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E se a reinventare la letteratura fossero proprio quelle tecniche di scrittura rimaste a lungo escluse dal suo campo d’a

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Prima edizione: Luglio 2019 NERO, 2019 © Columbia University Press, 2011 Pubblicato in accordo con Reiser Agency ISBN 978-88-8056-053-1 NERO Lungotevere degli Artigiani 8b 00153 Roma www.neroeditions.com www.not.neroeditions.com Titolo originale: Uncreative Writing

»»CTRL+C¬ »»CTRL+V¬ Kenneth · Goldsmith¬ »»CTRL+C¬ »»CTRL+V¬ »»(scrittura¬ »»non¬ »»creativa)¬ »»CTRL+C¬ »»CTRL+V¶ Traduzione di Valerio Mannucci

INDICE Introduzione 7 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

La vendetta del testo Il linguaggio come materiale Anticipare l’instabilità Verso una poetica dell’iperrealismo Appropriazione Processi infallibili: cosa può imparare la scrittura dalle arti visive Ricopiare Sulla strada Parsificare la nuova illeggibilità Inseminare la nuvola di dati L’inventario e l’ambiente A scuola di scrittura non creativa Linguaggio provvisorio

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Postfazione 265 Note 273 Crediti delle fonti 285

INTRODUZIONE Nel 1969 l’artista concettuale Douglas Huebler scriveva: «Il mondo è pieno di oggetti, più o meno interessanti; non ho voglia di aggiungerne altri».1 Ho fatto mie le idee di Huebler, anche se forse le riformulerei così: «Il mondo è pieno di testi, più o meno interessanti; non ho voglia di aggiungerne altri». Mi sembra una risposta appropriata al nuovo scenario della scrittura contemporanea: di fronte a una quantità senza precedenti di testi a nostra disposizione, il problema non è doverne scrivere altri; dobbiamo invece imparare a gestire l’enorme quantità in circolazione. Il modo in cui ci facciamo strada in questa foresta di informazioni – il modo in cui le gestiamo, analizziamo, organizziamo e distribuiamo – distingue la nostra scrittura da quella degli altri. Recentemente, per descrivere questo tipo di tendenza in ambito letterario, la critica letteraria Marjorie Perloff ha utilizzato l’espressione genio non originale, sostenendo che per via dei cambiamenti dovuti allo sviluppo tecnologico, in particolare a internet, la comune nozione di genio – ossia di una figura romantica e isolata – è da considerarsi obsoleta. Un’idea aggiornata di genio deve fare i conti con la capacità di controllare le informazioni e la loro disseminazione. Perloff ha inventato anche un’altra espressione, moving information,* per indicare sia l’atto di muovere il linguaggio, sia quello di essere commossi da questo processo. Dal suo punto di vista, più che un genio maledetto e sofferente, lo scrittore di oggi è un programmatore che immagina, costruisce, esegue e si prende cura di una macchina da scrittura. L’idea di genio non originale proposta da Perloff non va però intesa semplicemente in senso teorico. Si tratta infatti di una pratica di scrittura che risale agli inizi del XX secolo, incarnata in quell’ethos secondo cui la costruzione e l’ideazione di un testo sarebbero altrettanto importanti di quello che lo stesso testo dice o fa: pensiamo per esempio alla tecnica di raccolta e analisi utilizzata da Walter Benjamin per i suoi In Inglese moving ha sia il significato di «muovere» che quello di «commuovere».

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«Passages», o all’approccio matematico dell’OuLiPo, basato su rigidi metodi di costrizione. La tecnologia rende oggi queste tendenze meccanicistiche ancora più estreme (esistono, per esempio, numerose versioni Web dei Centomila miliardi di poesie di Raymond Queneau, faticosamente realizzati a mano nel 1961) e spinge gli scrittori più giovani a prendere spunto dai suoi stessi meccanismi e da quelli del Web. Questi scrittori si trovano a esplorare forme di scrittura considerate tradizionalmente ben oltre i confini della letteratura: videoscrittura, creazione di database, appropriazione, plagio intenzionale, riciclaggio, cifratura delle identità, programmazione intensiva, solo per citarne alcune. Nel 2007 Jonathan Lethem ha pubblicato su Harper’s Magazine un saggio plagiarista in favore del plagio, intitolato «L’estasi dell’influenza. Un plagio». Si tratta di una lunga e articolata storia in difesa del fatto che in letteratura le idee sono sempre state condivise, citate, rubate, riffate, raccolte, riutilizzate, riciclate, sgraffignate, sottratte, duplicate, donate, espropriate, imitate o piratate. Nel saggio, Lethem ci ricorda che l’economia del dono, la cultura open source e il concetto di pubblico dominio sono stati fattori determinanti nel creare nuove opere a partire da temi di opere preesistenti. Facendo eco alle voci in difesa della cultura «libera», come quelle di Lawrence Lessig e Cory Doctorow, Lethem si scaglia in maniera esplicita contro le leggi sul diritto d’autore, viste come una minaccia all’atto creativo nel suo profondo. Ripercorre poi i frutti della cultura condivisa, dai sermoni di Martin Luther King Jr. al blues di Muddy Waters. Parla anche di quelli che lui stesso riteneva fossero suoi pensieri «originali», ma che poi – probabilmente grazie a Google – ha scoperto di aver inconsapevolmente preso da altri. È un ottimo saggio. Peccato non l’abbia «scritto» lui. Il colmo? Quasi ogni parola, ogni idea presente nel saggio è presa da testi già esistenti, a volte riportati alla lettera, altre volte rielaborati da Lethem. È un tipico esempio di patchwriting, un metodo con cui si assemblano frammenti di parole di altre persone per dare vita a un testo dal tono coerente. È il trucco 8

INTRODUZIONE

che usano sempre gli studenti quando camuffano interi passaggi di Wikipedia nei propri scritti. Se vengono scoperti, iniziano i problemi: in ambito accademico infatti, il patchwriting è considerato alla stregua del plagio. Se Lethem avesse presentato il suo lavoro nel contesto di una tesi di laurea o di dottorato, gli sarebbe stata mostrata immediatamente la porta d’uscita. Eppure sarebbe assurdo non riconoscere che Lethem sia riuscito, utilizzando solamente parole altrui, a dare vita a una brillante opera d’arte, oltre che a un saggio di indubbio valore. Ciò che conta è il modo in cui Lethem pensa ed esegue la sua macchina da scrittura, scegliendo in modo chirurgico le parti da prendere in prestito e riordinandole con abilità. In fin dei conti, il saggio di Lethem è l’opera autoriflessiva e dimostrativa di un genio non originale. Ma la provocazione di Lethem non è ancora abbastanza per quei giovani scrittori che si spingono oltre, appropriandosi del lavoro altrui senza citare la fonte, sbarazzandosi così di tutto quel sapiente e invisibile atto di integrazione che è il marchio di fabbrica del patchwriting di Lethem. Per questi scrittori, l’atto di scrivere coincide letteralmente con lo spostare il linguaggio da un punto all’altro, affermando in modo piuttosto coraggioso che il contesto è il nuovo contenuto. Se il pastiche e il collage sono da tempo parte integrante della scrittura, con la diffusione di internet il plagio ha raggiunto livelli di intensità estrema. Negli ultimi cinque anni abbiamo assistito a un lavoro che consisteva nel trascrivere Sulla strada di Kerouac per intero su un blog, una pagina al giorno, per un anno; all’appropriazione del testo contenuto in un’intera edizione giornaliera del New York Times pubblicato nella forma di un libro di novecento pagine; alla scrittura di una poesia-elenco che consiste nella semplice ricomposizione in forma poetica di una lista di negozi di un centro commerciale; a uno scrittore sul lastrico che ha raccolto tutte le richieste di carta di credito da lui indirizzate alle banche, per metterle in un libro on-demand da ottocento pagine, così costoso che neanche lui può permettersi di stamparne una copia; o a un poeta che, seguendo il suo personale metodo di correzione, 9

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ha fatto l’analisi grammaticale di un libro di grammatica del XIX secolo, arrivando persino a correggerne l’indice dei contenuti; a un’avvocatessa che, senza modificare una virgola, ha messo in forma di poesia i verbali prodotti nelle ore di lavoro in tribunale; oppure alla storia di una scrittrice che trascorre intere giornate nella British Library, ricopiando il primo versetto dell’Inferno di Dante da ogni traduzione inglese che la biblioteca possiede, una dopo l’altra, pagina dopo pagina, finché non ne esaurirà le scorte; a una squadra di redattori che scarica status pubblicati sui social network e li associa a nomi di famosi scrittori del passato («Jonathan Swift ha i biglietti della partita dei Wranglers»), dando vita a un’epica senza fine, che si riscrive alla stessa velocità con cui vengono aggiornate le pagine Facebook; o infine, a un intero movimento di scrittori chiamato Flarf, che lavora esclusivamente sul recupero di tutto il «peggio» che Google produce nei risultati di ricerca: più sono offensivi, ridicoli, oltraggiosi, meglio è. Questi scrittori sono accumulatori di linguaggio; i loro sono progetti epici, che rispecchiano l’enorme scala della testualità su internet. Gran parte di questi lavori vive in formato elettronico, ma spesso ne esiste una versione cartacea, che viene fatta circolare su riviste e fanzine, comprata dalle biblioteche, fruita, recensita e studiata dai ricercatori. Se questa nuova scrittura ha un’aspirazione elettronica, i suoi risultati sono nettamente analogici, ispirati da idee radicali di origine modernista shakerate con le tecnologie del XXI secolo. Di certo, questa letteratura «non creativa» non consiste nell’accettazione riluttante e nichilista di una presunta «schiavitù tecnologica», né tantomeno nel suo esplicito rifiuto. È invece una scrittura celebrativa, il cui sguardo arde di entusiasmo per il futuro, che abbraccia questo periodo storico perché carico di possibilità inespresse. È una gioia evidente nella scrittura stessa, che tocca momenti di bellezza inaspettata, a volte sul piano grammaticale, altre su quello strutturale, molte altre su quello filosofico: il meraviglioso ritmo della ripetizione, lo spettacolo del banale reinquadrato in forma 10

INTRODUZIONE

letteraria, il riorientamento verso una poetica del presente e il tentativo di pensare nuovi approcci al concetto stesso di leggibilità, solo per citarne alcuni. E poi c’è l’emozione: sì, l’emozione. Ma anziché in modo coercitivo o persuasivo, questa scrittura trasmette emozione per vie oblique e imprevedibili: i sentimenti nascono dal processo di scrittura, anziché dalle intenzioni dell’autore. Questi scrittori operano più come programmatori che come scrittori tradizionali e attuano alla lettera il famoso detto di Sol LeWitt: «Quando un artista usa una forma d’arte concettuale, progetta e prende le relative decisioni in anticipo. L’esecuzione è solo un affare di circostanza, l’idea diventa la macchina che produce arte».2 In questo modo, gli scrittori non creativi espandono il campo di possibilità della scrittura. Il poeta Craig Dworkin si chiede: A cosa assomiglierebbe una poesia non-espressiva? Una poesia dell’intelletto anziché delle emozioni? Una poesia nella quale le sostituzioni che sono alla base della metafora e dell’immagine fossero rimpiazzate dal linguaggio in se stesso, in cui «lo spontaneo traboccare» fosse soppiantato da processi logici esaurienti e procedure meticolose? Nella quale l’autoconsiderazione dell’io poetico tornasse al servizio del linguaggio autoriflessivo della poesia stessa? In questo modo il criterio non sarebbe più la possibilità o meno di fare una poesia migliore (la questione del laboratorio), ma la possibilità di concepire un altro modo di farla.3

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio boom di scrittori che fanno uso di strategie di appropriazione e copia, complici anche i computer che li incitano a imitare il loro stesso funzionamento. Dal momento in cui il copia-incolla (CTRL+C, CTRL+V) è diventato parte integrante del processo di scrittura, sarebbe da pazzi aspettarsi che gli scrittori non ne abusino in forme anche estreme, che di certo non erano nelle intenzioni di chi ha inventato queste tecnologie. Se guardiamo alla storia della videoarte – che è forse l’ultimo precedente in cui una tecnologia di massa ha avuto un reale 11

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impatto sulla pratica artistica – troveremo molti antecedenti a questo tipo di gesti. Tra i tanti, la Magnet TV di Nam June Paik del 1965: l’artista posizionò un enorme magnete a ferro di cavallo su una televisione in bianco e nero, trasformando lo spazio di solito riservato a gente come Jack Benny e Ed Sullivan in pura astrazione, ripetitiva e organica. Un gesto che metteva in discussione il flusso a senso unico delle informazioni: nella tv di Paik era possibile controllare ciò che vedevi: ruotavi il magnete e l’immagine cambiava. Fino a quel momento, la televisione era stata solo un veicolo d’intrattenimento e di messaggi chiari e diretti. Ma il semplice gesto dell’artista capovolge il concetto stesso di televisione in un modo che gli utenti e i produttori addirittura ignoravano, istituendo nuovi vocabolari per il medium televisivo e decostruendo la narrazione del potere, della politica e della distribuzione, da sempre incorporate nella tecnologia stessa, ma fino ad allora rimaste invisibili. Per alcuni scrittori, la funzione CTRL+C, CTRL+V è il corrispettivo del magnete sulla tv di Paik. Se è vero che i computer sono entrati nelle nostre case da circa trent’anni e che in tutto questo tempo le persone si sono abituate a tagliare-e-incollare, è solo con la completa penetrazione e la conseguente saturazione della banda larga che queste immense quantità di linguaggio scritto sono diventate così accessibili e attraenti. All’inizio (nel cosiddetto Gopherspace) con una connessione remota in dial-up era già possibile fare copia-incolla, ma i testi si visualizzavano su una schermata alla volta. Il tempo di caricamento era davvero considerevole, anche se si trattava di solo testo. Con l’arrivo della banda larga, il rubinetto è stato aperto 24/7. Al confronto, il sistema nativo delle macchine da scrivere non incoraggiava in nessun modo la replica dei testi. Farlo era incredibilmente lento e faticoso. Solo in un secondo momento, dopo aver finito di scrivere, si potevano fare tutte le copie che si desiderava con una Xerox. E infatti il XX secolo è pieno di détournement basati su tecniche di stampa post-scrittura: ottimi esempi sono i cut-up e i fold-in di William S. Burroughs o le sofferte poesie di Bob Cobbing, duplicate col ciclostile.4 12

INTRODUZIONE

In letteratura queste «prese in prestito», come il collage o il pastiche – prendo una parola da qui, una frase da lì –, si sono sviluppate in base alla quantità di lavoro che richiedevano. Dover digitare o ricopiare un intero libro con una macchina da scrivere è una cosa, tagliare e incollare un libro con tre sequenze di tasti (seleziona tutto CTRL+A, copia CTRL+C, incolla CTRL+V) è un’altra. Chiaramente, tutto questo apre il campo a una rivoluzione letteraria. O forse no? A un primo sguardo sembrerebbe che gran parte della scrittura contemporanea continui ad andare avanti nel suo percorso come se internet non fosse mai esistita. Accade ancora spesso che il mondo della letteratura venga scosso da annosi scandali relativi a frodi, plagi e falsificazioni che, per dire, nel mondo dell’arte, della musica, dell’informatica o della scienza farebbero sorridere. È difficile immaginare che scandali come quelli di James Frey o JT LeRoy possano turbare chiunque abbia un minimo di familiarità con le sofisticate e volutamente fraudolente provocazioni di Jeff Koons o Richard Prince, il quale, per esempio, rifotografando famose pubblicità ha ricevuto un’intera retrospettiva al Guggenheim, proprio per queste tendenze plagiariste.5 Sin dall’inizio della loro carriera, sia Koons che Prince hanno sempre esplicitamente affermato di essere artisti «non originali» e di fare uso intenzionale dell’appropriazione; Frey e LeRoy invece, anche dopo essere stati scoperti, hanno voluto far passare le loro opere come autentiche, sincere e personali, per soddisfare un pubblico che nella letteratura cerca evidentemente questo tipo di qualità. La «danza» che ne è seguita è stata comica. Nel caso di Frey, Random House è stata citata in giudizio e costretta a pagare milioni di dollari ai lettori che si sono sentiti ingannati. Le successive stampe del libro includono un disclaimer che informa i lettori che quanto stanno per leggere è in realtà un’opera di finzione.6 Immaginate quanti fastidi avrebbero potuto evitare Frey o LeRoy se avessero adottato sin dall’inizio un approccio alla 13

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Koons, ammettendo che il loro lavoro prevedeva una strategia di abbellimento, con una manciata d’inautenticità, falsità e inorganicità. Invece no. Circa un secolo fa, grazie ai readymade di Marcel Duchamp, ai disegni meccanici di Francis Picabia e al citatissimo saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nel mondo dell’arte venivano messe da parte per sempre le convenzionali nozioni di originalità e replica. Da allora, tanti artisti di grande successo, da Andy Warhol a Matthew Barney, hanno portato queste concezioni a livelli sempre più alti, dando forma a nuove e complesse idee sull’identità, sull’uso dei media e sulla cultura in genere. Idee che, ovviamente, sono diventate parte integrante del discorso dell’arte mainstream fino a far emergere reazioni a favore di un ritorno alla sincerità e alla rappresentazione. In modo simile, nel campo della musica, il campionamento – la costruzione di intere tracce grazie ad altre tracce – è ormai una cosa normale. Da Napster al gaming, dal karaoke ai file torrent, la cultura contemporanea sembra aver assorbito il digitale e la sua intrinseca complessità. Con l’eccezione della scrittura, che tenta ancora di promuovere a tutti i costi un’identità stabile e autentica. Ovviamente non sto dicendo di abbandonare questo tipo di scrittura: chi non si è mai commosso di fronte a un grande memoriale? Ma ho la sensazione che la letteratura, nella sua infinita varietà di gamma ed espressione, sia giunta a un punto morto, finendo così per colpire sempre gli stessi tasti, continuamente, fino a confinarsi nel più stretto dei passaggi, in una pratica che non riesce a stare al passo coi tempi e a prendere parte alle più vive ed eccitanti sfide culturali della nostra epoca. È un momento molto triste per la creatività letteraria, una grande opportunità mancata di rivitalizzarsi in modi prima inimmaginabili.7 Forse una delle ragioni per cui la scrittura si ritrova così impantanata è che oggi si insegna la cosiddetta «scrittura creativa». Se pensiamo alle tante e sofisticate idee sviluppate nel corso dell’ultimo secolo rispetto a media, identità e campionamento, i libri che insegnano a essere scrittori creativi 14

INTRODUZIONE

hanno evidentemente perso il treno, perché si rifanno ancora a nozioni stereotipate su cosa significhi essere «creativi». Sono libri disseminati di consigli del tipo: «Uno scrittore creativo è un esploratore, un innovatore. La scrittura creativa ti permette di tracciare il tuo percorso personale e di andare dove nessuno è stato prima». Oppure, ignorando giganti del calibro di de Certeau, Cage e Warhol, affermano che «la scrittura creativa è una liberazione dalle costrizioni della vita di tutti i giorni». All’inizio del XX secolo, Duchamp e il compositore Erik Satie espressero entrambi il desiderio di vivere senza ricordi. Secondo loro era un modo per vivere più a fondo le meraviglie del quotidiano. Eppure, ogni libro di scrittura creativa insiste sul fatto che «la memoria è spesso la fonte primaria dell’esperienza immaginativa». In questi libri esistono poi sezioni sull’«how to» che mi colpiscono per quanto riescano a essere terribilmente semplicistiche nel loro tentativo di costringerci a preferire il teatrale rispetto al quotidiano come base per la nostra scrittura: «Spiega, scrivendo in prima persona, come si sente un uomo di 55 anni il giorno del suo matrimonio».8 Onestamente preferisco le idee di Gertrude Stein che, scrivendo in terza persona, parlava della sua insoddisfazione verso questo tipo di tecniche: «Fece ogni sorta di esperimenti, per riuscire a descrivere. Provò perfino a inventare le parole, ma smise presto. L’inglese era il suo strumento e soltanto con l’inglese si poteva assolvere al compito, risolvere il problema. L’impiego di parole fabbricate la urtava, era un rifugiarsi nell’emozionalismo imitativo».9 Negli ultimi anni, ho tenuto un corso di «Scrittura non creativa» all’Università della Pennsylvania. Durante il corso, gli studenti venivano penalizzati per ogni ostentazione di originalità o creatività. Al contrario, erano premiati il plagio, il furto d’identità, il riutilizzo di vecchi paper, il patchwriting, il campionamento, il saccheggio e l’appropriazione indebita. Com’era prevedibile, la cosa ha funzionato. Tutto ciò che sanno fare di nascosto può venire alla luce ed essere esplorato in un ambiente sicuro, reinquadrato in termini di responsabilità anziché di sconsideratezza. 15

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Riscriviamo documenti e trascriviamo clip audio. Facciamo piccoli cambiamenti alle pagine di Wikipedia (sostituendo un il con un lo, o inserendo uno spazio in più tra le parole). Svolgiamo le lezioni in chat e passiamo interi semestri su Second Life. Ogni semestre, per l’esame scritto finale, chiedo ai miei studenti di comprare online una tesina già pronta e di firmarla con il proprio nome, una delle cose più proibite nell’ambiente accademico. Ogni studente deve poi alzarsi e presentare il paper alla classe, come se l’avesse scritto di proprio pugno, difendendolo dagli eventuali attacchi di altri studenti. Che cosa hanno deciso di portare? Si può difendere una cosa che è stata scritta da qualcun altro? Una cosa, per esempio, sulla quale non si è del tutto d’accordo? Convinceteci. Tutto questo, ovviamente, va di pari passo con l’utilizzo della tecnologia. Quando gli studenti entrano in classe, sanno che devono avere i loro laptop sempre accesi e connessi. In questo modo gettiamo uno sguardo nel futuro. E dopo aver visto quali sono gli incredibili risultati e quanto la classe si dimostri ogni volta impegnata e democratica, non credo di poter più tornare a un metodo tradizionale di insegnamento. Imparo più da loro di quanto loro potranno mai imparare da me. Il mio ruolo di professore si trasforma per certi versi in quello di un buon padrone di casa, per altri in quello di un vigile urbano, e soprattutto in quello di un facilitatore. C’è un segreto: è impossibile sopprimere l’espressione del sé. Anche quando facciamo qualcosa di apparentemente «non creativo», come per esempio ribattere un paio di pagine di testo, ci esprimiamo in diversi modi. Un determinato atto di scelta e di ricontestualizzazione può dirci tanto di noi quanto la storia dell’operazione al cancro di nostra madre. Il problema è che nessuno ci insegna a dare valore a questo tipo di scelte. Dopo un semestre di soppressione forzata della «creatività», una studentessa costretta alla trascrizione e al plagio verrà da me con l’espressione triste, a esprimere la sua delusione per non aver potuto evitare di essere creativa. Nel tentativo di non essere «creativa», ha finito per produrre l’opera più creativa della sua vita. Seguendo un approccio 16

INTRODUZIONE

opposto rispetto alla creatività – che è il concetto più trito, utilizzato e vago nella formazione di uno scrittore – ne è emersa rinnovata, rinvigorita, eccitata e di nuovo innamorata della scrittura. Avendo lavorato per molti anni come «creative director» in campo pubblicitario, posso dire che a dispetto di quanto dicano gli esperti di cultura, la creatività – così come è definita dalla nostra cultura, attraverso le infinite parate di romanzi, memoriali e film di maniera – è la cosa da cui bisogna fuggire, non solo in quanto membri della «classe creativa», ma anche in quanto membri della «classe artistica». La tecnologia sta modificando ogni regola del gioco, ogni aspetto della nostra vita, è quindi tempo di mettere in discussione e disfarsi di certi cliché, stenderli tutti sul pavimento di fronte a noi, per poi riconfigurare questa brace ardente in qualcosa di nuovo, di contemporaneo, in qualcosa di finalmente rilevante. Chiaramente non tutti sono d’accordo. Di recente, alla fine di una lecture che ho tenuto in un’università della Ivy League, un poeta più anziano, molto conosciuto, imbevuto fino al midollo di tradizione modernista, si è alzato dalle ultime file dell’auditorium e, puntandomi il dito contro, mi ha accusato di nichilismo e di voler derubare la poesia della sua gioia. Mi ha rimproverato di minare le fondamenta che affondano nel più consacrato dei terreni, per poi assalirmi con una serie di domande che ho sentito già mille volte in passato: se tutto può essere trascritto e poi presentato come letteratura, cos’è che rende un lavoro migliore di un altro? Se è solo questione di copiare-incollare l’intera internet su un documento di Microsoft Word, dove andremo a finire? Una volta che, grazie alla semplice ricontestualizzazione, cominciamo ad accettare che tutto il linguaggio possa essere poesia, non rischiamo forse di gettare dalla finestra ciò che resta della capacità di giudizio e dell’idea stessa di qualità? Che cosa succede all’autorialità? Come si costruiscono le carriere e si stabiliscono i canoni e, di conseguenza, come si fa a giudicarli? Non stiamo forse solo rimettendo in scena la morte dell’autore, che qualcuno ha già provato a uccidere in passato? In 17

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futuro i testi saranno tutti senza autore e senza nome, scritti da macchine per le macchine? Può il futuro della letteratura essere ridotto a mero codice? Preoccupazioni lecite, penso, per un uomo che è uscito vincitore dalle battaglie culturali del XX secolo. Le sfide della sua generazione erano però altrettanto formidabili. Come hanno fatto a convincere i tradizionalisti che l’uso disgiuntivo del linguaggio, la sintassi esplosa, le parole composte potevano essere veicolo di emozioni umane tanto quanto i metodi testati dal tempo? O che una storia non debba per forza essere raccontata in modo lineare per avere la sua logica e il suo senso? Eppure, contro ogni previsione, ci sono riusciti. Il XXI secolo, con i suoi interrogativi così diversi da quelli del secolo che l’ha preceduto, mi porta a rispondere da una prospettiva diversa. Se si tratta di copiare-incollare internet su un documento Word, allora è importante quello che tu, autore, decidi di copiare. Il successo sta nel sapere cosa includere, e ancora di più cosa escludere. Se tutto il linguaggio può essere trasformato in poesia attraverso il semplice reinquadramento – che secondo me è una prospettiva eccitante – allora chi reinquadra le parole nel modo più intenso e convincente sarà giudicato il migliore. Sono ovviamente d’accordo che non dobbiamo dimenticarci della capacità di giudizio e del concetto di qualità. La democrazia funziona su YouTube, ma quando si parla di arte è generalmente una ricetta per il disastro. Se le parole possono essere create e trattate tutte nello stesso modo, lo stesso non si può dire per il modo in cui vengono assemblate; è quindi impossibile sospendere il giudizio, e sarebbe folle congedare l’idea di qualità. La mimesi e la replica non sradicano l’autorialità, piuttosto lanciano nuove sfide agli autori, che nel concepire un’opera devono prendere in considerazione questa nuova condizione come conseguenza inevitabile: se non vuoi essere copiato, non pubblicare online. Le carriere e i canoni non verranno più stabiliti in modo tradizionale. Non sono neanche così sicuro che le carriere saranno le stesse che eravamo abituati a conoscere. Le opere 18

INTRODUZIONE

letterarie potrebbero funzionare come i meme oggi sul Web, che si propagano come incendi per alcuni attimi, spesso senza firma e senza autore, solo per essere soppiantati dal prossimo contenuto virale. Anche se l’autore non morirà, magari cominceremo a vedere l’autorialità in modo un po’ più concettuale: forse i migliori autori del futuro saranno coloro che sono in grado di scrivere programmi con cui manipolare, analizzare e distribuire pratiche di linguaggio. E anche se, come sostiene Bök, in futuro la poesia sarà scritta da macchine per altre macchine, ci sarà sempre qualcuno dietro le quinte a inventare questi droni; così, anche se la letteratura verrà ridotta a mero codice – un’idea sempre intrigante – le menti più brillanti in questo senso saranno considerate i nostri migliori autori. Questo libro è una raccolta di saggi che cerca di mappare tali territori, di definire terminologie e di creare nuovi contesti – sia storici che contemporanei – in cui collocare e discutere queste opere. I primi capitoli sono orientati più alla tecnica e gettano le basi della discussione, i come, i dove, i perché della scrittura non creativa. «La vendetta del testo» si concentra sulla nascita del Web e sugli effetti del linguaggio digitale sulla pratica della scrittura. Il capitolo esplora la nuova condizione di abbondanza delle parole e propone un ecosistema con cui gestirla. «Il linguaggio come materiale» getta le basi per una concezione delle parole che non si limiti al loro status di veicoli di comunicazione semanticamente trasparenti, ma che enfatizzi anche le loro proprietà formali e materiali, una cambiamento di prospettiva essenziale se chi scrive lo fa in un ambiente digitale. Il saggio mette in relazione due movimenti di metà secolo scorso, il situazionismo e la poesia concreta, con il modo in cui oggi scriviamo sugli schermi, sulle pagine e in giro per le strade. «Anticipare l’instabilità» affronta i problemi di contestualizzazione nell’ambiente digitale e commenta la fluidità e l’intercambiabilità tra parole e immagini. «Verso una poetica dell’iperrealismo» si occupa di come il sempre scivoloso argomento della definizione di se stessi sia diventato ancora più complesso nella 19

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dimensione online, con l’obiettivo di preparare il campo a una letteratura post-identitaria, nel nostro scenario consumistico globale. Il capitolo si conclude con una breve analisi dell’opera di Vanessa Place Statement of Facts, che definisce la scrittura non creativa come uno spazio eticamente imponderabile, dove gli impulsi trasgressivi e meccanici possono essere esplorati senza conseguenze. Place dispiega una poetica documentaristica che sottomette i propri impulsi morali al DNA etico impresso nei testi di cui si appropria. «Appropriazione» si chiede perché il collage e il pastiche siano da tempo metodi accettabili mentre l’appropriazione non è stata praticamente mai sperimentata, per poi proseguire esplorando la ricca storia dell’appropriazione nelle arti visive e proponendo nuove soluzioni da applicare alla letteratura. Il saggio che segue, «Processi infallibili: cosa può imparare la scrittura dalle arti visive», rilegge il lavoro di due artisti visivi attraverso le lenti della scrittura non creativa. La scrittura non creativa può imparare molto dallo studio della carriera e della produzione di Sol LeWitt. Molto di quello che ha fatto, e il modo in cui lo ha fatto, può essere applicato elegantemente alla teoria della scrittura in epoca digitale. La seconda parte del capitolo esamina invece il lavoro e la vita di Andy Warhol, per quello che ci può dire riguardo alla scrittura non creativa, per le sue tendenze meccaniciste e la sua produzione maniacale, che ricordano molto il modo in cui oggi facciamo girare le parole nel mondo digitale. L’ultima sezione del libro mostra i vari modi in cui la scrittura non creativa può essere messa in pratica. Concentrandosi di volta in volta su un autore o un’opera, il saggio dimostra come quell’opera o quell’autore siano rappresentativi di una specifica tendenza nella scrittura non creativa. «Ricopiare Sulla strada» dimostra che il semplice atto di ribattere un testo può già bastare a creare un’opera letteraria, elevando così la statura del copiatore a quella di autore. Il saggio è una critica utopica del lavoro e del concetto di valore nello spazio senza valore della produzione poetica. «Parsificare la nuova illeggibilità» afferma che questa nuova 20

INTRODUZIONE

scrittura è forse meglio non leggerla proprio: è più importante pensarci. Una volta abbandonate le nozioni moderniste di disgiunzione e decostruzione, la difficoltà è ora definita dalla quantità (c’è troppo da leggere) anziché dalla frammentazione (troppo dispersivo per essere letto). «Inseminare la nuvola di dati» esamina il modo in cui alcune forme brevi – il telegrafo, i titoli dei giornali, e i nomi in grassetto – sono tecniche di scrittura basate sui media, e sottolinea come questo impulso continui ad agire oggi nell’era di Twitter e dei social network. «L’inventario e l’ambiente» mette in luce il nuovo e prominente ruolo che ha l’archiviazione nella creazione di opere letterarie, in un momento storico nel quale l’organizzazione delle informazioni influenza la qualità della scrittura. «A scuola di scrittura non creativa» è un breve trattato sulla pedagogia e su come l’ambiente digitale influenzi il modo in cui si insegna e si impara a scrivere in ambiente universitario. «Linguaggio provvisorio», un breve pezzo polemico in stile manifesto, chiude il libro analizzando la nuova condizione del deterioramento e della temporaneità del linguaggio nell’era del Web. Nella postfazione, infine, immagino un potenziale risultato della scrittura non creativa: la «robopoetica», una condizione nella quale le macchine scrivono letteratura che viene letta da altre macchine, bypassando completamente l’essere umano. Nel 1959 il poeta e artista Brion Gysin sosteneva che la scrittura fosse già cinquant’anni indietro rispetto alla pittura. E forse è ancora vero: nel mondo dell’arte, dall’impressionismo in poi, le avanguardie sono diventate il mainstream. Innovare e correre rischi sono cose che premiano. Ma a dispetto del successo del modernismo, la letteratura ha proseguito imperterrita su due binari paralleli, il mainstream e l’avanguardia, i quali raramente si sono incontrati. Eppure la cultura digitale ha causato un’inaspettata collisione, mettendo in discussione le basi su cui si poggiavano i due schieramenti. Di colpo, oggi ci troviamo tutti sulla stessa barca, ma con nuove domande sull’autorialità, l’originalità e il modo in cui si plasma il significato. 21

1 LA VENDETTA DEL TESTO Al Musée d’Orsay c’è una sala che chiamo «la stanza delle possibilità». Il museo è organizzato in senso più o meno cronologico e il suo percorso procede sereno fino al XIX secolo, quando d’un tratto ci si imbatte in una piccola sala che raccoglie alcune risposte pittoriche all’invenzione della macchina fotografica, una mezza dozzina di proposte che mostrano come la pittura avrebbe potuto reagire. Quella che ricordo meglio consiste in un trompe l’oeil di una figura che sembra letteralmente uscire dalla cornice per invadere lo «spazio dell’osservatore». In un’altra diversi oggetti tridimensionali sono incorporati nella tela. Ottimi tentativi, ma sappiamo bene che a spuntarla è stato l’impressionismo, e quindi il modernismo. Ecco, oggi la scrittura si trova proprio a quel bivio. Con l’ascesa del Web, possiamo dire che la scrittura ha trovato la sua fotografia. Intendo dire che la scrittura si trova oggi ad affrontare le stesse questioni che la pittura incontrò all’arrivo della fotografia, una tecnologia in grado di replicare la realtà in modo così accurato da costringere la pittura, per poter sopravvivere, a un radicale cambio di percorso. Se la fotografia ambiva alla nitidezza, la pittura doveva ammorbidirsi, così è nato l’impressionismo. C’era perfetta corrispondenza tra analogico e analogico, perché da nessuna parte, sotto la superficie di quadri, foto o film, si sarebbe trovato il più piccolo granello di linguaggio. Era al contrario una questione di immagine su immagine, ci si stava preparando a una rivoluzione imagistica. I media digitali aprono oggi la strada a una rivoluzione letteraria. Nel 1974, Peter Bürger poteva ancora permettersi di dire che «l’avvento della fotografia ha reso possibile la riproduzione della realtà in modo meccanico e preciso, la funzione delle Belle Arti si sta quindi indebolendo. Ma i limiti di questo discorso risultano evidenti quando ci si rende conto che non vale per la letteratura. Per il semplice fatto che in letteratura non c’è innovazione tecnica capace di produrre 23

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effetti comparabili a quelli generati dalla fotografia sulle arti visive».1 Ora c’è. Se la pittura ha reagito all’avvento della fotografia prendendo la via dell’astrazione, non sembra che la scrittura si stia comportando allo stesso modo in relazione a internet. A quanto pare la risposta della scrittura, prendendo spunto più dalla fotografia che dalla pittura, potrebbe essere a favore di un atteggiamento mimetico e replicativo, puntando l’attenzione sui metodi di distribuzione e sulla proposta di nuove piattaforme per la diffusione delle opere. Le parole potrebbero benissimo essere scritte non solo per essere lette, ma anche per essere condivise, spostate e manipolate, a volte da umani, più spesso da macchine, dandoci una straordinaria opportunità di riconsiderare l’idea stessa di scrittura e di ripensare il ruolo dello scrittore. Se le tradizionali idee sulla scrittura si concentrano sull’«originalità» e la «creatività», l’ambiente digitale incoraggia nuove abilità, come la «manipolazione» e l’«organizzazione» dei cumuli di linguaggio già esistente e in continuo aumento. Se è vero che scrittrici e scrittori si trovano oggi costretti a «fronteggiare» questa proliferazione di parole e a competere per ricevere attenzione, è anche vero che possono utilizzare questa proliferazione in modi inaspettati, creando opere non meno espressive e significative di quelle costruite con metodi più tradizionali. Sono in volo verso New York di ritorno dall’Europa e osservo stanco una mappa che traccia il nostro lento e noioso procedere in tempo reale su uno schermo che affonda nel sedile di fronte a me. La mappa topografica del mondo, patinata e bidimensionale, mostra il nostro pianeta metà in ombra e metà alla luce, con noi che puntiamo verso ovest, rappresentati da un piccolo aeroplano bianco. Le immagini cambiano spesso, passando da una mappa grafica a una serie di schermate blu con la distanza dall’arrivo – l’orario, la velocità del veicolo, la temperatura esterna, e così via – in un elegante font bianco sans serif. 24

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Fig. 1.1

Schermata di avvio del DOS su un aereo.

Mentre sullo schermo passano i bellissimi rendering delle placche oceaniche e i nomi di alcuni villaggi esotici dell’Atlantico del Nord – Gander, Glace Bay, Carbonear – osservare l’aereo che traccia il suo avanzamento diventa un’attività rilassante e ambient. All’improvviso, mentre sorvoliamo i Grand Banks di fronte alla costa di Terranova, lo schermo comincia a sfarfallare e diventa nero. Rimane così per un po’, fino a quando, illuminandosi di nuovo, mostra questa volta un generico font bianco su fondo nero: è il computer che si riavvia e al posto delle piacevoli grafiche ci sono ora solo righe di testo d’avvio del DOS. Per cinque abbondanti minuti vedo dispiegarsi le righe di comando del sistema, font che si caricano, pacchetti grafici che si decomprimono. Alla fine, lo schermo diventa blu, appaiono una barra di avanzamento e una clessidra, e l’interfaccia grafica si carica riportandomi alla mappa animata proprio mentre iniziamo la discesa. Quelli che sul nostro schermo appaiono come elementi grafici, suoni o animazioni, sono solo un sottile strato di 25

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pelle sotto il quale si nascondono chilometri e chilometri di linguaggio. A volte, come sul mio volo, la pelle viene punta e, come se potessimo alzare quel velo, ci rendiamo conto che il nostro mondo digitale – le nostre immagini, i nostri film, i nostri video, i nostri suoni, le nostre parole e le nostre informazioni – è alimentato dal linguaggio. E tutte queste informazioni binarie – musica, video, foto – sono fatte di linguaggio, chilometri di codice alfanumerico. Se volete una dimostrazione, pensate a quando avete per errore ricevuto via email un allegato .jpg nella forma di una stringa infinita di codice, anziché come immagine. Sono semplici parole (anche se in un ordine che non comprendiamo): il materiale di base che alimenta la scrittura, da quando esiste in forma stabile, costituisce oggi la materia di cui sono fatti tutti i media. Accanto all’aspetto funzionale, il codice possiede un valore letterario. Inquadrando il codice attraverso le lenti della critica letteraria, notiamo come negli ultimi cento anni, in particolare nell’ambito della scrittura modernista e postmodernista, è stato assegnato valore artistico a disposizioni di lettere altrettanto apparentemente arbitrarie. Ecco tre righe di codice di una .jpg aperta con un editor di testo: ^?Îj€≈ÔI∂fl¥d4˙‡À,†ΩÑÎóªjËqsõëY”Δ″ / å)1Í.§ÏÄ@˙’∫JCGOnaå$ë¶æQÍ″5ô’5å p#n›=ÃWmÃflÓàüú*Êœi”›_$îÛμ}Tß‹æ´’[“Ò*ä≠ˇ Í=äÖΩ;Í”≠Õ¢ø¥}è&£S¨Æπ›ëÉk©ı=/Á″/”˙ûöÈ>∞ad_ïÉúö˙€Ì— éÆΔ’aø6ªÿ-

Ovviamente una lettura attenta ci rivela ben poco in termini semantici e narrativi. Di contro, uno sguardo più convenzionale rivela una collezione di lettere e simboli senza senso, letteralmente un codice che può essere decifrato in qualcosa di sensato. Ma cosa succede quando il significato non viene messo in primo piano? Dobbiamo porre un altro tipo di domande al 26

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testo. Ecco tre righe di una poesia scritta nel 1979 da Charles Bernstein, intitolata Lift Off: HH/ ie,s obVrsxr;atjrn dugh seineocpcy i iibalfmgmMw er,,me”ius ieigorcy¢jeuvine+pee.)a/nat” ihl”n,s ortnsihcldseløøpitemoBruce-oOiwvewaa39osoanfJ++,r”P2

Tenendosi a distanza da ogni tipo di retorica letteraria e dal tentativo di trasmettere emozioni, Bernstein sceglie di enfatizzare i meccanismi della macchina anziché i sentimenti umani. La poesia consiste in ciò che viene dichiarato nel titolo: la trascrizione di ciò che è stato estirpato da una pagina col nastro da correzioni di una macchina da scrivere. La poesia di Bernstein, in un certo senso, è un codice che si atteggia a poesia: leggendolo attentamente, vediamo emergere frammenti, a volte anche parole intere che erano state cancellate. Per esempio, nell’ultima riga si legge la parola Bruce, riferita probabilmente a Bruce Andrews, co-editor di Bernstein all’interno della redazione di L=A=N=G=U=A=G=E. Ma questo tentativo di riassemblare le parole non ci porta molto lontano: tra le mani ci rimangono solo frammenti di linguaggio pieno di errori, provenienti perlopiù da documenti a noi sconosciuti. Bernstein celebra così la natura frammentaria del linguaggio, ricordandoci che, anche in uno stato scomposto, ai morfemi rimangono comunque attaccati un certo numero di riferimenti e di contesti; in questo caso, il testo è un tessuto di citazioni che provengono da scritti fantasma. La poesia di Bernstein è il punto d’arrivo di una lunga tradizione di poesia e prosa modernista che lavora sulla materialità del linguaggio, lasciando però spazio all’emergere di diversi livelli di senso o di emozione. Il tradizionale concetto di autorialità viene messo in discussione. Un tratto di dadi mai abolirà il caso (1897) è una poesia di Stéphane Mallarmé in cui le parole stesse – e la loro posizione sulla pagina – sono frutto del caso. Con un colpo di spugna Mallarmé cancella concetti come la stabilità e l’autorialità controllata, sfidando le consuete modalità di lettura. Le parole non sono più vei27

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coli trasparenti di contenuto, anche le loro qualità materiali contano. La pagina diventa una tela, gli spazi negativi tra le parole hanno lo stesso valore delle parole stesse. Il testo è un elemento attivo che ci chiede di essere «performato», per esempio quando interpretiamo gli spazi vuoti come silenzi. A rinforzare questa idea è l’autore stesso, quando ci dice che «la carta interviene ogni volta che un’immagine termina per virtù propria».3 Mallarmé ci chiede di considerare la lettura – che sia silenziosa o ad alta voce – come un atto di decodifica, che avviene attraverso la concretizzazione e la materializzazione dei simboli (in questo caso le lettere) che si trovano sulla pagina. Con l’avanzare del secolo, ispirati dalla materialità letteristica di Mallarmé, altri autori hanno esplorato quella stessa dimensione: dalle ripetizioni di Gertrude Stein, che solleticano l’occhio, ai Cantos del tardo Ezra Pound, molti scrittori hanno continuato a trattare le parole in senso strettamente materiale. Intere parti dell’epica di Pound sono fatte di parole difficili da decifrare, scritte in decine di lingue diverse, mischiate tra loro, con annotazioni e riferimenti a note a piè di pagina che in realtà non esistono: chih, chih! wo chih3 chih3 wo4-5 wo4-5 ch’o4-5 ch’o4-5 paltry yatter.4

Si tratta di una poesia sonora, una poesia concreta e una poesia lirica tutte in una. È multilingue – parti di cinese si confondono con il «paltry yatter» inglese (le «ciarle» nella traduzione italiana) – e allo stesso tempo non parla nessuna lingua. Le costellazioni di Pound si impossessano della pagina come fossero pennellate calligrafiche in attesa di essere lette ad alta voce. È un linguaggio attivo, che ricorda le nuvole di tag che si vedono oggi sulle pagine Web, un linguaggio che pretende interazione, che vuole essere cliccato, sottolineato, copiato. I tuoni di James Joyce sono le dieci parole da cento lettere che troviamo disseminate in Finnegans Wake, un libro 28

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di seicento pagine abitato da parole composte e neologismi che ai non esperti potrebbero apparire come cumuli di codice senza senso. bababadalgharaghtakamminaronnonnbronntonnerronnuonnthunntrobarrhounawnskawntoohoohoordenenthurknuk

Letto ad alta voce, è il suono di un tuono. Questo, ovviamente, vale per gran parte del resto di Finnegans Wake, apparentemente tra i libri più disorientanti scritti in lingua inglese. Sentire però Joyce leggere/decodificare una porzione di Finnegans Wake, in particolare nelle sue registrazioni del capitolo intitolato «Anna Livia Plurabelle», è una rivelazione: tutto acquisisce senso e si avvicina all’inglese standard, pur rimanendo «codice» sulla pagina. Leggere ad alta voce è un atto di decodifica. Se ci spingiamo un passo più in là, possiamo dire che l’atto di leggere in sé è un atto di decodifica, decifrazione e decrittazione. Il codice informatico, fatto di numeri – 1 e 0 – non ha alcun valore estetico o letterario. O invece sì? Il XX secolo è pieno di poesie fatte con i numeri. Prendiamo per esempio la trascrizione di un estratto da una serie pubblicata nel 1971 del poeta inglese Neil Mills, intitolata Seven Numbers Poems: 1,9 1,1,9 1,1,1,9 9 1,1,1,1,9 8,4 1,1,1,1,1,9 8,4 8,4

Letta a voce alta, da casuale sequenza di numeri si trasforma in una bella e ritmica poesia. «Ero convinto che il significato che emerge durante la lettura di una poesia risiedesse princi29

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palmente nell’intonazione e nel ritmo, e solo in secondo luogo nel contenuto semantico. Ciò che importa è il modo in cui una cosa viene letta, non cosa dice: la voce umana assume la funzione di uno strumento musicale», afferma Mills.5 Il poeta contemporaneo giapponese Shigeru Matsui scrive poesie che chiama «Poesie Pure», che assomigliano molto al codice alfanumerico utilizzato dai computer. Iniziate nei primi mesi del 2001 e arrivate ormai a centinaia di versioni, queste poesie utilizzano sempre la griglia 20x20 della carta da lettera giapponese standard. Ogni «Poesia Pura» consiste in quattrocento caratteri, ognuno dei quali è un numero compreso tra l’uno e il tre. Scritte originariamente in calligrafia cinese, nella quale i numeri 1, 2 e 3 sono rappresentati rispettivamente da uno, due o tre trattini orizzontali, le più recenti sono state scritte in numeri romani. 1007~1103 III III I III I III I III III II II I II I I II II II I III II II III II III II III II II I I III I III III I I I III II III III II I I I II III I II I II I II II III I III II III II II I III III III I II III I III I III I I II III II I II I I III II II II III I II III II III II III III I II I III I III I II I III III II II I II III II I I II I III III II I II III I III II II I I III I II I III III I III II II I III I II III II I I III III II III I III II II III II I I III II I III II I I III II II III II I I I III II I II III II III III II I III III II I I II I III III III II I III I II I II II I III II II I III III I III II II II I III II III I III I I I II I III I II II III II III III III I II I II III I II III III I III II III I I II I II II II III I III I II III I II II III II I II III III I III I I I II III II III I II III I III II I I I II II I II II I III III I III II III III II III II I III III III I I III I I III II II III II I II II I II I III II II II III III II III III II I I II I III I I III III II II I III I I II I II II III I I III III II III I II II I I III II III III I III I I II III III II II I II III I I III III II I II II III II III III I II II I I III I II III 30

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Quando Matsui legge queste poesie a voce alta, le rende assolutamente precise e ipnotiche. Alla luce di questi esempi, anche una traduzione in codice hex dell’icona grafica di un computer può contenere valore letterario. Quello che segue è il codice che dà forma alla favicon di Wikipedia, ovvero la W che vediamo nella barra del nostro browser quando carichiamo una pagina del sito: 0000000 0000 0001 0001 1010 0010 0001 0004 0128 0000010 0000 0016 0000 0028 0000 0010 0000 0020 0000020 0000 0001 0004 0000 0000 0000 0000 0000 0000030 0000 0000 0000 0010 0000 0000 0000 0240 0000040 0004 8384 0084 c7c8 00c8 4748 0048 e8e9 0000050 00e9 6a69 0069 a8a9 00a9 2828 0028 fdfc 0000060 00fc

1819

0019 9898 0098 d9d8 00d8 5857

0000070 0057 7b7a 007a bab9 00b9 3a3c 003c 8888 0000080 8888 8888 8888 8888 288e be88 8888 8888 0000090 3b83 5788 8888 8888 7667 778e 8828 8888 00000a0 d6lf

7abd 8818 8888 467c 585f

00000b0 8b06 e8f7 00000c0 8a18

8814 8188

88aa 8388 8b3b 88f3 88bd e988

880c e841 c988 b328 6871 688e 958b

00000d0 a948 5862 5884 7e81

3788 1ab4 5a84 3eec

00000e0 3d86 dcb8 5cbb 8888 8888 8888 8888 8888 00000f0 8888 8888 8888 8888 8888 8888 8888 8888 0000100 0000 0000 0000 0000 0000 0000 0000 0000 * 0000130 0000 0000 0000 0000 0000 0000 0000 0000 000013e

Se leggiamo attentamente la favicon, scopriamo un’enorme valore estetico e letterario che si svolge con il ritmo, l’estetica e la struttura di una composizione di musica minimalista. La prima colonna di numeri procede in modo logico, per intervalli che vanno dallo 0000000 allo 0000090, poi fa una breve deviazione dallo 00000a0 allo 00000f0, prima di riprendere con 0000100. Alcuni pattern si notano anche nelle 31

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righe orizzontali, con variazioni minime rispetto ai numeri 1, 0, 2, 8 e 4 nelle prime quattro righe, per poi variare nella sezione mediana in favore di combinazioni di numeri e lettere, e poi interrompersi con una serie di 8888 che vanno da metà fino a fondo schema. Se strizzate gli occhi potete quasi vedere la W incapsulata nel quadrato di codice. Ovviamente non è poesia, né ha mai voluto esserlo, ma ci mostra che un pezzo qualsiasi di codice alfanumerico, anche se apparentemente senza senso, può avere qualità poetiche. Questo linguaggio ha fondamentalmente a che fare con una trasformazione di stato (da codice a icona): simili qualità trasformative – ossia quelle di un linguaggio che agisce su un altro linguaggio – sono oggi le fondamenta di tanta nuova scrittura. Su Flickr c’è un gruppo intitolato «The Public Computer Errors» che documenta esperienze simili a quella che ho fatto io mentre ero in volo, ma moltiplicate per cento.6 È una raccolta di foto decisamente affascinante. Il bottone di un ascensore con un punto interrogativo al posto dei numeri di piano, bancomat in modalità riavvio, schermi pubblicitari in metropolitana con il messaggio d’errore «memoria esaurita», megaschermi degli aeroporti «perforati» da schermate di Windows. La mia preferita è la foto di una Mrs. Potato Head gigantesca in un parco divertimenti con in mano uno schermo su cui appaiono le fredde righe bianche sullo sfondo blu del DOS, al posto di qualcosa di più adatto ai bambini. Sono foto che documentano una serie di ferite nell’interfaccia che copre il linguaggio. Ma non dovete per forza credermi sulla parola. Potete provocare queste piccole fratture testuali direttamente con il vostro computer. Prendete un file MP3 – per esempio il preludio della Suite per violoncello solo n.1 di Bach – e cambiate l’estensione del file da .mp3 a .txt. Aprite il documento con un editor di testo e vedrete un fiume di codice/linguaggio alfanumerico senza senso. Ora, prendete un qualsiasi altro testo – diciamo per coerenza l’intera pagina Wikipedia di Bach – e copiatela nel mezzo del codice. Quindi salvate nuovamente il file e rinominatelo con l’estensione .mp3. Se poi lo aprite con un lettore MP3, il file comincerà a suonare in modo normale, ma non appena arriverà 32

LA VENDETTA DEL TESTO

alla parte di testo di Wikipedia, comincerà a tossire, saltare e sputacchiare per tutto il tempo che il lettore MP3 impiegherà a decodificare quella specifica parte di linguaggio, per poi tornare al preludio. Con questo tipo di manipolazioni, ci ritroviamo di colpo in territori inesplorati: se esempi di mash-up analogico esistevano già nell’era predigitale – come la pratica di tagliare e incollare due metà di diversi LP o quella dei collage di frammenti di nastro magnetico – in queste forme di rottura non era ravvisabile la minima traccia di un linguaggio che agisce su un altro linguaggio. Con i media digitali ci ritroviamo invece in un mondo fatto di manipolazioni testuali, fino a poco tempo fa quasi esclusivo dominio della «scrittura» e della «letteratura».7 Possiamo fare la stessa cosa anche con le immagini. Prendiamo per esempio una .jpg della famosa incisione di Droeshout contenuta nel frontespizio della prima edizione del 1623 dell’opera di Shakespeare, e cambiamo l’estensione da .jpg a .txt. Se lo apriamo in un editor di testo, vedremo solo un ingarbugliato codice. Ora proviamo a inserire al suo interno i novantatré sonetti di Shakespeare, per tre volte a intervalli più o meno regolari, e salviamo il file riportando di nuovo l’estensione a .jpg

Fig. 1.2

Il 93° sonetto di Shakespeare inserito tre volte nel codice sorgente di un’immagine. 33

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Quando lo riapriremo in forma di immagine, gli effetti del linguaggio saranno evidenti:

Fig. 1.3 Fig. 1.4

L’Incisione di Droeshout prima. L’Incisione di Droeshout dopo l’inserimento del testo.

Quello che sta accadendo è che per la prima volta il linguaggio è in grado di alterare tutti i media che conosciamo, che siano immagini, video, musica o testi. Si tratta di una vera e propria rottura con la tradizione, che apre una nuova strada nell’utilizzo del linguaggio. Le parole sono concrete, attive e dense di sentimenti. Magari si potrebbe obiettare che questa non è vera e propria scrittura e, in senso stretto, si avrebbe anche ragione. Ma è qui che la cosa si fa interessante: noi non abbiamo affatto abbandonato le nostre macchine da scrivere. Anzi, siamo più che mai concentrati, giorno e notte, su macchine potenti che offrono infinite possibilità, connesse a reti con possibilità altrettanto infinite. Il ruolo dello scrittore è messo seriamente alla prova, esteso, aggiornato. LA QUANTITÀ È LA NUOVA QUALITÀ Di fronte a una quantità di testo digitale senza precedenti, la scrittura ha bisogno di ridefinire se stessa per potersi adattare a un nuovo ambiente segnato dall’abbondanza testua34

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le. Cosa intendo per abbondanza testuale? Un recente studio mostra che «nel 2008, l’americano medio ha consumato 100.000 parole ogni singolo giorno. (Per fare un confronto, Guerra e pace di Lev Tolstoy contiene soltanto circa 460.000 parole). Questo non significa che leggiamo realmente 100.000 parole al giorno – significa che 100.000 parole attraversano il nostro sguardo o incontrano le nostre orecchie nel giro di ventiquattro ore».8 Il modo in cui questi studi trattano le parole in senso materiale è di grande ispirazione per me. A loro non interessa cosa significano, ma quanto pesano. Non è un caso che, nel tentativo di quantificare il linguaggio, hanno scelto la parola come unità di misura, una pratica ancora oggi molto usata: Nel 1960 non esistevano fonti d’informazione digitali. La tv era analogica, la tecnologia elettronica usava le valvole termoioniche al posto dei microchip, i computer esistevano a malapena ed erano utilizzati soprattutto dal governo o da poche grandi aziende. […] L’idea dei bytes, per come la conosciamo oggi, quasi non esisteva. Per i primi tentativi di dare misura all’economia delle informazioni si scelsero quindi le parole come miglior barometro per comprendere il consumo di informazioni. Usando le parole come unità di misura […] possiamo stimare che nel 1980 sono stati «consumati» 4500 trilioni di parole. Il consumo di parole è cresciuto poi a 10.845 trilioni nel 2008, che in media fa circa 100.000 parole al giorno per ogni americano.9

Ovviamente, non sapremo mai cosa significano tutte queste parole o se vengono realmente utilizzate, ma per artisti e scrittori, specializzati spesso nel trovare valore dove gli altri non guardano, questo eccesso di linguaggio comporta un enorme cambiamento nel rapporto con le parole. Dagli albori dei media, nei nostri piatti è sempre passato molto più di quanto fossimo in grado di consumare, ma negli ultimi tempi qualcosa è cambiato in modo ancora più radicale: mai prima d’ora il linguaggio aveva avuto tanta materialità – fluidità, plasticità, malleabilità – e mai aveva chiesto così insisten35

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temente allo scrittore di gestire in modo attivo questa materialità. Prima del linguaggio digitale, le parole erano ancora imprigionate sulla pagina. Com’è diverso oggi che è così facile riversare il linguaggio digitalizzato in qualsiasi tipo di contenitore: un testo scritto su un documento Word può essere analizzato da un database, trasformato visivamente in Photoshop, animato con Flash, immesso in un software online per la manipolazione del testo, spammato a migliaia di indirizzi email, importato in un software audio e sputato come musica. Le possibilità sono infinite. Nel 1990 il Whitney Museum ha presentato una mostra, intitolata Image World, che ipotizzava la scomparsa delle parole da tutti i media a favore delle immagini, come risultato della completa dominazione e saturazione della tv. Sembrava uno scenario plausibile al tempo: il boom della tv via cavo e via satellite coincideva con la sconfitta della carta stampata. Il catalogo della mostra denunciava a gran voce l’ubiquità e quindi la vittoria delle immagini: Ogni giorno […] una persona è esposta in media a 1600 messaggi pubblicitari. […] L’atmosfera è piena zeppa di messaggi. Ogni ora, ogni giorno, vengono trasmessi programmi di informazione, previsioni del tempo, traffico, economia, consumo, cultura e religione da più di 1200 canali televisivi. Gli show televisivi (60 Minutes, per esempio) sono costruiti come riviste e i quotidiani (USA Today, per esempio) emulano la struttura televisiva. Dagli articoli giornalistici più riusciti si traggono sceneggiature per film a cui si accompagna la produzione di merchandise e di spin-off seriali che poi vengono adattati a romanzi.10

Con un intento simile, nel 1998 Mitchell Stephens ha pubblicato un libro dal titolo The Rise of the Image, the Fall of the Word («L’ascesa dell’immagine, il declino della parola»), che illustra la sconfitta della parola stampata, a partire dalla diffidenza nei confronti della scrittura dichiarata da Platone. Stephens, grande amante della stampa, vedeva il futuro nel video: «Le immagini in movimento usano i nostri sensi in 36

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modo più efficace di quanto possano fare delle righe di caratteri neri ammucchiati su una pagina bianca».11 Stephens aveva ragione, ma non poteva sapere che nel futuro i video stessi sarebbero stati fatti interamente di righe nere di caratteri. Sia i curatori di Image World che Mitchell Stephens furono quindi presi alla sprovvista dalla comparsa del Web, una tecnologia interamente basata sul testo che presto sarebbe cresciuta al punto da mettere in discussione – e quindi sopraffare – i loro proclami sulla dominazione imagistica. Anche se la rivoluzione digitale è sempre più imagistica e basata sulle immagini in movimento (alimentate dal linguaggio), ha provocato un enorme aumento di forme basate sul testo, dall’email ai post dei blog, agli SMS, agli aggiornamenti di status sui social network e le frecciate su Twitter: siamo immersi nelle parole come non lo siamo mai stati. Persino Marshall McLuhan, che nel predire la nostra era digitale ha avuto ragione su così tante cose, su questa si è sbagliato. Anche lui vedeva all’orizzonte un Image World, e inveì contro la linearità di Gutenberg, predicendo che ci saremmo ritrovati in un mondo multimediale sensuale, tattile, basato sull’oralità, che ci avrebbe liberato dagli angusti secoli della prigione testuale. E in questo aveva ragione: più il Web cresce, più si fa ricco, tattile, intermediario. Ma McLuhan dovrebbe comunque ammettere che questa ricchezza è in fin dei conti prodotta da righe ordinate di linguaggio organizzato, programmato su vincoli ancora più rigidi di quelli di qualsiasi forma retorica che li ha preceduti. Ma ben lontano dalla prigione di parole di cui parla McLuhan, il rovescio della medaglia è la grande malleabilità di questo linguaggio. Un linguaggio che assomiglia alla creta, con cui possiamo sporcarci le mani, un linguaggio da accarezzare, modellare, strangolare. Il linguaggio digitale mette in bella mostra il suo aspetto materiale in modi che prima erano sconosciuti. UN ECOSISTEMA TESTUALE Se siamo d’accordo che le parole sono portatrici di significa37

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to semantico ma anche oggetti materiali, ne segue evidentemente la necessità di individuare nuovi parametri, un nuovo ecosistema in grado di includere le innumerevoli forme che il linguaggio assume oggi. Vorrei proporre un sistema del genere, prendendo ispirazione dalla famosa meditazione di James Joyce sulle proprietà universali dell’acqua, nell’episodio di Itaca dell’Ulisse. Quando Joyce parla delle diverse forme che può assumere l’acqua, penso alle diverse forme che può assumere il linguaggio digitale. Quando parla del modo in cui l’acqua si accumula a formare pozze in una «varietà di forme in laghetti e baie e golfi», mi viene in mente il modo in cui i dati piovono dalla rete quando uso un client Bit-Torrent. Una volta completato il download, i dati si stabilizzano con «solidità nei ghiacciai, negli iceberg, e nei banchi di ghiaccio», nella forma di un film o di una traccia musicale. Quando Joyce parla della forma mutevole dell’acqua, in grado di passare dallo stato liquido a quello di «vapore, nebbia, nube, pioggia, nevischio, neve, grandine», penso a quando mi collego a una rete di torrent per fare «seeding» e caricare dati nel cloud, con i file che si smontano e ricostruiscono al tempo stesso. Nella retorica che circonda l’utopia del flusso libero dei dati – «l’informazione vuole essere libera» e cose del genere – riecheggia l’opera di Joyce, in particolare quando esalta le proprietà democratiche dell’acqua «nel tendere sempre al suo livello». Joyce riconosce inoltre il doppio status economico dell’acqua, per il suo «significato climatico e commerciale», proprio come noi sappiamo che i dati vengono comprati, venduti e regalati. Quando Joyce parla di «peso, volume e densità» dell’acqua, penso alle parole come strumento di misura di informazioni o attività, entità da pesare e classificare. Quando scrive del potenziale drammatico e catastrofico dell’acqua, «la sua violenza in maremoti, trombe marine, pozzi artesiani, eruzioni, torrenti, mulinelli, straripamenti, piene, onde di fondo, spartiacque, geyser, cateratte, vortici, maelstrom, inondazioni, diluvi, nubifragi», penso agli spike elettrici che cancellano interi hard disk, ai virus che dilagano in maniera sfrenata, o a 38

LA VENDETTA DEL TESTO

quello che succede se avvicino al mio laptop un magnete potente, che sparpaglia disastrosamente i miei dati in ogni direzione. Joyce parla dell’acqua nel modo in cui i dati fluiscono attraverso le nostre reti con «le sue ramificazioni veicolari in correnti continentali attraverso laghi e in fiumi confluenti sfocianti nell’oceano con i loro tributari e le correnti transoceaniche: la corrente del golfo, con i suoi rami nordequatoriale e sudequatoriale» e dei suoi lati positivi, «le sue proprietà di ripulimento, di estinzione della sete e del fuoco, di nutrimento della vegetazione: la sua infallibilità come paradigma e paragone».12 Se gli scrittori hanno sempre dovuto lottare affinché i loro testi «scorressero», nel nostro ecosistema di linguaggio/dati ispirato a Joyce lo scenario è completamente nuovo, dal momento che sono gli scrittori stessi i custodi di questa ecologia. Allontanatisi dal loro tradizionale ruolo di entità solamente generative e diventati invece gestori di informazioni con capacità organizzative, gli scrittori sono pronti a svolgere compiti che un tempo svolgevano soltanto i programmatori, i bibliotecari e gli statistici, cancellando così ogni differenza tra archivisti, scrittori, produttori e consumatori. Usando metodi simili a quelli di Lethem, Joyce ha composto questo passaggio con un patchwriting di una voce enciclopedica dedicata all’acqua. Ha così dimostrato attivamente la fluidità del linguaggio, semplicemente spostandolo da un posto a un altro. Joyce anticipa la scrittura non creativa organizzando le parole, distinguendo il «segnale» dal «rumore», scegliendo cosa salvare e cosa lasciar perdere. Per la tenuta dell’ecosistema è cruciale identificare – pesare – il linguaggio nei suoi diversi stati di «dato» e «informazione»: Nel XXI secolo i dati sono in larga parte effimeri, poiché produrli è facilissimo: una macchina li crea, li usa per pochi secondi e, non appena arrivano nuovi dati, li sovrascrive. Alcuni dati non vengono mai esaminati, come avviene negli esperimenti scientifici che raccolgono un’infinità di dati grezzi che gli scienziati non arrivano quasi mai a osservare. Solo una piccola parte viene 39

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archiviata negli hard disk, su nastro o su fogli di carta; eppure perfino i dati effimeri spesso hanno dei «discendenti»: dei nuovi dati basati su quelli vecchi. Pensiamo ai dati come se fossero petrolio e all’informazione come se fosse benzina: un’autocisterna di greggio non è utile finché non giunge a destinazione e il suo carico non viene depurato dal piombo e trasformato nella benzina che sarà distribuita nelle stazioni di servizio. I dati non sono informazione finché non diventano disponibili ai potenziali consumatori di quell’informazione. D’altro canto, i dati, come il petrolio greggio, sono portatori di un valore potenziale.13

Perché gettare via quello che ci potrebbe essere molto utile in un’altra occasione? E così siamo diventati accumulatori cronici di dati, nella speranza che a un certo punto qualcosa ci tornerà di nuovo «utile». Prendete tutto quello che avete salvato sull’hard disk (accumulato, come direbbe Joyce) e confrontatelo con ciò che utilizzate veramente. Sul mio portatile ho centinaia di PDF e di ebook completamente indicizzati. Ma li uso? Non in modo regolare. Li conservo per usi futuri. Allo stesso modo, tutti gli altri dati che custodisco sull’hard disk sono parte di un ecosistema testuale tutto mio. Il mio computer indicizza ciò che trova sull’hard disk e mi rende più facile il compito di cercare, tramite parole chiave, ciò di cui ho bisogno. Un ecosistema locale è molto stabile; se del nuovo materiale testuale viene generato, il mio computer lo indicizza subito come dati. Ma il mio computer non indicizza le informazioni: se cerco una specifica scena di un film che ho sull’hard disk, il computer non sarà in grado di trovarla, a meno che non abbia, per dire, la sceneggiatura del film nel mio sistema. I film digitalizzati sono fatti di linguaggio, ma la funzione «cerca» del mio computer sfiora solamente, in termini joyciani, la superficie dell’acqua, riconoscendo solo uno stato del linguaggio. Quello che succede nel mio ecosistema locale è già deciso e si limita alla sua routine, nel tentativo di funzionare in maniera armoniosa. Per aiutare il mio computer a funzionare come dovrebbe, ho anche un software che mi protegge dai virus che potrebbero destabilizzarlo o contaminarlo. 40

LA VENDETTA DEL TESTO

Le cose però diventano più complicate quando connetto il mio computer a una rete, trasformando all’improvviso il mio ecosistema locale nel nodo di un sistema globale. Basta mandare e ricevere un’email per notare gli effetti linguistici dell’ecosistema di rete. Se prendo una versione in puro testo di «Mary Had a Little Lamb», la filastrocca che Edison usò per testare il suo fonografo: Mary had a little lamb, little lamb, little lamb, Mary had a little lamb, whose fleece was white as snow. And everywhere that Mary went, Mary went, Mary went, and everywhere that Mary went, the lamb was sure to go.

e la spedisco via email a me stesso, ritorna così: Received: from [10.10.0.28] (unverified [212.17.152.146]) by zarcrom.net (SurgeMail 4.0j) with ESMTP id 58966155–1863875 for ; Sun, 26 Apr 2009 18:17:50 -0500 Return-Path: Mime-Version: 1.0 Message-Id: Date: Mon, 27 Apr 2009 01:17:55 +0200 To: [email protected] From: Kenneth Goldsmith Subject: Mary Had A Little Lamb Content-Type: multipart/alternative; boundary=“============ _-971334617==_ma============“ X-Authenticated-User: [email protected] X-Rcpt-To: X-IP-stats: Incoming Last 0, First 3, in=57, out=0, spam=0 ip=212.17.152.146 Status: RO 41

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X-UIDL: 1685

Mary Had A Little Lamb Mary had a little lamb,
little lamb, little lamb,
Mary had a little lamb,
whose fleece was white as snow.
And everywhere that Mary went,
Mary went, Mary went,
and everywhere that Mary went,
the lamb was sure to go.



Pur non avendo scritto una parola, la mia email torna indietro in un documento ben più complesso di quello che ho spedito. La filastrocca, chiara e limpida quando mi ha lasciato, torna indietro sepolta tra risme di linguaggio, al punto che non riesco quasi più a individuarla nella grande varietà di codici di cui è infarcita. Gran parte dell’email è costituita da normali parole inglesi: status, style, head, boundary; ci sono anche delle strane e poetiche composizioni di parole: X-Authenticated-User, padding-bottom, SurgeMail; e poi ci sono i tag html:
, , ; e delle strane stringhe di segni ripetuti: ============; infine, ci sono un sacco di numeri lunghi: 58966155–1863875; e di forme ibride: . Sono i segni linguistici lasciati sul mio testo dall’ecologia della rete. Sono il risultato del viaggio che la filastrocca ha fatto dopo aver lasciato la mia macchina per andare a interagire con altre macchine. Una lettura paratestuale della mia email potrebbe sostenere che le nuove parti di testo sono altrettanto importanti per la filastrocca. Identificare le fonti di questi testi e notare il loro 42

LA VENDETTA DEL TESTO

conseguente impatto fa parte dell’esperienza della lettura e della scrittura. Il nuovo testo è una dimostrazione di due ecologie, quella locale e quella della rete, che agiscono insieme per creare una nuova opera scritta. Possiamo creare o entrare in microclimi testuali su scala più ampia – come per esempio le chatroom o i tweet – o a livello più intimo con i messaggi istantanei personali. Sciami di utenti arrivano a creare dei microclimi di testualità sui social network, concentrandosi intensamente intorno a una parola chiave o un trending topic. Prendiamo la trascrizione di una sessione di messaggistica istantanea. Dopo averla spogliata degli elementi di contesto dovuti alla rete, viene immediatamente indicizzata dalla mia macchina, per rientrare nella stasi sicura del mio ecosistema locale. Ora, supponiamo che io prenda quella trascrizione per caricarla su un server ad accesso pubblico, dal quale può essere ovviamente scaricata, mantenendone una copia sul mio PC. Avremo lo stesso identico testo in due luoghi diversi, operanti in due ecosistemi distinti, come due gemelli, uno che passerà la vita vicino casa e l’altro che si avventurerà nel mondo: la vita testuale di ognuno dei due sarà, di conseguenza, diversa. Il documento di testo sul mio PC rimane intatto in una cartella, invariato, mentre quello che si inoltra nei meandri della rete sarà soggetto a cambiamenti imprevedibili: potrebbe essere crackato, protetto da password, spogliato del suo carattere testuale, convertito in testo non formattato, remixato, sovrascritto, tradotto, cancellato, sradicato, convertito in suono, immagine, video, e così via. Se una versione di quel testo dovesse trovare la via del ritorno nel mio portatile, potrebbe essere ormai ancora meno riconoscibile della filastrocca alterata di prima. Due persone che editano un testo via email su un documento Word sono un buon esempio di microclima in cui le variabili sono piuttosto limitate e sotto controllo. Le modifiche editoriali registrate sono di tipo extralinguistico e intenzionale. Se invece vogliamo aumentare un po’ le variabili, potremmo pensare a cosa succede a un MP3 che passa da un 43

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utente a un altro, subendo da ognuno dei due un leggero remix, in un processo che rende impossibile l’idea stessa di una versione definitiva del pezzo. In queste ecologie, le versioni finali non esistono. A differenza di un libro stampato o di un LP in vinile, non c’è nessun finale/nessuna conclusione: il digitale è per sua natura un flusso continuo. Il ciclo del testo è essenzialmente incrementale e produce continuamente nuovi testi. Se una Web directory viene resa pubblica, il linguaggio viene pompato via come acqua da un pozzo, per replicarsi all’infinito. Non c’è alcun bisogno di presupporre che – malgrado tutte le catastrofi già menzionate – si possa verificare una siccità di linguaggio. Il pantano di linguaggio non si esaurisce, semmai crea ecologie più ampie e rizomatiche, in una continua e infinita varietà di occorrenze e interazioni testuali che attraversano sia l’ambiente di rete che quello locale.14 Lo scrittore non creativo naviga costantemente il Web alla ricerca di nuovi linguaggi, con il cursore che risucchia parole da un’infinità di pagine. Quelle parole, sporche di residui di codice e di formattazioni varie, vengono ritrasferite nell’ambiente locale e poi ripulite con TextSoap, per riportarle al loro stato vergine rimuovendo le doppie spaziature, ricostruendo i paragrafi interrotti, raddrizzando le virgolette curve, a volte addirittura estraendo del testo dal pantano di HTML. Un solo click e questi testi sudici torneranno puliti e pronti per nuovi utilizzi.

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2 IL LINGUAGGIO COME MATERIALE Negli ultimi anni si è parlato molto della neutralità della rete, dell’essere pro o contro l’assegnazione di valori differenti ai diversi tipi di dati che viaggiano nelle nostre reti. I sostenitori della neutralità ritengono che tutti i dati debbano essere trattati allo stesso modo, che sia spam o il discorso di un premio Nobel. Il loro punto di vista ricorda quello di un ufficio postale che applica prezzi in base al peso e non al contenuto: per spedire un vestito d’alta moda non puoi chiedermi più di quanto faresti per un libro di poesie, solo perché il primo vale di più. La scrittura non creativa rispecchia questo ethos in difesa della neutralità della rete, nella convinzione che il linguaggio possa essere trattato come una materia che ha qualità sia formali che comunicative, una sostanza che si muove e si trasforma nei suoi passaggi di stato, e negli ecosistemi testuali e digitali. Eppure, proprio come i dati, il linguaggio funziona su più livelli, nel suo altalenare tra la dimensione significante e quella materiale: possiamo decidere di pesarlo e possiamo decidere di leggerlo. Nel linguaggio non c’è niente di stabile: anche nella loro forma più astratta, le lettere si portano dietro significati semantici, semiotici, storici, culturali e associativi. Pensiamo alla lettera a: è tutto tranne che neutra. Per quanto mi riguarda, le associazioni potrebbero includere: La lettera scarlatta, un voto alto, un poema di Louis Zukofsky, un romanzo di Andy Warhol, e così via. Quando i pittori non oggettivisti tentarono di liberare la pittura dalle catene dell’illusione e dalla metafora, non è difficile comprendere perché decisero di usare forme geometriche anziché lettere. In questo istante sto scrivendo in modo trasparente: il modo in cui utilizzo le parole deve risultare invisibile a voi che leggete, così che possiate seguire ciò che sto dicendo. Ma se COMINCIASSI A SCRIVERE TUTTO IN MAIUSCOLO, finirei nel campo del materiale o dell’indiretto. Per prima cosa fareste caso all’apparenza delle mie parole, poi al tono – riconoscendo nel MAIUSCOLO il corrispettivo dell’URLARE – e in ultima istanza al messaggio. Nella vita di tutti i giorni non ci 45

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accorgiamo facilmente delle proprietà materiali del linguaggio tranne quando, per esempio, incontriamo una persona che balbetta, o con un accento molto marcato. In quei casi prima di tutto notiamo come una cosa viene detta, e solo in un secondo momento decifriamo cosa è stato detto.1 Quando ascoltiamo un’opera lirica cantata in una lingua che non conosciamo, a risaltare sono le proprietà formali del linguaggio: le sue cadenze, i suoi ritmi. Scegliamo cioè di affidarci al suono anziché al senso. Se decidiamo di invertire ancora di più la trasparenza delle parole, possiamo arrivare a vederle come forme e sentirle come suoni. Una delle grandi aspirazioni del modernismo era riuscire a stravolgere il linguaggio in questo senso. E il contraccolpo che ha prodotto è stato altrettanto forte: enfatizzare la materialità del linguaggio porta alla distruzione delle norme su cui si basa la comunicazione. Gli esseri umani hanno già abbastanza problemi a capirsi tra loro, si lamentavano i critici. Perché dovremmo decidere di rendere tutto ancora più complesso? In letteratura si cerca spesso un compromesso tra questi due stati del linguaggio. Potremmo visualizzare questa condizione pensando al cursore della trasparenza di Photoshop: quando è tutto a destra, l’immagine è opaca al 100%; quando è a sinistra, diventa quasi invisibile, il fantasma di se stessa. Nel campo della letteratura se il cursore segna trasparenza completa, il linguaggio si fa discorso funzionale: quello dell’editoriale di un quotidiano o della didascalia di una foto. Ma scorriamo solo un po’ il cursore in direzione dell’opacità, ed ecco la prosa: «Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta». L’apertura di Nabokov è una combinazione perfetta di suono e senso, segnale e rumore, poesia e narrativa. Dopo questo incipit dinamico, Nabokov sposta nuovamente indietro il cursore per raccontare la storia vera e propria, tornando a uno stile più trasparente. A metà del secolo scorso due movimenti, la poesia concreta e il situazionismo, si sono spinti agli estremi in direzione dell’opacità del linguaggio. La scrittura non creativa 46

IL LINGUAGGIO COME MATERIALE

genera nuovi significati attraverso la riproposizione di testi preesistenti. Per fare questo, le parole devono prima di tutto diventare opache e materiali. Entrambi i movimenti avevano come primo obiettivo la materialità: i situazionisti usavano il détournement, i concretisti trattavano le lettere come mattoni da costruzione. I situazionisti hanno usato molti media, nel tentativo di realizzare la loro idea di città come «tela», i concretisti invece hanno avuto un approccio più tradizionale, lavorando principalmente con i libri. Nel concepire la pagina come uno schermo, i concretisti hanno anticipato il modo in cui, mezzo secolo dopo, il linguaggio sarebbe stato utilizzato nel mondo digitale di oggi. I SITUAZIONISTI: PER STRADA A metà degli anni Cinquanta, un gruppo di artisti e filosofi che rispondeva al nome di Internazionale Situazionista delineò tre concetti chiave pensati per portare magia ed eccitazione nella monotona routine quotidiana: la deriva, il détournement, e la piscogeografia. Per loro, come per la scrittura non creativa, l’obiettivo non era quello di reinventare la vita, ma di ricontestualizzarla, nella convinzione che le zone morte possono diventare zone vive. Per avere nuovi spunti su vecchi argomenti, a volte basta un piccolo spostamento di prospettiva: rinominare una sinfonia senza cambiarne la musica, vagare per la città senza alcun obiettivo, mettere sottotitoli nuovi a un vecchio film. Nel creare situazioni nuove, questi interventi erano intesi a catalizzare il cambiamento sociale, filtrandolo attraverso un riorientamento della vita di tutti i giorni. Se ci trovassimo a mappare i nostri movimenti quotidiani, ci accorgeremmo di essere in genere piuttosto fedeli a ciò che conosciamo, con pochissime deviazioni. Andiamo da casa al lavoro, poi in palestra, al supermercato, di nuovo a casa, e ci alziamo il giorno dopo per rifare tutto da capo. Guy Debord, una delle figure chiave del situazionismo, proponeva di prendersi una vacanza da queste forme di routine. La dérive, o deriva, aveva lo scopo di rinnovare l’esperienza 47

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urbana attraverso la scelta volontaria di vagare senza meta negli spazi della città, per aprirsi al suo spettacolo, al suo «teatro». Debord sosteneva che le nostre città sono luoghi densi, ricchi di incontri inaspettati, meravigliose architetture e complesse interazioni umane, che siamo però diventati incapaci di riconoscere. Per questo, a suo parere, l’unica soluzione era quella di prendersi un giorno libero o due, per disorientarsi (spesso con l’aiuto di droga o alcool) alla casuale scoperta della città, affrontando il reticolo urbano con la qualità organica del non sapere, lasciandosi trasportare dall’intuito e dal desiderio, non dall’obbligo o dalle necessità. Ci si potrebbe ritrovare a passare la notte in una casa in procinto di essere abbattuta, o a fare l’autostop per Parigi durante uno sciopero dei trasporti – tanto per aggiungere un po’ di confusione – o a irrompere in cimiteri e catacombe, vagando senza meta tra le ossa sepolte. Partendo dalla geografia fisica della nostra città e sovrapponendovi la psicogeografia, una tecnica che consiste nel mappare la città per flussi psichici ed emotivi anziché per la sua griglia stradale, diventiamo più sensibili a ciò che ci circonda: «Il brusco cambiamento d’atmosfera in una via, in soli pochi metri; la patente divisione di una città in zone dal clima psichico nettamente delimitato; la linea più forte inclinazione – senza rapporto con cambiamenti di livello – che devono seguire le passeggiate prive di scopo; il carattere catturante o respingente di certi luoghi».2 La geografia quindi – quella più densa di proposizioni che ci vincolano – risulta configurabile e personalizzabile attraverso l’immaginazione. La psicogeografia può assumere molte forme: si può fare una mappa alternativa di una città seguendo emozioni specifiche. Per esempio, mappare Parigi non per arrondissement, ma in base ai luoghi in cui abbiamo pianto. Oppure, seguendo una dérive da un punto A a un punto B, potremmo creare una mappa psicogeografica della città attraverso il suo linguaggio, annotando ogni parola che i nostri occhi incontrano su edifici, segnaletica, parchimetri, volantini e così via. Ci ritroveremmo con una ricca collezione di linguaggio, fatta 48

IL LINGUAGGIO COME MATERIALE

di una miriade di tonalità e direttive, di parole marginali a cui molto probabilmente non avremmo prestato attenzione, come le scritte sui parchimetri. Guy Debord racconta di un amico che vagò nella «regione dello Harz, in Germania, con l’aiuto di una mappa della città di Londra»,3 détournando così la mappa, assegnandole uno scopo che non le apparteneva. La funzione di mappa era intatta, ma i risultati erano imprevedibili. Prendendo ispirazione da Debord, nel 1969 Vito Acconci crea un’opera intitolata Following Piece, nella quale si limita a seguire la prima persona che incontra per strada, pedinandola fino a che non la vede scomparire in uno spazio privato. A questo punto, Acconci si accoda a un’altra persona, finché anche questa non scompare in uno spazio privato. E va avanti così.4 Mappando la città attraverso una strana forma di voyeurismo, Acconci mette in scena una tipica dérive debordiana, una cartografia psicogeografica, una catena umana di ipertesti. Il détournement consiste invece nel prendere oggetti, parole, idee, opere d’arte, media, ecc. che già esistono, per usarli in modo diverso, affinché si trasformino in esperienze completamente nuove. Per esempio, Debord ha proposto di prendere la Sinfonia Eroica di Beethoven e di rinominarla semplicemente Sinfonia di Lenin. Beethoven aveva dedicato la sinfonia a Napoleone in occasione della nomina a primo console, ma rinnegò questa dedica quando Bonaparte si autoproclamò imperatore. Da quel momento in poi la sinfonia è rimasta senza dedica, Beethoven cambiò titolo in un generico Sinfonia Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo. Intuendo che c’era uno spazio libero, maturo per il détournement, Debord lo ha occupato con il suo grand’uomo: Lenin. C’è una meravigliosa serie di film di René Viénet che consiste nel riutilizzo di vecchi b-movie stranieri di exploitation che vengono risottotitolati secondo una nuova retorica politica: un film porno giapponese sessista viene trasformato in una dichiarazione di protesta contro l’oppressione delle donne e lo sfruttamento dei lavoratori. Oppure un film 49

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low-budget di kung fu, in cui un maestro insegna ai discepoli i segreti delle arti marziali, viene sottotitolato affinché il maestro sembri istruire gli studenti alle sottigliezze del marxismo, per poi rititolarlo Can Dialectics Break Bricks? («Può la dialettica rompere i mattoni?»). «In ogni caso, la maggior parte dei film meriterebbe di essere ritagliata per comporre altri lavori»,5 dice Debord. Neanche le arti plastiche sono immuni al détournement. Il pittore situazionista danese Asger Jorn usava vecchi dipinti presi in negozi dell’usato per dipingerci sopra nuove immagini. In un saggio intitolato «Détourned Painting» scrive: Siate moderni, collezionisti, musei. Se avete dei vecchi quadri, non disperate. Conservate i vostri ricordi ma détournateli in modo che si accordino alla vostra epoca. Perché rifiutare il vecchio se si può modernizzarlo con pochi colpi di pennello? Così gettate un po’ di contemporaneità sulla vostra vecchia cultura. Rimanete aggiornati, e raffinati allo stesso tempo. La pittura è finita. Potreste finirla anche voi. Detournate. Lunga vita alla pittura.6

Anche i titoli dei libri potrebbero essere facilmente détournati. Guy Debord e Gil Wolman hanno dichiarato: «si potrebbe fare un détournement istruttivo e psicogeografico del Consuelo di George Sand. Così acconciato potrebbe essere rilanciato sul mercato con un titolo innocuo come Life in the 50

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Suburbs, o con un titolo a sua volta détournato, come The Lost Patrol».7 Anche la cultura di massa è stata oggetto di détournement. Nel 1951 i situazionisti immaginavano «un biliardo elettrico configurato in modo che i giochi delle sue luci e il percorso più o meno prevedibile delle sue palle servissero a un’interpretazione metagrafico-spaziale dal titolo: Sensazioni termiche e desideri delle persone che passano davanti ai cancelli del museo di Cluny in novembre un’ora circa dopo il tramonto».8 Anche i testi contenuti nei balloon dei fumetti furono sostituiti con nuovi testi, creando alcune tra le vignette satiriche più politiche di sempre. Debord vedeva questi tentativi come primi passi in direzione di un fine ultimo, ossia la completa trasformazione della vita quotidiana: «Alla fine, quando arriveremo a costruire delle situazioni, obiettivo finale di tutta la nostra attività, ognuno sarà padrone di détourner intere situazioni cambiandone deliberatamente questa o quell’altra condizione determinante».9 Queste situazioni venivano ricreate regolarmente negli happening dei primi anni Sessanta, e raggiunsero il loro massimo sviluppo sulle strade di Parigi nel Maggio del ’68, quando le mura dell’intera città vennero ricoperte di slogan situazionisti. Anche il punk rock rivendica come suo fondamento il situazionismo: Malcolm McLaren ha affermato più volte che i Sex Pistols sono stati il risultato diretto dalle teorie situazioniste. Per Debord la città è un’ecologia, una serie di reti, ognuna carica di un proprio potenziale di scambi e di incontri significativi: «L’analisi ecologica del carattere relativo o assoluto delle scissure del tessuto urbano, del ruolo dei microclimi, delle unità elementari interamente distinte dai quartieri amministrativi e soprattutto dall’azione dominante di centri d’attrazione, deve venire utilizzata e completata con il metodo psicogeografico. Il terreno passionale oggettivo in cui si muove la deriva deve venir definito contemporaneamente sia secondo il suo proprio determinismo, sia secondo i suoi rapporti con la morfologia sociale».10 51

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B

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Fig. 2.1A Fig. 2.1B Fig. 2.1C

Sarah Charlesworth, immagini da April 21, Sarah Charlesworth, immagini da April 21, Sarah Charlesworth, immagini da April 21, 52

dettaglio 1 di quarantacinque 1978 (1978). dettaglio 2 di quarantacinque 1978 (1978). dettaglio 1 di quarantacinque 1978 (1978).

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La nostra ecologia digitale è un corollario virtuale dell’urbanistica di Debord, molti dei gesti che ha proposto nel mondo fisico possono avere luogo anche sullo schermo. Se i nostri movimenti nello spazio urbano sono di solito ripetitivi, le nostre cyber-divagazioni non sono meno prescritte: visitiamo sempre le stesse pagine Web, gli stessi blog e i soliti social network. Potremmo uscire da questa routine cliccando su un link a caso, per poi seguirne un altro, vivendo la sessione di navigazione alla stregua di una dérive. Oppure potremmo prendere il codice sorgente di un grande sito di informazione, con tutti i suoi elementi grafici, e popolarlo di testi a nostra scelta, come ha fatto il poeta Brian Kim Stefans quando ha riempito il sito del New York Times con gli scritti situazionisti di Raoul Vaneigem.11 Agli albori del fenomeno peer-to-peer si diffuse una forma di détournement degli MP3 conosciuta con il nome di «dinosaur egg» (uovo di dinosauro), che consisteva nell’utilizzare un titolo finto per promuovere una canzone. Una giovane band sconosciuta poteva prendere un proprio pezzo e intitolarlo «Like a Virgin», per poi gettarlo in rete con la speranza che i milioni di fan di Madonna lo scaricassero e scoprissero così la loro musica. Le «uova di dinosauro» sono artefatti culturali che fluttuano senza direzione, il loro autore non sa chi effettivamente li riceve, né quale sarà la sua reazione. Troviamo altre varianti di détournement situazionista nelle arti visive, per esempio nei casi di sradicamento del testo. Nel 1978, l’artista concettuale Sarah Charlesworth prese le prime pagine di quarantacinque giornali provenienti da tutto il mondo e, con l’esclusione della testata, cancellò completamente i testi, lasciando al loro posto solo le fotografie. Quel giorno sulle prime pagine dei quotidiani c’era la foto del politico italiano Aldo Moro, tenuto in prigionia dalle Brigate Rosse. Il gruppo terrorista aveva diffuso l’immagine a dimostrazione del fatto che, contrariamente ai resoconti del giorno precedente, il politico era ancora vivo. Come mai sul Messaggero l’immagine di Moro era l’unica fotografia in prima pagina, mentre sul New York Times era 53

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solo una di tre? Cosa ci dice questo a proposito del rapporto tra notizie locali e internazionali? E delle decisioni prese a livello editoriale? O dell’orientamento politico dei diversi giornali? Un semplice gesto di rimozione ci rivela tantissimo del pensiero visivo, politico e editoriale che fa da sfondo a ciò che, normalmente, si presenta come una forma stabile e oggettiva di informazioni. Questo gesto ha svelato in modo elegante le strutture di potere e di soggettività che si nascondono dietro le notizie. In questi lavori, il linguaggio si sposta sotto il manto dell’obliterazione, lasciando nude struttura e immagine. Food, Inc., il famoso film contro le multinazionali, inizia così: «Quando attraversi un supermercato, ti trovi di fronte a una semplice illusione di varietà. Gran parte del nostro cibo industriale consiste solo ed esclusivamente in continue ricombinazioni di un unico ingrediente, il mais».12 Una cosa non troppo diversa può essere detta del linguaggio che ci circonda nello spazio pubblico. Se guardiamo meglio ai tipi di parole che imbrattano il nostro ambiente condiviso, ci accorgiamo che si tratta perlopiù di indicazioni prescrittive e direttive: la lingua dell’autorità (la segnaletica, le targhe automobilistiche) o in alternativa la lingua del consumismo (la pubblicità, il prodotto, la vetrina). Abbiamo un’illusione di abbondanza e varietà, ma nelle nostre città, così impregnate di parole, le varianti sono davvero poche. Il fotografo Matt Siber lo dimostra riprendendo banali scene di paesaggi e di interni – parcheggi, farmacie, stazioni della metropolitana, autostrade – da cui sradica sistematicamente ogni traccia di linguaggio. Rimuove il testo dalla foto e lo colloca in situ – con il suo font e tutto il resto – su un pannello a sfondo bianco che poi dispone accanto alla foto. I due pezzi sono presentati come un’opera unica: un mondo privo di linguaggio e una mappa della sua rimozione. Estirpando il linguaggio, diventiamo ancora più consapevoli della sua struttura, della sua pervasività e ubiquità, che non sempre notiamo nella routine quotidiana. Così ci rendiamo conto di come il linguaggio sia governato dalle griglie architettoniche della città, tanto quanto lo sono le strade: le 54

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parole, una volta spostate sul foglio di carta bianco, fanno riemergere i fantasmi dell’architettura, imponendo il dominio della struttura sulle parole. L’architettura, generalmente al centro dell’attenzione, è costretta al ruolo secondario di «pagina per le parole»; senza le parole gli edifici sembrano vuoti e abbandonati. Se esaminiamo i tipi di linguaggio riportati sui pannelli bianchi, riconosciamo le loro varietà, tonalità e i loro raggruppamenti. Notiamo anche quanto molto del linguaggio pubblico che ci circonda sia in fondo banale e blando. Si potrebbe facilmente immaginare di sovrapporre le mappe di parole di Siber su un gruppo qualsiasi di edifici a griglia, in una qualsiasi città, per ottenere un effetto simile. Sicuramente ogni città ha almeno un edificio con la scritta: COMPRAVENDITA / PRESTITI CONTANTI / CESSIONE CREDITI. In Untitled #21 siamo di fronte al linguaggio come marchio di fabbrica. Dal testo sull’automobile a quello della concessionaria, fino al logo sulle scarpe da ginnastica della figura inquadrata, tutto è commerciale, un vero e proprio paesaggio consumistico. Il pannello dei fantasmi di testo sembra una poesia visiva, uno schema linguistico di loghi che descrivono forme: un’auto fantasma, con le ruote disegnate solo dai loghi. Guardando solo questo pannello, gli imperativi nella pubblicità, una volta decontestualizzati, appaiono assurdi: chi non ha visto una Ford in America di recente? Perché qualcuno dovrebbe «guardare meglio»? In realtà, questa fotografia non è altro che la Ford stessa. Nell’ambiente urbano ancora più denso di Untitled # 13, linguaggio pubblicitario e branding sono altrettanto presenti, ma in modo meno omogeneo. Il pannello di testo potrebbe essere una doppia pagina minimalista di una rivista di moda, con i suoi caratteri eleganti sparsi in modo accattivante sul foglio. Ma a un esame più attento, vediamo un’intersezione di toni e marchi che mai troveremmo sulle pagine di una rivista come Vogue. Per via della strana posizione del furgone, il marchio cosmetico Bliss entra in dialogo con quello delle patatine Lay’s. Il risultato del lavoro di Siber è notevole poiché, se fossimo stati lì per strada e avessimo visto il furgone 55

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Fig. 2.2

Matt Siber, Untitled #26, 2004.

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Fig. 2.3

Matt Siber, Untitled #21, 2003.

parcheggiato di fronte al manifesto, non è molto probabile che avremmo notato l’incrocio tra patatine e cosmetici. Allo stesso modo, il testo del manifesto di Dior è tagliato a metà da una linea di parole che provengono direttamente dal braccio meccanico di una gru. E il testo della Bliss, che inizia con «wise» (svegliati, una fortuita coincidenza con il «Lay» – stenditi – in basso) è esso stesso troncato dalla piega del manifesto che stanno installando. Due ore più tardi, senza il furgone e ad affissioni ultimate, Siber avrebbe mappato un paesaggio molto diverso. Nei microclimi commerciali di una città, le parole sono temporanee, mobili e scambiabili. Se ci muoviamo in un interno, il branding mostra ancora 58

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una propria topografia psicogeografica. Untitled #3 mostra il banco di una farmacia da cui sono stati rimossi tutti i testi. Qui il packaging, con uno slancio verso la bellezza naturale, definisce la struttura e il tono del lavoro. Non è un caso che il posizionamento dei testi rispecchi le forme degli steli e dei fiori su cui sono collocati. E quando vengono rimosse e poste su una pagina vuota, infatti, le parole formano un giardino di linguaggio che potrebbe tranquillamente essere intitolato The Healing Garden, non diversamente dalle poesie concrete di Mary Ellen Solt degli anni Sessanta, fatte di fiori di parole. Le parole di Siber sono ricavate da nozioni consumistiche di «prodotto biologico»: anche le radici dei fiori sono eti59

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Fig. 2.4

Matt Siber, Untitled #13, 2003.

chette del prezzo. Nel 1985 Andy Warhol disse «Se ci pensi, i grandi magazzini sono una specie di museo».13 Per quanto se ne possa mettere in discussione la sincerità, l’osservazione di Warhol è confermata dalla differenza generazionale degli approcci, dalla dolcezza priva di ironia dei giardini di parole di Solt alla nefasta serra riscaldata di Siber fatta solo di linguaggio orientato al consumo. La farmacia di Siber ci rimanda ai monumentali paesaggi consumistici del fotografo Andreas Gursky, in particolare al suo famoso 99 Cent, un grande magazzino che si specchia all’infinito, mostrandoci una sconfinata landa di consumo, una moderna terra dell’abbondanza che, a un’ispezione più attenta, rivela la ripetizione degli stessi marchi ed elementi photoshoppati più e più volte. 60

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L’equivalente audio delle pratiche di Siber o di Charlesworth è rappresentato da un enigmatico gruppo di artisti anonimi chiamato Language Removal Services («Servizi di Rimozione del Linguaggio»). Il nome descrive letteralmente ciò che fanno: rimuovono ogni traccia di linguaggio dalle registrazioni dei discorsi delle celebrità. La leggenda narra che iniziarono a Hollywood come montatori del suono, il cui compito era quello di ripulire i discorsi delle star rimuovendo tutti gli uhm, gli ah e i balbettii. A fine giornata, raccoglievano di nascosto tutti i frammenti di nastro rimasti sul pavimento della sala di montaggio per riassemblarli come opere d’arte, ritratti non verbali di attori famosi. Ciò che era iniziato come uno scherzo è diventato un gioco serio quando la loro pratica si è 61

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Fig. 2.5

Matt Siber, Untitled #3, 2002.

estesa a tutte le forme di discorso preregistrato. In poco tempo hanno fatto ritratti di politici, stelle dello sport e poeti, lavorando solo con tracce extralinguistiche: inciampi, uhm, ehm, sospiri, starnuti, colpi di tosse, respiri, deglutizioni. Che si tratti di Marilyn Monroe, Malcolm X o Noam Chomsky, l’intonazione e i ritmi sono chiaramente riconoscibili nella voce di chi parla. Il respiro e il balbettio di William S. Burroughs mostrano la sua inconfondibile qualità nasale; persino i suoi grugniti suonano magnificamente burroughsiani.14 Attirando la nostra attenzione non su ciò che viene detto, ma su come viene detto, i Language Removal Services invertono la nostra normale relazione con il linguaggio, privilegiando materialità e opacità anziché trasparenza e comuni62

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cazione. Allo stesso modo, cancellando le parole dove siamo soliti trovarle, Matt Siber concretizza e allo stesso tempo rende meno familiare un linguaggio che di solito è solo marginalmente visibile. Entrambe queste pratiche artistiche, una basata sul suono e l’altra sulle immagini, forniscono ispirazione agli scrittori per riformulare, ripensare e invertire nelle proprie opere gli utilizzi più standard del linguaggio. Ho provato a fare qualcosa di simile quando ho scritto Soliloquy, un resoconto non editato di seicento pagine che raccoglie ogni parola che ho pronunciato per una settimana, dal momento in cui mi sono svegliato il lunedì mattina fino al momento in cui sono andato a letto la domenica seguente. È stata un’indagine su quanto una persona parla in media nel corso 63

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di una settimana. Questo era il poscritto del libro: «Se ogni parola pronunciata a New York si materializzasse in un fiocco di neve, ci sarebbe ogni giorno una tormenta». Quell’anno ci fu in effetti una grande tempesta di neve e, mentre i camion e le ruspe correvano su e giù per Broadway, immaginavo quella massa come linguaggio. Raccolte del genere si verificano quotidianamente, con ruspe che rovesciano linguaggio sui cassoni

Fig. 2.6

Mary Ellen Solt, Forsythia, 1965.

dei camion, che a loro volta lo scaricano come neve nel fiume Hudson, che lo trascina fino al mare. Mi viene in mente Rabelais quando racconta di una battaglia d’inverno in cui il freddo era tale che i suoni creati dalla battaglia si congelavano all’istante appena colpivano l’aria, cadendo a terra senza mai raggiungere le orecchie dei combattenti. Quando arrivò 64

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la primavera, quei suoni che erano stati a lungo inaudibili, alterando la loro sequenza temporale originale, cominciarono a mescolarsi in maniera casuale, creando un frastuono caotico. Si diceva anche che alcuni dei suoni congelati potevano essere conservati per usi futuri se li si imballava in olio e paglia.15 Il matematico Charles Babbage aveva ragione quando ipotizzava che l’aria avesse grandi capacità di trasportare informazioni. Nel 1837 predisse le nostre ormai sature ma invisibili onde radio: «L’aria stessa è una vasta biblioteca, sulle cui pagine è stato impresso per sempre tutto ciò che l’uomo ha detto o la donna sussurrato. Lì, nei loro mutevoli ma infallibili caratteri, mescolati con i primi e con gli ultimi sospiri di mortalità, restano registrati per sempre giuramenti traditi, promesse non mantenute, che si perpetuano nei movimenti congiunti di ogni particella, a testimonianza della volontà mutevole dell’uomo».16 Il pensiero di tutto quel linguaggio invisibile che attraversa l’aria che respiriamo è travolgente: televisione, radio terrestre, onde corte, radio satellitare, citizen band, messaggi di testo, dati wireless, televisione satellitare e segnali dei telefoni cellulari, e la lista potrebbe continuare. La nostra aria è ormai soffocata da un linguaggio che si traveste da silenzio. In nessun luogo è così satura come a New York, con la sua densità di popolazione e architettura: il linguaggio è silenzioso e urlante. Le strade di New York sono un luogo di linguaggio pubblico. Dalla segnaletica alle chiacchiere, tracce di linguaggio sono inscritte su quasi ogni superficie: T-shirt, fiancate di camion, tombini, quadranti di orologi, cappellini da baseball, targhe, confezioni alimentari, parchimetri, giornali, incarti di caramelle, cassette della posta, autobus, locandine, manifesti pubblicitari e biciclette. È la densità della popolazione di New York a dare l’illusione dell’anonimato, la sensazione che ci siano così tante persone intorno a me che nessuna può davvero ascoltare quello che dico. In gran parte del mondo, le chiacchiere si fanno a porte chiuse o in automobili climatizzate, ma per le strade di New York le parole sono là e tutti le possono ascoltare. Una 65

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delle cose che amo più fare è seguire per diversi isolati, a pochi passi di distanza, due persone impegnate in una conversazione, ascoltando i progressi del dialogo, punteggiati dai semafori rossi, che danno al discorso andatura e ritmo.

Fig. 2.7

BpNichol, eyes, 1966-67.

John Cage ha detto che la musica è tutta intorno a noi, se solo avessimo le orecchie per ascoltare. Per estensione direi che, in particolare a New York, la poesia è tutta intorno a noi, se solo avessimo gli occhi per vederla e le orecchie per ascoltarla. 66

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Nella città moderna si aggiunge la complicazione del telefono cellulare, un ulteriore livello di linguaggio. La dérive – il desiderio di perdersi – è difficile quando tutti abbiamo un GPS incorporato nel nostro dispositivo o trasmettiamo le nostre coordinate pubblicamente: «Sto camminando verso nord sulla Sesta Avenue, appena oltre la Ventitreesima Strada». Il cellulare ha fatto collassare lo spazio tra il linguaggio privato e quello pubblico. Adesso tutto il linguaggio è pubblico. È come se l’illusione dell’anonimato della conversazione privata fosse stata amplificata. Sono tutti ben consapevoli del fenomeno dell’uso dei telefoni cellulari in pubblico, e quasi tutti la considerano un’abitudine irrispettosa, una seccatura. Ma a me piace pensarla come una liberazione, come un nuovo livello di ricchezza testuale, un ripensamento del discorso pubblico in cui delle conversazioni a metà portano a un tracollo della narrazione, una città piena di matti che vomitano straordinari soliloqui. Un tempo parlare da soli era appannaggio di matti e ubriachi; oggi tutti ci ritroviamo a gesticolare parlando con un interlocutore invisibile. Il linguaggio nello spazio pubblico includeva tag e graffiti, ma, dato che writer e autorità giocavano al gatto e al topo, era un esempio fisico di instabilità testuale. I vagoni della metropolitana taggati al mattino venivano ripuliti la notte stessa. Documentare era d’obbligo: il costante movimento delle macchine richiedeva orari e luoghi specifici per vedere le opere sopravvissute. Il linguaggio viaggiava ad alta velocità, in un viavai molto rapido. Quando la città si è liberata dai graffiti dei sottopassaggi della metro, sono cambiate le tattiche testuali. La vernice spray sugli esterni ha lasciato il posto alle incisioni sui vetri interni e ai graffi sulla plastica, tracce fantasma delle scritte a caratteri cubitali che un tempo coprivano i vagoni. Oggi gli esterni dei treni sono di nuovo invasi da un’altra lingua temporanea, questa volta ufficiale: quella della pubblicità a pagamento. La MTA (l’azienda dei trasporti pubblici dello Stato di New York), ha imparato dalla cultura dei graffiti e ha détournato la sua tattica e il suo metodo verso scopi commerciali, coprendo i vagoni della metro 67

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con pubblicità a pagamento. Il linguaggio stesso è generato dal computer, prende la forma di giganti adesivi rimovibili; ogni settimana una nuova serie di manifesti pubblicitari verrà incollata sulle fiancate dei vagoni dei treni. Il nostro ambiente fisico e quello digitale sono circondati da linguaggio transitorio, fatto di caratteri mobili, linguaggio fluido, linguaggio che si rifiuta di rimanere incastrato in una forma, da sentimenti espressi in un linguaggio che può essere sostituito per un capriccio, per un cambio di idea, per un ripensamento. Se la teoria decostruzionista metteva in discussione la stabilità del significato del linguaggio, le attuali condizioni, sia online che nel mondo fisico, la aumentano di un grado, costringendoci a considerare le parole come entità fisicamente destabilizzate, che non possono fare a meno di informare e trasformare il modo in cui noi, come scrittori, organizziamo e costruiamo le parole sulla pagina. LA POESIA CONCRETA E IL FUTURO DELLO SCHERMO La poesia concreta, un piccolo movimento un po’ dimenticato di metà secolo scorso, ha prodotto poesie che non sembravano poesie: nulla era messo in versi o lineare, non c’era metro e ben poco ritmo. Spesso somigliavano più a dei loghi aziendali che a delle poesie: grappoli di lettere uno in cima all’altro, seduti a centro pagina. Si trattava di poesie che avevano più a vedere con le arti visive o con il graphic design, con il quale peraltro venivano spesso erroneamente scambiate. Ma a volte una forma è così in anticipo sui tempi – così predittiva – che ci vogliono molti anni per afferrarla. È quello che è successo nel caso della poesia concreta. La poesia concreta era un movimento internazionale nato all’inizio degli anni Cinquanta e sfumato alla fine dei Sessanta. Aveva in programma l’utopia di creare un metodo di scrittura panlinguistico e transnazionale che chiunque, indipendentemente da dove vivesse o dalla sua lingua madre, potesse capire. Pensatela come un Esperanto grafico, che prende il linguaggio e lo traduce in simboli e icone. Come la maggior parte delle utopie, non è mai veramente 68

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decollata, ma tra le ceneri del suo manifesto sono sparsi diversi kernel che anticipano il modo in cui oggi vediamo il linguaggio. Come nel caso di molti altri sforzi intrapresi nel XX secolo, la spinta alla base del movimento era quella di costringere la poesia a entrare nell’età contemporanea, allontanandola dalle interminabili frasi prosaiche di, diciamo, Henry James, e avvicinarla alla compattezza titolistica di Ernest Hemingway. La svolta a cui portò la poesia concreta fu quella di allineare la storia della letteratura alla storia del design e della tecnologia. Applicando al linguaggio una sensibilità Bauhaus, i poeti concreti hanno inventato nuove forme di poesia. La leggibilità era la chiave di tutto: come un logo, una poesia doveva essere immediatamente riconoscibile. È interessante notare che le ambizioni della poesia concreta rispecchiavano i cambiamenti dell’informatica, che si stava spostando dalle righe di comando alle icone grafiche. In effetti, le idee che hanno animato la poesia concreta ricordano l’uso che facciamo del linguaggio nel contesto digitale attuale. A volte le poesie sembravano gruppi di lettere che si univano a formare una costellazione. A volte si decostruivano e assomigliavano a foglie sparse caoticamente su una pagina. Altre volte, le lettere formavano immagini – un trofeo o una faccia – prendendo spunto dalla poesia di George Herbert Easter Wings («Ali di Pasqua»), del 1633, in cui una preghiera è costruita visivamente, con le righe che che si fanno man mano più lunghe o più corte, per formare infine l’immagine di un paio d’ali. Il contenuto della poesia di Herbert – le cadute e le risalite che movimentano le sorti del genere umano – prende corpo nell’immagine formata dalle parole. Basta uno sguardo alla poesia per riceverne il messaggio. Easter Wings è un’icona che condensa idee complesse in un’unica immagine facilmente assimilabile. Uno degli scopi della poesia concreta è quello di tradurre tutto il linguaggio in icone poetiche, un intento analogo a quello che ha portato all’utilizzo delle icone negli schermi dei computer, di cui tutti capiamo il significato. 69

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Fig. 2.8

George Herbert, Easter Wings, 1633.

La semplicità visiva della poesia concreta rischia di oscurare il senso della storia e il peso intellettuale che la caratterizzavano. Ancorate alla tradizione dei manoscritti miniati e dei pamphlet religiosi medievali, le radici moderniste della poesia concreta risalgono a Un tratto di dadi di Stéphane Mallarmé, nella quale le parole sono sparse su tutta la pagina, a dispetto delle tradizionali nozioni di versificazione. La pagina viene aperta come spazio materiale, proposta come tela per le lettere. Altrettanto importanti sono stati i Calligrammi di Guillaume Apollinaire (1912-18), nei quali le lettere sono usate in maniera visiva per rafforzare il contenuto delle poesie: le lettere della poesia Il Pleut («Piove») scrosciano sulla pagina in righe, come ruscelli di pioggia. In seguito, portando avanti gli esperimenti di Mallarmé e Apollinaire, E.E. Cummings con le sue pile di parole atomizzate propose la 70

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pagina come uno spazio in cui leggere e vedere sono atti che si intrecciano. L’uso degli ideogrammi cinesi da parte di Ezra Pound e i neologismi composti di Joyce, creati usando diverse lingue, diedero alla poesia concreta nuove idee su come porsi un’agenda transnazionale. Anche la musica ha avuto un suo ruolo. I poeti concreti hanno preso in prestito la nozione di Klangfarbenmelodie di Webern, una tecnica che consiste nel distribuire una linea musicale o una melodia tra diversi strumenti anziché assegnarla a uno solo, aggiungendo così alla linea melodica colore (timbro) e tessitura.17 Una poesia può creare uno spazio multidimensionale, che è visivo, musicale e verbale allo stesso tempo: lo chiamavano verbivocovisual. Ma per tutte le sue trovate, la poesia concreta è stata spesso liquidata come una forma di scrittura che rasentava lo slogan pubblicitario – un po’ come il logo LOVE di Robert Indiana, ispirato appunto alla poesia concreta – e facilmente usurpata dalla cultura commerciale e inserita in manifesti, T-shirt o gadget. Anche se gli artisti concettuali cominciavano a usare il linguaggio come materiale primario, il mondo dell’arte prendeva le distanze. Nel 1969 Joseph Kosuth scrisse: «La poesia concreta era una formalizzazione del materiale con cui lavora il poeta. E quando i poeti diventano materialisti, siamo nei guai».18 Questo genere di rifiuto riecheggia ancora oggi. In un recente libro sul linguaggio e le arti visive pubblicato da una casa editrice accademica di prim’ordine, la storica dell’arte Liz Kotz scrive: Intesa nel suo senso più generale di «arte del linguaggio», la poesia è una forma che esplora tanto l’estetica, le strutture e le operazioni del linguaggio quanto qualsiasi altro contenuto specifico. Nel dopoguerra, diversi tipi di poesia concreta e visiva, in particolare, promettevano di esplorare lo spazio della pagina tipografica e di mettere in connessione la letteratura contemporanea con le arti visive. Tuttavia, il ricorso a modalità pittoriche o illustrative piuttosto bizzarre – come nel caso delle poesie che assumono la forma dei loro argomenti – ha fatto sì che gran par71

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te della poesia concreta risultasse superata di fronte ai nuovi paradigmi delle arti visive e alla più estesa condizione del linguaggio nella modernità.19

Tuttavia, concentrandosi sulla relazione tra poesia concreta e mondo dell’arte, Kotz non centra la questione: il collegamento non era tanto con le arti visive, ma con lo spazio multimediale dello schermo. Se fosse tornata indietro e avesse letto un libro del 1963 scritto dal concretista svizzero Eugen Gomringer, avrebbe trovato molto di più che «bizzarre modalità pittoriche o illustrative»: «Le nostre lingue sono sulla via della semplificazione formale, stanno emergendo forme di linguaggio abbreviate e ristrette. Il contenuto di una frase spesso si esprime in una singola parola. C’è inoltre una tendenza nelle lingue a sostituire le molte con le poche che sono valide in senso generale. Quindi la nuova poesia è semplice e può essere percepita visivamente sia nel suo insieme che nelle sue parti […] il suo interesse principale è di essere breve e concisa».20 Qualche anno più tardi, la poetessa concretista e teorica Mary Ellen Solt criticò l’incapacità della poesia di tenere il passo con il resto della cultura, che vedeva procedere a tutta velocità: «Gli usi del linguaggio nella poesia di tipo tradizionale non tengono il passo con i processi in atto nel linguaggio e i rapidi strumenti di comunicazione che operano nel nostro mondo contemporaneo. I linguaggi contemporanei mostrano le seguenti tendenze: […] dichiarazioni brevi a tutti i livelli della comunicazione, dai titoli agli slogan pubblicitari, alle formule scientifiche. Il messaggio visivo veloce e concentrato».21 L’ascesa negli anni Sessanta delle reti informatiche globali e il loro uso intensivo del linguaggio, sia naturale che computazionale, alimentò queste posizioni, che conservano ancora oggi la stessa importanza che avevano quando furono scritte, sebbene l’utilizzo del computer a livello globale si sia infinitamente moltiplicato. Mentre l’informatica progrediva dalla linea di comando all’icona, la poesia concreta rivendicava che la poesia, per continuare a essere rilevante, doveva 72

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passare dal verso e dalla strofa alle forme sintetiche della costellazione, del grappolo, dell’ideogramma e dell’icona. Nel 1958 un gruppo di poeti concretisti brasiliani che prendeva il nome di gruppo Noigandres (da una parola nei Cantos di Pound) fece un lungo elenco delle caratteristiche fisiche di cui volevano dotare la loro poesia. Leggendolo, intravediamo il Web grafico descritto con quasi quattro decenni di anticipo: «spazio (“Blancs”) e stratagemmi tipografici come elementi sostanziali di composizione […] interpenetrazione organica di tempo e spazio […] atomizzazione delle parole, tipografia fisionomica; enfasi espressionistica sullo spazio […] la visione in luogo della prassi […] discorso diretto, economia ed architettura funzionale del verso».22 Tutte le interfacce grafiche ci forniscono «stratagemmi tipografici come elementi sostanziali di composizione» in un’impostazione dinamica di «tempo e spazio». Cliccate su una parola e la vedrete «atomizzarsi» in modo «fisionomico». Senza «architettura funzionale» – il codice di programmazione che è dietro grafica e suoni – il Web smetterebbe di funzionare. In quanto modernisti, i poeti concreti adoravano le linee pulite, i caratteri sans serif e il buon design. Prendendo in prestito la teoria dalle arti plastiche, hanno aderito strettamente ad alcuni canoni del modernismo greenberghiano come l’anti-illusionismo spaziale e l’autonomia dell’opera d’arte. Osservando le prime poesie concrete, si può quasi sentire Clement Greenberg dire: «Guardate come queste “forme si appiattiscono e si diffondono nella densa atmosfera bidimensionale”».23 Malgrado i continui tentativi di dimostrare il contrario, lo schermo e l’interfaccia sono, essenzialmente, dei media piatti. Generalmente utilizzano font sans serif tipo l’Helvetica per i loro tropi. L’Arial e il Verdana sono diventati i caratteri standard da schermo per le stesse ragioni: pulizia, leggibilità e chiarezza.24 La temperatura emotiva delle loro poesie concrete è intenzionalmente controllata, razionale e orientata al processo: «Poesia concreta: responsabilità totale dinanzi alla lingua. Compiuto realismo. Contro una poesia di espressione, 73

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soggettiva e edonistica. Creare problemi precisi e risolverli in termini di linguaggio sensibile. Un’arte generale della parola. Prodotto della poesia: un oggetto utile».25 Contro l’espressione: tali affermazioni, con il loro bisogno di creare «problemi precisi» da risolvere con il «linguaggio sensibile», che emergono con «un prodotto della poesia» e un «oggetto utile», sembrano prese più da una rivista scientifica che da un manifesto letterario. Ed è questa sorta di concretezza matematica che rende la loro poesia così attinente all’informatica di oggi. Parole fredde per un contesto freddo.

Fig. 2.9

Décio Pignatari, Beba Coca Cola, 1962.

Imparando dalla Pop Art, i concretisti si confrontarono con la dialettica tra linguaggio e pubblicità. Già nel 1962, la po74

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esia Beba Coca Cola di Décio Pignatari fondeva il rosso e il bianco della Coca con un design pulito, per creare un gioco di allitterazione visiva sui pericoli del cibo spazzatura e della globalizzazione. In sole sette righe, usando solamente sei parole, lo slogan «Bevi Coca Cola» viene trasformato in «drool» (sbavare), «glue» (colla), «coca(ine)», «shard» (coccio) e infine in «cloaca / cesspool», una fogna o la cavità digestiva intestinale in cui vengono prodotti rifiuti corporei. La poesia di Pignatari testimonia la potenza dell’icona, ma funziona anche come critica sociale, economica e politica. L’orientamento internazionale della poesia concreta riusciva a essere tanto celebrativo quanto critico. Nel 1965, il poeta Max Bense dichiarò: «La poesia concreta non divide le lingue; le unisce; le combina. È questo aspetto del suo intento linguistico a rendere la poesia concreta il primo movimento poetico internazionale».26 L’insistenza di Bense su un linguaggio universale basato sulla combinazione predice i sistemi di distribuzione attivati dal Web. È una poetica della paninternazionalità, che trova la sua massima espressione nelle reti globali decentralizzate, orientate alla costellazione, in cui nessuna entità geografica ha l’esclusivo possesso dei contenuti. Nel 1968 l’idea del lettore come fruitore passivo venne messa in discussione. Il lettore deve prendere le distanze dal lungo giogo della poesia e percepire la realtà poetica semplicemente come struttura e materiale: Le vecchie strutture grammaticali-sintattiche non sono più adeguate agli avanzati processi di pensiero e comunicazione del nostro tempo. In altre parole, il poeta concreto cerca di alleggerire la poesia dal suo secolare fardello di idee, riferimenti simbolici, allusioni e contenuti emotivi ripetitivi; dal suo asservimento a discipline altre in quanto oggetto a sé stante con uno scopo proprio. Questo, ovviamente, significa chiedere molto a quello che una volta si chiamava il lettore, che adesso deve percepire la poesia come oggetto e partecipare all’atto di creazione del poeta, perché una poesia concreta comunica innanzitutto la sua struttura.27 75

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Ma funziona in entrambe le direzioni. La poesia concreta ha inquadrato il discorso del Web, ma anche il Web ha, in effetti, dato una seconda vita alla poesia concreta. Retroilluminate dallo schermo, le polverose poesie concrete vecchie di mezzo secolo appaiono incredibilmente luminose, fresche e contemporanee. Ci ricordiamo della poesia concreta quando vediamo le parole scorrazzare sugli schermi nelle pagine di caricamento dei siti Web, in televisione nelle pubblicità di automobili dove il movimento delle parole sottolinea la velocità della macchina, o nei titoli di testa di un film in cui le parole esplodono irrequiete per poi dissolversi. Come la celebre affermazione di de Kooning, «Il passato non m’influenza affatto, sono io a influenzarlo», c’è voluto il Web per farci capire quanto la poesia concreta sia stata lungimirante nell’anticipare la vivace accoglienza che le sarebbe stata riservata mezzo secolo dopo. Ciò che era mancato alla poesia concreta era un ambiente appropriato nel quale prosperare. Per molti anni, la poesia concreta è rimasta in un limbo, come un genere senza dimora alla ricerca di un nuovo medium. Ora ne ha trovato uno.

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3 ANTICIPARE L’INSTABILITÀ SFOCATO: PARSIFICARE IL PENSIERO E LA VISTA Nel 1970 l’artista concettuale Peter Hutchinson propose un lavoro intitolato Dissolving Clouds, che consisteva in due parti: una proposizione scritta e una documentazione fotografica. La proposizione affermava: «Si dice che attraverso tecniche Hatha yoga di intensa concentrazione ed energia pranica sia possibile dissolvere le nuvole. L’ho provato con la nuvola (nel riquadro) nelle fotografie. Questo è ciò che è successo. Quest’opera si svolge quasi del tutto nella mente».1 L’opera è una parodia delle pratiche new age: le nuvole si dissolvono da sé, senza alcun bisogno di aiuto da parte nostra. È anche un’opera che può fare chiunque: mentre scrivo queste parole, nella mia mente sto dissolvendo nuvole. Il lavoro di Hutchinson dimostra uno dei principi fondamentali dell’arte concettuale: la differenza tra vedere e pensare. Ludwig Wittgenstein usava l’illusione ottica della lepre e dell’anatra per dimostrare il concetto di instabilità visiva. Come tutte le illusioni ottiche a più opzioni, l’immagine va avanti e indietro tra l’anatra e la lepre. L’unico modo per stabilizzarla, almeno momentaneamente, è dare un nome a ciò che vediamo: «Non necessariamente chi guarda l’oggetto deve pensare all’oggetto; invece, chi ha l’esperienza vissuta del vedere, di cui l’esclamazione costituisce l’espressione, pensa anche a quello che vede».2 Con la documentazione di Hutchinson, stiamo guardando; con la sua proposizione linguistica, dobbiamo pensare a ciò che vediamo. Nell’arte concettuale degli anni Sessanta e Settanta, la tensione tra materialità e proposizione logica veniva messa continuamente alla prova, con risultati sempre diversi: quanto dev’essere visiva un’opera d’arte? Nel 1968 Lawrence Weiner iniziò Statements, una serie ininterrotta di lavori con cui concedeva alle opere la possibilità di assumere un numero indefinito di manifestazioni: 77

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1. L’artista può creare l’opera. 2. L’opera può essere fabbricata. 3. L’opera non deve necessariamente essere realizzata.

Fig. 3.1 Fig. 3.2

Peter Hutchinson, Dissolving Clouds, 1970. L’anatra-lepre di Wittgenstein. 78

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Un’opera può rimanere una dichiarazione o invece essere realizzata. È curioso vedere cosa succede se si prende un classico lavoro di Weiner di quel periodo e lo si realizza. La proposizione dice: Due minuti di vernice spray da una normale bomboletta direttamente sul pavimento.3

In questa affermazione la forma proposizionale, intesa come linguaggio, rimane aperta. Se due di noi provassero a crearsi un’immagine mentale che corrisponda a Due minuti di vernice spray di una normale bomboletta direttamente sul pavimento, avrebbero sicuramente due idee diverse. Il primo potrebbe pensare a una vernice rosso fuoco su un pavimento in legno; l’altro a un verde Kelly su un pavimento di cemento. Ed entrambi avrebbero ragione. La versione di quest’opera riprodotta più di frequente è quella contenuta nel catalogo January 5-31, 1969, un’immagine già fissata nella memoria a livello visivo e storico, in tutti i suoi dettagli. Questa particolare realizzazione possiede lignaggio e autenticità, perché ha un’origine importante, provenendo dalla collezione privata del famoso artista concettuale Sol LeWitt. La sua autenticità è rafforzata dalla foto in bianco e nero – un formato ormai quasi in disuso – che gli dona storicità. Ulteriore credibilità viene conferita dal fatto che una vera e propria stampa fotografica, un negativo da cui sono state prodotte le copie, esiste veramente. Eppure, per buona parte del XX secolo, il mezzo fotografico è stato accusato di non essere veicolo di autenticità. Nel 1935 Walter Benjamin affermava: «Di una pellicola fotografica per esempio è possibile una gran quantità di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso».4 Con l’esplosione della fotografia digitale, l’affermazione di Benjamin è esplosa all’ennesima potenza.5 E adesso invece, tutto a un tratto, ci ritroviamo al punto in cui a essere riproposte come uniche e autentiche sono proprio le foto analogiche – in particolare le riproduzioni in bianco e nero. 79

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Fig. 3.3

Lawrence Weiner, documentazione fotografica di Due minuti di vernice spray da una normale bomboletta direttamente sul pavimento (1968).

In quella fotografia anche il pavimento non è uno spazio neutro, ma un indicatore di tempo e luogo: un pavimento industriale originale, vecchio e ruvido, molto comune nei loft degli artisti nella Lower Manhattan di quel periodo. La realizzazione documentata nella foto (figura 3.3) proviene dal loft di Weiner stesso, in Bleecker Street. Dopo decenni di gentrificazione, quando infine i valori immobiliari salirono, 80

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questo genere di pavimenti venne sistematicamente rimosso e sostituito. E infatti, dopo che Weiner fu costretto a lasciare il loft proprio per l’aumento dei prezzi, il nuovo compratore, nel tirare via le vecchie assi per sostituirle con i nuovi pavimenti in legno, fece ritagliare il lavoro di Weiner e glielo mandò in regalo. L’opera si trova oggi nel deposito personale di Weiner.6 Questa fotografia non è quindi solo la riproduzione della realizzazione di una proposizione, ma un pezzo d’epoca ben codificato, che garantisce autenticità ed evoca la nostalgia di una Manhattan che da tempo ha smesso di esistere. Potremmo riferirci a questa documentazione come alla versione «classica» dell’opera. In ogni caso, è tutt’altra cosa rispetto alla neutra proposizione Due minuti di vernice spray da una normale bomboletta direttamente sul pavimento. Sebbene sia specifica e ancorata a un determinato momento e luogo, l’opera di Weiner mostra quanto la realizzazione di un lavoro sia più restrittiva della sua semplice proposizione. È possibile fare una proposizione e poi realizzarla in un ambiente stabile e neutro? Proviamone una: «Un cerchio rosso del diametro di cinque centimetri, disegnato sul computer». Già dall’inizio, il linguaggio ci tormenta. Questo è ciò che il mio computer chiama «rosso», ma il nome rosso sul computer non è altro che una scorciatoia che porta a dell’ulteriore linguaggio. «Rosso», per la precisione, è un codice; un codice esadecimale: «#FF0000»; o un codice RGB: «R: 255, G: 0, B: 0»; o un codice HSB: «H: 0, S: 0, B: 100». Anche se riuscissi a realizzare la stessa identica versione sul tuo computer, a causa delle impostazioni del tuo monitor, della sua età, del produttore e così via, si otterrebbe sempre e comunque un colore diverso da quello visualizzato sul mio monitor. Che cos’è, quindi, il rosso? Ci troviamo catapultati in una versione digitale di un loop wittgensteiniano: «Ha senso dire che le persone sono generalmente d’accordo nei loro giudizi sul colore? Cosa accadrebbe se non lo facessero? Un uomo direbbe che un fiore era rosso, un altro lo chiamerebbe blu e così via. Ma che diritto avremmo di chiamare le parole di queste persone “rosso” e “blu” come le nostre parole-colore?».7 81

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Poi c’è il problema della scala e della finalizzazione: mettiamo che venga creato sul computer, dovremmo poi stamparlo? Con «diametro di cinque centimetri», intendiamo il diametro del cerchio quando viene stampato o quando è sullo schermo? Stando all’indicazione «disegnato sul computer», ne deduciamo che andrebbe visualizzato sul computer. Ma è una deduzione problematica, perché la proposizione non specifica una risoluzione dello schermo. Potrei prendere un righello digitale e misurare un cerchio del diametro di cinque centimetri con una risoluzione di 640 x 480, ma se lo cambiassi a una risoluzione di 1024 x 768, sullo schermo mi apparirebbe notevolmente più piccolo, pur rimanendo della stessa misura di cinque centimetri. Se ti mando per email il mio cerchio rosso e lo visualizzi sul tuo computer alla stessa risoluzione, il cerchio avrà comunque una dimensione diversa, a causa delle grandi differenze tra i monitor e le loro specifiche risoluzioni. Quando interviene il Web, le variabili sono ancora più complesse: non solo dobbiamo risolvere il problema delle diverse risoluzioni e delle differenze nei monitor, ma ci sono anche i browser di mezzo, con i loro diversi modi di visualizzare le informazioni. Il mio, per esempio, spesso ridimensiona le immagini per adattarle a quella che considera essere una «pagina». Solo quando si clicca sull’immagine, questa si apre nella sua dimensione «effettiva» in pixel. Se la versione stampata risolverebbe, stabilizzandolo, il problema della scala di grandezze, avremmo comunque le variabili dell’output della stampante: in base all’inchiostro e all’assortimento di carta, quello che la tua stampante produrrà come «rosso» sarà sicuramente diverso dal mio, per grado e tonalità. Quando andiamo oltre i problemi formali dell’instabilità, troviamo lo slittamento di significato. Se guardo il mio cerchio rosso e penso a quali significati possa assumere, le mie associazioni includono la luce di un semaforo, una palla, la bandiera giapponese, il pianeta Marte o il tramonto. Se penso al mondo dell’arte, mi vengono in mente le geometrie del costruttivismo russo. Fermo sul mio schermo, stagliato sul fondo bianco della mia «pagina», la sua principale qualità 82

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retinica mi rimanda a un dipinto espressionista astratto di Adolph Gottlieb, privato però della componente espressiva, un cerchio rosso ridotto a icona geometrica. Allontanando lo sguardo dal punto rosso vivo che si trova sul mio schermo, vedo che l’immagine si è impressa sulla mia retina, tanto che quando guardo il muro bianco sopra la scrivania vedo un’immagine residua, ma non è affatto rossa: è il suo contrario, è verde, il colore opposto e complementare del rosso. E se provo a esaminarlo sul serio, scompare, lasciando sospeso un fantasma del suo io precedente. Ciò che i nostri occhi colgono è una presenza tanto inquieta e instabile quanto il tentativo di definire con precisione cosa sia veramente un cerchio rosso digitale. Pensare non facilita le cose. Se distolgo lo sguardo dal computer e penso alle parole cerchio rosso, evoco nella mia mente un tipo di cerchio rosso molto diverso. L’immagine a cui sto pensando ha forma rotonda e contorno rosso; l’interno è bianco. Ora, se penso invece a un cerchio rosso pieno, le tonalità variano. Se mi concentro, vedo un rosso fuoco. Ora però sta virando in un rosso granata. Nella mia testa l’immagine è irrequieta, si trasforma e cambia di continuo le sue proprietà. Proprio come l’illusione ottica anatra-lepre, non riesco a farla stare ferma. Anche le dimensioni, nella mia mente, possono variare da cosmicamente enorme (Marte) a microscopico (un globulo rosso). Quando digito le parole, ottengo tutte queste associazioni e altro: red circle

Noto che queste due parole sono composte da dieci elementi: nove lettere e uno spazio. Ci sono due r e due e, una in ogni parola. La d di red trova un’eco nel cl di circle. Ci sono anche diversi casi di riverbero visivo nelle forme delle lettere: due casi ripetuti di c ed e. Il cl sembra essere una variante smembrata della lettera d, e la i potrebbe essere letta come una l con la cima mozzata che fluttua sul suo stelo. 83

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Le parole red circle hanno tre sillabe. Posso pronunciare le parole marcando la prima o la seconda parola, con un notevole cambiamento di significato: red circle mette in primo piano il colore; red circle impone invece la forma sul colore. Se dico ad alta voce le parole red circle, posso alterare la mia intonazione in alto o in basso come in una cantilena, o pronunciarle in tono uniforme. Il modo in cui scelgo di farlo produce risultati completamente diversi. Nel pronunciare le parole, invoco anche le proprietà semiotiche e simboliche della bandiera giapponese o di Marte. Facendo un ulteriore passo avanti, se cercassi su internet la frase red circle, la ricerca mi porterebbe in luoghi ben lontani da ciò che io, come individuo, posso immaginare. Ci sono diverse aziende che si chiamano Red Circle: un locale di San Diego, un’agenzia pubblicitaria a Minneapolis, un progetto che fornisce aiuto su HIV e AIDS per gay nativi americani, e una società di San Francisco che organizza tour alla scoperta del tè. Ci sono due film intitolati Red Circle, uno diretto da Jean-Pierre Melville nel 1970 e un film del 2011 con Liam Neeson e Orlando Bloom. C’è una collana di fumetti di Archie Comics con personaggi non-Archie. In letteratura c’è «The Adventure of the Red Circle», una storia di Sherlock Holmes in cui il segno di un cerchio rosso significa morte certa. E questa è solo la prima pagina di risultati. Se ci lanciamo in una ricerca di immagini guidata dalla semantica delle parole, le parole red circle ci riportano alla sfera visiva, ma comunque lontano dal mio semplice cerchio rosso iniziale. Trovo al suo posto ampie varietà di cerchi rossi. La prima immagine è il simbolo universale del divieto, un cerchio rosso con una barra diagonale che lo attraversa. Il seguente è il contorno di un cerchio rosso, dipinto male a spray su un muro di cemento, che avrebbe potuto essere una variante della proposta di Weiner. A seguire c’è quello che sembra il contorno disegnato con Photoshop di un cerchio rosso che fluttua su un cielo blu, intersecando una nuvola. Poi c’è una vera e propria bufera di red circle: cerchi rossi pittorici, cerchi rossi espressivi in stile Kandinsky, un orologio Swatch 84

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con un cerchio rosso che circonda il quadrante, un pezzo di gommapiuma rosso tridimensionale di forma circolare che contiene provette, e un’immagine di un bonsai circondato da un cerchio rosso.

Fig. 3.4

Red circle salvata in formato .txt e aperta in un editor di testo.

In realtà, i risultati non restituiscono un cerchio rosso vero e proprio per molte pagine, fino all’anteprima ridotta di un’immagine che assomiglia molto al mio cerchio rosso. Tuttavia, vista a grandezza naturale, con mia grande sorpresa, si scopre non essere affatto un cerchio rosso, ma l’immagine di un tappeto rosso, tessuto a trama e in miniatura. E non è neanche perfettamente rotondo: il suo perimetro è interrotto sul lato destro da pezzi di lana vaganti. Anche il colore è diverso. Questo cerchio è, nel complesso, più violaceo del mio cerchio rosso. E ha una grande varietà di sfumature, diventa più scuro nel quadrante in basso a sinistra e sempre più chiaro verso l’alto. Ovviamente anche questo è un «red circle» molto complesso e instabile. 85

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Ma possiamo complicare ulteriormente la cosa: quando scarico l’immagine del tappeto sul mio computer e cambio l’estensione del file da .jpg a .txt e lo apro in un editor di testo, ottengo un testo. Chiaramente, non assomiglierà a un cerchio rosso. In realtà, non troveremo né la parola red né la parola circle, né l’immagine di un cerchio rosso. Ci ricatapultiamo invece nel linguaggio semantico, ma un linguaggio completamente diverso da quello con cui avevo iniziato la ricerca che mi ha portato a questo tappeto, o alle combinazioni di colori esadecimali. E ora che facciamo? Potremmo prendere il testo e tentare di individuare degli schemi che ci aiutino a indagare la plasticità e la mutevolezza del linguaggio in quanto immagine. Oppure potremmo procedere a una sua lettura attenta, commentando, per esempio, quanto sia curiosa la fila di cinquantuno 7 presenti nella terza riga, o la distribuzione casuale, ma in qualche modo uniforme, di mele grafiche. Metaforicamente, potremmo anche dire che quelle mele in bianco e nero sono metafore pittografiche dell’astrazione che ci circonda… Dopo tutto, le mele dovrebbero essere rosse. Se fossimo poeti visivi o concreti, potremmo raccogliere tutto questo linguaggio con un editor di testo, ombreggiare le lettere «red» e metterle in ordine tale da creare un’immagine ascii di una mela o di un cerchio rosso. Ma quando ci addentriamo nell’immagine digitale di una mela, allora non si tratta più di una mela, bensì della Mela di Apple. Fermiamoci qui. Tutto questo per sottolineare quanto sia diventato scivoloso e complesso muoversi tra materialità e concetto, parola e immagine, proposizione e realizzazione, pensiero e visione. Quello che è cominciato come un gioco a due opzioni tra la proposta di Weiner, «l’artista può [o non può] creare l’opera», è diventato un esempio di quanto ormai il linguaggio sia soggetto a numerose variabili: linguistiche, imagistiche, digitali e contestuali. Sembra che le parole siano possedute da uno spirito, un codice in continua evoluzione, che a volte si manifesta come immagine, poi si trasforma in parole, suoni o video. La scrittura deve tener conto del multiplo, di questi stati fluidi e sempre 86

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in mutamento, dal molto concettuale al molto materiale. Ad andare nella giusta direzione sembra oggi quella scrittura che riesce a imitare, riflettere e trasformarsi in modo analogo. MEDIA NUDI: LA SCOMUNICA DI TONY CURTIS Slittamenti di questo tipo si verificano in tutti i media e possono essere descritti dal fenomeno che chiamo media nudi. Una volta che un file digitale viene scaricato dal contesto di un sito, diventa libero, nudo, spogliato dei significanti normativi esterni che tendono a dare tanto significato a un’opera d’arte quanto i contenuti dell’opera stessa. Spogliati di ogni brand e di qualsiasi nota d’accompagnamento, non più legati a nessuna fonte autorevole, questi oggetti sono nudi, svestiti. Gettati in sistemi aperti di distribuzione peer-to-peer, i file multimediali nudi spesso perdono anche la loro importanza storica e si confondono fino a diventare opere fluttuanti, che viaggiano in ambienti nei quali normalmente non sarebbero mai giunti, se avessero indossato i loro abiti convenzionali. Branding, loghi, layout e contesti creano sempre significato, ma se vengono catapultati in un ambiente digitale si destabilizzano, fino a spogliare un documento ben vestito e portarlo alla nudità, man mano che più variabili entrano in gioco. Tutti i media tradizionali che si adattano al Web vengono in qualche modo scomunicati. Un articolo su Tony Curtis, per esempio, apparso nella sezione domenicale Arts & Leisure del New York Times, risulta vestito di tutto punto, grazie alle autorevoli convenzioni del Times. Tutto, dal carattere tipografico al catenaccio all’impaginazione fotografica, denota l’autorità del quotidiano. C’è qualcosa di confortante nella lettura della sezione domenicale, prodotta e rafforzata dalla veste visiva del giornale. In ogni suo aspetto, il New York Times rappresenta la stabilità. Se cerchiamo lo stesso articolo sul sito Web del New York Times, tuttavia, scopriamo che gran parte di ciò che nella versione stampata donava stabilità al pezzo è scomparso. Tanto per cominciare, c’è una grande W di Washington sans serif invece della T di Tony nel classico nero serif. Il messaggio 87

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Fig. 3.5

New York Times, domenica 6 ottobre 2003, sezione Arts & Leisure, edizione cartacea.

quindi è che il luogo in cui è avvenuta l’intervista è più importante rispetto al protagonista dell’articolo. Sono cambiate 88

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anche altre cose, in particolare la dimensione e il carattere tipografico. Il predefinito su qualsiasi browser è Times Roman, ma, se confrontiamo il giornale con lo schermo, vedremo che quel Times Roman non è il New York Times Roman. Anche l’immagine di Curtis è diversa. È sul lato, in dimensioni ristrette, e ci ricorda i détournement dei quotidiani di Sarah Charlesworth. Il banner di Starbucks – che non compare da nessuna parte nell’edizione stampata – funziona quasi da didascalia. Potrei andare avanti, ma penso che il punto sia evidente. Potremmo dire che nella versione online l’articolo indossa abiti succinti, essendo stato spogliato degli indicatori di autorevolezza della tradizionale versione a stampa.

Fig. 3.6

Screenshot da nytimes.com, Arts & Leisure, domenica 6 ottobre 2003.

Nell’angolo in alto a destra della pagina Web c’è l’opzione per inviare via email l’articolo. Se lo facciamo, nella nostra casella di posta arriva una versione ancora più svestita. Si tratta sem89

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Fig. 3.7

Articolo spedito via email a me stesso.

plicemente di un testo. L’unica indicazione del fatto che proviene dal New York Times è una riga in alto che dice «Questo articolo dal NYTimes.com ti è stato inviato da…». Il font Times è sparito, per essere sostituito – almeno nella mia casella di posta – dal Verdana, il tipico font sans serif da schermo di Microsoft. Non ci sono immagini, né citazioni, né trattamenti tipografici, salvo il maiuscolo delle parole WASHINGTON e TONY CURTIS. Quanto sarebbe facile spogliarlo delle parole 90

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NYTimes.com. Se lo facessimo, questo file perderebbe ogni traccia d’autorevolezza, restando completamente nudo. Nei fatti, un articolo del tutto indistinguibile da qualsiasi allegato di testo che ricevo sulla mia casella di posta ogni giorno. Per spingerci ancora oltre, se tagliamo e incolliamo il testo – ed è un testo, non più un «articolo» – in Microsoft Word ed eseguiamo una funzione di modifica primitiva su di esso, per esempio la funzione di riepilogo automatico, finiamo con qualcosa che assomiglia ormai pochissimo all’articolo originale stampato su carta o a quello sul Web. Ora il titolo di testa è

Fig. 3.8

Riassunto dell’articolo. 91

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«RIASSUNTO DELL’ARTICOLO», seguito dalla sua provenienza e poi dal titolo. Curiosamente, la parola Washington, che appariva bene in vista nelle versioni precedenti, non si trova da nessuna parte. Anche il corpo del testo ora è radicalmente sconvolto e ridotto all’osso. Se dovessi prendere questo testo e inviarlo via email a un certo numero di persone o inserirlo in un software online per la manipolazione del testo, il gioco dei media nudi potrebbe continuare all’infinito. Pensate a un gioco del telefono senza fili in continua evoluzione. Più si allontanano dalle loro fonti originarie, più i file multimediali che fluttuano nella rete sono soggetti a continue mutazioni e manipolazioni.

Fig. 3.9

Pornolizer (pornolize.com).

Quando dei testi destabilizzati vengono ricontestualizzati e rivestiti di strutture «autorevoli», i risultati possono essere stridenti. Tra gli esempi di questo processo c’è l’ormai defunto Pornolizer (pornolize.com), che trasformava ogni pagina 92

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Web in un documento sconcio e sboccato, pur conservando il suo abbigliamento autorevole e sfoggiando l’architettura del sito del New York Times. Anche il suono passa attraverso diversi stati di instabilità, con sempre più variabili una volta che diventa digitale. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, la poesia sonora di Henri Chopin Rouge è stata sottoposta a diverse mutazioni, che l’hanno sia vestita che svestita. Chopin ha iniziato i suoi esperimenti col registratore a nastro a metà degli anni Cinquanta, e Rouge, registrata nel 1956, è stata uno dei suoi primi pezzi.8 È letteralmente un dipinto sonoro, la parola rouge è ripetuta con accenti diversi, quasi come fossero pennellate di diversa intensità. Le sue tecniche di manipolazione sonora e la stratificazione delle tracce audio vanno a creare una superficie sempre più densa. L’opera riflette il suo tempo; immaginatela come una tela espressionista astratta: rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge choc choc choc dur & rouge dur & rouge rouge rouge rouge bruit bruit bruit rouge rouge rouge choc choc choc rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge 93

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nu nu nu nu nu nu rouge rouge rouge rouge nu nu nu nu il n’est que veine il n’est que veine il n’est que sang il n’est que sang il n’est que chair rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge rouge il n’est que veine il n’est que veine il n’est que sang il n’est que sang il n’est que chair rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE rouGE choc choc choc ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge ROUge9

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Il pezzo descrive l’intersezione tra il corpo e la voce, uno dei maggiori interessi di Chopin, che divenne in seguito famoso proprio per le sue opere sonore fatte solamente di suoni prodotti dal proprio corpo. In seguito Chopin avrebbe infatti amplificato il suono del suo sistema di circolazione sanguigna, del suo battito cardiaco, del tratto digestivo e così via. In quest’opera degli esordi utilizza ancora il linguaggio per descrivere il corpo, anziché usare il corpo stesso. Ai suoi tempi, Rouge non divenne mai un LP «ufficiale» per un’etichetta discografica. Nacque nuda e così rimase, non pubblicata e senza editore fino a ventiquattro anni dopo, quando una galleria tedesca decise di prendersene carico.10 Grazie alla visibilità del lavoro di Chopin nel promuovere e pubblicare poesia sonora, tuttavia, i suoi nastri fecero il giro degli ambienti musicali più all’avanguardia dell’epoca.11 Un decennio dopo la sua registrazione, Rouge appare curiosamente nella prima «Regione» della composizione Hymnen del 1966 di Karlheinz Stockhausen, un mélange elettronico di inni nazionali da tutto il mondo. Anche se troncata, Rouge costituisce la base di una breve sezione dedicata allo spoken-word basata sulle varietà del colore rosso. La voce di Chopin si alterna a voci dall’accento tedesco che leggono una lista di colori Windsor & Newton. Se si ascolta da solo, decontestualizzato, questo estratto sembra un’estensione del dipinto sonoro di Chopin. Ma costretto tra le decostruzioni a nastro magnetico de L’internazionale e de La marsigliese, il suo significato cambia notevolmente. La poesia nuda è ora vestita con gli indumenti della politica di sinistra. Ventuno anni dopo, nel 1997, il duo plunderfonico Stock, Hausen & Walkman (si faccia caso al nome) riportò Rouge al suo contesto originale, inserendo un suo campionamento in una traccia pop dal tono ironico, «Flagging» (flagging significa debole, affaticato, che si affievolisce o si accascia; una condizione che si verifica con la perdita di sangue). Tra voci un po’ sdolcinate, ritmi percussivi e lezioni di matematica prese da dischi per bambini, il pezzo di Chopin viene strappato all’agenda politica di Karlheinz Stockhausen e riavvicinato 95

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alle sue origini corporee. Ma è un gesto di svuotamento: alla fine Rouge è solo un campionamento tra i tanti, parte di un rumoroso paesaggio in cui i suoni sono facilmente ottenuti e facilmente manipolati. In tale paesaggio, nessun suono sembra avere più senso di un altro. L’immagine corporea e brutale del rosso di Chopin indossa ora un abito kitsch, che la fa somigliare più a Betty Page che ad Antonin Artaud. Stock, Hausen & Walkman sono noti per il loro senso grafico. Sanno come impacchettare un prodotto che visivamente rappresenti la loro pratica musicale. L’imballaggio – o, in altre parole, il vestito – crea un contesto di valore. I nuovi abiti con cui Stock, Hausen & Walkman abbigliano Rouge rimettono in circolazione la poesia di Chopin vestita di tutto punto. In fatto di vestizione, la feticizzazione delle avanguardie storiche da parte della cultura popolare ha raggiunto livelli altissimi quando la famosa rock band Sonic Youth ha pubblicato un CD intitolato Goodbye 20th Century (1999). Con quel disco la band si avventurava nelle cover di alcune delle più difficili opere di John Cage e George Maciunas, tra gli altri. In una curiosa confluenza tra sensibilità metropolitana e marketing di massa, migliaia di fan dei Sonic Youth, amanti del rock e del Lollapalooza, hanno acquistato il disco e si sono esposti a ciò che, fino a poco tempo prima, risiedeva ai margini delle avanguardie storiche. Attraverso gesti come questi, le avanguardie diventano commercializzabili e, in alcuni casi, mercificate. Basta aggirarsi in un buon negozio di dischi o nel negozio di souvenir di un museo per notare centinaia di manufatti legati alle avanguardie storiche, splendidamente riconfezionati per essere comprati, che si tratti di ristampe di musica d’avanguardia o di eleganti e bellissime monografie di artisti o movimenti un tempo marginali, come Fluxus. Tuttavia, una volta acquistati, questi articoli possono essere rimessi in circolo come media nudi attraverso la condivisione peer-to-peer. Grazie a internet, alcuni di questi materiali, creati in origine da un gesto antiautoritario, vengono riportati al loro radicale intento originario. Per via delle proprietà manipolative dei media digitali, 96

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queste opere d’arte sono suscettibili di remix e storpiamenti su vasta scala. Non si avrà così mai la versione unica, quella che gode dell’autorevolezza conferita dai media tradizionali. Sono lavori in continua evoluzione, che operano nella più estesa economia del dono finora conosciuta. Queste circostanze sollevano diverse domande: in che modo la varietà dei contesti influenza la ricezione culturale di questi oggetti? Chi o cosa determina il valore di un artefatto, sia a livello commerciale che intellettuale? In che modo questo, a sua volta, influisce sulla reputazione dell’artista, sia in senso commerciale che intellettuale? Se gli artefatti sono soggetti a continua mutazione, quando si può dire che un’opera storica è «finita»? È un po’ troppo presto per rispondere a queste domande. Cresciuti a libri e dischi – media dalla forma vestita e stabile – è difficile per noi accettare di riconoscere come «autentici» artefatti culturali che sono in costante mutamento. Quando Ulisse arrivò sui nostri scaffali, le uniche nuove versioni del libro che lo seguirono furono correzioni tipografiche e edizioni annotate, che non hanno fatto altro che dare concretezza all’idea che Joyce fosse un genio unico. Fatta eccezione per le fotocopie e i collage, un remix di testi dell’estensione dell’Ulisse era difficile da immaginare. In materia di testi, non abbiamo mai visto nulla di lontanamente simile al fenomeno del bootleg, ma siti che distribuiscono gratuitamente libri non autorizzati, con testo copiabile e ricercabile – soprattutto testi accademici e di teoria – stanno rapidamente proliferando. E quando spunteranno nuovi e-reader in grado di leggere file open source, vedremo ancora più remix testuali. Se è vero che i documenti nudi di Microsoft Word o i file .rtf hanno sempre fluttuato nel Web, la mancanza di informazioni sulla provenienza, o di un marchio, ha stranamente scoraggiato questo tipo di gesti. Oggi la diffusione di PDF ben vestiti e ben formattati, provenienti dalle university press ma distribuiti illegalmente, fa sì che i testi vengano catalogati e archiviati con maggiore cura sul proprio computer, come oggetti potenzialmente utili. Seppur gratuite, il fatto che esistano versioni 97

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autorevoli di un testo indica che quel testo è maturo per la decostruzione.12 Già nel 1983, John Cage predisse e sposò l’idea che gli instabili testi elettronici fossero potenziali fonti per operazioni di remix: La tecnologia è essenzialmente un mezzo per fare le cose con minor sforzo. E non è una cosa negativa, anzi è una bella cosa... Gli editori, i miei editori musicali, i miei editori di libri, sanno che la fotocopiatrice è una minaccia reale alla loro esistenza futura; eppure continuano a lavorare. Dovremmo arrivare a eliminare non solo la pubblicazione ma lo stesso bisogno di fotocopiare, e connettere la fonte al telefono, in modo che chiunque possa ottenere qualunque cosa desideri in qualunque momento. E allo stesso modo possa cancellarla; così la tua copia di Omero, per dire, può diventare una copia di Shakespeare, mi spiego? Attraverso la cancellazione e la stampa veloci, eh? […] Perché è all’immediatezza elettronica che stiamo andando incontro.13

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4 VERSO UNA POETICA DELL’IPERREALISMO L’ascesa delle politiche che riguardano questioni identitarie ha dato voce a molti che prima non l’avevano. E c’è ancora molto lavoro da fare: tante voci sono ancora emarginate e ignorate. Bisogna fare tutto il possibile per garantire che chiunque ha qualcosa da dire abbia un posto per dirlo e un pubblico che lo ascolti. L’importanza di un lavoro del genere non può essere sottovalutata. Eppure l’identità è una questione sfuggente, e nessun approccio univoco è in grado di definirla. Per esempio, non credo esista un «io» stabile o essenziale. Io sono una fusione di molte cose: dei libri che ho letto, dei film e degli spettacoli televisivi che ho visto, delle conversazioni che ho avuto, delle canzoni che ho cantato e degli amori che ho vissuto. In realtà, sono il risultato creativo di così tante persone e così tante idee che credo di aver generato davvero pochi pensieri e idee originali; ritenere ciò che considero «mio» come «originale» sarebbe di un egoismo cieco. A volte credo di avere un pensiero o un sentimento mio e poi, alle due del mattino, mentre guardo un vecchio film che non vedevo da anni, noto che il protagonista dice qualcosa che ho rivendicato come originale. Ossia ho preso le sue parole (che ovviamente non erano davvero «sue parole»), le ho interiorizzate e le ho fatte mie. Tutto questo succede di continuo. Spesso – perlopiù inconsciamente – do forma alla mia identità su modelli imposti dalle pubblicità. Mentre cerco i vestiti in un negozio, di fronte mi si palesa l’immagine di qualche annuncio e nella quale inserisco mentalmente me stesso e la mia figura. È tutta una fantasia. Credo di poter dire che una parte enorme della mia identità viene proprio dalla pubblicità. Vivo in questa cultura; come potrei ignorare forze così potenti? È una condizione ideale? Probabilmente no. Mi piace essere influenzato dalla forza della pubblicità e del consumismo? Certo che no, ma prenderei in giro me stesso se non ammettessi che tutto ciò è parte determinante nella definizione di chi sono in quanto membro di questa cultura. 99

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Le persone transgender lottano per diventare le persone che sono, non quelle che erano alla nascita. Si trovano costantemente in uno stato di rifacimento, e lottano coraggiosamente tutta la vita per adottare nuove e più fluide identità. L’idea di lavorare su identità così fluide e mutevoli è di grande ispirazione per me. Su internet queste tendenze corrono in diverse direzioni, e le identità coprono tutta la gamma che va dall’autenticità alla totale finzione. Con molto meno dispendio che nel mondo fisico, siamo in grado di proiettare personalità multiple grazie a semplici colpi di tastiera. Online, tendo a trasformarmi in più direzioni: in una chatroom sono una donna; in un blog sono un conservatore; in un forum sono un golfista di mezza età. E la mia autenticità o il fatto che io sia reale non vengono mai messi in dubbio. Al contrario, mi chiamano «signora» o «stronzetto di destra». Di conseguenza, tendo sempre a pensare che la persona a cui credo di rivolgermi su internet non sia mai realmente «quella persona». Se la mia identità è davvero a portata di mano e cambia di minuto in minuto – come credo che sia – è importante che la mia scrittura rifletta questo stato di identità e soggettività sempre mutevole. Ciò significa adottare anche voci che non sono «mie», soggettività che non sono «mie», posizioni politiche che non sono «mie», opinioni che non sono «mie», parole che non sono «mie», perché in fondo non penso di saper definire cosa è veramente mio e cosa non lo è. A volte, attraverso la riproduzione senza alcun intervento di testi, possiamo far luce su questioni politiche in modo più profondo e illuminante di quanto faremmo con la critica convenzionale. Se si volesse per esempio criticare la globalizzazione, la risposta di uno scrittore non creativo potrebbe essere quella di replicare e reinquadrare la trascrizione di una riunione del G8 nella quale il vertice si rifiutava di ratificare le minacce derivanti dall’attuale cambiamento climatico, rivelando in questo modo molto più di quanto si sarebbe potuto fare con la pubblicazione di un semplice editoriale. Lascia 100

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che il testo parli da solo: nel caso del G8, si impiccheranno con la loro stessa stupidità. Io la chiamo poesia. Non importa cosa facciamo con il linguaggio, sarà comunque espressivo. Come potrebbe essere altrimenti? In realtà, ho la sensazione che, quando si lavora con il linguaggio, sia impossibile non esprimere il proprio sé. Se facciamo un passo indietro e lasciamo che il materiale lavori per conto proprio, potremmo rimanere sorpresi e deliziati dai risultati. La scrittura non creativa è una letteratura post-identitaria. Con la frammentazione digitale, ogni senso unitario di autenticità e coerenza è stato messo da parte. Walter Ong considera la scrittura una tecnologia, e quindi un atto artificiale: «Le tecnologie non sono semplici aiuti esterni, ma comportano trasformazioni delle strutture mentali, in special modo quando hanno a che vedere con la parola. […] Le tecnologie sono artificiali, ma – di nuovo il paradosso – l’artificialità è naturale per gli esseri umani. La tecnologia, se propriamente interiorizzata, non degrada la vita umana, ma al contrario la migliora».1 Robert Fitterman, le cui opere affrontano le nostre mutevoli identità plasmate dalle forze del consumismo, afferma: Possiamo esprimere una soggettività, persino un’esperienza personale, senza necessariamente usare la nostra esperienza personale? […] Esiste chiaramente il desiderio di affrontare o recuperare il personale. A me l’inclusione della soggettività e dell’esperienza personale interessano; preferisco solo che non siano le mie. Oggi ho accesso a un numero illimitato di affermazioni personali ed espressioni che vengono dalla pancia o dal cuore. Perché ascoltare la mia pancia quando potrei ascoltare migliaia di pance? […] Per gli scrittori diventati maggiorenni negli anni Settanta e Ottanta, quella delle identità multiple e dell’appropriazione delle identità è quasi una lingua nativa, una conseguenza naturale delle molteplici personalità progettate e poi prese di mira dagli strateghi del mercato.2

Fitterman cita l’artista visivo Mike Kelley, il quale inquadra il discorso sull’identità in termini di consumismo: «Il glam rock 101

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era un genere che aveva compreso appieno il mondo della musica commerciale e accettava la sua parte di facciata, vuota, utilizzando l’immagine della drag queen come simbolo del suo status […]. David Bowie adotta personaggi, li butta via per capriccio e si reinventa continuamente per il mercato. Rispecchia la nostra cultura dell’obsolescenza programmata. Qualcuno ha suggerito che, per la cultura del consumo, il personaggio camaleontico in continua evoluzione rappresenti l’empowerment».3 La scrittura deve muoversi in questa direzione. Eppure, chi non si commuove di fronte a una storia autentica? Di sicuro, quella di Barack Obama è una delle narrazioni sull’identità di maggior ispirazione degli ultimi tempi. In un discorso pronunciato in Kenya, nel villaggio dei suoi antenati, in una scuola intitolata in suo onore, ha parlato dell’orgoglio delle sue origini e di come il Kenya ha dato a suo nonno quei valori che avrebbero poi portato la famiglia Obama a grandi risultati negli Stati Uniti: «È cresciuto da queste parti. Badava alle capre del mio bisnonno, e forse a volte frequentava una scuola non tanto diversa dalla Senator Barack Obama School. A parte il fatto che probabilmente era più piccola, meno attrezzata e aveva molti meno libri, gli insegnanti venivano pagati molto meno e a volte non c’erano abbastanza soldi in casa per mandare mio nonno a scuola ogni giorno. Eppure, malgrado tutto ciò, la comunità lo ha aiutato a elevarsi e gli ha dato la possibilità di diplomarsi alle scuole superiori, poi di laurearsi e infine di svolgere un dottorato di ricerca a Harvard».4 L’America è piena di storie incredibili. C’è anche quella dello scrittore americano-armeno Ara Shirinyan, nato nella Repubblica Socialista Sovietica di Armenia all’interno dell’URSS, in una famiglia costretta alla diaspora nel Medio Oriente a seguito del genocidio armeno. Nel 1987 la sua famiglia si è trasferita negli Stati Uniti, con millecinquecento dollari e qualche valigia. Suo padre ha iniziato a lavorare come gioielliere già dal secondo giorno dal nuovo arrivo. Sua madre ha fatto lo stesso, come restauratrice di tappeti antichi. Lavoravano sette giorni a settimana, e un anno dopo il loro 102

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arrivo avevano già comprato una casa. L’attività di suo padre crebbe quando iniziò a produrre gioielli in proprio, ne vendeva a chili. Quando andò in pensione, la sua azienda occupava l’intero piano di un grande edificio nel centro di Los Angeles. Ara, cresciuto frequentando le scuole pubbliche, gode ora di una reputazione internazionale e di una promettente carriera come scrittore. È molto attivo nella ristretta comunità di armeni americani. È una storia commovente. Ma allora perché quando ha pubblicato un libro sul concetto di nazionalità, che poi è stato anche premiato, Ara ha scelto di non scrivere della propria identità? Nel suo libro Your Country Is Great ha preso i nomi di tutti i paesi del mondo, li ha messi in ordine alfabetico e ha cercato su Google la frase «[nome del paese] is great», incappando perlopiù in recensioni di utenti su siti di viaggio, selezionando e ordinando i risultati per nazione. Poi ha lavorato sui commenti, ogni strofa rappresenta un’opinione diversa. Il risultato è una guida Baedeker multinazionale di opinioni e contenuti generati dagli utenti. Di provenienza sconosciuta e senza firma, l’opera è a tratti brutta e a tratti meravigliosa, utile e dannosa, veritiera e fuorviante, fondamentale e del tutto irrilevante. Applicando una metodologia fredda e razionale a queste discussioni intrinsecamente appassionate sull’identità, Shirinyan lascia parlare le parole, autorizzando il lettore a elaborare le opinioni espresse. Nel libro, il suo paese d’origine, l’Armenia, non viene trattato diversamente dal paese che lo segue in ordine alfabetico, Aruba: L’ARMENIA È FANTASTICA L’Armenia è un paese fantastico famoso per la sua cristianità! L’Armenia è fantastica, e Yerevan è una città dove la gente vive la vita al massimo Ti amo Yerevan, 103

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amo le tue strade, i tuoi marciapiedi, L’Armenia è fantastica tutti dovrebbero tornarci almeno una volta le nuove informazioni sull’Armenia sono fantastiche un sacco di ottime informazioni Dovrò ricordarmi di non dare a nessuno 2 fiori! Neanch’io parlo la nostra lingua L’Armenia è fantastica, comunque. Ci sono stato e mi sono fatto tanti amici anche se non riuscivo a spiccicare parola. Viaggiare in Armenia è un grande traguardo! Conoscere il nostro Passato Vuol dire comprendere Noi stessi strade e marciapiedi rinnovati, e grattacieli di altezze mai viste in costruzione L’Armenia ha un grande futuro. Con estati così calde e inverni così freddi imparerete un sacco sulla storia di Yerevan L’Armenia è fantastica La amo, ma non credo faccia per me.5 104

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ARUBA È FANTASTICA aruba è fantastica ha delle spiagge bellissime e la gente è fantastica Aruba è fantastica per le immersioni e per guardare la vita sottomarina con una visibilità fino a 30 m. Vedrete spugne marine, Mante che volteggiano, tartarughe marine, aragoste Il servizio taxi ad Aruba è fantastico, ma a noi piace prendere e andare ovunque e in qualunque momento vogliamo, perciò il noleggio è la soluzione perfetta per noi. Aruba è fantastica per i suoi panorami, lo shopping e una varietà di sport acquatici. Dovreste pensare a noleggiare un’auto per esplorare l’isola. Aruba è fantastica, neanche una goccia di pioggia, a malapena qualche nuvola eppure non fa mai troppo caldo Aruba è fantastica, ci sono andata in luna di miele l’anno scorso. La adoro! Ci sono molti posti dove alloggiare. Il Marriot è carino, il Wyndham è carino. Aruba è fantastica per i single, le coppie e le famiglie. Probabilmente i migliori corsi di minigolf 105

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del mondo sono ad Aruba Aruba è fantastica per un viaggio di nozze per i seguenti motivi: 1. Niente uragani 2. Clima prevedibile 3. Un sacco di cose da fare Aruba è fantastica. Se uscite presto, non dimenticate di fare snorkelling. C’è un party bus per fare il giro dei bar6

Cosa scopriamo dell’Armenia o di Aruba? Non molto. Shirinyan rinuncia a qualsiasi narrativa personale per mettere in evidenza una questione più ampia: gli effetti attenuanti che la globalizzazione ha sul linguaggio. Facendo collassare lo spazio tra il «mondo reale» e il World Wide Web, il suo libro solleva domande del tipo: cos’è locale? Cos’è nazionale? Cos’è la multiculturalità? Invece di dare per scontate le normali nozioni di linguaggio come mezzo di differenziazione, Shirinyan dimostra in modo persuasivo il suo carattere livellatore, demolendo i significati in una pozzanghera di banalità, in un tempo storico in cui tutto è great, fantastico, ma nulla lo è veramente. È great se ci sono stato: il turismo globale come autorità. L’attenta selezione e giustapposizione di frasi fatta da Shirinyan rende questo lavoro un esempio da manuale, che ci mostra come uno scrittore possa definire una pratica di scrittura post-identitaria alimentata dalla tecnologia, inducendo il lettore a chiedersi se davvero l’identità dell’autore ha a che fare con la persona che l’ha scritta. Tuttavia, l’uso della prima persona è ancora in bella vista, adottato in modo strategico e libero, ma non specifico, per dar vita a un lavoro che è allo stesso tempo fieramente nazionalistico e sorprendentemente insulso. 106

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L’artista francese Claude Closky, nel suo libro Mon Catalogue, fa un diverso ma altrettanto spassionato tentativo, elencando ogni cosa in suo possesso accompagnata dal testo pubblicitario che promuoveva quell’oggetto. Per farlo ha semplicemente sostituito la direttiva «tu» o «tuo» con un soggettivo «io» o «mio». Un estratto dice: IL MIO FRIGORIFERO Il volume utilizzabile del mio frigorifero è di gran lunga superiore alle normali capacità e mi permette di conservare prodotti freschi e surgelati. Il comparto carne, con la temperatura regolabile, e il cassetto della verdura, con il controllo dell’umidità, mi assicurano una perfetta conservazione del cibo. Inoltre, il raffreddamento a ventola produce e conserva per me sia il ghiaccio che l’acqua fresca. Inoltre, il mio frigorifero è dotato di un rivestimento antibatterico che mi aiuta a mantenerlo pulito. IL MIO GEL DETERGENTE Per opacizzare gradualmente l’aspetto lucido della mia pelle, restringere i pori dilatati ed eliminare i punti neri, ho una soluzione: detergere il viso ogni sera con il mio gel purificante allo zinco, noto per essere un regolatore attivo di sebo che elimina, senza irritare, le impurità accumulate durante il giorno. La mia pelle non è più lucida. Le proprietà emollienti dello zinco, rinforzate da un agente idratante, ammorbidiscono e rilassano le zone secche del mio viso. La mia pelle non tira più. I MIEI OCCHIALI DA SOLE Neutralizzo i raggi del sole con i miei occhiali senza montatura. Veri scudi contro i raggi UV e la luce troppo intensa, li apprezzo anche da un punto di vista estetico, dato che incorniciano perfettamente il mio viso. Grazie all’avvolgente lente antiurto Lexan, posso godere della visione panoramica. Filtrando i 107

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raggi ultravioletti da ogni lato, i miei occhi sono protetti non solo dal sole, ma anche dal vento, dalla sabbia e dalla polvere. Un’ultima finezza: una fascetta di gommapiuma circonda perfettamente il mio viso, garantendo comodità e aderenza perfetta. Estremamente leggeri, mi piace indossarli in ogni occasione. Con la loro corda rimovibile, li apprezzo anche quando pratico i miei sport preferiti.7

Dal delirio consumistico Closky produce un sovraccarico di linguaggio, una forma contemporanea di autoritratto, definendo intenzionalmente una persona non soltanto attraverso ciò che possiede, ma anche dalla sua libertà di lasciarsi completamente possedere dai suoi stessi beni. Rifiutando ogni moralizzazione, approccio opinionistico o volontà di emulazione, si propone come un consumatore definitivo, un uber-consumatore. Non ha bisogno di essere conquistato, si è già venduto. Se ti dico che non solo comprerò tutto ciò che stai cercando di vendermi, ma che abbraccerò i tuoi prodotti fino a strangolarli, a che servono i tuoi tentativi di convincermi? Closky è un passo avanti ai marketing manager e, così facendo, propone un antidoto linguistico al capitalismo che si rivolge al consumatore. In S/Z Roland Barthes esegue un’esaustiva decostruzione strutturalista di Sarrasine di Honoré de Balzac, in cui rivela come nel racconto i significanti dei valori di classe vengono espressi in affermazioni apparentemente innocue che riguardano feste, arredi o giardini. Con il suo libro Barthes offre gli strumenti per estrapolare simili codici da qualsiasi opera d’arte. Ma la scrittura non creativa potrebbe consentire l’inversione del progetto di Barthes, una situazione in cui i codici di solito nascosti vengono portati alla luce e messi in primo piano, a costituire l’intera opera d’arte. Come tanta pubblicità, musica, cinema e arte visiva, il discorso letterario viene portato a un livello più alto. Che cosa ce ne facciamo di un testo come First My Motorola di Alexandra Nemerov, che è un elenco di tutti i marchi che Nemerov ha toccato nel corso di una giornata, in 108

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ordine cronologico, dal momento in cui si è svegliata fino a quando è andata a dormire? Il pezzo inizia: Prima il mio Motorola Poi le mie Frette Poi il mio Sonia Rykiel Poi il mio Bulgari Poi il mio Asprey Poi il mio Cartier Poi la mia Kohler Poi il mio Brightsmile Poi la mia Cetaphil Poi il mio Braun Poi il mio Brightsmile Poi la mia Kohler Poi la mia Cetaphil Poi i miei Bliss Poi il mio Apple Poi i miei Kashi Poi la mia Maytag Poi il mio Silk Poi il mio Pom

e finisce: Poi la mia Ralph Lauren Poi il mio La Perla Poi il mio H&M Poi la mia Anthropology Poi il mio Motorola Poi il mio Bulgari Poi il mio Asprey Poi il mio Cartier Poi le mie Frette Poi il mio Sonia Rykiel E infine, il mio Motorola.8

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Nemerov non dispone questi brand in termini di simpatia o antipatia, a differenza di Closky che per esempio professava «allegramente» di «amare» il suo frigorifero a umidità controllata. Qui non ci sono altro che marchi. Nemerov è un numero, un guscio, una pura consumatrice robotica. Mettendo in atto il famoso slogan di Barbara Kruger, «Compro quindi sono», crea sfacciatamente un nuovo tipo di autoritratto: quello di un target connivente, il sogno di ogni addetto al marketing. Nel 2007 Time Magazine ha messo in dubbio il fatto che la donazione da duecento milioni di dollari che l’ereditiera farmaceutica Ruth Lilly ha fatto alla Poetry Foundation possa davvero cambiare il modo in cui le persone si relazionano alla poesia: «I duecento milioni non cambiano nulla; niente, nemmeno i soldi possono convincere le persone a godersi qualcosa contro la propria volontà. Ciò di cui la poesia ha veramente bisogno è uno scrittore che possa fare quello che Andy Warhol ha fatto per l’arte visiva d’avanguardia: l’ha resa sexy, bella e accessibile, senza renderla stupida o paternalistica. Quando arriverà quello scrittore, i cambiamenti culturali avverranno rapidamente e senza alcuno sforzo».9 Se è vero che questa affermazione contiene una serie di criticità – scegliendo Warhol, l’autore dell’articolo spera nel ritorno a uno specifico momento culturale, quello che ha permesso a Warhol di diventare Warhol: gli anni Sessanta, un’epoca che non credo proprio tornerà – la sfida che pone è valida e pone una domanda sul perché non ci sia ancora stato un Andy Warhol nel mondo della poesia. Potreste pensare che negli anni d’oro dell’amministrazione di George W. Bush i poeti pro-consumismo sarebbero usciti allo scoperto. Invece no. Al contrario, i poeti di corte dell’era Bush, come Billy Collins, che scrisse della pesca sul Susquehanna nel mese di luglio (anche se la poesia parla proprio del fatto che lui non pesca lì), o Ted Kooser, con le sue descrizioni pastorali delle altalene sotto i portici a settembre, o Donald Hall e il suo mondo rurale fatto di nostalgici carrettieri 110

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di buoi, erano irrimediabilmente distanti da ciò che ossessiona la maggior parte degli americani (e la maggior parte del mondo): comprare cose. In fin dei conti, non sorprende che un poeta pro-Bush ritorni a una forma di poesia nostalgica, ignaro del fatto che la sua poesia mette in scena il simulacro di un’epoca in cui i poeti scrivevano genuinamente dei «veri» valori americani. Il mondo della poesia non ha ancora vissuto la sua Pop Art – e la Pop Art ha avuto luogo oltre cinquant’anni fa. Nonostante le molte proposte di usare il linguaggio in modi alternativi (poesia concreta, language poetry, narrativa innovativa in stile FC2, ecc.), nell’immaginario popolare la scrittura ha mantenuto in linea di massima il suo utilizzo tradizionale, narrativo e trasparente, che le ha impedito di intraprendere una svolta come quella della Pop Art. Mentre, per esempio, la scuola di New York giocherellava con il consumismo in modo dolce, usando il pop come portale per la soggettività (O’Hara: «Bere una Coca Cola con te / è ancora più divertente che andare a San Sebastian, Irú, Hendaye, Biarritz, Bayonne»)10 non si è mai avvicinata alla fredda obiettività, alle profetiche nude parole di Warhol: «Una Coca è una Coca e nessuna somma di denaro ti può permettere una Coca migliore di quella che si beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Liz Taylor lo sa, lo sa il presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu».11 Il numero di luglio/agosto 2009 della rivista Poetry, pubblicata dalla Poetry Foundation, inizia con una breve poesia di Tony Hoagland intitolata «At the Galleria Shopping Mall», che ci avverte delle insidie del consumismo: Ho appena superato il cestino dei calzini color pastello per neonati, ci sono delle tv made in China da 49 dollari; una canticchia notizie su una guerra lontana, una paragona le tette di un’attrice di Hollywood alle tette di un’attrice di Bollywood. 111

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Ed ecco mia nipote Lucinda, che ha nove anni ed è una vera figlia del Texas, che ha sviluppato l’andatura di una bionda di razza E dichiara che il suo sport preferito è lo shopping. Oggi è il giorno in cui parte per il suo viaggio, agitando la carta di credito come una falce lungo le praterie della merce dorata. Oggi è il giorno in cui smette di guardare i volti e comincia a valutare le etichette delle borse; E allora che il viaggio abbia inizio. Che si tuffi nell’abbagliante abbondanza per risalire in superficie e tuffarsi di nuovo. E lasciateci guardare. Così come gli dèi nelle storie dell’antichità trasformavano i mortali in alberi di lauro e corvi per insegnare loro qualche tipo di lezione, così noi siamo stati trasformati in americani per imparare cos’è la solitudine.12

La povera Lucinda è ingannata dall’antico adagio «non è tutto oro quello che luccica», e perde la sua umanità in questo processo: «Oggi è il giorno in cui smette di guardare i volti / e comincia a valutare le etichette delle borse». L’unico modo in cui questa bambina può imparare la sua lezione è quello in cui noi anziani/dèi abbiamo imparato la nostra: solo dopo aver ceduto alle tentazioni, ci siamo resi conto della follia dei nostri desideri. Ah, beata gioventù! La natura telescopica della poesia si amplia nell’ultima strofa per permetterci di fermarci a pensare – come cultura, come nazione – a quanto 112

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tutto questo ci abbia alienato, reso soli e separati dall’umanità. È una poesia che ha qualcosa di specifico da insegnarci, che comunica valori reali e pieni di saggezza, mentre scuote sapientemente il dito contro le follie della giovinezza. Fornendoci istantanee di momenti specifici – calzini per bambini color pastello, biancheria intima, televisori fatti in Cina – Hoagland tenta di dipingere in modo sintetico ciò che Rem Koolhaas chiama «Junkspace»: quel tipo di architettura provvisoria che dà vita a centri commerciali, casinò, aeroporti e così via. Ma provare a specificare o stabilizzare qualcosa nel Junkspace è contro la sua stessa natura: «Dato che non può essere afferrato, il Junkspace non può essere ricordato. È appariscente ma non memorabile, come uno screensaver; il suo rifiuto di congelarsi assicura l’amnesia istantanea. Il Junkspace non pretende di creare perfezione, ma solo interesse […]. Nel Junkspace i marchi svolgono lo stesso ruolo dei buchi neri nell’universo: sono essenze attraverso le quali il significato scompare».13 Come il cavalletto di un pittore piazzato all’ingresso del mezzanino di J.C. Penny, che cerca di restituire l’esperienza di un centro commerciale in un dipinto a olio, Hoagland sceglie l’approccio sbagliato con materiali sbagliati: le immagini evocative non si librano in questo spazio senza peso. Nello stesso numero di Poetry c’è una poesia di Robert Fitterman intitolata «Directory», che è invece il semplice elenco dei negozi di un centro commerciale senza nome, ripetuta con attenzione alla forma poetica, alla metrica e al suono. Koolhaas ci dice che il Junkspace è un labirinto di riflessi: «Promuove il disorientamento con ogni mezzo (specchi, superfici lucide, echi)».14 L’elenco dei negozi del mall presentato da Fitterman vuole essere tanto paralizzante, morto e noioso quanto l’esperienza del centro commerciale stesso, incoraggiando espressamente il disorientamento linguistico attraverso la riflessione piuttosto che l’espressione: Macy’s Circuit City Payless Shoes 113

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Sears Kay Jewelers GNC LensCrafters Coach H&M RadioShack Gymboree The Body Shop Eddie Bauer Crabtree & Evelyn Gymboree Foot Locker Land’s End GNC LensCrafters Coach Famous Footwear H&M LensCrafters Foot Locker GNC Macy’s Crabtree & Evelyn H&M Cinnabon Kay Jewelers Land’s End Hickory Farms GNC The Body Shop Eddie Bauer Payless Shoes Circuit City Kay Jewelers 114

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Gymboree The Body Shop Hickory Farms Coach Macy’s GNC Circuit City Sears H&M Kay Jewelers Land’s End LensCrafters Eddie Bauer Cinnabon RadioShack GNC Sears Crabtree & Evelyn15

La lista di Fitterman ricorda le parole di Koolhaas quando parla del Junkspace dell’aeroporto di Dallas/Fort Worth (DFW): «DFW è composto da soli tre elementi, ripetuti all’infinito, nient’altro: un tipo di trave, un tipo di mattone, un tipo di piastrelle, tutto rivestito dello stesso colore… è verde acqua? Ruggine? Tabacco?… Il suo drop-off è l’inizio apparentemente innocuo di un viaggio nel cuore del nulla assoluto, a parte l’animazione di Pizza Hut, Dairy Queen…».16 La non specificità ripetuta di Fitterman rispecchia la natura del capitalismo globale, presentandoci marchi dal nome immediatamente riconoscibile in un flusso anestetizzante. È come se RadioShack e Circuit City fossero intercambiabili… e non lo sono forse davvero? L’effetto della poesia di Fitterman ricorda gli sfondi dei Flintstones, con lo stesso albero e la stessa montagna che continuano a scorrere di continuo: H&M, 115

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Kay’s Jewelers e The Body Shop si continuano a ripetere. E alienati o rinvigoriti come la nipote di Hoagland, il mortale elenco di negozi di Fitterman ci dà la sensazione di trovarci davvero in un centro commerciale. Facendo ben poco, Fitterman ci regala un’esperienza più realistica di quella di Hoagland, senza ricorrere al sermone per convincerci della sua idea. La lezione della poesia è nell’esperienza stessa della poesia. L’ex poeta di corte statunitense Donald Hall, nella sua poesia «Ox Cart Man», scrive di un diverso tipo di esperienza del mercato: Nel mese di ottobre, conta le patate raccolte dal campo marrone, conta i semi, conta la parte da conservare in cantina, e ripone il resto in sacchi sul carro. Imballa la lana tosata ad aprile, il miele in favi, il lino, la pelle di cervo tinta, e l’aceto in un barile al fuoco della fucina. Cammina accanto alla testa del suo bue, dieci giorni per arrivare al mercato di Portsmouth, e vendere patate, e il sacco che contiene le patate, semi di lino, ramazze di betulla, sciroppo d’acero, piume d’oca, filo. Quando il carro è vuoto vende il carro. Venduto il carro vende il bue, le briglie e il giogo, e camminando torna a casa, le tasche appesantite dal denaro per il sale e le tasse dell’anno, e a casa alla luce del focolare nel freddo di novembre 116

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cuce nuove briglie per il bue nella stalla l’anno prossimo, e intaglia il giogo, e sega assi per ricostruire il carro.17

A differenza della nipote di Hoagland, che non produce nulla e in quel momento della sua vita è capace solo di consumare ciecamente, o della visione del consumismo oggettivata da Fitterman, Hall ci presenta un’immagine idealizzata e nostalgica, che sembra una litografia di Currier and Ives. Un tempo in cui gli uomini erano onesti e facevano un lavoro onesto; quando non solo coltivavano, raccoglievano, confezionavano e trasportavano i frutti della terra, ma li vendevano anche. Da ottobre a novembre lavoravano duramente, esaurendo e reintegrando le scorte per la stagione seguente, in accordo con il ciclo della natura. In una recensione di Selected Poems di Hall, Billy Collins scrisse sul Washington Post: «Hall è stato a lungo collocato nella tradizione frostiana del poeta rurale che parla chiaro. Il suo affidarsi a una dizione semplice e concreta e la sequenza pragmatica della proposizione dichiarativa conferisce stabilità alle sue poesie e le permea di un tono di sincera autorità. È un tipo di semplicità che riesce a coinvolgere il lettore sin dalle prime righe».18 Direi che la «semplicità» di Fitterman esprime una verità molto più vicina all’esperienza quotidiana della maggior parte delle persone di quanto lo siano i sentimenti moralistici di Hoagland o i i quadretti rurali nostalgici e rustici di Donald Hall. E in questo penso si tratti di espressioni veramente populiste: cosa c’è di più facile da capire di una lista di negozi di un centro commerciale, che riporta direttamente all’esperienza della maggior parte dei pendolari americani e alle normali interazioni dentro questi luoghi immensi? Un’accusa comune lanciata alle avanguardie è che sono elitarie e distaccate, concentrate nella loro torre d’avorio, per i pochi che ne sono a conoscenza. E sono d’accordo che sotto le mentite spoglie del populismo siano stati prodotti molti lavori «difficili», poi respinti dal pubblico come inde117

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cifrabili o, peggio, irrilevanti. Ma la scrittura non creativa è sinceramente populista. Perché la scrittura non creativa di Fitterman mette in chiaro le sue intenzioni sin dall’inizio, dicendo esattamente in cosa consiste prima che si inizi a leggerla; è impossibile non riuscire a capirla. Ma da qui nasce la vera domanda: perché? E con questa domanda ci spostiamo in un territorio concettuale che ci allontana dall’oggetto e ci porta nel regno della speculazione. A questo punto potremmo benissimo gettare via il libro e portare avanti la discussione, una mossa che la scrittura non creativa loderebbe: il libro come piattaforma per tuffarsi nel pensiero. Partiamo dalla convinzione di avere dei lettori e finiamo per accogliere dei pensatori. Rinunciando al fardello della lettura, e quindi ai lettori, possiamo iniziare a pensare alla scrittura non creativa come se potenzialmente fosse un corpus letterario comprensibile a chiunque. Se capisci il concetto (e i concetti sono semplici) – indipendentemente dalla tua origine geografica, dal reddito, dall’istruzione o dalla classe sociale – puoi affrontare questa scrittura. È aperta a tutti. Questa modalità di scrittura non creativa offre una poetica del realismo, che ricorda l’impulso documentaristico della serie I Rougon-Macquart, nella quale, dietro le vesti del tascabile da quattro soldi, Zola si è fatto carico dell’enorme progetto di descrivere al meglio la vita in Francia durante il Secondo Impero. Dal contadino al prete, dai mercati di generi alimentari ai grandi magazzini, Zola sosteneva che il suo lavoro trascendesse la pura finzione; il suo intento era «rigorosamente naturalista, rigorosamente da fisiologo»,19 un’affermazione più vicina a de Certeau che a Balzac. Ispirata da Zola, la nuova scrittura cerca il realismo oltre il realismo: è iperrealista, un fotorealismo letterario. Normalmente si dice che l’avanguardia si può solo insegnare nei corsi avanzati, ma Craig Dworkin, professore all’Università dello Utah, la pensa diversamente. Ritiene che un testo come Teneri bottoni di Gertrude Stein funzioni a qualsiasi livello, perché non è necessario conoscere i miti greci, la storia 118

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della corona britannica, le allusioni e le convenzioni letterarie, e neanche avere un gran vocabolario. Le parole sono tutte conosciute, e sono lì.20 Christian Bök, poeta e professore universitario, dice che all’inizio i suoi studenti sono generalmente contrari a opere come Teneri bottoni perché non amano che il linguaggio familiare venga reso non familiare, e credono che lo scopo finale della loro formazione sia rendere le cose non familiari facilmente comprensibili (e non viceversa). Bök trascorre molto del suo tempo in classe tentando di mostrare agli studenti le meraviglie di quello strano enigma che è Stein. Per esempio, mostra che quando Stein prende un oggetto familiare come una scatola di puntine e la descrive come «piena di punte», che ci provocano «disappunto», in realtà sta facendo un semplice ma sottile commento sulla «spinosità» di una cosa così inutile come la poesia stessa.21 Col suo uso autoriflessivo di un linguaggio frutto di appropriazione, la scrittura non creativa abbraccia la politica innata e ancestrale delle parole prese in prestito: lungi dagli scrittori concettuali imporre significati morali o politici a parole che non sono le loro. Tuttavia, il metodo o la macchina che crea la poesia definisce l’agenda politica o mette in discussione questioni morali o politiche. Vanessa Place è una scrittrice che ripresenta documenti legali eticamente complessi ed equivoci in forma di letteratura. Non li altera nemmeno un po’, li trasferisce semplicemente dal quadro legale a quello letterario, lasciando al lettore il giudizio morale. C’è un tocco del Bartleby di Melville nel lavoro di Vanessa Place. Come una sorgente di calma e silenzio all’interno del frenetico luogo di lavoro, la compostezza e la rigorosa etica autoimposta di Bartleby rivelavano il senso di vuoto e l’abitudinarietà della caotica routine che lo circondava. Risucchiava tutti dentro di sé come un buco nero, causando infine una totale implosione. Place è avvocatessa e gran parte del suo lavoro, come quello di Bartleby, consiste nella stesura di verbali di appello, un compito che consiste nel copiare e poi modificare, raccontando vite complesse e cattive azioni 119

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con un linguaggio «neutro», da presentare davanti a un tribunale. È questo il suo lavoro di ogni giorno. La sua poesia consiste invece nell’appropriazione di quegli stessi documenti, che lei stessa quotidianamente scrive, facendoli diventare, dopo l’orario di lavoro, letteratura. E come in gran parte della letteratura, c’è tanto dramma, pathos, orrore e umanità. Ma a differenza della maggior parte della letteratura, neanche una parola viene dalla sua penna. O forse sì? È proprio qui che la cosa si fa interessante. Possiamo dire che quelle parole le ha scritte lei e allo stesso tempo se n’è appropriata – salvandole dal monotono mondo degli archivi giudiziari e della burocrazia – e con un semplice gesto di ricontestualizzazione le ha trasformate in una coinvolgente forma letteraria. Place difende in appello quei molestatori sessuali che non possono permettersi un avvocato, non un lavoro facile. Come lei stessa dice: «Tutti i miei clienti sono condannati per reati sessuali e nel momento in cui vengo assegnata al loro caso si trovano in prigione. A causa della mia esperienza/competenza, mi vengono affidati molti clienti condannati a centinaia di anni e a numerosi ergastoli per reati multipli. Rappresento principalmente stupratori e molestatori di bambini, sebbene abbia difeso anche qualche magnaccia e dei predatori sessuali violenti (quelli che, dopo aver scontato le loro sentenze, vengono affidati agli ospedali psichiatrici contro la loro volontà)».22 Dopo aver pubblicato, uno dopo l’altro, due raffinati romanzi sperimentali – uno dei quali è un’unica frase lunga 130 pagine – l’attuale produzione letteraria di Place consiste nel ripubblicare le dichiarazioni dei casi che porta in aula. Un verbale d’appello è composto da tre parti: una dichiarazione sul caso, che ne illustra la storia procedurale; una dichiarazione dei fatti, che espone in forma narrativa le prove del reato presentate al processo; e una dichiarazione conclusiva, ossia le rivendicazioni attribuibili a errore e (per la difesa) le ragioni per invertire il giudizio. Nella sua produzione letteraria, Place usa solo la dichiarazione dei fatti, la parte più oggettiva e narrativa del verbale. 120

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Place non altera in alcun modo i documenti originali, se non per rimuovere informazioni specifiche su un testimone o una vittima al fine di proteggerne l’identità. Ripresentando le dichiarazioni come letteratura, non viola alcuno standard etico formale o codice di condotta professionale: tutti i suoi riassunti sono di dominio pubblico e potrebbero essere presi e letti da chiunque. Ma per criticare e mettere in bella mostra il linguaggio alla maniera di Bartleby, sembra che stia comunque violando alcune regole non scritte nella sua professione. «Tutti i miei clienti sono giuridicamente colpevoli. La maggior parte è moralmente colpevole. In quanto loro avvocato, io potrei essere moralmente colpevole, anche se legalmente non lo sono»,23 dice Place. Cambiando contesto, dalla legge all’arte, e privando il linguaggio di qualsiasi funzione legale, tutto a un tratto vediamo questi documenti da prospettive prima impossibili da cogliere. Il genere di domande provocate da questo gesto è alla base del lavoro di Place. Il linguaggio non è mai neutro, mai stabile e non può mai essere veramente obiettivo, quindi una dichiarazione dei fatti, in termini di documentazione fattuale, è una forma ambigua. Anche le regole fondamentali per scrivere una dichiarazione dei fatti riconoscono questo pregiudizio: «Nella Dichiarazione dei fatti […] non è consentito argomentare in modo esplicito. Quindi cosa facciamo? Argomentiamo implicitamente. Cos’è un’argomentazione implicita? Se un’argomentazione esplicita è quella che afferma esplicitamente un perché, un’argomentazione implicita è quella che non afferma esplicitamente un perché in risposta alla domanda “Perché?”. Al contrario, l’argomentazione implicita organizza e sottolinea i fatti al fine di guidare il destinatario dell’argomentazione alla conclusione desiderata».24 Nel suo lavoro di tutti i giorni, Place scrive intenzionalmente argomentazioni implicite; nella sua arte, espone quell’inganno. Una sezione di quattrocento pagine del suo Statement of Facts («Dichiarazione dei fatti») – composta dai documenti provenienti da venticinque casi – racconta la raccapricciante storia di Chavelo, uno zio molestatore di bambini, e Sara, 121

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sua nipote. Si snoda per dieci pagine con descrizioni di sesso esplicito intervallate da impasse psicologiche e strazianti tentativi di reagire. Nonostante le note di trascrizione dell’impiegato – notazioni a margine che interrompono continuamente il flusso del testo – emerge una chiara narrazione, scritta in un inglese semplice. Un estratto dice: Una volta, la madre di Sara notò che la biancheria di Sara era bagnata e puzzava di sperma. Chiese spiegazioni a Sara, ma Sara disse che non sapeva come ci fosse finito e se ne andò. Così sua madre mise la biancheria intima di Sara nella lavatrice e si disse di non pensare più a «cosa diavolo sta succedendo». L’ultima volta che il richiedente appello ha toccato Sara era a casa sua. (RT 1303) Sara ha sentito dolore alle parti intime quando il richiedente appello l’ha toccata: ha avuto la sensazione di ricevere delle «pacche». Le faceva ancora male anche quando più tardi è andata in bagno. (RT 1302) Sara è andata dal medico perché era preoccupata per le sue parti intime, «Tipo, quando metti l’alcol su una ferita, ma anche peggio». (3) La madre di Sara ha visto delle vesciche «come le vesciche che ti vengono quando ti arrampichi sulle sbarre al parco giochi». Le vesciche prudevano. Il dottore ha chiesto a Sara cosa fosse successo, ma Sara non ha voluto dirlo. Il dottore ha dato a Sara delle pillole da prendere ogni giorno per un mese, e le vesciche se ne sono andate. Ma poi sono tornate; Sara ha dovuto prendere di nuovo il farmaco. Le vesciche sono sparite di nuovo e poi tornate. Sara è tornata dal medico e ha visto il dottor Kaufman. (RT 13061309, 1311-1313, 1318, 2197) ----(3) Sara si era lamentata con sua madre del dolore durante la minzione; sua madre le ha dato una tisana medicinale per tre giorni. Visto che il dolore non diminuiva, la madre ha controllato la sua vagina, ha visto una vescica e ha portato Sara dal dottore. (RT 21962197, 2218-2221) Sara non aveva mai avuto vesciche nella vagina prima di allora. (RT 2199)25

Nel riformulare questo lavoro come letteratura, la prima cosa che Place fa è eliminare il font serif richiesto dalla professione 122

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(«quei piccoli ornamenti dell’autorità», come li chiama lei), dando al documento una forma diversa da quella adatta a un’aula di tribunale. Ma, al di fuori di questo, la dichiarazione è identica all’originale, dalle note a piè di pagina alle note del cancelliere. Nella sua doppia veste di avvocatessa e scrittrice non creativa, Place afferma: «Il mio lavoro è quello di “elaborare” informazioni. Che è il lavoro di tutta la retorica, di tutte le lingue». Eppure Place interpreta entrambe le prospettive – si tratta di vita reale e di arte – offuscando la mia rosea immagine di arte ed etica. Sebbene Statements of Facts possa apparire a molti come semplicemente raccapricciante e sensazionalistico, soffermarsi sui contenuti significherebbe non cogliere il punto: è la matrice degli apparati che la circondano – sociali, morali, politici, etici – a dare all’opera il suo vero significato. E quando senti Place leggere queste parole, ti rendi conto che il disgustoso contenuto dell’opera è solo la punta di un iceberg. Quello che succede all’ascoltatore durante la lettura è esattamente ciò che rende così importante questo tipo di lavoro. Non sorprende che sia difficile ascoltarla leggere. Recentemente ho assistito a una lettura di Statement of Facts durata quarantacinque minuti. Sul palco Place indossava lo stesso abbigliamento che usa quando appare davanti a un giudice, e leggeva con voce bassa e monotona, soffocando gli argomenti più scottanti con tono meccanico e freddo. Dopo aver ascoltato l’opera, la prima reazione è di shock e orrore. Come fanno a essere così terribili le persone? Ma si continua ad ascoltare. È difficile smettere. La narrazione cattura, ci si ritrova ad ascoltare i più piccoli eventi che si accumulano: l’esame medico della vittima, la lenta e dolorosa ammissione da parte della vittima che un atto criminale è stato perpetrato nei suoi confronti, fino al culmine, quando l’appellante viene finalmente arrestato, e sembra che la giustizia dopo tutto trionfi. Dopo un po’ comincia a sembrare un film di Hollywood, carico di tragedia e redenzione. Andy Warhol ha detto che «quando guardi una foto raccapricciante più e più volte, alla fine non ha più alcun effetto»,26 123

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e più Place leggeva più diventavo immune agli orrori di ciò che raccontava. Come un detective, iniziavo a distaccare la mia risposta emotiva dai fatti, grattandomi il mento, cercando con la logica i buchi dei suoi ragionamenti, esprimendo giudizi su ogni accadimento. Come i colleghi di Bartleby, mi sono ritrovato a cambiare posizione per accogliere la narrazione di Place. Inconsciamente, mi sono trasformato da ascoltatore passivo a giurato attivo. In realtà, Place ha trasformato la mia posizione di fruitore dell’opera, rigirandomi per vie che erano contrarie alla mia volontà. Non volevo oggettivare la mia esperienza, ma l’ho fatto. Place ha usato una coercizione passiva, una sorta di logica da tribunale, per generare in me lettore/ascoltatore un cambiamento, come ogni giorno fa con i giurati. Ciò che stavo vivendo era il sistema legale; per quanto inorridito, ero stato coinvolto nelle sue macchinazioni. Mentre ascoltavo la litania di reati, i miei circuiti si sono sovraccaricati. Come dice Place: «Considero le informazioni – anche quelle del genere più inquietante – come un compost linguistico. C’è troppo da considerare, troppe parole, dal contenuto sia esile che denso. È troppo da sopportare, e quindi non lo facciamo. Eppure, io chiedo ai lettori di sostenere il ruolo di testimoni, o di scegliere di non farlo. In ogni caso, sono complici. Non esiste una testimonianza imparziale. Non esiste lo spettatore innocente. Non dopo che hanno ascoltato per un po’. Mai dopo che hanno smesso di ascoltare».27 Negli anni Trenta il poeta oggettivista Charles Reznikoff iniziò un’epopea intitolata Testimony: The United States (1885–1915) Recitative. Si tratta di centinaia di testimonianze rese in tribunale sistemate e messe in versi.28 Sono composizioni brevi, ognuna delle quali racconta una storia: Amelia aveva appena compiuto quattordici anni ed era uscita dall’orfanotrofio; al suo primo lavoro… nella legatoria, e sì signore, sì signora, oh, così ansiosa di piacere. Era in piedi al tavolo, i capelli biondi le cadevano sulle spalle, e «batteva» per Mary e Sadie, le ricucitrici («battere» significa contare i libri e sistemarli in pile da portare via). 124

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C’erano venti macchine per cucire sul pavimento, azionate da un asse che ruotava sotto il tavolo; quando una cucitrice metteva in macchina il suo lavoro, lei lo gettava sul tavolo. I libri si stavano accumulando velocemente e alcuni scivolarono sul pavimento (la caporeparto aveva detto: Togli il lavoro dal pavimento!); e Amelia si chinò per prendere i libri… tre o quattro erano caduti sotto il tavolo tra le tavole inchiodate alle gambe. Si sentì afferrare delicatamente i capelli; sollevò la mano e sentì il manico roteare e i suoi capelli che si avvolgevano attorno, finché lo scalpo non si staccò dalla testa e il sangue cominciò a scenderle sul viso e giù fino alla vita.29

Il racconto di Reznikoff sembra quasi una canzone popolare, una recitazione blues o un racconto dickensiano che intona metaforicamente un rito di passaggio senza tempo. Il breve passaggio è pieno di metafore sessuali: la ragazza pubescente con lunghi «capelli biondi che le cadevano sulle spalle», «oh, così ansiosa di piacere», il cui compito è «battere». L’inevitabile epilogo si verifica quando sente «il manico roteare», la sua simbolica perdita della verginità, con lo scorrere del sangue «che le scendeva sul viso e giù fino alla vita». È un gioco complesso di eros e thanatos, poetico e sfumato, espresso in una forma e un enjambement selezionati in modo chirurgico. È straordinariamente economico, perché riesce a dipingere l’immagine di un intero mondo in poche righe, scatenando un fortissimo effetto emotivo. Place, al contrario, non si occupa di metafore. Non c’è niente di sottile in ciò che fa, aderendo al motto di Beckett: «Simboli non ci sono dove non c’è intenzione». Siamo sconvolti dai racconti di Reznikoff, ma sono solo una o due strofe, poi passiamo velocemente alla prossima capsula di tragedia. A differenza di Place, che attacca senza sosta il lettore, Reznikoff ci consente di mantenere intatta la nostra obiettività: siamo 125

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ancora testimoni, sicuri e a una certa distanza dalla tragedia. Non siamo mai costretti a modificare la nostra posizione di lettori o ascoltatori nel modo in cui Place ci obbliga a fare. Il lavoro di Reznikoff odora di un mondo passato, e spesso è facile allontanarsi dal contenuto, al contrario di quanto avviene con Place, i cui racconti spaventosi continuano ad accadere ogni giorno. In effetti, la poesia di Reznikoff è all’altezza della sua fama di oggettivista, nel suo tenere lettore e autore all’esterno, in un modo che Place rifiuta. Perché la sua è una poetica del realismo: così reale che è quasi troppo da sopportare. Le opere di Place sono sovraccariche e ricordano una leggenda legata agli anni di Warhol. Quando Warhol mostrò per la prima volta le sue scatole Brillo alla Stable Gallery di New York nel 1964, durante l’inaugurazione un uomo ubriaco e piuttosto arrabbiato, creando grande scalpore, si avvicinò a Warhol e gli espresse il suo disgusto per quella che a suo parere era una mossa da quattro soldi. Accusò Andy di aver rubato il duro lavoro di qualcun altro. A quanto pare, quest’uomo, James Harvey, era un pittore espressionista astratto della seconda generazione, fallito ma onesto, che si guadagnava la vita facendo il grafico per Brillo: era stato lui nel 1961 a progettare il prototipo della scatola. Warhol lo aveva danneggiato due volte, per via del suo lavoro diurno, ma anche in senso più ampio perché, a causa della Pop Art, il suo espressionismo astratto «fine art» era diventato obsoleto. Place complica il già complicato racconto di Warhol, interpretando sia la vittima che il carnefice, superando in astuzia se stessa, prendendo il suo lavoro alienante e détournadolo in una pratica soddisfacente e stimolante. Ricordo una cena in vacanza con il mio curioso e brillante ma molto annoiato cugino, che è un avvocato. Si lamentava del lavoro ingrato che gli spettava, dovendo scrivere senza sosta rapporti legali ogni giorno. Per incoraggiarlo, gli ho detto: perché non pensi a quello che fai tutto il giorno come a una forma d’arte? Se ricontestualizzi quei documenti, vedrai che non sono così diversi da molti documenti d’arte concettuale che mi è capitato di vedere. Si pensi alla prati126

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ca di artisti come Christo, per esempio, che ha incluso tutte le note legali che aveva archiviato per creare una recinzione di svariati chilometri nella natura selvaggia della California. C’è un certo fascino per la documentazione e per l’asciutta autorevolezza del legalese che attraversa molta arte e scrittura concettuale. «Potresti far parte di quella tradizione», ho suggerito. Avrei potuto parlargli del lavoro di Vanessa Place. Mio cugino, anche se incuriosito, ha sollevato delle obiezioni e ha continuato ad annoiarsi per molti anni a venire.

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5 APPROPRIAZIONE Il più grande libro di scrittura non creativa è stato già scritto. Dal 1927 al 1940, Walter Benjamin ha sintetizzato molte delle idee su cui aveva lavorato nel corso della sua carriera in un’unica opera intitolata I «passages» di Parigi. Molti credono che non si tratti d’altro che di centinaia e centinaia di pagine piene di note, una pila di frammenti e di bozze, in vista di un’opera di pensiero mai realizzata. Ma altri sostengono che si tratta di una rivoluzionaria opera di circa mille pagine, basata sull’appropriazione e sulla citazione, così radicale nella sua forma non digerita che è impossibile pensare a un’altra opera nella storia della letteratura che abbia lo stesso approccio. È uno sforzo enorme: la maggior parte di ciò che è contenuto nel libro non è stata scritta da Benjamin, che ha invece copiato testi scritti da altri, presi da mucchi di libri conservati nelle biblioteche, con alcuni passaggi che durano diverse pagine. Resistono comunque le convenzioni: ogni estratto è citato correttamente e la «voce» di Benjamin si inserisce brillantemente con commenti e postille a ciò che ha copiato. Con tutte le distorsioni e le polverizzazioni del linguaggio occorse nel XX secolo, e le centinaia di nuove forme di narrativa e poesia che sono state proposte, non è mai venuto in mente a nessuno di prendere le parole di qualcun altro e presentarle come proprie. Borges lo propose sotto le spoglie di Pierre Menard, ma nemmeno Menard aveva copiato: gli capitò semplicemente di scrivere lo stesso libro che Cervantes aveva scritto, senza esserne a conoscenza. Era una pura coincidenza, un fantastico colpo di genio combinato, con un tempismo tragicamente sbagliato. Il gesto di Benjamin solleva molte domande sulla natura dell’autorialità e sui metodi di costruzione della letteratura: il materiale culturale non è forse tutto già condiviso, con nuove opere che si fondano su quelle preesistenti, che lo riconoscano o meno? Gli scrittori non fanno forse uso dell’appropriazione da tempo immemorabile? Che dire di quelle strategie ormai ben digerite come il collage e il pastiche? Non è già 129

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stato fatto tutto? E, se così fosse, è necessario farlo di nuovo? Qual è la differenza tra appropriazione e collage? Un buon punto di partenza per cercare risposte sono le arti visive, dove le pratiche di appropriazione sono state testate e digerite già nel secolo scorso, in particolare negli approcci di Duchamp e Picasso, i quali hanno entrambi reagito ai cambiamenti avvenuti nel secolo precedente nella produzione industriale e nelle tecnologie che l’hanno seguita, in particolare la macchina fotografica. Un’analogia utile è quella di vedere Picasso come una candela e Duchamp come uno specchio. La candela ci attira verso la sua calda luce, trattenendoci incantati dalla sua bellezza. La fredda riflessività dello specchio ci allontana dall’oggetto, spingendoci indietro, verso noi stessi.

Fig. 5.1

Pablo Picasso, Natura morta con sedia impagliata (19111912).

La Natura morta con sedia impagliata (1911-12) di Picasso incorpora un pezzo di tela cerata industriale con l’immagine dell’intreccio di paglia di una sedia, e una corda reale circonda 130

APPROPRIAZIONE

il dipinto incorniciando l’immagine. Altri elementi sono le lettere J, O, U, che presumibilmente fanno riferimento alla parola journal. Questi elementi si mescolano con varie forme umane e nature morte dipinte a mano, tutte eseguite nei tipici toni marroni, grigi e bianchi dello stile cubista. Il dipinto di Picasso è un esempio di ciò che fa generalmente un pittore: come un uccello che costruisce un nido, raccoglie elementi discreti e li intreccia per creare un insieme armonioso. Il fatto che gli elementi incollati non siano stati fatti a mano, non disturba la composizione in alcun modo; piuttosto ne rafforza la resa. Picasso mostra la sua padronanza di diversi mezzi e diverse tecniche, e restiamo giustamente impressionati dalla sua abilità. Come una candela, Natura morta con sedia impagliata è un quadro che ti attira nella sua composizione; è evidente che potremmo passare molto tempo a crogiolarci nella calda luce di questa immagine.

Fig. 5.2

Marcel Duchamp, Fontana (1917).

Viceversa, la Fontana di Duchamp del 1917, solo pochi anni dopo, è un orinatoio girato su un lato, firmato e messo su un piedistallo. Qui, a differenza di Picasso, Duchamp si appro131

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pria di un intero oggetto, rendendo questa fontana prodotta industrialmente non familiare e inutilizzabile. A differenza del metodo costruttivo di Picasso, Duchamp non ha usato il collage per creare una composizione armoniosa e convincente, ha invece rifiutato le qualità retiniche per creare un oggetto che non si affida tanto a degli osservatori quanto a dei pensatori; nessuno ha mai guardato a occhi spalancati l’orinatoio di Duchamp esaltandone la qualità dello smalto. Al contrario, Duchamp invoca lo specchio, creando un oggetto repellente e riflessivo, che ci costringe a distogliere lo sguardo verso altre direzioni. Dove ci manda è stato documentato in modo esauriente. A grandi linee, potremmo dire che l’azione di Duchamp è generatrice – dando vita a mondi di idee – mentre quella di Picasso è assorbente, ci tiene vicini all’oggetto e ai nostri pensieri. In letteratura, un paragone simile può essere fatto con la metodologia costruttiva dei Cantos di Ezra Pound o con il processo da scrivano dei Passages di Walter Benjamin. Il carattere di raccolta e collage dei Cantos mette insieme migliaia di righe tratte da un certo numero di altre fonti, letterarie e non, tutte tenute insieme da quella colla che è il linguaggio di Pound per creare un corpo unitario. Come uno spigolatore della storia, prende cumuli di cose effimere da tempi andati per dare loro un nuovo ordine, alla ricerca di quelle gemme su cui costruirà la sua epica; suono, vista e significato si fondono, congelati in versi scintillanti. Tutto sembra venire da qualche altra parte, ma tutto è stato scelto con particolare gusto e coltivato con cura; il suo genio sta nel sintetizzare il materiale trovato in un insieme coerente. I detriti galleggianti includono appunti sbrigativi, tariffari, frammenti di linguaggio, stampe irregolari e spaziature bizzarre, spezzoni di corrispondenze, forme arcane di legalese, pezzi di dialogo, una dozzina di lingue e numerosi riferimenti a note a pie’ di pagina inesistenti, tutto raccolto nel lavoro di una vita. Scritto senza seguire alcun sistema o vincolo, questo insieme incoerente è straordinariamente sensuale. Il risultato è una costruzione di grande gusto, messa 132

APPROPRIAZIONE

insieme da un maestro artigiano. Potremmo dire che, come Picasso, la pratica di Pound è sintetica, ci attira per risolvere i suoi enigmi e farci crogiolare alla luce della sua pura bellezza. Pound ha ambizioni e idee chiare – sociali e politiche, per non parlare di quelle estetiche –, eppure queste vengono così finemente distillate e sintetizzate dai suoi stessi filtri che diventano inseparabili dalla sua squisita creazione. Benjamin invece, prendendo spunto dal cinema, crea un’opera di montaggio letterario, una giustapposizione disgiuntiva, un fuoco di fila di «piccole immagini fugaci».1 Con circa ottocentocinquanta fonti accatastate l’una all’altra, Benjamin non fa alcun tentativo di unificarle, se non quello di organizzare liberamente le sue citazioni per categorie. Lo studioso Richard Sieburth ci dice che «su 250.000 parole che costituiscono [questa] edizione, almeno il 75% sono trascrizioni dirette di altri testi».2 Al contrario di Pound, non c’è alcun tentativo di fondere i frammenti in un unicum; c’è invece un’accumulazione di linguaggio, la maggior parte del quale non appartiene a Benjamin. Invece di ammirare le capacità di sintesi dell’autore, siamo portati a riflettere sulla squisita qualità delle scelte di Benjamin, sul suo gusto. È ciò che sceglie di copiare che rende questo lavoro un’opera riuscita. L’uso insistente di frammenti unitari da parte di Benjamin fa sì che l’obiettivo finale non sia il testo, ma che anzi, come con Duchamp, si venga spinti lontano dall’oggetto grazie al potere dello specchio. Sia i metodi di scrittura di Pound sia quelli di Benjamin si basano in gran parte sull’appropriazione di frammenti di linguaggio che non hanno generato loro, ma mostrano due approcci diversi nella costruzione di un testo basato sull’appropriazione. Quello di Pound è un metodo più intuitivo e di improvvisazione, che tesse frammenti di testo in un insieme unitario. Spesso, infatti, occorrono moltissimi suoi interventi per affinare, ritoccare e modificare le parole trovate in modo che si integrino perfettamente tra di loro. L’approccio di Benjamin è più preordinato: la macchina che svolge il lavoro è impostata in anticipo, e si tratta semplicemente di riempire 133

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le categorie con le giuste parole, nell’ordine in cui sono state trovate, per dar vita a un’opera riuscita. Se è impossibile determinare l’esatta metodologia di Benjamin, il consenso generale tra gli studiosi è che i Passages consistevano in fascicoli di appunti per un grande progetto irrealizzato che si doveva chiamare Parigi, capitale del XIX secolo. E sebbene ci siano capitoli e bozze che parlano dell’idea di un libro del genere, che avrebbe trasformato gli appunti in un saggio logico ben argomentato, una simile lettura dell’opera finale nega questa possibilità. Come afferma la studiosa di Benjamin Susan Buck-Morss: «Ogni tentativo di catturare il Passagen-Werk all’interno di una narrazione porta al fallimento. I frammenti sommergono chiunque li interpreta in un abisso di significati, minacciandola o minacciandolo di arrivare a una disperazione epistemologica che compete con la malinconia delle allegorie barocche… Dire che il Passagen-Werk non abbia necessariamente una struttura narrativa, tanto che i frammenti possono essere raggruppati liberamente, non significa affatto dire che non abbia una struttura concettuale, come se il significato del libro fosse tutto a disposizione dei capricci del lettore. Come ha detto Benjamin, presentare la confusione non è la stessa cosa di una presentazione confusa».3 Il libro può essere letto (o frainteso, a seconda di come lo si desidera vedere) come un’opera a sé stante. È un libro fatto di rifiuti e detriti, che scrive la storia prestando attenzione ai margini e alle periferie piuttosto che al centro: frammenti di articoli di giornale, passaggi misteriosi di storie dimenticate, sensazioni effimere, condizioni meteo, pamphlet politici, pubblicità, battute letterarie, versi randagi, resoconti di sogni, descrizioni di architettura, teorie arcane sulla conoscenza e centinaia di altri argomenti insoliti. Il libro è costruito a partire dalla lettura del corpus letterario del XIX secolo su Parigi. Benjamin ha semplicemente copiato i passaggi che attiravano la sua attenzione su delle schede e li ha poi organizzati in categorie generali. Il libro non aveva una forma fissa, anticipando l’instabilità del linguaggio che si sarebbe verificata nella seconda parte del XX secolo. Benjamin mescolava incessantemente le sue schede 134

APPROPRIAZIONE

di appunti, trasferendole da una cartella all’altra. Alla fine, rendendosi conto che nessun passaggio poteva restare per sempre in una sola categoria, inserì riferimenti incrociati per molte voci, e quelle note sono poi finite nell’edizione stampata, rendendo I «passages» di Parigi un’enorme opera proto-ipertestuale. Con l’inevitabile stampa del libro, le parole si sono trovate costrette in una sistemazione, grazie al lavoro di un editor che le ha bloccate per sempre sulla pagina, come entità fisse. In che modo Benjamin intendesse il libro nella sua versione finale non è mai stato chiarito, ma i posteri hanno inchiodato per suo conto le parole nella forma di un volume di mille pagine. Eppure è quel mistero – era questa la forma che intendeva dare al lavoro di una vita? – che dà al libro tanta energia, tanta vita e azione, anche sessant’anni dopo esser stato scritto. Nel mezzo secolo seguente, è stato fatto ogni tipo di esperimento a pagine slegate. Oggi, in luoghi come Printed Matter o nelle mostre di libri d’arte, non è raro trovare libri composti interamente da fogli liberi che possono essere organizzati secondo il volere di chi li compra. Il catalogo della retrospettiva di John Cage, Rolywholyover, è un libro di questo tipo, con al suo interno una cinquantina di stampe di oggetti, senza alcun ordine gerarchico. Il libro incarna le operazioni casuali di Cage, è un libro senza forma fissa e senza scopo, un workin-progress. Anche nella sua forma definitiva, I «passages» di Parigi è un ottimo libro in cui lasciarsi rimbalzare, svolazzando da una pagina all’altra, come tra le vetrine mentre si fa shopping, fermandosi per un attimo ad ammirare una vetrina che cattura lo sguardo senza necessariamente entrare nel negozio. In «G: Esposizioni, Pubblicità, Grandville», per esempio, aprendo il capitolo a caso si può inciampare in una citazione di Marx sulle merci e i cartellini dei prezzi, poi, poche pagine più in là, trovare la descrizione di una visione avuta in un casinò sotto l’effetto dell’hashish; se si salta due pagine avanti ci si ritrova di fronte alla frase di Blanqui: «Un ricco morto è una voragine che si chiude». Poi si passa rapidamente alla 135

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vetrina successiva. Poiché il libro è apparentemente sui passages di Parigi – una prima incarnazione dei centri commerciali – Benjamin incoraggia il lettore a diventare consumatori di linguaggio allo stesso modo in cui ci si farebbe sedurre da una qualsiasi altra merce. È il senso della massa e dell’abbondanza pura che rende impossibile finirlo; è così ricco e denso che cercare di leggerlo induce all’amnesia: non sai mai se hai già letto questo o quel passaggio. È davvero un testo senza fine. Ciò che lo tiene insieme, e allo stesso tempo assicura lo smarrimento del lettore, è il fatto che molte voci hanno riferimenti incrociati che spesso portano a vicoli ciechi. Per esempio, a una citazione che riguarda la pubblicità e lo Jugendstil viene messa una nota che rimanda a «La coscienza dei sogni», un capitolo che non esiste. Perdere la rotta, o andare alla deriva, è parte integrante dell’esperienza di lettura del libro così come ci è giunto, indipendentemente dal fatto che il libro di Benjamin sia «incompiuto». Invece, se si volesse seguire in qualche modo il «collegamento ipertestuale» di Benjamin, dovremmo scegliere tra due capitoli il cui titolo contiene la parola sogno: «K: Città di sogno e casa di sogno, sogni a occhi aperti, nichilismo antropologico, Jung» o «L: Casa di sogno, museo, terme». Se ci inoltrassimo in uno di questi capitoli, difficilmente troveremmo riferimenti diretti alla pubblicità o allo Jugendstil. Al contrario, molto probabilmente ci ritroveremmo persi come flâneur alla deriva tra quegli affascinanti e avvincenti capitoli apparentemente senza fine. Per tanti versi, il modo in cui leggiamo I «passages» di Parigi parla del modo in cui abbiamo imparato a usare il Web: viaggiando da un luogo all’altro dell’ipertesto, navigando attraverso la sua immensità; parla di come siamo diventati dei flâneur virtuali, surfando in modo casuale; di come abbiamo imparato a gestire e raccogliere le informazioni, senza sentire la necessità di leggere il Web in modo lineare, e così via. Avendo pubblicato i «passages» in forma di libro anziché in fascicoli di appunti sparsi, il lavoro di Benjamin è stato congelato, in modo da permetterci di studiarlo secondo quella condizione che lui stesso ha chiamato costellazione: 136

APPROPRIAZIONE

«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o che il presente getti la sua luce sul passato: l’immagine è piuttosto ciò in cui il passato viene a convergere con il presente in una costellazione». Dopo la morte di Benjamin nel 1940, il suo amico Georges Bataille, archivista e bibliotecario presso la Bibliothèque Nationale, mise i numerosi foglietti di appunti di Benjamin in un archivio che è rimasto nascosto al sicuro fino al dopoguerra. Solo negli anni Ottanta è stato trasposto in un manoscritto, dopo anni di tentativi di metterlo insieme in una forma unitaria o in una costellazione. Il Web può essere visto come un aggregato simile a una costellazione. Poniamo il caso che stiate leggendo un giornale online. Quando si carica, la pagina va a prendere le informazioni da una miriade di server nel Web per formare la costellazione di quella pagina: ad server, server di immagini, feed RSS, database, fogli di stile, modelli e così via. Tutti questi server si collegano a loro volta a un’infinità di altri server sul Web, che forniscono i contenuti aggiornati. È probabile che il giornale che stiamo leggendo abbia un feed di notizie di Associated Press integrato che viene aggiornato dinamicamente dagli altri server per proporci i titoli dell’ultim’ora. Se uno o più di questi server non dovessero funzionare, un pezzo della pagina a cui state tentando di accedere non si caricherà. Ogni pagina Web è una costellazione, che si compone in un lampo – e potenzialmente scompare in modo altrettanto rapido. Aggiornate la home page del sito del New York Times, per esempio, e questa non avrà lo stesso aspetto di quello che aveva pochi secondi fa. Quella pagina Web, in forma di costellazione, è ciò che Benjamin chiama «immagine dialettica», un luogo in cui il passato e il presente si fondono momentaneamente per creare un’immagine (in questo caso quella della pagina Web). Benjamin afferma anche che «il luogo in cui si incontra [l’immagine dialettica] è il linguaggio». Quando scriviamo un libro, lo costruiamo in modo dialettico, in maniera non troppo diversa da una pagina Web, ritessendo i fili della conoscenza (personale, storica, speculativa, ecc.) in una costellazione che trova la sua forma fissa in un libro. E dal momento che il Web 137

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è composto da codice alfanumerico, possiamo immaginare il Web – con i suoi testi, le sue immagini, i video e i suoni digitali – come una imponente immagine dialettica benjaminiana. Nei Passages di Benjamin troviamo una roadmap letteraria dell’appropriazione, la stessa che è stata poi ripresa nel corso del XX secolo da scrittori come Brion Gysin, William Burroughs e Kathy Acker, solo per citarne alcuni, e che punta verso i testi più radicali di oggi, basati sull’appropriazione. Eppure, contrariamente alle rivoluzionarie incursioni di Benjamin nel campo dell’appropriazione, il XX secolo ha preferito la frammentarietà, non l’insieme, giocando con pezzettini di linguaggio frantumato sempre più piccoli. Anche i Passages si occupano di frammenti – spesso di grandi dimensioni – piuttosto che di interi: Benjamin non ha mai copiato interamente il libro di qualcun altro per rivendicarlo come suo. E per quanto grande fosse il suo amore per la copia, nel libro c’è ancora una consistente componente autoriale e di «genio originale». Mi chiedo quindi se il suo libro possa davvero essere definito un’appropriazione, o se non sia solo un’altra variante di un modernismo frammentato. Le cose si complicano quando cerchiamo di stabilire in cosa consista esattamente un’appropriazione letteraria. Come esempio potremmo utilizzare il mio lavoro d’appropriazione Day (2003). Volevo capire se era possibile creare un’opera letteraria eseguendo il minor intervento possibile, ridando forma al testo da un’entità a un’altra (da un giornale a un libro). Una volta riproposto come libro, il giornale avrebbe avuto delle proprietà letterarie che non siamo in grado di vedere nella nostra lettura quotidiana? La mia ricetta per l’appropriazione era diretta e abbastanza semplice: «Venerdì 1 settembre 2000 ho iniziato a trascrivere il New York Times di quel giorno, parola per parola, lettera per lettera, dall’angolo in alto a sinistra all’angolo in basso a destra, pagina per pagina». Il mio scopo era di essere meno creativo possibile, che è una delle limitazioni più difficili da affrontare per un artista, in particolare su un progetto di questa portata; a ogni battuta viene la tentazione di 138

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adottare un trucco, tagliare e incollare, distorcere il banale linguaggio. Ma farlo significherebbe mandare all’aria l’esercizio. Invece, mi sono semplicemente fatto strada lungo l’intero giornale, digitando esattamente ciò che vedevo. Ovunque comparisse una parola o un carattere alfanumerico, io lo ridigitavo: pubblicità, orari dei film, numeri di targhe delle auto nelle réclame, annunci, e così via. Le quotazioni azionarie da sole occupano oltre duecento pagine. Sembra facile, giusto? Eppure «appropriarmi» semplicemente del giornale e trasformarlo in un’opera letteraria mi ha messo di fronte a decine di decisioni autoriali. Per prima cosa ho preso il testo dalla pagina del giornale e l’ho inserito nel mio computer. Ma come fare con il font, le dimensioni dei caratteri e la formattazione? Se rimuovo le immagini (ma prendo i testi incorporati nelle immagini, come i numeri sulla targa di un’autovettura), devo comunque conservare le didascalie. Dove si devono posizionare le interruzioni di riga? Resto fedele alle colonne strette o faccio scorrere ogni articolo in un lungo paragrafo? Che dire dei catenacci: dove si posizionano quelle righe di testo? E come faccio a muovermi su una pagina? So di avere una regola generale che porta a spostarmi dall’angolo in alto a sinistra a quello in basso a destra, ma come mi comporto quando raggiungo la fine di una colonna che dice «continua a pagina 26»? Vado alla pagina 26 e finisco l’articolo o salto alla colonna adiacente e inizio un altro articolo? E quando faccio quei salti, aggiungo un’altra interruzione di linea o faccio scorrere il testo in modo continuo? Come faccio a trattare gli annunci pubblicitari, che spesso contengono elementi di testo giocosi, con caratteri e stili diversi? Come trattare le interruzioni di riga in un annuncio in cui le parole fluttuano liberamente sulla pagina? E che dire degli orari dei film, delle statistiche sportive, degli annunci? Per procedere, devo costruire una macchina. Devo rispondere a ciascuna domanda e impostare una serie di regole da seguire in modo rigoroso. E una volta che il testo è entrato nel mio computer, che tipo di carattere scelgo, e cosa dirà del rapporto che esiste tra 139

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il mio libro e il New York Times? La decisione più ovvia sarebbe forse quella di utilizzare il Times New Roman? Ma così facendo finirei per dare alla testata originale più credibilità di quella che desidero, rendendo il mio libro più simile a una replica del giornale che a un suo simulacro. Forse sarebbe meglio se eliminassi completamente il problema usando un font sans serif come il Verdana. Ma se usassi il Verdana, un font progettato specificamente per lo schermo e concesso in licenza da Microsoft, questo non spingerà forse il mio libro un po’ troppo verso l’annoso dibattito carta/schermo? E perché dovrei supportare Microsoft più di quanto già facciamo? (Ho finito per usare un font serif, il Garamond, che richiamava quello del Times ma non era il Times New Roman.) Poi ci sono decine di decisioni paratestuali: quale deve essere la dimensione del libro e in che modo questa scelta inciderà sulla sua ricezione? So di volerlo fare grande, per riflettere le enormi dimensioni dell’edizione quotidiana, ma se lo faccio diventare un coffee table book rischio di avvicinarmi troppo al formato originale del quotidiano, andando contro la mia volontà di rappresentare il giornale come oggetto letterario. Viceversa, se l’avessi fatto troppo piccolo, per esempio delle dimensioni del Libretto Rosso di Mao, sarebbe venuto fuori un oggetto carino che forse avrebbe funzionato come una delle novità accanto al registratore di cassa nel Barnes and Noble di zona. (Ho finito per farlo della dimensione esatta dell’edizione cartacea di The Arcade Project [titolo americano de I «passages» di Parigi, N.d.T.] della Harvard University Press.) Su quale supporto verrà stampato il libro? Se lo stampo su uno stock di carta troppo pregiata, corro il rischio che venga preso per un libro d’artista di lusso, qualcosa che in pochi possono permettersi. Dal momento che il progetto è basato sulla reinterpretazione e la ridistribuzione di un mass media, ho pensato che il libro dovesse apparire accessibile a tutti coloro che volessero comprarlo. Tuttavia, se lo avessi stampato su carta da giornale, avrei fatto un’allusione troppo diretta alla carta originale, correndo così il rischio di farlo sembrare 140

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un’edizione facsimile. (Alla fine, ho scelto una generica carta bianca.) Cosa mettere in copertina? Forse un’immagine dall’edizione di quel giorno? O una replica della prima pagina? No. Sarebbe stato troppo letterale e illustrativo. Volevo qualcosa che alludesse al giornale senza replicarlo. (Alla fine ho optato per non mettere nessuna immagine, solo una copertina blu scuro con la parola «Day» in font sans serif bianco, e sotto il mio nome in un font serif stampato in azzurro). A quanto dovrei vendere il libro? I libri d’artista in edizione limitata si vendono per migliaia di dollari. Sapevo di non voler percorrere quella strada. Alla fine, ho deciso di pubblicare un libro di 836 pagine, in una tiratura di 750 copie, per venderlo a 20 dollari.4 Una volta fatte le scelte formali, ci sono le questioni etiche da considerare. Se voglio «appropriarmi» veramente di questo lavoro, allora devo copiare/scrivere fedelmente ogni parola del giornale. Per quanto sia tentato di cambiare le parole di un politico antipatico o di un cattivo critico cinematografico, non posso farlo senza mettere a repentaglio i rigidi «insiemi» nei quali si inserisce l’appropriazione. Quindi, una semplice appropriazione non è così semplice. Ho dovuto fronteggiare tante decisioni, dilemmi morali, preferenze linguistiche e questioni filosofiche, quante ne avrei trovate in un lavoro originale o di collage. Eppure continuo a strombazzare della «mancanza di valore» di quest’opera, della sua «mancanza di nutrimento», la sua scarsa creatività e originalità, quando è chiaramente vero il contrario. In realtà, non sto facendo nient’altro che tentare di irretire la letteratura nello stesso tipo di tendenza all’appropriazione che il mondo dell’arte visiva adotta da decenni. Potrebbe esserci, in effetti, non poca verità nelle parole dei miei detrattori quando sostengono che io non sono poi così radicale, che su questi oggetti si trova comunque il mio nome e che tutte le decisioni prese in fondo hanno lo scopo di esaltare il mio stesso genio. Per essere un progetto senza ego, contiene sicuramente troppo di me. Un famoso blogger ha 141

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commentato acutamente: «Il vero progetto artistico di Kenny Goldsmith è la proiezione di Kenny Goldsmith».5 Ma nel XX secolo il mondo dell’arte è pieno di gesti di questo tipo; artisti come Elaine Sturtevant, Louise Lawler, Mike Bidlo o Richard Pettibone hanno ricreato per decenni opere di altri artisti, rivendicandole come proprie, e sono stati da tempo assorbiti in una pratica legittima. Come possono gli scrittori più giovani oggi procedere in modo completamente nuovo utilizzando le tecnologie e le modalità di distribuzione del presente? Forse un’idea dei territori in cui si svolgerà la battaglia del futuro l’abbiamo avuta quando tre scrittori anonimi hanno editato l’ormai famigerato Issue 1, un’antologia non autorizzata di 3785 pagine, «scritta» da 3164 poeti le cui poesie non sono in realtà state scritte dai poeti a cui sono attribuite. Al contrario, le poesie sono state generate da un computer, che le ha sincronizzate in modo casuale con i diversi autori. Da un punto di vista stilistico non ha senso: a un poeta tradizionale è associata una poesia radicalmente disgiuntiva scritta da un computer e viceversa. L’intenzione dei creatori di Issue 1 era di provocare su vari fronti. Può la più grande antologia di poesia mai scritta essere stata messa insieme senza l’intervento di nessuno e poi distribuita in tutto il mondo nel corso di una notte? Questo gesto è in grado di causare istantaneamente uno scandalo letterario? È davvero importante che i poeti scrivano le loro poesie o basta un computer che scriva per loro? Perché proprio quei 3164 poeti e non tutte le altre migliaia di poeti che scrivono in lingua inglese oggi? Che significa essere stati inclusi? Ed esclusi? E chi c’è dietro tutto questo? Perché lo hanno fatto? Con il suo programma concettuale e la negazione dei tradizionali metodi di creazione, distribuzione e autorialità, Issue 1 condivide molte delle pietre miliari della scrittura non creativa. Eppure non era tanto la componente stilistica a far alzare le sopracciglia, era la meccanica – la distribuzione e la notifica – a infastidire i «contributors». Il lavoro è stato compresso in un enorme PDF, che poi una sera, sul tardi, è stato messo su un server multimediale. Molte persone hanno scoperto di 142

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essere state incluse nel progetto come prima cosa al mattino, quando il Google Alert che avevano impostato con il loro nome li ha informati di essere stati inseriti in una nuova importante antologia. Cliccando sul link sono finiti sull’antologia, poi, scaricandola, hanno trovato il loro nome legato a una poesia che non avevano scritto. Come un incendio che si propaga incontrollato, la comunità ha cominciato a reagire: perché sono lì dentro? Perché non ci sono? Perché il mio nome è stato abbinato a quella poesia? Chi è il responsabile di questa cosa? La metà dei «contributors» è stata felice di essere inclusa, l’altra metà era furiosa. Alcuni dei poeti inclusi hanno affermato di voler inserire la poesia che era stata loro attribuita all’interno della loro prossima raccolta. Parlando a nome degli autori contrariati la cui reputazione e il cui genio autentico erano stati macchiati, il blogger e poeta Ron Silliman ha detto: «Issue 1 è ciò che chiamerei un atto di vandalismo anarco-flarf […]. Giochi con la reputazione di altre persone, ma lo fai a tuo rischio e pericolo». Ha proseguito citando una causa degli anni Settanta nella quale lui e un gruppo di altri autori avevano ricevuto una somma di denaro come risarcimento a seguito di una violazione del copyright, suggerendo che un gesto simile sarebbe stata una buona idea per coloro che erano stati truffati da Issue 1. Parlando direttamente ai creatori di Issue 1, Silliman si pronuncia con tono minaccioso, affermando: «Così come non ho di certo scritto io il testo associato al mio nome a pagina 1849 […] non penso che voi abbiate scritto il vostro».6 Ma in fondo Silliman scrive davvero le sue opere? Come per molti poeti, la risposta è allo stesso tempo sì e no. Negli ultimi quarant’anni, uno degli obiettivi principali nella pratica di Silliman è stato quello di sfidare le nozioni legate a un tipo di voce autoritaria, stabile e autentica. Le sue poesie sono composte da frammenti di linguaggio, frasi vaganti e osservazioni che portano il lettore a chiedersi da dove provengano. Silliman usa spesso l’«Io», ma non è chiaro se sia davvero lui a parlare. Una vecchia poesia, Berkeley, mette esplicitamente in discussione la singolarità dell’autore. In un’intervista del 143

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1985, afferma: «In Berkeley, nella quale ogni riga è un’affermazione che inizia con la parola “Io”, succede qualcosa di molto simile. La maggior parte delle righe è materiale trovato, pochissime vengono dalla stessa fonte, e sono ordinate in modo che si eviti il più possibile la sensazione di un’esposizione narrativa o normativa. Eppure, per giustapposizione, questi Io reiterati formano un personaggio, si sente una presenza che in realtà non è altro che l’astrazione di una rappresentazione grammaticale […]. E questa presenza, a sua volta, ha un impatto significativo su come una determinata riga possa essere letta o compresa, in modi anche molto distanti dal suo significato nel contesto originale».7 Bob Perlman, scrivendo di Berkeley, ribadisce le affermazioni di Silliman, «una poesia degli inizi come Berkeley […] sembra specificamente voler distruggere qualsiasi lettura che possa produrre un soggetto unico. Le poesie consistono in un centinaio di frasi in prima persona il cui aspetto meccanico – ognuna inizia con «Io» – le rende impossibili da unire: «Io voglio riscattarmi / Io posso spararti / Io in realtà non ne ho idea / Io dovrei dire che non è una maschera / Io devo ricordarmelo la prossima volta / Io non voglio conoscerti / Io non sono vestito / Io ho dovuto correre il rischio / Io ho guardato / Io non sono interessato a ciò che ne farai / Io sono fuori dal sole / Io avevo ancora ciò che mi apparteneva / Io resterò qui e morirò / Io mi sono convinto di questa opinione / Io l’ho scaricato nel water / Io sono crollato sulla mia sedia / Io ho dimenticato dove si trova, signore».8 Per essere un poeta che ha passato gran parte del suo tempo a smantellare la stabilità dell’autore, la risposta di Sillman a Issue 1 è davvero sconcertante. Issue 1 non estende forse l’ethos di Silliman alle sue estreme conseguenze? Dato che non c’era molto da discutere riguardo alle poesie – al confronto di tutto il resto, quello sembrava un aspetto abbastanza irrilevante – siamo stati costretti a considerare l’apparato concettuale che gli autori anonimi hanno messo in moto. Con un gesto hanno spostato l’attenzione dal contenuto al contesto, mostrandoci cosa significa essere un poeta nell’era digitale. Essere un poeta, in qualsiasi epoca – digitale 144

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o analogica – pone la propria pratica al di fuori delle economie normative, permettendo teoricamente a questo genere letterario di correre rischi che iniziative più redditizie non comporterebbero. Proprio come abbiamo visto per le più avventurose sperimentazioni linguistiche del secolo scorso, ora è il momento di fare lo stesso con le nozioni relative all’autore, alla pubblicazione e alla distribuzione, come hanno dimostrato le provocazioni di Issue 1. Al centro di tutto c’è l’appropriazione. L’agitazione del XX secolo sull’autenticità dell’autore impallidisce di fronte a ciò che succede con Issue 1. Non solo i testi sono frutto di appropriazione, ma tutto è aggravato dall’appropriazione dei nomi e delle reputazioni, collegati casualmente a poesie scritte da altri. È la più grande antologia di poesia mai compilata ed è stata distribuita a migliaia di persone in un fine settimana da un blog, e poi commentata all’infinito su altri blog e ancora nei commenti di quei blog. Poi la fiamma si è spenta, e non ci rimane che una sala degli specchi. In effetti, il Web è diventato lo specchio per l’ego di un autore che è assente ma molto presente. Se Benjamin ha reso praticabile l’appropriazione e il mio lavoro analogo ha esteso il suo progetto prendendo in prestito la forma libro, progetti come Issue 1 portano il discorso nell’era digitale, allargando notevolmente le possibilità di appropriazione quanto a scala e portata, dando il colpo di grazia alle tradizionali nozioni di autorialità. Liquidare questo come un semplice «atto di vandalismo anarco-flarf» significa non cogliere la chiamata contenuta nel gesto, il fatto che l’ambiente digitale ha completamente cambiato le condizioni della letteratura, sia in termini di contenuto che di autorialità. In un’epoca in cui la quantità di linguaggio cresce in modo esponenziale, insieme all’accesso agli strumenti con cui gestire, manipolare e alterare quelle parole, l’appropriazione è destinata a diventare solo un altro strumento nella cassetta degli attrezzi degli autori, un accettabile – e accettato – metodo di costruzione dell’opera letteraria, anche per gli scrittori più tradizionali. 145

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Accusato di «plagio» per il suo ultimo romanzo, che è stato definito una «opera di genio» dal quotidiano Libération, lo scrittore francese di grande successo Michel Houellebecq ha detto: «Se queste persone lo ritengono davvero [un plagio], non hanno la minima idea di cosa sia la letteratura. […] Questa cosa fa parte del mio metodo. […] Questo approccio, che mescola documenti reali e finzione, è stato usato da molti autori. Sono stato influenzato in particolare da [Georges] Perec e [Jorge Luis] Borges. […] Spero che contribuisca alla bellezza dei miei libri, l’uso di questo tipo di materiale».9

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6 PROCESSI INFALLIBILI Cosa può imparare la scrittura dalle arti visive? Nel campo delle arti visive la non creatività è da tempo considerata una pratica creativa. A partire dai readymade di Marcel Duchamp, il XX secolo ci ha letteralmente inondato di opere d’arte che hanno messo in discussione il primato dell’artista e le comuni nozioni di autorialità. Soprattutto negli anni Sessanta, con l’avvento dell’arte concettuale, le tendenze duchampiane sono state portate alle estreme conseguenze, dando vita a importanti corpus di lavori, spesso effimeri o basati su proposizioni linguistiche, opera di grandi artisti come Dan Flavin, Lawrence Weiner, Yoko Ono e Joseph Kosuth. Ciò che hanno fatto è secondario rispetto al modo in cui lo hanno fatto. Gli scrittori possono imparare molto da questi artisti, in particolare da come hanno sradicato le tradizionali nozioni di genio, lavoro e processo: idee particolarmente rilevanti nell’ambiente digitale di oggi, visto che tanta arte concettuale si basa proprio su un linguaggio sistematico e logico. Come i poeti concreti e i situazionisti, l’arte concettuale intrattiene un legame diretto con l’utilizzo materiale del linguaggio. Molti artisti concettuali hanno utilizzato le parole come principale medium, nella forma di proposizioni ma anche come lavori da esporre in galleria. C’è tanto da imparare dall’esempio dell’arte concettuale, anche per il pubblico contemporaneo di lettori. Oggi nessuno si stupisce se entrando in una galleria trova sulla parete solo qualche riga di testo a indicare una ricetta (Sol LeWitt), o se in un cinema o in una galleria viene proiettato un film di un uomo che dorme per otto ore (Sleep del 1963 di Andy Warhol), ma azioni simili, se rilegate tra le pagine di un libro o pubblicate in forma letteraria, riescono ancora a far scattare allarmi o grida del tipo: «Questa non è letteratura!». Nel corso degli anni Sessanta i frequentatori delle gallerie hanno imparato presto che i film di Warhol – per non fare che un esempio – più che guardarli bisognava pensarci, scriverne e discuterne, senza 147

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sentirsi obbligati a vederli per intero. In molti hanno anche capito che era inutile aspettarsi delle scosse emotive dai disegni di LeWitt, sapendo che non ce ne sarebbero state. Hanno imparato a farsi un altro tipo di domande, riconoscendo infine che le espressioni meccaniche possono essere altrettanto belle ed emozionanti, anche se in modo diverso. Ogni resistenza a questo tipo di tendenze nel mondo dell’arte è svanita rapidamente, e sia Warhol che LeWitt sono stati canonizzati, diventando in fin dei conti degli artisti mainstream. Se la storia dell’arte concettuale è ben conosciuta, le sue sovrapposizioni e connessioni con la scrittura contemporanea e con la cultura digitale sono molto meno indagate. Quella che segue è un’analisi del lavoro di Sol LeWitt e di quello di Andy Warhol in una prospettiva applicabile alla scrittura non creativa. Se entrambi tendono al fine di liberare l’artista dal peso del suo «genio», ognuno lo fa a modo suo, LeWitt con la matematica e i sistemi, Warhol attraverso la contrazione, la falsificazione e l’ambiguità. Una delle descrizioni della procrastinazione che preferisco è contenuta in questo ritratto di John Ashbery scritto nel 2005 per il New Yorker: È già tardi, sono le cinque o le cinque e mezzo. John Ashbery è seduto alla sua macchina da scrivere, ma non sta scrivendo. Prende la sua tazza di tè e beve due sorsi piccoli perché è ancora abbastanza caldo. La riappoggia sul tavolo. Oggi dovrebbe scrivere delle poesie. Si è svegliato abbastanza tardi stamattina e da allora non ha più smesso di perdere tempo. Ha bevuto del caffè. Ha letto il giornale. Si è immerso nella lettura di un paio di libri: una biografia di Proust che aveva comprato cinque anni fa ma che ha appena iniziato a leggere perché gli è improvvisamente venuto in mente di farlo, e un romanzo di Jean Rhys che ha trovato di recente in una libreria dell’usato… non è un lettore sistematico. Ha acceso la televisione e ha guardato metà di qualcosa di molto stupido. Non si sentiva di lasciare l’appartamento: fuori era particolarmente afoso e stagnante, persino per l’estate 148

PROCESSI INFALLIBILI

di New York. Ha provato per tutto il tempo un continuo ma debole sentimento di ansia, collegato al fatto di non aver ancora cominciato a scrivere e di non avere idee. La sua mente si è persa nei pensieri. Ha pensato a un dipinto di Jean Helion che aveva visto di recente in uno spettacolo. Ha valutato se fosse il caso di ordinare la cena dal nuovo ristorante indiano che ha scoperto sulla Ninth Avenue. (Non uscirà. Ha settantotto anni. Non esce molto spesso di questi tempi.) Durante il tragitto per il bagno si è accorto di avere urgente bisogno di un taglio di capelli. Ha parlato al telefono con un amico poeta che era malato. Alle cinque, però, ha dovuto fare i conti con il fatto che gli rimaneva solo un’ora prima che la giornata lavorativa fosse finita, così ha messo un CD nello stereo e si è seduto alla sua scrivania. Nota che c’è una piccola macchia sul muro che non aveva mai notato prima. Dal momento in cui inizia, gli ci vorrà solo mezz’ora o quaranta minuti per tirar fuori qualcosa di breve, ma la parte più difficile è proprio iniziare.1

Non c’è bisogno di preoccuparsi, signor Ashbery: ci sono un sacco di persone là fuori pronte ad aiutarla. E decine di libri che offrono antidoti a chi si trova nella sua situazione. Per esempio, potrebbe cambiarsi i vestiti («per ricominciare davvero da capo, John»); oppure provare a fare un po’ di stretching; è una buona idea anche alzarsi a prendere un bicchiere d’acqua ogni venti minuti; dovrebbe proprio provare la scrittura a mano libera… lasci che la sua mente si rilassi e fluisca, John; oppure provi a scrivere «male»; potrebbe essere una «buona idea disconnettersi da internet»; e forse sarebbe d’aiuto alzarsi dalla scrivania per sbrigare qualche faccenda. Ma c’è una soluzione offerta da tutti i libri sul blocco dello scrittore: scrivi cinque parole. Cinque parole qualsiasi. Segua questo consiglio, signor Ashbery, e non soffrirà mai più del blocco dello scrittore. Ironicamente, quest’ultimo suggerimento è stato effettivamente realizzato in forma d’arte almeno due volte nel secolo scorso: una volta da Gertrude Stein, che nel 1930 ha scritto una poesia di una sola frase che diceva «Five words in a line», 149

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e l’altra da Joseph Kosuth, che nel 1965 ha realizzato la poesia di Stein scrivendo in lettere maiuscole FIVE WORDS IN RED NEON, ovviamente in neon rosso. Stein e Kosuth fanno sembrare tutto molto facile. Con gesti come questi, viene da chiedersi come si possa ancora soffrire del blocco dello scrittore. Eppure, il poeta Kwame Dawes ci dice che «qualche anno fa, su NPR [National Public Radio, N.d.T.], Derek Walcott ha confessato di provare terrore di fronte alla pagina bianca, il terrore che prova colui che si chiede se può farcela ancora, se è in grado di scrivere una nuova poesia di successo. L’intervistatore ha riso incredulo, nel constatare che persino un grande premio Nobel può provare un tale terrore. Walcott ha insistito: “Chiunque [intendendo qualsiasi poeta, N.d.A.] dica il contrario sta mentendo.”».2 Non ne sono così sicuro. Di questo tipo di blocco dello scrittore non si sente mai parlare nel mondo dell’arte contemporanea. Forse qualcuno sente ancora qualche forma di blocco – quelli per esempio che restano ancorati alle vecchie idee sull’«originalità»; esiste però una consolidata tradizione che consiste nell’adottare metodi meccanici e processuali che aiutano a prendere decisioni. A cominciare da Duchamp, che ha usato il mondo come un negozio da cui prelevare i suoi articoli d’arte: se hai una buona ricetta, seguendo le indicazioni e aggiungendo i giusti ingredienti, darai vita a una buona opera d’arte. Soprattutto negli anni Sessanta, molti artisti hanno sostituito il metodo alla fatica, risolvendo così la lotta per la creazione. Mi viene in mente lo scultore Jonathan Borofsky, che a metà degli anni Sessanta esaurì la sua vena creativa quando ancora frequentava la scuola di specializzazione. Seduto da solo nel suo studio di Yale, cominciò semplicemente a contare, e continuò per settimane, fino a quando i numeri non passarono dalla sua mente alla sua bocca e poi alla pagina, e da lì alle tre dimensioni, finché questa pratica non diede vita a dei mondi figurativi pazzeschi. Le implicazioni per la scrittura sono profonde: immaginate che gli scrittori inizino a adottare questi metodi di lavoro in modo da non provare più il blocco dello scrittore. È 150

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quello che ha fatto Sol LeWitt quando ha scritto Paragraphs on Conceptual Art (1967) e Sentences on Conceptual Art (1969), manifesti di un certo peso che parlano a nome di una generazione che era interessata alle idee più che agli oggetti. Ed erano idee così buone che, una volta abbracciate, non si è mai più posto il problema di guardarsi alle spalle; in virtù di una serie rigorosa di limiti autoimposti, la sua produzione successiva è andata avanti per decenni in ogni direzione. LeWitt non ha mai più sofferto di alcun tipo di blocco. Se osserviamo attentamente il suo pensiero e la sua metodologia, scopriremo un modello per la scrittura non creativa che illustra tutto il percorso, dall’inizio all’esecuzione, fino alla distribuzione e alla ricezione. Sostituendo gli interessi visivi di LeWitt con quelli letterari, potremmo usare i suoi «Paragrafi» e le sue «Sentences» come mappe o manuali di scrittura concettuale e non creativa. In questi documenti, LeWitt fa appello a un’arte basata su ricette. Come quando si comprano gli ingredienti e poi si cucina un pasto, secondo lui tutte le decisioni necessarie a creare un’opera d’arte dovrebbero essere prese in anticipo e l’esecuzione effettiva del lavoro dovrebbe diventare semplicemente un compito, un’azione che non richiede troppo pensiero o improvvisazione, né tantomeno dei sentimenti autentici. Secondo lui, l’arte non deve basarsi sull’abilità: chiunque può realizzare un’opera. Durante la sua carriera, infatti, LeWitt non ha mai realizzato nulla con le sue stesse mani; ha invece assunto squadre di disegnatori e di operai, un gesto che rimanda alle botteghe dei pittori del Rinascimento e alle loro scuole di discepoli. L’idea gli venne mentre lavorava nell’ufficio di un architetto, dove si rese conto che «un architetto non se ne va con la pala a scavare le fondamenta e a posare mattone su mattone»;3 concepita un’idea, ci si affida ad altri per realizzarla. In questo senso LeWitt è molto simile a Marcel Duchamp, che affermò di aver rinunciato a fare arte per essere un respiratore. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare. Non ritengo che il lavoro da me realizzato possa avere, in 151

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futuro, una qualunque importanza dal punto di vista sociale. Dunque, se vuole, la mia arte potrebbe essere quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un’opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva né cerebrale. È una specie di euforia costante» disse Duchamp.4 (Ma naturalmente Duchamp non ha mai smesso di fare arte, ha lavorato per decenni in segretezza ed è questa contraddizione tra ciò che si dichiara e ciò che realmente accade che lega LeWitt a Duchamp, come vedremo più avanti.) Immaginate degli scrittori che fingano il silenzio, o che facciano scrivere i loro libri ad altri, come ha fatto Andy Warhol. Mi affascina l’idea che scrivere non sia un’attività basata sull’abilità, intesa in senso convenzionale. A John Cage, famoso per le sue opere basate sul caso, generate da un lancio di dadi, dall’I Ching o da software per la randomizzazione, veniva spesso chiesto perché facesse ciò che faceva. Non poteva farlo chiunque altro? La risposta di Cage era: «Sì, ma nessuno lo ha mai fatto». E se seguissimo l’esempio di LeWitt e inventassimo una ricetta che consiste in un invito rivolto a chiunque sia in grado di realizzare il lavoro? Potrei prendere uno qualsiasi dei miei libri, per esempio Day, e definire una ricetta a partire da quello: «Riscrivi un’edizione giornaliera del New York Times dall’inizio alla fine, percorrendo la pagina da sinistra a destra. Riscrivi ogni lettera stampata sul giornale, senza distinzione tra editoriali e pubblicità». Sicuramente le tue scelte – il modo in cui ti fai strada attraverso i fogli, come deciderai di dividere le righe, ecc. – saranno diverse dalle mie, e daranno vita a un lavoro completamente diverso. LeWitt ha ripreso l’affermazione di Duchamp secondo cui l’arte non deve essere esclusivamente retinica ed è andato oltre, dichiarando che l’opera d’arte dovrebbe essere creata con la minima quantità di decisioni, scelte e fantasia. È meglio, suggerisce LeWitt, che l’artista compia scelte deliberatamente non interessanti, in modo che uno spettatore non perda di vista i concetti alla base dell’opera; questa è una concezione molto vicina agli ideali della scrittura non 152

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creativa. E in certi casi non dovrebbe essere il prodotto finale a venir considerato opera d’arte; piuttosto, tutta la documentazione alla base dell’opera e il modo in cui è stata concepita e realizzata potrebbero rivelarsi più interessanti dell’arte stessa. Raccogli la documentazione e presentala al posto di quella che credevi sarebbe stata l’opera. LeWitt chiede all’artista di smettere di preoccuparsi di voler sempre essere originale e intelligente, sostenendo che le decisioni estetiche possano essere risolte in modo matematico e razionale. Se ti trovi in un vicolo cieco, disponi tutto in maniera equidistante, e come nella musica dance, darai all’opera un ritmo predeterminato e ipnotico. Non puoi fallire. Infine, ci mette in guardia: non farti abbagliare da nuovi materiali e dalla tecnologia, perché i nuovi materiali non producono necessariamente nuove idee, una trappola che continua a insidiare artisti e scrittori in questa nostra epoca così innamorata della tecnologia. Ora, gli intenti dichiarati da LeWitt, messi a confronto con gli splendidi risultati che caratterizzano la sua carriera, presentano qualche problema. Quando guardo i disegni a parete di LeWitt, a prescindere da quanto possano essere concettuali, vedo alcune tra le più stupefacenti opere d’arte mai realizzate. Come possono una retorica e un processo tanto sterili produrre risultati così sensuali e perfetti? Quando LeWitt afferma che l’opera d’arte può anche essere sgradevole, di certo non si riferisce ai frutti della sua pratica. Qualcosa mi porta a chiedermi se LeWitt non ci stia forse prendendo in giro. Per quanto mi è concesso di capire, siamo di fronte a un genio singolare, con un senso del visivo squisitamente raffinato, un perfezionista il cui nome è sinonimo di prodotti realizzati e perfezionati nei minimi dettagli, un vero affare da tutti i punti di vista: intellettuale, visivo ed emozionale. Forse possiamo trovare qualche indizio su questa discrepanza se guardiamo più attentamente il modo in cui questi lavori sono stati effettivamente realizzati. Prima di tutto, tutte le opere di LeWitt sono dettate da brevi ricette. Eccone una del 1969: 153

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Su una parete, usando una matita dura, si tracciano delle linee parallele distanti circa 3 millimetri tra loro e lunghe circa 30 centimetri, per un minuto. Sotto questa fila di linee, si disegna un’altra fila di linee per dieci minuti. Sotto questa fila di linee si disegna un’altra fila di linee per un’ora.5

e un’altra del 1970: Su un muro (liscio e bianco se possibile) un disegnatore disegna 500 linee gialle, 500 grigie, 500 rosse e 500 blu, in un’area di 1 metro quadrato. La lunghezza di ogni linea dev’essere compresa tra i 10 e i 20 cm.6

LeWitt non ha mai realizzato queste opere; le ha concepite e poi le ha fatte realizzare a qualcun altro. Ora, perché un artista concettuale dovrebbe realizzare qualcosa, soprattutto se ha una specifica avversione per il retinico? LeWitt non si sta contraddicendo quando afferma che «L’artista concettuale vorrebbe potenziare il più possibile l’enfasi sulla materialità o usarla in modo paradossale (per convertirla in un’idea)»?7 Poteva presentarli semplicemente come idee, come ha fatto Yoko Ono: DIPINTO DEL TEMPO Fa’ un dipinto in cui il colore si veda solo sotto una certa luce in un certo momento della giornata. Fa’ che sia un momento molto breve. 1961 estate8

Non abbiamo prove che il dipinto del tempo di Ono sia mai stato eseguito. E se lo fosse stato, le variabili per il suo successo sarebbero sfuggenti, soggettive e non specifiche. Non è del tutto chiaro dove questo pezzo debba essere eseguito. Si potrebbe supporre che, dal momento che si riferisce a un 154

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«certo momento della giornata», allora dovrebbe essere realizzato all’aperto. Supponendo che sia così, visto che la luce nel corso della giornata cambia all’infinito, come possiamo sapere a quale «certa luce» si riferisce? Come sappiamo qual è quel «certo momento»? E inoltre, cosa significa «un momento molto breve»: un secondo? Cinque minuti? Breve in relazione a cosa? Al corso della giornata? A una vita intera? Viceversa, se tentiamo di realizzare il dipinto al chiuso, quale tipo di luce è quella «certa luce»? A incandescenza? Fluorescente? A lume di candela? È una luce a ultravioletti? E infine, se in qualche modo riusciamo a ottenere tutte le coordinate in modo corretto, come possiamo sapere se abbiamo usato il colore giusto? Anche qui ci sono implicazioni mistiche: se riusciamo in qualche modo a capire come mettere in fila tutte le indicazioni – come Indiana Jones quando smuove una roccia che nasconde una caverna nascosta – anche noi potremmo essere ricompensati con una visione altrettanto cosmica. LeWitt è d’accordo con Ono. L’arte dovrebbe esistere esclusivamente nella mente. «Le idee possono essere opere d’arte; si trovano all’interno di una catena di sviluppo che alla fine può portare a una qualche forma. Non tutte le idee devono essere rese nella dimensione fisica», sostiene.9 Insiste tuttavia sul fatto che possano essere realizzate, un’affermazione che Ono non ha mai fatto, perché non ha mai specificato se il suo lavoro è letteratura, arte concettuale, una ricetta o dell’arte visiva, se debba essere realizzato oppure rimanere un concetto. Al contrario, nel corso della sua carriera, LeWitt è diventato famoso per aver eseguito le sue stesse istruzioni, rendendole altamente visive, affermando esplicitamente che «il progetto esiste come idea, ma deve essere reso nella sua forma migliore. Le idee dei disegni a parete da sole restano solo contraddizioni dell’idea di disegno a parete».10 La contraddizione è quindi uno stato che LeWitt sembra voler costantemente abbracciare, visto il suo atteggiamento e le sue iperboli. Le sue Sentences on Conceptual Art («Frasi sull’arte concettuale») iniziano con la frase dal sapore new age «Gli artisti concettuali sono più misti155

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ci dei razionalisti. Arrivano a conclusioni che la logica da sola non può raggiungere»11 e rende dichiarazioni da cappellaio matto del tipo «I pensieri irrazionali dovrebbero essere seguiti in modo assoluto e logico». Anche le sue istruzioni possono essere tanto vaghe e sfuggenti quanto quelle di Ono. Prendete per esempio questa ricetta per il suo disegno a parete del 1971, che è stato eseguito al Museo Guggenheim: Linee, non corte, non dritte, che si incrociano e si toccano, disegnate in modo casuale in quattro colori (giallo, nero, rosso e blu), sparse in modo uniforme, con la massima densità, a coprire l’intera superficie del muro.12

Qualcuno si è dovuto far carico di interpretare ed eseguire questo disegno, e sono felice di non essere stato io. Cosa intende con «non corte» e «non dritte»? E che significa «in modo casuale»? Qualche estate fa, mentre stavo ristrutturando un bagno, ho detto alla ditta che volevo le mattonelle con colori casuali. Pensavo che le avrebbero posate disordinatamente qua e là, in modo che apparissero casuali. Ogni notte, di ritorno dal lavoro, mi affacciavo alla porta del bagno per chiedermi come mai i lavori procedessero così a rilento. Un giorno, tornato durante la pausa pranzo per capire meglio cosa stesse succedendo, ho semplicemente visto Joe, seduto, che lanciava un dado per assicurarsi che, di fatto, ogni mattonella fosse messa in modo veramente casuale. Un’altra domanda: come si raggiunge la «massima densità»? Potrei interpretarla nel senso che a lavoro finito non si debba vedere neanche il più piccolo spicchio di parete bianca. Ma mi sembra un lavoro davvero ingrato e, se combinato al fatto che dobbiamo procedere in modo casuale, potrebbe richiedere una vita intera. E poi, mettiamo che impieghi dieci anni per farlo nel modo in cui credo che vada fatto, cosa accade se il mio tentativo non ha «successo»? Che succede se LeWitt non è soddisfatto del mio lavoro? E se le mie linee «non corte» sono trop156

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po lunghe e le mie «linee non dritte» sono troppo sinuose? Mi farebbe ricominciare da capo, come in un incubo sisifeo? Fortunatamente abbiamo la documentazione di un disegnatore di nome David Schulman che ha preso appunti mentre eseguiva il già menzionato pezzo del 1971 al Guggenheim: [Linee, non corte, non dritte, che si incrociano e si toccano, disegnate in modo casuale in quattro colori (giallo, nero, rosso e blu), sparse in modo uniforme, con la massima densità, a coprire l’intera superficie del muro.] Iniziato il 26 gennaio, senza la minima idea di quanto tempo ci voglia per raggiungere il punto di massima densità (che poi è un punto davvero ambiguo). Essendo pagato 3 dollari l’ora, cerco di far sì che i miei fabbisogni finanziari non incidano troppo sulla quantità di tempo impiegata per il lavoro… Dopo tre giorni ero già esausto, e non vedevo il minimo segno di densità. Avendo a disposizione solo un portamine, anche l’energia spesa a cambiare le punte si aggiunge alla stanchezza accumulata… Ho spinto per riuscire a buttar giù le linee più velocemente possibile, mantenendole non corte e non diritte, e più incrociate, tangenti e casuali che potevo. Ho deciso di usare un colore alla volta, e di usarlo fino a raggiungere il punto che considero un quarto della «densità massima»… I segnali di disagio sono diventati l’orologio inconscio che determina quando fermarmi e fare un passo indietro dal disegno. Salire la rampa per guardare il disegno a distanza mi ha dato un momentaneo sollievo dalla tensione fisica. Ogni colore si fa strada lentamente lungo una parte della parete come uno sciame di formiche… In un certo senso il disegno è paradossale. La densità e la distribuzione uniforme delle linee donano un effetto molto sistematico. Una volta determinate le singole difficoltà di ogni colore, ogni idea sul modo in cui scendono le linee rispetto a quelle già disegnate sfuma gradualmente fino a ritrovarmi a disegnarle senza alcun pensiero conscio. Disegnando mi sono reso conto che l’unico modo di concentrarmi intensamente era rilassare completamente il mio corpo. Un altro modo era dedicarmi all’atto del disegno in maniera meccanica. Mantenere il mio corpo completamente attivo in maniera 157

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quasi involontaria… in qualche modo rilassa la mia mente. Una volta rilassata la mente, i pensieri fluiscono a un ritmo più regolare e veloce.13

Se Schulman ci dà qualche risposta, anche il suo punto di vista è piuttosto nebuloso. Neanche lui sa cosa significhi densità, ed è molto vago sul significato di «non corte» e «non dritte» o su cosa si intenda esattamente per «casuale». E alla fine sembra non parlare più dell’esecuzione di un’opera d’arte, ma farnetica di scissione tra corpo e mente. L’intera testimonianza assume uno strano tono spirituale, più simile allo yoga che all’arte concettuale. È curioso come il lavoro cominci a costruirsi da solo, rispondendo alle domande di Schulman secondo un ordine proprio e delle regole proprie. LeWitt aveva stabilito – e quasi previsto – questo stato di cose quando disse: «Il disegnatore e il muro entrano in dialogo. Il disegnatore si annoia, ma poi attraverso questa attività senza senso trova pace o sofferenza».14 Come faceva a saperlo? In questo frangente si avvicina molto alle congetture mistiche di Ono. John Cage, che nel suo lavoro ha sempre adottato un approccio esplicitamente mistico di stampo zen buddista, disse qualcosa di molto simile: «Se una cosa è noiosa dopo due minuti, provate con quattro. Se è ancora noiosa provate per otto, sedici, trentadue, e così via. Alla fine scoprirete che non è affatto noiosa, anzi, è molto interessante»,15 nel tentativo di calmare i perplessi musicisti ingaggiati per eseguire la sua musica. In un certo senso, un musicista a contratto è simile a un creatore tipo David Schulman, un anonimo artigiano pagato per eseguire opere d’arte al servizio e a nome di qualcun altro. A differenza di un romanziere che, a parte il suo editor, lavora in stato di creazione solitaria, la musica suonata da orchestre e band, le performance dal vivo e a volte l’arte visiva – come nel caso di LeWitt – mettono in scena un contratto sociale. Se il lavoratore non viene trattato bene, può sovvertire il successo dell’opera, cosa che a Cage è accaduta spesso. Sono molti i racconti di John Cage che esce furioso dalle 158

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sessioni di prova dopo che i musicisti a contratto delle orchestre si erano rifiutati di prendere sul serio la sua musica. Con le sue partiture, Cage, al pari di LeWitt, lasciava ai musicisti un ampio margine di libertà, fornendo solo vaghe istruzioni, ma spesso era frustrato dai risultati. Nel bel mezzo di un pezzo basato su operazioni casuali astratte, per esempio, un trombonista avrebbe inserito alcune note di «Camptown Races», irritando moltissimo Cage. Parlando di un incidente accaduto a New York, Cage ha detto: «Messi di fronte a un tipo di musica come quella che avevo dato loro, si sono limitati a sabotarla. La New York Philharmonic è una pessima orchestra. Si comportano come un gruppo di gangster. Sono senza vergogna… quando sono sceso dal palco dopo un’esibizione, uno di quelli che aveva suonato peggio mi ha stretto la mano dicendo: “Torna tra dieci anni; ti tratteremo meglio”. Trasformano cose che riguardano la musica, e qualsiasi atteggiamento professionale nei confronti della musica, in una specie di situazione sociale per niente bella».16 Per Cage, la musica era un luogo in cui esercitare una politica dell’utopia: un’orchestra – un’unità sociale disciplinata e controllata a suo parere come un esercito – doveva invece avere la libertà di non agire come unità, permettendo a ciascun membro di essere un individuo all’interno di un corpo sociale. Minando alle basi la struttura dell’orchestra – una delle istituzioni più consolidate e codificate nella cultura occidentale – Cage pensava che, in teoria, l’intera cultura d’Occidente avrebbe potuto funzionare all’interno di un sistema che lui stesso definiva di «allegra anarchia». Cage disse: «La ragione per cui sappiamo che è possibile un cambiamento sociale non violento sta nel fatto che esistono cambiamenti artistici non violenti».17 LeWitt si sforzò di evitare situazioni imbarazzanti come quelle in cui si trovò Cage quando lavorò con orchestre affermate. (Al contrario di Cage, che a volte aveva a che fare con orchestre di 120 elementi, LeWitt era solito lavorare con un gruppo più ristretto di artigiani. Inoltre, i disegnatori, alcuni dei quali erano stati formati da lui stesso, erano general159

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mente solidali con il progetto e condividevano l’aspettativa che poi avrebbero avuto modo di addestrare altri artigiani, che a loro volta – alla maniera delle botteghe rinascimentali – avrebbero formato altri ancora, di generazione in generazione.)18 A tal fine, nel 1971, lo stesso anno in cui Schulman lavorava al pezzo del Guggenheim, LeWitt scrisse un contratto dettagliato per chiarire qualsiasi ambiguità sulla relazione sociale e professionale tra artista e disegnatore, consentendo a quest’ultimo una grande libertà: L’artista concepisce e progetta il disegno a parete. I disegnatori lo realizzano. (L’artista può assumere il ruolo di disegnatore.) Il progetto, scritto, orale o disegnato, viene interpretato dal disegnatore. Ci sono decisioni che il disegnatore deve prendere, nell’ambito del progetto, come parte del progetto. Ogni individuo, nella sua unicità, date le stesse istruzioni, le eseguirà in modo differente. Le capirà in modo differente. L’artista deve consentire diverse interpretazioni del suo progetto. Il disegnatore coglie il progetto dell’artista, poi lo riordina secondo la propria esperienza e il suo modo di vederlo. I contributi del disegnatore non sono prevedibili dall’artista, anche se lui, l’artista, sarà il disegnatore. Anche se lo stesso disegnatore eseguisse per due volte lo stesso progetto, avremmo due diverse opere d’arte. Nessuno è in grado di fare la stessa cosa due volte di seguito. L’artista e il disegnatore sono collaboratori nell’atto di creare l’opera. Ogni persona disegna le linee in modo diverso e ogni persona capisce le parole in modo diverso. Né le linee né le parole sono idee. Sono i mezzi attraverso cui le idee vengono veicolate. Il disegno a parete è opera dell’artista, purché il progetto non venga violato. Se accade, allora è il disegnatore a diventare l’artista e il disegno è una sua opera d’arte, ma un’opera che è la parodia del concetto originale. Il disegnatore può commettere errori nell’esecuzione del progetto, 160

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senza che il progetto venga compromesso. Tutti i disegni a muro contengono errori. Fanno parte dell’opera.19

Tuttavia, sebbene LeWitt sostenesse che l’artista e il disegnatore sono collaboratori, tutti i suoi collaboratori sono rimasti e continuano a rimanere senza nome, a differenza per esempio del generoso metodo di Ian Hamilton Finlay, poeta concreto e scultore scozzese che non ha mai prodotto un’opera d’arte senza indicare nel titolo il nome del suo creatore materiale: A Rock Rose (con Richard Demarco) o Kite Estuary Mode (con Ian Gardner). LeWitt aveva un’idea del diritto d’autore estremamente permissiva e lungimirante, visto che fino alla metà degli anni Ottanta ha consentito a chiunque volesse di copiare liberamente le sue opere, purché nel rispetto rigoroso della ricetta, considerando la copia come un complimento. In questo senso, presagiva le opinioni espresse nel 2006 dallo scrittore di fantascienza Cory Doctorow, i cui libri sono disponibili sia gratuitamente su internet sia sulla carta stampata. Doctorow dice: «Essere così noti da essere piratati è un traguardo. Preferisco che il mio futuro faccia parte di quella letteratura che la gente ha così a cuore da rubarla, anziché dedicare la mia vita a una forma di letteratura che non ha alcuno spazio all’interno del medium più importante di questo secolo».20 A differenza del materiale digitale, che può essere replicato all’infinito senza alcuna perdita di qualità, LeWitt alla fine ha rinunciato alla sua posizione iniziale, a causa delle tante pessime copie che sono state fatte da disegnatori inesperti, nonostante la sua visione utopistica con cui sosteneva che «chiunque avesse una matita, una mano e chiare indicazioni verbali» potesse fare i suoi disegni.21 In questo modo, LeWitt ci ricorda di quanto sia difficile fare della buona arte concettuale; per lui, la soluzione è stata quella di trovare un delicato equilibrio tra pensiero appassionato ed esecuzione precisa. Per altri artisti, il mix potrebbe essere diverso. Ha quindi puntato i piedi e invertito la rotta: le sue opere più tarde sono ancora migliori. È evidente come, con 161

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l’andare del tempo, «la qualità dei disegni di LeWitt sia migliorata, dal momento in cui molti suoi disegnatori si sono specializzati in tecniche particolari, diventando “guerrieri samurai” nelle loro arti applicate. Un LeWitt eseguito con abilità, oggi supera qualitativamente uno di quelli che l’artista stesso produceva regolarmente».22 Nei primi anni Ottanta LeWitt lasciò New York e si trasferì in Italia. Mentre era lì, circondato dagli affreschi del Rinascimento italiano, il suo lavoro subì enormi cambiamenti: all’improvviso diventò estremamente sensuale, organico, giocoso. L’epoca delle linee e delle misurazioni austere era finita. Al loro posto arrivarono opere colorate e stravaganti, che sembravano legate più al movimento pattern and decoration degli anni Settanta che all’arte concettuale procedurale basata su insiemi di regole. Eppure, erano opere create con metodi identici a quelli dei primi lavori. Cambiano solo gli ingredienti. Così, se i primi lavori ammettevano esclusivamente l’utilizzo dei quattro colori primari, aderendo a una geometria rigorosa, i nuovi lavori potevano essere psichedelici, alternando colori verde mela ad arancioni fluorescenti in motivi ondulati. Spesso avevano un aspetto pacchiano, risultando fuori posto nella white box di un museo. «Quando gli fu chiesto del cambiamento del suo lavoro negli anni Ottanta – quando cominciò a dipingere curve e forme libere con inchiostro e acqua, ottenendo nuovi colori – il signor LeWitt rispose: “Perché no?”».23 A un occhio inesperto, queste opere rappresentavano un completo tradimento di tutto il lavoro svolto fino ad allora. Apparivano come lavori bizzarri e apertamente retinici, privi di qualunque rigore formale. Ma a un esame più attento, erano basati su una ricetta così come quelli precedenti. Questi due pezzi del 1998, riportano le seguenti istruzioni: Disegno a parete 853: un muro delimitato e diviso verticalmente in due parti da una banda piatta di colore nero. Parte sinistra: un quadrato è diviso verticalmente da una linea curva. A sinistra: rosso lucido; a destra: verde lucido. Parte destra: un quadrato è 162

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diviso orizzontalmente da una linea curva. In alto: blu lucido; in basso: arancio lucido. Disegno a parete 852: un muro diviso da una linea tortuosa che parte in alto a sinistra e finisce in basso a destra; a sinistra: giallo lucido; a destra: viola lucido.

Ma è proprio questa, secondo me, la bellezza del tutto. Si tratta di lavori che, in qualunque modo fossero stati eseguiti, non sarebbero potuti venire male. Seguendo il progetto, sono stati realizzati in maniera perfetta e risultano quindi lavori perfettamente riusciti, a prescindere da quanto non-LeWittiani possano apparire. C’è molto da prendere da LeWitt: l’idea di arte senza autore, la danza socialmente illuminata tra l’autore e l’esecutore, lo smascheramento dell’impulso romantico, l’utilità della retorica ben architettata e della logica ferrea… per non parlare della libertà che porta con sé, dell’eleganza della forma e delle strutture primarie, del suo vincere la paura della pagina bianca, del trionfo del buon gusto, dell’accettazione della contraddizione. Ma c’è una cosa che risalta su tutte le altre. Facciamo continuamente i salti mortali cercando di esprimerci, eppure LeWitt ci dimostra che è impossibile non esprimersi. Forse gli scrittori si sforzano sin troppo, entrando in enormi impasse nel tentativo di dire sempre qualcosa di originale, nuovo, importante, profondo. LeWitt ci offre delle soluzioni per superare questi nostri blocchi. Se si costruisce una macchina perfetta e la si mette in moto, le opere si creano da sole. E i risultati rifletteranno la qualità della macchina: costruisci una macchina mal concepita e mal eseguita, e otterrai risultati scadenti; costruisci invece una macchina a tenuta stagna, ben congegnata e ponderata, e i risultati non potranno che essere buoni. LeWitt vuole portarci a invertire la nostra convenzionale idea di arte, che spesso si concentra solo sul risultato finale; in questo modo, inverte anche le nozioni comuni di genialità, mostrandoci il potenziale e il potere del «genio non-originale». 163

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Andy Warhol è forse la figura più importante per la scrittura non creativa. L’intera opera di Warhol si basa sull’idea di non creatività: un’apparente produzione a sforzo zero di dipinti meccanici e film inguardabili, nei quali non accade letteralmente nulla. In termini di produzione letteraria è andato persino oltre, chiedendo ad altre persone di scrivere i suoi libri, anche se in copertina la firma era la sua. Warhol ha inventato nuovi generi letterari: a. Un romanzo consiste nella semplice trascrizione di decine di cassette a nastro, errori, inceppamenti e balbettii compresi, riportati nell’esatto modo in cui erano stati pronunciati. I suoi Diari, un enorme tomo, furono dettati al telefono a un assistente che li trascrisse, e tracciavano i più insignificanti e banali movimenti della vita di una persona. Per dirla con Marjorie Perloff, Andy Warhol era un genio non originale, capace di creare un corpus del tutto originale isolando, riposizionando, riciclando, rigurgitando e riproducendo all’infinito idee e immagini non sue che, una volta usate, sono diventate completamente warholiane. Controllando appieno la manipolazione delle informazioni (i media, la sua cricca di superstar e la sua stessa immagine, per fare solo qualche esempio), Warhol ha capito che in questo modo poteva controllare la cultura. Warhol ci ricorda che creare una cosa che poi viene memata significa essere il creatore dell’evento scatenante. Molte re-azioni – come il ripostare o il ritwittare – sono ormai veri e propri riti culturali di appropriazione. Ordinare e filtrare – trasferire informazioni – equivale alla produzione di capitale culturale. Filtrare significa avere un proprio gusto. E oggi a comandare è il buon gusto: la squisita sensibilità di Warhol, combinata con il suo gusto, ha fatto sì che il fulcro della produzione artistica diventasse oggetto di contesa tra creatore e mediatore. In un’intervista televisiva del 1966, Warhol risponde controvoglia alle domande che gli vengono sparate da un aggressivo e scettico interlocutore fuori campo. Nell’intervista, un reticente Warhol siede su uno sgabello, di fronte a un ritratto di Elvis color argento. La telecamera indugia frequentemente sul suo primo piano, incorniciato da un paio di grandi occhiali 164

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da sole rotti; si copre le labbra con le dita, borbottando le risposte con voce esitante e a malapena udibile: WARHOL: Cioè, mi dovresti solo dire le parole e io potrei semplicemente ripeterle, perché non ci riesco, ehm… non riesco a… mi sento così vuoto oggi. Non riesco a pensare a niente. Perché non mi suggerisci le parole e io le faccio semplicemente uscire dalla mia bocca? D: No, non ti preoccupare perché… WARHOL: …no, no… Penso che sarebbe così carino. D: Vedrai che dopo un po’ ti scioglierai. WARHOL: Be’ no. Non è questo. È che proprio non ci riesco, ummm… Ho il raffreddore e non riesco, ehm, a pensare a nulla. Sarebbe così carino se mi dicessi una frase e io potessi semplicemente ripeterla. D: Be’, permettimi di farti una domanda a cui tu possa rispondere… WHAROL: No, no. Ma tu dimmi anche le risposte.24

Qualche anno prima, in un’intervista del 1963, Warhol chiede: «Ma perché dovrei essere originale? Perché non posso essere non-originale?». Non vede nessun bisogno di creare qualcosa di nuovo: «Mi piacciono le cose usate e riusate». Anticipando le idee sullo sradicamento della consueta divisione tra arte e vita che si sarebbero poi diffuse, dice: «Mi piacciono semplicemente le cose ordinarie. Quando le dipingo, non cerco di renderle straordinarie. Cerco di dipingerle il più ordinarie possibile… Per questo ho dovuto ricorrere alle stampe serigrafiche, agli stencil e ad altri metodi di riproduzione automatica. Eppure l’elemento umano ancora si insinua!… Non sopporto l’imperfezione. È troppo umana. Io sono per l’arte meccanica… Se qualcuno falsificasse la mia arte, non riuscirei a identificare l’originale e la copia». Warhol stesso incarnava una serie di contraddizioni: riusciva a malapena a parlare, ma le cose che ha detto sono entrate nella cultura come grandi verità; lavorava sul basso (su tutto ciò che era più commerciale) e sull’alto (creando alcune 165

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delle più difficili e stimolanti opere d’arte del XX secolo); era gentile e crudele, profano e religioso (Warhol andava in chiesa ogni domenica); un uomo apparentemente noioso che si circondava di uomini e donne entusiasmanti. E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito. La sua opera incarna alcune delle tensioni etiche e morali che animano gli scritti di Vanessa Place: cosa succede quando l’attività artistica di qualcuno si basa in modo programmatico sull’inganno, la disonestà, la bugia, la fraudolenza, l’impersonificazione, il furto d’identità, il plagio, la manipolazione del mercato, il conflitto psicologico e l’abuso consensuale? Cosa succede quando l’elemento umano viene gettato dalla finestra e la macchina acquisisce priorità rispetto alla carne e alle ossa? Cosa accade quando si rifiutano testardamente le emozioni, preferendo lo stile alla sostanza, l’insulsaggine alla genialità, il processo meccanico al tocco, la noia all’intrattenimento, la superficie alla profondità? E cosa succede quando l’arte ha come obiettivo l’alienazione, disconnettendosi intenzionalmente da ciò a cui normalmente si attribuisce un valore sociale e culturale? Warhol adottava una morale flessibile, quasi impossibile da concepire per la maggior parte di noi, sia nella teoria che nella pratica. Nel corso di tutta la sua carriera ha sperimentato questo tipo di etica sia nell’arte che nella vita, con conseguenze spesso devastanti. Nel mondo di Warhol non c’erano lieti fini; si viaggiava a tutta velocità e in grande stile, ma sempre verso il disastro. Con la sola notevole eccezione di Lou Reed, pochi abitanti della Factory ebbero una vita agiata o una carriera significativa al di fuori di quel momento. Per diversi di loro i risultati furono mortali. Wayne Koestenbaum, nella sua biografia di Warhol, dice che «molte delle persone che ho intervistato, che conoscevano o avevano lavorato con Warhol, sembravano danneggiate o traumatizzate dall’esperienza. O almeno così ho immaginato: forse erano già a pezzi prima di incontrare Warhol. Ma lui riusciva ad accendere i riflettori sulla rovina… riusciva a renderla spettacolare, visibile, udibile. Non ha fatto del 166

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male alle persone in modo consapevole, ma la sua presenza è divenuta il proscenio per un teatro del trauma».25 Warhol allestì il palco sul quale si consumava l’autodistruzione sistematica e pubblica delle persone, facendo sentire questi ragazzi persi come delle «superstar», ritraendoli nei suoi film per quello che erano (mentre parlavano, prendevano droghe, facevano sesso) e portandoli in giro per le feste più esclusive della città, quando era chiaro che, alla fine di tutto, sarebbe stato il nome di Warhol e la sua carriera a beneficiare delle loro illusioni. Quando spararono a Warhol, la porta della Factory, che una volta era sempre aperta, venne chiusa e molte ex superstar uscirono dalla sua cerchia. Warhol si guadagnò allora il soprannome di Drella – un misto tra Dracula e Cinderella – proprio per la sua capacità di dare e prendere allo stesso tempo. Questo è un lato di Warhol di cui si parla spesso, il tema del «maestro del disastro» che tutti conosciamo bene. Ma c’è anche un altro modo di vedere le cose. Vorrei proporre di prendere il suo esempio di ambiguità e contraddizione come esperimento utopico in cui la pratica artistica serve a testare i limiti della moralità e dell’etica in senso positivo. Se fossimo in grado di separare l’uomo dall’opera, ci renderemmo conto che in questa serie negativa di dialettiche Warhol proponeva uno spazio di gioco libero all’interno dei sicuri confini dell’arte. L’arte come spazio libero per dire «Che succederebbe se…?». L’arte come uno dei pochissimi spazi che abbiamo a disposizione nella nostra cultura per questo tipo di esperimenti. Siamo di nuovo in un territorio di contraddizioni: come possiamo separare la vita di Warhol, o la vita di qualsiasi artista, dalla sua arte? Per rispondere a questa domanda, direi di tirare in ballo un po’ di teoria, al fine di unire i puntini, usando il seminale saggio di Roland Barthes «La morte dell’autore». In questo saggio Barthes delinea una distinzione tra letteratura e biografia, dicendo, per esempio: «se ci trovassimo a scoprire, dopo aver ammirato una serie di libri che esaltano il coraggio e la fedeltà morale, che la persona che li ha scritti era un codardo e un lascivo, questa scoperta non avrebbe 167

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alcun effetto sulla qualità letteraria. Potremmo lamentarci della sua ipocrisia, ma non potremmo negare né smettere di ammirare le sue qualità di scrittore».26 Barthes si riferiva all’idea di un’opera senza autore come a un testo, piuttosto che come letteratura. La dimostrazione più potente del presupposto di Barthes risiede proprio nel vasto corpus di lavori letterari di Warhol. Prendiamo per esempio I diari, che sono rimasti nella lista dei bestseller del New York Times per quattro mesi. In un certo senso, è difficile immaginare una narrazione meno coinvolgente: più di ottocento pagine di diario in cui Andy registrava ogni centesimo speso sui taxi e ogni telefonata che faceva. L’idea di autobiografia attraversa falsamente l’intero libro, a cominciare dalla copertina, sulla quale campeggia l’esclamazione del Boston Globe: «L’autoritratto definitivo». L’accumulazione di dettagli minimi e insignificanti ricorda Life of Johnson di Boswell, a parte il fatto che è presentata come un’autobiografia. Prendiamo per esempio la voce del 2 agosto 1982: Mark Ginsburg doveva portare la figlia di Indira Gandhi da noi e continuava a telefonare, e anche Ina, e anche Bob dicendo quanto fosse importante, così ho lasciato perdere i miei esercizi, e poi invece si trattava solo di una nuora, italiana, e che non sembra per niente indiana. Andati da Michaele Vollbracht (taxi $ 4,50). Lungo il tragitto ho incontrato Mary McFadden e le ho detto quanto fosse bella senza trucco e lei mi ha detto che non se ne era mai messo tanto. Le ho detto che in tal caso, detto da una persona che si trucca, sembrava che non avesse trucco affatto. C’era Giorgio di Sant’Angelo. Il cibo sembrava molto chic ma io non ho preso nulla. Andato alla festa di Diane Von Furstenberg per il lancio dei suoi nuovi prodotti cosmetici (taxi $ 4) e tutti i ragazzi erano gli stessi che avevo visto a Fire Island. Era divertente vedere Diane che cercava di spingere i suoi prodotti, però i suoi abiti erano brutti, sembravano di plastica o qualcosa del genere. E li aveva fatti indossare a tutte le ragazze dell’alta moda presenti. C’era Barbara Allen e anche lei sembrava orribile. Tuttavia mi è venuta una 168

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nuova idea decorativa – grandi scatole colorate da disporre in una stanza e spostare mutando così lo schema dei colori dell’arredamento.27

Che vita! Warhol annulla gli esercizi per incontrare influenti personaggi pubblici. Poi va a incontrare Vollbracht – designer per Geoffrey Beene – e lì si imbatte in una giornalista di moda e si intrattiene con un altro stilista. Poi c’è una festa per, sì, un’altra stilista, quest’ultima circondata da bellissimi ragazzi gay di Fire Island e da bellissime modelle. Snobba le riccone e si fa ispirare dall’interior design. Si tratta di un’autobiografia? No. È un lavoro di finzione ispirato alla vita di Warhol, con tanto editing dietro. Dov’è l’autore? È stato Warhol a dettare e a dare forma alla sua immagine irreale: nessuno va al supermercato o in lavanderia, non c’è traffico, nessuna autoriflessione, nessun dubbio, nessun attrito. Warhol, a giudicare dal modo in cui ha raccontato la sua vita, era solo un vortice di glamour. Ma quando tutto è glamour, niente lo è veramente. È proprio questo il glamour warholiano: un glamour piatto e privo di tratti distintivi, tutte le persone e tutte le esperienze sono sostituibili con altre. I personaggi e l’ambientazione sono usa e getta: quello che conta è il fattore wow. È un’autobiografia sfacciatamente di finzione, come ovviamente lo sono tutte le autobiografie. Warhol ha documentato meticolosamente gli ultimi dodici anni della sua vita in una versione editata, chiamando ogni mattina la sua segretaria/ghost writer Pat Hackett e dicendole quello che aveva fatto il giorno precedente. Ogni telefonata cominciava in maniera abbastanza semplice, con il resoconto delle spese personali di Andy, per tenere alla larga l’agenzia delle entrate, ma presto si trasformava in un vero e proprio resoconto della sua vita. Hackett si comportava come guardiana e editor del libro, diventando autrice e plasmatrice della vita di Warhol, così come Boswell lo era stato per Johnson. In realtà, l’assistente ridusse poi il manoscritto originale di circa ventimila pagine, tenendo solo quello che lei riteneva «la parte migliore e più rappresentativa» di Andy.28 Hackett 169

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editò il testo senza pietà: «Se un giorno Andy era andato a cinque ricevimenti, posso averne messo uno solo. Ho applicato lo stesso principio anche ai nomi: ne ho eliminati molti per dare al Diario un ritmo narrativo e per evitare di ridurlo a un elenco di nomi, come certe cronache mondane che spesso dicono poco al lettore. Se Andy aveva nominato, diciamo, dieci persone, io posso aver scelto di includerne soltanto tre, quelle con le quali aveva conversato o delle quali parlava più dettagliatamente. Mi sembra che il testo non abbia sofferto di questo tipo di omissioni; anzi, se non fossero state fatte, il risultato sarebbe stato quello di distrarre e rallentare la lettura».29 Ma il lettore non è già abbastanza rallentato? Hackett si sbaglia se pensa che qualcuno si possa mettere davvero a «leggere» I diari tutti in una volta. L’unico modo di affrontarli è scorrere tra le pagine, ma anche in questo modo dopo un po’ diventano estenuanti per l’enorme quantità di informazioni di nessun rilievo. Per questo, per rendere meno gravoso l’onere di leggere l’intero testo, nelle edizioni successive è stato inserito un indice dei nomi e dei luoghi, in modo da permettere a coloro che facevano parte della cerchia di ritrovarsi facilmente – e a chi ne avrebbe voluto far parte di provare invidia. Non era un libro da leggere, ma da citare. Warhol ne sarebbe stato deliziato. Una volta ha detto: «Non leggo molto di quello che si dice su di me, guardo solo le foto negli articoli, non importa cosa dicono di me; leggo solo la struttura delle parole».30 Warhol, che asseriva di non leggere, ha pubblicato naturalmente quello che è senza dubbi considerato un libro illeggibile: a. Un romanzo. Eppure, come opera letteraria, ha tutte le caratteristiche di un Warhol: processi meccanici, refusi di stampa, errori di ortografia e un bel po’ di difficoltà modernista dovuta all’attenzione ai dettagli quotidiani. Se c’è una storia, è così sepolta dalla trascrizione letterale e dall’inconsistenza tipografica che il rapporto tra segnale e disturbo è così sbilanciato da rendere una lettura convenzionale praticamente impossibile, che ovviamente era l’intenzione di Warhol. Warhol ha conquistato il mondo del cinema spe170

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rimentale dei primi anni Sessanta con una strategia simile. La tendenza prevalente era il montaggio rapido e il jump-cut, ma Warhol fece l’opposto: mise la cinepresa su un cavalletto e la lasciò lì a riprendere… e riprendere… e riprendere… Non c’erano tagli, nessuna panoramica. Quando gli chiesero della lentezza dei suoi film, disse che non era interessato a progredire ma a regredire agli albori del cinema, quando la cinepresa era fissa su un cavalletto e catturava tutto ciò che accadeva di fronte a essa. Se avete mai visto i suoi provini di tre minuti, nei quali la cinepresa rimane fissa su un volto, non c’è dubbio che il suo punto di vista vi abbia convinto: sono tra i più belli e straordinari ritratti che siano stati mai fatti. Sleep, sei ore di un uomo che dorme, o Empire, otto ore di ripresa fissa sull’Empire State Building, sono ritratti incredibili, interamente basati sul tempo. Sebbene i primi film di Warhol consistevano in immagini di lunghissima durata e il suo libro invece in una serie di rapidi jump-cut, sullo spettatore e sul lettore avevano lo stesso identico effetto: noia e smania sfociano nella distrazione e nell’introspezione. La mancanza di una narrazione permette alla mente di vagare, allontanandosi dall’opera stessa, che poi era il modo in cui Warhol allontanava lo spettatore dall’arte per portarlo dentro la vita. a. Un romanzo doveva essere una registrazione a nastro della durata di ventiquattr’ore che ritraeva Ondine, una delle superstar della Factory, ma finì per trasformarsi in un mix di più di cento personaggi registrati nel corso di due anni. Ogni sezione del libro ha un’impaginazione diversa, come risultato delle particolarità di tutti i dattilografi che hanno lavorato sulle diverse registrazioni. Warhol decise di mantenere questa disomogeneità e di includere anche gli errori di ortografia. a. Un romanzo finisce per avvicinarsi molto all’idea di romanzo verità, ma è frutto di un testo con più autori, crivellato dalle soggettività di differenti trascrittori, che mette radicalmente in discussione le nozioni di genio individuale. Come in tutta l’opera di Warhol, il suo ruolo era quello del concettualista, o come sosteneva lui stesso del capo fabbrica, che si assicurava che i suoi operai eseguissero i suoi concetti con una discrezio171

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nalità tale da far sembrare che loro stessi avessero degli interessi in gioco, quando era chiaro che non era così. I suoi altri libri, La filosofia di Andy Warhol, POP, America, ed Exposures, furono scritti dai suoi assistenti. La loro voce divenne la sua voce pubblica, visto che Warhol è rimasto a lungo in silenzio. Quei famosi detti warholiani che si sentono in giro – tutti saremo famosi per quindici minuti, ecc. – non sono quasi mai stati scritti da lui. Se il modernismo di metà secolo cominciava a cimentarsi in quello che William Carlos Williams ha chiamato «il modo di parlare delle madri polacche», il vero modo di parlare delle madri polacche era di fatto troppo brutto, troppo poco rifinito per gran parte del mondo della poesia. Frank O’Hara, padre dei talk poem, ha affrontato con i suoi ultimi lavori quelle che Marjorie Perloff chiama «le bizzarrie della conversazione quotidiana»: «grazie per il buio e per le spalle» «oh

grazie»

ok, ci vediamo alla stazione meteo alle 5 prenderemo un elicottero per «l’occhio» del ciclone saremo così felici al centro di tutto finalmente ora il vento si avvicina veloce nulla accade e si allontana32

L’ultimo lavoro di O’Hara, Biotherm ( for Bill Berkson), scritto nel 1961, si sforza di dare un po’ di pepe al parlato quotidiano grazie ad alcune convenzioni poetiche, come per esempio l’inclusione dello spazio vuoto tra «oh» e «grazie» per segnalare il passare del tempo. Viene impreziosito anche il modo in cui la frase è formulata: fate caso alle virgolette intorno a «l’occhio». Tutt’altro che una comune previsione del tempo, «l’occhio» diventa la metafora per indicare un luogo calmo e lontano dai problemi di tutti i giorni. Se O’Hara si cimenta con «le bizzarrie delle conversazioni quotidiane», io mi chiedo quanto siano veramente quotidiane. Solo cinque anni dopo, a. Un romanzo spazza via la pretesa di un realismo 172

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basato sul parlato, con quasi cinquecento pagine di vero parlato.33 Come risultato, a. Un romanzo è brutto (scomposto) e difficile (quasi per nulla narrativo) tanto quanto lo è il parlato comune. Prendiamo per esempio questo passaggio da a: O—I gave him amphetamine, I gave him amphetamine one night, when when D—Recently? … O—I first met him. D—No no, a long time ago. O—and he was a frightening poetry D—Yeah. O-He wrote poetry, he wrote poetry D—It scared him very much. O— It scared him, … D—He’s been on LSDand uh, pills and uh every O—Baby, it doesn’t matter. D—It doesn’t matter, well well- O— Why why why don’t yo have to take pills D—Huh? O—Wht don’t you have to t-t-t-ake drugs? Why isn’t it a necessity for you to take drugs? D—Oh. O—Why, because you D—Well, no, I O—You’re as high as you are … Hello? WhO’s caluing? Buchess oh, Duchess lover, it’s Ondine.34

A differenza di O’Hara, le parole sono tutte mischiate in una stringa indifferenziata o anche peggio: per un errore di battitura, che Warhol ha volutamente lasciato, ritroviamo la strana composizione «LSDand» seguito da un ordinario «uh». E per quanto riguarda la presenza di preziosi momenti metaforici, non se ne trovano. Perché parliamo veramente di una dimostrazione delle «bizzarrie delle conversazioni quotidiane». Warhol ha portato l’interesse modernista per il «vero parlato» alla sua logica conseguenza, enfatizzando il fatto che le chiacchiere, nel loro stato originale, hanno una funzione disgiuntiva simile a quella di qualsiasi altra strategia modernista basata sull’utilizzo di frammenti. L’interesse di Warhol per il «vero parlato» non nasceva in uno spazio vuoto. A circondarlo c’era un intero culto di persone costantemente impegnate a tradurre effimeri frammenti di parlato in forma di testi. In POP, le sue memorie degli anni Sessanta, Warhol ci dice: Tutti, ma proprio tutti, registravano gli altri. I congegni meccanici si erano già impadroniti della vita sessuale della gente, con 173

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i dildo e ogni genere di vibratori, e ora si stavano impossessando anche della vita sociale, tramite i registratori e le Polaroid. La battuta più ricorrente tra Brigid e me era che tutte le nostre conversazioni telefoniche cominciavano con quello che aveva ricevuto la telefonata che diceva all’altro: «Ciao, aspetta un secondo», e correva ad attaccare la spina e ad accendere il registratore. Provocavo qualunque tipo di isteria mi venisse in mente al telefono per procurarmi una bella cassetta. Dato che non uscivo molto spesso e trascorrevo gran parte delle mattinate e delle serate in casa, impiegavo parecchio del mio tempo stando al telefono a spettegolare, rompere le scatole a qualcuno, a prendere idee dalla gente e a provare a immaginare quello che succedeva – ovviamente registrando tutto. Il problema era che occorreva molto tempo per farsi trascrivere una cassetta, anche quando avevi qualcuno che ci lavorava a tempo pieno. In quel periodo persino le dattilografe facevano le loro cassette: come ho detto, tutti lo facevano.35

Al museo Warhol di Pittsburgh, mentre facevo ricerche per il mio libro di interviste a Warhol, l’archivista si presentò con un carrello contenente delle enormi risme di carta. Mi disse che erano le trascrizioni complete delle registrazioni di Warhol nel corso degli anni. Apparentemente, ogni volta che usciva in giro per la città, Warhol portava con sé il suo registratore (che chiamava «moglie») e lo lasciava registrare per tutta la sera. Alla fine le persone si erano abituate a questa presenza, e ignorandolo parlavano liberamente, o forse lo facevano di proposito, sapendo che Warhol li stava registrando a futura memoria. La mattina, Warhol portava le cassette alla Factory, le lasciava su una scrivania e chiedeva a un assistente di trascrivere le registrazioni. Alla vista di quei documenti – trascrizioni grezze, non editate, di conversazioni perse e così effimere, intercorse decenni fa tra alcune delle persone più famose del pianeta – ho detto all’archivista che sarebbe potuto essere un altro grande libro. Ha scosso la testa, dicendo che per via delle leggi sulla diffamazione, le registrazioni potranno essere pubblicate solo nel 2037, cinquant’anni dopo la morte di Warhol. 174

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Al museo c’erano anche le capsule temporali di Warhol, ammassate su delle mensole nella biblioteca. Per gran parte della sua carriera di artista, Warhol ha sempre tenuto nel suo studio uno scatolone aperto nel quale metteva i detriti e le gemme di quello che passava per la Factory. Warhol non faceva distinzione rispetto a ciò che doveva essere salvato: incarti di hamburger e foto con gli autografi delle star, intere collezioni del suo magazine Interview, le sue parrucche… tutto finiva lì dentro. Quando una scatola era piena veniva sigillata, numerata e firmata da Warhol, come se ognuna fosse un’opera d’arte. Dopo la sua morte, le scatole sono finite al museo, per un totale di circa 230 metri cubi di materiale. Quando ho visitato il museo, ho notato che erano state aperte solo qualche dozzina di quelle che dovevano essere centinaia di scatole. Ho chiesto perché al curatore, il quale mi ha informato che ogni volta che una scatola viene aperta, ogni singolo oggetto presente nella scatola deve essere documentato, catalogato e fotografato in modo meticoloso, al punto che l’apertura di una scatola richiede circa un mese di lavoro a tempo pieno di due o tre persone. Le implicazioni non solo dell’atto di archiviare, ma anche del processo di decodifica – catalogazione, categorizzazione, preservazione – rendono l’opera di Warhol particolarmente lungimirante se vista in relazione alle odierne pratiche di scrittura promosse dal Web, in cui la gestione di tutte le informazioni che ci piovono addosso prende la dimensione di un’operazione letteraria (vedi l’introduzione di questo libro). L’opera di Warhol, quindi, andrebbe letta come testo e non come letteratura, secondo l’idea di Barthes che «Il testo è un tessuto di citazioni, provenienti dai più diversi settori della cultura»,36 che è la più semplice difesa di tutte quelle opere «non originali» e «non creative» basate sull’appropriazione che si sono susseguite nei decenni dopo Warhol. Questo spiega anche perché Warhol era in grado di prendere una foto di Jackie Kennedy e farla diventare un’icona. Warhol aveva capito che «il tessuto di citazioni» intorno all’immagine di Jackie si sarebbe potuto solo accumulare col tempo, diven175

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tando più complesso al trascorrere di ogni epoca o evento storico. Aveva un grande occhio per le immagini giuste, con il maggior potenziale cumulativo. La sua capacità costante di tirarsi fuori dal ruolo di autore faceva sì che i suoi lavori vivessero ben oltre lo spettacolo del momento. Come disse Barthes, «Una volta allontanato l’Autore, la pretesa di “decifrare” un testo diventa del tutto inutile».37 Quello che nella vita di Warhol appare in superficie come un castello di bugie è in realtà una volontaria cortina fumogena di disinformazione, creata per smontare la figura dell’autore. In una famosa intervista del 1962, Warhol disse: «La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina, e vale per qualunque cosa io faccia, ciò che desidero è fare le cose come una macchina».38 Per noi scrittori non creativi, infatuati della nostra era digitale e delle sue tecnologie, è quasi un’etica, eppure è solo uno dei tantissimi aspetti che ci ispirano del lavoro di Warhol. L’uso di diverse identità, il suo cavalcare la contraddizione, la sua libertà nell’utilizzo di parole e idee che non erano sue, il suo ossessivo catalogare e archiviare come epiloghi artistici, le sue esplorazioni nell’illeggibilità e nella noia, e il suo incrollabile impulso a documentare gli aspetti più grezzi e meno processati della cultura, sono solo alcune delle ragioni per cui l’opera e la mentalità di Warhol sono ancora fondamentali e continuano a ispirare gli scrittori di oggi.

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7 RICOPIARE SULLA STRADA Un po’ di anni fa tenni una lezione a Princeton. Alla sua conclusione, un gruppetto di studenti venne a parlarmi di un workshop che stavano facendo con uno dei più famosi scrittori di narrativa americani. Si lamentavano della sua mancanza di immaginazione pedagogica, dicevano che tutto consisteva nello stesso tipo di esercizi di scrittura creativa a cui erano costretti dai tempi del liceo. Per esempio, gli era stato chiesto di scegliere il loro scrittore preferito e produrre in una settimana un lavoro «originale» nello stile dell’autore scelto. Chiesi a una di loro che autore avesse scelto. Mi disse Jack Kerouac. Poi aggiunse che per lei si trattava di un compito insulso, perché per svolgerlo la sera precedente aveva semplicemente provato a «entrare nella testa di Kerouac» per buttare giù due righe «nel suo stile». Sulle prime, pensai che per scrivere nello stile di Kerouac sarebbe stato più opportuno partire per un lungo viaggio on the road, su una Buick del 1948 con la cappotta aperta, sniffando benzedrina dalla mano e mandandola giù con del bourbon, battendo furiosamente a macchina mentre si viaggia a 140 chilometri orari su una striscia di autostrada nel deserto. E comunque sarebbe un’esperienza completamente diversa da quella di Kerouac, per non parlare di quanto diverso sarebbe il risultato. Poi la mia mente è scivolata verso quegli aspiranti pittori che popolano ogni giorno il Metropolitan Museum of Art, spendendo ore a imparare copiando i Grandi Maestri. Se la cosa va bene per loro, perché non dovrebbe andar bene per noi? Al potere e all’utilità dell’atto di trascrivere fa riferimento Walter Benjamin, lui stesso maestro nell’arte della copia, in un passaggio in cui esalta le virtù del copiare, invocando accidentalmente la metafora della strada: La forza di una strada di campagna è differente se uno la percorre a piedi o se la sorvola con un aeroplano. Anche la forza di un testo è differente se lo si legge o lo si copia. Il passeggero sull’aeroplano può vedere solamente il modo in cui la strada crea il suo 177

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percorso nel paesaggio e si snoda assecondando le leggi del territorio che la circonda. Solo chi la percorre a piedi impara però a conoscere la forza che richiede… Solo un testo copiato è in grado di prendere il controllo dell’anima di colui che se ne occupa, mentre il comune lettore non sarà mai in grado di scoprire quei nuovi aspetti della sua interiorità che il testo stesso apre, la strada apre un varco nella giungla interiore che si chiude dietro di sé: perché il lettore segue i movimenti della sua mente nel volo libero del sogno a occhi aperti, mentre il copiatore si abbandona al suo controllo.1

L’idea di poter entrare fisicamente in un testo grazie all’atto di ricopiare è molto attraente in termini pedagogici: forse se quella studentessa avesse ricopiato a macchina un frammento – o, con più ambizione, l’intero testo – di Sulla strada, avrebbe probabilmente compreso lo stile di Kerouac in un modo più profondo e duraturo. Avendo saputo di questa mia proposta di copiarlo, un artista inglese, Simon Morris, ha deciso di ribattere a macchina l’edizione originale di Sulla strada del 1951, una pagina al giorno, su un blog chiamato Getting Inside Kerouac’s Head.2 Nel suo post di apertura scrive: «È un'idea divertente e ho pensato che ne sarebbe venuto fuori un lavoro interessante. Sarebbe bello realizzare questa proposta come lavoro a sé stante e, nel processo, capire cosa si può imparare dalla riscrittura della prosa di Kerouac». E così, il 31 maggio 2008, inizia: «Quando conobbi Neal mio padre era morto da poco…» riempiendo la pagina con la prima pagina di Kerouac e chiudendo il post esattamente in corrispondenza dell’interruzione della pagina stampata: «che mi ha fatto venire in mente il mio problema carcerario, adesso è assolutamente necessario rimandare tutte». Il post successivo sul blog, il primo di giugno, riprende dalla metà frase mancante del giorno prima: «le cose in sospeso riguardo ai nostri affari di cuore e cominciare subito a pensare a progetti specifici di lavoro». Il 22 marzo del 2009 ha raggiunto pagina 408, portando così a termine il progetto. 178

RICOPIARE SULLA STRADA

Morris non aveva mai letto il libro prima e mentre lo ha ricopiato si è goduto il lento svolgersi della narrazione. Per trascrivere una pagina di circa quattrocento parole, digitando con due dita, impiegava circa venti minuti al giorno. E, a mio avviso, ha instaurato un rapporto con il libro molto diverso da quello che avrebbe avuto se lo avesse semplicemente letto: «Ho detto a molte persone, in tono eccitato, che “è la lettura/il viaggio più esaltante della mia vita”. Non avevo mai prestato tanta attenzione a un libro, e non avendo mai letto Kerouac, posso confermare che lo svolgersi della storia è un’esperienza piacevole, una grande lettura. Non solo lo ribatto a macchina, parola per parola, giorno per giorno, ma lo ricontrollo, alla ricerca di errori, prima di postarlo sul blog… in questo modo ogni pagina viene ribattuta e riletta diverse volte… Ma il livello di attenzione richiesto da questo tipo di attività mi ha portato a fare attenzione a determinate caratteristiche della prosa di Kerouac, che se avessi letto normalmente non avrei quasi certamente notato». Morris fa eco a Gertrude Stein, che disse: «Io dico sempre che non si può mai capire che cosa è veramente un quadro o un oggetto se non lo si spolvera tutti i giorni, e non si può capire che cosa è un libro se non lo si dattilografa o se non se ne correggono le bozze. Solo allora si produce un effetto al quale non si arriva con la semplice lettura».3 Per esempio, Morris prende nota dell’uso che Kerouac fa dei trattini nel testo, e scopre che sono determinanti in funzione della scorrevolezza, fino a tracciare paralleli con le autostrade. Calcola anche quante volte viene usata la frase che dà il titolo al libro, «sulla strada», (ventiquattro volte nelle prime 104 pagine). Ecco la riflessione di Morris: «Nel libro di Kerouac, le parole “sulla strada” sono ripetute come un mantra e la loro ripetizione ti accompagna mentre attraversi il testo, lungo l’asfalto da Est a Ovest». Morris ha inoltre capito che le forme brevi di Kerouac sono pensate per lasciare al lettore il compito di completare la frase nella propria mente, al punto che lui stesso, ricopiando, ha aggiunto di suo pugno alcune parole: «Mentre ricopiavo le seguenti parole di Kerouac: “Il proprietario – erano le tre di notte – ci sentì par179

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lare di soldi e disse che ci avrebbe offerto gli hamburger senza farci pagare”, mi sono accorto che avevo aggiunto io le parole “senza farci pagare” e le ho dovute cancellare. Mi è successo in più di un’occasione. Ed esiste, ovviamente, la possibilità che non sempre mi sia reso conto delle mie aggiunte e che quindi abbia lasciato qui e lì qualcosa inserito nel testo di Kerouac». Viene da chiedersi quindi se questa sia davvero solo una copia o se in qualche modo non possa considerarsi un testo basato sull’originale, ma a sé. E spingendosi ancora oltre, magari si potrebbe produrre ancora un altro testo semplicemente buttandoci dentro parole a volontà, nella maniera in cui Morris ha inserito «senza farci pagare». In questo modo, Morris ci mostra che l’appropriazione non deve per forza consistere in un mero passaggio di informazioni, ma che in realtà spostare le informazioni può portare a una diversa forma di creatività dell’«autore», producendo aggiunte e versioni diverse di un testo – a volte perfino dei remix. Morris è allo stesso tempo un lettore e uno scrittore, nel senso più attivo di entrambi i termini. Negli anni Settanta i poeti più inclini alla sperimentazione con il linguaggio proposero un modo attraverso il quale il lettore poteva di fatto diventare scrittore. Atomizzando le parole, lasciate libere sulla pagina, oltre a scombussolare le regole della sintassi (mettendo le parole nell’ordine «sbagliato»), erano convinti che uno scenario linguistico non gerarchico avrebbe incoraggiato il lettore a ricostruire il testo a propria scelta. Alimentati dal pensiero di teorici francesi come Jacques Derrida, volevano dimostrare che quello del testo è un terreno instabile, fatto di segni e significanti in continuo cambiamento, che quindi né lo scrittore né il lettore possono considerare autorevole. Se il lettore fosse in grado di ricostruire un testo, questo sarebbe tanto (in)stabile e (non) significativo quanto quello dell’autore. Il risultato finale è una sfida ad armi pari, che sfata i miti gemelli dell’autore onnipotente e del lettore passivo. Penso che Morris sarebbe d’accordo con i language poets a proposito della necessità di mettere in discussione le tradizionali dinamiche di potere, ma ci arriva da tutta un’altra 180

RICOPIARE SULLA STRADA

prospettiva, appoggiandosi alla mimesi e alla replica anziché alla disgiunzione e alla decostruzione. Si tratta di spostare informazioni da un posto a un altro senza comprometterne l’integrità. Con pochissimi interventi, l’intera esperienza di lettura/scrittura viene messa in discussione. L’iniziativa di Morris innesca un gioco del telefono letterario nel quale il testo viene remixato in modi che siamo più abituati a vedere nel mondo della musica. Sulla strada di Kerouac resterebbe un’icona, ma inevitabilmente potrebbero comparire decine di versioni parassitarie e paratestuali. È quello che è successo a una poesia di Elizabeth Alexander, scritta per il discorso inaugurale di Obama a seguito della mia richiesta di remixarne le parole.4 Un mp3 di una sua lettura della poesia era disponibile sul «Beware of the Blog» di WFMU e, nel giro di una settimana, sono apparse sul Web più di cinquanta versioni molto diverse tra loro, ognuna ottenuta dalle sue parole e dalla sua voce. L’autore di un remix ha tagliato ogni singola parola della lettura di Alexander e le ha rimesse insieme in ordine alfabetico. Altri hanno mandato in loop e rovesciato la poesia, facendole dire l’opposto di quello che intendeva l’autrice; alcuni ci hanno aggiunto la musica; altri l’hanno recitata parola per parola, ma con toni parecchio insoliti; due ragazzini si sono anche cimentati in un beatbox. Come per Kerouac, lo status di Elizabeth Alexander rimane iconico, ma, anziché avere un’autrice che intona la poesia di fronte a un mare di persone, si è generata una reazione attiva che ha prodotto un fiume di risposte artistiche. La più non creativa era intitolata «I Am a Robot» e consisteva in una registrazione inalterata di Alexander che leggeva la sua poesia. Ma che c’è di nuovo in tutto questo? Non ci sono forse sempre state le parodie e i remix, scritti o parlati, di grandi e piccole opere? Certo, ma mai in modo così veloce e democratico, né in maniera così legata alla tecnologia. E l’alto valore mimetico di molte delle risposte – alcune delle quali usavano a malapena le parole di Alexander – ha dimostrato quanto nel nostro modo di pensare si siano ormai stratificate le idee legate alla ricontestualizzazione: molte di queste risposte non 181

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avevano finalità volutamente «creative» e «originali». Ma la riproposizione non creativa e non alterata di un artefatto iconico, messo in un nuovo contesto, si è dimostrata creativa di per sé. In ogni caso, trattando il testo di Alexander come un alimento per il remix, si sono venuti a creare nuovi significati, che coprono un’ampia gamma di espressioni: humor, ripetizione, détournement, paura, speranza. Allo stesso modo, l’atto di riscrittura di Morris sarebbe stato molto differente prima del Web. È difficile pensare a un precedente per un atto del genere. Esiste senz’altro un numero indefinito di versioni di libri non ufficiali o piratati, per i quali qualcuno ha speso ore e ore a ribattere a macchina (almeno fino all’avvento della fotocopiatrice), così come nella storia sono esistiti tanti tipi di scribi o scrivani medievali. Ma la fluidità dell’ambiente digitale ha incoraggiato e dato spazio a tutte quelle idee dormienti che vedevano la fruizione come un atto creativo/non creativo. Come ho scritto nell’introduzione, il computer incoraggia l’autore a imitare il suo funzionamento, laddove il copia-incolla è ormai parte integrante del processo di scrittura.5 Morris si domanda: «Se Kerouac fosse ancora vivo, pubblicherebbe il suo viaggio attraverso l’America sulla carta o su un blog o su Twitter?». Forse una risposta si può trovare in un’intervista a Jackson Pollock nel 1951, nella quale rispondeva a una domanda sul suo controverso metodo di pittura: «La mia opinione è che nuovi bisogni richiedono nuove tecniche. E gli artisti moderni hanno trovato nuovi modi e nuovi mezzi per fare le loro dichiarazioni. Secondo me il pittore moderno non può esprimere quest’epoca, l’aeroplano, la bomba atomica, la radio, attraverso le antiche forme del Rinascimento o di qualsiasi altra cultura del passato. Ogni epoca individua la propria tecnica».6 Per Morris, è il blog: «Ho probabilmente imboccato la strada inversa… più proseguo in questo viaggio sulla strada da Est a Ovest, più la mia storia torna indietro, disgiunta, spezzettata in un bollettino quotidiano». Ha paragonato i propri lettori a dei passeggeri che si uniscono al suo viaggio. 182

RICOPIARE SULLA STRADA

Il traffico generato dal progetto di Morris – in questo caso, il traffico Web – è stato minimo, a dispetto della comune convinzione che postare su un blog con costanza per centinaia di giorni generi di per sé interesse. Per tutta la durata del progetto, e anche dopo, quando il blog è rimasto online come reperto, Morris ha visto passare solo una manciata di commentatori/viaggiatori, e, stranamente, nessuno di loro aveva alcun legame con l’archivio Kerouac o con i suoi rappresentanti legali che avrebbero potuto lamentare l’illiceità di aver ripubblicato gratuitamente un’opera molto redditizia. L’opera di Morris è quindi un’anomalia – non un’edizione piratata da perseguire legalmente – e in quanto tale, essendo stata estetizzata e spogliata della sua funzione, non può che essere un’opera d’arte.7 Pochi mesi dopo aver finito di scrivere questo capitolo, mi è arrivato dall’Inghilterra un pacco contenente due libri, entrambi spediti da Simon Morris. Uno era l’edizione ufficiale inglese di Sulla strada di Jack Kerouac pubblicata da Penguin Modern Classics e l’altro era l’edizione cartacea di Getting Inside of Jack Kerouac’s Head di Morris. I libri sembrano identici: sono della stessa grandezza, hanno la stessa copertina e lo stesso stile tipografico (la foto in bianco e nero dell’edizione Penguin con Kerouac e Neal Cassady è imitata da un’immagine in bianco e nero di Morris e un suo amico, il poeta Nick Thurston). Anche il dorso è identico, a parte il fatto che il logo Penguin è stato rimpiazzato dal logo di Information as Material (l’editore della nuova edizione); anche la quarta di copertina è disegnata allo stesso modo, con i blurb, le foto di sfondo e i minimali degli altri libri pubblicati in precedenza dello stesso autore. Dentro, entrambi hanno gli stessi apparati biografici e i saggi introduttivi. A prima vista potrebbero essere scambiati per volumi identici. Ma le somiglianze finiscono lì. Quando apri il libro di Morris, la famosa prima riga di Sulla strada, «Quando conobbi Neal, mio padre era morto da poco…», non si trova. Al suo posto, la prima riga è una frase iniziata a metà: «i biglietti del concerto, e i nomi Sal e Laura 183

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e Remi e Vicki, la sua ragazza, insieme a una serie di battute tristi e ad alcuni dei suoi modi di dire prediletti, tipo: “Non si può insegnare al vecchio maestro una nuova canzone”». Ovviamente, la prima pagina del libro di Morris è l’ultimo post della sua maratona di riscrittura sul blog, e quindi la fine della prima pagina di Morris è la fine del rotolo di carta di Kerouac: «Penso a Dean Moriarty». Il libro si sviluppa al contrario, pagina dopo pagina (la prima pagina di Morris è numerata 408, la seconda 407, ecc.) finché non raggiunge l’inizio del testo originale di Kerouac. Avendo seguito online il progetto di Morris, è stato scioccante vedere un progetto legato a un blog prendere forma su carta. Se ormai è normale vedere cose stampate che prendono una forma digitale (l’e-book o il PDF, per esempio), è più raro incontrare un’opera nata sul Web che si materializza in uno stock di alberi morti, ancora di più se si considera che la versione canonizzata di Kerouac è conosciuta proprio per le sue versioni cartacee (il rotolo, l’edizione economica). Il gesto di Morris fa lo stesso effetto di vedere un vestito di alta moda venir gettato per errore nella lavatrice insieme agli indumenti da palestra. Dalla carta al Web e viceversa, il testo di Kerouac è riconoscibile ma allo stesso tempo in qualche modo raggrinzito, distorto, deforme. È lo stesso, ma è molto diverso; è il capolavoro di Kerouac visto al contrario in uno specchio. Morris riassume eloquentemente il progetto dicendo che «ci sono più differenze che similitudini, e questo rende interessante il fatto che lo stesso testo, ribattuto in un contesto differente, è un testo completamente nuovo». Eppure, quando gli viene chiesto come ci si sente nell’atto di ritrascrivere con la tastiera, Morris esita: «Uno spererebbe in una risposta profonda, ma in realtà non accade nulla. Non provo nulla. Un po’ come il viaggio stesso di Kerouac sulla strada e dentro se stesso, alla ricerca di qualcosa che non troverà mai». E poi si chiede titubante: «Non è che forse mi sto perdendo in questo ribattere “non creativamente” le parole di uno dei più celebrati atti di prosa spontanea della letteratura?» e risponde: 184

RICOPIARE SULLA STRADA

«L’unica cosa che posso dire con certezza è che non ho mai speso così tanto tempo con un libro o pensato così tanto a un testo. Quando leggi un libro, spesso sei simultaneamente dentro e fuori del testo. Ma in questo caso ho riflettuto sul processo di lettura molto più di quanto avrei fatto normalmente. Non si tratta solo di battere gli stessi tasti di Kerouac, nello stesso ordine, con alcuni rallentamenti, ma si tratta del processo stesso». Alla fine, non è sicuro di essere davvero riuscito a entrare nella mente di Kerouac, ma è chiaro che è riuscito a sprofondare nella propria testa, guadagnandosi una buona dose di autocoscienza, sia come lettore che come scrittore, che, dopo questa esperienza, non sarà più in grado di dare per scontata.

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8 PARSIFICARE LA NUOVA ILLEGGIBILITÀ Nei capitoli precedenti ho parlato dell’enormità di internet, della quantità di linguaggio che produce, e dell’impatto che tutto questo può avere sul lavoro degli scrittori. In questo capitolo vorrei estendere l’idea e avanzare l’ipotesi che, proprio a causa dell’esistenza di questo nuovo ambiente, esista un certo tipo di libri che vengono scritti non per essere letti ma per essere «pensati». Farò degli esempi di libri che, nella loro costruzione, sembrano imitare e allo stesso tempo commentare il nostro legame con le parole digitali, proponendo così nuove strategie di lettura – o di non lettura. Il Web funziona sia come luogo di lettura che di scrittura: per gli scrittori è una grande scorta di testo da cui costruire letteratura; i lettori fanno la stessa cosa, tracciando sentieri attraverso questo groviglio di informazioni e finendo per fare anche da filtro. Internet sfida i lettori non solo per il modo in cui è scritta (col suo esasperato utilizzo di sintassi normativo/descrittive) ma anche perché ha enormi dimensioni.1 Così come abbiamo dovuto sviluppare nuove strategie di lettura per leggere le complesse opere della letteratura modernista, allo stesso modo nuove strategie stanno emergendo dal Web: lo scorrimento veloce del testo, l’aggregazione di dati, i feed RSS, tanto per citarne qualcuna. Le nostre abitudini di lettura sembrano imitare il modo in cui le macchine rastrellano testi molto densi alla ricerca di parole chiave. Possiamo anche dire che online, al fine di comprendere tutte le informazioni che ci passano di fronte agli occhi, noi parsifichiamo il testo – ovvero lo sottoponiamo a un processo binario di analisi del linguaggio – più che leggerlo. E il numero di testi che vengono scritti da macchine per essere letti da altre macchine, anziché da persone, cresce costantemente, come dimostra la diffusione dello spoofing finalizzato ad aumentare il numero delle visualizzazioni o i click sulle pubblicità, o gli elenchi di password crackate, e così via. Se da un lato esiste ancora un’eccezionale quantità di intervento umano, il futuro della letteratura è sempre più meccanico. La genetista Susan 187

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Blackmore afferma: «Pensate ai programmi che scrivono poesie originali o che compilano grossolanamente le tesine degli studenti, o i programmi che immagazzinano informazioni sui vostri gusti in fatto di shopping e che poi vi suggeriscono i libri o i vestiti di cui avreste bisogno. Hanno scopi limitati, dipendono dall’input umano e si limitano a mandare segnali ai nostri cervelli, ma nonostante tutto copiano, selezionano e ricombinano autonomamente le informazioni che gestiscono».2 Le radici di questa dicotomia del leggere/non leggere affondano nella carta. Molti libri hanno sfidato il lettore non tanto con il loro contenuto ma con la loro mole. Tentare di leggere C’era una volta gli americani di Gertrude Stein è come provare a leggere il Web in maniera lineare. È possibile farlo perlopiù in piccole dosi, entrando e uscendo dal testo. Con le sue circa mille pagine, la sua massa può spaventare, ma il vero deterrente alla lettura del libro è rappresentato dalla sua mole, dato che «Da storia di una famiglia, questo libro s’era trasformato nella storia di tutti coloro che quella famiglia conobbe, e infine nella storia di ogni sorta d’uomini e d’ogni essere individuo»,3 risultando così un lavoro concettuale, una bella proposta difficile da mantenere. «Mai tentato. Mai fallito. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio»,4 dice Beckett, un’idea che si può facilmente applicare alla scrittura non creativa. C’era una volta gli americani è uno dei tanti progetti impossibili. L’anonimo La mia vita segreta, duemilacinquecento pagine di pornografia vittoriana, è un altro. Per quanto ogni pagina possa essere titillante – e ogni pagina effettivamente lo è – non c’è modo di ingerirlo per intero. È più che altro un concetto, una folle opera di linguaggio che voleva contrastare la morale del tempo, sia attraverso il contenuto che attraverso il volume. Doveva essere grande: è testo superfluo al suo stato più erotico possibile. O prendiamo Variable Piece #70 (1971) di Douglas Huebler, nel quale l’autore tenta di «documentare fotograficamente, nei limiti della sua capacità, l’esistenza di tutte le persone viventi, al fine di produrre la più autentica e inclusiva 188

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rappresentazione della specie umana che si possa mettere insieme in questo modo».5 Come Stein, Huebler inizia sul piano locale, fotografando chiunque gli passi davanti per strada. Poi comincia ad andare ai grandi eventi, anche sportivi, per fotografare la folla. Infine, per raggiungere il suo fine ultimo e rendendosi conto della futilità dei suoi sforzi, comincia a rifotografare foto già esistenti in cui compaiono tante persone. Ovviamente anche lui «ha fallito meglio». Un’altro esempio è Una storia orale del nostro tempo di Joe Gould, che nel 1942 avrebbe dovuto essere lunga «approssimativamente nove milioni e duecentocinquantacinquemila parole, cioè […] dodici volte la Bibbia»,6 scritto a mano, fronte retro, in modo così illeggibile da renderne possibile la lettura solo a Gould: Nella Storia orale, Gould mette solo cose che ha visto o sentito. Almeno metà dell’opera è composta di conversazioni, riportate parola per parola o riassunte; di qui il titolo. «Ciò che la gente dice è storia» dice Gould. «Quello che un tempo pensavamo fosse storia – re e regine, trattati, invenzioni, grandi battaglie, decapitazioni, Cesare, Napoleone, Ponzio Pilato, Colombo, William Jennings Bryan – è solo storia ufficiale, in gran parte falsa. Io scriverò la storia alla buona delle moltitudini in maniche di camicia – quello che hanno da dire sul lavoro, sull’amore, sul vitto, sui bagordi, sui guai, sugli affanni –, oppure perirò nello sforzo».7

La portata era enorme: dentro c’era di tutto, dalle trascrizioni dei soliloqui dei perditempo seduti sulle panchine dei parchi alle rime trascritte sulle pareti dei bagni pubblici: Centinaia di migliaia di parole sono dedicate al comportamento degli ubriachi e alle avventure sessuali di diversi frequentatori abituali del Greenwich Village negli anni Venti. Ci sono centinaia di racconti di feste affogate nel gin, con pettegolezzi sugli ospiti e fedeli trascrizioni delle loro discussioni su argomenti come la reincarnazione, il controllo delle nascite, il libero amore, la psicoanalisi, lo scientismo, il pensiero di 189

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Swedenborg, il vegetarianesimo, l’alcolismo, e diversi «ismi» politici e artistici. «Ho spaziato su tutta quella che si potrebbe definire la malavita intellettuale del mio tempo» dice Gould.8

Anche il progetto di Gould era destinato a fallire: nessun manoscritto fu mai veramente scritto. Si trattava di un’enorme bufala, così convincente che ci cadde anche Joseph Mitchell, un reporter del New Yorker, che scrisse un piccolo libro su di lui, finendo per diventare il biografo de facto di Gould. Sebbene non esista alcuna Storia orale, sappiamo invece che C’era una volta gli americani esiste davvero. Cosa dovremmo farci quindi se non leggerlo? La studiosa Ulla Dydo propone una soluzione radicale: non leggerlo affatto. Sostiene che gran parte dell’opera di Stein non è mai stata veramente concepita per essere letta con attenzione, ma per stimolare metodi di lettura visiva. Ciò che appariva così intenso e ripetitivo da risultare illeggibile era stato in realtà progettato per essere scorso e per deliziare l’occhio in termini visivi, mentre si tiene il libro tra le mani. Ecco un estratto dal capitolo intitolato «Mrs. Hersland e i suoi figli»: There are then always many millions being made of women who have in them servant girl nature always in them, there are always then there are always being made then many millions who have a little attacking and mostly scared dependent weakness in them, there are always being made then many millions of them who have a scared timid submission in them with a resisting somewhere sometime in them. There are always some then of the many millions of this first kind of them the independent dependent kind of them who never have it in them to have any such attacking in them, there are more of them of the many millions of this first kind of them, who have very little in them of the scared weakness in them, there are some of them who have in them such a weakness as meekness in them, some of them have this in them as gentle pretty young innocence inside them, there are all kinds of mixtures in them then in the many millions of this kind of them in the many kinds of living they have in them.9 190

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Questo passaggio dimostra quanto sia corretta la tesi di Dydo. È un testo estremamente visivo, il cui ritmo è alimentato dalla rotondità delle m e dalla verticalità dell’architettura delle lettere illi nella parola million. La parola million è l’unità semantica portante, con i suoi corrispondenti visivi – m e on – che incorniciano illi in modo quasi palindromo, come se l’on richiamasse visivamente le due gobbe dell’altra m. Gli spazi negativi della o e della n fanno eco agli spazi negativi della m. Il risultato è una costruzione visiva di una nuova parola, millim, un’unità palindroma meravigliosamente ritmica. Le m guidano lo sguardo all’altezza delle i, che poi portano più su verso le due l, l’apogeo dell’unità, per poi riscendere e tornare da dove siamo venuti. Questa sequenza visiva è rinforzata dalle parole sometimes e them. Il tessuto connettivo è dato dall’uso ripetuto delle congiunzioni more of them / little in them / have in them / some of them / kind of them / many of them, che permeano il passaggio e gli danno ritmo e scorrevolezza. Le parole di Stein, quindi, se viste in questo modo, non hanno la funzione che di solito hanno le parole. Possiamo leggerle come entità trasparenti o visive oppure come significanti di linguaggio costruiti interamente con altro linguaggio. Quest’ultimo è l’approccio adottato da Craig Dworkin nel suo libro Parse, nel quale parsifica un’intero libro di grammatica seguendo le sue stesse regole, facendolo diventare un libro di 284 pagine. La scrittura è quasi un’astrazione – uno schema – delle ripetizioni di Stein: Soggetto preparatorio terza persona singolare verbo intransitivo presente aggettivo di negazione Nome congiunzione disgiuntiva Nome pronome relativo locativo infinito ausiliare e participio incompleto usati insieme in un predicato passivo articolo determinativo Nome genitivo preposizione pronome relativo punto Pronome Relativo terza persona singolare verbo presente indicativo e avverbio richiesto che formano un predicato transitivo virgolette articolo determinativo singolare sostantivo possessivo sostantivo verbale preposizione del verbo infinito 191

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intransitivo infinitivo virgola virgolette tutte prese come oggetto diretto congiunzione virgolette articolo determinativo sostantivo verbale preposizione genitiva articolo determinativo sostantivo singolare virgola virgolette tutte prese come oggetto diretto congiunzione aggettivo aggettivo sostantivo plurale oggettivo diretto preposizione del verbo infinito intransitivo infinitivo e participio passivo incompleto usato come una complessa forma verbale passiva composta avverbio articolo determinativo aggettivo sostantivo punto Preposizione participio attivo pronome relativo pronome soggettivo in seconda persona verbo transitivo ausiliario in seconda persona virgola virgolette pronome relativo terza persona verbo transitivo presente indicativo in terza persona e avverbio richiesto a formare un predicato articolo indeterminativo Nome preposizione del verbo infinito intransitivo infinitivo e participio passivo incompleto usato come una complessa forma verbale passiva composta virgola abbreviazione di un vecchio imperativo francese punto virgolette singole articolo determinativo sostantivo verbale preposizione genitiva articolo determinativo sostantivo punto virgolette singole virgolette.10

Il libro da cui parte, How to Parse: An Attempt to Apply the Principles of Scholarship to English Grammar («Come parsificare: un tentativo di applicare i principi dell’erudizione alla grammatica inglese») di Edwin A. Abbott, fu pubblicato nel 1874 e giocò un ruolo chiave nel dibattito pedagogico sull’opportunità di analizzare la lingua inglese come se fosse latino. Migliaia di copie furono stampate nella forma di libri di testo nell’ultimo quarto del XIX secolo. «Quando incrociai per la prima volta il libro, mi tornò alla mente una confessione di Gertrude Stein (altro prodotto del 1874): “Sul serio, non so se esiste veramente qualcosa di più divertente di diagrammare le frasi”. E così, ovviamente, mi sono ritrovato a parsificare il libro di Abbott con il suo stesso, idiosincratico sistema di analisi», ci racconta Dworkin. Il processo fu lento e ci vollero circa cinque anni per portarlo a termine. Quando cominciò, Dworkin lo definì «DOLOROSAMENTE lento», ma verso 192

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la fine era ormai in grado di parsificare a «tutta velocità».11 Ma parsificare a tutta velocità richiede poca ispirazione, molta traspirazione, e un’ottima conoscenza delle regole della grammatica. È tutto lontano anni luce dallo stile ipnotico delle famose sessioni notturne di Gertrude Stein, nelle quali l’ispirazione era inseparabile dal processo: «Quando si scrive qualcosa, tutto è perfettamente chiaro, ma poi cominciano a nascere i dubbi: basta però rileggere e ci si torna a smarrire nell’opera, come quando la si è scritta».12 Ciò che Dworkin ci lascia è la struttura come letteratura, pura e semplice. Manca volutamente dei giochi ritmici, visivi e orali, che Stein inseguiva invece con tanta fatica. Ma ciò non significa che non esistono aspetti visivi di rilievo nel testo di Dworkin, piuttosto che emergono domande diverse sulle quali riflettere.13 Che significa «parsificare»? Il verbo parsificare viene dal latino pars, e fa riferimento alle parti del discorso. In ambito vernacolare, parsificare significa capire o comprendere. In letteratura è un metodo di suddivisione di una frase in componenti o parti di discorso con finalità di analisi della forma, della funzione e delle relazioni sintattiche di ogni parte con il tutto. In informatica significa analizzare o separare parti di codice in modo che il computer possa processarle più efficacemente. In informatica, la parsificazione è fatta da un parser, un programma che assembla ogni pezzetto di codice in modo da costruire una struttura di dati fluida. Ma è qui che la cosa si fa interessante: il linguaggio informatico per il parsing è basato su regole della lingua inglese, così come definite da studiosi come Abbott. Ora, le regole dell’inglese si sono nel tempo notoriamente complicate, diventando idiosincratiche e ambigue – basta chiedere a chiunque cerchi di impararlo – e tutte queste bizzarrie sono state trasferite nell’informatica. In altre parole, il compilatore si può facilmente confondere. A lui piacciono le ripetizioni e le strutture prevedibili; ogni ambiguità che si trova di fronte non fa altro che rallentare il programma. Al suo livello più programmatico, la parte più logica e meno ambigua del libro di Dworkin è quando parsifica l’indice completo del libro di Abbott. È così semplice che 193

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anche io posso farlo. Ecco la voce d’indice per la voce «due punti»: Due punti, 309.

che Dworkin parsifica così: Nome virgola numero arabo composto punto

o la voce per la parola «proposizione»: Proposizione, definita, 239.

che è: Nome virgola numero arabo composto virgola Nome punto

Una colonna dell’indice appare così: Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto virgola Nome punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto trattino numero arabo composto virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto Nome virgola numero arabo composto punto 194

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Nome virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto punto Nome virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto virgola numero arabo composto punto14

Questa semplice e ripetitiva struttura è quasi identica alle stringhe che si ottengono usando il comando ls in UNIX per visualizzare i contenuti di una directory. Ecco una porzione di un log scritto da un compilatore che annota ogni volta che un programma sul mio computer crasha: Kenny-G-MacBook-Air-2:Logs irwinchusid$ cd CrashReporter Kenny-G-MacBook-Air-2:CrashReporter irwinchusid$ ls Eudora_2009–07–24–133316_Kenny-G-MacBook-Air-2.crash Eudora_2009–08–05–133008_Kenny-G-MacBook-Air-2.crash KDXClient_2009–04–05–030158_Kenny-G-MacBook-Air.crash Microsoft

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Da notare la consistenza netta delle strutture di dati, oggetto/data/hard disk/crash, un metodo di scrittura ottimizzato utilizzato dai tempi di Abbott fino a Dworkin e ai Mac Book Air – retorica, letteratura, informatica – che impiega regole e processi identici. Sul piano del linguaggio c’è stato un livellamento generale del lavoro, per cui ogni persona – e ogni macchina – esegue essenzialmente lo stesso compito. Il teorico del digitale Matthew Fuller riassume tutto questo al meglio quando dice: «Il lavoro di scrittura letteraria e il compito di immettere i dati in un sistema condividono lo stesso ambiente performativo e concettuale, così come il giornalista e il coder HTML».15 L’indice di Dworkin da solo va avanti per circa dieci pagine e ricorda l’indice della poesia A di Louis Zukofsky. Lui lo chiama «Indice dei nomi e degli oggetti», ma a differenza di un tipico indice che include nomi e concetti, quello di Zukofsky indicizza anche alcuni articoli. Ecco l’indice delle voci a e the. a, 1, 103, 130, 131, 138, 161, 168, 173–175, 177, 185, 186, 196, 199, 203, 212, 226–228, 232, 234, 235, 239, 241, 243, 245–248, 260, 270, 281, 282, 288, 291, 296, 297, 299, 302, 323, 327, 328, 351, 353, 377, 196

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380382, 385, 391–394, 397, 402, 404–407, 416, 418, 426, 433, 434, 435, 436, 438, 448, 457, 461, 463, 465, 470, 473, 474, 477–481, 491, 493–497, 499, 500, 505, 507, 508–511, 536–539, 560–56316 the, 175, 179, 181, 182, 184, 187, 191193, 196, 199, 202, 203, 205, 206, 208, 211, 215, 217, 221, 224–226, 228, 231, 232, 234, 238, 239, 241, 243, 245–248, 260, 270, 285, 288, 290, 291, 296, 297, 302, 316, 321– 324, 327, 328, 336, 338, 342, 368, 375, 379, 380, 383–387, 390–397, 402, 404, 406, 407, 412, 416, 426–428, 434–436, 440, 441, 463, 465, 468, 470, 473, 474, 476–479, 494, 496, 497, 499, 506–511, 536–539, 560–56317

Esistono però alcune rilevanti imperfezioni nell’indice di Zukofsky. L’articolo a appare centinaia di volte tra la pagina 1 e la 103, ma non è indicizzato. La stessa cosa accade con il the, che appare in quasi ogni pagina del libro, ma l’indice dichiara che compare per la prima volta a pagina 175! Si è venuto a sapere che quando la University of California Press ha avvicinato Zukofsky per fare un volume completo di A, la sua idea iniziale era di fare un indice che contenesse solo a, an e the, che erano parole che lui considerava la chiave per capire la sua intera opera (un metodo di scrittura soggettivo basato sulla autolimitazione). Gli piaceva l’idea di un indice concettuale, e sua moglie Celia si mise al lavoro, ammassando migliaia di schede, di cui molte sarebbero state poi eliminate da Zukofsky se ritenute non necessarie per ragioni particolari. Da qui i buchi. Chiaramente Zukofsky pensava all’indice come a un’altra poesia – una poesia concettuale – che mettesse in ridicolo proprio l’idea che un dispositivo artificiale e formale come l’indice non può mai veramente controllare, categorizzare, addomesticare e stabilizzare una bestia così selvaggia e incontrollabile come il linguaggio, in particolare il linguaggio poetico. Ho scoperto che il modo migliore per mettersi in relazione con i testi più disorientanti non è quello di chiedersi cosa essi sono, ma cosa non sono. Se diciamo, per esempio, che Parse non è un libro di poesia, che non è narrativa, che non è un’opera di finzione, che non è melodico e non ha pathos, 197

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né emozioni, ma che allo stesso tempo non è un elenco telefonico, né un’enciclopedia, e così via, man mano diventa chiaro che si tratta dell’indagine materiale su una questione filosofica, un concetto travestito da letteratura. Allora cominciamo a porci delle domande: che significa parsificare un libro di grammatica seguendo le sue stesse regole? Che cosa ci dice questa operazione del linguaggio e del modo in cui lo processiamo, processiamo i suoi codici, le sue gerarchie, le sue complessità e ambiguità? Chi ha stabilito quelle regole? Quanto sono flessibili? Perché non sono ancora più flessibili? Quanto sarebbe differente il libro se fosse basato su un testo sulla parsificazione di frasi cinesi, per esempio? Dworkin sta forse mettendo in atto una vendetta adolescenziale verso Abbott, rovesciandogli il tavolo addosso, adottando un ossessivo approccio in stile Jack Torrance? Sta forse capovolgendo Abbott? Oppure Dworkin sta rilanciando l’appello di Abbott in Flatlandia ad andare oltre la pagina, aprendo un portale attraverso il quale potremmo vedere forse la vera dimensione del linguaggio? Il testo è così strano che proprio quando non lo leggiamo cominciamo veramente a capirlo. Ma, proprio quando crediamo di averlo capito, rimaniamo di nuovo fregati. Nel mezzo di tutta questa parsificazione incontriamo una frase dalla sintassi normale e compiuta. È l’intero testo che troviamo a pagina 217: NOME CARDINALE ROMANO NUMERALE PUNTO MODO CONGIUNTIVO La risposta è che noi desideriamo qui parlare della realtà, non come insieme di fatti definiti, ma come possibilità.18

È una frase bella e sicuramente rilevante, ma perché? Dworkin sta semplicemente traducendo in inglese standard i brevi esempi che Abbott utilizza per mostrare come si parsificano le frasi. 198

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Se parsificassimo la frase di Dworkin – nel modo in cui è indicato nel libro di Abbott – verrebbe fuori questo: Articolo determinativo sostantivo verbo di definizione singolare presente virgola pronome preparatorio pronome soggettivo prima persona plurale verbo transitivo presente prima persona plurale preposizione dell’infinitivo verbo infinitivo preposizione genitiva articolo determinativo sostantivo singolare oggettivo virgola avverbio controfattuale aggettivo sincategorematico sostantivo plurale virgola congiunzione sincategorematica sostantivo plurale punto19

Quindi Dworkin ha fatto un po’ di lavoro «creativo»: ha dovuto trovare diverse frasi, fatte di gruppi di parole originali significanti e sensate, che riflettessero in modo intelligente sul testo. Avrebbe potuto riempire quelle parole di qualsiasi significato – relativo al clima o all’idraulica o alla danza – ma ha deciso invece di utilizzare quegli esempi come inserti filosofici, che commentano sia il suo processo che il testo di Abbott. Un’altra dice: «Con l’intera frase illustrativa volta a suggerire un cast di personaggi strettamente impersonale, in un riduttivo dramma permutazionale alla Dick and Jane o alla Beckett».20 Questi piccoli esercizi hanno permesso a Dworkin di prepararsi a una nuova versione del libro, per la quale intende scrivere un vero e proprio romanzo – interamente con parole sue – utilizzando come modello la struttura grammaticale di Abbott. Seguirà il libro alla lettera, spargendolo qui e lì di nomi e verbi al presente dove è previsto che ci siano, fino a poi ritradurre l’intero libro seguendo le sue regole, una doppia fatica di Ercole. Dworkin avrebbe potuto semplicemente proporre l’opera – così come avrebbero potuto fare anche Zukofsky o Stein – ma la sua realizzazione, il fatto che esiste, ci dà qualcosa su cui appoggiare le nostre indagini filosofiche. Se si fosse limitato a proporre l’opera – «Parsificate un libro di grammatica seguendo le sue stesse regole» – non avremmo alcuna idea 199

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di cosa significhi leggere, tenere in mano, esaminare un libro del genere. Ci sarebbe stato negato il puro piacere e la mera curiosità di vedere la sua materialità, la maestria della fattura, la precisione della sua esecuzione, la bellezza del suo linguaggio e del suo concetto. Si tratta infatti di un oggetto bellissimo e molto potente. Lo spettro di Edwin A. Abbott pervade la scrittura non creativa. Nel suo libro del 2007 intitolato Flatland, Derek Beaulieu ha rimosso tutte le lettere del Flatlandia di Abbott, creando un’opera di letteratura asemica, un modo di scrivere senza usare lettere. Sebbene basato interamente su Flatlandia, non vi si trova una sola parola: pagina dopo pagina ci rivela solo una serie di linee sconnesse. Come Dworkin, Beaulieu svuota Abbott di contenuto, per rivelare lo scheletro del suo lavoro. Il Flatlandia di Abbott, scritto nel 1884, racconta le avventure di un quadrato a due dimensioni che incontra un cubo a tre dimensioni, il quale mette in discussione le sue convinzioni e dimostra i suoi limiti innati. Abbott scrisse quel libro sia come satira sulla rigidità della stratificazione sociale dell’epoca vittoriana, sia come pamphlet volto a instillare la nozione di una quarta dimensione nell’immaginario popolare. Gli intrecci di linee di Beaulieu rappresentano tutte le posizioni delle lettere nel testo di Abbott, dall’inizio alla fine. Per farlo, Beaulieu prende un righello e, a partire dalla prima lettera di ogni pagina, la unisce tracciando una riga alla seconda occorrenza della stessa lettera sulla pagina, poi traccia una riga che unisce la seconda alla terza e così via fino all’ultima occorrenza sulla pagina. Poi prende la seconda lettera della prima parola sulla pagina e fa la stessa cosa. E continua fino a comprendere tutte le lettere dell’alfabeto. Il risultato è la rappresentazione grafica di ogni pagina. Non ci sono due pagine uguali nel libro di Beaulieu, ogni pagina contiene parole e lettere in una sequenza unica. È una traduzione o un’attenta trascrizione nella tradizione di Cage, basata sulle occorrenze delle lettere anziché sul contenuto semantico, che rappresenta quasi un’analisi statistica e con200

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cettuale del testo. Più freddo e clinico di Dworkin, e senza la sensualità di Stein, il risultato è un’opera del tutto illeggibile, anche se interamente basata sul linguaggio.

Fig. 8.1

Derek Beaulieu, da Flatland. 201

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Forse il testo più illeggibile di tutti è Xenotext Experiment di Christian Bök, che comporta l’inscrizione di una poesia crittata all’interno di un batterio, illeggibile all’occhio umano, ma pensata per essere letta in un futuro remoto, molto probabilmente da una razza aliena sopravvissuta alla ormai lontana scomparsa degli esseri umani. L’improbabile lavoro di Bök, con la sua portata di sei milioni di anni, rende le proposte di Stein, Gould o Huebler quasi modeste e realistiche al confronto. Il lavoro precedente di Christian Bök, Eunoia, che gli è costato sette anni di scrittura, consiste in cinque capitoli, ognuno dei quali fa uso di una sola vocale per raccontare una storia e contiene una varietà di limitazioni linguistiche e di subnarrazioni di banchetti, orge, viaggi e così via. Per raggiungere un risultato così sbalorditivo, Bök si è letto tutto il Webster’s Third New International Dictionary – un tomo in tre volumi che contiene circa un milione e mezzo di voci – per cinque volte, una per ogni vocale. Quando Bök descrive il suo processo di scrittura sembra un parser informatico, perché rende evidenti le idiosincrasie della lingua inglese, lasciando a se stesso il lavoro che il computer non può fare. «Procedevo dividendo il discorso in parti (sostantivi, verbi, aggettivi, ecc.), e poi ordinando quelle parti di discorso in categorie tematiche (cibo, animali, professioni, ecc.) per capire cosa ero in grado di raccontare usando solo quel lessico limitato. Restare fedele alle regole è stato un compito molto difficile, ma alla fine ho dimostrato, credo, che è possibile scrivere qualcosa di bello e interessante anche in condizioni di estrema costrizione.»21 Se entrare in relazione con il libro è veramente piacevole, è però difficile leggerlo, perché nonostante le sue qualità musicali e narrative, ciò che spicca è la struttura stessa della limitazione, che diventa rapidamente così fitta e intrusiva che è praticamente impossibile metterla in secondo piano al fine di scoprire la storia che vi si nasconde dietro. Anziché riuscire a godersi il testo, il lettore è risucchiato dalle sabbie mobili della fisicità del linguaggio. I lettori inoltre si trovano continuamente a confrontarsi con tutto il lavoro necessario a com202

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piere quest’opera così monumentale, e la domanda Come ha fatto a fare questa cosa? diventa più importante del tentativo stesso di dare senso a ciò che l’autore sta tentando di dire. Le limitazioni forzano inevitabilmente le parole in una prosa molto rigida: «Folks who do not follow God’s norms word for word woo God’s scorn, for God frowns on fools who do not conform to orthodox protocol. Whoso honors no cross of dolors nor crown of thorn doth go on, forsooth, to sow worlds of sorrow. Lo!».22 Ma lo stile non sarebbe potuto essere diverso, dato che Bök ha deciso di rimanere fedele alle restrizioni e di creare un’opera letteraria comprensibile e compiuta. Il lungo impegno di Bök, ben diverso dalla fatica di un lavoro alienante, gli ha permesso – e per estensione ha permesso anche al lettore – un’intimità con il linguaggio che non avrebbe mai raggiunto se si fosse limitato a proporre l’opera: «Ho scoperto che ognuna delle cinque vocali sembra avere una sua peculiare personalità. A ed E, per esempio, sembrano raffinate ed elegiache, se comparate alle lettere O e U, che sono decisamente scherzose e oscene. Credo che le connotazioni emotive delle parole potrebbero dipendere dalle distribuzioni delle vocali, che in qualche modo governano la nostra risposta emotiva alle parole stesse».23 Per esplorare più a fondo la sua idea, ha mantenuto al minimo l’arbitrarietà delle scelte, una strategia obliqua che lo ha ripagato – e, di nuovo per estensione, ha ripagato anche il lettore – e lo ha aiutato a scoprire la ricchezza del linguaggio, tanto quanto avrebbe potuto fare un lavoro più espressivo e «creativo» in senso convenzionale. «Il progetto ha sottolineato anche la versatilità del linguaggio in sé, mostrando che a dispetto di ogni costrizione, a dispetto della censura, per esempio, il linguaggio può sempre trovare un modo per prevalere sugli ostacoli che incontra. Il linguaggio è una cosa veramente viva, con un’enorme vitalità. Il linguaggio è come un’erba spontanea che non solo dura a lungo, ma riesce a sopportare ogni tipo di condizione avversa», dice Bök.24 Quello che emerge, quindi, non è negatività o arido nichilismo, ma il contrario: proprio non esprimendo se stesso, ha aperto la strada a una totale espressione del linguaggio. 203

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The Xenotext Experiment comporta l’inscrizione di una poesia in un batterio che durerà tanto a lungo da sopravvivere all’inevitabile distruzione della Terra. Anche se sembra una storia di fantascienza, è tutto vero: Bök ha ricevuto centinaia di migliaia di dollari di fondi dal governo canadese, e sta lavorando con un’illustre scienziato per riuscire a raggiungere questo risultato. Ha trovato una specie di batterio – il più resiliente sul pianeta – nel quale impiantare le sue poesie, un batterio in grado di resistere a temperature estremamente basse o alte, e alle radiazioni, quindi in grado di sopravvivere a un olocausto nucleare. Bök ha grandi aspirazioni: «Quello che spero, in effetti, è di riuscire a scrivere un libro che resista sulla Terra dopo l’esplosione del sole. Credo che questo progetto sia una specie di ambizioso tentativo di pensare, in senso abbastanza letterale, all’arte come a uno sforzo eterno». Il processo di scrittura di questa poesia è incredibilmente difficile e ha già occupato diversi anni della sua vita. Usando solamente le lettere del nucleotide genetico presenti nel DNA – A, C, G, T – Bök sta letteralmente usando questo schema alfabetico per comporre una poesia. Ma dal momento che ha a sua disposizione solo quattro lettere, sta creando una serie di crittografie che corrispondano alle altre lettere. Per esempio, il trio di lettere AGT potrebbe rappresentare la lettera B, ecc. Ma la cosa è ancora più complicata. Bök vuole scrivere la poesia in modo da farle causare una reazione chimica nei filamenti del DNA che a sua volta scriva un’altra poesia. In modo che il trio di lettere AGT in una nuova sequenza possa per esempio rappresentare la lettera X. E come se non bastasse, Bök vuole anche che le due poesie abbiano un senso sul piano grammaticale e semantico. Spiega così la sfida: È come scrivere due poesie che si cifrano a vicenda, che sono correlate in modo molto rigoroso… Pensate che ci sono ottomila miliardi di modi differenti di cifrare l’alfabeto in modo che le lettere siano mutualmente codificate. Scegliete uno di quegli ottomila miliardi di codici cifrati. Ora scrivete una poesia che sia 204

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bella, che abbia senso, in modo che sostituendo le singole lettere della poesia con la reciproca controparte di codice si produca una nuova poesia che abbia ancora senso e sia altrettanto bella. Quindi sto cercando di scrivere due poesie di questo tipo. Una è quella che impianterò nel batterio. L’altra è quella che l’organismo scriverà in risposta.25

È affascinante come Bök usi ancora la parola poesia; le nuove poesie possono benissimo essere scritte su microchip di computer o, come in questo caso, inscritte nella vita stessa. Riferendosi alla sua opera come a una poesia, mantiene il progetto nettamente all’interno del campo letterario, anziché in quello scientifico o delle arti visive. Anche se il progetto assumerà forme differenti – il risultato finale includerà un campione dell’organismo su un vetrino per microscopio e una mostra in galleria con immagini e modelli della sequenza genetica come materiali di supporto alla poesia – la più grande sfida di Bök è di scrivere una bella poesia, una poesia che parli alle civiltà di un futuro lontano. E così Bök eleva il concetto di illeggibilità. Questa poesia non è pensata per essere letta da noi, Bök mette così in atto uno dei suoi classici precetti, ossia che il futuro della letteratura sarà scritto da macchine per essere letto, o ancora meglio parsificato, da altre macchine.

205

9 INSEMINARE LA NUVOLA DI DATI Come è stato già ampiamente notato, le elezioni del 2009 in Iran sono state messe in crisi a colpi di tweet da 140 caratteri. Twitter si è dimostrato uno strumento sorprendentemente efficace per sfidare un regime oppressivo. Non solo riusciva a mettere istantaneamente in contatto coloro che protestavano, ma lo faceva per di più in una forma funzionale a un’epoca come la nostra così sovraccarica di informazioni. Se i dati viaggiano più veloci, e se dobbiamo gestirne di più, finiamo per privilegiare quelli che si presentano in parti più piccole. Sui social network, gli status servono a descrivere sinteticamente l’umore di una persona o le circostanze in cui si trova, che possono essere banali o drammatiche come nel caso delle proteste in Iran. Questi status e tweet sono in grado di ridurre circostanze complicate a semplici enunciati. E la popolarità di questi sparaumori tipo Twitter finisce per comprimere il linguaggio. Queste brevi fiammate di linguaggio sono solo le ultime nella lunga storia della riduzione linguistica: ideogrammi cinesi, haiku, telegrammi, titoli dei giornali, lo zipper di Times Square, slogan pubblicitari, poesia concreta e icone del desktop. La compressione porta con sé un senso di urgenza: anche i tweet più banali – che cosa stiamo mangiando a colazione – possono sembrare notizie dell’ultim’ora, dimostrando nuovamente che il medium è ancora il messaggio: l’interfaccia di Twitter ricontestualizza il linguaggio ordinario per farlo sembrare straordinario. Gli status sui social network, veloci ed effimeri, non viaggiano isolati, acquisiscono valore in rapida successione: più tweet si trasmettono con maggiore frequenza, più diventano efficaci, come fossero tanti piccoli frammenti che si accumulano in una più grande narrazione della vita. Eppure, non appena fanno la loro comparsa, escono dallo schermo per evaporare, ancora più velocemente di quelle che un tempo erano le notizie del giorno prima. La parsificazione di tutte queste informazioni emerge dall’urgenza di agire, di rispondere, di cliccare, di accumulare, di archiviare… di gestirle tutte. O di non farlo. 207

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I tweet scorrono sullo schermo nello stesso modo in cui il nastro della telescrivente sputava le quotazioni in borsa. Durante le proteste, l’hashtag #iranelection è stato usato in così tanti tweet e retweet che l’interfaccia non è stata in grado di gestirli. A un certo punto c’erano in coda circa ventimila tweet, una camera di riverberazione piena fino al soffitto di informazioni e disinformazioni, tutte espresse in linguaggio alfanumerico. La maggior parte di noi, nel tentativo di sintonizzarsi, cercava di capire qualcosa della validità di queste informazioni effimere prima che svanissero dallo schermo, ma ci sono anche scrittori che mentre assistevano hanno raccolto tweet, status e altri scritti dal Web per farne la base di future opere letterarie.1 Nell’ultimo secolo abbiamo assistito molto spesso a questo tipo di azioni. I «romanzi» di tre righe di Félix Fénéon, che nel corso del 1906 apparvero anonimi su un giornale francese, potrebbero essere visti come un misto di telegrammi, Kōan zen, titoli di giornale e status sui social: 
 Il pane a Bordeaux questa volta non sarà insanguinato; il passaggio del segugio ha provocato solo una piccola zuffa.2 Amore. A Mirecourt, il sarto Colas ha piantato una pallottola in testa alla Signorina Fleckenger, per poi riservarsi lo stesso trattamento.3 «Perché non migriamo a Les Palaiseaux?» Sì, ma M. Lencre, che era in carrozza lungo la via, è stato assalito e derubato.4

Com’è noto, Hemingway scrisse un racconto di sole sei parole: Vendesi: scarpe per neonato, mai indossate.5

O infine il linguaggio fortemente riduzionista dell’ultimo Beckett, che fonde la compressione cristallina dei telegrammi con un’innata esitazione nello spiegare: Nulla che provi sia un bambino e tuttavia un bambino. Un uomo 208

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e tuttavia un uomo. Vecchio e tuttavia vecchio. Nulla se non in quanto essudato come nulla e tuttavia. Una schiena ricurva e tuttavia quella di un vecchio. L’altra e tuttavia quella di un bambino. Un piccolo bambino. In qualche modo ancora di nuovo e tutto di nuovo nello sguardo fisso. Tutto d’un colpo come un tempo. Meglio peggio tutto. I tre curvi. Lo sguardo fisso. L’intero stretto vuoto. Senza più macchie confuse. Tutte chiare. Tutte d’un chiaro fosco. Buco nero a bocca aperta su tutto. Che tutto immette. Tutto emette.6

David Markson, in una notevole serie di racconti, unisce il reportage di Fénéon con la prosa compatta di Beckett, inserendo opinioni soggettive di narratori senza nome nel mezzo di centinaia di frammenti di storia dell’arte, di solito non più lunghi di una riga o due: Delmore Schwartz è morto di attacco di cuore in uno squallido hotel di Times Square. Sono passati tre giorni prima che qualcuno si accorgesse del corpo. James Baldwin era un antisemita. Non solo mettere in ordine i libri e i vinili, ma il sempre più esile residuo di una vita intera? Fogli, archivi di lettere?7

Come un flusso di tweet, è una lenta accumulazione di piccole schegge, che verso la fine del libro si ricompongono in una narrazione frammentata. Markson è un catalogatore compulsivo: è facile immaginarlo a perlustrare gli annali di storia dell’arte, riducendo vite lunghe e complicate in poche battute essenziali. Markson usa spesso i nomi come abbreviazioni, minuscoli titoli di due parole. Scorrere a caso con lo sguardo su una pagina di Markson ci mostra un’incredibile lista di artisti e pensatori celebri: Brett Ashley, Anna Wickham, Stephen Foster, Jacques Derrida, Roland Barthes, Maurice Merleau-Ponty, Roman Jakobson, Michel 209

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Leiris, Julia Kristeva, Philippe Sollers, Louis Althusser, Paul Ricoeur, Jacques Lacan, Yannis Ritsos, Iannis Xenakis, Jeanne Hébuterne, Amedeo Modigliani, David Smith, James Russell e Lady Mary Wortley Montagu. Le liste di Markson evocano il modo in cui funzionano le rubriche di gossip, dove i nomi stampati in grassetto connotano importanza. Il saggista Gilbert Adair parla del potere esplosivo dei nomi stampati su una pagina: Che entità attraenti sono i nomi stampati! Prendete questi: Steffi Graf, Bill Clinton, Woody Allen, Vanessa Redgrave, Salman Rushdie, Yves Saint Laurent, Umberto Eco, Elizabeth Hurley, Martin Scorsese, Gary Lineker, Anita Brookner. Praticamente l’unica cosa che hanno in comune è che questo saggio non si occupa di nessuno di loro. Eppure il modo in cui le iniziali maiuscole brillano sulla pagina… così tanto che non sarebbe strano che più di un lettore, scorrendo il saggio per vedere se contiene qualcosa di interessante, si potrebbe soffermare non tanto sul paragrafo iniziale, come dovrebbe accadere in questi casi, ma su questo quarto paragrafo, solo per la forza dei nomi qui sopra. Conta pochissimo che in realtà non ci occupiamo per nulla di quei nomi, che niente di nuovo, interessante o curioso viene detto su di loro, che l’effetto cumulativo sembra quello prodotto da alcuni ritratti trompe l’oeil di Gainsborough nei quali quella che da una certa distanza sembra essere una vestaglia di raso rappresentata in maniera troppo complessa, quasi fastidiosamente perfetta, si rivela essere, a un’ispezione più attenta, nient’altro che una confusa, sfocata serie di pennellate senza senso; ciò nonostante, è un intreccio di nomi fatto apposta per attrarre occhi pigri e impreparati. E abbiamo raggiunto il punto in cui un quotidiano o una pagina di una rivista senza una quota regolamentare di nomi propri, e preferibilmente di famiglia, è tanto scoraggiante da vedere quanto una mano di bridge senza altre carte che dei tre dei cinque e degli otto. I nomi di famiglia sono, in breve, le carte con le figure del giornalismo.8

Nel 1929 John Barton Wolgamot, uno scrittore piuttosto sconosciuto, pubblicò in privato, in una piccola edizione, 210

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un libro che consisteva quasi interamente di nomi, con il titolo di In Sara, Mencken, Christ and Beethoven There Were Men and Women. Il libro è quasi impossibile da leggere in modo lineare: è meglio scorrerlo, con gli occhi che corrono da un nome all’altro, fermandosi su quelli più familiari, un procedimento simile al modo in cui Adair ci mostra come funziona la lettura delle rubriche di gossip, di costume o dei necrologi. Mentre ascoltava un’esecuzione dal vivo dell’Eroica di Beethoven al Lincoln Center di New York, Wolgamot ebbe un’esperienza sinestetica e sentì «i ritmi stessi, i nomi… nomi che non significavano nulla per lui, nomi stranieri».9 Qualche giorno dopo il concerto, prese in prestito una biografia di Beethoven in biblioteca e in quel tomo trovò stranamente uno dopo l’altro tutti i nomi che aveva sentito nel corso della sinfonia. E gli venne in mente che «se il ritmo è la base di ogni cosa, i nomi sono la base del ritmo», decidendo così di scrivere il suo libro.10 L’intero testo consiste di 128 paragrafi, dei quali il seguente è un esempio: Nelle maestose maniere di Johannes Brahms molto eroicamente Sara Powell Haardt è molto allegoricamente tornata tra i suoi grandissimi uomini e le sue grandissime donne da Clarence Day Jr., John Donne, Ruggiero Leoncavalo, James Owen Hannay, Gustav Frenssen, Thomas Beer, Joris Karl Huysmans e Franz Peter Schubert molto titanicamente.11

Quando gli venne chiesto di Sara, Mencken, Wolgamot disse che aveva passato un anno o due a mettere insieme i nomi per il libro, ma che la proposizione connettiva – la cornice nella quale i nomi esistono – gli è costata circa dieci anni di scrittura. Wolgamot ha descritto al compositore Robert Ashley (che in seguito ha usato il testo come libretto) il modo in cui ha costruito la sessantesima pagina del libro, nella quale riporta i nomi di George Meredith, Paul Gauguin, Margaret Kennedy, Oland Russell, Harley Granville-Barker, Pieter Breughel, Benedetto Croce, e William Somerset Maugham: «Somerset 211

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contiene sia “summer” che “set” come la parola sun-set (tramonto), e Maugham scrisse una biografia di Gauguin, il cui nome contiene sia “go” che “again”, e Oland potrebbe essere “Oh, land” (Oh, terra), il grido di un marinaio, e Granville sembra una “grande città” in francese, che Gauguin lasciò per andare sul Pacifico».12 Nel 1934, cinque anni dopo che Wolgamot aveva iniziato a scrivere Sara, Mencken, Gertrude Stein svelò il modo in cui aveva scritto C’era una volta gli americani, un libro stracarico di nomi: La poesia non cambiò, la poesia non cambiò mai, dall’inizio sino ad ora e sempre nel futuro la poesia si interesserà ai nomi delle cose. I nomi possono essere ripetuti in modi diversi […] ma ora e sempre la poesia si crea nominando nomi i nomi di qualcosa i nomi di qualcuno i nomi di qualunque cosa. […] Pensate a ciò che fate quando lo fate questo quando amare il nome di qualunque cosa amate realmente il suo nome.13

Pienamente coscienti di questa storia, due scrittori canadesi, Darren Wershler e Bill Kennedy, hanno recentemente unito alla forma concisa la forza dei nomi propri, in un lavoro in progress dal titolo Status Update, a cui hanno dato carattere digitale. I due scrittori hanno creato un programma di estrazione di dati che setaccia i social network raccogliendo tutti gli status degli utenti. Il motore toglie poi il nome dell’utente e lo rimpiazza con un nome a caso di uno scrittore morto. Il risultato assomiglia a un mash-up di Fénéon, Beckett, Markson e Wolgamot, tutti filtrati dall’irrazionalità dei capricci imprevedibili dei feed sui social: Kurt Tucholsky è al secondo giorno della sua settimana bianca… che fare, che fare? Shel Silverstein si spara un po’ di Tomb Rider prima di andare al lavoro. Lorine Niedecker si sta godendo la sua brevissima pausa. Jonathan Swift ha i biglietti per la partita dei Wranglers di stasera. Arthur Rimbaud ha trovato anche un modo per usare la parola «contrafforte».14 212

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Il programma firma le poesie senza sosta, rubando gli status alla stessa velocità con cui vengono scritti per poi postarli automaticamente ogni due minuti su una pagina Web. Ogni nome proprio sulla pagina è cliccabile e il link porta all’archivio di status di quell’autore. Se clicchiamo sul nome di Arthur Rimbaud, per esempio, veniamo rediretti alla sua pagina. Ecco un estratto: Arthur Rimbaud sta facendo un bizzarro e nostalgico viaggio musicale. Arthur Rimbaud ha appena preso a soli 10 dollari al mercatino sotto casa un vecchio e delizioso tavolo da studio espandibile. Arthur Rimbaud è in negozio a sistemare la vetrina con dei grandi rami freschi che ha trovato sul ciglio della strada! Arthur Rimbaud può finalmente ascoltare le meraviglie del vinile! Arthur Rimbaud vorrebbe poter imparare a leggere mentre dorme. Arthur Rimbaud ha sempre sonno! Arthur Rimbaud si sta rendendo conto che se non ora quando? Arthur Rimbaud è quasi ubriaco e si prepara per andare dal commercialista.15

A fondo pagina c’è un’altra opzione che, se avesse avuto la tecnologia necessaria, sarebbe potuta essere l’invenzione di una spiritualista dell’Ottocento come Madame Blavatsky, visto il suo debole per la comunicazione con i morti: «Arthur Rimbaud ha un feed RSS. Abbonati!». Con un gesto deliziosamente ironico, Wershler e Henry costringono queste leggende a partecipare al ciarpame della vita online, tirandoli giù dai loro piedistalli e forzandoli a prendere parte a una tale baraonda. Status Update macchia l’aura di queste figure leggendarie, ricordandoci che ai loro tempi anche loro si sarebbero chiesti perché «gli dei del camerino stanno deridendo la sua scrivania tirata a lucido». Wershler e Kennedy sembrano voler imitare quella che il matematico Rudy Rucker chiama una «lifebox»,16 un concetto futuristico secondo il quale i dati accumulati nel corso di una vita (status, tweet, email, post sui blog, commenti fatti su altri blog, ecc.), processati da software potentissimi, permetteranno ai morti di conversare con i vivi in maniera credibile. 213

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Il teorico del digitale Matt Pearson dice: «In breve, tu puoi fare una domanda alla tua bisnonna morta e, pur senza che lei abbia lasciato nessuna nota diretta su quell’argomento, è possibile generare una risposta credibile… È l’autobiografia come costrutto vivente. I nostri pronipoti saranno in grado di godersi le relazioni con i morti allo stesso modo di come oggi facciamo, attraverso i nostri tiepidi corpi, con i nostri amici su Facebook o Twitter. E man mano che gli strumenti semantici diventano più sofisticati, la lifebox può iniziare a creare contenuto nuovo, scrivendo post, o facendo copiaincolla con i video messaggi».17 In effetti, Pearson ha fatto costruire da un coder una rudimentale lifebox di se stesso nella forma di un feed di Twitter,18 della quale ha detto: «Questo mio clone zombie non è magari così coerente e rilevante… ma sembra veramente uscirsene con lo stesso tipo di merdate che di solito scrivo io».19 (Si legge su un tweet autoreferenziale: «I partecipanti a Britains Got Talent sono vittime, giocando con questa idea ho deciso che avrei cominciato a creare la mia rudimentale lifebox».)20 Ci sono sicuramente abbastanza tracce provenienti dalle decine di libri scritti su Rimbaud e da tutta la sua corrispondenza, dai saggi scritti su di lui e dalla sua poesia, per poterlo rianimare in qualche forma nel futuro. Ma, per il momento, Wershler e Kennedy tengono in piedi il suo cadavere e lo costringono a fare i conti con il nostro mondo digitale. Tutto questo per dirci che simili «effimere» esplosioni di dati non sono così effimere come pensiamo. Nel futuro, infatti, la nostra persona potrebbe essere costituita interamente da frammenti del genere; quindi forse dovremmo pensare a questo tipo di scritti come al nostro lascito. Un precedente progetto di scrittura elettronica di Kennedy e Wershler aveva scopi simili. Anche The Apostrophe Engine seleziona, organizza e preserva frammenti di linguaggio da internet, ma questo programma sguinzaglia altri programmi più piccoli e li manda tutti insieme a caccia di linguaggio, creando quella che potrebbe essere la più lunga poesia mai scritta, che continuerà a essere scritta fintanto che qualcuno non staccherà la spina del server che ospita il progetto. 214

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L’homepage dell’opera è ingannevolmente semplice. Riproduce una poesia-elenco scritta da Bill Kennedy nel 1993, nella quale ogni riga comincia con «tu sei». Poi si scopre che ogni riga è cliccabile. Kennedy e Wershler spiegano cosa accade dopo: «Quando un lettore/scrittore clicca su una riga, attiva un motore di ricerca che, come accade di solito, restituisce una lista di pagine Web. The Apostrophe Engine poi genera cinque robot virtuali che si fanno strada nella lista, raccogliendo frasi che cominciano con “tu sei” e che finiscono con un punto. I robot si fermano dopo aver collezionato un numero definito di frasi o dopo aver processato su un certo numero di pagine, a seconda di cosa accade prima». Dopodiché The Apostrophe Engine registra e ravviva le frasi che il robot ha collezionato, cancellando gran parte delle tag in HTML e altre anomalie, per poi compilare i risultati e presentarceli come una nuova poesia, con la riga originale che diventa il titolo… e ogni nuova riga che diventa un altro hyperlink. In qualunque momento, la versione online di The Apostrophe Engine è potenzialmente grande quanto il Web. Il lettore/scrittore può continuare a scavare nella poesia cliccando su ogni riga di ogni pagina, scivolando metonimicamente nei contenuti in continuo cambiamento. Del resto, dato che i contenuti del Web cambiano continuamente, lo stesso accade anche ai contenuti della poesia. La pagina che ci restituisce oggi non sarà la pagina che ci restituirà la prossima settimana, il prossimo mese o il prossimo anno.21 Il risultato è una poesia vivente, scritta mentre viene scritta internet, parsificata completamente da robot che continuano a crescere anche se nessuno li legge. Come Status Update, è un’epica del linguaggio che si concretizza in brevi esplosioni, un compendio marksoniano, la cui natura è esattamente ciò che Wershler e Kennedy stanno sfruttando: Quella del catalogo è una forma che combatte l’eccesso. Il suo compito è ridurre, comprimere in un set definito tutte le possibilità che un mondo di informazioni ci offre… Il suo effetto poetico, 215

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tuttavia, è l’esatto opposto. Un catalogo espone la poesia al rischio di una sovrabbondanza di informazioni, che si sente soprattutto quando il lettore si domanda, educatamente: «Quanto può andare avanti?». Può infatti andare avanti molto a lungo. Nel 1993, quando tutte le implicazioni del nascente World Wide Web si stavano appena manifestando, l’idea di catalogo e i suoi paradossali problemi erano già diventati il luogo in cui dibattere del timore che stiamo producendo testo a un tasso di velocità che va ben oltre la nostra capacità collettiva di leggerlo.22

Ma cosa accade quando questo testo, generato in maniera dinamica, si trova rilegato e congelato tra le pagine di un libro? Wershler e Kennedy hanno pubblicato una selezione di 279 pagine, e il risultato è un progetto molto differente. Nella postfazione al libro gli autori dichiarano di aver trattato un po’ i testi per ottenere il massimo effetto su carta: «The Apostrophe Engine si è immischiato nella scrittura di altri, e noi in compenso abbiamo fatto lo stesso con la sua scrittura… Il motore ci ha posto di fronte all’imbarazzo della scelta delle risorse, un’abbondanza di materiale grezzo allo stesso tempo, o alternativamente, bello e banale».23 Il materiale grezzo si presta. Ecco un estratto del contenuto a cui ci rimanda quando clicchiamo sulla riga «you are so beautiful to me», presa dal grande successo pop di Joe Cocker: you are so beautiful (to me) hello, you either have javascript turned off or an old version of adobe’s flash player • you are so beautiful to me 306,638 views txml added1:43 kathie lee is a creep 628,573 views everythingisterrible added2:39 you are so beautiful 1,441,432 views caiyixian added0:37 reptile eyes • you are so beautiful (to me) 0 • you are so beautiful 79,971 views konasdad added0:49 before • you are so beautiful to me 19,318 views walalain added2:45 escape the fate— you are so beautiful 469,552 views darknearhome added2:46 sad slow songs: joe cocker—you are so beautif • you are already a member • you are so beautiful (nearly unplugged) hello, you either have javascript 216

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turned off or an old version of adobe’s flash player • you are so beautiful 1,443,749 views caiyixian featured video added4:48 joe cocker~you are so beautiful (live at montre • you are so beautiful 331,136 views jozy90 added2:32 zucchero canta “you are so beautiful” 196,481 views lavocedinarciso added3:50 joe cocker mad dogs—cry me a river 1970 777,970 views scampi99 added5:18 joe cocker— whiter shade of pale live 389,420 views dookofoils added4:49 joe cocker—n’oubliez jamais 755,731 views neoandrea added5:22 patti labelle & joe cocker-you are so beautiful • you are the best thit was very exiting> akirasovan (5 days ago) show hide 0 marked as spam reply mad brain damage

È un caos sconclusionato: il rapporto segnale/rumore è molto basso. Eppure, stampato su carta, l’estratto dalla stessa pagina è completamente diverso: you are so beautiful • you are so beautiful • you are so beautiful • you are so beautiful artist: Babyface • you are so beautiful • you are so beautiful, yes you are to me you are so beautiful you are to me can’t you see? • you are so beautiful the lyrics are the property of their respective authors, artists and labels • you are so beautiful • you are so beautiful artist: Ray Charles • you are so beautiful • you are so beautiful • you are so beautiful to me • you are so beautiful • you are so beautiful • you are so beautiful • you are so beautiful• you are so beautiful to meee • you are so beautiful, would you please24

La spaziatura è stata normalizzata, i numeri sono stati eliminati, le righe morte sono state rimosse; è stato pesantemente editato per ottenere un effetto migliore. L’edizione stampata si legge tranquillamente, piena dei ritmi musicali convulsi delle ripetizioni, come un’opera di Gertrude Stein o il libretto di Einstein on the Beach di Christopher Knowles. Diversi tipi di contenuto sono accuratamente disposti, come l’avviso di copyright, che precipita improvvisamente proprio quando abbiamo cominciato a farci cullare dai ritmi delle ripetizioni. I due nomi propri «in grassetto», Babyface e Ray 217

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Charles, entrambi preceduti dalla stessa frase – «you are so beautiful» – sono posti alla giusta distanza l’uno dall’altro per non interferire tra loro, col risultato di un testo perfettamente bilanciato. Se il computer ha raccolto il materiale grezzo per la poesia, è la mano autoriale di Wershler e Kennedy a tirar fuori la bellezza dal testo in eccesso, producendo una versione più convenzionale dell’opera, basata sulla loro capacità editoriale. Eppure, la versione su carta rispetto a quella Web perde la capacità di stupire, di crescere e di reinventarsi di continuo. Da queste due differenti versioni, quindi, emerge un equilibrio che comprende sia la macchina che il libro stampato, il testo grezzo e quello manipolato, l’infinito e il conosciuto, mostrandoci due diversi modi di esprimere il linguaggio contemporaneo, nessuno dei quali può considerarsi definitivo. Avere un computer che scrive poesie per tuo conto è roba vecchia. Quello che è nuovo è che ora, come nel caso di Wershler e Kennedy, gli scrittori sfruttano i motori di ricerca basati sul linguaggio e i social network come risorse per i loro testi. Avere un programma in grado di generare poesie bizzarre sembra quasi una cosa d’altri tempi in confronto all’esplosione degli enormi generatori di parole che si trovano sul Web, intromettendosi nella nostra mente collettiva. A volte questa mente non è così bella. Il collettivo Flarf ha frugato nei risultati di Google alla ricerca del peggio, per ricontestualizzarlo in forma di poesia. Se le persone considerano internet come la più grande discarica linguistica al mondo, con le sue flame war, le pubblicità del Viagra e lo spam, Flarf sfrutta questa condizione contemporanea reinquadrando tutta quella spazzatura in forma di poesia. È un pozzo senza fondo. Il Wall Street Journal, in un pezzo su Flarf descriveva così la loro metodologia di scrittura: «Flarf è una creatura dell’era digitale. Il suo metodo comporta l’uso di combinazioni di parole provenienti dalle ricerche su Google, e le poesie sono spesso condivise via email. Quando un poeta ha scritto una poesia dopo aver cercato su Google le parole “pace” + “kitty”, un’altro ha risposto con un’altra poesia che 218

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faceva seguito alla ricerca “pizza” + “kitty”. Su YouTube, una lettura di questa poesia è stata vista più di 6700 volte. Inizia così: “Kitty goes Postal/Wants Pizza”».25 Quello che era solo un gruppo di persone che cercò di inviare alcune poesie a un contest online su poetry.com – le peggiori poesie immaginabili, naturalmente respinte – è cresciuto fino a diventare un’estetica, che il cofondatore di Flarf Gary Sullivan descrive come «una specie di sgradevolezza corrosiva, carina o stucchevole. Sbagliata. Anti-computer. Fuori controllo. “Non ok”».26 Esemplare della poesia Flarf è Unicorn Believers Don’t Declare Fatwas di Nada Gordon. Eccone un estratto: Strano ma vero, esiste un «Anello del piacere dell’Unicorno». Una ricerca rivela che Hitler ha copiato la famosa svastica da un unicorno che emerge da un arcobaleno colorato. Un nazista all’unicorno: «Non uscirai con me vestito con questo ridicolo outfit». Puoi finalmente dire a tua figlia che gli unicorni sono reali. Qualcuno ha staccato la testa alla statua di cera di Adolf Hitler, dice la polizia. Il 22 Aprile è un bel giorno. Mi piace molto. Cioè, non è così fantastico come quello stronzo di unicorno di Hitler ma è molto speciale per me. aquila calva CREMOSA c’è una piccola Abe Lincoln che prende a pugni un piccolo Hitler. UNICORNI MAGICI «Sei davvero un unicorno?» «Sì. Ora baciami i piedi.» Hitler come grande uomo. Hitler… mm sì, Hitler, Hitler, Hitler, Hitler, Hitler, Hitler… Il cibo tedesco fa proprio schifo, anche Hitler era vegetariano, come un unicorno.27 219

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Rovistando su forum online e siti di culti misteriosi, Gordon usa il gergo degradato del Web per creare una poesia il cui linguaggio è stranamente affine alle sue fonti. Eppure la sua selezione di parole e immagini ci rivela una poesia attentamente costruita, mostrandoci che la riorganizzazione del linguaggio trovato – anche se è sporco e basso come questo – può essere alchemizzato in un’opera d’arte. Ma per tirare fuori qualcosa di buono dall’orribile, si deve scegliere bene. K. Silem Mohammad, cofondatore di Flarf, considera Flarf una specie di poesia «cercata», in opposizione alla poesia «trovata», perché i suoi autori sono costantemente e attivamente impegnati nell’atto di scavare nei testi. Nella poesia di Gordon ogni tema che scotta viene volutamente toccato, dalle immagini più scontate ai cliché: fatwa, aborti, il compleanno di Hitler; niente è off-limits. In un certo senso, Flarf prende spunto dalla poetica della cricca della scuola di New York, le cui poesie erano piene di battute che capivano solo i loro amici. Nel caso di Flarf, molte delle sue poesie sono postate su server privati, per essere a loro volta remixate e riciclate dal gruppo in infinite poesie a catena basate su rigurgiti di internet, che poi vengono postate di nuovo sul Web affinché altri le maneggino a loro discrezione. Ma la scuola di New York – con tutte le sue idee sul «basso» e il «kitsch» – non si è mai spinta così in là come Flarf nell’indulgenza al «cattivo» gusto. Usando una soggettività insincera, Flarf non crede mai a quello che dice, ma lo dice comunque, grattando energicamente il fondo del barile della cultura con tanta lungimiranza, precisione e sensibilità da costringerci a rivalutare la natura del linguaggio in cui affoghiamo. Il nostro primo impulso è fuggire, negare il suo valore, voltargli le spalle, congedarlo come un grande scherzo; ma, come con i Car Crashes o le Electric Chairs di Warhol, siamo allo stesso tempo rapiti, divertiti e disgustati. È un’arma a doppio taglio quella che Flarf ci tiene puntata al collo, costringendoci a specchiarci nel riflesso della lama con uguale dose di estasi narcisistica e terrore, del resto un sentimento tipico delle contrastanti 220

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reazioni provocate dal nostro rapporto con la letteratura e le nuove tecnologie. Il lavoro di Flarf e quello di Wershler/ Kennedy presentano due differenti esempi di come i poeti possano creare lavori nuovi e originali in un’epoca in cui la maggior parte delle persone affoga nella quantità di informazioni che ci precipita addosso. Queste opere propongono l’idea che il linguaggio generato dal Web, nella sua forma corrotta e casuale, è una fonte molto più ricca di qualunque altra cosa ci possiamo inventare – pronta a essere reinquadrata, remixata e riprogrammata.

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10 L’INVENTARIO E L’AMBIENTE L’impulso a catalogare ossessivamente le minuzie della «vita reale» comincia dalle colazioni di Johnson descritte da Boswell e arriva ai tweet con gli ingredienti delle nostre. Con le capacità di memoria che aumentano di continuo e i database sempre più potenti, la tecnologia sembra voler risvegliare l’archivista che è in ognuno di noi. La «nuvola di dati» – quei server a capacità illimitata che sono lì, da qualche parte nell’etere, accessibili da ogni parte del mondo – e la sua interfaccia incoraggiano la funzione «archivia» piuttosto che «cancella».1 Se gran parte del materiale viene archiviato con finalità di marketing, anche per creare opere letterarie gli scrittori, come abbiamo già visto, fanno razzie in questi immensi depositi di testo, non tanto al fine di utilizzarlo come materiale grezzo da cui trarre i loro prossimi romanzi, ma per organizzarlo e cambiarne la forma. Ci sono anche scrittori che per creare opere letterarie esplorano la funzione dell’archiviazione, invece di scavare in questi immensi ammassi di testo, con lavori che finiscono per essere più vicini alla musica ambient di Brian Eno che alla scrittura convenzionale, chiedendo un’immersione nel testo anziché una lettura lineare. La scrittura non creativa ci permette di immaginare un nuovo modo di scrivere di noi stessi: chiamiamola autobiografia obliqua. Facendo un inventario del quotidiano – quello che mangiamo e leggiamo – lasciamo una scia che parla di noi tanto quanto i vecchi approcci diaristici, demandando al lettore la giusta libertà di unire i punti e costruire la narrazione in modi infiniti. Alcune storie sono molto toccanti di per sé e qualsiasi tentativo di ripulirle o di migliorarle non fa altro che diminuirne l’impatto. Prendiamo il romanzo best-seller Angel at the Fence scritto da Herman Rosenblat. In quest’opera Rosenblat parla del suo incontro con la sua futura moglie Roma, quando da bambino era imprigionato in un campo di concentramento e lei gli tirava le mele da sopra le reti di cinta, aiutandolo a sopravvivere. Secondo quanto racconta Rosenblat, si rin223

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contrarono per puro caso anni dopo a Coney Island, si resero conto della loro storia, si sposarono e vissero felici e contenti. Rosenblat è apparso due volte nel talk show di Oprah Winfrey, che ha definito il libro «la più grande storia d’amore» che aveva mai letto in ventidue anni di show. Dopo tutta questa fanfara, l’editore ha ritirato il romanzo autobiografico perché ha scoperto che era falso. Rosenblat ha quindi scritto: «Nei miei sogni, Roma mi lancerà sempre una mela, ma ora so che è soltanto un sogno».2 Deborah E. Lipstadt, docente di Studi sull’ebraismo e l’Olocausto alla Emory University, avendo sentito di un altro memoriale sull’olocausto falsificato, ha detto: «Non c’è bisogno di romanzare, né di ingigantire. I fatti sono orribili così come sono, e quando devi insegnare una cosa orribile basta presentare i fatti».3 I sentimenti di Lipstadt fanno eco – in un modo e in un contesto molto differenti – a un’idea che molti scrittori hanno avanzato nel corso del secolo scorso: che la vita non romanzata è ancor più profonda, commovente e complessa di gran parte delle storie di finzione. La cultura popolare ci manda un messaggio simile ma da una prospettiva diversa: nel corso dell’ultimo decennio, abbiamo assistito all’ascesa e all’inarrestabile predominio della tv basata sull’idea di reality, a scapito al genere sitcom. E a quanto pare, le nostre vite online si dirigono nella stessa direzione, in un’ossessiva documentazione delle nostre esistenze. Dagli albori delle webcam fino agli odierni blast su Twitter, costruiamo e proiettiamo nozioni che riguardano la nostra persona attraverso l’accumulazione di gesti apparentemente effimeri e insignificanti, fabbricando identità che possono avere o meno a che fare con chi siamo veramente. Siamo diventati autobiografi dalla natura ossessiva, ma allo stesso tempo siamo biografi degli altri, collezioniamo scarti di piccoli fatti e sensazioni di chiunque osserviamo. Pagine tributo, siti di fan, voci di Wikipedia sulle più marginali personalità o imprese continuano ad accumularsi riga dopo riga, tutte connotate da un’ossessione per i dettagli che compete con Vita di Samuel Johnson di Boswell.4 224

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Boswell rispecchia e anticipa su più livelli la nostra attuale condizione linguistica. Il suo gigante tomo è un’accumulazione di pezzi e pezzettini di elementi effimeri del quotidiano: lettere, osservazioni, parti di dialoghi e descrizioni della vita di tutti i giorni. Il testo è instabile per via dell’eccessiva tendenza di Boswell a ricorrere alle note a piè di pagina e per i commenti marginali di Mrs. Thrale, che controbattono e correggono le osservazioni di Boswell. I commenti di Mrs. Thrale non si limitano al corpo di testo principale, ma comprendono anche note alle note a piè di pagina di Boswell, alcune delle quali prendono fino a tre quarti della pagina. Il libro sembra quasi talmudico nelle sue molteplici trame di conversazioni e note esplicative. È un spazio testuale dinamico, che ricorda il Web odierno, con i sistemi di feedback e commenti incorporati. Porta con sé anche alcuni dilemmi cacofonici propri dello spazio online. Il potere di intrattenimento della vita di Johnson in qualche modo prevale sul soggetto. Il Johnson di Boswell può essere letto dall’inizio alla fine, ma è altrettanto bello se preso in piccole dosi, facendo su e giù nel testo, scorrendo, spizzicando o parsificando. Ricordo che agli albori del Web un amico si lamentava di leggere troppo «distrattamente» online, era più curioso di fare il clic successivo piuttosto che affrontare il testo in modo approfondito. È una lamentela comune: è vero che online tendiamo a leggere orizzontalmente. Ma Vita di Samuel Johnson è un promemoria scritto più di due secoli fa per ricordarci che non tutti i testi chiedono di essere letti in modo lineare. Una volta che Boswell incontra veramente il soggetto, l’unica reale narrazione che ci viene imposta è quella cronologica, che finisce con la morte di Johnson. Si può entrare o uscire dal testo senza preoccuparsi di perdere il filo, come accadrebbe in una biografia più convenzionale. Muovendo velocemente gli occhi sulla pagina – scorrendo il testo – raccogliamo perle di sapere in momenti fugaci ed effimeri, resi senza tempo. Eppure c’è tanta roba inutile, come questo insignificante episodio che Boswell racconta nel capitolo del settantaquattresimo anno di

Johnson: «Non dimenticherò mai la dolcezza per il suo gatto 225

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Hodge: andava di persona a comprargli le ostriche(a) per timore che i domestici, per l’impiccio, avessero da prendere in uggia la povera bestiola(b)».5 Come una commentatrice su un blog, Hester Thrale interviene a margine: «(a) Lo prendevo sempre in giro perché andava a comprare la valeriana per alleviare le sofferenze di Hodge in procinto di morire.(b) no, era per timore che considerassero degradante la pretesa di far sì che degli Esseri Umani facessero da servi a una bestia».6 In un altro esempio, una non particolarmente profonda conversazione a proposito di vini sembra una specie di improvviso e contorto dialogo di un film di Andy Warhol: SPOTTISWOODE: «Dunque, signore, il vino sarebbe come una chiave che apre uno scrigno; ma lo scrigno può essere pieno o vuoto». JOHNSON: «No, mio caro la chiave è la conversazione; il vino è un grimaldello che apre a forza lo scrigno, danneggiandolo. L’uomo deve coltivare il proprio spirito in modo da avere senza bere, la sicurezza e la prontezza che il vino può dare». BOSWELL: «La maggior difficoltà per resistere al vino è la cortesia. Come si fa per esempio, a dir no a un ottimo e degno uomo che c’invita a gustare il vino che ha in cantina da vent’anni?» JOHNSON: «Caro mio, tutti questi scrupoli circa la cortesia derivano dal fatto che si crede sempre d’aver per gli altri maggior importanza di quel che in realtà non s’abbia. A nessuno importa minimamente se noi beviamo vino o no». SIR JOUSHA REYNOLDS: «Invece a qualcuno importa, sul momento». JOHNSON «Sul momento! Se uno ci tiene in questo momento, se ne sarà dimenticato tra un minuto».7

È attraverso questi piccoli dettagli, apparentemente insignificanti, che Boswell è in grado di costruire un ritratto convincente della vita e del genio di Johnson. La forza di Boswell è la gestione delle informazioni. Con un grande senso dell’equilibrio mescola cose fondamentali con altre trascurabili. Il testo è bilanciato – profondo nel raccontare l’insignificante, eterno nel descrivere il quotidiano – e ricorda molto il funzionamento della nostra attenzione (e delle nostre vite): scisso 226

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e frammentato. Nel 1938 The Monthly Letter of the Limited Editions Club domandava, a proposito di Boswell: «Che cosa ha da offrire Vita di Samuel Johnson a un lettore del XX secolo?» E nel linguaggio del tempo, assegnava valore convenzionale alla presunta profondità del libro, sostenendo che «Vita di Samuel Johnson ha una parola o una frase appropriata per ogni cosa» e che è «allo stesso tempo intimamente personale e classicamente universale».8 Più di settant’anni dopo, possiamo farci la stessa domanda: «Che cosa ha da offrire Vita di Samuel Johnson a un lettore del XXI secolo?» e dare una risposta completamente diversa, intimamente connessa con il modo in cui viviamo oggi.9 L’inventario ha qualcosa di contemporaneo. Quando l’interfaccia grafica ha fatto la sua comparsa, molti si sono detti: «ora ognuno sarà un grafico». Con il flusso sempre maggiore di materiali e informazioni che attraversano i nostri network, siamo diventati come bambini in un negozio di caramelle: le vogliamo tutte. E dal momento che sono gratis, le prendiamo effettivamente tutte. Abbiamo così dovuto imparare a immagazzinare, organizzare e nominare le cose in modo che sia poi facile rintracciarle. E siamo diventati molto bravi a farlo. Questa etica è penetrata in ogni aspetto della nostra vita; anche quando siamo offline, per stare al mondo, ci troviamo continuamente e meticolosamente a mettere insieme e organizzare informazioni. Qualche anno fa Caroline Bergvall, una poetessa trilingue di base a Londra, ha deciso di fare l’inventario dei primi versi di tutte le traduzioni dell’Inferno di Dante conservate nella British Library. Dice che l’atto di tradurre Dante è diventato «una specie di industria culturale». In effetti, mentre si occupava di collezionare tutte le versioni – ce n’erano quarantotto presenti nella biblioteca – sono arrivate sugli scaffali due nuove traduzioni. Bergvall spiega così il suo processo: «Il mio compito era piuttosto semplice, o così mi sembrava all’inizio: copiare tutte le prime terzine come apparivano nelle versioni pubblicate dell’Inferno di Dante. Copiarle accuratamente. Con mia sorpresa, più di una volta ho dovuto ricontrollare sui libri 227

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e correggere una voce, la data di pubblicazione, un errore ortografico. Controllare ogni riga, ogni variazione, una, due volte. Un po’ alla volta, il progetto è divenuto una questione di conti e di verifiche. Ciò che stavo copiando era ciò che trovavo. Non volevo inavvertitamente cambiare nulla dalle versioni stampate. Riprodurre ogni gesto di traduzione. Aggiungere la mia voce a questo coro, a questa recitazione, solo attraverso questo semplice compito. Rendere esplicita la copia come atto di copiatura».10 Ecco un estratto da «Via: 48 Dante Variations» di Bergvall: Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita La divina commedia, Inferno, Canto I 1. Along the journey of our life halfway I found myself again in a dark wood wherein the straight road no longer lay (Dale, 1996) 2. At the midpoint in the journey of our life I found myself astray in a dark wood For the straight path had vanished. (Creagh e Hollander, 1989) 3. HALF over the wayfaring of our life, Since missed the right way, through a night-dark-wood Struggling, I found myself. (Musgrave, 1893) 4. Halfway along the road we have to go, I found myself obscured in a great forest, 228

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Bewildered, and I knew I had lost the way. (Sisson, 1980) 5. Halfway along the journey of our life I woke in wonder in a sunless wood For I had wandered from the narrow way (Zappulla, 1998)11

Un semplice inventario tradisce la soggettività delle traduzioni, visto che le parole di Dante sono lì a disposizione di tutti. Attraverso la ripresentazione, Bergvall trasforma le terzine in una poesia permutazionale o in un esercizio in stile OuLiPo N+7 (che rimpiazza ogni sostantivo in un testo con il settimo termine che lo segue sul dizionario). Passiamo da un «dark wood» a un «night-dark-wood», a una «great forest» fino a un «sunless wood»; o da «journey of our life halfway» a «midpoint in the journey of our life», a «HALF over the wayfaring of our life», «Halfway along the road we have to go», fino a «Halfway along the journey of our life». Ogni frase usa la metafora, l’allusione, la sintassi e l’ampollosità in maniera completamente diversa. Pur facendo molto poco, Bergvall ci rivela moltissimo. In qualsiasi altro contesto, un elenco del genere sarebbe stato usato per dimostrare le complessità, i capricci e la soggettività che l’atto di tradurre comporta. E sebbene tutti questi elementi siano parte integrante del lavoro di traduzione, limitarsi a constatarli significherebbe non cogliere la cosa più importante, ovvero che Bergvall stessa sta agendo come una specie di traduttrice, semplicemente rimettendo insieme testi preesistenti in una nuova poesia, interamente sua. Il poeta Tan Lin raccoglie informazioni in quella che chiama «stilistica ambientale» che può essere paragonata al «non ascolto» di Erik Satie e la sua «musica da arredamento». Nel mezzo di un’inaugurazione in una galleria di Parigi nel 1902, Erik Satie e i suoi amici, dopo aver implorato tutti i presenti nella galleria di ignorarli, diedero forma a quella che 229

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chiamavano «musica da arredamento» – cioè musica di sottofondo – musica come carta da parati, musica fatta per non essere ascoltata. Gli avventori della galleria, contentissimi di vedere dei musicisti che suonavano in mezzo a loro, smisero di parlare e si misero educatamente ad ascoltare, nonostante gli sforzi di Satie di farli distrarre. Per Satie era il primo di una serie di gesti che servivano a preparare il campo all’«ascolto» attraverso il «non ascolto», che culminò nel suo Vexations, uno strano pezzo di tre minuti per pianoforte. È solo una normale pagina di musica, ma Satie ci ha scarabocchiato sopra delle istruzioni che dicono «ripetere per 840 volte». Per anni è stato trattato come uno scherzo musicale – una performance completa richiederebbe circa venti ore –, un compito impossibile, per non dire tremendamente noioso. In ogni caso, John Cage lo prese sul serio e diede vita alla prima esecuzione di Vexations a New York nel 1963. Dieci pianisti, che si davano il cambio ogni due ore, riuscirono a portarlo a termine in 18 ore e 40 minuti. Più tardi Cage spiegò quanto fu influente questa performance: «In altre parole, io ero cambiato, e il mondo era cambiato… E non è successo solo a me, anche altre persone che ne hanno fatto parte mi scrissero di aver avuto la stessa esperienza».12 Quell’esperienza era una nuova idea del tempo e della narrazione musicale, basata sulla durata e sulla stasi estreme, anziché sui tradizionali movimenti da sinfonia, basati sulla varietà e pensati per generare un forte impatto a livello formale ed emotivo. Vexations, invece, assunse un carattere più orientale, unendosi tardivamente ai rāga e alle altre forme estese che i compositori occidentali cominciavano a adottare nei primi anni Sessanta e che finirono per dare vita al minimalismo, la modalità compositiva che dominò nei due decenni a seguire. I gesti di Satie e Cage sono stati ripresi da Brian Eno circa settantacinque anni dopo, quando ha descritto la sua idea di musica ambient: «Un’ambience viene definita come un’atmosfera, o come un’influenza che ci circonda: una tonalità. La mia intenzione è produrre pezzi originali soprattutto (ma non esclusivamente) per situazioni e momenti particolari, 230

L’INVENTARIO E L’AMBIENTE

con lo scopo di costruire un piccolo ma versatile catalogo di musica d’ambiente, pensata per un’ampia varietà di umori e atmosfere».13 Lin vuole creare uno spazio per una scrittura innovativa, che sia rilassante e non impegnativa, un ambiente nel quale la letteratura esista senza bisogno di dover essere letta: «Una buona poesia è molto noiosa… In un mondo perfetto tutte le frasi, anche quelle che scriviamo ai nostri cari, al postino o nelle comunicazioni interne sul luogo di lavoro, avrebbero quella monotonia generale, quel senso di ordinarietà di fondo, una struttura fluida al posto dei disturbi di superficie e delle incomprensioni immediate. Le migliori frasi dovrebbero perdere informazioni a un ritmo relativamente costante. Non ci dovrebbe essere alcun momento estatico di riconoscimento».14 L’idea di produrre testi intenzionalmente piatti e noiosi è in totale contraddizione con ciò che siamo abituati a considerare «buona» letteratura. Il suo progetto Ambient Fiction Reading System 01: A List of Things I Read Didn’t Read and Hardly Read for Exactly One Year15 prende la forma di un blog che documenta ogni suo pasto o spuntino di testo quotidiano. Ecco un estratto da Martedì 22 Agosto 2006, che comincia così: 10:08–15 STUDIO NYT I pedofili estendono il loro raggio d’azione dal loro mondo online 10:15–23 I pakistani trovano negli Stati Uniti una sponda più adatta rispetto alla Gran Bretagna 10:24–26 nytimes.com Editoriale; La tv si è disintegrata. L’unica cosa che resta è lo spettatore 10:28–31 Una macchina della polizia con un sacco di muscoli 10:31–4 Ora l’industria musicale vuole che i chitarristi smettano di condividere 10:50–6 Da Staple a Madison Avenue i codici promozionali vanno online 10:57–07 Il tragico dramma di una città distrutta, con tanto di eroi e cattivi quando gli argini si rompono 11:09–15 Aiutare i poeti alle prime armi a spiccare il volo con sicurezza 231

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11:15–12:16 AOL prende provvedimenti sul rilascio dei dati 11:59 wikipedia «abdur chowdhury» 12:16–23 Rohatyn assumerà l’incarico di Lehman «Ricordo la prima volta che sono entrato in contatto con loro. Portavo la borsa di Adren Mayer a un incontro con Bobby Lehman, a metà anni Cinquanta. Avevano sei scrivanie. Ho sempre avuto un debole per loro». 12:23–5 wikipedia «rohatyn» «greenberg» 12:25 style.com «greenberg» 12:25–33 Quali organizzazioni non vogliono sapere del male che possono fare 12:24 La Tower Records mette all’asta i suoi beni 12:24–57 Navigare il Web in luoghi pubblici è un modo per mettersi nei guai con la giustizia

Quello che appare come una banale lista di cose che Lin ha letto – oppure non letto – si rivela dopo una piccola indagine un’abbondanza di narrazioni autobiografiche, facendo luce sull’atto di consumare, archiviare e muovere le informazioni. Lin comincia la sua giornata nel suo studio a casa dove alle 10:08 controlla le notizie del giorno. La prima storia che legge riguarda il modo in cui i pedofili stanno colonizzando lo spazio online. La storia ci dice che «si scambiano storie di incontri quotidiani con minori. E fanno uso della tecnologia per far arrivare i loro argomenti agli altri».16 Non abbiamo alcuna informazione che ci aiuti a capire se Lin la stia leggendo su carta oppure online, ma visto che sta postando questo materiale su un blog, o comunque mettendo le sue divagazioni su un file Word, possiamo presumere che si trovi al computer. In un certo senso – con l’eccezione ovviamente per il tema della pedofilia – l’articolo descrive la situazione in cui si trova Lin. Seduto al computer, legge e scrive contemporaneamente, consumando e ridistribuendo, creando e disseminando informazioni, «usando la tecnologia per portare i [suoi] ragionamenti all’attenzione di altre persone». Eliminando le più morbose connotazioni, potremmo facilmente ripensare il titolo di questo estratto: «Nel suo mondo online, Tan Lin estende il suo raggio d’azione». 232

L’INVENTARIO E L’AMBIENTE

Alle 10:24 siamo sicuri che Lin si trova online: «La tv si è disintegrata. L’unica cosa che resta è lo spettatore» è una mediazione un po’ alla buona sul fatto che la tecnologia digitale ha soppiantato la semplice funzionalità della vecchia televisione analogica. Con una finestra aperta sul sito del New York Times e un’altra sul suo blog, Lin mette in atto il dilemma presentato nell’articolo pubblicato sulla versione cartacea del New York Times, ma che Lin sta ora leggendo online su nytimes.com. Immerso nello schermo, dalle 10:31 alle 10:34 Lin continua a leggere dell’erosione dei vecchi media in «Now the Music Industry Wants Guitarists to Stop Sharing» («Ora l’industria musicale vuole che i chitarristi smettano di condividere»). L’articolo, che è ancora online sul sito del New York Times, conta 1500 parole. Leggendo velocemente o scorrendo nel testo, è del tutto plausibile che Lin lo abbia letto nei pochi minuti che dichiara di avergli dedicato. Un articolo molto più corto, di sole 920 parole, che richiede circa sei minuti di lettura, «Helping Fledgling Poets Soar with Confidence» («Aiutare i poeti alle prime armi a spiccare il volo con sicurezza») che è la recensione di un libro in cui l’autore dichiara che «la poesia è un impulso primario che tutti noi abbiamo dentro», altra affermazione che Lin mette in atto, trasformando le notizie del giorno in letteratura. Gran parte del lavoro di Lin riguarda le complessità delle identità, non a caso il poeta viene attratto dall’articolo «AOL Acts on Release of Data» («AOL risponde sul rilascio di dati») che parla di uno scandalo dati che ha coinvolto AOL, rea di aver rivelato le identità di molti suoi utenti. Per pura coincidenza, lo stesso leak relativo a AOL costituisce la base per un’altra opera di Thomas Claburn della lunghezza di un libro, i feel better after i type to you, nella quale ha ripubblicato tutti i dati di un utente. Come spiega Claburn stesso: Nel terzo dei dieci documenti relativi alle ricerche fatte su AOL, rilasciate per errore (user-ct-test-collection-03), c’è una specie di poesia. Tra il 7 maggio e il 31 maggio di quest’anno, l’utente 233

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23187425 ha fatto più di 8200 ricerche senza nessuna intenzione evidente di trovare qualcosa, solo una manciata di ricerche sono di fatto associate a degli URL. Piuttosto, la serie delle ricerche fatte dall’autore forma un flusso di coscienza che assomiglia a un soliloquio. Che sia realtà o finzione, confessione o invenzione, il monologo di ricerche è stranamente convincente. È una forma letteraria che ha una sua temporalità unica, in cui le marche temporali del server rendono il passare del tempo del tutto integrale alla narrazione. Potrebbe essere l’inizio di un nuovo genere di scrittura, o semplicemente un’aberrazione. Ma richiede ulteriori spiegazioni. Quali circostanze hanno portato l’autore a lavorare in questo modo con il motore di ricerca di AOL?17

La poesia di Claburn assomiglia stranamente al quella di Lin: Martedì 1:25 del mattino 2006–05–09 01:25:15 entriamo 2006–05–09 01:26:00 joseph ho una domanda 2006–05–09 01:27:27 in tutti questi anni perché hai lavorato vicino delphi 2006–05–09 01:28:36 potevi andare a detroit 2006–05–09 01:29:40 perché hai scelto delphi kettering per farne la tua base 2006–05–09 01:30:09 la tua base 2006–05–09 01:31:13 perché joe 2006–05–09 01:31:56 hai scelto kettering 2006–05–09 01:33:01 avevi la possibilità 2006–05–09 01:33:26 di andartene 2006–05–09 01:34:19 iniziare lì ma poi andare via 2006–05–09 01:34:54 lo so che avevi iniziato lì ma poi potevi andartene 2006–05–09 01:35:28 perché sei rimasto 2006–05–09 01:36:14 ma perché 2006–05–09 01:37:46 per colpa mia 2006–05–09 01:38:48 ho visto la tua bicicletta 2006–05–09 01:39:31 perché non mi hai detto chi eri 234

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2006–05–09 01:41:07 non me lo avresti detto 2006–05–09 01:41:47 ordini 2006–05–09 01:42:38 ordine jt 2006–05–09 01:43:59 pensavo 2006–05–09 01:44:38 connesso per chiedere 2006–05–09 01:45:17 nessuno me ne parlerebbe 2006–05–09 01:46:11 cioè no 2006–05–09 01:47:45 mi hanno parlato di tutti gli altri 2006–05–09 01:48:20 keller come te 2006–05–09 01:48:44 tutto è spazzatura 2006–05–09 01:49:24 mi hanno parlato di loro 2006–05–09 01:50:27 non era il mio tipo 2006–05–09 01:50:49 non era proprio il mio tipo 2006–05–09 01:51:32 il mio tipo è raro18

Così come Lin tiene traccia delle sue abitudini di lettura e, per associazione, dei suoi schemi mentali, Claburn traccia l’«Utente AOL 23187425». La nostra impronta digitale, una volta resa visibile dalle scie di dati, produce una narrazione affascinante, una letteratura psicologica e autobiografica, dimostrando ancora una volta che, se reinquadrati in modo incisivo, «i meri dati» sono tutto fuorché banali. Quando Tan Lin legge del leak di AOL, incontra il nome di Abdur Chowdhury, il professore che è stato la fonte primaria della fuga di notizie. Alle 11:59 molto probabilmente apre una nuova finestra del browser e cerca la voce di Wikipedia su «Abdur Chowdhury», ma scopre che non è stata creata alcuna pagina al riguardo. L’articolo del Times dichiara che «circa venti milioni di singole query di ricerca, che rappresentano le abitudini di ricerca online di circa 650.000 utenti AOL, raccolte nel corso di un periodo di tre mesi nella primavera scorsa, sono stati postati un mese fa da un ricercatore interno all’azienda di nome Abdur Chowdhury, su un sito pubblicamente accessibile».19 Presumiamo che una figura del genere sia di interesse per Lin, che sostiene: «In un ambiente Web, l’attività della lettura incrocia quella della scrittura, della distribuzione e del marketing. Un feed di Twitter è una forma 235

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di pubblicazione? O di scrittura? O di distribuzione “alimentata” dai lettori che si “iscrivono”? Sembra una combinazione di queste cose, i confini tra queste pratiche sono meno rigidi di quelli di un libro, nel quale la scrittura e la pubblicazione sono due entità distinte anche dal punto di vista temporale. Persino i tag usati da chi twitta non necessariamente identificano l’autore dal nome».20 A cosa ci porta, dunque, tutto questo? Quella che a prima vista sembra una massa di informazioni casuali è, nei fatti, un testo autobiografico multidimensionale. Ed è perlopiù verificabile. Questi articoli esistono, e i corrispondenti tempi di lettura sembrano sensati. In breve, dobbiamo concludere che non si tratta di un lavoro di finzione e che Lin ha davvero letto quello che ha letto, nei momenti in cui afferma di averlo fatto nel corso di un anno. Preso nel suo insieme, è un ritratto accurato di Tan Lin, un genere diverso di autobiografia, con cui descrive scrupolosamente se stesso e le circostanze in cui si trovava senza utilizzare neanche una volta il pronome io. Nel 1974 Georges Perec, lo scrittore Oulipiano, scrisse un’opera che poneva domande simili. Compose un imponente pezzo in stile Rabelais: «Tentativo d’inventario degli alimenti liquidi e solidi che ho ingurgitato durante l’anno millenovecentosettantaquattro», che cominciava così: Nove consommé di manzo, una zuppa fredda di cetrioli, una zuppa di cozze. Due Guéndouilles, un’andouillette in gelatina, un salume italiano, una cervellata, quattro salumi assortiti, una coppa, tre piatti di carne di maiale, un fegatello, un foie gras, una testa in cassetta, una testa di cinghiale, cinque prosciutti di Parma, otto paté, un paté d’anatra, un paté di fegato al tartufo, un paté in crosta, un paté grand-mère, un paté di tordo, sei paté delle Landes, quattro teste in gelatina, una mousse di foie gras, uno zampone di maiale, sette rillettes, un salame, due salsicciotti, un salsicciotto caldo, un’anatra in terrina, un fegato di pollo in terrina. 236

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e cinque pagine dopo finiva così: Cinquantasei Armagnac, un Bourbon, otto Calvados, una ciliegina al brandy, sei Chartreuse verdi, un Chivas, quattro cognac, un cognac Delamain, due Grand Marnier, un gin rosa, un Irish coffee, un Jack Daniel’s, quattro vinacce, tre vinacce di Bugey, una vinaccia di Provenza, un liquore di prugne, nove prugne di Souillac, una prugna al brandy, due pere Williams, un porto, uno slivovitz, un Suz, trentasei vodka, quattro whisky. N caffè una tisana tre acque Vichy21

L’inventario di Perec assomiglia a una forma grandiosa di indulgenza al principio di piacere, perché crea un ritratto basato sul noto cliché siamo quello che mangiamo. O forse no. Se lo prendiamo come autobiografia, accettando che cibo e bevande possano essere indicatori di classe e status economico, allora riusciremo a capire molto dell’autore. Ma il problema è che, se anche l’opera riporta ciò che Perec ha mangiato, non abbiamo alcuna possibilità di verifica. Se ci pensate, quantificare esattamente ciò che avete mangiato nel corso di un anno è un compito quasi impossibile. Nel testo Perec sostiene di aver consumato «un agnello da latte». Quanto ne ha mangiato veramente? L’appartenenza di classe è più facile da individuare quando si parla di vini, per esempio di «un Saint-Emilion del 1961». Non è specificata la cantina ma se cerchiamo i prezzi di quel vino, vediamo che oggi va dai 220 ai 10.000 dollari. Sicuramente nel 1974 sarà costato molto meno, ma come facciamo a sapere che non si tratta solo di una fantasia di uno scrittore impoverito? È del tutto plausibile che Perec abbia inventato questo inventario in una notte di ubriachezza, seduto alla scrivania nel suo modesto appartamento. Non lo sapremo mai. E tuttavia, alla fine, che cosa ci importa se Perec sta dicendo la verità o meno? Sebbene sia divertente cercare di indagare le affermazioni di Perec, quello che realmente mi affascina è l’idea che qualcuno possa pro237

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vare a quantificare tutto quello che ha mangiato per un anno per poi presentarlo nella forma di un elenco di circa millequattrocento parole, un’opera letteraria ricca di implicazioni sociologiche, gastronomiche ed economiche. Come Bergvall o Lin, Perec isola e dedica grande attenzione a piccoli dettagli, dando forma a un imponente inventario di esperienze effimere, nel quale il risultato è chiaramente maggiore della semplice somma delle parti.

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11 A SCUOLA DI SCRITTURA NON CREATIVA Un disorientamento Nel 2004 ho inaugurato un corso all’Università della Pennsylvania chiamato «Scrittura non creativa». Avevo la sensazione che i cambiamenti testuali che notavo nell’ambiente digitale, risultato di un intenso uso della rete, si sarebbero ripercossi su una nuova generazione che non ha mai conosciuto nulla di diverso da questo ambiente. Ecco la descrizione del mio corso: La nostra cara vecchia idea di creatività è oggi chiaramente sotto attacco, consumata dalle pratiche di file sharing, dalla cultura di massa, dal sempre più diffuso campionamento e dalla riproduzione digitale. In che modo la scrittura reagisce a questo nuovo scenario? Il corso intende affrontare queste idee adottando strategie di appropriazione, replica, plagio, pirateria, campionamento e saccheggio quali metodi compositivi. Durante il corso affronteremo anche la ricca storia delle falsificazioni, delle frodi, delle bufale, delle personificazioni e dei furti di identità che si sono verificati nel mondo dell’arte, con particolare enfasi sul modo in cui hanno utilizzato il linguaggio. Vedremo come le nozioni moderniste di caso, procedimento e ripetizione e l’estetica della noia si incastrano perfettamente con la cultura popolare mettendo in crisi le convenzionali nozioni di tempo, luogo e identità, così come vengono espresse attraverso la lingua.

La mia sensazione si è dimostrata corretta. Non solo gli studenti hanno deciso di partecipare al corso, ma hanno finito per insegnarmi più di quello che sapevo. Ogni settimana si presentavano in classe con l’ultimo meme sul linguaggio che impazzava in rete, o con dei generatori automatici di remix sempre più potenti, in grado di manipolare il testo in modi che neanche immaginavo. La classe ha preso la forma di una comunità online, più simile a un luogo dinamico nel quale condividere e scambiarsi idee che a un tradizionale corso frontale professore-studente. 239

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Ma con l’andare del tempo mi sono reso conto che, se anche mi mostravano cose sempre nuove, non erano in grado di contestualizzare quegli oggetti da un punto di vista storico, culturale o artistico. Quando per esempio mi hanno mostrato «Il meme di Hitler», con la famosa scena del film La caduta di Oliver Hirschbiegel risottotitolata in modo che Hitler sembri urlare per qualsiasi stupidaggine, dai problemi di Windows Vista al collasso del mercato immobiliare, ho dovuto metterli al corrente del fatto che, negli anni Settanta, il cineasta situazionista René Viénet usava la stessa tecnica, risottotitolando vecchi film di genere – come i porno o i film di kung fu – detournandoli in feroci opere di critica sociale e politica. A colpirmi è stato anche il fatto che questo tipo di cultura online fosse per loro una cosa da consumare, anziché da immaginare come materiale con cui costruire nuovi lavori. Sebbene si trattasse di un’occasione di confronto significativa, vedevo un reale vuoto pedagogico da colmare, soprattutto rispetto alla capacità di contestualizzare. E c’erano anche grandi lacune a livello di conoscenza. È come se i pezzi fossero tutti lì, ma ci fosse bisogno di qualcuno che li mettesse insieme in modo corretto e nella giusta sequenza; era necessario un riorientamento concettuale di quello che erano abituati già a fare. Con questo capitolo vorrei condividere cinque esercizi fondamentali che ho affidato ai miei studenti per avvicinarsi alle questioni inerenti la scrittura non creativa, per renderli consapevoli del linguaggio e delle sue risorse che sono, e sono sempre state, intorno a loro. RISCRIVERE CINQUE PAGINE Per prima cosa mi interessava costringerli a pensare all’atto di scrivere in sé, per cui ho assegnato loro un compito molto semplice: riscrivi cinque pagine, senza altre spiegazioni. Con mia grande sorpresa, la settimana dopo ognuno ha portato in classe uno scritto piuttosto singolare. Hanno reagito in modo diverso, fornendomi una serie di rivelazioni. Alcuni hanno ritenuto il compito insopportabile e non vedevano l’ora di finire, altri lo hanno trovato rilassante e quasi Zen, sostenen240

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do che è stata la prima volta in cui, invece di lottare contro la mancanza d’«ispirazione», si sono davvero concentrati sull’atto di scrivere. Hanno detto di essersi ritrovati serenamente al riparo, in uno stato simile all’amnesia, con parole e significati che entravano e uscivano dalla loro coscienza. Molti si sono anche resi conto del proprio corpo in relazione all’atto di scrivere – dalla postura ai crampi alle mani, fino ai movimenti delle dita; si sono accorti così della natura performativa della scrittura. Una donna, assorbita nel suo ritmico battere sulla tastiera, ha confessato di aver trovato l’esercizio più vicino alla danza che alla scrittura. Un’altra ha detto che è stata l’esperienza di lettura più intensa che avesse mai provato: nel riscrivere il suo racconto preferito ai tempi delle scuole superiori, si è stupita di quanto fosse scritto in modo semplice. Molti studenti hanno cominciato a vedere i testi non solo come veicoli trasparenti di significato, ma anche come oggetti opachi da muovere nello spazio bianco della pagina. Nell’atto di ribattere a tastiera, la prima differenza tra uno studente e l’altro sta nella scelta di cosa ricopiare. Per esempio, uno studente ha riscritto la storia di un uomo incapace di completare l’atto sessuale. Quando gli ho chiesto perché avesse fatto quella scelta, mi ha risposto che gli sembrava la metafora perfetta per questo compito, frustrato com’era dal non poter essere «creativo». Una donna che di giorno faceva la cameriera ha deciso di riscrivere a memoria il menù del suo ristorante, in modo da impararlo meglio e avvantaggiarsene sul luogo di lavoro. Stranamente il suo tentativo è stato un fallimento: non solo ha odiato il compito che le avevo assegnato, ma si è anche risentita perché non le è stato utile sul lavoro. Un buon promemoria per il fatto che spesso il valore di un’opera d’arte è proprio quello di non avere alcun valore pratico. Nel dare i giudizi ho seguito una rigorosa serie di analisi dei dispositivi paratestuali, di solito considerati ben oltre gli interessi della letteratura, ma che invece hanno profondamente a che fare con la scrittura. Si trattava di domande tipo: che carta hanno usato? Perché una generica carta bianca da stampante invece di una carta spessa, polposa e ingiallita? 241

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(Mi sembra sorprendente che gli studenti non si pongano mai questo tipo di domande, e finiscano sempre per usare la generica carta da computer.) Che cosa rivela di te la scelta della carta: della tua estetica, delle tua situazione economica, sociale, politica e rispetto all’ambiente? (Alcuni studenti hanno confessato che di fronte alla possibilità di scelta sempre più ampia e alla completa libertà di azione, preferiscono tendere all’abituale. Da un punto di vista economico e sociale, considerando costo e disponibilità, sono emerse evidenti differenze di classe che prima erano nascoste: i più benestanti si sono stupiti che altri non potevano permettersi una carta di qualità migliore. Per quanto riguarda il rispetto dell’ambiente, anche se la maggior parte di loro si dichiarava consapevole, nessuno si è preoccupato di immaginare una distribuzione in forma elettronica del proprio lavoro, anziché stampare e distribuire fogli di carta agli altri studenti.) Hai deciso di riprodurre l’esatta impaginazione del testo originale o hai semplicemente spostato le parole da una pagina all’altra usando il tuo editor di testo? Se il testo viene scritto in Times New Roman o in Verdana, verrà letto in modo differente? (Di nuovo, molti degli studenti hanno usato le impostazioni predefinite di Microsoft Word, usando il margine a bandiera anche se la fonte originale del testo era giustificata a destra. In pochi hanno pensato di introdurre un’interruzione di pagina in corrispondenza delle pagine che stavano copiando. E lo stesso è valso per i font utilizzati: la maggior parte non ha nemmeno preso in considerazione l’idea di cambiare il Times New Roman. Nessuno ha pensato alle implicazioni storiche, culturali e aziendali della scelta del font, al fatto, per esempio, che il Times New Roman allude al font in cui è scritto il New York Times, pur essendo molto differente – per non parlare del declino di quello che un tempo era un potentissimo gigante dell’informazione – o di come il Verdana, creato specificatamente per essere letto su schermo, è di proprietà di Microsoft. In breve, ogni font porta con sé una storia sociale, economica e politica complessa, che – se ce ne rendiamo conto – può influire sul modo in cui leggiamo un docu242

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mento.) Alla fine abbiamo imparato che la scrittura era stata per loro, fino a quel momento, un’esperienza trasparente che contemplava esclusivamente composizione e significato. Ho esaminato attentamente anche il modo in cui gli studenti presentavano il loro lavoro. Una studentessa, per esempio, senza pensarci troppo ha introdotto il suo pezzo con le parole «non cambierà il mondo», che di solito è un modo per dire: «Questo pezzo non è proprio il massimo». Ma in quel contesto la sua affermazione ha generato un’accesa discussione di più di mezz’ora sulla capacità o meno della scrittura di influire sul mondo che ci circonda e sulle sue conseguenze politiche e sociali, il tutto per un’innocente – ma superficiale – frase fatta. TRASCRIVERE UN BREVE PEZZO SONORO Ho dato alla classe il compito di trascrivere una traccia audio. Una cosa poco eccitante e di scarso interesse, in modo da mantenere alta l’attenzione sul linguaggio, per esempio una notizia o qualcosa di così asciutto e monotono da non «ispirare» nessuno studente. Se dessi lo stesso file da trascrivere a dieci persone diverse, otterrei dieci trascrizioni diverse. Il modo in cui ascoltiamo – e ancor di più il modo in cui trasformiamo ciò che abbiamo ascoltato in linguaggio scritto – è molto soggettivo. Ciò che una persona può percepire come una breve pausa, e quindi trascrivere in forma di virgola, a un’altra persona può sembrare la fine di una frase e quindi può renderla con un punto fermo. La trascrizione è quindi un atto complesso, che coinvolge la traduzione e il trasferimento. Possiamo provarci quanto vogliamo, ma non saremo mai in grado rendere oggettivo questo processo apparentemente semplice e meccanico. Eppure, la mera trascrizione non basta. Una volta ottenuto un testo, rileggendolo ci si accorge che manca forse un elemento chiave: la qualità fisica della voce; i tentennamenti, le cadenze, gli accenti, le pause. Una volta che permettiamo a queste variabili di fare la loro comparsa, apriamo il vaso di Pandora: come si trascrive, per esempio, la confusione del 243

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discorso quando due persone si parlano l’uno sull’altra? E come si fa quando le parole sono bofonchiate e indecifrabili? Come indichiamo se qualcuno che parla si mette a tossire o a ridere? Come comportarsi con eventuali accenti stranieri o testi multilingue? Per un compito apparentemente così semplice, le domande continuano ad accumularsi. Nel corso di una ricerca su internet, uno degli studenti ha trovato un sistema convenzionale di trascrizione usato nei tribunali per le dichiarazioni dei testimoni, che abbiamo subito deciso di utilizzare come guida. Abbiamo scoperto un mondo di simboli ortografici pensati per dare voce al testo. Ci siamo messi al lavoro e, grazie a una serie di simboli extra-linguistici, abbiamo dato un po’ di pepe ai nostri asciutti testi. Abbiamo ascoltato e riascoltato, ogni volta parsificando con maggiore attenzione – quella pausa era di un decimo di secondo o di 1 secondo e mezzo? No, era nel mezzo, da segnare come (.), una micropausa, di solito più piccola di un quarto di secondo. Una volta finito, siamo riusciti a vedere le voci sulla pagina, che urlano e cantano come se un registratore le stesse riproducendo nella stanza. I risultati, che assomigliano più a un codice informatico che a una semplice scrittura, sono diventati una decina di lavori unici, a dispetto degli standard uniformanti che ci eravamo imposti. Per esempio, la trascrizione di un frammento di dialogo assomigliava a una cosa del genere: He comes for conversation. I comfort him sometimes. Comfort and consultation. He knows that’s what he’ll find.

Che poi finisce per apparire così: \He comes for/ *cONverAstion—* I cOMfort him sometimes (2.0) COMfort and >cONsultAtion< (.) He knows (.) that’s what >HE’ll find—< (2.0) He knows that’s >he’ll fi—nd< (6.0)

Il passaggio è stato codificato usando le seguenti convenzioni di trascrizione: 244

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L’enfasi sul nucleo sillabico denota che la parola è pronunciata con un accento concentrato sulla sintassi. Le MAIUSCOLE indicano parole pronunciate a volume più alto e/o con un accento enfatico. (2.0) indica una pausa di circa 2 secondi. (.) indica una micropausa, in genere minore a un quarto di secondo. – (trattino singolo) in mezzo a una parola indica che chi parla si interrompe –– (trattino doppio) alla fine di un’affermazione indica che chi parla non conclude l’affermazione, spesso con un’intonazione che invita l’interlocutore a concluderla. \ / barre convergenti denotano un parlato a basso volume (sottovoce) > < (frecce) denota un parlato (tra le frecce) più veloce rispetto alle conversazioni intorno < > denota un parlato (tra le frecce) più lento delle conversazioni intorno * * (asterischi) indicano risate nella voce di chi parla mentre pronuncia le parole comprese tra gli asterischi

Leggete i due passaggi a voce alta e capirete le differenze. Si tratta di scrittura o di mera trascrizione? Dipende dalla persona a cui poniamo questa domanda. Se chiedi a uno stenografo, ti dirà che è lavoro; per uno scrittore di finzione, attento a raccontare storie convincenti, si tratta di una trama che non funziona; per uno sceneggiatore, è il lavoro di un attore; per un linguista, sono solo dati analitici; e ancora, per uno scrittore non creativo – in grado di trovare risorse inaspettate a livello linguistico, narrativo ed emozionale in parole che non ha mai scritto, semplicemente spostando il contesto o i riferimenti – è arte, capace di rivelare le propensioni del trascrittore/scrittore, il suo pensiero e i suoi processi di scelta, allo stesso modo delle più tradizionali metodologie di scrittura. Chi avrebbe mai pensato che l’atto di parsificare e codificare potesse rivelarci così tanto del codificatore? 245

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TRASCRIVERE PROJECT RUNAWAY Con il procedere del semestre, la classe ha cominciato a prendere una vita propria, e gli studenti ad agire in gruppo. Per esempio, ci siamo riuniti virtualmente per assistere al finale di stagione di Project Runaway, alle dieci di un martedì sera. Ognuno a casa propria, sparpagliati su e giù per la East Coast, eppure tutti connessi in una chatroom. Una volta cominciato il programma, non erano permesse conversazioni, eravamo tutti chiamati a trascrivere ciò che sentivamo in televisione. Commenti soggettivi, discorsi e opinioni – pensieri e parole originali – erano proibiti. Dal momento in cui sono apparsi i titoli di testa, una tempesta di parole è comparsa in ripetizione sui nostri schermi, alimentata da tutti e quindici i partecipanti. Non ci fermavamo neanche quando c’erano le pubblicità, abbiamo generato testi fino alle undici di sera, quando ormai erano state create circa settantacinque pagine di testo grezzo, che assomigliavano a questo: ChouOnTHISSS (10:19:37 PM): really really happy beansdear (10:19:37 PM): all the models are dress ChouOnTHISSS (10:19:37 PM): show the world what I can do WretskyMustDie (10:19:38 PM): Michael’s parents ChouOnTHISSS (10:19:38 PM): Michael’s parents customary black (10:19:38 PM): ready to show the world Kerbear1122 (10:19:38 PM): weally weally happy sunglassaholic (10:19:38 PM): ready to show the world ChouOnTHISSS (10:19:38 PM): I really like it. ChouOnTHISSS (10:19:38 PM): do or die tweek90901 (10:19:40 PM): I really like it EP1813 (10:19:40 PM): coming to life I like it shoegal1229 (10:19:40 PM): I do or die WretskyMustDie (10:19:40 PM): do or die now or never beansdear (10:19:40 PM): i really lke it tweek90901 (10:19:40 PM): one shot shoegal1229 (10:19:40 PM): now or never sunglassaholic (10:19:40 PM): one shot beansdear (10:19:40 PM): do or die 246

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shoegal1229 (10:19:40 PM): one shot WretskyMustDie (10:19:40 PM): Jeffrey’s girlfriend and son beansdear (10:19:40 PM): I’m giving it tweek90901 (10:19:40 PM): all of the looks tweek90901 (10:19:40 PM): on all of the girls sunglassaholic (10:19:40 PM): all of the looks customary black (10:19:40 PM): all the looks all the girls

La classe ha poi avviato un processo di editing. Si è deciso di rimuovere quelle parti di linguaggio che interrompevano il flusso ritmico («Michael’s parents» e «Jeffrey’s girlfriend and son» sono state rimosse). Dopo tante discussioni, anche i nomi e l’orario dei post degli utenti sono stati rimossi (alcuni ritenevano che la loro funzione documentaristica fosse essenziale alla comprensione del pezzo), tutta la punteggiatura è stata tolta, i refusi sistemati e le i in minuscolo sono state messe in maiuscolo, tanto da lasciare il testo finale in questa forma: really really happy all the models are dressed show the world what I can do ready to show the world weally weally happy ready to show the world I really like it do or die I really like it coming to life I like it I do or die do or die now or never I really like it one shot now or never one shot do or die one shot I’m giving it 247

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all of the looks on all of the girls all of the looks all the looks all the girls

Visto così appare un testo aerodinamico e ritmico, pur essendo solo il risultato di ciò che abbiamo ascoltato. È una camera di riverberazione potente, quasi un incrocio minimalista tra E.E. Cummings e Gertrude Stein, generato però da un gruppo d’ascolto di uno show televisivo. Se il testo da solo non risulta essere abbastanza convincente, gli studenti possono dare vita a un gruppo di lettura, rileggendo ognuno le righe che ha «scritto», dando così una presenza fisica a quel testo saturato dai media. Se ascoltiamo con attenzione il linguaggio quotidiano parlato intorno a noi, potremmo sicuramente trovarci della poesia. Quando va in onda Project Runaway, non credo sia facile trovare un altro gruppo di ascoltatori che presti la stessa attenzione al modo in cui le parole vengono pronunciate anziché al contenuto dei discorsi. Eppure, ogni media che utilizza il linguaggio è un media a più facce, allo stesso tempo trasparente e opaco. Reinquadrando, ricontestualizzando e riutilizzando il linguaggio che ci circonda, scopriamo che l’ispirazione di cui abbiamo bisogno è proprio lì sotto il nostro naso. Come disse John Cage, «La musica è intorno a noi. Se solo avessimo orecchie per sentirla. Non avremmo alcun bisogno di sale da concerti».1 RETRO GRAFFITI Mi piace portare gli studenti lontano dalla classe, dalle pagine dei libri e dallo schermo e, prendendo spunto dai situazionisti, provare a fargli fare un’esperienza di scrittura non creativa per le strade. Le mie indicazioni consistono nell’invito a cercare testi arcani o slogan fuori moda – «Impeachment per Nixon», per esempio – e scriverli in spazi pubblici in forma temporanea. Alcuni hanno scelto di lavorare in modo quasi invisibile, scrivendo con una penna a sfera un paragrafo di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf in micrografia sulla 248

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buccia di una banana, per poi rimetterla in una cesta con altre banane. Altri, più sfacciati, hanno scarabocchiato slogan pubblicitari degli anni Quaranta con il rossetto sugli specchi dei bagni pubblici. Alcuni hanno reso di pubblico dominio i loro dati più segreti, issando nei campus universitari nel cuore della notte enormi bandiere che sfoggiavano i codici PIN delle loro carte di credito. Uno studente ha scritto uno slogan erotico proveniente dal 79 a.C. a Pompei, MURTIS BENE FELAS («Myrtis, lo succhi bene») sulla neve fresca del campus con un colore rosso; qualcun altro ha appeso lo slogan futurista LA VELOCITÀ È LA NUOVA BELLEZZA sulla facciata della Wharton School, muovendo una sottile critica alla più famosa scuola di business del paese; un altro ha ossessivamente scritto un centinaio di cifre del Pi greco su ogni superficie piana che ha trovato nel campus, portando un giornale di Philadelphia a inviare un reporter per scoprire l’identità e le motivazioni di questo writer misterioso. La settimana seguente gli ho fatto prendere i loro slogan e, con utilizzo di computer e carta, glieli ho fatti modificare affinché sembrassero veri e propri biglietti d’auguri. Gli ho fatto poi aggiungere i codici a barre e siamo usciti in massa per andare nel più vicino negozio CVS, nella sezione cartoline, per lasciarle lì mischiandole alle altre nella marea di veri biglietti «Guarisci presto» e «Auguri per la tua prima comunione». Abbiamo documentato questa azione e ci siamo soffermati a vedere se qualcuno si imbatteva in quelle cartoline per comprarle. Ho chiesto agli studenti di acquistarne qualcuna, per assicurarsi che i codici a barre funzionassero. Nel corso delle settimane seguenti gli studenti hanno continuato a controllare le cartoline: erano sempre lì. Non era così facile che qualcuno comprasse una cartolina con uno slogan femminista del tipo «Sposeresti di nuovo tuo marito?» accostato all’illustrazione di un orsetto con gli occhi tristi. Il modo in cui questi esercizi trattano il linguaggio richiama l’uso degli slogan poetici scritti sui muri di Parigi con le bombolette spray durante il maggio del 1968 (il più famoso «Sous les pavés, la plage» [Sotto il pavé, la spiaggia]). La natura 249

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non specifica e non letteraria di questi slogan serve a interrompere gli usi logici, economici e politici normativi del linguaggio discorsivo, preferendo invece una comunicazione ambigua e sognante, per risvegliare le parti addormentate e subconscie della nostra immaginazione. Perfettamente in sintonia con le idee surrealiste suggerite dalla famosa frase di Lautréamont «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e un ombrello su un tavolo operatorio», un uso del linguaggio pubblico così particolare era pensato, come disse Herbert Marcuse, per motivare il popolo a muoversi «dal realismo al surrealismo».2 Ovviamente è poco realistico aspettarsi contenuti così politici in un campus universitario oggi, ma questi interventi, nel loro contesto, hanno di fatto suscitato un certo disorientamento e provocato reazioni forti. Questi gesti, richiamando i graffiti e la street art, ricordano agli studenti che il linguaggio ha il potenziale di sorprenderci nei modi e nei luoghi che meno ci aspettiamo. Permettono loro di capire che il linguaggio è sia fisico che materiale, e che può essere inserito in un ambiente e messo in discussione in modo attivo e pubblico, dimostrando che le parole non devono per forza essere imprigionate sulla pagina. SCENEGGIATURE Prendi un film o un video che non ha sceneggiatura e scrivine una, così precisa che possa essere successivamente ricreata da attori e non attori. Il formato delle sceneggiature è pensato per non lasciare nulla al caso o al capriccio: gli studenti devono usare un font Courier e aderire alle limitazioni alla formattazione richiesti dagli standard dell’industria cinematografica. In breve, il lavoro finale non si deve poter distinguere da una sceneggiatura di Hollywood. Una studentessa ha deciso di prendere un breve film porno, Dirty Little Schoolgirl Stories #2, con Jamie Reamz, e l’ha fatto diventare una sceneggiatura. Il pezzo comincia così: DISSOLVENZA IN ENTRATA. CASA EST. GIORNO 250

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Per un istante vediamo l’immagine di un uomo, vestito di tutto punto, che tira la maniglia di una grande porta in legno. Su entrambi i lati della porta ci sono due lampade, e dietro ci sono due colonne di pietra. L’effetto generale, anche se l’inquadratura è breve, trasmette ricchezza e prestigio. STANZA INT. GIORNO Taglio in un interno di una stanza da letto. La telecamera inquadra da lontano in diagonale il grande letto in mogano, in modo che ci sia permesso di vedere solo metà della stanza. Nel campo visivo ci sono anche un comodino in ferro lavorato e un grande armadio. Il copriletto ha una stampa rosso e oro ed è perfettamente abbinato ai quattro cuscini e i piccoli oggetti sul comodino. Sullo sfondo c’è una ragazza bionda, JAMIE, che prima vestiva una tipica uniforme scolastica, e ora la vediamo tirarsi su la gonna a scacchi blu e gialli. Mentre lo fa, i suoi capelli mossi ondeggiano da una parte all’altra. Quando tira su la gonna fino ai fianchi, l’obiettivo fa uno zoom sulla gonna. Si gira poi per cercare di aprire la zip che si trova sul retro.

Alla cinepresa, così invisibile nei film, viene dato un ruolo prominente nelle sceneggiature, così come agli arredamenti, che di solito nei film porno scompaiono. In realtà, nel porno quasi tutto ciò che è estraneo ai corpi e al sesso viene di solito reso trasparente. Una volta trascritti i dialoghi, il risultato è ovviamente innaturale e imbarazzante; si tratta di parole che non sono mai state pensate per la pagina o per essere giudicate attraverso le lenti della letteratura: JAMIE (in tono provocante): Be’… dal momento che oggi resto a casa… TONY (alzando le sopracciglia): Giusto… JAMIE (risata diabolica) Jamie si mette una mano sui genitali, poi apre le gambe mentre guarda Tony in modo seducente. Lui ricambia lo sguardo. TONY: Be’… (borbotta) JAMIE (ride): In che senso? 251

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(Tony si schiarisce la voce due volte.) JAMIE: Secondo te? (La sua voce si fa man mano più melensa e suggestiva).

La selezione degli aggettivi (provocante, diabolica, melensa) e l’uso della punteggiatura (puntini di sospensione, parentesi) sono a discrezione della studentessa; qualcun altro avrebbe potuto scegliere parole diverse per lo stesso film o per un’altra scena. Entrano in gioco valutazioni convenzionali sulla scrittura: come in gran parte della letteratura è la scelta delle parole e il modo in cui sono disposte a determinare il successo o il fallimento del lavoro. Una volta che l’«azione» inizia, la studentessa impiega termini molto clinici per descriverla: JAMIE risponde con un gemito e l’obiettivo zooma all’indietro, al punto che siamo in grado di vedere l’intera vagina di JAMIE. TONY le tiene una mano sulla coscia e una appena sopra la vagina. Lui la guarda intensamente, come per esplorare il territorio. La camera zooma di nuovo all’indietro e TONY le tocca la vagina due volte, muovendo la mano verso il basso. Le sfiora l’interno coscia con un dito.

Come tutte le sceneggiature, le azioni sono chiare e descritte nei fatti, eppure siamo portati a credere che queste azioni erotiche – per via del talento di Jamie e Tony – siano spontanee e «reali»; dovranno essere tanto «reali» e spontanee anche la prossima volta che verranno messe in atto. Eppure, a un altro livello, la studentessa non stava propriamente descrivendo le azioni di Jamie e Tony, quanto i movimenti di camera e le decisioni del montatore. Quindi, creando la sua sceneggiatura, ha aggiunto alla già complessa catena delle autorialità una dimensione in cui si intrecciano aspetti letterari, di regia e legati alla scopofilia: gli spettatori del film rifatto → gli attori e il regista del film scritto dalla studentessa → il lettore (del lavoro della studentessa 252

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come opera letteraria) → il trascrittore (la studentessa) → gli spettatori del film originale → il regista del film → l’operatore → gli attori → il set

La catena omette l’intento che è alla base di ogni film porno: l’erotismo. In questo esercizio, il linguaggio della studentessa intorbidisce e oggettivizza il fine ultimo della pornografia, capovolgendo convenzioni quasi mai messe in discussione, trasparenti e profondamente ignare del loro stesso funzionamento. Nello scrivere una tale sceneggiatura la studentessa allestisce un corridoio di specchi, sfumando le differenze tra realtà, autenticità, spettatorialità, lettura e autorialità. Un’altra studentessa ha preso un video amatoriale, ne ha scritto la sceneggiatura, e li ha entrambi spediti ai genitori come regalo per le festività ebraiche. Il video descrive l’emozionante ritorno nel loro villaggio di origine in Polonia, dove la maggior parte della famiglia era stata sterminata durante la Seconda Guerra Mondiale. (Inizia a entrare nel cimitero. In campo solo Jay e La Guida. Interno del cimitero. Soprattutto terra, erba, alberi.) JAY: Questo è il luogo in cui gli abitanti della città murata del ghetto ebraico sono stati sepolti. NANCY: È un’esperienza incredibile. Vedere dove un quarto di milione di ebrei sono sepolti. O tre milioni e mezzo prima della guerra, o diecimila oggi. E pensare che ci sono ancora persone che negano l’Olocausto dopo aver visitato il ghetto. Si vede che milioni di ebrei sono stati portati via dalla Polonia nei campi. Scusa se ti ho strattonato, ma è molto difficile, sto cercando di tenere l’ombrello. E queste sono le nostre guide di Baligrad, al momento sono… Quante persone vivono a Baligrad oggi? (Le voci si accavallano in sottofondo, mentre la videocamera fa una panoramica sul cimitero decadente e sul verde lasciato a se stesso).

È accaduto che Nancy, la mamma della studentessa, è venuta in classe ad ascoltare la presentazione della sua sceneggiatura 253

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e le è stato chiesto, proprio da sua figlia, di alzarsi e di «recitare» qualche battuta dalla «sceneggiatura». Le ha chiesto in particolare di leggere il paragrafo appena riprodotto. Nancy, essendo una persona sportiva, si è alzata e ha cominciato a interpretare le sue «battute». È stata però immediatamente interrotta dalla figlia, che le ha detto «Mamma, questo non è il modo in cui l’hai detto nel film!» e le ha fatto ripetere le battute con «più sentimento». La mamma ha ricominciato, ma è stata subito interrotta da sua figlia che le ha chiesto di nuovo di intonare le parole in modo più preciso, di agire più «naturalmente». Quello a cui stavamo assistendo in classe era la riproposizione di un video amatoriale con la madre come «attrice» e la figlia come «sceneggiatrice/regista». Senza considerare le loro «capacità recitative», che entrambe stavano mostrando pubblicamente di fronte alla classe, in una situazione presumibilmente ben diversa dalla privacy di casa loro. È stato un episodio davvero emozionante. Eppure emozionante non è la prima parola che mi viene in mente quando penso alla trascrizione, alla sceneggiatura e al materiale trovato. Si potrebbe pensare che questi metodi possano al massimo produrre risultati aridi e sterili, ma è vero il contrario. La trascrizione e l’interpretazione di materiale preesistente consente agli studenti di sentire quelle parole e quelle idee come se fossero nate da un lavoro «originale». La classe non creativa è stata trasformata in un laboratorio cablato, nel quale gli studenti ipertestualizzano le idee degli istruttori e dei loro compagni in una specie di frenesia digitale. È quello che è successo nel corso della recente visita di uno scrittore durante una mia lezione. Lo scrittore ha cominciato il suo intervento con una presentazione in Power Point. Mentre parlava, ha notato che l’intera classe – ogni studente aveva di fronte a sé il laptop, aperto e connesso a internet – era impegnata a battere sulle tastiere. Si è compiaciuto del fatto che, in modo tradizionale, gli studenti stessero prendendo appunti estesi sulla sua lezione, divorando ogni parola che pronunciava. Ma non sapeva che gli studenti era254

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no impegnati in una conversazione elettronica simultanea proprio su ciò che lo scrittore stava dicendo, utilizzando la mailing list della classe, alla quale hanno accesso istantaneo. Nel corso della lezione, decine di email, link e foto volavano da una parte all’altra della classe; ogni email scatenava altri commenti in aggiunta alle email precedenti, al punto che le parole dell’artista erano diventate solo lo spunto per avviare un’indagine di una profondità e complessità che la breve visita di uno scrittore – per non parlare della lezione di un professore – non avrebbe mai potuto raggiungere. Si è dimostrata un’espressione impareggiabile di impegno attivo e partecipato, ed è andata a finire ben oltre le aspettative del relatore. Il modello della lezione frontale ha collassato, livellato da un’ampia e orizzontale iniziativa guidata dagli studenti, nella quale il professore e il relatore erano ridotti a spettatori. Ma che ne è delle discussioni collettive in classe o dell’arte di saper ascoltare il punto di vista degli altri? Ogni tanto ai miei studenti faccio chiudere i loro laptop e spegnere i cellulari, per riconnetterci faccia a faccia nel mondo fisico. I miei studenti sembrano trovarsi a loro agio con entrambe le modalità, passando dall’una all’altra con la stessa facilità con cui lo fanno nella vita di tutti i giorni, mandando SMS di giorno e andando a ballare la sera. Ma vorrei segnalare una cosa importante: io lavoro in un’università privilegiata, forse una delle più privilegiate al mondo. Le classi sono colme di nuove tecnologie e le connessioni wireless di massima velocità scorrono come acqua dai rubinetti. Gli studenti, nell’insieme, provengono tutti da situazioni economicamente solide; quelli meno fortunati vengono ben mantenuti dalle borse di studio. In classe portano laptop e smartphone di ultima generazione e sembra che abbiano ogni tipo di software immaginabile installato sulle loro macchine. Sono adepti del file sharing e dei videogame, dei messaggi istantanei e dei blog; twittano senza sosta mentre aggiornano i loro status su Facebook. In breve, questa università è l’ambiente ideale per praticare quella specie di tecnoutopia che predico da anni, di fronte a studenti equi255

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paggiati, pronti, desiderosi e capaci di tuffarcisi dentro. Inutile dirlo, la situazione in un’istituzione della Ivy League non è assolutamente la norma. Se è vero che molte istituzioni occidentali hanno alzato il livello delle loro infrastrutture tecnologiche in modi simili – anche se non così sofisticati –, nella maggior parte delle università gli studenti fanno fatica a lavorare con vecchi laptop, vecchie versioni dei software e connessioni più lente; gli smartphone, per ora, sono l’eccezione, non la regola, e un gran numero di studenti deve bilanciare l’impegno universitario con un lavoro esterno altrettanto impegnativo. In molte parti dell’Occidente e in tutto il terzo mondo la situazione è molto peggiore, al punto che la tecnologia è inesistente. La nuvola di dati è una finzione, e le reti wireless aperte e accessibili sono poche e molto distanziate. Se avete mai provato a connettervi su una rete aperta e accessibile da qualche parte negli Stati Uniti, sapete cosa intendo. E la situazione non è destinata a cambiare presto. I miei studenti sanno come esprimersi in maniera convenzionale; hanno affinato quelle capacità sin dalle elementari. Sanno come scrivere narrazioni convincenti e raccontare storie efficaci. Eppure la conseguenza è che la loro comprensione del linguaggio è spesso monodimensionale. Per loro il linguaggio è uno strumento trasparente per esprimere pensieri logici, coerenti e conclusivi, rifacendosi a un preciso sistema di regole che nel momento in cui entrano all’università già controllano con maestria. Come educatore, potrei lavorare sulla rifinitura di questo sistema, ma preferisco sfidarlo per dimostrare la flessibilità, il potenziale e le risorse della multidimensionalità del linguaggio. Come ho spiegato nel corso del libro, ci sono molti modi di usare il linguaggio: perché limitarsi a uno? Una formazione solida consiste nel saper proporre diversi tipi di approccio. Uno studente di Giurisprudenza non può studiare un caso solo dal punto di vista dell’accusa; quello che fa la difesa è altrettanto importante. Il metodo socratico della formazione giuridica enfatizza l’importanza di controllare entrambi i punti di vista in una discussione, per poterla vincere. Come in una partita 256

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a scacchi, un avvocato socratico di un certo livello deve anticipare la prossima mossa del suo avversario, immedesimandosi nella posizione a lui contraria. La formazione in campo giuridico si concentra inoltre sull’oggettività e sul distacco nel rappresentare gli interessi del cliente. Credo che gli scrittori possano imparare molto da questi metodi. Perché la formazione letteraria non dovrebbe adottare un approccio simile? Se possiamo gestire il linguaggio/le informazioni, possiamo gestire le idee e quindi il mondo. La maggior parte dei compiti nel mondo è orientata verso questo tipo di processi, che si tratti di mettere insieme fatti giuridici per un verbale d’appello, raccogliere dati statistici per un report commerciale, svolgere un accertamento di fatti, raggiungere delle conclusioni in un laboratorio scientifico, e così via. Se lo vogliamo, impiegando strategie simili, possiamo creare grandi opere letterarie destinate a durare nel tempo. All’inizio di ogni semestre, chiedo ai miei studenti di sospendere per un po’ il loro scetticismo e di immergersi completamente nella scrittura non creativa. Dico loro che una cosa positiva che possono imparare dal corso è che in futuro si potranno rifiutare di utilizzare questo metodo di lavoro. Almeno le loro posizioni conservatrici ne possono uscire rafforzate e consapevoli. Un altro buon risultato si ottiene quando la scrittura non creativa diventa uno strumento in più a loro disposizione, da utilizzare nel corso delle loro future carriere. Ma la grande sorpresa, anche per i più scettici tra i miei studenti, è che essere esposti a questo modo «non creativo» di pensare cambia per sempre la loro prospettiva sul mondo. Non riescono più a dare per scontata la definizione di scrittura che avevano imparato. Il cambiamento è tanto filosofico quanto pratico. Gli studenti finiscono il corso e diventano pensatori più sofisticati e complessi. Di fatto, li alleno a diventare «geni non originali».

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12 LINGUAGGIO PROVVISORIO Nel mondo digitale di oggi, il linguaggio è diventato uno spazio provvisorio, temporaneo, senza fondamenta, semplice materiale da spalare, riconfigurare, accumulare e modellare nella forma più conveniente, per essere poi gettato via altrettanto rapidamente. Le parole sono riproducibili all’infinito e a basso costo, diventate ormai detriti che esprimono poco e significano ancora meno. Ci siamo abituati a essere costantemente disorientati dalle repliche e dallo spam. Le nozioni di autenticità e originalità sono sempre più difficili da rintracciare. Quei teorici francesi che aprirono le porte alla destabilizzazione del linguaggio non avrebbero mai potuto immaginare fino a che punto le parole oggi si rifiutino di stare ferme; conoscono solo l’irrequietezza. Le parole oggi sono bolle, mutaforma, significanti vuoti che fluttuano nell’invisibilità della rete, quel grande livellatore di linguaggio di cui ci appropriamo avidamente e in modo indiscriminato, riempiendo i nostri hard disk solo per sostituirli con altri più economici e più capienti. Il testo digitale è la controfigura di quello stampato, un fantasma nella macchina. Un fantasma divenuto più utile del reale; se non lo puoi scaricare, non esiste. Le parole creano dipendenza, si accumulano all’infinito, indifferenziate, ridotte in frantumi per riformarsi in nuove costellazioni di linguaggio, e poi essere fatte di nuovo a pezzi. Una bufera di linguaggio che induce all’amnesia; queste non sono parole da ricordare. La stasi è il nuovo movimento. Le parole si ritrovano in una condizione che è al contempo di obsolescenza e di presenza ubiqua, una condizione dinamica ma stabile. Un ecosistema: riciclabile, riutilizzabile, recuperabile. La ripetizione è la nuova non creatività; anziché creare, noi onoriamo, adoriamo, sfruttiamo la manipolazione e il riutilizzo. Le lettere sono mattoni da costruzione tutti uguali: nessuna è più importante delle altre; le vocali e le consonanti si riducono a codice decimale, organizzate temporaneamente su 259

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documenti di testo in forma di costellazioni; poi nella forma di un video; poi come immagini; e poi, forse, di nuovo nella forma di un testo. Sia l’irregolarità che l’unicità si costruiscono temporaneamente sugli stessi elementi di testo. Anziché tentare di estrarre con la forza l’ordine dal caos, oggi si estrae il suggestivo da ciò che è stato assimilato, liberando il singolare dall’ordinario. Ogni materializzazione è subordinata: tagliata, incollata, scremata, inoltrata, spammata. Se un tempo l’arte della scrittura credeva nell’unione – potenzialmente eterna – tra parole e pensiero, ora vede un accoppiamento precario, che aspetta di essere disfatto; un abbraccio temporaneo che rischia di essere separato, dilaniato dalle forze che impazzano sui network; parole che oggi possono diventare un saggio, domani essere copiate su un documento Photoshop, la settimana prossima animate in un film e l’anno dopo diventare parte di un DJ set. L’industrializzazione del linguaggio: venendo consumate così intensamente, le parole continuano a essere prodotte con zelo religioso e poi conservate e mantenute con altrettanta devozione. Le parole non dormono mai; torrent e spider sono alla continua ricerca di linguaggio, ventiquattr’ore su ventiquattro. Tradizionalmente, per definire una tipologia ci vuole un atto di demarcazione, di definizione di un modello che escluda altre soluzioni. Il linguaggio provvisorio rappresenta una tipologia di accumulazione al contrario, più attenta alla quantità e meno al tipo. Il linguaggio prosciuga e viene prosciugato; scrivere è diventato uno spazio di collisione, un contenitore di atomi. Esiste un modo speciale di vagare per il Web, che è allo stesso tempo risoluto e senza scopo. Se prima le narrazioni ci promettevano spesso un luogo sicuro nel quale infine riposarci, oggi la tempesta di linguaggio scatenata dal Web ci offusca la vista e ci aggroviglia in una selva di parole che ci costringono a deviazioni involontarie, che appena ti perdi ti fanno tornare indietro: una dérive iperattiva, un flâneur in corsa. 260

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Il linguaggio è ridotto a modalità monotona, piatta. Come creare differenza in ciò che è piatto? Accentuando la monotonia? Attraverso la lunghezza? L’amplificazione? La variazione? La ripetizione? Che cosa cambia? Le parole esistono per essere détournate: prendi il linguaggio più odioso che ti viene in mente e neutralizzalo; prendi il più dolce e fallo diventare brutto. Ripristina, riorganizza, riassembla, rinvigorisci, rinnova, rivedi, recupera, riprogetta, restituisci, rifai: i verbi che iniziano con ri o re producono linguaggio provvisorio. Oggi intere opere adottano un linguaggio provvisorio, definendo regimi di disorientamento organizzato, per promuovere una politica di scompiglio sistematico. Babele è stata fraintesa; il linguaggio non è un problema, ma una nuova frontiera. Il linguaggio provvisorio finge di unire, ma in realtà frantuma. Crea comunità che non si basano su interessi condivisi o su libere associazioni, ma su statistiche tutte uguali e su inevitabili demografie, in un intreccio opportunistico di interessi personali. «Uccidi i tuoi maestri.» La mancanza di maestri non ha fermato la proliferazione di capolavori. Tutto è un capolavoro; niente è un capolavoro. È un capolavoro se dico che lo è. Inevitabilmente, la morte dell’autore ha generato uno spazio orfano; il linguaggio provvisorio è senza autore, eppure straordinariamente autoritario, capace di indossare senza distinzioni le vesti che strappa. L’ufficio è la nuova frontiera della scrittura. Ora che si può lavorare da casa, l’ufficio aspira alla dimensione domestica. La scrittura provvisoria rappresenta l’ufficio come casa urbana: le scrivanie diventano sculture; un universo di post-it elettronici permea la nuova scrittura, il linguaggio aziendale diventa gergo: «team memory» e «information management». La scrittura contemporanea richiede l’esperienza di una segretaria unita alla mentalità del pirata: replicare, organizzare, moltiplicare, archiviare e ristampare, si uniscono a inclinazioni più clandestine come la copia illegale, il saccheggio, 261

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l’accumulazione e il file sharing. Dobbiamo acquisire nuove competenze: siamo diventati maestri della tastiera, abilissimi copiaincollatori, assi dell’OCR. Non c’è niente che amiamo più della trascrizione; poche cose ci danno più soddisfazione del confronto tra la copia e l’originale. Non c’è museo o libreria al mondo che sia migliore delle cartolerie che abbiamo sotto casa, stipate di materie prime per scrivere: hard disk giganteschi, pile di CD e DVD vergini, toner e inchiostri, stampanti con giga di memoria e risme di carta a buon mercato. Oggi lo scrittore è un produttore, un editore e un distributore. Paragrafi simultaneamente rippati, masterizzati, copiati, stampati, rilegati, cancellati e trasmessi. Il vecchio e solitario covo dello scrittore si trasforma in un laboratorio alchemico connesso ai social network, nella pura fisicità del trasferimento di testo. La sensualità dell’atto di copiare gigabyte di dati da un’unità di memoria a un’altra: il vibrare dell’hard disk, l’agitarsi della materia intellettuale che si manifesta come suono. L’eccitazione fisica per il calore generato dalla supercomputazione al servizio della letteratura. La lama dello scanner che porta via il linguaggio dalla pagina, scongelandolo, liberandolo. Linguaggio in gioco. Linguaggio fuori gioco. Linguaggio congelato. Linguaggio sciolto. Scolpire con il testo. Estrarre dati. Risucchiare parole. Il nostro compito è semplicemente quello di occuparci delle macchine. La globalizzazione e la digitalizzazione trasformano tutto il linguaggio in linguaggio provvisorio. L’ubiquità dell’inglese: ora che tutti lo parliamo, nessuno ricorda come si usa. La bastardizzazione collettiva dell’inglese è il nostro più grande risultato; gli abbiamo spezzato la schiena con l’ignoranza, l’accento, lo slang, il gergo, il turismo e il multitasking. Gli possiamo far dire quello che vogliamo, come un pupazzo parlante. I riflessi narrativi che ci hanno permesso di unire i puntini fin dall’alba dei tempi ora ci si ritorcono contro. Non riusciamo a smettere di rilevare: nessuna sequenza è troppo 262

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assurda, triviale, insensata, offensiva. Registriamo disperatamente tutto, conferiamo senso, spremiamo via il significato da ogni cosa e vediamo intenzioni nelle parole più atomizzate. Il modernismo ha dimostrato che non riusciamo a smettere di dare senso a ciò che non ha senso. L’unico discorso legittimo è quello della perdita; prima cercavamo di rinnovare ciò che si era esaurito, adesso cerchiamo di resuscitare ciò che è defunto.

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13 POSTFAZIONE Nel 1726, Jonathan Swift aveva immaginato una macchina da scrittura per mezzo della quale «la persona più ignorante, a un prezzo ragionevole e con il minimo sforzo fisico, avrebbe potuto scrivere libri di filosofia, poesia, politica, giurisprudenza, matematica e teologia, senza l’aiuto di un luminare o dello studio necessario».1 Descrive una macchina primitiva, basata su griglie nelle quali inscrivere ogni parola del dizionario inglese. Muovendo le manopole, la griglia si mette in moto e riversa sulla pagina una serie casuale di parole appena sensate. Smanettando ancora un po’, la macchina continua a sputare altri gruppi di parole a caso. Queste frasi frammentate devono essere annotate da scribi su fogli che, come pezzi di un gigante puzzle, devono poi essere rimessi insieme in uno sforzo di ricostruzione della lingua inglese, anche se scritta da una macchina. Il sottotesto della tesi di Swift è che la lingua inglese andava bene così com’era e che la novità rappresentata dalla sua ricostruzione per mezzo di una macchina non l’avrebbe resa migliore. Era una satira tagliente sulla nostra cieca fiducia nel potenziale trasformativo della tecnologia, anche se in molti casi si fa assolutamente folle. Ma possiamo pure vedere la proposta di Swift come un atto di scrittura non creativa, soprattutto se la mettiamo in relazione con le riscritture del Don Quixote di Pierre Menard e di Sulla strada di Simon Morris. Immagino che qualcuno oggi potrebbe provare a progettare la macchina di Swift, ricostruendo da zero la lingua inglese e pubblicando il libro come un’opera di scrittura non creativa. Sarebbe un progetto ambizioso, sulla falsariga di un esercizio in stile OuLiPo: «Ricostruire la lingua inglese da zero usando le sue 26 lettere, su una griglia 20x20 fatta a mano». Eppure la lezione non sarebbe molto diversa da quella che ci dà Swift; nel 2010 la lingua inglese funziona ancora bene. Siamo sicuri che la migliorerebbe ricostruendola da zero? O finiremmo soltanto per cimentarci in un esercizio nostalgico che rimanda a quando la riproduzione e la mimesi 265

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richiedevano tanto lavoro? Alla fine, perché ce ne dovremmo preoccupare se un computer può farlo meglio di noi? Nel 1984 un programmatore informatico di nome Bill Chamberlain fece di meglio, quando pubblicò The Policeman’s Beard Is Half Constructed, il primo libro interamente scritto da un computer chiamato RACTER. Come la macchina di Swift, RACTER ha reinventato un meccanismo perfettamente funzionante, con risultati veramente impressionanti. Le rudimentali frasi prodotte da RACTER sono rigorose, frammentate e venate di surrealismo: «Alcuni psichiatri infuriati stanno incitando un macellaio esausto. Il macellaio è esausto e stanco perché ha tagliato carne e bistecche e agnello per ore e settimane».2 A volte sputa qualche cyber-strofetta romantica: «Proprio ora mentre entravi nella stanza stavo pensando a quanto astutamente hai manifestato le tue esigenze. Qui ci ritroviamo, naso a naso come una volta, a considerare le cose in modi spettacolari, modi mai sentiti neanche dai miei manager privati».3 A essere onesti, riuscire a far scrivere una prosa coerente a un computer è un risultato eccezionale di per sé, al di là della qualità della scrittura. Chamberlain spiega come ha programmato RACTER: Racter, che è stato scritto in BASIC compilato… coniuga sia i verbi regolari che gli irregolari, scrive i nomi regolari e irregolari sia al singolare che al plurale, ricorda il genere dei nomi, e può assegnare uno status variabile a «cose» scelte a caso. Queste cose possono essere parole singole, proposizioni o frasi complesse, paragrafi, o anche delle storie… Il programmatore non entra in gioco quasi per niente rispetto alla forma specifica che è invece risultato del sistema. Questo risultato non è più una forma preprogrammata. Piuttosto, il computer dà forma al risultato per conto suo.4

Nell’introduzione del libro, in modo molto swiftiano, Chamberlain dice: «Il fatto che un computer debba in qualche 266

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modo comunicarci le sue attività, e che lo faccia quasi sempre attraverso direttive espresse in inglese, ci suggerisce la possibilità di programmare un computer col fine di permettergli di trattare “per conto suo” un linguaggio comune, così com’è. Le comunicazioni specifiche sono in questo caso meno importanti del fatto che il computer stia in effetti comunicando qualcosa. In altre parole, quello che il computer dice è secondario rispetto al fatto che lo sta dicendo in modo corretto».5 Il più grande problema di RACTER è che operava nel vuoto, senza alcuna possibilità di interazione o risposta. Chamberlain l’ha nutrito di schede perforate e lui ha sputato un nonsense semicoerente. RACTER è quello che Marcel Duchamp avrebbe chiamato una «macchina celibe», una entità singolare onanistica che parla solo di se stessa, incapace di reciprocità, di riprodursi o anche solo di interagire in modo mimetico con altri utenti o altre macchine che potrebbero aiutarlo a migliorare i suoi output letterari. Ma nel 1984 i computer erano disconnessi e la scienza della programmazione era ancora primitiva. Oggi, ovviamente, i computer su internet si interrogano a vicenda e si rispondono l’un l’altro, aiutandosi reciprocamente a diventare ancora più intelligenti ed efficienti. Sebbene di solito si presti più attenzione alla grande quantità di relazioni umane che si creano sui social network, la gran parte delle conversazioni che attraversano le reti è intrattenuta da macchine che parlano con altre macchine, sputando «dati oscuri», codice che non vedremo mai. Nell’agosto del 2010 c’è stato uno spartiacque, quando per la prima volta gli oggetti non-umani con un account registrato di AT&T e Verizon sono diventati molti di più degli esseri umani che avevano registrato un account nel quadrimestre precedente.6 Una situazione prevista da tempo che ha dato inizio alla nuova era del Web, quella che chiamiamo «Internet delle cose», nella quale l’interazione tra macchine supera di gran lunga quella delle attività guidate dall’uomo. Per esempio, se l’asciugatrice ha un problema, invia dei dati via wi-fi a un server che risponde con la soluzione, così l’asciugatrice si aggiusta da sola. Queste richieste di dati vengono inviate 267

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ogni pochi secondi e, come risultato, stiamo assistendo a una nuova esplosione di dati, con miliardi di sensori e apparecchi che rilevano e inviano informazioni, caricando exabytes di nuovi dati sul Web.7 A prima vista, un esercito di frigoriferi e lavatrici che mandano messaggi avanti e indietro sui server non dovrebbero avere troppa rilevanza in termini di letteratura, ma se li vediamo attraverso le lenti della gestione di informazioni e della scrittura non creativa – ricordiamoci sempre che quei chilometri di codice sono in realtà linguaggio alfanumerico, identico a quello usato da Shakespeare – queste macchine sono a un passo dall’essere programmate per produrre letteratura, un genere di letteratura leggibile solo da altre macchine. E, se li connettiamo in rete tra di loro, i loro meccanismi di risposta produrranno un sofisticato discorso letterario in continuo cambiamento, che non solo sarà invisibile all’occhio umano ma che bypasserà completamente gli umani. Christian Bök la chiama Robopoetica, una condizione nella quale «il coinvolgimento di un autore nella produzione letteraria è d’ora in avanti discrezionale». «Perché assoldare un poeta per scrivere una poesia quando la poesia si può di fatto scrivere da sola?», si domanda.8 La fantascienza rischia di diventare realtà e la previsione di Bök sul futuro della letteratura di avverarsi: Siamo probabilmente la prima generazione di poeti che può ragionevolmente aspettarsi di scrivere letteratura per un pubblico di macchine fatto di intelligenze artificiali. Non è forse già evidente, se guardiamo le conferenze sulle poetiche digitali, che i poeti di domani saranno probabilmente più simili a programmatori che si esaltano non perché possono scrivere delle grandi poesie, ma perché possono costruire piccoli droni fatti di parole in grado di scrivere grandi poesie al posto loro? Se la poesia manca già di un pubblico significativo tra la nostra popolazione umanoide, che cosa abbiamo da perdere se ci mettiamo a scrivere poesia per una cultura robotica, che alla fine inevitabilmente ci sopravviverà? Se vogliamo dedicarci a 268

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un vero atto di innovazione poetica, in un’era di esaurimento delle forme, dovremmo considerare questa opzione finora mai immaginata ma tuttavia proibita: scrivere poesia per lettori non umani, che non esistono ancora, perché questi alieni, cloni, o robot non si sono ancora evoluti per essere in grado di leggere.9

Non c’è solo Bök a denunciare la fine di una letteratura prodotta dall’uomo. La storica della genetica Susan Blackmore ci offre un altro quadro evoluzionistico, sostenendo che siamo stati già affiancati dalle macchine e dalla loro capacità di muovere le informazioni. Blackmore chiama questo nuovo livello il terzo replicatore, osservando che «il primo replicatore è stato il gene, la base dell’evoluzione biologica. Il secondo è stato il meme, la base dell’evoluzione culturale. Credo che quello a cui stiamo assistendo oggi, in una grande esplosione tecnologica, è la nascita di un terzo processo evolutivo… Esiste un nuovo genere di informazioni: sono informazioni binarie processate elettronicamente, anziché meme. Esiste anche un nuovo genere di macchinario da copia: sono computer e server che lavorano al posto dei cervelli».10 Li chiama teme (technological meme, meme tecnologici), informazioni digitali che vengono archiviate, copiate e selezionate da macchine. Il futuro non sembra promettere bene per noi, in quanto entità creative. «A noi umani piace pensare di essere i progettisti, i creatori e i controllori di questo mondo che sta emergendo, ma in realtà siamo solo dei passatoi tra una macchina a quella che la seguirà», dice Balckmore. Pensando a questi scenari sembra quasi che qualsiasi strada decideremo di intraprendere, ci ritroveremo cooptati dalle macchine, che ci spingeranno sempre più ai margini. Ma che ne sarà del lettore? Una volta estromesso l’essere umano, il lettore sembra assumere lo stesso identico ruolo dello scrittore non creativo: ossia muovere informazioni da un luogo a un altro. Pensate al modo in cui «leggiamo» il Web: lo scorriamo, lo classifichiamo, lo archiviamo, lo inoltriamo, lo organizziamo, lo twittiamo e ritwittiamo. Facciamo molto di più che semplicemente leggerlo. Alla fine, il già da tempo teorizzato livellamento dei 269

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ruoli si è realizzato laddove il lettore è diventato scrittore e viceversa. Ma un momento. Eccomi qui, a elaborare pensieri originali sulla non originalità e sul futuro della letteratura per trasmetterli a te, altro essere umano. Anche se questo libro sarà disponibile in formato elettronico, non vedo l’ora di stringere tra le mani la versione cartacea, che me lo farà sembrare «vero». Gli aspetti ironici sembrano abbondare. Gran parte di quello che ho discusso in queste pagine, se messo a confronto con Blackmore, Bök o con l’«Internet delle cose», sembra folk prodotto fondamentalmente da esseri umani (umani che riscrivono libri, umani che parsificano libri di grammatica, umani che annotano tutto ciò che hanno letto nel corso di un anno, ecc.). Le loro previsioni mi fanno sentire un po’ all’antica. Faccio parte di una generazione di passaggio, cresciuto con i vecchi media ma innamorato e immerso nei nuovi. Le nuove generazioni accettano questa condizione come se fosse semplicemente una parte del mondo: mescolano colori a olio mentre usano Photoshop, spulciano nei mercatini alla ricerca di vinili vintage mentre ascoltano l’iPod. Non sentono bisogno di fare distinzioni come faccio io. Sono ancora accecato dal Web. Faccio fatica a credere che esista. Alla peggio, il mio cyberutopismo tra qualche tempo suonerà datato, così come ci appare oggi quello della Summer of Love. Siamo solo all’inizio del gioco, e non ho bisogno di ricordarvi a che velocità si stia evolvendo. Eppure è impossibile prevedere in che direzione stia andando. Una cosa è sicura: non se ne andrà. Anche la scrittura non creativa – l’arte di gestire le informazioni e presentarle in forma di scrittura – è un ponte che connette le innovazioni letterarie fatte dall’uomo nel XX secolo con la robopoetica impregnata di tecnologia del XXI. I riferimenti in queste pagine contengono certamente software che saranno presto obsoleti, sistemi operativi che cadranno in disuso e social network che assomiglieranno a imperi abbandonati, ma a partire dalla scrittura analogica un netto passaggio nel modo di pensare e di operare è ormai stato fatto, e non c’è via di ritorno. 270

Note INTRODUZIONE 1. Douglas Huebler, Dichiarazione dell’artista per la pubblicazione del catalogo della mostra January 5—31, Seth Segelaub Gallery, 1969. 2. Sol LeWitt, «Paragraphs on Conceptual Art», http://radicalart.info/concept/ LeWitt/paragraphs.html; ultimo accesso marzo 2019. 3. Craig Dworkin, introduzione a The UbuWeb Anthology of Conceptual Writing. http://ubu.com/concept; ultimo accesso marzo 2019. 4. I cut-up e i fold-in fanno riferimento alla pratica di prendere un quotidiano, tagliarlo in colonne e poi rincollare le colonne nell’ordine sbagliato, formando una poesia. 5. Nel mondo dell’arte – dove gesti del genere, tutt’altro che puramente filosofici, possono valere milioni di dollari – queste pratiche possono avere delle ripercussioni. Nel marzo 2011 un giudice federale ha condannato Richard Prince per l’appropriazione di alcune foto tratte da un libro sui rastafariani per creare una serie di dipinti e collage. Prince e il suo gallerista sono ricorsi in appello. 6. Koons si ritrova ad avere problemi legali quando non si prende la briga di riconoscere la paternità di ciò di cui si è appropriato (come quando ha trasformato la fotografia di una coppia con in braccio otto cuccioli in una scultura intitolata String of Puppies, per esempio), eppure è evidente che tutto quello che fa si basa su un’immagine preesistente… è solo che le persone da cui prende legittimamente in prestito a volte vogliono partecipare ai proventi. 7. Forse il vento sta cambiando. Una giovane scrittrice tedesca, Helene Hegemann, ha pubblicato nel 2010 un romanzo autobiografico di grande successo che poi è risultato un plagio. Dopo essere stata beccata da un blogger, la scrittrice ha confessato e fatto il rituale giro di scuse. Eppure, anche dopo il ritiro del libro dal commercio, è stato selezionato tra i finalisti per un premio letterario alla Fiera del Libro di Lipsia. La giuria ha dichiarato di essere al corrente delle accuse di plagio. Il New York Times ha scritto che «sebbene la signora Hegemann si sia scusata per non aver rivelato più apertamente le sue fonti, si è anche difesa sostenendo di rappresentare una generazione diversa, una generazione che mescola e assembla liberamente informazioni dal rumoroso flusso che attraversa i vecchi e i nuovi media, per creare qualcosa di nuovo. “L’originalità non esiste in ogni caso, esiste solo l’autenticità”, ha detto la signora Hegemann in una dichiarazione rilasciata dal suo editore dopo l’esplosione dello scandalo». Nicholas Kulish, «Author, 17, Says It’s “Mixing”, Not Plagiarism», in New York Times, 12 febbraio 2010, http://www.nytimes. com/2010/02/12/world/europe/12germany.html?src=twt&twt=nytimesbooks &pagewanted=print; ultimo accesso marzo 2019. 8. Laurie Rozakis, The Complete Idiot’s Guide to Creative Writing, Alpha 2004, pag. 136. 9. Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi 1972, pag. 121. 1. 2.

1. LA VENDETTA DEL TESTO Peter Bürger, Theory of the Avant-Garde, University of Minnesota Press 1984, pag. 32. Charles Bernstein, «Lift Off », in Republics of Reality, Sun and Moon 2000, pag. 174. 273

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3.

4. 5.

6. 7.

8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

Stéphane Mallarmé, prefazione a Un coup de dés jamais n’abolira le hasard («Un Tratto di Dadi mai abolirà il Caso»), https://monoskop.org/images/5/53/ Mallarme_Stephane_1897_2003_Un_Tratto_di_Dadi_mai_abolira_il_Caso. pdf; ultimo accesso marzo 2019. Ezra Pound, The Cantos of Ezra Pound, New Directions 1973, pag. 716. Neil Mills, «7 Numbers Poems», in Experiments in Disintegrating Language/ Konkrete Canticle (Arts Council of Great Britain, 1971), http://www. ubu.com/sound/konkrete.html; ultimo accesso marzo 2019. Trascrizione dalla registrazione audio di Kenneth Goldsmith. Non risultano versioni tipografiche. Public Computer Errors, selezione su flickr, http://www.flickr.com/ groups/66835733@N00/pool/; ultimo accesso marzo 2019. Mi vengono in mente le pellicole dipinte a mano, come gli ultimi lavori di Stan Brakhage, che potevano contenere lettere ma l’effetto era più una sovrapposizione che un’interruzione a livello operativo. O dei lavori testuali esposti in gallerie, come quelli di Lawrence Weiner e Joseph Kosuth, ma anche questi erano progetti analogici, che consistevano nell’utilizzare stencil e dipingere sui muri e/o nella riproduzione fotografica non digitale. Nick Bilton, «The American Diet: 34 Gigabytes a Day», New York Times, 9 dicembre 2009, https://bits.blogs.nytimes.com/2009/12/09/the-americandiet-34-gigabytes-a-day/; ultimo accesso marzo 2019. Roger E. Bohn e James E. Short, How Much Information? 2009: Report on American Consumers, Global Information Industry Center – University of California, San Diego, 9 dicembre 2009, pag. 12. Marvin Heiferman e Lisa Philips, Image World: Art and Media Culture, Whitney Museum of American Art 1989, pag. 18. Mitchell Stevens, The Rise of the Image, the Fall of the Word, Oxford University Press 1998, pag. xi. Tutti i passaggi sono citati da James Joyce, Ulisse, Mondadori 1991, pag. 872-4. Bohn e Short, op. cit., pag. 10. Si possono fare alcuni paragoni tra il ciclo dell’acqua e il ciclo del testo: Il ciclo dell’acqua usa l’evaporazione dagli oceani per inseminare le nuvole con la pioggia, che a sua volta cade sulla terra per tornare a inseminare la riserva d’acqua. Il ciclo del testo usa il testo archiviato su memorie locali per inseminare la rete con il linguaggio, che a sua volta può tornare al computer d’origine, per poi essere rispedito fuori a inseminare la nuvola di dati. L’acqua può passare dallo stato liquido a quello gassoso a quello solido in diversi momenti del ciclo. Il linguaggio può passare dalla forma testuale a quella video, al codice, alla musica, alle immagini in diversi momenti del ciclo del testo. Ci sono stati di inerzia e accumulazione: ghiaccio e neve, acque sotterranee, acque dolci e oceani. Ci sono stati di inerzia e accumulazione: hard disk, server e server farm. Sebbene l’equilibrio dell’acqua sulla Terra rimane abbastanza costante nel tempo, le singole molecole d’acqua possono andare e venire. La quantità di linguaggio che si trova in rete con il passare del tempo cresce esponenzialmente, sebbene i singoli bit di dati vadano e vengano. 274

NOTE

1.

2. IL LINGUAGGIO COME MATERIALE Jordan Scott, uno scrittore canadese che soffre di balbuzie cronica, ha scritto blert (Coach House 2008), un libro composto dalle parole su cui incespica più spesso, autoimponendosi un percorso a ostacoli linguistico ogni volta che legge il testo. 2. Guy Debord, Introduzione a una critica della geografia urbana, Nautilus 2013, pag. 10. 3. Ivi, pag. 12. 4. L’opera di Acconci potrebbe essere riproposta nel Web, cliccando link dopo link finché non si giunge a una pagina protetta da password o una pagina non trovata 404. 5. Guy Debord e Gil Wolman, «Mode d’emploi du détournement», http://sami. is.free.fr/Oeuvres/debord_wolman_mode_emploi_detournement.html; ultimo accesso marzo 2019. 6. Asger Jorn, Detourned Painting, Catalogo della mostra, Galerie Rive Gauche (Maggio 1959), http://www.notbored.org/detourned-painting.html; ultimo accesso marzo 2019. 7. Debord e Wolman, op. cit. 8. Ibid. 9. Ibid. 10. Guy Debord, «Teoria della deriva», in Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus 1994. 11. Il New York Times, vedendo che le strutture del sito erano state modificate in un formato non autorizzato, inviò a Stefans un repentino ordine di cessare e desistere. 12. http://www.foodincmovie.com; ultimo accesso marzo 2019. 13. Andy Warhol, America, Feltrinelli 2017, pag. 16. 14. La ricerca del Language Removal Service rispecchia gli stessi interessi della poesia sonora, il corrispettivo audio della poesia concreta sviluppatosi a metà Novecento, dove l’enfasi era sul suono prodotto dalle parole, non sul loro significato. 15. Devo queste idee all’ottimo studio di Douglas Kahn Noise, Water, Meat: A History of Sound in the Arts, MIT Press 1999. 16. Charles Babbage, The Ninth Bridgewater Treatise, Cass 1967, pag. 110. 17. http://en.wikipedia.org/wiki/Klangfarbenmelodie 18. Joseph Kosuth, «Footnote to Poetry», in Art After Philosophy and After: Collected Writings, 1966–1990, MIT Press 1991, pag. 35. 19. Liz Kotz, Words to Be Looked At: Language in 1960s Art, MIT Press 2007, pag. 138-139. 20. Eugen Gomringer, The Book of Hours and Constellations, Something Else 1968. 21. Mary Ellen Solt (a cura di), Concrete Poetry: A World View, Indiana University Press 1968, pag. 10. 22. Gruppo Noigrandres, Piano pilota per la poesia concreta, in Archivio di Nuova Scrittura, Quaderno n° 3, 1991. 23. Clement Greenberg, «Towards a Newer Laocoon» in Partisan Review 7.4, luglio-agosto 1940. 24. https://it.wikipedia.org/wiki/Verdana. 25. Gruppo Noigrandres, Op. cit. 275

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26. Mary Ellen Solt, Op. cit., pag. 73. 27. Ibid., pag. 8. 1.

3. ANTICIPARE L’INSTABILITÀ Lucy Lippard, Six Years: The Dematerialization of the Art Object, Praeger 1973, pag. 203. 2. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 2017, pag. 228-9. 3. «Language as Sculpture»: Physical/Topological Concepts, http://radicalart. info/concept/weiner/index.html; ultimo accesso marzo 2019. 4. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi 2014, pag. 13. 5. Nel febbraio 2010 c’erano circa quaranta miliardi di foto su Facebook. Kenneth Cukier, «Data, Data Everywhere», in Economist, 25 febbraio 2010, http://www.economist.com/opinion/displaystory.cfm?story_id=15557443; ultimo accesso marzo 2019. 6. Così Lawrence Weiner ha affermato durante una conversazione con l’autore, 9 agosto 2007. 7. Ludwig Wittgenstein, op. cit., pag. 265. 8. Rouge, una poesia sonora piuttosto tradizionale, è molto diversa dalle opere elettroniche basate sui suoni corporei con le quali Henri Chopin sarebbe stato identificato successivamente. 9. Henri Chopin, Rouge, inedito, trascrizione dall’audio di Sebastian Dicenaire. 10. Hundermark Gallery, Germania, 1981. Da allora è uscita molte volte su varie compilation. 11. Le energie spese da Chopin nella pubblicazione e nella passione per la poesia sonora elettronica furono molto evidenti durante gli anni Cinquanta e Sessanta, raggiungendo l’apice nel 1964, quando avviò la pubblicazione della sua Revue Ou e la sua opera cominciò a comparire regolarmente nelle trasmissioni della BBC. 12. Esempi di questi PDF si trovano in molti siti Web, tra cui Monoskop, https:// monoskop.org/Monoskop; ultimo accesso marzo 2019. 4. VERSO UNA POETICA DELL’IPERREALISMO 1. Walter J. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, Il Mulino 2014, pag. 135-6. 2. Robert Fitterman, «Identity Theft», in Rob the Plagiarist, Roof 2009, pag. 12-15. 3. Mike Kelley, Foul Perfection, MIT Press 2003, pag. 111. 4. «Obama Receives Hero’s Welcome at His Family’s Ancestral Village in Kenya», Voice of America, http://www.voanews.com/english/archive/ 2006–08/2006–08–27-voa17.cfm; ultimo accesso agosto 2009. 5. Ara Shirinyan, Your Country is Great: Afghanistan-Guyana, Futurepoem 2008, pag. 13-14. 6. Ibid., pag. 15-16. 7. Claude Closky, Mon Catalogue, FRAC Limousin 1999. 8. Alexandra Nemerov, «First My Motorola», manoscritto inedito. 9. Lev Grossman, «Poems for People», Time Magazine, 7 giugno 2007. 10. Frank O’Hara, Selected Poems, Vintage 1974, pag. 175. 276

NOTE

11. Andy Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Costa & Nolan 1998, pag. 87. 12. Tony Hoagland, «At the Galleria Shopping Mall», Poetry 194.4, luglio-agosto 2009. 13. Rem Koolhaas, «Junkspace», in Project on the City, Taschen 2011. 14. Ibid. 15. Robert Fitterman, «Directory», Poetry 194.4, luglio-agosto 2009. 16. Koolhaas, Op. cit. 17. Donald Hall, «Ox Cart Man», https://www.poetryfoundation.org/ poems/43020/ox-cart-man; ultimo accesso marzo 2019. 18. http://www.poets.org/poet.php/prmPID/264; ultimo accesso giugno 2009. 19. http://seacoast.sunderland.ac.uk/~os0tmc/zola/diff.htm; ultimo accesso maggio 2009. 20. Messaggio inviato a Conceptual Writing Listserv, 15 giugno 2009, 5:25 pm. 21. Messaggio inviato a Conceptual Writing Listserv, 16 giugno 2009, 1:11 pm. 22. Corrispondenza email con l’autore, 17 maggio 2009. 23. Corrispondenza email con l’autore, 17 maggio 2009. 24. http://www.davidleelaw.com/articles/statemen-fct.html; ultimo accesso maggio 2009. 25. Vanessa Place, Statement of Facts, UbuWeb: /ubu 2009, http://www.ubu. com/ubu/unpub/Unpub_042_Place.pdf. 26. Gene R. Swenson, «What Is Pop Art? Answers from 8 Painters, Part I», originariamente pubblicato in ARTnews, novembre1963; anche in Kenneth Goldsmith (a cura di), I’ll Be Your Mirror: The Selected Andy Warhol Interviews, Carroll and Graf 2004, pag. 19. 27. Email inviata all’autore, 17 maggio 2009. 28. Il primo volume fu pubblicato nel 1934, e il poema completo apparve finalmente alla fine degli anni Settanta. 29. Charles Reznikoff, Testimony, ristampato in Jerome Rothenberg e Pierre Joris (a cura di), Poems for the Millennium vol. 1, University of California Press 1995, pag. 547. 5. APPROPRIAZIONE 1. Richard Sieburth, «Benjamin the Scrivener», in Gary Smith (a cura di), Benjamin: Philosophy, Aesthetics, History, University of Chicago Press 1989, pag. 23. 2. Ibid., pag. 28. 3. Susan Buck-Morss, The Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and the Arcades Project, MIT Press 1991, pag. 54. 4. Ancora nel 2010, sette anni dopo la pubblicazione del libro, c’erano circa cinquanta copie invendute nel magazzino del mio editore. 5. Ron Silliman, http://epc.buffalo.edu/authors/goldsmith/silliman_goldsmith. html; ultimo accesso luglio 2009. 6. Ron Silliman, post del 5 ottobre 2008 su http://ronsilliman.blogspot. com/2008/10/one-advantage-of-e-books-is-that-you.html; ultimo accesso marzo 2019. 7. http://www.english.illinois.edu/maps/poets/s_z/silliman/sunset.htm; ultimo accesso marzo 2019. 8. Bob Perlman, The Marginalization of Poetry: Language Writing and Literary History, Princeton University Press 1996, pag. 186, n. 26. 277

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9.

John Lichfield, «I Stole From Wikipedia But It’s Not Plagiarism, Says Houellebecq», Independent, 8 settembre 2010, http://www.independent. co.uk/arts-entertainment/books/news/i-stole-from-wikipedia-but-its-notplagiarism-says-houellebecq-2073145.html; ultimo accesso marzo 2019.



6. PROCESSI INFALLIBILI: COSA PUÒ IMPARARE LA SCRITTURA DALLE ARTI VISIVE Larissa Macfarquhar, «The Present Waking Life», New Yorker, 7 novembre 2005. http://www.newyorker.com/archive/2005/11/07/051107fa_fact_ macfarquhar; ultimo accesso marzo 2019. Kwame Dawes, «Poetry Terrors», https://www.poetryfoundation.org/ harriet/2007/03/poetry-terrors; ultimo accesso marzo 2019. Andrea Miller-Keller, «Excerpts from a Correspondence, 1981-1983» in Susanna Singer, Sol LeWitt Wall Drawings 1968–1984, Stedelijk Museum 1984, pag. 114. Marcel Duchamp, Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, Abscondita 2009, pag. 78. Lucy Lippard, Six Years: The Dematerialization of the Art Object, Praeger 1973, pag. 112-113. Ibid., pag. 162. Sol LeWitt, «Paragraphs on Conceptual Art», http://radicalart.info/concept/ LeWitt/paragraphs.html; ultimo accesso marzo 2019. Yoko Ono, Grapefruit: istruzioni per l’arte e per la vita, Mondadori 2005. Sol LeWitt, «Sentences on Conceptual Art», http://radicalart.info/concept/ LeWitt/sentences.html; ultimo accesso marzo 2019. Lucy Lippard, Op. cit., pag. 200-1. Sol LeWitt, «Sentences on Conceptual Art», cit. Lucy Lippard, op. cit., pag. 201. Ibid, pag. 201-2. Ibid. John Cage, Silenzio, Shake 2010, pag. 120. Richard Kostelanetz, Conversing with Cage, Limelight 1988, pag. 120. Ibid., pag. 263. Holland Cotter, «Now in Residence: Walls of Luscious Austerity», New York Times, 4 dicembre 2008, http://www.nytimes.com/2008/12/05/arts/ design/05lewi.html?_r=1&pagewanted=all; ultimo accesso marzo 2019. Lucy Lippard, op. cit., pag. 200-201. Cory Doctorow, «Giving It Away», Forbes, 1 Dicembre 2006, http://www. forbes.com/2006/11/30/cory-doctorow-copyright-tech-media_cz_cd_ books06_1201doctorow.html; ultimo accesso marzo 2009. Il museo Dia:Beacon ha incluso nel suo programma per le scuole un’attività «civile» di disegno in cui i ragazzi realizzano disegni seguendo le istruzioni di LeWitt. http://www.artinfo.com/news/story/33006/the-best-of-intentions/; ultimo accesso ottobre 2009. Michael Kimmelman, «Sol LeWitt, Master of Conceptualism, Dies at 78», New York Times, 9 aprile 2007, http://www.nytimes.com/2007/04/ 09/arts/ design/09lewitt.html?pagewanted=all; ultimo accesso marzo 2019. «USA Artists: Andy Warhol and Roy Lichtenstein», trascrizione di un’intervista

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24.

278

NOTE

25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38.

televisiva prodotta da NET, 1966, in Kenneth Goldsmith (a cura di), I’ll Be Your Mirror: The Selected Andy Warhol Interviews, Carroll and Graf 2004, pag. 81. Wayne Koestenbaum, Andy Warhol, Viking / Penguin 2001, pag. 3. Anne Course e Philip Thody, Introducing Barthes, Totem 1997, pag. 107. Andy Warhol, I diari di Andy Warhol, De Agostini 1989, pag. 335. Ibid., pag. xix. Ibid., pag. xx. Kenneth Goldsmith, I’ll Be Your Mirror, cit., pag. 87-88. Marjorie Perloff, Frank O’Hara Poet Among Painters, University of Chicago Press 1998, pag. 178. Frank O’Hara, «Biotherm (for Bill Berkson)», in Selected Poems, cit., pag. 211. Il libro di Warhol era inconsciamente ispirato al soliloquio di Molly Bloom nell’Ulisse, eppure, a differenza dell’opera di Joyce, non conteneva elementi di finzione o alcuna traccia di pretesa letteraria. Andy Warhol, a: A Novel, Grove 1968, pag. 333. Andy Warhol e Pat Hackett, Pop. Andy Warhol racconta gli anni Sessanta, Meridiano Zero 2008, pag. 304-5. Roland Barthes, «La morte dell’autore», in Il brusio della lingua, Einaudi 1988, pag. 54. Ibid., pag. 55. G.R. Swenson, «What Is Pop Art? Answers from 8 Painters, Part 1» in Goldsmith, I’ll Be Your Mirror, cit., pag. 18.

7. RICOPIARE SULLA STRADA Walter Benjamin, Reflections, Schocken 1978, pag. 66. «Entrando nella testa di Kerouac». http://gettinginsidejackkerouacshead. blogspot.com/2008/06/project-proposal.html. ultimo accesso marzo 2019. 3. Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas, cit., pag. 115. 4. http://blog.wfmu.org/freeform/2009/01/the-inaugural-poem-remix.html; ultimo accesso marzo 2019. 5. Si veda l’introduzione per un’ampia trattazione dell’argomento. 6. Jeremy Millar, «Rejectamenta», in Jeremy Millar and Michiel Schwarz (a cura di), Speed—Visions of an Accelerated Age, Photographer’s Gallery and Whitechapel Art Gallery 1998, pag. 87-110, a 106. 7. Questa forma di pubblicazione «guerrilla» mi ricorda il modo in cui tempo fa si realizzavano bootleg di libri da Amazon, copiando e incollando o ritrascrivendo, per esempio, spezzoni di un libro di Harry Potter e travestendo l’operazione da recensione; ogni «recensione» successiva rivelava le pagine seguenti del libro finché non si arrivava alla fine. 1. 2.

1.

8. PARSIFICARE LA NUOVA ILLEGGIBILITÀ Agli albori del Web, un tipico pesce d’aprile consisteva nell’offerta dell’intero testo di internet su un CD-ROM, cosa che anche nel 1995 era ovviamente impossibile. «Secondo alcune stime, l’uomo ha creato 150 esabyte (miliardi di gigabyte) di dati nel 2005. Quest’anno ne creerà 1200». «The Data Deludge», Economist, http://www.economist.com/opinion/displayStory.cfm?story_id=155 79717&source=hptextfeature; ultimo accesso marzo 2019. 279

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2.

Susan Blackmore, «Evolution’s Third Replicator: Genes, Memes, and Now What?», New Scientist, http://www.newscientist.com/article/ mg20327191.500-evolutions-third-replicator-genes-memes-and-now-what. html?full=true; ultimo accesso marzo 2019. 3. Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas, cit., pag. 115. 4. Samuel Beckett, «Peggio Tutta», In nessun modo ancora, Einaudi 2008, pag. 66. 5. Frédéric Paul, «DH Still Is a Real Artist», in , etc., Fonds Regional D’Art Contemporain 1993, pag. 36. 6. Joseph Mitchell, «Il professor Gabbiano», in Il segreto di Joe Gould, Adelphi 2013, pag. 45. 7. Ibid., pag. 22. 8. Ibid., pag. 23-24. 9. Gertrude Stein, The Making of Americans, Grove 1989, pag. 89. 10. Craig Dworkin, Parse, Atelos 2008, pag. 64. 11. http://stevenfama.blogspot.com/2008/12/parse-by-craig-dworkin-atelos-2008.html; ultimo accesso luglio 2009. 12. Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi 1978, pag. 114. 13. Se Dworkin avesse scelto di tradurre visivamente il testo di Abbott, forse avrebbe preso la forma di un albero sintattico, un metodo visuale di schematizzare le proposizioni. 14. Craig Dworkin, Parse, cit., pag. 283. 15. Matthew Fuller, «It Looks Like You’re Writing a Letter: Microsoft Word», http://www.nettime.org/Lists-Archives/nettime-l-0009/msg00040.html; ultimo accesso marzo 2019. 16. Louis Zukofsky, A, John Hopkins University Press 1978, pag. 807. 17. Ivi, pag. 823. 18. Craig Dworkin, Parse, cit., pag. 283. 19. Tradotto da Craig Dworkin e inviato per email all’autore il 9 agosto 2009. 20. Craig Dworkin, Parse, cit., pag. 190. 21. Jonathan Ball, «Christian Bök, Poet», Believer 7.5, giugno 2009. 22. Christian Bök, Eunoia, Coach House 2001, pag. 60. 23. Jonathan Ball, Op. cit. 24. Ibid. 25. Ibid. 1.

2. 3. 4.

9. INSEMINARE LA NUVOLA DI DATI Nell’aprile del 2010 la Library of Congress ha annunciato che avrebbe archiviato l’intero contenuto di Twitter: «Esatto. Ogni tweet pubblico postato dal momento della comparsa di Twitter nel 2006 sarà archiviato digitalmente dalla Library of Congress. Ciò significa UN SACCO di tweet, comunque: Twitter processa più di 50 milioni di tweet ogni giorno, dunque il totale ammonta a diversi miliardi». http://blogs.loc.gov/loc/2010/04/howtweet-it-is-library-acquires-entire-twitter-archive/; ultimo accesso marzo 2019. Félix Fénéon, Novels in Three Lines, New York Review of Books 2007, pag. 113. Ibid., pag. 147. Ibid., pag. 26. 280

NOTE

La rivista Wired ha lanciato un contest di racconti in sei parole ispirati a Hemingway. Se ne possono trovare quasi un centinaio a questo link: http:// www.wired.com/wired/archive/14.11/sixwords.html; ultimo accesso marzo 2019. 6. Samuel Beckett, «Peggio Tutta», In nessun modo ancora, Einaudi 2008, pag. 86. 7. David Markson, Reader’ s Block, Dalkey Archive 1996, pag. 85. 8. Gilbert Adair, «On Names», in Surfing the Zeitgeist, Faber and Faber 1977, pag. 2. 9. John Barton Wolgamot, In Sara, Mencken, Christ and Beethoven There Were Men and Women, Lovely Music 2002, pag. 15. Scritto e pubblicato privatamente nel 1944, contenuto nel booklet del cd di Robert Ashley ispirato all’opera di Wolgamot. 10. Ibid. 11. Ibid., pag. 48. 12. Ibid., pag. 38-39. 13. Gertrude Stein, «Poesia e grammatica», in Conferenze americane, Lucarini 1990, pag. 125. 14. Status Update, http://www.statusupdate.ca; ultimo accesso luglio 2009. 15. Status Update, http://www.statusupdate.ca/?p=Arthur+Rimbaud; ultimo accesso luglio 2009. 16. http://www.cs.sjsu.edu/faculty/rucker/galaxy/webmind3.htm; ultimo accesso agosto 2010. 17. Matt Pearson, «Social Networking with the Living Dead», http://zenbullets. com/blog/?p=683>; ultimo accesso marzo 2019. 18. http://twitter.com/dedbullets; ultimo accesso marzo 2019. 19. Matt Pearson, «Social Networking with the Living Dead», http:// zenbullets. com/blog/?p=683>; ultimo accesso marzo 2019. 20. http://twitter.com/dedbullets/status/21570100860; ultimo accesso marzo 2019. 21. http://apostropheengine.ca/howitworks.php; ultimo accesso luglio 2009. 22. Bill Kennedy e Darren Wershler-Henry, apostrophe, ECW 2006, pag. 286287. 23. Ibid., pag. 289. 24. Ibid., pag. 128. 25. Gautam Naik, «Search for a New Poetics Yields is: “Kitty Goes Postal/Wants Pizza”» Wall Street Journal, 25 maggio 2010. 26. http://en.wikipedia.org/wiki/Flarf. 27. Nada Gordon, «Unicorn Believers Don’t Declare Fatwas», Poetry 194.4, luglio-agosto 2009. 5.

1.

10. L’INVENTARIO E L’AMBIENTE Un primo esempio di questa caratteristica è stato il tasto «Cancella» su Gmail, che non cancella automaticamente le email ma le conserva per trenta giorni prima di eliminarle definitivamente. E se si desidera eliminare «definitivamente» un messaggio fin da subito saranno necessari molti clic. Ma ancora più rilevante è l’appariscente tasto «Archivia» che permette di fare spazio nella cartella «In arrivo» senza cancellare nulla. Allo stesso modo, su Mac OS X, quando si «svuota il cestino» i file sono recuperabili. Per eliminarli una volta per tutte bisogna cliccare su «svuota il cestino in modo sicuro». 281

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2. 3. 4.

5. 6. 7. 8. 9.

10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.

1. 2.

Motko Rich e Joseph Berger, «False Memoir of Holocaust Is Canceled», New York Times, 28 dicembre 2008, https://www.nytimes.com/2008/12/29/ books/29hoax.html; ultimo accesso marzo 2019. Ibid. Un progetto online tipico di questa tendenza è Eat 22 di Ellie Harrison, in cui l’autrice ha documentato ogni cibo che ha ingerito per un anno tra il marzo 2001 e il marzo 2002. Si veda il «Tentativo d’inventario degli alimenti liquidi e solidi che ho ingurgitato durante l’anno millenovecentosettantaquattro» di George Perec. James Boswell, Vita di Samuel Johnson, BUR 1993, pag. 335. Ibid. Ivi, pag. 1041. The Monthly Letter of the Limited Editions Club n. 109, giugno 1938. Il vangelo di Sri Ramakrishna, pubblicato nel 1897, consiste in mille pagine di registrazione altrettanto ossessiva di ogni movimento fatto dal santo hindu. Come Johnson, il Maestro declama le verità più profonde in mezzo a relitti di banale descrizione: ci sono infiniti resoconti di Ramakrishna che si sveglia, entra e esce dalle barche, letti che vengono riparati, dialoghi riportati al massimo dettaglio. Email inviata all’autore, 1 aprile 2008. Caroline Bergvall, «Via: 48 Dante Variations», manoscritto inedito. Richard Kostelanetz, Conversing with CAGE, Routledge 2003, pag. 237. Brian Eno, note di copertina per Music for Airports, 1978, http://music. hyperreal.org/artists/brian_eno/MFA-txt.html; ultimo accesso marzo 2019. Tan Lin, da «Ambient Stylistics», Conjunctions 35, autunno 2000. http://ambientreading.blogspot.com; ultimo accesso marzo 2019. Kurt Eichenwald, «On the Web, Pedophiles Extend Their Reach», https:// www.nytimes.com/2006/08/21/technology/21pedo.html; ultimo accesso marzo 2019. Craig Dworkin e Kenneth Goldsmith (a cura di), Against Expression: An Anthology of Conceptual Writing, Northwesten University Press 2011, pag. 138. Ibid., pag. 138-140. Tom Zeller Jr., «AOL Acts on Release of Data», New York Times, 22 agosto 2006. Chris Alexander, Kristen Gallagher e Gordon Tapper, «Tan Lin Interviewed», http://galatearesurrection12.blogspot.com/2009/05/tan-lin-interviewed.html; ultimo accesso marzo 2019. Georges Perec, Tentative d’inventaire des aliments liquides et solides que j’ai ingurgité au cours de l’année mil neuf cent soixante-quatorze, http:// escarbille.free.fr/vme/?txt=tia; ultimo accesso marzo 2019. 11. A SCUOLA DI SCRITTURA NON CREATIVA Riportato in David Toop, Ocean of Sound, Aether Talk, Ambient Sound, and Imaginary Worlds, Serpent’s Tail 2000, p. 143. Herbert Marcuse, Saggio sulla liberazione, Einaudi 1980, pag. 34.

POSTFAZIONE 1. Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, https://www.liberliber.it/mediateca/libri/s/ swift/i_viaggi_di_gulliver/pdf/swift_i_viaggi_di_gulliver.pdf; ultimo accesso marzo 2019. 282

NOTE

Bill Chamberlain, The Policeman’s Beard Is Half Constructed, http://www. ubu.com/historical/racter/index.html; ultimo accesso 9 marzo 2019. 3. Ibid. 4. Ibid. 5. Ibid. 6. Marshall Kirkpatrick, «Objects Outpace New Human Subscribers to AT&T, Verizon», https://readwrite.com/2010/08/10/objects_outpace_new_human_ subscribers_to_att_veriz/; ultimo accesso marzo 2019. 7. Richard MacManus, «Beyond Social: Read/Write in the Era of Internet of Things», http://www.readwriteweb.com/archives/ beyond_social_web_ internet_of_things.php; ultimo accesso agosto 2010. 8. Christian Bök, «The Piecemeal Bard Is Deconstructed: Notes Toward a Potential Robopoetics», http://ubu.com/papers/object/03_bok.pdf. Questa postfazione deve molto al lavoro di Bök, la cui presentazione del concetto di robopoetica è assai più elegante di quanto sia la mia. Bök è anche più ottimista del sottoscritto, ma il suo lavoro in tal senso, specie nel campo della genomica, potrebbe convincere persino i più scettici. 9. Ibid. 10. Susan Blackmore, «Evolution’s Third Replicator: Genes, Memes, and Now What?», New Scientist, https://www.newscientist.com/article/mg20327191500-evolutions-third-replicator-genes-memes-and-now-what/; ultimo accesso marzo 2019. 2.

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Crediti delle fonti Ogni tentativo è stato fatto per rintracciare tutti i detentori dei diritti delle opere riprodotte nel presente volume. L’editore si scusa per le involontarie omissioni, resta a disposizione degli aventi diritto per eventuali segnalazioni e si impegna, in tali casi, ad aggiungere le referenze nelle future ristampe. Derek Beaulieu, da Flatland: per gentile concessione dell’artista. Sarah Charlesworth, «dettaglio» 1 di quarantacinque stampe in bianco e nero da April 21, 1978 (1978): per gentile concessione dell’artista e della Susan Inglett Gallery, New York. Sarah Charlesworth, «dettaglio» 2 di quarantacinque stampe in bianco e nero da April 21, 1978 (1978): per gentile concessione dell’artista e della Susan Inglett Gallery, New York. Sarah Charlesworth, «dettaglio» 3 di quarantacinque stampe in bianco e nero da April 21, 1978 (1978): per gentile concessione dell’artista e della Susan Inglett Gallery, New York. Rouge di Henri Chopin compare per gentile concessione di Brigitte Morton per la Successione Henri Chopin. L’estratto da I feel better after I type to you di Thomas Claburn compare per gentile concessione dell’artista. Claude Closky, da Mon Catalog: per gentile concessione dell’artista. Marcel Duchamp, Fontana (1917): copyright © 2010 Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris/Succession Marcel Duchamp. Directory di Robert Fitterman è stata pubblicata per la prima volta in Sprawl: Metropolis 30A (Make Now 2010). L’estratto da Unicorns Believers Don’t Declare Fatwas di Nada Gordon compare per gentile concessione di Nada Gordon. Donald Hall, Ox Cart Man: per gentile concessione del poeta. Tony Hoagland, «At the Galleria» da Unincorporated Persons in the Late Honda Dynasty. Pubblicato originariamente in Poetry (luglio/agosto 2009): copyright © 2009, 2010 Tony Hoagland. Ristampato con il permesso di Graywolf Press, Saint Paul, Minnesota, www.graywolfpress.org. Peter Hutchinson, Dissolving Couds (1970): per gentile concessione dello studio di Peter Hutchinson. Asger Jorn, Detourned Painting: copyright © 2010 Donation Jorn, Silkeborg/Artists Rights Society (ARS), NY/COPY-DAN Copenhagen. Bill Kennedy e Darren Wershler, da apostrophe e update: per gentile concessione dei poeti. Tan Lin, estratto da BIB: per gentile concessione di Tan Lin. Shigeru Matsui, «1007–1103», da Pure Poems: per gentile concessione di Shigeru Matsui. L’estratto da First My Motorola di Alexandra Nemerov compare per gentile concessione di Alexandra Nemerov. BpNichol, eyes (1966–67): per gentile concessione della Successione BpNichol. Pablo Picasso, Natura morta con sedia impagliata (1911–12): copyright © 2010 Successione Pablo Picasso/Artists Rights Society (ARS), New York. Ara Shirinyan, «Armenia is Great» e «Aruba is Great» da Your Country Is Great: Afghanistan—Guyana: copyright © 2008 Ara Shirinyan, ristampato con il permesso di Futurepoem Books, www.future-poem.com. Matt Siber, Untitled #26, 2004: per gentile concessione dell’artista. 285

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Matt Siber, Untitled #21, 2003: per gentile concessione dell’artista. Matt Siber, Untitled #13, 2003: per gentile concessione dell’artista. Matt Siber, Untitled #3, 2002: per gentile concessione dell’artista. Mary Ellen Solt, Forsythia (1965): permesso accordato da Susan Solt, esecutrice letteraria del patrimonio di Mary Ellen Solt. Lawrence Weiner, Two minutes of spray paint directly upon the floor from a standard aerosol spray can. Collezione di Sol LeWitt (1969/1968), copyright © 2010 Lawrence Weiner/Artists Rights Society (ARS), New York.

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Stampato nel giugno 2019 per conto di NERO da Moś, Poznań