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Mario Tronti

CON LE SPALLE ALFUTURO Per un altro dizionario politico

Gli Studi Filosofia e scienze umane

Mario T ronti

Con le spalle al futuro Per un altro dizionario politico

Editori Riuniti

I edizione: marzo 1992 © Copyright Editori Riuniti Via del Tritone, 61/62 - 00187 Roma Grafica Luciano Vagaggini CL 63-3544-6 ISBN 88-359-3544-X

Indice

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Per un altro dizionario politico Oltre l'amico-nemico «L'utopia urgente» Contro l'esserci del presente «.. .liberi nonostante il fatto della società» 1989 e dintorni Vincere parendo Leviathan in interiore homine «Interrotte speranze» Ùber das Geistige in der Politik Il sorriso di Sara «Volgere le spalle al futuro ... »

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Elenco dei libri citati

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Avrei voluto che fosse questo il titolo del libro. Come quegli acquerelli di Kandinskij, che lasciano a chi guarda la definizione, l'invenzione, del tema. Improvvisazioni e studi per gli anni novanta: di questo si tratta. Discorsi non certo neutri, inattuali solo perché parziali, storia in atto vista da una parte, in una fase di dominante universalismo, inutile per capire quanto dannoso per il fare. «Senza titolo», perché non è tempo di grandi affermazioni, di parole che si caricano di senso futuro. Siamo stretti nel presente, non solo incapaci di uscirne, ma in difficoltà a muoverci in esso, con la grinta delle idee, cioè con le armi della critica. E tuttavia: c'è necessità e urgenza non soltanto di ri-pensare, come tutti sono disposti ad ammettere, ma di pensare e basta, di «pensare contro», contro il mondo e contro l'uomo di oggi. Decisivo il passaggio degli anni ottanta per la forma del pensiero alternativo. Ancora nel 1981, nell'esperienza di Laboratorio politico, si poteva chiamare a un sapere articolato su contributi specifici, su competenze disciplinari: concreti specialismi contro astratte sintesi. Adesso è già il contrario. Il 1989-1991, gli anni della grande distruzione, nel campo del punto di vista antagonistico, chiedono un'impresa teorica ricostruttiva. Il lavoro analitico lo ha già fatto la vicenda storica. Il primum è capire: che cosa è successo, perché cosi, il come di esperienze, sia pratiche, sia di pensiero. Ma capire non si può

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se non riguadagnando un complessivo sguardo unitario sul secolo, qualcuno dice, forse non a torto, sul millennio. Di qui, quel tratto di voluta astrazione del discorso, quel saltare sopra i dati che una volta si dicevano strutturali, quel ricorso ai problemi sommi, l'uomo nel mondo, l'eresia nella storia, l'escatologia in politica, l'irruzione di pessimismo dentro il principio-speranza. Da tenere ben fermo il punto: che non si tratta di un approdo, bensi di un attraversamento. Su una terra, per questo tipo di cultura, quasi di nessuno. All'interno di un percorso e di un viaggio intellettuali, che si complicano, arretrano, deviano, cercano di spezzare l'accerchiamento, badano a non perdere la direzione: che è quella sempre del capire per cambiare, del comprendere per trasformare. Indietro dalla XI tesi di Marx su Feuerbach non si può andare per la teoria, neppure dopo il negativo dei tentativi pratici. Essenziale è tenere saldo in pugno il filo della ricerca, superando e superandosi, pur non sapendo dove il tutto andrà a parare. Libertas philosophandi è rivendicazione che va avanzata da noi a noi stessi, rispetto a una tradizione, ai suoi fondamenti, con i suoi caratteri e con le sue componenti, fondamentalmente marxismo piu movimento operaio. Stare su questo solco, ma sciolti da vincoli di fedeltà anche solo al metodo dell'analisi. Va ribadita un'eredità di storia, va liberata un'appartenenza di cultura. Il dato d'epoca, il nocciolo del bisogno di nuova sintesi, l' elemento che lega gli eventi e spiega gli esiti, è «in ultima istanza» uno solo: si chiama il tramonto della classe operaia. Episodio conclusivo di quel tramonto dell'Occidente, che ha attraversato appunto ii secolo e lo conclude adesso precipitando, non dunque con l'impennata di azioni volute ma con la decadenza di fatti ineluttabili. Grandezza del tema, che non sta, non riesce a stare, nella gabbia delle coordinate tutte economico-sociali della tradizione teorica e chiede di rompere l'involucro, di uscire, di sentirsi libera, di guadagnare respiro, di conquistare sguardo. In queste pagine c'è un 'tentativo di muoversi in questa direzione. Ce ne possono essere altri. E c'è da sperare in un confronto nel merito dei percorsi. Qui, la ricerca del punto unificante è una scelta di fondo. Se non riusciamo a piantare le premesse per la ricostruzione di un orizzonte del pensiero alternativo, il ri-

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schio della dissoluzione senza lascito di un patrimonio ideale si fa prospettiva reale. Prendere atto di ciò che è avvenuto, saltare oltre, tenere aperto il cammino: tutto, a dir vero, un po' «sotto il segno di Saturno». Linke Melancholie, direbbe criticamente Benjamin. Importante è che non approdi a quel tipo particolare di disperazione, oggi particolarmente in voga, che egli stesso chiamava «stupidità tormentata». Punto unificante è anche punto di equilibrio. Di nuovo, immagini che non nascondono, ma esprimono concetti e dunque indicano posizioni, manifestano collocazioni. Allora. Spendiamo una punta d'enfasi per dire della classe operaia quello che diceva Joseph Roth davanti alla tomba di Francesco Giuseppe: il freddo sole degli Asburgo si spegneva, ma era stato un sole. Parafrasi del celebre detto di Newton a Richard Hooke, 5 febbraio 1674: se possiamo vedere piu lontano, è perché stiamo «sulle spalle di giganti». Qui c'è il giusto e al tempo stesso critico orgoglio di una posizione: non di resa, ma di consapevolezza delle potenzialità passate e dei limiti attuali della propria parte. La propria parte, certo: che sopravvive alla crisi del soggetto storico, si ricolloca su di essa, riformula le domande, si attesta su un altro terreno, va alla scoperta di nuove forme. In questo, se è buia la via della pratica trasformatrice, le strade della ricerca vanno ad illuminarsi di una strana luce, tutta da decifrare adesso per il paesaggio che illumina, come in una tela di Friedrich, attraversata da una sottile striscia di anima, per chi la possiede, e rimessa in gioco da una ritornante passione del pensiero, per chi ci crede. Hegel maturo, quando intreccia nelle sue lezioni i fili di filosofia e storia: «Nei periodi in cui la crosta, edificio tarlato e senz'anima, crolla, lo spirito assume l'aspetto di una nuova giovinezza e calza gli stivali delle sette leghe». Piaceva a Marx questa espressione degli stivali delle sette leghe, che esprimeva, in un momento in cui ce n'era bisogno, il balzo di tigre della teoria su quella preda, per il pensiero, che è la realtà nemica. L'epoca impegnava, allora, un di piu di attività pratica, un surplus di praxis umana. Questa condizione dello spirito rivoluzionario è arrivata proprio fino a ieri. È qui che senti dentro oggi il graffio, l'artiglio, del mutamento di lunga fase. Le pagine che seguono risentono, riflettono, forse un po' passivamente, questo mutamento di condizione spirituale. Alcu-

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ne di esse, tra '87 e '91, sono state scritte per e con gli amici di Bailamme, rivista di spiritualità e politica. E hanno finito per segnare anche le altre pagine che, sull'urto degli eventi, si sono aggiunte. L'idea è che preliminare a tutto il resto, a questo punto, è questo lasciarsi attraversare dal flusso, o lasciarsi investire dall'onda di piena, della storia presente, che violentemente colpisce, con furia distruttiva, la parte a cui si appartiene. E il lavoro soggettivo, a suo modo creativo, consiste nel tener pulito il filtro, consapevole che in questi anni passati, di piccola storia e di decadenza della politica, molte scorie si sono accumulate sullo strumento-pensiero, mettendone in dubbio, e in difficoltà le capacità di trasparenza, di interpretazione, di giudizio. Di un'operazione di pulizia intellettuale dunque anche si tratta. Di nuovo un passaggio. Con una dimensione interiore piu accentuata, rispetto ai passaggi precedenti. E questa è la novità-scandalo di adesso. Il momento d'epoca chiede una coltivazione di sé, una cura dell'io interno, fondative per il seguito della scelta di campo nell'arena del conflitto pubblico, della guerra di tutti, del non-ordine delle società umane. Approfondire nella propria complessità l'unilateralità di un interesse di parte: su questa lunghezza d'onda vuole disporsi una certa misurata ricercatezza nella musica delle parole. A volte, quando è voce autentica, la parola del poeta, dicendo di sé, dice molto piu del mondo, di tanti discorsi che pretendono a una scientifica analisi oggettiva. Leggiamo dentro un'anima e decifriamo enigmi di realtà. C'è un filo che lega la misura di un'esperienza, quando è profonda, alla scrittura segreta che solo la superficie delle cose sa dare. La lettura politica del pensiero poetante, quando questo assume accenti alternativi, non è un particolare aggiunto ma un modo d'essere interno al theorefn, un passo, un segno, della sua capacità di vedere ciò che i rapporti nascondono. «Illeggibilità di questo mondo», canta sommessamente Paul Celan, avviandosi volontariamente verso la morte. «Alles doppelt». E «... io bevo vino da due bicchieri ... », come «quel tale», forse Holderlin, quello di Brot und Wein: «... e nessuno sopportava la vita da solo». «Due mondi -e io vengo dall'altro»: è il Diario bizantino di Cristina Campo. Salz und Brot, della Bachmann: «Ora il vento manda avanti i binari, noi seguiremo sopra treni lenti ... »

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Questo doppio del soggetto è quanto di riccamente ambiguo residua dalla tempesta della grande distruzione. Tra le righe del testo si incontrerà come forma di pensiero profetico il pensiero femminile del nostro tempo, simbolicamente espressivo di tutta una condizione di una parte dell'essere umano nel mondo. L'idea di affrontare il tema in un discorso diretto, è stata presto abbandonata, in base alla considerazione forte - vera e propria «decisione» - che ogni parte di genere parli per sé, di sé. Lo stesso sentire/ pensare è scisso, non è ricomposto e non deve ricomporsi, tende a divaricare e va divaricato, verso quella tensione agli estremi, tutto fuorché autodistruttiva, che è di ogni buona guerra, che in questo si avvicina molto alla «buona vita». Ancora, e per lungo tempo, di autocritica deve trattarsi per il pensiero maschile e di critica per il pensiero femminile. La ricaduta sul terreno della teoria politica e dell'azione umana in società, sarà, essa sf, epochemachend. Il progetto ricostruttivo di una pratica di rivoluzione non potrà che passare di H, dalla fine una volta per tutte di ogni classe generale e di ogni pensiero universale: allora sarà il momento della riscoperta di veri fini ultimi impossibili, perché inassimilabili al mondo cosi com'è. Se il progetto è, in modo piu ravvicinato: Per la critica della democrazia politica, è qui dentro che va misurata l'affermazione, che ha già fatto storia, della lrigaray: la differenza è «il problema che la nostra epoca ha da pensare». Uguaglianza/ differenza va a diventare, per una filosofia politica della trasformazione, l'immagine-simbolo del «tutto doppio». Una frontiera che si sposta e quindi muove ali' esodo un pensiero in fuga dalle terre dei padri. Non è questo in discussione: e cioè la necessità di mettersi nel viaggio. Semmai è questione di quale direzione prendere e con quali intenzioni. Verso dove. E per che cosa. Le libertà, al plurale, per ogni singolarità umana, sono ancora un mondo da scoprire. Nulla piu che l'illusione di essere liberi ci consegna nelle mani di un dominio assoluto. Eppure questa illusione politica è la normale, naturale, condizione civile. Alla fine dell'età moderna siamo chiamati ad uscire da un nuovo stato di natura: è questo il fondamento di un altro pensiero politico classico, per l'epoca avvenire. Rivisitare la politica, dopo aver acquisito, insieme e successivamente, la sua autonomia e la sua crisi. Non uscire dalla sfera pubblica, né starci come ci

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sta l'interesse privato dell'individuo medio sociale, ma rientrare in essa, per rivoluzionarla, dopo la lezione politica del Novecento. Prendere allora su di sé l'onere della prova che solo dall'interno e a conclusione della storia del movimento operaio sia possibile avanzare oltre il limite del moderno, limite di classe, dis-uguaglianza/indifferenza, e limite politico, signoria di diritto/ servi tu di fatto. Qui c'è la scommessa teorica e la sfida pratica. Il pensiero dominante, che è ben ancora il pensiero delle classi dominanti, è talmente sicuro di aver riportato la vittoria con le vecchie idee che non cerca piu alcuna idea nuova. I vinti sono costretti ad aprirsi alla scoperta. Il «cercate ancora» riguarda solo loro. Del resto avevano già da tempo sopravanzato lo stato del mondo, quando è intervenuta la sconfitta sul campo. Sentiamo che il grido di Zarathustra dice oggi: il popolo è morto! come è possibile che voi, vecchi viandanti, non ve ne siate accorti? Ma il messaggio collettivo, che proviene da due secoli di lotte dei lavoratori, a loro volta eredi di una millenaria storia di rivolte delle classi subalterne, quel modo profondo di essere convinti che «noi è piu che io», questo messaggio possiede ancora le condizioni per vivere, anche se non esprime adesso la volontà di vivere, in un'altra idea di solidarietà umana di parte. Quale questa deve essere, in quali soggetti incarnarsi, con quale forza imporsi, su quali tempi distendersi, è tutto questo che non si sa. E questa è la via della ricerca. «Profeta -dice Padre Turoldo - non è uno che annuncia il futuro,/ è colui che in pena denuncia / il presente ... ». La disponibilità a venire a patti, la grande tentazione della conciliazione, con la realtà, può essere concessa ad una sola condizione, se si è liberi, dentro, col pensiero, dal suo spirito, se si è già fuori, e oltre. Un movimento collettivo, di donne e di uomini, può esserlo. Il comunismo moderno, agli inizi, tra '48 e '17, ha voluto esserlo. Contro quanto pensano tutti, la colpa del comunismo è quella stessa del moderno, secondo Nietzsche e Holderlin: di non aver saputo gen~rare nuovi dei. Ma questo pensiero non introduce questo libro. Come tutte le introduzioni, lo segue. E c'è da sperare che apra un orizzonte, che non saremo costretti a inseguire. Comunque, questa è una schermaglia. Seguirà, se riuscirà, l'affondo. 17 gennaio 1992

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Per un altro dizionario politico

Oggi si chiamano parole-chiave. Ed è un modo allusivo ed eloquente di dire che le parole non servono per esprimere un pensiero ma per cercarlo, non per parlare ma per capire. Questo vale adesso prima di tutto in politica. Aprire la porta della conoscenza diventa un'operazione che si avvale di calcoli sofisticati e vuole soluzioni semplici. E c'è qui il paradigma di una condizione in cui versa ora l'azione del pensare. Dal momento in cui le macchine che imitano il pensiero svolgono fulmineamente e senza errore gli infiniti passaggi logici, rimane al pensiero dell'uomo, modello e costruttore della macchina, la cura del luogo finito degli inizi. Liberato dalla fatica non certo inutile di una logica quantitativa, il pensare umano riassapora la gioia pratica della scoperta. E tuttavia. Sembra che non ci sia piu spazio per le idee nuove. Circolano soltanto vecchie idee rimesse in giro da ultramoderni apparati di comunicazione. Siamo dentro questo paradosso: va maturando una filosofia politica dell'avvenire nelle condizioni di un'età della restaurazione. Un dizionario politico non può avere oggi il compito di illuminare le menti. Non c'è proprio niente da rischiarare, perché non sono, questi, tempi di oscurantismo. È restaurazione, ma illuminata. La potenza della ragione si è schierata dalla parte dello statu quo ante. L'intelletto scientifico giustifica il presente. E si capisce perché: questo presente è anche un suo prodotto. Si dice che la scienza, ab-

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bando nata a se stessa, avvicina il mondo ali' orlo della catastrofe. Non è questa la sua colpa. In realtà è scientifico, e quindi misurabile, e quindi rassicurante, l'equilibrio delle catastrofi di sistema. Questo equilibrio è politico, ragionevolmente moderato, soddisfatto del suo banale presente, incapace di futuro. È incredibile come hanno rialzato la testa tutti i benpensanti, i primi della classe, gli arrivati, i fortunati, i saggi, i ricchi, i potenti, i pochi. Forte è la tentazione di uscire dalle fila, denunciare unilateralmente i trattati, delegittimare teoreticamente le regole del gioco, rinunciare alle poche utilità residue del patto sociale e dunque alle comodità della vecchia cara ragione. Un modo potrebbe essere questo: contestare in radice ogni forma di pensiero quantitativo e per questa via radicalizzare l'opposizione di pensiero economico e di pensiero politico. Dubbio è se si possa parlare di una storia del pensiero economico, o se non ci si debba invece limitare a una storia delle dottrine economiche. Schumpeter diceva history of economie analysis. E prima aveva detto Epochen der Dogmen und Methodengeschichte. Nell'uno e nell'altro caso: «storia degli aspetti analitici o scientifici del pensiero economico». Scienza è sempre analisi, scomposizione della quantità e ricomposizione nel segno di una logica quantitativa. Vengono fuori teorie e metodi, definizioni della natura umana e ricette per la cucina del presente: tutto nel solco di una scoperta folgorante che getta le fondamenta del tempo moderno, e cioè che «i conti devono tornare». La politica, forse per la sua dimensione di lunga durata, rinasce in età moderna alternativa al suo tempo. Lo specifico della politica è che due piu due fa cinque, fa tre, può fare anche quattro, ma allora siamo nello stato d'eccezione, che non a caso deve essere tagliato con la spada del potere sovrano che decide. Questo è il pensiero: è il non avere fondamenti. E viene un dubbio piu grande: che si possano pensare dei dati; o se non si debba considerare il pensiero politico come un rischio, un tentativo e una scommessa di camminare su un filo sospeso, senza rete, sopra il proprio tempo. Ma forse quest'ultima cosa vale solo per il pensare politicamente la possibilità di un superamento dell'epoca. Qui la forma della politica rivoluzionaria può assumere il passo della teologia politica. Applicare all'idea di fu-

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turo il paradosso di Pascal: «on peut bien conna1tre qu'il y a un Dieu sans savoir ce qu'il est». Questa bella tentazione va respinta. Si poteva, forse si doveva aderire ad essa venti anni fa. E del resto almeno una volta nella propria vita teorica bisognerebbe lasciarsi andare a questa passione di un pensiero politico negativo in senso forte. Ma una volta attraversata l'esperienza, e in presenza di un mutamento di fase, conviene far cadere quella sovradimensione del problema politico, per attestarsi su un profilo di medio livello. L'irruzione dell'etica nella politica descrive oggi questa condizione, fino a comandare per questa via un comportamento teorico. È sull'etica però che dobbiamo intenderci. Qui va intesa non nel senso di Paul Ricoeur, per il quale «l'etica del politico non consiste in altra cosa che nella creazione di spazi di libertà», per cui «lo Stato di diritto è in questo senso la realizzazione dell'intenzione etica nella sfera del politico». Questa è la solita storia, tante volte teorizzata, altrettante volte demolita, un bel pezzo di antiquariato oggi rilucidato per compratori parvenus: ci voleva l'età di Reagan per far riapparire come ultime parole della filosofia politica il neoliberalismo, il neoutilitarismo, il neocontrattualismo, cose diverse e contrastanti tra loro, ma unite da un nemico comune, la cruda descrizione/valutazione dei rapporti di forza tra le classi e la scelta etica di campo che esse comportano anche quando, o tanto piu quando, è in pieno svolgimento, senza essere riconosciuta, un'altra pace dei cento anni. Non si può - dice Eric Weil - agire fuori della morale e non si può pensare contro la politica. O meglio, si può, ma allora bisogna saperne pagare il prezzo. «Non è perché siamo attirati dalla politica che metteremo in questione la morale ... ; è perché siamo moralisti che cerchiamo di pensare la politica e il politico in noi stessi». In quel «siamo moralisti» sta l'inaccettabilità del discorso di Weil sulla «terza possibilità», quella di instaurare un rapporto positivo fra morale e politica. Una volta - egli dice - che abbiamo fatto la scelta, libera e ultima, di agire nel mondo sul mondo, «potremo solo interrogarci sulla differenza tra la buona e la cattiva politica». Per il santo la politica è sempre cattiva, per l'uomo dell'azione pura la politica è sempre buona. La terza possibilità dice che è buona «una politica ca-

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pace di far aumentare l'influenza della morale», perché ogni uomo «possa realizzare una esistenza sensata a condizione di permettere a ciascun altro di realizzare una propria vita sensata nelle medesime condizioni». E siamo di nuovo al già visto e al già sentito. Qual è la vita politica «sensata», quella che accetta il mondo o quella che lo rifiuta? Agire sul mondo, per conservarlo o per cambiarlo? Questa è oggi di nuovo la domanda etica in politica, la scelta libera e ultima. Non si tratta di garantirla a tutti: questo obiettivo sta dietro le nostre spalle. Si tratta di passare a realizzarla nei fatti: ecco il compito per l'immediato futuro. Di qui, fino a quando non si ripeterà nella pratica un atto rivoluzionario vittorioso, ci sarà sempre crisi della politica, demotivazione etica dal basso, a partire dall'essere sociale, e cioè a partire dall'uomo, dell'agire nel mondo sul mondo. C'è un'obiezione forte, che circola ormai da piu di tre decenni e che si è conquistata in questo tempo la consistenza e la sicurezza dogmatiche del senso comune. Ne ha parlato, e ne parla, la pratica e la teoria della politica. Prendiamola nella lingua colta dello scienziato dell'uomo. Bertrand Russell l'ha detta cosi: mentre in un'età preatomica sono eticamente legittimi, e magari politicamente auspicabili, «desideri confliggenti», in un'età post-atomica sono solo ammessi «desideri compossibili». Diventa dunque finalmente praticabile l'oggettivazione politica di un'istanza etica soggettiva. Nella storia umana - scrive Russell - «siamo arrivati a un punto in cui, per la prima volta, la pura e semplice sopravvivenza della razza umana dipende dalla misura in cui gli uomini sapranno imparare ad ispirarsi ad una prospettiva morale. Se continueremo a lasciare libertà d'azione alle passioni distruttive, i nostri poteri sempre crescenti non potranno che portare tutti noi alla catastrofe». Dobbiamo dunque sperare che «l'umanità, almeno sull'orlo del baratro si fermi a riflettere ... ». Di qui alla filosofia morale di Menenio Agrippa il passo è sempre breve. Il famoso apologo reazionario, ovvero la dottrina sociale dell'armonia degli interessi, si mondializza, si universalizza, diventa dover essere, si fa imperativo categorico: quello che in altra epoca -dice il filosofo della libertà - sarebbe stato un modo di sentire «ammirevole», per la prima volta nella storia umana compare come una scelta «necessaria».

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Rinasce qui l'antico pericolo politico di una posizione puramente etica. Ricompare in forme nuove. E tuttavia non è qui il punto della difficoltà. La dottrina dell'armonia degli interessi è facile da combattere anche quando sembra tornare a vincere. Pericolosa è la forma inedita che assume, e cioè un discorso di radicale, epocale, innovazione politica. L'età atomica sarebbe in questo senso un'età post-politica. Le categorie della politica classica, che poi sono quelle della politica moderna, da Aristotele a Weber, da Tucidide a Schmitt, si dichiara che a far data da oggi non sono piu utilizzabili: è necessario che non siano piu valide. Nella definizione della fase non va nascosto questo paradosso: che il discorso sull'innovazione è oggi iscritto in un orizzonte neoconservatore. Su alcuni terreni la cosa è piu evidente: basta pensare al comparto tecnologico-produttivo, al dato macroscopico che la soppressione di lavoro non libera il lavoratore ma lo chiude in una condizione di difesa e di sconfitta. Su altri terreni la cosa è piu ambigua: tra questi c'è la politica e la battaglia ideologica che si è riaccesa sul campo della politica. La modernizzazione non può essere assunta come un fatto positivo in sé, perché non ha un segno naturalmente progressivo e neppure è in sé neutra, è invece manipolata, utilizzata, organizzata dalle forze del1' establishment. E si ripropongono modi e forme, percorsi e esiti di una critica del moderno, in un'età rozzamente contemporanea. È caduto in questi anni un presupposto teorico di fondo, quell'apologia marxiana dello sviluppo, nodo centrale di tutto un orizzonte di pensiero rivoluzionario. La centralità operaia era solo una lettura di Marx, violentemente suggerita dai bisogni politici di una particolare fase. Ma la centralità dello sviluppo capitalistico era l'opera stessa di Marx. Mentre la socialdemocrazia tedesca aveva raccolto in modo ortodosso questo lascito teorico, il comunismo di Lenin lo aveva storicamente «rivisto». Lo sviluppo capitalistico e la rivoluzione borghese avevano senso politico solo se passavano sotto la direzione del partito operaio, che li avrebbe spinti alle ultime conseguenze, con le quali diventava possibile il processo del passaggio al socialismo. Quel presupposto teorico è caduto quando lo sviluppo ha ripreso a marciare, dopo il riequilibrio della grande crisi e delle grandi guerre, sul fondamento della sconfitta operaia in occidente. Da quel

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momento, da quel passaggio, si potrebbe dire, parafrasando il vecchio Engels e il suo nemico Odilon Barrot: la modernité nous tue. È un crinale molto difficile di discorso. Si può facilmente scivolare e scartare verso l'uno o verso l'altro versante, riprecipitando in vecchie soluzioni. La critica della ragione non può significare un ritorno a filosofie irrazionaliste. La critica dello sviluppo non può voler dire un recupero di romanticismo, economico e politico, o magari sociologico. La critica di una categoria a suo modo teoreticamente elaborata come quella di homo oeconomicus non può approdare a un banale esito pratico di decisionismo politico. Attraversare questi territori classici alternativi è stata un'operazione culturale importante ed è stata una stagione di lucide scomode scoperte. Non erano approdi, erano passaggi. Servivano a prendere distanza dal tempo, nella sua dimensione di presente con un passato grande e un futuro debole, e coltivavano diversità, estraneità, essere altro dal nuovo modo di organizzarsi delle idee dominanti in una fase di innovazione restauratrice. Critica del moderno è costruzione di un'alternativa al buon senso della propria epoca. È dunque qualcosa che si sviluppa contro il mondo cosi com'è, contro la realtà delle cose, ma con realismo politico, perché ha l'obbligo etico di non lasciarsi praticamente isolare, emarginare e battere. Occorre allora segnare vie di ricerca percorribili, badando però a creare il clima culturale il piu adatto a percorrerle. Un pensiero politico infatti, che voglia definirsi in contrapposizione al mondo, deve trovare affinità, rispondenze e alleanze con altro pensiero, per dotarsi della forza intellettuale necessaria alla elaborazione e alla conduzione di un piano di battaglia culturale. È stato un errore dell'immediato passato non tenere in conto la necessità di parlare, per cosi dire, nell'Areopago, perché venisse ascoltato, almeno in parte, almeno da una parte, l'annuncio teorico. Quando Paolo parlò della resurrezione dei morti agli ateniesi, alcuni se ne facevano beffe. Cosi egli «usd dal mezzo di loro, ma alcuni si unirono a lui e credettero ... ». Si sono create, si vanno approfondendo, visibili fratture nel corpo di un possibile discorso alternativo. La divisione di pensiero politico e pensiero strategico sempre piu assume la profondità di un incolmabile fossato. Anche questo è un riflesso passivo e una conse-

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guenza non governata della fase. Nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, in particolare dagli anni cinquanta agli anni ottanta, nel nuovo equilibrio di potenza che si è andato assestando, per prova ed errore, sul terreno internazionale, il pensiero politico ha paurosamente oscillato tra una sua riduzione a sistema tattico e una sua riduzione a dimensione utopica. Di riduzioni appunto si tratta: impoverimento di contenuti, perdita del dono della scoperta, caduta tecnica del linguaggio, ricalco della miseria della politica. Anche il pensiero politico ha subfto ed espresso la sindrome tecnologica come destino tragico del nostro tempo, si è formalizzato come macchina intelligente di una logica di scambio tra gruppi proprietari di potere, si è frammentato e parcellizzato in tanti campi di studio quante sono le discipline accademiche, è diventato pragmatica del comportamento quotidiano e all'opposto si è dissolto, vanificato per la pratica, nel sogno di una cosa, nella speranza dell'avvento, nell'insegna dell'oste alla «pace perpetua». Risultato: c'è scienza politica, sociologia politica, filosofia politica, ma non c'è piu teoria politica, pensiero dell'azione collettiva entro le ragioni e ai fini di una lotta. Ma politica e strategia - al di là della differenza tra Zweck e Zie/, tra scopo politico e obiettivo militare - hanno in comune, da Clausewitz in poi, la medesima logica non scientifica, non riducibile a regole e prindpi, non formalizzabile quantitativamente, proprio perché livelli dell'agire dove conta la pura specifica qualità. Una concezione strategica della politica, in questo senso, non poteva che avere una grammatica militare. C'è insofferenza oggi verso di questo in aree di movimento, dove viene all'opposto coltivata una cultura della pace. Anche qui la spinta all'innovazione politica non va nel senso di un aiuto alle forze che combattono per cambiare. La politica strategica con linguaggio militare emerge quando esplode in forme aperte la lotta di classe. Ed è un'elaborazione creativa del movimento operaio organizzato. Nasce sulla base del principio generale che l'impiego della forza è un atto di debolezza, si sviluppa sulla coscienza e sull'esperienza che all'impiego della forza si risolve chi si difende. La guerra - diceva Clausewitz - è l'arma del difensore. Un conquistatore proclamerà sempre la sua volontà di pace. Dentro c'è

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la distinzione di Luttwak tra forza e potere, forza che si consuma e potere che si riproduce nell'investimento e con l'uso, forza come risorsa per le classi subalterne di fronte al potere come risorsa delle classi dominanti. Caratteristica di oggi è che la condizione debole di difesa non appartiene piu solo e sempre a una parte, è una frontiera mobile che tutte le parti alternativamente sperimentano, sia sul terreno sociale che su quello geopolitico. Allora il linguaggio militare esprime oggi piu di ieri il principio di realtà della politica. Non si può fare a meno di quel linguaggio senza rinunciare a quel principio. Il pensiero politico strategico tutt'altro che superato si ripropone a un livello qualitativamente piu alto e al tempo stesso come necessità assoluta in età post-atomica. L' ge nucléaire, di cui ha parlato Aron, è solo una fase diversa della storia moderna di pace e guerra tra le nazioni. Si è potuto sostenere che tra le due opposte formule di organizzazione della convivenza internazionale, quella «utopica» dell'Onu e quella «realistica» della divisione in sfere d'influenza, se la terza guerra mondiale non è scoppiata lo dobbiamo non alla prima formula ma alla seconda. Gli Stati minori, nelle costellazioni egemoniche o imperiali hanno funzionato o come semplici componenti o come veri e propri strumenti del sistema bipolare dell'equilibrio. Scrive Miglio: «A Yalta (quando però la polarità non era ancora emersa) sembra sia stato Stalin ad intuire che le grandi potenze avrebbero dovuto farsi carico, ciascuna in una rispettiva parte del mondo, dell'ordine internazionale. Se si pensa ai rischi che - in epoca di armamenti atomici - fa correre al1'umanità, con le sue contese, la rissosa pletora di piccole potenze, disseminata sulla terra, non si può non riconoscere la lungimiranza dello statista sovietico». Si è passati in pochi anni attraverso diverse fasi: dalla crisi del colonialismo a un ritorno di imperialismo egemonico da grande potenza. A un certo punto, a bottino completamente diviso, è sembrata cadere la regola vigente nel concerto europeo, da Westfalia a Vienna, dello «spartire per equilibrare». Il sistema delle relazioni internazionali appariva come «una partita di caccia arrestata per difetto di selvaggina». Paradossalmente la situazione, che è poi quella di oggi, è stata rimessa in moto dall'internazionalismo utopico: attribuendo o restituendo la «sovranità» nominale ai domi-

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ni e alle colonie e smembrando gli «imperi» piu vecchi o piu deboli si è sbloccata l'empasse: «la selva è stata ripopolata, la caccia può . . . ncommc1are». Mi sento di dire che questa è la grandezza - qualcuno dice la bellezza -della politica, questa mescolanza e alternanza di regolarità e imprevedibilità, di permanenza e mutamento, questa non-scienza di ciò che si ripete, questo eterno ritorno sempre diverso. Senza voler fare historia de la eternidad, è veramente non pensabile la fine della politica. E non per la immodificabilità della natura umana e dunque per la ripetibilità di comportamento di quegli uomini artificiali che sono gli Stati. Ma perché sono la società divisa e la divisione del mondo, sono il conflitto e la guerra che producono la necessità della politica. Senza la politica degli uomini - cittadini o uomini di Stato - niente storia umana. La sopravvivenza della storia è stata garantita dalla politica. Non è il caso di mettersi ad elaborare una filosofia politica della storia. È sufficiente autolimitarsi a riflettere sugli ultimi eventi di lunga durata. Una società violentemente strutturata in classe, come è stato il capitalismo degli inizi, non avrebbe nemmeno potuto porsi, in quanto rivoluzionaria novità storica, senza l'esercizio della politica, nella sua duplice faccia di lotta frontale e di complesso rapporto fra le classi e fra gli Stati. Non è stato solo lo Stato moderno elemento materiale costitutivo della transizione al capitalismo, ma tutta intera la politica moderna. E di conseguenza la tenuta di questa forma di società basata, per la prima volta nella storia, sullo sviluppo e le trasformazioni, in una continuità di conservazione rivoluzionaria, la tenuta di questo tipo storico di dominio sociale è stata assicurata dall'esercizio della politica. Questo ha segnato la natura della politica moderna e le forze alternative, il seguito di ribellioni, rifiuti, lotte, organizzazione e contestazione, non hanno trovato la potenza di cui c'era bisogno per rovesciare questo segno. Per cui, in effetti, non c'è mai stato scontro tra due politiche ma sempre tra una politica reale e una politica possibile. Da un lato il potere dello Stato, dall'altro l'idea di un'altra cosa non mai ancora determinata. Da una parte la volontà politica di potenza, dall'altra parte il destino tragico della sconfitta. E per andare al fondo di una rappresentazione del rapporto moderno di politico ed etico non si

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può fare a meno di implicare le forme del rapporto critico di politico e tragico. Questo è del resto l'humus culturale in cui si aggira da anni non la piu sofisticata ma la piu realistica cultura politica che sente su di sé e assume in proprio l'eredità storica del movimento opera10. Bisogna aggiungere che questa è storia dell'occidente. Politica moderna, infatti, e storia dell'occidente sono una cosa sola. Tutte le infrazioni al segno naturale che si è dato il percorso della politica notiamo che sono venute, almeno quelle vincenti, dall'esterno: critica del moderno e critica dell'occidente sono anch'esse una cosa sola. Forse conviene abbandonare quella posizione avanzata di difesa che consisteva nell'interpretare la stessa rivoluzione bolscevica come un momento, un passaggio, di un, esperienza del movimento operaio occidentale. Cera qui la reazione contro quella sorta di svalutazione «asiatica» della rivoluzione che tendeva ad espungere il fatto - lo scandalo -dalle eventualità del cosiddetto mondo sviluppato, o il rifiuto di una sua lettura mistico-religiosa, in chiave di eterna anima russa tradita dalla Realpolitik sovietica, che è poi la lettura della dissidenza intellettuale e delle minoranze espropriate. Postazione di difesa, appunto, che va riconvertita. Avrà pure un senso il fatto che quell'esperienza rivoluzionaria è diventata modello per lo piu solo in paesi non europei, non occidentali; e che proprio su questa base ha non elaborato un'altra idea di società, ma ha costruito un'altra forma sociale. È nato cosi un mondo di società e di Stati che non è stato uguale, non simile, non raffrontabile a questo nostro mondo. Qui si misura la povertà del vocabolario politico della cultura occidentale contemporanea: qui un dizionario politico dovrà fermarsi a ricaricare le armi dell'analisi. Quella parte di mondo non ha certo risolto in positivo la crisi che attraversa oggi la forma della politica. Anzi, nella sua storia presente, ne è una specifica espressione e una manifestazione drammaticamente esplosiva. U dove il passaggio di mano del potere si è verificato nell'unico modo in cui può verificarsi, cioè in modo rivoluzionario, H il rapporto politico è diventato un sensibilissimo campo di verifica di passaggi successivi, che possono trovare ostacoli, blocchi, riflussi, ma che comunque procedono nel senso della revisione, della trasforma-

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zione, a volte della distruzione. Proprio perché le società socialiste avevano da recuperare in breve questa loro natura di complessi istituzionali politicamente dinamici, proprio per questo il maggior carico di innovazione in questo campo è precipitato sull'est e non sull'ovest. Rovesciando il discorso corrente, si può affermare che le dinamicissime società occidentali sono delle società politicamente immobili. Qualsiasi processo di autoriforma assume aspetti tecnici, non politici. I sistemi sociali retti e garantiti dalla politica moderna non possono che coltivare e raffinare quella separatezza e autonomia della politica che oggi vuole dire, in una lunga fase di post-crisi, dinamica economico-sociale e blocco dello sviluppo politico, due facce di un volto borghese bifronte. Le società post-rivoluzionarie sono all'opposto delle società politiche: il blocco dello sviluppo economico-sociale non può essere rimosso e superato che con un processo di innovazione politico-istituzionale. È allora H che la riforma della politica deve assumere il carattere di un programma pratico di cambiamento; mentre qui non può essere che un'idea-forza, un'utopia concreta agitata nella battaglia delle idee. Cosi di nuovo una sorta di divisione del lavoro, che del resto ha anche una sua buona tradizione storica: l'occidente, e il nord del mondo, è il luogo dove è possibile lo sviluppo del pensiero politico, è il tempo teorico della politica; l'est, e il sud del mondo, è il luogo della sperimentazione delle forme politiche, il tempo pratico della politica. E dunque noi dobbiamo stare attenti ai contenuti, alle idee, ai concetti e alle parole insieme, alle nuove finalità e ai nuovi protagonisti della politica. E credo che siamo di nuovo a una svolta rispetto al decennio immediatamente passato. Il processo di tecnicizzazione e neutralizzazione, che si esprimeva attraverso la prospettiva volutamente debole della laicità della politica, è a un esito non solo di blocco ma di vera e propria regressione, verso una depoliticizzazione della società che rafforza il potere delle forze dominami. Contro di questo, occorre rilanciare la lunga gittata del discorso politico, oltre i limiti del moderno. Può darsi che si sia consumata in questi anni la morte del grande soggetto, ma il lascito di questo passaggio non sta in un riequilibrio del sistema o nella fine della storia. Sta semmai

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nella conclusione di un'epoca dell'uomo in società, che ha visto l'essere sociale schiacciato sotto il tallone di ferro del rapporto economia-politica. Qui va rivalutata la differenza umana rispetto alla sua riduzione e omologazione alle categorie dell'universo borghese moderno, bourgeois e citoyen, homo oeconomicus e suddito del potere, animale il primo macchina il secondo, natura e storia, libertà e legge. Tutto ciò che è humanum deve essere alienum: la complessità contemporanea ha rimesso in campo e al centro questa semplicissima parola d'ordine del capitalismo moderno. C'è stato un grande mutamento di forme: non è piu il vecchio processo di estraneazione come oggettivazione, con la figura centrale del lavoratore industriale che perdeva quello che produceva; il percorso dell'alienazione si è rovesciato, adesso marcia dal mondo disumano all'interno dell'uomo, come interiorizzazione di un sistema di valori materiali, che formano complessivamente intesi una sola funzione di dominio; non ci sono piu figure centrali e di fronte al nuovo ordine semplicemente strutturato della complessità la risposta della liberazione è debole, mentre forte è la domanda della omologazione, che unifica tutto e sempre dall'alto verso il basso. La rivendicazione della differenza diventa a questo punto la nuova frontiera per la rivolta del soggetto. La politica come organizzazione delle differenze è l'unica che conservi oggi un segno eticamente sovversivo. Il pensiero femminile è stato qui pensiero profetico. Ha annunciato l'avvento di un mondo umano duale, conflittuale, contro la millenaria oppressione dell'uomo, neutro e indistinto. Per questo la differenza umana torna a fare i conti con il modello storico alternativo della differenza cristiana. Si impone una nuova idea dell'uomo, un'antropologia rivoluzionaria che vada a misurarsi con la situazione del mondo, qui e ora. Tutto il resto, lo stesso modello di un'altra società come obiettivo per cui richiamare a combattere, non può che passare attraverso questa porta stretta. Voglio dire che sul piano del pensiero politico siamo di fronte a un'emergenza teorica. Le mezze misure non pagano. Va marcato un salto. La lunga durata del politico nella storia va adesso utilizzata dal punto di vista di una rottura col presente. L'idea di futuro è in crisi. E tuttavia bisogna pensare una filosofia dell'avvenire. L'innovazione è stata catturata dalla restaurazione. E

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tuttavia bisogna cambiare il mondo. La realtà si giustifica da sé, con la permanenza della sua esistenza. E tuttavia bisogna fare critica di tutto ciò che è. Ci vuole un nuovo dizionario politico per fare da specchio di questa contraddizione tra la potenza delle cose e le decisioni del pensiero.

Oltre l'amico-nemico

«Donc, pas de politique sans ennemi»: cos1 Julien Freund definisce uno dei presupposti del politico, l'amico-nemico. Che cos'è il nemico politico? È l'altro che si combatte, non in quanto individuo o persona particolare, ma in quanto appartenente a un'altra unità politica. Si tratta della lotta tra l'insieme dei membri di una collettività e lo stesso insieme dei membri di un'altra collettività. L'amiconemico -dice Freund - «non è una relazione tra uomo e uomo, né tra un essere singolo e la collettività, ma unicamente tra collettività e collettività» (L 'essence du politique, p. 491 ). Il richiamo è naturalmente a Schmitt: «Nemico è solo un insieme di uomini che combatte ... e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico». La lingua tedesca, come altre lingue, non distingue tra nemico privato e nemico pubblico. Il Feind tiene in sé i due termini diversi hostis e inimicus, 1toÀÉ.µwc; e è,x0pòc;. Sostiene Schmitt: «Il citatissimo passo che dice "amate i vostri nemici" (Matteo, 5,44; Luca, 6,27) recita "diligite inimicos vestros", &1 1X1t&'te. wùc; è,x0poùc; ùµwv, e non "diligite hostes vestros": non si parla qui del nemico politico» (Le categorie del politico, pp. 111-112). Il Lexicon totius latinitatis del Forcellini è il piu chiaro: «hostis è colui col quale combattiamo pubblicamente una guerra ... , inimicus è colui col quale abbiamo odi privati». E dunque: inimicus è colui che ci

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odia; hostis colui che ci combatte. Per Schmitt: «non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio "nemico", cioè il proprio avversano». È un problema eterno, voglio dire dalla lunga durata, che non riguarda la struttura del mondo etico, ma, appunto, l'essenza del politico. Un problema complicato anche dal solo punto di vista filologico. Benveniste ci spiega che il latino hostis corrisponde al gasts del gotico e al gosti dell'antico slavo. Ma il senso di queste due parole è "ospite", mentre quello di hostis è "nemico". Quello che c'è di comune è il senso di "straniero": straniero favorevole è l'ospite, straniero ostile è il nemico. Hostis comunque non è il peregrinus, che abita al di fuori del territorio. Secondo la definizione di Festo: «hostes appellabantur quod erant pari iure cum populo Romano». Scrive Benveniste: «Quando l'antica città diventa nazione, le relazioni tra uomo e uomo, tra clan e clan, si aboliscono: sussiste solo la distinzione tra ciò che è interno e ciò che è esterno alla civitas. Per un cambiamento di cui non conosciamo le condizioni precise, la parola hostis ha assunto un'accezione "ostile" e ormai non si applica che al "nemico"» (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I, pp. 68-71). Il come la nozione di ostilità si introduce nella figura dello straniero in patria sta tutto scritto nella storia delle istituzioni romane, e forse nella storia romana tout court. Sartori precisa - e poi critica -1' opposizione schmittiana di amico-nemico. In primo luogo, questa opposizione non è equiparabile alle altre, ma tutte le supera (vedi bene-male, bello-brutto, utile-dannoso ). La categoria del politico è per Schmitt primaria e riassorbente, trasforma l'altro da sé (il religioso, il morale, ecc.) in sé e non indica un «settore particolare» ma un' «intensità». «Non si dà, per lui, una sfera della politica quae per se est et per se concipitur, politica è l'intensità che ci aggrega-oppone in amici contro nemici». In secondo luogo, l'elemento qualificante della diade è il nemico, il Feind, l'hostis, non l'amico. «Per quanto Schmitt non lo ammetta, la sua diade è asimmetrica: l'amicizia è un mero riflesso della ostilità ... Se il nemico è un "insieme di uomini" il contro insieme che lo resiste deve stare assieme ... Ma Schmitt spiega sempre cosa sia il Feind; non

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ci dice nulla, o quasi nulla, sull'amicizia». Questa, come quella di Hobbes e di Marx, è la tipica concezione conflittuale della politica. È un modo di interpretare la politica, ma non definisce l'essenza della politica. «Include soltanto la politica calda, cioè intensa, combattuta, appassionata, ideologica, cosi escludendo la politica tranquilla, la politica che pacifica i conflitti e sottomette la forza» (Elementi di teoria politica, pp. 260-297). Il nesso logico-storico di guerra civile e guerra esterna contro il nemico politico, riparte di qui. E di qui l'idea di hostis come nemico pubblico collettivo. Quando Freund definisce l'inimitié come «relation de collectivité à collectivité», aggiunge che questa definizione non pretende di essere originale e cita Rousseau. Infatti nel Contratto sociale, libro I, capitolo V, leggiamo: «La guerra non è dunque una relazione tra uomo e uomo, ma una relazione tra Stato e Stato, nella quale i singoli sono nemici soltanto accidentalmente»: non come uomini, né come cittadini, ma come soldati. «... Uno Stato non può avere per nemici che altri Stati, e non già uomini ... ». E negli Scritti sull'abate di Saint- Pierre: «Se non c'è mai stata, e speriamo che mai possa esservi, una vera guerra tra i privati, chi sono dunque coloro tra i quali essa ha luogo e che possono realmente chiamarsi nemici? Rispondo che sono le persone pubbliche». E che cos'è una persona pubblica? «È quell'essere morale che viene chiamato sovrano, al quale ha dato vita il patto sociale e le cui volontà portano il nome di legge». Fare la guerra a un corpo sovrano vuol dire attaccare la convenzione pubblica, con tutto quel che ne risulta. Ma, ecco, «se la guerra avviene soltanto tra esseri morali, non vi è odio tra gli uomini». E si può farla - aggiunge Rousseau -senza togliere la vita a nessuno. «Se il patto sociale potesse essere troncato con un sol colpo, immediatamente non vi sarebbero piu guerre; e con quest'unico colpo verrebbe ucciso lo Stato, senza far morire un solo uomo. Aristotele dice che per autorizzare il crudele trattamento a cui erano sottoposti gli iloti a Sparta, gli Efori, quando entravano in carica, dichiaravano loro solennemente guerra ... ». Se mettiamo un momento queste idee a confronto con «l'orribile sistema di Hobbes», troviamo «contrariamente alla sua assurda dottrina che lo stato di guerra, lungi dall'essere naturale all'uomo, è nato invece dalla pace, o alme-

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no dalle precauzioni che gli uomini prendono per ass1curars1 una pace duratura» (Scritti politici, pp. 481-83). Aveva detto Hobbes: «La sovranità è assoluta sopra tutti in egual modo, altrimenti non è sovranità affatto». In mancanza non della sovranità, ma di questo suo carattere, «ogni uomo può legalmente difendersi, se può, con la propria spada: che è lo stato di guerra» (Leviatano, cap. XX). E Spinoza: «Chiunque sia, infatti, ad esercitare il sommo potere, o uno o pochi o tutti, è certo che compete ad esso il supremo diritto di ordinare quello che vuole». Su questo fundamentum et jus dello Stato si può determinare che cosa sia lo jus civile privatum: «quella libertà di ciascuno di conservarsi nel proprio stato, che viene determinata dagli editti della somma potestà» e in base a cui, dopo che ciascuno ha deferito ad altro la libertà e la capacità di difendersi, «è tenuto poi a vivere soltanto secondo la sua ragione e a riporre in lui ogni sua difesa». Spinoza, in questo, sta esattamente tra Hobbes e Rousseau. Quella «ratio» non è totalmente dell'altro, perché questo altro è, può essere, il civis, la persona civitatis, in cui si è convertito, dopo il contratto sociale, l'individuo naturale. Ecco perché la summa potestas costituisce, si, il fondamento dell'avvenuta traslazione del diritto, ma a riceverla possono essere, secondo la tradizionale teoria delle forme di governo, il re, o i nobili, o il popolo. Spinoza si preoccupa allora di distinguere tra ingiuria e ingiustizia. Ingiuria «non può essere recata ai sudditi dalle supreme autorità, alle quali tutto è lecito di diritto: quindi essa può aver luogo solo tra i privati, i quali sono per diritto tenuti a non offendersi a vicenda». Ingiustizia invece «è il detrarre a qualcuno, col pretesto del diritto, ciò che a lui compete secondo la vera interpretazione delle leggi». Grozio dice: ex iniuria oritur ius. Per Spinoza, l'iniustum, ovvero l'iniquitas, si collocano, come la condizione di guerra per Rousseau, nello Stato e per lo Stato. «In statu naturali nihil fit, quod justum, aut injustum possit dici; at quidem in statu civili, ubi ex communi consensu decernitur, quid huius, quidve illius sit» (Ethica, Pars IV, scolium II, propositio XXXVII). D'altra parte: «se consideriamo la cosa dal punto di vista della religione e della pietà, troviamo che nessuno che tenga il governo può, senza venir meno al proprio dovere, tener fede ai patti se ne deriva un danno per il proprio Stato». Tor-

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niamo al punto da cui siamo partiti: «nemico (hostis) è chiunque vive fuori dello Stato, nel senso che non ne riconosce la sovranità ... : non è l'odio, infatti, ma il diritto dello Stato quello che crea il nemico» ( Trattato teologico-politico, cap. XVI). Vediamo il senso di questo discorso, costruito non a caso per intreccio di dottrine. Non a caso, perché l'attuale fase di ricerca aperta e di confusa prospettiva chiede un ancoraggio saldo sulla storia del pensiero, e del pensiero politico in senso stretto. Un pensiero politico, del resto, particolare: quello che fonda la politica moderna, che ha un ambito quindi teologico-politico, che fa, esercita, costruisce azione politica sulla secolarizzazione di concetti teologici. L'amiconemico, das Kriterium des Politischen di Schmitt, diventa un présupposé du politique in Freund. Non è questo il punto. Il percorso lungo del politico in età moderna vede l'idea di sovranità nascere dalle guerre di religione, vede lo jus publicum europaeum incontrarsi con la Weltburgerkriegspolitik. Non è ancora questo il punto. Voglio dire che sono questi ormai passaggi acquisiti. E adesso si tratta di procedere oltre, riutilizzando testi vecchi e nuovi, per riaprire sentieri interrotti. Abbiamo messo a fuoco qui che, con quel criterio, o su quel presupposto, si deve amare il nemico privato e si può non odiare il nemico pubblico. E dunque che non solo non c'è politica senza il nemico, ma non c'è il nemico senza lo Stato, e senza il diritto che è figlio dello Stato, o della sovranità, o del potere, quella «puissance absolute», che l'età moderna inventa e garantisce e che poi corregge e limita e divide e che poi definitivamente cos1 legittima davanti al popolo dei cittadini-sudditi. Bisogna aver chiaro il percorso che portò a questo esito moderno, per capire, e prevedere, e praticare, il percorso che, senza rimpianto, potrà lasciarselo alle spalle. Si potrebbe sostituire la parola «moderno» alla parola «uomo», in questo pensiero di Nietzsche, e leggerlo di conseguenza: «I piu solleciti domandano oggi: come si conserva l'uomo? Zarathustra, primo e unico, domanda: come si supera l'uomo?» (Cosi parlò Zarathustra, p. 318). In quel monumento di riflessione storico-politica classica che è Terra e potere di Otto Brunner, troviamo combattuto e sconfitto l'errore di «vedere nello Stato medioevale un ordinamento giuridico nel senso moderno, "civile" e di pace per principio» (p.16). Nel Me-

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dioevo in realtà «si vedono sovrano e sudditi dichiararsi guerra l'un l'altro e concludere poi pace tra di loro "come se" fossero soggetti di diritto internazionale» (p. 24). La natura della faida, in cui forza e diritto si congiungono, proprio per questo, sta sicuramente dentro una storia del potere, non necessariamente dentro una storia del diritto. Sono da distinguere vendetta e faida, vendetta di sangue come offesa mortale e faida come sfida cavalleresca. Entrambe tuttavia rimangono «inimicizia», negazione del suo opposto, della pace, dell'amicizia: rimangono Unfreundschaft, non amicizia. È nota d'altra parte l'assonanza di pace (Friede) e faida (Fehde), come è chiara la radice indogermanica comune per Friede, Freund (amico) e frei (libero), tutte spiegabili come «amore, aver cura di». «Pace è lo stato di cose che esiste tra amici». Dalla prima età germanica alle fonti tardomedioevali sempre piu si stringe l'identità di significati in termini come Freundschaft (amicizia), Minne (amor cortese) e Liebe (amore). E questo in quegli antichi tempi germanici e poi, in forma diversa, in tutto quel Medioevo, «dove la legge della vendetta di sangue vige come dovere» (p. 32 e 34). In verità - come dice Brunner - «i concetti di inimicizia (faida) e di vendetta procurano allo storico del diritto una difficoltà particolare. Ogni storia del diritto è alla fine storia dell'ordinamento giuridico contemporaneo; questo però non conosce inimicizia». E allora, per risolvere la contraddizione tra il moderno concetto del diritto e un mondo in cui esistono vendetta e faida, si taglia corto e si proclamano questi ultimi «fenomeni presociali e pregiuridici», a fondamento dei quali sta «un naturale e primitivo impulso di odio e di guerra». E, intendiamoci, questo modo di vedere è perfettamente conseguente per chi accetta lo Stato moderno come il Leviatano di Hobbes, basato sul principio auctoritas non veritas facit legem, ordinamento coattivo della pace, status civilis, in cui non vi è posto per l'inimicizia. Ma non ci si deve dimenticare che l'istinto di vendetta diviene impulso naturale, fenomeno presociale, solamente in tempi moderni. «Ci si deve ricordare che tanto il concetto antico di "natura" come quello medioevale, ma soprattutto quello cristiano, comprende in sé l'ordinamento sociale e il diritto e non conosce la moderna contrapposizione fra essere e dovere» (pp. 39-41 ). Proprio ri-

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prendendo l'impossibilità per il termine tedesco Feind di sostenere la distinzione schmittiana di hostis e inimicus, Brunner può affermare: «la distinzione tra nemico pubblico e nemico privato non può dunque appartenere in alcun modo al mondo post-antico». Se ci si chiede dunque se vi è una differenza giuridica tra guerra e faida, «la risposta non può essere che negativa per quanto riguarda la Cristianità, la respublica christiana» (p. 55). Guerra sino alla fine del Medioevo non ha alcun significato preciso, significa lite, conflitto, differenza di opinioni, contrasti: tutte cose che si possono decidere con le armi o davanti al tribunale. «La faida appartiene indivisibilmente alla vita dello Stato medioevale ed alla politica medioevale, come la guerra appartiene allo Stato sovrano e al diritto internazionale dei tempi moderni». «L'inimicizia, l'uso della forza appartengono ai tratti tipici dello Stato medioevale, mentre lo Stato moderno rivendica a sé il monopolio dell'uso legittimo della forza, e non conosce né faida né diritto di resistenza» (p. 147 e 150). Nella società immediatamente premoderna, non esiste distinzione di diritto e giustizia, diritto e legge, diritto positivo e diritto ideale, diritto individuale e diritto del popolo. Quella medioevale è ancora una società, l'ultima ma anche quella decisiva, in cui vige il concetto di «giusta violenza». «Non solo la collettività dei sudditi, ma anche il singolo in quanto tale, può opporsi con le armi al sovrano nella piena convinzione di mantenersi in tal modo completamente sul terreno del "diritto" e della giustizia». Conclude Brunner: «Come dalla violazione della pace e del diritto sorge la faida, l'inimicizia, cosi dal torto dell'autorità sorge la resistenza contro l'autorità che agisce in modo non conforme al diritto». Da queste premesse dell'agire politico si configura, nel Medioevo - è stato detto, e non è un paradosso - una società con caratteri rivoluzionari permanenti. Un ultimo riferimento a un contesto non estraneo a questo, per comporre il quadro: nel testo noto di Peterson, Il monoteismo come problema politico, troviamo una suggestione che ci serve, per la prospettiva. Si intravede l'apertura della ricerca verso la possibilità di un dopo, che sia un'età di ricostruzione per il pensiero forte. Nella polemica di Celso contro i cristiani, il rifiuto del politeismo viene indicato come la voce della rivolta e ribellione (