Controcorrente. Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica 9788842096122

Chi vincerà la sfida dei prossimi anni, la politica o l'antipolitica? Massimo D'Alema va controcorrente e scom

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Controcorrente. Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica
 9788842096122

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Saggi Tascabili Laterza 379

Massimo D’Alema

Controcorrente Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica a cura di Peppino Caldarola

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9612-2

Introduzione

Questo libro esce nel vivo di una crisi drammatica, alla vigilia di un voto che certamente segnerà la storia del Paese, chiudendo tutta una fase della vita nazionale. Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leadership di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta politica in grado di rispondere all’esigenza di una ricostruzione democratica. Con il confronto delle primarie, questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro del dibattito pubblico. Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno della politica alla guida del Paese. Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è legittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza di questi ultimi venti anni. Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione “Seconda Repubblica”, che è carica di ambiguità e contiene, forse, un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta. Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi, dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di forze sociali e di interessi intorno a lui. Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di inter­v

pretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di là delle sue personali capacità e della forza del suo potere mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti animali della società civile contro la “Repubblica dei partiti”, la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di modernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lontano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una versione italiana di quella più generale egemonia di una visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine del comunismo, ma anche la fine della storia e la definitiva resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del Novecento. Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese, i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di eventi internazionali. La crisi della “Repubblica dei partiti” nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della Guerra Fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo finanziario globalizzato. A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde, accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il divario tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione, l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammentazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un centrosinistra che non è stato in grado di completare la sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pubblica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema politico-democratico. Il Paese era veramente giunto sull’orlo del collasso, anche se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere ­vi

questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato chiamato dal capo dello Stato. Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva, il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di marginalità o di profonda umiliazione. Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia consentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la probabile conquista anticipata del governo. Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese, ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida del governo. Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici, come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della politica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è solo una campagna contro la politica, è una campagna contro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra. Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tecnocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause. Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e della politica sulla società e sull’economia. Al contrario, ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha ­vii

caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’anni. In Italia, dopo la caduta del sistema dei partiti all’inizio degli anni Novanta, si sono succeduti diversi tentativi di rifondazione del sistema politico, ma viviamo tuttora una fase di tumultuosa e drammatica transizione. Davvero non siamo sotto il tallone di una partitocrazia oppressiva, né di pesanti apparati che non esistono pressoché più, se non nei commenti improbabili dei media. Abbiamo assistito a un processo di trasformazione che potrebbe intitolarsi, in modo generico, “americanizzazione della vita politica europea”, con una crescita impressionante della personalizzazione, dell’influenza dei media e dell’ingerenza dei poteri economici e finanziari. A ciò ha corrisposto una perdita di autonomia dei partiti e una loro permeabilità crescente a interessi particolari che pesano sui sistemi politici. I partiti si presentano, così, più come insiemi di comitati elettorali che come associazioni di cittadini uniti intorno a valori, programmi, visioni del mondo. Un processo che ha avuto un effetto particolarmente disgregante in Italia e l’unica forza che in qualche misura fa argine a questa tendenza è il Pd. Dunque, si è fortemente erosa la capacità della politica organizzata di formare e selezionare la classe dirigente, mentre una sorta di neo-borghesia, un notabilato diffuso, privo di idealità, di senso dello Stato, di attenzione all’interesse generale, è penetrato largamente nelle istituzioni. Berlusconi è stato il riferimento culturale e antropologico di questo mondo, ben al di là del suo ruolo di leader politico. Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di per­dita di credibilità del sistema politico e istituzionale, ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizza­ zione della politica. Quindi verso un aggravamento dei guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è persino più grave, verso un restringimento delle basi sociali ­viii

del­l’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo meno dominata dai ricchi. È possibile un’altra strada? C’è una via per la ricostruzione democratica, per uscire dal berlusconismo, senza per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passato? Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente impegnativa e complessa. In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimento al contesto internazionale e particolarmente all’Europa, un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’uscita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi. È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attraversata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il nostro Paese. Tutti noi constatiamo con quanta lentezza e quanta fatica l’Europa si muova di fronte alla crisi, come se ci fosse una difficoltà strutturale a decidere, non solo una fragilità delle leadership. La politica europea tradizionale che si è costruita con gli Stati nazionali appare spiazzata di fronte alla globalizzazione. Le decisioni (cioè le policies) si sono spostate a livello europeo o, peggio, a livello delle istituzioni finanziarie sovranazionali, in sedi che appaiono inaccessibili al controllo popolare, con procedure opache e sostanzialmente dominate dalla razionalità economica di quello che è stato chiamato “pensiero unico”. Il cittadino americano può scegliere tra un presidente che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanitaria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere. In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione, ­ix

che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non resta che fare “i compiti a casa”, cioè eseguire le direttive che la razionalità economica dominante impone. La politica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali, ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione. In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e l’integrazione europea. Così, la democrazia europea rischia di essere schiacciata tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più attenta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle identità culturali che si sentono minacciate dalla globa­ lizzazione. Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze politiche che hanno dominato la scena europea negli ultimi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevole alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, populista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale. La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà. Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che hanno condiviso con le élite economiche una visione sostanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso socialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato, nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protetto anche nei nuovi scenari della competizione mondiale. L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta. Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in ­x

Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata per il “no” nel referendum sulla nuova Costituzione europea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di appannamento ideale e di subalternità. Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella stagione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia. Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressisti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande, ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di ispirazione socialista e laburista. E non si tratta soltanto di questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modificare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte appaiono estremamente impegnative. Al centro della crisi europea vi è l’esigenza di creare lavoro per masse crescenti di milioni di disoccupati, innanzitutto giovani. E ciò in un contesto che è ancora quello di economie in media scarsamente competitive, potendo contare su risorse pubbliche limitate per il peso dell’indebitamento degli Stati e su un ridotto afflusso degli investimenti privati, crescentemente attratti dalle economie cosiddette emergenti. Davvero un compito non facile. Anche perché, come sta avvenendo in Francia, la sinistra che torna al governo suscita aspettative ben comprensibili in società dove l’aumento di ingiustizie, povertà ed esclusione si fanno insostenibili. È evidente che occorre una svolta profonda nel senso della crescita economica e della giustizia sociale. Ma non ci si illuda che per produrla sia semplicemente possibile tornare alle politiche che hanno caratterizzato la sinistra nel secolo scorso e che furono possibili in un contesto mondiale ed europeo totalmente diverso, che non tornerà. Non nego che sia giusto riflettere sul prezzo pagato a una certa acquiescenza culturale al pensiero dominante ­xi

neoliberista. Nessuno può negare, oggi, dopo anni in cui si è teorizzato che bisognava lasciar fare soltanto al mercato, che non può esservi crescita senza la guida di una azione pubblica intelligente ed efficace. Ma per corrispondere davvero a questa necessità, non si potrà non operare per ridurre il peso burocratico degli apparati, tagliando in modo selettivo la spesa, e quindi ammodernando il welfare per contrastare efficacemente la povertà e garantire diritti essenziali, combattendo sprechi e rendite corporative. Insomma, il rigore è un vincolo reale, da cui la sinistra non potrà prescindere. E se si vorrà, come si deve, spostare risorse verso l’innovazione e la formazione per crescere in competitività, altri aspetti dovranno essere sacrificati. E giustizia sociale e crescita non si potranno garantire a debito, ma spostando il peso della fiscalità dal lavoro e dalle imprese verso la rendita e i patrimoni. La grande sfida per la sinistra è quella di innovare senza gettare via ciò che è vivo della stagione neoliberale: buttar via l’acqua sporca dell’ingiustizia e delle disuguaglianze, ma mantenere la spinta verso un’economia più aperta e competitiva. Per questo ci vuole una sinistra europea che sia anche – finalmente – europeista. È, forse, il contributo più importante che il centrosinistra italiano può dare, tornando al governo, ai progressisti europei: portare nell’Unione, con coerenza e con forza, il peso di una visione politica, europeista e federalista, necessaria per uscire dalla crisi e per compiere un salto di qualità nel processo di integrazione. È ormai chiaro che, se non c’è questo deciso passo in avanti, il rischio è che tutta la costruzione divenga fragile e che le conquiste fondamentali realizzate nel dopoguerra, inclusi il Mercato unico e l’euro, vengano rimesse in discussione. Dal conflitto paralizzante tra un’Europa lontana, che appare dominata da una tecnocrazia neoliberista, e i populismi regressivi che si affermano in diversi Paesi, si esce con una Unione più forte, legittimata dal consenso dei ­xii

cittadini con rinnovate procedure democratiche, capace nello stesso tempo di mettere in campo politiche nuove. Nessun Paese ce la farà, neppure quelli più forti, senza una politica comune, attiva e solidale, per ridurre il peso del debito e abbattere i tassi di interesse, senza una strategia per la crescita e una interpretazione ragionevolmente flessibile del Patto di stabilità. Ormai tutti i nodi da sciogliere, compresi quelli apparentemente tecnici, come i meccanismi di controllo per l’Unione bancaria o per gli strumenti anti-spread, rinviano a una questione politica più di fondo, che riguarda la sovranità e la legittimazione. Si fa sempre più evidente, nella crisi di oggi, quanto sia ormai storicamente superato il dibattito sulla cessione di sovranità da parte degli Stati. Per molti aspetti, di fronte all’economia e alla finanza globali, la sovranità nazionale è ormai di fatto fortemente ridotta e rafforzare i poteri democratici dell’Europa appare come l’unica via per riguadagnare sovranità e non per cederla. Naturalmente a condizione che le istituzioni europee trovino una legittimazione più diretta e forte nel rapporto con i cittadini e non solo nei trattati tra gli Stati. Questo è il terreno su cui si misureranno le ambizioni di una nuova sinistra riformista e anche la possibilità di un patto con le forze moderate più aperte e consapevoli. Altrimenti il rischio è quello di una regressione, persino sul terreno della democrazia e dei diritti fondamentali, come ci appare chiaro in alcuni Paesi della cosiddetta “nuova Europa”, in particolare l’Ungheria. Il centrosinistra italiano, da Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi sino ad oggi, ha una storia di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi populismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento più significativo di continuità con il suo governo che il centrosinistra dovrà assicurare. ­xiii

L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova classe dirigente. Anche per questo è così importante che a guidare il Paese sia una forza come il Pd, che – con la sua originale identità – è parte integrante, autorevole e riconosciuta del riformismo europeo. Nel momento in cui scriviamo, non sappiamo che esito avrà il tentativo di reclutare Monti per candidarlo, come è stato detto, contro la sinistra. Certo, sarebbe un esito sconcertante dello sforzo che abbiamo compiuto per sostenerlo e risanare il Paese attraverso duri sacrifici. Quella che ci sta davanti è una nuova frontiera, certamente; ma credo la si affronti meglio se non si smarrisce il senso di una vicenda storica segnata da errori e sconfitte, ma anche carica di passione politica, visione, battaglie e risultati importanti per l’Italia. La spinta decisiva verso il futuro – occorre sottolinear­ lo – è venuta da milioni di cittadini, che sono scesi in campo con una forza che nessun partito e nessun leader solitario avrebbero potuto esprimere. Bersani ha mostrato di saper raccogliere questa spinta. La speranza ora è che il vizio antico delle divisioni non torni a rendere fragile la forza che ha il compito di rinnovare l’Italia. Se la politica è l’azione intelligente per cambiare il corso delle cose, se la politica è passione e responsabilità, mai come ora l’Italia e l’Europa ne hanno bisogno. Mai come ora c’è bisogno di una classe dirigente capace di non abbandonarsi alla corrente della demagogia e del populismo e di ritrovare la rotta del cambiamento e delle riforme. Massimo D’Alema Roma, 14 dicembre 2012

Controcorrente Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica

Capitolo 1

L’addio al Pci e alla Prima Repubblica

D.  Nel luglio del 1994, appena eletto segretario del Pds, hai esordito dicendo: «Il compito della mia generazione è portare la sinistra italiana al governo del Paese. Altre generazioni hanno fatto cose fondamentali: hanno riconosciuto la democrazia, hanno rinnovato il Paese. Ora, per noi, il problema è il governo: vogliamo essere messi alla prova». Una generazione, la tua, di dirigenti che, in effetti, si sono portati oltre il Pci, hanno fondato un nuovo partito e ce l’hanno fatta a portare la sinistra al governo. Ma è anche la stessa che si è divisa, che ha perso alcuni appuntamenti importanti. Non pensi che per capire meglio questo percorso bisogna partire da quella svolta che, insieme alla caduta del Muro di Berlino, cambiò la sinistra e la politica italiana? R.  La caduta del Muro colse il Pci in pieno declino. Dopo i momenti più alti nella metà degli anni Settanta e dopo il picco di consensi alle europee dell’84, condizionato dall’emozione per la scomparsa di Enrico Berlinguer, il Pci appariva un partito privo di prospettiva. Era evidente la decadenza dell’intero sistema politico italiano, ma il Pci non si mostrava capace di offrire al Paese una proposta alternativa. Insomma, una ricollocazione strategica era necessaria già prima dell’89. In questo senso, il cambiamento fu tardivo. Quando avvenne fu liberatorio e costituì, oltre ogni altra considerazione, un merito indiscutibile di Achil­3

le Occhetto. A suo modo, Occhetto è stato il Gorbaciov italiano: come lui, ha avuto il grande coraggio di tagliare i ponti, ma ha anche avuto la sua stessa fragilità nel costruire le fondamenta della nuova stagione. D.  Occhetto annunciò il cambio del nome del Pci il 12 novembre dell’89 alla sezione della Bolognina. Ne aveva parlato con voi, cioè con il gruppo dirigente del Pci? R.  Da settimane discutevamo sulla necessità di un cambiamento radicale. Eravamo concentrati soprattutto sull’adesione all’Internazionale socialista, che avrebbe dovuto segnare il nostro passaggio a pieno titolo nel campo del socialismo democratico. Niente di più. La decisione di forzare i tempi fu una scelta personale di Occhetto. A dire il vero, alla Bolognina non fece un vero e proprio annuncio: alla domanda di un giornalista sul cambio del nome del partito, si limitò a non escluderlo. Ricordo che quel 12 novembre ’89, era domenica, ero riuscito a ritagliarmi una mezza giornata per un giro in barca a vela. Mi trovavo tra Ponza e il Circeo insieme a Federico Geremicca, cronista politico dell’«Unità», di cui ero direttore. A fine mattinata mi riferirono le dichiarazioni della Bolognina. Non avemmo dubbi sul fatto che ormai il passo era compiuto e non sarebbe stato più possibile tornare indietro. Per questo anche «l’Unità» diede alla dichiarazione di Occhetto il valore di un annuncio, come gli altri quotidiani. E quella domenica l’emozione e la tensione non ci lasciarono. Il giorno successivo si riunì la segreteria. Occhetto si presentò con un testo scritto, battuto a macchina. Non era mai accaduto. Quella riunione, solitamente informale, divenne solenne. D.  Tu che cosa dicesti? R.  Parlammo tutti poco, perché prendemmo atto della decisione del segretario. Dopo la riunione, andai da mio padre. Il suo legame con la storia del Pci era molto for­4

te: si era iscritto nel ’37, era stato uno dei protagonisti della Resistenza, aveva dedicato l’intera vita al partito e alla lotta politica. E da pensionato continuava a seguire con grande passione le nostre vicende. Mi colpì l’estrema determinazione con cui si espresse subito a favore della “svolta”. Gli manifestai anche alcune mie perplessità sui modi con cui era stata presentata, su un eccesso di leggerezza, ma lui non le giudicò essenziali. Nonostante la sua abitudine al rigore delle discussioni interne al partito, mio padre mi disse che Occhetto aveva fatto bene ad agire in modo irrituale, perché altrimenti si sarebbe impantanato. E non era il solo a pensarla così tra gli anziani del partito: molti di loro videro nella “svolta” un vero e proprio atto salvifico. D.  Vi aspettavate un fronte del no così robusto? Avevate messo in conto una scissione? R.  La speranza di rinnovamento democratico del movimento comunista dall’interno, che il Pci aveva coltivato nelle varie fasi della sua storia e che la stagione di Michail Gorbaciov aveva alimentato, si era infranta nella durezza e nella irreversibilità della crisi dei regimi dell’Est europeo. Ma non era questo il giudizio di tutti. La contestazione di Armando Cossutta ci allertò sulla possibilità di una scissione. Mi sorprese, invece, la posizione di Pietro Ingrao. Non era scontata. Ingrao, in fondo, era espressione di una sinistra che già si pensava oltre la tradizione comunista. E con la sua cultura, Ingrao avrebbe potuto benissimo diventare l’anima di sinistra del nuovo partito. In lui ci fu, invece, un’ostilità immediata alla “svolta” e un ripiegamento identitario, di cui tuttora non riesco a ricostruire per intero le ragioni. D.  Nell’89 tu avevi quarant’anni. Nella tua vita avevi mai pensato a un impegno politico fuori dal Pci? ­5

R.  Una sola volta sono stato sul punto di lasciare il partito. Fu quando venne espulso il gruppo del Manifesto, nel ’69. Ero a Pisa e, dopo una drammatica notte di discussione con il mio amico Fabio Mussi, decidemmo insieme di restare. Penso che Rossana Rossanda non me l’abbia mai perdonato. Ma io non immaginavo possibile un mio impegno altrove. Eravamo comunisti, ma lo eravamo a modo nostro. A 19 anni mi trovai per caso a Praga con un amico il giorno dell’invasione russa: non avemmo la minima esitazione a mescolarci con i giovani che si ribellavano e nell’incoscienza del pericolo anch’io disegnai una svastica con il gesso su uno dei carri armati. Ci sentivamo forti delle nostre idee, ma anche delle radici nazionali e popolari che il Pci aveva sviluppato e della scelta democratica sancita dal patto rappresentato dalla Costituzione italiana. Poi, sul finire degli anni Ottanta, mutò rapidamente l’orizzonte. La verità è che tutti noi ci accorgemmo in ritardo che potevamo far vivere le risorse della sinistra italiana solo fuori dal perimetro del comunismo. D.  Il Pci che stava diventando Pds doveva fare i conti con una crisi acuta del sistema politico, con un rapporto molto conflittuale con il Psi, con un movimento referendario che cresceva e talvolta sembrava prendere la guida dell’opposizione. R.  Nell’impostazione di Occhetto e di tutti coloro che sostenevano la “svolta”, il tema della nuova identità della sinistra non è mai stato separato da quello della crisi del sistema politico italiano e del suo possibile sblocco. Se la nostra discussione fosse stata solo ideologica, concentrata sulla natura e sulle sorti del comunismo, avrebbe prodotto chissà quale risultato. Il problema che stavamo affrontando, invece, era l’impatto della caduta del Muro e della fine della Guerra Fredda sul nostro sistema malato. Un sistema nel quale era abortito, negli anni Settanta, un atteso ricambio di classi dirigenti, ovviamente anche per incapacità del ­6

Pci. Un sistema dove la questione morale, intesa in chiave non moralista, era plasticamente incarnata dal declino del ruolo propulsivo dei partiti e da una loro progressiva, sistematica occupazione dello Stato. La trasformazione del Pci e la costruzione di un partito nuovo era una necessità, ma anche una grande occasione. Tuttavia, all’epoca, non pochi polemizzarono con noi, sostenendo che parlavamo della crisi italiana per sottrarci all’autocritica sul fallimento del comunismo o per attutirne gli effetti. In realtà, di lì a poco, assistemmo al crollo del nostro sistema politico. E la causa non fu certo un complotto: erano marcite le strutture portanti. D.  D’Alema fu presentato allora, ma anche dopo, come un frenatore della “svolta”. Era vero? R.  In quei mesi, due erano i miei obiettivi principali: dare basi solide al processo che si apriva e coinvolgere la maggior parte possibile delle nostre forze. Altro che frenatore! Ero un sostenitore convinto della “svolta” e non volevo che sbandassimo alla prima curva. Per il nostro popolo la fine del Pci fu un dramma. Un giorno, in una riunione di partito, dissi che l’errore più grande che avremmo potuto fare sarebbe stato dare l’impressione che la nostra scelta fosse una mossa politica. Ero refrattario all’ideologia della “svolta”, quasi che il cambiamento bastasse di per sé a definire un progetto. Mi infastidivano le battute superficiali e sferzanti di alcuni dirigenti, le frasi del tipo “il comunismo è un bambolotto di pezza”, che avevano l’effetto di banalizzare il travaglio di tante persone. In realtà, quel passaggio provocò sofferenze vere: la divisione passò per le famiglie, molti si interrogarono sul senso della propria vita. Temevo il rischio di una separazione di natura etica tra un gruppo dirigente e un popolo. E penso di aver contribuito per la mia parte, da uomo dell’istituzione-partito, ad allargare il consenso alla proposta di Occhetto. Tanto che lui stesso, tra il primo congresso della “svolta” e il congresso di Ri­7

mini di fondazione del Pds, mi richiamò dall’«Unità» per affidarmi l’incarico di coordinatore della segreteria. Non sarebbe potuto accadere se fossi stato un frenatore. D.  Con Occhetto però ci furono subito contrasti. R.  Mi apparve via via come un limite la fragilità delle basi culturali della “svolta”. Il difetto vero era il “nuovismo”, le cui conseguenze negative divennero evidenti negli anni successivi e culminarono nella sconfitta politica alle elezioni del ’94. Mancò allora un’approfondita riflessione sul Pci, su ciò che era morto e ciò che era vivo del comunismo italiano. L’ideologia del nuovo tendeva a considerare il passato, tutto il passato, come qualcosa da cui fuggire. Anche la fiducia verso un’indistinta società civile conteneva il giudizio di una sostanziale inutilità dei partiti. Il nostro problema non era solo quello di salvare la parte onorevole della storia del Pci. Il problema ben più grande era radicare la nuova sinistra che stava nascendo nella storia nazionale. Allora la rete dei rapporti politici fu demonizzata con l’uso della categoria del “consociativismo”, ossia una sorta di patto di potere occulto tra i grandi partiti che avrebbe irretito per decenni la società italiana e impedito una sua possibile modernizzazione. In realtà, ci fu anche il consociativismo nella Prima Repubblica, ma ci furono insieme conflitti ideali e politici di straordinaria intensità e un sistema democratico che nella sua dialettica favorì grandi trasformazioni sociali e positivi cambiamenti per il Paese. Il partito che stava per nascere sarebbe stato più forte se avesse avuto coscienza maggiore del suo radicamento nella nostra storia democratica. Il nuovismo, invece, ha fondato l’illusione di una Seconda Repubblica senza storia, che sta ancora producendo effetti nefasti nel Paese. D.  L’area migliorista del Pci, penso a Giorgio Napolitano, Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte e Emanuele Macaluso, sostenne il cambiamento, ma pensava che la “svolta” ­8

dovesse servire anzitutto a un rapido approdo nella famiglia socialista. Avevano torto o ragione? R.  Per una forza di sinistra come la nostra, l’ancoraggio all’esperienza socialista sarebbe stato certamente l’esito più corretto dal punto di vista della grammatica politica. Ma, purtroppo, da noi l’obiettivo era allora irrealistico. Lo spazio socialista era occupato da un partito, il Psi, che faceva parte a pieno titolo del sistema di potere che stava declinando. Insomma, non avremmo potuto presentare il nuovo partito che stavamo fondando come l’autentico Partito socialista italiano. Né potevamo aderire alla parola d’ordine dell’“unità socialista” che Bettino Craxi ci proponeva. Sono stato, negli anni precedenti alla “svolta”, un duro oppositore della politica di Craxi e con i dirigenti del Psi ce le siamo date di santa ragione. Mi consideravano un colonnello berlingueriano, ma non mi sono mai sentito un antisocialista. Non condividevo la tentazione “oltrista”, che pure stava prendendo piede al nostro interno: non aveva senso un distacco dal socialismo europeo in termini di valori e non si poteva fondare il Pds immaginando che la sinistra liberale o un’immersione nei movimenti fossero sufficienti a definirne l’identità. Quando Craxi lanciò l’unità socialista, scrissi che la prospettiva era in sé giusta, ma che, tuttavia, i proponenti non erano credibili per l’impresa. Avvertivamo acutamente la crisi del sistema politico e intendevamo preservare il nuovo partito dal suo crollo, anziché spenderlo per tamponare provvisoriamente le falle. D.  Nel marzo del ’90, tra il congresso della “svolta” e quello fondativo del Pds, tu e Walter Veltroni avete incontrato Craxi nel camper dell’assemblea organizzativa del Psi a Rimini. Fu il vostro primo faccia a faccia? Cosa vi siete detti? R.  Con Craxi avevo avuto sporadici incontri. Quella fu la prima volta in cui parlammo distesamente. Lo spazio del camper era angusto, ricordo che c’erano due divanetti. ­9

Craxi ne occupava uno per intero, con il corpo parzialmente reclinato e il gomito poggiato su un bracciolo. Veltroni ed io eravamo affiancati, e piuttosto stretti, nell’altro divanetto. Giuliano Amato, il quarto partecipante all’incontro, sedeva su uno sgabello alto. Noi due avevamo una missione precisa: chiedere a Craxi di non interrompere la legislatura. Infatti, le elezioni anticipate avrebbero colto il nostro partito in mezzo al guado: ci eravamo avventurati nella macchinosa procedura dei due congressi e sarebbe stato un guaio presentarci agli elettori nell’incertezza persino sulla nostra identità. Craxi acconsentì e prese un impegno che poi mantenne. Penso che l’abbia fatto anche per altre ragioni, a cominciare dal suo buon rapporto con il gruppo dirigente della Dc, che da poco aveva messo in minoranza Ciriaco De Mita. Va detto, tuttavia, che Craxi non ci fu ostile in quel frangente. Non ostacolò neppure il nostro avvicinamento all’Internazionale socialista. Formalmente avrebbe potuto porre il veto all’ingresso del Pds nell’Internazionale. Non gli sarebbe stato facile, viste le nostre positive relazioni con i maggiori partiti socialisti europei e soprattutto con Willy Brandt, ma comunque va dato atto a Craxi di essersi sempre espresso favorevolmente nelle sedi ufficiali. Nel colloquio dentro il camper rimasi colpito da alcune sue parole amare, addirittura sprezzanti, rivolte verso il suo partito. Disse qualcosa come: se avessi avuto la possibilità di dirigere un partito vero, come il vostro, forse avremmo cambiato l’Italia. Craxi si sentiva uno sconfitto, ma aveva ancora una carta da giocare: il suo disegno politico era tornare alla guida del governo, nella legislatura successiva, con una maggioranza nuova che comprendesse anche noi. A questo serviva l’unità socialista. Craxi, al di là delle sue discutibili scelte e delle responsabilità che si assunse, era un uomo di sinistra. E, proprio perché si sentiva di sinistra, sono sempre stato convinto che non sarebbe mai finito nel melting pot della destra poi costruito da Silvio Berlusconi. Il suo ultimo disegno naufragò all’indomani del voto del ’92: il quadripar­10

tito che reggeva il governo Andreotti subì un duro colpo elettorale, il Pds rifiutò il sostegno a un eventuale governo Craxi e la sconfitta definitiva per il segretario socialista fu l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. D.  Un’altra personalità con cui il neonato Pds ha dovuto fare i conti è stato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Fu lui a riaprire al Pds, ma con la vicenda Gladio fu azzoppato. Il Pds chiese allora l’impeachment. Sparaste sulla Croce Rossa? R.  Fu Giulio Andreotti a svelare Gladio. E Cossiga si scagliò contro di lui con grande violenza. Ma togliere il segreto su Gladio era una scelta che andava nel senso di liberare la Repubblica dai condizionamenti del passato, cioè dal peso della Guerra Fredda, di cui l’organizzazione segreta “Stay Behind”, predisposta d’intesa con gli americani in funzione anticomunista in diversi Paesi europei, fu una delle espressioni più inquietanti. Su Gladio ci battemmo con energia e organizzammo una grande mobilitazione. La posizione del capo dello Stato ci apparve decisamente contraddittoria. L’aver formalizzato, alla fine del ’91, la richiesta di impeachment è stata probabilmente una forzatura, ma il conflitto politico aveva la sua ragion d’essere. D.  Il Pds si schierò, dunque, dalla parte di Andreotti contro Cossiga? R.  Così pensava Cossiga... Una mattina, alle sette o forse prima, squilla il telefono di casa mia. È il centralino del Quirinale, che mi passa il presidente. Parla Cossiga: «Segnalo a voi del grande partito della sinistra che il vostro eroe, l’onorevole Andreotti, è il capo della mafia». Sono colto di sorpresa, un po’ assonnato, e provo a cavarmela con una risposta spiritosa: «Benché sia illegittimo controllare il telefono di un deputato, lei sa che sono intercettato». ­11

La replica di Cossiga è immediata e straordinaria: «Sì, ma il maresciallo che ci ascolta sa benissimo cosa dico, non è mica un coglione come voi». Insomma, Cossiga non si rassegnava al conflitto con noi. Ci chiamava «i ragazzi della via Pál», ma, pur in modo confuso, cercava di strattonarci per riportarci su un terreno di confronto. Personalmente, con Cossiga ho sempre avuto un buon rapporto, anche perché è stato amico di mio padre. Col tempo gli ho voluto bene e sono convinto che lui ne volesse a me. Tuttavia, in quegli anni non mi risparmiò nulla. D.  Che cosa non ti risparmiò? R.  C’è un’altra vicenda, per me inquietante. Si svolse tra la primavera e l’autunno del ’91, a cavallo del golpe di Mosca. Un commercialista romano avvicinò un funzionario importante del Pds per dirgli che alcuni suoi clienti a Mosca erano intenzionati a esportare capitali fuori dalla Russia e si sarebbero volentieri serviti di vecchie linee di credito su conti esteri, da anni ormai inutilizzate, per i finanziamenti del Pcus al Pci. Se avessimo acconsentito, avremmo avuto un compenso del 10% che, ci fu detto, corrispondeva allora a 400 miliardi di lire. Ero il coordinatore della segreteria e il funzionario mi riferì immediatamente dell’incontro. Gli dissi non solo che l’offerta era assolutamente da respingere, ma che bisognava avvertire subito Gorbaciov. Chi poteva conoscere quelle linee di credito se non ristrettissimi apparati, probabilmente dei Servizi segreti? Cosa stava accadendo in Russia se qualcuno meditava di trasferire di nascosto all’estero somme così ingenti? Il funzionario andò a Mosca a parlare con il capo della segreteria di Gorbaciov. E dopo poche settimane, ad agosto, ci fu il tentativo di golpe. Ma l’aspetto inquietante di questa storia fu che, un paio di mesi dopo, Cossiga mi convocò al Quirinale e mi chiese, a brutto muso, perché avessi partecipato a un’operazione per esportare fondi neri provenienti da Mosca. Era a conoscenza dell’incontro del nostro funzionario con ­12

la segreteria di Gorbaciov. Gli risposi che, dal momento che eravamo spiati, avrebbe dovuto sapere che noi all’operazione non avevamo partecipato e che, anzi, ci eravamo adoperati per sventarla. Ma Cossiga incalzò: «Perché non ha denunciato tutto alla Procura?». Replicai: «Perché in Italia non è stato consumato nessun reato». La conclusione fu che il presidente della Repubblica presentò un esposto alla Procura di Roma contro di me. D.  Che seguito giudiziario ebbe quell’esposto? R.  Fui convocato dalla Procura. Al magistrato, che era titolare di un’inchiesta parallela sui finanziamenti esteri di Pci e Dc, riferii ogni cosa e fu tutto archiviato. C’è un altro episodio, accaduto qualche tempo dopo, nel ’93, che dà la misura dell’intensità dello scontro politico e, al tempo stesso, delle difficoltà interpretative che il giovane gruppo dirigente del Pds incontrava. Subito dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa, Andreotti chiese di incontrarmi nel suo studio. Non c’era una conoscenza personale tra noi. Mi disse poche parole: «Volevo farle sapere che io non sono un mafioso». Dopo una pausa di silenzio, aggiunse: «Ho avuto la certezza che vogliono farmi fuori quando ho letto sul ‘New York Times’ un editoriale che aveva i toni degli editoriali di ‘Repubblica’». Secondo Andreotti, era partita dagli Stati Uniti l’offensiva contro di lui e in Italia se n’erano fatte strumento le forze più filoamericane. Tra queste, collocava sicuramente Cossiga. Se questo era lo scontro, si può capire perché il Pds cercò innanzitutto di salvaguardare se stesso, evitando di farsi travolgere dai detriti del terremoto che stava scuotendo la Repubblica. D.  Intanto dopo due congressi, a Rimini, nasce il Pds. Ma Occhetto mancò il quorum per l’elezione a segretario. Fu uno sgambetto organizzato? Quale fu il tuo ruolo? ­13

R.  Quello di Rimini fu un congresso carico di passioni e di emozioni. Si consumò il trauma della scissione, ma la nave era giunta all’approdo. Ero molto contento del simbolo della Quercia: eravamo stati Veltroni ed io a concepirlo e realizzarlo con l’aiuto del disegnatore Bruno Magno. Purtroppo la mancata elezione finale di Occhetto fu una catastrofe d’immagine per il nuovo partito. Ma nulla fu organizzato. Fu banalmente il combinato disposto di un congresso gestito in modo caotico e di una norma sbagliata dello statuto, che fissava alla metà più uno dei componenti del Consiglio nazionale il quorum per eleggere il segretario. A Rimini, al voto si presentò circa il 60% degli aventi diritto, dal momento che molti erano partiti perché non sapevano neppure di far parte del Consiglio nazionale. D.  Io ero fra questi... R.  Appunto... Insomma, non era tecnicamente possibile che Occhetto raggiungesse il quorum in quelle condizioni. Con quel disastro io non c’entro nulla. Avevo chiesto a Occhetto, prima del congresso, di presiedere la commissione elettorale, ma lui non si fidava di me e preferì Claudio Petruccioli. La commissione faticò a tal punto a compilare la lista del Consiglio nazionale, che la sera prima della conclusione ancora non si sapeva quanti e quali sarebbero stati i componenti. Temendo l’esito del voto in Consiglio, proposi a Occhetto di rinviare in extremis di tre giorni l’elezione del segretario. Ma, benché il mio suggerimento fosse molto ragionevole, Occhetto disse no. È probabile che in seguito a questa mia proposta si sia poi costruito un sospetto nei miei confronti. Tuttavia, sono convinto che in quella occasione fu la cerchia di chi gli stava più vicino a far sbagliare Occhetto. D.  Attorno a Occhetto si era costituito uno staff assai influente, una vera novità nel modello organizzativo tradizionale... ­14

R.  Iniziò allora la malattia degli staff, che accentuano i difetti del leader anziché attenuarli. Lo dico in modo autocritico, perché quella malattia in seguito ha contagiato anche me. Allora, comunque, lo staff mi disse: non possiamo permetterci di creare un pericoloso vuoto di potere. E così è successo il patatrac. D.  Dopo il mancato raggiungimento del quorum, fosti però invitato all’hotel Ambasciatori di Rimini, dove buona parte del vecchio gruppo dirigente ti propose di fare il segretario al posto di Occhetto. Come andò quell’incontro? R.  Durò pochi secondi. Aprii la porta della sala riunioni e vidi, appunto, tanti nostri dirigenti storici. C’erano quasi tutti. Fu Bufalini ad accogliermi: «Dobbiamo pensare a cosa fare ora», disse. Risposi immediatamente: «Dobbiamo pensare a una cosa sola: come eleggere al più presto Occhetto. E siccome ci sono difficoltà, vado subito a lavorare». Se mi fossi soltanto messo a sedere, chissà quali dinamiche si sarebbero innescate. Alcuni di loro, chiaramente, volevano che facessi il segretario. Ma non diedi loro il tempo di proporlo. E, in effetti, mi misi subito al lavoro per ricucire. Dopo una riunione con i capi corrente, andai a Capalbio per convincere Occhetto ad accettare la ricandidatura, visto che in un primo momento si era detto indisponibile. Anche quell’incontro fu molto difficile. Occhetto capiva che la sua posizione si era comunque indebolita e credo che lo infastidisse il ruolo di cerniera che di fatto io stavo svolgendo. Alla fine, però, prevalse la ragione e il Pds lo elesse segretario, sia pure con una settimana di ritardo. Poco tempo dopo, Occhetto mi disse che alla legislatura successiva avrei fatto il capogruppo alla Camera. Non mi voleva nel “palazzo”. D.  Le elezioni del ’92 provocarono un terremoto politico. Il quadripartito che sosteneva il governo Andreotti raggiunse a stento la maggioranza dei seggi. Per la prima volta nella ­15

storia repubblicana la Dc si fermò al di sotto del 30%. Con un exploit, la Lega balzò al 9%. Mentre le cose andarono male al Psi di Craxi e la delusione fu grande anche per il neonato Pds, appena sopra il 16%. Quali furono le valutazioni e le scelte? R.  Il voto del ’92 portò al livello delle istituzioni la grande crisi del sistema politico italiano. Era una crisi generale, che già aveva scavato nella società prima di essere conclamata nelle rappresentanze parlamentari. Il risultato del Pds fu modesto, ancor più se messo a confronto con l’arretramento dei partiti di governo. Tuttavia avevamo delle attenuanti: la novità del simbolo, la ferita della scissione, la scarsa sedimentazione della “svolta” in un elettorato popolare come quello che proveniva dalla storia comunista. Ma se le elezioni ci avevano ridimensionato, comunque eravamo convinti di aver visto giusto sulla profondità della crisi di sistema e sull’impraticabilità di risposte consociative. Proprio questa convinzione determinò il nostro comportamento quando Craxi tentò la sortita più importante all’indomani del voto: chiamò Occhetto e ci offrì un patto con il Psi e la Dc. Il patto comprendeva l’elezione alla Presidenza della Repubblica di Arnaldo Forlani o di Andreotti, il ritorno di Craxi a palazzo Chigi e l’ingresso del Pds nell’area di governo. Il leader socialista, insomma, si propose come traghettatore e al tempo stesso come garante di un nuovo equilibrio. D.  Il no del Pds a Craxi fu scontato oppure ci fu dibattito? R.  Occhetto non ebbe esitazioni e negli organi ristretti del partito la sua scelta fu unanimemente condivisa. La diversità al nostro interno era piuttosto un’altra: c’era chi, come Occhetto, considerava la stessa prospettiva socialista un intralcio alla costruzione di quella nuova sinistra che il Pds avrebbe dovuto incarnare, e c’era chi, come me, vedeva nella cultura socialista un ancoraggio ragionevole ­16

per il nuovo partito, ma nello stesso tempo giudicava il Psi di Craxi un interlocutore impossibile per la sua compromissione con il sistema di potere declinante e per il ripiegamento moderato degli ultimi anni. Sapevamo che il nostro no a Craxi avrebbe avuto conseguenze pesanti. Ma una scelta diversa sarebbe stata rovinosa, riducendo il Pds a stampella di un quadro politico ormai logoro. Craxi rispose che, essendoci chiamati fuori, saremmo stati anche esclusi dalla Presidenza della Camera. A Montecitorio fu così eletto Oscar Luigi Scalfaro, con il sostegno del quadripartito e con l’apporto, tutt’altro che ininfluente in quel contesto, del Partito radicale che aveva fatto di Scalfaro la bandiera del parlamentarismo. D.  Poi ci fu il dramma della strage di Capaci con la morte di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta e poco dopo fu ucciso Borsellino. R.  Anche la mafia, cogliendo la portata della crisi dei poteri della Repubblica, volle dire la sua nel modo più spietato e sanguinario. La strage di Capaci fu uno shock per le coscienze civili e un colpo tremendo per le istituzioni democratiche. Bisognava reagire con fermezza, anzitutto concludendo l’ormai troppo lunga sequenza delle votazioni senza esito per la Presidenza della Repubblica, a partire dalla bocciatura della candidatura di Forlani, che aprì una drammatica crisi nella Dc. E così, due giorni dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, il Parlamento in seduta comune elesse a larga maggioranza Oscar Luigi Scalfaro. Ma la scelta non fu facile. Anche perché quell’alternativa era in realtà già sul tavolo da giorni, almeno dall’indomani del ritiro di Forlani e del conseguente annuncio delle sue dimissioni da segretario della Dc. Fu De Mita a guidare le prime consultazioni riservate e a porre a Occhetto la questione, sostenendo che ormai la scelta era limitata alle due cariche istituzionali. De Mita preferiva Giovanni Spadolini, anche perché avrebbe aperto la porta di palazzo ­17

Chigi a un democristiano. E a favore di Spadolini si stava coagulando un’area influente dell’opinione pubblica: da un lato Eugenio Scalfari e «la Repubblica», dall’altro quell’asse laici-cattolici che era in auge, appunto, ai tempi del governo De Mita, ma che poi era stato costretto a subire l’egemonia del cosiddetto “Caf”. Anche all’interno del Pds non mancavano i sostenitori di Spadolini. D.  Tu preferivi Scalfaro... R.  Sì, e lo dissi da subito, già prima della strage di Capaci. A mio giudizio, Scalfaro rappresentava un segnale più forte di cambiamento e di novità rispetto all’establishment, perché aveva fronteggiato con energia il presidenzialismo di Cossiga, perché non solo Marco Pannella ma anche la Rete di Leoluca Orlando lo preferiva, e questo avrebbe offerto al Pds spazi maggiori di interlocuzione. Occhetto per qualche giorno ancora mantenne la sua linea di netta separazione: temeva una compromissione nel gioco politico e non voleva desistere dalla candidatura di Giovanni Conso. L’attentato di Capaci travolse ogni strategia. Nessuno poteva più sottrarsi alla responsabilità nazionale. E quando ci riunimmo per decidere tra Scalfaro e Spadolini, ritengo che la mia posizione prevalse anche perché era stata più compiutamente esposta e sostenuta nei giorni precedenti. Il sì del Pds a Scalfaro costrinse, di fatto, Dc e Psi ad adeguarsi. E, guardando indietro alla nostra storia, mi sento di dire che fu una scelta quanto mai indovinata: Scalfaro si mostrò in quegli anni drammatici un presidente solido e un uomo di grandi qualità politiche e morali. D.  Fermiamoci un attimo su quello che è accaduto dopo la strage di Capaci e dopo l’uccisione di Paolo Borsellino. Secondo le polemiche di questi ultimi mesi, quella non solo fu una stagione di stragi mafiose ma anche di trattative fra pezzi dello Stato e cosche. È una storia per tanti aspetti confusa. Molte sono le domande che sono state poste. Ne ­18

elenco alcune. Ci fu una trattativa? Se ci fu, era espressione di una cultura politico-investigativo-istituzionale che cercava di trovare strade per fermare il crescendo delle stragi o sono stati commessi reati da uomini dello Stato, ministri e investigatori? E poi, perché si è voluto coinvolgere l’attuale presidente della Repubblica in questa vicenda? R.  Non confonderei i diversi piani. Una cosa, infatti, è la questione che investe il capo dello Stato. Partiamo da un dato di realtà: Napolitano non c’entra nulla con l’eventuale trattativa che sarebbe avvenuta vent’anni fa. Napolitano è stato coinvolto in questa storia sulla base di intercettazioni telefoniche. Anche qui occorre essere molto netti. Non si intercetta il presidente della Repubblica, lo vieta la Costituzione. Se lo si fa indirettamente, bisogna distruggere le intercettazioni. E la Corte costituzionale ha confermato esattamente questa interpretazione della norma. Napolitano, sollevando il conflitto di attribuzione, ha fatto un gesto utile e doveroso a difesa delle prerogative dell’istituzione Presidenza della Repubblica. L’indagine sulla trattativa Stato-mafia è un’altra cosa. Essa procede in modo confuso, perché vi sono più procure che stanno indagando: quella di Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio e quella di Palermo sulla cosiddetta trattativa. Adesso si è giunti alla conclusione delle indagini a Palermo e alla fase dibattimentale. Speriamo che questo apra la strada a un necessario chiarimento. In queste indagini sono emerse valutazioni molto diverse circa l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Massimo Ciancimino. Come cittadino sono sconcertato, perché vedo che magistrati di uffici distinti indagano sulle stesse vicende e valutano differentemente le stesse testimonianze. Questo è caos, non è giustizia. L’esigenza di un coordinamento tra le procure, che è stata sollevata dalla lettera di Napolitano, era quindi del tutto fondata. Invece è nato un clamore mediatico esasperato e si sono costituite vere e proprie tifoserie intorno a questa o a quella procura. Questa è la fine della giustizia. ­19

La confusione e il conflitto tra magistrati sono elementi che accrescono l’incertezza della giustizia, facendole perdere credibilità. E non voglio neppure accennare al fatto che il modo di funzionare del sistema giudiziario comporta anche un enorme spreco di denaro pubblico... Trovo, infine, singolare la pretesa di attribuire a taluni magistrati, magari in polemica con altri, un compito salvifico di ricostruzione della storia patria. La magistratura persegue i reati, si occupa della ricerca dei responsabili in un Paese in cui la responsabilità è personale. La magistratura non può essere protagonista di una sorta di processo storico a una classe dirigente. Questo compito spetta alla politica e, appunto, agli storici. D.  Che idea ti sei fatto della trattativa? Ci fu o no? R.  Non voglio entrare nel merito, non voglio sostituirmi al lavoro dei magistrati. Vedremo quel che accerteranno sulla base dei fatti. Non credo proprio che lo Stato e la mafia si siano messi intorno a un tavolo per trattare, ma non posso escludere che qualcuno, penso a persone che hanno avuto responsabilità dal punto di vista della sicurezza, abbia avuto la percezione che se si fossero prese certe misure si sarebbe potuto allontanare un pericolo. Non mi sorprenderebbe se vi fosse stato chi avesse pensato o deciso di attenuare il carcere duro nella convinzione che in questo modo si sarebbero evitate ritorsioni omicide. Se è stato fatto, si è trattato di una valutazione politica. Certo, moralmente assai impegnativa. Per quanto mi riguarda, la mia formazione politica mi porta a una posizione di intransigenza. Anche nel caso Moro ci fu una contrapposizione di questo tipo. C’era, infatti, lo ricorderai, chi era favorevole a una trattativa. Noi sostenemmo la fermezza. In queste vicende sono possibili scelte diverse, ma di fronte a questo caso specifico bisogna capire se e in che cosa questi comportamenti trattativisti costituiscano un reato. C’è reato? Il tema di fondo è solo questo. Non entro ­20

invece nella discussione politica né penso lo debba fare il magistrato, che non è chiamato a giudicare il tasso di eticità esistente nella storia del Paese. Questo rivela un aspetto della crisi italiana, una sua anomalia, e cioè che in determinati momenti alcuni corpi dello Stato assumono un ruolo diverso da quello che istituzionalmente compete loro. Può diventare una forzatura dell’ordine democratico, non è compito dei sostituti procuratori giudicare la coerenza morale dei comportamenti politici. Nelle democrazie sono i cittadini che giudicano con il voto. D.  La questione del rapporto fra etica, politica, informazione e magistratura la ritroviamo negli anni di Tangentopoli. Per riprendere il nostro racconto ripartiamo dall’esplosione di Mani Pulite, che fu un tornado che travolse tutto. In poche settimane quasi l’intera classe dirigente venne raggiunta da avvisi di garanzia e fu chiamata a rispondere di pesanti accuse di corruzione. Alcuni parlarono e parlano di “rivoluzione italiana”: fu vera rivoluzione? R.  Appena Amato insediò il suo governo, scoppiò la bufera. La progressione dell’inchiesta Mani Pulite fu impressionante: le accuse di corruzione colpivano a raffica e a ritmo quotidiano. Tutta la classe dirigente politica sembrava indistintamente coinvolta, indagini parallele si espandevano da una procura all’altra, diversi ministri furono costretti alle dimissioni, come se gli avvisi di garanzia fossero già sentenze di condanna. Ma il sistema politico crollò perché le sue basi erano ormai marce. I partiti popolari non svolgevano più il ruolo di raccolta del consenso e della partecipazione e c’era stata una progressiva occupazione dello Stato. Mani Pulite nacque da questa crisi e non certo da un fantomatico complotto. Tantomeno da un complotto di magistrati di sinistra, se non altro perché nel pool di Mani Pulite non mi pare ci fosse molta simpatia per la sinistra. Il solo che in quel gruppo poteva forse prendere in considerazione il voto personale per il Pds, ­21

cioè Gerardo D’Ambrosio, è stato di gran lunga l’uomo più prudente e moderato della Procura. D.  Berlusconi, e recentemente anche Carlo De Benedetti, hanno detto che il Pds fu risparmiato dai magistrati milanesi. È vero? R.  No, il Pds non fu risparmiato. Nostri dirigenti e amministratori vennero indagati, il partito ispezionato, sottoposto a processi. Assistemmo a drammi personali, ad arresti di nostri compagni, seguiti il più delle volte da proscioglimenti e assoluzioni. Tra noi, in quei mesi, serpeggiò la paura, quantomeno la paura che imprudenze nella gestione contabile potessero travolgere l’intera struttura. Ricordo che una notte, mentre mi trovavo a Napoli, mi chiamò al telefono un allarmatissimo Davide Visani, capo della segreteria di Occhetto: «Massimo – disse – domani i giornali scriveranno che sono stati trovati i conti del Pds in Svizzera. Siamo nei guai». «Scusa Davide – risposi – ma noi abbiamo conti in Svizzera?». «Certo che no», replicò a sua volta Visani. Provai a sdrammatizzare: «Tranquillo, per gli innocenti il massimo della pena è cinque anni». Ma in quella stagione si sorrideva poco. A Montecitorio la prima importante richiesta di autorizzazione a procedere riguardò i socialisti Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, il repubblicano Antonio Del Pennino e un dirigente storico del Pci come Gianni Cervetti. Davvero la tesi del complotto, imperniata su una complicità tra Pds e magistrati, è totalmente priva di ogni fondamento. Piuttosto, è vero che l’inchiesta su Tangentopoli fu sostenuta da un’ideologia anti-partito, supportata da una parte del ceto economico e intellettuale dominante del Paese e che trovò la sua espressione sui principali organi di informazione. Compresi i giornali e le tv dell’impero berlusconiano. La spinta fu a utilizzare le inchieste di Tangentopoli per liquidare il sistema dei partiti e ridimensionare drasticamente il ruolo della politica nell’equilibrio dei poteri nel ­22

nostro Paese. Non credo che si possa parlare di complotto, e comunque è curioso che lo si faccia da parte di chi milita nel partito di Berlusconi, perché, in definitiva, il maggior beneficiario della demolizione dei partiti fu proprio Silvio Berlusconi, che non a caso vinse le elezioni del 1994. E forse non a caso propose a Di Pietro di fare il ministro dell’Interno nel suo governo. In ogni caso, l’ideologia antipolitica non investì soltanto il nostro Paese, ma, in modi diversi, caratterizzò dopo il 1989 in tutto l’Occidente i Paesi più avanzati. Proprio questo è il punto: comprendere in quale misura questa ideologia abbia condizionato, in Italia, la stessa stagione delle inchieste di Tangentopoli. L’origine di ogni male era individuata nella corruzione dei partiti e si chiedeva di colpire solo i partiti, attenuando invece le responsabilità dei vertici economici e imprenditoriali, che pure erano partecipi dei reati e di quell’intreccio perverso tra economia e politica che Tangentopoli metteva in luce. Qualche mese più tardi, Antonio Di Pietro mi disse chiaramente: «Volevamo colpire tutti i partiti». Poi aggiunse: «Ma voi siete stati l’osso più duro. Eravate bene organizzati». D.  Solo più furbi, non più immacolati? R.  La verità è che nel nostro partito i casi di corruzione personale erano molto limitati. Con questo non nego che ci siano stati anche nelle nostre fila episodi di illegalità e di grave mal costume. Qualcuno ha commesso reati e per questo ha pagato. Ma la misura fu assai limitata rispetto agli altri partiti. Marcello Stefanini, il nostro segretario amministrativo, morì difendendosi dalle accuse legate alla vicenda di Primo Greganti e del manager Lorenzo Panzavolta. Dopo la sua morte, fu accertato, in sede processuale, che il fatto non sussisteva e che egli non aveva compiuto alcun reato. Il Pds non era parte, se non in modo marginale e periferico, di quella degenerazione del sistema. E, soprattutto, non aveva subito quella mutazione genetica, ­23

largamente diffusa nei partiti di governo, che ormai orientava la corruzione verso fini di corrente o di gruppo, se non addirittura di arricchimento privato. D.  Anche tu fosti indagato e poi prosciolto da diverse accuse, penso alla vicenda Raul Gardini. Durante il processo Cusani per la maxitangente Enimont, un collaboratore di Gardini, Leo Porcari, sostenne di aver accompagnato il suo principale a Botteghe Oscure con una valigia contenente un miliardo di lire e che questi poi uscì dalla sede del Pds senza valigia, dopo aver incontrato te e Occhetto. Che cosa accadde? R.  Si tratta di un episodio totalmente falso, di pura invenzione. Effettivamente il collaboratore di Gardini disse queste cose in tribunale. Dichiarò che Gardini venne ricevuto da me e che poi, insieme, andammo nell’ufficio di Occhetto. Indicò anche un giorno preciso. Quel giorno, però, non mi trovavo neppure in Italia. Da direttore dell’«Unità» ero a Mosca per un’intervista al ministro degli Esteri russo Eduard Shevardnadze, come è documentato in modo inequivocabile. Scrissi immediatamente al presidente del Tribunale di Milano, chiedendo di essere ascoltato per dimostrare l’infondatezza di quella ricostruzione e per affermare che l’incontro non avvenne né allora né mai. Mi fu risposto che l’episodio era estraneo all’oggetto del processo, che gli atti sarebbero stati trasmessi alla Procura e che sarebbe toccato semmai ad essa aprire un’indagine. La Procura, però, non fece nulla. Penso che avesse capito immediatamente che si trattava di accuse infondate. Ma la conclusione per me sgradevole è che questo falso sia rimasto senza sanzione e che talvolta la calunnia venga riesumata per alimentare la macchina del fango. D.  Craxi, nel discorso alla Camera del ’93, invitò tutti i partiti a confermare di aver partecipato al sistema illegale di finanziamento. ­24

R.  Nel discorso di Craxi mancò la necessaria riflessione autocritica. Si difese sostenendo che i finanziamenti illeciti fossero un peccato veniale e che la pratica fosse largamente diffusa: dunque, tutti colpevoli nessun colpevole. Ma la pretesa di uscire da Tangentopoli senza una seria analisi sulle ragioni della degenerazione del sistema era velleitaria. E infatti il tentativo fallì. Il leader socialista, purtroppo, ebbe una grave responsabilità nella crisi che determinò Tangentopoli. Fu lui l’artefice del modello vincente degli anni Ottanta: il modello del rampantismo individuale, della politica trasformata in scalata di potere. Osteggiò, lui per primo, i grandi partiti popolari. Utilizzò con spregiudicatezza il potere di coalizione. E sul suo carro salì una borghesia che aveva voglia di arricchirsi, ma spesso era priva di solidi principi. Questi ingredienti furono essenziali all’impasto di Tangentopoli. Bisognava denunciarli apertamente per poter difendere il ruolo dei partiti davanti all’onda dell’antipolitica. Ma Craxi non lo fece. E la strategia socialista presto si esaurì, anche per ragioni interne al sistema: c’era troppa disparità tra il potere conquistato e la legittimazione democratica. Appena i consensi calarono, il Psi non resse. D.  Nel ’92 non ci fu solo Tangentopoli, ci fu il collasso economico in un Paese, il nostro, che aveva appena firmato il Trattato di Maastricht. Fu allora che le grandi forze dell’economia scoprirono la necessità di divorziare dal sistema politico? R.  La crisi finanziaria fu terribile. La speculazione costrinse il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, a bruciare una parte delle riserve per sostenere la lira. Ci furono aste dei Bot, nell’autunno del ’92, in cui si tratteneva il respiro. Amato dimostrò, in quei mesi drammatici, grandi capacità e senso dello Stato. Fu costretto a una manovra pesantissima e impopolare, che arrivò fino al prelievo forzoso sui conti correnti. Ciò non impedì la ­25

svalutazione della lira e la sua uscita dalla banda stretta di oscillazione dello Sme. Tuttavia, con il governo Amato cominciò il primo risanamento e si avviarono anche le privatizzazioni. Detto questo, non c’è dubbio che la crisi fiscale e finanziaria contribuì al crollo del sistema. E la preoccupazione per le sorti dell’economia nazionale pesò, eccome, sugli orientamenti degli imprenditori italiani. Mai la loro critica alla politica si era spinta così avanti. Si convinsero persino che, bastonando la politica, si sarebbero ottenuti risultati migliori. L’esecutivo Amato, benché espressione di una maggioranza incerta e fragile, diventò in pochi mesi un “governo del presidente”. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, anche la guerra a Cosa Nostra ebbe una svolta che portò alla cattura di Totò Riina e di altri componenti della Cupola mafiosa. Insomma, nel capitalismo italiano come in parte dell’opinione pubblica si fece strada l’idea che senza politica si potesse stare meglio, che le soluzioni “tecniche” potessero offrire performance altrimenti impossibili... D.  Dopo la vittoria dei “sì” nel referendum sul maggioritario e dopo le dimissioni di Amato, cominciò la trattativa per la formazione di un nuovo governo in cui non era più esclusa la partecipazione del Pds. R.  Il referendum segnò la fine del governo Amato. Benché la legislatura fosse cominciata da appena un anno, appariva già compromessa. Il compito principale era dar seguito al pronunciamento popolare e scrivere una nuova legge elettorale che consentisse l’approdo a una democrazia dell’alternanza. Ma, ovviamente, gravava sul Paese la responsabilità di proseguire sulla via del risanamento appena cominciato e nella battaglia contro la mafia e la criminalità. Mino Martinazzoli, segretario della Dc, ruppe subito gli indugi e ci propose una collaborazione di governo. Fu da parte sua un atto di coraggio. Noi non fummo, invece, all’altezza della situazione. Martinazzoli ­26

organizzò un incontro tra delegazioni, sia pure riservatissimo. Per la Dc, oltre al segretario, erano presenti i capigruppo Gerardo Bianco e Gabriele De Rosa. Per il Pds con Occhetto eravamo Giuseppe Chiarante, presidente del nostro gruppo in Senato, ed io. Il discorso di Martinazzoli fu molto chiaro: propose la più ampia collaborazione tra le forze democratiche che volevano guidare la transizione istituzionale. D.  Compare Romano Prodi per la prima volta come candidato premier? R.  Sì. Martinazzoli ci propose Prodi come presidente del Consiglio. Era l’aprile del ’93 e fu quella la prima volta che il suo nome venne fatto per la carica di capo del governo. La Dc era la maggiore forza parlamentare – aggiunse Martinazzoli – e dunque aveva titolo per indicare il presidente del Consiglio. Prodi, peraltro, era stato accanto a Mario Segni nel movimento referendario e la sua designazione non avrebbe contrastato l’orientamento espresso dal corpo elettorale. Martinazzoli si disse disponibile alla nomina di un vicepresidente del Consiglio indicato dal Pds, ovviamente non un uomo di partito, ma una figura simile a quella di Prodi. A me andrebbe bene – spiegò – una personalità come Augusto Barbera, anch’egli personaggio di spicco del movimento referendario, ma si disse pronto a valutare anche altre soluzioni. Ci pose però una condizione politica, e lo fece in modo esplicito, netto: il Pds dovrà recedere da campagne e iniziative di delegittimazione della Dc. Il primo atto concreto che ci chiese fu quello di non indicare nelle consultazioni al Quirinale il nome di Segni per l’incarico di governo. Segni, pochi giorni prima del referendum, aveva polemicamente lasciato la Dc e un sostegno del Pds sarebbe stato percepito come un atto di rottura verso il partito di Martinazzoli. ­27

D.  Quali furono la reazione di Occhetto e la tua? R.  In quel passaggio, si aprì tra me e Occhetto una frattura politica che pesò nelle nostre relazioni future. La sua risposta a Martinazzoli, fin da quella riunione riservata, fu negativa. Occhetto temeva una compromissione del Pds, temeva di finire in una palude e soprattutto non voleva distanziarsi da Segni, perché, all’indomani della vittoria dei “sì”, intendeva evitare la minima incomprensione con il movimento referendario. Occhetto escludeva un governo politico e proponeva l’incarico a una figura istituzionale. In particolare, in quel momento, si pensava (anche senza proporlo apertamente) a Giorgio Napolitano, che era stato eletto presidente della Camera dei deputati. Erano ragioni non banali. Ricordo che Martinazzoli ci disse: «Napolitano sarebbe certamente il miglior presidente del Consiglio, ma la Dc, proprio perché sotto attacco di fronte all’opinione pubblica, non può rinunciare ora alla Presidenza del Consiglio». Fu un passaggio cruciale. Comprendevo le ragioni di Occhetto, ma la mia opinione era che non ci si potesse tirare indietro rispetto alla proposta di Martinazzoli. Ricordo che nella riunione provai a sdrammatizzare: con Prodi e Barbera – dissi – potremmo chiamarlo il governo del tortellino e spostare la sede a Bologna. Sostenni anche che di fronte a un governo Prodi il nostro atteggiamento parlamentare sarebbe stato comunque più aperto, pure nel caso in cui non vi fossimo entrati a pieno titolo. La rottura drammatica con la Dc avvenne, però, due o tre giorni più tardi, durante le consultazioni al Quirinale. Davanti al presidente Scalfaro, Occhetto fece soltanto il nome di Giorgio Napolitano per la guida del governo. Ma poi, davanti ai giornalisti, disse che anche Segni avrebbe avuto il nostro pieno sostegno. Per Martinazzoli fu un vero e proprio affronto, il segno di una nostra irriducibile ostilità o inaffidabilità. Da allora Martinazzoli ruppe definitivamente le relazioni con Occhetto e ciò fu la premessa della divisione tra il centro e i progressisti che nel ’94 aprì ­28

la porta alla vittoria di Berlusconi. Eppure, in quella consultazione, anche Scalfaro ci chiese cosa pensavamo di un ipotetico incarico a Prodi. E colsi lo stupore del presidente nell’ascoltare la diversità dei miei toni rispetto a quelli del segretario. Quel tentativo comunque fallì. Scalfaro allora decise di giocare in extremis la carta di Ciampi, senza consultazioni preventive con i partiti. Era l’ultima spiaggia. E Ciampi formò il suo governo. D.  Il tuo contrasto con Occhetto nei giorni della crisi è certamente meno conosciuto di un altro contrasto, che avvenne il giorno dopo la nascita del governo Ciampi, quando la Camera bocciò a scrutinio segreto quattro autorizzazioni a procedere contro Craxi e la direzione del Pds decise di ritirare i ministri Vincenzo Visco, Augusto Barbera e Luigi Berlinguer dal neonato esecutivo. Secondo molti, fosti tu a spingere per il non ingresso nel governo. Non ritieni oggi che anche quello fu un errore? R.  Il governo Ciampi nacque in un rapporto molto forte con il presidente della Repubblica. La scelta del governatore della Banca d’Italia fu, a modo suo, una scelta istituzionale. L’ingresso al governo di tre tecnici di area Pds avvenne in zona Cesarini, dopo una visita di Alfredo Reichlin a Ciampi, che già lavorava da un paio di giorni alla sua squadra. Erano amici da tempo e Reichlin svolse, in quella occasione, un vero e proprio ruolo di ambasciatore politico. Dopo la rottura tra Martinazzoli e Occhetto, credo che Ciampi ritenesse il Pds indisponibile in via pregiudiziale a entrare al governo. Nella discussione interna alla segreteria del partito, che precedette il via libera alla nomina di Visco, Barbera e Berlinguer, segnalai l’incongruenza del nostro atteggiamento: ci eravamo rifiutati di entrare al governo dalla porta principale e ora entravamo da quella di servizio, per di più in posizioni di secondo piano, quando i ruoli chiave dell’esecutivo erano stati già definiti. Le mie osservazioni non modificarono la scelta ­29

di Occhetto, secondo il quale il governo Ciampi aveva le caratteristiche di un governo tecnico e non politico, quindi era più congeniale alla nostra linea. Penso che sia figlia di questa discussione interna la favola, raccontata in seguito, di un D’Alema che fa dimettere i ministri. Il voto a scrutinio segreto della Camera che bloccò le autorizzazioni a procedere contro Craxi fu uno shock, oltre che un atto di rivalsa contro il referendum e l’avvio della transizione istituzionale. Successivamente si venne a sapere che nel segreto dell’urna anche i leghisti votarono a favore di Craxi, con lo scopo di scaricare le colpe sul Parlamento corrotto e agitare il cappio. La direzione del Pds, che si riunì immediatamente dopo l’esito della votazione, durò pochi minuti ed espresse un parere unanime: nessuno ebbe la minima esitazione a chiedere ai nostri ministri di dimettersi dal governo. D.  Insisto nel chiederti una risposta precisa: fu una scelta giusta o errata? R.  Guardando indietro, ritengo che fu un errore non essere saliti sul treno di un nuovo esecutivo che, probabilmente, con il nostro apporto, avrebbe potuto rendere più rapida e sicura la transizione italiana. Ma l’errore non furono le dimissioni dal governo Ciampi, che poi sostenemmo lealmente per tutto il corso residuo della legislatura. L’errore fu piuttosto quello di non aver lanciato il governo Prodi con tre anni d’anticipo. Forse il corso della politica italiana sarebbe stato diverso.

Capitolo 2

Vince Berlusconi e si prepara Prodi

D.  Ci avviciniamo al periodo che più assomiglia a quello attuale. Il ’94 e quel che lo precede sono caratterizzati dalla crisi drammatica dell’economia, dalla presenza di un governo tecnico, dallo spappolamento di un’area politica e di governo, dall’affermazione definitiva di un nuovo soggetto politico come la Lega, dal successo della sinistra nelle amministrative, per tacere delle tensioni sociali e delle stragi di mafia. Molte cose parlano dell’oggi. Tuttavia, allora tutti si aspettavano che vincesse la sinistra, ma all’improvviso è spuntato Berlusconi. R.  Ci sono delle possibili analogie rispetto alla situazione attuale. Penso al rischio di credere che il Partito democratico sia l’unica forza in campo, mentre vediamo già che da questa crisi emergono nuovi protagonisti come Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle. E, inoltre, osserviamo il lavorio per ricostituire una forza di centrodestra che tenga conto della crisi del Pdl e della Lega. E poi c’è Berlusconi, che non è uscito di scena e tenta di rilanciare il suo progetto, anche se con meno chance rispetto al passato. Ma torniamo alla crisi di allora. Come abbiamo visto, era in atto una vera e propria caduta dei partiti tradizionali, dalla quale emergeva solo il Pds, nato in gran parte dalla trasformazione del Pci. Nessun altro partito aveva dato vita a un cambiamento così radicale, che avesse la stessa ­31

intensità e drammaticità. La nascita del Partito popolare in campo democristiano, ad esempio, fu un’operazione importante, ma tutta politica. La nostra svolta, invece, si era accompagnata a una trasformazione più incisiva: il gruppo dirigente storico del Partito comunista lasciava il campo a una nuova generazione. D.  Il mondo politico ufficiale, e anche il Pds, non vide però quel che accadeva sul lato destro dello schieramento politico né percepiva gli umori dell’elettorato, orfano dei suoi partiti ormai defunti... R.  Indubbiamente, c’era un mutamento in atto nella destra, che cercava di rimettersi in gioco come forza di governo. Lega e Movimento sociale, in particolare, non accettavano di essere considerati come forze marginali. Invece, prevalse nel nostro dibattito una visione esclusivamente politica, persino politicista, con un’analisi delle forze politiche nella chiave della contrapposizione fra vecchio e nuovo. Era vero che il Paese aveva bisogno di qualcosa di nuovo e che noi dovevamo mettere l’accento sulla novità. Ma dietro questo scontro agivano rilevanti interessi sociali, se non nettamente ostili, comunque preoccupati dell’avvento della sinistra al governo. C’erano correnti culturali profonde che non avevano più rappresentanza politica, ma non per questo cessavano di esistere. Ricordo che feci un raffronto fra le amministrative di Roma, che avevamo vinto, e le elezioni politiche, che avevamo perso. Da questa analisi risultò che alle politiche votarono 800.000 romani in più rispetto al ballottaggio Rutelli-Fini per il Comune. Moltissimi elettori, in questo caso, erano rimasti a casa, in particolare tutto quel mondo che si era riconosciuto nelle forze politiche moderate e di governo, che non si sentiva rappresentato da un sistema politico in cui emergevano come protagonisti il Pds, la Lega e Alleanza nazionale. Insomma, c’era un vuoto, come disse con intelligenza Craxi. E qualcuno lo riempì. ­32

D.  Quale fu la carta vincente che giocò Silvio Berlusconi? R.  Berlusconi seppe combinare bene due elementi. Da una parte fu in grado di presentarsi come un fattore di novità e cavalcare l’antipolitica, dall’altra seppe coagulare gli scontenti del nuovo corso, gli orfani dei vecchi partiti. La sua campagna fu impostata – e qui c’è un’analogia con quel che accade oggi – contro i politici di professione e fu imperniata sul primato della società civile, chiamata ad affidarsi a un grande imprenditore che, avendo avuto successo nella vita, sarebbe stato capace di guidare lo Stato. L’appello al popolo contro le élite e il primato dell’economia sulla politica furono gli ingredienti molto moderni dell’operazione Forza Italia, in linea con il populismo e il neoliberismo estremo che avrebbero prevalso, poi, in tanti Paesi dell’Occidente. A rafforzare quel progetto, inoltre, vi fu la straordinaria capacità di Berlusconi di mettere in campo il potenziale mediatico accumulato sia dal punto di vista del controllo dei mezzi di comunicazione, sia dal punto di vista della capacità di utilizzarli. In più, riemerse allora un senso comune, che non è mai stato cancellato del tutto nella storia nazionale: siamo uno di quei Paesi in cui la democrazia è più fragile, meno radicata nella coscienza del ceto intellettuale, della borghesia. Proprio questo fu il capolavoro di Berlusconi: presentarsi come nuovo, ma nello stesso tempo chiamare a raccolta quel mondo anticomunista e moderato che comprendeva anche il ceto politico sconfitto. E così Forza Italia nacque utilizzando la struttura dell’azienda, con l’ossatura di Publitalia, ma reclutò anche sul territorio esponenti del mondo imprenditoriale e delle professioni, e una parte del ceto politico democristiano e socialista. D.  Il primo Berlusconi attirò molti intellettuali di area liberale come Giuliano Urbani, ma anche legati alla sinistra come Lucio Colletti e Saverio Vertone... ­33

R.  Fece anche questo. E la nostra debolezza di analisi fu di non vedere in profondità i movimenti della società italiana, che non erano stati affatto cancellati dal mutamento dello scenario politico. C’era un’Italia che non aveva rappresentanza ed era completamente illusorio pensare che la sinistra da sola potesse prevalere sormontando difficoltà, ostilità, avversione profonda e storicamente radicata. Qui ci fu un limite culturale del “dopo-svolta”: il nuovismo portò a cancellare categorie fondamentali di interpretazione della storia nazionale e della realtà. D.  Quale fu il dibattito all’interno del Pds dell’epoca? Si pensò davvero che l’alleanza dei progressisti, in fondo l’asse Occhetto-Orlando, potesse esaurire tutto l’arco delle alleanze politico-sociali? R.  Durante la campagna elettorale, in un’intervista al «Corriere della Sera», lanciai l’idea che, in caso di nostra vittoria, restasse al governo Ciampi. Infatti, durante la mia campagna elettorale nel collegio di Gallipoli, c’era ancora chi si chiudeva in casa per timore che arrivassero i comunisti. Vinsi con il 34%, ma gli altri due candidati presero il 32% e il 31%. Insomma, mi parve evidente che il mondo a noi ostile c’era e non potevamo non tenerne conto. Con l’idea di Ciampi premier tentai di gettare un ponte verso un’area moderata. Ma questa non era la visione di Occhetto. D.  Prevalse l’idea del “nuovo” contro “nuovo”. Il nuovo Occhetto contro il nuovo Berlusconi... R.  Era una visione illusoria della realtà. Nella coscienza del Paese era profondamente insediata una costituzione materiale anticomunista. L’anticomunismo ha continuato a operare come collante di un sentimento diffuso ben oltre la fine del comunismo. Venne avanti tra di noi, invece, l’idea che il conflitto tra vecchia e nuova politica esaurisse ­34

tutte le categorie di interpretazione della realtà, come se i problemi sociali, gli interessi, le culture tradizionali fossero svaniti nella crisi degli anni Novanta. D.  Questo collante anticomunista sopravvive alla conclusione della stagione berlusconiana oppure termina con la sua caduta? R.  Credo che questi vent’anni non siano passati invano. La memoria si stempera, cambiano le generazioni, ma esiste una parte del Paese che resta pregiudizialmente ostile alla sinistra. D.  Che cosa temono della sinistra? R.  Innanzitutto, uno degli elementi di diffidenza nei confronti della sinistra è il sentimento antistatale di una parte della borghesia italiana. La sinistra è vista come sinonimo di Stato. Uno Stato che, per di più, nel nostro Paese appare come invadente e inefficiente. Ma io non ho mai compreso fino in fondo se è l’inefficienza che dà fastidio o se, invece, non vi sia insofferenza verso l’idea stessa della legalità. Non a caso, Berlusconi ha cavalcato con molta efficacia questo senso comune. C’è un’idea di società che fa da collante al berlusconismo, un’idea del rapporto fra individuo e collettività che ha trovato espressione in un modo egoistico di interpretare la domanda di libertà, intesa come individualismo che tende a sfuggire alle regole. È un dato culturale di fondo di una certa borghesia italiana, che persiste tuttora. Berlusconi lo ha incarnato e oggi possiamo dire che quando questa cultura si afferma come cultura di governo porta il Paese alla rovina. È quel che stava accadendo con il governo Berlusconi. Ma questo concetto di “rovina comune” è estraneo alla sensibilità di un parte del Paese. Non interessa quella parte di opinione pubblica italiana che reinterpreta tutto in chiave individualistica, ponendosi una domanda di fondo: «A me cosa ne viene?». ­35

D.  Torniamo indietro, al primo Berlusconi: vince e rapidamente cade. In quegli anni, Massimo D’Alema diventa il playmaker della politica italiana. R.  Dopo la sconfitta elettorale del ’94, si aprì una crisi nel nostro partito e ci fu un dibattito molto importante. D.  Crisi e dibattito che ti portano a diventare segretario del Pds. Fu il primo successo del “diabolico” D’Alema? R.  Si tratta di vecchi schemi giornalistici che non spiegano quel che accadde. In quei mesi si sviluppò un dibattito molto interessante, sul quale voglio mettere l’accento. Veltroni ed io leggemmo allo stesso modo la sconfitta e la necessità di una nuova fase politica: entrambi partivamo dal bisogno di rompere l’isolamento della sinistra e costruire un centrosinistra di governo. Fu una novità dal punto di vista politico-culturale e dal punto di vista dell’analisi sociale. D.  Come vi venne in mente di chiamarlo centrosinistra? In fondo, per il vecchio elettorato comunista, questa denominazione poteva apparire bizzarra, visti gli anni della contrapposizione a quell’esperienza di governo... R.  In verità fu Veltroni a sdoganare, con un articolo sull’«Unità», quella espressione, dicendo che c’era bisogno di un nuovo centrosinistra. Nuovo, perché questo era il centrosinistra del bipolarismo, non era più quello delle origini, nato per tagliare fuori una parte della sinistra dal governo del Paese. Si trattava, piuttosto, di una alleanza inclusiva verso la sinistra che puntava a conquistare anche il centro, attraverso una politica impostata su larghe aggregazioni elettorali. Era un ragionamento perfettamente bipolare, ma nella mia visione non c’era il bipartitismo. Insomma, vi fu una discussione di alto livello. I due discorsi con cui Veltroni ed io ci candidammo alla guida del Partito furono molto impegnativi, di analisi della società italiana ­36

e di visione del futuro. Naturalmente, tra noi vi erano diversità abbastanza profonde, ma avevamo un forte punto in comune: l’idea che si dovesse costruire un centrosinistra di governo, di tipo nuovo rispetto a quello tradizionale, anche dal punto di vista delle forme politiche che avrebbe dovuto assumere. Le premesse dell’Ulivo erano già largamente contenute nel dibattito che portò al cambiamento di vertice del nostro partito. D.  Il Pds voleva sanare la frattura con il centro e soprattutto con i Popolari che, come hai raccontato, era stata creata dallo scontro fra Martinazzoli e Occhetto sul nome del candidato premier da proporre al capo dello Stato. R.  Sergio Mattarella è stato uno dei testimoni di questa rottura drammatica tra Occhetto e Martinazzoli, che si riverberò anche sulla legge elettorale, con il rifiuto dei Popolari di accedere al doppio turno. Comunque, il dato di rilievo fu che noi, all’indomani della sconfitta elettorale, ci ponemmo la questione del centro. Nella visione di Veltroni, questa ricerca era molto forte e si poneva soprattutto in termini politico-culturali. Forse nella mia adesione al progetto era prevalente il tema della costruzione di un’alleanza politica e sociale. La mia impostazione era più tradizionale, maggiormente legata alla politica delle alleanze, com’era nella nostra cultura. In ogni caso, ci fu una convergenza e ciò spiega perché, malgrado la contrapposizione per la guida del partito, fu possibile tra Veltroni e me stabilire subito una collaborazione. Non c’era un dissenso politico sulla prospettiva. Anche per questo ritenni che Veltroni ed io avremmo potuto operare in modo complementare. Fu un lavoro importante per gli sviluppi politici che seguirono. Non c’è nulla di più falso della raffigurazione delle vicende del nostro partito – almeno per quanto mi riguarda – in termini di conflitti personali. Per me l’unico criterio è sempre stato ed è la politica. Gli aspetti personali sono sempre stati secondari e non hanno mai costituito ­37

motivo di conflitto. Allora, Veltroni ed io lavorammo insieme per aprire una nuova prospettiva e gettare le basi di quel centrosinistra che poi governò il Paese. Da parte mia, eletto segretario, mi mossi innanzitutto sul piano politico per agganciare il Partito popolare, l’altra forza di opposizione, e per aprire un dialogo con la Lega in vista di una controffensiva anti-Berlusconi. In quella fase, non ci muovevamo solo noi: basta ricordare la pressione di Berlusconi sul Partito popolare, che fu molto forte, tanto è vero che portò a una frattura e a una crisi drammatica del Ppi. D.  Quale era la riflessione che si aprì nel mondo cattolico? R.  Su iniziativa di un gruppo di intellettuali e di dirigenti cattolici – tra i protagonisti c’era Beniamino Andreatta – venne avanti l’idea di costruire in modo nuovo la prospettiva di un centrosinistra. La linea guida era quella di un movimento capace di federare diverse forze. Anche qui, dunque, vi era l’idea dell’Ulivo: mettere insieme la sinistra con la parte del mondo cattolico-democratico che si opponeva a Berlusconi. Questa operazione si mosse su due piani: quello dei rapporti politici, dunque del dialogo fra noi e il Ppi, e quello dell’innovazione, cioè dell’Ulivo come nuova forma federativa. All’origine, i due piani non erano contrapposti, perché era evidente che i partiti avrebbero concorso a essere loro stessi i soggetti che entravano nell’Ulivo e davano ad esso una forma di governo. D.  Questo, però, costituirà un punto di sofferenza. Con Prodi si vincono le elezioni, nasce il suo governo, si va verso l’euro, vengono prese misure positive per il Paese, ma viene avanti l’idea di un centrosinistra come formazione politica diversa da come la stai descrivendo. E D’Alema diventa punto di riferimento ostile di una parte di ulivisti radicali. R.  Facciamo un passo indietro. Noi arrivammo all’appuntamento elettorale attraverso un processo tormentato, ­38

con il tentativo di un governo Maccanico. Si tratta di passaggi che non furono facilmente compresi, anzi, a volte furono visti con diffidenza persino da Prodi. Ma si rivelarono fondamentali per vincere le elezioni. E le vincemmo perché non seguimmo la via dell’ulivismo radicale. C’era chi voleva che andassimo alle elezioni solo come Ulivo, ma così le avremmo perse. Invece Veltroni ed io, muovendoci in sintonia, stringemmo sia l’accordo con Rifondazione comunista – che gli ulivisti radicali non volevano – sia con Lamberto Dini. Intesa, quest’ultima, che fu considerata il massimo tradimento dell’Ulivo. Al contrario, ci portò alla vittoria. D.  Un anno dopo, nel marzo del ’97, tu fosti “processato” dagli intellettuali di area prodiana riuniti a Gargonza come portatore di una logica partitista contro la nuova cultura ulivista. R.  C’è un modo leggendario di ricostruire quei passaggi politici. La discussione di Gargonza fu molto interessante e significativa. Si partì sulla base di un’affermazione ideo­ logica: “l’Ulivo ha vinto contro i partiti”. Ora, anche se certamente i candidati dell’Ulivo nei collegi uninominali avevano ricevuto più voti di quelli avuti dai partiti nel proporzionale, l’assunto di fondo proposto a Gargonza era infondato e privo di verità. Avevamo vinto grazie all’accordo politico di desistenza con Rifondazione e all’accordo con Dini. Tuttavia, neppure questa strategia delle alleanze sarebbe stata sufficiente a darci la prevalenza se non fossimo riusciti, con un’operazione di altissima chirurgia politica, a indurre la Lega a rompere con Berlusconi. Tutti dimenticano la ferrea logica dei numeri: il 54% degli italiani votò per Berlusconi, Fini e Bossi, che non vinsero esclusivamente perché erano divisi. Nel ’96, quindi, loro ebbero un risultato elettorale superiore a quello che ottennero nel 2001, quando, effettivamente, vinsero le elezioni perché uniti. Il dibattito di Gargonza, come molte discussioni che ­39

ci hanno accompagnato nel corso degli anni fino a oggi, muove da un’analisi, a mio parere molto superficiale, della società italiana. Da una parte si dipinge una mitica società civile, dall’altra partiti corrotti e privi di idealità. Ma la società italiana è quella stessa che ha fatto più volte vincere le elezioni a Berlusconi. E i partiti, con tutte le loro contraddizioni, sono lo specchio della società. Dunque, questa contrapposizione tra politica cattiva e società buona si presenta, a volte, in forme grottesche e caricaturali. Prendiamo un altro tema, quello del rapporto tra magistratura e politica. La magistratura viene presentata come depositaria di tutte le virtù e custode dell’etica pubblica ben al di là del suo compito costituzionalmente stabilito. I politici, al contrario, sono il male. Ma come è possibile questa divaricazione antropologica tra persone che provengono dalle stesse famiglie, dalla stessa borghesia, dalle stesse università? E quando un pubblico ministero diventa deputato, cosa che accade sempre più spesso, rimane buono o diventa cattivo? È evidente che questa visione è profondamente influenzata da un pregiudizio qualunquista e antidemocratico contro la politica, il quale, d’altro canto, risulta essere un tratto radicato della cultura italiana che condiziona anche la sinistra. Il dibattito di allora fu fortemente ideologico e la realtà concreta dei rapporti di forza fu totalmente rimossa. D.  Tu non solo sei un politico di lunga esperienza, ma anche un analista e un intellettuale. Mi spieghi che cosa tiene assieme queste forze della sinistra radicale e dà loro anche la capacità di imporre una lettura ideologica del processo politico, modificando i dati della realtà? R.  Non li modifica, li rimuove. D.  Però queste idee si affermano in una parte del popolo dell’Ulivo... ­40

R.  Non sottovaluto l’apporto innovativo di forze intellettuali, non inquadrate nella politica tradizionale, alla svolta che si determinò con i governi dell’Ulivo. È evidente che la qualità delle personalità che scesero in campo fu importante. D’altro canto non abbiamo mai avuto una visione chiusa e autoreferenziale del ruolo dei partiti. Insomma, partiti e società civile sono state due componenti essenziali dell’esperienza dell’Ulivo, anche se spesso in un rapporto problematico tra di loro. D.  La novità è che questi gruppi di intellettuali non si muovevano alla cieca, ma trovavano una sponda in palazzo Chigi. La vittoria mutilata diventerà un refrain anche del prodismo. R.  Il ruolo di Prodi nella vittoria è indiscutibile. Tra diversi candidati ci apparve subito come la personalità maggiormente in grado di mettere insieme la sinistra e il mondo cattolico. La sua candidatura fu un indubbio valore aggiunto in tutta questa operazione di rilancio del centrosinistra. Prodi fu una novità, ma anche un elemento di rassicurazione per il Paese in virtù del suo passato. Non dimentichiamo che la sua forza fu l’essere stato ministro dei governi del vecchio centrosinistra e presidente dell’Iri. Sicuramente non era un uomo compromesso con il vecchio sistema, ma rappresentava un elemento di garanzia, di rassicurazione, proprio per la sua storia personale. La sua indicazione non fu un salto nel buio: era un uomo della classe dirigente del Paese e si sapeva che sarebbe stato in grado di rappresentare e di governare l’Italia. La nostra, tuttavia, fu un’operazione complessa, che dimostrò anche punti di fragilità, in particolare nel rapporto con Rifondazione comunista. Berlusconi li colse e capì che condizione per tornare a vincere sarebbe stata riallacciare i rapporti con la Lega, anche pagando il prezzo della rottura con una componente moderata, di matrice democristiana, che infatti si separò, raccogliendosi intorno a Francesco Cossiga. ­41

Tuttavia, l’alleanza tra Berlusconi e la Lega fu l’elemento chiave del quinquennio successivo, l’evento che ha cambiato lo scenario politico nazionale. D.  Pensi che quello che mancò al centrosinistra fu una politica verso la Lega? Si poteva, nel 2001, ripetere il miracolo di separare questo partito da Berlusconi come era accaduto nel ’96? R.  Il centrosinistra non andò male alle elezioni del 2001. Anzi, in termini di voti andò meglio rispetto al ’96. Ottenemmo più voti alle elezioni perse che a quelle vinte. È singolare, ma la spiegazione è tutta politica. Infatti, ciò che mutò nel 2001 fu il rapporto di forza tra i due schieramenti, che cambiò lo scenario politico italiano e caratterizzò gli anni a venire fino ai giorni nostri: per noi si trattò della rottura con Rifondazione, per Berlusconi dell’accordo con la Lega. Noi cercammo di intercettare il sentimento federalista della Lega con la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta da Veltroni. D’altra parte, anche noi ci ponevamo alcuni problemi di riforma dello Stato in senso federale, dunque si trattò di un tentativo che aveva una sua logica. Ma non fu sufficiente a convincere la Lega ad aprire un dialogo e a rinunciare all’asse con Berlusconi. E questo a dimostrazione che in realtà non è tanto il federalismo a caratterizzare l’identità leghista, quanto piuttosto un sentimento antistatale e una insofferenza nei confronti del regime fiscale e della solidarietà verso il Mezzogiorno. In più, il peso crescente della protesta contro l’immigrazione ha progressivamente radicalizzato verso destra il “popolo leghista”, ponendolo in contrapposizione con i valori propri della sinistra. D.  Eravamo partiti da Gargonza, e tu stavi dicendo che quel gruppo di politici e di intellettuali non coglieva i processi che si stavano già costruendo contro il centrosinistra. Prevalse invece nella discussione l’idea del nemico interno, ­42

del sabotatore, del pugno di ferro dei partiti rispetto alla nuova politica e al primato della società civile. R.  A Gargonza, e Arturo Parisi lo ripete ancora oggi, si processarono i partiti e il confronto tra i partiti. L’ossessione era combattere la cosiddetta pretesa arrogante dei partiti e della politica professionale di escludere i cittadini dalla vita politica. Io provengo da un grande partito che ha educato i cittadini a fare politica, certo non li ha esclusi. È proprio vero il contrario: attraverso i grandi partiti popolari i cittadini sono stati incitati alla partecipazione. Il tema vero di Gargonza era quella cultura nuovista che ci aveva portato alla sconfitta del ’94. Tutta l’analisi della società italiana si esauriva nella enfatizzazione dell’Ulivo e del nuovo che avanzava in contrapposizione ai vecchi partiti, che andavano messi da parte perché impedivano l’irruzione salvifica della società civile, forma considerata più nobile della politica. Era una chiave di lettura distorta della società, che, per avvalorarsi, doveva mettere da parte i risultati elettorali, cioè la fotografia concreta di quel che pensavano gli italiani. Ma così non funziona. In ogni caso, quell’analisi fu all’origine di una lunga discussione che, purtroppo, dura tuttora. D.  Tu eri nella trincea dello scontro fra l’idea di un Ulivo che soppiantasse i partiti e l’idea di un Ulivo che vivesse anche grazie a forti partiti popolari. Perché, durante il governo Prodi, lasciasti Botteghe Oscure per la presidenza della Bicamerale invece di dare alla sinistra il suo nuovo partito di massa? R.  Oggi penso che non aver privilegiato, in quella fase, l’esigenza della costruzione del partito sia stato l’errore principale che ho commesso. Perché la Bicamerale? Ero convinto che noi dovessimo fare tre cose: consolidare l’esperienza del centrosinistra, costruire un grande partito riformista di tipo europeo, quello che in Italia non c’era mai stato, e coinvolgere la destra in un accordo di tipo ­43

costituzionale per dare una base condivisa alla cosiddetta Seconda Repubblica. Erano le tre direttrici del nostro lavoro. Insisto sull’ultimo obiettivo, perché è decisivo per la democrazia italiana. Ricondurre la destra, quella destra che si andava aggregando in quegli anni, in un quadro di compromesso democratico per definire le nuove regole, le regole della Seconda Repubblica, rappresentava il terreno per la legittimazione reciproca, per creare un bipolarismo normale. Aggiungo che il confronto con Berlusconi e Gianfranco Fini nella ricerca di un nuovo accordo sulle regole fu un modo per aiutare Prodi. E infatti, nella fase iniziale, il suo governo poté sviluppare con pienezza e senza ostacoli la propria opera, che era molto complessa. L’Italia era impegnata a non perdere l’aggancio con l’Europa, si parlava di euro e di scelte difficili sotto il profilo dell’austerità. Tutto ciò fu possibile anche grazie al fatto che l’esistenza della Bicamerale aveva creato un clima, nei rapporti politici, in cui noi vincitori non ci mostravamo con il pugnale fra i denti. D.  Berlusconi era convinto della Bicamerale? R.  Berlusconi era convinto di poter diventare un padre della Patria, che la Bicamerale lo legittimasse. Anche Fini pensava per sé la stessa cosa. E nella mia visione era lo strumento per garantire un passaggio ordinato alla costruzione della Seconda Repubblica... D.  Sintetizzando: a chi parla di quegli anni come gli anni dell’“inciucio”, tu rispondi: ma che inciucio, volevo costituzionalizzare la destra. R.  Certo, questa era l’operazione. Oltretutto, applicavo il programma dell’Ulivo, nel quale, al primo punto, si sosteneva che noi, se avessimo vinto le elezioni, avremmo governato il Paese, ma avremmo scritto le regole insieme, attraverso una Bicamerale per le riforme costituzionali. ­44

Insomma, non avremmo fatto come la destra, che avrebbe imposto le proprie regole. Anche qui è stato rimosso tutto nelle ricostruzioni successive e nella battaglia politica. La verità è agli atti: la Bicamerale, se avesse avuto successo, sarebbe stata un’operazione positiva per il Paese. Basta pensare al superamento del bicameralismo perfetto, alla riduzione del numero dei parlamentari, al riordino della giurisdizione e a tanti altri nodi tuttora irrisolti, che ancora pesano sulla vita istituzionale e sociale del Paese. Il paradosso fu che, alla fine, anziché polemizzare con Berlusconi che impedì le riforme, anche nel centrosinistra si preferì criticare chi quelle riforme aveva cercato di farle. D.  La polemica di allora, come quella di oggi, dice che la Bicamerale sarebbe dovuta servire a impedire il varo di una legge sul conflitto di interessi per favorire una sorta di patto di stabilità con Berlusconi. R.  È falso. Durante i lavori della Bicamerale e sotto l’impulso del governo, che nominò Ernesto Bettinelli sottosegretario delegato a occuparsi di conflitto di interessi, la Camera discusse e approvò la legge nell’aprile del ’98. La Bicamerale non se ne occupò affatto, mentre si occupò del tema cruciale delle incompatibilità, che era la vera questione. E propose che i ricorsi di incompatibilità non fossero più affrontati dal Parlamento attraverso una propria giurisdizione interna, come è ancora oggi, ma fossero demandati alla Corte costituzionale. Quella sarebbe stata la norma che avrebbe affrontato alla radice la “questione Berlusconi”. Avrebbe evitato quello che accadde nel ’94, quando, di fronte al problema della sua eleggibilità, il Parlamento a maggioranza deliberò che Berlusconi fosse eleggibile, perché bisognava considerare ineleggibile il presidente del consiglio d’amministrazione di Fininvest, Fedele Confalonieri. Berlusconi, dunque, fu salvato perché non era il titolare di concessioni pubbliche, bensì l’azionista. Il racconto secondo cui la Bicamerale rinunciò ­45

a fare la legge sul conflitto di interessi non corrisponde alla verità e bisogna domandarsi come mai alcune leggende sia­no diventate verità rivelata, attraverso un’azione politico-propagandistica che è stata fortissima e che ha avvelenato la vicenda politica italiana. La Bicamerale, invece, trattò temi importanti, nessuno dei quali favorì Berlusconi. Io non mi occupai della legge sul conflitto di interessi, che seguì il suo iter alla Camera e venne approvata in una versione, secondo me, troppo blanda. Quando formai il mio governo, nel ’98, mi tenni a stretto contatto con Stefano Passigli, che, come relatore al Senato, si adoperò per rendere il testo arrivato dalla Camera più severo. Nel ’99 lo chiamai come sottosegretario per chiudere in maniera efficace e decisiva il problema del conflitto di interessi, provvedimento tanto più necessario dopo che era caduta la riforma costituzionale. Su questa base ci fu una dura battaglia al Senato, che si prolungò per l’ostruzionismo del centrodestra. Poi, dopo le elezioni regionali del 2000, cadde il governo e la riforma fu abbandonata. Insomma, se è certamente vero che non aver approvato una legge per il conflitto di interessi è stato un errore del centrosinistra e della sua classe dirigente, è certamente falso che questo sia avvenuto per colpa mia. Anzi, io sono quello che ci ha provato più seriamente di tutti. D.  E perché Berlusconi cambiò idea sulla Bicamerale e la affossò? R.  A un certo punto, Berlusconi si convinse che per lui la Bicamerale avrebbe potuto rappresentare una trappola. Questo fu un elemento di divisione con Fini, che voleva una destra politica e dunque aveva interesse a una sua costituzionalizzazione. Berlusconi, invece, realizzò che il compromesso costituzionale con il centrosinistra lo avrebbe evirato di quella carica antipolitica, anticostituzionale, antistatale che era la sua forza soprattutto al Nord, rischiando di indebolire il suo rapporto con la Lega. Capì ­46

che accettando le regole del gioco, e contribuendo a riscriverle, avrebbe rischiato di perdere una parte del suo elettorato e così cambiò repentinamente la sua posizione. Approvò il progetto della Bicamerale, rivendicandolo come “prova di responsabilità e di senso dello Stato”. E concluse con parole retoriche che restano scolpite: «È stato bello e importante esserci». Dopo due mesi passò all’attacco e buttò tutto per aria. D.  Insomma la tua tesi è che la Bicamerale faceva bene al governo e non conveniva al Berlusconi di lotta in vista della sua rivincita. R.  Sì. Berlusconi si rilanciò con la rottura della Bicamerale. I suoi consiglieri gli dissero che la Bicamerale lo stava soffocando. Anzi, gli dissero: «Ti sta soffocando D’Alema». In quei mesi, durante i lavori della Commissione, ci fu la massima espansione del centrosinistra con la vittoria delle amministrative e l’affermarsi, anche nei sondaggi, del governo Prodi, che visse il momento più alto di popolarità. I nostri teorici dello scontro frontale, allora come adesso, dovrebbero tener conto sia del fatto che con quella rottura Berlusconi si sarebbe rilanciato, sia del fatto che con lui c’era la maggioranza del Paese. Costituzionalizzare la destra non era un’idea politicista, ma era un problema di tenuta del sistema democratico. Si trattava di misurarsi con la maggioranza del Paese. Con il venir meno della Bicamerale, e dopo il passaggio all’euro, ci fu comunque un cambiamento di fase politica, un brusco cambiamento... D.  Infatti cadde Prodi. Fu un errore suo, una naturale conseguenza dell’esaurimento di una fase politica, un complotto che ti vide protagonista? R.  Procediamo con ordine. Eravamo in un momento di cambiamento del clima politico e cominciava a manifestarsi una difficoltà per il governo. Se si vanno a vedere i ­47

sondaggi dell’epoca, la caduta di Prodi avvenne nel momento in cui ci fu una tendenza alla perdita di consensi nel Paese. Esaurita la fase dei sacrifici e dell’euro, che aveva visto una grande mobilitazione e l’emergere di un sussulto di orgoglio nazionale, i cittadini si aspettavano dei risultati, c’era una forte sofferenza. Se non si ricorda questo, non si capisce la reazione di Fausto Bertinotti, che cominciò, proprio in quel momento, a prendere le distanze dal governo, perché avvertì un cambiamento di umore nell’elettorato popolare. Chiusa la Bicamerale, sul piano politico si aprì uno scontro aspro con la destra, mentre, dal punto di vista sociale, emerse la domanda di un Paese che dopo i sacrifici chiedeva più occupazione e più benessere. Di fronte a tutto ciò si percepiva una grande incertezza. In questo contesto, si aprì un dibattito sulla necessità di una “fase due” nell’azione di governo. D.  La caduta di Prodi, quindi, era scritta? Ci fu una sua responsabilità nella gestione infelice della crisi del suo governo? R.  Guarda, la caduta di Prodi, dal punto di vista politico, è una vicenda semplice... D.  Non dimenticare che sei indicato come il responsabile principale del decesso, mi dovresti dare una risposta convincente. R.  La caduta di Prodi nasce dalla decisione della rottura da parte di Bertinotti. D.  Sulle 35 ore... R.  Le 35 ore furono un pretesto. La decisione di rompere fu presa a monte. Bertinotti era convinto che il suo mondo e il suo elettorato non comprendessero più le ragioni del sostegno al governo e che il suo partito si stesse consumando in un ruolo che non gli era proprio. Ci fu ­48

un confronto serrato. Bertinotti stesso, prima di rompere, profilò la possibilità di un cambiamento di fase, addirittura con la sostituzione del presidente del Consiglio. Ne parlai con Franco Marini e insieme gli dicemmo che la sua era una mossa completamente sbagliata. Fu un periodo di accese discussioni, ma noi ci battemmo per tenere Prodi lì dov’era. Ogni altra interpretazione è falsa. Falsa e con aspetti carogneschi. Il dato politico era evidente: non era più possibile andare avanti con l’alleanza con Rifondazione, perché Bertinotti era pronto a pagare un prezzo molto alto, quello di una scissione interna, pur di rompere con il governo. La coalizione che aveva vinto le elezioni non c’era più. Si poteva andare avanti solo allargando al centro la maggioranza parlamentare per sostituire quella parte di Rifondazione che non intendeva più appoggiare l’esecutivo. Nel frattempo, infatti, si era determinata una crisi della parte più moderata del centrodestra. Intorno a Cossiga era nato l’Udr, un movimento di parlamentari che si erano distaccati da quello schieramento, che volevano collaborare con il governo, che avevano votato a favore del Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (Dpef), e si erano espressi a sostegno della missione “Alba” promossa da Prodi in Albania. Erano atti parlamentari impegnativi, bisognava registrare l’esistenza di un soggetto politico nuovo, un nuovo raggruppamento apertamente disponibile a collaborare con il governo. D.  Prodi però non era convinto. R.  La situazione precipitò. Con una iniziativa inopinata, il governo Prodi scelse di andare al braccio di ferro parlamentare ponendo la fiducia su un emendamento alla finanziaria. D.  Ma non mi hai detto quale fu il tuo ruolo in quei giorni che, secondo la leggenda metropolitana, passasti a complottare contro Prodi... ­49

R.  Ristabilire la verità comporta il racconto di una vicenda personale difficile. Quei giorni furono molto complicati, perché fui costretto ad allontanarmi dai miei compiti istituzionali. Mia moglie Linda dovette sottoporsi a un delicato intervento chirurgico e la ricostruzione falsificata di quel periodo la trovo tuttora dolorosa e irritante. Starle accanto, in quei giorni, è stata la mia priorità. A quello mi dedicai per tutto il tempo. Chi ha avuto esperienze di vita simili, sa di cosa parlo e quanto queste vicende ti coinvolgano, stravolgendo le tue giornate. Per sdrammatizzare, oggi posso dire che, paradossalmente, il fatto di non aver potuto “complottare” probabilmente è una delle ragioni per cui cadde il governo, visto che avrei complottato a favore di Prodi. Ma torniamo alla politica. Quando il governo decise di porre la fiducia, sapeva di non avere i numeri. Ci fu tutto un tourbillon di calcoli improvvisati, che ruotavano attorno al fatto che il cognato di Di Pietro, che era dell’Udc, avrebbe votato a favore, che Irene Pivetti avrebbe fatto lo stesso.... C’erano in attività strateghi che costruivano scenari sulla conquista di singoli deputati che avrebbero potuto garantire la sopravvivenza al governo senza negoziati e cambi di maggioranza. D.  Preferirono un negoziato obliquo a un negoziato aperto... R.  Questo accadde. Non si voleva fare un’operazione politica con Cossiga, perché la si considerava snaturante. Il ragionamento era molto simile al modo in cui Berlusconi, successivamente, concepì il rapporto con il Parlamento. Mi riferisco all’idea secondo cui il capo del governo, in quanto eletto dal popolo, dovesse ingaggiare una sfida continua con il Parlamento. Questa era la cultura, l’idea istituzionale che era alla base di quel ragionamento: se il capo del governo è eletto dalla volontà popolare, se il bipolarismo è questo, quando il governo non ha più la fiducia si va a elezioni anticipate. Prendeva corpo l’idea che fossimo ­50

oltre la dimensione di una democrazia parlamentare. Una sorta di presidenzialismo di fatto senza regole e senza garanzie: una prospettiva che a me parve immediatamente avventurosa. Per di più, gli strateghi del governo dicevano di aver fatto bene i conti, anche in vista delle elezioni, non accorgendosi che la destra aveva la maggioranza del Paese. Questo mondo radical-ulivista con i conti ha sempre avuto un rapporto singolare... Io, quando tornai in piena attività dopo quei giorni interamente dedicati alla mia famiglia, mi preoccupai di salvare il governo Prodi. Un anno prima, quando Bertinotti aveva già minacciato di non votare la finanziaria del ’97, ci fu una forte protesta nel Paese, lui rimase completamente isolato e fu costretto a rimettersi in riga. Ricordo che eravamo insieme alla Marcia della Pace Perugia-Assisi e che Fausto fu oggetto di pesanti contestazioni da parte di alcuni manifestanti. In quella situazione le elezioni le avremmo stravinte. Ma nel ’98 la situazione politica era diversa e, soprattutto, la prospettiva elettorale non era neppure plausibile per ragioni internazionali. In seguito alla crisi nei Balcani, infatti, lo stesso governo Prodi aveva emanato l’“Activation Order”, ossia la decisione con la quale un governo membro dell’Alleanza atlantica mette a disposizione del comando generale le proprie Forze armate. Insomma, eravamo in una condizione di grave crisi internazionale, in una possibile fase prebellica, durante la quale il presidente Scalfaro, con cui ho sempre avuto un ottimo rapporto, non avrebbe mai sciolto le Camere. Oltretutto Scalfaro, convinto parlamentarista, aveva già negato a Berlusconi le elezioni anticipate nel ’95, imponendogli il governo Dini. Non avrebbe, quindi, mai concesso a Prodi ciò che aveva negato a Berlusconi, anche per ragioni di coerenza. D.  Qui c’è l’intervento di Cossiga... R.  Cercammo di salvare il governo Prodi chiedendo a Cossiga di votare a favore dell’esecutivo. Era l’unica ini­51

ziativa politica possibile, in grado di liberarci da trattative private, quelle con i singoli deputati. L’Udr, come ho detto prima, aveva sostenuto il Dpef, dunque non ci sarebbe stato neppure da stupirsi se avesse appoggiato il governo. Parliamoci chiaro: Cossiga aveva una forte avversione nei confronti di Prodi e non ne faceva mistero. Inizialmente resistette alle nostre richieste e mandai come emissario, per convincerlo, Marco Minniti. Alla fine raggiungemmo un accordo. Cossiga e i suoi ci fecero sapere che per loro sarebbe stato sufficiente che Prodi chiedesse il voto delle forze politiche parlamentari a favore del Dpef. Insomma, serviva un atto politico, non una grande dichiarazione. Non scordiamoci che tutto ciò avveniva in una condizione di emergenza. Ci eravamo mossi tardi, adesso bisognava rapidamente trovare una via di uscita. Si decise di chiedere a Luciano Violante, che presiedeva la Camera, di consentire al presidente del Consiglio, nella fase finale, a conclusione del voto, di fare una breve dichiarazione. Questa avrebbe dovuto essere la dichiarazione con cui Prodi chiedeva al Parlamento il voto di fiducia. Ma nel frattempo Prodi consultò i suoi collaboratori che, evidentemente, lo sconsigliarono di prendere la parola. E così fece. Ho visto recentemente le immagini televisive dell’Aula, nelle quali c’è il presidente della Camera che chiede a Prodi: «Lei intende fare una dichiarazione?». E lui, dando le spalle alla Presidenza, senza neanche voltarsi, fa segno con la mano di no. Il governo cadde, nonostante avessimo “complottato” fino all’ultimo per salvarlo. Tutto questo è noto e non dovrebbe essere un segreto per i protagonisti di allora. D.  Ma Prodi scelse di aprire subito un fronte interno all’Ulivo con un vibrante discorso a Bologna... R.  Lui riteneva che noi lo avessimo logorato, che non avessimo spalleggiato la sua volontà di andare alle elezioni, ma la sua polemica non aveva fondamento. Prodi rifiutò ogni compromesso nel nome di una concezione ­52

del bipolarismo inteso come democrazia diretta e presidenzialismo di fatto. Ma noi non siamo mai usciti dalla democrazia parlamentare e il cambio della legge elettorale non toccava la forma di governo né, quindi, il potere del Parlamento di cambiare governo e maggioranza. Questo è un punto di fondo della vicenda italiana di questi vent’anni, perché, paradossalmente, l’idea che la Seconda Repubblica si fondasse su una sorta di presidenzialismo basato sulla legge elettorale maggioritaria ha accomunato Berlusconi e l’ulivismo radicale, e ha influenzato profondamente il modo di pensare di una larga parte dell’opinione pubblica. Anche Berlusconi, quando si costituì il mio governo, scelse subito la via di una campagna di delegittimazione, nonostante l’esecutivo fosse pienamente legittimo dal punto di vista costituzionale. Insisto, il contrasto tra la Costituzione vigente e la cosiddetta Costituzione materiale interpretata in chiave presidenzialistica è stato uno degli elementi fondamentali di fragilità del sistema democratico della Seconda Repubblica. Ed è tuttora un nodo irrisolto dell’assetto istituzionale del Paese.

Capitolo 3

Le cose buone di un governo che non dovevo fare

D.  Caduto Prodi, su quale ipotesi lavoraste prima di arrivare all’indicazione del tuo nome? R.  Si aprì una fase complicata. La mia idea era quella di un governo presieduto da Ciampi. Cercai di portare avanti questo progetto e ne parlai con lui. Discutemmo lungamente dell’impostazione da dare al nuovo esecutivo, anche perché c’erano da mettere in pratica le misure per l’entrata in vigore dell’euro. D.  Ciampi ha recentemente dichiarato che gli parlasti ma poi non lo cercasti più... R.  Non c’è stata alcuna incomprensione con Ciampi, al punto che quando formai il governo accettò di farne parte. D.  Prodi intanto? R.  Nel momento in cui il capo dello Stato era sul punto di dare l’incarico a Ciampi, Prodi lo chiese per sé, e lo ottenne. Cossiga approfittò di questo passaggio per lanciare un siluro contro Ciampi con dichiarazioni micidiali sui giornali. Fu a quel punto che Cossiga andò verso l’unica ipotesi di governo che, dichiarò, avrebbe sostenuto: un governo presieduto da me. Scalfaro, a sua volta, fu molto ­54

netto e ci disse: se non siete in grado di formare un governo di centrosinistra, do l’incarico a Nicola Mancino, presidente del Senato, di formare un governo istituzionale, perché c’è il rischio della guerra ed è impensabile andare a elezioni in queste condizioni. Fu questa la vera scelta che avevamo di fronte. Si riunì il gruppo dirigente del centrosinistra e Veltroni, con l’appoggio di Prodi, si fece protagonista di questa operazione. La verità storica, dunque, è che i dirigenti dell’Ulivo sostennero che l’unico modo per salvare il bipolarismo ed evitare di precipitare in un governo di tutti, istituzionale, fosse dare l’incarico a D’Alema come segretario del principale partito della maggioranza. Il mio incarico, così, fu dato su richiesta dell’Ulivo. D.  Come ti spieghi che questa designazione è unanime e poi, nel centrosinistra, parte subito, appena tu cominci a fare il presidente del Consiglio, la campagna su D’Alema che ha usurpato il posto di Prodi? R.  Sì, partì una campagna di questo tipo, anche se alcuni dei principali collaboratori di Prodi entrarono nel governo con funzioni importanti, penso a Enrico Micheli e Paolo De Castro. Nonostante questo, cominciò un’azione sotterranea che ha lasciato una traccia profonda. D.  Ripeto la domanda che ti ho fatto a proposito della Bicamerale. Hai riflettuto su quella tua scelta: facesti bene o fu un errore? R.  Penso di avere sbagliato. Ho sbagliato ad aver accettato di formare il governo. D.  Che cosa avresti dovuto fare? R.  Avrei dovuto puntare i piedi per un governo Ciampi che non aprisse il varco a tutta la storia del complotto. Ho sot­55

tovalutato l’elemento di frattura e di logoramento che ci sarebbe stato all’interno del centrosinistra con la mia nomina a premier. Fu un impatto fortissimo, che proseguì nel corso degli anni, indebolendo il nostro partito, il quale pagò quella scelta. Lo ripeto: non avrei dovuto formare il governo in quel momento, avrei dovuto insistere per un’altra soluzione. D.  Ma il governo lo facesti e mi interessa capire che cosa ti spinse ad accettare: il senso di responsabilità, una legittima ambizione o che altro? R.  Ebbi molte pressioni, anzitutto dalle grandi forze sociali, i sindacati e Confindustria, che ci dicevano: occorre un governo forte, è il vostro momento. E poi sì, volli anche mettermi alla prova. In più giocò il dato storico che affascinava Cossiga, e cioè il fatto che per la prima volta un uomo politico del gruppo dirigente del Pci formasse il governo del Paese. A cose viste, fu certamente un errore e l’idea di avere sbagliato mi ha condizionato. È una delle ragioni per cui, dopo le elezioni regionali, me ne andai. D.  Giusta o sbagliata sia stata la tua scelta di guidare il governo, quella scelta hai compiuto, ed è stata una stagione breve, ma ricca di importanti fatti politici sia interni che internazionali. Anche in questa fase vi sono stati passaggi difficili di cui, a volte, è stata data una lettura controversa. A cominciare dalla composizione dell’esecutivo. R.  La formazione del governo fu un’operazione abbastanza rapida. Si presentarono subito significative difficoltà, ma, nel complesso, riuscii a costituire un governo in gran parte sulla base delle mie scelte personali. Insomma, l’iniziativa fu mia. A Clemente Mastella spiegai le ragioni per cui non avrebbe fatto parte della compagine governativa e lui non fece una piega. Addirittura accettò l’idea, che sembrò eccentrica, dell’entrata nel governo di Letizia Moratti come ministra delle Telecomunicazioni. ­56

D.  E come andò la trattativa? R.  Lei rifiutò. Devo dire che fu molto corretta, perché mi spiegò che era una donna di destra e non poteva accettare di entrare in un governo di centrosinistra. Mi sarebbe piaciuto fare un governo con un numero di donne pari a quello degli uomini, ma non mi riuscì. Nonostante questo, ne fece parte il numero più alto nella storia della Repubblica: sette. Oltre a Letizia Moratti, pensai a Emma Bonino, ma Marco Pannella si oppose dicendo che se i radicali avessero deciso di entrare al governo, il candidato naturale sarebbe stato lui. Gli risposi che non era questo lo spirito della mia proposta, perché non pensavo ai partiti e ai loro leader, ma alle personalità, soprattutto a quelle femminili. Proposi anche il nome di Ersilia Salvato come ministra della Giustizia, ma Armando Cossutta non volle e dovetti accettare l’ingresso nell’esecutivo di Oliviero Diliberto. Anche l’indicazione di Rosa Russo Jervolino come ministra dell’Interno fu una mia idea, non mi fu imposta dal Partito popolare. Ti ho già detto che volli cercare i ministri anche nell’area prodiana e feci i nomi di Micheli e di De Castro. C’è anche un episodio divertente a proposito di De Castro, perché telefonai al suo cellulare per chiedergli se volesse entrare nel governo mentre lui era con Prodi e altri prodiani a cena per una sorta di incontro di commiato. De Castro rispose al telefono, ma credette di essere vittima di uno scherzo e riattaccò. Dovetti chiamare e richiamare per convincerlo che ero proprio io, che non si trattava di uno scherzo e che veramente volevo nominarlo ministro. Poi ci fu l’episodio del sottosegretario che veniva dal Movimento sociale, Romano Misserville, una bravissima persona, che si dimise dopo il clamore provocato dalla sua nomina. Il governo fu costituito così. Fu una mia ricerca, furono scelte mie. D.  Quale fu il primo compito che ti assegnasti? ­57

R.  Il primo compito che il governo ebbe di fronte, a parte la difficile crisi internazionale, fu quello di aprire una “fase due”, quel passaggio che si era presentato allo stesso governo Prodi dopo l’entrata nell’euro e la dura stagione dei sacrifici. Dovevamo mettere l’accento sulla crescita economica, in particolare imprimere una svolta per far compiere al Paese un salto di qualità. Una delle questioni cruciali era il rapporto tra le forze sociali. Partivo dall’idea che il patto tra Ciampi e i sindacati contro l’inflazione e per il risanamento avesse dato buoni risultati, ma entravamo in una fase in cui la sfida vera era su competitività e crescita. In quest’ottica, bisognava aggiornare anche il sistema delle relazioni sociali, puntando a un sistema aperto, più flessibile. E, infatti, furono introdotte alcune forme di flessibilità, si parlò di lavoro interinale e di altri temi impegnativi che sono ancora oggi al centro del dibattito politico. In quel momento proposi anche una riforma del sistema contrattuale. Il problema, oggi, è che sono stati toccati equilibri senza una visione d’insieme. Accanto a forme di flessibilità, necessarie per rispondere a una grande crisi occupazionale, che investiva e investe in particolare le nuove generazioni, non sono state introdotte forme di tutela adeguate. E questa è una mancanza a cui bisogna far fronte con urgenza. D.  Il rapporto con il sindacato fu alterno e complesso, ma quello con gli imprenditori? R.  Con Giorgio Fossa, allora presidente di Confindustria, avevo un rapporto normale. Non notai ostilità preconcette da quel mondo, dal quale mi vennero anche significativi incoraggiamenti. Marco Tronchetti Provera, ad esempio, dichiarò in un’intervista l’interesse per la fase che si stava aprendo e lo stesso Gianni Agnelli votò al Senato la fiducia. Fu, quello, uno dei passaggi più incredibili della mia vita, perché nei miei anni giovanili mai avrei potuto immaginare di fare il presidente del Consiglio, tantomeno che “la chiama” del Senato per la fiducia ini­58

ziasse con Agnelli e Andreotti che votavano a favore del mio governo! Così, un altro grande personaggio con cui io e il mio mondo ci eravamo scontrati, Francesco Cossiga, era parte della maggioranza. Il vecchio presidente si avvicinò al banco del governo e mi regalò un bambolotto di zucchero, dicendomi: «Così non interromperai la tradizione dei comunisti che mangiano i bambini». Questo era il clima! D.  Sempre geniale Cossiga. Torniamo invece alle cose che iniziasti a fare come premier... R.  Il tentativo più ambizioso, che riuscì solo in parte per molte opposizioni di carattere sociale, fu quello di completare la riforma delle pensioni con un passaggio accelerato al sistema contributivo. In verità si oppose soprattutto la Cisl, ma con pari determinazione anche Confindustria, che fu posta di fronte alla necessità di bilanciare il cambiamento del sistema di calcolo delle pensioni con lo svincolo del trattamento di fine rapporto (tfr), per creare i fondi pensione. Le imprese resistettero all’idea di intervenire drasticamente sulla disponibilità del tfr e, quindi, si opposero. L’altro campo di iniziativa riguardava la contrattazione. Noi lavoravamo sull’idea di ridurre il peso del contratto nazionale a vantaggio della contrattazione decentrata, in funzione di un nuovo sistema di relazioni che favorisse l’articolazione e la competitività delle imprese. Secondo me, così avremmo assicurato una migliore tutela dei salari legandoli alla produttività e al territorio, e non vincolandoli solo allo schema dei contratti nazionali, che avevano funzionato benissimo nella fase della lotta all’inflazione. D.  Qui avesti il no della Cgil... R.  Sì, ci fu l’opposizione della Cgil. D’altro canto, su questi temi, un anno prima, al Congresso dell’Eur del Pds, ­59

si era manifestato apertamente il contrasto con Sergio Cofferati. Questa resta, a mio giudizio, una responsabilità del gruppo dirigente sindacale, che avrebbe potuto favorire per tempo cambiamenti che, successivamente, ha dovuto subire in condizioni ben più negative per i lavoratori e per il Paese. Ma quello che voglio descrivere è un quadro assai articolato di proposte e di iniziative che, se accettate, avrebbero cambiato il nostro dibattito pubblico di quegli anni e di quelli successivi. Pensammo, in modo particolare, a una serie di misure per favorire la crescita dimensionale delle imprese. Ad esempio la proposta, per quelle che avessero superato i 15 dipendenti, di poter mantenere lo status giuridico precedente per uno o due anni, ivi compresa la non applicazione dell’articolo 18. L’idea era quella che, se l’impresa si fosse consolidata, crescendo come dimensione e come numero di occupati, sarebbe potuta passare ad altro regime. D.  Cofferati ti sbarrò la strada? R.  Non è esatta questa rappresentazione. Ci fu certamente una rigidità della Cgil sulla riforma del sistema contrattuale, ma su differenti aspetti furono altre forze sociali a porre ostacoli e problemi. In ogni caso, alla fine del ’98, si raggiunse un accordo con tutte le forze sociali che è considerato tuttora molto avanzato e che conteneva scelte importanti a sostegno della crescita. Credo che quel periodo sia stato positivo anche da altri punti di vista. Ad esempio, secondo i dati Istat, è stata toccata la soglia minima di spesa pubblica dell’ultimo quarantennio. In particolare, la spesa pubblica corrente si attestò a un livello pari al 46,2% del Pil. Nello stesso tempo, la quota di spesa per investimenti nel Mezzogiorno è stata la più alta di tutto il Dopoguerra, con una crescita, secondo i dati del ministero del Tesoro, del 25% tra il 1998 e la metà del 2000. Insomma, raggiungemmo buoni risultati in termini di crescita dell’economia e dell’occupazione. ­60

Recentemente è uscito un rapporto Bloomberg sull’andamento del debito pro capite degli italiani. Ebbene lo studio, che parte dal ’95, dimostra che esso è cresciuto del 4,8% con il primo governo Berlusconi, del 2,1% con il governo Dini e del 3,8% con il primo governo Prodi. Quando ero presidente del Consiglio, invece, il debito pro capite è calato dello 0,7%. Poi con il governo Amato è aumentato di nuovo dello 0,8%, fino ad arrivare a +2% sotto il governo Berlusconi. Con Padoa Schioppa alle Finanze tornò a scendere (-0,4%). Infine, nel secondo governo Berlusconi si è registrata una risalita che toccò il 6,9%. Questa è stata la storia più recente del debito italiano. Nulla è più ingiusto di una condanna indifferenziata della politica e l’analisi dei dati dimostra che il centrosinistra ha saputo garantire in modo incomparabile il rigore finanziario e il rispetto degli impegni internazionali del Paese. E Bloomberg è certamente un osservatore che non è sospettabile di avere simpatie per la sinistra. D.  Qualcuno ti ha fatto i complimenti per questo? R.  Agnelli mi disse una volta: «Lei ha fatto benissimo il presidente del Consiglio, ma non glielo riconosceranno mai. L’establishment non ha simpatia per lei, perché la percepisce ostile». D.  Era vero? R.  È vero anche oggi. Il ceto economico dominante non ha simpatia per l’idea dell’indipendenza e persino del primato della politica. A questo si aggiunge una storica diffidenza verso la sinistra. È evidente che in me questi due aspetti si sommano e ciò crea un grande fastidio. D.  Però, malgrado l’accordo di fine anno, il governo sembrò ansimare... ­61

R.  Quel governo ha sofferto per la debolezza politica della sua genesi. Fu messa immediatamente in discussione la sua legittimità, non solo da Berlusconi, che su questo fece una campagna propagandistica, ma anche all’interno del centrosinistra. D.  Poi ci fu la ferita della guerra. Tu applicasti una decisione già presa? R.  La decisione presa dal governo Prodi fu una sorta di preallarme: come ho spiegato prima, l’“Activation Order” consiste nella messa a disposizione delle Forze armate nei confronti della Nato. La decisione di agire militarmente e di impegnare l’Italia fu politica e venne presa successivamente. Infatti, non c’era unanimità nelle diverse Cancellerie europee. Vi fu indubbiamente una grande pressione americana e inglese, una certa resistenza dei francesi, e soprattutto la resistenza dei tedeschi e nostra. Ma la scena cambiò, perché le notizie sugli eccidi si susseguivano con le immagini terribili delle sofferenze che pativano le popolazioni civili. A quel punto divenne chiaro che un’azione militare diretta da parte della Nato non era più evitabile. E non poteva che essere la Nato a guidarla, perché in sede Onu persisteva il blocco russo-cinese, ostile all’intervento. Poi fummo messi di fronte all’invasione massiccia del Kosovo da parte delle forze armate serbe, che provocò un esodo di massa per sfuggire alla pulizia etnica. La situazione precipitò. Ricordo che andai tra l’Albania e il Kosovo, dove l’Italia era impegnata in iniziative di solidarietà, e vidi questo fiume di persone che si riversava oltre il confine, con la gente ferita e smarrita che chiedeva aiuto. Si percepiva la tragedia di tutto un popolo. Fu allora che mi convinsi che non si poteva far altro che intervenire. D.  Non ti ponesti il problema che una parte del tuo mondo, del nostro mondo, non avrebbe capito? ­62

R.  Fu una scelta molto sofferta, alla quale mi arresi proprio alla fine. Chiara Ingrao, figlia di Pietro, è stata una leader del movimento pacifista. In quel periodo mi faceva da interprete e mi ha sempre rimproverato, dopo quella stagione, di non aver mai rivendicato verso i pacifisti tutti i tentativi fatti per cercare di evitare che si arrivasse alla guerra. Ad esempio, ricordo che, dopo una serie di incontri con inglesi e americani, organizzai un appuntamento riservato con Milan Milutinović. Approfittai del fatto che avevamo lo stesso dentista che ha una storia che si intreccia con quella dei due Paesi. Il nostro dentista, infatti, è figlio di un antifascista che era scappato in Jugoslavia, era cresciuto lì ed era molto legato a quel mondo. Sapevo che Milutinović veniva di nascosto a Roma per curarsi e così feci in modo di incontrarlo dal dentista. Ebbi con lui una lunga conversazione. Era presidente della Serbia nel momento in cui Slobodan Milosević era presidente della Federazione. Non c’era, da parte sua, nessuna volontà di trovare un compromesso e mi resi conto che non restava che l’intervento militare. E mi presi le mie responsabilità. La guerra è qualcosa che mai un uomo politico deve augurarsi di dover fare, ma – quando c’è – si deve assumere le proprie responsabilità. Non può dire “non volevo”, “mi hanno costretto”, come ha fatto Berlusconi per l’Iraq o con la Libia. D.  Tu racconti una scelta sofferta, ma ci fu una componente del centrosinistra che si mostrava più entusiasta, esaltando la guerra etica... R.  Sono sempre stato contrario, in generale, all’esaltazione della guerra e trovo il concetto di “guerra etica” controverso e ambiguo. Non bisogna dimenticare, per essere precisi, che noi non abbiamo scatenato un conflitto. La guerra c’era. Anzi, se consideriamo la guerra civile balcanica nel suo complesso, bisogna dire che questa aveva già seminato 300.000 morti. Noi siamo intervenuti militarmente per porre fine al massacro. Il ricorso all’uso ­63

della forza è sempre una scelta estrema e dolorosa, può essere ammesso solo in casi eccezionali, quando si tratta di difendere la vita, la sicurezza, i diritti umani di migliaia, se non milioni di persone. È un principio molto delicato da maneggiare. E, in questo senso, non può essere negato o escluso in via pregiudiziale. Naturalmente, vi si può ricorrere solo quando siano stati esperiti senza successo tutti gli strumenti e le sanzioni previsti dalla Carta dell’Onu per la risoluzione pacifica dei conflitti. In quella situazione si aprì un dibattito molto importante sul concetto di “Responsibility to protect”, e cioè sul diritto della comunità internazionale a intervenire anche violando il principio di sovranità degli Stati. Io credo che questo diritto vi sia, ma è chiaro che occorre valutare l’entità della minaccia e, quindi, misurare la proporzionalità nell’uso della forza. In secondo luogo, rimane fondamentale la legittimazione internazionale, che in linea di principio dovrebbe venire dalle Nazioni Unite. Purtroppo nel caso del Kosovo ciò non fu possibile e purtroppo l’incapacità di decidere da parte dell’Onu si manifesta spesso, perché paralizzata dai veti delle potenze. Infine, è molto importante che possa applicarsi un unico standard, il che non è sempre agevole, soprattutto quando si ha a che fare con grandi potenze che, ad esempio, dispongano di armi nucleari. Come si vede, si tratta di una questione molto complessa, che non si presta a facili e retoriche semplificazioni. In definitiva, c’è una responsabilità della politica, che è quella di valutare le situazioni concrete e di scegliere le vie realisticamente praticabili. Si deve poter accettare di dover utilizzare la forza quando è in gioco la vita di un gran numero di persone e non c’è altro modo per salvarle. D.  Avesti una piena sintonia con gli americani? R.  Il conflitto fu una vicenda complessa. Rendemmo chiaro agli americani che l’Italia si sarebbe assunta le sue responsabilità, che lo avrebbe fatto con convinzione e con ­64

la coscienza tranquilla, ma che loro si sarebbero illusi se avessero pensato di risolvere tutto dopo qualche ora di bombardamento perché i serbi avrebbero rapidamente ceduto. In gioco c’erano la storia e i sentimenti sedimentati nei secoli in quel conflitto atroce. Il Kosovo, infatti, toccava qualcosa di molto profondo della identità e della radice nazionale dei serbi: era la culla della loro civiltà. Poi furono costretti ad andare a nord, perché persero la battaglia con i turchi. Gli americani hanno una civiltà in cui il rapporto tra storia millenaria, sangue e territorio non è così forte come nel nostro continente. Forse per questo quella storia a loro sembrava antica e lontana, e tendevano a minimizzare. Certo, è vero che oggi il Kosovo è abitato dagli albanesi, ma tanto tempo fa quegli albanesi erano i musulmani che venivano da sud come invasori. Ecco perché, a mio giudizio, i serbi non se ne sarebbero andati facilmente. Nei Balcani era accaduto qualcosa di incredibile: le linee di demarcazione tra cattolici, ortodossi e musulmani, che erano state per secoli i confini delle guerre balcaniche, tornavano a esserlo alla fine del secondo millennio. Popoli riprendevano ad ammazzarsi per ragioni etnico-religiose, come se centinaia di anni di storia fossero passati invano. Era un fatto impressionante ed era prevedibile che sarebbe stato un conflitto lungo e sofferto. Così si aprì, fin dal primo momento, una delicata discussione sui possibili esiti. Fu presente sin dall’inizio un’opzione esclusivamente militare, secondo la quale bisognava vincere la guerra. Un’altra parte, noi compresi, si opponeva invece a questa ipotesi, sostenendo che bisognasse sviluppare una pressione militare per indurre i serbi a ritirarsi dal Kosovo. D.  Questa era la tua posizione. Mi puoi raccontare questo confronto strategico con gli americani? R.  In occasione del cinquantesimo anniversario della Nato, celebrato a Washington, si arrivò a un confronto ­65

cruciale. I bombardamenti duravano oramai da quasi due mesi senza che si intravedesse una via d’uscita. Fu a questo punto che venne avanzata la proposta di un’invasione di terra. Il generale Wesley Clark, a capo della missione “Allied Force”, precisò subito che l’operazione militare avrebbe dovuto portare a una vera e propria invasione della Serbia, perché impegnare i militari della Nato a combattere sulle montagne del Kosovo sarebbe stato rischioso e non risolutivo. D.  Era questa anche la tesi di Bill Clinton? R.  Questa tesi fu sostenuta da Blair e da Aznar. Clinton disse: «C’è quest’ipotesi, discutiamone apertamente». Ci opponemmo Schroeder, Chirac ed io stesso, facendolo con molta veemenza, perché ci sembrò subito una prospettiva folle. Clinton concluse la riunione dicendo che si sarebbe fatto solo quello che saremmo stati disposti a fare tutti insieme e che non sarebbe stato certo il presidente degli Stati Uniti a dividere l’Europa. Ho ripensato dopo a questa sua posizione... D.  Fece il contrario di Bush junior... R.  Sì, ci ho ripensato proprio perché quello è stato uno dei momenti in cui Clinton mostrò saggezza e visione politica. In ogni caso, restava il problema di come indurre la Serbia a ritirarsi, il che comportava negoziare con loro, e gli americani accettarono anche questo. Si creò un contesto nel quale noi giocammo il ruolo di mediatori. Il nostro Paese ebbe un ruolo attivo, la mediazione russa passò attraverso l’Italia, ma noi mantenemmo sempre un rapporto estremamente trasparente con gli americani. D.  Com’era il rapporto con gli americani sapendo che erano affascinati da una tesi diversa da quella che emergeva? ­66

R.  Gli americani sono partner invadenti. Un atteggiamento che deriva loro dal fatto di essere i più forti. Però sono anche disposti a discutere con chi non è d’accordo. Quello che non accettano è che si cerchi di ingannarli e raggirarli. Se vai su questa strada si arrabbiano. In questo sono davvero moralisti. Se rispondi “no” puoi avere con loro un’interlocuzione leale, ma lo deve essere davvero, perché per loro la lealtà è un punto di principio molto importante. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con gli americani in una collaborazione piena ed efficace. Un merito particolare nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, in questi anni tormentati della cosiddetta Seconda Repubblica, ha avuto l’ambasciatore Reginald Bartholomew, recentemente scomparso. Egli, infatti, ha aperto il dialogo con i nuovi protagonisti della politica italiana, ben oltre i limiti dei tradizionali interlocutori con cui gli Usa erano abituati a discutere. E lo ha fatto con apertura e anche con autentico interesse a una transizione democratica in Italia. Questo è stato molto utile per gettare le basi di un rapporto che è stato serio, nel consenso e nel dissenso, sia quando sono stato presidente del Consiglio, sia quando sono stato ministro degli Esteri e avevo a che fare con l’amministrazione repubblicana di George Bush e Condoleezza Rice. D.  Ma gli americani si resero conto che per noi fare una guerra sull’uscio di casa era cosa complicata... R.  Clinton mi disse: «Noi dobbiamo fare la guerra alla Serbia, che è lì, ai vostri confini. Non chiediamo la partecipazione diretta dell’Italia, perché capiamo che per voi può essere un problema. Chiediamo solo l’uso delle basi militari». Io risposi di no. «Non siamo una portaerei. Ho dei dubbi – ribadii – ma il giorno in cui ci si deciderà di compiere un’azione militare, noi faremo la nostra parte. Siamo un Paese con una sua dignità». E così facemmo. Un atteggiamento, il nostro, che fu molto importante per ­67

loro e per noi stessi, perché ci consentì, durante la difficilissima fase successiva, di non essere considerati soltanto una piattaforma per gli aerei, ma di svolgere un ruolo attivo anche politicamente. In questo senso, la mediazione russa fu l’operazione forse più ambiziosa che riuscimmo a portare a termine: ottenemmo da Milosević il rilascio di Ibrahim Rugova, che era agli arresti domiciliari, con l’intenzione di preparare il dopo conflitto. Noi non volevamo che, a operazioni terminate, a gestire la situazione fosse l’estremismo islamico dell’Uck, che stava richiamando nel Kosovo tutto quel mondo radicale islamico che poi ritroveremo in Al Qaeda. Puntavamo su Rugova come uomo della pace, un cattolico impegnato da sempre per la convivenza religiosa. Gli americani e gli inglesi, invece, lo consideravano una personalità non spendibile. Ma noi, con Milosević, facemmo questo ragionamento: avete interesse ad avere l’Uck come forza leader dell’altra parte dei confini o è preferibile avere un uomo di pace? Loro si convinsero. Portammo Rugova in Italia e alle elezioni, subito dopo la guerra, prese la maggioranza assoluta dei voti. Purtroppo è morto prematuramente di tumore. Da parte loro, gli americani erano spaventati dalla prospettiva Rugova, non si fidavano e temevano che lui, venendo in Italia, convocasse una conferenza stampa e attaccasse la Nato. Al contrario, Rugova sottolineò che sì, era per la pace, ma che in quel momento era grato all’Alleanza perché stava difendendo il suo popolo. Alla fine Clinton telefonò per ringraziarci. D.  Qualche tempo prima c’era stata invece una frattura con gli americani sul caso Öcalan, il leader del Pkk che si era rifugiato in Italia e che la Turchia voleva arrestare. R.  Il caso Öcalan va collocato all’interno di un contesto particolare, altrimenti non se ne capiscono i contorni. In quella fase, noi stavamo discutendo con la Turchia su un progetto per una grande infrastruttura che passasse sotto ­68

il Mar Nero, attraversasse il territorio turco e prendesse il gas dalla Russia. Gli americani erano contrari. Avevano un progetto alternativo, in competizione con la Russia: volevano che il gas arrivasse attraverso una delle repubbliche del Caucaso. In questo scenario, il rapporto con la Turchia era fondamentale, in quanto rappresentava lo snodo di tutti e due i progetti. Nel mezzo di questa situazione arriva Öcalan in Italia. D.  E come arrivò? R.  Ho sempre pensato che fosse giunto in Italia per l’imprudenza di qualcuno. Ci furono alcuni parlamentari molto attivi e ci fu una raccolta di firme di esponenti politici di vari schieramenti intorno a un appello a favore di Öcalan. Il leader del Pkk arrivò in Italia e gli americani impugnarono immediatamente la bandiera della Turchia. Noi ci trovammo subito in una situazione molto difficile, perché lui era colpito da un mandato di cattura tedesco per omicidio e, sulla base degli accordi di Schengen, eravamo tenuti a eseguirlo. E così facemmo. Tuttavia, la Germania ci comunicò che non aveva nessuna intenzione di chiederne l’estradizione, per non aprire un conflitto micidiale fra curdi e turchi sul proprio territorio. Il cancelliere Schroeder era molto determinato in questo, perché vedeva il pericolo incombere sulla convivenza civile del suo Paese. Una situazione molto complicata. Decisi allora di evitare le polemiche con la Germania e che il nostro Paese si facesse carico di questa situazione. D.  E lo mandaste via... R.  C’è un vincolo costituzionale secondo cui non si può estradare una persona in un Paese dove vige la pena di morte, per questo facemmo muro nei confronti della Turchia, con cui vi fu una grande tensione che si rifletté sui rapporti economici e commerciali. Nel frattempo, Öcalan era agli arresti domiciliari all’Infernetto. Lo convincem­69

mo a lasciare il Paese, spiegandogli l’impossibilità di dare asilo politico a qualcuno accusato di omicidio in un altro Paese dell’Unione europea. La sua partenza fu ben gestita, perché non se ne accorse nessuno. Poi, in un intreccio di diversi Servizi segreti, fra cui quello greco e, mi fu detto, quello israeliano, venne catturato in Kenya e consegnato ai turchi. Alla fine, in ogni caso, con gli americani non ci furono grandi tensioni, anche se sono tuttora convinto che essi non fossero del tutto estranei alla dinamica che portò Öcalan in Italia. D.  Sei tuttora molto fiero di quella stagione vista dal lato della politica internazionale dell’Italia? R.  In quel momento, l’Italia si trovò ad avere un grande riconoscimento internazionale che culminò con la presidenza della Commissione europea a Romano Prodi e con Mario Monti commissario alla Concorrenza. In definitiva, si trattò di una posizione che mai nessun Paese europeo aveva avuto. Per Prodi rappresentò un altissimo e meritato riconoscimento per la sua azione a favore dell’Europa. A questi importanti ruoli, dobbiamo aggiungere il comando, per la prima volta, di una parte della missione militare in Kosovo: entrammo nel gruppo ristretto dei Paesi che ebbero la responsabilità di gestire quella regione. Un quarto del territorio fu sotto diretto comando italiano, ma entrammo a far parte anche del comando, a rotazione, della missione internazionale. Fu il generale Mauro Del Vecchio il primo comandante che andò in Kosovo alla guida dei bersaglieri della brigata Garibaldi. Li incontrai in Macedonia alla vigilia dell’inizio della missione. Nella lunga storia della Seconda Repubblica, si è trattato di uno dei momenti più alti del ruolo internazionale dell’Italia. D.  In questa stagione in cui sei premier nasce anche l’idea dell’Ulivo mondiale... ­70

R.  L’evento fu senza precedenti: il presidente degli Stati Uniti accettò l’invito a venire a Firenze per partecipare a un dibattito politico. Lo dico perché, generalmente, i presidenti compiono visite ufficiali, invece Clinton decise di prendere parte a un confronto con i leader della sinistra europea. La discussione sulla Terza via, che era il tentativo di tenere insieme i valori propri della tradizione socialdemocratica con una visione più liberale della società e dell’economia, era del tutto aperta. Il tema che avevamo di fronte era l’idea che essa non potesse rappresentare un’operazione divisiva del socialismo europeo. Al contrario, avrebbe dovuto essere un passaggio di rinnovamento per coinvolgere le forze fondamentali del socialismo europeo. C’era stato un primo incontro a New York con inglesi, svedesi, americani e italiani. Ma io chiesi un momento di discussione al quale partecipassero anche il primo ministro francese e il cancelliere tedesco. Non mi piaceva l’idea che solo una parte dell’Europa progressista discutesse con il presidente degli Stati Uniti, volevo un confronto a tutto campo. D.  Non stiamo dimenticando Tony Blair? R.  Forse Blair aveva in mente di creare una constituency filobritannica nel socialismo europeo. Comunque l’incontro si tenne e non riguardò solo capi di governo, perché parteciparono anche intellettuali di grande prestigio internazionale. Fu un dibattito di rilievo e quella di Clinton fu una scelta coraggiosa. Egli si mostrò cooperativo. Poi ci ritrovammo a Washington a un dibattito al club dei leader del Partito democratico... D.  Parli ancora con grandi lodi per il presidente americano... R.  Lo ritengo un uomo di grande intelligenza politica. Ricordo che nell’incontro di Washington con il Partito de­71

mocratico, al quale erano presenti anche Blair e Schroeder, il sindaco di Chicago, Richard Daley, ci esortò a mettere a confronto le esperienze degli amministratori su come si organizzano i servizi urbani, il welfare cittadino, aggiungendo che non bastavano solo i dibattiti a livello di governo. Io risposi che facevamo abitualmente tutto questo in un “club” di cui siamo soci, che si chiama Internazionale socialista. L’aggettivo creò un certo sconcerto in sala. Intervenne Clinton e disse che la parola “socialista” nel suo Paese non era pronunciabile. Si volse verso di me e disse: «Non vorrei proprio avere sul palco della campagna elettorale uno che si dichiara socialista e porta il saluto dell’Internazionale socialista». Ma disse anche che da giovane, quando era governatore dell’Arkansas, aveva visitato insieme a Hillary la Toscana, dove avevano incontrato persone che ragionavano come i democratici americani, che affrontavano le cose con lo stesso spirito, che amavano la democrazia. «Pensate – disse alla platea – quelli non si chiamavano neanche socialisti, quelli si chiamavano addirittura comunisti!». Insomma, concluse: «Ho imparato allora che non bisogna avere paura delle parole». D.  Tu, intanto, in Italia eri impegnato a ricostruire la sinistra, ma con questi interlocutori alludevi a un altro schema di relazioni che superasse le vecchie appartenenze. Oggi questo corpo di idee appare prigioniero del neoliberismo, tu stesso hai fatto delle considerazioni autocritiche. R.  Innanzitutto, vorrei ricordare che Clinton è stato il presidente della deregulation finanziaria. E poi non parlerei di prigionieri del neoliberismo così, tout court. È vero, però, che nella nostra impostazione ci fu anche l’illusione che la globalizzazione fosse un grande fenomeno di crescita della ricchezza, che la fine del comunismo avesse scongelato le energie del mondo e che si sarebbe aperto un periodo nel quale il nostro compito sarebbe stato quello di spiegare le vele a un vento del cambiamento. Eravamo ­72

persuasi che sarebbe stato possibile ripensare il rapporto tra individuo e welfare in una chiave in cui la crescita della ricchezza avrebbe consentito di uscire dalla logica statalista del compromesso socialdemocratico. Ti ricordo che quelli di Clinton sono stati otto anni di crescita sostenuta, senza inflazione, e che la crescita americana fu alimentata sia dalla ricchezza finanziaria sia dagli investimenti, dall’innovazione, dalla new economy. Quindi, era una visione ottimistica della globalizzazione molto forte, che alla lunga si è rivelata fallace. Infatti, abbiamo visto come quella deregulation abbia poi portato l’accumularsi di contraddizioni, di conflitti, di bolle speculative di cui ancora adesso paghiamo in pieno le conseguenze. Lo stesso Bill Clinton ha recentemente riconosciuto, nel suo ultimo libro Back to Work. Why We Need Smart Government for a Strong Economy, che l’errore nei suoi anni di governo e, più in generale, nella cultura neoliberista della Terza via, fu quello di avere sottovalutato e addirittura demonizzato il ruolo dello Stato. Rispetto a questo, la crisi – dice Clinton – impone una correzione. D.  Questo volto della Terza via era un volto molto britannico? R.  Anglosassone, direi: l’egemonia era americana e non britannica. D.  Il meeting di Firenze è stato però anche il momento in cui si è aperto un conflitto con il sindacato sulla questione delle pensioni. R.  Come ci siamo già detti, vi fu un’incomprensione e un dissenso sulla questione delle pensioni. Sì, penso che nella Cgil vi fosse l’idea che il sindacato dovesse soprattutto dimostrare la propria autonomia rispetto a un governo amico, guidato da chi era stato dirigente della sinistra, quasi ­73

accentuando le ragioni del contrasto per sottolineare l’indipendenza del sindacato dalla politica. D.  Maliziosamente si potrebbe dire che fosse arrivato il momento per affermare un’altra leadership nella sinistra, come accadde qualche anno dopo... R.  Non so se ci fosse un disegno di questo tipo. Tendo a interpretare in maniera meno dietrologica quel contrasto. Piuttosto, penso che prevalse la linea che fosse arrivato il momento per affermare definitivamente l’autonomia sindacale. In quell’occasione, però, venne alla luce anche la crisi di un modello di relazioni fra forze politiche e sindacato. Non è per caso che nelle socialdemocrazie il dibattito non verta tanto sul tema dell’autonomia sindacale, perché altrove la regola è il patto fra politica e sindacato. È questo, infatti, il modello nei Paesi dove la sinistra è sinistra di governo. D.  Il tuo governo però fu accusato anche di voler mettere le mani sulla struttura del capitalismo italiano. Mi riferisco alla vicenda Telecom, altro passaggio da chiarire... R.  Quale fu la grande responsabilità del governo? Quella di mettere le mani su un’azienda? No. In realtà, tutta la vicenda Telecom è caratterizzata dalla accanita resistenza del governo a mettere le mani sull’affare. Da noi si voleva che utilizzassimo la golden share per bloccare l’Opa, così tutelando la proprietà Telecom per come si era venuta definendo. Ricordo che la proprietà dell’azienda era parcellizzata e gestita dalla famiglia Agnelli, da Umberto in particolare, che ne possedeva lo 0,6%. Da questa postazione, tuttavia, nominava l’amministratore delegato, il presidente e via di seguito. Questo era lo stato della Telecom quando scattò l’Opa di Roberto Colaninno, che peraltro non conoscevo personalmente. ­74

D.  Ma che cosa ti colpì in questa scalata interamente nuova? R.  Mi attrasse l’idea che, per la prima volta nella storia del Paese, un’impresa nazionale potesse passare di mano sulla base della legge del mercato. Non erano più i tempi in cui l’assetto delle principali proprietà industriali in Italia si decideva in ristretti circoli, sia pure illuminati come quello di Mediobanca di Enrico Cuccia, dove, per anni, si erano stabilite le sorti dell’economia italiana. Ma qui eravamo in una situazione diversa, c’era una competizione vera, per cui la sfida per il controllo di Telecom doveva essere condotta sul mercato. La mia posizione era semplice: che il governo non prendesse posizione, che non dovesse usare la propria forza per intervenire e piegare l’operazione agli interessi di una parte, sia pure di quella che rappresentava la più nobile tradizione del capitalismo italiano. Questo mondo si aspettava che il potere politico si muovesse a suo sostegno, trovando inconcepibile che non agisse immediatamente a sua difesa. E tanta parte della politica premeva in quella direzione. Dall’altro lato, c’era un gruppo di sconosciuti che aveva messo sul tavolo una montagna di soldi, offrendoli agli azionisti. Il vero “scandalo”, quindi, era che per la prima volta si facesse una operazione di mercato, con vantaggio per tutti gli azionisti Telecom, che avrebbero guadagnato molto denaro in una competizione aperta. L’establishment, come mi disse Gianni Agnelli, mi percepiva ostile. Io non ero ostile a nessuno. Semplicemente pensai che attraverso quella vicenda avremmo potuto avere un capitalismo più aperto e competitivo. D.  Non ti attrasse l’idea che da questa vicenda venisse fuori un altro gruppo di comando nel gotha del capitalismo italiano? R.  Questo era un aspetto secondario. Per quanto mi riguarda, era decisivo dimostrare che anche in Italia il ­75

controllo dei grandi gruppi fosse contendibile e che noi eravamo un’economia di mercato come le altre, rispettosa delle regole europee. Quello che si voleva da me, invece, era un’evidente forzatura. Quando annunciai che la quota dello Stato non si sarebbe pronunciata né a favore né contro l’Opa, fui accusato di non aver fatto partecipare il Tesoro all’assemblea convocata per resistere all’offerta. Ancora oggi Cesare Romiti, nel suo recente libro-intervista, mi critica per questo. Ma perché il Tesoro avrebbe dovuto partecipare? In definitiva, noi seguimmo la linea della più assoluta neutralità. E su questo il ministro dell’Economia Ciampi ed io fummo d’accordo. Il punto è che molti volevano che mi schierassi a tutela degli Agnelli e non lo feci. Un atteggiamento che venne interpretato come un autentico atto di lesa maestà. Non mi fu perdonato e da qui nascono le leggende su quella vicenda. D.  La leggenda dice che avevi costituito una vera merchant bank a palazzo Chigi. R.  Innanzitutto, ora sappiamo che il dossier sul famoso conto “Oak Fund”, che è alla base di tutte le infamie dette e scritte su quella storia, fu opera dei servizi di sicurezza della Telecom insieme a personaggi dei Servizi segreti. È un fatto emerso nel processo in corso a Milano, in cui noi Ds siamo parte civile e di cui forse non si verrà a capo, perché il governo Berlusconi ha confermato il segreto di Stato opposto dai cospiratori, per proteggerli. Adesso si sa già qualcosa di più: il dossier fu fabbricato da Giuliano Tavaroli, Emanuele Cipriani e Marco Mancini. Altro che merchant bank! Lì scattò un’operazione tipicamente italica, di vendetta. Si è costruita la menzogna che noi avessimo chissà quanti e quali interessi in questa vicenda e per supportarla è stata elaborata e portata avanti negli anni un’operazione di avvelenamento. D.  Togliamoci le ultime spine dal cuore su quel periodo ­76

tormentato. C’è l’immagine di D’Alema dominato da uno staff esorbitante, quello staff che all’inizio di questa conversazione tu hai descritto come una delle cose dannose della politica negli anni della Seconda Repubblica... R.  Quella dello staff nasce come un’idea innovativa che avrebbe potuto ottimizzare il lavoro e aiutare l’immagine del premier. Non è stato sempre così. Anzi, a volte sono apparso distante e distaccato dalla realtà, altre volte all’inseguimento di una modernità esteriore. Peccato. In ogni caso, non era certo lo staff a fare le scelte politiche. Ad esempio, la riunione su Telecom si fece con Ciampi, Mario Draghi e gli altri ministri competenti. D’altra parte, quella era una vicenda emblematica che ruotava attorno all’idea che l’Italia potesse essere un Paese capitalistico normale. Si arrivò al punto che nel vertice italo-tedesco a Bari, Schroeder venne da me con un progetto di fusione tra Telecom Italia e Telekom Germania, concordato con Franco Bernabè. Gli risposi che non volevo neanche entrare nel merito. Loro insistettero, dicendo che avremmo creato il più grande gruppo di telecomunicazione europeo. «Non creiamo nulla – dissi –. Questa è una società sotto Opa, vedremo chi sarà il proprietario e tratterete con lui». Davvero non trovavo opportuno che il premier potesse intervenire in una vicenda di mercato attraverso un accordo tra governi. D.  Non conoscevi Colaninno, che però altri parlamentari del centrosinistra, come Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani, conoscevano bene. Era giusto favorire la sua ascesa? R.  La debolezza dell’operazione Colaninno era nella fragilità della cordata finanziaria che stava dietro, perché molti compagni di scalata successivamente non lo sostennero. Non appena si ripresentò l’occasione di rivendere a un prezzo vantaggioso ciò che avevano comprato, finì il loro interesse nell’impresa. Colaninno l’ho conosciuto in quella occasione come un industriale serio. Si è rivelato ­77

tale, non certo un finanziere o uno speculatore, ma uomo che gestisce le imprese, le trasforma e le rende produttive. L’ha fatto con la Piaggio, non so se ci riuscirà con l’Alitalia, lo spero. Il caso Telecom è un altro esempio del mio modo di leggere i fatti del Paese secondo criteri di autonomia della politica e di indipendenza dalle logiche dei poteri più forti. D.  L’altra grande questione che, dopo la vicenda Telecom, ha riguardato il rapporto fra politica ed economia e in cui sei stato coinvolto è il caso Unipol. Avvenne anni dopo e sollevò un grande clamore, anche nel centrosinistra. Ricordo che io fui tra i più critici. A distanza di tanti anni c’è ormai una verità giudiziaria del tutto opposta a quella che apparve nel pieno fragore dello scandalo. Avevamo torto noi che criticavamo l’affare Unipol e soprattutto coloro che ne parlavano come di una storia oscura e illecita? R.  La vicenda Unipol è stata molto significativa. Ormai è evidente a tutti che non c’era un nostro coinvolgimento. Nostro, intendo, come forza politica, come dirigenti della sinistra. È normale che ne fossimo informati, così come ne erano informati diversi protagonisti della politica, non solo quelli che erano intercettati. Ed è comprensibile che molti di noi guardassero a questa operazione con simpatia. Continuo a ritenere che sarebbe stato un fatto positivo per l’economia italiana l’acquisizione, da parte del movimento cooperativo, di una grande e storica banca per farne uno strumento utile alla piccola impresa e all’impresa sociale, come era del resto nella sua vocazione originaria. Era un bel progetto per il Paese, con il difetto, se si vuole, di essere portato avanti con una certa disinvoltura. Una parte degli interlocutori scelti, infatti, si sono rivelati fragili, non all’altezza del compito. Hanno creato più problemi al buon fine dell’operazione che non rappresentato un’opportunità. Una disinvoltura emersa anche nel corso delle indagini giudiziarie. ­78

D.  Al di là del caso Unipol, ci sono più recenti vicende – penso ad alcune clamorose assoluzioni – che sollevano la questione della responsabilità dei magistrati. R.  Bisogna stare attenti nell’affrontare questo problema, anche per evitare di trovarsi di fronte a proposte che limitino l’autonomia della magistratura che, invece, è cardine fondamentale del nostro ordinamento costituzionale. È ovvio che un magistrato può anche sbagliare, e nel caso in cui la sua responsabilità comporti una colpa, ne deve rispondere. Dall’altra parte, è altrettanto ovvio che lo Stato deve risarcire il cittadino che patisce la malagiustizia. Il problema che voglio sollevare è come funziona l’autogoverno dei magistrati e cioè se queste condotte, queste performance professionali, anche nel caso di buona fede assoluta del magistrato, siano o no elemento di riflessione e di valutazione ai fini del progresso professionale. Non pongo il tema della responsabilità personale del magistrato che sbaglia senza colpa, ma quello della sua attendibilità professionale. D.  Qualunque altro professionista subisce una sanzione professionale se sbaglia, penso al medico, all’avvocato, all’ingegnere. Il magistrato no. La sua carriera va avanti anche di fronte a clamorosi insuccessi. R.  Nel funzionamento della macchina della giustizia pesano condizionamenti corporativi. Le logiche spartitorie delle correnti della magistratura non sono molto diverse da quelle della politica. Anche per questo non sempre prevale la valutazione professionale legata a fatti e dati indiscutibili. C’è, poi, il rapporto improprio tra molte procure e il sistema dei media, uno degli aspetti più devastanti della questione giudiziaria nel nostro Paese. Pensa a un cittadino comune, e di esempi ce ne sono purtroppo molti, che dopo diversi anni viene assolto da accuse terribili e nel frattempo è stato distrutto da una campagna accusatoria ­79

che si è svolta su giornali e tv. Nessuno ha mai pagato per questo, in un Paese in cui si vantano i pregi dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ci sono cittadini che sono stati rovinati attraverso processi mediatici che hanno rivelato un rapporto spesso improprio, e non di rado illegittimo, tra informazione e settori della macchina giudiziaria. Diciamo la verità: dopo questa terribile trafila, l’assoluzione non è un risarcimento sufficiente. Se va bene, al malcapitato si dedica un trafiletto, un piccolo titolo di giornale in pagina interna. Sono contrario al carcere per i giornalisti e, in generale, a perseguire sul piano penale i cosiddetti reati a mezzo stampa. Il vero problema non è punire i giornalisti, ma riparare il torto subito dalla vittima con rettifica evidente e risarcimento adeguato. Al di là dei casi che riguardano la politica o la finanza, ci sono state vicende clamorose. Pensiamo solo a quello che è successo a Rignano Flaminio... Ecco, la caduta del castello accusatorio ha in genere sui giornali spazi assolutamente insufficienti. D.  È cambiato il governatore della Banca d’Italia, molte teste sono cadute, molte carriere interrotte, il dibattito politico è stato largamente influenzato... R.  Quella vicenda fu anche pesantemente usata per colpire il gruppo dirigente della sinistra alla vigilia della nascita del Partito democratico. Fu un’operazione complessa. Ma noi viviamo in un Paese in cui spesso avvengono operazioni di questo genere, che pesano nei rapporti di forza politici ed economici, e che sono condotte con mezzi non sempre limpidi. D.  Torniamo al tuo governo, che finisce in modo traumatico: dopo le elezioni regionali, decidi di dimetterti. È stata una decisione improvvisa, ma mi chiedo se sia stata sollecitata da qualcuno, se fosse inevitabile e, infine, se ti penti di averla presa. ­80

R.  È stata una decisione inevitabile. Semmai, come ti ho già detto, mi sono pentito di aver accettato l’incarico a premier. Detto questo, i risultati che l’esecutivo ottenne furono decisamente positivi per il Paese, anche se non furono difesi, perché non c’era una maggioranza vera, non c’era una solidarietà politica, c’era persino una parte della maggioranza che contestava la legittimità del governo. Le mie dimissioni, dopo le elezioni regionali, non furono sollecitate da nessuno. Decisi io di dimettermi per due ragioni, che mi sembrarono serie: una fu un atto di responsabilità nei confronti del Paese, perché non sentivo più le condizioni di forza necessarie per governare con efficacia. L’efficacia, infatti, richiede una maggioranza coe­sa. In secondo luogo, fu un atto di responsabilità verso il centrosinistra. Nel ’95 conquistammo nove regioni, nel 2000 ne perdemmo due. Il risultato elettorale, dunque, non rappresentò una sconfitta disastrosa, ma certo non fu positivo. Per questo mi parve evidente che il centrosinistra dovesse essere messo in condizione di prepararsi alle elezioni politiche di lì a un anno, e dunque pensai che fosse giusto portare alla guida del governo una personalità che ci avrebbe potuto condurre all’appuntamento elettorale. D.  Però andammo alle elezioni con un candidato diverso, Francesco Rutelli. Insomma, non venne scelto nessuno dei tre premier che avevano governato. R.  Quando si arrivò al cambiamento del premier e venne scelto Amato, io fui d’accordo. A mio parere, poteva essere il candidato con il quale andare alle elezioni. Invece si decise diversamente, valutando che Rutelli potesse portare un elemento di novità e freschezza. Ci fu una forte pressione per quella candidatura che venne anche da «Repubblica». Non ebbi nessuna responsabilità in quella scelta. Dopo aver lasciato palazzo Chigi, non ricoprii nessun particolare ruolo. Non avevo un ufficio nella sede del nostro partito e mi ritirai nella Fondazione Italianieuropei. ­81

Quella di Rutelli fu una scelta dettata dall’idea che un volto più giovane avrebbe attirato consensi. D.  Perché il gruppo editoriale «l’Espresso», in particolare «la Repubblica», e gli ambienti che ruotano intorno, spinsero per questo radicale cambio? R.  Quel mondo ha un’idea fissa: dirigere la sinistra. Contò in maniera particolare quella cultura nuovista che tuttora persiste. Alla base di questa convinzione e di questa pressione c’era e c’è un’aspirazione di fondo: liquidare la sinistra storica. In alcuni, forse, permane un desiderio di rivincita nei confronti dei partiti, cioè dei protagonisti della storia della Repubblica. Parlo di un misto di sentimenti diversi, ma costanti nel tempo, che si sono manifestati in tanti momenti della nostra vita pubblica e quasi sempre, secondo me, in modo negativo. Non contesto, ovviamente, il ruolo che questo giornale ha avuto nella battaglia contro Berlusconi, nel rappresentare un punto di vista democratico e progressista, ma non voglio ignorare che, in questo protagonismo, si riflette in modo non molto nascosto una sorta di pretesa di sostituirsi alle forze politiche del centrosinistra, di svolgere un ruolo di supplenza rispetto a una pretesa inadeguatezza. In definitiva, se pur si riconosce ai partiti un loro ruolo ineliminabile, li si considera tuttavia come una struttura di supporto a una leadership che spetta alle élite economiche e intellettuali. Questo atteggiamento riflette una diffidenza più generale verso i partiti e il loro ruolo nella società italiana. Altrove non è così. Vorrei aggiungere che in nessun Paese come in Italia i giornali e i media in generale sono allo stesso tempo così fortemente connessi con il potere finanziario e industriale, e così fortemente implicati nella politica. Berlusconi, d’altro canto, ha portato questa connessione al massimo livello di anomalia. Tutto ciò rivela una particolare fragilità della democrazia italiana e ci fa capire meglio perché l’antipolitica si possa manifestare da noi con una forza e una capacità di influenza ­82

sullo spirito pubblico che in altri Paesi europei non sarebbe pensabile: a causa del fatto che, in Italia, l’antipolitica ha il sostegno di una parte del ceto economico e intellettuale dominante. D.  Questo atteggiamento lo ritroviamo all’indomani della sconfitta elettorale del 2001, quando si aprì nei Ds un durissimo scontro politico e la parte che chiedeva una linea più radicale, quella dei girotondi e del protagonismo della Cgil di Cofferati, ebbe una buona stampa, mentre i riformisti nuotavano controcorrente... R.  Nel 2001 si aprì una discussione molto profonda nei Ds, perché, come spesso avviene nella storia della sinistra, la sconfitta rimette in campo posizioni di tipo identitario. In questo caso, di tipo identitario-moralistico, nel senso che la colpa della mancata vittoria fu indicata nel cosiddetto “inciucio”, nel politicismo, nell’aver perduto l’autenticità dei nostri valori più profondi. Si scatenò un grande movimento, che fu insieme di reazione e di resistenza di fronte alla vittoria di Berlusconi, ma rappresentò anche un tentativo di imprimere un corso diverso alla sinistra italiana. Noi fummo impegnati in una battaglia politica per difendere una prospettiva riformista. D.  Di questo movimento tu eri il bersaglio grosso... R.  Partiamo dal congresso dei Ds: noi lo vincemmo e fu un evento. Quella che divenne opposizione, infatti, il cosiddetto “correntone”, aveva il sostegno della segreteria dei Ds, della segreteria della Cgil e di quasi tutti i principali organi di stampa. Fu un congresso fortemente partecipato, che rivelò i cromosomi del partito, il suo sentire profondo. Non solo prevalse largamente la prospettiva riformista, ma emerse anche un giudizio, a mio parere corretto, sulla vicenda politica che avevamo alle spalle. Fu una battaglia politica vera, aperta, con decine di migliaia ­83

di militanti, non uno scontro di apparati. Al termine di quel percorso, Piero Fassino andò alla guida del partito e io ne diventai il presidente. E questa fu la premessa per il ritorno al governo del Paese. Se fosse a­ ndata diversamente, chissà dove saremmo andati a ­finire. D.  Di quella stagione, un personaggio incuriosisce tut­tora: è il segretario della Cgil Cofferati. Si mise a capo, lui, di cultura riformista, di un movimento radicale. Ebbe un grande successo e un grande seguito. Poi all’improvviso uscì di scena. Come ti spieghi l’entrata in campo e la fuga? R.  Cofferati divenne il simbolo della reazione del nostro mondo al successo di Berlusconi. Simbolo di un’opposizione che tornava in campo. In questo senso, giocò un ruolo molto importante. Ma non ho mai pensato che egli rappresentasse un’alternativa politica per la guida della sinistra. E non credo che lo pensassero neppure molti di quelli che, nel 2002, si strinsero intorno a lui nella grande manifestazione al Circo Massimo. C’è nella cultura del nostro popolo, in modo profondamente radicato, la convinzione di un primato della politica che nei momenti decisivi prevale su ogni spinta di tipo movimentista o moralista. Ogni qual volta si è arrivati a un confronto democratico, la politica ha sempre prevalso. D.  Lo ricordo bene, in quel congresso ero portavoce della mozione Fassino... R.  Noi rappresentiamo anche la forza di una tradizione. La suggestione di Cofferati di dirigere la sinistra dalla postazione della Cgil, per esempio, urtava profondamente con la tradizione dell’autonomia sindacale e anche dell’autonomia del partito, che reagì alla sensazione di essere posto in una posizione subalterna. E Cofferati, che è uomo intelligente, capì che su quella strada si sarebbe arrivati a una rottura. ­84

D.  L’ha capito in una notte? Come è possibile? Praticamente si fece da parte in pochissimo tempo. R.  Non credo si sia trattato di una notte, credo che abbia sempre saputo che, alla fine, non avrebbe potuto contrapporsi al gruppo dirigente del partito. C’è in noi, in tutti noi, il senso di una disciplina che riconosce il primato di una visione comune rispetto alle istanze, pur legittime, di carattere personale. E Cofferati si comportò esattamente come avrebbe dovuto ragionevolmente comportarsi un dirigente che viene dalla tradizione del Pci. Da quella vicenda traggo anche una convinzione profonda. Forse il tempo porterà a logorare quel patrimonio di cultura democratica che noi rappresentiamo. Io spero di no, spero che si rinnovi, ma non si consumi, perché ha reso la sinistra italiana una forza utile al Paese. Ma fino a che quel patrimonio resterà, nel nostro mondo continueranno a prevalere questi comportamenti e queste regole. D.  In quella stagione c’è tutta una cultura che per la prima volta diventa di massa, parlo di quella cultura che hai più volte citato, quella espressa dalle élite, raccontata e divulgata dai media, sostenuta dai gruppi ristretti. Ebbene, in quei mesi quella cultura sembra attecchire in una parte del nostro mondo, è in quella stagione che inizia a dilagare il giustizialismo. Voglio dire che un parte del nostro mondo si trasforma, come vediamo ancora di questi tempi. R.  Il fenomeno a cui ti riferisci proviene da più lontano, comincia all’inizio degli anni Novanta e irrompe con la crisi dei partiti. In tutti questi anni, c’è sempre stata una dialettica tra queste posizioni nuoviste e la cultura riformista. Ma quelle posizioni non hanno mai portato a una nuova egemonia, non hanno mai espresso un gruppo dirigente, non hanno mai rappresentato una cultura di governo. Piuttosto, sono un’importante forza di condizionamento, ma non arrivano a travolgere la linea riformista. La partita ­85

che si giocò all’inizio del 2001, dopo le elezioni politiche, fu molto importante. In quell’occasione, infatti, gettammo le premesse per la vittoria successiva. Non ci contrapponemmo a quel movimento, cercammo di tradurlo in politica. Io andai a Firenze a discutere con Paul Ginsborg, in una assemblea molto combattuta, e portai i nostri buoni argomenti. Una parte di quella campagna era basata anche su elementi non veri, su falsità anche autorevolmente sostenute, che noi potevamo contrastare con dovizia di argomenti. Ho ancora qui la lettera, pubblicata dall’«Unità» nel novembre del 2001, a Paolo Sylos Labini sulla questione del conflitto di interessi. Raccontai quello che era veramente successo in Parlamento a proposito della Bicamerale. Scrissi che «l’Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle resistenze conservatrici, finì per lasciar sbiadire via via il suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terreno costituzionale. Resta in me la convinzione che ci abbia danneggiato di più, anche elettoralmente, non aver fatto le riforme che aver cercato di farle». Sylos aveva prospettato persino l’ipotesi di “dimettersi da italiano” pur di non fare le riforme con la destra e io gli risposi: «Questa via è preclusa a chi ha scelto l’impegno politico, ha l’ambizione di tornare a governare questo Paese e intanto ha il dovere di concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». E conclusi: «Con questa destra, sulla quale il mio giudizio non differisce molto dal suo, bisogna discutere, continuo a pensare che tra ‘l’inciucio’ (che non ci fu, ma apparve) e la demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi) possa esserci una terza via capace di unire la nettezza della contrapposizione politica, programmatica, etica (quando ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando sia­no in gioco le istituzioni e il bene dell’Italia». Questa fu la mia posizione e questi i miei argomenti. D.  Non li convincesti... R.  Prevalse la cultura del sospetto, la verità venne rimossa ­86

e quella campagna, anche nei suoi aspetti più velenosamente moralistici, personali, prese le mosse da una sostanziale rimozione dei fatti e della verità. Noi rispondemmo, cercammo di ricostruire una prospettiva politica per il Paese. Lavorammo per un centrosinistra più largo, per ritessere le fila di un rapporto che via via ci portò a rivincere le amministrative, le regionali, fino a tornare al governo. D.  Ma si tornò a Prodi. R.  È vero, non fu facile compiere un’operazione di ricambio della leadership, anche perché non avemmo il coraggio di promuovere un confronto chiaro tra diverse ipotesi che erano possibili. Fu per questo che richiamammo Prodi, che generosamente si mise a disposizione. Probabilmente, se in quel momento avessimo avuto la forza di imprimere un cambiamento, le cose sarebbero andate diversamente. Invece, a ostacolare la scelta di un nuovo candidato pesarono le divisioni che si erano create tra noi, anche di natura personale. D.  C’era questo candidato o c’erano questi candidati? R.  C’erano dei possibili candidati. In casa nostra si poteva pensare almeno a due personalità: Fassino e Veltroni. Fassino era il segretario del partito e Veltroni, nel frattempo diventato sindaco di Roma, aveva guadagnato una forte credibilità esterna. Non ci fu il coraggio di scegliere. Penso che nella Margherita non fossero pregiudizialmente ostili alla prospettiva che noi prendessimo la guida della coalizione. Furono tra noi le maggiori perplessità.

Capitolo 4

Pd, amalgama malriuscito?

D.  Il ritorno di Prodi coincise con l’avvio della discussione sulla nascita del Partito democratico... R.  Stava maturando questa nuova idea. Mi resi conto, con una riflessione autocritica sulle fragilità del passato, che bisognava trovare una sintesi tra le due anime che avevano segnato la vicenda del centrosinistra, cioè l’ulivismo e il cosiddetto “partitismo”. Dovevamo superare sia l’idea del primato dell’Ulivo, della coalizione aperta alla società civile, nella quale i partiti erano al massimo una struttura servente, sia l’idea di un primato dei partiti che rischiava di ridurre l’Ulivo semplicemente a una sigla. Se vuoi, tutte e due queste idee erano incompiute, nel senso che l’Ulivo era qualcosa di più che non una coalizione di partiti e i partiti non potevano essere considerati solo come una struttura di servizio. Mi ero convinto, nel corso di quegli anni, e lo scrissi sulla rivista «Italianieuropei», che dovevamo avviare una riflessione nuova, perché la prospettiva di dare vita in Italia a una forza riformista di tipo europeo, di impianto socialista e socialdemocratico, non era realistica in relazione alla storia italiana. La possibilità di creare un grande partito riformista in Italia, invece, doveva passare anche attraverso un rapporto con la tradizione cattolica.

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D.  Nella prima parte della nostra conversazione, quella dedicata al dopo Bolognina, hai detto che non potevamo costruire un partito socialista perché già c’era e lo stesso nome “socialista” era stato danneggiato irrimediabilmente da Mani Pulite. Ora, molti anni dopo, porti un diverso argomento a suffragio della tesi della impossibilità di creare una socialdemocrazia classica. Spiegami meglio. R.  La riflessione deve partire da un dato storico: una parte del riformismo italiano è stata dentro la Democrazia cristiana. La storia italiana non è stata la storia di riformisti contro conservatori, come in Germania e in altri Paesi. La nostra storia è più complicata. Da un lato, per il ruolo svolto dal più grande partito interclassista di matrice cattolica, il quale aveva in parte assorbito in sé quella dialettica tra riformisti e conservatori sviluppatasi altrove nella forma del bipartitismo. Dall’altro, per la presenza di un grande Partito comunista. Mi sembrava difficile, e ne sono convinto tuttora, che fosse destinata al successo l’idea di un grande partito riformista maggioritario che avesse una radice culturale solo laica e socialista, e non includesse il mondo cattolico realmente presente nella cultura e nella politica italiana. Ne ero convinto anche dopo l’esito della cosiddetta “Cosa 2”, quando cercammo di radunare tutte le forze socialiste, non riuscendovi. Ritenni dunque che quel tipo di incontro culturale che era stato alla base dell’Ulivo potesse in effetti diventare il background di un nuovo partito: il Partito democratico come sintesi, come tentativo di superare la contraddizione tra ulivismo e partitismo, che aveva segnato negativamente la storia recente del centrosinistra. Fu per questo che con Prodi decidemmo di presentare la lista unitaria alle elezioni europee, premessa di quel che avvenne dopo. D.  Si arriva al 2006, che è un anno strano, perché il centrosinistra sembra avviato a un clamoroso successo e invece ­89

vince di poco e decide comunque di governare, iniziando una nuova e non felice avventura. R.  Ottenemmo un grande risultato, toccando il numero di voti più alto mai raggiunto dal centrosinistra: poco meno di 17 milioni. Nello stesso tempo, dall’altra parte, come contrappeso al nostro prevedibile successo, si concentrò un elettorato di destra, conservatore, che si raccolse intorno a Berlusconi. Egli si dimostrò da subito una specie di maestro delle campagne elettorali, riprendendo in mano tutti i temi del populismo. L’ultimo balzo elettorale lo fece nel nome dell’abrogazione dell’Ici e tutti noi ora dobbiamo saldare quel conto pagando l’Imu. D.  Ma ci sono stati anche degli errori nella parte finale della campagna elettorale, con le incertezze di Prodi e il pauperismo di Bertinotti... R.  Può darsi. Sicuramente vennero alla luce le debolezze di una coalizione che era molto vasta, ma anche precaria nella sua struttura. Al di là di questo, anche quelle elezioni ci dicono qualcosa di interessante sul nostro Paese, ovvero quanto sia fortemente radicata nella società nazionale la destra. Persino davanti a tutti i danni che Berlusconi aveva prodotto, infatti, la sua capacità di recupero fu dovuta alla forza del richiamo antistatale, alla rivolta contro le tasse, a quell’“ognuno può fare a modo suo” che ha radici molto profonde nella coscienza dell’Italia, nel substrato più profondo della società. Ogni qual volta qualcuno fa appello a questi sentimenti, trova terreno fertile. Guai a sottovalutare questo dato. Dicono che questa mia analisi appartenga a una visione pessimistica. Magari è così. Penso che la sinistra sia certamente nelle condizioni di vincere, lo abbiamo dimostrato, siamo andati due volte al governo. Ma la vittoria della sinistra si ottiene sempre remando controcorrente. Quando l’attuale presidente del Consiglio, Mario Monti, ha visto decrescere il suo consen­90

so? Quando ha affrontato il tema delle tasse, il dovere e l’obbligo di pagarle. In altri Paesi accadrebbe il contrario. D.  Elezioni vinte, ma gestione confusa e per tanti aspetti anche sbagliata, con quel muro contro muro. R.  La gestione di quel risultato fu sbagliata. Lo dissi allora, in un’intervista al «Corriere della Sera» che fece arrabbiare Prodi. Il mio ragionamento era questo: siamo al governo perché nei Paesi democratici basta un voto in più per vincere le elezioni, legittimamente. Ma dobbiamo chiedere all’opposizione una comune responsabilità nella gestione del funzionamento delle istituzioni. E così avanzai l’ipotesi che la Presidenza del Senato fosse assegnata all’opposizione. L’idea fu respinta con una certa durezza. Bisogna tener conto, per amore di verità, che Berlusconi era su tutt’altra linea, tanto è vero che contestava persino il risultato elettorale. In ogni caso, la mia proposta non fu apprezzata nel nostro campo, dove Prodi si fece alfiere di un’idea bipartitista, su questa base: abbiamo vinto, ora governiamo, siamo autosufficienti. Fu un punto di debolezza del governo, perché il nostro arroccamento ci mise di fronte a gravi difficoltà nella tenuta parlamentare della maggioranza. Anche in altri Paesi capita che si governi con maggioranze molto ristrette. In Germania, ad esempio, c’è stata una legislatura in cui le forze di governo potevano contare solo su un voto in più, e quando un parlamentare della maggioranza era costretto ad assentarsi l’opposizione faceva uscire uno dei suoi. Da noi non funziona così, è un atteggiamento che non fa parte della cultura democratica e istituzionale del nostro Paese. Per questo, dopo il voto ci trovammo in una condizione di evidente fragilità, sia per ragioni numeriche sia per la presenza di frange estremiste nelle nostre fila. D.  Avevamo di fronte la classica maggioranza fatta per vincere le elezioni, ma non per governare. Inizio difficile, ­91

quindi, in cui ci si trovò anche a dover decidere il candidato alla Presidenza della Repubblica, dopo la conclusione del mandato di Carlo Azeglio Ciampi. R.  L’avvio della legislatura fu molto tormentato. L’idea di Fassino, che pensava di potersi impegnare nel governo, era che io dovessi fare il presidente della Camera. Una prospettiva che personalmente trovavo interessante. Ma anche Bertinotti aspirava alla guida dell’Assemblea e aveva ottenuto un impegno di Prodi in quel senso. Sarebbe stato meglio, ne sono ancora convinto, chiamare Bertinotti a far parte della compagine di governo, perché assumesse pienamente le proprie responsabilità, rendendo così più forte il coinvolgimento e l’impegno di Rifondazione comunista. Si scelse un’altra strada e io rispettai il volere del leader della coalizione. In ogni caso, sono stato un uomo fortunato, perché sono entrato al governo come ministro degli Esteri: un lavoro che considero stimolante, appassionante, dinamico. Un’esperienza piena, importante. D.  Ma la questione del dopo Ciampi e la tua candidatura al Quirinale come andarono? R.  Il passaggio del Quirinale venne dopo. L’idea della mia candidatura maturò nel centrosinistra, non fui io a proporla. In particolare, fu Fassino a pensare che fosse giunto il momento che un esponente del nostro partito potesse andare alla Presidenza della Repubblica. Si manifestò, soprattutto attraverso Giuliano Ferrara, un interesse di Berlusconi, il quale aveva riconosciuto il taglio istituzionale che avevo dato alla Presidenza della Bicamerale. Più precisamente, Berlusconi manifestò una non ostilità a questa prospettiva, che invece incontrò la forte opposizione di Fini, Casini e Rutelli, per varie ragioni. Secondo me, c’era anche un fastidio generazionale. La politica è fatta anche di questo. La contrarietà di Rutelli metteva in difficoltà la coesione del centrosinistra, anche ­92

se sembrava logico che se un cattolico era stato designato alla guida del governo, uno di noi potesse andare al Quirinale. Comunque, la somma di queste ostilità influì sulla mia candidatura. Si rischiava di creare un clima pesante dal punto di vista istituzionale. Il rischio era un braccio di ferro. Alla fine avrei potuto anche essere eletto, ma in una situazione che non mi sembrava giusta. Avevo proposto all’inizio della legislatura un accordo di tipo istituzionale, non potevo diventare protagonista di una rottura. D.  Venne a te l’idea di candidare Giorgio Napolitano? R.  Lo decidemmo insieme. Dopo averne parlato con Fassino, gli telefonai io. Napolitano aveva il grande vantaggio che, essendo stato nominato senatore a vita, non aveva partecipato alla campagna elettorale, non era il candidato di nessuno, era già in qualche modo in una dimensione super partes ed era una personalità autorevole e stimata. Quindi lo candidammo. Tutti furono d’accordo, anche la destra, che successivamente decise di non votarlo. Fu un’operazione condotta bene, e dovendo fare un bilancio devo dire che non mi dispiace di aver fatto quel passo indietro. Ci sono situazioni in cui ci si può trovare o meno in prima linea, ma quello che conta è vincere la battaglia. Dopo queste complesse vicende, Fassino fu molto corretto. Disse: «A questo punto D’Alema va al governo come vicepresidente del Consiglio». E lui restò segretario del partito. Con Fassino ho vissuto alcuni momenti di scontro politico: fu lui, ad esempio, a organizzare la campagna per Veltroni nella battaglia del luglio del ’94 per la segreteria del Pds. Ma Fassino è una persona che, oltre alle doti politiche, ha sempre avuto senso del partito e una grande correttezza personale, aspetti che ne fanno uno dei personaggi positivi di questa lunga e complicata storia. Così io andai al governo. ­93

D.  E facesti il ministro degli Esteri, che era il mestiere che ti piaceva fare. R.  Ebbi davvero una buona collaborazione con Prodi, che aveva anche lui passione per la politica estera. Avevamo un comune sentire sulle varie issues. Qualche volta ero più filoamericano di lui, come era già emerso in occasione della vicenda del Kosovo. Sì, quella alla Farnesina è stata un’esperienza interessante, anche perché nella congiuntura internazionale avevamo da gestire delle partite veramente complicate. Avevamo vinto le elezioni dicendo che ci saremmo ritirati dall’Iraq, prospettiva che evidentemente non era apprezzata dall’amministrazione Bush. Il primo atto di politica estera fu attuare quella decisione, cercando di evitare forti tensioni con gli americani. Scelsi di non trattare con loro il tema del ritiro, ma di andare a negoziare direttamente con il governo iracheno. Detto così può sembrare l’uovo di Colombo, però questa mossa spiazzò gli americani. Trattai con il presidente Jalal Talabani, che come me faceva parte dell’Internazionale socialista, e raggiunsi un accordo sulle modalità del ritiro italiano, sul passaggio dei poteri, su quello che noi avremmo fatto sul piano della cooperazione economica e della solidarietà. L’accordo diretto con gli iracheni mise gli americani nella posizione più difficile per alzare la voce. A differenza degli spagnoli, gestimmo un ritiro ordinato in modo tale da rendere molto più complicata la reazione americana: erano indispettiti e arrabbiati, ma non erano nella condizione di dire nulla. E poi ci immergemmo nel conflitto tra Libano e Israele. D.  Tutti, o quasi, ti riconoscono di essere stato un ottimo ministro degli Esteri, che si è mosso bene, come nella vicenda libanese, facendo la scelta giusta, tempestiva. C’è una parte di mondo ebraico che, viceversa, ritiene che tu sia pregiudizialmente ostile a Israele oppure, se preferisci, pregiudizialmente favorevole ai palestinesi. Le nostre opinioni in ­94

merito divergono da tempo, ma non sono io il protagonista di questa chiacchierata. Qui mi interessa che i lettori sappiano qual è il tuo pensiero e poi si facciano la loro opinione. R.  Considero le posizioni attuali della politica israeliana dannose anche per Israele, come lo sono per gli interessi dell’Europa e del nostro Paese, e questo è un criterio fondamentale a cui ispirare la nostra politica estera. In questo momento, persino il presidente degli Stati Uniti guarda con grande preoccupazione alla politica israeliana. All’epoca dei fatti di cui parliamo, l’intervento in Libano del 2006, dicemmo che bisognava fermare la guerra, che bisognava lavorare non per il ritorno allo status quo ante, cioè al conflitto continuo, ma costruire una situazione di sicurezza per Israele e per il Libano attraverso un accordo internazionale. Il governo israeliano si oppose: hanno sempre sostenuto che la sicurezza del Paese è affar loro, non fidandosi neppure dell’Onu. Quando organizzammo, a Roma, la Conferenza per la pace con gli americani, Israele non partecipò. Avevano immaginato un rapido blitz militare, che si rivelò essere un’operazione molto più complicata, anche per gli armamenti di cui disponeva Hezbollah. A questo punto Israele si trovò davanti a un’alternativa drammatica: ritirarsi, dopo aver avuto perdite rilevanti di uomini e di mezzi, dando la sensazione di una sconfitta, oppure occupare il sud del Libano, infilandosi in una situazione internazionale disastrosa. Allora recuperarono il nostro piano precedentemente rifiutato, che rappresentò la loro ancora di salvezza. Offrimmo un’uscita dignitosa agli israeliani da una situazione complicata in cui si erano cacciati e dimostrammo loro che quel dispositivo di sicurezza era valido. Passò un anno prima che ci ringraziassero. D.  Anche in questa ricostruzione sento riemergere una severità nel giudizio su Israele che non hai mostrato verso i loro nemici... ­95

R.  Il mio atteggiamento è dettato dalla constatazione che Israele è un Paese civile e democratico. Ecco perché pretendo che sia meglio di Hamas. In quei giorni sono diventato amico dell’allora ministro degli Esteri Tzipi Livni, che poi, nel marzo 2012, ha perduto il congresso di Kadima ed è stata sostituita alla guida del partito dall’ex capo di Stato maggiore ed ex ministro della Difesa generale Shaul Mofaz. Sono convinto che Israele non stia facendo quello che dovrebbe fare per ottenere la pace. Eppure la pace sarebbe possibile se si offrisse una prospettiva negoziale seria all’attuale leadership palestinese. Invece, si corre il rischio di liquidarla, malgrado sia la più aperta e disponibile che vi sia mai stata. In questo modo, Israele correrebbe il serio rischio di lasciare campo libero alla pressione di tipo islamista e di cancellare l’opzione dei due Stati, alla quale molti ormai non credono più, né tra i palestinesi né tra gli israeliani. E anche il conflitto dello scorso novembre a Gaza ha avuto l’effetto paradossale di rafforzare politicamente la posizione di Hamas. È evidente che, se si vuole ancora uno Stato palestinese e quindi si vuole evitare un esito di tipo sudafricano, l’unica prospettiva è quella di favorire una riconciliazione tra i palestinesi sotto la guida delle componenti più moderate. Da questo punto di vista, il voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite è stato positivo e importante. Personalmente sono convinto che, al di là delle posizioni ufficiali, lo comprendano anche molti in Israele e certamente tutti quelli che si oppongono alla politica del primo ministro Benjamin Netanyahu. Inoltre, nessuno può farmi credere che, in cuor suo, il presidente americano Barack Obama non abbia considerato quel voto come un’opportunità per una amministrazione che avverte l’intransigenza della destra israeliana come un peso sempre più insostenibile anche per gli stessi Stati Uniti. Una volta Clinton mi disse: «Ci sono scelte che noi non possiamo compiere, ma che l’Europa deve saper compiere perché, in realtà, è anche nostro interesse che ciò avvenga». Sono stato molto contento, inoltre, che l’Italia alla fine abbia votato “sì”, e voglio aggiungere che, ­96

in questa decisione, ha pesato in modo particolare anche l’intelligenza politica del presidente Monti. Il problema è che una concezione esclusivamente militare della sicurezza senza una coerente strategia per la pace, quale fu quella di Yitzhak Rabin, rischia di offrire un avvenire difficile agli israeliani e anche a tutti noi. D.  Israele si difende anche perché ha sfiducia, giustamente, nell’Occidente, nella solidarietà occidentale per la tutela della propria sicurezza. R.  Se ragioniamo sui processi reali, vediamo che c’è una grande tensione tra l’Occidente e il mondo islamico che investe la sicurezza europea. Quando noi europei cominceremo a realizzare che anche la politica di Israele ha un effetto negativo per la sicurezza dell’Occidente, lentamente crescerà un sentimento di ostilità nei suoi confronti. Lo dico con preoccupazione e le analisi che fanno le minoranze pacifiste, e a mio giudizio illuminate, del mondo politico e intellettuale israeliano sono ancora più gravi e allarmanti. Esse, infatti, ci raccontano di una situazione interna in continuo peggioramento, ad esempio con episodi di razzismo contro i neri, e della crescita degli ortodossi con forme di intolleranza che si riflettono sulla società civile. Ci dicono che anche in Israele sta montando un fondamentalismo religioso speculare a quello dell’altra parte e che molti problemi culturali e politici sono creati dalla forte immigrazione russa. Insomma, c’è un impasto di fenomeni che sta influendo negativamente sulla società israeliana. Eppure la soluzione sarebbe vicina e per molti aspetti è già scritta: basterebbe riprendere in mano i testi della Conferenza per la pace di Ginevra. Se non si agisce, il rischio è che il conflitto prenda sempre di più un carattere religioso e allora davvero non ci saranno più soluzioni. Questa è la verità e, tra l’altro, è largamente condivisa nel mondo occidentale. Io mi sono stufato di difendermi dall’accusa di stare pregiudizialmente con i ­97

palestinesi. Io sto dalla parte della pace tra israeliani e palestinesi. Una pace vera, giusta e stabile. E sto con gli europei. Tutti abbiamo il diritto di avere la tranquillità nell’area del Mediterraneo. D.  Devo dire la verità. Ho l’impressione che tu, rispetto a Israele e al mondo ebraico italiano, almeno in una sua significativa parte, hai tirato su un muro. Non vai a discutere, sembra che non vuoi dialogare, come hai fatto con altri contraddittori, come abbiamo raccontato finora... R.  Ma non è vero! Abbiamo parlato, ci siamo incontrati molte volte, ma c’è una prevenzione di una parte dei nostri interlocutori. E in più c’è anche una manipolazione delle mie posizioni, una strumentalizzazione che viene usata nella vita politica italiana. Guarda come, del mio viaggio a Beirut, è stato montato un caso. In quella occasione feci un’operazione preziosa, perché creai le condizioni affinché una forza di pace potesse mettersi fra i due contendenti, Israele e Libano. Mi hanno accusato di parlare con Hezbollah, ma Hezbollah era uno dei principali partiti di governo del Libano e io ero ministro degli Esteri. Con chi avrei dovuto parlare? E domando: ora che i partiti islamisti prevalgono anche nei Paesi della Primavera araba, che dovremmo fare? Non parlare con nessuno? Chiudere le porte a tutto un mondo? Certo, i movimenti islamici e, innanzitutto, i Fratelli Musulmani, che con Mohamed Morsi hanno assunto la guida dell’Egitto, sono di fronte a una prova di laicità e di spirito democratico e pluralista. Se resteranno prigionieri dell’integralismo, credo che alla fine si troveranno contro quegli stessi giovani che con la loro coraggiosa rivolta contro le dittature li hanno portati al potere. L’Egitto di Morsi è un Paese che avrà un peso fondamentale. È un Paese in bilico e i rischi di una drammatica lacerazione interna vi sono certamente. Ma per l’Europa non c’è alternativa: solo attraverso il confronto e il dialogo amichevole e rispettoso, ­98

essa può cercare di spingere nella direzione giusta. Per quanto riguarda il Libano, è evidente che io non ho nessuna simpatia verso il fondamentalismo sciita, ma in generale fare politica comporta il coraggio di dialogare anche con chi è molto diverso da te. Se devi mandare migliaia di soldati in Libano la scelta è netta: o lavori per costruire condizioni positive per arrivare alla pace o fai la guerra. D.  Perché non hai fatto un gesto di solidarietà verso gli israeliani colpiti dal terrorismo? R.  Anche questa è una menzogna. Prima di andare a Beirut, mi recai in Israele per incontrare i familiari dei militari che si pensava fossero stati rapiti da Hezbollah. E da Beirut scrissi una lettera a David Grossman perché perse il figlio Uri l’ultima notte di quella guerra sciagurata. Gli scrissi che mi dispiaceva per il fatto di essere arrivati tardi, che avremmo voluto arrivare prima, fermare il conflitto e salvare suo figlio. Grossman venne all’aeroporto di Tel Aviv ad abbracciarmi. Credo che sia giusto provare un sentimento di solidarietà verso chi è colpito dalla violenza da una parte e dall’altra. E comunque questo è il mio sentimento. Ma se vado tra le macerie di un quartiere di Beirut distrutto dai bombardamenti, questo diventa uno scandalo, se incontro i parenti delle vittime israeliane, i giornali non lo scrivono. In quel momento, sentivo che era giusto, soprattutto per qualcuno che vuole guidare un’operazione di pace, cercare di gettare un ponte tra sentimenti divisi. Un atteggiamento che ho imparato dal cardinale Carlo Maria Martini, che ho incontrato più di una volta a Gerusalemme e che organizzava i “dialoghi della riconciliazione”, riunendo i familiari di palestinesi uccisi dagli israeliani e i familiari di israeliani uccisi dai palestinesi. Questo, a mio parere, è lo spirito con cui dobbiamo guardare a quella situazione. Ciò comporta la capacità di sentirsi vicini alle ragioni degli uni e alle ragioni degli altri. Non si può accettare lo schema israeliano per cui da una ­99

parte ci sono i buoni e dall’altra parte solo terroristi. È una guerra: ciascuno si batte a modo suo, e nelle condizioni date, per la propria indipendenza. Se parti dall’idea che dall’altra parte ci sono solo terroristi, non c’è più spazio per costruire la pace. In verità quel conflitto è lo scontro tra due ragioni ed è proprio questo che lo rende così radicale e così difficile da risolvere. D.  Seguendo il tuo schema, allora bisogna legittimare i talebani... R.  Mi pare, in realtà, che in questo momento si stia cercando proprio la possibilità di un negoziato con i talebani, o comunque con una parte di essi. Quando, nel 2007, proponemmo una Conferenza di pace in Afghanistan, fummo al centro di polemiche e attacchi. Oggi, con cinque anni di ritardo, forse questa prospettiva sta prendendo forma. È evidente che in guerra, se una parte è delegittimata in partenza, non c’è altra soluzione possibile che continuare fino a uccidere tutti i nemici. Oppure c’è il difficile tentativo di costruire una convivenza. Un problema, quest’ultimo, che il mondo islamico ci porrà con forza sempre maggiore. Intanto, perché abbiamo già sperimentato che la pretesa ideologica e neoconservatrice che la democrazia si possa esportare con le armi non funziona. E poi perché stiamo assistendo al fatto che la democrazia che va affermandosi sull’onda dei moti popolari della Primavera araba premia l’Islam, non il modello occidentale. Allora che facciamo? Conviene discutere con il mondo islamico, cercare di incoraggiare le spinte verso un Islam politico che si concili con il pluralismo, come in Turchia, anziché verso una repubblica islamica, sul modello iraniano. L’unica via è quella del dialogo e della tolleranza reciproca, una strada da percorrere con realismo, invece di arrischiarsi sul terreno dello scontro tra civiltà, che alla fine determina solo insicurezza. ­100

D.  L’Islam è anche fra di noi, nel cuore dell’Europa? R.  Ci sono oltre 20 milioni di musulmani nell’Unione europea, si tratta della seconda comunità religiosa. In questo contesto l’Italia, se avesse il senso della sua autonomia e della sua funzione, potrebbe giocare un ruolo importante in politica estera. Bisognerebbe riprendere la migliore tradizione della cultura democristiana e socialista, che ha promosso una grande politica estera nel Mediterraneo. Penso ad esempio ad Amintore Fanfani, quando si propose come interlocutore dei movimenti di liberazione nazionale del Maghreb in polemica con la Francia. E, se guardiamo al ruolo dell’Eni, vediamo come quella politica estera andò di pari passo con una grande politica di sviluppo. In questi quindici anni solo il centrosinistra è stato in grado di avere momenti significativi di protagonismo italiano nella politica internazionale. Pensiamo ai Balcani, in particolare con il contributo alla stabilità in Albania e alla soluzione della crisi in Kosovo, al Medio Oriente, in particolare con la missione in Libano, e alle Nazioni Unite, con il voto per la moratoria per le esecuzioni capitali, che ha messo in minoranza sulla pena di morte Stati Uniti e Cina. È un po’ curioso che, a fronte di questi risultati, ci fossero frange della sinistra che ci mettevano sotto accusa, anche in Parlamento, con parole d’ordine agitatorie e velleitarie. Eppure, il ritiro dall’Iraq e l’iniziativa per la pace in Libano sono state tra le iniziative più di sinistra della politica estera italiana, se ha un senso la parola “sinistra”. D.  Parliamo della nascita del Pd. Fin dall’inizio sembra un processo complesso, anche con la difficile individuazione del suo primo segretario. Poi la scelta cade su Veltroni. È un evento che avrebbe dovuto segnare il rafforzamento del governo Prodi, invece si rivela l’inizio di un difficile rapporto fra il nuovo partito e l’esecutivo. Sbaglio? ­101

R.  In verità, la nascita del Pd, come ti ho già detto, è il punto di arrivo di un processo politico avviato da tempo: il progetto del nuovo partito era già in qualche modo scritto all’inizio della legislatura del 2006, con la decisione di presentare la lista unitaria dell’Ulivo alla Camera. Già alle europee avevamo presentato la lista “Uniti nell’Ulivo”, in cui fummo candidati, fra gli altri, Pier Luigi Bersani, Enrico Letta ed io. Fu un’operazione politica intesa a testare elettoralmente il processo di costruzione del nuovo soggetto. Alle politiche del 2006 ripetemmo l’esperienza. A questo punto decidemmo di accelerare la costruzione del partito, soprattutto perché il governo era in difficoltà sia per l’esiguità della maggioranza al Senato, sia per il condizionamento massimalista che essa subiva. Mi riferisco alle polemiche e alle tensioni che si ebbero con l’ala più a sinistra della coalizione, ad esempio sul tema delle pensioni. Nel frattempo, registravamo anche il lavorio di Berlusconi per erodere la nostra maggioranza. L’operazione De Gregorio, il parlamentare dipietrista che passò con la destra, era chiaramente parte di questo disegno. La condizione di difficoltà del governo e il rischio di dover andare rapidamente a nuove elezioni ci spinsero a introdurre un elemento di innovazione, accelerando l’avvio della nascita del Pd. Su Veltroni registrammo una larga convergenza. Io stesso andai a proporgli di assumere la segreteria. Lui appariva meno logorato di altri per non aver partecipato alle vicende politiche nazionali e si presentava come un antesignano del processo di costruzione del partito. Era un dirigente dei Ds, ma era riconosciuto e accettato anche nella Margherita. In sostanza, sotto tutti i punti di vista, era la personalità intorno alla quale si poteva intraprendere un nuovo percorso. Il vero problema che si pose da subito al nuovo partito fu quello della tenuta del governo e della sua maggioranza. Era molto difficile pensare che l’esecutivo potesse reggere su una base parlamentare, al Senato, così ristretta. L’unico modo di portare avanti la legislatura, secondo me, era quello di aprire una ­102

prospettiva politica nuova, prendendo atto che un certo tipo di bipolarismo si era esaurito e chiedendo all’Udc un coinvolgimento in un processo che mettesse al centro un accordo istituzionale per la riforma della legge elettorale. Fu questa la mia proposta, per la quale indicai come modello il sistema tedesco. Lanciai l’idea in un’intervista al «Riformista» qualche giorno dopo che, a palazzo Madama, il governo non raggiunse la maggioranza richiesta nel voto sulla politica estera. Era il 21 febbraio del 2007. Non trovai né in Veltroni né in Prodi una condivisione e si avviò molto rapidamente il logoramento della maggioranza, che poi precipitò, con l’operazione giudiziaria su Clemente Mastella, verso la crisi e le elezioni, senza nessuna possibilità di scampo. D.  Fu in quella stagione che molti pensarono di passare dal bipolarismo al bipartitismo. La segreteria Veltroni si caratterizzò per l’opzione bipartitista. R.  Veltroni muoveva da una valutazione giusta della crisi della logica delle coalizioni elettorali, su cui si era fondato il bipolarismo italiano. E, in particolare, da una incontestabile valutazione negativa dell’esperienza dell’Unione. Egli puntò a una radicale semplificazione del quadro politico nel senso del rilancio del bipolarismo in chiave sostanzialmente bipartitica. In questo senso, l’interlocutore naturale fu Berlusconi, che voleva riprendere una posizione dominante all’interno del campo del centrodestra: una visione del tutto speculare. Dopo le elezioni del 2008, quasi tutti i giornali sostennero che dal voto erano usciti due vincitori, appunto Veltroni e Berlusconi. Da una parte e dall’altra dello schieramento politico era avvenuta un’operazione di semplificazione: il cosiddetto “porcellum” era stato utilizzato per arrivare a un quadro fondamentalmente bipartitico. Non mi convinse quella interpretazione, che mi sembrò illusoria, prodotta da una lettura superficiale del voto e della stessa legge elettorale. ­103

Non c’è, infatti, un sistema che possa produrre bipartitismo se questo non appartiene alla tradizione politica di un Paese. E in Italia non c’è una cultura bipartitica, anzi. Per di più, in tutta Europa assistevamo a una tendenza generale verso la frammentazione dei sistemi politici, anche in relazione ai profondi mutamenti sociali di quella fase. Persino nel Regno Unito era entrato in crisi il bipartitismo. Non si capiva perché l’Italia avrebbe dovuto andare in controtendenza rispetto a questi scenari europei. Il risultato elettorale fu positivo per il Pd, tuttavia segnò la più ampia distanza tra centrodestra e centrosinistra che si sia mai rimarcata in tutta la Seconda Repubblica. La vittoria più netta di Berlusconi fu esattamente frutto di questa impostazione bipartitica, perché lo scontro fra due contendenti da sempre è terreno meno favorevole al centrosinistra. Nell’alternativa secca destra-sinistra, l’opinione pubblica del nostro Paese, per ragioni profonde, storiche, tende a far prevalere il fronte cosiddetto “moderato”. Il centrosinistra è una costruzione politica che comporta la ricerca di alleanze e che non è certamente favorita in un confronto di tipo referendario. D.  Tuttavia l’avvio del Pd è pieno di problemi, sarebbe troppo lungo raccontarli tutti. Ci sono crisi successive, con tre segretari di partito eletti in un breve lasso di tempo. Tu hai dato del Pd, a un certo punto, una definizione che è sembrata realistica e tremenda: un “amalgama malriuscito”. R.  L’elemento di insoddisfazione più profonda verso i primi passi di questa esperienza è stato la mancata costruzione del soggetto politico. Il Pd, sotto la guida di Veltroni, nacque con una impronta plebiscitaria. Non ho mai condiviso questa scelta e il suo fallimento segnò la crisi della segreteria Veltroni, portando alle sue dimissioni. Si immaginava il Pd come il partito del leader, le primarie come la sua investitura popolare e intorno al capo si voleva creare un gruppo dirigente composto dai suoi collaboratori. Era ­104

facile prevedere che questo schema producesse, al contrario, la proliferazione di molti centri di comando, con personalità che tendevano nella propria realtà ad andare per conto proprio. Il partito del leader, così concepito, favoriva la nascita di tanti piccoli partiti. Il centrosinistra, infatti, è un’area densamente abitata. Per usare un’immagine, non è l’Australia, con terre immense e popolazione scarsa. Siamo immersi nel bel mezzo dell’Europa, in un territorio più ristretto, con tanti abitanti che vivono in castelli, case di campagna e altri rifugi. Il centrosinistra è un’area dove ci sono storie, culture, personalità diverse che devono essere amalgamate, appunto. Se si crea, invece, un partito che pretende di ridurre questa ricchezza ad unum, si va verso la destrutturazione e il fallimento. Se non si crea progressivamente un senso di appartenenza a una comunità, non si può costruire un partito politico né ci si può illudere che questo si formi quasi miracolosamente, in una sorta di effetto catartico attorno alla figura del leader. C’è il rischio che il leader diventi come l’imperatore chiuso nella sua tenda, con i suoi armati a difenderlo, mentre intorno a lui e al suo accampamento ci sono l’arcivescovo di Magonza, il duca di Borgogna, il conte di Guastalla e altri feudatari, ciascuno con i suoi colori, le sue truppe, stretti a tutela dei propri interessi. Ecco come nasce un amalgama malriuscito. E, per usare un’altra immagine, non ho mai condiviso l’illusione che il Partito democratico si potesse formare così come si scioglie il sangue di San Gennaro, miracolosamente, di fronte a un popolo in estasi e apprensione. D.  Ma questa situazione che descrivi, questa stessa ricchezza del centrosinistra, non è stata fin qui un ostacolo alla nascita di una forte leadership? E non è questo, in realtà, un momento di debolezza nell’epoca del “partito personale”? R.  Certamente è un problema, e lo è stato nel corso di tutti questi anni. Sarebbe sciocco negare che la forza ­105

della leadership sia una condizione per garantire la coesione di un partito o di un’alleanza politica e sia anche un vantaggio competitivo in un sistema elettorale così fortemente personalizzato. Tuttavia, la forza della leadership nel nostro campo dipende, e continuerà a dipendere, non soltanto dalle qualità personali del leader, ma anche dalla disponibilità di una diffusa classe dirigente a riconoscere e a sostenere la personalità scelta per guidare il centrosinistra. Anche un leader legittimato dalle primarie, che pure rappresentano uno strumento straordinario di coinvolgimento e mobilitazione tanto più prezioso in un momento così difficile nel rapporto tra cittadini e politica, dovrà poi comunque misurarsi con il compito faticoso di riaffermare la sua funzione giorno per giorno. D’altro canto, al di là di ogni funzione presidenzialistica, non possiamo dimenticare che nel nostro Paese il candidato scelto con le primarie non diventa poi il presidente all’americana, ma resta il capo di un governo parlamentare e, se non è in grado di tenere insieme la sua maggioranza, rischia, pur avendo vinto primarie e “secondarie”, di tornare a casa. D.  Sei stato descritto come un avversario delle primarie, ovvero come uno che le vuole regolare fino a snaturarle... R.  Sono favorevole alle primarie e penso, in generale, che bisogna promuovere tutte le forme possibili di partecipazione dei cittadini e di coinvolgimento nelle scelte della politica. Ma le primarie sono una procedura democratica, non un rito salvifico. La democrazia è un insieme di regole, altrimenti si cede il passo al caos e allo spontaneismo. Le primarie promosse da un partito per la candidatura a cariche istituzionali monocratiche come, per esempio, il sindaco o il presidente di una regione sono certamente utili e importanti. Capisco già meno le primarie di coalizione, perché la competizione per il primato tra diversi partiti avviene nelle elezioni e non nelle ­106

primarie. Inoltre, non capisco le primarie per le cariche di partito. Le primarie hanno un senso per le candidature per responsabilità di governo ed è ragionevole regolarle anche considerando l’esperienza di altri Paesi. Lo abbiamo fatto perché nell’ultima campagna che ha avuto tanto successo, superando inutili polemiche, ci siamo ispirati al modello americano, che prevede l’albo degli elettori. Insomma, la mia idea delle primarie è che servono a rafforzare il rapporto tra cittadini e politica, e non a liquidare i partiti. D.  Il problema è che c’è una vasta area di opinione che sostiene che i partiti devono morire, che hanno esaurito la loro funzione storica e sono, anzi, sentine di tutti i vizi. È un’opinione assai diffusa anche a sinistra... R.  Non è così in nessuna parte del mondo democratico, dove i partiti rappresentano la forma principale di organizzazione della partecipazione politica. Certo, c’è una trasformazione in atto, che nasce anche dai profondi mutamenti sociali e delle forme di comunicazione, e sono convinto che occorre un grande sforzo di innovazione. Mi riferisco, in particolare, all’uso della Rete come strumento di dialogo con la comunità degli iscritti e degli elettori. Ma senza partiti in grado di costruire una mediazione tra i diversi interessi sociali e i diversi particolarismi, tutto il sistema democratico sarebbe più debole e gli interessi più forti sarebbero dominanti. Non è un caso che lo spirito antipolitico venga, nel nostro Paese, dalla parte socialmente più forte e sia un’espressione di quello che Antonio Gramsci chiamava il «sovversivismo delle classi dirigenti». Oltretutto, queste posizioni non sono una novità, ma, in modi diversi, si ripropongono in tutti i momenti di crisi della società italiana. D.  Però il loro punto di forza è senza dubbio il degrado dei partiti... ­107

R.  Certo, ma l’eccesso di personalizzazione e l’elettoralismo non sono un rimedio al degrado dei partiti. Al contrario, possono peggiorare la situazione. Il problema essenziale è rilanciare le ragioni ideali della militanza politica, ricostruire i partiti nella società come comunità di persone unite da valori condivisi. Nello stesso tempo, è fondamentale riconoscere i diritti di chi si iscrive a un partito e dedica a esso risorse umane, intellettuali, compiendo anche sacrifici finanziari per sostenere questa forma di partecipazione. Parlo di oltre 600.000 persone che sono iscritte al nostro partito. Quanto contano? In che modo possono incidere sulle scelte politiche del Pd? Non sottovaluto il valore dell’apertura alla società, ai movimenti civici, alle associazioni, ma mettere in piedi un partito significa costruirne le forme organizzate, di partecipazione democratica, di consultazione, definendo con maggiore efficacia i diritti di quelli che decidono di farne parte. Bisogna pensare di ridare senso a una appartenenza che in passato aveva motivazioni diverse, di natura ideologica, addirittura con speranze escatologiche. D.  Bersani una volta utilizzò un’espressione per indicare i militanti del Pd mai iscritti prima ad alcun partito e parlò di «nativi» come di creature da privilegiare rispetto a chi ha storie antiche. In che rapporto vedi i nativi con quelli che vengono da altre storie? Cosa hanno in comune? R.  I nativi sono i più giovani e non viene da loro la spinta a liquidare la storia del centrosinistra e il gruppo dirigente che ne è espressione. I giovani, quelli di 20 anni, hanno, al contrario, molto interesse a ricercare le radici del Partito democratico. Hanno curiosità verso le storie passate da cui veniamo, non soltanto verso le grandi questioni future. Tanto è vero che ho un ottimo rapporto con i Giovani democratici, con cui ho spesso occasioni di incontro e di discussione. ­108

D.  E quando lo chiedono a te, quali sono le radici che proponi? R.  Le radici del Pd sono nelle grandi tradizioni culturali e democratiche del Paese, quelle che hanno segnato la storia d’Italia, in particolare nel Dopoguerra. È in atto da tempo un’operazione di sradicamento, che ha teso a mettere in discussione la legittimità di queste componenti. Il Pci è stato raffigurato come una sorta di propaggine di Mosca, di accampamento cosacco, negando la sua storia nazionale. Pensa al dibattito su Gramsci: da una parte c’è chi sostiene che Gramsci sia una versione italiana dello stalinismo, dall’altra c’è chi lo vede come un eretico, vittima del suo partito, che avrebbe addirittura nascosto un Quaderno. In realtà, si vuole negare il fatto che, sia pure attraverso drammatici contrasti, il comunismo italiano ha nutrito la sua eresia con il pensiero di Gramsci. Questa delegittimazione non riguarda soltanto la storia del Pci. Anche la Dc è stata vista come una emanazione della Chiesa cattolica che avrebbe rallentato la modernizzazione del Paese. Lo stesso Partito socialista viene ridotto da alcuni all’immagine del partito di Tangentopoli. Ma in questo modo si fa tabula rasa di cinquant’anni di storia democratica. Oggi, il Pd è la forma moderna e attuale, proiettata nel futuro, di un partito, di una formazione riformista, che ricava la sua ragion d’essere proprio nell’avere radici in quella storia democratica del Paese. Se non c’è questo elemento di continuità, non ha senso il Partito democratico. Noi abbiamo una storia, siamo il punto di arrivo, di incontro di grandi tradizioni che hanno costruito la democrazia, trasformando un Paese in rovina in una delle maggiori potenze del mondo. È fallimento? Ma di cosa stiamo parlando? Certo, nessuno può negare che questa tradizione sia andata in declino negli anni Ottanta. Abbiamo vissuto una grande crisi, ma senza il senso della storia il Pd non ha fondamento. L’aspetto interessante è che i nativi del partito rappresentano una nuova genera­109

zione, curiosa di conoscere il passato per capire da dove veniamo. I giovani si rendono conto che è determinante avere delle radici. D.  Mentre questo accade a sinistra, il mondo di destra, che sembrava vincitore assoluto, comincia a vivere il suo declino... R.  Berlusconi ha fallito la prova del governo. La destra non ha prodotto significative riforme, ha esasperato i conflitti di interesse, ha paralizzato il confronto politico intorno al tema della giustizia, ma soprattutto non ha retto la sfida con la crisi economica e finanziaria. Con Berlusconi e Giulio Tremonti abbiamo assistito all’annullamento della politica di Ciampi e Padoa Schioppa. Il centrosinistra, infatti, aveva avviato una politica di rigore, di contenimento della spesa, di riduzione del debito pubblico, ottenendo risultati positivi. Nel 2006 la spesa della Pubblica Amministrazione era pari al 50,5% del Pil; nel 2007, primo anno del governo Prodi, è diminuita fino al 47,9%, per risalire, nel 2009, al 51,6% (fonte: Banca d’Italia). Per quanto riguarda, invece, il debito pubblico, quando noi lasciammo il governo, nel 2008, esso era pari al 103,6% del Pil, mentre arrivò, nel 2009, al 116% (Istat). Naturalmente, sappiamo che negli anni del governo Berlusconi è scoppiata la crisi finanziaria internazionale. Ma è anche vero che la destra è stata totalmente impreparata ad affrontarla e che noi abbiamo vissuto la paradossale condizione di essere l’unico Paese al mondo che ha attraversato la crisi internazionale con un governo che sosteneva che la crisi non ci fosse. Nella vicenda della destra italiana non c’è solo il populismo delle facili promesse, c’è anche un’impressionante impreparazione a governare.

Capitolo 5

La destra, la sinistra e Beppe Grillo

D.  Ma questo non ti pone anche degli interrogativi su quella parte di società italiana che ha seguito Berlusconi senza preoccuparsi di quel che accadeva tutto intorno? Cosa pensi del voto a Grillo, sul quale converge anche una parte dell’elettorato deluso dal centrodestra? R.  Il Movimento 5 Stelle rappresenta certamente una realtà per molti aspetti interessante. Anzitutto per il modo in cui è venuto costituendosi, per molto tempo nella disattenzione dei partiti e dei media tradizionali, sostanzialmente attraverso la Rete. Ma anche per l’indubbia capacità di mobilitare molti giovani e di offrire un’opportunità di partecipazione diretta e di protagonismo. È anche vero che la forza di Grillo e del suo movimento si alimenta della crisi dei partiti e dei troppi episodi di corruzione e di incapacità amministrativa che caratterizzano la vicenda di questa Seconda Repubblica. D’altro canto, il voto siciliano, dal quale emerge come unica proposta politica quella del centrosinistra, ha tuttavia reso evidente quanto sia profonda la crisi democratica, con l’astensionismo e l’exploit di Grillo. Detto questo, continuo a non capire quella parte più consapevole dell’elettorato che sceglie Grillo senza valutarne le conseguenze per il Paese. Quando un movimento viene rilevato dai sondaggi come il secondo o il terzo partito, è obbligatorio, per un elettore consapevole, cercare di ca­111

pire cosa farebbe il giorno in cui dovesse avere il governo del Paese nelle sue mani. Da quella parte sento arrivare le proposte più stravaganti e provocatorie. A parte l’idea inquietante di un nuovo processo di Norimberga che dovrebbe portare alla sbarra le donne e gli uomini che oggi rappresentano i cittadini nelle istituzioni, sento parlare di uscita dall’euro, di decisione di non pagare il debito pubblico e altre idee del genere, in un confuso intrecciarsi di smentite e conferme. Ho l’impressione che questi annunci stiano già rendendo più difficile la riconquista di una credibilità internazionale del nostro Paese. Figuriamoci se questa dovesse diventare la base di un nuovo governo... Sarebbe la rovina. C’è davvero un elettorato pronto a distruggere se stesso pur di distruggere i partiti? L’ho detto più volte: siamo un Paese dalla democrazia fragile e il rischio che settori dell’opinione pubblica passino da populismo a populismo senza curarsi del destino dell’Italia esiste, ma non voglio credere che possa trattarsi di una maggioranza. Gian Enrico Rusconi, in un articolo pubblicato sulla «Stampa» nel giugno 2012, ha messo a fuoco il tema della cosiddetta società civile dipinta come fonte di virtù salvifiche, raccontandone invece i limiti e i pericoli. La sua proposta è di non chiamarla più “società civile”, ma semplicemente società italiana. Esaltare la gente comune in contrapposizione ai partiti significa non vedere che siamo immersi in una crisi che taglia trasversalmente società e partiti. L’irrompere del populismo in un momento così drammatico indebolisce la coesione del Paese e il senso dello Stato. In quello stesso articolo, Rusconi ha indicato la necessità – e lo ha fatto in modo critico – di una politica forte, capace di parlare alla società il linguaggio della verità e, nello stesso tempo, capace di raccogliere una domanda di cambiamento. Questo è il terreno su cui accettare la sfida di un movimento come quello di Grillo, rispondendo alla domanda di partecipazione e di innovazione politica che lì si esprime. In questo senso, la Rete può certamente allargare le possibilità di dialogo e di coinvolgimento dei ­112

cittadini anche nelle scelte politiche e programmatiche. Questo, però, a condizione di non elaborare un nuovo mito della democrazia diretta, come se la Rete possa sostituirsi alle istituzioni rappresentative. Mi ricordo il tempo lontano in cui si pensava di governare con le assemblee studentesche... Sono forme di assemblearismo che hanno sempre un forte rischio antidemocratico. Pensiamo a una democrazia basata sull’assemblearismo cibernetico: taglierebbe fuori quei tantissimi italiani, la grande maggioranza, che non hanno accesso e non navigano su Internet. A parte il rischio, che vedo spesso in qualche esponente politico, di farsi condizionare dall’umore di diverse decine di utenti della Rete, arrivando al punto di diventare seguace dei seguaci. D.  Tu, nel corso di questa intervista, hai fatto ripetutamente riferimento all’esistenza di una maggioranza elettorale potenziale di centrodestra. Eppure questa destra, dopo la Dc, che non era un partito definibile semplicemente di destra, non ha più trovato “un centro di gravità permanente”. Fallito Berlusconi, non si capisce da che parte deve ricominciare. Come può andare avanti un Paese dove uno dei due poli si frantuma così clamorosamente? R.  La destra si riorganizzerà. È chiaro che l’uscita dalla lunga stagione del berlusconismo richiede tempo. Ma il problema di oggi è quello di dar vita a un asse di governo del Paese che sia credibile. Noi abbiamo bisogno di serietà, di una politica di rigore, di contare di più in Europa. Con Monti certamente abbiamo compiuto un passo in avanti molto importante in questa direzione. È chiaro che l’Italia non ce la farà senza una svolta vera nelle politiche europee, il che vuol dire uscire dai dogmi monetaristi. C’è un centrosinistra europeo che ha indicato misure concrete. L’Europa è il centro di tutte le possibili vie d’uscita dalla crisi, ma abbiamo bisogno di una vera governance economica. In questo senso vanno proposte come quelle ­113

della mutualizzazione di una parte del debito per abbattere i tassi di interesse e contrastare la speculazione, o le misure anti-spread, approvate ma non ancora utilizzate dai governi. Però, ciò che occorre con urgenza è una strategia per la crescita basata su investimenti europei e sulla possibilità di investimenti nazionali, anche attraverso una interpretazione più flessibile del Patto di stabilità. Inoltre, sono favorevole a un impegno per il completamento del mercato interno, superando barriere e situazioni di monopolio. Se l’errore del liberismo estremo è stato quello di coltivare l’illusione che la crescita potesse venire esclusivamente da riforme dal lato dell’offerta, sarebbe altrettanto illusorio pensare che da questa crisi si possa uscire con un puro ritorno alle politiche keynesiane. Ci sono giovani compagni che ci criticano per essere stati negli anni Novanta subalterni all’egemonia neoliberista. In realtà, come ha ben scritto Livia Turco sull’«Unità» a settembre 2012, i nostri governi «non solo risanarono i conti pubblici e ci portarono nell’euro, non solo seppero costruire una lungimirante politica estera, ma si contraddistinsero per una saldatura tra rigore e giustizia sociale». Non facciamo qui l’elenco, ma molte sono state le riforme, dall’introduzione del credito d’imposta, che guardava al Sud e ai giovani, agli investimenti sulla sanità, alle misure per la sicurezza sul lavoro. Certo, riconosco che a volte è mancata una visione d’insieme, una capacità di incidere su alcuni meccanismi sociali per imprimere quel cambiamento che avremmo voluto per uno Stato sociale più equo e inclusivo. E questo anche a causa del carattere della maggioranza che di volta in volta ha sostenuto i governi dell’Ulivo. Sono stato il primo a parlare dei limiti del riformismo dall’alto, del riformismo senza popolo: non basta avere un pacchetto di buone riforme, avanzate, se a queste non si unisce la partecipazione della società, se non hai un largo consenso che ti sostiene. Questo non lo abbiamo avuto, questo lo dobbiamo avere. In ogni caso, nella critica che ci avanzano vi sono elementi di verità che riguardano, con diversi gradi, ­114

l’insieme della sinistra europea e americana. Certamente occorre una svolta, ma non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca, e cioè non vedere che l’apporto di una cultura liberale, senza gli eccessi della deregulation, può arricchire la visione di una sinistra moderna. In realtà c’è bisogno di un mix di riforme che creino condizioni maggiori di competitività e sviluppo, ma allo stesso tempo grandi programmi d’investimento guidati dall’autorità politica. In particolare, in un Paese come il nostro, in cui le capacità di investimento privato sono limitate, il pubblico deve fare la sua parte. Del resto, il miracolo italiano fu sostenuto da grandi investimenti pubblici, non dalle piccole imprese, che arrivarono dopo. D.  Ma quando ci fu quel grande miracolo sostenuto dal pubblico, si sapeva dove andare a investire. Nel dibattito attuale, invece, non vedo emergere la stessa visione. R.  Anche adesso si sa su cosa investire. In particolare, sulle infrastrutture, un settore che vede il nostro Paese soffrire un gap molto serio rispetto agli altri. E poi sull’istruzione, sulla formazione e sulla ricerca, sull’innovazione nel senso dello sviluppo sostenibile. E, ancora, su quei settori in cui siamo maggiormente competitivi, come la meccanica e le nanotecnologie. Bisogna potenziare i nostri punti di forza. Tutto questo non richiede un piano quinquennale di antica memoria, ma il confronto fra le forze produttive e un impegno del potere politico che attivi la mano pubblica. All’origine della crisi attuale c’è il prevalere di un estremismo liberista che ha dominato la globalizzazione, soprattutto nel campo finanziario. Per uscirne, occorre recuperare anche valori e idee forti della tradizione riformista della sinistra: rilanciare la capacità regolativa delle istituzioni nazionali e internazionali, e riproporre in maniera moderna ed efficace il ruolo del pubblico come elemento di orientamento e sostegno. Con un obiettivo di fondamentale importanza: operare per la ­115

riduzione delle disuguaglianze sociali. Da questo punto di vista, i dati sono impressionanti: calo del potere d’acquisto dei salari, aumento della disoccupazione, allargarsi della forbice sociale, che non solo disgrega la coesione, ma spinge una parte del lavoro dipendente verso una marginalità culturale che può diventare massa di manovra del populismo. Guardiamo i numeri: nel gennaio del 2012, la differenza tra inflazione e aumento delle retribuzioni ha toccato il punto più alto (+1,9%) dall’agosto del 1995 (fonte: Istat) e il divario stenta a colmarsi (sempre secondo l’Istat, alla fine di novembre è dell’1,1%). Nel novembre 2012, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello record dell’11,1% partendo dal 6,1% del 2007, mentre la disoccupazione giovanile è arrivata al 36,5%, il dato peggiore dal 1992 (fonte: Istat). Nel 2011, il 20% delle famiglie italiane deteneva il 37,2% del reddito totale, mentre al 20% più povero restava l’8,2% (fonte: Istat). D.  Forse bisognerebbe cominciare da una critica di alcune categorie usate in questi anni: l’idea del primato del privato, del mercato, della piccola impresa... R.  Non c’è dubbio che bisogna puntare a una nuova sintesi. Questo non significa tornare alle nazionalizzazioni, come pure è avvenuto in alcuni Paesi con le banche. La questione è rimettere al centro un ruolo di indirizzo e di regolazione del potere pubblico, ivi compresi i grandi programmi di stimolo, di credito di imposta, di sostegno alla creazione di lavoro e di ricchezza. Gli americani, e non parliamo della Russia sovietica, hanno messo in campo centinaia e centinaia di miliardi di dollari in programmi di sviluppo e di stimolo all’economia. L’Europa delle destre si rifiuta di farlo e rappresenta, infatti, un gigantesco freno all’economia mondiale. E, se guardiamo al nostro Paese, vediamo che senza una politica fiscale e sociale più giusta non si rilancia neanche il mercato interno. Una delle ragioni della crisi è proprio la caduta dei consumi, sia per la ­116

grande incertezza nel futuro sia per un impoverimento generale delle famiglie, in particolare di chi vive del proprio lavoro. Anche qui il dato è impressionante, se pensiamo che, alla fine del 2012, si è registrato il peggior calo dei consumi privati che il Paese abbia conosciuto dalla Seconda guerra mondiale: –3,2% rispetto all’anno precedente (fonte: Ocse). D.  Leggevo in un recente libro di Paul Krugman una bella frase di John Maynard Keynes: «L’austerità va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi». Cioè bisogna, come sostieni anche tu, spingere sulla domanda. R.  Non c’è dubbio. Ha ragione Krugman e hanno torto i guru del monetarismo europeo, come la signora Merkel. Naturalmente bisogna ridurre la spesa corrente e aumentare le risorse per gli investimenti, operazioni attuate dai governi di centrosinistra. Tra l’altro, penso che una delle ragioni del dilagare senza controllo della spesa, quando a governare era il centrodestra, risieda anche nel modo in cui si è realizzato il federalismo, che ha mancato i suoi principali obiettivi: non ha portato all’efficienza della Pubblica Amministrazione né alla vicinanza del cittadino alle istituzioni. Anzi, nel decennio berlusconiano-leghista il Paese è retrocesso da tutti i punti di vista: crescita della spesa pubblica, perdita di competitività, aumento delle disuguaglianze sociali, allentamento del vincolo comunitario, del senso dello Stato e della soglia di legalità. Basti l’esempio della spesa pubblica corrente, che, al netto degli interessi, è passata dal 37,5% del 2001 al 42,6% del 2010 (Banca d’Italia). Oppure il dato sulla competitività: secondo il World Economic Forum, in dieci anni abbiamo perduto 13 posizioni nella classifica mondiale, passando dal 30º del 2000 al 43º posto del 2011. Tanto per dire, siamo dopo Porto Rico ed Estonia. Per questo c’è un’opera di ricostruzione profonda da fare da parte di una coa­lizione di centrosinistra che vada oltre i propri confini ­117

tradizionali. Occorre un’alleanza che, per essere forte e stabile, comprenda tutta la sinistra, e cioè coloro che credono nei valori dell’uguaglianza e del lavoro. Un’alleanza che coinvolga anche una parte del mondo moderato. Al contrario, non vedo spazio per quel giustizialismo populista che è estraneo alla sinistra italiana, un corpo che si è intromesso alterandone i connotati. A me interessa, piuttosto, ritrovare la sinistra. Oggi il conflitto non è tra la casta e la società civile, ma tra la destra e la sinistra, come in tutti i Paesi civili. Quando si arriva in momenti in cui la lotta per il potere tocca gli interessi forti del nostro Paese, avviene sempre questa operazione di camuffamento, per cui destra e sinistra scompaiono e viene in campo un’altra raffigurazione del conflitto. In tutta Europa, lo scontro è tra destra e sinistra su temi come crescita, giustizia sociale o difesa dal dominio del capitale finanziario, monetarismo e austerità. Parallelamente c’è un conflitto tra europeismo e populismo, cioè tra forze che puntano sull’integrazione politica dell’Europa come risposta alla crisi, e forze che puntano sulla crisi per ritornare indietro e rimettere in discussione le conquiste europee degli ultimi cinquant’anni. Anche in Italia è intorno a queste due discriminanti che deve formarsi una maggioranza di governo capace di essere rigorosamente a favore dell’Europa e, nello stesso tempo, capace di essere coraggiosa nel puntare su innovazione sociale ed economica. È totalmente artificioso e pericolosamente regressivo raffigurare la crisi italiana come se la sfida si debba giocare tra la casta e la società civile, quando è evidente che la crisi attraversa sia la politica che la società. Il rischio che corriamo è rimanere ai margini della battaglia politica per il futuro dell’Europa, il che sarebbe drammatico soprattutto per le nuove generazioni. D.  C’è quel vecchio rapporto fra pazienza e impazienza che affligge da sempre la sinistra. Oggi ci vuole pazienza per organizzare il campo, però i compiti ci spingono a essere impazienti. ­118

R.  Non si tratta di pazienza o impazienza, ma di avere la capacità di rappresentare la forza che faccia da collegamento con il centrosinistra europeo in movimento. Noi possiamo giovarci del rilancio dei progressisti in Europa, che avviene in parte su basi nuove. E la novità sta in una maggiore propensione europeista rispetto alla stagione degli anni Novanta, quando, su questo punto, socialismo e riformismo europeo fallirono, perché non furono capaci di imprimere il salto di qualità al processo di costruzione politica dell’Ue. Eravamo noi al governo, guidammo noi l’entrata nell’euro, ma non avemmo la capacità di promuovere una vera governance economica. Prevalse una visione ottimistica della globalizzazione e una sottovalutazione dell’esigenza di un governo politico dei processi. Oggi, invece, ci si rende conto che, nel tumultuoso cambiamento di questa epoca, gli Stati nazionali, divisi, da soli, non possono andare da nessuna parte. C’è la consapevolezza della necessità di un campo più ampio, che comprenda componenti democratiche, liberaldemocratiche, ambientaliste. E c’è una forte spinta europeista che la accompagna. Socialisti e socialdemocratici sanno di non essere in condizione di poter governare senza altre forze. François Hollande non avrebbe vinto se non avesse avuto il sostegno del centro democratico. In altri Paesi questo si traduce in logiche di coalizione: in Germania, l’Spd punta a tornare al governo. È certamente possibile che, se Angela Merkel e la Spd mantengono un forte primato, alla fine si torni a una Große Koalition. Ma, se vi fosse la possibilità di un’alternativa alla Cdu, questa sarebbe impensabile senza i Verdi, che, in quel Paese, rappresentano una delle componenti più europeiste. Ancora una volta, la nostra forza è essere il partito che può portare l’Italia dentro questo processo. D.  In questa prospettiva politica che idea di mondo ti sei fatto? R.  Stiamo attraversando una burrascosa trasformazione ­119

dei rapporti di forza. Il cuore, il motore dello sviluppo si sposta dall’Occidente verso l’Oriente. È avvenuto in altre epoche in senso inverso. In questo scenario, l’Europa perde progressivamente peso, anche demografico. Per questo mi convinco sempre di più che dobbiamo guardare all’immigrazione come a una risorsa, anche perché è la stessa Europa a dirci che, per mantenere un equilibrio tra lavoratori e pensionati nel Vecchio continente, avremo bisogno di milioni di nuovi cittadini nei prossimi dieci anni. In questo senso, dobbiamo fare come gli Stati Uniti d’America, che hanno reso l’immigrazione un loro punto di forza, attirando e coltivando talenti. È il contrario di quello che facciamo noi che, grazie a una politica miope, finiamo per respingere i migliori. È naturale che l’immigrazione di qualità non si diriga verso un Paese che nega i diritti fondamentali, a partire dalla cittadinanza. Va altrove. Quello che manca ancora è la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida inevitabile e che la nostra unica prospettiva è quella di stare in mezzo al cambiamento, cercando di mescolarci, non di rinchiuderci come se fossimo in una fortezza assediata. In questa partita abbiamo da giocare grandi risorse di storia, cultura e civilizzazione. Dobbiamo studiare il mondo che verrà, dobbiamo sapere che avremo meno privilegi rispetto al passato, di cui abbiamo goduto anche perché basati sull’emarginazione e la miseria di enormi masse umane. Ma forse avremo più opportunità. Adesso abbiamo di fronte centinaia di milioni di consumatori che chiedono progressivamente standard di vita europei. L’Europa deve puntare a offrire loro risposte di qualità. È un processo che va governato, non possiamo affidarci alla spontaneità, altrimenti il rischio è che generi ulteriori disuguaglianze insostenibili, conducendo a nuovi disastri. D.  Qual è la principale riforma politica che può dare incisività a questo ragionamento a livello europeo? R.  La principale riforma politica è quella di trasferire ­120

a livello europeo una serie di poteri fondamentali. Fare dell’Europa una grande potenza, integrata, in grado di agire in quanto tale su molte delle questioni che oggi sono di fronte a noi. C’è il terreno della governance monetaria, perché non ha senso che l’area dell’euro non abbia una rappresentanza unitaria nelle istituzioni finanziarie mondiali. Portando avanti, fino alle estreme conseguenze, il processo di costruzione in senso federale, con un trasferimento effettivo di poteri, l’Europa potrebbe anche aiutare a contenere la spesa pubblica dei singoli Paesi. Sul piano della difesa, penso alla progressiva messa in comune delle risorse militari, che consentirebbe una razionalizzazione e un sollievo per i bilanci nazionali. Stesso effetto avrebbe l’introduzione di un sistema di diplomazia integrata. In questi anni, l’Europa è andata indietro. È impressionante vedere come, di fronte alla crisi, le istituzioni comunitarie siano apparse indebolite. Solo il Parlamento ha avuto una maggiore visibilità politica, per il resto è apparso dominante l’elemento intergovernativo, anche se totalmente inefficace, incapace di superare gli egoismi nazionali, prigioniero di veti, affaticato e tardivo come nella vicenda greca. Si tratta di un aspetto cruciale, che rappresenta un progetto dotato di forza di trascinamento, perché porta con sé una carica di idealità, un’idea di futuro. Andare contro questi processi riflette un nazionalismo che nel passato era arrogante, adesso è patetico. Se si lasciano le cose come stanno, la tendenza sarà opposta: la debolezza dell’Europa accentuerà nell’opinione pubblica un sentimento antieuropeo che costituirà, paradossalmente, proprio la leva per indebolire ancor più l’Unione. Si affermerà con più forza l’illusione nazionalistica, che però è la via del declino delle nazioni. È un circolo vizioso. Spero che un centrosinistra europeista sia capace di svolgere un ruolo propulsivo, incarnando il progetto e la forza per ridare forma e sostanza a una nuova Europa. E con la sua unità politica, l’Europa diventerebbe un formidabile fattore di ­121

riforma della governance mondiale, di riorganizzazione delle istituzioni internazionali, tuttora ispirate a rapporti di forza usciti dalla Seconda guerra mondiale, che non sono più né attuali né rappresentativi. D.  Mi colpiscono alcuni ritorni nei ragionamenti sulla politica italiana: c’è il centrosinistra europeo che prende il posto della Terza via; i tecnici che tornano al governo del Paese, dopo Ciampi c’è infatti Monti; torna il tema del rapporto con i moderati, ieri Cossiga oggi Casini; siamo sempre alle prese con il populismo, questa volta è Grillo a dominare la scena; c’è il mondo radical che non sa scegliere tra sinistra di governo e pulsioni giustizialiste. È troppo semplicistico dire che ci sono dei ritorni? Le analogie sono inferiori alle differenze oppure è vero che c’è un passato che non passa? R.  Alcuni degli elementi a cui fai riferimento sono dati permanenti, nodi irrisolti della situazione italiana. Prendiamo uno solo dei temi che hai richiamato, quello del rapporto con i moderati, a cui il Pd ha cercato di fornire una risposta costituendo un partito che potesse avere in sé le diverse anime del centro e della sinistra. In questo modo, abbiamo cercato di dare al centrosinistra una identità nuova, che facesse cadere quel trattino sulla cui presenza tanto ci siamo divisi nel passato. Questa operazione ha indubbiamente rappresentato una novità, un punto di partenza fondamentale per una nuova stagione politica, ma non è riuscita a chiudere in sé l’esigenza di ricomporre il rapporto fra progressisti e moderati. Così, accade ancora oggi che il tema del dialogo con i moderati debba essere declinato anche guardando all’esterno del Partito democratico. Un dato è certo: il rapporto con i moderati resta una questione nodale della prospettiva italiana, per molte ragioni che riguardano la composizione sociale del Paese, il peso della Chiesa cattolica, i caratteri del ceto medio. ­122

D.  C’è un grande lavorio al centro che riguarda non solo Casini, ma Montezemolo ed esponenti del mondo cattolico come Andrea Riccardi e Andrea Olivero. R.  È evidente che anche in questa area politica si avverte un bisogno di novità e si muovono forze e personalità che non accettano di farsi rappresentare dall’Udc, che appare per molti aspetti una espressione della politica tradizionale. L’impegno di personalità del mondo economico e associativo è certamente un fatto positivo, purché ci si confronti con la politica e cioè con la ricerca del consenso e delle alleanze. Inoltre, non credo che sia auspicabile una ulteriore frammentazione e quindi, in definitiva, per quanto in questo mondo si possa essere critici verso l’Udc e le forze tradizionali, alla fine è auspicabile che con esse si trovi un’intesa. Altrimenti, il rischio è che si aggravino elementi di confusione e incertezza politica. D.  Mi colpisce che alcuni intellettuali radical sostengano, invece, che i moderati in Italia non esistono. Penso ai saggi recenti di Piero Bevilacqua o di Luciano Gallino sull’estremismo sociale dei cosiddetti “moderati”, che toglierebbe senso al tema del rapporto con loro. Insomma, si affaccia l’idea che quello dei moderati sia un falso problema della sinistra più tradizionale, quasi una invenzione politica... R.  È vero che si è fatto anche un uso propagandistico e distorto della parola “moderato”, cercando di raccogliere sotto questa insegna tutti quelli che si oppongono alla sinistra, compresi i più estremisti e faziosi. Tuttavia, la cattiva propaganda altrui non deve trarre in inganno. Parlando di moderati, intendo un’area in cui si collocano forze politiche, intellettuali, sociali che si costituiscono come centro democratico. È certamente un’espressione carica di un’ambiguità congenita, ma non si può sfuggire al dato innegabile della sua esistenza, né si può negare che essa si autodefinisca in questo modo. Si dichiara­123

no moderati e così li assumiamo noi per indicare il loro ruolo nella vicenda politica italiana. Negarne l’esistenza significa non vedere non solo una componente politica decisiva nella dialettica democratica del nostro Paese, ma anche ignorare il suo referente sociale, che è in gran parte espresso dal ceto medio italiano. Significa ignorare le diverse anime culturali che la percorrono, fra cui, decisiva, quella di matrice cattolica. Il rigetto del tema dei moderati, che è anche espressione del rifiuto delle alleanze politiche e sociali, rivela la persistente tentazione della sinistra a rinchiudersi in una posizione di opposizione, non come congiuntura, ma come scelta di vita, come tratto identitario. D.  Potresti ricordare la storia di quella vecchia compagna... R.  Proprio quella. Avevamo appena vinto le elezioni, nel ’96, e lei mi venne incontro e mi disse tutta felice: «Abbiamo vinto, ora finalmente possiamo fare un’opposizione dura!». È chiaro che quella vecchia compagna pensava al Pci, per il quale la prospettiva di andare al governo non era neppure ipotizzabile. Tuttavia, c’è un minoritarismo della sinistra che ne rappresenta un limite persistente ben oltre l’esperienza del Pci. Perché l’essere all’opposizione era considerato, e talvolta è ancora così, una condizione di natura che ha anche una connotazione etico-ideologica, accompagnata dall’idea di rappresentare una minoranza sana in un Paese malato. È il mito dell’“altra Italia”, che percorre tutti i movimenti etico-politici e affascina tanti intellettuali. È stato declinato in questo senso il tema berlingueriano della “diversità”, banalizzandolo. La sua concezione della diversità, infatti, non alludeva all’antropologia, ma costituiva il centro di una polemica sulla degenerazione della politica, sull’occupazione del potere e quindi sulla necessità che il suo partito, il Pci, si tenesse fuori da questo sistema. Era un invito a fare più politica, non meno politica, a mescolarsi di più con la società, non ­124

a trarsi sdegnosamente da parte, ricoprendo il ruolo dei puri lontani dalla politica. D.  L’altro dato che ritorna è l’antipolitica, di cui ci siamo lungamente occupati raccontando i primi anni Novanta e che ritroviamo trionfante all’inizio del secondo decennio del Duemila. R.  Sì, è il ritorno del sempre uguale. Non ci sono solo gli slogan popolari, ci sono anche gli scritti di grandi intellettuali. Penso alle pagine che Gaetano Mosca dedicava alla critica della democrazia, ho in mente la polemica antiparlamentare del primo fascismo. Molto di quello che abbiamo vissuto ieri torna nei toni e negli argomenti della polemica attuale. Penso alla matrice antipartitocratica dell’«Uomo qualunque» di Guglielmo Giannini, ivi compreso l’obiettivo di non rendere replicabile il mandato parlamentare, che fu un punto qualificante del suo programma e che aveva un’idea di fondo: impedire la formazione di un ceto politico, perché la politica doveva essere appannaggio esclusivo della borghesia. Il borghese, meglio se il grande borghese, per qualche anno faceva il parlamentare, poi tornava a fare l’avvocato, il medico, il redditiere. La critica al parlamentarismo e alla politica come professione era espressione di una difesa di ceto di fronte all’irrompere di nuovi soggetti sociali. D.  C’è anche un antiparlamentarismo di sinistra, una polemica contro il professionismo politico che viene da una parte del nostro mondo, che ha dimenticato, o non sa, che la remunerazione dei parlamentari, ad esempio, fu una richiesta imperativa del movimento cartista per aprire le porte delle assemblee ai rappresentanti dei ceti popolari. R.  Molti dimenticano proprio quelle che sono le radici dei movimenti democratici europei. La democrazia si afferma come democrazia di massa e quindi emergono i ­125

partiti come strumento di emancipazione della parte più debole ed esclusa della popolazione. Penso che l’antipolitica ci metta di fronte al riemergere di alcuni nodi di fondo, che rappresentano aspetti della debolezza relativa del nostro Paese rispetto alla maggiore coesione che hanno altri Paesi in Europa. Naturalmente, anche lì si affacciano movimenti di contestazione della politica, ma essi si confrontano con sistemi statali più robusti. E quando dico “Stato” non intendo parlare solo di una struttura, ma anche di un sentimento condiviso, di un senso di appartenenza a una comunità. Da questo punto di vista affiorano tutte le nostre fragilità. Anche per questo, la prospettiva del centrosinistra, così come accadde nei primi anni Novanta, si potrebbe riassumere nell’idea di rimanere fortemente agganciati al processo europeo come chiave della nostra modernizzazione, della trasformazione dell’Italia in un Paese normale, pienamente parte della democrazia europea. Ancora una volta, la risposta alla crisi italiana non può che ritrovarsi nel nesso nazionale-internazionale. Senza questa dialettica, il nostro Paese regredirebbe in una collocazione provinciale, marginale, diventerebbe terreno di conquista di grandi gruppi finanziari e industriali internazionali. D.  In questa fragilità del sistema politico italiano non si riflette anche la crisi del cattolicesimo democratico e del rapporto fra Chiesa e società italiana? R.  Sì, c’è una più ridotta capacità della Chiesa di essere un elemento coesivo del Paese. In una certa misura, sia la fragilità del senso di appartenenza alla comunità sia la scarsa presa del senso dello Stato sono state sostituite dal ruolo coesivo che ha avuto la Chiesa e che hanno avuto, nel Dopoguerra, i partiti popolari. L’indebolirsi di questa funzione della Chiesa, contemporaneamente alla crisi dei partiti di massa, accresce il rischio di una disgregazione del tessuto collettivo, favorisce l’emergere di particolarismi, ­126

di spinte corporative che tanto abbiamo visto fiorire nel corso di questi anni. D.  Come se ne esce? R.  Ripeto, perché ne sono profondamente convinto: la via d’uscita è nel rapporto con il processo europeo. Credo che per pochi Paesi come per l’Italia il progetto nazionale e quello europeo tendono a coincidere, a sovrapporsi e integrarsi. In questo senso mi interessa, qui e ora, ricordare il ruolo che ebbe il centrosinistra italiano nel ricollocare il Paese in un contesto europeo e internazionale. Sia la Terza via, sia il rapporto con i democratici americani rappresentarono la prospettiva nella quale, anche in modo creativo, si collocò il centrosinistra. Questo fu il nostro progetto per l’Italia, questo significò l’introduzione dell’euro, questo fu l’obiettivo che ci ponemmo quando immaginammo di trasformare il nostro sistema politico seguendo modelli continentali. Un traguardo raggiunto solo in parte, perché ci siamo fermati a metà strada, in una situazione abbastanza ambigua e anomala. Oggi bisogna ripartire e una nuova prospettiva non può che muoversi nella stessa direzione, naturalmente facendo i conti con quel che è cambiato, perché ormai viviamo nell’Europa della grande crisi. Non abbiamo più, di fronte a noi, come negli anni Novanta, l’Europa dell’ottimismo, quella che si aspettava soluzioni positive ai suoi problemi dal procedere della globalizzazione. L’Europa, in questa fase, deve ricostruire un processo democratico, di sviluppo, ha bisogno di una forte cultura critica della globalizzazione. Per molti aspetti, usando un’espressione tradizionale, direi che l’Europa ha bisogno di un moderno centrosinistra, capace di criticare la globalizzazione neoliberista e di correggerne le distorsioni. D.  Dobbiamo sapere che di fronte a noi cominciano a vedersi anche le tracce di uno sfaldamento di antiche certez­127

ze e sono state colpite alcune casematte democratiche. Ad esempio il modello sociale europeo dalla crisi esce molto indebolito. R.  Fortemente indebolito, su questo non c’è dubbio. E rischia di essere travolto se non ci sarà un nuovo processo di sviluppo, senza il quale l’arretramento investirà direttamente le condizioni di vita delle persone. L’Europa di oggi vede confrontarsi due scelte nettamente contrapposte: una fondata su politiche di sola austerità e dominate dai soli interessi dei mercati finanziari, l’altra su una forte ripresa di politiche di sviluppo e di innovazione. Se non si punta su questa seconda scelta, è impossibile immaginare un nuovo Rinascimento europeo. Non mi riferisco a una politica di investimenti pubblici senza criterio, ma – come ho detto prima – a interventi orientati a una crescita in cui forte sia la presenza dell’innovazione. Il deficit di innovazione, infatti, è stato una delle ragioni della crisi europea. Abbiamo visto come la disponibilità di manodopera a basso costo nei Paesi emergenti del mondo abbia fatto diminuire la spinta all’innovazione nell’economia, che era stata molto forte fino agli anni Novanta, con la rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni. Molta parte del capitale ha inseguito il lavoro dove costava meno e non ha accettato la sfida dell’innovazione. Eppure, è su questo fronte che noi europei dobbiamo puntare. Il vecchio modello produttivo non basta a garantire una nuova stagione di crescita e di sviluppo, né l’Europa può arrendersi a una prospettiva di delocalizzazione delle potenzialità produttive e diventare semplicemente il luogo della finanza. Se il capitale speculativo, finanziario e industriale scappa alla ricerca di lavoratori meno costosi, noi dobbiamo immaginare politiche pubbliche in grado di accettare questa sfida con un’accelerazione dell’innovazione che renda più conveniente tornare a investire qui, in Europa. La corsa verso mercati del lavoro maggiormente deregolati è anche una scelta priva di lungimiranza, perché è facile immaginare ­128

che, in quella parte di mondo, con l’industrializzazione cresceranno anche i sindacati e le rivendicazioni operaie. Noi dovremmo essere all’avanguardia di questo processo, preparandoci a difendere i diritti di quei lavoratori e creare al tempo stesso un nuovo habitat per un progetto di sviluppo che guardi all’avvenire e sia radicalmente innovativo. D.  In questo senso, l’Italia si presenta come un Paese strano, con forti handicap. Mentre in Germania e in Francia la tutela dell’industria che c’è, penso a quella dell’auto, ha portato anche a scelte coraggiose delle imprese e del sindacato, in Italia siamo molto indietro. Qui ci sono due poli da analizzare, il polo del sindacato e quello costituito da Sergio Marchionne, che vuole sradicare il sindacato dalla sua fabbrica. È una delle stranezze italiane... R.  Non c’è dubbio che la Germania sia riuscita, nella logica di un patto sociale, a preservare il suo apparato produttivo industriale meglio di come abbiamo fatto noi. È anche vero, però, che l’Italia resta uno di quei Paesi con le potenzialità produttive più significative. Una parte del nostro Paese sta dentro l’area produttiva europea più robusta e che ha, in questo contesto, le maggiori possibilità. Da noi sono mancati una politica industriale e un patto sociale in grado di rilanciare il sistema produttivo nazionale, mentre in Germania ci sono stati l’una e l’altro. E il rilancio tedesco sia della politica industriale sia del patto sociale è stato portato avanti in contrapposizione con una visione che da noi, viceversa, ha privilegiato la conflittualità sociale e di fabbrica, la rottura del patto con i sindacati. D.  Tu non sei entusiasta, come lo sono stati tuoi compagni di partito, di Marchionne... R.  No. Non voglio mettere in discussione i risultati che ha raggiunto negli Stati Uniti, ma nel nostro Paese non vedo quali benefici abbia portato lo stile del nuovo leader ­129

della Fiat. La questione che avevamo di fronte, e che io – devo dire – avevo cercato di affrontare quando ero al governo, era quella di scrivere un nuovo patto sociale, un patto per la produttività. La questione è ancora sostanzialmente irrisolta, malgrado l’accordo del novembre 2012. Il problema è che da una parte il tema della produttività viene interpretato solo in termini di flessibilità e adattamento da parte dei lavoratori. Dall’altra, si oppone una rigidità che scarica esclusivamente sulle imprese il compito di investire per favorire innovazione di processo e di prodotto. Cercare una sintesi sarà uno dei compiti più importanti e impegnativi di un nuovo governo di centrosinistra. Più che mai, su questioni del genere, si misura il fatto che non può essere un governo tecnico a scrivere un nuovo patto sociale. Questo è davvero un compito irrinunciabile della politica. D.  Nella prima parte di questa intervista hai ricordato come il sindacato, nei Paesi di più forte tradizione socialdemocratica, non si pone in termini di autonomia ma in termini di corresponsabilità con la politica. Il sindacato italiano questo ragionamento l’ha fatto fino a Luciano Lama e Bruno Trentin, mescolando autonomia e responsabilità. Dopo ha smesso di farlo... R.  Il sindacato italiano, rispetto ai principali sindacati europei, ha fatto un ragionamento in parte diverso, incardinato sul concetto di responsabilità nazionale. Il sindacato era portatore dell’interesse nazionale e lo poneva al di sopra dello stesso interesse corporativo. Questo veniva dalla tradizione antifascista e democratica. Era questa, infatti, l’ispirazione che portò Giuseppe Di Vittorio a formulare il Piano del lavoro, e Lama fu il continuatore di questa grande tradizione. Le difficoltà sono venute successivamente, sia per le modificazioni della società e dello stesso mondo dei lavori, declinato al plurale, sia per il mutamento radicale della politica. In questo contesto, credo che il sindacato ­130

viva ancora con difficoltà e in maniera problematica il tema della sua collocazione, nel tempo della democrazia dell’alternanza. Da un lato, la frammentazione e la divisione del mercato del lavoro hanno ridotto la sua capacità di rappresentanza e hanno via via spinto il sindacato verso una dimensione economico-corporativa in modo quasi esclusivo, indebolendo la sua funzione di rappresentanza generale. È stata una vera rivoluzione, che avrebbe dovuto far riflettere sul ruolo nuovo dell’organizzazione sindacale e sui suoi limiti. Al di fuori del lavoro sindacalizzato, è cresciuto un universo del lavoro precario, saltuario, ma anche flessibile e altamente qualificato, che non ha avuto rappresentanti né organizzazione. Milioni di lavoratori atipici sono stati lasciati completamente soli. Il sindacato fatica a radicarsi tra i nuovi lavoratori e rischia di rimanere un’organizzazione che rappresenta una fascia intermedia del mondo del lavoro e che tende, nel tempo, a ridursi irrimediabilmente. Nell’indebolirsi della sua funzione generale – ed ecco qui l’altro elemento di novità che citavo al principio di questo ragionamento – c’era l’arroccamento su un’idea tradizionale di autonomia sindacale, che non teneva conto che eravamo immersi nella stagione bipolare, con l’alternarsi delle maggioranze di governo, mentre il vecchio sindacato sapeva per certo chi avrebbe governato e chi no. D.  Mi ha molto colpito che Marchionne si sia abbattuto sul sindacato, ma anche sulla propria organizzazione professionale, senza che il mondo dell’impresa reagisse adeguatamente. Hanno accettato la sua “secessione” da Confindustria, forse ne hanno ammirato la volontà iconoclasta, hanno avvertito il pericolo di relazioni sociali fondate su continue prove muscolari, ma il mondo dell’impresa non ha discusso il fenomeno Marchionne. L’anti-Marchionne non è nato. R.  Il sentimento prevalente dentro Confindustria appare piuttosto diverso da quello di Marchionne. Non c’è lo spirito della contrapposizione. L’attuale leadership di ­131

Giorgio Squinzi si muove in maniera differente e, se guardiamo più in profondità, di fronte alla crisi nella realtà di molte aziende c’è stato uno sforzo di cooperazione, di tutela dell’occupazione, anche rinunciando a margini di guadagno. Purtroppo restano casi di grandi imprese che, per mantenere alti i profitti, colpiscono i lavoratori, dal punto di vista dell’occupazione, delle tutele e dei diritti. In questo momento il punto da cui bisognerebbe ripartire è che il lavoro e le imprese produttive hanno l’esigenza comune di ridurre lo spazio della speculazione finanziaria, hanno un nemico comune. Gramsci scriveva, in Americanismo e fordismo, che il mercato finanziario nel quale il risparmio non corre l’alea del mercato, perché tutelato dallo Stato, finisce per creare un’economia nella quale la rendita finanziaria è privilegiata, e la produzione e il lavoro sono penalizzati. Ebbene, oggi siamo in una fase in cui sono stati colpiti contemporaneamente gli interessi del lavoro e delle imprese. Il tema torna a essere quello delle nuove sfide sui mercati, che si sono fatti più esigenti, difficili, affollati di concorrenti vecchi e nuovi, innovativi sul prodotto o risparmiosi sul lavoro. Bisogna quindi riguadagnare competitività e ciò comporta un patto sociale, oltre a una capacità di ridisegnare una politica industriale, concertata, naturalmente, e non imposta dall’alto. Occorre individuare i settori in cui il Paese può essere ancora competitivo, mentre dobbiamo sapere che ve ne sono altri in cui saremo inevitabilmente destinati a vedere ridimensionato il nostro ruolo. Ed è proprio dove possiamo essere competitivi che è necessario concentrare le risorse pubbliche e private con programmi di ricerca e di formazione professionale. Oggi questa azione coordinata non esiste ed è un enorme elemento di debolezza del sistema Paese. Una strategia di crescita pretenderebbe una vera e propria guida politica, una capacità integrata di individuare i settori, di concentrare l’impegno in un mix di azione pubblico-privato. Nessun ritorno al vecchio statalismo. Penso infatti che le privatizzazioni siano state una necessità ­132

del Paese e andranno ancora avanti, anche se l’esistenza di alcune grandi imprese pubbliche è una risorsa per l’Italia. D.  Pensi a Finmeccanica... R.  Anche, ma ci sono Enel, Eni che sono tra le poche grandi imprese che stanno sul mercato mondiale. Il problema non è l’espansione della gestione pubblica. Anzi, affrontare il problema del debito comporterà una politica di dismissioni di patrimonio pubblico. Non c’è dubbio, però, che senza un’alleanza pubblico-privato e lavoroimpresa, che dovrebbe essere garantita dal centrosinistra, non si può pensare di creare sviluppo con una strategia per la crescita affidata esclusivamente alle riforme che gli economisti anglosassoni indirizzano solo sul lato dell’offerta, con una forte flessibilità del lavoro. Il ruolo del centrosinistra sta in una concezione attiva delle politiche pubbliche, altrimenti non c’è crescita. Un Paese come l’Italia ha un problema in più: noi rischiamo che progressivamente le parti più pregiate del nostro sistema produttivo e finanziario passino sotto il controllo di gruppi stranieri. Naturalmente, non credo che abbia senso un arroccamento nazionalistico, ma è assai discutibile che chi opera a casa propria, in un mercato protetto, possa assumere il controllo di attività determinanti per il futuro del nostro Paese. Liberalizzazioni e privatizzazioni devono anche essere intese come un’occasione per far crescere grandi imprese italiane in grado di competere sul mercato internazionale e questo richiede una qualche collaborazione tra poteri pubblici, imprese private e finanza, o per lo meno l’assunzione di una comune responsabilità per l’avvenire dell’Italia. Anche qui ci misuriamo con un male antico del nostro Paese: sembriamo a volte essere ancora quell’Italia di qualche secolo fa, dove, quando un esercito straniero assediava una città, trovava subito un alleato nella città vicina pronto a prestare le scale per scavalcare le mura di cinta e favorire il successo dell’assalto nemico. Purtroppo ­133

non sono stati rari, anche in questi anni, casi del genere, che difficilmente sarebbero pensabili in qualsiasi altro grande Paese europeo. D.  Intanto sono cresciute le disuguaglianze sociali e la povertà... R.  L’altro aspetto della strategia di sviluppo da affrontare è proprio il tema gigantesco del modello sociale, che investe tutti. È chiaro che la riduzione delle disuguaglianze sociali è condizione per far ripartire lo sviluppo in Europa, per riattivare il mercato interno del nostro continente. Siamo immersi in una involuzione dei rapporti sociali che vede crescere la quantità di persone messe ai margini della società, che vivono sempre peggio. Questo fenomeno riguarda non solo i tradizionali ceti popolari, la stessa classe operaia, ma anche settori della piccola borghesia. È un processo che produce frustrazioni, sentimenti di rivolta, alimenta antipolitica e xenofobia, e tutto ciò può cambiare anche i processi politici europei. L’Europa deve rendersi conto che sta perdendo il ruolo di potenza globale che esporta in tutto il mondo, che non è neppure più in grado di attirare investimenti come un tempo. La quota di investimenti mondiali che vengono verso di noi si è pressoché dimezzata negli ultimi quindici anni. La strada privilegiata, adesso, è quella che porta verso Cina, India e Brasile, come è naturale che sia. Insomma, la sua posizione è destinata a ridimensionarsi inesorabilmente, non è un fatto congiunturale. L’Europa deve sapere che non può neanche far leva sulle proprie risorse, ad esempio sul mercato interno come volano di sviluppo. Il mercato interno europeo, infatti, si è inceppato a causa della distribuzione ineguale della ricchezza, uno degli effetti della globalizzazione che non ha portato a una redistribuzione più ragionevole. Spontaneamente questo processo non è accaduto e, senza il ruolo attivo della mano pubblica, le disuguaglianze si sono moltiplicate. Inoltre, se vogliamo avere una ­134

distribuzione più equa della pressione fiscale che eviti che il peso dell’imposizione si scarichi esclusivamente sul lavoro e sulle imprese, dobbiamo sapere che lo possiamo ottenere soltanto con una fiscalità internazionale, con una tassa sulle transazioni finanziarie. Altrimenti, la volatilità dei capitali renderà impossibile l’intervento. Insomma, i progressisti europei devono misurarsi con queste sfide. Come si rimette in movimento un processo di sviluppo? Che condizione attuare per ridare forza alla democrazia? Queste sono le domande di oggi, che comportano la centralità del progetto europeo. La vera grande svolta culturale della sinistra è di diventare la forza più coerentemente europeista, liberandosi sia dall’idea che bisogna ridurre lo spazio della politica perché la globalizzazione provvederà da sola, sia dall’idea del “socialismo nazionale”, cioè dall’illusione dell’onnipotenza dello Stato-nazione. Una sfida che riguarderà soprattutto Hollande e il socialismo francese.

Capitolo 6

Monti e oltre

D.  Per il centrosinistra italiano, che deve affrontare questa transizione e questa rivoluzione culturale, c’è la risorsa, o l’ingombro, decidi tu, rappresentato da Mario Monti, il “tecnico” che guida il governo e che rinnova i fasti e le gesta di altri tecnici chiamati a supplire le défaillances della politica. La sua presenza nella politica italiana sarà una meteora o dovremo abituarci a pensare a lui come a un attore permanente del dibattito politico? R.  Il fondo della crisi della democrazia in Europa è in questa perdita di ruolo delle istituzioni politiche, che è anche una perdita di potenza, di capacità di incidere sulla realtà. Si è realizzato una sorta di divorzio tra politics e policies. Politics, come la definiscono gli anglosassoni, ovvero la politica, prigioniera di una dimensione nazionale (ricordo che Gramsci parlava di cosmopolitismo dell’economia e di carattere nazionale della politica), e policies, le politiche, cioè quelle decisioni che si sono spostate in gran parte in Europa. Accade così che la politica, quella con la “P” maiuscola, sia svuotata della sua capacità di incidere sui processi economici, degradando verso il populismo, mentre la gestione dell’economia, separata dalla politica, diventa tecnocrazia. Abbiamo descritto la coppia vincente della crisi, la cui affermazione tuttavia condurrebbe l’Europa alla rovina: tecnocrazia e populismo sono, in modo complementare, le due ­136

facce della crisi della democrazia europea. Si specchiano l’una nell’altra. Il populismo è la dimensione della politica ridotta a pulsioni, è una politica che non è più in grado di decidere, fatta di annunci, portatrice anche di speranze e di sogni, che alimenta e si alimenta di paure, ma non ha più in sé un progetto di trasformazione della realtà. Non ha più gli strumenti neppure per poter esercitare la sua forza di persuasione e di consenso. È una politica capace di raccontare storie, ma incapace di deliberare, in pratica conta meno, sempre meno. Invece, la tecnocrazia diventa gestione dell’esistente. In Italia abbiamo vissuto questa tensione suscitata dal binomio populismo-tecnocrazia ai massimi gradi. Il populismo, in una democrazia che è sempre stata fragile, è un rischio permanente. E si ripropone quasi negli stessi termini, a ogni passaggio di crisi, a ogni cambio d’epoca. In questa situazione, Monti ha rappresentato in modo fondamentale l’uscita dal berlusconismo e ha interpretato la capacità dell’Italia di tornare a parlare il linguaggio delle forze dirigenti in Europa. Se non sei in grado di essere accettato nel consesso dei grandi e dei potenti, se non hai i requisiti minimi, infatti, diventi un Paese minore, direi irrilevante. D.  Hai detto “forze dirigenti”, Monti che parla il linguaggio delle forze dirigenti. È l’immagine di lui che hanno e danno i suoi critici... R.  Sì, certo, parlo di forze dirigenti perché parlo dei grandi Paesi, delle leadership europee. Noi abbiamo avuto un capo del governo in grado di rivolgersi a queste, comprese le tecnocrazie di Bruxelles. Da questo punto di vista, Monti ha svolto la grande funzione nazionale di riportare l’Italia in un contesto europeo con una sua voce e una sua forza negoziale. Se non fosse riuscito in questo compito, avremmo avuto di fronte a noi una catastrofe di tipo greco. Secondo me, dobbiamo interpretare questo passaggio e la guida di Monti come una fase, una transizione, non come un approdo della crisi italiana. ­137

D.  A questo punto, qual è il destino di Monti? R.  Innanzitutto dipenderà da lui, se egli si sottrarrà ai tentativi di chi vorrebbe usarlo come un leader politico per contrapporlo al centrosinistra. È evidente che sarebbe un ruolo innaturale. Monti non è un uomo di sinistra, è un liberale, ma credo sappia bene che nella particolare vicenda italiana il centrosinistra è stato assai più liberale della destra, che ha avuto, e non da ora, una matrice statalista e populista. Se Monti manterrà una posizione estranea a ogni strumentalizzazione di parte e un dialogo aperto con il centrosinistra, sono convinto che per tutti noi, e innanzitutto per Bersani, egli continuerà a essere un interlocutore prezioso e una personalità importante per la credibilità internazionale del nostro Paese. D.  Non ti colpisce che negli ultimi vent’anni tre tecnici siano entrati nel gotha della politica con diversi destini e fortune? Parlo di Ciampi, Dini e Prodi. Tre volte la politica ha dovuto far ricorso a tre tecnici. Un caso? Se è un caso, è strano! R.  Sono casi abbastanza diversi, perché Ciampi e Prodi, pur essendo personalità di formazione più tecnica che politica, indubbiamente rappresentavano culture politiche del centrosinistra. Ciampi è un uomo dell’azionismo democratico, Prodi del mondo politico cattolico democratico. Da questo punto di vista, non rappresentano una vera novità in rapporto alla scacchiera europea, perché anche i grandi partiti europei, compresi i socialisti, governano con personaggi che sono stati formati o si sono allenati a governare nelle grandi tecnostrutture, penso alla francese Ena. La vicenda di Dini, invece, è particolare. Era ministro di Berlusconi dopo una carriera nel mondo bancario internazionale e in Bankitalia, e fu indicato da Berlusconi come proprio successore dopo la caduta del suo governo. Poi si spostò nel centrosinistra e dopo nel centrodestra, diven­138

tando un politico a tempo pieno. Monti, che pure ha alle spalle un’esperienza politica di grande rilievo come quella rappresentata dal decennio nella Commissione europea, non è, tuttavia, un uomo politicamente schierato. Ernesto Galli Della Loggia, mesi fa, mi ha accusato sul «Corriere della Sera» di voler arruolare Monti nella sinistra. Non l’ho detto, non lo penso. Penso che la visione di Monti, il suo liberalismo, non siano incompatibili con il nostro progetto. Del resto, se non lo avessimo ritenuto compatibile con noi, non lo avremmo sostenuto, come abbiamo fatto con lealtà. In particolare, vedo il suo pensiero e il suo agire politico non incompatibile con il progetto del nuovo centrosinistra europeo: sui temi della crescita e della solidarietà, di fronte al debito, Monti si è trovato a fianco di Hollande, non dalla parte dei conservatori. Detto questo, è evidente che noi dobbiamo delineare una prospettiva che vada oltre il governo tecnico e di unità nazionale. In Europa e in Italia sono in campo due discriminanti politiche, come ho già detto: quella tra europeismo e populismo, ma anche quella tra una destra monetarista e un centrosinistra in grado di rimettere in primo piano strategie per il lavoro e la crescita. Sono profondamente convinto che c’è un nesso tra questi due aspetti, e cioè che il processo europeo, ma anche una rinascita del nostro Paese non potranno ripartire con successo se non attraverso un profondo rinnovamento nel senso della giustizia sociale, della dignità del lavoro, dell’apertura di nuove opportunità. Non si potrà che andare oltre il tipo di riforme e di interventi che hanno delineato l’orizzonte del governo Monti. D.  C’è un orizzonte oltre Monti? R.  Su questo non c’è dubbio. Tuttavia, è evidente che nessuna prospettiva di trasformazione potrà esservi se non nel rispetto dei vincoli europei e dunque di quella politica di rigore alla quale Monti ci ha riportato dopo le avventure berlusconiane. Ma su questo terreno il centrosinistra ha ­139

già dimostrato di essere affidabile. Bisogna andare oltre l’emergenza e deve tornare la politica, da intendersi non come la pretesa di un ceto di tornare a comandare, bensì come confronto tra progetti e valori. E questo, dal nostro punto di vista, vuol dire che c’è bisogno di un governo di centrosinistra che assuma con forza, e con una prospettiva non breve, il governo del Paese. Le grandi trasformazioni a cui penso sono processi di lungo periodo, che hanno bisogno di mandati parlamentari esercitati da una maggioranza riformista. Occorre contrapporre al decennio berlusconiano un decennio riformista. E se vogliamo mettere mano a una trasformazione così profonda della società italiana, c’è bisogno di una forte e coesa maggioranza politica di centrosinistra. Detto questo, non condivido l’idea, avanzata da una certa area della sinistra, secondo cui Monti, in quanto liberale, è naturalmente di destra. Come accennavo prima, infatti, la destra italiana non è mai stata liberale, ma populista e statalista, e fondamentalmente Monti non appartiene a questa cultura. È straniero in quella patria. Il paradosso è che l’esperienza di centrosinistra è stata più liberale di quella immaginata e proposta dalla destra italiana. È stata liberale nel modo in cui può essere liberale la sinistra, ma le liberalizzazioni, l’apertura dei mercati, sono state misure perseguite dal centrosinistra, non dalla destra. Anche per questo, non ci si deve stupire di fronte al fatto che abbiamo potuto sostenere Monti senza reticenze. Nello stesso tempo, ripeto, il governo tecnico non è mai stato il nostro approdo e con il ritorno in campo di Berlusconi appare chiaro che il Paese è di fronte a scelte radicali che non contemplano più ipotesi di governi tecnici di unità nazionale. Oltre questo governo c’è una prospettiva di giustizia sociale, di crescita, di valorizzazione del lavoro: è questo il ritorno della politica che mi interessa. D.  Questo mandato largo per il centrosinistra, a cui tu pensi, deve fare i conti con le miserie del centrosinistra, con i nominalismi, i veti incrociati; e poi c’è l’azione politica ­140

di due aree che sono decisive nell’appesantire il clima nel centrosinistra. Una è quella che ricorrentemente abbiamo chiamato radicale e di sinistra e l’altra, su cui mi pare che il tuo giudizio sia più severo, è quella giustizialista. Il centrosinistra può fare a meno di una delle due? R.  Credo che la condizione per cui il centrosinistra possa tornare a essere una forza di governo in modo serio e duraturo sia il rafforzamento del Partito democratico. Un centrosinistra che si proponga come un insieme di pezzetti, di segmenti, rischia di essere incapace di garantire un asse di governo. Da questo punto di vista, l’impegno prioritario è creare un pilastro centrale, una forza garante. Lo dico apertamente: in questo momento penso che dovremmo proporre noi stessi come grande forza di governo. Io penso che una nuova fase della vita democratica del Paese comporti una valorizzazione del ruolo dei partiti. Questo non significa ridurre il peso della leadership, ma, come avviene nelle democrazie parlamentari europee, considerare i leader come espressione di un progetto collettivo, di un programma e di un’identità politica radicata nella società. Questa è stata, d’altro canto, la caratterizzazione che Bersani ha voluto dare alla sua candidatura, che appunto per questo rappresenta la cesura più netta rispetto alla stagione berlusconiana. D.  In Germania c’è il candidato cancelliere e ci sono le coalizioni... R.  Ci sono i partiti e poi le coalizioni. D.  Persino in Inghilterra c’è una coalizione... R.  Sì, ma in tutti i Paesi i cittadini votano per un partito che ha un suo profilo ideale e un suo programma. Solo in Italia si vota per una coalizione che viene identificata attraverso un candidato, mentre l’indicazione di una preferenza a un partito appare un aspetto secondario del ­141

sistema elettorale. Si tratta di una evidente distorsione in senso presidenzialistico, senza che vi siano le istituzioni, le garanzie, i contrappesi di quel sistema. È quel “presidenzialismo parlamentare” che Giovanni Sartori ha descritto come disastroso. Oltretutto, l’esperienza ormai ventennale ha dimostrato che queste coalizioni elettorali, che danno al cittadino l’illusione di decidere, poi, il più delle volte, non sono in grado di funzionare come coalizioni di governo. Inviterei a tornare alla politica fuori dalla pretesa ingegneristica di sciogliere i nodi politici con marchingegni elettorali. La politica sta nel ruolo di un grande partito riformista in grado di collaborare sia con quella sinistra più attenta ai temi del pacifismo e dell’ambientalismo, sia, al centro, con quelle forze moderate e democratiche che hanno rappresentato un argine importante in senso europeista al populismo di Berlusconi. Credo che si debba apertamente contrastare quella diffidenza, che si manifesta nelle nostre fila e all’interno del cosiddetto popolo della sinistra, verso la prospettiva di una collaborazione con l’Udc e, più in generale, con le forze e le personalità del centro. È evidente che ci sono questioni che ci dividono e sulle quali occorrerà discutere argomentando le nostre ragioni, come per esempio i temi dei diritti civili. Ma se vogliamo dirci la verità, la necessità di un confronto su tali argomenti non deriva dall’esistenza dell’Udc, ma dal rilievo che nella società italiana ha la questione cattolica e la presenza della Chiesa. D’altro canto, ricordo quanto fu complesso trovare nel governo Prodi un punto di compromesso sul tema del riconoscimento delle coppie di fatto, anche senza l’Udc. Dunque, non si può fare di queste questioni una pregiudiziale per impedire il dialogo e la ricerca di una comune prospettiva di governo tra progressisti e moderati. Né si può negare la coerenza con cui, in questi anni, le personalità che si sono raccolte nel cosiddetto Terzo polo hanno condotto insieme alla sinistra una battaglia contro il populismo di Berlusconi, anche rinunciando a posizioni di potere e a ruoli di governo. Credo che dobbia­142

mo uscire da una disputa schematica tra di noi. È chiaro che il Pd è una forza che aspira a raccogliere i consensi anche di un elettorato democratico moderato e che noi non deleghiamo questo compito a nessuno. Ma questo non può essere interpretato in termini di autosufficienza o di rinuncia al principio di realtà, come a dire “dato che siamo per il bipartitismo, Casini e Nichi Vendola non dovrebbero esistere e quindi non ci parliamo”. I fatti sono testardi ed è con la realtà che un grande partito deve misurarsi. Questo vale anche per il rapporto con Sel. Ricordo che essi volevano raccogliere la sfida di governo portandovi una parte di quella sinistra radicale che si era condannata alla marginalità e che aveva determinato la disfatta delle ultime elezioni politiche. Non c’è incompatibilità fra loro e noi. D.  Nella prima parte del libro, quando ricordi la crisi del primo Prodi, dici che a un certo punto Bertinotti patì il rapporto con il proprio mondo e non riuscì a rendere compatibile il sostegno al governo con il proprio mondo che lo voleva all’opposizione. Ma secondo te Vendola è andato oltre Bertinotti? R.  Se la prospettiva oggi è quella di un centrosinistra europeo, Sel può trovare una propria collocazione compatibile. Loro avevano due scelte difficili da compiere: la sfida del governo nel solco di un centrosinistra europeo, oppure volgersi verso una prospettiva di tipo populista. In fondo, l’esperienza greca è lì a dimostrare che ci sono diverse alternative: la sinistra radicale, con Syriza, ha puntato a svuotare i riformisti, usciti sconfitti dall’esperienza di governo, e a cavalcare un populismo antieuropeo sostanzialmente velleitario. La sinistra si è rotta e il risultato è stato che la destra ha vinto le elezioni e ha formato il governo, assumendo anche il tema del rapporto con l’Europa, mentre la sinistra riformista ed europeista si è trovata, volente o nolente, a doversi acconciare in una posizione di secondo piano. Non c’è stata più una discriminante destra versus ­143

sinistra, la discriminante è diventata Europa sì o Europa no. Se noi dovessimo avere una sinistra radicale di questo tipo, attratta da una prospettiva populista antieuropea, per l’Italia sarebbe un danno. In un simile contesto, infatti, il Pd sarebbe schiacciato nella logica dell’emergenza e costretto, per salvare il Paese e garantire l’attuazione delle politiche europee, a una collaborazione politicamente innaturale anche nella prossima legislatura. È merito di Vendola essersi sottratto a questa prospettiva. In verità, anche Bertinotti contribuì alle difficili scelte che ci portarono nell’euro. Purtroppo, dopo, egli non fu in grado di mantenere la coerenza di una sinistra di governo, e ciò contribuì all’esito disastroso – per loro – delle elezioni politiche del 2008. Sono fiducioso che Sel, anche tenendo conto dell’esperienza passata, avrà maggior forza e coerenza. Naturalmente, questo impegna anche noi a un’azione di governo che segni effettivamente una svolta verso la giustizia sociale e la riduzione delle diseguaglianze. D.  Non c’è solo Vendola, c’è un fiorire di gruppi e di personalità, penso alla lista arancione di Luigi de Magistris, al ruolo di Antonio Ingroia, alle posizioni di intellettuali come Gallino o Paul Ginzborg... R.  Se è per questo, c’è anche, su un versante di sinistra più tradizionalista, ciò che resta di Rifondazione comunista. Personalmente non credo che dall’insieme di questi gruppi e di queste personalità possa scaturire una proposta politica unitaria. Continuo a sperare che almeno chi ha un ruolo istituzionale significativo, come il sindaco di Napoli, voglia sostenere la prospettiva del governo di centrosinistra. Mi pare, inoltre, che un ipotetico raggruppamento di questo tipo finirebbe per spingersi in un’area elettorale nella quale già Grillo e, ancora per certi versi, Di Pietro hanno una posizione preminente. Penso che il centrosinistra che stiamo costruendo abbia la forza per parlare agli elettori che chiedono rinnovamento e anche ­144

rigenerazione morale della politica. Questo è ciò che noi vogliamo promuovere. Il qualunquismo e il giustizialismo sono estranei alla nostra cultura e alla nostra civiltà, e non credo debbano esserci cedimenti. D.  Ci stiamo girando attorno, ma il tema centrale è il Pd, la sua storia, il suo ruolo. Anche Bersani, nel suo discorso dopo la vittoria alle primarie, ha detto che ora la sfida è mettere in campo una proposta credibile per il Paese, governare “senza raccontare favole”. Qual è lo stato dell’arte nel Pd? R.  Il Partito democratico è emerso dalla prova delle primarie assai più forte e credibile di quanto non lo fosse prima. La candidatura di Bersani a governare l’Italia ci appare oggi come la prospettiva più accreditata per l’avvenire del nostro Paese. È stato giusto promuovere la sfida delle primarie e riconosco che le mie perplessità erano sbagliate, riflettevano una visione tradizionalista del ruolo dei partiti... D’altro canto, ognuno è figlio della sua storia. Il Pd si propone, oggi, come insostituibile forza centrale per il governo del Paese. Ma proprio nel momento in cui è naufragata l’ipotesi di un Monti-bis, che era stata proposta quasi come il frutto di una rinnovata pregiudiziale nei confronti della sinistra, è tuttavia importante definire con chiarezza il nostro rapporto con l’esperienza del governo presieduto da Monti. Sarebbe stata sbagliata la nostra contrapposizione a Monti, che non avrebbe avuto alcun senso nella condizione vissuta dall’Italia. E sarebbe stato altrettanto sbagliato considerare il suo governo come la fine della storia. Esso ha rappresentato una fase importante e positiva perché costituisce il riscatto dalla stagione berlusconiana, ma il compito della sinistra è delineare una politica che vada oltre questa fase, il che significa costruire una sinistra di governo. Se noi veniamo meno a questa funzione, facciamo un errore grave. Dunque – come da subito ho sostenuto – con Monti, oltre Monti. Certo, abbiamo criticato alcune scelte dell’esecutivo su punti per noi molto ­145

sensibili. Non avremmo potuto evitarlo: stiamo parlando della riforma del lavoro, sulla quale abbiamo avuto le nostre posizioni, della revisione della spesa pubblica, dove contrastiamo i tagli lineari alla spesa sociale, in particolare su sanità e istruzione. È ovvio: abbiamo sostenuto questo governo con il nostro profilo. Oltre Monti, però, non vuol dire contro Monti, soprattutto se consideriamo qual è stato il suo impegno per tenere l’Italia agganciata all’Europa. Questa sarebbe stata una logica suicida. Ora siamo in un passaggio delicato, dobbiamo ricomporre l’universo di centrosinistra per costruire una prospettiva per il futuro del nostro Paese. Chi vuole contribuire a questo progetto deve sfuggire alla sfera populista. D.  Il Pd oggi ha un leader consacrato con le primarie, vive un dibattito interno molto ricco e vede farsi avanti una nuova generazione di dirigenti – e non penso solo a Matteo Renzi – che possano condividere la guida del partito e la sfida del governo. Ti vorrei chiedere un bilancio di questi mesi di discussione anche aspra, di parole forse talvolta eccessive, ma anche di festa democratica... R.  Bersani ha vinto anche perché è apparso credibile sotto il profilo del rinnovamento del partito. Innanzitutto aveva già in parte promosso una nuova classe dirigente di giovani, che abbiamo visto impegnata in prima fila nelle primarie. E poi per il modo in cui ha affrontato la sfida con Renzi, nel senso che non ne ha negato il valore dirompente e innovativo. Certamente, per vincere, il centrosinistra deve farsi carico di una forte spinta, che effettivamente c’è, al ricambio della classe dirigente. Si tratta, però, di depurare questa carica innovativa dagli elementi che il nostro elettorato ha in parte respinto, e cioè da quella “rottamazione” che è apparsa molto di più che non il ragionevole venire avanti di una generazione più giovane. È apparsa come un tentativo di liquidare una storia e un patrimonio di valori. Anche per questo la campagna di Renzi si è concentrata ­146

contro le personalità più simboliche della sinistra e non è stata percepita dai nostri elettori come una minaccia verso un ceto politico piuttosto datato. Il quale, oltretutto, in particolare in diverse zone del Mezzogiorno, ha in realtà finito paradossalmente per sostenere proprio il sindaco di Firenze. Questo fatto lo ha danneggiato, determinando in molte aree del nostro elettorato una reazione di rigetto che si è manifestata chiaramente nel ballottaggio. D.  La vostra generazione quale obiettivo può darsi ora che è messa in discussione anche la sua presenza nella guida della sinistra, nei ruoli di rappresentanza e di governo... R.  Gran parte di ciò che potevamo fare l’abbiamo fatto, nel corso della prossima legislatura avverrà un passaggio di consegne e questo mi pare giusto e inevitabile. Credo che alla nostra generazione debba essere acquisita la costruzione di un rapporto tra la sinistra italiana e la sinistra europea. Attenzione, perché questo tema oggi torna a essere un punto nodale della prospettiva italiana. Ecco, credo che forse questo sia proprio il contributo maggiore che possiamo dare a un centrosinistra di governo per sostenere una nuova classe dirigente autorevole e credibile sulla scena internazionale. Ciò vale anche nel rapporto con gli apparati dello Stato. Ad esempio, quando noi andammo al governo per la prima volta, con Prodi presidente del Consiglio, era giusto che alla sinistra andasse il ministro dell’Interno. Io mi rivolsi a Giorgio Napolitano... È ovvio che se devi ricoprire una carica istituzionale di tale importanza, devi proporre una personalità autorevole e indiscussa. Non pensai che Napolitano fosse “scaduto” perché aveva fatto più di tre mandati, sarebbe stata una follia. D.  Si torna al rinnovamento nella continuità... R.  Siamo nell’ambito della ragionevolezza, della normalità più assoluta. Non c’è partito che abbia rispetto di sé ­147

senza avere il senso della continuità. Noi possiamo accompagnare questa fase di trasformazione, lo start up di una nuova classe dirigente, fornendo, come avviene ovunque, occasioni ed esperienza. Ci vuole un ragionevole mix tra innovazione ed esperienza per evitare di fare la fine della scimmietta della famosa favola di Gadda: la scimmietta che, trovato un elmo da pompiere, se lo mette in testa ma rimane al buio. Invece, devi trovare le persone in grado di mettersi l’elmo da pompiere e continuare a guardarsi intorno. Non è vero che la classe dirigente del nostro partito è, come viene detto, la più vecchia in Europa. Al contrario, l’età media del nostro gruppo parlamentare è più bassa di quella dei parlamentari dell’Spd e dei socialisti francesi. Con ciò non voglio certamente dire che non si debba proseguire coraggiosamente sulla via del rinnovamento della classe dirigente. Ma dobbiamo farlo partendo dalla realtà, non da campagne prive di verità. D.  Il dibattito sul cosiddetto rinnovamento ruota attorno al tema della non candidatura di molti dirigenti di lungo corso. Fra questi c’era il tuo nome. Matteo Renzi l’ha detto esplicitamente chiedendo a te, a Veltroni e a Rosy Bindi di non candidarvi, di applicare la regola del limite dei tre mandati. R.  Non mi sono mai candidato, è sempre stato il partito a chiedermelo. Come nell’ultima campagna elettorale, quando Veltroni mi chiese di fare il capolista anche a Napoli. Era il 2008 e il segretario del Pd era molto preoccupato per la situazione politica in quella città, letteralmente sommersa dai rifiuti. Una condizione drammatica, invivibile. Perché ti racconto questo episodio? Perché ho sempre pensato, immodestamente, di venire candidato alle elezioni non per fare un favore a me, ma perché la mia candidatura era utile al partito e alla coalizione. Ho sempre preso tanti voti, e in qualche caso talmente tanti che, oltre alla mia elezione, ­148

sono serviti per far eleggere qualcun altro. Spesso ho fatto da traino ad altri candidati. D.  Sono testimone della tua scelta nel 2001 di affrontare il rischio della corsa nel collegio di Gallipoli senza il paracadute dell’elezione certa nel proporzionale pugliese, che lasciasti a me... Adesso hai annunciato che non torni in Parlamento. R.  Personalmente ho sempre pensato che si possa dare un contributo anche in collocazioni diverse da quella parlamentare. Anche per questo, prima dell’inizio della campagna delle primarie, avevo parlato con Bersani, prospettandogli la possibilità e la mia propensione a non essere candidato alle elezioni politiche. Poi, come ha detto anche Pier Luigi, “mi hanno tirato per la giacchetta”. Insomma, siamo stati posti di fronte a una campagna di delegittimazione che ha messo al centro il tema dell’accantonamento di una intera generazione, senza distinguere e senza ragionare. Ecco perché, per un periodo, sono stato incerto sul da farsi, ma poi ho ritenuto che la cosa migliore fosse quella di confermare il mio orientamento iniziale e di annunciarlo pubblicamente. Ero convinto, così, di dare una mano a Bersani, depotenziando la campagna sulla rottamazione e contribuendo a rimettere al centro del confronto politico i veri problemi del Paese. Ero anche convinto che, in questo modo, mi sarei tolto dal ruolo scomodo di bersaglio e avrei fermato le polemiche di chi mi raffigurava in una posizione davvero innaturale, se si considera la mia esperienza: una persona arroccata nella difesa di una posizione di potere. Credo che il mio annuncio abbia funzionato nel senso che avevo auspicato. Inoltre, in tempi in cui la politica non gode di una buona immagine, il fatto che Veltroni ed io abbiamo detto che si può fare politica anche fuori dal Parlamento è stato un messaggio controcorrente. D.  Ma in fondo i rottamatori chiedevano solo l’applicazione dello statuto... ­149

R.  Lo statuto stabilisce il limite di tre mandati parlamentari, ma prevede la possibilità di deroghe. La volontà del legislatore è che si consideri che ci sono delle personalità che, per la loro storia, o per il loro consenso, o per le loro competenze, sono necessarie alla battaglia del partito nelle assemblee parlamentari. La via maestra è rispettare lo statuto. È il Pd che deve discutere e deve decidere quali sono i criteri delle deroghe e i criteri delle deroghe sono importanti per capire che cos’è il Partito democratico. Se è un partito che ha rispetto della sua storia, se ritiene di dover portare in Parlamento persone che hanno consenso e competenze per governare, oppure se è un partito che vuole assomigliare al movimento dell’“Uomo qualunque”. Come ti ho già detto, al secondo punto del suo programma, Giannini aveva la non reteirabilità degli incarichi. L’Uomo qualunque non è certo una novità inventata da Renzi, è una storia antica dell’Italia, di quando si teorizzava che la politica dovesse essere l’impegno amatoriale della borghesia. Da qui l’insofferenza verso i politici di professione. Sono stato in un partito, il Pci, in cui vigeva la regola della rotazione. Però a Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao, Giorgio Amendola, Nilde Jotti e ad altre personalità e dirigenti non veniva applicata, perché rappresentavano la storia, erano il simbolo del partito. La regola della rotazione non riguardava neanche figure come Giorgio Macciotta o Mario Pochetti, perché essi incarnavano competenze essenziali: Macciotta sapeva leggere il bilancio dello Stato, Pochetti sapeva governare il gruppo parlamentare. Questo per dire che il Pci aveva un’idea di sé, della sua storia, dei suoi simboli, delle sue competenze: li proteggeva compiendo scelte politiche. Sta tutto qui il tema delle deroghe. Per me non ne chiedo, ma personalmente ritengo che alcune deroghe debbano esserci. È evidente, infatti, che vi sono esperienze, competenze e personalità che è giusto che trovino spazio anche nel futuro Parlamento. ­150

D.  Hai detto che si può fare politica fuori dal Parlamento. Mi puoi spiegare dove e come? R.  Sono presidente della Fondazione Italianieuropei e sono particolarmente orgoglioso di un organismo culturale che non è mai stato la segreteria di un leader politico ma ha sempre rappresentato – ormai sono quindici anni – un punto di riferimento per il riformismo italiano. Sono attualmente presidente della Feps, la Fondazione europea per gli studi progressisti. Non si tratta soltanto dell’istituzione culturale dei socialisti e dei progressisti europei: parliamo di una parte di quel sistema politico, fatto di partiti, gruppi parlamentari, fondazioni culturali, che deve diventare sempre più importante, se vogliamo compiere un salto di qualità nell’integrazione politica e nel consolidamento di una democrazia europea. Sono nella presidenza del Pse e credo di svolgere un ruolo importante nel raccordo tra il centrosinistra italiano e le principali forze del centrosinistra europeo. D’altro canto, alla presidenza della Feps mi hanno portato i maggiori partiti socialisti e non il Pd, che di questi organismi ancora non fa parte. Dunque, non sono una persona in cerca di occupazione. Se il Pd e il centrosinistra hanno bisogno di me, sanno dove trovarmi. D.  Hai ricevuto in questi anni molte critiche assieme a tanti consensi: qual è la critica che più ti è stata rivolta in tutti questi anni e che ti ha particolarmente ferito? R.  L’accusa di essere un intrigante sleale. Sono una persona leale, non ho fatto mai complotti contro nessuno. Questa raffigurazione continua di quello che complotta di qua o di là, mi urta. Perché non è vero, anzi. Ho avuto una certa durezza nella lotta politica, ma ho sempre avuto un grande rispetto verso le persone. Non ho mai tramato nell’ombra, semmai ho combattuto alla luce del sole. Se in qualche momento ho sacrificato qualcuno, ho sacrificato me stesso. Ho difeso Prodi fino a quando è stato ragione­151

volmente possibile e, dopo che Prodi ha smesso di fare il presidente del Consiglio, ho lavorato affinché diventasse presidente della Commissione europea, non certo per cancellarlo dall’arena politica italiana. Semmai il contrario. Ho avuto uno scontro duro con Veltroni, ma poi l’ho proposto vicepresidente del Consiglio. Questa raffigurazione di un D’Alema manovriero è falsa e nasce da stereotipi culturali di matrice reazionaria. C’è tutta la diffidenza verso il togliattismo, verso la doppiezza comunista, che è stata una chiave interpretativa della mia persona e che è stata anche introiettata da una parte della sinistra. Posso fare bene o male, posso sbagliare, ma sono una persona leale, persino ingenuo negli aspetti personali della lotta politica. Questa accusa mi ha danneggiato, tuttavia non c’è nulla di irrimediabile, come vedi sono sempre qui. D.  Comunque è leggendario il tuo cattivo carattere. Io un po’ ti conosco e ho visto le tue asprezze ma anche l’atteggiamento che hai verso i compagni di base. Sono testimone di un doppio D’Alema, amabile con i compagni di sezione e respingente in alcuni rapporti personali. Non ti pesa questa cattiva fama di uomo difficile, intrattabile, supponente? R.  No, anzi. Sono totalmente favorevole ad avere un cattivo carattere. Oltretutto è un’ottima difesa nei confronti dei seccatori. Ma la realtà è che il mio cattivo carattere è molto selettivo, e in particolare non si rivolge contro le persone più semplici o verso le tantissime persone che apprezzo e che stimo. Verso un certo potere, invece, non nascondo la mia ostilità, anche se so che questo comporta il pagamento di un prezzo. D.  Parlo di altro, parlo di un tuo atteggiamento che tende a mettere in condizione di inferiorità il tuo interlocutore... R.  Se accade chiedo scusa, perché effettivamente è un atteggiamento che non piace neppure a me. ­152

D.  Il tema dell’antipatia del gruppo dirigente della sinistra esiste anche nella vulgata popolare. Ho raccontato in altre occasioni un episodio dei giorni successivi alla chiusura dell’«Unità». Mi telefonò Sandra Mondaini per dirmi che lei e suo marito, Raimondo Vianello, seguivano Berlusconi, ma lei era in angoscia per il nostro giornale e per la sua sorte e poi mi parlò della sinistra e della sua diffidenza verso la sinistra. Fra gli argomenti che usò c’era quello dell’antipatia della classe dirigente di sinistra. So che non si riferiva a te, fece altri nomi, però come vedi il tema è interamente politico. R.  Giusto. Ma questo mio apparire talvolta spocchioso non corrisponde veramente al mio animo. Quando mi capita di andare a fare la spesa al mercato la mattina, incontro signore che mi dicono che non ho quell’aria che sembra trasparire dalla televisione. La verità, la mia verità, è che sono una persona normale con le persone normali. D.  Rivendichi l’antipatia. R.  Rivendico le mie ragioni. D.  All’inizio del libro dici che da ragazzo una volta sola hai pensato di fare a meno della politica... R.  No, mai. Mi capitò di pensare che si potesse uscire dal Pci, non dalla politica. In quel tempo avrei cercato di partecipare alla costruzione di un altro partito. E comunque mi convinsi subito che non era il caso. D.  Adesso non riusciresti a immaginarti fuori dalla politica? R.  La politica è una scelta di vita, come è stato autorevolmente scritto da Giorgio Amendola. È qualcosa che ti rimane addosso, non è un lavoro che si fa per un certo ­153

tempo e poi se ne fa un altro. La politica ti prende, è una passione, o se si vuole una malattia da cui non si guarisce mai. La puoi fare in tanti altri modi, attraverso il giornalismo o l’impegno civile nell’associazionismo. Ma quella che fai è sempre politica. Naturalmente, non significa fare sempre il parlamentare o il funzionario di partito. Se la politica è il tentativo di cambiare il corso delle cose secondo una visione e valori e convinzioni forti, è una dimensione di vita dalla quale, secondo la mia esperienza, non si esce più, se non in modo totalmente traumatico, quando ti capita di essere sbalzato via. So bene che per molti cittadini l’impegno politico può durare anche lo spazio di un mandato, ed è giusto e importante che sia così. Ma perché molti possano compiere questa esperienza, è necessario e utile, io credo, che ci sia un certo numero di persone che si dedicano alla politica in senso professionale. Certo, è fondamentale che chi fa questo non pretenda il monopolio della vita pubblica, ma sappia mettersi al servizio degli altri, dei cittadini. Questa è una delle condizioni della democrazia moderna e su questo equilibrio si sono fondati i partiti e il funzionamento delle istituzioni. Non vedo in campo un modello alternativo e più avanzato, ma solo il rischio di una pericolosa regressione. D.  Torna, intanto, lo scontro fra la democrazia ateniese e quella romana, il primato della democrazia diretta rispetto al sistema della delega anche breve... R.  L’assemblearismo e la democrazia diretta li abbiamo conosciuti anche nella nostra giovinezza. Quando si sono contrapposti ai partiti e alla democrazia rappresentativa, hanno prodotto l’estremismo e la negazione della democrazia. E, come abbiamo già detto, questo rischio si ripropone oggi con una certa mitizzazione della democrazia della Rete. D.  A volte la democrazia della Rete è una democrazia di ­154

anonimi. Scompare quel metterci la faccia che è l’essenza della partecipazione democratica. R.  In generale, con qualsiasi forma di espressione, l’anonimato eccita ogni forma di violenza verbale e di radicalismo. D.  Mentre l’altra forma di democrazia presuppone la responsabilità. R.  Dobbiamo tener conto che l’uso di Internet oggi è nella disponibilità solo di una parte della popolazione. C’è tutto un mondo che non partecipa alla Rete e, d’altronde, dobbiamo recuperare tutta una fascia di persone deluse e sfiduciate. Una democrazia vera deve saper sollecitare la partecipazione di tutti. E poi c’è un altro aspetto: la Rete non annulla i fenomeni di leaderismo, anzi li accentua, rendendoli spesso più oscuri. Preferisco una democrazia fatta di uomini e donne in carne e ossa che decidono di partecipare e che si assumono rischi e responsabilità. Dunque, sono convinto che la Rete può aiutare questa crescita democratica, ma non può esaurirla del tutto. D.  La nostra chiacchierata è terminata. Si è svolta durante giornate difficilissime per l’economia del nostro Paese. È probabile che queste difficoltà saranno le stesse che i lettori avranno di fronte mentre maneggeranno questo libro. Tu fai riferimento al tema della responsabilità della politica, agli obblighi che ha una classe dirigente. Qual è la cosa più urgente che è di fronte a noi? R.  È urgente dare una prospettiva politica forte e convincente al nostro Paese. Una prospettiva in grado anche di rimotivare i cittadini e di offrire un orizzonte di speranza. È l’unico modo per uscire dalla crisi, è questo il compito per il quale abbiamo indicato Bersani come nostro candidato, con l’obiettivo, in alleanza con altri, di imprimere una svolta all’Italia. Perché, malgrado tutti gli sforzi che il ­155

governo Monti ha compiuto, noi siamo in una situazione ancora molto complicata. Ormai anche i mercati si interrogano se questo Paese abbia o no una prospettiva politica di fronte a sé e se essa sia in grado di garantire la serietà e il rigore dell’azione di governo da una parte, e di avere respiro e tempo per promuovere la crescita dall’altra. Questo è il grande problema italiano oggi: restituire una prospettiva politica, rimettendo al centro la sua vocazione europea. Contro questo progetto si scatena un’offensiva da vari fronti: c’è Berlusconi, che vuole sbriciolare tutto e gettare il Paese nel caos. Vuole gestire, così, una sua rendita di posizione nel sistema politico. C’è l’antipolitica, che appare con forme e leader sempre diversi, ma è un fenomeno ricorrente nella storia italiana, non solo di questo secondo Dopoguerra. Ci sono, infine, forze che vogliono cogliere l’occasione della crisi per spostare il potere dalle istituzioni democratiche e dalla politica verso altri corpi, verso altri poteri. Non voglio criminalizzare alcuno, ma a me pare evidente che questa sia oggi la partita: ci sono forze che puntano allo sfascio, a colpire, a delegittimare in profondità le istituzioni democratiche per aprire la strada a commissariamenti di lunga durata. Siamo un Paese che, proprio per la sua fragilità attuale, attira su di sé diversi interessi. Ci sono tanti pezzi pregiati della nostra economia che fanno gola. Se questo Paese non è più in grado di difendersi, se si disgregano le sue istituzioni, se la politica perde di credibilità, è più facile impadronirsi dell’Eni, dell’Enel e di tante altre aziende che hanno mostrato grande vitalità e sanno stare sul mercato mondiale. Se mi guardo attorno, se osservo il dibattito politico, a volte anche all’interno del Pd, non vedo la percezione del passaggio straordinario che stiamo attraversando. Rispetto a coloro che giocano allo sfascio, chi, come noi, vuole costruire una prospettiva deve dar prova di autodisciplina, di responsabilità, di forza. Ci sono momenti in cui si discute, si disputa la leadership, ci si confronta su certe issues programmatiche, si analizza il rapporto di forza tra ­156

le correnti interne, si lascia correre anche l’ambizione personale. Ci sono momenti in cui tutto questo è normale, fisiologico e comprensibile. Ma adesso è diverso: siamo in una crisi drammatica, che non è solo italiana, ma che in Italia ha un suo epicentro. Rappresentiamo uno degli anelli deboli della catena, per questo penso che un partito come il Pd, che è il maggior partito italiano, debba spendersi per salvare il Paese, accantonando problemi che potranno essere affrontati dopo, quando, proprio grazie al nostro contributo, saremo finalmente fuori dalla bufera. Ora è il momento di chiamare a raccolta chi è pronto a condividere le responsabilità di governare il Paese per invertire la deriva del declino e rimettere in movimento le energie migliori della società italiana.

Gli Autori

Massimo D’Alema è presidente della Fondazione di cultura politica Italianieuropei e della Foundation for European Progressive Studies (Feps). Nel gennaio 2010 è stato eletto presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Dal 2006 al 2008 è stato vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro degli Esteri del governo Prodi. Dal 2004 al 2006 è stato parlamentare europeo e ha ricoperto l’incarico di presidente della Delegazione permanente per le relazioni tra l’Unione europea e il Mercosur. È stato eletto alla Camera dei deputati a partire dal 1987. Dall’ottobre 1998 all’aprile 2000 è stato presidente del Consiglio dei ministri. Dal 2003 al 2012 è stato vicepresidente dell’Internazionale socialista, nel dicembre 2000 è stato eletto presidente dei Democratici di Sinistra e dal 1994 è stato segretario del Pds. Ha fatto parte del Comitato centrale, della Direzione e della Segreteria del Pci. È stato segretario nazionale della Federazione giovanile comunista italiana. Peppino Caldarola, giornalista, è stato inviato a Mosca, caporedattore, condirettore con Veltroni e due volte direttore dell’«Unità». Ha fondato e diretto Italiaradio e negli anni di Berlinguer è stato vicedirettore del settimanale di politica e cultura del Pci «Rinascita». Ha collaborato al «Riformista». Per sette anni è stato parlamentare dei Ds-Ulivo.

Indici

Indice dei nomi

Agnelli, Gianni, 58-59, 61, 75. Amato, Giuliano, xiii, 10, 21, 25. Amendola, Giorgio, 150, 153. Andreatta, Beniamino, 38. Andreotti, Giulio, 11, 13, 16, 59. Aznar, José María, 66. Barbera, Augusto, 27, 29. Bartholomew, Reginald, 67. Berlinguer, Enrico, 3. Berlinguer, Luigi, 29. Berlusconi, Silvio, v-vi, viii, 10, 22-23, 29, 31, 33-36, 38-42, 44-47, 50-51, 53, 62-63, 8284, 86, 90-92, 102-104, 110111, 113, 138, 140, 142, 153, 156. Bernabè, Franco, 77. Bersani, Pier Luigi, v, vii, ix, xiv, 77, 102, 108, 138, 141, 145146, 149, 155. Bertinotti, Fausto, 48-49, 51, 90, 92, 143-144. Bettinelli, Ernesto, 45. Bevilacqua, Piero, 123. Bianco, Gerardo, 27. Bindi, Rosy, 148. Blair, Tony, x, 66, 71-72. Bonino, Emma, 57.

Borsellino, Paolo, 17-18. Bossi, Umberto, 39. Brandt, Willy, 10. Bufalini, Paolo, 8, 15. Bush, George W., x, 66-67. Casini, Pier Ferdinando, 92, 122-123, 143. Cervetti, Gianni, 22. Chiarante, Giuseppe, 27. Chiaromonte, Gerardo, 8. Chirac, Jacques, 66. Ciampi, Carlo Azeglio, xiii, 25, 29, 34, 54, 58, 76-77, 92, 110, 122, 138. Ciancimino, Massimo, 19. Cipriani, Emanuele, 76. Clark, Wesley, 66. Clinton, Bill, 66-68, 71-73, 96. Clinton, Hillary, 72. Cofferati, Sergio, 60, 84-85. Colaninno, Roberto, 74, 77. Colletti, Lucio, 33. Confalonieri, Fedele, 45. Conso, Giovanni, 18. Cossiga, Francesco, 11-13, 41, 51-52, 54, 56, 59, 122. Cossutta, Armando, 5, 57. Craxi, Bettino, 9-11, 16-17, 2425, 29-30, 32.

­163

Ingrao, Chiara, 63. Ingrao, Pietro, 5, 63, 150. Ingroia, Antonio, 144.

Cuccia, Enrico, 75. Daley, Richard, 72. D’Ambrosio, Gerardo, 22. De Benedetti, Carlo, 22. De Castro, Paolo, 55, 57. De Gregorio, Sergio, 102. Del Pennino, Antonio, 22. Del Vecchio, Mauro, 70. de Magistris, Luigi, 144. De Mita, Ciriaco, 10, 17. De Rosa, Gabriele, 27. Diliberto, Oliviero, 57. Dini, Lamberto, 39, 51, 138. Di Pietro, Antonio, 23, 50, 144. Di Vittorio, Giuseppe, 130. Draghi, Mario, 77.

Jotti, Nilde, 150. Keynes, John Maynard, 117. Krugman, Paul, 117. Lama, Luciano, 130. Letta, Enrico, 102. Livni, Tzipi, 96.

Falcone, Giovanni, 17. Fanfani, Amintore, 101. Fassino, Piero, 84, 87, 92-93. Ferrara, Giuliano, 92. Fini, Gianfranco, 39, 44, 46, 92. Forlani, Arnaldo, 16, 17. Fossa, Giorgio, 58. Gadda, Carlo Emilio, 148. Galli Della Loggia, Ernesto, 139. Gallino, Luciano, 123, 144. Gardini, Raul, 24. Geremicca, Federico, 4. Giannini, Guglielmo, 125, 150. Ginzborg, Paul, 144. Giuva, Linda, 50. Gorbaciov, Michail, 5, 12-13. Gramsci, Antonio, 107, 109, 132, 136. Greganti, Primo, 23. Grillo, Beppe, 31, 111-112, 122, 144. Grossman, David, 99. Hollande, François, 135, 139.

xi,

119,

Macaluso, Emanuele, 8. Macciotta, Giorgio, 150. Magno, Bruno, 14. Mancini, Marco, 76. Mancino, Nicola, 55. Marchionne, Sergio, 129, 131. Marini, Franco, 49. Martinazzoli, Mino, 26-29, 37. Martini, Carlo Maria, 99. Mastella, Clemente, 56, 103. Mattarella, Sergio, 37. Merkel, Angela, 117, 119. Micheli, Enrico, 55, 57. Milosević, Slobodan, 63, 68. Milutinović, Milan, 63. Minniti, Marco, 52. Misserville, Romano, 57. Mofaz, Shaul, 96. Mondaini, Sandra, 153. Monti, Mario, vii, xiii, 70, 90, 97, 113, 122, 136-140, 145-146. Moratti, Letizia, 57, 58. Morsi, Mohamed, 98. Mosca, Gaetano, 125. Mussi, Fabio, 6. Napolitano, Giorgio, 8, 19, 28, 93, 147. Netanyahu, Benjamin, 96. Obama, Barack, 96. Öcalan, Abdullah, 69-70.

­164

Occhetto, Achille, 3-8, 13-17, 22, 24, 27-30, 34, 37. Olivero, Andrea, 123. Orlando, Leoluca, 18. Padoa Schioppa, Tommaso, 61, 110. Pajetta, Giancarlo, 150. Pannella, Marco, 18, 57. Panzavolta, Lorenzo, 23. Parisi, Arturo, 43. Passigli, Stefano, 46. Petruccioli, Claudio, 14. Pillitteri, Paolo, 22. Pivetti, Irene, 50. Pochetti, Mario, 150. Porcari, Leo, 24. Prodi, Romano, xiii, 27-29, 3839, 41, 44, 47-52, 54-55, 57, 70, 87-92, 94, 101, 103, 138, 143, 147, 151-152. Rabin, Yitzhak, 97. Reichlin, Alfredo, 29. Renzi, Matteo, 146, 148, 150. Riccardi, Andrea, 123. Rice, Condoleezza, 67. Riina, Totò, 26. Romiti, Cesare, 76. Rossanda, Rossana, 6. Rugova, Ibrahim, 68. Rusconi, Gian Enrico, 112. Russo Jervolino, Rosa, 57. Rutelli, Francesco, 81-82, 92.

Salvato, Ersilia, 57. Sartori, Giovanni, 142. Scalfari, Eugenio, 18. Scalfaro, Oscar Luigi, 11, 17-18, 28-29, 51. Schroeder, Gerhard, 66, 69, 72, 77. Segni, Mario, 27-28. Shevardnadze, Eduard, 24. Spadolini, Giovanni, 17-18. Squinzi, Giorgio, 132. Stefanini, Marcello, 23. Sylos Labini, Paolo, 86. Talabani, Jalal, 94. Tavaroli, Giuliano, 76. Tognoli, Carlo, 22. Tremonti, Giulio, 110. Trentin, Bruno, 130. Tronchetti Provera, Marco, 58. Turco, Livia, 114. Urbani, Giuliano, 33. Veltroni, Walter, 9-10, 14, 3639, 42, 55, 87, 93, 101-104, 148-149, 152. Vendola, Nichi, 143-144. Vertone, Saverio, 33. Vianello, Raimondo, 153. Violante, Luciano, 52. Visani, Davide, 22. Visco, Vincenzo, 29, 77.

Indice del volume

Introduzione v 1. L’addio al Pci e alla Prima Repubblica

3

2. Vince Berlusconi e si prepara Prodi

31

3. Le cose buone di un governo che non dovevo fare

54

4. Pd, amalgama malriuscito?

88

5. La destra, la sinistra e Beppe Grillo

111

6. Monti e oltre

136

Gli autori

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Indice dei nomi

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