto trasformato in una va­ sca da bagno piena di latte, dove la testa della donna sparisce la­ sciando emergere soltanto i capelli. Ritoma nuovamente in sogno la Signora nel termosifone, che in­ tona un cantico sul Paradiso. Henry sale sul piccolo palcoscenico e le si avvicina. Quando la tocca fugacemente, avviene un'intensa scarica di emozioni, luci e suoni. In scena viene portata una grande pianta su rotelle. Henry si rifugia dietro la sbarra di un tribunale (Kafka?) toccandola nervosamente. La sua testa viene bruscamente tranciata dal corpo da una cosa oblunga. La pianta trasuda un liquido sangui­ nolento, in una sorta di solidarietà tra esseri viventi già evocata in The Grandmother. La testa del bambino spunta dal collo decapitato di Henry, e lancia un forte grido di sconforto cosmico. Quella di Henry, che giace sul pavimento a scacchi della scena, cade come inghiottita nella pozza di sangue che la circonda, e infine piomba in esterni, in una specie di terra di nessuno, dove un bambino con in testa un ber­ retto, la ramazza e se la porta via come un pallone da rugby. È allora che arriva la sequenza-matrice del film, che gli dà il titolo, e sulla quale ritorniamo in dettaglio nel «Lynch-kit» - quella in cui la testa di Henry, venduta dal ragazzo a una fabbrica, serve a fare la sostan­ za per le gomme che stanno all'estremità delle matite. Henry si sveglia (dunque ha sognato) e si ritrova solo, sempre più innervosito dal bambino che sembra ridersela del suo malumo­ re. Sul pianerottolo, vede la vicina di casa in compagnia di un altro uomo, piccolotto e laido. Allora prende delle forbici, taglia le bende, sfascia il bambino e colpisce il corpo del piccolo mostro, la cui testa 44

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si agita con un misto di grida di dolore e rantoli ritmici dal chiaro connotato sessuale. Dal suo corpo fuoriesce una strana materia, ine­ sauribile, una specie di spessa purée. La lampada che «illumina» la stanza crepita, e mette in risalto gli avvenimenti successivi con i suoi lampi stroboscopici. La testa del bambino, inizialmente ricoperta dalla purée, si libera e fluttua nell'aria attaccata al capo di un cordone. La si vede diven­ tare enorme come un pallone gonfiato (mentre assomiglia progres­ sivamente alla testa di un pesce), e volare verso la lampada che scoppia, sotto gli occhi impotenti di Henry. Il pianeta che è la sede di questa vicenda si rompe come un uovo. L'uomo seduto alla leva cer­ ca invano di frenare e il suono, stridente, tocca un parossismo mistiio, in cui si vede la ragazza del radiatore e Henry con gli occhi chiu­ si, stretti l'uno all'altra, in un lampo accecante di luce bianca. Tutto s'interrompe, cut, suono e immagine, e non restano più che i titoli di coda su fondo nero, in cui risuona, esile, la musica di Fats Waller. Ora le luci in sala possono riaccendersi, sugli spettatori turbati e muti, molti dei quali, dopo aver visto questo film, non vi ritorneran­ no più. Ma perché Lynch riuscisse ad arrivare fino a questo punto, ha do­ vuto passare per molte tappe successive.

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L'equipe di base di Eraserhead è presto costituita: il primo direttore della fotografia è Herbert Cardwell, che Lynch ha conosciuto a Phi­ ladelphia. Obbligato a lasciare il film per l'eccessivo prolungarsi delle riprese, viene sostituito da Frederick Elmes, un giovane operatore che viene dal documentario. La direttrice di produzione è Doreen Small, che è anche accessorista in un film che, come abbiamo visto, richiede la ricerca di oggetti e materiali piuttosto fuori dal comune; ma soprat­ tutto al film collabora, per tutta la sua durata, una donna per Lynch molto importante, che all'epoca è moglie dell'attore John Nance. Si tratta di Catherine Coulson, che milioni di telespettatori del mondo intero conoscono oggi come la «Log Lady» di Twin Peaks. A Catherine, che già lavora come attrice, doveva essere affidata in Eraserhead una piccola parte, quella di una bambinaia disgustata dal bébé, ma anche se la scena viene soppressa per ragioni economi­ che, lei resta comunque un acquisto prezioso e attivo, combinando i ruoli di assistente di macchina, assistente in generale, segretaria di produzione e... cuoca. E anche pettinatrice, visto che è lei ad aver 45

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creato, conformemente ai desideri di Lynch, ma spingendosi ancora oltre la sua immaginazione, un'altra attrazione di Eraserhead: la ce­ lebre acconciatura di Henry, quei suoi capelli rasati ai lati e tirati alti sulla testa di cui prolungano e allungano la forma - esattamente co­ me la gomma all'estremità della matita ne prolunga la forma (Era­ serhead in effetti vuol dire proprio, e ne abbiamo visto la ragione, «te­ sta di gomma»). Ricordiamo anche che, contrariamente a quello che capitava in al­ tri film dell'AH, David Lynch volle che a tutti i collaboratori venisse riconosciuto un salario, seppur modico, e, quando ciò non fu più possibile, una percentuale sugli incassi. Tutti lavorano duramente, coloro che partecipano al film presta­ no accessori, vestiti, materiali per il trucco, mentre Lynch e Splet in­ stallano un isolamento sonoro molto efficace: questa collaborazione tra il regista e il tecnico del suono, anche negli aspetti più materiali, ò stata una delle basi preziose deH'esperienza di Lynch. È a partire da qui che il suono diventa per lui non l'oggetto di una problematica astratta, come capita troppo spesso a molti registi, ma una cosa con­ creta, con cui instaura rapporti diretti e familiari. Gli attori scritturati sono i primi contattati per i vari ruoli. Judith Anna Roberts (la Bella Signora), Alien Joseph e Jeanne Ba­ tes (i genitori di Mary) fanno parte di un gruppo teatrale. Charlotte Stewart (Mary) è un'amica della direttrice di produzione. Non si può certo dire che nel film sia troppo coccolata dal punto di vista fisico, visto che piange senza interruzioni e viene mostrata come è una donna nell'intimità del letto senza la protezione del trucco. Si capi­ sce dunque come per lei non sia stata proprio un'esperienza stupen­ da (anche se ritroverà in seguito Lynch in Twin Peaks dove avrà la parte - discreta - della moglie del maggiore Bruggs). John Nance è la grande scoperta del film. Texano d'origine irlande­ se, ha cominciato come attore di teatro a Dallas, passando poi a ruoli di secondo piano in film d'azione. Ha un carattere riservato e ironico, parla con voce lenta e strascicata, ed è forse proprio questo aspetto che può aver interessato Lynch, per cui il ritmo della parola è fondamen­ tale. Nance ricompare praticamente in tutti i film di Lynch e nel serial Twin Peaks, ma, a parte un ruolo in Hammett di Wenders, non ha fatto la carriera che ci si sarebbe aspettati da un attore così raffinato. In Eraserhead il suo apporto è fondamentale: di volta in volta dif­ fidente, furibondo o imbarazzato, ricrea con precisione il suo perso­ naggio, marginale ed estremamente umano, che evoca a tratti, anche fisicamente, il grande Jack Lemmon (reminiscenza di Billy Wilder, di cui Lemmon è stato l'interprete migliore?).

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Per quanto riguarda la (olografia, il bianco e nero è una scelta im­ mediata, che ha come punto di riferimento Viale del tramonto, di cui Lynch apprezza l'unità di atmosfera e storia: l'unico film che ha fatto vedere alla troupe prima delle riprese. Lynch dice giustamente che il bianco e nero gli permetteva di fare un'immagine più schematizzata, meno distraente, con raccordi più facili tra interni ed esterni; consen­ tendogli inoltre di penetrare più facilmente in un altro mondo (già il colore in The Grandmother era utilizzato in modo rarefatto e stilizzato). Lynch sa quello che vuole per la fotografia, e con Cardwell (e poi con Elmes) prepara tutto con estrema cura. Innanzitutto bisognava far accettare al personale del laboratorio le loro scelte estreme: «I tec­ nici del laboratorio dicevano "Questa dovete girarla con una candela in un tunnel" e David gli rimandava tutto indietro dicendo "Ancora più scuro"» M. Lynch, in effetti, osa qui delle luci che illuminano solo per macchie, lasciando tutta una parte delle scene nell'ombra o nel buio assoluto. Elmes e Lynch chiedono consigli agli specialisti di effetti speciali dei grandi studi di produzione, che insegnano loro dei trucchi eco­ nomici da realizzare, ed essi li mettono abbondantemente in pratica «provando e riprovando». Per motivi economici e di controllo, le so­ vrimpressioni e le dissolvenze al nero o al bianco non vengono pra­ ticamente mai realizzate in laboratorio - come si fa di solito - ma in macchina, il che spiega la loro bellezza. Naturalmente, questo richie­ de tempi di riprese più lunghi, e, in effetti, il tempo - di preparazio­ ne, di test, e di riprese - era il grande lusso che la troupe aveva deci­ so di concedersi, al prezzo, ovviamente, di un impegno personale molto più duro. Molta attenzione si doveva invece prestare al rapporto con i labo­ ratori: infatti non avevano quasi più l'abitudine di lavorare con il bianco e nero, e dunque non sempre c'erano le macchine adeguate (mentre in questi ultimi anni un numero sempre maggiore di film e soprattutto i videoclip e la pubblicità lo hanno rilanciato). Per fortu­ na, il primo anno, i tecnici con cui lavorano si occupano parallelamente della commedia rétro di Peter Bogdanovich, Paper Moon, che è uno dei primi film «neo-bianco-e-neri» degli anni '70, e così erano sicuri che le loro macchine funzionassero.

17. In Eraserhead il lavoro con gli attori è meticoloso ma non intellet­ tualistico, e non si ferma mai ad analizzare le motivazioni di certe

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scelte. Va detto tuttavia che una parte del genere, quasi muta, in cui bisogna semplicemente camminare, aprire una porta, sedersi, pro­ nunciare una parola isolata o lanciare degli sguardi, è forse la più difficile da fare al cinema - molto più delle lunghe scene dialogate che almeno danno un quadro, uno slancio, un punto di riferimento. La prima sequenza realizzata è la serata a casa degli X: Henry, se­ duto timoroso su un sofà al fianco di Mary (nella stesso atteggiamento rigido e inchiodato che avrà Kiefer Sutherland in Fuoco cammina con me), conversa con la signora X: «Che cosa fa? - Sono in vacanza». Lynch sceglie per questa scena un tempo particolarmente innatu­ rale, di modo che la risposta risulti staccata dalla domanda. Una sola ripresa è sufficiente. A quel tempo Lynch fa lunghe prove con gli at­ tori e poche riprese, una scelta che può anche essere giustificata dal­ la necessità di risparmiare pellicola. Da questo momento le riprese acquistano un ritmo regolare per quasi un anno, con il consenso dei dirigenti dell'AFl che ritengono di essere in buone mani. Siccome i luoghi di ripresa durante il gior­ no erano già utilizzati da altri o troppo rumorosi, la troupe è indotta sempre più spesso a lavorare in notturna - il che permette ai vari componenti di continuare la loro vita professionale parallela, ma im­ pone anche un impiego del tempo particolarmente impegnativo. Eraserhead è un film di notte, girato la notte, interni compresi: ele­ mento sicuramente determinante per la verità della sua atmosfera e del suo tempo. Lynch lascia che il concetto si sviluppi tranquillamente, e poiché ha grande fiducia nella coerenza interna della sceneggiatura, incor­ pora le idee che spuntano fuori man mano. Il cambiamento più im­ portante apportato alla sceneggiatura originale provoca la trasfor­ mazione in un sogno di ciò che all'inizio era un incubo integrale. All'origine, in effetti, il film doveva finire con l'uccisione del bambino, e con la disintegrazione del mondo di Henry. Ma Lynch era insoddisfatto, agitato, fumava e beveva molto. «Per me tutto fun­ zionava - dice - stavo facendo proprio ciò che più desideravo, girare un film, eppure non ero soddisfatto» M. Così impara le tecniche di meditazione, e un giorno spunta l'im­ magine della fanciulla nel termosifone con dei feti che le cadono da tutte le parti (idea che Lynch sposta poi sulla moglie di Henry). «L'idea è arrivata dopo l'inizio delle riprese, quando avevo già filmato il radiatore. Ma mi frullava già in mente, almeno credo, perché un giorno mi sono precipitato nella camera di Henry e ho guardato il ter­ mosifone con attenzione. Quello che ci ho visto è stato un luogo per­ fetto, un piccolo palazzo, come un palcoscenico in miniatura, che sem­

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brava fatto apposta per lei. C aldo e confortevole. E lei ci è nata» ". Ma presto spuntano gravi difficoltà: mancano i soldi, e per tro­ varne Lynch e Splet montano e sonorizzano una sequenza già girata e la fanno vedere a un produttore: la sera a casa dei genitori. Il pro­ duttore va fuori dai gangheri: «La gente non parla così! Non si com­ porta così! Voi siete fuori di testa!»36. Tnsomma, un fiasco. A eccezione della troupe, Lynch si rifiuta dunque di mostrare il suo lavoro, che non vuole sia giudicato prima della fine. Ma un gior­ no l'AFI, avendo capito che il film si sta trasformando in un lungometraggio, decide di chiudere i cordoni della borsa e le forniture di pellicola, accettando soltanto di continuare a fornire l'utilizzo gratui­ to delle attrezzature. Nella primavera del 1973 la produzione deve fermarsi, e per Lynch inizia un anno difficile. Si comincia addirittura N SI RIIURNA

nd suono imballato un'intensità che evoca in modo sconvolgente ciò che l'ramjoise Dolio dice sulla natura bruciante dei contatti fisici incestuosi. Anche se la Signora esegue un cantico che parla di un Pa­ radiso dove, per l'appunto, non c'è fusione: «Tu hai ciò che ti piace, ed io ciò che piace a me». Ciò che è davvero bello, in questo punto, è il suo gesto verso I lenry: lei ha le mani giunte sul cuore, le apre e toma a rivolgerle ver­ so di sé, in un ^sto ambiguo tra l'offerta, il dono, il richiamo, e il tira­ re a sé, l'appropriazione - a meno che non si tratti di una richiesta. Infine, e soprattutto, l'eroe si ritrova in entrambi i casi con qual­ cosa che ha fatto nascere, e che muore o si trasfigura alla fine. Nel primo film, la nonna si soffoca da sola nel suo movimento di richiamo, di comunicazione (richiesta d'aiuto come quelle che lancerà Laura Palmer). Nel secondo caso, il neonato è ucciso dalle for­ bici di Henry. Entrambe le volte c'è l'idea del corpo che si svuota. La nonna la si ritrova sempre seduta sulla sedia, nel cimitero, mentre il bébé assume delle proporzioni cosmiche, ma non muore. La «cancellazione» a cui si riferisce il titolo del primo lungome­ traggio di Lynch non rinvia dunque soltanto alla scena in cui un uo­ mo scrive sulla superficie di una pagina un tratto che cancella con l'estremità opposta della matita, ma anche al tentativo di Henry di sopprimere il bambino che ha fatto nascere, come un creatore onni­ potente cancella il quadro della sua creazione. Invece, noi assistiamo AVU) t.YNCH

stando al contempo rinchiusi nel loro mondo a due dimensioni. Eppure, in questo mondo di tipi, c'è un personaggio che ordina­ riamente avrebbe dovuto essere trattato come un'immagine, e che Lynch ha voluto far esistere in rilievo: quello di Laura Palmer. Con lei non ci troviamo di fronte a un trattamento di tipo con­ venzionale della ragazza perduta: non è una creatura diafana e mi­ tizzata, né un'immagine gelida. E nemmeno una Lulù o una creatura «matura per la posterità», ma una ragazza bella ma non sublime e piuttosto ben in carne, che quando si prepara a una notte di bisboc­ cia, si infila nel suo armamentario sexy. E questa Laura Palmer è tutto fuorché una puttana. Cerca di pro­ teggere i suoi innamorati e la sua migliore amica da tutto ciò che le capita. I suoi momenti di perversione (quando ride al vedere Bobby che si è ficcato in una brutta situazione) corrispondono alle occasioni in cui è chiaramente preda dell'alcol o della droga. Timidezza del regista? Laura si vede solo una volta mentre viene posseduta da Bob, che mostra i denti (nella scena a casa di Harold Smith) ma non è convincente. Ed anche allora non c'è sdoppiamento, Laura non è la donna doppia, l'angelo-demonio, come la si vede in vari film. Lynch non sa o non vuole trattarla così. La sua Laura Palmer è una, e ben reale. Strana, questa apparente incapacità di mitizzare una donna. Ep­ pure è lei che fa la bellezza del film - o il suo insuccesso, se si rifiuta il progetto, il che ha indotto alcuni critici a ironizzare su Laura, que­ sta sgualdrinella in calzettoni corti che non è, ovviamente, né Ma­ rilyn né Gene Tierney. Ma chi ci dice che Lynch abbia voluto farne una donna fatale? Sembra invece evidente il contrario. «Young girl» bella e perduta, Laura Palmer è fatale soltanto per se stessa. Ed è solo lei che muore. È anche una ragazza materna e compassionevole, una sorella maggiore che bacia sulla fronte giovanotti più deboli - e si preoccu­ pa della loro sicurezza. Non è a caso che Dale, quando ha la visione premonitoria di Laura come futura vittima, la immagini mentre «prepara una gran quantità di cibo» («She's preparing a great abun­ dance of food»), visto che lavora a portare piatti pronti a domicilio. Laura Palmer è una madre, protettrice e nutrice. Il ruolo di Sheryl Lee è dunque enorme, visto che deve essere di volta in volta tutte-le-donne-in-una: la donna-donna, ma anche la don­ na-bambina, la giovane collegiale, la puttana e la cara amica, la madre, la ragazza con cui si sogna di ballare un tenero slow, la sorella dispet­ tosa o brontolone, l'istitutrice, la donna tutta curve e quella idealizzata. Ci sono diversi momenti riusciti in cui Sheryl Lee è notevole: 174

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Laura Palmer, mascella pendìi la, sconcertata e sconvolta dall'accesso di follia maniacale del padre; Laura ubriaca che, scoppiando in un riso genuino, dice stupidaggini sul corpo dell'uomo che Bobby ha appena abbattuto; Laura rompiscatole, esigente e imperiosa, poi il giorno dopo sfatta, commovente davanti a James quando, accasciata e come prematuramente consumata, rabbrividisce nel suo maglioncino. Un film da vedere più di una volta, non fosse che per l'attrice. Come Lo specchio nell'opera di Tarkowskij o Thelma e Louise in quella di Ridley Scott, Fuoco cammina con me è dunque un film sull'immagine mobile della madre. Quando un cineasta fa interagire tutte queste sfumature, come vari ritratti di epoche diverse in pno, non interroga forse l'immagine di sua madre? «Non sta bene, va me­ glio. Che cosa la preoccupa?» In un altro senso, Laura è la Dorothy e la Sandy di Velluto blu in una sola persona. La madre per la prima volta in una persona, non scissa. In Fuoco cammina con me non ci sono più dunque due donne offer­ te contemporaneamente all'uomo, come per il ragazzino di The Grandmother o per Henry Spencer - che ne ha due nel suo letto - o per John Merrick con i due ritratti sul comodino; o per Jeffrey, con le sue amanti alternative. E nemmeno ci sono più una buona e una cat­ tiva strega come in Cuore selvaggio. Non c'è più che un solo perso­ naggio femminile. Donna infatti non conta, salvo quando fa coppia con Laura agli occhi di un voyeur incallito come Leland Palmer. In effetti, Fuoco cammina con me è il film impossibile, perché è il film su tutte-le-donne-in-una, una compilazione di tutte le immagini della madre. Più un saggio sulla schizofrenia, più una passeggiata in universi paralleli. Ambizione ingenua e smisurata di voler fare al tempo stesso Shining, Giulietta degli spiriti, L'ora del lupo e In cerca di Mister Goodbar, e con quaranta personaggi come se ciò non bastasse, non con due o tre come in Kubrick o Bergman. Come per caso, Fuoco cammina con me, film su tutte-le-donne-inuna, è anche il film in cui la coesistenza dei mondi cessa di essere pacifica e relativamente possibile, ma dove essi tendono invece a di­ ventare uno solo, oscillando pericolosamente dall'uno all'altro e pa­ rassitandosi a vicenda. Lo scontro tra i mondi - scontro che in Lynch è contrassegnato da un effetto di luci stroboscopiche e localizzato di solito dall'autore in una scena precisa - in Fuoco cammina con me diventa indipendente dalle singole volontà e si sistematizza. I mondi si scoprono e si confondono, si toccano più da vicino (come nella scena della ricomparsa di Jeffries), si sfiorano o si schiantano l'uno sull'altro lungo due superfici parallele. 175

DAVIO I.YNCIt

Il prologo del film, con i suoi indizi senza conseguenze e le sue immagini del parcheggio delle roulottes deserto, riassume già tutto questo: si spia la superficie ma non appare nulla. Nessun accesso lì dentro, nessun luogo da cui entrare. Superficie è anche lo schermo caligginoso del televisore che for­ ma la materia visuale dei titoli di testa e riappare, riaffiorando fuga­ cemente a tratti, in vari momenti del film. E quando Laura disorien­ tata, verso la fine del film, cammina per le strade della città, guarda verso il cielo pieno di nuvole sfilacciate. Il cielo, in quel momento, non è altro per lei che ima superficie senza profondità su cui sfuma­ no tracce di nuvole. Fuoco cammina con me lavora dunque in diversi momenti attraver­ so gli sguardi, particolarmente quelli dei detectives, sulla superficie impenetrabile, indecifrabile, di un ritratto, di un ambiente, di un'im­ pressione, di un monitor di sorveglianza - poi si sente un campanel­ lo, un ascensore in un palazzo di uffici butta fuori un uomo come se spuntasse da un altro mondo. Una terza dimensione, giubilatoria, si apre come un buco vertiginoso e inebriante, si va avanti, si vive, si cammina - poi, di nuovo, la terza dimensione si chiude. Oppure, tutto si confonde e si sovrappone, e non esiste più che la confusione. La dimensione d'impossibile in cui si situa il film (attorno al te­ ma: tutte-le-donne-in-una) acquista tutto il suo valore alla fine, e raggiunge il parossismo quando, con l'esecuzione di Laura e la sua ascesa al cielo, diventa impossibile per il film distinguere i mondi l'uno dall'altro e significare la loro separazione, come allo spettatore ritrovarsi nel loro scontro. La Red Room rappresenta questa impos­ sibilità in se stessa, con la decorazione del suolo, a righe, come era già il pavimento della casa di Henry in Eraserhead. A righe, o più precisamente a zig zag alternato bianco e nero. Come nella vecchia barzelletta sulle zebre: è un pavimento bianco zebrato di nero o nero zebrato di bianco? Non si sa, perché la Red Room è per l'appunto il luogo doppio dello scontro. Inferno e paradiso secondo i momenti, ma non lo si può sapere prima.

16. Questa è la dimensione assolutamente astratta in cui, proseguen­ do la sua esplorazione dei mondi a nastro di Moebius, e guardando se non sia possibile trasgredire e accorciare il percorso obbligato del nastro, forandolo o guardandolo in trasparenza, Lynch ha voluto spingere il suo film. La cosa più sorprendente è che al tempo stesso 176

ClNlStNfONIA t’f.k l.U

- come testimonia la scena, bella e pura, tra James e Laura - ciò non lo ha fatto rinunciare a fare un film umano, sentimentale, diretto. La cinesinfonia, l'elettrosinfonia di Lynch non rinuncia dunqqp a far suonare insieme (syn-phonein) il massimo di registri e di dimen­ sioni. È ciò che abbiamo definito un procedimento romantico, con l'in­ tenzione di far ricorso al massimo di significati implicati dalla parola. David Lynch è in effetti il cineasta romantico del nostro tempo, pure nel modo in cui cerca di cancellare le barriere tra i generi, ma anche tra i pubblici, tenendo in pugno, ai due capi, gli spettatori di base delle televisioni di tutto il mondo e il pubblico più specialistico di determinate esperienze, senza alcun disprezzo per entrambi. Chi altro infatti sarebbe riuscito a fare, l'uno dopo l'altro, il pilot di Turni Peaks e Fuoco cammina con me, dimostrando di credere a entrambe le direzioni di ricerca. Cineasta senza preconcetti su cosa sia il cinema, senza a priori da rispettare o che ne condizionino le scelte. Cineasta che si gioca film per film, tentando di rinnovarsi ogni volta e di riscoprire ciò che sta facendo, pur estendendo il suo domi­ nio e le sue esperienze, come un bambino che salta per prendere un frutto solo perché lo vede su un ramo più alto. Cineasta che tenta di coprire tutta la gamma, mentre altri autori si concentrano su due o tre ottave. Nella storia del cinema - e poco importa che la percorra sempre più o meno infallibilmente - Lynch, ed è questo ciò che conta davve­ ro, fa parte di quelli che ne aumentano la gamma espressiva e ne re­ stituiscono tutta la composita ricchezza. Cineasta che ci fa respirare l'aria della notte, sentire la forza del vento, che sfiora direttamente il mito e l'arcaico, celebra la bellezza e l'immensità del mondo, nella sua disparità, le sue rotture di tono, il suo sublime e la sua capacità di derisione. Ci parla di noi nella to­ talità, e nella desolazione della nostra esperienza umana. E mentre il mondo tende all'astrazione e alla ripetizione, riannoda il libero le­ game tra l'uomo, le sue emozioni intime e l'infinito del cosmo. Per tutto ciò, effettivamente, non c'è parola più appropriata che: romantico. Romantico anzitutto nel senso degli artisti che già sono esistiti: nel senso di E. T. A. Hoffmann, di Achim von Arnim e di Edgar Al­ lan Poe, che mescolano il grottesco e il terribile, il soprannaturale e il familiare. Nel senso di Liszt o di Berliotz che guardano a forme nuove, alla ricerca di altre tecniche c di un altro spazio. Romantico ancora nel senso di Victor Hugo, che abbraccia temi e generi popolari infondendovi i suoi più neri elisir e strutturando tut177

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to per contrasti e antitesi. Non tanto dunque lo scrittori' barbuto dei libri scolastici, quanto Hugo come lo si vedeva ai suoi tempi, ed in particolare all'epoca dei suoi successi teatrali: morbido e «larmoyant», amante della trivialità e di sconvolgenti stranezze. E infine romantico nel senso più comune: in quanto innamorato dell'effusione amorosa, che fa teatro dei propri sentimenti il vasto mondo e la natura, e li popola di figure colorate e contrastate all'in­ finito. Ma anche cineasta romantico in un periodo del cinema che è ro­ mantico - cioè impuro, eterogeneo, continuamente rinnovato, e in­ tento a riallacciare l'alleanza con le sue basi popolari. Lynch scopre il cinema a ogni passo perché ne è curioso ma lo este­ riorizza, cioè lo mette al servizio di un racconto (fa un cinema che non si prende per soggetto), pur cercando di rinnovarlo nelle sue forme. Con Lynch e pochi altri, il cinema va avanti e si rinnova, non sol­ tanto ai bordi e agli estremi, ma al tempo stesso ai bordi e dall'inter­ no, sorprendendo e smentendo la profezia degli attuali cinecrofili se ci si può divertire a chiamare in questo modo coloro per cui il ci­ nema, di cui credono di poter spiare gli ultimi spasmi dalla loro po­ sizione privilegiata, «non può più essere ciò che è stato», e dunque starebbe andando verso la fine. Che il cinema non sia più ciò che è stato è invece una bella prova: la prova che è ancora vitale.

1 «Première» (USA), voi. 4, n. 1, cit. 2 Ibidem. ’«La Revue du cinéma», n. 424, cit. 4 «Studio Magazine», n. 63, giugno 1992. 5 J. Hoberman, J. Rosenbaum, Midnight Movies, cit. ‘«L'Ecran fantastique», n. 53, cit. ’Ibidem. ’«Max», cit. ’«La Revue du cinéma», n. 424, cit. ”Ed Naha, The Making of Dune, cit. " «Première» (USA), voi. 4, n. 1, cit. 12 «Studio Magazine», n. 63, cit. ’’«Positif», n. 356, cit. 14 Ibidem. 15 «Première» (USA), voi. 4, n. 1, cit. “«La revue du cinéma», n. 464, ottobre 1990. 17 «Elle», n. 2406,17 febbraio 1992. “«Positif», n. 356, cit.

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c INI SINI t INI A WK I I I

'* Ibidem. 20 «La Revue du cinéma», n. 464, cit. 21 «Première» (USA), vol. 4, n. 1, cit. 22 «Le Monde», supplemento radio-TV, 3-10 maggio 1992, articolo su Jndustra! Symphony n° 1 di C. Godard. “«Le Monde», giovedì 7 maggio 1992, cit. 24 «Libération», 5 giugno 1992, cit. “«Ciné-News», n. 37, giugno-luglio 1992, intervista con David Lynch..

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LYNCH-KIT

(da Alfabeto a Vuoto)

Un giorno, mentre tentavo di classificare i numerosi episodi di Twin Peaks registrandoli su cassette separate man mano che la Cinq li trasmetteva, si è bloccato il nastro magnetico. Così ho dovuto aprire la cassetta per cercare di sbloccarla e, per la prima volta, ho finalmente visto che cosa c'è all'interno di questi aggeggi proliferanti a milioni e milioni nel mondo, e quanti pezzettini ne regolino il funzionamento, che comunque non sono più stato in grado di rimettere a posto. Per questo Lynch-kit vale un po' la stessa cosa. Un kit di ricostruzione di un tutto impossibile, ispirato dalla stessa tematica di Lynch, che non è un inventario o un indice e nemmeno un repertorio di tutti gli insetti, tutti i flussi, tutte le forbici e tutti i ceppi presenti nei suoi film. Abbiamo semplicemente scelto un certo numero di scene e di significanti centrali della sua opera d'autore e li abbiamo messi in rapporto gli uni con gli altri: la scommessa consisteva nell'organizzarli in un doppio ordine: alfabetico e al contempo ragionato*. Scatola di elementi per il kit verbale, l'alfabeto - questo elenco chiu­ so e rassicurante la cui enumerazione non riempirà mai il vuoto che lo separa dalla più piccola parola formata attingendo agli elementi che la combinano - non per nulla è il soggetto del primo film di Lynch.

Alfabeto (Alphabet) Alphabet è il titolo - e anche il soggetto - del primo cortometrag­ gio di Lynch, un inventario drammatico di lettere dalla A alla Z, che formano tre piccole torri e spuntano in tutte le direzioni, senza però poter uscire dall'implacabile lista. Immagini di lettere isolate che passeggiano nello spazio vengono associate a corpi di donne aggre­ dite o disarticolate come marionette.

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In The Alphabet, il gesto dell'indice che designa o del braccio che si stacca è associato alla lettera separata. Le lettere dell'alfabeto alla rinfusa rinviano al frazionamento del corpo. 11 gesto stesso è spezzato (tagliare il corpo a pezzi). All'inizio la parola, dunque? E soltanto dopo la lettera, brandello della parola smembrata? In Twin Peaks e Fuoco cammina con me, Dale Cooper estrae dal cor­ po delle vittime femminili dei minuscoli pezzetti di carta che conten­ gono lettere isolate dell'alfabeto - una R e una T - che sono state na­ scoste sotto le unghie. L'assassino infatti, Bob (Robert), dissemina in questo modo le lettere del suo nome. Siccome David Lynch descrive The Alphabet come un film sull'ab­ buffata pedagogica, saremmo quasi tentati di vedere nel personag­ gio di Bob un professore troppo zelante nel fare assimilare l'alfabeto ai suoi piccoli allievi, tanto da farglielo incorporare, nel senso pro­ prio del termine. Oppure Lynch, che tra i suoi lavori alla scuola d'arte ha creato «donne che si trasformano in macchine da scrivere» ha visto da bambino delle mani femminili sui tasti di una macchina da scrivere e ha creduto che le lettere colpite rimanessero incollate alle dita? In inglese, in francese e in italiano esiste la stessa ambiguità attor­ no alla parola «lettera»: lettera dell'alfabeto, lettera postale, e lettera nel senso di letterale. Potremmo dunque dire che in Lynch la lettera uccide, in una comprensione letterale delle parole dell'apostolo Paolo. Perché Frank in Velluto blu dichiara a Jeffrey che gli manderà «una lettera d'amore» - una pallottola in mezzo agli occhi - se continua a immi­ schiarsi nelle cose di Dorothy?

La lettera è anche questa piccola parte astratta e neutra di un tut­ to che non ha più nulla a che vedere con lei e che si chiama parola. La parola scritta è, per il bambino a cui sono state fatte imparare separatamente le lettere, il simbolo stesso dell'oggetto, che intrattie­ ne con le parti staccabili e universali che lo compongono un rappor­ to misterioso, incomprensibile, arbitrario e d'incommensurabilità. Nel cinema di Lynch restano delle tracce di un sistema alfabetico quando (soprattutto in Dune e in Fuoco cammina con me) pratica la ri­ petizione letterale di brevi inquadrature latrici di un'informazione (l'immagine di un solo oggetto: una mano, una rosa, una fiamma ecc.), trattate come lettere capaci di creare configurazioni differenti montate insieme con altre.

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Bocca

aperta

(Open Mouth)

La bocca della donna che si apre, senza che si sappia se è per far uscire qualcosa o per inghiottire - è per lei il segno del piacere. Tal­ volta, ne escono dei suoni da belva, ruggiti, gorgoglìi come fosse posseduta (Elephant Man, Fuoco cammina con me). Bocca femminile identificata dalle labbra aperte: ma anche orifi­ zio emittente, bocca fallica che eiacula, che sputa qualcosa. Come l'oscena bocca di Bobby Peru, o quella del bambino di Era­ serhead. Fallica, ma al tempo stesso penetrabile. Il bambino di Era­ serhead ha una bocca, una gola, in forma di meato, senza labbra. 11 fallo perforatore viene spesso simbolizzato come duro, lungo. In Lynch ciò che lo rende penetrabile è messo molto in evidenza (in rapporto con quella che è per lui la natura tubolare di tutto ciò che è allungato). Henry mette la mano sulla bocca al suo bambino-mostro, che piange incessantemente. In Velluto blu, Jeffrey ha un padre che ha perso la voce... e impedisce a sua zia di allevarlo. Frank si serve del cordone di velluto blu per chiudere la parola. E Johnnie Farragut in Cuore selvaggio muore imbavagliato. C'è dunque qualcosa che interdice la parola nel cinema di Lynch?

Buio (Dark)

Una nota di David Lynch sulle riprese della serata a casa di Ben in Velluto blu rivela in lui una singolare sinestesia luce/udito: «Piut­ tosto stranamente, più l'appartamento di Dean Stockwell in Velluto blu era buio (dark), meno sentivo (la canzone). Bastava che fosse più chiaro perché il suono diventasse perfetto» Stockwell, in questa scena di una comicità inenarrabile dove mima in play-back la canzo­ ne A Candy Color Clown, usa un grosso microfono anni cinquanta munito di una luce che lo illumina dal basso.

Cancellare (Erasing)

In un'intervista concessa a Michel Denisot per Canal+ nel 1992, in occasione dell'uscita di Fuoco cammina con me, a David Lynch è stato chiesto di parlare del suo gusto per le testure e i materiali, anche quelli giudicati repellenti, come la serie di mosche morte con cui fa delle composizioni. Lynch risponde che è il nome che si dà alle cose, il nome associato a esse («mosca morta»), che impedisce di vederle belle - ma 185

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che basta cancellare (erase) la parola per vedere diversamente. In questo modo Lynch, con la sua logica straordinaria, ci dà una chiave per capire perché Eraserhead si intitolasse così e il perché di quella scena della matita. Perché alla fine chiunque avrebbe potuto dire che ciò che impe­ disce di vedere belli gli organi sezionati del gatto, è il ricordo di ciò che il gatto è o è stato, mentre secondo Lynch è perché quello si chia­ ma gatto, perché ha la parola scritta sopra. Abbiamo tutti più o meno tentato di vedere che cosa significava in Eraserhead quella cancellazione di un tratto scritto con una punta e cancellato con l'altra, abbiamo fatto anche appello a Derrida ma, come sempre, senza riuscire a cogliere l'essenziale. Perché, ima volta tracciata e cancellata la riga, cosa ne resta? Il bianco, il vuoto? No. La superficie della pagina come pelle, tessitura. Le parole «scrivono» sulla pelle del mondo - come i nomi sono scritti sulla superficie terrestre nelle carte geografiche. Resta da sapere se sia così facile cancellare la parola - può anche essere impossibile. Nemmeno Lynch lo può fare, ma a differenza di tutti gli altri, è pericolosamente cosciente della superficie. Egli è un originale che pensa al continuum indefinito della superficie della carta.

Cane (Dog) Un quadro, in senso proprio, è, ad esempio, una vignetta del fu­ metto che Lynch ha pubblicato per diversi anni nel «Los Angeles Rea­ der»: The Angriest Dog in the World (il cane più arrabbiato del mondo). 11 mondo di questo cane sta tutto nella sua vignetta, definita una volta per tutte e immutabile. Si compone più o meno di una casa, un giardino, uno steccato di legno, un albero e, aldilà del recinto, i sen­ tieri da cui escono dei fili di fumo inclinati, il cielo dove si susseguo­ no il giorno e la notte. E infine, le parole che il cane sente e che sem­ brano determinarne la costante arrabbiatura. Ma di tutto ciò non siamo davvero sicuri, ed è già troppo lanciar­ si ad affermare che fra la sua rigidità e le parole che compaiono nei fumetti esiste un rapporto di causa/effetto, tipo azione/reazione. Il testo introduttivo, anch'esso sempre uguale, si limita a dire: «The dog is so angry he cannot move He cannot eat He cannot sleep He can just barely growl

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Bound so tighly by tension and anger, he approach the state of ri­ gor mortis». (Il cane è così arrabbiato che non può muoversi, non può mangia­ re, non può dormire, può giusto brontolare un po', ed è talmente te­ so [o legato] dalla tensione e dalla collera che si approssima alla ri­ gidità cadaverica). Come dice Lynch, si tratta di un'allusione ai momenti di collera furiosa che egli stesso ha di tanto in tanto contro quelli che gli stan­ no vicino c dai quali pare essere guarito con la meditazione. Il cane è nero e assomiglia a un pesce. Ha una forma nettamente oblunga, e le zampe sono a mala pena differenziate. La collera lo ir­ rigidisce in un'erezione permanente che lo blocca, strangolato dal guinzaglio. È forse ridotto in questo modo perché patisce la banalità dei di­ scorsi che gli arrivano dalla casa? (Si pensa a David Lynch bambino che si lamenta perché non sentiva mai litigare i suoi genitori). Ma la parola chiave è: sentire. Il cane sente, tenuto fuori/dentro da una scena acusmatica. Tirando il guinzaglio in direzione dell'albero in primo piano, è come se il cane volesse collegare la casa alla pianta? O, più trivial­ mente, andarci come fanno i cani per lasciarvi un flusso di urina? Ma il guinzaglio che gli stringe il collo (come le camicie di Lynch, abbottonate fino all'ultimo bottone) gli impedisce di arrivarci: non può pisciare né contro l'albero né dove si trova, rigido di rabbia com'è. (Vien da pensare a ciò che dice Francjoise Dolto a proposito della brutta scoperta che aspetta il bambino fa i 18 e i 24 mesi: fino a quel mo­ mento poteva orinare in erezione, poi, a causa dello sviluppo di un or­ gano chiamato «veru montanum», non può più farlo. C'è ormai incom­ patibilità fra l'erezione e lo scorrimento felice di un lungo getto d'orina). In questo Lynch-Kit in miniatura che è il fumetto del Cane più ar­ rabbiato del mondo, noteremo anche che molte cose hanno un anda­ mento obliquo: il cane, il guinzaglio, i rami dell'albero, il colmo del tetto della casa, ma anche, più misteriosamente, i pennacchi di fumo che fuoriescono dai camini delle fabbriche. Materializzazione di un flusso di energia, l'inclinazione di questi pennacchi di fumo non potrebbe essere forse dovuta alla forza co­ smica del VENTO? L'obliquo, in questa struttura rigida, indica una traiettoria, la cui rigidità è rotta da un'intenzione o un'attrazione. Potrebbe anche es­ sere il «clinamen» da cui Lucrezio faceva derivare il principio dell'incontro degli atomi.

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Capanna (Hut)

«Ho passato gli anni fra Eraserhead e Elephant Man a costruire ca­ panne. Allora vendevo il "Wall Street Journal" e sovente mi capitava di trovare pezzi di legno per strada. Così ho costruito diverse capan­ ne, molto elaborate. Alcune avevano l'elettricità, muri con strati di gesso, tetti di vetro, piccole finestre, insomma tutto quel che serviva. Non c'è nulla che possa rendermi più felice che costruire qualcosa e tagliare la legna»2. David Lynch è un cineasta «che costruisce» e, anche quando la­ scia le idee scorrere liberamente, i suoi film sono strutturati: sono so­ lidi e possono essere abitati.

Ceppo (Log) Il ceppo consiste in due pezzi che designano il punto in cui è sta­ to tagliato e separato dal continuum. Il frammento tagliato si segnala attraverso le due estremità che rendono visibile l'interno del legno, il cuore. In Velluto blu, il passaggio di camion che trasportano tronchi ci ri­ corda che la città vive facendo a pezzi la natura. E ce lo ricorda anche il buffo annuncio radiofonico della stazione locale («quando l'albero sarà abbattuto»). 11 tempo viene sezionato come si sezionano i tronchi. Si taglia molto a Lumberton, e non deve stupire che si taglino anche le orecchie. Il taglio potrebbe non essere diverso da quello che il linguaggio opera sul continuum e sul corpo. Quel ceppo che non lascia mai la Log Lady di Twin Peaks, che gli deve il suo nome, lo trasporta come un bébé. Del resto, ha una forma analoga a quella oblunga del bambino di Eraserhead. 11 «ceppo», come dice lei, ha sentito delle cose. Il bambino, nella famiglia, è l'ascoltatore privilegiato. Non poten­ do talvolta fare null'altro, perché se ancora ci vede poco, il suo orec­ chio funziona benissimo.

Cordone (Cord) e Forbici (Scissors) Geova dice al Serpente: «Creerò inimicizia fra te e la donna, fra il tuo futuro e il suo futuro: lei ti schiaccerà la testa c tu le ferirai il tallone».

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È in riferimento a questo passaggio del Genesi - collocato dopo il peccato originale - che in Eraserhead vediamo la piccola Signora del termosifone schiacciare col tacco, con un rumore disgustoso, una specie di serpenti che cadono sulla scena? Questi serpenti sono, nei fatti, dei veri cordoni ombelicali recupe­ rati in un ospedale; come quelli che vede Henry uscire da sotto le lenzuola del letto coniugale, abortiti dalla moglie e che lui scaraven­ ta contro il muro. In Lynch c'è sempre un cordone ombelicale che gira da qualche parte. Fino in cima alla testa di Bobby Peru quando, per effetto di un colpo di fucile a bruciapelo, si stacca dal corpo in modo orribile e ri­ dicolo, salta in aria, va a schiacciarsi contro un muro e poi ricade a terra: in effetti, è una gamba del collant da donna che si è messo in­ torno alla testa per la rapina-bidone. Ne parlava già il romanzo di Barry Gifford: «È meglio delle calze. Ti tiri una gamba sulla faccia e lasci andare l'altra dietro la testa». O ancora, sotto forma di quel legame informe di velluto blu ta­ gliato dalla vestaglia di Dorothy - la grande vestaglia profumata di velluto blu della Notte -, di cui Frank si serve per accoppiarsi oral­ mente con lei e che conserva sul suo corpo come oggetto transazio­ nale ascoltandola cantare allo Slow Club, e che in seguito infilerà nella bocca del marito di Dorothy torturato (con il nastro che si arro­ tola allora come in un serpeggiamento vegetale) e che, alla fine, re­ cupererà sul cadavere e stringerà nelle mani quando viene ucciso. Ma è anche il filo elettrico della radio con cui giocherella Sailor allungato sul letto di una camera d'albergo, in un complesso mon­ taggio elettrico fra i suoi piedi, la radio, il suono, il letto e Lula... E, per concludere, ovviamente, il filo del telefono nella scena di Turin Peaks in cui Sarah Palmer intuisce la morte della figlia. Il padre a cui lei ha telefonato per avere notizie ha già capito vedendo avvi­ cinarsi lo sceriffo Truman. Senza riguardo per la moglie, abbandona il telefono, il cui filo pende dondolando, tenuto teso dalla cornetta, veicolando le lacrime di Sarah che il padre non può più sentire, men­ tre sta attaccato in piedi e titubante alla giacca di Truman. Tutto ciò - questo montaggio disarticolato - può sembrare deci­ samente strano, oppure invece molto poetico, se vi si associano, ad esempio, immagini vegetali di piante rampicanti: rami, foglie. Il cordone è dunque ciò che resta - un resto inerte e penzolante di ciò che fa passare il flusso del vivente - e la cui presenza segnala che la nascita-separazione non è compiuta, e che il corpo non si è com­ pletamente richiuso. Alla fine di Eraserhead, il padre prende le forbici per tagliare le fa189

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see che proteggono la parte inferiore del corpo del suo piccolo. È il gesto di un infanticida o di un «puericultore» (corrispondente a quello dell'«uomo nel pianeta» che aziona una leva dopo di che il fe­ to scende)? Ciò che Henry fa è mostruoso, ma è al contempo un'im­ magine liberatoria. Anche se lo buca, Henry fa nascere il prematuro (visto che la madre se n'è andata) e libera nel suo corpo qualcosa che non riusciva a crescere. (Nello stesso modo il perverso Frank, maniaco delle forbici, fra Dorothy e il suo piccolo fa la parte di colui che separa, un ruolo conforme alla figura del padre simbolico.) Senza dubbio Henry si ricorda quando, a casa degli X, il padre l'ha solennemente delegato al compito di tagliare il pollo per liberar­ ne ciò che c'era dentro, un liquido sanguinolento che provoca nella madre uno stato di franse.

Corpo (Body) In Lynch, il corpo umano tende a presentarsi sotto forma di una massa principale - con gli arti inferiori saldati al tronco in un'unica colonna dalla forma oblunga, rigida, un po' vacillante - e seconda­ riamente, con delle estremità esposte e staccabili - testa e braccia differenziate come un'appendice. Questa particolare forma corporea, dove il corpo non è separato dal basso, risulta chiara nelle sequenze di animazione di The Grandmother e in alcuni quadri di Lynch. 11 carattere drammatico e a tratti (Fuoco cammina con me) inebrian­ te ed esaltante del passo a grandi falcate sembra essere legato in Lynch alla scissione che impone alla parte inferiore del corpo e alle due gambe che funzionano in questo caso come delle forbici. Nei suoi film è frequente che si cammini separando poco le gam­ be, oppure in modo un po' rigido come a preservare l'unità fallica del corpo. Ad esempio, Henry Spencer in Eraserhead avanza a piccoli passi, come se volesse rinchiudere in un tutto unico la totalità del corpo e non lasciarne una parte esposta. Anche la testa, la ritrae co­ me per saldarla al corpo, cosa che non gli impedirà tuttavia di per­ derla in sogno. In quel momento tutto si svolge come se il tronco ignorasse ciò che capita alla testa. 11 corpo decapitato resta per un attimo in piedi e diritto, e solo le mani-estremità rivelano il panico accanendosi ner­ vosamente su una spranga di metallo. Anche il corpo ferito dell'uomo in giallo in Velluto blu rimane in piedi e tutto d'un pezzo anche se sanguinante e ci vuole un nuovo

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colpo di pistola per stenderlo completamente, come un birillo. Quando una parte del corpo lynchiano si individualizza e si stac­ ca dal tronco, lo fa per rivendicare il proprio carattere di parte, di escrescenza: un braccio teso rigido e isolato (quello di Sailor nella sua strampalata gestualità); una mano che s'irrigidisce (Lula). Il braccio, che finisce con una mano dalle dita spalancate, è spes­ so quello della donna, quando si scompone o tende verso il bambino un suo rapace pseudopodo. Il braccio puntato e indicatore è ancora quello della donna; quello del sostegno e dell'autorità è dell'uomo. In Eraserhead, il gesto del braccio del padre X che trattiene la ma­ dre X sulla soglia della cucina è importante anche se non basta a non farla entrare, perché è l'unico contatto fisico fra lui (che è paralizza­ to) e la donna. Nell'apoteosi finale di Fuoco cammina con me, Dale Cooper è in piedi vicino a Laura seduta su una sedia e allunga verso di lei il suo braccio protettore. Lynch ha realizzato due film i cui titoli rimandano a parti di cor­ po (estese simbolicamente): la testa di Eraserhead, il cuore di Cuore selvaggio e ha fatto di un orecchio tagliato il punto di partenza di Velluto blu. In Elephant Man tratta la mostruosità di John Merrick insistendo - con le scelte di inquadratura e di sceneggiatura - sull'ipertrofia della testa, là dove un altro avrebbe calcato sull'andatura e un altro ancora sullo sguardo. Notiamo che il bambino è normalmente macrocefalo e che la sproporzione della sua testa con il resto del corpo diminuisce pro­ gressivamente con la crescita.

Così saldato e raccolto in una massa totemica che emette pseu­ dopodi, il corpo umano, quando è oggetto di una pressione interna o di un'aggressione esterna, non reagisce come farebbe un tutto morbido con delle membra sciolte, dispiegate nello spazio e al tem­ po stesso coordinate. Quando c'è un'emozione in Lynch, è frequente che una parte del corpo e una sola la manifesti con molta intensità, mentre il resto del corpo non reagisce. Ad esempio, la testa che si contrae e si agita mentre il resto del corpo rimane rigido. E questa solitudine della te­ sta è particolarmente evidente nelle scene di pianto. L'interno del corpo in Lynch sembra, a volte, fatto di una materia unica, una sorta di pappa o di fluido che, se lo sfiorassimo, svanirebbe.

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Così come la nonna sembra morire come un pallone, perdendo dalla bocca l'aria che è dentro di lei, le vittime del barone Harkonnen, questo mostruoso obeso volante, sono uccise allo stesso modo in cui si sgonfia un materasso pneumatico o un'ochetta di plastica aprendo una piccola valvola all'altezza del seno che lascia uscire la sostanza vitale. Come è giusto, il mostro morirà allo stesso modo: fo­ rato dal pugnale della piccola Alia, si alza in volo girando su se stes­ so come un pallone bucato.

Crescere (To grow)

Nulla sembra immobile come una pianta in un interno senza il vento che la agita, ma nulla è drammaticamente e orribilmente agi­ tato e gesticolante come la crescita di una pianta rampicante, filmata immagine per immagine per un lungo periodo. «It's prematured, but it's a baby», assicura la nonna dell'ignobile frutto di Mary e Henry - è prematuro, ma è comunque un bambino. Il bambino, una volta uscito, finirà di crescere? Si ha un bel dargli da mangiare e lasciarlo nello stesso punto sul tavolo, ma non cresce, stavamo per dire, non spunta. E mentre il piccolo non cresce, viene invece su molto bene la pianta su) comodino di Henry. Che cosa la fa crescere, visto che non la vediamo mai bagnare? (Al contrario del grano con cui il bambino in The Grandmother cerca di fabbricarsi un genitore simpatico a cui si possa voler bene.) Si tratta forse di una sorta di solidarietà con il neonato (di cui la pianta sarebbe il doppio), oppure ci si può spinge­ re a dire che è il tempo stesso, il flusso del tempo, di cui Lynch rego­ la e organizza con tanta cura il «flow», che la fa crescere. 11 tempo è come uno flusso che fa maturare le cose. Il tempo a scala di vegetale s'identifica con la sua crescita. Si potrebbe credere che è il tempo che fa crescere.

Discorso/Parola (Speech) Una testimonianza dice che Lynch ha l'abitudine di borbottare tra sé e sé, e dunque gli capita di far fare lo stesso ai suoi personaggi: le voci interiori di Dune ne sono una delle trasposizioni che rinnova­ no le convenzioni del cinema. In un paio di momenti anche Merrick e Treves in Elephant Man si vedono parlare con se stessi. Qualcosa di primitivamente teatrale viene così restituito alla parola cinematogra-

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fica, che è non più forzatamente inscritta in un dialogo psicologico, un modo per rivolgersi a un altro personaggio, ma esiste in sé, co­ municata direttamente allo spettatore. È uno dei diversi modi con cui Lynch rinfresca il cinema (più di quanto lo rinnovi). In Eraserhead i dialoghi sono scarsi, ma comunque ce ne sono, e queste parole, per il loro risuonare in una sorta di vuoto, per la loro intermittenza, per l'essere separate da dei bianchi, determinano ciò che le circonda e ne fanno un silenzio. Il tempo e il silenzio si fanno strada tra queste parole come l'erba tra le lastre sconnesse. La paro­ la, in Eraserhead, risuona come talvolta nei primi film sonori, dove c'era ancora posto per i rumori e dove si sentivano i buchi tra le fra­ si. Anche il rumore industriale permanente del film evoca il rumore di fondo dei primi sonori - quell'impasto primitivo da cui i suoni dovevano sforzarsi di emergere. Le frasi pronunciate sono attorniate dal vuoto, anche loro sono delle pozze. Lynch mantiene sempre il gusto del monologo e dell'assolo, delle battute staccate le une dalle altre, dove tutti parlano quando viene il loro turno. La parola nei suoi film non è mai banalizzata. I registri del discorso, in Lynch, sono molto più aperti e vari che nella maggior parte degli altri cineasti: la gamma di variazioni e di sfumature tra il più esile filo di voce e il grido più urlato è molto più ampia. È a partire da Elephant Man e soprattutto da Dune che comin­ ciano le modulazioni della voce, i cambiamenti di coloritura - quei sussurri sul bordo della parola e quelle parole sul bordo dell'escla­ mazione, che danno la sensazione di trovarsi in un sogno. È strano, in effetti, come far funzionare in modo dolce e aperto i differenti re­ gistri della parola legati in un unico continuum, farci sentire dei se­ mi-gridi e dei tre-quarti-sussurrati, ricordare che non ci sono gradi discontinui della voce come vengono impiegati convenzionalmente dal cinema che si vede di solito, è strano come tutto ciò amplifichi lo spazio e lo carichi di meraviglia e di minaccia. In particolar modo quando si parla col tono di qualcuno che cor­ re il rischio di essere ascoltato: il che si giustifica quando delle donne sono al cappezzale di Paul, in Dune, ma un po' meno quando la ca­ po-infermiera critica davanti a Treves il modo in cui il suo protetto viene esibito (nulla ci dice che l'uomo-elefante è lì vicino) - e diventa assolutamente strano quando Santos, in pieno sole, in un ampio giardino, discute con Marietta sul modo di uccidere Sailor come se fossero entrambi, la notte, al capezzale di un culla. È da cose come queste che nasce il tono mitico ricercato da Lynch. Sono infatti sufficienti a situare la parola - e il film - come perpetua­

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mente spiata da un testimone primitivo, che raccoglie con le sue orec­ chie le briciole di qualcosa, di cui si immagina di essere al centro. Una parola che crea attorno a sé un gigantesco spazio ambientale sospeso in ascolto.

Dritto/In

piedi

(Standing)

Lynch ama mostrare la verticalità ambigua - quella troppo rigida e un po' inquietante, arcaica, mitica (quella di Dale Cooper stretto nel suo impermeabile, dritto come la giustizia) - o quella vacillante e insicura dei vecchi e dei malati (come ad esempio l'uomo che attra­ versa le strisce pedonali in Fuoco cammina con me, appoggiandosi a una specie di stampella), che spesso risulta aver bisogno di un aiuto, come si dice per le piante: si sta dritti appoggiandosi a un supporto verticale. Come quando Leland Palmer si attacca a un bottone della giacca di Truman, o quando Dorothy Vallens nuda e con le braccia a penzo­ loni, ricoperta di ecchimosi, si attacca a Jeffrey come una pianta ram­ picante, sotto gli occhi stupefatti di Sandy.

E quando vediamo la donna che si appoggia a una porta, anche questa è un tutore di verticalità. Il cinema di Lynch è tutto attraver­ sato da quest'immagine di donna alla porta. Da Eraserhead, con la biz­ zarra inquadratura di Mary X dietro un vetro, ci sembra subito di stare alla finestra di casa sua, e infatti, quando apre a Henry, vedia­ mo che la finestra è al tempo stesso la porta d'entrata. In Cuore selvaggio, c'è un'inquadratura di Perdita Durango appog­ giata contro la porta di casa che dura più a lungo di quanto dovrebbe e si fissa nella nostra memoria. E ancora, nel finale di Twin Peaks, la scena in cui Audrey Home si incatena in banca alla gigantesca porta della cassaforte per manifestare il suo impegno ecologista. È anche un'immagine della donna-passaggio: come la vecchia si­ gnora e la Log Lady di Fuoco cammina con me che si tengono in pros­ simità della porta che Laura Palmer è stata obbligata ad aprire dal suo triste destino. In Lynch, lo stare in piedi, specialmente in gruppo, è sovente uno stare «fermi in piedi». Rimaniamo piantati dove stiamo, come se stes­ simo mettendo le radici, oscillando leggermente, tenendoci in equili­ brio. Oppure balliamo sul posto, come la collegiale Audrey in Twin Peaks. Quando stanno in piedi in molti, con differenti inclinazioni, gli esseri umani formano dei quadri viventi, come fuori dal tempo. 194

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Quadri viventi licenziosi, talvolta giardini di ragazze-fiore, inge­ nua imagerie da bordello. In Cuore selvaggio, un vecchio ricco e di­ stinto ordina omicidi seduto al telefono, alle sue spalle chiacchierano due ragazze in topless, in piedi.

Eclisse (Eclipse)

Chi conosce Lynch sa che ogni volta che menziona il suo progetto sul serpente marino Ronnie Rocket, non tralascia di dire che il perso­ naggio principale, un uomo alto tre piedi e coi capelli rossi, funziona a «corrente alternata» (alternative current) a 60 volt. Corrente elettrica, in inglese si dice anche «power», parola che in italiano si traduce con potenza. «Alternata» è una precisazione buffa, ma non casuale. Perché la realtà in David Lynch è alternata, soggetta a eclissi e ri­ torni. Eclissi per accecamenti, «blinding», quando l'intensità troppo forte di una sensazione fa scomparire tutto nel bianco (Eraserhead) o nel giallo (Cuore selvaggio). Ma in Lynch ci sono anche le eclissi dei personaggi - scomparse prolungate e misteriose (Twin Peaks, Fuoco cammina con me) ma an­ che, talvolta, di solo uno o due secondi, un semplice effetto ottico in cui il personaggio scompare dal luogo in cui si trova, lasciando il campo vuoto apparire dietro di lui. In Velluto blu, alla fine della serata a casa di Ben, quando Frank ri­ preso in piano ravvicinato grida con l'entusiasmo di un capo scout esaltato: «Let's fuckl», viene fatto sparire chiaramente e magicamente dal campo, dallo spazio che occupa, lasciando la scena vuota per due secondi (un effetto visibile ma breve, che lo spettatore in sala coglie raramente in modo cosciente). Lo vediamo di nuovo presente nella scena successiva (è forse stato inghiottito per due secondi da un'altra dimensione, come i due agenti dell'FBI in Fuoco cammina con me?). Allo stesso modo nella lunga sequenza della Red Room, al 20° episodio di Twin Peaks, Dale Cooper sparisce completamente, per qualche secondo, dallo sfondo su cui si staglia. Come il bambino osservato da Freud che esulta di poter fare spa­ rire e ricomparire un oggetto e di padroneggiarne la scomparsa con il linguaggio, senza esserne più vittima, David Lynch gioca a na­ scondino con la presenza del personaggio - visto che l'assenza non è più un'interruzione, e controlla così i salti da un mondo all'altro. Ma l'eclisse è anche il padre visto come genitore discontinuo, 195

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quello che va e che viene come il maggiore Briggs in Twin Peaks. «Papà toma a casa» è una delle frasi che Frank vomita nella sua terapia sessuale con Dorothy - e del resto nell'appartamento di lei Frank è colui che passa, parte e ritorna di continuo. Le intermittenze di luce in Lynch giocano ugualmente un ruolo im­ portante: discontinuità sfrigolante dell'illuminazione elettrica - lampa­ de che crepitano e lampeggiano in modo irregolare prima di fulminar­ si, spesso nei momenti estremi, come a tradurre una tensione troppo forte, con l'allusione a una sconnessione possibile (o come segnale di pericolo, quando i mondi distinti si toccano troppo da vicino?). L'elettricità discontinua, stroboscopica in Lynch è non soltanto il motivo visivo del logo della società di produzione da lui fondata con Mark Frost, ma presiede anche alle scene di «climax» di tre dei suoi film: la morte e la trasfigurazione del neonato in Eraserhead, l'arrivo di Dale Cooper nella Red Room (29° episodio di Twin Peaks') e infine, l'omicidio di Laura Palmer in Fuoco cammina con me, dove nell'apo­ teosi finale sembra quasi che il battito luminoso si regoli e si armo­ nizzi per ricostituire un ritmo stabile, una nuova continuità.

Eterno (Forever)

L'eternità ci spia ovunque. Anche in un momento grigiastro della giornata in cui ci limitiamo ad aspettare in una casa squallida che un ascensore si metta in movimento, basta attendere qualche istante di troppo, in piedi o seduti, che la sensazione di eternità ci pervade: e uno degli aspetti del genio di Lynch è il suo modo di dare una sen­ sazione di eternità dal momento in cui qualcuno aspetta un po'. E non è un caso che abbia trattato la Red Room di Twin Peaks come una sala d'attesa. Nel commissariato di Deer Meadow (Fuoco cammina con me) do­ ve aspettano Chris Isaac e Kiefer Sutherland gli serve esattamente un secondo per darci l'impressione di averci passato un'eternità a far da palo. Mentre state ballando un lento con la vostra amichetta sentite cantare «I shall love you forever», e cominciate a parlarle sottovoce, senza sapere in quale guaio state cacciandovi. «Forever», in effetti, è una parola che si sente molto nelle canzoni d'amore, ma che può risuonare anche sotto le volte di una chiesa. Questa assimilazione fra l'eternità de) paradiso che promettono le 196

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religioni e quella di cui ci parlano le canzoni all'acqua di rose è evi­ dente in Velluto blu : la stessa melodia simile a un cantico che si sente quando Sandy e Jeffrey fermano la macchina davanti alla casa dei Williams (che assomiglia a un tempio), accompagnando il racconto che fa Sandy del suo sogno estatico, ritorna in seguito nello slow che li farà gettare l'uno nelle braccia dell'altro. C'è un ballo a Lumberton. Jeffrey e Sandy si buttano e ballano al suono della musica del sogno di Sandy. Lei gli dice: «I love you Jef­ frey». Lui risponde: «I love you too» (è poi tanto sicuro di volersi spingere così lontano?). Nello slow che ascoltano, Julee Cruise canta «I kissed you forever». Si abbracciano. È fatta. Il ballo che suggella la loro coppia per l'eternità non è poi durato molto. Quella di Nadine e di Ed in Twin Peaks, da cui Ed non riesce a uscire, nonostante le scappatelle e le reciproche sbandate, sembra rappresentare il lato diabolico, infernale della coppia che si è impe­ gnata davanti alla Chiesa per sempre. (L'anello fatale di Fuoco cammi­ na con me, anello che fa scomparire l'agente Desmond e che lega Lau­ ra a Bob, rappresenta, dice il nano, la fede della promessa coniugale). È come la parola «paradiso» («heaven»): deriva dalla religione ma viene utilizzata molto negli slows dolciastri. Dallo slow all'oltre­ tomba, questa parola ci precipita nell'ignoto. Il lieto fine di Eraserhead è sicuramente un ingresso al paradiso; un paradiso a cui la piccola Signora del termosifone allude in una canzone, la cui gravità non viene nascosta dal tono irridente: «In pa­ radiso tutto è bello, tu hai le cose che ti piacciono e io ho le mie». Promessa di un paradiso di coppia - qui non uniti e confusi ma uniti e separati, separati-legati. E anche se questa promessa viene poi volta in parodia infernale, violentata, sporcata, danneggiata (in Twin Peaks, il valzer dell'omicidio di Madeleine), ciò non vuol certo dire che non si continui a crederci, al contrario. L'incurabile nostalgia di una promessa di paradiso a cui si crede con tutte le forze è quella che dà ai film di David Lynch la loro asso­ luta autenticità di sentimenti, aldilà di qualsiasi secondo livello.

La sola eternità placata in Lynch la troviamo nell'ammirevole fi­ nale di Elephant Man. Vediamo John Merrick scivolare verso una morte accettata e co­ sciente. È a posto con la sua vita, ha ringraziato il suo benefattore rice­ vendone le scuse e gli ha augurato due volte «Buona notte» - la prima quando questi se ne andava, la seconda un po' dopo, per se stesso, or­ mai rimasto solo. Si accorge con sorpresa che il suo plastico della cat­ tedrale è terminato e vi appone sopra la sua firma. Ha messo in ordine 797

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le sue cose, espresso la sua riconoscenza, si allontana senza rimpianti. Osserva l'incisione che ha appeso al muro, semplice, una donna a letto. Con gesti tranquilli, toglie dal letto i numerosi cuscini che servo­ no a tenergli il busto sollevato quando dorme. Prepara il suo letto di morte. Con un gesto liscia il lenzuolo che ha appena alzato. Guarda verso di noi prima di entrare nel letto. Si lascia lentamente andare all'indietro. Si sdraia con un gemito leggero. Le tende della finestra semiaperte sulla notte sono mosse da un vento dolce. Percorso ma­ croscopico della macchina da presa che descrive in dettaglio la cat­ tedrale in miniatura davanti alle tende. La testa dell'uomo-elefante è pesante. Il ritratto di Miss Kendall è vicino al suo capezzale. Così il piccolissimo ritratto della madre. La tenda è agitata dal vento. Le stelle, in un primo momento fisse, ma poi si ha l'impressione di en­ trare dolcemente nel firmamento. Una voce di donna parla dell'eter­ nità delle cose: «Nothing will die, never» (il viso femminile che ve­ diamo, immobile, è lo stesso dell'inizio, un po' preoccupato). «The wind blows» - dell'eternità delle cose e delle forze. 11 viso scompare e ricompare in un pennacchio di fumo, sempre preoccupato (eclisse, ma felicità di ritrovarlo, sensazione che resterà sempre lì). «Nothing will die». Dolcissima dissolvenza al bianco. I titoli di coda con la loro musica disseminata galleggiano in un suono come di vento cosmico.

Fine (End)

Come mettere insieme «alfabeto» e «fine» nel nostro Lynch-Kit? Un'idea ci può venire dal fatto che la successione è una questione di fine, intesa come estremità - «end» in inglese. Le estremità in Lynch sono importanti nei due sensi: - in quanto tracce dell'interruzione nel continuum, il tutto, da cui sono state prelevate. - in quanto poli di contatto (si dice che gli estremi si toccano). Il contatto in Lynch produce energia - da cui il carattere drammatico, in­ tenso, del vicino, della prossimità - quando gli estremi devono toccar­ si. Con questa domanda implicita: quale estremo provoca l'altro?

Il leitmotiv visuale di Cuore selvaggio è, lo sappiamo, il primissimo piano di una capocchia di fiammifero che accende l'estremità di una sigaretta, scandendo ciascuna delle scene di intimità fra i due protago­ nisti (ma già quando Henry in sogno tocca la punta della mano della Signora del termosifone, si produce un'illuminazione dell'immagine, 198

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all'interno della quale tutto scompare). Il fuoco sembra esistere in sé e dall'eternità. Ciò che brucia e che lo propaga sembra essere soltanto un tramite.

Le parti di questo kit che è il corpo umano che vengono in gene­ re isolate ed evidenziate nei film di Lynch, cioè la testa (sostituto del fallo), la mano, il braccio, i piedi, il naso e le orecchie, sembrano pre­ se in considerazione specialmente per il loro carattere di punto fina­ le, di estremità (motivo conduttore visuale della mano in Dune, Cuo­ re selvaggio, Fuoco cammina con me). Il piacere sessuale in Lula, ad esempio, viene significato dall'irri­ gidimento della mano fino alle estremità, che sono anche degli artigli. Ciò che oltrepassa il corpo e lo rende vulnerabile: il vice maledu­ cato dello sceriffo di Deer Meadow in Fuoco cammina con me è preso e dominato per la punta del naso. Eraserhead soprattutto è una storia di estremità. La testa di Henry è veramente il punto terminale del suo corpo (a immagine di quella del bambino), designato espressamente come sezionabile, e finisce per saltare come un tappo sotto l'effetto di una pressione interna, poi si ritrova recuperata da un bambino che la porta in una fabbrica, do­ ve ne viene prelevata una sostanza che costituirà la materia prima per la gomma all'estremità di una matita. Di una matita «da carta», di quei modelli cioè tagliati a un'estre­ mità e con la gomma dall'altra parte, destinata, come si dimostra nella stessa scena, a cancellare ciò che qualcun altro ha scritto, con una conclusione che sembra perfetta. Ma all'inizio una matita non è un oggetto fine a se stesso. La macchina di Eraserhead, che serve a riprodurle a decine di esemplari allineati come in parata, ci ricorda che all'origine ogni matita nasce da un ceppo in un continuum con le due estremità ancora intercam­ biabili. Soltanto dopo essere stato tagliato e munito di una gomma, si trasforma in un oggetto conchiuso: un oggetto che all'inizio è dun­ que un «log», un ceppo tagliato nel continuum naturale, ma le cui due estremità vengono poi rese non intercambiabili, e reciprocamen­ te corrispondenti come il più e il meno (polo positivo e negativo nel­ la propagazione del flusso elettrico?). Senza tuttavia farci mai dimenticare il suo carattere di ceppo. Soltanto, se la punta si taglia nella stessa materia della matita, dunque deriva dal continuum naturale, la gomma è invece un pezzo aggiunto. Nella scena citata, infatti, una volta che l'operaio della fabbrica

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ha cancellato con un'estremità il segno che ha tracciato con l'altra e ha detto «Ok», la sparizione non è assoluta, resta qualcosa sulla car­ ta, un po' di polvere che l'uomo spazza via con il dorso della mano. Una sostanza di gomma e di matita polverizzata che si disperde nel vuoto - ma simile a un seme, polline gettato al vento, un chicco di grano.

Flusso (Flow) Il getto uretrale ricopre un certo ruolo in Velluto blu, un ruolo non trascurabile. E provoca anche una spiegazione fra Jeffrey e il suo ve­ ro padre, tanto più significativa dato che quest'ultimo è tenuto in di­ sparte per tutto lo sviluppo dell'azione. Dopo l'attacco cardiaco che lo colpisce quando la pompa con cui annaffiava il giardino si era appena ingarbugliata e bloccata - me­ tafora delle arterie? - il padre, disteso per terra con la canna all'altez­ za del sesso, sembra pisciare un getto d'acqua consistente e dritto. E quando di notte Jeffrey si introduce a casa di Dorothy, si attarda per darsi un po' di sollievo perché ha bevuto troppa della sua birra pre­ ferita («Heineken? fuck that shit!», come dice Frank). Ed è proprio perché perde tempo e il rumore dello sciacquone copre gli avverti­ menti di Sandy, che Jeffrey non può eclissarsi in tempo e tutto quel che doveva succedere succede. Con lo stesso pretesto, quello di soddisfare un bisogno, Bobby Peru entra nella camera d'albergo di Lula. E su questo fa anche una battuta di cattivo gusto sul rumore: «Sentirai il suono profondo di Bobby Peru». E anche questo è perturbante e bello (Lynch non può esimersi dal magnificare ciò che tocca). Il tempo in Lynch è come legato al deflusso uretrale - ne ha le modalità, i problemi, le sofferenze... e i piaceri. Possiamo allora ar­ rischiarci a parlare di tempo uretrale? In Lynch (The Grandmother) c'è spesso un tempo a scatti, discon­ tinuo, un crepitìo intermittente e spasmodico. Più spesso ancora, è interrotto, controllato e regolato da numerosi tagli. In Twin Peaks, il trascorrere del tempo è invece dolce, continuo, armonioso, a imma­ gine di quello del fiume che si vede nei titoli di ogni episodio. Qui infatti, Lynch aveva tutto il tempo che gli serviva - un enorme spa­ zio di tempo di molte ore davanti a sé. In Lynch il tempo non scorre da solo. Si eternizza e si mette di frequente in posizione di «pausa», oppure scorre a scatti. C'è in lui una sorta di inattitudine a stilizzare il tempo, a farlo passare nella du­

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rata standardizzata media creata dal cinema che permette un'alter­ nanza normale di azione e dialogo. Tutto dura e si irrigidisce oppure precipita. L'armonia temporale di Elephant Man ne è un esempio tan­ to più significativo, perché viene afferrata al volo e non costruita su una durata cinematografica convenzionale e standardizzata. In Dune alcuni momenti dell'azione sono sbrigati in tutta fretta.l'idillio fra Chanee e Paul - mentre altri si irrigidiscono. Come se tut­ to potesse essere soltanto eterno o fugace. Che il flusso, temporale o no, sia sovente in Lynch difficile o ine­ sauribile, si vede anche nello sfogo degli umori: personaggi tutti d'un pezzo, poi lacrime a non finire. Ritenzione della parola nell'uo­ mo-elefante, poi il cantico di grazia che sgorga a grossi fiotti. Per regolare il flusso, David Lynch ricorre alle forbici e frammen­ ta, blocca quando vuole lui, controlla il flusso: facendo in modo che, forse, possiamo farcene attraversare senza essere trascinati via. Il flusso - rappresentato mentre scorre nei molteplici corridoi e nei tubicini di The Grandmother - è in effetti una delle forme del con­ tinuum naturale, del tutto che si esprime in cerchio e attraversa ogni cosa. I kit fabbricati dall'artista sono costituiti, più o meno, da interventi di «découpage» in questo flusso, che riaffermano come egli oltrepassi continuamente i limiti assegnati dall'arte umana. L'opera è al tempo stesso esercizio di padronanza e di taglio, e riaffermazionf. del tutto aldilà dei limiti del quadro creato dall'artista.

Fluttuare (To float)

Lo stadio in cui si fluttua è quello prima della nascita e della pe­ santezza (all'inizio di Eraserhead, Henry galleggia orizzontalmente, sdraiato) o dopo la morte (Laura nel suo sacco trascinato dall'ac­ qua), ma è un fluttuare in cui il corpo, invece di essere rannicchiato su se stesso in posizione fetale, ha una forma distesa e allungata. Donna e Laura allungate sui divani in Fuoco cammina con me, vi­ ste dall'alto come pesci che nuotano in un acquario, parlano eviden­ temente della sensazione di cadere nel vuoto. Lynch descrive le idee che gli vengono, e a partire dalle quali co­ struisce i suoi film, come pesci che lascia nuotare liberamente. Sem­ plicemente, prima o poi, capita che le idee non navighino più e ven­ gano riportate in superficie e inserite in un quadro rigido. Allora ci sarà forzatamente - come la placenta dopo la nascita qualcosa che bisognerà gettare via, lasciar inghiottire da una cloaca per effetto della pesantezza.

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Fumo (Smoke)

Fumi pulsanti in Eraserhead, fumi avvolgenti e potenti in Elephant Man, fumi (sfortunatamente troppo intermittenti e decorativi) del pianeta Gedi Primo in Dune. Pennacchi di fumi incolonnati e ben dritti, come quelli che fuoriescono dalla segheria quando è in funzio­ ne (titoli di testa della serie Twin Peaks) o piccoli funghi atomici che segnano la nascita di John Merrick e poi la sua dipartita verso il Grande Tutto (Elephant Man): i fumi sono la vita, sono la vita oscura e confusa. Quando Merrick assiste a una pantomima del Gatto con gli stiva­ li, ciò che noi vediamo attraverso i suoi occhi sono immagini di una tessitura biancastra, lattiginosa e luminosa, che si compongono e si ricompongono in bianchi pennacchi di fumo rotondi. «Sono stato allevato secondo principi fortemente ecologici e ho trovato nelle fabbriche, simboli della creazione, gli stessi processi or­ ganici della natura. Amo la fuliggine, il fumo e la polvere»1. I fumi delle fabbriche sono dunque per Lynch un simbolo fallico di produzione. Lungi dall'essere soltanto infernali, i fumi che pulsa­ no in Eraserhead sono indice dell'attività produttiva delle macchine. Le fabbriche sono una cosa positiva e forse è proprio perché all'ini­ zio di Twin Peaks si decide di fermare le macchine e la segheria chiu­ de, che altre forze si risvegliano e tutto comincia a prendere una brutta piega.

Giardino (Garden)

Se Lynch non fosse affetto dal «mal del narratore», i suoi film sa­ rebbero sempre più tentati di trasformarsi in giardini di personaggi. Un «giardiniere» di personaggi non cerca forzatamente che tutti i suoi fiori siano uguali. Ama la varietà delle specie e ogni specie in quanto tale, anche se quelle cattive tendono a fare piante più colorate. Più precisamente, Velluto blu, collocato dal suo prologo sotto un segno floreale e chiaramente vegetale con la gamma dei colori scelti, gialli, violetti o velenosi. E ciò vale anche per i suoi personaggi: Do­ rothy Vallens è una sorta di orchidea profumata, e lo «yellow man», gangster con il vestito giallo sgargiante, è quello che rimane in piedi sanguinante come un albero ferito. Le varie ragazze di Twin Peaks formano dei cespugli o delle aiuo­ le. E, come direbbe Gordon Cole (cioè lo stesso regista), non sappia­ mo quale cogliere. 202

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Gli uomini del commissariato o dell'FBI riuniti sono allineati in piedi come nelle foto di gruppo, ma anche come una fila di alberi. Differenziazione e individualizzazione, proliferazione del giardi­ no, con il rischio, coscientemente vissuto specialmente in Fuoco cam­ mina con me, di fare scoppiare l'unità del film.

Gruppo (Band)

Erano tutti seduti su una sedia ed eccoli tutti in piedi: così si com­ portano frequentemente i gruppi in Lynch, blandamente solidali e pronti ad accodarsi. Che si tratti di ima banda di «cattivi» (la serata a casa di Ben in Velluto blu), di collegiali in classe o di gaudenti in un bar clandestino (Fuoco cammina con me), o di invitati a una festa (Cuo­ re selvaggio), i gruppi lynchiani sono entità inerti e vischiose, insiemi di individui differenziati ma legati da un rapporto di mimetismo. Spesso, anche nei luoghi peggiori, sembrano la continuazione della classe scolastica o del campo scout, con i suoi effetti di gruppo e il suo ambiente regressivo, in cui ognuno è legato agli altri. Alcune situazioni di banda che fa casino in Lynch, si sono già vi­ ste nelle commedie di teen-agers, ma Lynch è forse il solo a renderle nella loro verità - che non è l'immagine convenzionale di un'attività frenetica (isterie e cagnare di dormitori e spogliatoi, reazioni a cate­ na, come il cinema ama mostrarli per ricavarne i suoi pezzi di bravura), ma una non-attività vischiosa e gregaria, da fermi. Fra questi ritratti di gruppo di uomini e donne, possiamo citare l'allegria senza sbocco nella prateria di The Cowboy and the Frenchman; la serata a casa di Ben in Velluto blu; la bisboccia oziosa che sembra andare avanti all'infinito nel motel di Big Tuna (Cuore selvaggio); le feste informi nel grande salone dell'hotel Great Northern di Twin Peaks, e anche l'attesa indefinita di Dale Cooper nella Red Room. Ogni volta nessuno si muove, tutti restano seduti e tranquilli, oppure stanno in piedi ciondolando, si dimenano immobili, sbevazzano e accumulano di che pisciare, accumulano anche tempo, al suono di una musica appiccicosa e lenta. Anche Fellini (Lynch confessa di essere stato influenzato da / vi­ telloni) ha celebrato queste cieche ammucchiate, queste serate eterne e questo bighellonare senza scopo nelle strade deserte della notte ma ciò che mostra Lynch più precisamente è la solitudine dell'indi­ viduo che si differenzia da questa massa solidale e anche la relazione verticale del gruppo e del suo luogo provvisorio di insediamento. Il vasto living di Ben, la grande sala da pranzo del Great Northern e

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anche l'inutile salone del trono in Dune diventano allora dei veri giardini di personaggi. Ma in questi gruppi si parla. Discussioni pastose certo, e frasi as­ surde che cadono nel vuoto, iceberg di frasi dissociate dal flusso di una conversazione organizzata, aforismi enigmatici che si ripetono e di cui si ride senza sapere il perché, ma si parla e delle parole ven­ gono fuori. Parole isolate di cui c'è il tempo di sentire l'impatto, che si possono rimuginare dentro di sé. Anche quando qualcuno si ac­ contenta di identificarsi e di definirsi («Sono il grande Went», «Sono Muffin», nella discoteca di Fuoco cammina con me) senza ricevere al­ cuna risposta.

Insetto (Insect) Animale generalmente gregario, l'insetto - forse per influenza di Kafka - riveste un ruolo importante nel progetto non riuscito su cui Lynch lavora prima di Eraserhead. L'insetto rappresentava allora quello che sta tra una ra'gazza che ci guarda e noi. In seguito, l'insetto ritorna in Velluto blu, dove gioca un ruolo im­ portante. All'inizio del film sullo schermo si mostra il brulichio infernale degli scarabei che pullulano nell'erba di un lezioso giardinetto ben tenuto, quando il padre di Jeffrey si ritrova lungo e tirato per terra con l'orecchio, dunque, al livello del suolo. Poco dopo, di ritorno da una visita al padre ricoverato in ospeda­ le, Jeffrey trova nell'erba un orecchio umano tagliato: le formiche se ne sono appropriate e cominciano a rosicchiarlo. Ed è proprio sotto le spoglie di un «bugman» (uno sterminatore di insetti) che a Jeffrey Beaumont viene in mente di introdursi in casa di Dorothy Vallens (ma Lynch non fa primi piani della disinfestazione). Ma l'insetto, che Lynch ha mostrato mentre cammina insolentemente su un pezzo d'orecchio di una specie più grande di lui, risulta anche, nella catena della predazionc, la preda diretta della specie collocata sulla scala direttamente superiore alla sua: l'uccello. Ed è per questo che nel finale vediamo un maggiolino dibattersi nel becco del grazioso pettirosso predetto dal sogno di Sandy. Il sogno paradisiaco in cui Jeffrey è prigioniero, ma senza ribellarsi. L'insetto incarna l'animalità bruta, anonima, brulicante della spe­ cie - l'orrore dell'animale sotto la sua forma più incomprensibile, quella più contraddittoria rispetto alla nostra nozione esistenziale del vivente: quando si limita a riprodursi e a pullulare meccanicamente.

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Interno (Inside)

Nei primi anni quando il personaggio di David Lynch non era ancora conosciuto al pubblico, qualsiasi intervista o testimonianza su di lui da parte di un giornalista che l'aveva incontrato comporta­ va invariabilmente la confessione di una sorpresa: la sorpresa di un uomo che non era come i suoi film. Il creatore dell'incubo malsano chiamato Eraserhead, con il più ripugnante neonato-mostro della sto­ ria del cinema, l'uomo che dissezionava i gatti, era un giovane si­ gnore educato, cortese e ammodo che si notava appena per il suo dandysm o discreto. Non assomigliando alla forma esteriore dei suoi film, David Lynch ne era l'illustrazione vivente: il fuori non riflette il dentro, né la su­ perficie quello che ricopre. David Lynch è spesso descritto come un uomo chiuso. Questa ri­ servatezza, che rafforza la questione del dentro, si traduce letteral­ mente nel suo modo di vestire: porta sovente il colletto delle camicie abbottonato senza cravatta. E, aggiungiamo noi, berretti con visiere allungate. Quando realizza Elephant Man lo fa capovolgendo la sua imma­ gine. L'aspetto esteriore dell'uomo-elefante è ripugnante e sinistro, mentre la sua anima, dentro, è pura e ingenua. Ma se non ci fosse differenza fra l'aspetto esteriore e quello inte­ riore, non si proverebbe che cosa significa entrare. «Nei miei film - dichiara Lynch che dice di essersi messo a fare cinema per entrare nei suoi quadri - si trovano sempre "mondi stra­ ni" dove non è possibile entrare a meno di costruirli e filmarli. È questo che per me è importante nel cinema»4. Ciò non impedisce che la sua prima prova, Six Figures, fosse tutto il contrario: data una superficie (lo schermo), ne faceva emergere ver­ so lo spettatore delle teste e delle braccia in rilievo. La donna è certamente per Lynch l'immagine stessa del contenuto: incarna il mistero del dentro. «Ti tengo dentro di me», dice Dorothy a Jeffrey dopo il loro incontro. Jeffrey infatti sta nel suo armadio, ma non è forse questo armadio il prolungamento della stessa Dorothy?

Quando Henry Spencer taglia il suo bébé con le forbici, è lui stes­ so come un bambino che vuole vedere ciò che c'è dentro. E quando l'«inside» del neonato si propaga sotto forma di un mare di poltiglia, si produce un'inversione dello spazio - un paradosso rispetto alla scala. Il «dentro» è più grande del suo «fuori». 205

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Gli elementi del cinema di David Lynch - il découpage, la luce, l'inquadratura, e specialmente il suono inglobante, tendono a creare e a conservare costantemente la sensazione che una scena è sempre all'interno di qualcosa di più grande; e che contiene cose più piccole di lei... o più grandi? Prendiamo Elephant Man: i suoni di soffio, i rumori, i fumi, situa­ no permanentemente per noi, in modo non astratto ma fisico, l'uni­ verso che vediamo all'interno di un mondo più vasto. Ma l'uomoelefante stesso è, con la sua cappa e il sacco che gli copre la testa, l'eccitante incarnazione di un contenitore. La macchina da presa non resiste ed entra più volte nel foro del suo cappuccio. Il problema nel cinema di Lynch è di padroneggiare il rapporto delle differenti scale tra loro - di non lasciare che queste si creino da sole e inghiottano ciò che si è fatto. Se non vogliamo correre il rischio di cadere nel sogno dell'altro, bisogna organizzare da soli la connes­ sione tra scale differenti, organizzare il passaggio fra i mondi che sono, comunque, multipli, individuandone i corridoi e le camere di compensazione.

Kit (Kit) Come sappiamo Lynch ha avuto la bizzarra abitudine di disse­ zionare gli animali per poi, ima volta a pezzi, ricomporli, chiuderli in bottiglia, distenderne la pelle e gli organi su tavole e infine battez­ zarle «mouse kit» o «cat kit». A significare che per lui il gatto, una volta sezionato in parti che non possiedono più la forma platonica di questo animale, resta comunque un kit di gatto. Contemporaneamente, è anche ciò che Lynch scopre nelle «parti» che lo appassiona: i dettagli, le texture, come dice lui, normalmente invisibili per poco che si giochi a cancellarne il nome. Ed è a proposito di tutt'altra cosa - l'inferno della vita a Phila­ delphia, ma si applica anche ai kit di animali - che David Lynch af­ ferma: «Molto spesso, quando non si vede che la "parte" è ancora peggio che vedere il tutto. Il tutto possiede forse una logica, ma, fuo­ ri dal suo contesto, il frammento acquista un valore di astrazione te­ mibile, che può trasformarsi in ossessione»s. Volente o nolente un artista si preoccupa di costruire l'unità; qual­ siasi creazione minimamente ambiziosa ci parla deH'Uno - eventual­ mente attraverso il suo contrario, la disparità. A modo suo ce ne parla anche l'opera di Lynch, che riflette in modo attivo e audace sul rappor­ to tutto/parte, soprattutto quando rimette in causa a vari livelli l'unità

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dell'opera: unità di azione, unità di curva drammatica, oppure unità di tecnica (alternanza eterogenea di sequenze in animazione con sequen­ ze di riprese dal vero in The Grandmother), e anche attraverso l'interesse tutto particolare che manifesta per la disproporzione. Soprattutto David Lynch, pur mirando a creare un'unità, sembra cercare di far esistere la parte in quanto tale, - incommensurabile con il tutto, cioè a un altro livello - la parte che tuttavia, distaccan­ dosi dal tutto, lo completa. Lynch afferma che quando si lavora a un'opera, c'è una cosa che bisogna trovare: l'occhio dell'anatra. L'anatra ri toma anche nella confessione che Lynch fa a un giorna­ lista in occasione della fine di Dune. «Dune è costituito da un'infinità di elementi distinti e ancora oggi io non sono sicuro che uno di que­ sti non si distacchi sullo sfondo, come un piccolo brutto anatroccolo al centro di una nidiata»4. La creazione sarebbe dunque per Lynch la realizzazione di kit che non fanno parte della natura da cui pure attinge gli elementi, e il cui ideale sarebbe che fossero conformi alla legge dell'incommen­ surabilità della parte e del tutto, condizione per cui la parte conferi­ sca al tutto il suo peso autentico e peculiare, pur correndo ovvia­ mente il rischio di staccarsene. «Mi piace avere in una scena - dice Lynch - una piccola cosa che in sé non sia nulla, ma che nel contesto e nel bilancio con le cose che la circondano si distacchi e brilli, e faccia funzionare differentemente il resto»7. Ecco un esempio di questo tipo di dettaglio, citato da Godwin nel suo lavoro sul making-of di Eraserhead: quando Henry cerca nel cas­ setto il ritratto strappato di Mary, vi si vede, senza una ragione pre­ cisa, una casseruola piena di acqua in cui Henry getta un piccolo og­ getto cha fa «plop» (come un'eco di differenti tonfi nell'acqua del film, e dell'irrigazione che inonda e feconda The Grandmother). A Godwin che gli parla dell'impatto particolare di questo dettaglio, Lynch risponde: «Non so perché l'ho messo, non posso neppure ri­ vendicarne la paternità. Non è come sedersi e dire: farò qualcosa di matematicamente corretto. Ti viene un'idea e la usi, soltanto dopo ti accorgi che le proporzioni erano corrette»*. Forse anche le opere successive di Lynch funzionano le une in rapporto alle altre allo stesso modo. Un frammento di Cuore selvaggio starebbe infatti in rapporto a tutto il film, come il film nel suo com­ plesso all'insieme dell'opera di Lynch, sempre ammettendo che que­ sto insieme esista.

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La questione del kit - questa composizione che lascia sussistere la parte nella sua presenza opaca ed enigmatica - sembra per Lynch strettamente articolata con quella della scala. Nella misura in cui in Lynch ogni cosa è data come parte di un insieme più grande della scala superiore e come contenente qualcosa di più piccolo della scala inferiore, mostra che il piccolo non si ac­ contenta di riflettere il molto grande o di esserne un componente neutro. C'è incommensurabilità fra la parte e il tutto, il contenente e il contenuto (è questo un modo di affermare che il piccolo essere non è affatto la duplicazione dei suoi genitori, come il neonato-mostro di Eraserhead non può essere previsto da alcuna ereditarietà?), e questa incommensurabilità è una delle sfaccettature dell'enigma stimolante della vita.

Legame (Link)

Non bisogna essere molto osservatori per riconoscere nell'univer­ so di Lynch una proliferazione di forme allungate - a volte rigide, al­ tre morbide. La più visibile e la più nascosta al tempo stesso non è forse lo schermo del Cinemascope che Lynch impiega sistematicamente da Elephant Man a Cuore selvggio e che gli consente di allargare il vuoto intorno ai personaggi? TI cane del fumetto deformato dalla collera è un'immagine della deformazione, dell'anamorfosi, dell'erezione. Il fumetto minimale di cui esso è il centro abbonda di forme allungate: camini, pennacchi di fumo che ne spuntano fuori tutti dritti, rami, albero, guinzaglio, assi della staccionata. In Alphabet e in The Grandmother le innumerevoli forme tubolari, disegnate e animate o integrate nella scenografia. In Eraserhead è in primo luogo il bébé, tutto in lunghezza. Il padre di Mary ha esercitato il mestiere di idraulico, e parla con decisione dei numerosi tubi che ha installato nella sua vita, ricordando che «non spingono nei buchi» (rivendicazione della funzione procreatri­ ce dell'uomo?). Le lampade a stelo del salone - accessorio obbligato nelle scene di Lynch - sono già presenti nella sala degli X. I cordoni ombelicali, il piccolo verme animato che si pavoneggia nel suo mini­ teatro e, infine, nella sequenza-matrice di tutto il film, le matite. In Dune, i vermi giganti, ispirati ovviamente al romanzo, e anche i navigatori mutanti, cose oblunghe e rugose che parlano. Anche i costumi «distillatori» concepiti secondo i desideri di Lynch accen­ tuano la lunghezza e la nudità quasi oscena della linea del corpo. 208

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In Velluto blu la pompa dell'acqua, il getto, il cordone; la canna del Nero cieco; le lampade e le piante lunghe e dritte nell'apparta­ mento di Dorothy Vallens; i tronchi trasportati dai camion. In Cuore selvaggio, i fiammiferi e le sigarette in primo piano; i cor­ doni già menzionati sopra; la silhouette di Laura Derni In Twin Peaks i pennacchi di fumo delle fabbriche, il ceppo della Log Lady e il filo telefonico nella scena della notizia della morte di Laura. In Fuoco cammina con me: la sega al commissariato di Deer Mea­ dow, i cadaveri, i fili telefonici e le antenne. In tutti questi film lo stile dell'interpretazione e lo stile dell'abbi­ gliamento accentuano la lunghezza e la rigidità fallica del corpo. Ora, molte di queste forme allungate o legami o cordoni presen­ tano una caratteristica comune: quella di essere tagliati in un conti­ nuum a cui fanno pensare e di cui sono in definitiva un campione. I cordoni ombelicali di Eraserhead sono staccati da un continuum ma­ dre-figlio; i tubi del padre idraulico e il tubo di gomma per innaffiare del padre di Jeffrey, troncati e isolati in una lunghezza indetermina­ ta; il getto d'acqua uretrale di Beaumont padre è isolato in un flusso di liquido; il ceppo della Log Lady è un frammento del ramo e del tronco dell'albero. Infine, il nastro della vestaglia in Velluto blu, uti­ lizzato in vari modi, è un pezzo sottratto al vestito della natura, al manto della notte. 11 fallo è tagliato dalla natura! Il che significa che non accede com­ pletamente allo stadio simbolico, resta parte del corpo del mondo c traduce, come una ferita, una violenza perpetrata contro la natura. Seconda caratteristica dell'oggetto allungato, molto presente nel­ le animazioni di The Grandmother dove queste forme abbondano: la sua natura scavata, tubolare, conduttrice di un'energia cosmica di cui essa non è l'origine, e che si accontenta di veicolare. Terzo, ciò che potremmo chiamare la «tubolarità» viene affermata in una funzione di copula, di trait-d'union, nel senso in cui Lacan (Ecrits) afferma che il significante fallo è stato «scelto come il più sa­ liente di ciò che si può prendere nel reale della copula sessuale, co­ me anche il più simbolico in senso letterale (tipografico) di questo termine, poiché equivale alla copula (logica). Possiamo anche dire che è per il suo turgore l'immagine del flusso vitale in quanto passa nella generazione». La «tubolarità» è anello, legame.

Dobbiamo inoltre segnalare nei film di Lynch altre copule, imma­ teriali ma non meno importanti, che generalizzano la forma vermi­

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colare tubolare e allungata. Le note tenute nel sonoro di Eraserhead, Elephant Man, Cuore sel­ vaggio, al tempo stesso allungate e sezionate, funzionano come copu­ le sonore. Certi movimenti di macchina come movimenti penetranti di ac­ cesso in una scena all'interno di un mondo. 11 raccordo in quanto tale, l'effetto di raccordo caro a Lynch (che fa rima fra la fine di un'inquadratura e l'inizio di un'altra, come in Cuore selvaggio). L'inquadratura stessa, come frammento intermedio che ne lega altre due, è il frammento di un continuum a cui rinvia.

Continuità di generazioni, getto, filo del tempo, guinzaglio, onda, corrente di energia - si tratta di qualcosa che lega e veicola, lega l'universo microscopico animale al cosmo, gli spazi e i mondi, lega e separa l'interno e l'esterno del corpo - ma è individualizzato solo in quanto separato dal continuum dell'energia e della materia «na­ turali», un continuum a cui partecipa comunque attraverso la sua sostanza. La copula continua a essere un fine della natura. La copula è anche il bambino in quanto conserva la cellula paren­ tale e resta tra il padre e la madre, unendoli e separandoli, come fa il cane con l'albero e la casa. Ed è infine, quando si individualizza e accede al simbolico, ciò che aspira ad annullare e a cancellare - anche ad autocancellarsi, a ritirarsi dalla cieca proliferazione della vita.

Muro/Recinzione (Fence)

L'albero verso il quale sembra voler andare il cane rimane all'in­ terno del giardino, delimitato dalla sua recinzione. Immagine ricorrente dei primi ricordi di Lynch, la recinzione è raffigurata nei suoi due primi cortometraggi da un quadro disegna­ to nell'inquadratura ed è presente concretamente nelle prime imma­ gini di Velluto blu: è ciò di cui ha bisogno Jeffrey, per quanto voyeur e avventuriero sia. All'inizio del film, subito dopo aver saputo da un medico legale che l'ORECCHio ritrovfato da Jeffrey è stato strappato dal corpo del suo proprietario con un paio di forbici, vediamo - e sentiamo - altre forbici tagliare un pezzo di nastro che deve servire a tendere un cor­ done di protezione intorno al luogo del ritrovamento, a delimitarne il perimetro, un quadro chiuso - lo stesso dell'opera. 210

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Notte (Night)

Girato quasi intorniente la notte, Eraserhead si svolge prevalente­ mente di notte. Da questo momento la notte è, come sappiamo, la re­ gione centrale del regno di Lynch, là dove tutto converge, si annoda o si disperde. In Elephant Man la notte è all'inizio, in mezzo e al cen­ tro. Anche Dune è, contro ogni aspettativa, largamente notturno: lo sbarco di Paul e Jessica su Dune, la notte della prova di Paul - e so­ prattutto la notte delle rivelazioni sul suo destino. La notte centrale di Velluto blu - una notte dove non viene com­ messo alcun crimine, e da cui Jeffrey esce certamente ammosciato e umiliato, ma vivo - una notte in cui di fatto non capita nulla, solo emozioni e una bella lezione - non sviluppa null'altro che la durata. La notte è quando si può prendere tempo e la durata permette di fa­ re arrivare qualcosa. Ma anche la notte delle confidenze sul cuscino e delle parole scambiate nell'ombra. Notti nere e profonde in Cuore selvaggio dove si viaggia su una strada senza fine con il vuoto asso­ luto sui due lati; dove si ammazza il tempo in un motel sperduto; dove cose tremende minacciano. Teatralizzazione della notte nel modo di introdurla spegnendo le luci o chiudendo le tende: l'andare a letto nell'ospedale in Elephant Man, le tende di Nadine Hurley in Twin Peaks. La notte, buco nero negativo del giorno: la successione giomo/NOTTE in Fuoco cammina con me è talvolta improvvisa come se un tempo fosse sempre presente nell'altro. La notte è femminile: Dorothy Vallens è essenzialmente una don­ na della notte. Anche di giorno, quando Jeffrey la vede per la prima volta, il suo pianerottolo è immerso nella penombra per un'interru­ zione di corrente. Perché la notte? Forse perché nel suo mantello d'oscurità cancella i contorni degli oggetti distinti e ricostituisce il tutto perduto. L'oscurità unisce e rimette insieme ciò che la luce separa. La notte rinsalda ciò che il giorno ha disgiunto. E così, crea la scena per il teatro primitivo, il teatro dei suoni.

Orecchio (Ear)

«I've heard things», ho sentito delle cose - ciò che Sandy dice a Jeffrey, la cui camera si trova sopra l'ufficio di suo padre, potrebbe essere ripreso da molti altri personaggi dei film di Lynch. 211

DAVID t.YNCI!

«La gente mi chiama regista, ma io mi considero invece più un fonico» (People call me a director but I really think of myself as a soundman)*. Che l'orecchio e l'ascolto siano al centro del cinema di Lynch, è cosa difficile da non riconoscere. Da Dale Cooper che si confida a un registratore chiamato Diane che registra anche quando è sul punto di morte, allo stesso Lynch che sul set indossa le cuffie che lo colle­ gano alla voce dell'interprete, passando attraverso l'orecchio tagliato di Velluto blu, il cane arrabbiato che sente e, ovviamente, attraverso l'atmosfera sonora così personale di tutti i suoi film, ci si domanda chi potrebbe sfuggire a questa constatazione. Ma ciò non sarebbe che aneddotico se volesse soltanto significare che Lynch «aggiunge» una «banda sonora» (un termine orribile del tutto inadeguato a ciò che veramente è il cinema sonoro) «di qualità» oppure «originale» (altro orrore) a un cinema concepito come gli altri. Bisogna al contrario sentire ciò che viene da dentro - dall'iNTERNO del racconto, della stessa immagine, capire che il cinema di Lynch viene trasformato dal ruolo centrale conferito all'orecchio, dal pas­ saggio attraverso l'orecchio. In modo che se i suoi film fossero muti e non facessero alcuna allusione all'ascolto, continuerebbero a essere auditivi. Questo vuol dire che il suono sta all'origine di certe immagini si sente qualcuno o qualcosa e ciò porta con sé delle visioni. Le in­ quadrature arrivano spesso come immagini chiamate da una narra­ zione, anche quando essa non è esplicitamente presente; oppure co­ me l'equivalente visuale di una parola precisa (le inquadrature - pa­ rola di Lynch). Altre volte il loro carattere bizzarro e come sfocato, deformato, evoca le rappresentazioni confuse che libera nell'imma­ ginario l'evocazione verbale o acustica di qualcosa che non si è dav­ vero mai vista. Senza dubbio, l'ascolto ha un rapporto con la scena primitiva comunemente considerata come la scena (soprattutto udita, carpita) in cui il bambino assiste al coito dei suoi genitori, e ridefinita da Fran