Un passo, un altro passo

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Un passo, un altro passo

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CARLO BETOCCHI UN PASSO, UN ALTRO PASSO ARNOLDO MONDADORI EDITORE

UN PASSO, UN ALTRO

PASSO

La sensibilità biblica, e poi cristiana,

hanno addensato nel passo umano i significati dell’intera esistenza sottomessa a un disegno soprannaturale: ne hanno fatto l'emblema più evidente di quel passaggio che è la vita corporea. Un passo, un altro passo: nella sua iterazione e fatica, che tra-

duce il titubante procedere delle stagioni più tarde, il titolo di questa raccolta di poesie di Carlo Betocchi evoca immediatamente un’accezione cristiana della vita, condensa il pathos

religioso di un cammino in compagnia di pensieri che vanno e vengono attraverso la breve barriera delle apparenze terrestri, vive e calde tutta-

via. Solo a tratti le cose più semplici — un androne semibuio, un tetto visto

dalla finestra, una scheggia di paese, un colombo iridato che si muove con naturale eleganza sulla grondaia di fronte - aprono nei versi uno squarcio fasserenato, una parabola di eterno.

Piti spesso pazienza, speranza, grave, un destino

domina, tra pazienza e imtra motivi di stento e di un silenzio meditativo e sordo rimuginare sul nostro

di creature,

una

minuziosa

registrazione del limio della condi-

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METROPOLITAN TORONTO

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LO SPECCHIO I POETI DEL NOSTRO TEMPO

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Nella collezione Lo Specchio L'ESTATE

DI SAN MARTINO

CARLO BETOCCHI UNEPASSO; UN ALTRO PASSO ARNOLDO MONDADORI EDITORE

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(©) ARNOLDO MONDADORI EDITORE 1967 IMPOSTAZIONE GRAFICA DI ANITA I EDIZIONE OTTOBRE 1967

KLINZ AUG

2 Pf 1968

UN PASSO, UN ALTRO PASSO

La vita è breve, l’arte vasta,

l'occasione

l'esperimento malcerto, il giudizio difficile. Ippocrate (trad, Marco Vegelli)

istantanea,

A CUCI E SCUCI A cuci e scuci, dicono i muratori

quel metter le mani ad un muro che sgretola, antico, e rappezzarlo a frammenti: e dentro i vecchi pertugi dell’anima cosi mi canticchia una lunga pazienza.

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I O tu che, roco, vieni ogni mattina

sulla tua porta, flaccido, a spurgare l’affanno notturno dell'asma mentre scialli di sole risplendenti trapassano di fresche ombre la via, 15

colore di susina: — o tutta affanno, vita, O tu insidiata meticolosamente di cantuccio in cantuccio; o tu difesa

a prezzo di tribolazioni infinite!

A questo penso, e non ad altro, mentre il vicino tossicchia e a lungo l’asma lo rode, e il sole ha i suoi commerci abituali, ed io nicchiando

sulle chiare pareti mutamente guardo agucchiare l’ombra delle rondini.

16

2 Questa verruca che sul fianco oscura ne macula la pelle,

il medico l’ha detta: senile. Ed ha sorriso, come forse a Socrate

fece il famiglio degli Anziani mescendogli cicuta. Il tuo sorriso Dio te lo rimeriti, 17

medico mio; che sai, forse, o non sai,

quanto di questa luce vespertina io m'incoraggi. Come per cruna d’ago passa il dolore e va, di volta in volta, fil di verità, a cucire la vita con l’eterno.

18

3

Non sei contento del possesso dei giorni? Temi di perderlo? Credi d’esser da più di ciò che sempre muta e viene disfatto? Non ti basta quel po’ di sole che ancora investe il tuo corpo che invecchia? Guarda, 19

stamani disfano il tetto della casa di fronte. Mettono

a nudo i correnti, ch’'erano marci.

Li mutano. E intanto ripiove. Lesti li ricoprono,

con le tegole vecchie. E i coppi restano, a mucchi, sul colmigno. E subito il sole che torna luccica sulle tegole ignude, e tu ti senti in cuore un di più che ti strugge - vergògnati — d’amore per te, mentre in cielo rulla un tamburo

lontanissimo,

azzurro,

per la tua libertà, che è un grido che vola.

20

4 Giorni che invecchio, assenti, cui il pudore

del vivere è già spettro, è quasi morte, quasi sentita morte nel furore della vita che corre, e lascia sola

la mia che va a rilento, priva 2I

di ciò che fiore era del corpo, giovanile speranza, la cieca speranza: eppure, quasi scoglio, ecco il mio esistere sommerso ride, riemergendo gronda, nuda miseria gronda del tuo ridere trasfigurato, o grande immenso oceano della vita non mia, vita che arriva, mi dècima, dimentica,

22

dilaga.

D

Quando a Febbraio Orione punta alle Pleiadi, lucido

come in una mente di malaticcio

il pensiero dell’impossibile salute, ora che invecchio e presto s'abbuiano, nel freddo, 23

le mie giornate, il maledetto

mese dalla gamba corta molto mi somiglia, con quella sua freccia remota,

che a un tratto appare e scompare, a un colpo di tramontana, nel cielo pungente, irta di puri deliri.

24

6

Tetti, non ombre, tegoli, non ombre, nel cielo, è il poco che vedo, quando

sto a lavorare. Solidissime specie dell’esistere; che son certo un nonnulla ad altri, e a me conoscimento. Quello 25

che m'è concesso dal respiro che chiede poco, e del poco si colma per l’amore che muto va inseguendolo nell’ore del giorno, mentre

dice ora vita,

ora morte, ed ora gli infiniti momenti in cui del vivere si forma, si palesa l’essenza, e si contamina

di paziente soffrire e vita e morte.

26

7

Ma rieccomi

all’alba, e ne emergo,

con tutte le mie magagne, impassibile come quei muri al sole, di cinta, quasi inutili,

d’onde, sui marciapiedi deserti, 27

torna a rifarsi viva, come la mia, l'ombra quotidiana, a qualcuno che passa, magari, propizia: io pieno di cicalecci, di manifesti presto invecchiati,

amico a tanti passi perduti, ad altri che resistono, come

me,

dentro un’ombra fedele all’esistere mentre rapido passa, e fugge, un volo di colombi.

28

8

Non solo è vero il vero, ma anche il falso, per quant'è falso, è vero. Dura cosa

a saperla e vagliarla nel cuore. E ne passa la mia vita tra l’incertezze, che non

avrei

mai pace se non vedessi, sempre, quant'è uguale in perpetuo a se stesso il fermo azzurro dell’etere, e via trascorrente,

invece, e mutevole, il gioco delle nuvole. 29

9

Alla pari di me, tetto avvampato

dal caldo,

e dei miei limiti brevi, e breve percorso, tu tra la doccia ed il culmine, irsuto mio lento t'arrampichi, persisti, resti: e lasci che parli il cielo, di là da te, per te.

Poi, quando l’ora scottante trapassa, sopra 30

tetto,

le buie parole ed il tanfo della solita vita che tu proteggi, respiri quel poco che ti dà pace. Questo tu esprimi col tuo silenzio. Vorrei che cosi fossero i miei versi.

3I

UN PASSO, UN ALTRO

PASSO

Un passo, un altro passo,

ivi del cielo il masso azzurro, la vivente natura,

e l’inferma pietà che se stessa conosce negli errori, e la lieve follia, ivi la morte, il rumore e il silenzio,

e il mio esistere anonimo; e come dalla pietra sale il canto di un colore che è muto, un passo, un altro passo, e inciampicando nel divino esistere io giungo a riconoscermi nel sasso che sospira all’eterno, in alto, in basso.

I Sono giunto fin qui, non c'è più strada. Possibile? Pareva cosî certo il cammino. O non era che un sogno quell’andare? Preferisco pensare che son misero, ormai, 35

e che ho tutto perduto. Accoccolato resto nel mio deserto. Qualche cosa vale anche questo, meglio che il sogno. Parlo con l'ombra mia che oscura, fitta, mi lapida col suo silenzio.

36

2 Non ho più che lo stento d’una vita che sta passando, e perduto il suo fiore mette spine e non foglie, e a malapena respira. Eppure, senza acredine. C'è quell’amore nascosto, in me,

quanto più miserevole pudico, 37

quel sentore di terra, che resiste,

come nei campi spogli: una ricchezza creata, non mia, inestinguibile. Nemmeno più coltivabile, forse, ma vera

esistenza; cosî come pare sperduta nel cosmo, con la sua gravità, le sue leggi, il suo magnetismo morente, che lo Spirito non

dimentica,

Non

guardatemi,

anzi numera.

che son vecchio,

ma nel mio mutismo pietroso ascoltate

come gorgheggia, com'è fiero l’amore.

3

O seppure, come in certe mattine, provo un senso di calma in un’ineffabile unione,

non è più, come al tempo passato, per quel rifluire nel cuore d’un sangue potente di vasti possessi, ben certi, ancorché sconosciuti:

e mi ravviso in chi va con a pescare, e cui già il tempo Ché assai più della lenza io per giocare a mio agio col

la lenza si muta in instabilità. ebbi fin dalla nascita tempo impossedibile,

la rete, dico, stillante, dell’eternità dell’anima,

cui è grazia la preda che resta, ed il tempo che passa ha un altro significato. 39

4 Sei tu, Signore, che mi dai la tua forza, torci il mio occhio a guardarmi nell’anima, perché l’immondezza sia vituperata ed esaltato il coraggio che la rivela. Io da me non saprei: tu m'hai insegnato,

dei miei giorni corti puoi fare un'eternità, se tu mi sostieni scenderò nell’abisso che invoca scandaglio per rendermi a te. 40

5

Chi invecchia e sente sfiorire nel sangue l’amore ha dei laidi tormenti, e s'addentra nell'ombra

di essi conoscendo anzi tempo le stanze d’un Ade immondo, di cui non parlarono i poeti: ivi si torce, e geme, solo, senza soccorso, 4I

se non la pietà che lo coglie di quelli che amò al loro tempo, i suoi vecchi, che le stesse soglie varcarono anch'essi. D’una tale catena al pendaglio ora è lui legato, e passa il di mulinando pensieri discordi dall’intimo della coscienza: spasima dentro la bieca dissimmetria della vita che di cocente vergogna infanga la sua preghiera, cosi come in Roma fanno le bianche statue barocche, con i loro falsi aneliti, sui fastigi delle chiese.

42

6

E so quanto la vita sia discorde con se stessa; il suo disegno intricato; il suo discorso enigmatico.

La guardo e ne raccolgo la figura, le credo e non le credo, anche il dolore ha due volti, anche l’amore: resto

cosî, stordito, avvolto in questo slittare

della coscienza che quanto più sa, 43

meno è tranquilla. Ma non cedo: dal sapere il comprendere deduco; dal comprendere il gemere. Sospiro, temo: e insieme sento di meritare, dal patire, in esso inabissandomi, una sostanza men fievole, un’unità

in cui spero nel mio dolore, una speranza diversa, un volto umiliato dal non conoscere più, dall’aver fede, soltanto fede,

come grido che tace e ha la sua pace.

44

74

Ma anche imparo, giorno per giorno imparo, che non

c'è cosa in cui sia necessario

più il credere che l’operare; e che tra il fiore del credere che amo, e il mio esserne degno, che è il prezzo del mio esistere, 45

cè di mezzo

quello che ho fatto,

il mio consistere in opere e lavoro: e ch'ivi è il tutto, tutto ciò che io posso saper di vero, anche se avvolto nel mistero della cosa fatta dall'uomo, e che dall’uomo

prega per il di più che non può fare, e i doni per cui fece, alti, ringrazia.

46

8 In me sempre latente, viva, irreparabile

è la coscienza della vita, l’erta del suo dolore, e le contradizioni

che l’angosciano: e insieme un non so quale senso che l’esperienza che consuma anche ripara i mali, anche s’addice a far del nostro vivere una prova, 47

anzi un mistero necessario: e restino in noi lottanti l’esperienze avverse

se poi, non già di là dal bene e dal male, ma solo oltre il pagare di persona esiste un premio di cui è parte il male sofferto, e il suo dolore, cosi come

la croce al divino incarnarsi.

48

UNA

VOCE

DI TARLO

ALTRE

MEMORIE

Ho consumato molto legno di boschi nella mia vita, legno d’armadi e tavole zoppicanti, e sedie impagliate, magre 5I

COMUNI

come sorelle, dalle treccine

strette e spesso disfatte, pronte a tutti i dispetti. In una

stanzetta

dov’eravamo soli, io, l'armadio e la tavola,

con queste seggiole, studiavamo

in silenzio,

con la finestrella

dalle persiane grigie, il sole sui tetti; s'apriva in questa stanza, malodorante, il camerino.

Loro avevano una voce

di tarlo con qualche secco rimpianto, quand’eravamo soli, ed io una vena nascosta come di ruscello,

udito laggiù, non sai dove, quando il bosco mormora. E dovunque ora siamo ci ricordiamo sempre che siamo stati venduti, loro al rigattiere,

io a questi giorni nati a morire: ci ricordiamo la finestrella, e il sole, e il ruscello

ci geme nelle vene.

52

COL FRATELLO,

A SETTIGNANO,

Guarda, la primavera avanza e torna, sulle colline, l'antico smarrimento:

tornan gli anemoni tra il grano: e noi siam soli a ricordare, antichi 55

1959

come ciò che ritorna. Non fa nulla invecchiare;

conta di pari passo andare con ciò che va, che torna: inumidito è il nettare, nei fiori, dalla rugiada; e l’anima dalla memoria.

54

DALLA

LOCANDA

Vampano, nel corridoio, voci rare, quasi d’alterco, ed altre, di là dalla finestra, per i vicoli. È la vita, è quel fuoco, ardente e serpeggiante, vaga sorte, 55

che divampa qua e là, che brucia

e s'attutisce e si disperde, preda di sé a se stesso, e al suo silenzio. Ma il suo silenzio dove è custodito se non in chi ne tace anche a se stesso

per lasciarsene solo alfin sorprendere?

56

SULL’ANIENE

E tu per prima, incontro, nebbia del fiume, lenta

mi sorgi, ed al fresco albeggiare dei pioppi sul ponte che varca l’Aniene delicato, avvolgi

le quiete vie, tra le casipole DA

ed i mestieri. Inerte e fuggitiva sotto l’ombre scintilla la ruota dell’arrotino e la mia vita va, nel tempo

che resta, tra queste foglie, silenziosamente.

A CENA

IN LIGURIA

Queste son le mimose, di fronda

celeste, e questo il pinastro e gli ulivi chiari e la fogliolina lobata della querce che mitiga in cielo la sua forza, 59

la pia Liguria che ci viene incontro d’umili sassi, di torti sentieri

al marezzante murmure del selvoso cocuzzolo, cosi come siamo, andando, ignoti a noi stessi, color d’ocra

nel sole: e ad un lieve appetito di verdi muffe sorgive su su dall’acidule acque dei tondi serbatoi, che di sotto la pergola, noi cenando, occhieggiavano, nella sera di zanzare lontanavano,

sulla perduta riva, luci e mare.

60

IN CIVIDALE

A Cividale sboccano l’Alpi dal Natisone e l’antica pietà, moderando il suo barbaro affanno dalla paura dei monti alla serenità dei piani in un’altra luce vi eresse un suo tempio: ed ivi, scolpite più tardi dai monaci, sei immani figure regali e di santi, 6I

.

con un medesimo ammanto di vesti e in soave armonia con la pietà dell’oscuro viandante ammoniscono: - Ciò che fonda la vita è perituro, ma solo resta vivente la beltà del pensiero che la trascende ed ama, e ne trae il suo contento

come

qui, forse,

lo sguardo di chi vi approda, da queste pietre cadenti si volge alla dolce curva del fiume amorosa del suo strapiombo e del calmo azzurro dell’acque. -

62

VINO

DI CIOCIARIA

ler sera, all’osteria — era nel piano, fuori, la notte coronata di monti —-

son passati tra noi discorsi d’altri tempi: il vino era chiaro, e da quieti ospiti,

in quella sala, come sotto una pergola, pensavamo alle foglie della vigna che se ne vanno, ora ch’è autunno,

63

e da inebriati parlavamo del tempo, come se sempre ci ombreggiassero: uno stracco vento di mare entrava silente dietro i tardi, avventori: e sentivo il monte di Pàtrica, come torso da lungi, vivo, di un autoctono iddio irsuto di castagni, alle cui ombre certo ruzzano ancora i miti di De Libero.

Ma stamani, scrivendo questa memoria d’una sosta, non facile a me, all’osteria,

grevi ancora le tempie di vino notturno, a certe sere ripenso, passata appena la guerra, di polverose rovine, di vuote

finestre,

di pietre aguzze tremolanti sugli abitacoli,

cosî ingenui di speranze e incantati

allora i passeggi, i gridi, gli sguardi verso le pianure.

64

SULLA

GREVE

Mia Greve solitaria,

o estatici, patetici miei fiumi di paese, impigriti nei vizi,

tra l’immonde sassaie, e lo sciacquare delle lavandaie,

65

remoto,

d’altri tempi, ormai scomparsi.

Oggi lo specchio verde tace, solo e dimenticato,

e muore

al sole

senza un raggio; come sacra vetrata, che da un abside oscuro, ricoperta di polvere mi canta la fede che già fu, e che pur sepolta tra i miei molti peccati, abita in me.

66

ANCORA

SULLA

GREVE

Quasi lustrali, o immonde al fiumicello acque pigre nel lezzo e nel ristagno

di Luglio, sotto casa! O mia speranza tutta spore subacquee, tutta muffe: 67

quasi nuovo battesimo all’esistere che se stesso rivive ora sapendo che sotto il cielo azzurro questo specchio d’acque verdastre, tra le smorte piante, esalta la pietà che le si accorda dell'immenso soffrire del cielo troppo azzurro, in solitudine.

68

SPARSI PEL MONTE

Allora noi cercavamo

le fragole,

poste le mani là dove l’irto mantello erboso le nascondeva: e sotto ceppate di faggio lieta la mano andava per funghi.

Mani giovani e vecchie, sparsi pel monte, 69

noi cercavamo nel verde: nel verde temendo la vipera, o come inconsci azzardando, e pur consapevoli, nel dolce del vivere, e nel vento freschissimo,

bevendo a quell’aure vitali, volti alla vita ma non senza ebbrezza di rischio, e senza, nell’anima, un'ombra.

70

DI MAGGIO

Disarmato,

l'animo disarmato,

vidi un giorno di Maggio in padule, il lungo canale d’acqua ferma, iridata dall’ozio, 71

costellata dai bianchi fiori delle ninfee. Era stato acquazzone, e ancora il tuono rotolava laggiù verso Fucecchio: sull’argine scivoloso chiare pozze tra l’erbe. Disarmato,

l’animo disarmato,

come quell’acqua ferma sostenevo il chiarore del cielo e le sue minacce:

mi costellavo di piccoli fiori inermi, calmo conducevo il mio esistere.

72

SULL’ARNO,

DI PRIMAVERA

Vedendola di qui l’ansa del fiume di là da quel più prossimo sperone ecco la primavera fulminata da una nebbia celeste, sparsa di torricelle, e l’acqua come immobile, 73

ed il fatato in essa rifletter delle sponde, e il mite fiato che rallevia gli alberi,

e nel gesto del fiume ti ritrovi, e pensi col pensiero del fiume, con l'immobile esistere fluisci.

74

AL BAMBINO

GIORDANO

Rannuvola, è già Marzo; e rasserena

e torna a annuvolare; ed il grigio colombo, pedinando sul tetto, 75

sulle piume raduna il dubbio del maltempo ed il sereno. E com'è rosso il tetto e come pieno d’una vita segreta al mio colombo! Nel cui collare azzurro intanto splende un’altra meraviglia; e nel suo saltellare,

che va di coppo in coppo alla cerca del cibo,

non so quale contento, e più segreto. Che sembra dirmi: - Vedi, in me s’aduna

quella certezza che non hai, o che sovente sperdi: in me cè l’unità che dalla fame ascende al suo contento: io sono bello di tutto: e del bisogno, e di adornare il mondo —.

76

NEL

GIARDINO

DI SUSANNA

La stoltezza è una donna ciarliera sciocca e che non sa nulla. Essa siede alla porta di casa sua, su un sedile nella città alta per chiamare i passanti che vanno dritti per la loro strada: «Chi è ingenuo venga qui » e allo stolto dice: «Le acque furtive sono dolci e il pane di soppiatto è delizioso. » E non sa che li stanno le ombre dei trapassati, che i suoi invitati si trovano nella valle degli inferi. Proverbi, 9, 13-18

I Certo, questo corpo non perdona a nessuno; né lo spirito: in guerra aperta si battono: ed ora l'hanno vinta le passioni, ed ora le virtà. Ma, il più spesso, vittorie di Pirro. Finché a forza d’acciacchi il corpo non va a ginocchioni; ché l’età anziana non basta. Anzi, è quando più furoreggia la sua ira, 79

cieca di volontà di vivere. La sola croce dei malanni l’abbatte, o sembra.

E allora

di sparse querimonie si conduole, membro a membro; e seco, spesso, anche peggio languisce lo spirito. Sicché la morte sembra la sola salvezza. A tanto mi hai già ridotto, vita che passi.

80

2 Ma non c'è differenza, per i sensi profondi, tra la donna e uno scoglio che il mare sommerge, e ne riemerge, o la stessa marea, o la luna

che viene e che va e si diffalca, o scompare, o si fa tonda partoriente di lucori strani, 81

o di nette intoccabili solitudini,

dovunque un ritmo sommesso, un flusso che indica un ciclo, e un passato e un futuro,

e quasi un precorrer di sogno, ed insieme il presente dell’essere, e l’amore e il dolore.

5)

Stolto ch'io fui; perché nell’età di saggezza, nei mici sensi invecchiati, bavosi d’alighe che git dal profondo protendonsi invano verso la lontana luce che, come

virginea sussurra a fior d’onda, 83

pare,

cosi mi pervenne, per capziose malie, il veleno incredibile d’un’Eva seducente,

e me le arresi, e le credetti, spregiandomi nell’intimo: tanto sottile che a me non pareva strano l’oblio della virtù, e che non avesse ragione l’amore che è sempre lui, delicato anche nei vecchi, né v'è un giardino più nobile, sotto il sole, del suo: ivi sedetti,

indifeso nel cuore, come in una sera calma, dall’ombre tutte inclinate, quando

si attende la notte a settembre, ed io dolcemente, nel pensiero di lei, quieto, mi assopivo.

84

4 L’oltraggio che subii non lo dico a nessuno: ma a lei, sempre, in ispirito, che passa e non mi guarda, io dico: — t'amo —. E indenne passa, la giovine. Non c’è cosa più sciocca d’un vecchio innamorato. Né più colpevole. Ma non più cara a lui che è innamorato 85

e che ha perduto, per quest'amore, anche i beni dello spirito: la giusta quiete dell'eterna promessa, che la sua amara vita consolava. Ora non più: la vita è un laberinto doloroso da cui non hai più uscita. Ti guardi, e sei quello che sei, già un vecchio; ti senti

invece giovane: e dentro ti coltivi un idiota giardinetto d’amore, ove ogni alito è strazio.

86

5

Ma quando mi facevi felice cantavo per un nonnulla; come foglia di pioppo anche un alito mi moveva al canto. Ora che insieme a te anche la vita mi straccia, e adagio adagio mi lascia alla musica roca dell’interno dolore, io m’abituo a contar le parole dappoi che già dentro rimarcisco e di goccia in goccia stento il mio dire.

87

6

Non piango mica; nemmeno

mi lamento.

Scodinzolo, per quel che so, per alleviarmi la noia. Ed anche le mosche negli occhi le accolgo come la visita d’una bella che mi sorrida. C'è qualche più bel brulichio, nel mio poco sole, tra questi fastidi. 88

7

Il più difficile, ora, è trovarmi un cantuccio, anche in casa, dove poter dire: siamo

noi due soli; io con me. E quivi ascoltare il mio a solo che dice: 89

- La tua vita vale cosî poco, che non merita

parole. — Nasce cosî, dalla polvere di quel niente che sono, dall’alito che ancora emetto, quel grazie silenzioso che s'illumina di non so che sorriso sul mio volto sorpreso, intimidito.

90

$

Ah, lungi dal mio racconto, e da questa tristizia d’accidia che mi sorride ed adula stia sempre

la mia

anima!

Sono

sazio di me:

e tu, creatura da cui il mio sangue guasto dagli anni, e più dalla viltà, ha tratto un dono protervo, fuggi la mia lussuria: OI

risplendi come

e dove sei, muliebre

bellezza, per altre gioie che non le mie insensate: e sorga il mio spirito, come talvolta vedonsi la luna ed Espero prossimi, liberi entrambi e puri, chiamarsi in amore: e il cipresso toscano a quel vento serale si curvi e levi su di me, dondolando misericordiosamente.

92

DA PIÙ OSCURE LATEBRE E David rispose a Gad: « Mi trovo in grandi angustie. Cadiamo nelle

mani del Signore perché grandi sono le sue misericordie, anziché cadere

nelle mani dell’uomo ». Samuele, II°, 24, 14

I

Anch'io disposi di me e credevo che sempre avrei potuto disporne come di pieno giorno, e facendosi notte

ascoltavo in giardino l’usignolo: ma lei, l’età anziana, col suo crepuscolo, invadendomi furtivamente, da ladra, 95

dispose di me, delle mie facoltà: vagando dall’uno all’altro ricovero

cercavo di sfuggirle, e d’albergare ancora in seno, credetti, teneri germogli, ma febbrilmente vidi

i miei capelli bruttati di fango come vecchi nidi. Son giunto qui spossato, e numerando le ossa dico: — sono vivo —

e mi chiedo che segni son questi se cosi malamente si baloccano soltanto fra di loro, ed io son vuoto

anche del peccato da cui debbo salvarmi.

96

2 Cosî da vecchi si gioca a vivere, come da ragazzi ogni gioco, con ciò che non serve più,

con questi giorni dell’età disutile quando ogni poco possibile ha un prezzo che subito tramonta, nella contaminazione

d’un’altra fantasia, che non è più la propria, e d’un richiamo disperso che vaga da vita a non vita, monotonamente, ricercando se stesso. 97

3

Questo è certo un vecchio peccato — dissi — conoscendomi un male che mi percoteva e svaniva, mi percoteva e svaniva, come tra falde di nebbia, da vetta a vetta

di monte, d’ottobre, il vedere e non vedere, — certo un vecchio peccato, e non scontato ancora, 98

dimenticato tra le fertili quinte dci giorni, che come freschissime allee d’alberelli fuggivano dove son giunto, né quello era un peso, anzi, il piede gaudente vi puntava addosso prendendone slancio, moltiplicandone il piacere: ma ora, mentre sono costretto a rallentare, come si fa pesante, attacca ogni viscere, annebbia la vista, e diventa egli stesso salita, una fatica

di più, è impossibile sormontarlo, toccare lassi; e soltanto è al fallire della stessa stanchezza,

se anch'egli talvolta scompare in una morte, in un cadavere,

quasi, di morto

dolore.

4 Ma spesso: - Passa via! - vo dicendo, come a un cane, al mio cuore:

— E abîtuati alla pazienza! Ma non ne vuol sapere. E pretende di ritornare ai gaudi d’una volta. Se li ricorda tutti, 100

e non s’arrende, non s’accorge che non è più lo stesso. Non ha mente, né cervello. Lo sciagurato patirà

fino alla fine. Morirà pieno di guidaleschi.

IOI

5

Ché il peccato ha due persone, egualmente vive, di cui l’una sanguigna e ricca di tutti i furori, l’altra, non meno violenta, ma tetramente ambigua,

come fantasma della prima e ugualmente pronta a tradirci, IO02

anche da vecchi, noi fantasmi, coi suoi fantasmi.

È quando il dolore diventa anch'esso fantasma di dolore, che ripercorre gli antichi morsi, e l’eco

se ne prolunga, stanca, in questo morto andarsene dell'anima anziana, come in una casa abbandonata

lo sbattere delle vecchie tende, e delle inutili porte.

103

6 Cosi, da più oscure latebre, si libera

un io sconosciuto, invecchiando, cui non badammo da giovani, o che intravisto tememmo, e parevaci il peggio di noi, il più abbandonato e senza speranza; 104

eppure era lui, nella sua essenza precaria era l’uomo, nella triste sua carne, e mortale destino, e ivi dentro

il suo amore, melanconico e vorace,

e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo suo vero rivelasi, tu, anima, specchio

d’eterno, che cosa farai? Cosi s’interroga il vecchio, dondolando la testa, mentre soffre e dubita.

105

7

Eppure so che la vita, nel tempo, è gremita di stagioni, e che ognuna ha la sua libertà, nel bene e nel male, di scambi, di nutrimenti; e che nulla

vale a disfarmi, se mi tengo per quello che sono; 106

nei miei limiti di creatura. Riconoscermi limiti è fonte della mia salvezza. Poi, nella morte che sa chi fui, attenderò che m’apparisca, sempre a me casalinga, l’eternità, come

un’altra, ma

più libera creazione.

Chi può disfarmi è il peccato che è senza stagioni ma agogna di regnare sul tempo da despota, e tenta, dal tempo, il passaggio nella mia anima, perché egli sa che è eterna e che solo di quella può fare a se stesso la soglia, infernalmente regale, della sua sterile eternità.

107

8

Ma forse non siamo nel vero che quando, nel riconoscere il male che è in noi, ed a fondo battuti in ciò che speravamo,

il conoscerlo vano ci rende alla più vasta sintesi di quando dal male si elegge la meritata croce, e vietato l’oblio, la certezza 108

di non essere invano, qui, testimoni di un esister cosciente, sofferto, umiliato,

restituito all’innata realtà d’una speranza senza illusioni, non nostra, profondamente vera.

109

i

I,



IN PIENA PRIMAVERA, PEL CORPUS DOMINI

I C'è soltanto della pura gioia, nello stridîo delle rondini, o anche un fitto

dolore? Ma quali confini assegnare al dolore e alla gioia, se è come quando la terra di primavera è colma di canti d’uccelli, e non v'è più scampo

al delirio, che verzica per ogni dove, 113

tanto al dolore la gioia consente lassi crocifissa, nel petto al Creatore,

dove sempre vivono accanto le due integrazioni potenti, vertiginose unità

che dall’uno all’altro ci travagliano, ebbri nel dolore e nella gioia? Lode sia dunque all’Unico, al sacro fonte dell’esistere, e stridano le rondini, stamani, inconsapevoli.

[14

2 Sî, m’accorgo, mio Dio

(la confessione è tenera, ma l’animo è aspro),

che d’una cosa in più, forse, aveva bisogno il tuo servo:

quanto più libero in Te, 115

quanto - aveva bisogno d’essere conscio dei suoi simili, cui non solo la morte l’eguaglia ma la consuetudine con il peccato. E d’avere un poco d'orgoglio non era male, d’essere come se fosse solo,

e d’amarti come fosse Te stesso, nel nome,

116

angosciato, di tutti.

3

La mente che ragiona dissuade dai sogni, e cerca

nelle persuasioni profonde il suo fiore; fa come quando mori mio fratello, che andavo pensando a che cosa ci sia, 117

nella morte, che assomiglia a qualcuno di quegli affetti perduti, di quei momenti già spenti: e sulla fronte appena baciata fioriva la verità del perire, la sacra offerta di me stesso alla morte.

118

4 Non chiamare disperazione la disperazione, se non è ancora più forte, se non è ancora a quel punto che si spacca, 119

che s’apre una feritoia,

nemmeno la disperazione è tua, cèdila

a chi è più forte di te, attendi, accetta d’esser colmo del tuo nulla;

scamperai da te stesso, non saprai come, un altro sarà in te.

120

5

La tua mente

illusoria rifiutala

se non ha altri argomenti che te: e il tuo cuore, se non ha che i tuoi

lamenti. Non avvilirti compassionandoti. Sii non schiavo di te, I2I

ma il cuore di ciascun altro: annullati

per tornar vivo dove non sei più te, ma l’altro che di te si nutra,

distinguilo dal numeroso, chiama

122

ciascuno

col suo nome.

6

Qui od altrove, a un poeta, il suo tempo è fulmineo, cometa che declina e scompare lungo la chioma della sua pazienza. E non può dire cose più alte di lui. La gioventi gli è di lievito, 123

la vecchiaia di paragone, e quando l’aria è sgombra di messaggi incontra creature.

Il bene e il male in eguale misura lui non valgon rimpianti, come morto fin dalla nascita,

come vivo dopo la morte.

0» O

124

Questo cerchio di vecchi, che si radunano

la sera al caffè, sempre allo stesso tavolo, tonda accolta di crani che i più lustreggiano calvi, ed altri impennacchiati di qualche bianco ciuffo;

e sia lungi da me ogni accenno di scherno alla loro vecchiaia, perché qui non ricanto 127

che la stima che n’ebbe mia madre, religiosa natura, sempre attenta per altro a non montare

in boria per la sua età veneranda, che le ridusse la testa come un caro tentennante birillo con cui la morte, ed essa con lei, giocava, giocavano, dico, insieme, come

due bambinucce:

tra loro tornano, spesso, certe sorde parole,

certi « allora... » defunti, con nell'occhio ed agli angoli della bocca di chi le rivolge al vicino un trèmolo, un luccicore biancastro di peli, e nella gialla cornea, quasi un ghigno, o un rictus che forse è della stessa carne che già li abbandona,

intrattenibile; ed ogni tanto, infatti, ne scompare qualcuno che non torna più, che lascia un vuoto, in cui ristagna un’ombra, un resto di discorso, che via via dispare, e poco

dopo si rincarna in un altro, ed allora il fiotto del querulo discorrere riprende, del loro eterno intransitivo rammentare, che va da sordastro a sordastro, va e torna, difatti, e ritonfa nella loro memoria, e vi resta immoto, pietrificato... Quasi un astratto conclave,

dico, di forme... quale le grosse pillore d’Arno fanno di sé nel greto a monte, là dalle Sieci, tonde e calve, appunto, o ciuffate di strame, ammucchiate

ad un muto parlare dove la piena le lasciò,

128

sotto gli anni che passano, tra l’acque verdi e ferme, tra mota e tanfo di muschi, grido

corporeo ed inane del lontano Appennino da cui rotolarono vive, care al mio cuore,

e non hanno più vita... Orst, vi dico, uno dei nostri poeti, il più sottile e arguto tra quanti spesso sediamo in cerchio cianciando allo stesso caffè, presso quel loro tavolo, una di queste sere, e pareva scherzasse, disse, anche lui con un ghigno, ma consapevole appieno: — Ragazzi, tra qualche anno saremo anche noi — e stridette - seduti là, al loro posto! Parole che passarono, restando il chiacchiericcio.

129

LETTERA

D'AUTUNNO

In questa (nella Chiesa Cattolica), riconobbi immediatamente una realtà per me nuovissima: sentii che, in essa, non ero io a costruirmi una Chiesa

con lo sforzo del mio pensiero. Non ebbi bisogno di fare un atto di fede; non ebbi da sforgarmi penosamente per rimanere in una posizione, ma il mio spirito, in perfetta distensione e pace, si quietò in se stesso: la potevo contemplare quasi passivamente, come un grande fatto obiettivo di incontrastabile evidenza. La osservavo nei suoi riti, nel suo cerimoniale, nei suoi precetti, e dicevo: « questa è una religione ».

John Henry card. Newman,

Apologia pro vita sua

LETTERA

D'AUTUNNO

« Oggi, figliolo, quasi a pugna e calci ti scrivo questa lettera; domenica

ebbi brutta giornata; non vergai che due righe; ora piove; mi martoria la spalla che mi ruppi, anno, cadendo sul balcone; ma posso ringraziare il Signore, di star cosî. La mia salute, come 133

al solito, regge,

da vecchi; bisogna aver fiducia che Dio abbia pietà. Mio Carlo, prega,

prega per me...» Queste sono le lettere, l’una per l’altra, di mia madre. Aperta sul portone, la leggo ora per strada, e intanto guardo dove metto i piedi. E più ci penso, e guardo, e più mi sembra, di sasso in sasso, tutto sia cosi,

fatto di certi mali che lo straziano,

i più sordi ed inerti, che li sanno quelli che son più soli e che hanno gli occhi che son soli a destarsi, nel guardare. Onde l’anima sorge, e si fa un essere reale, che rende conto di sé, vede soffre e non chiede, neanche requie, ma insiste nel fiorire, anche d’autunno.

134

VERSO

QUARESIMA

Udii un latino basso, della messa;

ed in foglie d’acanto udii gloriarsi, fra i capitelli, lo jeratico canto:

trionfava d’ogni nostalgia come un fiume che scende in piena, d’arcaiche acque, 135

nella valle del tempo. E negli spazi dell’etere, lamentavansi accanto alla nudità dell’anima i voli profetici. Eravamo noi soli, sepolti in un punto del globo, in una paziente cucina; sul bianco marmo,

con la radio accesa,

coglievamo da un cesto le verdure per la minestra, in questo di di festa, lardellavamo la carne: odorava di sensi la cucina, e l’amore

piovigginava dai cieli aperti, nel mese che precede la primavera.

136

NEI GIORNI DELLA

PIENA...

I Quando vidi avventarsi, in capo a Borgo Pinti, piegando in giù con le sue froge schiumanti, l’empia cavalla della piena, il collo immane

gonfio di sozze vene, gialle d’ira, 137

unte di morchia, scotendo la criniera sotto le finestre, precipitando nelle case

con mille galoppi, tanti ne partoriva quanti abituri c'erano, templi e palazzi; stabilitomi in quel terribile silenzio guardai il cielo e dissi: - Siamo assai meno

considerevoli,

agli occhi di Dio, di quello che ciascuno di noi non pensi, ogni giorno, di sé. —

Ed esclamai: - Se abbiamo ridotto a sapienza d’universale bellezza tanta pietra, perché non portammo in tempo la natura a ragione, se Dio ce la dette per questo? —

E mentre il muso dell’ignudo Appennino labbreggiava qua e là nell’ingorda sua melma facendo dei tesori di Firenze il suo trogolo; è allora che tetramente guardando questi infelici ridotti a nulla in un fiat mi passarono in mente altre rovine, o le stesse, ma

non

cosi immani,

qui in Firenze, di secoli fa.

E sospirai: — Sempre, mai sempre,

troppa superstizione inane di Dio, e troppo mischiarlo a ciò che ci conviene privatamente, diletti d'anima e miseri cordogli! Allora si isola, Iddio, e ci abbandona

alle bramosie che di dovunque ci sopraffanno.

138

Ma si ritorna preziosi ai suoi occhi, e duramente perdonati, appena c'è quello che dice, che osi dire per sé e per tutti, tra noi, col cuore pieno di buio: «Padre, in te mi rimetto,

e il tuo nome

sia sempre santificato ». —

Ed ecco, su quel motiglio che già s'adagiava nella sua fiocaggine riapparve qualcuno di vivo, d’indignazione brandendo e pale e scope e rastrelli e dicendo: — tîrale addosso, alla svergognata! Poi, subito, vidi una furia di gente, ch’era sola con sé, spingere melma e stracci,

e canterani, e pagliericci, e il fiato che gli resta, fuor delle finestre e degli usci:

gente vidi che crede, dico, gente che anche a se stessa inesorabile, e contro tutte le sopraffazioni, alza la sua vera bandiera, in Dio,

di disperati che non s’arrendono.

139

DS)

L’ago d’un vero giorno, eccolo! punge i suoi figli la serena costanza della vita, ed un azzurro chiaro di freddo promette la levata del sole. S'asciuga il fango nelle vie, e l'Arno accucciato nel suo letto finge gli antichi idilli, tra le rovine dei Lungarni. La vita si desta dal tragico silenzio, tornerà quotidiana lungo le pazienti sue tracce. Se i problemi di dopo la sciagura pesano ancora sulle nostre spalle, eccolo l’ago di un giorno sereno intento ai rammendi. Riprenderemo a gugliate il tessuto della vita come fa il sole benedetto, dai lunghi punti dell’alba, ai rapidi del mezzodî, a quelli riposati dell’ombre

[serali. 140

RESURREXIT O now well work that sealing sacred ointment Gerard Manley Hopkins

I miei stracci di bimbo son tutti qui,

stamattina, alla prima comunione ordinata per le bambine della parrocchia. E il cielo va come me, a stracci di nuvole; spira dai monti un umido di boschi, di rovi fradici, di nidi: tra Pasqua e l’Ascensione, dopo un mese d’alido, I4I

sarebbe una gran pioggia benedetta. Via il peso morto delle private abitudini! Gente ondeggia davanti alla chiesa, chi entra, chi esce, chi attende; e come

per un paio di matrimoni alla buona grosse e nere macchine da noleggio attendono in fila, e altre utilitarie. Ma intanto balena d’incertezza la nuvola, e poi si decide a piovere, e tutti, alla fine, fanno ressa ad entrare.

Dentro, su due file di panche, un bianco tovagliato è pronto per la mensa eucaristica delle bambine; che stanno inginocchiate nei loro veli con un mazzo di fiori bianchi deposti davanti ai loro corpi verginali. Pesante è l’aria d’umido e di fiati: mentre dalla ressa dei parenti, dietro le comunicande, chi sporge un braccio per aggiustare un velo, chi allunga il collo per vedere la sua creatura.

Mazzi di fiori incartati, piccole spese toccate stamattina ai parenti,

e Dio sa se bastano! la stessa carta velina, gli stessi gigli e garofani bianchi. Cartine sante, orti benedetti!

Di più le suore hanno regalato a ciascuna lo stesso bianco libretto da messa. 142

In questa grande eguaglianza leggo sullo schienale della panca che mi sta davanti, su una targa d’ottone lucido: — Alla memoria di Mario e Luigi Lippi, la mamma! Dunque, anche i figli morti sono presenti. Intanto una beghina raccoglie, e lo fa andare in giro, un crocefissino d’argento abbandonato su un banco. Di mano in mano, tentennando la testa,

ciascuno lo guarda, e lo passa al vicino. Dopo la comunione ho visto il prete andar via in bicicletta.

E anche tu, creatura che senza Iddio sci inutile, o me stesso d’inutili ricordi! Eccoti presente, a più di cinquant’anni,

alla tua prima comunione! Mutato è il mondo, perché già tu sai che è tutto crocifissi:

e una tomba

di fiori olezzanti ti sembra il petto delle bambine: ma rieccoti al grido sicuro del Resurrexit! E tu, anima cara, comunista brusco,

che stamattina sei qui, che attendi la moglie con le tue figliole; per lo spiraglio della loro attiva innocenza, Dio ti benedica nelle tue speranze,

se sono giuste le vedrai fiorire.

143

Abbi soltanto questa certezza tornando a casa tra le vagheggiate bambine: stamattina, a pranzo, il pane è vero corpo di Gesù; e il vino,

il sangue che t'ha redento. 1955

144

DAL TABERNACOLO

Io Santo al Tabernacolo, Santo sono in eterno, ed il per sempre atteso,

sempre presente Iddio, o tu che entri, incespicando, per la messa, o debole uomo,

nel chiostro annoso, tra le lapidi

che ti parlan di morte, tra le siepi sterpate, sul lastrico sconnesso;

145

tutto ciò che volesti perde di leggerezza, come la tua volontà, o portatore d’anima,

presto cede, e greve cade corroso, spento: o non vile

nella viltà che t’abita, o fedele

non già ad un sogno, ma alla tua flebile vita, debole natura,

tu che di tutto fai, e del tuo peccato, fede e salvezza, umili al mio altare.

146

MESSA DI MEZZANOTTE

A NATALE

Ciò che cigola strepita e risuona, i fitti scalpiccii dell’affrettarsi, la pioggia, e queste roche campane, lungo le buie strade e sopra i tetti, come da paglia fradicia un levarsi di tediose fumee che non riscaldano, di dubbiose tristezze, potente Iddio perdònale, o notte dei primordi che nell’immenso

147

credere t’avanzi tra i mondi,

e generi te stesso, e da te stesso il pargolo, le minuscole membra della luce, Cristo che nasce! Ed in lui déstaci! ché a mezzanotte sacra è la messa

di Natale, ed immensa la notte che ci avvolge.

148

MESSA

PIANA

Quando vado alla messa spesso non prego, guardo. Sono come un bambino. Guardo,

e credo. E il Signore mi dice (con povere fiammelle di candela, mutamente

149

entro me, nel mio guardare),

- Bravo, hai fatto bene a venire. — E al segreto consenso la coscienza s'indebita, riconoscente. E mormora: — Basta, cosi sian tutti, tutti

oramai, con me. Anche quei pochi cui ho fatto del bene. E solo mi lascino,

taciti, solo nel mio guardare. —-

150

MESSA

SOLENNE

Io non so se chiamarla la bellezza quella che nasce in noi, dal più veridico senso della nostra miseria. Parte di lf,

sprigiònasi, il capo di quel filo del bisogno che tanto disegnò della bellezza, nel mondo. E parve, ed era anche un miracolo: ma era necessità all’esistere, non già per noi ISI

ma per dire al Signore: - Se Tu esisti anche noi esistiamo —. E per dirgli ubbidendo: - Ho ritrovato in Te della bellezza il bandolo originale, il seme. Ecco, fiorisce nell’umiltà

l’immortale coraggio del Tuo spirito, la segreta e indicibile Tua gloria. -

152

ELEGIA

CATTOLICA

Questa povera tomba, questa lastra piccola, inclinata quel tanto che basta perché ne scoli l’acqua, dove vengo recando fiori

e più spesso una malinconia né di vivere né di morire, 153

una dolce stoltizia dell’al di là,

guardando i monti, le funebri allee di cipressi, le croci che, come

colombe, pascolano

miti nel silenzio: questa tomba di mio padre e di mia madre, cosi minuscola, che mi ricorda della mamma i suoi, da vecchia,

— Fo tre passi in una pianella! ed i - Badate a non fare il passo più lungo della gamba! - massime serene, qui, da stanza a stanza, da universo a universo, o cielo in cui un allegro muove

il vento correre

di nuvole...

Senza timore la cara tomba

io guardo, nei cui nomi scolpiti è la leggenda che di noi fece una famiglia; quasi la desidero;

ché al mio morire vo con una lenta persuasione: conosco il paesaggio,

e conosco le fonti del viaggio, dove il mai stanco pellegrino si disseta: sul greppo come fece chiamando

154

e conosco le soste, fertile dell’agonia, mia madre, piamente in suo aiuto la Vergine:

quando, in quel fremito della fede che con la vita si corrompeva, nel declinare delle forze, a Te,

ombra lunga, si rivolgeva, o ti sentiva, come l’ape a sera sente la regina dell’arnia, nel mondo che si chiama primavera e che in quel fremito s’incarna. *

Ombra che venne, come viene alla tetraggine dei moribondi, ed era il sacerdote

per l’estrema unzione; e ci facemmo tutti il segno della croce: ed eri tu, tu dai sette dolori, la madre, o arcana impietosa veste del prete, ma negli oli santi, o mammella dei sacramenti. Tu Chiesa, tu comunione dei Santi, lenta operaia, a consolare

nella stanzuccia la morente,

con la tua voce di penitente.

T'era scena e paesaggio il comodino su cui il sacerdote depose la sacra teca; e non ivi

il vivo chiaror degli olivi, ma rigida la parete ignuda, rispose chiusa 155

la vita: — Vieni, Ernesta, alle nozze! —

E a quell’appena appena lieve palpito che alla luce rossastra

della lampadina aggiungeva, da echi di fede infinita, e dal rantolo che affievoliva, la già convinta lievità con cui muore il dolore,

si sentiva il balbettio d’una riva

dove ricominciano i sempreverdi, e tra gli aurei corbezzoli il prender monte,

e la salita

che nella vita altri colli saliva, tra fresche macchie, o misterioso

Purgatorio, che all’ignuda speranza t'aprivi delle mani della moribonda.

156

IN VAL

TIBERINA

A TEMPO

DI PIENA

Dedicata alla preghiera e passione dei religiosi degli ordini contemplativi

Beato l’argine che contiene il corso del torrente o del fiume, e difende

la ricchezza dei campi: beata la sua pazienza erosa e linearità,

la monotonia della sua preghiera. È della stessa terra di ciò che difende, 157

ma per sé ha scelto la sterilità del suo esistere contemplativo consolato da lunghe erbe, senz'altro premio per l’altrui salvezza. Offre a chi va lungo la calma dell’acque una via piana, una quieta meditazione: disegna in terra l'equivalente immobile del fluire, tragitto infuso di un perenne arrivo. Alla passione dell’acqua che in piena sale paurosa oppone la tranquilla fiducia del suo limite, che talvolta ne è vittima,

se la piena tracima

ristabilendo il suo morto

disordine.

Ai due estremi della frana si vede

allora la desolata pazienza dell’argine continuare come se fosse un’anima che inesorabile si considera, mentre,

dubbiando,

gli uccelli di passo

trasvolano la palustre solitudine. Ma il cuore saldo torna a ripetere: — Beato l’argine, che contiene il corso del torrente o del fiume, beata la sua pazienza erosa, e linearità,

la monotonia della sua preghiera. -

158

DEDICHE

Il lettore avrà osservato che soltanto una dedica s’'accompagna nel testo, fra tutte le poesie di questo libro, ad una di esse. Sull’ul-

tima. Doveva restarci, per una ragione che va al di là dei miei affetti, e fa parte della stessa poesia. Ma desidero ricordare e man-

tenere, a mezzo di questa nota, tutte le altre che nacquero spontanee a suo tempo, con l'occasione che mi suggeri ciascuna poesia. E sono le seguenti: A CUCI E SCUCI

La poesia 2 (Questa verruca che sul fianco oscura), è dedicata al medico Henry Arena. La poesia 4 (Giorni che invecchio, assenti, cui il pudore), è dedicata a Mario Luzi.

159

UN

PASSO,

UN

ALTRO

PASSO

La poesia in corsivo d’apertura (Un passo, un altro passo), è dedicata a Michele Pierri.

UNA

VOCE

DI TARLO

La poesia « Vino di Ciociaria », che andrà ricongiunta in futuro alle poesie de « Il Vetturale di Cosenza, ovvero Viaggio meridionale » comprese ne L’Estate di San Martino (Mondadori,

1961), è

dedicata a Libero de Libero. Essa è stata ricostruita dagli appunti dello stesso quaderno,

1957.

La poesia « Sparsi pel monte » è dedicata a Ugo Fasolo. La poesia « Al bambino Giordano » è dedicata a Giordano di Pietro.

IN PIENA PRIMAVERA, PEL CORPUS DOMINI La poesia 3 (La mente che ragiona dissuade), aggiunge alla dedica ideale per mio

fratello

Giuseppe,

quella per la cara memoria

dalla cui morte

della madre

fu ispirata,

di Geno Pampaloni,

Assuntina Guerri Pampaloni.

AL CAFFÈ Questa poesia è dedicata al tavolo di amici del Pazskowskj: a quelli di sempre, e a chiunque vi è passato e vi passa a cercarli. LETTERA

D'AUTUNNO

La poesia « Resurrexit » potrebbe avere una dedica che non oso nemmeno formulare, ma che resta con grande venerazione nel mio pensiero. Essa fu scritta nel 1955, in quel clima che attendeva dalla Chiesa un miracolo. Il miracolo avvenne con l’avvento del Santo Papa Giovanni. Le citazioni

bibliche,

pagg.

77 e 93, son

tolte

dalla

traduzio-

ne italiana de La Sacra Bibbia fatta sui testi originali da Mons. Fulvio

160

Nardoni,

Firenze,

1960.

INDICE

ATCUCERSSGUEI

I 2 3 4 5 6 7 8 9

O tu che, roco, vieni ogni mattina Questa verruca che sul fianco oscura

Non sei contento del possesso dei giorni? Giorni che invecchio, assenti, cui il pudore Quando a Febbraio ‘Orione Tetti, non ombre, tegoli, non ombre Ma rieccomi all’alba, e ne emergo Non solo è vero il vero, ma anche il falso Alla pari di me, tetto avvampato dal caldo

UN PASSO, UN ALTRO PASSO 1 Sono giunto fin qui, non c'è più strada 2 Non ho più che lo stento d’una vita 3 O seppure, come in certe mattine

40 41 43 45

4 5 6 7

Sei tu, Signore, che mi dai la tua forza Chi invecchia e sente sfiorire nel sangue l’amore E so quanto la vita sia discorde Ma anche imparo

47

8 In me sempre latente, viva, irreparabile UNA

51 53 55 57

VOCE

DI TARLO

Altre memorie comuni Col fratello, a Settignano, 1959 Dalla locanda Sull’Aniene

59

A cena in Liguria

61 63 65 67

In Cividale Vino di Ciociaria Sulla Greve Ancora sulla Greve

69

Sparsi pel monte

71

Di Maggio

73. 75.

Sull’Arno, di Primavera Al bambino Giordano

79 81 83 85. 87

NEL GIARDINO DI SUSANNA 1 Certo, questo corpo non perdona a nessuno 2 Ma non cè differenza, per i sensi profondi 3 Stolto ch'io fui; perché nell’età di saggezza 4 L’oltraggio che subii non lo dico a nessuno 5 Ma quando mi facevi felice cantavo

88

6 Non piango mica; nemmeno mi lamento

89 or

7 Il più difficile, ora, è trovarmi un cantuccio 8 Ah, lungi dal mio racconto, e da questa

DA PIÙ OSCURE LATEBRE 95 97 98 100

1 2 3 4

Anch'io disposi di me e credevo Cosi da vecchi si gioca a vivere, come da ragazzi Questo è certo un vecchio peccato — dissi — Ma spesso: — Passa via! — vo dicendo

102 104

5 Ché il peccato ha due persone, egualmente vive

106

6 Cosi, da più oscure latebre, si libera 7 Eppure so che la vita, nel tempo

108

8 Ma forse non siamo nel vero che quando IN PIENA PRIMAVERA, PEL CORPUS DOMINI

FIG 115 117 119 I2I 123

I C'è soltanto della pura gioia, nello stridio 2 Si, m’accorgo, mio Dio

3 La mente che ragiona dissuade 4 Non chiamare disperazione 5 La tua mente illusoria rifiutala

6 Qui od altrove, a un poeta

AL CAFFÈ 127

Questo cerchio di vecchi, che si radunano

133

Lettera d’autunno

135

Verso

137

Nei giorni della piena (1 e 2)

LETTERA

D'AUTUNNO

quaresima

I4I

Resurrexit

145 147

Dal tabernacolo Messa di mezzanotte

149

Messa

I5I

Messa solenne Elegia cattolica

153

a Natale

piana

157

In val Tiberina a tempo di piena

159

Dediche

STAMPATO

QUESTO NEL

IN

ITALIA

VOLUME

MESE

DI

-

OTTOBRE

NELLE

OFFICINE

DELLA

ARNOLDO

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È STATO

IN

DELL’ANNO

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FEB

FORM

91979

104

673695

TADANC sù v, A 9} 4

if

zione umana. Rispetto a L'estate di San Martino, la stupenda raccoita di qualche anno fa, il dettato di Betocchi si è fatto più casto e interiore; le folgoranti eleganze stilistische — rime,

assonanze, musica dispari del verso... — si sono smussate; è rimasto

lin-

guaggio antico in cui certe cadenze di oratoria cattolica sono come spezzate dalla ruvida, familiare scalpellatura del « parlato » toscano. Un linguaggio in cui il «romanico » di Betocchi sembra

velare le sue tarsie, le sue

bande di colore, per una sempre pit rustica e perentoria « verità ». Carlo Betocchi, nato a Torino il 23 gennaio 1899 ma, ancora fanciullo,

passato a Firenze dove studiò diplomandosi perito agrimensore, è un «costruttore in letizia ». La sua profonda capacità di « comprendere con abnegazione » lo ha portato alla più intensa dedizione al lavoro: poesia naturalmente, e una notevole attività letteraria, ma anche strade, case,

ponti, canali, dighe. Il suo impegno di rigorosa moralità lo ha sempre visto fedele a queste premesse; e una visione unitaria di società-natura, dal tem-

po di Realtà vince il sogno (sua prima raccolta di liriche del 1932) ad oggi,

ha sempre accompagnato e sostenuto la sua poesia. Betocchi partecipò alla prima guerra mondiale; fu in Libia e,

di nuovo in patria, a Bologna, Roma e attualmente ancora a Firenze. Nel 1955

ha ottenuto il premio « Viareggio ». Lire 2200

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