Dal classico al postmoderno al global. Teoria e analisi delle forme filmiche 8829700088, 9788829700080

Il volume propone un percorso teorico e storico sull'evoluzione delle forme filmiche dal cinema classico degli anni

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Dal classico al postmoderno al global. Teoria e analisi delle forme filmiche
 8829700088, 9788829700080

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Il volume propone un percorso teorico e storico sull’evoluzione delle forme filmiche dal cinema classico degli anni trenta al global film contemporaneo. Si concentra sui tre modi di rappresentazione principali, classico, moderno e postmoderno, problematizzandoli in modo significativo. La classicità e le sue trasformazioni vengono studiate attraverso il cinema hollywoodiano. La discussione sul moderno è compiuta in relazione al postmoderno e con l’esempio del cinema d’autore italiano degli anni sessanta. Infine, l’analisi del cinema contemporaneo viene sviluppata proponendo un confronto tra film postmoderno e postclassico, mind-game film e global film. Tra le opere analizzate: Susanna, Come le foglie al vento, L’avventura, Rocco e i suoi fratelli, La dolce vita, Prima della rivoluzione, Mulholland Drive, Strange Days, Babel. VERONICA PRAVADELLI è professore di cinema all’Università Roma Tre. È stata visiting professor alla Brown University e alla New York University. La sua ricerca intreccia questioni teoriche e storiche in relazione all’analisi del film e il cinema hollywoodiano, il women’s cinema e il cinema d’autore italiano. Tra le sue ultime pubblicazioni, Women’s Cinema and Transnational Europe (2016) e Il cinema delle donne contemporaneo tra scenari globali e contesti transnazionali (2018). Per Marsilio ha pubblicato La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano (20183, Premio CUCLimina, Premio Maurizio Grande), tradotto in inglese dalla University of Illinois Press con il titolo Classic Hollywood (2015).

Veronica Pravadelli

Dal classico al postmoderno al global Teoria e analisi delle forme filmiche

Marsilio

in copertina D. Lynch, Mulholland Drive (2001) © 2019 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2019 ISBN 978-88-297-0227-5 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Dello stesso autore - Copyright Nota introduttiva Susanna e le strutture formali della classicità Gli elementi di base Il mondo di Hawks La dialettica come forma simbolica I luoghi Oltre il classico. Melodramma, spettacolo e sensazione in Come le foglie al vento Le teorie sul melodramma Come le foglie al vento Moderno/postmoderno: elementi per una teoria Modernità, stile, autore Soggettività, stile Postmoderno, discorso, indeterminazione Il cinema d’autore italiano degli anni sessanta (e oltre): classico, moderno, postmoderno Per una teoria del cinema d’autore Visconti, autore popolare Antonioni, l’autore moderno per eccellenza Fellini, dall’«opera mondo» all’«opera sé» Dall’autore moderno all’autore postmoderno Prima della rivoluzione e modernità: stile, classe, gender Dalla tradizione alla modernità: rapporti di classe e relazioni di genere Lo stile e la messa in scena Postmoderno e nuova spettatorialità Quale postmoderno? Postmoderno e performance Postmoderno e nuova spettatorialità Oltre la fisicità: per una spettatorialità duale Le forme del cinema contemporaneo: postmoderno, postclassico, global Dal postmoderno al postclassico: sovrapposizioni e divergenze tra concetti problematici Postmoderno, postclassico e mind-game film Il global film e le nuove geografie del cinema Note al testo Bibliografia essenziale

Nota introduttiva Il volume propone un percorso teorico e storico sull’evoluzione delle forme filmiche dal cinema classico degli anni trenta al global film contemporaneo. Esito di una ricerca pluriennale volta a cogliere le trasformazioni dei modi di rappresentazione cinematografici, il libro è pensato anche come strumento didattico in particolare per i corsi di analisi, estetica e stile del film. In modi diversi nei vari saggi, la teoria delle forme si incarna sempre nell’analisi di film o autori particolari. Il volume si concentra sulle tre macro-forme, classico, moderno e postmoderno, problematizzandole in modo significativo. L’ultimo saggio in particolare considera le strutture del cinema contemporaneo successive al postmoderno. La discussione sul classico si focalizza ovviamente sul cinema americano e contiene segmenti presenti anche ne La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano. La tesi di base de La grande Hollywood è che la classicità come modo di rappresentazione abbia una vita piuttosto breve (1934-1939 circa) e che negli anni precedenti e nei decenni successivi il cinema hollywoodiano sia dominato da forme “non classiche”. Oltre al saggio su Susanna e la classicità ho incluso qui un testo sul family melodrama degli anni cinquanta che chiarisce l’apporto del melodramma alla trasformazione e alla crisi della scrittura classica1. La discussione sul moderno è compiuta da un lato in relazione al postmoderno, dall’altro attraverso l’esempio del cinema d’autore italiano degli anni sessanta e dei suoi maggiori esponenti (Antonioni, Visconti, Fellini, Bertolucci). I contributi teorici su moderno e postmoderno presentano alcune sovrapposizioni. Ho preferito mantenere i saggi nella loro forma originaria poiché rendono più chiaro lo sviluppo concettuale del percorso e perché ogni saggio ha un nucleo interpretativo peculiare. Nell’ultimo capitolo, scritto per questo volume, ho cercato di capire, partendo dal complesso dibattito critico-teorico, quali sono le differenze e le analogie, le continuità e le rotture tra cinema postmoderno, postclassico, mind-game film e global film2.

1. Susanna e le strutture formali della classicità Gli interventi di Raymond Bellour e di David Bordwell e Kristin Thompson1 costituiscono le due teorie più influenti sul film classico. Il lavoro di Bordwell e Thompson, con Janet Staiger, non cessa di stupire, anche dopo più di tre decenni dalla sua apparizione, non tanto per le conclusioni che, anzi, apparvero subito «piuttosto prevedibili», quanto per l’apparato di dati e cifre che sostengono le tesi dell’opera, per la mole di elementi oggettivi e di fatti portati come prove. In un’acutissima critica a questo magistrale studio, Robert Ray ha recentemente sostenuto che la spiegazione di come il cinema primitivo si sia evoluto nel «modello narrativo hollywoodiano che conquistò il mondo, poggia sul più grande sforzo di ricerca empirica che gli studi cinematografici abbiano mai visto: Bordwell, Staiger e Thompson hanno visto più film e letto sul loro making più di chiunque altro». Ma la metodologia scelta, continua Ray, «impone [ai tre studiosi] di avanzare solo quelle ipotesi confermate dall’evidenza empirica», mentre rimangono inesplorate le «scommesse ideologiche più importanti, gli effetti, e le cause epistemiche di questa pratica filmica». Con «The Classical Hollywood Cinema Bordwell, Staiger e Thompson hanno imparato qualcosa per tutti noi», ma ora, conclude Ray, si deve rischiare di andare oltre2. La ricerca e le tesi di Bordwell, Staiger e Thompson sono, dunque, una conquista imprescindibile della disciplina. La sistematicità di questo lavoro sottende un modello di conoscenza classico-razionale, dove le ipotesi vanno provate con dati empirici3. Tale sistematicità, tuttavia, rende praticamente impossibile uno sviluppo ulteriore del lavoro investigativo: si possono al massimo portare ulteriori elementi che confermino le conclusioni più che mutare il paradigma teorico stesso. In questa prospettiva il lavoro di Bellour si è rivelato più aperto. Benché esso non manchi di sistematicità ha offerto un modello di analisi del testo filmico classico rivelatosi assai produttivo, vero e proprio motivo ispiratore, assieme agli studi di Laura Mulvey4, di molta Feminist Film Theory e, dunque, del settore a nostro avviso più fervido e intrigante dei Film Studies dalla metà degli anni settanta. Ne sono un segno e un omaggio l’uscita in volume, in inglese, dei suoi saggi più importanti – in massima parte già apparsi singolarmente – per la cura di Constance Penley, fondatrice di «Camera Obscura» e autrice di alcuni dei contributi più importanti della Feminist Film Theory. Nell’introduzione a The Analysis of Film Penley afferma: «Anche le femministe che trovarono le sue conclusioni sul soggetto femminile nel cinema hollywoodiano troppo pessimiste o totalizzanti erano convinte che il suo approccio offrisse un modello importante su come affrontare le complessità del significato del film e del racconto, inquadratura per inquadratura, sequenza per sequenza, affrontando al contempo questioni sociali e psicologiche di più vasto raggio sull’identità, il desiderio e l’identificazione nella cultura occidentale»5. Se non mancano elementi di contatto tra il lavoro di Bordwell e Thompson6 e quello di Bellour, come ha recentemente sottolineato anche Thomas Elsaesser, è indubbio che la loro forza sta in ciò che li differenzia. Mentre vi è un agreement su quelle che sono le strutture formali di superficie del cinema classico e sulla loro lunga stabilità – dagli anni dieci ai primi anni sessanta circa –, è sull’interpretazione, sulla trasformabilità di tale struttura di superficie in struttura profonda che si riscontra, in definitiva, un’inconciliabilità di fondo. Bellour interpreta il sistema formale alla luce della logica del desiderio, rintracciando dunque nella materialità del testo l’iscrizione di procedimenti inconsci. Bordwell propone invece un approccio cognitivista secondo cui il racconto classico costituisce il modello narrativo canonico (canonical story format),

quello che uno spettatore occidentale ha interiorizzato come schema primario da attivare nella comprensione di un racconto. In questo contesto sono i processi coscienti la base dell’identità e, dunque, della comprensione del racconto, e non quelli inconsci7. L’analisi di Bringing Up Baby (Susanna, H. Hawks, 1938) qui proposta si serve delle suggestioni teoriche e analitiche sia di Bordwell che di Bellour introducendo alcuni ulteriori elementi, guardando alla classicità sia in rapporto alle dinamiche del genere, la screwball comedy, che a quelle autoriali. Hawks si presta più di altri autori a un’analisi della scrittura classica in quanto il suo stile, la sua autorialità sta, come è stato più volte rilevato, nell’essere «eccessivamente classico»8. GLI ELEMENTI DI BASE

Le strutture di base della scrittura classica si fondano su un’omogenità tra logica narrativa e logica della messa in scena basata sulla motivazione e sul rapporto di causaeffetto, nel senso che così come ogni azione è causata da quella che la precede ed è la causa di ciò che segue, anche i modi della ripresa, il lavoro della macchina da presa (d’ora in poi mdp) e il concatenamento delle inquadrature seguono lo stesso principio. I casi più ovvi e comuni riguardano, per esempio, i raccordi e i movimenti di macchina: all’establishing shot, che apre solitamente la sequenza – la scena metziana – segue di norma un’inquadratura che riprende il profilmico più da vicino, ma dalla stessa angolazione, cioè tramite un raccordo sull’asse. Dovendo presentare lo spazio diegetico l’establishing shot non è di norma accompagnato da dialoghi – è il caso della prima sequenza di Susanna –, mentre l’avvicinamento della mdp ai personaggi segnala solitamente l’inizio di una conversazione. Per quanto riguarda il movimento di macchina esso è normalmente motivato da un movimento nel profilmico di un personaggio. Evidentemente la motivazione è il mezzo e il supporto al tempo stesso dell’invisible style, perché l’atto enunciativo, la mdp e il montaggio diventano invisibili in quanto subordinati alle necessità narrative. In secondo luogo, motivazione e causalità sono ancorati al personaggio: sono i suoi desideri e gli ostacoli che a questi si frappongono a costituire l’ossatura del racconto classico. Così, «la storia del film classico», nell’efficace espressione di Bordwell, «si fa conoscere solo come effetto, come ricaduta sull’individuo»9. Il desiderio forte del personaggio è un elemento cardine del film classico e costituisce un aspetto discriminante non solo nei confronti della modernità, caratterizzata generalmente da un desiderio debole, ma anche all’interno del cinema classico hollywoodiano stesso. Con il noir e il melodramma inizia negli anni quaranta l’inesorabile corrosione dell’unità del personaggio classico, in cui l’azione traduce il desiderio in modo automatico, in cui non vi è scarto tra corpo e psiche, tra gesto e azione da un lato e processo psichico dall’altro. Il personaggio classico degli anni trenta è un soggetto pieno, senza inconscio, mentre i protagonisti del noir e del melodramma degli anni quaranta e cinquanta sono soggetti spesso incapaci di tradurre in azione i propri desideri o, meglio, dominati da un inconscio ingombrante che non comprendono e incapaci di direzionare il proprio desiderio. Di qui l’impasse dell’immagine-azione o l’attivarsi di traiettorie narrative e del desiderio talmente tortuose da mettere in dubbio la certezza nelle possibilità individuali, la capacità da parte dell’individuo di dominare lo spazio, di piegare l’ambiente ai propri desideri10. Parallelamente si assiste a cambiamenti dello stesso segno nello stile del film, con l’emergenza di modalità della messa in scena che codificano la scissione del soggetto e

il lavoro dell’inconscio: solo in questo senso si può interpretare, per esempio, lo stile eccessivo del melodramma, e del family melodrama in particolare. Secondo Bordwell questi cambiamenti sono aspetti secondari, poiché riguardano solo la tecnica, mentre rimarrebbe costante il sistema narrativo, quello spaziale e quello temporale, ovvero i rapporti di causa-effetto della logica narrativa, la linearità temporale e la continuità spaziale11. È solo come punto di partenza che la teoria di Bordwell può essere accettata. Le analisi che hanno dato vita alla teoria del progressive text hanno infatti riscontrato in molti film degli anni quaranta e cinquanta delle procedure brechtiane e, dunque, in aperta contraddizione con quelle classiche, un contro-cinema all’interno di Hollywood, un’apertura verso la modernità cinematografica. Non è questo il luogo per un’analisi più articolata della questione12, ma forse è in questo senso che si spiega perché quasi tutti i film analizzati da Bellour siano della tarda classicità. La struttura profonda del desiderio e le dinamiche edipiche – cardine delle analisi bellouriane – risultano più visibili e significative, si offrono all’analista nel momento in cui vengono messe in discussione. Il testo mostra tali dinamiche nel loro funzionamento – e non ci poteva essere miglior esempio che il cinema hitchcockiano –, dotandosi così di uno statuto riflessivo paragonabile, per certi versi, a quello della modernità cinematografica. IL MONDO DI HAWKS

La struttura significante di base, da cui dipende il meccanismo stesso del cinema classico, il suo statuto di dispositivo di rappresentazione del mondo, si basa sulla dialettica, ovvero sull’opposizione sistematica sia di elementi semantici che tecnicoformali. Il potere di seduzione del cinema classico, ma anche il suo impatto ideologico, si fonda sulla capacità del meccanismo narrativo di oscurare sia le operazioni sintattiche che quelle semantiche. L’analisi dettagliata delle strutture formali, la decostruzione dell’opera in testo13 dimostra come la produzione del senso sia altamente codificata e come il senso sia connaturato all’intrattenimento. Il testo classico evidenzia la presenza di un autore implicito e presenta un movimento che attiva una lettura dominante14. Susanna è un esempio significativo di convergenza tra scrittura classica e autorialità, tra una scrittura classica che ha definitivamente integrato il sonoro, ma che è anche stata cambiata dal sonoro stesso, e la raggiunta maturazione del mondo hawksiano giocato sulla relazione tra normalità ed eccentricità, tra lavoro e divertimento (fun), fondato sul timore che la donna incute nell’uomo e regolato dall’intrusione dell’inumano nel razionale, secondo la celebre formulazione di Rivette15. Secondo Peter Wollen l’autorialità di Hawks risiede nel rapporto tra il mondo del film d’avventura e il suo opposto, quello della screwball comedy, che mostra «le tensioni che sottendono i drammi d’azione» da un punto di vista contrario. Se nel film d’avventura «l’uomo riesce a piegare la natura, la donna, l’animalesco e l’infantile nelle commedie viene umiliato e vive una fase di regressione»16: deve, in altre parole, essere subalterno al personaggio femminile. Infantilismo e inversione dei ruoli sessuali sono aspetti assai significativi in Susanna. Il campo semantico del mondo hawksiano si evidenzia sin dall’entrata in scena di Susan Vance/Katharine Hepburn che sconvolge la vita troppo seria e noiosa di David Huxley/Cary Grant, paleontologo alla ricerca dell’ultimo osso, la clavicola intercostale, per completare lo scheletro del brontosauro a cui sta lavorando da quattro anni, e che

sta per sposare la sua aiutante, Miss Swallow. Il contrasto tra serietà e divertimento, tra lavoro intellettuale e fun traduce il conflitto maschile-femminile e costituisce il contenuto manifesto di un’opposizione più radicale, quella tra sublimazione del desiderio e sessualità. Il personaggio di Cary Grant è connotato come asessuato e dedito esclusivamente al lavoro, mentre l’energia dirompente e la spregiudicatezza di Susan esprime la sessualità stessa. Quest’opposizione viene resa dal contrasto tra l’osso e il leopardo, i due oggetti attorno cui viene costruito il plot e che hanno evidentemente precise funzioni simboliche. Mentre l’osso, il fossile, legato a David, rinvia alla morte, il leopardo, legato a Susan, rappresenta la vita. Ma l’osso, oggetto di un’attenzione spasmodica da parte dell’uomo e soggetto privilegiato di molte gag verbali di Susan, è anche il pene. Dunque, rappresenta la rimozione della libido, mentre al suo opposto il leopardo ne costituisce la libera espressione17. Il film si prende gioco del personaggio di Grant e di ciò che egli rappresenta privilegiando il punto di vista della donna. Le umiliazioni, i cambiamenti di personalità a cui David viene sottoposto e, in ultima analisi, l’accettazione della diversità di Susan e la trasformazione della donna in «compagna ideale» mostrano come il film si ponga nella posizione del personaggio femminile. In un contesto autoriale ci sembra che l’idea secondo cui la donna costituisce un rischio per l’autonomia e l’identità dell’uomo non vada vista in senso machista, come in definitiva sembra fare Wollen, ma nel senso di gender difference. Ovvero, preso nella sua complessità il cinema di Hawks è contraddittorio nella rappresentazione delle dinamiche di gender e, dunque, nella rappresentazione dell’identità. Nel film d’avventura «la camaraderie del gruppo maschile» definisce l’identità dell’uomo e la donna costituisce un pericolo per la sopravvivenza del gruppo maschile. Il soggetto femminile è guardato con sospetto ed escluso dalla comunità o può, al massimo, essere faticosamente accettato se ne segue le regole. Di fatto la donna è subalterna e l’amicizia maschile appare come un sentimento più forte e importante del rapporto d’amore eterosessuale18. Nella commedia la situazione si rovescia: è il soggetto maschile, qui più riflessivo che avventuroso, che diviene subalterno mentre quello femminile contagia il primo con la propria carica eversiva e lo piega ai propri desideri. L’ambiguità dell’autore Hawks sta nel fatto che nel primo caso il film assume il punto di vista del soggetto maschile, nel secondo di quello femminile e che, pertanto, il discorso di Hawks sulle dinamiche di gender offre prospettive diverse a seconda del genere. In Susanna lo spostamento verso il punto di vista di Susan avviene nella breve sequenza in cui la donna accompagna David a casa in automobile, dopo la prima avventurosa giornata trascorsa insieme. Ma l’episodio (che analizzeremo in seguito) e il dispositivo narrativo del film si possono comprendere solo se messi in relazione con l’incipit. Il confronto tra le prime due sequenze mostra come il rapporto tra significato e significante sia efficacemente tradotto in un rapporto di perfetta simbiosi. I due episodi, la discussione tra David e la fidanzata nel museo (sequenza 1) e il casuale incontro del paleontologo con Susan al campo da golf (sequenza 2), mettono in scena la dicotomia latente del film, ovvero quella tra staticità e movimento. Al di là della logica narrativa causale e delle motivazioni del personaggio principale, sin da subito ancorate alle norme classiche, viene inscritta un’opposizione, quella tra staticità e movimento, che appartiene alla fase pre-simbolica del soggetto e che precede tutte le istanze di formazione dell’io, lo stadio dello specchio e il complesso edipico. La dicotomia stasi/movimento è pre-discorsiva, appartiene alla logica del figurale, per usare il

vocabolario di Lyotard, e non può, evidentemente, costituire il contenuto della rappresentazione. Anzi si potrebbe dire che costituisce il lato anti-rappresentativo della storia: è operante, poiché gli elementi del filmico e del profilmico lo mostrano, ma mascherata dal contenuto manifesto della diegesi. Allo stesso tempo essa marca l’iscrizione di un elemento del genere, la commedia, e costituisce un pericolo per l’ordine e l’unità cui tende la scrittura classica19. LA DIALETTICA COME FORMA SIMBOLICA

Le prime due sequenze, in cui il soggetto maschile interagisce con due diverse figure femminili, rappresentano due istanze opposte, dialettiche e dalla loro opposizione nasce l’intreccio, il movimento del film. Troviamo qui l’istanza, il presupposto fondamentale del cinema classico: una macchina affabulatoria che, indipendentemente dalle differenze di periodo, di genere, di autore, ha ossessivamente messo in scena non solo la traiettoria edipica – maschile e femminile, nella loro diversità –, ma anche il modello discorsivo dominante della cultura occidentale, il dualismo. Tutto il cinema classico può essere ricondotto a questo fondamentale funzionamento di base e le metodologie di analisi del testo di impronta strutturalista l’hanno senz’altro dimostrato. Seguendo l’utile suggerimento di Thomas Schatz, che divide i generi hollywoodiani in genres of order e genres of integration, i primi (western, gangster, detective) ambientati in un contesto dove manca l’ordine sociale, i secondi (musical, screwball comedy, family melodrama) dediti a promuovere l’integrazione della coppia in un contesto sociale già stabile20, proponiamo di vedere all’interno del modello dialettico di base almeno due diverse declinazioni, riguardanti, rispettivamente, i genres of order e i genres of integration. Evidentemente Susanna rientra nel secondo gruppo. Possiamo partire da un’analisi di Marc Vernet sugli inizi del film noir per definire le caratteristiche del primo gruppo. Vernet rileva come l’inizio del noir si fondi su uno scarto inconciliabile tra il primo e il secondo movimento: mentre la mise en place definisce una serie di relazioni tra i personaggi e una tipologia dei personaggi stessi, fondate su opposizioni binarie, facendo dunque delle precise ipotesi sullo sviluppo narrativo, il secondo movimento fa piombare lo spettatore in un vero e proprio vuoto. Il secondo movimento «fa deragliare la finzione […] l’eroe, come lo spettatore, si trova bloccato nel “pot au noir”: il filo si è improvvisamente rotto. La verità, che sembrava così vicina, si sottrae e fila all’orizzonte: viene celata»21. I due movimenti presentano elementi che si escludono reciprocamente e il loro legame rimane per il momento inaccessibile. In questo modo l’enigma viene costruito: la forma mise en place - pot au noir «serve a creare lo spazio della finzione limitandolo ai due lati»22. Lo sviluppo del racconto dovrà spiegare la distanza che li separa e il finale mostrerà, in effetti, l’uno prevalere sull’altro: «la soluzione dell’enigma è una remise en place, dove il credere (a una verità, alla forza dell’eroe) prende definitivamente il posto su tutto il resto»23. Pur non potendo in questa sede sviluppare la questione come meriterebbe, possiamo affermare, traendo spunto dall’intervento di Vernet, che i diversi generi (e i diversi film) presentano tutti, ma in forme variamente articolate, un dispositivo narrativo che prevede, all’inizio del film, un rapporto conflittuale tra due momenti o due episodi. Questo dispositivo è un elemento strutturale del racconto classico. La dualità viene espressa a vari livelli: da un lato si mette in scena un conflitto tra personaggi e modelli esistenziali, dall’altro si opta per scelte formali opposte. I primi due movimenti di Susanna presentano un’alternanza tra staticità e movimento, legati a due diverse figure

femminili e a due opposti modi di essere, del soggetto e della coppia. L’intreccio dovrà mostrare come il protagonista maschile non possa che necessariamente scegliere, come partner, il personaggio di Susan Vance24. Nella sua scarna essenzialità la prima sequenza rispetta tutte le regole della scrittura classica, in particolare l’unità dello spazio e il posizionamento dei personaggi al suo interno: «lo stile mira a presentare uno spazio ben definito, coerente e stabile in cui la tecnica cinematografica viene impiegata per attirare l’attenzione sulle informazioni narrative salienti. In questo stile, l’illuminazione i costumi e il posizionamento delle figure umane non cambia in maniera sostanziale da un’inquadratura all’altra»25. In secondo luogo mostra come, dopo dieci anni dall’avvento del sonoro, il dialogo sia ormai perfettamente integrato nella logica narrativa classica e sia lo strumento principale per veicolare l’informazione narrativa26. Infine, presenta i tratti distintivi, le qualità della coppia iniziale, David Huxley e Alice Swallow e lo scopo che mette in moto la prima linea narrativa, il completamento del brontosauro e la ricerca di fondi per il museo. Suddivisa in ventidue inquadrature per una durata di 2’ e 44’’ la scena rientra nella media della sequenza sonora tipica composta da 12-30 inquadrature per complessivi 25 minuti27. È ambientata in una grande sala e ruota attorno a un dialogo fra tre personaggi: il protagonista, David Huxley, la fidanzata-assistente Alice Swallow e un anziano professore, probabile maestro del protagonista, di cui non vengono fornite informazioni precise. L’establishing shot giunge con la terza inquadratura: un MCL dominato dallo scheletro di un enorme brontosauro la cui coda ricurva incornicia una figura umana seduta, ad alcuni metri da terra, e pensosa. Al centro del salone la fidanzata e il professore lo assistono: Huxley tiene in mano un osso che guarda e rigira senza capire dove posizionarlo. Ma Alice gli dà una buona notizia: è giunto un telegramma con la conferma che durante una spedizione è stata trovata la clavicola intercostale mancante e che arriverà l’indomani. David scende preso dall’eccitazione, i due gli corrono incontro: dopo quattro anni di duro lavoro la ricostruzione del brontosauro sembra giungere alla fine. L’uomo abbraccia la giovane che però si schermisce: è il primo segnale dell’eccessiva pruderie della ragazza che non vuole «scandalizzare» il professore. Ma il professore ricorda che i due si devono sposare all’indomani e che, dunque, le dimostrazioni pubbliche di affetto sono più che legittime. David, con la testa sul lavoro, quasi si era scordato del matrimonio. A questo punto il dialogo prende un’altra direzione. Alice afferma che non si andrà in luna di miele e che in futuro non ci sarà spazio per dei figli: «niente deve interferire col lavoro». David protesta, ma la donna non lo ascolta. Anzi, gli ricorda del suo appuntamento con il signor Peabody al campo di golf: l’uomo rappresenta la ricca signora Randon (zia Elisabeth), in procinto di donare un milione di dollari al museo. Alice gli raccomanda di fare buona impressione per non perdere la donazione. Con indosso il grembiule da lavoro David esce impacciato dalla porta. L’incipit mostra tutti gli elementi del sistema classico evidenziati da Bordwell, per quanto riguarda la logica narrativa, le coordinate temporali e le modalità di rappresentazione dello spazio. La costruzione dell’intreccio evidenzia il legame causale tra gli eventi del racconto, una forma drammatica basata su due linee narrative, i tratti, la funzione e i desideri dei personaggi principali28. David viene presentato come aloof, tra le nuvole, lontano dal mondo dell’azione: seduto in alto tra lo scheletro del brontosauro, lontano dagli altri, ci viene presentato nella postura de Il pensatore di Rodin29 e il carrello in avanti non fa che enfatizzare il gesto del protagonista. La

causalità narrativa è legata inizialmente al completamento dello scheletro e l’osso è da subito l’oggetto privilegiato: non solo l’osso che David ha in mano e non sa dove mettere, ma anche quello che il telegramma gli annuncia di aver trovato e che gli verrà consegnato il mattino seguente. Ma subito il plot lavorativo si intreccia in modo preciso e motivato con la seconda linea narrativa, quella romantica. La «pruderie» di Alice causa l’intervento verbale del professore che ci informa dell’imminente matrimonio tra i due. E l’argomento del matrimonio permette a Alice di mostrare quale sia la natura del rapporto con David: la donna esercita la funzione di censore nei confronti del fidanzato a cui chiede una costante rimozione e sublimazione del desiderio e un eccessivo impegno nel lavoro. Gli effetti già si notano: David sembra vivere in un proprio mondo segnato dagli impegni e dagli orari connessi alla sua attività che la segretaria-fidanzata gli annota. L’evento matrimonio è legato anche alla dimensione temporale dell’intreccio che si costituisce a partire da una scadenza: il matrimonio di David e Alice è previsto per il giorno successivo. Ma l’aspetto più importante è la rappresentazione dello spazio e, in secondo luogo, le modalità tramite cui l’interazione spazio-personaggio/i definisce l’identità dei soggetti del racconto, in particolare il rapporto maschile-femminile. La dimensione spaziale è la principale artefice, a nostro avviso, della costruzione del senso del film classico. Lo spazio non è solo unitario, organico e coerente, rispondendo a un’idea di ordine e razionalità (Bordwell), ma è anche, e soprattutto, uno spazio relazionale, che include o esclude i soggetti, li pone in rapporto di alterità l’un l’altro (Bellour): lo spazio, dunque, marca la differenza e il desiderio. Questo importante elemento troverà la sua forma definitiva, il secondo movimento, negli episodi successivi quando, in virtù di opzioni iconografiche particolari, il personaggio di Susan verrà dialetticamente opposto a quello di Alice. La rappresentazione dello spazio riguarda la composizione formale delle singole inquadrature e il loro concatenamento. Da un lato, l’inquadratura classica pone al suo centro il corpo umano – replicando e producendo al contempo la centralità del personaggio nel racconto – secondo una disposizione a T che vede gli elementi importanti del racconto verticalmente nella parte centrale e orizzontalmente nel terzo superiore del piano, dove vengono posti i visi dei personaggi. Il principio del centramento (centering) porta con sé una serie di conseguenze: l’impiego reiterato della panoramica di assestamento per mantenere la figura umana al centro dell’inquadratura, il piano americano e la mezza figura come distanze privilegiate della mdp, che consentono cioè di vedere il corpo umano ma anche lo spazio circostante, il bilanciamento formale, nel piano, tra vuoti e pieni, tra linee verticali e orizzontali, con la disposizione simmetrica di oggetti ai lati del personaggio e di porte e finestre nei piani più profondi e/o ai lati dell’inquadratura, il tabù di lavorare sui bordi dell’inquadratura, di riprendere i personaggi principali o privilegiati di spalle, o di nasconderne il viso. Il concatenamento delle inquadrature, e le conseguenti opzioni di posizionamento della mdp e di montaggio, seguono due fondamentali regole: da un lato assicurare una continuità grafica, dall’altro una continuità spaziale. Nel primo caso il contenuto, il centro d’interesse e le proprietà iconiche dell’immagine non devono variare troppo da un piano all’altro; questo configura, per esempio, una transizione morbida e non forte nella distanza della mdp da un piano all’altro: il passaggio da figura intera/piano americano a piano americano/mezza figura è dominante mentre infrequenti sono i

passaggi estremi, per esempio da figura intera a primo piano. La continuità spaziale, cardine insieme alla logica narrativa causale della scrittura classica, è assicurata da una serie di raccordi che suturano le diverse inquadrature in modo da camuffare la discontinuità spaziale dei diversi piani. Lo scopo è quello di dare una rappresentazione unitaria e organica dello spazio e di rendere chiaro in ogni momento il posizionamento di personaggi e oggetti. Ogni inquadratura ritaglia una porzione dello spazio diegetico ma la concatenazione dei piani assicura, in realtà, che in ogni momento lo spettatore abbia una rappresentazione mentale della totalità dello spazio filmico. Questo elemento è assicurato da due scelte: la ricorrenza dei totali, che non solo aprono e chiudono l’inquadratura, ma spesso sono inseriti tra i campi/controcampi, e il fatto che il cambiamento di posizionamento della mdp sia motivato dal racconto: l’inizio di un dialogo vede sempre l’avvicinarsi della mdp (tramite un raccordo sull’asse), ma il cambiamento di inquadratura è vissuto come naturale poiché solo vedendo da vicino i personaggi possiamo realmente sentire il loro dialogo e identificarci, partecipare alla diegesi. Questi procedimenti sono evidenti nella prima sequenza di Susanna: l’establishing shot del salone, dominato dal gigantesco scheletro di brontosauro, è seguito da un piano americano di Alice e del professore (inq. 4): la ragazza dice di far silenzio per non disturbare il dottore e volge lo sguardo verso l’alto a destra. A questo punto la mdp panoramica in quella direzione andando a inquadrare, perfettamente centrato e incorniciato dalla coda dell’animale, Cary Grant. Un veloce stacco precede un movimento di carrello verso la figura seduta dell’uomo nell’atto di pensare (inq. 5): la mdp è ora più vicina al personaggio che occupa tutta l’inquadratura. Gli elementi degni di nota sono svariati. Da un lato la reiterazione dell’inquadratura di Grant (inq. 5) combinata con un movimento immotivato di carrello (il personaggio è seduto) ha la funzione di enfatizzare la funzione della figura maschile, di renderla il centro narrativo, oltre che di costruirla nei suoi tratti salienti. Dall’altro possiamo notare come Hawks sia molto attento a costruire la continuità spaziale: la panoramica dell’inq. 4 collega direttamente Alice con David mostrandoci chiaramente la posizione dei personaggi l’uno rispetto all’altro, la loro prossimità spaziale. Il rapporto tra vedere e sapere, tra ocularizzazione e focalizzazione viene attivato in direzione della perfetta corrispondenza: lo spettatore hawksiano conosce ciò che vede, non deve immaginare nulla, poiché tutto gli è mostrato. Agli antipodi rispetto a Hitchcock, l’ovvietà del cinema di Hawks ha tra i suoi elementi quello dell’assoluta visibilità. In questo senso si comprende la predilezione del regista per riprese oggettive e la scarsità di soggettive. Nel percorrere materialmente lo spazio che separa Alice da David l’inq. 4 costruisce l’asse di 180°, primo espediente formale che consente la rappresentazione naturalistica di un’azione narrativa, posizionando lo spettatore in un luogo fisico vicino all’azione. Stabilita la prossimità spaziale dei due interlocutori si passa alla rappresentazione del dialogo tramite campo/controcampo e raccordo di sguardo: le inqq. 5-9 costituiscono una serie alternata di inquadrature di Alice e David. Più in generale, le prime nove inquadrature rappresentano una sorta di matrice, un modello formale che ritornerà costantemente con variazioni non sostanziali da un punto di vista linguistico, ma sostanziali nella forma del contenuto (luoghi, eventi, dialoghi, attanti). Sono proprio le infinite variazioni di questo modello e le forme in cui tali variazioni si ripetono e si scontrano, si rincorrono e si sostituiscono a costruire le relazioni intersoggettive, le dinamiche tra i personaggi, a produrre la posizione testuale e spettatoriale nei

confronti della diegesi, a, in ultima analisi, costruire il senso del film. Solo l’analisi testuale dettagliata può rendere conto della produzione del senso del film classico, nell’accezione in cui Barthes ha parlato di testo contrapposto a opera. La codicità del film classico e il suo funzionamento, evidenziati dai lavori di Bellour, di Stephen Heath30 e della Feminist Film Theory, non possono che essere analizzati con un lavoro certosino, non solo perché la visione normale rende impossibile l’individuazione di molti tratti formali, ma anche perché sono proprio le sottili variazioni che producono il significato. La costruzione del senso come rete di variabili (infinite) di una matrice appartiene non solo al film nel suo complesso, ma anche alla singola sequenza. La prima scena di Susanna è, in questa prospettiva, esemplare. Vi sono tre serie di campi/controcampi, ognuna con variazioni nella disposizione dei personaggi e nel modo di ripresa. Tali cambiamenti appaiono del tutto funzionali al successivo sviluppo del racconto, in quanto disegnano un percorso che vede un mutamento nei rapporti intersoggettivi. La relazione tra Alice e David si fa progressivamente più impersonale e fredda con il trascorrere del dialogo: dunque, la messa in scena spinge il senso del film in direzione opposta alla diegesi che, invece, annuncia l’imminente matrimonio dei due. La forma del film suggerisce, in altre parole, che il racconto è iniziato con una falsa pista: capiamo sin da subito – anche in virtù della già canonizzata regola del genere – che la compagna iniziale sarà sostituita da quella ideale, che quel matrimonio non si farà mai. Ma veniamo all’analisi. Da un lato, è la relazione tra elementi che produce il senso, dall’altro, il testo classico, basato su una rete di opposizioni binarie non fisse, ma variabili, chiede di essere interpretato secondo un modello binario flessibile. Il primo campo/controcampo (inqq. 5-9) è il solo a seguire i canoni classici più comuni: si tratta di un dialogo tra Alice e David a debita distanza – ma la cui prossimità spaziale è stata accuratamente mostrata da un movimento di macchina –, che si conclude quando il protagonista, eccitato dalla buona notizia del ritrovamento dell’osso, scende precipitosamente dall’impalcatura. Dopo un reestablishing shot e due inquadrature dei tre personaggi, prima in figura intera, poi, con un raccordo sull’asse, in piano americano, inizia il secondo campo/controcampo (inqq. 13-16): ora si alternano piani del professore e two-shots della coppia. È il frangente in cui viene evidenziata, tramite il dialogo, la subalternità di David nei confronti della donna, eccessivamente legata al lavoro e priva di qualsiasi interesse per la sessualità e il divertimento. Il matrimonio cui accenna il professore appare già grigio. Il lavoro registico dà, in questo senso, indicazioni significative: Alice ha il ruolo più importante nel dialogo, ma l’immagine già la relega in una posizione secondaria. Se il two-shot è solitamente usato per esprimere intimità e sentimento, qui la sua funzione appare rovesciata: il piano di Alice e David, che si ripeterà quattro volte (inqq. 14, 16, 18, 20), vede infatti una dialettica tra il modo di ripresa dell’una e dell’altro: nella parte destra David, inquadrato frontalmente, è ben visibile, mentre Alice, nella parte sinistra, è ripresa in modo obliquo e il suo viso non viene mai mostrato (salvo un istante nell’inq. 16 quando la donna si gira). Dunque, l’immagine contraddice la dimensione verbale: se Alice conduce il dialogo e, sembrerebbe, la vita e l’agenda del fidanzato, è David ad essere il fulcro dell’immagine. Nel privilegiare David, la mdp dà voce alle sue proteste nei confronti della fidanzata, anticipando in qualche modo gli effetti dell’incontro con Susan: la vivacità della giovane ereditiera appare subito come un necessario toccasana per la salute mentale del professor Huxley. La scena diventa ancora più impersonale nelle inquadrature successive. Il

campo/controcampo professore/coppia (inqq. 13-16) prosegue con una variazione, in quanto i piani 17-21 vedono un’alternanza fra i tre personaggi e la coppia. La sequenza continua ad essere retta da una dicotomia tra le strategie verbali e quelle visive. Infatti, la scelta di riprendere più personaggi non è motivata dal dialogo, poiché gli unici a parlare sono Alice e David. Il dialogo richiederebbe un normale campo/controcampo tra i due fidanzati. La presenza nell’inquadratura di un terzo personaggio, in definitiva estraneo alla vicenda, e le riprese oblique di Alice contribuiscono a costruire un’atmosfera di estraneità, di freddezza tra la coppia, in netto contrasto con ciò che l’imminente matrimonio farebbe credere. Per concludere, la generale staticità dell’episodio, la distanza della mdp, che non giunge mai al primo piano, la dicotomia parola/immagine concorrono a minare il rapporto intersoggettivo della coppia, a costruire, tramite la messa in scena, un senso di distanza, separazione e incomprensione, cioè un senso altro rispetto a quanto presentato dalla situazione diegetica. In questa prospettiva la sequenza successiva rappresenta un movimento opposto, introduce una situazione e un’azione diegetica, un personaggio femminile, una rappresentazione dello spazio e un modello esistenziale diametralmente opposti rispetto all’incipit. La situazione ludica, siamo all’aria aperta, in un campo da golf, e il dinamismo generalizzato, del filmico e del profilmico, si sostituiscono al serioso grigiore e alla staticità del museo. Qui è il movimento che diventa protagonista: quando David comincia a rincorrere la pallina, entrata sfortunatamente in possesso di Susan impegnata in un’altra buca del percorso, i veloci spostamenti del personaggio sull’erba sono seguiti da lunghi carrelli. Anche il dialogo contribuisce al dinamismo, anzi lo raddoppia: i due parlano velocemente – pur senza raggiungere i frenetici accavallamenti dell’overlapping dialogue delle sequenze successive – mentre si muovono così che una generalizzata sensazione di energia invade sia l’immagine che il sonoro. Per quanto riguarda il trattamento visivo notiamo un protagonismo dell’interprete femminile che, a differenza di Alice, viene subito centrata a livello compositivo. Più in generale, non si notano differenze nelle modalità di ripresa del personaggio maschile e di quello femminile, ma si stabilisce una relazione paritaria tra i due: distanza e angolo di ripresa della mdp, posizionamento all’interno del piano, illuminazione sono simili. Vi è una sola, ma assai significativa, differenza: sin da subito è Susan a condurre l’azione, David non può che cercare di tenerle testa. L’incontro David-Susan investe entrambe le linee narrative. La giovane ereditiera costituisce per il protagonista un’interessante alternativa sentimentale, ma rischia di vanificare alcuni suoi risvolti professionali: il paleontologo deve interrompere la partita a golf con il signor Peabody per cercare di ritornare in possesso dell’automobile erroneamente scambiata da Susan per la propria. Nella sequenza successiva ritroviamo il protagonista in un ristorante elegante ma la comparsa di Susan – in uno dei frangenti più comici dell’intero film – manderà nuovamente a monte l’appuntamento con il rappresentante della mecenate. Suddivisa in vari episodi la serata si sviluppa attorno ai tentativi di Susan di prolungare, tramite mezzucci e piccoli imbrogli, l’incontro con David. In effetti, il tentativo della donna si profilerà come un vero e proprio attentato alla deadline principale del racconto, il matrimonio. Come confesserà più tardi, Susan impedisce in tutti i modi che David si allontani da lei, sino a denudarlo, mandandogli gli abiti in tintoria, così da potergli materialmente impedire di rientrare a New York per la cerimonia. David è fortemente riluttante a seguire la donna, anzi la vede come la fonte

dei suoi guai e fa di tutto per allontanarla da sé. Tuttavia, la messa in scena suggerisce che l’unione dei due è inevitabile e che è destinata a formarsi secondo i parametri di Susan, ovvero sotto l’egida del divertimento e dell’irrazionale, del dinamismo e del desiderio. La logica narrativa classica, il rapporto di causalità tra gli eventi, poggia su un dispositivo retorico in base al quale ogni evento viene in qualche modo anticipato, suggerito da precise opzioni stilistiche ben prima che esso si verifichi. La relazione tra racconto e stile si configura essa stessa in modo causale: lo stile di uno specifico evento funziona da causa di un evento futuro. L’inizio di Susanna è sintomatico: è il modo di ripresa di Alice ad anticipare la futura esclusione della donna dal mondo del protagonista. Che l’unione tra Susan e David sia inevitabile ci viene suggerito nella breve sequenza che conclude la loro prima serata. Secondo il tipico procedimento classico in base al quale le opzioni di messa in scena indicano quale termine del duale sia privilegiato dal testo, lo stile visivo della scena indica in Susan, e nel modello esistenziale da lei rappresentato, il perno ideologico del film e del rapporto intersoggettivo. Si tratta di una scena breve e semplice, quasi banale, sia da un punto di vista narrativo che di ripresa e montaggio, un dialogo in campo/controcampo dopo che David è sceso dall’automobile della donna. È una scena del tutto simile, per funzione, dinamiche narrative e stilistiche a quella de Il grande sonno scelta da Bellour in una delle sue famose analisi31. L’analisi della sequenza che qui proponiamo, effettuata seguendo lo schema metodologico di Bellour, ci consente di vedere all’opera i meccanismi di codificazione della scrittura classica. In secondo luogo essa conferma come, al di là della validità di talune generalizzazioni teoriche sul funzionamento della scrittura classica, sia anche indispensabile ancorare il testo non solo al modello classico, ma anche, per esempio, alle dinamiche dei generi. Si scopre, così, che alcune figure tematiche o retoriche assumono in generi diversi significati opposti. A tale proposito va sottolineato come anche gli studi di Bellour non siano privi di un aspetto totalizzante, «essenzialista». Benché estremamente attento alle dinamiche dei singoli testi, lo studioso francese ha visto nella subalternità del femminile, prodotta da particolari dinamiche di sguardo32, un elemento strutturante del testo classico. In sintonia con i contemporanei interventi di Laura Mulvey, il punto di vista di Bellour non prevede altro rapporto tra maschile e femminile che quello del dominio, estremamente codificato, del primo sul secondo. Ma la commedia in generale, e Susanna in particolare, non si lascia ingabbiare da questa struttura, perché la trasgressione, l’inversione dei ruoli sociali e sessuali e il ruolo attivo del personaggio femminile sono elementi di base del genere stesso. Di questo l’analisi qui proposta ha tenuto conto. La sequenza con cui termina la prima serata di Susan e David è composta da undici inquadrature e presenta una scelta di codici altamente strutturata. Si tratta, innanzitutto, di scegliere i codici pertinenti, di vedere quali relazioni binarie vanno a formare e come queste cambino e, infine, come questa struttura composita e relazionale possa essere interpretata. Il campo/controcampo è il tratto dominante della scena. Pertanto il punto di partenza non può che essere il confronto tra il modo di ripresa dei due personaggi. Cinque opzioni appaiono particolarmente utili: la distanza della mdp, l’angolo di ripresa, l’illuminazione, la presenza/assenza schermica dei personaggi e la presenza/assenza della parola. Le prime due inquadrature costituiscono una sorta di prologo, hanno la funzione di presentare la situazione diegetica, ma hanno scarsa rilevanza: vediamo un campo medio dell’automobile, seguito da un piano più

ravvicinato in cui i due sono inquadrati in piano americano. David saluta Susan informandola che l’indomani si deve sposare. Alla parola «married» interviene lo stacco. Con la terza inquadratura inizia il campo/controcampo, la serie di alternanze/ripetizioni che rappresentano lo scheletro formale della scena classica. È tramite questo sistema che si costituisce la coppia eterosessuale, l’identità del maschile, del femminile e del loro rapporto. In altre parole il testo classico produce l’identità di gender tramite una rete di opposizioni binarie che, dunque, costruiscono la differenza di gender in termini duali. Tuttavia, il testo classico non si limita a stabilire una dicotomia, ma privilegia uno degli elementi a scapito dell’altro, avanzando, dunque, una proposta ideologica. Le inquadrature 3-11 presentano in questo senso indicazioni assai interessanti: si tratta di un campo/controcampo classico in cui si alternano, dall’inizio alla fine, piani di Susan e di David. Un primo elemento discriminante è la presenza sullo schermo del personaggio: è il volto di Susan che fa da cornice all’intero segmento, poiché la donna apre (inq. 3) e chiude l’alternanza (inq. 11). Susan è dunque il perno formale della sequenza: oltre all’inquadratura iniziale e finale il volto di Susan occupa il piano centrale della sequenza (inq. 7). Evidentemente, nel cinema classico la centralità formale produce anche una centralità narrativa e «morale». Il ruolo primario di Susan è corroborato da altre scelte: per quanto riguarda l’angolo di ripresa la donna viene inquadrata frontalmente mentre David viene ripreso in modo obliquo; il viso della donna è ben illuminato, radioso, mentre quello dell’uomo è nella penombra. Anche la distanza della mdp privilegia il personaggio femminile: tutte le inquadrature di Susan sono dei mezzo primo piano, mentre David viene sempre ripreso in mezza figura, con l’eccezione dell’inq. 10 in cui il personaggio maschile, essendo inciampato e caduto a terra, viene inquadrato in figura intera. Veniamo all’ultimo tratto pertinente, la dimensione sonora, che suggella in modo emblematico quanto finora affermato. Tutte le scelte in ambito visivo spingono lo spettatore a una identificazione con il personaggio femminile. La dimensione sonora entra in un rapporto di competizione con l’immagine in quanto si stabilisce una dualità tra la presenza e l’assenza di parola, ma anche tra parola e riso, parola e gesto. Quest’opposizione è legata, in primo luogo, alla retorica del corpo della screwball comedy, ovvero alla specificità del linguaggio del genere più che alla scrittura classica. Il rapporto parola-corpo è un elemento cardine e conduce al centro semantico del film. Dopo essere sceso dall’automobile David saluta la donna annunciandole il proprio matrimonio (inq. 2). Susan reagisce alla notizia con una risata fragorosa (inq. 3), cominciando così a prendersi gioco dell’uomo. Nell’inquadratura successiva (inq. 4) David parla della propria «dignità», provocando una seconda reazione di scherno di Susan che ride animatamente (inq. 5). A questo punto l’uomo, chiaramente incapace di stare al gioco, inizia un lungo e serio discorso (inq. 6) che si conclude con un secondo annuncio: di andare a far visita al signor Peabody da solo, per evitare ulteriori disguidi. L’inq. 7 vede la reazione verbale della donna, offesa di essere esclusa dai piani di David, che risponde con un: «Senza di me?» («Without me?»). Nell’economia della sequenza quest’inquadratura costituisce il perno, il momento in cui la direzione stessa della scena cambia. È il centro formale del campo/controcampo – la quinta del nucleo di nove inquadrature considerate – ma anche il punto di separazione tra due diversi momenti narrativi della scena, due momenti in cui i termini del rapporto maschile/femminile si rovesciano. È piuttosto stupefacente come un episodio così insignificante nasconda una

costruzione tanto articolata, una logica narrativa non diversa, fatte le debite proporzioni, da quella del film nel suo complesso, che contempla più fasi e momenti, e un vero e proprio sviluppo. Sino a quel momento la dicotomia David/Susan si è espressa, sul piano sonoro, nell’opposizione logos/riso, con il primo intento a decidere il futuro della relazione con la donna, ad essere, tramite la parola, il personaggio attivo del racconto. Ma il riso sfacciato di Susan mina la credibilità stessa delle parole di David. La donna si prende gioco della dignità del personaggio maschile, del matrimonio e dello status sociale di intellettuale dell’uomo. La centralità visiva della donna dà un senso preciso alle scelte sonore: nel privilegiare Susan il testo appoggia evidentemente il comportamento folle, la pazzia della donna, ridicolizzando David, il suo buon senso e la sua noiosa serietà. Ecco allora che le uniche parole in campo pronunciate da Susan in tutta la sequenza appaiono assai significative: questo «Senza di me?» a metà dello scambio è evidentemente una sfida a ciò che l’uomo ha appena spiegato con inutile meticolosità. La semplice frase di Susan è doppiamente rilevante: riflette la sfida di gender della screwball comedy, dove la/il partner iniziale deve essere sostituita/o, alla fine del racconto, da quella/o ideale, esprimendo allo stesso tempo la motivazione dell’intreccio e il conflitto narrativo di Susanna, ovvero se il protagonista maschile riuscirà nell’intento di non stare con Susan. Ma le poche parole della donna valgono molto più dei lunghi discorsi dell’uomo; solo la frase di Susan ha un senso, uno scopo, diventerà azione. In questa prospettiva, l’intervento verbale di Susan ha solo la funzione di screditare quello di David: la donna non mira certo a ricoprire il ruolo dell’uomo, a diventare soggetto razionale definito dal logos. La seconda parte dell’episodio è in questo senso assai esplicita. L’inq. 8 vede l’ultima replica del paleontologo: l’uomo dice di sperare di non vedere mai più la donna, saluta stizzito, si volta per andarsene, inciampa e cade a terra. Il controcampo mostra una divertita Susan che guarda l’uomo a terra; il piano successivo inquadra David di spalle, mentre si alza e si allontana. Infine, l’ultima immagine della sequenza è un mezzo primo piano della donna con un’espressione da monello che lascia intendere, tramite una esplicita gestualità del viso, di avere un piano, di non darsi per vinta. Da un punto di vista codico questa seconda parte presenta una variazione importante: mentre l’angolo di ripresa, l’illuminazione, la presenza schermica e la distanza della mdp rimangono invariati33 muta sensibilmente il rapporto tra dimensione verbale e gestuale. Iniziata come dialogo, la sequenza termina portando in primo piano la gestualità: le ultime tre inquadrature riprendono le espressioni furbesche di Susan (inqq. 9 e 11) e il corpo slapstick di David (inq. 10). La gestualità combinata con il silenzio è la negazione del discorso articolato, della verbalità eccessivamente razionale di David (e di Miss Swallow). Gestualità e silenzio sono in sintonia con il riso e il divertimento che contraddistinguono Susan nella prima parte dell’episodio, e sin dalla sua comparsa sul campo da golf. Per concludere, l’articolazione di queste undici inquadrature sottende una struttura significante di cui è possibile fornire un’interpretazione stratificata: il personaggio femminile ha un ruolo visivo privilegiato poiché la sua immagine costituisce il perno del campo/controcampo e, dunque, il vettore dell’identificazione. Questa centralità visiva rende subalterna la centralità verbale del personaggio maschile, agente principale del dialogo. Ma l’opposizione immagine-dialogo viene sostanziata anche da un’altra opposizione, quella tra gesto-riso e parola. Non soltanto le parole di David vengono

contraddette da quelle di Susan, ma la sequenza privilegia progressivamente le componenti non verbali della comunicazione umana, facendo dunque di Susan la protagonista dell’episodio, trasformando la donna, proprio in questo frangente, nell’agente attivo dell’azione. I LUOGHI

Ciò che la sequenza appena analizzata annuncia viene finalizzato negli episodi immediatamente successivi, quando risulterà impossibile per David liberarsi di Susan che diventerà, definitivamente, l’agente dell’azione. Innanzitutto nella «sequenza delle telefonate» vengono stabiliti in modo preciso i termini della dualità semantica del film, in relazione ai personaggi femminili e agli oggetti. Lo stile, in particolare il montaggio alternato combinato con particolari scelte iconico-compositive, rende esplicito, in modo mai così netto nel film, come la dialettica sia la forma simbolica del film classico. David riceve prima la telefonata di Alice, poi, dopo l’arrivo della clavicola intercostale, quella di Susan. La donna gli chiede aiuto perché non sa come portare un leopardo domato nella villa di campagna della zia. L’opposizione Alice-Susan viene espressa con inquadrature in cui vengono mescolati elementi comuni e opposti. Le due donne sono riprese nel comune atto di parlare al telefono, entrambe sedute a un tavolo e in mezza figura, con una identica disposizione nel profilmico di oggetti (la lampada sulla destra, la finestra con le tende aperte): ma è l’abbigliamento, unico elemento che le differenzia, a decidere del senso. Con i capelli raccolti, gli occhiali da bibliotecaria e una giacca formale, Alice incarna l’ordine, la rigidità, il lavoro, la noia. Con l’abito lungo di organza bianco Susan evoca l’eleganza dell’upper middle class, il tempo libero e il divertimento, mentre l’entrata in scena del leopardo ne esacerba il côté di follia e imprevedibilità, la totale noncuranza delle norme sociali. La struttura binaria del film investe anche i luoghi del racconto. Il cinema classico ha escogitato modi diversi per trasformare in materiale diegetico la struttura di base del proprio modello narrativo, ovvero l’idea che il racconto classico sia una traiettoria, un percorso, un viaggio. Nel cinema hollywoodiano il viaggio dell’eroe è sia letterale che metaforico, è uno spostamento geografico con un senso specifico. La traiettoria spaziale non è mero movimento – come nel cinema moderno – e si compie, solitamente, tra un preciso luogo di partenza e uno di arrivo, per concludersi con un ritorno al luogo iniziale, dopo che i rapporti intersoggettivi sono, rispetto all’inizio del film, irrimediabilmente mutati. Ogni genere, anche se in forme non sempre nette e radicali, ha trovato alcuni luoghi di elezione che, come i personaggi, tendono a ritornare sistematicamente. I luoghi del genere sono simbolici, rinviano a forme sociali istituzionalizzate, a particolari modelli di comportamento del soggetto. Evidentemente, come i personaggi, le strutture linguistiche e le scelte iconico-rappresentative, i luoghi del film entrano in un rapporto duale l’un l’altro34, rinviando a forme di soggettività opposte. In Susanna la dicotomia è tra la metropoli, New York, in cui è ambientata la prima parte del film, e la campagna del Connecticut, dove Susan trascina David e il leopardo. La dualità città/campagna ingloba tutta una serie di opposizioni che costituiscono il tessuto complessivo, la rete di relazioni del film35. La città è associata a David e a tutto ciò che egli rappresenta: il lavoro, il Super-Io, il controllo, la ragione, la parola, la staticità, il brontosauro, l’osso. La campagna è legata a Susan e, dunque, al divertimento, al desiderio, alla spontaneità, al corpo e alla gestualità, al dinamismo, al leopardo. Si

tratta, in definitiva, del conflitto di base del cinema classico, quello tra Legge e Desiderio. Anche questo, in definitiva, è un elemento ormai acquisito: la struttura profonda del cinema hollywoodiano è sempre legata alla traiettoria edipica e alle varie fasi della formazione dell’io, e i diversi generi dell’epoca classica hanno codificato un numero limitato – in sintonia, del resto, con le limitate possibilità che Freud e Lacan hanno attribuito al soggetto – di modalità di messa in scena di tali processi. Trascinato in un luogo dove le regole vengono meno David vive una regressione radicale che investe, in primo luogo, la sua identità sessuale. La virilità dell’uomo viene messa in questione: prima veste abiti femminili, poi, alla disperata ricerca del prezioso osso, assume pose animalesche. Abbandonata la consueta rigidità, David si esibisce in posture ed espressioni bizzarre, imitando i personaggi che lo circondano. Il film raggiunge livelli di pazzia raramente visti: il ritmo elevato diventa progressivamente vera e propria vertigine, sino al climax della prigione dove la follia arriva al nonsense: solo l’arrivo di Miss Swallow riesce, significativamente, a riportare un po’ di ordine. Se l’ordine deve necessariamente essere ristabilito, il paradigma della normalità è, comunque, definitivamente cambiato. Il finale – ambientato, in ossequio alle regole, nello spazio iniziale, il museo – vede un incontro tra le due polarità, il mondo di David e quello di Susan, con la donna ancora leader della coppia. Susan entra nel laboratorio del paleontologo, con la notizia che la zia ha acconsentito alla donazione di un milione di dollari, ma, nel tentativo di raggiungere David sull’impalcatura, fa andare in mille pezzi il brontosauro, vanificando il lungo lavoro dell’uomo. L’unione, dunque, sancita da un affrettato abbraccio finale, nasce sotto gli auspici della pazzia, del disordine e del divertimento. Nella sua acclamata (e derisa) trasparenza, nella sua eccessiva ovvietà, il film aveva comunque tradito, sin dalla sequenza iniziale, i «segni del proprio raccontare»36, indicando in Susan il personaggio, e il modello, su cui puntare.

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[12.] 1-12. H. Hawks, Bringing Up Baby (Susanna, 1938).

2. Oltre il classico. Melodramma, spettacolo e sensazione in Come le foglie al vento LE TEORIE SUL MELODRAMMA

Nell’ambito delle teorie sul cinema classico americano emerse dall’inizio degli anni settanta circa (Bellour, Screen Theory, Feminist Film Theory, Bordwell, Altman ecc.) il melodramma, come genere ma anche come modo, è stato con poche eccezioni centrale nella definizione della “classicità”. Nel discorso interpretativo si è progressivamente consolidata l’idea che “classico” e “melodrammatico” siano antitetici, tanto che il modo di articolare il rapporto tra essi ha sostanzialmente definito lo statuto delle proposte critico-teoriche più avanzate sul cinema “classico”. Lasciando da parte l’opposizione tra classic realist text e progressive text emersa dalle pagine di «Screen» (attraverso la rielaborazione di alcune posizioni dei «Cahiers») e presto divenuta il modello di analisi di riferimento1, vorrei partire dalle successive proposte di Rick Altman (1989) e Ben Singer (2001) per una definizione del campo discorsivo. A fine anni ottanta il panorama critico americano pullula di voci contrarie a teorie “forti” sul film classico, in particolare quelle espresse a metà decennio da David Bordwell in Narration in the Fiction Film (1986) e nel volume a sei mani The Classical Hollywood Cinema uscito l’anno precedente. Molti/e studiosi/e, provenienti da aree e interessi anche assai diversi, tendono invece a cogliere la molteplicità, stilistica, produttiva, ideologica ecc. del cinema classico americano sonoro. Un contributo importante in questo senso è costituito dall’intervento di Rick Altman Dickens, Griffith, and Film Theory Today, che apre il numero di «The South Atlantic Quarterly» su Film and Tv Theory Today, curato nel 1989 da Jane Gaines. Altman si chiede esplicitamente: «How classical was classical narrative?», interrogando gli sviluppi della teoria del film classico e cercando di spiegare le forme e le ragioni che ne hanno reso possibile l’emergenza. Al cuore della nozione di classicità cinematografica c’è qualcosa di scontato: «Per Bazin il termine implica maturità, armonia, equilibrio perfetto, forma ideale… Nell’uso che ne fa Bordwell, il termine classico indica armonia, unità, tradizione, capacità di seguire le regole, standardizzazione e controllo». Entrambe le definizioni, conclude l’autore, si basano sulle teorie letterarie francesi del XVII secolo2. Questa ipotesi, che secondo Altman è del tutto insufficiente a spiegare il cinema hollywoodiano, è anche un esempio di come molti dei paradigmi teorici che fanno da impalcatura ai Film Studies si siano formati ricorrendo al discorso letterario. L’ipotesi alternativa di Altman è che, al contrario, se si fosse guardato in modo più sistematico al rapporto col teatro popolare, in particolare con il melodramma, lo statuto delle teorie sul cinema classico sarebbe profondamente diverso e più adeguato al proprio oggetto di studio. In particolare Altman critica l’idea che la classicità sia, in ultima analisi, il controllo delle tensioni e delle forze caotiche in una forma ordinata e armonica. Questa è un’idea che impoverisce il modello classico. In alternativa propone di vedere il film classico come un testo a focalizzazione duale: da un lato esso segue la formula aristotelica di causa-effetto ed è incentrato sulla traiettoria di un personaggio, dall’altro perpetua simultaneamente gli scopi del teatro popolare, in quanto la «spettacolarità e una varietà di emozioni forti sono necessarie» al film hollywoodiano3. La proposta di Altman può essere riformulata nel modo seguente. Il film classico mostra la compresenza di

spettacolo e racconto: il primo livello attiva un’esperienza legata alla visione e alla sensorialità, il secondo attiva un processo cognitivo riconducibile alla parola. Nonostante il film classico cerchi di mascherare il côté melodrammatico, questo torna in superficie e diventa dominante nelle scene cruciali. In secondo luogo, il rapporto tra single (classico) e dual focus non è definito una volta per tutte, ma va visto nelle sue diverse attualizzazioni. È in questa dialettica che Altman ritrova il rapporto tra Storia e mito, le due voci del racconto classico, ciascuna con un proprio linguaggio. Di questa dualità, sempre presente, deve rendere conto una rinnovata teoria del film classico, anche perché molto spesso la popolarità e la longevità di un film non stanno tanto nel suo plot, quanto nei momenti di maggiore intensità, quelli in cui, per l’appunto, la motivazione narrativa è minima. A proposito di Casablanca, per esempio, Altman afferma che tutti i momenti di più alto impatto emotivo del film esprimono il conflitto tra interesse personale e nazionale, un tema più mitico che storico, più melodrammatico che classico. Questa dualità del film classico va altresì legata allo studio dei generi che, dietro «le loro caratteristiche classiche di superficie», hanno inscritte «tradizioni melodrammatiche diverse»4. Il concetto di focalizzazione duale può a mio avviso essere visto anche in termini storici: la tradizione melodrammatica sembra sovrastare quella classica nel cinema degli anni quaranta e cinquanta (rispetto agli anni trenta) quando, da un lato entra in crisi la logica narrativa, dall’altro diventano fondamentali i processi di spettacolarizzazione dell’immagine e la messa in scena di emozioni forti, tipiche delle forme popolari di intrattenimento. Ma che cosa si è storicamente inteso con il termine melodramma? Non solo la messa in scena di conflitti di ambientazione domestica e familiare o legati alla maternità, ma anche film in cui domina «l’azione, l’avventura e l’eccitazione; non si trattava di generi “femminili” e del woman’s film ma di film di guerra, d’avventura, horror e thriller, generi solitamente considerati “maschili”»5. In Melodrama and Modernity Ben Singer si rifà a questo secondo modello nell’analisi dei serial-queen melodramas, melodrammi sensazionali seriali degli anni dieci, che interpreta in relazione alla modernità e all’urbanizzazione di fine Ottocento e inizio Novecento. Alla luce degli scritti di Simmel, Benjamin e Kracauer, il melodramma sensazionale è visto da Singer come un’espressione dell’iperstimolazione cui è sottoposto il soggetto nella moderna metropoli. Popolato di incidenti, cambiamenti e movimenti continui, suspense, fughe e inseguimenti, incendi e allagamenti, il melodramma sensazionale è da un lato la versione cinematografica aggiornata del melodramma teatrale vittoriano, dall’altro la versione estetica della quotidianità urbana, fatta di eccessive stimolazioni sensoriali. Nella città moderna la vita diventa più intensamente fisica e l’attenzione visiva e auditiva si deve plasmare secondo nuove necessità. Nelle riviste popolari illustrate la metropoli è rappresentata come luogo del pericolo: dal terrore per il traffico, il tram elettrico e l’automobile, la vita metropolitana si configura come un assalto continuo al corpo dell’individuo6. In questi film dominano i tratti maschili (le eroine sono mascolinizzate), non quelli femminili: in luogo di emozioni e complessità psicologiche vi è azione e violenza fisica; alla (finta) sicurezza dell’ambiente domestico si sostituisce il setting pericoloso della metropoli. Si deve anche osservare che in questi film la componente attrazionale domina su quella narrativa configurando per il melodramma uno statuto anticlassico: la propensione per le sensazioni vivaci, le impressioni rapide e

potenti sovrastano l’interesse per la motivazione e la causalità narrativa così come il ricorso all’episodicità, alle coincidenze e all’implausibilità rappresentano una sfida all’unità diegetica e allo sviluppo logico dell’azione7. Uno degli obiettivi di Singer è di pervenire a una definizione del melodramma. Nello sforzo di trovare una soluzione di compromesso, Singer propone di vederlo come un cluster concept. Si può parlare di melodramma ogniqualvolta un testo presenta una qualsiasi combinazione di alcuni dei suoi cinque elementi costitutivi: pathos, intensità emotiva, polarizzazione morale, struttura narrativa non classica, sensazionalismo. Mentre il melodramma hollywoodiano attiva, essenzialmente, i primi due tratti, escludendo la dicotomia morale, il melodramma d’azione spesso ribalta la formula privilegiando la polarizzazione morale, ma escludendo il pathos8. Se nel melodramma orientato verso l’azione il conflitto è più esterno al corpo, nel melodramma emotivo il conflitto è più interno al corpo dei protagonisti: il corpo, come nell’isteria, diventa il luogo in cui il senso viene inscritto. Il corpo melodrammatico, afferma Peter Brooks, trasforma «l’affetto psichico in significato somatico», diventando così un testo da decifrare9. Al di là delle differenze credo si possa ritrovare nella centralità del corpo il tratto distintivo del melodramma. Che si tratti del corpo femminile iperstimolato e mascolinizzato della moderna metropoli di cui si occupa Singer, o del “corpo sofferente” dell’eroina virtuosa e vittimizzata di cui ha parlato recentemente Linda Williams10 o, ancora, del corpo isterico o sintomatico di cui hanno parlato Thomas Elsaesser e Geoffrey Nowell-Smith11, il melodramma e i suoi sottogeneri sono innanzitutto un body genre, per parafrasare il titolo di un altro famoso intervento della stessa Williams12. Il corpo diviene il locus dell’iscrizione dell’identità e l’identità è, negli anni cinquanta, il risultato di pratiche sessuali e sessuate. Siamo in un regime che attribuisce al sesso «il potere dell’autodefinizione individuale». Secondo gli storici John D’Emilio e Estelle Freedman, nel dopoguerra il sesso diventa «un segno di identità, la fonte della vera natura dell’individuo»13. Solo nel melodramma, attraverso un’aesthetics of embodiment, «i significati più importanti sono inscritti sul o col corpo». In un ambito non melodrammatico il corpo è semplicemente dato per scontato14. Evidentemente, non si tratta di vedere il family melodrama hollywoodiano degli anni cinquanta, di cui Written on the Wind (Come le foglie al vento, D. Sirk, 1956) è un testo esemplare, in relazione diretta con forme melodrammatiche del passato, quanto di leggere la centralità del corpo in questo genere attraverso un processo di storicizzazione e riorientamento di teorie sul melodramma e forme melodrammatiche precedenti15. L’ipotesi che qui proponiamo è che l’iscrizione della pulsione sessuale rappresenti la modalità storicamente specifica della componente attrazionale del cinema americano del secondo dopoguerra. La scrittura della pulsione/sensazione testimonia un fondamentale cambiamento rispetto al cinema classico degli anni trenta. Come il noir, il melodramma degli anni cinquanta rappresenta un modo di rappresentazione in cui torna a dominare l’immagine, la visione rispetto alla parola. E tutte le scoperte tecnologiche del periodo sembrano avere una funzione di questo tipo: la diffusione dei formati panoramici, in particolare il Cinemascope e il Technicolor, aumenta il lato spettacolare/sensazionale dell’immagine. A questo effetto contribuiscono poi il suono stereofonico e i grandi movimenti di macchina, come le riprese dall’elicottero: così l’immagine audiovisiva oltre ad essere più spettacolare, è anche più autonoma rispetto al linguaggio verbale. È in questo senso, quindi, che la teoria di Brooks risulta pienamente calzante: i colori accesi e la musica enfatica, la

gestualità dei corpi, oltre ad altri elementi del profilmico, come le griglie, gli specchi e i filtri, ma anche il grandangolo e lo spazio orizzontale dello Scope che assorbe i personaggi costituiscono i codici principali del melodramma, capaci di significare più del linguaggio verbale o del racconto (Altman). In questa prospettiva il melodramma diventa un modello formale distinto e antitetico a quello classico e la tecnica diventa funzionale a questo passaggio. Alla spettacolarità dell’immagine si aggiunge il sensazionalismo dei contenuti (necessario a differenziare il cinema dalla TV): nel dopoguerra si afferma l’adult film, di cui il family melodrama costituisce il corpus più significativo. Come ha sostenuto Barbara Klinger, l’adult film è il prodotto di una specifica congiuntura fra trend produttivi e valori socio-culturali riguardanti la sessualità che si afferma negli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Categoria che travalica il singolo genere, l’adult film presenta situazioni narrative adatte a persone mature offrendo «una serie impressionante di argomenti sensazionalistici. Tra queste disfunzioni psicologiche, rapporti prematrimoniali, adulterio, frigidità, omosessualità, ninfomania, sterilità, nascite illegittime, alcolismo, lotte familiari, violenza e abuso di droghe»16. «COME LE FOGLIE AL VENTO»

Quali sono dunque le caratteristiche dello stile melodrammatico e come si inscrive la sensazione? Rispetto al cinema degli anni trenta cambia innanzitutto il rapporto tra spazio e personaggio. La figura umana appare ora controllata dallo spazio, secondo strategie che provvedono a inglobare o a imbrigliare il corpo umano. Alla prima strategia concorre per esempio il Cinemascope, il cui effetto di dilatare lo spazio orizzontalmente, comprimendo al tempo stesso la dimensione verticale, viene spesso accresciuto dall’uso combinato di lenti grandangolari (e dalla profondità di campo). Per esempio, col formato panoramico l’uso del campo/controcampo è assai limitato e l’immagine tende a inglobare e assorbire i corpi nello spazio. La perduta autonomia del soggetto è espressa in modo ancora più significativo da un lavoro visivo che tende a imbrigliare il corpo, a frapporre ostacoli materiali alla sua azione. In molti episodi il corpo è circondato da una miriade di oggetti quotidiani che sembrano bloccarne il movimento: l’inquadratura melodrammatica è infatti caratterizzata anche da un eccesso nel profilmico che, rispetto alla classicità, è fortemente popolato. Evidentemente, la profondità di campo è un elemento necessario a quest’effetto in quanto dà piena visibilità agli interni pieni di oggetti e arredi di ogni tipo. In questo ambito, alcuni elementi hanno una funzione più significativa di altri: in Come le foglie al vento (ma anche negli altri film di Sirk del periodo), le “griglie” o le intelaiature di porte e finestre, che talvolta celano le figure dei protagonisti, vengono usate nei momenti di maggiore distacco e difficoltà tra i personaggi stessi. La griglia si carica di effetti più forti grazie anche all’uso combinato del chiaroscuro o di filtri colorati. Il personaggio di Lauren Bacall è più volte ripreso dietro l’intelaiatura di una finestra in frangenti in cui il marito, in preda all’alcol, diventa violento. Nella sequenza iniziale, poi ripetuta nell’ultima parte del film (narrato in flashback), la donna è inquadrata nella penombra, dietro la finestra, mentre guarda il marito tornare. In un altro caso la protagonista guarda sconsolata fuori dalla finestra dopo che il marito ha inspiegabilmente ripreso a bere. Lo sguardo introspettivo, ovvero l’atto tramite cui un personaggio, ripreso nei pressi di una finestra, guarda nel vuoto o è assorto a pensare, è un’immagine piuttosto diffusa negli anni cinquanta: si tratta di una configurazione che

segnala la perdita del potere conoscitivo della vista e l’emergenza del pensiero. Sirk combina in modo del tutto particolare l’inserimento nel profilmico di particolari oggetti con modalità della ripresa, in particolare il lavoro di mise en cadre, in funzione di una tessitura complessiva del film fortemente performativa. In questo senso l’inquadratura nell’inquadratura tramite l’uso di uno specchio è un motivo, ricorrente del film, particolarmente efficace. Rientra nelle codificazioni visive dell’eccesso, in quanto vi è un vero e proprio lavoro, una scelta cosciente del regista, affinché lo specchio e l’immagine che esso riflette rientrino nell’inquadratura, spesso perfettamente centrati. Queste scelte sono così prive di autonome motivazioni narrative da invocare le pratiche della performance e dell’autoriflessività. Nello specchio, vero e proprio marchio autoriale, sono riflesse le figure di Kyle e Marylee, i due fratelli Hadley, nell’episodio che precede la morte del padre. La scena in cui Marylee si spoglia ballando al ritmo sfrenato di un brano jazz raccoglie molti degli aspetti sin qui sottolineati. Notiamo il corpo del personaggio imbrigliato tra gli oggetti d’arredo della stanza, poi il modo di inquadrare, che privilegia angolazioni sghembe, inquadrature fuori fuoco e non centrate, con una manipolazione prospettica e visiva del corpo umano che diventa, in questi momenti particolari, un oggetto informe, una macchia di colore dai contorni incerti, energia libera in movimento. Evidentemente il colore, in particolare il rosso, è il codice più primitivo e diretto. Inizia qui, e prosegue sino alla caduta del padre sulle scale, il recupero del sensazionalismo, del thrill tipico del melodramma muto e teatrale, ancora imbevuto dell’attrazionalità primitiva, in cui si dava spazio a sensazioni brevi e intense. L’episodio può essere visto anche in relazione al concetto di situazione proposto da Lea Jacobs. La situazione è un principio formale opposto all’azione. Per Jacobs, nella situazione si allenta l’azione narrativa, mentre i personaggi incontrano circostanze nuove e il pubblico vive una tensione drammatica potenziata. Nella situazione un improvviso snodo degli eventi lascia i personaggi in un impasse o dilemma e chiede loro di reagire prontamente17. L’idea può essere ulteriormente rielaborata: la situazione è una scena di particolare intensità in cui senza motivazioni narrative vengono a incontrarsi e scontrarsi pulsioni e desideri contrastanti che solo casualmente (coincidenza) si trovano vicini. La mancanza della classica motivazione narrativa rende il conflitto, proprio perché immotivato, impossibile da risolvere. Per tutte queste ragioni la situazione è antitetica all’azione classica. In questi momenti i corpi vengono compressi nello spazio sino a scoppiare, rendendo più chiara la forza della pulsione e della sensazione. Questi momenti sono anche più spettacolari. Nella scena della morte del padre il tratto della situazionalità, dell’assenza di motivazione narrativa, è in parte mascherato dal montaggio alternato tra il padre, prima nello studio poi sulle scale, e la figlia nella propria stanza. Il montaggio avvicina due personaggi che si evitano continuamente e che quasi non sono consapevoli l’uno della presenza dell’altro: la relazione viene creata solo formalmente, ma così facendo l’intensità emotiva aumenta perché sembra che il ballo sfrenato di Marylee causi la morte del padre. La sensazione è creata da elementi essenzialmente non narrativi: il ritmo del montaggio aumenta in modo frenetico, quasi a mimare il ritmo della danza della Hadley, mentre il volume della musica è così elevato da invadere la casa e, metonimicamente, ogni inquadratura, cosicché è quasi impossibile, per lo spettatore, udire la caduta del padre mentre rotola giù dalle scale. Si produce così un effetto spettatoriale non privo di interesse. Mentre Mitch e Lucy corrono a soccorrere il padre, avendo quindi sentito la caduta, visto che, data la loro posizione, non possono averla

vista, il volume della musica impedisce a Marylee di sentire, e di rendersi conto della tragedia. Ma neppure allo spettatore è dato di sentire ciò che sta avvenendo, benché egli invece sia stato posto in condizione di vedere la morte del signor Hadley. Pertanto, il testo impone allo spettatore di identificarsi parzialmente con Marylee – con la quale egli condivide la percezione del sonoro – mentre al contempo gli impedisce di identificarsi con Mitch e Lucy, i quali, come si è detto, non sentono la musica, ma la caduta. Se l’esperienza sensoriale dello spettatore è duplice, visiva e sonora, e quindi superiore a quella dei singoli personaggi, è però rilevante che l’unico tipo di identificazione offerta sia con Marylee e non con gli altri protagonisti. In ultima analisi, in questo episodio l’identificazione riguarda la sensazione che la musica e il ballo provocano sul corpo della donna, non la comprensione dell’azione. In relazione al pensiero teorico da cui siamo partiti, possiamo affermare, per concludere, che gli elementi attrazionali del cinema primitivo identificati da Tom Gunning sono presenti anche nei momenti più melodrammatici di Come le foglie al vento: impulso narrativo debole, esibizione teatrale in luogo di assorbimento narrativo, dominio del visivo sul narrativo. Peraltro, l’affermazione di Gunning che «il cinema delle attrazioni […] incita la curiosità visiva e dà piacere grazie ad uno spettacolo eccitante»18 è molto vicina all’idea di Altman che la componente melodrammatica del film classico riguarda la «spettacolarità e una varietà di emozioni forti»19. La convergenza tra la natura del melodrammatico e dell’attrazionale riguarda sia l’estetica che l’esperienza spettatoriale e dunque permette un’ipotesi di lavoro che può investire i diversi saperi sul cinema. Al tempo stesso, lavorare sulla dualità attrazione-racconto in relazione a specificità di genere, periodo, autore ecc. permette di concepire il “classico” come una pluralità di strategie e pratiche20, anche antitetiche tra loro, come un campo di apertura in cui, tra l’altro, si possono trovare i germi della modernità (nella sua versione hollywoodiana)21.

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[2.] 1-2. D. Sirk, Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956).

3. Moderno/postmoderno: elementi per una teoria In alcuni suoi interventi Jean-François Lyotard ha proposto una teoria dei «modi narrativi» secondo cui la specificità dei tre paradigmi identificati, classico, moderno e postmoderno, dipenderebbe da un diverso rapporto tra narrazione e conoscenza1. Tale rapporto si costituirebbe a partire dalle modalità con cui si relazionano le tre istanze del racconto: narrato, narratore e narratario. Nella narrazione classica l’atto narrativo deve essere reso invisibile affinché la conoscenza si insinui nell’oggettività della descrizione anonima. Narratore e narratario sono pure contingenze dominate dal referente/narrato. Nella narrazione moderna l’istanza privilegiata è quella dell’emittente e «la legittimazione della conoscenza si riferisce ad una capacità soggettiva di conoscere (razionalismo) o volere (romanticismo)»2. Il soggetto del racconto è lo scopo stesso del racconto, in quanto la narrazione serve a produrre una forte coscienza soggettiva. Questo aspetto differenzia, ma anche avvicina il moderno al classico, in quanto entrambi eleggono un’istanza del racconto a istanza metanarrativa: in questo senso, narrare significa in qualche modo essere svincolati dall’atto enunciativo. Sta qui la radicale differenza della narrazione postmoderna: nel postmoderno nessuna istanza domina metanarrativamente le altre poiché tutte sono implicate nel discorso. Nessuna istanza, in altre parole, è esterna alla narrazione. In particolare, la pretesa del soggetto moderno di essere l’origine della narrazione viene messa in questione. Secondo Lyotard la cultura ebraica è stata particolarmente sensibile a pratiche di questo tipo: nella cultura ebraica il soggetto è, innanzitutto, destinatario della parola di un Dio inaccessibile, la cui posizione di emittente il soggetto umano non può mai occupare. Particolarmente interessante è, in questo ambito, la figura del Cashinahua, che ha la funzione di narrare storie di cui è stato in precedenza destinatario. Il Cashinahua, in altri termini, non è l’emittente, l’origine del proprio racconto, ma colui che trasmette un racconto precedentemente sentito3. Non è difficile scorgere in queste suggestioni teoriche elementi di forte somiglianza con alcune influenti teorie sui modi della rappresentazione cinematografica. La possibilità di adattare la teoria di Lyotard a un ambito particolare, il cinema, per il quale non era stata specificamente pensata, è il segno di come queste modalità – che per il filosofo francese non sono necessariamente diacroniche – siano diffuse nella cultura occidentale. Partendo da questi presupposti, vorrei avanzare un’ipotesi su come possa essere pensato il rapporto tra narrazione moderna e postmoderna. L’analisi metterà in relazione alcune teorie particolarmente significative – Metz, Bordwell, Jameson – con pratiche cinematografiche – quali il cinema d’autore italiano degli anni sessanta, Chantal Akerman, il cinema contemporaneo americano – che possono essere inscritte nell’ambito della modernità o della postmodernità. Particolare rilevanza sarà data alla diversa articolazione delle istanze narrative così efficacemente evocate da Lyotard: tale discorso trascinerà inevitabilmente nella discussione altre fondamentali categorie, per esempio quelle di autore, stile, soggetto. MODERNITÀ, STILE, AUTORE

Nel saggio Il cinema moderno e la narratività (1966), un intervento, a mio avviso, non sufficientemente considerato, Christian Metz avanza delle ipotesi teoriche sullo statuto narrativo e rappresentativo della produzione cinematografica a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, ciò che già allora veniva definito «cinema moderno»4. Metz interviene nel dibattito critico nel tentativo di definire la natura della nuova forma

filmica in rapporto al cinema classico. L’intervento di Metz è assai complesso poiché mette in gioco numerosi elementi; in particolare, la difficoltà principale sembra derivare dal voler coniugare l’analisi del fenomeno in generale con quella di autori, film e dispositivi particolari. Il desiderio di sistematizzare è, ovviamente, un tratto imprescindibile della natura del teorico francese. Ma l’oggetto, in questo caso, non si lascia né modellare né ridurre a teoria, e Metz, mi sembra, cede volentieri, magari inconsapevolmente, al fascino di alcuni film e di particolari tecniche e scelte stilistiche (specialmente godardiane). Nonostante l’autore cerchi di ricondurre questi tratti sotto l’egida del linguaggio e del codice, in realtà ci riesce solo in parte. Il saggio sembra implicitamente suggerire che il cinema moderno può essere definito in termini di codicità solo a un livello molto alto di astrazione, ovvero rinunciando a rendere conto dello stile. Proprio perché la modernità cinematografica si configura come una pluralità di stili autoriali la loro riduzione a codice svilisce la forza dei procedimenti stilistici. Devo ribadire, per evitare fraintendimenti, che l’analisi di Metz non pone come proprio oggetto il rapporto codicestile e che, d’altronde, l’autore non parla nemmeno di stile autoriale. Questi aspetti costituiscono una proposta interpretativa del saggio anche, e soprattutto, nella prospettiva delle tesi sull’argomento avanzate da David Bordwell e che analizzerò in seguito. Metz si pone come primo obiettivo quello di contrastare l’idea, a suo avviso piuttosto consolidata, che il cinema moderno sia antinarrativo e abbia scardinato la funzione principale, quella narrativa appunto, che il cinema, grazie al successo della forma classica, aveva storicamente acquisito. In secondo luogo, il cinema si sarebbe liberato dalle regole: Metz è particolarmente interessato a contestare questo «grande mito libertario che […] sottintende e […] anima tutte quante» le posizioni critiche emerse5. La prima questione, quella della narratività, mi sembra in realtà la meno interessante, la più scontata: Metz afferma che il cinema moderno è, al contrario, più narrativo di quello classico in quanto ha ampliato sia l’immaginario che le tecniche narrative (per esempio l’attesa e il tempo morto in Antonioni). Alla seconda questione, l’assenza di regole, Metz dà una risposta di maggiore consistenza teorica e senz’altro più produttiva. L’assenza di regole può essere pensata solo se si crede nel suo opposto, «un insieme di prescrizioni derivanti da un’estetica normativa»: ma quest’idea è superata. In realtà, afferma Metz, il cinema mostra «un certo numero di configurazioni strutturali che sono leggi di fatto, esse stesse in continua evoluzione nella loro particolarità»6. La cosiddetta «sintassi cinematografica», dunque, si rinnova e si arricchisce attraverso la sparizione momentanea di alcune figure, la loro variazione e maggiore duttilità (basta pensare, per esempio, alle innumerevoli riscritture cui Godard sottopone il campo e controcampo), o ancora, grazie all’invenzione di procedimenti, come la «sequenza potenziale» in Pierrot, le fou7. L’emergenza di un nuovo codice significa, dunque, attivazione di nuovi dispositivi narrativi. L’argomento cui Metz dà maggior spazio, e che è particolarmente utile in questo contesto, riguarda la possibilità/impossibilità di dare una definizione generale delle diverse esperienze del moderno. Mentre è facile definire il moderno come un «superamento» del classico, appare più problematico comprendere i caratteri di questo superamento. Metz passa in rassegna una serie di proposte dimostrando come ciascuna di esse valga solo per pochi film o autori: dal «cinema dell’improvvisazione» (Godard) al «cinema della sdrammatizzazione» (Antonioni), dal cinema del «realismo» (Godard,

Truffaut, Antonioni ecc.) al suo opposto, il «cinema regolato» (Resnais), solo per nominarne alcuni, il cinema moderno appare come un coacervo di pratiche accomunate solo dal fatto di rompere le regole classiche. Se la conclusione alla domanda di partenza è che il nuovo cinema ci dà «racconti più differenziati, più ramificati, più complessi»8, le micro-analisi che via via Metz ci consegna non rivelano solo l’emergenza di nuovi codici o il rinnovamento di dispositivi narrativi. Da un punto di vista comunicativo, infatti, gli esempi più significativi non si discostano molto l’uno dall’altro in quanto ci descrivono tutti, per certi versi, personaggi e racconti deboli o relativizzati: pensiamo alla definizione di tempo morto in Antonioni, «alla decifrazione incerta e problematica […] fra l’ambiguità e l’indovinello» del cinema di Resnais, alle varianti possibili della fuga di Karina e Belmondo in Pierrot, le fou, così bene espresse dalla ripetizione molteplice dello stesso avvenimento9. In secondo luogo, se guardiamo alle modalità della messa in scena, al rapporto tra filmico e profilmico, le micro-analisi di Metz fanno emergere come costante la compresenza di due atteggiamenti antitetici: da un lato un impulso realista, che Metz considera tra «le conquiste più preziose» del cinema moderno, teso alla rivelazione di «un certo tipo di verità che assai di rado si trovava nelle grandi opere del passato, verità infinitamente difficile da definire, ma che si localizza istintivamente. Verità di un atteggiamento, di un’inflessione di voce, di un gesto, giustezza di un tono…»10. D’altro canto è riscontrabile un altrettanto frequente impulso metalinguistico. La comunanza di tali atteggiamenti, in autori assai diversi, non nasconde il fatto che, nonostante Metz non sia interessato a questo aspetto, le differenze tra autore e autore sono in primo luogo stilistiche. La questione dello stile in generale, e degli stili autoriali in particolare, è uno degli argomenti che l’intervento di Metz suggeriva e che, al contempo, doveva necessariamente porre ai margini. Risolte da tempo le questioni relative alla narratività e al rapporto col cinema classico si può guardare al cinema moderno d’autore come a un fenomeno a più facce: da un lato, vi sono tratti ricorrenti e che accomunano i diversi autori, dall’altro, le peculiarità di ciascun regista rendono necessaria una mappatura più dettagliata che non mortifichi troppo le singole individualità. SOGGETTIVITÀ, STILE

È indubbio che gli studi autoriali, in Italia e altrove, hanno investigato le poetiche individuali, l’autorialità dei singoli registi da svariati punti di vista, mentre assai scarso è stato l’interesse a guardare al cinema d’autore in termini più vasti, oltre i limiti del singolo autore. In realtà, si può pensare al cinema d’autore teoricamente, considerandolo una sorta di genere. Il denominatore comune è l’interesse a narrare l’io, la soggettività: parafrasando il titolo di un bel saggio di Elena Pulcini, «la passione del moderno è l’amore di sé»11. Pulcini ha dimostrato che l’io moderno ha assunto forme diverse, dall’io razionale e ancora rinascimentale di Cartesio, caratterizzato da «un’antropologia della pienezza» all’io chiaroscurale di Montaigne, sino al soggetto hobbesiano, marcato da «un’antropologia della mancanza», e alle varie forme di io scisso che trovano nel modello freudiano la formulazione ultima12. Il cinema d’autore moderno, in primis quello italiano, ha eletto la crisi del soggetto a tema privilegiato, presentando ossessivamente racconti di introspezione narcisistica o di conclamata incapacità dell’io di capire sé e il mondo. A fronte di questo nucleo comune, ambientazioni e strategie stilistico-retoriche sono fortemente variegate. Evidentemente, lo stile ha anche risvolti epistemologici: non solo i diversi autori

presentano soggettività variamente articolate, ma loro stessi si pongono in rapporto diverso rispetto ai propri personaggi. Di particolare interesse sono le modalità tramite cui la figura autoriale, il soggetto dietro la mdp, si relaziona al soggetto davanti alla mdp, muovendosi, a seconda dei casi, dalla parziale identificazione alla presa di distanza. David Bordwell ha offerto, a mio avviso, le suggestioni più utili per pensare al rapporto tra cinema moderno d’autore, stile e soggettività. In The Art Cinema as a Mode of Film Practice, un breve articolo apparso nel 1979, e in Narration in the Fiction Film (1985), il teorico americano elabora un discorso di grande coerenza e utilità. Bordwell parte dall’idea che il cinema d’autore (art cinema) sia una pratica filmica specifica «che possiede un’esistenza storica ben definita, una serie di convenzioni formali e delle implicite procedure spettatoriali»13. In effetti, nonostante «i dispositivi stilistici e i motivi tematici possano variare da regista a regista, la funzione complessiva dello stile e delle tematiche rimane costante»14. Diversamente dal cinema classico il cinema d’autore privilegia il personaggio all’intreccio. Il racconto è irto di ellissi e le relazioni di causa-effetto sono fortemente allentate. Il «personaggio viene esibito» a scapito dell’azione: nel cinema d’autore il personaggio «è privo di tratti, motivazioni e scopi chiaramente marcati. Agisce in modo incoerente […] o mette in questione le proprie motivazioni […]. Se il personaggio hollywoodiano si affretta verso la meta, il protagonista del film d’autore scivola passivamente da una situazione all’altra»15. In modo simile alle opere del modernismo letterario, una delle sue fonti, il film d’autore vuole dare un giudizio sulla vita moderna e sulla condizione umana: il protagonista deve, in ultima analisi, ammettere a se stesso che sta vivendo una crisi esistenziale. L’enfasi sul personaggio è accompagnata da dispositivi formali e iconici adatti a esprimere gli stati mentali e umorali dell’io. Per quanto riguarda la figura autoriale Bordwell afferma che l’ostentazione sistematica di procedure narrative può essere compresa solo se si postula l’esistenza di un autore cosciente: anzi, l’autore «diviene una componente formale, l’intelligenza che controlla e presiede alla costruzione del film per la nostra comprensione». In luogo di divi e convenzioni di genere i tratti formali dell’autore, ripetuti film dopo film, danno forma a uno stile autoriale coerente. Per certi versi, sembra suggerire Bordwell, lo stile e l’autore diventano gli elementi con cui lo spettatore si identifica16. È utile, a questo punto, collegare la posizione di Bordwell alle suggestioni lyotardiane con cui avevamo iniziato. Nell’art cinema moderno l’autore è l’istanza del racconto che si erge a figura metanarrativa tramite il proprio stile personale. Ciò che veniamo a conoscere è la visione-interpretazione del soggetto autoriale. Come nelle opere del modernismo letterario l’autore, tramite il proprio stile, conferisce all’opera quell’unità che nel mondo non si può trovare. Decisivo è a questo proposito il rapporto autorepersonaggio. Se è vero, come afferma Bordwell, che il cinema d’autore moderno esibisce il personaggio, l’io, nella sua crisi esistenziale, l’istanza autoriale enunciativa è sempre distaccata dalla traiettoria diegetica del protagonista e tale distanza è solitamente maggiore alla fine del film. In altre parole, il personaggio è inizialmente l’alter ego dell’autore: evidentemente, l’ossessività con cui si narrano crisi e fallimenti, desideri incerti e mutevoli è il segno che l’autore ha più di un elemento in comune coi propri personaggi. I film raccontano sia la crisi che la presa di coscienza della debolezza dell’io: questa traiettoria, per certi tratti comune, si conclude normalmente con l’affermazione, da parte del-l’autore, del suo maggiore grado di consapevolezza. Le

dinamiche di identificazione e distanziazione tra autore e personaggio sono costruite, a mio avviso, proprio dallo stile che, dunque, interviene in modo decisivo a definire la specificità di ogni singolo autore rispetto agli altri. Consideriamo brevemente un esempio. Ne Il Gattopardo (1963) Visconti ha grande difficoltà a distaccarsi dal Principe17. Anzi, nonostante dichiarazioni di segno opposto, numerose scelte di messa in scena contribuiscono a stabilire una relazione assai stretta tra i due. Vi sono momenti in cui la posizione spaziale del regista (dietro la mdp) si sovrappone completamente a quella del personaggio. Si tratti di casi in cui Visconti utilizza la soggettiva non secondo le canoniche regole classiche – mostrandoci, cioè, sia il soggetto guardante che l’oggetto guardato – ma tenendo fuoricampo l’agente di sguardo, ovvero don Fabrizio. Particolarmente efficace è l’episodio in cui Tancredi porta i garibaldini a villa Salina: mentre il Principe descrive al generale gli affreschi del salone, il suo punto di vista viene inscritto sia nella dimensione visiva che in quella sonora. Da un lato vediamo, letteralmente, tramite l’occhio del protagonista: i movimenti e le angolazioni della mdp variano a seconda della posizione di don Fabrizio, assumendo tratti chiaramente antropomorfici; dall’altro sentiamo il racconto del Principe la cui voce rimane, come il suo corpo, fuoricampo per tutta la sequenza. È altresì evidente che, in questo modo, personaggio e regista vengono a trovarsi nella medesima posizione: fuoricampo, dietro la mdp Visconti vede con gli occhi del Principe e la figura del regista si fonde con quella del personaggio. Qui, l’identificazione è massima. Tuttavia, questa importante strategia è impiegata sporadicamente. Benché il rapporto autore-personaggio sia di grande complicità, il film nel suo complesso è organizzato e controllato da Visconti a tutti i livelli, sino al dettaglio irrilevante. L’istanza autoriale permea ogni scelta dando al film una tessitura altamente autoriflessiva. Particolarmente significative sono le scelte compiute dal regista nella configurazione del profilmico18: dalla scelta di arredi e oggetti, ai restauri e ritocchi apportati ad ambienti e palazzi sino alla rete di citazioni pittoriche e figurative, Il Gattopardo esprime non solo il mondo del Principe, ma, soprattutto, il mondo culturale e artistico del regista: questo è forse il tratto che meglio esprime l’autorialità di Visconti. Per Visconti la comprensione del mondo non può che avvenire attraverso il filtro dell’arte e della cultura. Altri esempi particolarmente significativi nel panorama autoriale degli anni sessanta italiani sono, per esempio, 8½ di Fellini e Prima della rivoluzione (1964) di Bertolucci: in entrambi il rapporto autore-personaggio ha tratti simili a quelli riscontrati ne Il Gattopardo, con un’orchestrazione calibrata delle dinamiche di identificazione e distanziamento. Ma, evidentemente, tutto il cinema autoriale può essere visto attraverso questa lente. Rinviando ad altra sede ricerche più articolate, vorrei ribadire, per concludere, che la possibilità di «pensare teoricamente» il cinema d’autore passa attraverso la costituzione di un corpus concettuale capace di andare oltre la personalità del singolo autore, alla ricerca anche di ciò che accomuna i diversi autori. La questione del soggetto e dell’identità mi sembra un valido punto di partenza, proprio perché è uno dei grandi temi della modernità. Analizzare il rapporto tra soggetto autoriale e soggetto diegetico, sia attraverso le dinamiche enunciative che stilistiche, permette di tracciare un quadro articolato delle poetiche dell’io senza per questo cancellare i segni e le tracce del discorso autoriale. POSTMODERNO, DISCORSO, INDETERMINAZIONE

Concepito come istanza esterna al racconto, con capacità conoscitive e riflessive ben superiori a quelle del suo personaggio, l’autore dell’art cinema ha le caratteristiche dell’autore moderno tout court, la cui funzione è anche quella di criticare e negare il mondo rappresentato. Secondo Fredric Jameson è proprio la «distanza critica», termine «un tempo caro» alle pratiche artistiche della modernità, a venire meno col postmoderno19. Non è certamente possibile, in questa sede, rendere conto in modo esaustivo del dibattito sul postmoderno e nemmeno della posizione di Jameson. Mi limiterò a proseguire la traiettoria tracciata all’inizio sviluppando solo quegli argomenti funzionali al discorso concettuale avviato. Innanzitutto si può stabilire una relazione tra la perdita della distanza critica e il mutato statuto dell’autore. Evidentemente, non è l’autore in sé a venire meno, e nemmeno il fatto che esistano stili e visioni individuali: col postmoderno si perde la funzione egemonica dell’autore come ultimo garante della verità per lo spettatore. Tale perdita trascina con sé altri mutamenti: la condizione del referente e del destinatario, le altre istanze del racconto, non possono rimanere inalterate. Ho rintracciato, nella produzione cinematografica contemporanea, tre fenomeni di particolare interesse. Il primo e più generale cambiamento riguarda, per riprendere il paradigma lyotardiano, l’assenza di istanze metanarrative. Testo, autore e spettatore diventano posizionalità discorsive e nessuna di esse può avanzare pretese di dominio; pertanto, il senso non può essere trovato o conferito, ma è il prodotto delle relazioni contingenti e materiali tra le tre diverse istanze. Porterò come esempio il cinema di Chantal Akerman e in particolare il film Je, tu, il, elle (1974). Da questa macro-tendenza discendono almeno altre due prospettive: da un lato l’immagine può assumere uno statuto indeterminato (si vedano, per esempio, Videodrome, 1983, di David Cronenberg e Mulholland Drive, 2001, di David Lynch); dall’altro l’esperienza spettatoriale – lungi dall’essere prettamente intellettuale come nel cinema d’autore moderno – diventa soprattutto fisica, sensoriale, affettiva (Akerman, Lynch ecc.)20. Cominciamo da Chantal Akerman. Anche in virtù del suo apprendistato col cinema strutturale e minimalista nella vivace New York dei primi anni settanta, Chantal Akerman ha sin dall’inizio posto la questione dello spettatore al centro delle sue riflessioni. Per la regista belga lo spettatore deve essere un «vero Altro» rispetto all’immagine: anziché essere assorbito dalla storia, trasportato dentro il film, deve rimanere di fronte allo schermo e vivere il tempo della visione nel suo flusso, «non dimenticare mai se stesso» e la propria condizione21. La regista realizza queste finalità non solo con una serie di strategie retorico-formali – per esempio l’inquadratura frontale e fissa, la distanza della mdp, il piano-sequenza, la voice over – ma con un uso assolutamente peculiare della propria soggettività. È chiaro che Akerman non può non assumere la funzione tradizionale del regista di organizzare il mondo diegetico e, più in generale, la forma del film. Tuttavia, l’atteggiamento della film-maker nei confronti del materiale filmico è totalmente diverso: rifiuta di guardarlo a distanza, dal di fuori, come in un rapporto tra soggetto e oggetto, ma iscrive se stessa materialmente, con il corpo e con la voce, nel film. Ma Akerman non è, semplicemente, l’attrice dei suoi film. Nelle opere più radicali la soggettività della regista è divisa, scissa, assume posizionalità diverse: può essere davanti alla mdp (Je, tu, il, elle e L’homme à la valise, 1984), oltre che dietro, nel tradizionale spazio del regista; oppure può fare sentire solo la sua voce e rimanere fuoricampo – come in Jeanne Dielman (1975), dove Chantal è la vicina di casa della

protagonista, cui affida il proprio bambino, e che sentiamo solo da dietro la porta, ma non vediamo mai –; oppure può essere una voce che rimane extradiegetica, come in News from home (1976). In ogni caso la regista si pone in uno o più spazi discorsivi attivando al contempo quello dello spettatore. Akerman rompe la separazione tra istanze narrative e costruisce una rete di relazioni tra referente, emittente e destinatario tipicamente postmoderna: il senso non è dato, ma mostrato come processo. L’inizio di Je, tu, il, elle è in tal senso indicativo. Nella prima inquadratura vediamo una stanza da letto: il letto al centro, sulla sinistra altri mobili, sulla destra la regista è seduta con le spalle verso la mdp. Oggetto tra gli oggetti, il corpo di Chantal ha qui una mera funzione compositiva. La ripresa statica e frontale, che continuerà anche nelle inquadrature successive, pone lo spazio spettatoriale come assolutamente altro rispetto alla diegesi. Nei due piani successivi vediamo la stessa stanza: ora, però, la disposizione degli elementi è variata. Nella seconda inquadratura Chantal è seduta, più lontana dalla mdp, poi si va a stendere sul letto. Guarda verso il fuoricampo, poi, nella terza inquadratura, si rivolge alla camera con aria di sfida interpellando direttamente lo sguardo dello spettatore. Dunque, mentre inizialmente appare poco interessata alla presenza della mdp, con la terza inquadratura la regista costringe lo spettatore a focalizzare la sua attenzione su di lei. Così, i primi piani del film mostrano il processo tramite cui viene stabilito un contatto tra il profilmico e lo spettatore: questo ha luogo attraverso una diversa disposizione spaziale degli oggetti e, soprattutto, tramite l’iscrizione dello sguardo. Chiamando in causa lo spettatore Chantal chiede di essere considerata nella sua qualità di performer: può avere uno statuto meramente compositivo o assumere connotazioni umane. È chiaro, in ogni caso, che il rapporto film-spettatore è mostrato come un atto cosciente – di cui vediamo il processo di formazione – in cui due soggetti sono chiamati a occupare ruoli e luoghi specifici. Un secondo importante elemento riguarda la natura del soggetto autoriale. Di Chantal non vediamo solo il corpo, ma sentiamo sin da subito la voce: si tratta di una voce extradiegetica che, in prima persona, racconta ciò che la regista fa. Ma tra immagine e suono non vi è una corrispondenza esatta: la voce racconta di fatti, gesti e azioni che non vediamo e non accenna a eventi di cui siamo testimoni. Questa differenza rende conto dello scarto temporale tra la dimensione verbale e quella visiva: come, tecnicamente, la pista sonora viene registrata e aggiunta dopo il momento delle riprese, così il racconto al passato della voice over appare come una sorta di ricordo, a posteriori, dell’esperienza vissuta dalla regista (e registrata dalla mdp). Ecco, dunque, che la scissione tra immagine e suono viene non solo mostrata ma vissuta sul corpo stesso della regista. Ma Chantal, a ben vedere, occupa anche una terza posizione, quella tradizionale dietro la mdp. In pochi istanti, stiamo parlando sempre delle prime tre inquadrature del film, Je, tu, il, elle configura un autore scisso in luoghi e momenti diversi. Questo gioco di spostamenti marca la costruzione di un rete di rapporti tra diegesi, autore, spettatore così che l’esistenza e lo statuto delle tre istanze è pensabile solo come discorso, come rapporto dell’una con le altre. In questo modo viene meno la possibilità di postulare l’esistenza di una posizione metanarrativa, garante dell’origine del senso. La tendenza appena descritta ha conseguenze sullo statuto specifico dell’immagine. A fronte del tipico procedimento moderno di investigare il rapporto realtà-finzione, il cinema postmoderno dichiara di non credere a questa dicotomia. L’immagine postmoderna è dominata dall’indeterminazione, e l’impossibilità di stabilire cosa sia

reale e cosa sia immaginato-sognato può spingersi sino alla creazione di mondi paralleli22. Il cinema di Lynch è, a tale proposito, uno degli esempi più radicali23. Consideriamo brevemente Mulholland Drive. Il film esaspera il rapporto appena evocato giungendo a un grado di consapevolezza dei meccanismi narrativi di rado raggiunto. Intanto, il film mette in discussione i normali meccanismi di visione e comprensione dello spettacolo filmico: lo spettatore ha bisogno almeno di una seconda visione per capire con precisione il rapporto tra le due parti del film. Una prima visione, ancorché attenta, ci permette solo di intuire il rapporto tra sogno e realtà che, invece, diventa più chiaro dopo una re-visione. La prima parte costituisce il sogno di Diane di diventare una star del cinema, mentre la seconda rappresenta la realtà del fallimento e della disillusione della protagonista. Ma la chiave di lettura non è data dal film – il meccanismo narrativo non viene spiegato, anche se la diversa qualità dell’immagine sembra di per sé denotare la prima parte come onirica e la seconda come «reale» – ma da procedimenti che, comunque, rispecchiano il modo in cui questo rapporto è stato spiegato da Freud. Vi è una serie di macro e micro inversioni e cambiamenti tra le due parti che mostra sia la presenza dei residui diurni che il lavoro del sogno24. Ci sono tuttavia alcuni elementi incoerenti25, non spiegabili dal rapporto sogno-realtà, e una sequenza, quella del Club Silencio, dallo statuto incerto, con una valenza più metaforica che diegetica. A questo punto, la chiarezza quasi cristallina del film comincia a vacillare. C’è da chiedersi, in primo luogo, se l’intento di Lynch fosse proprio quello di far compiere allo spettatore un tour de force cognitivo. Ci sono elementi per dubitarne: se questo era lo scopo allora tutti i tasselli dovrebbero trovare il proprio posto. In secondo luogo, il progressivo dipanarsi della «realtà», nella seconda parte del film, manca del tratto che solitamente contraddistingue la rivelazione di una qualsivoglia realtà. Non vi è mai la sensazione di passare da una condizione indeterminata alla certezza: la supposta realtà non ha alcuna parvenza di verità, è indeterminata tanto quanto il sogno. L’esperienza che domina, dall’inizio alla fine, è quella della sospensione e dell’incertezza ontologica. Tale statuto è dovuto, almeno in parte, alla scelta di presentare il sogno, non la realtà, come prima condizione: così facendo, diversamente dai canoni del cinema narrativo, Lynch pone il sogno come termine di riferimento. In secondo luogo, le due realtà, la psichica e la fenomenica, possono essere chiaramente differenziate solo se vengono presentate in modo conflittuale, tramite la figura chiave dell’alternanza: qui, invece, vengono semplicemente poste l’una di fianco all’altra, non tanto per escludersi a vicenda ma per rivendicare eguali diritti. Più che essere mondi opposti finiscono per essere, a mio avviso, mondi paralleli: ma postulare l’esistenza di mondi paralleli equivale, automaticamente, a negare che esista una dicotomia tra realtà e finzione. Mettendo in discussione lo statuto dell’immagine Lynch sovverte, in modo concettualmente simile a Akerman, i cardini della narrazione moderna. L’esperienza spettatoriale ne esce rafforzata in modo sostanziale. In entrambi i casi, la riflessione sui meccanismi di produzione del senso non ha come fine solo l’accesso al mondo (spesso solipsistico) dell’autore, ma implica il riconoscimento del regime discorsivo di ogni atto espressivo e la consapevolezza del carattere situato, dunque mutevole, di tutti i soggetti implicati. A fronte della relativizzazione della conoscenza, il cinema moderno trovava nell’iperinvestimento sul soggetto autoriale l’unico garante del senso, ancorché parziale. Per l’autore postmoderno, al contrario, la produzione del senso passa attraverso la consapevolezza di dati meccanismi: enunciativi, narrativi, intertestuali

ecc. In questo processo è però fondamentale che lo spettatore raggiunga un simile grado di riflessività. All’identificazione con l’autore il postmoderno sostituisce quella con i processi di costruzione del testo, di cui l’autore costituisce solo una delle istanze.

4. Il cinema d’autore italiano degli anni sessanta (e oltre): classico, moderno, postmoderno PER UNA TEORIA DEL CINEMA D’AUTORE

Gli anni sessanta sono spesso considerati, insieme agli anni venti, il decennio più innovativo della storia del cinema. Il contributo del cinema italiano a questo periodo così speciale è stato, com’è ben noto, di primaria importanza. Insieme alla precedente esperienza del neorealismo, il cinema d’autore italiano degli anni sessanta è responsabile della transizione, di portata mondiale, dal cinema classico a quello moderno. O, per dirla con Gilles Deleuze, dal cinema dell’«immagine movimento» a quello dell’«immagine tempo»1. Nel periodo che va dal 1945 al 1970 circa, nessun altro cinema nazionale, nemmeno quello francese, ha prodotto una quantità di film e di tendenze stilistiche importanti che risulti paragonabile a quella prodotta dal cinema italiano. In questo capitolo prenderò in esame il cinema d’autore degli anni sessanta, delineandone i contorni formali e ideologici in relazione a scenari transnazionali. Essere un autore, nel cinema degli anni sessanta italiano (ed europeo), non significa semplicemente manifestare uno stile personale. L’autorialità risulta inestricabilmente intrecciata a un complesso di dinamiche relative alla modernità, e specificamente alle nozioni di soggetto moderno e di arte moderna. Il cinema d’autore di questo periodo è insomma una manifestazione specifica di una tendenza più ampia, inaugurata all’inizio del Novecento. Jean-François Lyotard ha proposto una teoria dei «modi narrativi» che prevede tre paradigmi distinti: il classico, il moderno e il postmoderno2. Secondo la sua visione, la specificità di ciascun paradigma dipende da una diversa relazione tra narrazione e conoscenza. Tale relazione è a sua volta basata sui modi in cui le tre istanze di narrato, narratore e narratario si connettono le une con le altre. La classicità privilegia il referente (narrato) rispetto all’emittente (narratore) e al destinatario (narratario). Nel classico, il narratore e il narratario sono «mere contingenze relative alla verità del narrato»3. Al contrario, nel moderno è l’istanza del narratore a risultare privilegiata rispetto al referente e al destinatario. La modernità «richiede per prima cosa un soggetto, l’istanza di un Io, qualcuno che parli in prima persona. Essa richiede insomma una specifica disposizione temporale […] la cui prospettiva sul passato, il presente e il futuro proviene sempre dal punto di vista»4 di una coscienza specifica. Questo centro soggettivo di coscienza è una figura prettamente moderna. Il risultato è che, come avveniva già con il classico, anche il moderno «elev[a] una delle istanze della narrazione ad una posizione che le permette di assumere il controllo della narrazione dall’esterno, diventando un’istanza metanarrativa»5. Come vedremo, le osservazioni di Lyotard a proposito dei modi narrativi richiamano i contributi di altri studiosi sulla teoria delle forme filmiche, e possono dunque essere facilmente estese all’analisi del cinema. In questa sezione introduttiva, delineerò una cornice teorica utile per la riflessione sul cinema d’autore, alla luce del paradigma della modernità e dei concetti di soggettività, narrazione e stile. Una delle mie tesi è che l’autorialità goda in questo frangente storico di uno status eccezionale, che d’altronde non dura a lungo. La parte centrale del capitolo sarà dedicata a tre registi importanti come Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. Nell’ultima sezione prenderò invece in considerazione lo

sviluppo delle traiettorie autoriali di Antonioni e Fellini dopo gli anni sessanta, e insieme ad esse la carriera di Nanni Moretti, allo scopo di mostrare come l’autore moderno venga infine soppiantato da quello postmoderno. Gli studi italiani hanno teso a contrapporre il cinema d’autore e il cinema di genere: un’opposizione radicata in una distinzione netta tra le sfere dell’arte e dell’intrattenimento. Una categorizzazione di questo tipo non è appannaggio esclusivo del contesto italiano, naturalmente; gli studiosi italiani si sono però mostrati più riluttanti di altri a elaborare un paradigma meno dicotomico. Più nello specifico, a partire da una concezione dell’arte di stampo romantico, gli studi sull’autore hanno investigato lo status artistico dei singoli registi in termini di stile e di poetica. Il principio generale della teoria dell’autore è implicitamente basato su ciò che M.H. Abrams ha chiamato la teoria espressiva dell’arte: «un’opera d’arte è essenzialmente l’interno reso esterno, risultante da un processo creativo che opera sotto l’impulso del sentimento e rappresentante il prodotto complessivo delle percezioni, dei pensieri e dei sentimenti del poeta»6. Non c’è stato di conseguenza alcun tentativo di guardare al cinema d’autore in termini più ampi, andando cioè oltre il contesto specifico del singolo regista. Sostengo che sia invece possibile elaborare una riflessione teorica a proposito del cinema d’autore, e che il cinema italiano degli anni sessanta sia particolarmente adatto a tale progetto. Al di là delle differenze stilistiche, infatti, la maggior parte dei registi del cinema d’autore di questo periodo mostra preoccupazioni notevolmente simili: al punto tale che si potrebbe parlare del cinema d’autore nei termini di un vero e proprio genere. Il massimo comune denominatore potrebbe essere trovato, parlando in termini ampi, nell’interesse per la soggettività: il cinema d’autore narra ossessivamente la traiettoria del “sé” che cerca di venire a patti con il “mondo”. Faccio qui riferimento a un saggio della filosofa Elena Pulcini, La passione del moderno: l’amore di sé7. Se tale enfasi sul sé e sulla soggettività costituisce in generale una posizione specificamente moderna, al tempo stesso, sottolinea Pulcini, il soggetto moderno ha assunto forme e guise assai diverse. Mentre il sé razionale cartesiano è caratterizzato da «un’antropologia della pienezza», infatti, la concezione del sé di Hobbes è viceversa marcata da «un’antropologia della mancanza»8. La filosofia occidentale ha d’altronde elaborato diverse teorie della soggettività e della coscienza scisse, teorie culminate poi nel modello freudiano9. In effetti, il cinema moderno d’autore si occupa primariamente di soggetti deboli, di crisi esistenziali e di trame narcisistiche e introspettive. Naturalmente, anche se la maggior parte degli autori condivide l’attenzione verso queste tematiche, il contesto sociale, così come le strategie stilistiche e retoriche, variano in modo significativo da regista a regista. Lo stile costituisce un elemento importante perché è direttamente correlato alla dimensione epistemologica, è il mezzo tramite cui la conoscenza viene espressa o comunicata. Risulta allora particolarmente interessante analizzare la relazione tra il personaggio di finzione e l’autore del film: quando parliamo di sé e di soggettività stiamo in effetti parlando di entrambe queste entità. Tale relazione è un elemento fondamentale del cinema d’autore, e può collocarsi in uno spettro che oscilla grossomodo dalla parziale identificazione alla netta presa di distanza. Gran parte del “messaggio” del film dipende dal modo in cui viene articolata questa dicotomia. David Bordwell ha proposto una teoria del cinema d’autore-moderno di grande utilità. Concentrandosi principalmente sulla Nouvelle Vague francese e sul cinema d’autore

italiano degli anni sessanta, in The Art Cinema as a Mode of Film Practice e Narration in the Fiction Film10, Bordwell parte dall’assunto che il cinema d’autore sia una pratica filmica specifica «che possiede un’esistenza storica ben definita, una serie di convenzioni formali e delle implicite procedure spettatoriali»11. Il cinema d’autore è per Bordwell un fenomeno internazionale che emerge dopo la Seconda guerra mondiale. I film del neorealismo più maturo costituiscono il primo esempio di questo “genere”, che si è poi diffuso su scala mondiale negli anni cinquanta e sessanta con autori quali Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Ingmar Bergman, Alain Resnais, i registi della Nouvelle Vague francese e così via12. Uno degli scopi di Bordwell è «mostrare che per quanto i dispositivi stilistici e i motivi tematici possano variare da regista a regista, la funzione complessiva dello stile e delle tematiche rimane costante»13. Al contrario della narrazione classica, il cinema d’autore privilegia il personaggio rispetto alla trama: quest’ultima è infatti molto lacunosa, e la logica di causa-effetto finisce dunque per sfaldarsi. Da una parte l’azione viene minimizzata e dall’altra «il personaggio viene esibito»: il protagonista del cinema d’autore «tende ad essere privo di tratti, motivazioni e scopi chiaramente marcati. Agisce in modo incoerente […] o mette in questione le proprie motivazioni […]. Se il personaggio hollywoodiano si affretta verso la meta, il protagonista del film d’autore scivola passivamente da una situazione all’altra»14. Come avviene anche nell’ambito del modernismo letterario, il film d’autore vuole esprimere un giudizio sulla vita moderna e sulla condizione umana. Il protagonista dell’art cinema deve ammettere a se stesso/a che sta affrontando una crisi di portata esistenziale. L’enfasi sul personaggio è accompagnata da espedienti formali e iconici atti appunto a esprimere gli stati mentali e umorali dell’io. Possiamo pensare, per esempio, alla scelta di Fellini di dare forma drammatica alla vita psichica di Guido in 8½ (1963) per mezzo del grandangolo e della focale corta. Un altro esempio è l’uso del paesaggio da parte di Antonioni. Vista l’accresciuta importanza dei personaggi, il punto d’ingresso dello spettatore nel film può anche limitarsi esclusivamente ad essi. Il ruolo assegnato al personaggio sembra però essere strettamente correlato a quello svolto dal regista. Bordwell afferma che il cinema d’autore mostra una tendenza a «sbandierare i propri procedimenti narrativi»15, e lo fa in modo talmente sistematico da rendere evidente che essi non possono che originarsi in un autore. L’autore perciò «diviene una componente formale, l’intelligenza che controlla e presiede alla costruzione del film per la nostra comprensione». In luogo di divi e convenzioni di genere, i tratti formali tipici di un autore, ripetuti film dopo film, diventano una firma riconoscibile. Essi danno forma a uno stile autoriale coerente, giungendo a un punto tale che, nonostante l’enfasi sul personaggio, lo spettatore può anche identificarsi con lo stile dell’autore anziché col protagonista e la diegesi, come invece avveniva nel caso della narrazione classica16. A partire da questi presupposti iniziali, nel resto del saggio esaminerò il modo in cui registi diversi drammatizzano la propria relazione con la modernità. La mia riflessione si articolerà tramite paradigmi cinematografici, filosofici e culturali. VISCONTI, AUTORE POPOLARE

Tra i principali autori del cinema italiano degli anni sessanta, Visconti è il meno moderno. Vorrei perciò iniziare il discorso accennando ad alcuni aspetti del dibattito sulla modernità, in modo da definire la posizione di Visconti rispetto alle categorie di autorialità, “arte alta” e cultura popolare. È in relazione a questo contesto discorsivo

che affronterò la politica visiva, narrativa e retorica di Visconti. Il mio scopo è quello di emancipare questo autore dal dominio esclusivo dell’“arte alta”, mostrando come il carattere precipuo della sua autorialità risieda in una particolare capacità di fondere le strategie del cinema d’autore e quelle della cultura popolare. Quando uscì Rocco e i suoi fratelli (1960), il critico marxista Guido Aristarco, il più fiero sostenitore di Visconti, affermò che il successo del film confermava ciò che egli aveva «sempre creduto», ovvero che il regista era «l’autore più tipicamente classico del cinema italiano del dopoguerra»17. Da una prospettiva diversa, se prendiamo in considerazione il già citato saggio di Christian Metz Il cinema moderno e la narratività18, rimaniamo sorpresi dall’assenza di Visconti. Scritto nel 1966, l’articolo di Metz è un’analisi ampia e teoricamente sofisticata dello status del cinema moderno nei primi anni sessanta. Visconti viene menzionato una volta sola insieme ad altri, e liquidato semplicemente come «un uomo di teatro»: il suo cinema non viene mai discusso e non si cita neanche uno dei suoi film. Né c’è in verità da sorprendersi di tale esclusione, visto che lo stile e la messa in scena di Visconti, e tutto il complesso del suo progetto estetico non sembrano condividere nessuno degli elementi di quello che Metz definisce «cinema moderno». Per Metz, il cinema moderno è rappresentato al meglio dalla «sdrammatizzazione» di Antonioni (un cinema degli spazi morti), dal cinema d’improvvisazione di Godard e dalla «dizione regolata» di Resnais. Soprattutto, Metz è affascinato da «un certo tipo di verità […] infinitamente difficile da definire […]. Verità di un atteggiamento, di un’inflessione di voce, di un gesto, giustezza di un tono […]. Tocchi altrettanto giusti si troveranno non soltanto in tutti i Godard, tutti i Truffaut e in certi Antonioni, ma anche»19 in Jacques Rozier, Joseph Losey, Ermanno Olmi, Vittorio De Seta, Dušan Makaveyev e altri. Tale dimensione è assente in Visconti, che preferisce rifarsi a standard più classici sia in termini di recitazione che di scelta delle inquadrature e organizzazione dello spazio. La posizione di Visconti rispetto alla classicità e alla modernità non è però così facile da determinare, nonostante l’opinione di Metz confermi paradossalmente quella di Aristarco. È infatti evidente che la sua opera non può essere meramente inscritta all’interno della categoria del cinema classico. Può essere allora utile adottare un approccio che consideri l’opera di questo autore nei termini di una convergenza di elementi antitetici. Il cinema di Visconti ha una natura duale, perché combina storie e temi intellettualmente stimolanti (traendoli da un’ampia messe di fonti letterarie e artistiche, specialmente la cultura italiana ed europea del XIX e XX secolo)20 con formule di genere (in particolare il melodramma e l’epica storica) i cui stili visivi sono altamente spettacolari. Per di più, l’impatto emotivo del melodramma risulta opposto alla presunta modalità riflessiva e intellettuale dell’“arte alta”. In modo simile, Visconti può far filtrare la propria visione personale tramite l’identificazione col suo protagonista, come avviene nel caso del Principe in Il Gattopardo (1963). L’enfasi sul personaggio non mette però mai in pericolo il primato del racconto, come viceversa accade spesso nel cinema d’autore-moderno. In Visconti svolgono una funzione primaria sia la narrazione, che è l’elemento centrale del cinema classico, che il personaggio e l’autore, che sono aspetti fondamentali del cinema moderno. Con poche eccezioni, è l’attento gioco tra le convenzioni del cinema d’autore-moderno e quelle del cinema popolare a definire l’opera di Visconti. Ciascun film negozia diversamente la posizione duale del cineasta, e dunque gli stili visivi, le modalità narrative, l’interpellazione spettatoriale e la visione autoriale vengono attivati seguendo di volta in volta parametri diversi. Incominciamo

con Rocco e i suoi fratelli. Questo film esemplifica, più di qualsiasi altro, il coinvolgimento di Visconti con il “popolare”. Mentre il tema e la trama del film riecheggiano esplicitamente La terra trema (1948), lo stile non potrebbe essere più diverso. Visconti si affida infatti al melodramma, ed è certamente a questo che si deve la popolarità di cui godette il film, che fu secondo per incassi al botteghino nella stagione 1960-1961, mentre Ben-Hur (William Wyler, 1959) era primo e Spartacus (Stanley Kubrick, 1960) terzo21. L’elaborazione del film fu fortemente influenzata dalla riflessione di Gramsci, e costituisce in effetti un eccellente banco di prova per uno dei suoi concetti più utili, quello di nazionalpopolare. Il sostrato gramsciano di Rocco e i suoi fratelli risulta evidente sia a livello tematico che stilistico-formale. Attraverso la traiettoria della famiglia Parondi, il film racconta la possibile alleanza tra il proletariato del Nord e la classe contadina meridionale «sotto l’egemonia del proletariato, allo scopo non solo di costruire una base di massa per l’azione politica, ma anche di esercitare una pressione che faccia saltare l’alleanza tra capitale industriale settentrionale e proprietà terriera meridionale»22. Anche da un punto di vista stilistico il registro melodrammatico del film risponde perfettamente alla posizione di Gramsci. Com’è noto infatti, nei suoi celebri scritti sul “carattere” della letteratura italiana, Gramsci aveva sostenuto che il melodramma fosse l’unica forma autenticamente nazionalpopolare della cultura nazionale (ovvero l’unica forma con una presa sul pubblico sufficientemente ampia da poter funzionare come piattaforma per una trasformazione delle coscienze in senso progressista ed egualitario), e che il cinema aveva assunto su di sé tale funzione, ricoperta in precedenza dal melodramma teatrale23. Nel narrare la traiettoria della famiglia Parondi, Visconti è riuscito a fondere, in modo molto efficace, il fenomeno sociale della migrazione meridionale verso il Nord urbano e industriale che ha caratterizzato l’Italia degli anni cinquanta, con le convenzioni del melodramma, e in particolare con il sottogenere del melodramma familiare. È probabilmente vero, come ha affermato Geoffrey Nowell-Smith, che Rocco e i suoi fratelli «non è un film interamente soddisfacente» a causa dell’incapacità di risolvere appieno il conflitto tra le sue due anime, quella epica (il viaggio della famiglia Parondi) e quella drammatica («la storia del triangolo Simone-Nadia-Rocco»)24. Sarebbe però forse ancor più appropriato affermare che il film è ambiguo, visto che, proprio come il melodramma familiare hollywoodiano degli anni cinquanta, esso è costruito sostanzialmente intorno a un divario tra narrazione e stile. Infatti, mentre gli eventi del racconto e la costruzione narrativa privilegiano Ciro Parondi, il personaggio moralmente positivo, che si integra nella Milano industriale, lo stile al contrario enfatizza fortemente, per mezzo dell’eccesso melodrammatico, i personaggi negativi, Rocco e Simone Parondi, che si rifiutano o sono incapaci di integrarsi. Nel melodramma ciascun personaggio è chiamato a svolgere un ruolo preciso, incanalando il proprio desiderio in modo da adeguarsi al modello di famiglia che questo genere si impegna a promuovere. Nel melodramma il conflitto narrativo e ideologico è perciò solitamente incentrato sull’opposizione tra un sistema di valori vecchio e uno nuovo. La posizione del genere in relazione al proprio materiale narrativo tende a un certo livello di ambiguità: mentre la storia sembra prendere le parti dei personaggi della classe media, e premia col lieto fine il loro comportamento sessuale controllato, se non addirittura puritano, lo stile del film privilegia viceversa i personaggi moralmente corrotti. Per questa ragione, i momenti più melodrammatici e memorabili del film sono

quelli in cui i personaggi moralmente anomali o perfino depravati esprimono il proprio desiderio eccessivo. In tali episodi è lo stile cinematografico stesso a diventare eccessivo: gli angoli di ripresa e i movimenti di macchina, i colori o le tonalità cromatiche, la musica e l’illuminazione esprimono visivamente l’eccesso degli impulsi e dei desideri inscritti nel corpo di questi personaggi. Parallelamente, le figure più controllate sono generalmente riprese con uno stile più sobrio e meno “interessante”. L’ambiguità del film risiede dunque nella sua costruzione di traiettorie opposte per la storia e per lo stile25. In Rocco e i suoi fratelli, sia Simone che Rocco sono personaggi eccessivi. Il triangolo Simone-Nadia-Rocco, nel quale due fratelli condividono la stessa donna, costituisce la principale trasgressione sessuale del film. La sessualità di Simone esprime d’altronde il proprio eccesso in numerosi modi: egli stupra Nadia, mentre i suoi amici obbligano Rocco ad assistere alla scena, e più tardi la uccide perché lei si rifiuta di iniziare una nuova relazione con lui. Simone inoltre si prostituisce con Morini, un uomo d’affari che ha incontrato durante la sua carriera di pugile. Da par suo, dopo aver deciso di lasciare Nadia, Rocco rifiuta ogni altra relazione sessuale o emotiva: una rinuncia che rappresenta anch’essa una forma specifica di trasgressione. Come nei melodrammi familiari hollywoodiani degli anni cinquanta, il momento più melodrammatico ed eccessivo del film coincide con l’evento sessualmente più carico, ovvero la scena in cui Simone uccide Nadia. Questa scena è del tutto simile, per funzione narrativa e stile visivo, alla scena della morte del padre in Come le foglie al vento, discussa nel capitolo 2, a rimarcare il registro transnazionale del melodramma familiare. Per contrasto, il personaggio di Ciro è caratterizzato in modo del tutto opposto, e il suo desiderio sessuale si incanala correttamente nella formazione di una famiglia borghese. Il commento di Gramsci secondo cui «il nuovo industrialismo vuole la monogamia, vuole che l’uomo lavoratore non sperperi le sue energie nervose nella ricerca affannosa e disordinata del soddisfacimento sessuale»26 si adatta perfettamente a Ciro Parondi. Lo stile risponde a questa dinamica: il trattamento visivo di Ciro è infatti assai semplice, evitando accuratamente tutti gli elementi formali eccessivi ed espressionistici del melodramma attivati invece per Simone, Rocco e Nadia. Visconti dunque articola le differenze narrative e tematiche del film in termini stilistici, creando una netta opposizione tra i personaggi che sono condannati a un destino tragico e coloro che sopravvivono. Mentre una codificazione dello stile in questi termini è tipica del melodramma, occorre viceversa sottolineare che è piuttosto raro trovare nell’opera di Visconti un tono ottimistico, un atteggiamento positivo nei confronti del cambiamento come quello riservato in questo film al personaggio di Ciro. In effetti la maggior parte dei successivi protagonisti di Visconti saranno personaggi radicati nel passato. Don Fabrizio, il protagonista del Gattopardo, rappresenta un esempio emblematico di questo discorso. Il Gattopardo fu un grande successo sia commerciale che di critica27. Il film rappresenta in effetti un esempio cruciale della natura duale dell’autorialità di Visconti, oscillante tra l’arte alta e la cultura bassa, il richiamo intellettuale e quello popolare, la riflessione e lo spettacolo. Il film è tratto da un testo letterario ‘serio’ che si occupa di eventi storici di grande importanza, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa28. Da un punto di vista visivo, il film è influenzato da un ampio spettro di movimenti pittorici del XIX secolo, dunque dall’arte alta. Ma Il Gattopardo mostra anche una predilezione per la trasformazione del pittorico in spettacolare (soprattutto grazie alla fotografia di

Giuseppe Rotunno, alle scenografie di Mario Garbuglia e ai costumi di Piero Tosi), una predilezione che è affine alla cultura popolare piuttosto che a quella alta. La modalità epica si adatta d’altronde a entrambe queste sfere: alla Storia così come alla sua popolarizzazione. Naomi Greene ha rintracciato tale dimensione di sdoppiamento dell’autorialità viscontiana sia in Senso (1954) che nel Gattopardo: «[entrambi i film] sono profondamente analitici nel loro approccio alla Storia, un approccio influenzato da una visione marxiana delle classi sociali e delle strutture economiche», e in questo modo «perfino l’estetismo più estremo […] risulta connesso ai temi di fondo» e «il palcoscenico della Storia e quello dello spettacolo si rivelano come territori interconnessi». «Come molti dei personaggi di Visconti», dunque, «il Principe di Salina nel Gattopardo è consapevole di essere un attore su di un palcoscenico, che è […] [insieme] quello della Storia e quello del film»29. Il Principe svolge numerose funzioni all’interno della narrazione, ed è il personaggio chiave che consente la collocazione del film all’interno dei contorni del cinema moderno. Ma Il Gattopardo è anche il testo perfetto per testare le idee di Lyotard e di Bordwell sui caratteri della rappresentazione moderna. Se correliamo i suggerimenti di Bordwell a proposito delle categorie di personaggio, autore e stile con l’idea di narrazione moderna proposta da Lyotard, possiamo sostenere che nel cinema moderno l’autore, tramite il suo stile personale, svolga una funzione metanarrativa. Il personaggio è fortemente legato all’autore e ne è spesso l’alter ego. Nel Gattopardo, è chiaro che Visconti si identifica fortemente con il Principe. Don Fabrizio è un personaggio coerente e le sue azioni “esprimono” la sua psicologia. In contrasto con l’incapacità dei personaggi moderni di comprendere il mondo che li circonda, Don Fabrizio è ben conscio delle dinamiche politiche del tempo. Egli non si sente però a proprio agio nel presente, ma solo nel passato. È proprio per sottolineare questo che Visconti lo mostra spesso intento nell’atto di guardare: il suo sguardo dunque non è vuoto come quello dei personaggi di Antonioni, bensì perfettamente consapevole. Particolare importanza rivestono, nel Gattopardo, le inquadrature in soggettiva: esse rappresentano una rottura rispetto alle convenzioni classiche, e inscrivono nel tessuto del film un grado assai significativo di identificazione tra Visconti e il suo protagonista. L’episodio in cui Tancredi visita villa Salina con due ufficiali garibaldini è ripreso tutto dal punto di vista di Fabrizio. In una palese rottura degli standard del cinema classico, non ci viene mai mostrato il soggetto dello sguardo, ma soltanto ciò che questi vede: il protagonista rimane infatti fuori campo per l’intero episodio (la prospettiva di Don Fabrizio è inscritta nella scena anche oralmente, tramite la descrizione degli affreschi che egli offre ai suoi ospiti). In questo modo, ci si rende conto che il cineasta e il protagonista occupano lo stesso spazio materiale dietro la mdp. Si potrebbe sostenere che in questo episodio personaggio e autore, da un punto di vista enunciativo, finiscano per coincidere. Il film però non è certo ripreso interamente tramite una prospettiva soggettiva. Pur essendoci grande complicità tra regista e personaggio, Visconti bilancia accuratamente personaggio e trama, punti di vista soggettivi e oggettivi. Il racconto rimane centrale, anche se non è sempre reso mediante l’azione, ma anche tramite momenti fortemente descrittivi. Il film rappresenta il passato secondo i canoni della tradizione letteraria ottocentesca, ovvero privilegiando la narrazione onnisciente per mezzo di una pluralità di punti di vista. A questo scopo, Visconti ha semplificato alcuni tratti stilistici del romanzo, per esempio l’uso da parte di Tomasi di Lampedusa del discorso libero

indiretto. E tale aspetto costituisce una componente centrale del progetto estetico viscontiano. Non solo il Principe è un personaggio coerente, ma il film stesso si presenta, sopra ogni altra cosa, come un’opera d’arte fortemente organica. Esso propone una struttura narrativa salda, accompagnata da uno stile di ripresa basato sui principi della centratura e della profondità di campo. Nel Gattopardo le sequenze sono generalmente demarcate tramite dissolvenze (una soluzione tipicamente classica) e, nel complesso, il montaggio è fortemente invisibile. La dimensione spaziale e la relazione tra spazio, personaggi e oggetti seguono il medesimo principio: lo spazio visivo «è una dimensione che non appare mai frammentata […] ma si presenta sempre nella sua integrità e completezza»30. Questi aspetti rendono conto del tardo classicismo di Visconti e della sua convinzione che il mondo sia leggibile e possa essere interpretato e rappresentato. Nonostante il personaggio del Principe serva al regista per articolare una riflessione sul processo di formazione dell’Italia unita, il gusto per lo spettacolo e la funzione di intrattenimento non vengono mai abbandonati. Anche l’apporto di alcuni cambiamenti rispetto al romanzo va in questa direzione: le scene spettacolari, come quella del ballo, e gli episodi storici della battaglia di Palermo sono infatti investiti di una ben maggiore enfasi nel film rispetto al racconto d’origine31. La perfetta imbricazione di arte alta e arte popolare proposta da Visconti appare evidente se consideriamo la funzione complessiva che il regista assegna allo spettacolo: si può infatti dire, in sintesi, che Visconti trasformi l’arte stessa in spettacolo. Mentre lo stile visivo del film è stato concepito in relazione a numerose tradizioni pittoriche ottocentesche, come quella dei Macchiaioli32, tale densità culturale si sviluppa di pari passo con il registro spettacolare. In fin dei conti, i due livelli – l’arte alta e quella popolare – coesistono fianco a fianco. Occorre anche considerare che Il Gattopardo fu concepito quasi come un blockbuster: il produttore, Goffredo Lombardo, investì infatti una grossa somma di denaro e iniziò a finanziare una campagna di stampa molto prima dell’inizio delle riprese. Il fatto che il romanzo stesso fosse stato un best-seller contribuì parimenti alla pubblicità per il film. Il Gattopardo, come accade spesso con i blockbusters, è un film eccessivo e opulento, specialmente per quanto riguarda gli interni: arredi, tendaggi e oggetti di ogni sorta popolano i palazzi dell’aristocrazia siciliana, e anche i costumi furono realizzati con grande cura. Visconti era ossessionato dalla perfezione: ogni giorno cinquecento fiori bianchi arrivavano dalla Liguria; migliaia di candele venivano accese e costantemente sostituite e così via. Un apporto cruciale alla spettacolarità del film è dato anche dalla mobilità delle inquadrature. La mdp si sposta elegantemente tra l’interno e l’esterno degli antichi edifici, ad esempio all’inizio, quando sembra quasi accarezzare i palazzi. L’illuminazione e il colore sono aspetti ugualmente importanti del tessuto visivo del film, grazie soprattutto alla capacità di Rotunno di catturare la luce naturale proveniente dall’esterno, appianando le ombre per evitare un’illuminazione espressionista. L’uso delle diverse sfumature del giallo e del marrone crea un’atmosfera sensuale: è il caso più chiaro dell’ispirazione che Visconti ha tratto dalla tradizione dei Macchiaioli. Il successo di pubblico e critica di cui godette il film indica che si tratta probabilmente dell’esempio migliore della natura duale dell’autorialità del regista, della sua capacità di fondere arte e intrattenimento, riflessione e spettacolo. Nella sequenza d’apertura di Vaghe stelle dell’Orsa… (1965), Visconti inquadra invece la modernità in un modo che ci è utile per far luce sul suo “classicismo”. Il film inizia

con un prologo, ambientato a Ginevra, in cui Sandra e suo marito Andrew danno una festa d’addio prima di partire per Volterra, la città natale della donna, dove Sandra dovrà occuparsi di alcune questioni familiari e dove si svolge tutto il resto del film. Il prologo ha caratteristiche inusuali e va visto, a mio avviso, come un vero e proprio commento di Visconti a proposito dello “stile moderno”. Pur non essendo privo di una funzione narrativa – la reazione di Sandra al brano musicale di César Franck (Preludio, Corale e Fuga) indica che esso svolgerà un ruolo importante nel film –, ciò che colpisce di questo prologo è lo stile visivo, perché esso non sembra “assomigliare” affatto a quello di un film di Visconti. Nelle prime inquadrature i personaggi non sono centrati e tendono anzi ad essere collocati ai margini dell’inquadratura. Il posizionamento della cinepresa è talmente disinvolto che a un certo punto la testa di uno degli attori rimane tagliata fuori; uno degli invitati cammina poi davanti all’obiettivo e oscura il campo visivo. Queste inquadrature apparentemente casuali e decentrate, a metà strada tra Godard e Antonioni, sembrano imitare un certo stile moderno, divenuto ormai standard nel cinema europeo del 1965. Anche l’arredamento dell’appartamento e l’ambientazione cosmopolita (gli invitati parlano francese, inglese e italiano) alludono a un contesto sociale ed economico moderno. Il viaggio in auto verso Volterra è parimenti girato in uno stile modernista, quasi godardiano: la mdp è collocata su un’auto in movimento e inquadra il paesaggio con approccio documentario. In modo simile a ciò che aveva fatto Godard nella scena iniziale di À bout du souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), in cui Michel guida da Marsiglia a Parigi, Visconti adopera jump cuts e inquadrature arbitrarie. Per contrasto, a Volterra il regista recupera il proprio stile “antiquato”. Nella vecchia e sensuosa casa di famiglia il tempo sembra essersi fermato: quando Sandra arriva si rende conto che nulla è cambiato. I luoghi e le persone, specialmente suo fratello Gianni, sono imprigionati in un atteggiamento avvilito e regressivo. Se da una parte possiamo riconoscere qui il tema ricorrente in Visconti dell’opposizione tra il vecchio e il nuovo, tra passato e presente, è d’altronde interessante che egli scelga di impiegare il prologo in direzione metacinematografica. Visconti vuole dimostrare di essere perfettamente capace di girare secondo i dettami dello “stile moderno” e che se non lo fa è solo per scelta, presumibilmente perché non ritiene questo stile appropriato al proprio progetto estetico. Possiamo farci un’idea dell’opinione di Visconti a proposito della “nuova” cultura di massa guardando al modo in cui utilizza la musica. La musica popolare che ascoltiamo alla radio è designata come triviale e banale, non è che una melodia facile priva di vero significato, in chiaro contrasto con la composizione classica di César Franck. Quest’ultima non svolge solo un ruolo importante nella struttura formale del film, ma contribuisce anche alla narrazione, rivelandosi collegata al segreto della famiglia di Sandra e soprattutto al suo rapporto con la madre. Il rapporto fra arte alta e cultura popolare non è però così semplice; a Volterra il film si immerge decisamente nel territorio del melodramma, ma allo stesso tempo l’esperienza di Sandra segue una traiettoria di recupero del passato che si può definire proustiana. Se il titolo del film proviene da un verso della poesia Le ricordanze di Giacomo Leopardi, anche La ricerca del tempo perduto di Proust è infatti una fonte importante. Come ha suggerito Henry Bacon, «il tema principale del Preludio di Franck riveste in Vaghe stelle dell’orsa […] pressoché la medesima funzione svolta [in Proust] dal tè in cui Marcel inzuppa la sua “petite madeleine”»33. Le fonti colte del film – Franck,

Leopardi, Proust, D’Annunzio – sono investite di una funzione narrativa, nel senso che sono correlate all’indagine svolta da Sandra sulle dinamiche della propria famiglia: il suo rapporto incestuoso col fratello Gianni e i problemi con la madre, ritenuta responsabile, insieme al suo secondo marito, della morte del padre di Sandra in un campo di concentramento. Questi temi sono tipici del melodramma. Il registro melodrammatico è d’altronde perfino più rilevante sul piano visivo. Visconti adopera drappi, tende e scialli per creare una dicotomia tra mascheramento e rivelazione: una strategia tipicamente melodrammatica che serve a dare il senso della lotta che il soggetto deve ingaggiare con il proprio desiderio e la propria identità34. Anche l’illuminazione contribuisce a creare questo effetto, specialmente nell’episodio in cui Sandra e Gianni tornano alla vecchia cisterna: attraverso un gioco sensuale di riflessi i due fanno nuovamente esperienza del loro amore. In altri momenti, per esempio quando Sandra visita l’appartamento di sua madre, gli specchi, le statue, le lampade e altri ornamenti funzionano come una sorta di trappola visiva per la protagonista, il cui corpo (come in tutti i melodrammi) si trova circondato da una molteplicità di oggetti35. Alla fine Sandra riesce a lasciarsi il proprio passato alle spalle, a differenza di Gianni, che non può accettare la decisione della sorella di lasciare Volterra e si suicida. Quando nel finale Sandra assiste all’inaugurazione del memoriale per suo padre, la donna sembra finalmente pronta a unirsi a suo marito a New York – la città moderna per eccellenza – e ritornare alla propria vita “nuova” e “moderna”. Eppure, a differenza di quanto accade in Rocco e i suoi fratelli, con la figura positiva di Ciro Parondi, il film non ci permette in alcun modo di presagire il futuro di Sandra. Di fatto, l’unica cosa che interessa Visconti è il passato; con Vaghe stelle dell’Orsa… il regista ha iniziato a muoversi verso la regressione solipsistica del suo ultimo periodo. ANTONIONI, L’AUTORE MODERNO PER ECCELLENZA

I quattro film girati da Antonioni nei primi anni sessanta, da L’avventura (1960) a Il deserto rosso (1964), costituiscono degli esempi paradigmatici di cinema moderno nel contesto dell’autorialità italiana ed europea. La modernità di Antonioni consiste prima di tutto nella combinazione di uno stile di ripresa assai distintivo – un modo particolare di inquadrare i personaggi in relazione allo spazio – e di un formato narrativo specifico, che privilegia nessi deboli di causa-effetto. Entrambi questi aspetti sono stati individuati dal dibattito critico-teorico – sin già dalla metà degli anni sessanta – come elementi cruciali per definire la posizione del regista all’interno del cinema d’autore. Oltre allo stile di ripresa, c’è poi un’altra caratteristica fondamentale che permette di isolare Antonioni rispetto a Visconti e Fellini: la sua scelta di narrare traiettorie femminili. Tale aspetto risulta importante per la nostra analisi, poiché condiziona in modo particolare la relazione tra autore e personaggio. Il famoso “sguardo” di Antonioni è stato oggetto di innumerevoli dibattiti e contributi teorici nel corso degli anni. Come ho già accennato sopra, Christian Metz ha coniato il termine «sdrammatizzazione»36 per indicare la messa in scena «a-drammatica» di Antonioni: una forma filmica priva di contrasti e al contrario composta di blocchi uniformi e monotoni. Tale composizione a-drammatica risulta più radicale nei film della tetralogia rispetto ai titoli precedenti. Come ha sostenuto Lorenzo Cuccu, questa strategia può essere testata in relazione ai personaggi, il cui comportamento è oggetto di un implacabile scrutinio da parte della mdp, da cui viene «registrato ed osservato nei gesti più quotidiani e […] insignificanti»37 rispetto agli standard del cinema classico.

Muovendo dal commento di Cuccu, possiamo sostenere che Antonioni valorizzi i gesti a scapito dell’azione: una scelta radicale che risulta in accordo con il Minimalismo, e rinvia a una diversa idea di soggettività. In questo contesto, e coerentemente con l’uso del termine da parte di Susan Sontag38, i «gesti» comprendono una serie di attività (camminare, dormire, aspettare) insignificanti o solo marginalmente informate dall’intenzionalità. L’uso dei gesti è connesso alla condizione psichica dei personaggi: i protagonisti di Antonioni agiscono senza una motivazione chiara e dunque mancano di profondità psicologica. Uno dei gesti più comuni è quello della passeggiata – la «bal(l)ade» di Deleuze39. Assai di frequente i protagonisti di Antonioni camminano o gironzolano senza un obiettivo specifico. In L’avventura, ad esempio, i personaggi si muovono in modo casuale perfino mentre compiono un’azione precisa come quella di cercare Anna sull’isola deserta. In L’eclisse (1962), Vittoria viene seguita dalla mdp mentre si muove tra i viali quasi vuoti del quartiere EUR o nelle affollate stradine del centro di Roma dove vive sua madre. Nella scena d’apertura de Il deserto rosso, Giuliana arriva al luogo di lavoro del marito camminando insieme al figlio, passeggia in mezzo a scarti industriali, e infine si ferma a mangiare voracemente un panino. Troviamo insomma episodi affini in tutti i film della tetralogia di Antonioni. Queste passeggiate terminano spesso con momenti di mera attesa, e sono filmate in congiunzione con lo sguardo del personaggio. Esse appaiono dunque come esempi paradigmatici di quelle che Deleuze ha definito immagine «ottica pura»40. A mio avviso, la nozione di «immagine ottica» di Deleuze risulta effettivamente utile solo se associata con l’idea di soggettività. Sembra infatti legittimo chiedersi chi è il soggetto che guarda e che pensa, secondo Deleuze. Esiste una differenza fra i tre soggetti implicati nel cinema, ovvero il personaggio, il regista e lo spettatore? La nozione di sguardo appare a questo proposito più utile di quella di immagine. L’apparato cinematografico è fondato infatti su una pluralità di sguardi che possono sia convergere che divergere gli uni con gli altri. Nell’ambito del cinema narrativo possiamo individuare tre sguardi specifici: quello della mdp, quello del proiettore e quello diegetico dei personaggi sullo schermo. La fusione di questi tre sguardi permette l’attivazione di una visione spettatoriale fortemente identificativa41. Al contrario, se la messa in scena propone un divario tra lo sguardo della mdp e lo sguardo diegetico – ovvero tra il punto di vista dell’autore e quello del personaggio – l’identificazione si rompe. Anche se tale rottura può evidentemente assumere forme diverse, essa senz’altro caratterizza il cinema d’autore degli anni sessanta nella sua interezza. Il particolare sguardo di Antonioni è fondato sullo scarto tra lo sguardo della mdp/dell’autore e lo sguardo del personaggio. Se da una parte l’identificazione ne risulta compromessa, al tempo stesso in tale scarto risiede anche il nocciolo della peculiare politica etica e affettiva del cinema di Antonioni42. La maggior parte della letteratura a proposito di questo regista ha enfatizzato la qualità autoriflessiva del suo sguardo. Io vorrei invece proporre di ragionare sulla sua opera alla luce di un’etica della pratica cinematografica che privilegi la dimensione di circolazione affettiva tra autore, spettatore e personaggio (il mio uso dei termini «etica» e «affetto» diverrà chiaro fra un momento, in relazione al lavoro di Emmanuel Lévinas). La mdp di Antonioni spesso approccia i corpi umani da una certa distanza, attraverso movimenti di macchina prolungati che creano una sorta di danza o coreografia, circondando e accarezzando i personaggi. L’atteggiamento di Antonioni nei confronti del corpo dell’attore/performer è in accordo con tutta una serie di pratiche artistiche del tempo,

tra le quali di particolare rilevanza risultano gli happening e i primi film di Warhol. Negli happening gli attori compiono gesti quotidiani come camminare, sedersi o rimanere all’impiedi. Piuttosto che impegnarsi in azioni vere e proprie, i corpi si muovono come se fossero emotivamente vuoti. Essi sono trattati come meri oggetti materiali, o come superfici, e sembrano mancare di tratti umani. In modo simile, nei suoi primi film, soprattutto Eat e Sleep (1963), Warhol riprende il pittore Robert Indiana mentre mangia e l’amico John Giorno mentre dorme. Anche se Antonioni non è altrettanto radicale, egli riprende comunque i propri personaggi, specialmente le protagoniste femminili, mentre camminano, dormono o aspettano. Nel trasformare i corpi in mere superfici da osservare e descrivere anziché interpretare, Antonioni offre una forte critica alla messa in scena cinematografica della psiche e delle dinamiche psicologiche. Forse perché le strutture e i contenuti della psiche rappresentati al cinema sono ormai codificati, tanto che non vi è in essi più nulla da scoprire, l’interesse di Antonioni si rivolge a un diverso livello dell’esperienza del soggetto: a ciò che viene prima della rappresentazione (e dunque prima del significato). A questo proposito, i suoi film rappresentano una transizione da un «cinema del desiderio» a un «cinema dell’affetto», nel senso attribuito a questi termini da Emmanuel Lévinas43. Lévinas ha elaborato una teoria del rapporto Io/Altro assolutamente originale, che può aiutarci a definire la relazione tra autore e personaggio. La prospettiva etica di Lévinas parte dal presupposto che l’Altro sia irriducibile al Sé. L’Altro non può essere infatti definito, per il filosofo francese, nei termini di una categoria, come avviene invece nel pensiero strutturalista o poststrutturalista: non può insomma essere ridotto a un concetto. Per Lévinas la differenza radicale dell’Altro si ancora al corpo, ed egli fa riferimento al manifestarsi di questa alterità con il termine di «Volto»44. Il Volto stesso non è un’idea, ma la concreta presenza dell’Altro, di cui mostra l’assoluta singolarità. L’aspetto cruciale che interessa Lévinas è l’incontro tra Io e Te, tra Sé e Altro, e in particolare le modalità di irruzione dell’Altro nella sfera dell’Io. L’arte moderna è in grado di mostrare questa condizione particolare, l’irruzione dell’Altro. Per Lévinas infatti nelle arti visive l’occhio dell’artista non dovrebbe tendere al controllo, alla comprensione dello spazio rappresentato: «uno stato di incompletezza, piuttosto che di completezza definisce lo statuto dell’arte moderna»45. La dimensione etica dell’atteggiamento di Antonioni verso i soggetti che egli riprende può essere rintracciata nel suo trattamento delle protagoniste femminili, nel suo modo di filmare i piccoli gesti e i micro-movimenti fisici delle performers. Cogliendo la radicale singolarità di ciascun corpo e movimento, Antonioni segue una procedura affine a quella con cui Godard, nelle già citate parole di Metz, cattura «un certo tipo di verità»46. La definizione di Metz risulta in effetti straordinariamente in sintonia con il concetto di «Volto dell’Altro» di Lévinas: il corpo dell’attore/personaggio viene colto nella sua materiale unicità, non in quanto agente di un’azione, ma come semplice presenza. In Antonioni, la mdp coglie la “verità” materiale e corporea di Monica Vitti durante momenti di pura attesa, oppure mentre mangia, cammina o dorme. La mdp indugia a lungo sul corpo dell’attrice, e il protrarsi dell’inquadratura ha lo scopo di rivelare ogni piccolo dettaglio del suo viso e tutti i micro-gesti e movimenti del suo corpo. Particolarmente interessanti sono i casi in cui la camminata della donna si conclude con la protagonista appoggiata a un muro spoglio: in questi momenti il personaggio sembra quasi cercare una superficie neutra che possa far da sfondo al suo ritratto, e la visibilità dei lineamenti di Vitti ne risulta esaltata. La dimensione etico-

affettiva di queste immagini è dovuta a tre fattori correlati: la distanza della mdp, la sua mobilità, e la durata dell’inquadratura. In questi frangenti, la mdp non è voyeuristica né lontana, la sua distanza va dal campo medio al primo piano. I movimenti sono lenti e semicircolari: essi tendono ad accerchiare i corpi, come carezzandoli, oppure precedono lo spostamento del personaggio. Antonioni evita espressamente veloci carrelli in avanti (come quelli presenti in Hitchcock). Questo movimento comporterebbe un approccio voyeuristico e oggettivante nei confronti del corpo della sua protagonista. Il regista lascia più spesso che siano i personaggi a muoversi verso la mdp, anziché il contrario: per certi versi, l’opposizione tra questi due tipi di movimento sembra tradurre in termini cinematografici l’opposizione di Lévinas tra possedere (desiderio) e accarezzare (affetto). In L’avventura i molti episodi etico-affettivi sono riconducibili, nel complesso, a tre modalità diverse. In primo luogo ci sono i momenti di attesa, in cui Claudia si muove nello spazio aspettando qualcuno. Il momento più elaborato da questo punto di vista è quello in cui la donna attende Sandro nella piazza del paese siciliano mentre egli entra in un negozio a chiedere di Anna. Questo momento risulta particolarmente rivelatorio perché la mdp compie un complesso movimento che termina su Claudia appoggiata a un muro: in questa sequenza, Antonioni gioca con la dialettica tra stasi e movimento. In secondo luogo, il film è punteggiato da movimenti a vuoto, come nel lungo episodio sull’isola. Pur essendo alla ricerca di Anna, i personaggi sembrano in realtà andare a zonzo senza scopo. In terzo luogo, vi sono numerose lunghe inquadrature del corpo della protagonista distesa, o a letto mentre dorme, in cui la sospensione dell’azione è assai accentuata. Particolarmente interessante a questo riguardo l’episodio che precede il finale, quando Claudia, ospite nella villa degli amici, va a letto, mentre Sandro scende per partecipare alla festa: proprio come in Sleep di Warhol la camera si sofferma a riprendere i micro-gesti della donna a letto. Il deserto rosso fa uso di strategie e tecniche simili, ma anche di innovazioni formali. Ad esempio, Antonioni usa costantemente il teleobiettivo per sfocare lo sfondo e mantenere a fuoco solo il personaggio di Giuliana. Questo effetto è accresciuto da un uso congeniale del colore, come nel caso del cappotto verde nella scena iniziale. Controllando il rapporto tra fuoco e fuori fuoco – ovvero tra spazio e personaggio – la mdp sottolinea la presenza fisica di Giuliana. I suoi lineamenti fini e leggermente truccati si stagliano in ancor maggiore evidenza rispetto allo sfondo del paesaggio inquinato, e la scelta risulta assai significativa, visto che l’intero film racconta la condizione psichica instabile della protagonista. Beninteso, Antonioni non è interessato a spiegare il comportamento di Giuliana; come in L’avventura, egli mira piuttosto a mostrare l’assoluta singolarità del suo “Volto”. Con Blow-Up (1966) e Professione reporter (1975) il regista si cimenterà con l’estetica postmoderna, anche se in seguito, con Identificazione di una donna (1982), tornerà nuovamente a una politica affettiva vicina a quella dei film degli anni sessanta. FELLINI, DALL’«OPERA MONDO» ALL’«OPERA SÉ»

Nella traiettoria che abbiamo delineato finora, l’opera di Fellini, in particolare i suoi capolavori La dolce vita (1960) e 8½, occupa un terreno intermedio rispetto a Visconti, Antonioni e la questione della modernità. Fellini è infatti un autore meno sperimentale di Antonioni in termini di narrazione e messa in scena, ma è anche “più moderno” di Visconti. L’opera di Fellini costituisce però ancor più di quella di Antonioni l’esempio

paradigmatico della narrazione moderna dello scacco soggettivo, visto che Fellini fa della crisi dell’“io” il tema portante sia de La dolce vita che di 8½. Più in generale, i due film di Fellini summenzionati possono essere compresi al meglio se messi in relazione l’uno con l’altro: entrambi si concentrano infatti sulla crisi del soggetto, ma la rappresentano in modi opposti. La dolce vita, che è stato spesso definito un affresco, può essere descritto nei termini di quelle che Franco Moretti ha chiamato «opere mondo»47, ovvero forme dell’epica moderna. Nell’epica, il mondo costituisce una totalità inseparabile dall’individualità. Al contrario, in 8½ il sé e il mondo sono separati. Il film radicalizza la prospettiva soggettiva e rappresenta il mondo interamente tramite il filtro della psiche del protagonista. I personaggi principali dei due film sono entrambi interpretati da Marcello Mastroianni, sono entrambi artisti (uno scrittore fallito divenuto giornalista in La dolce vita, un regista di successo che soffre di una crisi d’ispirazione in 8½) e sono perciò stati giustamente visti come degli alter ego dell’autore. In ambedue i film, inoltre, il padre del protagonista è interpretato dal medesimo attore, Annibale Ninchi, il cui accento emiliano (Ninchi era nato a Bologna) richiama quello di Fellini. L’elemento autobiografico è dunque dilagante (come avverrà poi anche in Amarcord, 1973), e il regista è esplicito a tale riguardo. Nonostante queste similitudini però, i due film sono nettamente differenti in termini di immaginario, modalità narrative e stile visivo. La dolce vita condivide alcune caratteristiche della dimensione esistenziale del cinema moderno: Marcello è infatti un personaggio melanconico. Incapace di realizzare il proprio desiderio di diventare scrittore, deve accontentarsi di un impiego meno degno: è un giornalista che segue la vita notturna e gli eventi culturali romani per conto di un popolare quotidiano, avvalendosi della complicità di alcuni paparazzi. Marcello svolge dunque il proprio lavoro esplorando le strade e i caffè della città, specialmente quelli di via Veneto, e recandosi a feste e ricevimenti in appartamenti privati e ville. Come Antonioni, Fellini ritrae la vacuità della vita delle classi agiate. Borghesi e aristocratici, artisti e gente dello spettacolo passano il proprio tempo a non far niente, o semplicemente a divertirsi. Come i film di Antonioni, anche La dolce vita sottolinea la dimensione cosmopolita dell’Italia, enfatizzando l’atmosfera internazionale di una Roma piena di persone che parlano lingue diverse. La spinta epica del film lo distanzia però dal resto della produzione del cinema moderno. La tesi di Moretti, secondo cui la scarsità di racconti epici costituisce un aspetto intrinseco di questa forma letteraria sembra essere valida anche per il cinema. Film come quello di Fellini sono infatti piuttosto rari. Moretti prende come punto di partenza per la propria riflessione la teoria della forma epica elaborata da Hegel. Per Hegel, l’epica implica il manifestarsi di una totalità: nell’epica, l’azione è «conness[a] con il mondo in sé totale di una nazione e di un’epoca» ed essa costituisce «la più chiara messa in luce dell’individuo». L’epica moderna differisce però profondamente su questo punto: l’eroe moderno è passivo, non agisce ma diventa uno spettatore. La sua «presenza sembra sempre lasciare le cose come sono, in una sorta di gigantesco spettacolo». Nell’epica moderna, l’inerzia costituisce dunque la sola possibilità di aspirare a una totalità. «In questo nuovo scenario, il grande mondo dell’epica non prende più forma nell’azione trasformatrice, ma nell’immaginazione, nel sogno, nella magia»48. La tesi di Moretti è particolarmente adatta a un’interpretazione dei due film di Fellini, visto che gli elementi che lo studioso evoca possono essere rintracciati alternativamente in La dolce vita o in 8½. In particolare, è evidente che la transizione

dall’azione trasformatrice all’immaginazione e al sogno descrive proprio la peculiarità di 8½ rispetto al film precedente. Particolarmente importante ai fini del nostro discorso è il linguaggio esplicitamente cinematografico adoperato da Moretti per descrivere l’«opera mondo» moderna. Nell’epica moderna il protagonista è uno spettatore e il mondo in cui vive è uno spettacolo per il suo sguardo. Una trasformazione affine avviene anche nel cinema, con il passaggio dal cinema classico a quello moderno. Deleuze in particolare sostiene che il cinema classico sia un cinema dell’immagine-azione e che esso entri in crisi con il neorealismo e l’avvento di una nuova immagine. Il neorealismo e più tardi il cinema d’autore degli anni sessanta rappresentano «un cinema del veggente»49, non definito dall’azione ma da «situazioni puramente ottiche [e sonore]»50. Deleuze afferma inoltre che in Fellini tale passaggio corrisponde alla tendenza del quotidiano «a organizzarsi in uno spettacolo continuo»51. La dolce vita mostra una convergenza particolare tra la crisi dell’eroe, la passività del personaggio e la messa in scena di Roma come spettacolo. Marcello cammina giorno e notte per le strade della città, muovendosi dal suo appartamento alla redazione del giornale, dai bar di via Veneto ai luoghi dove si svolgono gli eventi spettacolari di cui fa la cronaca, fino alle feste di amici e conoscenti. La città di Roma è filmata nella sua stupefacente bellezza notturna, soprattutto nell’episodio più famoso, quello del bagno di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. In questo e altri episodi, l’uso della profondità di campo, insieme all’impiego di un’illuminazione contrastata, è essenziale al regime spettacolare dell’immagine. La passeggiata di Marcello e Sylvia tra piazze e monumenti barocchi è resa ancora più appariscente dalla bella fotografia in bianco e nero a focale corta. Nell’episodio della Fontana di Trevi il direttore della fotografia Otello Martelli si servì del grandangolo «in modo da dissimulare le dimensioni ristrette della piazza ed aumentare il suo raggio spaziale»52. Ma la focale corta è d’altronde usata estensivamente sia negli interni che negli esterni, come negli episodi del nightclub Caracalla e della spiaggia. Se Roma è uno spettacolo per lo sguardo di Marcello, l’immagine è a sua volta uno spettacolo per lo spettatore del film. La dolce vita è innanzitutto un film sulla spettacolarizzazione della vita moderna. Tutto può essere trasformato in spettacolo e gli eventi sono importanti solo in quanto vengono trasformati dai media in qualcosa che fa notizia. Paolo Bertetto ha giustamente evocato La società dello spettacolo di Guy Debord53 per spiegare questo aspetto fondamentale del film di Fellini54. Bisogna infatti notare come ne La dolce vita qualsiasi aspetto della vita sociale possa diventare uno spettacolo: dagli elementi più ovvi, come la bellezza femminile, a quelli meno evidenti, come la religione. Quando Marcello guarda Sylvia fare il bagno nella fontana, il film ricorre a uno dei codici di base del cinema classico, quello dello sguardo maschile sul corpo femminile sexy. Si tratta di un esempio apparentemente perfetto di ciò che Laura Mulvey ha teorizzato nel suo famoso saggio del 1975 Piacere visivo e cinema narrativo55. Ma l’immagine di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni dovrebbe essere letta non solo in senso letterale, bensì anche in relazione al paradigma riflessivo del film. La messa in scena della bellezza di Ekberg è talmente eccessiva che essa potrebbe mettere in questione il codice stesso – sguardo maschile attivo/corpo femminile passivo – su cui si fonda. In effetti, la forza della tesi di Mulvey risiede nel postulare l’esistenza di un collegamento diretto tra la struttura di gender della soggettiva e la struttura di gender della traiettoria narrativa. Nel cinema classico lo sguardo voyeuristico maschile

controlla il corpo femminile, mentre attraverso l’azione egli controlla e plasma la diegesi. Ma nel nuovo scenario del cinema moderno, o dell’epica moderna come direbbe Moretti, l’uomo perde il controllo dello spazio e della diegesi. L’anti-eroe moderno viene agito da ciò che lo circonda, anziché controllarlo. Si può sostenere che in La dolce vita la bellezza e lo spettacolo agiscano su Marcello rendendolo passivo, uno spettatore piuttosto che un agente dell’azione. Sotto questo aspetto anche se il film preserva il paradigma “classico” teorizzato da Mulvey, è Sylvia che possiede Marcello e non viceversa. Il potere di Ekberg di soggiogare il maschio attraverso il proprio erotismo potente ritorna un paio d’anni dopo, in una forma più chiaramente “luciferina”, per quanto ribaltata in senso comico, in Le tentazioni del dottor Antonio (1962). In questo film, uno dei quattro episodi di Boccaccio ’70 – gli altri registi sono Mario Monicelli, Luchino Visconti e Vittorio De Sica –, Antonio Mazzuolo/Peppino De Filippo tenta con ogni mezzo a sua disposizione di far rimuovere il gigantesco cartellone di Ekberg che campeggia di fronte alla sua finestra. Il manifesto ritrae infatti la diva in una posa molto sensuale mentre pubblicizza le qualità nutrizionali del latte: il moralista Antonio non riesce a far fronte alla tentazione cui è continuamente sottoposto e finisce per fantasticare su di lei come una gigantesca diavolessa. È importante notare che qui è l’immagine (della donna) ad avere una specifica agency. In Le tentazioni del dottor Antonio Fellini continua dunque a sottolineare la rilevanza dei media visuali e dello spettacolo per la soggettività moderna. La dinamica sessuale esemplificata dalla scena della Fontana di Trevi in La dolce vita costituisce una componente essenziale dell’immaginario di Fellini. Come si può riscontrare anche nei disegni che egli traeva dai propri sogni56, l’ideale di bellezza femminile del regista era costituito dalla donna dalle forme prorompenti (fino a giungere a volte al registro del grottesco), un’ideale che si era diffuso nel cinema italiano degli anni quaranta e cinquanta con l’emergere delle maggiorate. Anche se, come nel caso di Sophia Loren, il glamour e l’avvenenza di Anita Ekberg sono troppo particolari e unici per essere meramente ridotti a un tipo, la diva svedese è comunque parte di quella transizione da un “divismo del volto” a un “divismo del corpo” che ha luogo in Francia con Brigitte Bardot, negli Stati Uniti con Marilyn Monroe e Jayne Mansfield, e in Italia con Gina Lollobrigida e le altre maggiorate57. L’immaginario sessuale di Fellini è diviso tra due modelli opposti di bellezza: la donna tradizionale e spontanea, dal seno grande, e il tipo magro, intellettuale e moderno. Sia in La dolce vita che in 8½ questo secondo tipo è interpretato da Anouk Aimée. Nel primo film l’attrice è Maddalena, un affascinante spirito libero amica/amante di Marcello, mentre in 8½ interpreta la moglie di Guido, Luisa. Se da una parte la bellezza femminile costituisce senz’altro una componente essenziale del discorso sullo spettacolo proposto dal film, tale discorso attraversa d’altronde ogni aspetto del tessuto sociale, inclusa la religione. Bertetto ha affermato che «se perfino la religione è inscritta in un sistema di comunicazione e trasformazione che privilegia il suo aspetto spettacolare, ciò significa che l’orizzonte dello spettacolo è divenuto centrale ed investe ormai il mondo intero»58. Il film inizia mostrando una grande statua di Cristo che viene trasportata in elicottero sopra i tetti di Roma. A un certo punto l’elicottero si abbassa tanto da permettere agli uomini al suo interno di salutare tre donne che stanno prendendo il sole su una terrazza. Le donne si alzano in piedi, sia per ammirare questo bizzarro spettacolo religioso che per guardare gli uomini. Questi ultimi chiedono giocosamente i loro

numeri di telefono, e le donne annuiscono e sorridono senza però acconsentire. L’inizio del film sottolinea dunque lo status parimenti spettacolare del corpo femminile e del corpo di Cristo, connettendo in modo assai efficace due dei principali temi del cinema di Fellini, le donne e la religione. Il più importante episodio di spettacolo religioso del film è naturalmente quello del falso miracolo, in cui Fellini ci mostra il gigantesco circo mediatico che si installa sul luogo in cui due bambini di campagna sostengono di aver visto la Madonna. La trasformazione del mondo reale in set costituisce un altro esempio del profondo coinvolgimento del film con il regime dello spettacolo, e per estensione dell’immagine. Mentre La dolce vita è stato giustamente portato ad esempio paradigmatico di cinema moderno, il discorso del film si focalizza in verità su un aspetto chiave della cultura e dell’estetica postmoderna: la supremazia dell’immagine sulla realtà. Le donne, la sessualità e la religione sono temi centrali anche nella traiettoria di Guido, il protagonista di 8½. Focalizzandosi sulla ricerca solipsistica del protagonista, anziché sulla modalità epica, questo film sembra incarnare meglio la crisi della soggettività del cinema moderno. Ma 8½ affronta anche un’altra questione centrale per l’estetica moderna, ovvero la relazione tra arte e vita. La crisi del protagonista è infatti sia personale che artistica. Guido continua a posporre l’inizio delle riprese del suo nuovo film curandosi in una lussuosa stazione termale, dove spera di trovare qualche ispirazione per il film e un po’ di pace nella sua vita personale. L’uomo viene però raggiunto dal produttore, lo sceneggiatore, gli attori e l’intera troupe del film, a cui si aggiungono la sua amante e anche, su sua espressa richiesta, la moglie. Tutti gli chiedono spiegazioni o pretendono decisioni da parte sua. Questo livello concreto dell’esperienza si mischia all’intensa vita psichica di Guido, ivi comprese le sue memorie d’infanzia e i suoi sogni. La dimensione della vita immaginativa costituisce per Guido una fuga dalla propria realtà, ed essa propone infatti scenari di liberazione e possibili soluzioni ai suoi problemi. Alla conferenza stampa la vita reale prende però il sopravvento, e Guido non vede altra soluzione se non di rinunciare a realizzare il film. Il finale sulla spiaggia suggerisce però la possibilità di un esito diverso: Guido si unisce a tutte le persone che ha incontrato nell’arco del film in un girotondo intorno alla pista di un circo, a cui partecipa anche Guido bambino, che suona lo zufolo e conduce all’interno della pista un gruppo di clown musicisti e un cane. La pista era una delle location del film che Guido doveva girare, e in un certo senso lo è ancora; il film, in fin dei conti, probabilmente si farà. Questo finale sintetizza i due diversi livelli della vita del personaggio, la realtà e l’immaginazione. I due registri non sono però opposti, perché le fantasie di Guido sono tanto pervasive da influenzare anche la sua vita reale. Allo scopo di restituire questa dinamica, Fellini ha elaborato tutta una serie di scelte stilistico-formali atte a deformare la realtà. In altre parole, mentre da una prospettiva diegetica possiamo distinguere facilmente la realtà dall’immaginazione, da un punto di vista visivo la realtà non appare invece molto diversa dall’immaginazione, essendo filtrata tramite la psiche di Guido e risultandone perciò deformata. La messa in scena di 8½ è caratterizzata da un uso marcato di strategie – la profondità di campo, l’impiego di un’illuminazione e di movimenti di macchina espressivi e così via – il cui scopo è quello di alterare il campo visivo. Ma l’attenzione prestata da Fellini ai processi mentali arriva anche a rompere le convenzioni di spazio e tempo. Anziché ordinarsi secondo una precisa successione di sequenze che alternino realtà e immaginazione, la struttura della narrazione è più

simile a quella dei processi onirici: il susseguirsi degli episodi non è infatti determinato da specifiche azioni scatenanti, ma soltanto dal lavorio psichico di Guido. In questo modo, il mondo “reale” del sognatore si mescola a quello del sogno: la rilevanza del registro psichico è perciò strettamente connessa alla qualità visionaria del film, specialmente al continuo metamorfismo e al movimento incessante che lo caratterizzano. Lo spettatore prova talvolta una sensazione di capogiro a causa dei molti movimenti di macchina e dell’ininterrotto variare di ambientazione e personaggi, che entrano ed escono costantemente dall’inquadratura. E quando alla fine la realtà e il sogno, l’infanzia e la vita adulta si mischiano in un frangente temporale immaginario, anche lo spettatore è indotto a pensare, insieme a Guido, che la creazione artistica, come la vita, debba essere fondamentalmente inclusiva e non selettiva. DALL’AUTORE MODERNO ALL’AUTORE POSTMODERNO

Nel suo monumentale studio sul cinema europeo moderno, András Bálint Kovács sostiene che il 1966 «rappresent[i] simultaneamente una summa ed un punto di svolta. Fu una summa perché molti dei più importanti film del modernismo apparvero in questo momento, e fu un punto di svolta perché molte nuove tendenze o nuove fasi iniziarono dopo quell’anno»59. Anche se il 1966 costituì un momento decisivo nelle carriere di molti registi moderni, tra tutti, per Kovács, «la svolta più spettacolare fu compiuta da Antonioni, che sembrava aver chiuso con Il deserto rosso (1964) la sua grande serie modernista, e tornava con Blow-Up ad uno stile narrativo più convenzionale»60. Mentre convengo con la periodizzazione proposta da Kovács, non sono d’accordo con la sua interpretazione del nuovo stile di Antonioni. Sosterrei al contrario che Blow-Up rappresenti la svolta del regista in direzione del cinema postmoderno. Anche in una prospettiva più ampia, infatti, Blow-Up può essere visto come la prima tappa nella transizione del cinema d’autore italiano dal moderno al postmoderno. Tale trasformazione riguarda alcuni dei principali registi del cinema degli anni sessanta, così come alcune figure della generazione successiva. L’estetica postmoderna di Antonioni è basata sulla decostruzione della rappresentazione. In Blow-Up l’opposizione tra fotografia e cinema attiva un complesso apparato teorico riguardante la relazione tra finzione e realtà. Mentre la modernità generalmente affronta tale relazione allo scopo di stabilire la differenza tra i due registri, l’estetica postmoderna non abbraccia questa prospettiva dicotomica. L’immagine postmoderna è definita infatti da un certo grado di indeterminazione a causa del quale risulta impossibile separare chiaramente la realtà dalla finzione, dal sogno o dalla fantasia. Il concetto di simulacro di Jean Baudrillard risulta in questo contesto un elemento chiave. Per il filosofo francese, la realtà risulta così radicalmente mediata da finire per scomparire, sostituita da immagini o segni: essa, in effetti, nel senso di qualcosa di sottostante o originale, non esiste più61. A questo riguardo la posizione di Antonioni appare piuttosto radicale, soprattutto per la metà degli anni sessanta. In Blow-Up solo l’apparato fotografico è in grado di catturare l’evento reale, ossia l’omicidio nel parco. Viceversa, né l’occhio umano (il protagonista David Hemmings) né l’occhio della cinepresa (il regista Antonioni) possono cogliere ciò che è realmente avvenuto. L’occhio della macchina fotografica e il processo fotochimico dell’ingrandimento sono invece in grado di registrare l’assassino con la pistola nascosto dietro gli alberi e il cadavere che giace nell’erba. In una curiosa e significativa inversione – molto in sintonia con le idee di Baudrillard – l’immagine precede e

preclude la realtà: sono le fotografie sviluppate e ingrandite dal protagonista che “creano” la realtà, nel momento stesso in cui mostrano qualcosa che nessuno aveva visto avere luogo (forse Antonioni sta sostenendo qui che la realtà risulta preclusa al cinema ma non alla fotografia, come se non fosse ancora pronto, in questo momento, a rinunciare completamente al reale). In Professione reporter, il regista spinge la propria riflessione ancora più avanti in questa direzione, per quanto in relazione alla soggettività. All’inizio, il protagonista Locke è un uomo frustrato: il lavoro lo annoia, il suo matrimonio è in crisi, i suoi rapporti professionali ed emotivi sono spenti e insoddisfacenti. All’improvviso però l’uomo ha l’opportunità di cambiare vita, sostituendo la propria identità a quella di qualcun altro. Egli trova infatti morto Robertson, un conoscente che risiede nel suo stesso albergo, e scambia la propria foto del passaporto con quella dell’uomo morto. Ora Locke può “essere” qualcun altro, può diventare Robertson. Ma mentre questa nuova identità potrebbe dargli una libertà inattesa, essa finirà in verità per farlo uccidere. Rispetto a quello di Antonioni, il postmodernismo di Fellini è di natura nettamente diversa. Nel complesso, infatti, la transizione dal moderno al postmoderno può avvenire, nel contesto del cinema d’autore, a livelli diversi. Prima di tutto, si assiste alla scomparsa della figura dell’autore moderno come Maestro, come demiurgo onnipotente. Secondo Bálint Kovács, questa «morte dell’autore» viene rappresentata assai bene da Fellini nei suoi film più tardi. In Prova d’orchestra (1978), per esempio, oltre all’ovvia allusione alla politica, il tema principale riguarda la possibilità della «creazione artistica in una situazione in cui la volontà centripeta dell’autore non riesce a prevalere». Nel film infatti diventa a un certo punto impossibile per il direttore d’orchestra «far in modo che i musicisti rispettino la peculiarità della sua visione autoriale»62. Frank Burke ha rintracciato il carattere postmoderno di questo autore anche in Il Casanova di Federico Fellini (1976). Burke afferma che «Casanova rappresenta un esempio stupefacente del discorso sul simulacro di Jean Baudrillard. È un film interamente costruito sulla base di un’assenza, un film in cui la rappresentazione stessa è solo rappresentazione dell’assenza»63. Un ulteriore aspetto dell’autorialità postmoderna coinvolge poi la trasformazione del ruolo dell’autore. Nel cinema postmoderno l’autore «diventa un ruolo da recitare all’interno della narrazione»64. E Fellini risulta ancora una volta pioniere: si pensi, per esempio, alla sua auto-interpolazione come attore/protagonista in Block-notes di un regista (1968), I clowns (1970), Roma (1972) e Intervista (1987). Nell’ambito del cinema contemporaneo, il miglior esempio di autore postmoderno è rappresentato invece da Nanni Moretti. Moretti, come appunto Fellini, adotta la strategia, consueta nel cinema d’avanguardia, di recitare in prima persona il ruolo principale dei propri film, e in questo modo sovverte lo status dell’autore moderno. In cinque dei suoi primi sei film, dal debutto con Io sono un autarchico (1976) fino a Palombella rossa (1989), Moretti interpreta il proprio alter ego Michele Apicella. Affermare che «Moretti recita se stesso» è stato a lungo un luogo comune della critica cinematografica italiana, dovuto al fatto che Apicella è un giovane intellettuale radicale proprio come lo stesso regista. Ma tale semplificazione risulta problematica perché tradisce una fiducia semplicistica in una concezione umanista della soggettività e nel presunto fondamento realista del medium cinematografico. Al contrario, la presenza di Moretti (come di Fellini) davanti alla mdp sovverte l’opposizione tra finzione e realtà e

sottende un’idea postmoderna di soggettività. Mentre l’autore moderno è un demiurgo che controlla la diegesi da lontano, un autore postmoderno come Moretti inscrive se stesso nel testo in modo tale che non risulti più possibile collocarsi al di fuori della narrazione. Come ha sostenuto Lyotard, nel modo di rappresentazione postmoderno tutte le differenti posizioni soggettive risultano co-implicate, e nessuna di esse può rivendicare un privilegio metanarrativo65. Nanni Moretti non è semplicemente l’autoreregista dei suoi film; Nanni Moretti è il personaggio finzionale Michele Apicella, e Michele è un’imitazione del vero Nanni. E ancora, la persona reale Nanni Moretti non è che ipotetica o costruita tramite la finzione: in quanto persona, Moretti rimane fuori campo, e viceversa quando si trova di fronte alla cinepresa, sta recitando una parte. L’“io” di Moretti è dunque rifratto in tre diverse posizioni soggettive: la persona vera, per così dire “irraggiungibile”; l’attore/personaggio di finzione; il regista. L’io multiplo di Moretti entra così in un circuito di indeterminazione che risulta lontano tanto dal realismo quanto dal modernismo. Questo gioco di rimandi fra le tre figure del personaggio, della persona e del regista è assolutamente funzionale all’investigazione dell’identità compiuta da Moretti. Il suo cinema è in verità ossessionato dal discorso dell’identità, e può essere compreso al meglio nei termini di una convergenza di tratti moderni e postmoderni. Il girovagare del protagonista attesta la crisi dell’azione e l’emergenza del personaggio come spettatore, che abbiamo visto essere caratteristica di gran parte del cinema moderno66. Caro diario (1993), – soprattutto il primo episodio In Vespa – costituisce probabilmente l’esempio migliore di questo discorso. Moretti gira per le strade di Roma in sella alla sua Vespa in una sorta di remake dei vagabondaggi antonioniani. Contemporaneamente però, la presenza stessa del regista davanti alla cinepresa e il costante slittamento tra le diverse posizioni soggettive che ne consegue connotano il suo cinema come postmoderno. Anche se questo discorso è vero più che mai in relazione a Caro diario, in cui Moretti interpreta finalmente se stesso e non Michele Apicella, non sembrano d’altronde esserci differenze sensibili tra il suo “personaggio” in questo film e il Michele dei film precedenti. Più di quanto Moretti stesso sarebbe forse disposto ad ammettere, l’intercambiabilità delle posizioni soggettive e la porosità dell’identità costituiscono il nocciolo innegabilmente postmoderno del suo cinema. Trad. dall’inglese di Lorenzo Marmo

[1.]

[2.]

[3.] 1-3. L. Visconti, Rocco e i suoi fratelli (1960).

4. L. Visconti, Il Gattopardo (1963).

[5.]

[6.] 5-6. M. Antonioni, L’avventura (1960).

[7.]

[8.]

[9.]

[10.] 7-10. F. Fellini, La dolce vita (1960).

5. Prima della rivoluzione e modernità: stile, classe, gender Prima della rivoluzione (1964) esce alla fine del “periodo d’oro” della Nouvelle vague (1959-1964), esperienza a cui il film di Bertolucci si ispira in modo programmatico. Questa filiazione diretta spiega forse il diverso esito critico che il film ebbe nei due paesi, Italia e Francia. In patria il film è recensito in modo negativo e rimane pressoché invisibile. Oltralpe è sostenuto dai «Cahiers», a quel tempo già un’istituzione, come la Nouvelle vague, e vince il premio Jeune Critique al Festival di Cannes. In questo secondo lungometraggio, il gesto creativo di Bertolucci è influenzato in particolar modo da Godard, soprattutto in relazione ad alcune innovazioni che, nel 1964, sono oramai divenute dei codici: pensiamo in particolare all’uso del jump cut e alle riprese “documentaristiche” della città, oppure alla variazione di toni e registri, dal comico, al serio al tragico, o ancora, alla contrapposizione dialettica come struttura formale del film stesso, in particolare tra immagine e suono, tutti elementi compositivi tipici del primo Godard. Ma vi sono alcuni tratti che differenziano il film dalla pratica godardiana o, meglio, determinano un posizionamento del film a metà tra il primo e il secondo Godard. Prima della rivoluzione è in effetti sia un film politico che un film girato politicamente, per riprendere un noto slogan del regista francese. Il film sembra infatti muoversi tra À bout de souffle (1960) e Vivre sa Vie (1962) da un lato, La chinoise (1967) e Week End (1967) dall’altro. L’acquisizione di certi dispositivi linguistico-formali di Godard si accompagna però a un immaginario personale e culturale diverso e incompatibile rispetto a quello dell’autore francese. Mentre Bertolucci cita e utilizza estesamente il linguaggio di Godard, tra il mondo di Fabrizio e quello di Michel Poiccard vi è una incompatibilità totale. Il legame di Fabrizio con il passato definisce la forte componente nostalgica del personaggio di Bertolucci. In questo tratto si coglie anche la relazione con La Certosa di Parma (1838), il romanzo di Stendhal da cui l’autore mutua l’ossatura centrale del film, la relazione di Fabrizio con la zia Gina1. Se il film di Bertolucci è teso verso il passato e la tradizione, l’esordio di Godard è imbevuto di un’atmosfera di modernizzazione e americanità. Basti pensare agli ambienti e ai luoghi dei due film: la città di provincia, la piccola Parma, con le stradine e le piazze storiche e la grande metropoli, Parigi, con i suoi ampi e moderni Champs-Elysées, l’aeroporto, e le icone della modernità2. Prima della rivoluzione è un Bildungsroman, un racconto di formazione che narra il passaggio all’età adulta del protagonista. Del Bildungsroman ottocentesco il film conserva molti tratti. Secondo Franco Moretti, il romanzo europeo dell’Ottocento è la forma simbolica della modernità che codifica la gioventù come il periodo più significativo dell’esistenza. Quando le società di status cominciano a entrare in crisi, in concomitanza con la crescita delle città, il percorso individuale non è già segnato in partenza, ma diventa un’esplorazione del possibile. Il soggetto moderno (maschile) attraversa lo spazio sociale attraverso il viaggio, l’avventura, lo smarrimento per trovare un suo posto, stabile o meno. Questa mobilità, tratto moderno imprescindibile, sviluppa anche un’interiorità irrequieta e insoddisfatta: la mobilità fa nascere desideri e aspettative che spesso vengono frustrati. E la giovinezza non permette solo traiettorie spaziali, ma istituisce vincoli temporali forti, non dura in eterno. Secondo Moretti il diverso peso narrativo di questi tratti ha prodotto due tipi di intreccio: da un lato una forma retorica teleologica, in cui il senso della trasformazione è dato dallo scopo. In questa forma ad alta vocazione normativa, esemplificata in particolare dal romanzo familiare inglese, il matrimonio costituisce l’atto definitorio per eccellenza. Nell’altro

modello, il romanzo dell’adulterio, l’accento viene posto sulla trasformazione come instabilità. Nel primo caso la gioventù viene subordinata alla maturità, nel secondo l’accento sul dinamismo e il cambiamento, come nel romanzo francese, trasforma la maturità nella negazione stessa della gioventù. Se nel primo caso il valore supremo è la felicità, a scapito della libertà, nel secondo, soprattutto nei due romanzi stendhaliani, si celebra invece il culto della libertà3. Debitamente declinata in relazione al diverso contesto storico-sociale del film, l’analisi di Moretti appare un buon punto di partenza per l’analisi. Per certi versi, infatti, il film sembra fondere i tratti dei due tipi di intreccio in uno: il matrimonio appare come la negazione della libertà più che il compimento di una teleologia, e l’irrequietezza rimane dunque il tratto primario del personaggio. La rinuncia alla libertà, e l’accettazione dei codici di comportamento della classe di appartenenza, sembra condurre il Fabrizio di Bertolucci a una vera infelicità. E tuttavia, la retorica del film produce una serie di strategie di distanziamento dal personaggio maschile tanto che il punto di vista del film e dell’autore sembra privilegiare la traiettoria più rischiosa e «meno borghese» di Gina. Un’analisi parallela dello stile e dell’immaginario ci consente di definire il discorso del film attorno alle questioni principali: i rapporti di classe, la soggettività borghese, il rapporto tra maschile e femminile, la dicotomia tra ragione ed emozione. DALLA TRADIZIONE ALLA MODERNITÀ: RAPPORTI DI CLASSE E RELAZIONI DI GENERE

Fabrizio è un giovane sui vent’anni della media borghesia di Parma fidanzato con Clelia, figlia della ricca borghesia cittadina. Come ogni famiglia altolocata della provincia del Nord, la famiglia di Clelia ha un palco per la stagione operistica, segno visibile del suo status. Di famiglia cattolica, Fabrizio è iscritto al Partito comunista e ha in Cesare, un maestro elementare molto impegnato nel partito e nel suo lavoro di insegnante, il principale punto di riferimento ideologico, una sorta di padre simbolico. Il film è il tentativo fallito del protagonista di uscire dalla propria classe di appartenenza e di dedicarsi alla rivoluzione. Diversamente dal romanzo ottocentesco, la mobilità e la trasformazione sociale sembrano qui impossibili e Fabrizio crede che il suo destino sia segnato dalla sua nascita, curiosa inversione rispetto al soggetto borghese del secolo precedente. Il film narra l’ultima ribellione del protagonista prima della sua integrazione sociale attraverso il matrimonio con Clelia, atto con cui si conclude il film stesso. Prima della rivoluzione si apre sotto il segno di una grande irrequietezza: Fabrizio declama una poesia contro la religione di Pasolini, vaga per la città e va a spiare Clelia in chiesa. In una scissione tra voce e immagine che caratterizzerà molte scene del film, Fabrizio afferma che Clelia è «la dolcezza di vivere che io non voglio accettare» e che è venuto a guardarla per «l’ultima volta». Seguendo una struttura “additiva”, in luogo della classica causalità, il film racconta poi l’incontro tra Fabrizio e Agostino, l’amico irrequieto segnato dal “male di vivere”. A Agostino il protagonista consiglia, senza capirne i problemi, di iscriversi al partito, così poi anche gli errori «hanno un senso». Quando Fabrizio lascia Agostino per andare a trovare l’amico Cesare, la mdp si sposta nella casa del protagonista. Siamo alla vigilia di Pasqua e da Milano arriva per le festività Gina, sorella minore della madre di Fabrizio e, dunque, zia del protagonista. La giovane donna mostra subito un’emotività forte e, al tempo stesso, una vivacità positiva, che sembra essere trasmessa dall’energia della metropoli in cui vive. Ma il giorno successivo Agostino muore annegato, forse suicida, e Fabrizio rimane profondamente

turbato. L’arrivo di Gina, che non vede da molto tempo, lo distoglie in parte dal dolore e gli dà una carica inaspettata. La parte centrale del film è dedicata all’innamoramento dei due, seguiti – come Michel e Patricia in Fino all’ultimo respiro – mentre si muovono felici tra le strade della città, mentre fanno l’amore nella tipografia abbandonata, nell’episodio della camera oscura, a casa dell’intellettuale Cesare o nella campagna ormai ipotecata di Puck. Ma la storia non ha futuro. Dopo le feste Gina riparte per Milano senza avvertire Fabrizio. Un’ellissi temporale ci porta alla fine dell’estate. Fabrizio e Cesare sono alla Festa cittadina dell’Unità, oramai in fase di smobilitazione. L’ultima “conversazione ideologica” vede il protagonista invocare, con le parole d’ordine dell’epoca, la necessità di «un uomo nuovo», cosciente della propria condizione, e intellettualmente emancipato rispetto al «popolo comunista», che «accetta tutto», soprattutto i divertimenti borghesi. Ma Cesare, la “voce ufficiale” del partito, contesta il vuoto idealismo di Fabrizio e afferma che non si può condannare il desiderio del proletariato di stare meglio. Non è il partito in difetto: piuttosto, è Fabrizio che non è stato all’altezza del partito «perché non ha saputo integrare la visione dell’uomo nuovo nel suo mondo personale e nella sua sensibilità estetica»4. La parte finale del film è dedicata alla ripresa del rapporto con Clelia. Dapprima l’apertura della stagione operistica mostra l’ambiente borghese da cui proviene il protagonista. La rappresentazione di un rito sociale fondamentale per la borghesia di provincia esprime il tradizionale cliché romantico del contrasto tra la falsa e superficiale realtà dei rapporti (Fabrizio-Clelia) e i veri sentimenti (Fabrizio-Gina) che non possono trovare una adeguata espressione. Fabrizio è con Clelia nel palco di famiglia, mentre in platea i genitori del giovane vengono raggiunti da Gina che, appena in ritardo, sembra giungere da Milano per non perdere l’evento. I due ex amanti si allontanano dai rispettivi posti e si incontrano nei corridoi del teatro: è l’addio che non si erano mai dati, doloroso soprattutto per Gina. Nell’episodio successivo, ultimo atto del film, assistiamo al matrimonio di Fabrizio e Clelia. La mdp riprende l’uscita dalla chiesa dopo la cerimonia, i saluti a parenti e amici e la partenza in automobile degli sposi. Mentre Fabrizio è mostrato solo di nuca, l’episodio è incentrato sull’opposizione tra le due donne: la bellezza algida da Parmigianino e la postura austera, financo fredda di Clelia sono in chiaro contrasto con il pianto e il dolore di Gina, emotiva come l’avevamo conosciuta, e ancora innamorata del nipote. È del tutto evidente che la regia del finale segna uno scarto non colmabile tra il punto di vista autoriale e quello del personaggio: mentre Fabrizio non viene mai mostrato e Clelia appare ancora una volta una statua di marmo, priva di linfa vitale, il film si concentra sull’emozione di Gina e l’ultima inquadratura riprende la donna ancora in lacrime. Nonostante le tematiche del film e la traiettoria narrativa siano riconducibili al romanzo di formazione, il diverso contesto storico-sociale rispetto all’originale ottocentesco cambia profondamente lo statuto e le possibilità esistenziali del protagonista. Fabrizio, che con la nascita ha acquisito la condizione di borghese, conserva l’irrequietezza dei suoi predecessori, ma ciò che manca alla sua figura è il tratto fondante della Bildung moderna, il dinamismo e la trasformazione, l’acquisizione di una condizione sociale diversa da quella della nascita. Il matrimonio non giunge quindi come ultimo atto di una traiettoria teleologica, ma come imposizione di classe che Fabrizio è troppo debole per rifiutare. Alla vigilia del ’68 l’essere borghese è oramai una condizione statica, da cui il soggetto maschile non sa uscire. Il racconto perde dunque il tratto della trasformazione e si presenta sotto quello della circolarità. A ciò contribuisce un espediente formale di

indubbia efficacia. L’inizio del film, durante i titoli di testa, prima che la diegesi abbia inizio, ci presenta uno schermo scuro, poi più chiaro, su cui si impone una giovane voce maschile che afferma: «Adesso che me ne sto in pace, attaccato alle mie radici, mi pare di non esistere più». Benché manchi qualsiasi indicazione sull’identità del soggetto parlante e sia impossibile, nel momento della proiezione, capire la funzione di questo frammento, un’analisi complessiva del film ci consente di interpretare senza troppe ambiguità l’incipit. La voce è del protagonista Fabrizio e il commento non può che essere successivo al matrimonio con Clelia, ovvero alla conclusione della storia narrata. Si confronti l’inizio de Le petit soldat (1960) in cui il protagonista, in voice over, afferma: «Pour moi le temps de l’action est passé. J’ai vieilli, celui de la réflexion commence». Come nel più classico flashback l’inizio di Prima della rivoluzione corrisponde in realtà alla fine: così negli eventi che saranno mostrati c’è già il peso del fallimento di Fabrizio, che la voce di commento iniziale dichiara in modo esplicito. In altre parole, la strategia retorica assunta da Bertolucci sembra indicare che il regista non dà alcuna chance al suo protagonista. È utile, a questo proposito, indagare più a fondo la relazione tra il punto di vista dell’autore e quello del personaggio. Punto chiave di tutto il cinema d’autore italiano degli anni sessanta, questo elemento ci consente di verificare la posizione autoriale in relazione al «racconto della crisi»5. Il cinema d’autore di quegli anni ha eletto la crisi del soggetto a tema privilegiato, presentando ossessivamente racconti di introspezione narcisistica o di conclamata incapacità da parte dell’io di capire sé e il mondo. Di particolare interesse sono le modalità tramite cui la figura autoriale, il soggetto dietro la mdp, si relaziona al soggetto della diegesi, muovendosi dall’identificazione alla presa di distanza. Questo aspetto appare particolarmente importante in Prima della rivoluzione, un film esplicitamente autobiografico. David Bordwell ha affermato che il cinema d’autore è una pratica filmica specifica «che possiede un’esistenza storica ben definita, una serie di convenzioni formali e delle implicite procedure spettatoriali»6. Diversamente dal cinema classico il cinema d’autore privilegia il personaggio all’intreccio. Il racconto è irto di ellissi e le relazioni di causaeffetto sono fortemente allentate. Il «personaggio viene esibito» a scapito dell’azione: nel cinema d’autore il personaggio è privo di tratti, motivazioni e scopi chiaramente marcati. Agisce in modo incoerente […] o mette in questione le proprie motivazioni […]. Se il personaggio hollywoodiano si affretta verso la meta, il protagonista del film d’autore scivola passivamente da una situazione all’altra7.

In modo simile alle opere del modernismo letterario, una delle sue fonti, il film d’autore vuole dare un giudizio sulla vita moderna e sulla condizione umana: il protagonista deve, in ultima analisi, ammettere che sta vivendo una crisi esistenziale. Se è vero che il cinema d’autore moderno esibisce il personaggio, l’io, nella sua crisi esistenziale, l’istanza autoriale è sovente distaccata dalla traiettoria diegetica del protagonista e tale distanza è solitamente maggiore alla fine del film. In altre parole, il personaggio è inizialmente l’alter ego dell’autore: l’ossessività con cui si narrano crisi e fallimenti, desideri incerti e mutevoli è il segno che l’autore ha più di un elemento in comune coi propri personaggi. I film raccontano sia la crisi che la presa di coscienza della debolezza dell’io: questa traiettoria, per certi tratti comune, si conclude normalmente con l’affermazione, da parte dell’autore, del suo maggiore grado di consapevolezza. In Prima della rivoluzione la transizione dall’identificazione alla distanziazione assume tratti specifici, riconducibili alla differenza di classe e di genere,

e si manifesta in modo più chiaro e articolato nel finale del film. Nonostante il ruolo di Fabrizio come protagonista non sia mai messo in discussione, l’occhio della mdp mostra un interesse particolare per il personaggio femminile. Gina infatti non viene solo ripresa durante la relazione con Fabrizio, ma viene più volte mostrata sola, o comunque senza il nipote. Alcuni episodi, in particolare, riprendono la donna nell’intimità della propria stanza, mentre si commuove a guardare le foto dell’infanzia, o mentre in crisi telefona di notte al proprio psicoanalista. In questi frangenti il film sottolinea la qualità emotiva di Gina rivelando l’atteggiamento sentimentale, fragile, “femminile” di Gina, che piange senza ritegno. Oltre a essere emotiva, Gina è anche psichicamente instabile e un po’ nevrotica. Forse per questo può essere anche una donna “facile”, che può andare col primo sconosciuto che incontra per strada, solo per ingelosire Fabrizio o, forse, per seguire un impulso improvviso e irrazionale. Il trattamento che Bertolucci riserva alla sua compagna Adriana Asti/Gina è molto simile a quello che molti “grandi” autori in quegli stessi anni riservano alle proprie. C’è in effetti una palese somiglianza nel modo in cui, per esempio, Antonioni rappresenta e usa Monica Vitti, Godard Anna Karina, Fellini Giulietta Masina, Bergman le sue varie muse. È curioso come nel cinema d’autore le donne siano quasi sempre nevrotiche, un po’ irrazionali ed emotive, sessualmente disponibili e/o sull’orlo di diventare un po’ prostitute. Anche se questo non è il luogo per approfondire una questione affatto secondaria, ma poco studiata, va almeno sottolineata l’esistenza di questo immaginario maschile omogeneo e transnazionale (europeo?)8. Questo eccesso di affettività femminile non è comunque del tutto negativo, è semmai ambiguo. Rispetto alla freddezza, all’inazione incolore e alla passività di Fabrizio, l’emotività di Gina ha risvolti importanti, perché si accompagna a una traiettoria di ribellione ed emancipazione. Gina ha da tempo abbandonato Parma per Milano, la provincia borghese per la grande città moderna e industriale. Ripercorrendo per certi versi le gesta delle «New Women», o delle «maschiette» italiane di inizio secolo che l’hanno preceduta, Gina ha rischiato il fallimento e la solitudine pur di trovare un’uscita dalla noia borghese in cui è cresciuta. Con il tipico comportamento di chi ha sentito sempre stretto l’ambiente della provincia e della famiglia, Gina torna sui luoghi dell’infanzia per le festività in cerca di calore e affetti conosciuti, ma, inesorabilmente, la sicurezza affettiva si accompagna alla sensazione di chiusura e claustrofobia. Così deve fuggire a Milano in cerca di libertà. Il coraggio di Gina – che non ha timore di lasciare la sicurezza delle origini – si contrappone alla pavidità di Fabrizio che non può rinunciare «alla dolcezza del vivere». Gina dunque non è solo troppo emotiva e fragile, ma è anche coraggiosa e ribelle, vivace, espressiva ed energica. Pensiamo alla bella sequenza degli occhiali in cui, grazie a una serie di veloci jump cuts, la donna si fa riprendere mentre imita scherzosamente le pose di una modella che si infila una serie di occhiali alla moda. L’autore ha dunque, forse inconsapevolmente, rappresentato una giovane donna emancipata allineata con i tempi. In questo senso possiamo leggere il finale: mentre Fabrizio viene inquadrato velocemente di nuca, come se l’autore volesse disfarsi del suo protagonista, a Gina vengono riservati numerosi piani: la donna piange a dirotto e per nascondere il dolore abbraccia il nipotino fingendo un’incontrollabile emozione. Il rumore dei singhiozzi di Gina è l’unico suono diegetico della scena: così, se la diegesi termina con il matrimonio di Fabrizio con Clelia, l’immagine e il suono privilegiano Gina e il suo pianto. Il finale rappresenta dunque il momento di massima distanza tra l’autore e il suo alter ego.

Ma il finale contiene anche un ulteriore elemento di interesse. La scena del matrimonio è infatti presentata in montaggio alternato con le immagini di Cesare che all’alba esce di casa, poi, nel secondo frammento, è in classe con i suoi alunni. Se dal punto di vista della verosimiglianza narrativa è singolare che l’uomo non partecipi al matrimonio dell’amico – ma forse, la loro amicizia è finita dopo che Fabrizio abbandona il sogno della rivoluzione –, il vero interesse dell’episodio sta nella retorica del montaggio. Con questa procedura Bertolucci riesce a mettere a confronto i due momenti, i due personaggi e le loro scelte: mentre Fabrizio cede alle facili lusinghe borghesi, Cesare mostra la forza del suo impegno sociale ed educativo. Cesare, interpretato da Morando Morandini, crede che l’istruzione sia per le classi subalterne una vera possibilità di riscatto e a tale scopo impegna tutte le proprie energie. A differenza di Fabrizio, cui la mdp non riserva più il suo sguardo, alla fine Cesare viene inquadrato alla scrivania mentre legge un passo di Moby Dick ai suoi alunni: come alla Festa dell’Unità, il finale suggerisce che la trasformazione sociale è forse possibile per «i proletari». Il film dunque dimostra «che il problema dell’atteggiamento rivoluzionario di voler cambiare il mondo, spingendolo verso una nuova realtà [fallisce perché] è esso stesso un prodotto del passato»9. Dunque, mentre il borghese Fabrizio viene abbandonato al suo destino, a tradizioni ormai superate, il proletariato e le donne sembrano avere una chance di affermazione nell’immediato futuro. LO STILE E LA MESSA IN SCENA

Queste questioni possono essere affrontate in modo più articolato attraverso un’analisi dei dispositivi formali del film. Indubbiamente il film mostra un uso cosciente del linguaggio cinematografico e un posizionamento assai chiaro nel panorama del cinema europeo del periodo. Ne Il cinema moderno e la narratività (1966) Christian Metz avanza un’ipotesi sullo statuto narrativo e rappresentativo del cinema d’autore europeo, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, che ben si adatta a Prima della rivoluzione10. Metz interviene nel dibattito critico nel tentativo di definire la natura di questa nuova forma filmica in rapporto al cinema classico. L’argomento cui Metz dà maggior spazio riguarda la possibilità/impossibilità di dare una definizione generale delle diverse esperienze del moderno. Cioè, mentre è facile definire il moderno come un «superamento» del classico, appare più problematico comprendere i caratteri di questo superamento11. Metz passa in rassegna una serie di proposte dimostrando come ciascuna di esse valga solo per pochi film o autori: dal «cinema dell’improvvisazione» (Godard) al «cinema della sdrammatizzazione» (Antonioni), dal cinema del «realismo» (Godard, Truffaut, Antonioni ecc.) al suo opposto, il «cinema regolato» (Resnais), solo per nominarne alcuni, il cinema moderno appare come un coacervo di pratiche accomunate solo dal fatto di rompere le regole classiche. Nonostante le differenze autoriali, alcuni elementi appaiono comuni alla gran parte dei cineasti. Oltre alla presenza di personaggi e racconti deboli o relativizzati, se guardiamo alle modalità della messa in scena, le analisi di Metz fanno emergere come costante la compresenza di due atteggiamenti antitetici: da un lato un impulso realista, che Metz considera tra «le conquiste più preziose» del cinema moderno, teso alla rivelazione di un certo tipo di verità che assai di rado si trovava nelle grandi opere del passato, verità infinitamente difficile da definire, ma che si localizza istintivamente. Verità di un atteggiamento, di un’inflessione di voce, di un gesto, giustezza di un tono…12

D’altro canto è riscontrabile un altrettanto frequente impulso metalinguistico. È nel cinema di Godard di quegli anni che, a mio avviso, la compresenza di queste due

opposte tendenze è più forte e netta. Prima della rivoluzione si pone esplicitamente sulla scia del cineasta francese. Secondo Giorgio De Vincenti proprio il binomio realismo/metalinguismo, ovvero «la combinazione dell’impegno metalinguistico con il recupero dell’aspetto riproduttivo del cinema» costituisce «il moderno cinematografico propriamente detto»13. In questa linea, riferendosi specificamente al film, Francesco Casetti afferma che in esso si alternano «i modi dell’immediatezza e quelli della mediatezza». Poiché il film è esplicitamente autobiografico (immediatezza) il regista ha bisogno di distanziarsi dal materiale rappresentato. A tale scopo si possono individuare una serie di procedure: innanzitutto una fitta rete di rimandi e citazioni letterarie e filmiche, in secondo luogo alcune soluzioni linguistiche stranianti – come dissolvenze sbagliate, carrello frequentativo su Gina, uso del fuoricampo – e infine una «costruzione a blocchi narrativi autonomi». Così il film riesce a mediare tra la forma soggettiva del diario e quella oggettiva del romanzo14. Partendo da queste suggestioni teoriche, proporrei di considerare il binomio realismo/metalinguismo, immediato/mediato in relazione sia alla struttura complessiva del film che al suo immaginario. In altre parole, è possibile ascrivere a questo binomio una funzione che vada oltre la coscienza della forma? Esiste una struttura articolata nell’uso di questo binomio formale? E, in secondo luogo, questi dispositivi antitetici sono legati a personaggi e situazioni particolari, o sono soprattutto uno sfoggio dell’abilità manipolatoria del regista? Nonostante a Bertolucci manchi, in questo film, il rigore formale di altri autori dell’epoca, vi sono alcuni procedimenti che sembrano usati in modo del tutto “cosciente” e funzionale a un progetto estetico definibile. Mi riferisco in particolare all’uso del montaggio e del sonoro. Il film è costruito attorno a una alternanza tra sequenze in cui domina il montaggio discontinuo e veloce, sotto forma di jump cut, e piani-sequenza o long takes (spesso accompagnati da movimenti di macchina). A livello sonoro il tessuto del film si fonda su una serie di opposizioni: tra musica extra-diegetica e dialogo, tra dialogo e voice over. Più in generale, l’orchestrazione dei diversi elementi sonori in rapporto all’immagine rivela una serie di logiche binarie che strutturano la forma e il senso del film. Così il rapporto tra Fabrizio e Gina, tra ragione ed emozione, tra rivoluzione e tradizione trova riscontro a livello formale nell’articolazione dialettica tra codici diversi. Le due opzioni montaggio discontinuo/piano-sequenza sono per molti versi riconducibili al binomio metalinguismo/realismo. Anche se non mancano inserimenti e scelte in parte aleatorie, il progetto formale del film ha un certo grado di sistematicità15. In Prima della rivoluzione la funzione del montaggio discontinuo e del piano-sequenza emerge in modo strutturale, ovvero nei momenti in cui sono usati l’uno in opposizione all’altro. Nei due casi, a una determinata opzione del montaggio corrisponde anche una diversa dimensione sonora: il jump cut è accompagnato dalla musica extra-diegetica, mentre il long take si associa a un lungo discorso verbale, una sorta di monologo, da parte del personaggio. L’incontro tra Fabrizio e Agostino e successivamente il dialogo di Fabrizio con Gina in automobile, durante il funerale dell’amico, sono strutturati in modo simile: nel primo, due segmenti in long take sono seguiti da un episodio montato velocemente attraverso una serie di jump cuts; nel secondo, il frammento montato è posto tra due episodi in piano-sequenza. L’alternanza è legata a un netto cambiamento di registro: il montaggio costruisce e rivela un atteggiamento leggero e scherzoso, il piano-sequenza un approccio serio e severo verso i comportamenti umani. Nei due episodi il segmento

montato velocemente mostra, nel primo, Agostino che gioca come un bambino con la propria bicicletta, nel secondo, Gina che si mette in posa per provare una serie di occhiali dalle forme diverse. In entrambi i casi l’azione comico-scherzosa è accompagnata da un motivo musicale dello stesso tono. Insieme va notata la forte somiglianza del rapporto intersoggettivo messo in scena: nei due eventi Agostino e Gina recitano una parte per Fabrizio, attirano su di sé lo sguardo del protagonista affinché assista alla loro performance. La dimensione teatrale e performativa degli episodi è esplicitata in particolare dalla perfetta congruenza tra il movimento del corpo attoriale, il ritmo del montaggio, il timbro e il ritmo del motivo musicale. Questi momenti di giocosità infantile sono accompagnati da conversazioni e/o monologhi estremamente seri e il cambiamento di tono viene registrato a livello formale. Nei due long takes del primo episodio Fabrizio rimprovera e fa la morale a Agostino perché non prende abbastanza seriamente l’attività politica, per esempio l’iscrizione al PCI, e pensa di risolvere il conflitto con i genitori semplicemente andandosene di casa. Il vocabolario «da libro stampato» – come gli rimprovererà più tardi Cesare – e l’atteggiamento di superiorità morale di Fabrizio verso l’amico non solo contribuiscono a una empatia negativa verso il personaggio, ma trasformano il film in una sorta di documento storico e politico dell’epoca. È innegabile che per lo spettatore odierno quest’aspetto fa apparire il film un po’ “superato”, com’è spesso il caso di documenti scritti e visivi che usano in modo diretto il linguaggio dell’ideologia. Nel secondo episodio la gag degli occhiali è preceduta e seguita da due long takes in cui Gina espone a Fabrizio, anche in modo contraddittorio, le sue idee sugli uomini e la vita adulta. Nel secondo monologo, Gina in particolare parla della morte rievocando quella del proprio padre. In questi frangenti, come in altri, la donna sviluppa una forte riflessione esistenziale, dà voce a una visione personale ed emotiva su come ha vissuto momenti e fatti importanti della vita, a fronte della tendenza maschile, rappresentata da Fabrizio e Cesare, di parlare in modo ideologico, astratto e impersonale. Il momento forse più esplicito in questo senso è la discussione a casa di Cesare fra i tre, quando Gina proustianamente afferma che non si può vivere secondo l’ordine della Storia, ma solo seguendo il proprio tempo personale. Questo doppio registro verrà impiegato in tutto il film. Non si tratterà di una applicazione meccanica e perfetta: piuttosto, gli elementi presenti in questi segmenti iniziali costituiscono il nucleo di partenza per la costruzione di un corpus sia formale che semantico più complesso. La scena dell’innamoramento, poco dopo l’episodio degli occhiali, è forse il momento più bello del film, oltre a essere un esempio della prima opzione del binomio appena discusso. Vediamo inquadrature del centro affollato di Parma, con i due protagonisti mescolati alla folla mentre si cercano, poi mentre entrano ed escono da negozi pieni di pacchetti regalo. Con il tipico stile delle riprese parigine di Godard, le immagini che si susseguono sono girate da punti di vista e distanze assai diverse: il montaggio discontinuo della scena segue dunque il modello stabilito in precedenza con il jump cut. E come negli episodi precedenti, l’immagine è accompagnata da una canzone: si tratta di Ricordati (1964), uno dei motivi di Gino Paoli inseriti in colonna. Ciò che più mi interessa, tuttavia, è la funzione dell’episodio nel contesto sinora evocato: il montaggio discontinuo, la presenza della musica e l’assenza del linguaggio verbale vengono prima associati al gioco, lo scherzo e l’infanzia, quindi all’innamoramento e alla passione. Comincia dunque a definirsi un corpus formale e semantico ben preciso: il montaggio sregolato e la musica vengono associati alla

dimensione dell’infanzia, della giovinezza, e più in generale dell’affettività e del desiderio. È chiaro come invece il binomio piano-sequenza/linguaggio sia riconducibile a una dimensione opposta: non solo la vita adulta, il simbolico, la ragione, l’ordine, ma anche l’ideologia e il “dover essere”. Questa dimensione diventa sempre più importante e caratterizza molti momenti del film, in particolare i dialoghi e i monologhi sulla lotta di classe, il partito e l’ideologia comunista. Mentre Fabrizio sembra scisso tra le due dimensioni, Gina cerca di sfuggire alle richieste della ragione. Che la loro storia sia, in primo luogo, una regressione all’infanzia viene suffragato dai luoghi del loro amore. Prima la «vecchia tipografia», dove trascorrono la prima notte d’amore, poi la camera oscura: qui la dimensione luministica è esplicitamente onirica e la “realtà” viene lasciata fuori. Proprio perché legato alla sfera emotiva, il jump cut è più spesso impiegato in relazione a Gina che agli altri personaggi: pensiamo per esempio alla scena in cui la donna piange dopo l’incontro con la bambina, oppure quando lascia Parma e cammina verso la stazione accompagnata da Cesare. Se il piano-sequenza accompagna in alcuni momenti iniziali discorsi severi, più in generale è il linguaggio verbale che assume la funzione ideologica e razionale. In effetti, a mano a mano che il rapporto tra Gina e Fabrizio si incrina, la dimensione parlata del film si fa più frequente e pressante. Dialoghi, conversazioni, monologhi e voci di commento extra-diegetiche rappresentano un’opzione assai forte. Si potrebbe sostenere che l’uso del linguaggio giunga a inscrivere nel film una dimensione saggistica, teorica, persino anti-narrativa e che, in ultima analisi, questo aspetto rientri nella più ampia dimensione autoriflessiva del film. Vi sono almeno cinque momenti importanti: i discorsi declamatori di Fabrizio sulla religione e la politica, nella parte iniziale, il commento da politique des auteurs di Gianni Amico sulla moralità del cinema, il discorso di Puck su come abbia perduto le terre ereditate dal padre e la conversazione tra il protagonista e Cesare alla Festa dell’Unità. Questi due ultimi episodi sono particolarmente interessanti, non solo per la loro funzione testuale – ci indicano con chiarezza l’avvicinarsi della resa di Fabrizio, oltre che della fine del film –, ma anche per la loro maggiore complessità formale e, infine, per la palese somiglianza delle procedure impiegate. Separate dal breve episodio della partenza di Gina, le due scene articolano in modo assai efficace il rapporto tra parola diegetica ed extradiegetica e la relazione tra i due soggetti implicati nel discorso, Puck e Fabrizio nel primo, Cesare e Fabrizio nel secondo. Puck è un uomo di mezza età, un vecchio amico d’infanzia che Gina va a trovare accompagnata da Fabrizio e Cesare. L’uomo è l’erede di una ricca famiglia di proprietari terrieri oramai caduta in disgrazia. Come spiega agli ospiti, in un monologo che riassume il nucleo tematico di tutto il film, dopo la morte del padre l’attività non è stata più redditizia. Le terre sono oramai ipotecate e l’uomo dovrà cedere definitivamente le proprietà. Puck ammette di non aver mai lavorato, non tanto per mancanza di volontà, quanto per incapacità. È l’abitudine alla propria condizione – di chi sa solo vivere di rendita – che gli ha impedito di cercarsi un lavoro, di cambiare cioè il proprio status. Puck è un uomo del passato che subisce passivamente i cambiamenti storici: così come l’industrializzazione inghiottirà definitivamente la campagna, egli rischia letteralmente di non riuscire a sopravvivere. In queste affermazioni riconosciamo la condizione stessa del protagonista: Puck e Fabrizio sono membri di due classi/culture diverse ma entrambe residuali, un mero retaggio del passato che sarà

spazzato via da stili e forme di vita emergenti16. Anche se il protagonista reagisce con rabbia al discorso di Puck, alla fine egli riconosce che la propria condizione è del tutto simile. L’ultima inquadratura dell’episodio inizia con i protagonisti ripresi in lontananza mentre dialogano. Improvvisamente il movimento viene congelato e il sonoro interrotto: il piano si trasforma in un freeze-frame, con i corpi dei personaggi bloccati, fissati per sempre come in una foto d’epoca. A questo punto la voice over, extradiegetica, di Fabrizio, ammette che Puck aveva parlato anche per lui, che in quelle parole egli poteva riconoscere se stesso in un futuro prossimo. L’episodio della Festa dell’Unità è simile, in particolare per quanto riguarda le strategie appena descritte. Verso la fine del lungo dialogo tra Cesare e Fabrizio, mentre il protagonista, seduto su una panchina, sta descrivendo il suo fallimento con Gina, la mdp si allontana dallo spazio di Fabrizio, comincia a riprendere un gruppo di militanti alla Festa, poi in rapido montaggio ci mostra alcune scene della vita cittadina quotidiana. Fabrizio continua a parlare, ma ora la sua voce è extra-diegetica: lo spazio dell’immagine non è più quello da cui proviene la voce. In questo breve frangente, Fabrizio declama nuovamente la propria consapevolezza sulla sua condizione. Come alla fine dell’episodio di Puck ora afferma: «La mia condizione di borghese sta nel mio passato di borghese. Credevo di vivere gli anni della rivoluzione invece vivevo gli anni prima della rivoluzione». Quando la voce del giovane tace, la mdp torna a riprendere gli spazi della festa. Un gruppo di militanti marcia sollevando le bandiere rosse e cantando un inno comunista. Cesare e Fabrizio stanno ora camminando sullo sfondo, ma quasi non ci accorgiamo della loro presenza: i loro corpi vengono subito occultati dalle bandiere che ora occupano tutto lo schermo. In una sorta di montaggio delle attrazioni ejzenstejniano, il movimento dei due assume una direzione opposta a quella dei militanti: mentre questi ultimi si allontanano verso lo sfondo e il fuoricampo, Fabrizio, seguito da Cesare, si avvicina camminando alla mdp. Una ennesima dicotomia all’interno della dimensione sonora conferma l’esito negativo, perdente, della traiettoria del protagonista: mentre l’inno risuona, con la stessa forza Fabrizio si commuove del proprio fallimento. Con un filo di voce, coperto quasi interamente dalla musica, il protagonista ormai singhiozzante afferma: «Proletari di tutto il mondo unitevi». Uno stacco veloce, quasi brutale ci immerge in un’atmosfera completamente diversa: una melodia d’opera accompagna le immagini di un pubblico elegante nel foyer di un teatro. In questi episodi, il “conflitto dei suoni”, il rapporto tra parola diegetica, voce di commento (extra-diegetica) e musica dichiara in maniera assai efficace il progetto formale e il senso del film. Da un lato la dicotomia tra parola diegetica ed extradiegetica, dialogo e voce di commento, segna il passaggio da un contesto individuale e soggettivo – legato appunto alla storia narrata – a una dimensione storica e “oggettiva”, oltre la diegesi. E ogni volta che l’unità tra voce e corpo viene rotta, attraverso l’iscrizione della voice over, il film abbandona il registro narrativo e attiva quello metalinguistico: in questi frangenti, attraverso il personaggio, sembra palesarsi anche la figura autoriale. Così il commento di Fabrizio sulla sua condizione di borghese, mentre sfilano immagini di quiete cittadina, sembra destinato non solo a se stesso ma a tutto un mondo che lo circonda. D’altro canto, la sovrapposizione tra l’immagine del protagonista sconfitto e i militanti che credono nella lotta politica, tra le ultime parole d’ordine di Fabrizio singhiozzante e la musica dell’inno cantata a squarciagola evoca ancora una volta la dicotomia tra ragione ed emozione. Ma ora, alla fine,

l’atteggiamento di Fabrizio si rivela in tutta la sua vuota astrattezza: le parole della rivoluzione non lo riguardano, e forse non l’hanno mai riguardato. Fabrizio non può sentire il valore della lotta, per lui la rivoluzione è una scelta fredda e razionale. L’immagine dei militanti che cantano l’inno dimostra quanto la rivoluzione sia anche una passione, quanto la lotta politica possa emozionare: al pari delle canzoni romantiche di Gino Paoli inserite a più riprese, l’inno rappresenta un momento di passione e desiderio. Come nel finale del film, questo regime dell’esperienza rimane precluso al protagonista. A Fabrizio non resta che ascoltare distrattamente l’opera.

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[7.]

[8.] 1-8. B. Bertolucci, Prima della rivoluzione (1964).

6. Postmoderno e nuova spettatorialità Il dibattito sul postmoderno occupa un posto significativo nel panorama culturale e accademico da circa quattro decenni. L’affiorare del termine risale invece all’immediato dopoguerra mentre, secondo autorevoli linee di ricerca, il fenomeno stesso inizia con le pratiche artistiche della controcultura1. Se alcune delle formulazioni più note e influenti sono sorte all’interno di un’arte specifica – si pensi al fondamentale ruolo del postmoderno architettonico –, non bisogna sottovalutare il fatto che il discorso elaborato dalla controcultura negli anni sessanta si è mosso in direzione opposta, cercando di cogliere atteggiamenti e pratiche comuni alle varie arti. In effetti, la complessità del dibattito e le difficoltà definitorie sembrano dipendere in primo luogo dalla necessità di rendere conto allo stesso tempo di dinamiche generali e particolari. Se è necessario considerare la storia di una singola arte o forma espressiva – e della sua fase moderna –, è però impossibile, almeno per chi scrive, non farsi sedurre da suggestioni provenienti da altre discipline, specialmente la filosofia e le teorie culturali contemporanee. In secondo luogo, la condizione del cinema è assai peculiare: il cinema nasce come apparato (intrinsecamente) moderno, ma come modo di rappresentazione vive una storia simile a quella delle arti che l’hanno preceduto e segmentabile in varie fasi: primitiva, classica, moderna e postmoderna. Queste fasi non si susseguono secondo una cronologia ferrea. Analizzando i paradossi temporali del cinema, Maureen Turim afferma che «non ha molto senso insistere sulla linearità dello sviluppo di un’arte la cui intera storia coincide con il modernismo delle altre arti». Forse, è più utile considerare la forma filmica in relazione «alla fluttuazione tra tradizione e modernità». In questa prospettiva «il cinema primitivo è già avanguardistico e la forma classica un tentativo di domare le potenzialità avanguardistiche» del cinema stesso2. In questo contesto, non è casuale che la discussione sul postmoderno in ambito cinematografico sia iniziata tardivamente rispetto alla filosofia e alle altre arti. Questo ritardo sembra dovuto a diverse ragioni: la giovane età del cinema, l’incerto statuto delle forme filmiche, ma anche l’evoluzione degli studi sul cinema. Nel momento in cui negli Stati Uniti il discorso sul postmoderno si animava, i Film Studies vivevano in quel paese una grande fase sia teorica che analitica – l’analisi del testo di impronta semiotico-psicoanalitico-femminista –, ma fondamentalmente antitetica rispetto al paradigma postmoderno3. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che la prima proposta teorica significativa sul “cinema postmoderno” proviene da uno studioso, Fredric Jameson, per il quale il cinema era, allora, un interesse del tutto secondario. Bisognerà attendere i primi anni novanta per trovare contributi originali che, partendo da un punto di vista cinematografico, attestino l’aderenza di tale dibattito al contesto filmico. Penso in particolare ai volumi di Steven Shaviro e Ann Friedberg, The Cinematic Body e Window Shopping, usciti nel 1993, ma anche al prezioso articolo di Maureen Turim già citato, Cinemas of Modernity and Postmodernity (senza dimenticare il dossier Postmodern Screen apparso su «Screen» nel 1987). Successivamente alcuni interventi hanno riproposto in termini niente affatto obsoleti la questione del rapporto tra cinema e postmoderno. Si pensi al libro di Laurent Jullier L’écran postmoderne (1997), al numero monografico Film Studies and Postmodern Theory di «Polygraph» (2001), ma anche all’articolo di Linda Williams Discipline and fun: Psycho and postmodern cinema (2000)4. Queste proposte indicano percorsi possibili diversi ridimensionando quella che era ormai diventata la vulgata: che il

cinema postmoderno fosse quel cinema, solitamente di genere, solitamente americano, che privilegia pratiche citazionistiche e riciclaggio di codici visivi, stilistici e di genere – tra cui il famoso pastiche jamesoniano. Dunque, una pratica essenzialmente parodica e ludica, una riscrittura autoriflessiva del cinema classico. In questo ambito il cinema postmoderno costituirebbe anche un “ritorno al racconto” in chiara opposizione all’“anti-narratività” del cinema moderno. In alternativa, i lavori sopraccitati propongono di vedere il postmoderno cinematografico come una pratica che, prima di tutto, riconfigura radicalmente l’esperienza spettatoriale. Mentre cambia certamente lo statuto dell’immagine, le forme e gli stili del film importano non in sé, ma in quanto attivano modi particolari di fruizione. La sensibilità postmoderna implicherebbe un rapporto schermo-spettatore segnato da affective and embodied forms of spectatorship (forme affettive e corporee di spettatorialità), per riprendere i termini usati in molti degli interventi di «Polygraph»5. Questa proposta non è priva di legami con suggestioni critiche emerse all’epoca della controcultura, in particolare negli scritti di Susan Sontag che, tra i primi, ha non solo colto l’importanza delle nuove esperienze artistiche – basti pensare al saggio sull’happening –, ma ha insistito sulla necessità di una nuova terminologia e metodologia critica congrua al nuovo oggetto di studio. Per Sontag l’interpretazione come «atto cosciente dello spirito che esemplifica un certo sistema, certe “regole” interpretative» è inappropriato per un’arte che «resiste all’interpretazione». «In luogo di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte»6. Assieme a quelli di Leslie Fiedler, gli scritti di Sontag rappresentano la prima valutazione positiva di una svariata gamma di esperienze, comprese tra il Pop e l’avanguardia, nelle arti visive e performative come nella letteratura di inizio anni sessanta. Ripercorrendo le riflessioni più originali sull’argomento proporremo di definire il postmoderno cinematografico in base a un determinato rapporto tra forme esteticoretoriche e modalità spettatoriali. In questa prospettiva il postmoderno risulterà una categoria trasversale e molteplice che investe il film narrativo (in tutte le sue forme) ma anche quello d’avanguardia, il film di fiction, ma ugualmente il documentario. Negli esempi più radicali il discorso sul postmoderno lascia intravedere la possibilità di una ridefinizione del regime discorsivo della pratica critica. Il film non andrebbe visto come l’opera di un autore e nemmeno come una struttura sovradeterminata, ma come un testo che attiva, innanzitutto, una peculiare esperienza nello spettatore. QUALE POSTMODERNO?

Le questioni definitorie riguardanti il postmoderno sono complesse (e ingarbugliate) quanto quelle relative al moderno. Nonostante sia da tempo accettata l’ipotesi che ci siano «vari postmodernismi o, meglio, varie costruzioni critiche chiamate postmoderno»7, che l’elenco di ciò che è postmoderno sia «caotico ed eterogeneo» (Jameson), e che postmoderno sia «un termine usato con declinazioni assai diverse in svariati campi […] impiegato da artisti visivi, musicisti, e architetti in termini altri rispetto ai teorici»8, persiste il desiderio di definire, di includere ed escludere testi, stili, autori, strategie retoriche pur senza ambire all’intimidatorio schematismo della famosa tabella di Ihab Hassan9. Ma ancorché flessibili le definizioni restano difficili. Per alcuni l’individuazione della fase postmoderna di un’arte non può che risultare dal rapporto con la sua epoca moderna: secondo questa logica ogni arte e/o campo d’investigazione andrebbe visto autonomamente almeno nei suoi aspetti fondamentali. La linea dei

seguaci di Jameson va evidentemente in direzione opposta. Mentre l’idea di dominante culturale ha permesso a Jameson di applicare in modo aproblematico ad altri settori la formulazione emersa in architettura, il pastiche è stato eletto a stile/registro dominante del postmoderno. Tuttavia, è difficile vedere nel cinema moderno degli autori degli anni sessanta il correlativo cinematografico dell’architettura modernista-razionalista a cui il postmoderno – grazie all’ornamento e alla commistione di stili – si ribellerebbe. È però possibile seguire coerentemente il percorso proposto dagli architetti e riproporlo per il cinema cambiando i soggetti in campo. Noël Carroll ha avanzato una proposta alternativa a Jameson che, pur non avendo trovato particolare seguito, non è priva di interesse. Secondo Carroll la partita tra moderno e postmoderno si giocherebbe all’interno dell’avanguardia. Il razionalismo formale dell’architettura modernista trova riscontro nel minimalismo in pittura e scultura, climax e fine del modernismo nelle arti visive. All’essenzialismo formale del minimalismo, gli artisti reagiscono reintroducendo nell’opera «contenuti culturali»: sarebbe questo passaggio, secondo Carroll, a segnare l’emergere del postmoderno, una sorta di pop art politicizzata. Nel cinema, l’esperienza del «film strutturale» (in particolare i film di Michael Snow, Ernie Gehr e Hollis Frampton) rappresenta il correlato filmico del minimalismo. Come nelle arti visive il potenziale trasgressivo del reiterato lavoro sui materiali tecnici e formali giunge necessariamente a uno stallo. Dopo l’astrazione, il cinema sperimentale deve reintrodurre un grado minimo di racconto: così si spiegano le varie forme avanguardistiche degli anni settanta. Per Carroll sono i New Talkies di Straub-Huillet, Mulvey-Wollen, Sally Potter e Yvonne Rainer, il cinema punk, gli «psicodrammi» di Su Friedrich a rappresentare il postmoderno cinematografico10. Partendo da un’ottica assai diversa anche Maureen Turim si interroga sul rapporto tra moderno e postmoderno, sempre all’interno del contesto cinematografico. Per Turim la difficoltà di definire il postmoderno deriva dalla «difficoltà di localizzare e definire il moderno». Spesso si ha l’impressione che L’anno scorso a Marienbad «sia inconsciamente l’unico prototipo di cinema moderno nella mente di coloro che teorizzano il postmoderno, poiché è l’istanza in cui la narrazione giunge ad una stasi formale, a una ripetizione e involuzione grafica, che ci ricorda le astrazioni geometriche del modernismo pittorico e architettonico. Il modernismo è visto in senso filosofico e formale, nella ristrutturazione della temporalità e delle relazioni spaziali, come una rappresentazione visiva di una certa difficoltà che limita l’apprezzamento di massa del film»11. Per Turim questa nozione del moderno cinematografico è estremamente riduttiva e lascia fuori esperienze legate alla modernità, come per esempio il noir. Pur conservando un grande appeal presso il pubblico, anche il noir degli anni quaranta e cinquanta presenta strutture narrative e formali in cui spazio e tempo vengono destrutturati. Turim sostiene la necessità di allargare la nozione di modernità includendovi non solo film d’autore (per un pubblico colto), ma anche film più facilmente accessibili. È necessario, in altre parole, ridurre la differenza tra arte e cultura popolare. Una nozione più inclusiva eliminerebbe altri confini, forse anche quello, conclude Turim, tra moderno e postmoderno12. Non sempre, tuttavia, mantenersi entro i confini di un’arte specifica costituisce il metodo di analisi migliore. In particolare, prescindere dalle ricerche filosofiche sullo statuto del sapere e del soggetto, o evitare di collegare dinamiche testuali e processi identitari può impoverire notevolmente lo spessore analitico-interpretativo. Nel caso del

documentario, per esempio, può essere più utile considerare la questione moderno/postmoderno partendo dall’ambito filosofico. In un recente intervento Michael Renov ha affermato che alcune esperienze documentaristiche degli anni venti e trenta, in particolare l’opera di Vertov e Grierson, sono comprensibili, innanzitutto, come saggi epistemologici in sintonia con il progetto della modernità del XIX secolo, che coniugava razionalismo, tecnologia e metodo scientifico. In particolare il documentario è stato uno strumento indispensabile nella costruzione degli Stati moderni, mostrando «al contempo un fanatismo per la scienza e per la nazione». Il documentario di quei decenni è stato per Renov «uno strumento altamente persuasivo della costruzione sociale, che vendeva argomenti retorici come verità, visioni del mondo come resoconti oggettivi della storia». Il documentario è stato, altresì, uno strumento fortemente disciplinare dei corpi e delle identità nel senso foucaultiano del termine13. Il documentario postmoderno, spesso utilizzando tecniche digitali, opera in modo assai diverso: «nel rappresentare il reale, mette in questione certezze di ogni tipo (anche la certezza delle sue tematiche), e pone lo spettatore/partecipante nel mezzo di una vastità di opzioni. [C’è dunque] un movimento dall’ottimizzazione della visione verso una verità unica (il progetto modernista di documentario) ad un sostegno dell’ambivalenza, di un credo molteplice e anche contraddittorio»14. In questo ambito Renov difende un uso del digitale opposto a quello dominante, ovvero il digitale come strumento e veicolo per atteggiamenti critici e scettici verso il rappresentato e non come tecnica che mira alla trasparenza, a rendersi invisibile rispetto all’intervento sulla pellicola. Solo l’impossibilità di distinguere il filmico dal digitale nel prodotto finito stabilisce il successo della tecnica stessa. Ambivalenza e molteplicità del sapere vanno di pari passo con l’idea di identità e soggetto come entità aperte. Gli esempi qui proposti rappresentano un campione parziale, ma indicativo della diversità dei metodi di investigazione del rapporto moderno-postmoderno. Mi sembra che il postmoderno, lungi dall’essere un oggetto tangibile non possa, in ultima analisi, che esistere come costruzione discorsiva. Ha ragione Rey Chow quando afferma: «Una volta che esaminiamo la problematica del modernismo/postmodernismo non solo come una successione di idee e concetti ma come il distribuirsi nel tempo di sviluppi e tracce nei loro diversi stadi d’articolazione, allora la “sostituzione” del modernismo col postmodernismo diventa una questione complessa e che può variare a seconda degli obiettivi per i quali si sostiene quella sostituzione»15. POSTMODERNO E PERFORMANCE

Gli interventi di Susan Sontag raccolti in Against Interpretation costituiscono un’esperienza imprescindibile nella formazione del percorso critico che stiamo delineando, nonché punto di riferimento essenziale per Jameson. L’«assenza di profondità», la fine di «un’estetica dell’espressione» di cui parla il critico americano hanno chiare affinità con i concetti cardine proposti da Sontag. Prendendo in considerazione le nuove proposte nelle arti visive, nella letteratura, nel cinema e nel teatro, a metà anni sessanta, Sontag parla di una emergente «nuova sensibilità» che ridefinisce sia il momento produttivo che ricettivo dell’arte. Intanto bisogna sbarazzarsi della distinzione tra cultura alta e cultura di massa: «L’opera d’arte sta affermando la propria esistenza in quanto “oggetto” (addirittura come oggetto confezionato o prodotto in serie, che attinge ispirazione dalle arti popolari) anziché come “espressione personale individuale”», tanto che negli ultimi decenni molte opere d’arte importanti

«hanno un carattere decisamente impersonale»16. In secondo luogo, la nuova arte chiede di essere vissuta più che interpretata in quanto attiva un’esperienza fisica più che intellettuale. Nel tentativo di trovare un significato profondo l’approccio ermeneutico all’arte ha sempre dimenticato la forma, la superficie dell’artefatto. Per Sontag l’interpretazione dà per scontata l’esperienza sensoriale dell’arte e si sostituisce ad essa. Le nuove forme richiedono un approccio più diretto e una nuova terminologia critica: da privilegiare sono metodi «descrittivi» più che «prescrittivi». Alla base di questa trasformazione sta la transizione da una modalità espressiva a una performativa. Ed è questa categoria che definirebbe il passaggio dal moderno al postmoderno. La produzione di un’opera non è più l’espressione di una visione o, nel caso dell’attore, l’esternazione di un’interiorità, ma è un evento che mostra la propria produzione chiedendo al fruitore/spettatore di partecipare a tale processo. A questo si riferisce Jameson quando parla di «perdita della profondità»17. Questa perdita, bene accolta da Sontag, temuta da Jameson, è evidente soprattutto in riferimento al soggetto, la figura umana. In effetti, «la decostruzione dell’estetica dell’espressione» presuppone la decostruzione della «separazione all’interno del soggetto, e con ciò di tutta una metafisica di interno/esterno, del dolore indicibile all’interno dell’io e del momento in cui, spesso catarticamente, quella “emozione” viene proiettata e esternata, come gesto o grido, come comunicazione disperata, e della drammatizzazione esterna di sentimenti interiori»18. L’happening, così efficacemente analizzato da Sontag, e i primi film di Warhol (Eat, Sleep, Kiss, 1963) appaiono tra gli esempi più radicali di pratica performativa. Per Michael Fried il modo performativo nasce con l’arte minimalista in cui oggetti dalle semplici forme geometriche si presentano «come “fatti” irriducibili, asserendo niente di più che la loro mera presenza fisica». In secondo luogo, l’opera minimalista perde la propria autonomia: priva di «contenuto» può ricevere lo statuto di opera solo dallo spettatore. Nel suo celebrato articolo Art and Objecthood Fried afferma: la sensibilità minimale è performativa «perché, per cominciare, è interessata alla reale circostanza in cui lo spettatore vede l’opera letterale. Mentre nell’arte precedente “ciò che si può ricavare dall’opera si trova esclusivamente al suo interno”, l’esperienza dell’arte letterale riguarda un oggetto in una situazione, situazione che, quasi per definizione, include lo spettatore»19. Dello stesso tono è un’affermazione del Body Artist Vito Acconci: «il minimalismo è stato un’arte che ti ha costretto a riconoscere lo spazio in cui eri. Fino a quel momento probabilmente facevo riferimento alla nozione di cornice. Guardavo a ciò che stava dentro la cornice […] ma con il minimalismo dovetti riconoscere che ero in un determinato spazio […] il minimalismo mi confermò nella convinzione che l’arte era per forza di cose una relazione tra ciò che la faceva nascere e lo spettatore»20. Le affermazioni di Fried e Acconci sono di estrema importanza poiché asseriscono la centralità dello spettatore nella situazione artistica. Il rapporto tra artista/opera d’arte e spettatore è un vero e proprio incontro, avviene in condizioni e luoghi specifici ed è, esso stesso, una performance. Secondo questa linea di ricerca il passaggio al performativo definirebbe, dunque, la transizione al postmoderno. Performance e postmoderno sarebbero, in verità, quasi sinonimi poiché il modo performativo si è rivelato una pratica trasversale. Philip Auslander ha ben riassunto questo importante passaggio: «Come paradigma interpretativo l’idea di performance è stata usata per descrivere qualsiasi cosa […]. In molte discipline umanistiche e sociali la svolta

postmoderna consiste principalmente nel vedere quelle discipline e i loro oggetti di studio in termini performativi. Studiosi di storia, sociologia, antropologia e di altre discipline sono giunti a interpretare i propri discorsi come contingenti piuttosto che assoluti; in relazione a una specifica audience […] caratterizzati da particolari processi più che dai prodotti che generano»21. Dunque, il modo performativo non investirebbe solo l’arte, ma anche la produzione critica e, in generale, qualsiasi produzione significante. Ritorniamo a Sontag e alle sue considerazioni sull’happening, pratica che ha ridefinito lo statuto del soggetto umano e del racconto a teatro. Per Sontag, l’happening è un evento che non avviene «su un palcoscenico […] ma in un ambiente fitto di oggetti»; è composto non da attori, ma da «partecipanti […] che eseguono movimenti e maneggiano oggetti». L’happening è privo di intreccio, anche se è composto da azioni elementari, spesso ripetute e prive di causalità e finalità. I partecipanti non esprimono emozioni e i loro corpi sono trattati come oggetti materiali, mentre gli oggetti sono sfruttati più per le qualità materiali che per la loro funzione d’uso. L’happening consiste di una serie di gesti e azioni, parole e balbettii, senza legami causali né temporali. «Il trattamento del pubblico» non è meno innovativo. Tutte le convenzioni della fruizione vengono meno: il pubblico viene posto in condizioni fisiche scomode, esposto ad attacchi fisici o quasi impossibilitato a vedere lo spettacolo. Incapaci di capire quando la performance è finita – l’happening è ipoteticamente infinito – gli spettatori vengono spesso brutalmente cacciati22. Un simile interesse a ridefinire la natura dell’attore e del personaggio, come quella dell’azione drammatica anima i primi film di Andy Warhol. Le coppie che si baciano in Kiss, Robert Indiana in Eat e John Giorno in Sleep sono performers colti in un gesto quotidiano privo di qualsivoglia finalità e, dunque, di significato. Lo sguardo in macchina dei performers coinvolge lo spettatore in modo diretto, mentre la lunga durata dell’inquadratura sollecita lo sguardo a scrutare i minimi dettagli del semplice gesto umano. Non trasformato in azione, l’atto rimane un puro gesto: la registrazione di movimenti fisici minimal fa del corpo umano una entità pre-semiotica. L’immagine è ridotta alla mera dimensione letterale: può, dunque, essere descritta ma non interpretata. La modalità performativa ha un elevato potenziale trasgressivo se viene vista in rapporto alla soggettività. Intesa come performance, in luogo di espressione di un’interiorità, l’identità non è più data a priori, ma creata e in costante mutamento. Di qui i concetti di identità mobile e nomadica con cui, solitamente, si definisce il soggetto postmoderno. Considerare il corpo una superficie che compie gesti e azioni, e sprovvista di coscienza, non è, dunque, una perdita, ma una conquista: significa credere che, potendo intervenire sulle dinamiche produttive, non esistono principi fondativi o universali. POSTMODERNO E NUOVA SPETTATORIALITÀ

Uno degli elementi originali del pensiero di Jameson è stato quello di delineare in modo efficace la relazione di omogeneità tra l’esperienza del soggetto nell’epoca della postmodernità e le forme artistiche e culturali dello stesso periodo. Evidentemente, per Jameson la «mancanza di profondità», l’«indebolimento della storicità» e la «tonalità emotiva puramente intensiva» si riferiscono sia alle modalità esistenziali dell’io, alla percezione che l’io ha di sé e del suo rapporto col mondo, che alle forme estetiche e

retoriche dell’arte del tempo. Dunque, anche il passaggio dall’espressione alla performance investirebbe entrambi i campi. Se le dinamiche descritte da Jameson sono senz’altro fondamentali alla comprensione del postmoderno, hanno destato più di una perplessità l’accezione universalistica di queste tesi e il giudizio negativo che Jameson dà del postmoderno. In effetti, egli non mostra alcuna fiducia nei cambiamenti che descrive. In particolare, come gli è stato più volte rimproverato, la nozione di identità come performance apre spiragli di emancipazione che la modalità espressiva, fondata sulle dicotomie interno/esterno, essenza/apparenza, inconscio/conscio, teneva necessariamente chiusi. Craig Owens è a tal proposito piuttosto severo: afferma che per Jameson l’affermazione di voci non egemoniche, come donne e culture etniche, non è valida «se prima tali voci non vengono riscritte in relazione al loro posto nel “sistema dialogico delle classi sociali”». Per Owens, nel redimere «la Grande Narrazione Marxista» Jameson «mira a riabilitare l’intero progetto della modernità stessa»23. Le cose cambiano se si iniziano a considerare i cambiamenti descritti come una conquista. Quando Jameson stigmatizza la tonalità emotiva puramente intensiva dell’esperienza postmoderna lo fa pensando a ciò che questo lascia dietro di sé: la perdita della «distanza critica» delle opere del modernismo. Mi sembra che Steven Shaviro colga con grande lucidità i termini della questione quando afferma: «il potere nella società postmoderna funziona come un processo di produzione, piuttosto che un dramma della rappresentazione – un gioco affermativo di affetti ed effetti, e non una serie di scissioni e assenze che si sviluppano secondo la logica della negatività»24. È alla luce di questa ipotesi, mi sembra, che Shaviro stesso e altri hanno teorizzato la sensibilità postmoderna nel cinema come una nuova spettatorialità. In L’écran post-moderne Laurent Jullier ha offerto una delle proposte più articolate e originali sull’argomento. Per lo studioso francese il cinema postmoderno – di cui Guerre stellari (1977) costituirebbe il primo esempio – sarebbe caratterizzato da una peculiare esperienza spettatoriale attivata da precisi tratti espressivo-formali visivi e sonori, a loro volta legati a «innovazioni tecnologiche». Un supporto quale la Louma o le mdp endoscopiche trasformano la mdp «da testimone invisibile secondo modalità antropomorfiche» a «testimone invisibile al di fuori dell’umano». Da un lato, dunque, un cinema «centrato sul personaggio (con la mdp come testimone invisibile il cui sguardo si proietta sul mondo diegetico), dall’altro un cinema centrato sullo spettatore (con la mdp che diviene un’entità dai poteri sovrumani e il cui sguardo si cala al di fuori del mondo diegetico)»25. Pur riconoscendo l’esistenza di altre forme cinematografiche postmoderne – il cinema avanguardistico di cui parla Carroll e il nostalgia film proposto da Jameson –, Jullier concentra la propria attenzione su ciò che chiama «film-concerto», film la cui strategia principale è di «trasmettere direttamente delle “sensazioni forti” non verbalizzabili». Tra gli esempi: i film di Luc Besson, Ridley Scott (specialmente Blade Runner) e John Woo26. Il film-concerto sollecita fisicamente lo spettatore e il termine stesso indica il ruolo del sonoro: il Dolby Surround accerchia il corpo di chi sta in sala trasformando l’esperienza di visione in un «bagno di sensazioni». In questa situazione la funzione narrativa del film passa in secondo piano, così come i processi di identificazione secondaria tra spettatore e personaggio. Tra schermo e spettatore non vi sarebbe più comunicazione ma fusione: così concepita l’immagine non è più traccia del profilmico, ma stimolo puro. Per Jullier la nuova modalità spettatoriale viene resa possibile non solo dalla funzione

spesso dominante del sonoro, ma anche da una serie di «figure dell’immersione», ovvero particolari movimenti di macchina che contribuiscono in maniera decisiva a fondere il corpo dello spettatore con l’immagine. Tali movimenti sono sempre più svincolati da un punto di vista umano e dal corpo dell’attore. Privi di scopi narrativi si presentano spesso come «movimento puro». Il travelling in avanti è la figura più ricorrente di questa tendenza. Se consideriamo l’inizio e il finale di Guerre stellari possiamo constatare come, esaurita la motivazione narrativa e mancando l’aggancio al corpo umano, la reiterazione ossessiva del movimento diventi una euforica esplorazione dello spazio. Alla visione come conoscenza si sostituisce un’esperienza dello sguardo come percezione allucinata. Per Jullier la nuova spettatorialità è più vicina all’eccitazione del luna park che alla “tradizionale” esperienza cinematografica. L’euforia dei «fuochi d’artificio» e del parco dei divertimenti evocata da Jullier trova una eco assai significativa in un recente articolo di Linda Williams dedicato a Psycho. Ponendosi sulla scia di molte delle interpretazioni che l’hanno preceduta e che, di volta in volta, hanno rintracciato nel film di Hitchcock i germi di una diversa svolta epocale27, Williams rivendica per Psycho il ruolo di film postmoderno, in virtù di una nuova modalità «di vedere e sentire» di cui sarebbe responsabile28. Per Williams Psycho offre «un’intensificazione di certe forme della visualità, e un certo richiamo dei sensi» che, pur presenti nelle forme del melodramma hollywoodiano sono estremamente intensificate nel cinema postmoderno29. I termini dell’analisi di Williams appaiono subito in sintonia con quelli di Jullier: con Psycho cambiano le modalità di ricezione e gli spettatori cominciano ad andare al cinema per essere «eccitati e spaventati in modo piuttosto viscerale, e senza avere troppo interesse per la coerenza narrativa o dei personaggi»30. L’eccitazione e il disorientamento dello spettatore iniziano con il movimento a ritroso compiuto dalla mdp a partire dall’occhio fisso di Marion ormai morta. Ma il piacere nel vedere Psycho è anche un piacere sadomasochistico, basato sull’alternanza tra l’identificazione con la vittima e con il carnefice. L’eccitazione dello spettatore è inoltre legata alla destabilizzazione della dicotomia tra polo maschile e femminile. L’immagine del giovane corpo maschile di Norman, sovrapposta all’anziana voce femminile della madre è lo shock ultimo del film. Se lo spettatore di Jullier è neutro, privo di determinazioni di gender, non sorprende che Williams leghi l’esperienza della postmodernità all’indeterminazione di gender. Per concludere, consideriamo l’analisi di Strange Days (Kathryn Bigelow, 1995) proposta da Steven Shaviro. Alla base della lettura di Shaviro sta la convinzione che la sensibilità postmoderna sia comprensibile se, seguendo alcune suggestioni teoriche di Deleuze e Guattari, si distingue tra affetto ed emozione: il primo è «un sentimento non personalizzato», che esiste indipendentemente dal soggetto, mentre il secondo designa «il senso più familiare di un’emozione personale» vissuta da un individuo preciso e «riconoscibile dal pensiero». Per Shaviro la postmodernità vede il prevalere dell’esperienza affettiva31. Strange Days è, a tal proposito, un film paradigmatico. In particolare, la costruzione formale delle «sequenze SQUID» mostra all’opera questa precisa modalità affettiva del soggetto. Nel film, lo SQUID è una tecnologia illegale che permette a un individuo di collegarsi alla registrazione di un’esperienza già vissuta da un altro e riviverla: lo SQUID consente, dunque, di vedere e sentire con gli occhi e il corpo di un altro senza esserlo. È ciò che vediamo nella prima sequenza: una lunga soggettiva senza stacchi di una

rapina dal punto di vista di uno dei ladri fino a quando questi è ucciso. Pur essendo completamente legati all’inquadratura, il fatto di non vedere mai chi guarda rende la sequenza totalmente impersonale. L’assenza del controcampo impedisce che all’identificazione con la mdp si aggiunga quella col personaggio. Lo spettatore viene trascinato con forza dentro l’azione in quanto segue i concitati movimenti della mdp nello spazio: la mdp «si fa largo, si ferma poi riparte, panoramica poi va in verticale […] segue i ritmi di tutto il corpo non solo degli occhi». Questo vivere materialmente l’azione costituisce, secondo Shaviro, «un regime di visione presoggettivo, affettivo e non cognitivo»32. L’assenza del controcampo, di un’immagine del soggetto che compie l’azione è fondamentale alla costruzione di questo particolare rapporto tra esperienza/azione e spettatore. L’affetto che l’azione attiva è un’entità libera, che vaga, pronta ad essere rivissuta da chiunque la possa comprare. Ma la visione SQUID è solo uno dei regimi del film. Vi è una seconda modalità dello sguardo che comprende sequenze in cui la mdp si muove libera da ogni ancoraggio all’occhio umano, ma senza diventare oggettiva. In questi casi la mdp non è né soggettiva né oggettiva «ma intrapersonale e sociale […]. I suoi incessanti movimenti e stacchi inaspettati tracciano l’invisibile lavoro del potere» esprimendo le tensioni razziali e di classe. Ecco dunque che, mentre le sequenze SQUID si fermano al di qua del soggetto, quelle sociali vanno oltre di esso. In ogni momento opera dunque una scissione tra visione e soggetto così che «vengono sospese le modalità tradizionali di soggettività»33. OLTRE LA FISICITÀ: PER UNA SPETTATORIALITÀ DUALE

Pur nelle specifiche peculiarità, Jullier, Williams e Shaviro avanzano ipotesi teoriche e analitiche con singolari affinità. La sensazione fisica e la visione allucinatoria di cui parla Jullier echeggiano nel concetto di disorientamento ed eccitazione viscerale proposto da Williams, ma anche in quello di visione affettiva di Shaviro. In questo contesto, Jullier e Shaviro definiscono esplicitamente la fruizione cinematografica come un’esperienza pre-cognitiva e pre-simbolica. Tale esperienza implica un forte ridimensionamento della funzione narrativa del film. In questo senso si spiegano l’aggancio all’identificazione primaria (Jullier), ma anche la distinzione tra emozione e affetto proposta da Shaviro. È chiaro che il concetto di emozione in questa accezione ben descrive, invece, l’esperienza attivata dal cinema classico, regolata, come si sa, da una pletora di identificazioni secondarie. Le affinità teoriche che accomunano i diversi interventi trovano riscontro anche a livello di analisi della messa in scena. Il movimento di macchina, svincolato dalla visione umana o soggettiva e dal corpo del personaggio, ha un ruolo essenziale in questa transizione. Il movimento con scarse motivazioni diegetiche è virtuosistico, solitamente reiterato sino a diventare ossessivo: per questo può indurre una condizione quasi allucinatoria. Trovo convincenti e condivisibili queste ipotesi. La cronologia delle opere considerate, Psycho (1960), Guerre stellari (1977), Strange Days (1995), suggerisce anche che la fase postmoderna è ormai stratificata e presenta modalità piuttosto marcate. Credo però che nel giustificato desiderio di definire una svolta netta, un salto di paradigma, forse si è stati solerti a vedere solo le innovazioni. In effetti, se l’esperienza fisica e immediata dell’immagine appare come un elemento imprescindibile, nel cinema narrativo essa non cancella, ma piuttosto si alterna a quella emotivo-identificatoria. Prendiamo ad esempio proprio Guerre stellari. Mentre l’inizio e la fine sono momenti

prettamente immersivi, è altrettanto vero che il film presenta molti episodi esclusivamente narrativi. E come nel film più classico, il film di Lucas ha una struttura edipica: la crescita di Luke avviene in opposizione allo zio e imitando il padre morto nel combattere l’Impero. Gli episodi narrativi mostrano, significativamente, un linguaggio molto più tradizionale: l’inquadratura è centrata sul personaggio e sulle sue interrelazioni con lo spazio circostante, i movimenti di macchina sono diegeticamente motivati e contribuiscono, assieme ai raccordi, all’identificazione spettatoriale. Il film, dunque, non ha strategie omogenee, ma presenta un’alternanza costante tra forme dell’immersione e forme narrative. Questa alternanza costruisce, evidentemente, una simile dualità nell’esperienza spettatoriale che oscilla in un movimento a pendolo tra i due poli. Mentre l’analisi di Shaviro di Strange Days, con la distinzione tra due regimi di visione sembra già suggerire, con le dovute distinzioni, l’applicabilità dello stesso concetto al film di Bigelow, è difficile non vedere la stessa dinamica anche in Psycho. Nel film di Hitchcock l’esperienza viscerale della paura e del brivido si alterna al desiderio di conoscenza e all’identificazione che, nella seconda metà del film, comincia a essere ripristinata in favore della nuova coppia, Lila e Sam (rispettivamente sorella e amante di Marion). Se l’ipotesi della dualità dell’esperienza spettatoriale va certamente testata con maggiore attenzione, vale la pena sottolineare che essa non è limitata al cinema d’intrattenimento. Come ho cercato di dimostrare in altra sede, il cinema sperimentale di Chantal Akerman, per esempio, sembra muoversi costantemente tra il regime della fisicità e sensorialità da un lato, e quello intellettuale, vicino al film-saggio, dall’altro34. Anche in Akerman, peraltro, il travelling laterale, usato con reiterata ossessività, provoca un’esperienza assai simile a quella di cui parla Jullier a proposito del filmconcerto. In certe istanze lo spettatore può giungere a una condizione prossima all’allucinazione. Sia nel caso in cui si alternano fruizione fisica ed emotiva (cinema narrativo), che quando si intrecciano percezione sensoriale e intellettuale (cinema sperimentale), la dualità dell’esperienza spettatoriale come tratto caratterizzante il cinema postmoderno mi sembra un’ipotesi da approfondire. Questa dualità può essere la specificità cinematografica di quella frammentazione della soggettività e dell’esperienza di cui si è parlato a proposito della condizione postmoderna.

7. Le forme del cinema contemporaneo: postmoderno, postclassico, global Nei capitoli 3 e 6 ho avanzato delle ipotesi interpretative sul cinema postmoderno nel tentativo, in primo luogo, di capire lo statuto del binomio moderno-postmoderno cinematografico. Ero anche mossa dal desiderio di mettere in discussione la teoria di Jameson – troppo influente a mio avviso sugli studi di cinema, soprattutto italiani – che l’estetica postmoderna fosse caratterizzata dal pastiche e dalla citazione e da un atteggiamento talmente ludico da essere priva di qualsiasi funzione critica. La proposta di Jameson spiegava poco il cinema che nei suoi scritti era un episodio piuttosto marginale nella cultura occidentale del XX secolo. Ovviamente la posizione di Jameson è perfettamente comprensibile: come teorico marxista non poteva non pensare che la produzione culturale nel suo complesso (senza distinzione tra le varie arti e forme espressive) riflettesse il livello di sviluppo dei modi di produzione. E va anche ricordato che Jameson nasce come teorico della letteratura, in particolare del romanzo europeo1. Come spero di aver dimostrato nel capitolo «Postmoderno e nuova spettatorialità», lo statuto postmoderno del cinema non può rientrare in una generica “dominante culturale”, ma va definito anche in relazione alla fase moderna del cinema, esperienza non paragonabile al moderno architettonico, il cui fallimento aveva “provocato” la reazione postmoderna in architettura: è da questo snodo particolare che era partito Jameson per la sua analisi. Il paradigma jamesoniano può essere messo in discussione attraverso due argomentazioni diverse: da un lato mostrando che citazione e pastiche non sono necessariamente ludici, ma possono avere una funzione critica, né più né meno come nelle opere moderne; dall’altro evidenziando che il cinema contemporaneo comprende altre forme filmiche, oltre al postmoderno, non meno importanti né meno diffuse. Centrale in questo scenario è il cinema postclassico, che ha avuto un ruolo centrale nella riflessione teorica degli ultimi quindici-vent’anni circa. Ne Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo (1984) Jameson afferma che il riciclaggio di codici visivi, stilistici e di genere che dà forma al pastiche postmoderno eclissa il ruolo dello stile autoriale, unico per ogni autore moderno. Per Jameson, come ricorda anche Ingeborg Hoesterey, il pastiche postmoderno «è privo di riflessione critica», è una «parodia vuota» poiché, a differenza di quest’ultima, imita in modo «neutrale» l’opera originale2. Il pastiche è una pratica essenzialmente ludica e superficiale che, in ambito cinematografico, riscrive in modo riflessivo il cinema classico. Per questa ragione il cinema postmoderno costituisce anche un ritorno al racconto in opposizione all’«anti-narratività» del cinema moderno3. Lo studioso americano cita a tal proposito la tendenza del «nostalgia film» degli anni settanta in opere come Il conformista (1970), American Graffiti (1973), Chinatown (1974) e altre4. Com’è noto Jameson elabora la sua analisi del postmoderno attraverso un confronto con il moderno giungendo a un giudizio totalmente negativo del primo. L’opera moderna è caratterizzata dalla «profondità» e dalla «logica dell’espressione», veicoli per una «distanza critica» necessaria per un giudizio sul mondo rappresentato. Al contrario l’estetica postmoderna valorizza la superficie e la logica della performance. Per l’autore, l’opposizione tra estetica moderna e postmoderna emerge in modo lampante dal confronto tra le scarpe della contadina di Van Gogh (Un paio di scarpe, 1886) e quelle della ballerina di Warhol (Diamond Dust Shoes, 1980). Il quadro di Van Gogh è «il sintomo di una realtà più vasta» e pertanto può essere interpretato; in Warhol invece «non c’è modo di completare il gesto ermeneutico e di restituire [il] più ampio contesto

vissuto della sala da ballo o della festa»5. A partire dagli anni ottanta il cinema americano ha sviluppato questa tendenza citazionista più di ogni altro. Pensiamo per esempio ai film dei fratelli Coen. Blood Simple (Sangue facile, 1984) mescola i tratti di tre diversi generi, la commedia, il noir e l’horror, mentre The Hudsucker Proxy (Mister Hula Hoop, 1994) è costruito su un citazionismo sfrenato di film e autori della commedia americana, da Capra a Sturges a Hawks e altri ancora. Il film più esplicitamente citazionista dei Coen è forse però Hail, Caesar! (Ave, Cesare!, 2016), direttamente ambientato negli Studios hollywoodiani alla fine degli anni cinquanta. Anche il cinema di Tarantino è “postmoderno”. Il sistema citazionistico di questo autore appare però più complesso. Oggetto di citazione e riscrittura non è solo il cinema hollywoodiano, ma il cinema tout court, quello americano e quello europeo, quello d’autore, di genere e trash. Essenziale all’operazione di riscrittura di Tarantino è anche un originale riutilizzo di attori caduti nel dimenticatoio o comunque lontani dai fasti di un tempo. Paradigmatico rimane il caso di John Travolta, rinato dopo Pulp Fiction (1994). Tutto il cinema di questo autore in ogni modo si muove nell’ottica della riscrittura del cinema passato. Negli ultimi film Tarantino ha proposto anche una riscrittura della Storia, la Seconda guerra mondiale in Inglorious Bastards (Bastardi senza gloria, 2009) e la schiavitù in Django Unchained (2012)6. Ma pensiamo anche al film di Todd Haynes Far From Heaven (Lontano dal Paradiso, 2002), una esplicita riscrittura del melodramma di Douglas Sirk All That Heaven Allows (Secondo amore, 1954), a sua volta già oggetto delle attenzioni di Fassbinder in Angst essen Seele auf (La paura mangia l’anima, 1974). Di Haynes va senz’altro ricordata anche la miniserie televisiva Mildred Pierce (2011) adattamento del romanzo di James Cain e remake del famoso woman’s film diretto da Michael Curtiz del 1945 e interpretato da Joan Crawford. In Europa, Almodóvar ha costruito la sua opera proprio in relazione alla riscrittura dell’immaginario e dello stile del melodramma e dei suoi eccessi. Sia Haynes che Almodóvar rielaborano il melodramma attraverso il sovvertimento dell’identità sessuale: la crisi dell’(etero)sessualità nel melodramma degli anni cinquanta viene smascherata e trasformata attraverso la rappresentazione del desiderio omoerotico. Tra gli autori postmoderni europei possiamo ricordare anche Chantal Akerman, che in film come Nuit et jour (1991) e Portrait d’une jeune fille de la fin des années 60, à Bruxelles (1993) propone una riscrittura cosciente del cinema della Nouvelle Vague7. I film di Haynes, Almodóvar e Akerman dimostrano che la citazione postmoderna non è affatto ludica e superficiale come afferma Jameson: la pratica di riscrivere forme e stili cinematografici precedenti non è fine a se stessa, ma, come afferma anche Judith Butler, è funzionale alla critica di identità sessuali normative e alla messa in scena di forme del desiderio trasgressive8. DAL POSTMODERNO AL POSTCLASSICO: SOVRAPPOSIZIONI E DIVERGENZE TRA CONCETTI PROBLEMATICI

Negli ultimi quindici-vent’anni circa la riflessione sui modi di rappresentazione del cinema contemporaneo si è sviluppata in particolare attorno a due concetti e forme: il film postclassico e il puzzle film o mind-game film. La nozione di film postclassico definisce una forma filmica particolare diffusa ampiamente soprattutto nella produzione statunitense, ma non solo. Il concetto di puzzle film si riferisce invece a un genere innovativo contraddistinto da storie e psicologie complesse fortemente destrutturate e che emerge nel contesto americano a partire da metà anni novanta circa. Per alcuni

studiosi il mind-game film può rientrare nella più ampia categoria di film postclassico, ma questa sovrapposizione non è scontata. A nostro avviso il puzzle film non ha una identità formale univoca: può essere postmoderno o postclassico a seconda dei film. Su questo terreno si apre dunque un confronto importante con il film postmoderno in cui va distinto il cinema prodotto dal dibattito che ne è seguito. Anche in questo caso, come vedremo, emergono temporalità conflittuali e cronologie sfasate che vanno indagate. Da un punto divista critico-teorico la nozione di postclassicità è venuta a sostituire quella di postmodernità: mentre negli anni ottanta e novanta si teorizzava cosa fosse il cinema/film postmoderno, dal Duemila circa la questione del postclassico è diventata centrale nel pensiero critico. Ma a una mutata terminologia non corrisponde un altrettanto chiaro cambiamento dell’oggetto di indagine, né sono così diversi gli elementi che compongono le due forme. Alcuni autori discutono il film postclassico in modo assai simile a quanto altri facevano qualche anno prima parlando di cinema postmoderno. Specifici aspetti chiave dell’estetica postmoderna ritornano con aumentato vigore nelle elaborazioni del postclassico e lo stesso film può essere considerato postmoderno o postclassico a distanza di pochi anni per ragioni piuttosto simili. Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che la stessa tecnica di messa in scena o registro formale può essere giudicata positivamente o negativamente. In realtà la maggior parte degli studiosi ha evitato di mettere a confronto le due definizioni e alla fine postmoderno e postclassico risultano spesso sovrapposti, come se fossero equivalenti, ma il loro rapporto rimane confuso. Partiamo innanzitutto dal contesto generale: evidentemente, mentre la riflessione sul postmoderno si sviluppa in relazione al moderno, il modello di confronto del postclassico è il classico. Ma se il discorso sul postmoderno viene elaborato primariamente in contesti extra-cinematografici, al punto che il cinema rimane piuttosto marginale, il pensiero critico sul postclassico viene elaborato esclusivamente in relazione al cinema e, più precisamente, al cinema americano9. La discussione sul postclassico solleva molte problematiche, alcune delle quali non possono essere discusse in questa sede. Ma il dibattito ci lascia almeno un grande punto interrogativo: indipendentemente dalle posizioni avanzate sembra che lo statuto del cinema americano, dagli anni dieci del Novecento sino ad oggi, si sia giocato esclusivamente nell’ambito del rapporto e/o dell’alternanza tra classico e postclassico. Manca qualsiasi riferimento al moderno, come se questa “fase” il cinema americano non l’avesse nemmeno mai sfiorata. Il discorso può essere affrontato secondo diversi punti di entrata, ma la nozione di postclassico sembra dipendere in primo luogo dalla diversa interpretazione che viene data al binomio narrazione-spettacolo. Gli studiosi concordano sul fatto che la forma filmica vive una trasformazione importante nel momento in cui un registro spettacolare anti-narrativo si affianca alla struttura narrativa classica dominata dal rapporto di causa-effetto. Diverse però sono le interpretazioni sul significato e sulla portata di questa trasformazione (e sulla sua cronologia). In altre parole ci si chiede se, come e fino a che punto le strategie spettacolari del cinema “contemporaneo” mettono in discussione il primato della narrazione e del rapporto di causa-effetto. Prima di passare in rassegna le posizioni più significative va ricordato che, come abbiamo discusso nel capitolo precedente, questa trasformazione per alcuni, come Laurent Jullier, definisce il film postmoderno. Per l’ampiezza e la qualità della sua elaborazione non si può non partire dalla proposta

di David Bordwell. Il famoso studioso si cimenta in una ricerca paragonabile a quella effettuata circa venti anni prima con Kristin Thompson e Janet Staiger per The Classical Hollywood Cinema (1985) chiedendosi se il cinema americano da fine anni sessanta a inizio anni duemila sia davvero cambiato rispetto a quello precedente. Bordwell anticipa i tratti più significativi della sua ipotesi in Intensified Continuity. Visual Style in Contemporary American Film, un denso articolo pubblicato nel 2002 in «Film Quarterly» che sarà seguito qualche anno dopo dal volume The Way Hollywood Tells It (2006). Bordwell sostiene che il cinema statunitense ha sviluppato un nuovo stile caratterizzato da quattro elementi: un montaggio sempre più rapido, un uso estremo delle lenti con cambi continui dal grandangolo al teleobiettivo, l’uso di inquadrature molto ravvicinate (primissimi piani) nelle scene di dialogo e movimenti di macchina ampi, ostentati e virtuosistici. Si tratta di un set coerente di scelte e strategie. Il montaggio rapido, in particolare, immette eccitazione, energia e mantiene vivo l’interesse dello spettatore. E può diventare talmente rapido da rendere incomprensibile la scena. L’avvicinamento della mdp nelle conversazioni porta a un cambiamento significativo nella configurazione del campo e controcampo: dalla staticità assicurata dal two-shot si passa a inquadrature di un unico attore (single) con passaggi veloci da un attore all’altro. Ora è il volto a dominare le conversazioni e non il corpo come nel cinema classico. Anche i movimenti di macchina cambiano radicalmente: la mdp si muove liberamente, spesso in modo virtuosistico, e contribuisce come il montaggio a energizzare l’inquadratura. Data la pervasività di queste opzioni, Bordwell si chiede quale sia la funzione di questo stile e se siamo entrati in una fase postclassica. Lo studioso non può non ammettere che si tratta di uno stile innovativo, ma nega che questa nuova estetica viscerale rappresenti una forma non classica o postclassica. In realtà si tratta di una “continuità intensificata”, poiché il nuovo stile è tutto sommato un’elaborazione di schemi tradizionali. In effetti, anche se generi come il film d’azione e il sci-fi hanno uno stile molto aggressivo, altri, come la commedia, il fantasy e i prestige films hanno un’intensità meno forte e uno stile meno virtuosistico10. In The Classical Hollywood Cinema Bordwell aveva affermato che le innovazioni tecnologiche, quali il sonoro, la profondità di campo e il Technicolor, vennero prontamente assorbite nel format classico: «i cambiamenti crearono alcune inefficienze produttive e costi extra, ma in tutti i casi il modo di produzione hollywoodiano assorbì le innovazioni e si stabilizzò. Lo stile classico assegnò prontamente alle nuove tecniche funzioni già canonizzate; in modo reciproco, alcuni nuovi dispositivi estesero e arricchirono il paradigma classico»11. Allo stesso modo la continuità intensificata del cinema contemporaneo non mette in discussione il primato della narrazione. Bordwell riconosce che sono avvenuti cambiamenti importanti, ma, paradossalmente, afferma che nulla è cambiato. Il cinema americano contemporaneo – e quello di Hong Kong – è un cinema classico intensificato. L’autore rifiuta la nozione di postclassicità e reputa che la narrazione fondata sulla causalità sia ancora l’elemento attorno a cui ruota il dispositivo del film contemporaneo e l’esperienza spettatoriale. Qualche anno prima anche Kristin Thompson aveva negato l’idea che il cinema americano si fosse trasformato e aveva dichiarato che, a fine anni novanta, le strutture narrative erano le stesse dall’avvento del sonoro12. Ritengo insoddisfacenti e contraddittorie le conclusioni a cui perviene Bordwell. L’autore infatti ci conduce attraverso un’analisi affascinante, ricca di dettagli ed esempi, prove tangibili di quanto sia cambiato il cinema americano degli ultimi decenni. Risulta dunque incomprensibile perché non accetti l’esito della

ricerca da lui stesso compiuta13. Il concetto di «intensificazione» proposto da Bordwell è in larga misura sovrapponibile a quello di «spettacolo», poiché gli elementi che producono intensificazione sono sostanzialmente gli stessi che rendono più spettacolare l’immagine. La nozione di cinema postclassico, oramai istituzionalizzata, poggia su un’interpretazione della componente spettacolare opposta a quella data da Bordwell. Anche se con toni a volte apocalittici qualcuno ha interpretato l’uso di effetti speciali e tecniche di intensificazione nei blockbuster degli anni ottanta come la «fine del cinema» o la scomparsa del racconto14, piano piano si è consolidato un discorso più equilibrato sullo statuto della forma postclassica. Questo modo di rappresentazione è basato su una solida struttura narrativa, cui si accompagna un registro spettacolare altrettanto significativo. Si tratta dunque di una forma eterogenea, in cui si alternano due diverse strategie. Geoff King, per esempio, ritiene che la sottovalutazione del regime narrativo nel cinema contemporaneo sia speculare alla sopravvalutazione del racconto nell’epoca classica. Inoltre si tende a pensare che la componente spettacolare sia una conquista recente, quando invece è sempre stata un elemento fondamentale del cinema classico15. Se con l’eccezione di Bordwell e Thompson gli studiosi più accreditati condividono l’idea che la spettacolarità non implica necessariamente la crisi della narrazione, quanto piuttosto una sua trasformazione, il fuoco del discorso va ora spostato su quale sia la funzione del binomio racconto-spettacolo e quale tipo di esperienza attivi per lo spettatore e la spettatrice. La proposta più articolata è stata offerta, a mio avviso, da Thomas Elsaesser in un saggio su Die Hard (Trappola di cristallo, John McTiernan, 1988). Pubblicato all’interno del volume scritto a quattro mani con Warren Buckland, Studying Contemporary American Cinema (2002), in questo lungo capitolo Elsaesser sviluppa in modo davvero significativo un discorso iniziato qualche anno prima in un articolo sul Dracula di Coppola16. Qui però l’analisi è assai più complessa. In conformità con la struttura del volume – ogni capitolo analizza un film secondo due metodi diversi –, Elsaesser propone di interpretare Die Hard sia come film classico che come film postclassico: proprio perché il proposito dell’analista è importante quanto la qualità del film, l’interpretazione può cambiare a seconda degli elementi che vengono presi in considerazione. Elsaesser si chiede, come fa contemporaneamente Bordwell, se il cinema americano da fine anni settanta sia cambiato o meno e quali siano i metodi più appropriati per analizzarlo. Da un lato Die Hard rispecchia le strutture di base del cinema classico, sia che utilizziamo l’approccio di Bordwell (struttura di superficie) che quello di Bellour (struttura profonda), e il film è in definitiva «una soluzione immaginaria a contraddizioni reali». Dall’altro però vi sono elementi innovativi decisamente anticlassici o meglio postclassici. C’è un’ossessione con l’identità e il corpo maschile, la razza e tutte le questioni associate al gender. Queste questioni derivano da una più ampia crisi della mascolinità. Secondo Elsaesser il film mostra di essere cosciente del suo lavoro sull’identità, è autoriflessivo: mentre il cinema classico mascherava la struttura profonda, la logica del desiderio, attraverso la struttura di superficie, la storia narrata, nel film postclassico il rapporto tra i due livelli cambia. Qui la logica del desiderio viene mostrata, non mascherata, anche attraverso tecniche spettacolari. Così lo spettacolo, invece di essere nemico della storia, contribuisce a dare visibilità al suo discorso ideologico. Elsaesser dunque interpreta la componente spettacolare del cinema postclassico in modo diametralmente opposto a quanti l’hanno

preceduto: «la categoria dello spettacolo va considerata non tanto come eccesso visivo, o come violenza fisica e manifestazione spettacolare della tecnologia, e forse nemmeno come momenti in cui il “mostrare” soverchia le motivazioni (narrative) di ciò che è mostrato. In un contesto che si pone al di là di una contrapposizione binaria, identifica un genere diverso di esibizione e conoscenza, un tipo speciale di consapevolezza dei codici che governano la rappresentazione classica e le convenzioni di genere, unitamente al desiderio di mettere in mostra tale consapevolezza e renderne il pubblico partecipe trascinandolo dentro il gioco»17. Il contributo di Elsaesser al dibattito sul postclassico è importante perché offre una interpretazione forte della componente spettacolare. Come altri riconosce che lo spettacolo attiva «sensazioni fisiche» e «stimoli sensoriali» così che i film «sono “vissuti” piuttosto che visti» senza che questo implichi la negazione del racconto18. Ma questo non ne esaurisce la funzione. In virtù della sua visibilità, del suo rendersi manifesto allo spettatore, lo spettacolo ha una funzione autoriflessiva19. Questo aspetto può apparire contraddittorio, ma è perfettamente comprensibile se lo mettiamo in relazione a quanto Elsaesser teorizzò, quasi all’inizio della sua carriera, in Tales of Sound and Fury, il suo famoso saggio sul family melodrama degli anni cinquanta. In virtù della necessità di esprimere stati emotivi e psichici, il melodramma poggia sull’intensità, resa formalmente da codici visivi e musicali, a scapito del linguaggio verbale che qui ha una minore rilevanza. Secondo Elsaesser, l’intensità e l’eccesso stilistico del melodramma, che significano oltre l’azione e il linguaggio, costituiscono un’indicazione assai chiara dell’uso cosciente «dello stile come significato», il tratto che definisce «la sensibilità modernista all’opera nella cultura popolare»20. Dunque, dietro la spettacolarità delle immagini e la forza dell’emozione, il melodramma hollywoodiano attiva un’operazione sovversiva, in cui l’esperienza spettatoriale diventa la presa di coscienza critica dei valori espressi dal film. Per Elsaesser la componente spettacolare del cinema postclassico ha dunque una funzione assai vicina a quella attribuita allo stile melodrammatico degli anni cinquanta. Tra le due forme permane tuttavia una differenza di fondo: mentre nel film postclassico il registro spettacolare si alterna a quello narrativo – arrestando di fatto la narrazione per promuovere sorpresa, eccitazione ecc. –, nel melodramma degli anni cinquanta la componente spettacolare caratterizza il film nel suo complesso. Il termine di confronto in questo caso non è la narrazione del film, ma la scrittura trasparente che caratterizzava il film classico degli anni trenta. L’autoriflessività del melodramma – cui Elsaesser giustamente attribuisce una componente «modernista» – si coglie dunque in opposizione allo stile invisibile del film classico che, dominato dal racconto, trascina lo spettatore in un processo di identificazione inconscio21. In questa prospettiva l’autoriflessività moderna del melodramma costituisce un primo affrancamento dalla classicità “non-riflessiva”, in una traiettoria che vede altri episodi sino al momento postclassico. In ultima analisi, il cinema postclassico può essere definito come una forma a trazione narrativa accompagnata da momenti di alta spettacolarità – anche grazie all’utilizzo di effetti speciali –, che contribuiscono a inserire un registro autoriflessivo, in particolare per questioni legate all’identità. Troviamo qui una convergenza parziale con il postmoderno dove l’autoriflessività dovuta a citazione, pastiche e parodia può attivare una sovversione dei modelli identitari anche marcata da componenti ludiche e ironiche che partecipano al discorso critico e trasgressivo del film. L’elemento forte che definisce una vera differenza tra postmoderno e postclassico è l’indeterminazione,

assente nel postclassico. Come è emerso nell’analisi di autori come Antonioni e Fellini (cap. 4), la svolta postmoderna nel cinema d’autore europeo si verifica in modo chiaro per quei registi che sono stati “pienamente moderni”. In definitiva – ma questa tesi andrebbe sviluppata ulteriormente – si potrebbe argomentare che il cinema postmoderno è uno sviluppo del moderno, mentre il postclassico è un “ripensamento” del classico. Se pensiamo ad autori come Lynch e Iñarritu è evidente che il loro cinema è più legato alla ricerca del moderno che ai modelli della tradizione classica. POSTMODERNO, POSTCLASSICO E «MIND-GAME FILM»

A questo punto abbiamo forse qualche elemento in più per tentare di descrivere, almeno in parte, il rapporto tra postmoderno e postclassico. Si tratta, in primo luogo, di definire in modo più preciso lo statuto formale e discorsivo dei concetti chiave emersi (qui e nei capitoli 3 e 6): la citazione, l’immagine-simulacro, l’intensificazione e la spettacolarità dell’immagine, la nuova spettatorialità caratterizzata da un’esperienza fisica intensiva. L’eccessiva enfasi posta sulla citazione può essere riequilibrata se consideriamo questa figura come un aspetto particolare della natura simulacrale dell’immagine postmoderna: evidentemente la citazione fa riferimento a un’immagine precedente (non alla realtà) e dunque nega lo statuto mimetico e di rappresentazione rientrando a pieno titolo nell’alveo del simulacro. Ne Lo specchio e il simulacro (2007) Paolo Bertetto ha affermato: «L’immagine filmica appare dunque come impressione di realtà e si rivela invece come simulacro. Questa contrapposizione interna, lungi dal confondere le modalità di percezione, crea una dinamica simbolica interiore, basata insieme sull’inganno e sulla rivelazione, sul mascheramento e sullo smascheramento […]. Questa duplicità da un lato propone uno spettatore diviso, sdoppiato, che percepisce insieme il film come mondo reale e come finzione, come illusione e come verità»22. Ritengo che nel soppesare e mettere a confronto i diversi elementi caratterizzanti il dibattito postmoderno-postclassico, la questione del simulacro rimanga in ultima analisi il tratto distintivo dell’immagine postmoderna, un tratto invece assente nel film postclassico. Questo elemento diventa tanto più importante se viene arricchito da connotazioni ulteriori. L’immagine simulacrale, come abbiamo già suggerito, mette in discussione l’opposizione tra vero e falso, realtà e immaginazione ed è dunque definita dall’indeterminazione23. Diversamente, l’intensificazione e la spettacolarità dell’immagine, veicolo per un’esperienza fisica intensiva di fruizione, appaiono ascrivibili sia al postmoderno che al postclassico. Ma questa convergenza è il risultato di processi interpretativi diversi: l’intensificazione e la fisicità postmoderna sono colti per opposizione alla distanza critica e all’esperienza di visione intellettuale tipica del moderno; nel contesto del postclassico, spettacolo e intensità rappresentano un allentamento della dimensione narrativa classica. Il confronto tra postmoderno e postclassico, e lo statuto dei tratti che lo caratterizzano, può essere riconfigurato in relazione al mind-game film e più in generale a quel corpus di film con “narrazione complessa” che da metà anni novanta circa si diffondono nel contesto americano e globale. Quando ho iniziato a riflettere sul postmoderno questa terminologia non era ancora diffusa nel panorama critico. La sua circolazione è pressoché contemporanea a quella di film postclassico e, concettualmente, per molti i due termini possono riferirsi agli stessi film. La nozione di narrazione complessa è un termine ampio e include una tipologia di

forme narrative che, in modi diversi, decostruiscono la logica causale e razionale della classicità. Sono film sul tempo, in cui la temporalità della storia (o della fabula) è talmente trasformata dall’intreccio da essere di difficile decifrazione24. Allo spettatore è dunque chiesto di ricomporre, come in un puzzle, la storia, di dipanare l’enigma proposto. Anche se non mancano film che anticipano lo scenario attuale – si pensi per esempio ai film di Buñuel e di Resnais25 – qui la destrutturazione del racconto è più radicale e va vista in relazione al panorama mediale attuale, ovvero la diffusione del computer, delle tecnologie digitali e della rete. I termini «database narrative» e «modular narrative» fanno riferimento a racconti costruiti per blocchi autonomi e che si possono comporre come in una struttura modulare. La narrazione imiterebbe formalmente la navigazione in rete che mette fortemente in crisi la linearità basata sul rapporto di causa-effetto. In Modular Narratives in Contemporary Cinema (2008), Allan Cameron ha raggruppato i racconti modulari in una tipologia ampia in cui troviamo, tra i casi più significativi, la «narrazione anacronica» (anachronic narrative) e il racconto dai «sentieri che si biforcano» (forking-path narrative). La prima «modifica la struttura del flashback classico, mettendo in discussione la gerarchia tradizionale tra la temporalità primaria e quella anteriore». Ricorrendo alla terminologia narratologica di Genette, e portando tra gli esempi Pulp Fiction (1994) e Memento (2000), Cameron sostiene che recentemente queste narrazioni hanno creato «un senso di incertezza» sul rapporto tra narrazione primaria e secondaria/e o meglio, forse, sul fatto che si possa stabilire una gerarchia tra narrazioni primarie e secondarie26. Mulholland Drive rappresenta un caso paradigmatico di narrazione anacronica. Come abbiamo già sostenuto in «Moderno/Postmoderno: elementi per una teoria» e «Postmoderno e nuova spettatorialità», il senso di indeterminazione prodotto dal film di Lynch, la difficoltà ad accettare pienamente l’opposizione tra sogno e realtà – dove la prima e più lunga parte costituisce il sogno di Diane, la seconda la “realtà” – è dovuta al fatto che l’autore inverte l’ordine diegetico abituale e il rapporto tra narrazione primaria e secondaria. Abitualmente il “presente” è la dimensione temporale privilegiata, la norma, così come la “realtà” ha un ruolo primario rispetto al sogno o ad altre configurazioni dell’immaginazione o della fantasia. Questo statuto richiede scelte di base piuttosto precise e univoche: il film inizia con la narrazione primaria che andrà ad occupare la gran parte della diegesi. I passaggi ad altre temporalità o a dimensioni diverse dalla “realtà” vengono non solo segnalati attraverso figure retoriche o espedienti particolari (per esempio la dissolvenza incrociata), ma rappresentano anche episodi limitati. Senza dubbio nel cinema hollywoodiano dello studio system queste dimensioni sono secondarie e non mettono mai in discussione le gerarchie narrative27. In Mulholland Drive assistiamo a un rovesciamento radicale di queste prerogative: (dopo il breve prologo) il film inizia e prosegue per circa tre quinti con quello che si rivelerà essere il sogno di Diane. Si tratta di un racconto con una logica narrativa comprensibile, cui si aggiungono elementi surreali e grotteschi, in linea con lo stile lynchano, ma che in ogni modo narra la traiettoria delle due protagoniste, lo sviluppo della loro relazione e il mondo del cinema a Hollywood. Nulla o quasi fa pensare che sia un sogno; senza dubbio l’autore non rivela mai il “vero” statuto dell’immagine. Quando la protagonista si sveglia nel suo bungalow, con il viso distrutto ed emaciato, lo spettatore deve constatare che le immagini sinora viste sono un sogno di Diane e che la realtà inizia ora. Ma per lo spettatore il sogno è la narrazione primaria anche perché la

realtà presente è costituita da poche inquadrature e la gran parte di questa realtà è narrata in flashback. Così anche se lo spettatore accetta razionalmente il rapporto tra sogno e realtà, l’esperienza di visione lo pone in uno stato di indeterminazione, di incertezza rispetto a tale rapporto. Affettivamente rimane legato a Betty, piuttosto che a Diane, alla carica vitale, la generosità, la bravura che contraddistinguono sia la sua vita privata che quella professionale nel sogno. Indubbiamente si è attivato con Betty un processo di identificazione. La fruizione del film è dunque caratterizzata da due registri diversi, è duale: esperienza intellettuale e psico-emotiva divergono. Mulholland Drive si conferma come film postmoderno, oltra ad essere un film dalla narrazione complessa e un mind-game film. Il racconto «dai sentieri che si biforcano», dalla nota novella di Borges28, rappresenta un altro caso significativo di narrazione complessa. Questa forma presenta versioni alternative della stessa storia mostrando come un cambiamento minimo in uno o più eventi può cambiare radicalmente il destino dei personaggi. Ogni versione è lineare, ma contraddice le altre e l’esito è diverso per ciascun “modulo”. Come in un database viene selezionata una serie di elementi – da un numero possibile di paradigmi –, combinati poi in sintagmi particolari che generano intrecci specifici. Come vediamo in Lola rennt (Lola corre, 1998), film paradigmatico di forking-path narrative dalla grande fortuna critica, l’ultima versione può essere positiva e produrre il salvataggio del personaggio. Nel film la protagonista riceve una telefonata dal fidanzato Manni che ha perso 100 mila marchi di proprietà del gangster per cui lavora. L’uomo ha pochi minuti per trovare la somma e salvare la pelle. Nel terzo modulo Lola vince una grossa somma di denaro al casinò e Manni ritrova i soldi perduti; così i due potranno restituire il debito e iniziare una nuova vita con i soldi vinti da Lola. Nelle due versioni precedenti l’esito era negativo: nella prima moriva Lola, nella seconda Manni. Anche in questo caso di narrazione complessa la manipolazione del tempo definisce la costruzione dell’intreccio. Pochi istanti di differenza cambiano la configurazione degli eventi, la loro sequenza e l’esito finale: questa forma mette in crisi la costruzione causale e univoca e fa emergere le infinite potenzialità e possibilità dei destini individuali29. Contemporaneamente alla riflessione di Cameron, in Puzzle Films. Complex Storytelling in Contemporary Cinema (2009), Warren Buckland e Thomas Elsaesser (e altri) propongono, rispettivamente, il concetto di puzzle film e di mind-game film per parlare di narrazioni filmiche complesse in modi non distanti da Cameron. Negli ultimi dieci anni questa indagine è continuata grazie anche al successo di film particolari. Se per alcuni anni Memento, assieme ai film di Lynch, ha raccolto le attenzioni di molti, più recentemente è un altro film di Nolan, Inception (2010), ad aver attratto gli studiosi30. Nell’introduzione a Puzzle Films Buckland pone il suo progetto in relazione alle riflessioni di Bordwell rovesciandone la tesi. La maggior parte dei puzzle films non sono riconducibili alla classicità, come afferma Bordwell; al contrario, «il puzzle film è costituito da personaggi non-classici che compiono azioni non-classiche. Il puzzle film è un modo di rappresentazione e di esperienza postclassico non delimitato dalla mimesi»31. L’elaborazione teorica di Buckland è piuttosto povera, ma certo condivisibile nella sua tesi di fondo che non è possibile far rientrare il puzzle film nell’alveo della narrazione classica. Più articolato e sofisticato, perché va oltre il livello narrativo o narratologico, è l’intervento di Elsaesser The Mind-Game Film che apre l’antologia. In questo saggio Elsaesser pone le basi per un’indagine a tutto campo sul cinema contemporaneo che svilupperà in numerosi interventi e che costituisce tuttora un’area

importante della sua ricerca. Per Elsaesser il mind-game film rappresenta una forma paradigmatica della contemporaneità, un «dispositivo» che al tempo stesso riflette e nutre la formazione dei soggetti e il loro rapporto con i media. L’autore preferisce la definizione di mind-game film, rispetto a puzzle film, e ne dà due declinazioni: da un lato sono film in cui «si gioca» (game) col personaggio o più spesso con lo spettatore, nascondendo informazioni o inserendo contenuti e oggetti enigmatici interpretabili solo dopo aver scoperto il «codice». Dall’altro si tratta di opere in cui il personaggio principale è in una condizione mentale estrema, instabile o patologica (mind). Ma questi personaggi vengono presentati come normali. L’indagine sulla natura della coscienza o della memoria porta alla presentazione di realtà incompatibili, ma che sembrano ugualmente valide. In ultima analisi, molti mind-game films esplorano questioni ontologiche ed epistemologiche sulla mente umana, la conoscenza, la realtà. E sono il sintomo di nuove modalità della spettatorialità32. Elsaesser individua nel mind-game film due livelli di analisi, quello narrativo e quello psicologico. In relazione alla struttura narrativa, come Cameron, Buckland e altri riconosce che il genere si fonda su una narrazione complessa, la cui logica è quella del database, della rete, dell’archivio, del videogioco ecc.33. Ma l’aspetto che più interessa l’autore è la questione della soggettività: i personaggi del mind-game film vivono una crisi di identità, hanno disordini della personalità e patologie mentali specifiche: paranoia, schizofrenia e amnesia. Ma oltre a narrare crisi di identità – sessuale, adolescenziale, edipico-familiare ecc. – e patologie mentali, questi film indagano problemi epistemologici (come sappiamo ciò che sappiamo) e dubbi ontologici (su altri mondi, e altre menti), e sviluppano una riflessione sulla coscienza umana, la mente, il cervello, realtà multiple o mondi possibili34. Questi film sembrano anche inverare in modo radicale l’intuizione di Gilles Deleuze in Cinema 2. L’immagine-tempo, secondo cui il cinema fa emergere l’impossibilità di pensare il tutto. Il cinema mostra il «pensiero a venire», svela che c’è qualcosa che non può essere pensato. Mette in scena la possibilità di pensare, di credere al rapporto tra io e mondo: per Deleuze tale rapporto non è dato, ma va costruito in assenza di certezze35. Come abbiamo già rilevato a proposito di Mulholland Drive, «anche se il film identifica questi stati come “condizioni” particolari, il fatto che il punto di vista di questi personaggi sia solitamente privilegiato rispetto agli altri (e che quindi serva da guida per lo spettatore) […] mette in discussione le categorie abituali di sano/insano o di vittima e agente»36. Nel mind-game film è solitamente presente solo la condizione patologica: lo spettatore è posto in una posizione di sconforto, poiché non può non condividere il punto di vista del personaggio principale. Pensiamo ai protagonisti schizofrenici di A Beautiful Mind (2001) e Spider (2002). Il protagonista di Memento, opera chiave del genere, è invece il prototipo del personaggio senza memoria. Apparentemente Leonard vuole riacquistare la memoria per vendicare la morte della moglie. Ma se consideriamo l’amnesia una patologia produttiva in realtà capiamo come “dimenticare” sia preferibile a “ricordare”. Leonard scrive sul suo corpo le azioni da compiere – per sopperire al fatto che dimentica – e così diventa un soggetto che “si programma”. L’eroe privo di memoria è programmabile come un’arma e come essa può essere usato. L’amnesia è utile, produttiva secondo Elsaesser, perché consente di costruire soggetti che rispondono meglio ai protocolli e alle procedure della «società della sorveglianza»37. In ultima analisi lo studioso interpreta il mind-game film come Walter Benjamin aveva interpretato il cinema. Se il nuovo medium a inizio Novecento

era una palestra per i sensi, insegnava allo spettatore ad affrontare gli shock della modernità, il mind-game film (e la nuova serialità televisiva) insegna nuove abilità cognitive, allena a interagire con sistemi automatici di sorveglianza e controllo. In ultima analisi il consumo dei media serve alla riproduzione dei meccanismi sociali di interazione. In altri interventi Elsaesser sviluppa in modo particolare lo scenario del trauma, sia in relazione a questioni teoriche più ampie che in relazione a mind-game films particolari. Per esempio, interpreta Pulp Fiction come un film sul trauma della mascolinità bianca: in crisi con le figure paterne tradizionali, l’uomo bianco si rivolge a padri putativi di colore, con tutte le complesse dinamiche che ne conseguono38. È significativo che Elsaesser si concentri sulla mascolinità, come aveva fatto qualche anno prima a proposito di Die Hard. Indubbiamente la “crisi della mascolinità” è un aspetto primario del mind-game film. Nel disegno evolutivo delle forme filmiche che tentiamo di delineare in questo volume appare chiaro che il mind-game film ha un rapporto di filiazione con il noir degli anni quaranta e cinquanta, proprio per il connubio particolare tra struttura narrativa anacronica e crisi della mascolinità39. IL «GLOBAL FILM» E LE NUOVE GEOGRAFIE DEL CINEMA

Con la formula global film intendo una forma filmica, apparsa negli ultimi quindicivent’anni circa, la cui struttura mostra un legame forte – fino a rispecchiarlo in alcuni casi – con le dinamiche della globalizzazione. Si tratta di un ciclo di film in cui gli spazi e gli ambienti mostrati e/o rappresentati restituiscono l’idea del pianeta come totalità, entità unitaria e percorribile nella sua interezza40. In certi casi il global film, può sovrapporsi parzialmente alle altre forme qui studiate – il film postmoderno, il film postclassico o il mind-game film. Tuttavia è la sua modalità “geografica” a definirne la specificità, la differenza rispetto alle altre categorie del cinema contemporaneo. Pertanto la definizione qui proposta differisce dalla nozione di global film istituzionalizzata e che si riferisce a un cinema mainstream globale, pensato per essere fruito in modo omogeneo dal pubblico di tutto il pianeta. Questa nozione di global considera il modo di produzione: le multinazionali dell’intrattenimento creano prodotti che non hanno confini, sono adattabili a pubblici molto diversificati, e hanno anche un alto potenziale crossmediale41. Un altro uso della nozione di global film si riferisce invece alla diffusione globale di un genere o di una corrente inizialmente legata a un cinema nazionale specifico42. In sintonia con l’oggetto del volume, la mia definizione si riferisce alla forma del film, al film come modo di rappresentazione. Il global film è parte di una tendenza più ampia della produzione cinematografica contemporanea che ha trascinato con sé anche una ridefinizione di concetti e paradigmi critico-teorici. La globalizzazione ha prodotto una trasformazione nella concezione geografica del pianeta e dello statuto del soggetto in questo nuovo scenario43. Il paradigma spaziale oggi dominante privilegia le relazioni tra elementi piuttosto che l’identità (fissa) di ciascun elemento. Mobilità, circolazione, flusso e attraversamento sono tra i concetti più diffusi per descrivere sia le vite dei soggetti che la produzione culturale contemporanee. In Modernity at Large (1996) Appadurai aveva scelto proprio la figura del «flusso» per descrivere la globalizzazione. Flusso di capitali, persone, immagini e tecnologie che spesso possono creare «un nuovo ordine di instabilità»44 nelle vite dei soggetti, ma anche possibilità nuove ed emancipatorie. Globalizzazione e nuove mobilità hanno prodotto una crisi di concetti e dinamiche secolari quali quello di

Stato-nazione e identità nazionale. Nel contesto cinematografico, la nozione di “cinema nazionale”, da sempre una delle più care a critici e studiosi, è stata messa in discussione, soprattutto da studiosi/e anglofoni/e45. Il nuovo scenario geografico ha ridefinito la produzione filmica attraverso due concetti oramai istituzionalizzati: transnational cinema e world cinema. La condizione transnazionale del cinema può riguardare per esempio l’identità di un regista o le condizioni produttive di un film. Si pensi ai registi diasporici o formatisi in un paese diverso da quello di origine, com’è il caso della gran parte dei registi e delle registe dei paesi arabi che solitamente frequentano le scuole di cinema francesi. Nel caso della produzione, emblematico è il caso del cinema d’autore o indipendente europeo. Questa forma è anche un modo di produzione specifico: si tratta quasi sempre di co-produzioni che coinvolgono diversi paesi europei e il finanziamento di Eurimages. La sinergia tra co-produzioni, politiche di finanziamento particolari, premi e festival ha contribuito a dare a questa forma cinematografica una vera e propria identità europea46. Ma la condizione transnazionale di registi e opere si riverbera anche sul registro estetico dei film. Will Higbee and Song Hwee Lim hanno affermato che «l’attraversamento dei confini è la ragion d’essere sia del cinema transnazionale che del suo studio» e che «qualsiasi attività di attraversamento dei confini è necessariamente carica di dinamiche di potere». Perciò «nell’esaminare tutte le attività cinematografiche che hanno a che fare con l’attraversamento dei confini» l’approccio transnazionale «è anche sempre attento a questioni postcoloniali, politiche e di potere e a come queste possono a loro volta scoprire nuove forme di pratiche neocoloniali nei generi popolari o nelle estetiche autoriali»47. Il concetto di world cinema ha elementi di convergenza con il transnazionale, ma anche di forte specificità. È un modo diverso per declinare la centralità del discorso geografico nel rapporto tra cinema e globalizzazione. Di world cinema sono state date definizioni diverse, anche molto contrastanti. Trovo particolarmente condivisibile la riflessione di Lùcia Nagib che in Toward a Positive Definition of World Cinema (2006) ha lamentato la problematicità dell’uso di questo concetto in ambito anglofono, dove per world cinema si è inteso il cinema non-hollywoodiano. Anche se la definizione è nata con l’intento di valorizzare il world cinema, è rimasto un concetto «negativo», che continua a reiterare l’idea di Hollywood come norma. È proprio il «pensiero binario» che va rifiutato e con esso dicotomie quali quelle di centro vs. periferia. Nagib propone un concetto positivo non-binario secondo cui il world cinema «non ha centro», ma è «un processo globale. Come il mondo stesso, il world cinema è circolazione». È un modo di guardare alla storia del cinema. Come la Nouvelle Vague degli anni sessanta il world cinema è fatto di «ondate di film e movimenti che creano una geografia flessibile»48. Da questo breve commento si può comprendere come la nozione di global film qui proposta sia un’ulteriore declinazione del rapporto tra cinema e globalizzazione, in cui rimangono centrali questioni legate all’attraversamento dei confini, al flusso e alla circolazione di beni e persone. Effettivamente, come per il binomio postmodernopostclassico, ci sono sovrapposizioni e congiunture tra transnational, global e world cinema che qui non possono essere ulteriormente indagate. Nel global film il racconto si sviluppa in spazi geografici molteplici e lontani tra loro. L’azione si sposta in continuazione da un contesto all’altro, dando luogo a un dinamismo estremo: velocità, cambiamento, spostamento sono le sensazioni che questo tipo di racconto trasmette allo spettatore. Potremmo quasi parlare di «sinfonie del

mondo» per contrasto rispetto alle «sinfonie urbane» degli anni venti, al netto del registro narrativo che qui è fondamentale. Le riprese di luoghi molteplici attorno al globo assicurano una forte spettacolarità. Spesso le location scelte sono famose capitali – di cui ci vengono mostrate icone conosciute – ma anche contesti naturali estremi; la tendenza è di mescolare città occidentali e orientali (i paesi arabi sono naturalmente sempre più presenti), paesi avanzati ed emergenti ecc. L’alternanza dà l’idea che il globo è percorribile e costituisce un’unica entità. Berlino, Parigi, Roma e l’Italia, Londra, New York o altre città americane, ma anche Istanbul, Budapest, Beirut, Hong Kong, l’India, il Marocco disegnano una geografia globale attraente e seduttiva. Alcuni degli esempi più significativi sono film di spionaggio, come per esempio Spy Game (Tony Scott, 2001), oppure Syriana (2005) e la famosa trilogia di Jason Bourne, in particolare il secondo e il terzo episodio, The Bourne Supremacy (2004) e The Bourne Ultimatum (2007) di Paul Greengrass. Di Greengrass possiamo ricordare anche Green Zone (2010), che come i due Bourne vede Matt Damon nel ruolo di protagonista. Indubbiamente il global film fa leva sulla vocazione turistica del cinema primitivo: trasporta lo spettatore in luoghi sconosciuti e irraggiungibili sfruttando la fascinazione per luoghi immaginati ma non vissuti. È la frenesia del visibile che anima la cultura della modernità tra Otto e Novecento e che un secolo dopo la globalizzazione riattiva con nuovo vigore. In An Aesthetic of Astonishment (1989), Tom Gunning ha sostenuto che la modernità ha sviluppato «una lussuria per gli occhi» (lust of the eyes): le nuove vedute cittadine generate dall’urbanizzazione, la crescita della società dei consumi e il suo rapporto con la cultura visuale, l’esplorazione coloniale di nuovi popoli e territori provocarono nella società dell’epoca un forte desiderio di consumare il mondo tramite le immagini49. Questo piacere nel guardare e consumare il mondo non è stata una prerogativa costante del cinema, ma riemerge in momenti storici particolari. Il global film rinnova questo atteggiamento in modo significativo: diversamente dal cinema primitivo e dalle sinfonie urbane degli anni venti, in cui oggetto del piacere scopico è un luogo specifico o una città particolare, qui è il mondo intero a entrare in un unico film. Ovviamente, la sceneggiatura degli spazi geografici non può comprendere letteralmente il mondo intero, ma l’abbondanza dei luoghi presentati e percorsi dal protagonista, in deroga a ogni regola di verosimiglianza, dà appunto l’idea del globo come totalità. Questa immagine è il risultato di tecniche dell’intensificazione e dell’attrazione e contribuisce in generale a una spettacolarizzazione dell’immagine in forme simili a quanto abbiamo già discusso. Paradigmatici sono i film su Jason Bourne, che condividono anche alcuni tratti del mind-game film: il personaggio è senza memoria e vive una crisi di identità. Ognuno degli episodi narra della ricerca di Bourne su se stesso, su come la CIA lo abbia istruito, programmato e usato per i propri fini e su perché ora cerchi di ucciderlo. Come i protagonisti del mind-game film, Bourne è in una condizione post-traumatica incurabile e i suoi skills psichici risultano debilitati e potenziati al tempo stesso rispetto a un soggetto “normale”. Sono film meno radicali di quelli discussi da Elsaesser: qui infatti il protagonista non è dominato da una patologia che gli impedisce di agire e, d’altronde, i personaggi con cui viene a contatto sono “normali”, per cui è assente lo spaesamento e il disagio provocati da film girati dal punto di vista del soggetto psicotico. Se il genere spionistico appare come quello più frequentato dal global film, a questa categoria appartiene anche un grande film d’autore come Babel (2006) di Alejandro

Gonzáles Iñárritu. Il legame di Babel con la globalizzazione appare molto più profondo e sofisticato dei film sinora discussi. Babel non è semplicemente un film «selfconsciously “global”» o critico verso «le politiche dell’attraversamento dei confini»50, ma mette in scena una teoria della globalizzazione dimostrando come sia impossibile rimanere al di fuori delle sue dinamiche. In questo invera l’ipotesi di Lyotard secondo cui nel modo di rappresentazione postmoderno tutte le posizioni soggettive sono coimplicate, e nessuna può rivendicare un privilegio metanarrativo. Giacomo Marramao inizia la sua riflessione in Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione con una considerazione di Paul Valery che sembra uscita «dalla penna di un filosofo della nostra era globale»: «il sistema delle cause che governa il destino di ognuno di noi, estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa a ogni scossa riecheggiare tutto quanto: non esistono più questioni delimitate, anche se possono esserlo in un singolo punto»51. Questa definizione descrive in modo letterale la struttura narrativa di Babel: un fucile giapponese donato a un pastore marocchino ferisce una turista americana, mentre a San Diego, nella casa della coppia, una nanny messicana illegale mette a repentaglio la vita dei bambini che accudisce per assistere al matrimonio del figlio. Babel è un film globale “teorico” perché mostra come un evento locale abbia ripercussioni globali e come i media contribuiscano alla diffusione planetaria degli eventi. La frammentazione narrativa risponde alla necessità di differenziare e collegare al tempo stesso luoghi e culture diverse52. Il film intreccia storie e linee narrative molteplici e racconta le tensioni tra locale e globale attraverso la messa in scena di dinamiche familiari. Ogni famiglia – l’americana, la marocchina, la giapponese e la messicana – è connotata culturalmente in modo forte. Ma il peso specifico di ogni paese e cultura sulle sorti di popoli e individui non è lo stesso. Ovvero, ogni attraversamento di confini è inserito in dinamiche di potere che differenziano i soggetti l’uno dall’altro in modo deciso. Mentre la coppia altoborghese in crisi può muoversi liberamente all’estero, sperando con un viaggio esotico di risolvere i problemi matrimoniali, la nanny rimasta a casa ad accudire i figli della coppia non può attraversare il confine per andare al matrimonio del figlio. Dovendo trovare un espediente illegale, metterà in pericolo la vita dei bambini e la propria. È chiaro che il soggetto e la cultura statunitensi hanno un valore più alto: la notizia del ferimento della turista americana (Cate Blanchett) spopola nelle News solo a causa della nazionalità della donna e della location – un paese arabo – in cui il ferimento avviene. Il film di Iñárritu smaschera i rapporti di forza del pianeta e sembra posizionarsi empaticamente dalla parte del Global South, o almeno dei poveri messicani che con il loro lavoro arricchiscono gli Stati Uniti. E tuttavia, bisogna chiedersi se l’uso di capitali americani e la scelta di due grandi star hollywoodiane come Brad Pitt e Cate Blanchett serva a questa operazione di smascheramento o ad assicurare al film un maggior successo al botteghino, ovvero a mostrare l’impossibilità di fare a meno dell’America. Come molti registi e registe indipendenti Iñárritu incarna alla perfezione le nuove dinamiche geografiche della produzione cinematografica. È oramai un acclarato regista transnazionale – che si è mosso e si muove tra il Messico e gli Stati Uniti, come l’amico Alfonso Cuaròn –, abituato ad attraversare confini culturali, produttivi ed estetici. Ancora più che nel 1928, quando Valery profetizzò il mondo di oggi, il sistema globale non si basa su semplici rapporti dicotomici tra centro e periferia, io e altro, forte e debole ecc., ma su una rete di relazioni in cui istanze opposte sono indissolubilmente legate e in cui il destino dell’io è legato a quello dell’altro. Il messicano Iñárritu,

trapiantato a Hollywood, mostra che la circolazione e il flusso di capitali, soggetti e cose ha trasformato i vecchi rapporti binari, e oggi posizioni critiche verso lo status quo si sovrappongono a strategie di cooptazione. Babel critica l’imperialismo americano, ma deve servirsi delle sue stesse pratiche per compiere questa operazione.

1. J. McTiernan, Die Hard (Trappola di cristallo, 1988).

[2.]

[3.] 2-3. D. Lynch, Mulholland Drive (2001).

4. T. Tykwer, Lola rennt (Lola corre, 1998).

5. A.G. Iñarritu, Babel (2006).

Note al testo Nota introduttiva 1 Per un maggiore approfondimento rinvio quindi a Veronica Pravadelli, La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Venezia, Marsilio, 2007 (20183). Segnalo anche l’edizione americana che contiene revisioni significative nei primi due capitoli (Classic Hollywood. Lifestyles and Film Styles of American Cinema, 1930-1960, Urbana, University of Chicago Press, 2015). 2 La struttura di base dell’ultimo capitolo prende spunto del mio corso di Magistrale del 2007-2008 dedicato a postmoderno, postclassico e global film. È in quell’occasione che ho cominciato a studiare Babel. Tra gli studenti del corso voglio ringraziare Valerio Coladonato e Luca Ottocento per le proficue discussioni avute negli anni su questi argomenti. Per suggerimenti e commenti sull’ultima versione del saggio ringrazio Enrico Carocci, Ilaria De Pascalis e Lorenzo Marmo. E, come sempre, Paolo Bertetto. I primi sei saggi sono stati pubblicati originariamente nei seguenti volumi: Susanna e le strutture formali della classicità, in P. Bertetto (a cura di), L’interpretazione dei film, Venezia, Marsilio, 2003 e succ. ediz.; Oltre il classico. Melodramma, spettacolo e sensazione in Come le foglie al vento, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Nel corpo del film. Percorsi dentro e oltre l’analisi del testo, Roma, Carocci, 2006; Moderno/postmoderno: elementi per una teoria, in B. Torri (a cura di), Nuovo cinema (1965-2005). Saggi in onore di Lino Micciché, Venezia, Marsilio, 2005; Il cinema d’autore italiano degli anni sessanta (e oltre): classico, moderno, postmoderno è uscito originariamente in inglese col titolo Italian 1960s Auteur Cinema (and Beyond): Classic, Modern, Postmodern, in F. Burke (a cura di), A Companion to Italian Cinema, West Sussex, Wiley-Blackwell, 2017; Prima della rivoluzione e modernità: stile, classe, gender, in G. De Vincenti (a cura di), Bernardo Bertolucci, Venezia, Marsilio, 2012; Postmoderno e nuova spettatorialità, in «Bianco & Nero», nn. 550551, marzo 2004-gennaio 2005.

1. Susanna e le strutture formali della classicità 1 Si veda R. Bellour, L’analyse du film, Paris, Albatros, 1979, trad. it. L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005, e D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, New York, Columbia University Press, 1985. 2 R.B. Ray, The Bordwell Regime and the Stakes of Knowledge, in How a Film Theory Got Lost and Other Mysteries in Cultural Studies, Bloomington, Indiana University Press, 2001. Le citazioni riportate si trovano alle pp. 35, 62, 63. 3 Ibid. 4 In particolare il famoso Visual Pleasure and Narrative Cinema, apparso, in italiano, nel n. 8, luglio 1978, di «dwf. donnawomanfemme». 5 C. Penley, Preface, in R. Bellour, The Analysis of Film, a cura di C. Penley, Bloomington, Indiana University Press, 2000, pp. IX-X. 6 Da questo momento ometteremo di citare Staiger in quanto ci serviremo soltanto degli studi sullo stile di Bordwell e Thompson. 7 Per un confronto tra i presupposti teorici di Bellour e di Bordwell si veda Th. Elsaesser, Classical/postclassical narrative, in Th. Elsaesser, W. Buckland, Studying Contemporary American Film, London, Arnold, 2002, trad. it. La narrazione classica/post classica (Die Hard - Trappola di cristallo), in Teoria e analisi del film classico contemporaneo, Milano, Bietti, 2010. 8 Il cinema di Hawks, secondo Andrew Sarris, è «il più distintamente americano». Ma questo aspetto è «molto più inusuale di quanto si pensi» nel panorama hollywoodiano. Cfr. A. Sarris, Howard Hawks, in J. Hillier, P. Wollen (a cura di), Howard Hawks American Artist, London, British Film Institute, 1996, p. 104. Rimando al volume per un panorama critico sull’autore. 9 D. Bordwell, The Classical Hollywood Style, 1917-1960, in Bordwell, Staiger, Thompson, The Classical Hollywood Cinema, cit., p. 13. 10 È il duale di cui parla Deleuze. Si veda G. Deleuze, L’image-mouvement. Cinéma 1, Paris, Les Editions de Minuit, 1983, trad. it. Cinema 1. L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984. 11 Bordwell, The Classical Hollywood Style, cit., p. 9. 12 Sulla teoria e le implicazioni del progressive text mi permetto di rinviare al mio Eccessi di stile e lezioni di morale in «Home from the Hill» e «Written on the Wind», in «Bianco & Nero», n. 2, marzo-aprile 1999, e più in generale La grande Hollywood, cit. 13 R. Barthes, De l’Œuvre au Texte, in «Revue d’Esthétique», n. 3, 1971, trad. it. Dall’opera al testo, in P. Madron (a cura di), L’analisi del film, Parma, Pratiche, 1984. 14 S. Hall, Encoding, decoding, in S. During (a cura di), The Cultural Studies Reader, London, Routledge, 1993. 15 J. Rivette, Génie de Howard Hawks, in «Cahiers du Cinéma», n. 23, mai 1953, trad. it. Genialità di Howard

Hawks, in G. Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima, Firenze, La Casa Usher, 1984, p. 140. 16 P. Wollen, Signs and Meanings in the Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 19723, p. 91. 17 Per un’interpretazione di questo tipo si veda l’analisi di K. Rowe in The Unruly Woman. Gender and the Genre of Laughter, Austin, University of Texas Press, 1995, pp. 145-156. 18 Wollen, Signs, cit., pp. 82-91. 19 Per una panoramica sulle interpretazioni psicoanalitiche della commedia si veda A.S. Horton, Introduction, in Id. (a cura di), Comedy/Cinema/Theory, Berkeley, University of California Press, 1991 e lo studio di Rowe, The Unruly Woman, cit. 20 T. Schatz, Hollywood Genres: Formulas, Filmmaking, and the Studio System, New York, McGraw-Hill, 1981, in particolare pp. 14-41. 21 M. Vernet, La transaction filmique, in R. Bellour (a cura di), Le cinéma américain. Analyses de films, t. II, Paris, Flammarion, 1980, p. 132. 22 Ibid., p. 135. 23 Ibid., p. 138. 24 Una delle tesi-guida dell’importante studio di Robert Ray sul cinema americano è che esso ha mostrato, sin dall’inizio del periodo classico sonoro, una «certa tendenza»: la complicità estrema tra il «paradigma formale» e quello «tematico» è stata funzionale, al fine ideologico del cinema hollywoodiano, di «nascondere la necessità della scelta». Cfr. R.B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton, Princeton University Press, 1985. Rinvio al volume anche per le analisi esemplari di alcuni film classici, in particolare di Casablanca e La vita è meravigliosa. 25 D. Bordwell, K. Thompson, Technological Change and Classical Film Style, in T. Balio, Grand Design: Hollywood as a Modern Business Enterprise 1930-1939, Berkeley, University of California Press, 1993, p. 110. Questo articolo utilizza la ricerca precedente dei due studiosi integrata con elementi specifici del decennio e risulta dunque assai utile per l’analisi dello stile classico negli anni trenta. 26 Ibid., p. 113. 27 Bordwell, The Classical Hollywood Style, cit., p. 62. Su questi aspetti si veda anche B. Salt, Film Style & Technology: History & Analysis, London, Starword, 19922. 28 Per un utile confronto rinvio alle analisi di un’altra commedia di Hawks, La signora del venerdì (1940), compiute da Bordwell e Thompson in due diverse occasioni. Cfr. D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, Madison, University of Wisconsin Press, 1985, pp. 188-193; D. Bordwell, K. Thompson, Film Art. An Introduction, New York, McGraw Hill, 19924, trad. it. Cinema come Arte, Milano, Il Castoro, 2003, pp. 464-468. 29 Il riferimento è di Kathleen Rowe. Cfr. Rowe, The Unruly Woman, cit., p. 148. 30 Si veda il suo noto saggio su Touch of Evil, Film and System: Terms of Analysis, in «Screen», 16, 1, 1975. 31 Si tratta, evidentemente, del saggio L’évidence et le code, in «Revue d’Esthétique», 1973, trad. it. L’evidenza e il codice, in Madron (a cura di), L’analisi del film, cit. 32 Si vedano i saggi su Psycho (Psicosi, nevrosi, perversione), Gli uccelli (Système d’un fragment) e Marnie (Enoncer) raccolti in Bellour, L’analisi del film, cit. 33 Con l’unica eccezione dell’inq. 10 dove, al fine di riprendere David che si alza, la mdp lo inquadra in figura intera, rompendo così la serie che l’aveva visto, dalla quarta inquadratura, sempre in mezza figura. 34 Su questo aspetto rinvio al fondamentale lavoro di Rick Altman sulla teoria del genere. In particolare il recente Film/Genre, London, British Film Institute, 1999, trad. it. Film/Genere, Milano, Vita e Pensiero, 2004. In italiano si veda I generi di Hollywood, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, t. I, Torino, Einaudi, 1999. 35 La dialettica città/campagna è un tratto saliente del genere. Si veda Th. Schatz, La «screwball comedy» degli anni trenta, in C. Salizzato, V. Zagarrio (a cura di), Effetto commedia, Roma, Di Giacomo, 1985. 36 B. Henderson, La «romantic comedy», ivi, p. 62.

2. Oltre il classico. Melodramma, spettacolo e sensazione in Come le foglie al vento 1 Il melodramma ricopre in questo ambito un ruolo primario in quanto costituisce l‘esempio paradigmatico di progressive text. Su questa questione rinvio a B. Klinger, Melodrama and Meaning. History, Culture, and the Films of Douglas Sirk, Bloomington, Indiana University Press, 1994, in particolare pp. 1-35. 2 R. Altman, Dickens, Griffith, and Film Theory Today, in «The South Atlantic Quarterly», 88, 2, Spring 1989, pp. 321-359, pp. 326-327 (qui e in seguito la traduzione è mia, se non altrimenti specificato). 3 Ibid., p. 338. 4 Ibid., p. 354. 5 S. Neale, Melo Talk. On the Meaning and Use of the Term “Melodramma” in the American Trade Press, in «The Velvet Light Trap», 32, Fall 1993, pp. 66-89, p. 69. 6 B. Singer, Melodrama and Modernity, New York, Columbia University Press, 2001, pp. 59-99. 7 Ibid., pp. 46-49. 8 Ibid., pp. 44-55.

9 P. Brooks, Melodrama, Body, Revolution, in J. Bratton, J. Cook, C. Gledhill (a cura di), Melodrama. Stage, Picture, Screen, London, British Film Institute, 1994, pp. 11-24, p. 21. 10 Cfr. L. Williams, Playing the Race Card. Melodramas of Black and White from Uncle Tom to O. J. Simpson, Princeton, Princeton University Press, 2001, in particolare pp. 10-44. 11 Th. Elsaesser, Tales of Sound and Fury, in «Monogram», n. 4, 1972, (trad. it. Storie di rumore e di furore. Osservazioni sul melodramma familiare, in A. Pezzotta, a cura di, Forme del melodramma, Roma, Bulzoni, 1992) e G. Nowell-Smith, Minnelli and Melodrama, in C. Gledhill (a cura di), Home is Where the Heart is, London, British Film Institute, 1987. 12 L. Williams, Film Bodies: Gender, Genre and Excess, in «Film Quarterly», 44, 4, Summer 1991. 13 J. D’Emilio, E.B. Freedman, Intimate Matters. A History of Sexuality in America, Chicago, University of Chicago Press, 19972, pp. 225-226. 14 Brooks, Melodrama, Body, Revolution, cit., pp. 17-18. 15 Un gesto suggerito anche in T. Gunning in The Horror of Opacity, in Bratton, Cook, Gledhill, Melodrama. Stage, Picture, Screen, cit. 16 B. Klinger, “Local” Genres. The Hollywood Adult Film in the 1950s, in Bratton, Cook, Gledhill, Melodrama. Stage, Picture, Screen, cit., pp. 134-146, p. 138. 17 L. Jacobs, The Woman’s Picture and the Poetics of Melodrama, in «Camera Obscura», 31, 1993, pp. 121147. 18 T. Gunning, The Cinema of Attractions. Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, in Th. Elsaesser (a cura di), Early Cinema. Space Frame Narrative, London, British Film Institute, 1990, p. 58. 19 Cfr. nota 3. 20 Del resto, Gunning aveva sottolineato che quando il cinema diventa narrativo «l’attrazionalità non scompare ma diventa sotterranea, [si insinua] in certe pratiche d’avanguardia, ma diventa anche una componente del film narrativo, più evidente in alcuni generi (per esempio il musical) che in altri» (Gunning, The Cinema of Attractions, cit., p. 57). 21 Per un approfondimento delle questioni teoriche e ulteriori case studies si veda La grande Hollywood, cit.

3. Moderno/postmoderno: elementi per una teoria 1 Per queste suggestioni iniziali mi sono servita dell’eccellente studio di B. Readings, Introducing Lyotard. Art and Politics, London, Routledge, 1991, in particolare del capitolo «Postmodernity and Narrative». 2 Ibid., p. 66. 3 J.-F. Lyotard, Le condition postmoderne, Paris, Les Editions de Minuit, 1979, trad. it. La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981; J.-F. Lyotard, J.L. Thébaud, Just Gaming, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1979. 4 Visti i termini della discussione è comprensibile che Metz, pur parlando di modernità, non prenda in considerazione la posizione di Bazin. Poiché la relazione tra i due non è immediata ho ritenuto, per coerenza argomentativa, di non includere Bazin nella mia analisi. Inoltre, i presupposti e gli scopi di questo intervento sono difficilmente compatibili con le posizioni baziniane. Su Bazin e la modernità rinvio al saggio di G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993. 5 C. Metz, Le cinéma moderne et la narrativité, in Essais sur la signification au cinéma, vol. 1, Paris, Klincksieck, 1968, trad. it. Il cinema moderno e la narratività (1966), trad. it. in Id., Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972, pp. 245-295, p. 247. 6 Metz, Il cinema moderno, cit., p. 275. 7 Ibid., pp. 282-286. 8 Ibid., p. 294. 9 È interessante che, a questo proposito, Metz evochi Proust. Il film di Godard fa pensare «a certe riflessioni di Proust, che riconosceva di avere in varie circostanze della vita un senso acuto e preciso di alcune eventualità psicologicamente possibili o verosimili, ma che si dichiarava molto spesso incapace di predire in anticipo quale si sarebbe realizzata», ibid., p. 285. 10 Ibid., p. 259. 11 E. Pulcini, La passione del moderno: l’amore di sé, in S. Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 133-180. 12 Ibid., pp. 173-177. 13 D. Bordwell, The Art Cinema as a Mode of Film Practice, in L. Braudy, M. Cohen (a cura di), Film Theory and Criticism, New York, Oxford University Press, 19995, pp. 716-724. 14 Ibid., p. 717. 15 D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, Madison, University of Wisconsin Press, 1985, p. 207. 16 Bordwell, The Art Cinema, cit., pp. 719-720. 17 Su questo argomento rimando anche alle belle pagine scritte da L. Micciché in Il Principe e il Conte, in Id. (a cura di), Il Gattopardo, Napoli, Electa, 1996.

18 Su questi aspetti del film si veda P. Bertetto, Il simulacro e la figurazione. Strategie di messa in scena, in V. Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, Roma, Bianco & Nero, 2000. 19 F. Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Durham, Duke University Press, 1991, p. 48. 20 Questo è, a mio avviso, un aspetto discriminante del (cinema) postmoderno. Su questa questione, che qui non discuto, mi permetto di rinviare al mio Postmoderno e nuova spettatorialità, in «Bianco & Nero», nn. 550551, marzo 2004-gennaio 2005. 21 Ho studiato queste questioni in modo più articolato in Performance, Rewriting, Identity. Chantal Akerman’s Postmodern Cinema, Torino, Otto, 2000. 22 Il simulacro di Baudrillard rappresenta la forma più radicale di indeterminazione. Si veda, in particolare, J. Baudrillard, La précession des simulacres, in «Traverses», n. 10, février 1978, trad. it. La precessione dei simulacri, in Id., Simulacri e impostura, Bologna, Cappelli, 1980. 23 Sull’indeterminazione in Videodrome cfr. G. Canova, David Cronenberg, Milano, Il Castoro, 2000, pp. 60-64. 24 Su questo aspetto si veda il bel saggio di P. Couté, A peine eut-elle franchi la route: éléments pour une (re)lecture de Mulholland Drive, in «Eclipses», n. 34, 2002. 25 Ibid.

4. Il cinema d’autore italiano degli anni sessanta (e oltre): classico, moderno, postmoderno 1 Deleuze, L’image-mouvement. Cinéma 1, cit.; Id., L’image-temps. Cinéma 2, Paris, Les Editions de Minuit, 1985, trad. it. Cinema 2. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989. 2 Lyotard, La condizione postmoderna, cit.; Id., L’assassinat de l’expérience par la peinture: Monory, Paris, Castor Astral, 1984. 3 B. Readings, Introducing Lyotard: Art and Politics, London, Routledge, 1991, p. 66. 4 Lyotard, L’assassinat de l’expérience par la peinture, cit., p. 7. 5 Readings, Introducing Lyotard, cit., p. 67. 6 M.H. Abrams, The Mirror and the Lamp, London, Oxford University Press, 1953, trad. it. Lo specchio e la lampada. La teoria romantica e la tradizione critica, Bologna, il Mulino, 1976, p. 48. 7 E. Pulcini, La passione del moderno: l’amore di sé, in Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, cit., pp. 133-180. 8 Ibid., p. 142. 9 Ibid., pp. 154-155. 10 Bordwell, The Art Cinema, cit.; D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, Madison, University of Wisconsin Press, 1985. 11 Bordwell, The Art Cinema, cit., p. 716. 12 Per una disamina dell’intreccio, nel cinema neorealista, tra componenti autoriali moderniste ed elementi più legati al cinema di genere si veda Lorenzo Marmo, Roma e il cinema del dopoguerra. Neorealismo melodramma noir, Roma, Bulzoni, 2018. 13 Bordwell, The Art Cinema, cit., p. 717. 14 Bordwell, Narration in the Fiction Film, cit., p. 207. 15 Ibid., p. 211. 16 Bordwell, The Art Cinema, cit., pp. 719-720. 17 G. Aristarco, Ciro e i suoi fratelli, in G. Callegari, N. Lodato (a cura di), Leggere Visconti, Pavia, Amministrazione Provinciale di Pavia, pp. 78-81, p. 78. 18 Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit., nota 25. 19 Ibid., pp. 267-268. 20 Per una mappatura di tali fonti si vedano: G. Rondolino, Luchino Visconti, Torino, UTET, 1981; L. Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Venezia, Marsilio, 1996; H. Bacon, Visconti: Explorations of Beauty and Decay, Cambridge, Cambridge University Press, 1998. 21 V. Pravadelli, Documenti, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. 10, 1960-1964, Venezia-Roma, Marsilio-Bianco & Nero, 2003, pp. 581-673, p. 662. 22 D. Forgacs, National-Popular: Genealogy of a Concept, in S. During (a cura di), The Cultural Studies Reader, London, Routledge, 1993, pp. 177-190, p. 181. 23 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale (I quaderni dal carcere), Torino, Einaudi, 1964, pp. 68-70. 24 G. Nowell-Smith, Luchino Visconti, London, Secker & Warburg, 19732, pp. 176-177. 25 Nella riflessione critica americana degli anni settanta e ottanta sul cinema di Hollywood tale ambiguità ha dato luogo alla nozione di progressive text. Mentre tale concetto è in seguito divenuto problematico, esso può risultare ancora utile, se adoperato con cautela ed esteso a film non americani come Rocco e i suoi fratelli. Per una ricognizione sul dibattito a proposito del progressive text si veda B. Klinger, Cinema/Ideology/Criticism Revisited: The Progressive Genre, in B.K. Grant (a cura di), Film Genre Reader II, Austin, University of Texas Press, pp. 74-90.

A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Volume I. Quaderni 1-5, Torino, Einaudi, 1977, p. 491. Il film fu primo al botteghino italiano nella stagione 1962-1963, guadagnando, in valuta attuale, circa 8,5 milioni di euro, cfr. Pravadelli, Documenti, cit., pp. 662-663. 28 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958), Milano, Feltrinelli, 2002. 29 N. Greene, Coppola, Cimino: The Operatics of History, in M. Landy (a cura di), Imitations of Life: A Reader on Film and Television Melodrama, Detroit, Wayne State University Press, pp. 388-397, p. 390. 30 P. Bertetto, Il simulacro e la figurazione, in V. Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, Roma, Bianco & Nero, 2000, pp. 199-220, p. 218. 31 Sul rapporto tra romanzo e film si veda Micciché, Il Principe e il Conte, cit., pp. 9-27. 32 Bertetto, Il simulacro e la figurazione, cit. 33 Bacon, Visconti, cit., p. 1. 34 La predilezione di Visconti per il melodramma e il modo melodrammatico si possono far risalire già a “Il processo di Maria Tarnowska”, il film mai realizzato che il regista doveva girare prima (o al posto) di La terra trema (1948). La sceneggiatura, scritta da Visconti insieme a Michelangelo Antonioni, Antonio Pietrangeli e Guido Piovene nel 1946, rivela assai bene la natura melodrammatica dell’immaginazione viscontiana. Si veda su questo V. Pravadelli, Il processo di Maria Tarnowska: Scenari psichici e innovazioni formali, in T. Antolin, A. Barbera (a cura di), Il processo di Maria Tarnowska. Una sceneggiatura inedita, Torino-Milano, Museo Nazionale del Cinema-Il Castoro, 2006, pp. 40-48. 35 Sui codici formali e visivi del melodramma si veda Elsaesser, Storie di rumore e furore, cit., pp. 65-109. 36 Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit., p. 262. 37 L. Cuccu, La visione come problema: Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Roma, Bulzoni, 1973, p. 33. 38 S. Sontag, Against Interpretation, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1966, trad. it. Contro l’interpretazione, Torino, Einaudi, 1967. 39 Deleuze, Cinema 2, cit., p. 13. 40 Ibid., p. 12. 41 L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, in «Screen», vol. 16, n. 3, Fall 1975, trad. it. Piacere visivo e cinema narrativo, in Ead., Cinema e piacere visivo, a cura di V. Pravadelli, Roma, Bulzoni, 2013, pp. 29-44. 42 Come sottolinea Sandro Bernardi, in Antonioni un ruolo cruciale è svolto dal paesaggio che ha un’autonomia inusitata. In Antonioni il paesaggio diviene un elemento importante per la costruzione e decostruzione dello sguardo, scardinando la visione centrata del cinema classico. Cfr. S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 111-112. 43 Negli ultimi dieci-quindici anni la «teoria dell’affetto» è diventata una categoria importante per l’interpretazione dell’arte e della cultura contemporanee. Non mi è possibile sviluppare meglio questo punto, ma penso che il cinema di Antonioni anticipi a questo proposito tendenze più recenti. Per un quadro generale della Affect Theory si veda M. Gregg, G.J. Seigworth (a cura di), The Affect Theory Reader, Durham, Duke University Press, 2010. 44 E. Lévinas, La transcendance des mots, in L’ire des vents. Autour de Michel Leiris, nn. 3-4, 1981, trad. ingl. The Transcendence of Words, in S. Hand (a cura di), The Lévinas Reader, Oxford, Blackwell, 1989, pp. 144-149. 45 Ivi, p. 147. 46 Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit., p. 267. 47 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994. 48 Ibid., pp. 5-6. 49 Deleuze, Cinema 2, cit., p. 12. 50 Ibid., p. 14. 51 Ibid., p. 15 (traduzione rivista). 52 M. Canga, La dolce vita, Valencia, Nau Libres, 2004, p. 88. 53 G. Debord, La société du spectacle, Paris, Editions Buchet-Chastel, 1967, trad. it. La società dello spettacolo, Milano, Dalai, 2008. 54 P. Bertetto, La dolce vita: Microfilosofia della spettacolarità, in U. Felten, S. Leopold (a cura di), Le dieu cache? Lectura christiana des italienischen und französischen Nachkriegskinos, Tübingen, Stauffenburg Verlag, 2010, pp. 143-150. Per un’interpretazione “politica” del film e di Fellini in generale si veda A. Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012. 55 Mulvey, Piacere visivo e cinema narrativo, cit. 56 F. Fellini, Il libro dei sogni, a cura di T. Kezich, V. Boarini, Roma, Rizzoli, 2008. 57 V. Pravadelli, Le donne del cinema: Dive, registe, spettatrici, Roma-Bari, Laterza, 2014. 58 Bertetto, La dolce vita, cit., p. 145. 59 A. Bálint Kovács, Screening Modernism: European Art Cinema, 1950-1980, Chicago, University of Chicago Press, 2007, p. 338. 60 Ibid., p. 339. 61 Baudrillard, La précession des simulacres, cit. 26 27

Bálint Kovács, Screening Modernism, cit., p. 385. F. Burke, Federico Fellini: Reality/Representation/Signification, in M.R. Waller (a cura di), Federico Fellini: Contemporary Perspectives, Toronto, University of Toronto Press, 2002, pp. 24-46, p. 33. 64 Bálint Kovács, Screening Modernism, cit., p. 384. 65 Si tratta di una delle tesi principali della più famosa opera di Lyotard, La condizione postmoderna. Il filosofo inizia il proprio saggio comparando moderno e postmoderno, e più nello specifico conferendo «l’appellativo di “moderno” alla scienza che […] si richiama per legittimarsi […] ad un metadiscorso che […] ricorre esplicitamente a qualche grande referente narrativo». Per converso, «semplificando all’estremo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (Lyotard, La condizione postmoderna, cit., pp. 5-6). 66 R. De Gaetano, La sincope dell’identità: Il cinema di Nanni Moretti, Torino, Lindau, 2002. 62 63

5. Prima della rivoluzione 1 Per un confronto tra film e romanzo si veda L.L. Williams, Stendhal and Bertolucci: the Sweetness of Life before the Revolution, in «Literature Film Quarterly», vol. 4, Issue 3, Summer 1976, pp. 215-221. 2 Il rapporto con la Nouvelle Vague è un tòpos della letteratura critica sul film. Per un confronto tra Prima della rivoluzione e Ma nuit chez Maud (1969) si veda L. Albano, Parma come Clermont-Ferrand, in «La valle dell’Eden», anno IV, vol. 10-11 2002, pp. 83-102. 3 F. Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986. 4 Williams, Stendhal and Bertolucci, cit., p. 219. 5 Per una analisi teorica del rapporto tra autore e personaggio nel cinema italiano degli anni sessanta rimando a Moderno/postmoderno: elementi per una teoria, in questo volume. 6 Bordwell, The Art Cinema, cit. 7 Bordwell, Narration in the Fiction Film, cit. 8 Su queste questioni in relazione al cinema di Bergman degli anni cinquanta e sessanta si veda B. Steene, Bergman’s Portrait of Women: Sexism or Subjective Metaphor, in P. Erens (a cura di), Sexual Stratagems, New York, Horizon Press, 1979. 9 Williams, Stendhal and Bertolucci, cit., p. 215. 10 Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit. 11 Recentemente Giorgio De Vincenti – il cui lavoro più che ventennale sulla modernità cinematografica ha proposto parametri critici concettuali e non storiografici per la messa a punto della problematica – ha riaffermato che non solo il nuovo cinema degli anni sessanta «fa, implicitamente o esplicitamente, del découpage classico hollywoodiano la norma estetica da violare», ma che tale operazione va sottratta alle facili periodizzazioni poiché è continuata e continua in svariati autori, compresi alcuni “indipendenti” americani. Cfr. G. De Vincenti, «Modernità», in Enciclopedia del Cinema, vol. 4, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004, pp. 112-117, p. 114. 12 Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit., p. 259. 13 G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993, p. 19. 14 F. Casetti, Bernardo Bertolucci, Il Castoro Cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 41-45. 15 Una componente aleatoria nell’uso del linguaggio si riscontra in Godard e nella Nouvelle Vague in generale. L’ampliamento di codici e modalità di ripresa oltre la cosiddetta «grammatica classica» ha dato come esito la possibilità di scegliere tra diversi «equivalenti funzionali», ovvero stilemi diversi per esprimere funzioni narrative simili: basta pensare ai molti modi in cui si gira il campo-controcampo evitando la forma classica consolidata. Sulla nozione di «equivalente funzionale» si veda D. Bordwell, The Classical Hollywood Style, 19171960, in Bordwell, Thompson, Staiger, The Classical Hollywood Cinema, cit. 16 R. Williams, Marxism and Literature, Oxford, Oxford University Press, 1977, pp. 121-127.

6. Postmoderno e nuova spettatorialità 1 Per una articolata storia del termine e dell’evoluzione del concetto critico si vedano H. Bertens, The Postmodern Weltanschauung and its Relation to Modernism: an Introductory Survey, in J. Natoli, L. Hutcheon (a cura di), A Postmodern Reader, Albany, State University of New York Press, 1993, pp. 25-70; M. Calinescu, On Postmodernism, in Id., Five Faces of Modernity, Durham, Duke University Press, 1987, pp. 265-312. Entrambi gli autori mostrano come l’emergenza del termine in senso affermativo spetti ai nuovi poeti americani del dopoguerra e come questo uso – in opposizione a quello nichilistico offerto dallo storico inglese Arnold Toynbee – successivamente venne ripreso negli anni sessanta. 2 M. Turim, Cinemas of Modernity and Postmodernity, in I. Hoesterey (a cura di), Zeitgeist in Babel. The Postmodernist Controversy, Bloomington, Indiana University Press, 1991, pp. 177-189, p. 182. 3 Steven Shaviro, autore di alcuni dei contributi più interessanti su cinema e postmoderno, è estremamente polemico in questo senso e lamenta il ruolo dominante che la psicoanalisi ha avuto nella teoria del cinema.

All’«ortodossia» freudo-lacaniana, con le sue «ossessive invocazioni alla “mancanza”, la “castrazione”, e il “fallo”», propone di sostituire le tesi affermative di Foucault e di Deleuze-Guattari. Cfr. S. Shaviro, The Cinematic Body, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993, p. IX. 4 In Italia, la questione del cinema postmoderno è stata affrontata in particolare da G. De Vincenti, Moderno e postmoderno: dagli indici stilistici alle pratiche di regia, in G. Petronio, M. Spanu (a cura di), Postmoderno?, Roma, Gamberetti, 1999; G. Canova, L’alieno e il pipistrello, Milano, Bompiani, 2000; V. Buccheri, Sguardi sul postmoderno, Milano, ISU, 2000 e Luca Malavasi, Postmoderno e cinema, Roma, Carocci, 2017. 5 Si veda l’introduzione di Alex Galloway e Jason Middleton a questo bel numero che comprende interventi di: Žižek, Shaviro, Gaines, Renov, Turim e Jameson. A. Galloway, J. Middleton, Preface: Film Studies and Postmodern Theory, in «Polygraph», n. 13, 2001, pp. 3-11. 6 S. Sontag, Contro l’interpretazione e altri saggi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1967, pp. 14, 26. 7 Turim, Cinemas of Modernity, cit., p. 26. 8 Bertens, The Postmodern Weltanschauung, cit., p. 177. 9 Riproposta in ogni antologia e discussa in numerosissime occasioni, la tabella aveva il pregio di provare a distinguere l’opera moderna da quella postmoderna. Con una trentina circa di opposizioni binarie Hassan definiva in modo assai netto tale differenza. Ma se le categorie scelte erano estremamente utili, la rigida separazione tra i due paradigmi sembra difficile da sostenere. Si veda I. Hassan, The Postmodern Turn, Columbus, Ohio State University Press, 1987. 10 Noël Carroll, Film in the Age of Postmodernism (1985), in Id., Interpreting the Moving Image, Cambridge, Cambridge University Press, 1998. 11 Turim, Cinemas of Modernity, cit., p. 183. 12 La questione dell’emergenza del moderno all’interno dell’epoca classica è una questione di grande importanza nel dibattito sul cinema americano classico. Si vedano in particolare J. Naremore, More than Night. Film Noir in its Contexts, Berkeley, University of California Press, 1998, cap. 2, e M. Bratu Hansen, The mass production of the senses: classical cinema as vernacular modernism, in C. Gledhill, L. Williams (a cura di), Reinventing Film Studies, London, Arnold, 2000. 13 M. Renov, Documentary Disavowals, or, the Digital, Documentary and Postmodernity, in «Polygraph», cit., pp. 93-111, pp. 96-97, ora in Id., The Subject of Documentary, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2004. 14 Ibid., pp. 101-102. 15 R. Chow, Postmodern Automatons, in J. Butler, J. Scott (a cura di), Feminists Theorize the Political, New York, Routledge, 1992, trad. it. Automi postmoderni, in Id., Il sogno di Butterfly. Costellazioni postcoloniali, a cura di P. Calefato, Roma, Meltemi, 2004, p. 147 (corsivo mio). 16 S. Sontag, One Culture and the New Sensibility, in Against Interpretation and Other Essays, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1966, trad. it. Una cultura e la nuova sensibilità, in Ead., Contro l’interpretazione, cit., p. 389. 17 Tra gli anni cinquanta e sessanta una polemica contro il «mito della profondità» viene sviluppata anche dal Nouveau Roman e in particolare da Robbe-Grillet. Cfr. A. Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, Paris, Editions de Minuit, 1963. 18 Jameson, Postmodernism, cit., pp. 11-12. 19 M. Fried, Art and Objecthood, in G. Battcock (a cura di), Minimal Art: A Critical Anthology, New York, E.P. Dutton, 1968, p. 125 (corsivo mio). 20 Citato in N. Kaye, Postmodernism and Performance, New York, St. Martin’s Press, 1994, p. 27 (corsivo mio). 21 P. Auslander, Postmodernism and Performance, in S. Connor (a cura di), The Cambridge Companion to Postmodernism, Cambridge, Cambridge University Press, 2004. 22 S. Sontag, Happening, an Art of Radical Juxtaposition, in Ead., Against Interpretation, cit., trad. it. Happening: un’arte d’accostamento radicale, in Ead., Contro l’interpretazione, cit., pp. 343-358. 23 C. Owens, The Discorse of Others: Feminism and Postmodernism, in H. Foster (a cura di), The AntiAesthetic, Seattle, Bay Press, 1983, pp. 62, 66. 24 Shaviro, The Cinematic Body, cit., p. 23. 25 L. Jullier, L’écran post-moderne. Un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice, Paris, L’Harmattan, 1997, trad. it. Il cinema postmoderno, Torino, Kaplan, 2006, p. 76 (traduzione rivista). 26 Ibid., pp. 54-64. 27 Per una campionatura dei diversi approcci a Psycho e delle strategie retoriche che li hanno informati si veda D. Bordwell, Rhetoric in Action: Seven Models of Psycho, in Id., Making Meaning, Cambridge, Mass., Cambridge University Press, 1989. 28 L. Williams, Discipline and fun: Psycho and postmodern cinema, in Gledhill, Williams (a cura di), Reinventing Film Studies, cit., p. 351. 29 Ibid., pp. 354-355. 30 Ibid., p. 356. 31 S. Shaviro, Regimes of vision: Kathryn Bigelow’s Strange Days, in «Polygraph», cit., pp. 59-68, p. 60. Di

grande interesse per le questioni riguardanti il corpo, l’affetto e la sensazione in relazione ai media contemporanei è il volume di B. Massumi, Parables for the Virtual. Movement, Affect, Sensation, Durham, Duke University Press, 2002. Su Strange Days si veda anche Mauro Di Donato, Strange Days: viaggio ai confini del cinema, in Paolo Bertetto (a cura di), L’interpretazione dei film. Undici capolavori della storia del cinema, nuova edizione ampliata, Venezia, Marsilio, 2018. 32 Ibid., p. 62. 33 Ibid., p. 67. 34 V. Pravadelli, Performance, Rewriting, Identity. Chantal Akerman’s Postmodern Cinema, Torino, Otto, 2000. Cfr. anche il cap. 3 in questo volume.

7. Le forme del cinema contemporaneo: postmoderno, postclassico, global 1 Naturalmente non è in discussione il valore di Jameson, uno dei maggiori teorici della cultura dell’ultimo Novecento, ma l’eccessivo peso che è stato dato alla sua proposta sul postmoderno negli studi di cinema. 2 I. Hoesterey, Pastiche. Cultural Memory in Art, Film, Literature, Bloomington, Indiana University Press, 2001, pp. IX-X. 3 È bene ricordare che Christian Metz vedeva la questione in modo diametralmente opposto: il cinema moderno contribuiva ad “aumentare” la narratività, poiché aumentava il materiale che poteva essere trasformato in racconto. Cfr. Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit. 4 F. Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, in «New Left Review», n. 146, JulyAugust 1984, trad. it. Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, pp. 4045. Qualche anno più tardi (1991) l’autore pubblicherà un ampio volume dallo stesso titolo che, a mio avviso, non arricchisce il quadro teorico in modo significativo rispetto a questo e ad altri saggi pubblicati nel decennio precedente. 5 Ibid., pp. 22-23. 6 Su Tarantino la bibliografia è molto ampia. Si veda almeno V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, Venezia, Marsilio, 2009, e D. Roche, Quentin Tarantino. Poetics and Politics of Cinematic Metafiction, Jackson, The University Press of Mississipi, 2018. 7 Su questo e altri aspetti della postmodernità di Akerman si veda Pravadelli, Performance, Rewriting, Identity, cit. Su Almodòvar cfr. M. D’Lugo, Pedro Almodòvar, Chicago, The University of Illinois Press, 2006, e M. D’Lugo, K. Vernon (a cura di), A Companion to Pedro Almodòvar, Malden, Mass., John Wiley & Sons, 2013. Su Todd Haynes si veda J. Morrison (a cura di), The Cinema of Todd Haynes. All that Heaven Allows, London, Wallflower Press, 2007, e G. Davis, Far from Heaven, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2011. 8 Nel suo fondamentale Gender Trouble, Judith Butler ha evidenziato la difficoltà politica sottintesa alla dialettica jamesoniana, proponendo una riscrittura più articolata del rapporto fra performance, pastiche e parodia. Butler ci conforta nel sostenere che la soggettività messa in scena dal cinema postmoderno non può essere limitata a una dialettica fra profondità e superficie, originale e performance, e neppure pastiche e parodia. Cfr. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, New York, Routledge, 1990, trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 196. 9 Partendo dal concetto di Bordwell, in Post-Classical Cinema. An International Poetics of Film Narration (London, Wallflower Press, 2009), E. Thanouli ha sostenuto che il cinema postclassico è una «historical poetics» specifica che abbraccia una tendenza del cinema contemporaneo internazionale, e non solo quello americano. Lo studio di Thanouli ha molti elementi di interesse, tra cui quello di servirsi del concetto di «historical poetics» per criticare l’idea di Bordwell che non esiste il cinema postclassico. 10 D. Bordwell, Intensified Continuity. Visual Style in Contemporary American Film, in «Film Quarterly», vol. 55, n. 3, Spring 2002, pp. 16-28, trad. it. parziale in Michele Fadda, Il cinema contemporaneo. Caratteri e fenomenologia, Bologna, Archetipolibri, 2009, pp. 100-109. Si veda anche D. Bordwell, The Way Hollywood Tells It, Berkeley, University of California Press, 2006. 11 Id., Film style and technology, 1930-1960, in Bordwell, Thompson, Staiger, The Classical Hollywood Cinema, cit., p. 339. 12 K. Thompson, Storytelling in the New Hollywood. Understanding Classical Narrative Technique, CambridgeLondon, Harvard University Press, 1999. 13 Va aggiunto che Bordwell sovente evita di prendere in esame i film più estremi sul piano formale. È il caso, per esempio, di Tony Scott: il discorso di Bordwell funziona per un film come Man on Fire (Il fuoco della vendetta, 2004) ma non per un film pirotecnico come Domino (2005). Su questo film in relazione al postclassico si veda E. Carocci, La caduta del bianco. Domino e la forma del mito americano dopo l’11 settembre 2001, in V. Pravadelli (a cura di), Forme del mito e cinema americano, Roma, Roma Tre Press, 2019. 14 Si veda per esempio J. Lewis (a cura di), The End of Cinema As We Know It: American Cinema in the Nineties, New York, New York University Press, 2001. 15 G. King, New Hollywood Cinema. An Introduction, London, I.B. Tauris, 2002, trad. it. La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni sessanta all’era dei blockbuster, Torino, Einaudi, 2004. Su questo dibattito si veda O.

Catanea, Cinema postclassico. Pratiche testuali e posizioni metodologiche, in «La valle dell’Eden», a. IX, gennaio-giugno, n.s., 2007, pp. 123-137, e L. Ottocento, Il cinema “intensificato” contemporaneo. Teorie, strategie stilistiche e narrative, esperienza, Tesi di dottorato, XXVI ciclo, Università degli studi Roma Tre, a.a. 2014-2015. 16 T. Elsaesser, Specularity and Engulfment. Francis Ford Coppola and Bram Stoker’s Dracula, in S. Neale, M. Smith (a cura di), Contemporary Hollywood Cinema, New York, Routledge, 1998, trad. it. parziale in Fadda, Il cinema contemporaneo, cit., pp. 113-117. 17 Elsaesser, La narrazione classica/post classica, cit., p. 100 (trad. rivista). 18 Ibid., p. 46. Anche in questo caso notiamo l’assoluta sintonia, da un punto di vista terminologico e concettuale, con la teoria di Jullier sul postmoderno. 19 Alcuni importanti autori sembrano essere estranei sia al postmoderno che al postclassico. Secondo Giulia Carluccio, Clint Eastwood può essere considerato un autore postclassico, ma in una accezione del tutto diversa da quanto discusso sinora, poiché non sfrutta né la continuità intensificata né l’eccesso spettacolare. Si veda G. Carluccio, Il cinema di Clint Eastwood. Questioni, paradossi, film, in Ead. (a cura di), Clint Eastwood, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 7-24. Sul rapporto tra Eastwood e il postclassico si veda anche nello stesso volume il contributo di Guglielmo Pescatore su Gli spietati. 20 Elsaesser, Storie di rumore e di furore, cit., pp. 65-109, p. 92. 21 Su queste questioni rinvio al saggio su Come le foglie al vento in questo volume e al mio La grande Hollywood, cit. Nel volume elaboro in modo articolato sul rapporto classico/moderno e narrazione/spettacolo nel cinema americano dello studio system. 22 P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, p. 32. Per Bertetto, però, non è tanto il cinema contemporaneo o postmoderno a essere immagine-simulacro quanto il cinema tout court. La sua è pertanto una teoria del cinema, è il cinema come dispositivo a essere simulacrale. Chi scrive propone invece una teoria delle forme filmiche. 23 Sarebbe opportuno indagare l’utilità del «principio di indeterminazione» (1927) di Heisenberg per lo studio delle strutture narrative e formali della produzione culturale. Considerato un concetto rivoluzionario, per i modi in cui, anche seguendo Einstein, riporta la teoria, la speculazione (in luogo del dato sperimentale) al centro della riflessione, tale principio mette tra l’altro in discussione la legge di causalità della fisica classica. Nelle sue opere divulgative Heisenberg si è sforzato di spiegare come la fisica contemporanea abbia cambiato la percezione che l’uomo ha del rapporto tra sé e l’universo. Per tutti questi motivi ci sembra che la questione potrebbe davvero arricchire il dibattito e inserire queste nuove forme narrative in un contesto più ampio del digitale e della rete. Cfr. W. Heisenberg, Sul contenuto osservabile della cinematica e della meccanica quanto teoretiche, in Id., Indeterminazione e realtà, Napoli, Guida, 1991; Id., Fisica e filosofia, Milano, Il Saggiatore, 1961. 24 Le nozioni di fabula e intreccio risalgono ovviamente ai Formalisti russi. Si veda in particolare B. Tomaševskij, Sjužet noe postroenye, in Id., Teorija literatury poetika, Mosca-Leningrado 1928, trad. it. La costruzione dell’intreccio, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968 e succ. ediz., pp. 305350. Fra i primi testi a mettere a fuoco la questione della narrazione complessa nel cinema contemporaneo in questi termini, si segnala Special Double Issue on Complex Narrative, a cura di J. Staiger, in «Film Criticism», vol. 31, nn. 1-2, Fall-Winter 2006. Il discorso ha poi trovato uno sviluppo più ampio soprattutto nell’intreccio fra complessità ed estensione narrativa che caratterizzano la serialità televisiva e i racconti crossmediali successivi al 2000. Sono numerosi gli interventi che si concentrano su tali aspetti; in una prospettiva che vuole essere simile a quella proposta da Bordwell per i Film Studies, si ricorda qui il volume di J. Mittell, Complex TV. The Poetics of Contemporary Television Storytelling, New York, New York University Press, 2015, trad. it. Complex TV. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie TV, Roma, minimum fax, 2017. Sulla questione specifica della complessità narrativa nella serialità in relazione agli spostamenti del tempo nell’era del postmodernismo, si veda invece P. Booth, Memories, Temporalities, Fictions: Temporal Displacement in Contemporary Television, in «Television & New Media», vol. 12, n. 4, 2011, pp. 379-388. 25 Sul cinema di Buñuel come cinema dell’enigma si veda P. Bertetto, L’enigma del desiderio. Buñuel, Un chien andalou e L’Âge d’or, Venezia, Marsilio, 2001. Proprio dal surrealismo di Buñuel riparte Marsha Kinder per riflettere sulle narrazioni «a database» nel suo saggio Hot Spots, Avatars, and Narrative Fields Forever: Buñuel’s Legacy for New Digital Media and Interactive Database Narrative, in «Film Quarterly», vol. 55, n. 4, Summer 2002, pp. 2-15. 26 A. Cameron, Modular Narratives in Contemporary Cinema, London, Houndmills-New York, Palgrave Macmillan, 2008, pp. 6-7. 27 A prima vista il noir può apparire un’eccezione. In realtà, nonostante il flashback abbia una presenza ben più significativa rispetto ad altri generi e alla classicità più in generale, la differenza tra le varie dimensioni temporali è sempre strettamente conservata. Per un’interpretazione di questo genere e del ruolo del flashback rinvio al mio La grande Hollywood, cit. 28 J.L. Borges, El jardín de senderos que se bifurcan, in Ficciones, Buenos Aires, SUR, 1944, trad. it. Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Id., Finzioni, Torino, Einaudi, 1985.

29 Su Lola corre si veda I. De Pascalis, Il cinema europeo contemporaneo: scenari transnazionali, immaginari globali, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 232-242. 30 Numerosi saggi contenuti in W. Buckland (a cura di), Hollywood Puzzle Films, Routledge, AFI Film Readers, 2014, si concentrano su Inception. Sul puzzle film si veda anche il recente M. Kiss, S. Willemsen, Impossible Puzzle Films: A Cognitive Approach to Contemporary Complex Cinema, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2017. Si veda inoltre il volume di S. Ghislotti Ai confini della comprensione: narrazione complessa e puzzle film, Bergamo, Lubrina, 2011. 31 W. Buckland, Introduction: Puzzle Plots, in Id. (a cura di), Puzzle Films. Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Chichester, West Sussex, Wiley-Blackwell, 2009, p. 5. 32 T. Elsaesser, The Mind-Game Film, ivi, pp. 13-41, pp. 14-16. 33 Fra i primi autori a riflettere sulle varie esperienze di fruizione dei racconti, incluse quelle interattive e ludiche, c’è H. Jenkins con Convergence Culture, New York, New York University Press, 2006, trad. it. Cultura convergente, Milano, Maggioli, 2014. Un testo che mette insieme le varie forme narrative, fra cui il videogame, in modo anche originale è Third Person: Authoring and Exploring Vast Narratives, a cura di P. Harrigan, N. Wardrip-Fruin, Cambridge, The MIT Press, 2009. Si veda inoltre F. Rose, The Art of Immersion: How the Digital Generation Is Remaking Hollywood, Madison Avenue, and the Way We Tell Stories, New York, W.W. Norton & Company, 2011, trad. it. Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet, Milano, Codice, 2013. Il campo dei Game Studies specifico invece è particolarmente vasto e complesso. Si faccia riferimento alla rivista «Game Studies. The International Journal of Computer Game Research», gamestudies.org, e per il panorama italiano a «GAME. The Italian Journal of Game Studies», gamejournal.it. 34 Elsaesser, The Mind-Game Film, cit. 35 Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, cit., in particolare il cap. 7. Prendendo atto della centralità del mind-game o puzzle film, Steffen Hven propone una teoria dell’esperienza narrativa tout court che recupera Deleuze e la teoria dell’embodiment. In sintesi, il rapporto tra spettatore e racconto va costruito continuamente, e non pensato retrospettivamente come una totalità organica. Da cui la nozione esperienziale di «embodied fabula», contro l’idea bordwelliana di «fabula» come costrutto cognitivo a posteriori. In questa prospettiva, le narrazioni contemporanee costituiscono una sfida per la filosofia del cinema e mettono in crisi gli strumenti narratologici tradizionali. Cfr. S. Hven, Cinema and Narrative Complexity: Embodying the Fabula, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2017. 36 Elsaesser, The Mind-Game Film, cit., pp. 24-25. 37 Ibid., pp. 24-29. Su Memento si veda anche il volume di S. Ghislotti, Riflessi interiori. Il film nella mente dello spettatore, Bergamo, Bergamo University Press - Edizioni Sestante, 2003. Ghislotti analizza il film in relazione agli studi cognitivi, in particolare la proposta di Bordwell. Anche se non evoca il contesto del puzzle film le sue riflessioni sono comunque in sintonia con il discorso qui svolto. 38 Su Pulp Fiction si veda T. Elsaesser, Hollywood Heute, Berlin, Bertz und Fischer, 2009, pp. 97-115. Per un contributo teorico si veda dello stesso autore Between Erlebnis and Erfahrung: Cinema Experience with Benjamin, in «Paragraph», vol. 32, n. 3, November 2009, pp. 292-312. Mentre Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello, 2004), altro film che indaga la produttività del dimenticare, rispetto al ricordo e alla memoria, fa da incipit al capitolo «Mente e cervello» in T. Elsaesser, M. Hagener, Filmtheorie zur einführung, Hamburg, Junius Hamburg, 2007, trad. it. Teoria del film, Torino, Einaudi, 2009. 39 Oltre ai film discussi, nel canone del puzzle o mind-game film troviamo le seguenti opere: Abre los ojos (Apri gli occhi, A. Amenabar, 1997), The Game (D. Fincher, 1997), Fight club (D. Fincher, 1999), The Others (A. Amenabar, 2001), The Sixth Sense (Il sesto senso, M. Night Shyamalan, 1999), The Matrix (A. & L. Wachowski, 1999), Donnie Darko (R. Kelly, 2001), Minority Report (S. Spielberg, 2001), Vanilla Sky (C. Crowe, 2001), Adaptation (Il ladro di orchidee, S. Jonze, 2002), 2046 (W. Kar-wai, 2004), The Village (M. Night Shyamalan, 2004), Caché (Niente da nascondere, M. Haneke, 2005), The Prestige (C. Nolan, 2006), Black Swan (Il cigno nero, D. Aronofsky, 2010), Shutter Island (M. Scorsese, 2010), La piel qui habito (La pelle che abito, P. Almodóvar, 2011), Source Code (D. Jones, 2011), Life of Pi (Vita di Pi, Ang Lee, 2012), Enemy (D. Villeneuve, 2013), Gone Girl (D. Fincher, 2014), Arrival (D. Villeneuve, 2016) e Nocturnal Animals (Animali notturni, T. Ford, 2016). 40 In continuità con le argomentazioni sin qui proposte, parlo di global film nel contesto del cinema narrativo. Alcuni hanno avanzato tesi simili in riferimento ai film di G. Reggio. Ritengo che Koyaanisqatsi (1982) e Powaqqatsi (1988) siano comprensibili più in relazione al cinema sperimentale, in particolare quello di Michael Snow – per esempio La Région centrale (1971) – che alla globalizzazione. 41 Si veda per esempio il manuale ampiamente utilizzato di D. Bordwell, K. Thompson, Film History. An Introduction, New York, McGraw Hill, 2002, trad. it. Storia del cinema. Un’introduzione, Milano, McGraw-Hill Education (Italy), 20144, pp. 449-472. 42 In questo contesto la nozione di global si intreccia fortemente con quella di transnational. Particolarmente interessante è la ricerca sul neorealismo compiuta nel contesto anglofono. Cfr. L.E. Ruberto, K.M. Wilson (a cura di), Italian Neorealism and Global Cinema, Detroit, Wayne State University Press, 2007, e S. Giovacchini, R. Sklar (a cura di), Global Neorealism: The Transnational History of a Film Style, Jackson, University of Mississippi

Press, 2007. Sul melodramma e la sua diffusione globale si veda C. Marcantonio, Global Melodrama. Nation, Body, and History in Contemporary Film, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2015, e C. Gledhill, L. Williams (a cura di), Melodrama Unbound. Across History, Media, and National Cultures, New York, Columbia University Press, 2018. 43 Per una trattazione più ampia di questa svolta rinvio a G. Avezzù, L’evidenza del mondo. Cinema contemporaneo e angoscia geografica, Parma, Diabasis, 2017, in particolare pp. 13-23. 44 A. Appadurai, Modernity at Large, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996, trad. it. Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, p. 17. 45 Certamente non è una linea di ricerca condivisa da tutti/e. Il volume di À. O’Healy, Migrant Anxieties. Italian Cinema in a Transnational Frame (Bloomington, Indiana University Press, 2019) mostra quanto questa tendenza interpretativa possa essere utile per lo studio del cinema italiano. 46 Su questo si veda A. Jäckel, Changing the Image of Europe? The Role of European Co-Productions, Funds and Film Awards, in M. Harrod, M. Liz, A. Timoshkina (a cura di), The Europeanness of European Cinema. Identity, Meaning, Globalization, London, I.B. Tauris, 2015. 47 W. Higbee, S.H. Lim, Concepts of transnational cinema: towards a critical transnationalism in film studies, in «Transnational Cinemas», 1,1, 2010, pp. 7-21, pp. 17-18. La bibliografia sul transnational è molto ampia. Segnalo N. Ďurovičová, K.E. Newman, World Cinemas, Transnational Perspectives, AFI Film Readers, Routledge, 2009 e la rivista «Transnational Cinemas». 48 L. Nagib, Toward a Positive Definition of World Cinema, in S. Dennison, S.H. Lim (a cura di), Remapping World Cinema. Identity, Culture and Politics in Film, London, Wallflower Press, 2006, pp. 26-33, p. 31. In un contributo recente, partendo dalle teorie baziniane sul cinema moderno, Nagib ha proposto di considerare il «cinema realista» un caso eccellente di world cinema che si estende sino al digitale. Cfr. L. Nagib, Realist Cinema as World Cinema, in R. Stone et al. (a cura di), The Routledge Companion to World Cinema, London, Routledge, 2017, pp. 310-322. 49 T. Gunning, An Aesthetic of Astonishment: Early Film and the (In)credulous Spectator, in L. Braudy, M. Cohen (a cura di), Film Theory and Criticism, New York, Oxford University Press, 20097, pp. 736-750. 50 K. Marciniak, A. Imre, Á. O’Healy, Introduction. Mapping Transnational Feminist Media Studies, in Eaed. (a cura di), Transnational Feminism in Film and Media, New York, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 2-3. 51 G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 11. 52 Si tratta anche di un film tecnicamente straordinario soprattutto nella fotografia. Era necessario infatti dare a ciascuna linea narrativa la qualità visiva appropriata. Dal colore ai formati, dall’illuminazione alle lenti, ogni aspetto tecnico è stato studiato per creare uno stile espressivo che ricorda, nell’atteggiamento, il grande cinema d’autore degli anni sessanta. Per una analisi approfondita delle questioni tecniche e tecnologiche del film, si veda R.K. Bosley, Forging Connections, in «The American Cinematographer», vol. 87, n. 11, November 2006, pp. 36-49. Su Babel si veda anche l’analisi di Avezzù in L’evidenza del mondo, cit.

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