Come ragioniamo

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Biblioteca Essenziale Laterza 76

Filosofia serie diretta da Tito Magri VOLUMI PUBBLICATI

Maurizio Ferraris ~ L’ermeneutica Salvatore Veca ~ La filosofia politica Eva Picardi ~ Le teorie del significato Michele Di Francesco ~ La coscienza Piergiorgio Donatelli ~ La filosofia morale Diego Marconi ~ Filosofia e scienza cognitiva Nicla Vassallo ~ Teoria della conoscenza Massimo Marraffa ~ Filosofia della psicologia Claudia Bianchi ~ Pragmatica del linguaggio Achille C. Varzi ~ Ontologia Christopher Hughes ~ Filosofia della religione Pieranna Garavaso - Nicla Vassallo ~ Filosofia delle donne Carlo Cellucci ~ La filosofia della matematica del Novecento Simone Pollo ~ La morale della natura Elisabetta Lalumera ~ Cosa sono i concetti Clotilde Calabi ~ Filofofia della percezione

Marcello Frixione

Come ragioniamo

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007 Seconda edizione 2009

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8312-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Il ragionamento è l’oggetto di uno studio ampio e ramificato, su cui convergono i contributi di varie discipline: in primo luogo, naturalmente, la logica, ma anche la psicologia cognitiva, l’intelligenza artificiale, la matematica, la filosofia della scienza, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio e, più in generale, quell’ampio spettro di ricerche che va sotto il nome di scienze cognitive. In prima approssimazione, il ragionamento può essere indagato da due punti di vista differenti. Se si studia il ragionamento da un punto di vista normativo, lo scopo è sviluppare canoni di correttezza, ossia modelli di come si dovrebbe ragionare. Tradizionalmente, è la logica ad assumere un punto di vista normativo, ma in questo essa è affiancata da altre discipline, come la teoria della probabilità e la teoria della scelta razionale. Se invece si adotta un punto di vista descrittivo, ci si prefigge di descrivere e spiegare come di fatto ragionano gli esseri umani, il che, come vedremo, si discosta molto spesso dalle prescrizioni sviluppate in ambito normativo. Il punto di vista descrittivo è quello, ad esempio, degli psicologi. Scopo di questo libro è fornire una panoramica abbastanza ampia (anche se, per forza di cose, tutt’altro che completa) del tema del ragionamento. Considerazioni normative saranno affiancate da osservazioni di tipo descrittivo, nella convinzione che solo dall’interazione di enV

trambi i punti di vista possa scaturire una migliore comprensione del nostro oggetto di studio. Alla base di questa scelta è l’ipotesi che lo studio di un tema complesso come il ragionamento non possa essere condotto interamente «a priori», prescindendo cioè dai contributi delle molte discipline che ne fanno il loro oggetto (comprese quelle di tipo empirico, come la psicologia, o tecnologico, come l’intelligenza artificiale). Chi affronta il ragionamento da un punto di vista normativo per lo più sviluppa modelli astratti delle prestazioni inferenziali, che non tengono conto dei vincoli concreti cui sono sottoposti i soggetti reali. Tuttavia l’impostazione normativa e quella descrittiva non sono completamente scorrelate. Innanzi tutto, chi adotta il punto di vista descrittivo è tenuto ad analizzare e spiegare gli errori che le persone commettono. Ma questi errori possono essere identificati come tali solo sullo sfondo di una nozione normativa di correttezza. Per contro, in un contesto come, ad esempio, quello dell’intelligenza artificiale spesso non si è interessati tanto a fornire descrizioni empiricamente adeguate di come ragionano gli esseri umani, quanto piuttosto a sviluppare modelli di prestazioni inferenziali che «funzionino», che siano cioè corretti rispetto a certi standard, che costituiscono comunque un canone normativo. Ma per le esigenze dell’intelligenza artificiale, che deve sviluppare sistemi in grado di agire in condizioni reali, le astrazioni effettuate da chi assume un punto di vista normativo di tipo tradizionale sono di solito troppo forti. Spesso, pertanto, lo sviluppo di questi modelli di «razionalità limitata» prende le mosse da un lavoro di analisi delle prestazioni effettive di agenti reali. Questo libro non è un manuale di logica, né aspira a sostituirvisi. È stato però concepito in maniera da essere leggibile anche da chi non disponga di alcuna conoscenza tecnica. Pertanto, soprattutto nel primo capitolo, vengono introdotti alcuni concetti di carattere tecnico-formale che usualmente trovano spazio nei manuali di logica; ma essi VI

sono presentati con l’unico scopo di rendere la trattazione autosufficiente. Chi volesse giungere a una piena comprensione di tali concetti dovrebbe comunque fare riferimento a un buon manuale. A differenza di altri libri su questo argomento, non si è cercato di evitare completamente il formalismo. La mia opinione è che la formalizzazione aiuti a rendere le cose più facili. Trattare temi come questi evitando a tutti i costi l’uso del formalismo è una forma di autolesionismo. Sarebbe un po’ come cercare di imparare la matematica senza adoperare la notazione simbolica: forse in linea di principio l’impresa sarebbe possibile, ma richiederebbe uno sforzo spaventoso e totalmente ingiustificato. M.F.

Intendo ringraziare in primo luogo gli studenti dei miei corsi di Logica presso l’Università di Salerno, che in questi anni hanno sperimentato loro malgrado sulla propria pelle i materiali da cui è nato questo volume. Tra le molte persone che mi hanno aiutato con suggerimenti, discussioni e attente letture del manoscritto voglio ricordare Claudio Bartocci, Claudia Bianchi, Roberto Cordeschi, Paolo Montesperelli, Teresa Numerico, Dario Palladino, Nicla Vassallo.

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1.

Introduzione: inferenze e ragionamenti

1.1 Tipi di ragionamenti Il ragionamento è un fenomeno cognitivo estremamente diffuso. Forme di ragionamento (o di inferenza, come ci esprimeremo talvolta nel seguito) sono presenti in moltissimi ambiti, e sono coinvolte in compiti estremamente diversi. In alcuni casi si tratta di compiti specialistici, come la pratica giuridica, la diagnosi medica, le investigazioni di polizia, la dimostrazione di teoremi o la scoperta scientifica. In altri casi si tratta di compiti usuali, che chiunque di noi affronta nella sua interazione quotidiana con il mondo e con gli altri. Ad esempio, ogni volta che comprendiamo una storia, o che partecipiamo a una conversazione, effettuiamo molteplici inferenze, spesso in maniera del tutto automatica e inconsapevole. Eseguiamo inferenze quando facciamo previsioni o ipotesi, quando pianifichiamo la nostra giornata, oppure quando giochiamo a carte con gli amici. Spesso usiamo ragionamenti per tentare di convincere gli altri, o per resistere ai loro tentativi di convincerci. Vediamo alcuni semplici esempi di ragionamenti (o inferenze): (1.1) Mario è geometra oppure è architetto. Se Mario fosse architetto, allora Mario sarebbe laureato. Mario non è laureato. QUINDI: Mario è geometra.

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(1.2) Benedetto XVI è un giardiniere. Tutti i giardinieri sono siciliani. QUINDI: Benedetto XVI è siciliano. (1.3) Tutti i cigni osservati sino ad ora in Europa sono bianchi. Tutti i cigni osservati sino ad ora in Nord America sono bianchi. Tutti i cigni osservati sino ad ora in Sud America sono bianchi. [...] Non sono stati mai osservati cigni che non fossero bianchi. QUINDI: Tutti i cigni sono bianchi. (1.4) L’assassino ha sporcato di fango il tappeto. Chiunque fosse entrato dal giardino avrebbe sporcato di fango il tappeto. QUINDI: L’assassino è entrato dal giardino. (1.5) Gli uccelli, salvo eccezioni, sono in grado di volare. Titti è un uccello. QUINDI: Titti è in grado di volare.

In generale, un ragionamento (o un’inferenza) è un processo che, a partire da un certo insieme (finito) di enunciati assunti come punto di partenza (che sono detti le premesse), porta ad asserire in maniera giustificata un altro enunciato (che costituisce la conclusione). In generale, quindi, un’inferenza ha una struttura di questo tipo: premessa1 premessa2 ... premessan QUINDI: conclusione

Abbiamo detto che premesse e conclusione di un ragionamento sono enunciati. Chiamiamo enunciati, o proposizioni, quelle espressioni linguistiche cui può essere assegnato, almeno in linea di principio, un valore di ve4

rità1. Per il momento assumiamo che ci siano soltanto due valori di verità, il vero e il falso, e che ogni enunciato possa essere soltanto vero oppure falso. Assumiamo, cioè, che valga quello che i logici chiamano principio di bivalenza. (Vedremo in seguito come in certi casi tale principio costituisca una semplificazione eccessiva, e come talvolta sia opportuno abbandonarlo.) Secondo questa definizione, sono esempi di enunciati Carlo ha il raffreddore, I cani sono mammiferi, I rododendri sono mammiferi, 2 + 2 = 5, Piove e Se piove ti bagni. Non lo sono invece espressioni come: Carlo, libro, 2, +, se, 2 + 2, i cani, il cugino di Anna, l’uomo che ha comprato il libro. Queste espressioni infatti sono, in un certo senso, «incomplete»: da sole non possono essere vere o false. Al più possono entrare a far parte di enunciati. Non sono enunciati neppure i comandi (Portami il libro!), le preghiere (Per favore, mi presteresti la tua bicicletta?), le domande (Hai comprato il vino?)2 o le esclamazioni (Perbacco!). Benché infatti queste espressioni abbiano un significato compiuto, non ha senso attribuire loro un valore di verità. Ad esempio, una preghiera può essere esaudita oppure no, ma non può essere vera o falsa. Negli esempi (1.1-5) le premesse e le conclusioni sono enunciati dell’italiano. Ma ci sono anche enunciati formu1 Per la precisione, si dovrebbe distinguere tra gli enunciati, che sono espressioni linguistiche, e le proposizioni, che sono i contenuti espressi dagli enunciati. Che si tratti di cose diverse è evidente se si considera che la stessa proposizione può essere espressa da enunciati diversi. Ad esempio, l’enunciato italiano La neve è bianca e l’enunciato inglese Snow is white (che sono inequivocabilmente diversi) esprimono la stessa proposizione. Per contro, nel caso di enunciati ambigui (par. 2.2.1), uno stesso enunciato esprime proposizioni diverse. La distinzione tra enunciati e proposizioni, sebbene importantissima sotto molti aspetti, ai nostri fini non sarà essenziale. 2 Talvolta ciò che qui è chiamato enunciato viene detto enunciato assertorio (in quanto corrisponde all’atto di asserire una certa proposizione), mentre si parla di enunciati interrogativi o imperativi rispettivamente per le domande e gli ordini.

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lati mediante un linguaggio artificiale, o simbolico, ad esempio quello della matematica (come 2 + 2 = 5), oppure mediante una combinazione di linguaggio naturale e linguaggio simbolico (come ad esempio Esiste un numero x tale che 2 + 2 = x). Ci sono altri tipi di prestazioni cognitive, anch’esse molto diffuse, che sono collegate al ragionamento, come la decisione o la soluzione di problemi (problem solving). Si ha un processo di decisione quando si deve scegliere un’azione tra più alternative possibili. La soluzione di problemi consiste, invece, nell’individuare una sequenza di azioni per raggiungere un dato scopo. Nel seguito ci occuperemo principalmente di ragionamento. Ma non sempre si tratta di ambiti separati in modo netto. Quando si tratta di prendere una decisione bisogna ragionare per scegliere quale sia l’alternativa più promettente (vedremo qualche esempio nel cap. 3). Per risolvere un problema si deve ragionare per valutare le conseguenze di una data azione. E così via. Tra gli esempi (1.1-5), (1.1) e (1.2) godono di una caratteristica particolare, che li differenzia dagli altri: qualora le premesse fossero vere, ne seguirebbe che la conclusione deve necessariamente essere vera. In altri termini, in ragionamenti come (1.1) e (1.2) non può mai accadere che le premesse siano vere e al tempo stesso la conclusione falsa. Le inferenze che soddisfano questa condizione sono dette logicamente corrette, o anche ragionamenti deduttivi. Gli esempi (1.3-5) non hanno questa proprietà. Nel caso di (1.3), la verità delle premesse è del tutto compatibile con il fatto che un giorno possano essere osservati dei cigni neri (di fatto questo è esattamente quello che è successo quando in Australia si sono scoperti i cigni neri della specie Cygnus atratus). Anche in (1.4) la verità delle premesse è compatibile con la falsità della conclusione: ad esempio, l’assassino potrebbe aver deliberatamente spor6

cato il tappeto per sviare le indagini. Nel caso di (1.5), Titti potrebbe costituire un’eccezione alla regola che gli uccelli volano: potrebbe ad esempio essere uno struzzo, o una gallina, o un pulcino appena uscito dall’uovo. Si consideri un ragionamento con premesse P1... Pn e con conclusione C. La conclusione C viene detta conseguenza logica delle premesse P1... Pn se e soltanto se C è vera ogni volta che sono vere tutte le premesse. Quindi, sono logicamente corrette tutte e solo quelle inferenze in cui la conclusione è conseguenza logica delle premesse. Va precisato innanzi tutto che quando diciamo che un’inferenza è logicamente corretta non intendiamo dire che le sue premesse (e quindi la sua conclusione) sono vere. Ad esempio, l’inferenza (1.2) è logicamente corretta anche se ha premesse (e conclusione) false. Ai fini della correttezza logica ciò che conta è che se le premesse sono vere, allora deve esserlo anche la conclusione. In altri termini, le inferenze logicamente corrette conservano la verità delle premesse. Si noti però che lo stesso non vale per la falsità: un’inferenza logicamente corretta può avere premesse false, ma per caso può accadere che la conclusione sia vera, come in questo esempio: (1.6) Benedetto XVI è un giardiniere. Tutti i giardinieri sono bavaresi. QUINDI: Benedetto XVI è bavarese.

Le inferenze logicamente corrette sono state da sempre al centro degli interessi dei logici. Tuttavia, esse non sono le uniche inferenze degne di attenzione. Un ragionamento che non sia logicamente corretto in senso tecnico non è necessariamente «sbagliato»: esistono molti tipi di ragionamento utili e del tutto legittimi nei quali le conclusioni non sono conseguenza logica delle premesse. I ragionamenti (1.3-5) sono esempi di questo tipo. Inferenze come queste, pur non essendo logicamente corrette, rivestono un ruolo assolutamente centrale e irrinunciabile, sia nella nostra vi7

ta quotidiana, sia nell’ambito di attività specialistiche come, ad esempio, la ricerca scientifica. Il ragionamento (1.3) è un classico esempio di inferenza induttiva, in cui si formula una generalizzazione a partire da un insieme di casi individuali. Nel caso dell’esempio (1.4), nella conclusione si avanza un’ipotesi che dia ragione dei fatti descritti nelle premesse. Questo tipo di inferenza è detto abduzione, o ragionamento abduttivo. L’abduzione è il tipo di inferenza dell’investigatore che tenta di collegare in un unico disegno esplicativo gli indizi eterogenei di cui dispone. Rientra in questa categoria anche il ragionamento diagnostico, che consiste nell’avanzare un’ipotesi che renda conto di un dato insieme di sintomi, come appunto fa il medico che diagnostica una malattia, o il tecnico che cerca di individuare le cause dei malfunzionamenti di un dispositivo. Infine, in (1.5) la premessa è una generalizzazione che ammette eccezioni (Gli uccelli, salvo eccezioni, sono in grado di volare), da cui si ricava una conclusione provvisoria su di un caso particolare (Titti è in grado di volare). La conclusione è provvisoria in quanto si dovrà essere disposti a ritirarla qualora diventassero disponibili nuove informazioni incompatibili con essa (ad esempio, che Titti è un pinguino). Queste inferenze vengono dette ragionamenti per default. Ciò che accomuna questi esempi e li distingue dai ragionamenti logicamente corretti è che sono tutti in qualche grado fallibili: in essi bisognerebbe sempre specificare che la conclusione vale soltanto fino a prova contraria. Torneremo nel seguito su questi tipi di ragionamento3. Per ora si noti che ragionamenti come questi, sebbene legittimi e utili sotto molti punti di vista, non sono oggetto di studio della logica nella sua forma tradizionale. Tuttavia, se si vuole prendere in considerazione il ragionamento or3 In particolare, tratteremo l’induzione nel par. 3.1, l’abduzione nel par. 4.3 e il ragionamento per default nel par. 4.4.

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dinario, restringere la propria attenzione alle sole inferenze logicamente corrette sarebbe limitativo. In alcuni testi vengono chiamati induttivi tutti i ragionamenti che, come (1.3-5), non sono deduttivi. Noi chiameremo induttivi solo i ragionamenti del tipo di (1.3); per le altre forme di ragionamento non logicamente corretto parleremo di inferenze non deduttive. Spesso, nei contesti ordinari, non è facile individuare le inferenze. A volte, in un testo o in un discorso, le premesse di un ragionamento sono segnalate da espressioni come dato che, poiché, siccome, infatti, mentre la conclusione è segnalata da espressioni come pertanto, quindi, dunque, ne segue che. Ma non sempre ciò accade. Talvolta la struttura del ragionamento è implicita, o più o meno confusa, e talvolta è deliberatamente occultata per tentare di trarre in inganno il destinatario. Qui non approfondiremo questi aspetti. È importante però avere presente la differenza tra ragionamenti o inferenze, da un lato, ed espressioni della forma se... allora... dall’altro. Come si è visto, un’inferenza è costituita da uno o più enunciati, che fungono da premesse, e da un enunciato che svolge il ruolo di conclusione. Un’espressione del tipo se... allora... costituisce invece un unico enunciato: gli enunciati di questa forma vengono detti in logica condizionali. Si tratta di una differenza importante, su cui ritorneremo nel paragrafo che segue. 1.2 Logica e formalizzazione 1.2.1 La logica delle proposizioni Tra le discipline che studiano il ragionamento, la logica è la disciplina normativa per eccellenza: essa specifica a quali condizioni un ragionamento deduttivo risulta logicamente corretto. Nel resto di questo capitolo saranno esposte alcune nozioni elementari di logica. Ovviamente questo libro non aspira ad essere il surrogato di un manuale di logica. Lo scopo di questo paragrafo è quello di fornire al9

cuni concetti e alcune notazioni che ci serviranno nel seguito, in maniera tale da rendere il volume autosufficiente. Chi, come peraltro è auspicabile, sentisse l’esigenza di saperne di più sulla logica, può far riferimento ai manuali segnalati nella sezione Cos’altro leggere. Consideriamo l’inferenza: (1.7) «Madame Bovary» è di Flaubert oppure di Tolstoj. Se «Madame Bovary» fosse di Tolstoj sarebbe un romanzo russo. «Madame Bovary» non è un romanzo russo. QUINDI: «Madame Bovary» è di Flaubert.

Essa è logicamente corretta. Inoltre, se la si confronta con (1.1), è facile constatare che queste due inferenze «si assomigliano»: premesse e conclusioni hanno una struttura simile o, come si dice tecnicamente, hanno la stessa forma logica. La correttezza di queste inferenze dipende proprio dalla forma logica e non dal contenuto specifico degli enunciati: qualunque altra inferenza in cui premesse e conclusioni avessero la stessa forma risulterebbe a sua volta corretta, come è evidente da questo ulteriore esempio: (1.8) Genova è in Liguria oppure in Piemonte. Se Genova fosse in Piemonte, allora sarebbe lontana dal mare. Genova non è lontana dal mare. QUINDI: Genova è in Liguria.

In logica ci si concentra sui nessi di conseguenza logica che sussistono tra gli enunciati in virtù della loro forma logica. Per questa ragione si parla appunto di logica formale. Per rendere evidente la forma logica degli enunciati i logici adoperano un sistema di notazione artificiale. La trascrizione di un enunciato in tale linguaggio simbolico viene detta formalizzazione. Non è questo il luogo per soffermarsi sul ruolo essenziale della formalizzazione in logica. Qui ci si limiterà ad introdurre alcuni elementi essenziali 10

del formalismo che ci saranno utili nel seguito. In questo libro faremo un uso quanto più possibile parco della notazione formale, che verrà adoperata solo nei casi in cui consente di evitare oscurità e ambiguità. Chiameremo semplici quelle proposizioni che non possono essere ulteriormente scomposte in altre proposizioni. Esempi di proposizioni semplici dell’italiano sono Giorgio corre, Roma è la capitale d’Italia, Piove. La logica proposizionale (o logica delle proposizioni, o logica enunciativa) studia le forme di inferenza logica la cui validità non dipende dalla struttura interna delle proposizioni semplici. Per rendere conto della validità delle inferenze proposizionali non occorre scomporre le proposizioni semplici in componenti più elementari. Nel linguaggio della logica proposizionale le proposizioni semplici si rappresentano mediante lettere proposizionali. Useremo come lettere proposizionali le lettere minuscole p, q, r, s. Nelle premesse e nella conclusione delle inferenze (1.1), (1.7) e (1.8) si possono individuare tre proposizioni semplici distinte, che possiamo rappresentare con le lettere proposizionali p, q e r. Ad esempio, in (1.1) avremo: p = Mario è geometra r = Mario è laureato

q = Mario è architetto

A questo punto, possiamo individuare lo schema seguente, che rappresenta la struttura comune di (1.1), (1.7) e (1.8): (1.9) p oppure q se q allora r non r QUINDI: p

In (1.9) le proposizioni che svolgono il ruolo di premesse sono ottenute dalla combinazione delle proposizio11

ni semplici indicate con p, q e r. Tali premesse sono pertanto esempi di proposizioni composte. In altri termini, le proposizioni composte contengono come loro parti proprie espressioni che sono a loro volta proposizioni. Altri esempi di proposizioni composte dell’italiano sono Se la temperatura sale, il ghiaccio si scioglie; Giorgio corre e Marco cammina; Piove oppure fa freddo. Parole come oppure, non, e, se... allora..., che consentono di combinare tra loro le proposizioni in modo da formare proposizioni composte, sono dette in logica connettivi proposizionali. Stabiliamo di chiamare formule tutte le espressioni simboliche che corrispondono a proposizioni, siano esse semplici o composte. Per indicare formule generiche useremo lettere maiuscole: A, B, C, ecc. Nel linguaggio della logica proposizionale anche i connettivi vengono rappresentati per mezzo di simboli. Useremo il simbolo  per rappresentare la negazione, ossia il connettivo il cui significato è riconducibile a quello della parola non dell’italiano. Data una formula A, la sua negazione si esprime con la formula  A. Il significato della negazione è il seguente: se A è vera, allora  A è falsa; se A è falsa, allora  A è vera. Poiché la negazione si applica a una sola formula alla volta, si dice che  è un connettivo a un argomento (i connettivi a un argomento vengono detti anche operatori). La congiunzione si indica con il simbolo . Si tratta di un connettivo a due argomenti, che serve cioè a collegare tra loro due formule: date le formule A e B, la loro congiunzione si esprime con la formula A  B. Il significato della congiunzione corrisponde con buona approssimazione a quello della parola e dell’italiano: A  B è vera se A e B sono entrambe vere, ed è falsa in tutti gli altri casi. La disgiunzione (che corrisponde alla parola oppure dell’italiano) si indica con il simbolo . Anche la disgiunzione è un connettivo a due argomenti. Per la precisione, con  indichiamo la cosiddetta disgiunzione inclusiva, che ha il significato del vel latino: A  B è vera se e soltanto se 12

è vera almeno una delle due formule A e B; è quindi falsa solo nel caso che A e B siano entrambe false. Ricapitolando, il significato di negazione, congiunzione e disgiunzione può essere caratterizzato mediante le seguenti tabelle, dette tavole di verità, dove A e B sono formule, mentre V e F rappresentano rispettivamente i valori di verità vero e falso. Le tavole specificano come, al variare del valore di verità di A e di B (o, nel caso della negazione, soltanto di A), varia il valore di verità delle formule ottenute per mezzo dei diversi connettivi: A

A

B

AB

AB

V

F

V

V

V

V

F

V

V

F

F

V

F

V

F

V

F

F

F

F

A

Veniamo ora al connettivo se... allora... In logica, un enunciato del tipo se A allora B è chiamato condizionale, e A e B sono detti rispettivamente il suo antecedente e il suo conseguente. Il caso del connettivo se... allora... è più complesso di quello dei connettivi visti in precedenza. Innanzi tutto, nel paragrafo precedente abbiamo accennato al fatto che non si devono confondere tra loro inferenze e condizionali. Vediamo meglio perché. Si considerino questi due esempi: (1.10) Kurt è di Berlino. QUINDI: Kurt è tedesco. (1.11) Se Kurt è di Berlino, allora Kurt è tedesco.

L’esempio (1.10) è un’inferenza con una sola premessa, mentre (1.11) è un enunciato condizionale. Essi, dal punto di vista logico, funzionano in modo diverso. Se io proferisco sinceramente (1.10), affermo che Kurt è di Ber13

lino, e ne traggo la conclusione che è tedesco. Per cui, ad esempio, se Kurt fosse di Innsbruck affermerei il falso, e ne trarrei una conclusione falsa (mentre se Kurt fosse di Lubecca affermerei il falso, e ne trarrei accidentalmente una conclusione vera). Se invece affermo sinceramente (1.11), non mi impegno sul fatto che Kurt sia di Berlino. Mi limito ad asserire che, nel caso egli sia di Berlino, allora sarebbe tedesco (per cui direi il vero anche se Kurt fosse di Innsbruck o di Lubecca). Dato un connettivo proposizionale qualunque (indichiamolo, ad esempio, con il simbolo 䊊), si dice che esso è verofunzionale se e solo se il valore di verità di un enunciato composto A 䊊 B dipende esclusivamente dal valore di verità di A e di B. In altri termini: se 䊊 è verofunzionale, allora, dati i valori di verità di A e di B, si può sempre determinare in modo univoco il valore di verità di A 䊊 B. I connettivi ,  e  sono verofunzionali. Non tutti i connettivi sono verofunzionali. Un esempio di connettivo proposizionale non verofunzionale dell’italiano è dopo che. Affinché un enunciato del tipo A dopo che B sia vero, A e B devono essere entrambi veri, ma ciò non basta: A deve anche essersi verificato in un momento successivo rispetto a B. Ad esempio, I francesi furono sconfitti a Waterloo dopo che Napoleone fuggì dall’Elba è vero, ma I francesi furono sconfitti a Waterloo dopo che Proust scrisse la Recherche è falso. Il significato di un connettivo può essere caratterizzato per mezzo di una tavola di verità (come abbiamo visto nel caso di congiunzione, disgiunzione e negazione) se e soltanto se si tratta di un connettivo verofunzionale. Non sarebbe ad esempio possibile dare una tavola di verità di dopo che. Nel linguaggio ordinario, le espressioni del tipo se... allora... in molti casi non sono verofunzionali: il valore di verità di un enunciato se A allora B non dipende esclusivamente dai valori di verità di A e di B. Un esempio sono i cosiddetti condizionali controfattuali, ossia quegli enunciati 14

con cui si ipotizza cosa sarebbe successo se si fosse verificato un evento che nella realtà non si è verificato. Esempi di controfattuali sono: Se i dinosauri non si fossero estinti, allora l’uomo non sarebbe mai apparso sulla Terra, oppure Se la sveglia avesse suonato, allora non avrei perso il treno. Per verificare che il se... allora... controfattuale non è verofunzionale si considerino, ad esempio, i seguenti condizionali controfattuali: (1.12) Se Dante fosse morto a cinque anni, allora non avrebbe scritto la Divina Commedia. (1.13) Se Dante fosse morto a cinque anni, allora la Luna sarebbe fatta di formaggio.

In entrambi i casi l’antecedente è falso, perché Dante non è morto a cinque anni. Analogamente, in entrambi i casi è falso il conseguente: non è vero che Dante non ha scritto la Divina Commedia, così come non è vero che la Luna è fatta di formaggio. Ma tutti diremmo che (1.12) è vero, mentre (1.13) è falso. Quindi, abbiamo due enunciati, (1.12) e (1.13), del tipo se A allora B, in entrambi i quali sia A che B sono falsi. Ma (1.12) e (1.13) hanno un valore di verità diverso. Di conseguenza, questo uso del se... allora... non è verofunzionale: non basta sapere i valori di verità di A e di B per sapere il valore di verità di se A allora B. In logica proposizionale si studiano soltanto connettivi verofunzionali4. Pertanto, non è possibile catturare nella sua generalità il significato di tutti gli enunciati del tipo se... allora... Possiamo definire tuttavia un tipo di condizionale verofunzionale, che può quindi essere trattato con gli strumenti della logica proposizionale. Si tratta di quel4 Questo non significa che la logica, in generale, possa studiare solo connettivi verofunzionali. Le cosiddette logiche intensionali estendono la logica quale viene presentata in questo capitolo, e sono state sviluppate proprio per analizzare aspetti non verofunzionali del linguaggio. Per questo tema si rimanda alla sezione Cos’altro leggere.

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lo che in logica viene chiamato condizionale materiale, e che indicheremo con il simbolo  (una formula A  B si legge se A allora B). Tutti i condizionali sono accomunati dal fatto di essere falsi qualora l’antecedente sia vero e allo stesso tempo il conseguente sia falso. Nel caso del condizionale materiale si assume che A  B è falso solo in questo caso, e vero in tutti gli altri. Vale a dire, si assume che la tavola di verità di  sia la seguente: A

AB

B

V V

V

V

F

F

F

V

V

F

F

V

Quindi, il significato di A  B può essere parafrasato come Non si dà il caso che A sia vera e B sia falsa. Questa definizione ha conseguenze poco intuitive dal punto di vista dell’uso ordinario di se... allora... In primo luogo, A  B è vero nel caso in cui A e B siano entrambi veri. Ad esempio, in base alla tavola di verità di , è vero l’enunciato Se 2 + 2 = 4, allora la Francia è una repubblica. Inoltre, A  B è vero tutte le volte che A è falso. Così, secondo la definizione di , sarebbero veri gli enunciati Se 2 + 2 = 5, allora la Francia è una repubblica e Se 2 + 2 = 5, allora gli Stati Uniti sono una monarchia. Ciò che rende intuitivamente sconcertante considerare veri enunciati come questi è il fatto che l’antecedente non ha nulla a che fare con il conseguente. Nell’uso ordinario, la verità di un enunciato se A allora B comporta che il contenuto di A sia in qualche modo rilevante rispetto al contenuto di B. Ma questo nesso di rilevanza non può essere catturato in un contesto esclusivamente verofunzionale, per cui inevitabilmente sfugge alla definizione del condizionale materiale, che, come abbiamo detto, è puramente verofunzionale. 16

Talvolta la tavola di verità del condizionale materiale viene giustificata in base al fatto che essa corrisponde all’uso del se... allora... nell’ambito del ragionamento matematico. Quando per esempio in matematica si dimostra per assurdo un enunciato del tipo se A allora B si procede nel modo seguente. Si assume che A sia vera e che al contempo B sia falsa (ipotesi d’assurdo). Se, a partire da queste assunzioni, si riesce a dimostrare una contraddizione, se ne conclude che non è possibile che A sia vera e che al contempo B sia falsa, e da ciò si inferisce la verità di se A allora B. Questo ragionamento è lecito solo a patto di assumere che se A allora B sia falsa esclusivamente nel caso in cui A è vera e B è falsa, e vera in tutti gli altri casi. Ma questo equivale ad assumere che il se... allora... abbia appunto la tavola di verità del condizionale materiale. Si potrebbe obiettare che tutto ciò non è particolarmente rilevante per chi non sia interessato in modo specifico al ragionamento matematico. Se, e in che misura, il condizionale materiale sia adeguato per formalizzare gli enunciati di tipo se... allora... del discorso ordinario è un tema complesso e controverso che non è il caso di approfondire qui. Senza entrare nei dettagli, alla fine del paragrafo cercherò di mostrare come il condizionale materiale svolga comunque un ruolo essenziale nella formalizzazione di molti enunciati del discorso ordinario. Nelle formule in cui compaiono più connettivi impiegheremo delle parentesi qualora non sia chiaro l’ordine con cui i connettivi devono essere applicati. A questo punto, possiamo tornare all’inferenza (1.1), completandone la formalizzazione nel linguaggio della logica proposizionale: (1.14) p  q qr r QUINDI:

p

17

Abbiamo constatato intuitivamente che (1.14) rappresenta un’inferenza corretta a prescindere dal contenuto specifico di p, q e r. Possiamo quindi «estrarre» da (1.14) una sorta di schema, di modello generale a partire dal quale si possono generare infinite inferenze corrette. Ad esempio, (1.1), (1.7) e (1.8) si possono ottenere tutte a partire da (1.14). Uno schema del genere viene detto regola di inferenza. Quelli che seguono sono alcuni esempi di regole di inferenza della logica proposizionale. AB

AB

AB

A

B

A

QUINDI:

(modus ponens)

B

QUINDI:

(modus tollens)

A

QUINDI:

AB

AB BC

B

(sillogismo disgiuntivo)

QUINDI:

BA

(regola di contrapposizione)

QUINDI:

AC

(regola di concatenazione o sillogismo ipotetico)

Si tratta di regole corrette: ciascuna inferenza ottenuta a partire da esse è tale per cui la conclusione è conseguenza logica delle premesse. Nel formulare le regole abbiamo usato lettere maiuscole per sottolineare che al loro posto si possono sostituire formule qualunque, semplici o composte. 1.2.2 La logica dei predicati Non tutte le inferenze logicamente corrette possono essere formalizzate con gli strumenti della logica proposizionale. Si consideri l’inferenza (1.2). Abbiamo visto che, intuitivamente, essa è logicamente corretta. Inoltre la sua correttezza non dipende dal contenuto specifico di premesse e conclusioni, ma dalla loro struttura formale. Analogamente agli esempi (1.1), (1.7) e (1.8), il fatto che anche (1.15) sia logicamente corretta dipende dal fatto che ha la stessa struttura di (1.2): (1.15) Shanghai è una grande città. Tutte le grandi città sono caotiche. QUINDI: Shanghai è caotica.

18

Tuttavia se proviamo ad analizzare (1.2) e (1.15) con gli strumenti della logica proposizionale, non riusciamo a spiegare che cosa abbiano in comune (qui infatti premesse e conclusioni sono tutte proposizioni semplici). A tal fine è necessario «smontare» le proposizioni semplici per analizzare la loro struttura interna. Ciò è possibile utilizzando gli strumenti della logica dei predicati del primo ordine. Si tratta di un’estensione della logica proposizionale: tutto quanto è stato detto nel paragrafo precedente continua a valere anche per la logica dei predicati. La differenza consiste nel fatto che il linguaggio è più ricco e consente di rappresentare la struttura interna delle proposizioni semplici. La struttura delle proposizioni semplici viene analizzata in termini di predicati e dei loro argomenti, ossia gli oggetti, o individui, cui i predicati si applicano. I predicati a un argomento sono detti anche proprietà, e si applicano a singoli oggetti. Sono esempi di proprietà essere rosso, essere geometra, essere un cane, correre, dormire, essere più alto di Giorgio. I predicati a più argomenti sono detti anche relazioni, e mettono in relazione reciproca due o più oggetti. Sono relazioni a due argomenti essere la capitale di..., essere più alto di..., essere cugino di..., mentre essere compreso tra... e..., essere la somma di... e di... sono relazioni a tre argomenti. In linea di principio, vi possono essere relazioni con un numero di argomenti qualsiasi. Un enunciato come Giorgio corre può essere analizzato nei termini di proprietà e di individui: esso asserisce che la proprietà correre si predica dell’individuo Giorgio. L’enunciato Roma è a nord di Napoli asserisce invece che l’individuo Roma sta nella relazione (a due argomenti) essere a nord di... con l’individuo Napoli. Nel linguaggio della logica dei predicati proprietà e relazioni sono rappresentate mediante lettere predicative. Come lettere predicative utilizzeremo lettere maiuscole: P, Q, R, S, ... Gli individui, invece, sono rappresentati mediante costanti individuali. Come costanti individuali im19

piegheremo le prime lettere minuscole dell’alfabeto: a, b, c, d, ... Se P è una lettera predicativa a n argomenti, e c1, ..., cn sono costanti individuali, allora P(c1, ..., cn) è una formula della logica dei predicati che afferma che gli oggetti c1, ..., cn stanno tra loro nella relazione P. Ad esempio, se Q rappresenta la proprietà correre e la costante individuale a rappresenta Giorgio, Q(a) formalizza l’enunciato Giorgio corre; se R rappresenta la relazione essere a nord di..., b rappresenta Roma e c Napoli, R(b, c) formalizza Roma è a nord di Napoli. Le formule predicative possono essere combinate tra loro usando i connettivi proposizionali che abbiamo visto in precedenza. Vediamo ad esempio come potrebbe essere formulata l’inferenza (1.1) con il linguaggio della logica dei predicati. Supponiamo di scegliere la costante individuale m per rappresentare Mario, e le lettere predicative A, G e L per rappresentare rispettivamente le proprietà essere un architetto, essere un geometra ed essere laureato. Si avrà: (1.16) G(m)  A(m) A(m)  L(m)  L(m) QUINDI: G(m)

Con gli strumenti linguistici visti sino ad ora non è ancora possibile rappresentare tutti gli enunciati che ci interessano. Per il momento possiamo parlare di individui specifici, e asserire che essi soddisfano certe proprietà, o che stanno tra loro in determinate relazioni. Ma si consideri ad esempio la seconda premessa dell’inferenza (1.2), ossia Tutti i giardinieri sono siciliani. Qui non si parla di qualche individuo in particolare. Piuttosto, si esprime una generalizzazione che vale per qualsiasi oggetto. Essa può essere parafrasata come segue: Dato un qualsiasi individuo, se esso soddisfa la proprietà essere un giardiniere, allora esso soddisfa la proprietà essere un siciliano. 20

Enunciati come questi si possono formalizzare mediante l’uso combinato di due elementi ulteriori del linguaggio della logica dei predicati, le variabili individuali e i quantificatori. Le variabili individuali sono simboli che consentono di rappresentare individui generici. Come variabili useremo le ultime lettere minuscole dell’alfabeto: v, w, x, y, z. I quantificatori vengono adoperati in combinazione con le variabili. Il quantificatore universale, che si esprime col simbolo , si legge per ogni. Ad esempio, la formula x (C(x)  M(x)) si legge Per ogni x, se x ha la proprietà C, allora x ha la proprietà M. Se interpretassimo C sulla proprietà essere un cane e M sulla proprietà essere un mammifero, la formula si leggerebbe Per ogni x, se x è un cane, allora x è un mammifero, ossia Tutti i cani sono mammiferi. Costanti individuali e variabili quantificate possono essere usate assieme nella stessa formula. Ad esempio, supponiamo di voler esprimere l’enunciato Se Paolo è buono, allora tutti lo amano. Lo possiamo formalizzare con la formula B(p)  x A(x, p), dove la costante individuale p rappresenta Paolo, la lettera predicativa a un argomento B sta per la proprietà essere buono, e con la lettera predicativa a due argomenti A(x, y) indichiamo che x ama y5. Il quantificatore esistenziale si esprime con il simbolo . Un’espressione del tipo x... si legge esiste almeno un x tale che... Ad esempio, la formula x (C(x)  N(x)) si legge Esiste almeno un individuo x, tale che x ha la proprietà C e allo stesso tempo ha anche la proprietà N. Se interpretassimo C sulla proprietà essere un cane e N sulla proprietà es5 Si noti che con questo tipo di linguaggio è possibile quantificare soltanto su individui (sono presenti infatti solo variabili individuali). Questa è la ragione per cui si parla di logica dei predicati del primo ordine. Vi sono logiche di ordine superiore, che non hanno questa limitazione. Ad esempio, nella logica dei predicati del secondo ordine è possibile quantificare anche su predicati (il linguaggio comprende infatti anche variabili per proprietà e relazioni).

21

sere nero, la formula si leggerebbe C’è almeno un cane nero (oppure, in maniera equivalente, Qualche cane è nero). In una stessa formula si possono usare più quantificatori. Ad esempio, l’enunciato Coloro che sono buoni sono amati da tutti si può rappresentare con la formula x (B(x)  y A(y, x)) (ossia: per ogni x, se x è buono, allora, per ogni y, y ama x). Analogamente, Coloro che sono buoni sono amati da qualcuno si può rappresentare con x (B(x)  y A(y, x)). Ora possiamo formalizzare l’inferenza (1.2). Se usiamo la costante b per rappresentare Benedetto XVI, e i simboli predicativi S e G per rappresentare rispettivamente le proprietà essere siciliano e essere giardiniere, si avrà: (1.17) G(b) x (G(x)  S(x)) QUINDI: S(b)

Cambiando l’interpretazione dei simboli predicativi e della costante individuale, (1.17) vale anche come formalizzazione di (1.15). Con gli strumenti di cui ora disponiamo possiamo constatare che l’implicazione materiale trova impiego nella formalizzazione di molti tipi di enunciati. Abbiamo visto che gli enunciati del tipo Tutti i P sono Q (dove P e Q sono due proprietà) si possono formalizzare come x (P(x)  Q(x)). Consideriamo un semplice «universo» formato dagli oggetti della Fig. 1.1. In questo universo è vero l’enunciato Tutti i triangoli sono neri. Perciò, se rappresentiamo le proprietà triangolo e nero rispettivamente con le lettere proposizionali T e N, risulterà vera la formula x (T(x)  N(x)). Ora, intuitivamente, se in un certo universo di oggetti è vero l’enunciato Per ogni x, x è così e così, allora saranno veri anche tutti gli enunciati k è così e così, dove k è il nome di un individuo qualsiasi di quell’universo. Dunque, poiché 22



b



d

f

c e a

Fig. 1.1

nell’universo della Fig. 1.1 è vero che x (T(x)  N(x)), dovranno essere veri tutti gli enunciati seguenti: i. T(a)  N(a) ii. T(b)  N(b) iii. T(c)  N(c)

iv. T(d)  N(d) v. T(e)  N(e) vi. T(f)  N(f)

ossia, tutti gli enunciati del tipo: se k è un triangolo, allora k è nero, dove k è un oggetto qualunque dell’universo in questione. Bene, è facile constatare che gli enunciati i.-vi. comprendono tutti i casi che rendono vera la tavola di verità del condizionale materiale: quando è vero l’antecedente, allora è vero anche il conseguente (come in i. e iv.); in alcuni casi sia antecedente che conseguente sono falsi (iii. e vi.); in altri casi si ha l’antecedente falso e il conseguente vero (ii. e v.). L’unico caso che non è presente è appunto quello in cui l’antecedente è vero e il conseguente falso (altrimenti ci sarebbe un triangolo che non è nero, e sarebbe quindi falso che Tutti i triangoli sono neri). In altri termini, il condizionale materiale è il connettivo ade23

guato per formalizzare, ad esempio, tutti gli innumerevoli enunciati del tipo Tutti i P sono Q. Come nel caso della logica proposizionale, anche in logica dei predicati si possono individuare regole di inferenza, che costituiscono schemi che consentono di ottenere infinite inferenze logicamente corrette. Vediamo alcuni semplicissimi esempi di tali regole: x P(x) QUINDI: P(a)

P(a) QUINDI:

x P(x)

In base alla prima regola, se so che tutti soddisfano la proprietà P, posso concludere che a soddisfa la proprietà P (dove a è il nome di un individuo particolare). In base alla seconda regola, se so che a soddisfa la proprietà P, posso concludere che qualcuno soddisfa la proprietà P (ossia, che esiste almeno un x, tale che x soddisfa P).

2.

Ragionamento formalizzato e ragionamento ordinario

2.1 Errori e fallacie 2.1.1 Errori e psicologia del ragionamento Il cosiddetto esperimento delle quattro carte fu proposto originariamente dallo psicologo Peter C. Wason (1966). Tecnicamente esso è noto anche come compito di selezione (selection task). Si consideri un mazzo di carte francesi da scala quaranta, in cui ogni carta sul davanti ha un valore numerico, e ha il dorso rosso oppure blu. Ai soggetti viene presentato un enunciato come il seguente: (2.1) Se il dorso è rosso, allora il valore è pari.

e quattro carte come quelle della Fig. 2.1 (cioè, due coperte, una con il dorso rosso e l’altra con il dorso blu, e le altre due scoperte, una con valore pari e l’altra con valore dispari). (a)

(b)

ROSSO

BLU

(c)

(d)

⽦⽦

⽦⽦ ⽦ ⽦⽦

⽦⽦ Fig. 2.1

25

Dopo di che, si chiede ai soggetti quali di queste quattro carte è rilevante voltare per stabilire se (2.1) è vera o falsa. Quasi tutti rispondono (correttamente) che è rilevante voltare (a): se infatti (a) avesse un valore dispari, allora (2.1) risulterebbe falsa. Molti soggetti rispondono anche che bisognerebbe voltare (c). Ma questo è un errore: qualunque fosse il colore del dorso di (c) sarebbe compatibile con quanto affermato in (2.1), per cui voltando (c) non otteniamo nessuna informazione sulla verità o meno di (2.1). Pochissimi soggetti, infine, rispondono che si dovrebbe voltare (d). Ma (d) andrebbe voltata: se infatti avesse il dorso rosso, ciò sarebbe sufficiente per rendere falsa (2.1). Ricapitolando: la risposta giusta è che si devono voltare (a) e (d), e nient’altro. Quasi tutti i soggetti rispondono che è rilevante voltare (a), e pochi che si dovrebbe voltare anche (d). Molti rispondono invece che si dovrebbe voltare (c), anche se (c) è del tutto irrilevante. Questo schema di risposte è ricorrente: la maggioranza dei soggetti risponde in modo analogo, a prescindere da formazione culturale, titolo di studio, fattori sociali, provenienza geografica, e così via. Nel par. 1.1 abbiamo visto che varie forme di ragionamento (quali induzione, abduzione o ragionamento per default) non sono logicamente corrette senza per questo essere «sbagliate». Semplicemente, non si tratta di ragionamenti di tipo deduttivo, la cui conclusione è conseguenza logica delle premesse. Tuttavia, anche quando si tratterebbe di ragionare deduttivamente, spesso gli esseri umani non si comportano come la logica vorrebbe. Sono noti numerosi esempi di errori ricorrenti nel ragionamento deduttivo. Gli psicologi del ragionamento assumono nei confronti del loro oggetto di studio un atteggiamento descrittivo piuttosto che normativo; sono interessati cioè non a stabilire come le persone dovrebbero ragionare, ma a capire come ragionano davvero e a comprendere, quindi, anche gli errori che commettono. Vari esperimenti so26

no stati ideati a questo scopo, e il compito di selezione è uno di questi. Consideriamo ora una variante dell’esperimento. Vari anni fa in Italia per l’affrancatura della posta valeva la seguente regola: se una busta veniva spedita aperta, bastava un francobollo da 40 lire; altrimenti, cioè se la busta era sigillata, era richiesto un francobollo da 50 lire. In questo caso, ai soggetti dell’esperimento veniva chiesto di immedesimarsi in un postino addetto a controllare che le tariffe fossero rispettate. Data la regola: (2.2) Se c’è un francobollo da 40 lire, allora la busta non deve essere sigillata.

veniva chiesto loro quali delle quattro buste della Fig. 2.2 voltare per controllare se la regola era stata rispettata o meno. (a)

(b) L.

Sig. Tizio Caio Via ........

40

(c) L.

mittente: Sempronio ........

50

(d) mittente: Sempronio .......

Sig. Tizio Caio Via ........

Fig. 2.2

La maggior parte dei soggetti rispondeva correttamente che devono essere voltate la busta (a) (se infatti fosse sigillata la norma sarebbe stata violata) e la busta (d) (anche in questo caso, se ci fosse un francobollo da 40 lire la regola sarebbe stata violata). Per quanto riguarda le buste (b) e (c), i soggetti per lo più ritenevano correttamente che fossero irrilevanti. Un’ulteriore variante è la seguente. Ai soggetti viene chiesto di immaginare di essere chiamati a far rispettare la norma seguente: 27

(2.3) I minorenni non possono comprare tabacco (ossia: se una persona è minorenne, allora non può comprare tabacco).

Dati i quattro casi seguenti: (a) Pietro ha 15 anni. (c) Giorgio compra liquirizia.

(b) Carla ha 36 anni. (d) Anna compra sigari.

quali persone devono essere controllate? Anche in questo caso la risposta corretta è intuitiva, e la maggior parte dei soggetti la fornisce senza esitazioni: i casi pertinenti sono (a) e (d), mentre (b) e (c) non sono di alcuna rilevanza. Dal punto di vista logico, tutti questi esperimenti hanno esattamente la stessa struttura. Viene dato un enunciato condizionale della forma: se A allora B

e quattro casi del tipo: A

non A

B

non B

Eppure la percentuale delle risposte corrette varia moltissimo: nelle ultime due versioni dell’esperimento esse sono molto più numerose che nella prima. Questi risultati ci suggeriscono alcune considerazioni di carattere generale sulle differenze che sussistono tra le inferenze corrette studiate dai logici e le inferenze che vengono praticate nel ragionamento quotidiano. In primo luogo, come abbiamo visto, le inferenze studiate dai logici sono inferenze di tipo formale, che prescindono cioè completamente dal contenuto delle espressioni non logiche che vi compaiono. Consideriamo queste due regole logicamente corrette, la prima di tipo proposizionale (si tratta della regola detta sillogismo disgiuntivo), la seconda di tipo predicativo. 28

A oppure B Non A QUINDI: B

Tutti i P sono Q Tutti i Q sono R QUINDI: Tutti i P sono R

La loro correttezza prescinde completamente dal significato specifico degli enunciati A e B o dei predicati P, Q e R. Qualunque enunciato io sostituisca al posto di A e B, e qualunque predicato sostituisca a P, Q e R, la conclusione resta conseguenza logica delle premesse: se sono vere le premesse è vera anche la conclusione. I risultati degli esperimenti descritti in questo paragrafo mostrano che il ragionamento ordinario non funziona in questo modo: esso cioè non è del tutto indifferente al contenuto. Se gli esseri umani procedessero in modo completamente formale, le risposte dovrebbero essere uguali in tutti e tre i compiti sopra descritti. I risultati mostrano invece che il ragionamento ordinario è sensibile al contenuto. Nel primo esperimento, in cui i soggetti sono posti di fronte a un problema astratto, la percentuale di errori è molto alta. Tale percentuale decresce negli altri due casi, in cui si ha a che fare con situazioni più plausibili. Ne segue che, quando ragioniamo, usiamo, per così dire, il contenuto per aiutarci. L’altro insegnamento che si può trarre da questi esperimenti è che quando ragionano gli esseri umani non solo talvolta sbagliano (vale a dire, lasciati a noi stessi, siamo dei ragionatori tutt’altro che perfetti), ma gli errori che compiono spesso non sono casuali. Essi presentano precise regolarità: in situazioni come quelle dell’esperimento delle quattro carte, tutti tendono a sbagliare più o meno nello stesso modo. Gli psicologi hanno individuato numerosi esempi di questi errori sistematici di ragionamento. Ne incontreremo altri nel seguito. 2.1.2 Le fallacie Già molto tempo prima che la psicologia si affermasse come scienza, e che gli psicologi iniziassero a ideare esperi29

menti sul ragionamento, ci si era resi conto che gli esseri umani tendono ad essere tratti in inganno da certi tipi di ragionamento errato. Abbiamo visto che, nell’esperimento delle quattro carte, molti soggetti ritengono rilevante voltare la carta (c). In sostanza, data la regola (2.1), e data una carta pari, giungono alla conclusione che il dorso dovrebbe essere rosso. Essi ragionano cioè in questo modo: Se il dorso è rosso, allora il valore è pari. Il valore è pari. QUINDI: *Il dorso è rosso.

Si tratta di un’inferenza palesemente sbagliata1. Tale errore tuttavia è talmente comune che, nella storia della logica, è stato identificato con un nome particolare. Si tratta della cosiddetta fallacia dell’affermazione del conseguente. Viene chiamata in questo modo perché la seconda premessa consiste nell’asserire il conseguente della prima. In generale, la fallacia dell’affermazione del conseguente ha la seguente struttura: Se A allora B B QUINDI: *A

Ovviamente, non si tratta di una regola logicamente corretta (ossia, la conclusione non è conseguenza logica delle premesse). Si consideri l’esempio seguente: Se Dario è genovese, allora è ligure. Dario è ligure. QUINDI: *Dario è genovese.

1 Nel seguito useremo un asterisco (*) per indicare che, in un ragionamento, la conclusione non può essere legittimamente ottenuta dalle premesse.

30

È evidente che le premesse potrebbero essere vere, ma la conclusione falsa (Dario potrebbe essere, ad esempio, di Savona). In generale, con il termine fallacia si intende un’argomentazione errata che tuttavia, a un primo esame, può apparire convincente. Essa quindi può trarre in inganno chi la compie, oppure può essere usata deliberatamente per tentare di trarre in inganno altri. Le fallacie sono dette talvolta non sequitur, in quanto la conclusione, nonostante le apparenze, non segue dalle premesse. Le fallacie costituiscono un tema tradizionale nello studio della logica: una classificazione delle fallacie si trova già negli Elenchi sofistici di Aristotele, e si sono occupati dell’argomento numerosi logici di epoca antica e medievale (questo fa sì che per molte fallacie si usino ancora oggi i nomi latini della tradizione scolastica). Nel complesso, le fallacie costituiscono un insieme abbastanza eterogeneo di fenomeni. Alcune sono dei veri e propri errori sistematici, che oggi considereremmo oggetto di studio della psicologia del ragionamento. Altre costituiscono pseudo-argomenti impiegati per convincere qualcuno della bontà o meno di certe tesi, che quindi dovrebbero essere esaminati piuttosto nel contesto della retorica. Inoltre, non sempre è facile tracciare un confine netto tra fallacie e ragionamenti legittimi (vedremo alcuni esempi del genere in seguito). Nei manuali si possono incontrare diverse classificazioni delle fallacie, tutte variamente imparentate tra loro, e tutte in qualche modo debitrici della classificazione aristotelica. Qui non intendo proporre alcuna classificazione (trattandosi, come dicevo, di un fenomeno eterogeneo, non credo che una classificazione sistematica e soddisfacente sia possibile). In questo paragrafo mi limiterò, invece, a presentare alcuni esempi (senza, ovviamente, alcuna pretesa di completezza). Altri esempi verranno via via discussi nei capitoli successivi, in relazione a vari temi specifici2. 2

Le altre fallacie che verranno discusse nel prosieguo del libro so-

31

Collegata all’affermazione del conseguente è la fallacia detta della negazione dell’antecedente, che ha questa struttura: Se A allora B non A QUINDI: *Non B

Il nome deriva dal fatto che la seconda premessa corrisponde alla negazione dell’antecedente della prima. Anche in questo caso, è ovvio che non abbiamo a che fare con una regola logicamente corretta. Un esempio è il seguente: Se Anna studia, supererà l’esame. Anna non studia. QUINDI: *Anna non supererà l’esame.

La verità delle premesse non garantisce affatto la verità della conclusione: Anna potrebbe superare l’esame perché è molto fortunata, o perché è simpatica al professore, o per svariate altre ragioni. O ancora: Se Dario è genovese, allora è ligure. Dario non è genovese. QUINDI: *Dario non è ligure.

Anche in questo caso, Dario potrebbe essere ligure pur non essendo genovese. L’affermazione del conseguente e la negazione dell’antecedente costituiscono dei veri e propri errori di logica. In altri casi l’errore dipende dal fatto di travisare le proprietà logiche di alcuni predicati specifici. Ad esempio, le no l’anfibolia e l’equivocatio (par. 2.2.1), la petitio principii (par. 2.3), la generalizzazione azzardata e la fallacia del giocatore (par. 3.2.3) e l’argumentum ad ignorantiam (par. 4.1.3).

32

fallacie della composizione e della divisione dipendono da un travisamento della relazione parte/tutto. La fallacia della composizione (compositio) consiste nell’attribuire a una certa entità nel suo complesso una proprietà che vale per ciascuna delle sue parti. Ecco due esempi: Ogni componente di questo congegno è robusta. QUINDI: *Questo congegno è robusto.

Tutti gli ingredienti di questo piatto sono buoni. QUINDI: *Questo piatto è buono.

(Una variante del secondo esempio potrebbe essere: Questo piatto non può non piacerti: gli ingredienti che ho usato ti piacciono tutti.) Un altro esempio di compositio è il seguente: Questo prodotto può essere acquistato pagando comode rate di importo modico. QUINDI: *Conviene comprare questo prodotto (ossia: il suo prezzo è modico).

Qui una proprietà delle singole rate (l’importo modico) viene abusivamente trasferita al prezzo nel suo complesso (inferenze del genere vengono usate, in forma più o meno occulta, da molti imbonitori). La fallacia della divisione (divisio) è in un certo senso duale rispetto alla composizione: qui viene attribuita alle parti di un’entità una proprietà che vale per l’entità nella sua interezza. Ad esempio: Questo congegno è pesante. QUINDI: *Ogni sua parte è pesante.

In altri casi vengono usate, a sostegno di una tesi, premesse che non sono pertinenti per la conclusione (anche se possono risultare efficaci dal punto di vista retorico o emotivo). In questo caso si parla talvolta di fallacie di rilevanza, in quanto, appunto, si usano premesse che sono ir33

rilevanti ai fini della conclusione. Rientra in questa categoria il cosiddetto argumentum ad hominem, in cui per negare una tesi si scredita chi la propone. Tipicamente, la persona viene attaccata facendo riferimento ad aspetti (quali la moralità, la razza, la religione) che sono indipendenti rispetto alla tesi in questione. Ad esempio: Giorgio dice che bisogna usare le cinture di sicurezza. Ma Giorgio è notoriamente un ladro e un corrotto. QUINDI: *Non bisogna usare le cinture di sicurezza.

A seconda dei gusti e dei casi, al posto di un ladro e un corrotto avremmo potuto avere: un comunista, un fascista, un ebreo, un prete, un negro, un meridionale, un settentrionale, un omosessuale, un terrorista, uno sporco capitalista, un filosofo, uno psicologo, ecc. È evidente che gli argomenti di Giorgio a favore delle cinture di sicurezza possono essere solidissimi anche se lui è un cattivo soggetto, e vanno valutati indipendentemente dall’opinione che abbiamo di lui. Rientrano tra gli argomenti ad hominem i cosiddetti argomenti tu quoque, in cui si scredita il sostenitore di una tesi sostenendo che, per così dire, predica bene e razzola male, ossia che non mette in pratica le conseguenze di ciò che sostiene. Ad esempio: Il dottor Toscano dice che fumare fa male. Il dottor Toscano però fuma come un turco. QUINDI: *Non è vero che fumare fa male.

È chiaro che l’argomento è fallace: il fatto che Toscano fumi o meno non è rilevante circa la bontà della sua tesi (forse continua a fumare perché è troppo debole di carattere per smettere, oppure perché ha deciso che non gli importa di ammalarsi, oppure sa che è già condannato da una terribile malattia e smettere di fumare non gli gioverebbe). 34

Quella degli interessi in gioco è un’ulteriore variante degli argomenti ad hominem: si scredita una tesi affermando che chi la sostiene è spinto da interessi personali. Ad esempio: Giorgio dice che l’uso del casco può salvarci la vita. Giorgio produce caschi. QUINDI: *Non è vero che l’uso del casco può salvarci la vita.

Anche in questo caso per negare una tesi non basta dire che chi la sostiene trarrebbe vantaggio dalla sua accettazione; la bontà della tesi va valutata indipendentemente da questo (il fatto che Giorgio se ne avvantaggerebbe può costituire al più un motivo di sospetto, ma non una buona ragione per sostenere il contrario). Vi sono ragionamenti che somigliano ad argomenti ad hominem ma che sono sostanzialmente legittimi. Si consideri ad esempio: Giorgio testimonia di aver assistito al delitto, e dice che il colpevole è Marco. Ma al momento del delitto Giorgio era ubriaco fradicio. QUINDI: La testimonianza di Giorgio è priva di valore.

È chiaro che se Giorgio era ubriaco la sua testimonianza può non essere attendibile. Non sempre è facile distinguere tra argomenti ad hominem fallaci e ragionamenti legittimi. Esistono cioè dei «casi dubbi». Si consideri questo esempio: Giorgio testimonia di aver assistito al delitto, e dice che il colpevole è Marco. Ma Giorgio è un ubriacone. QUINDI: [?] La testimonianza di Giorgio è priva di valore.

Qui non è facile dire se si esprime un pregiudizio ingiustificato nei confronti di Giorgio, o se si nutrono dei dubbi legittimi circa la sua affidabilità come testimone. 35

Un tipo di fallacia di segno opposto, in un certo senso complementare, rispetto all’argumentum ad hominem è il cosiddetto argumentum ad verecundiam. Si tratta di una fallacia in cui ci si inchina acriticamente a un’autorità che non è competente in materia. Ad esempio: Il premio Nobel Dario Fo sostiene che la clonazione è sbagliata. QUINDI: *La clonazione è sbagliata.

È chiaro che, non essendo Dario Fo un esperto di genetica o di bioetica, non c’è nessuna ragione per accettare solo su questa base una conclusione del genere (nonostante l’uso dell’attributo Il premio Nobel... contribuisca ad aumentare la sua aura di prestigio). Beninteso, le argomentazioni di Dario Fo contro la clonazione potrebbero essere ottime, ma non basta la sua autorità per accettarle come tali. Esempi di fallacia ad verecundiam sono anche gli argomenti con premesse del tipo «Gli studiosi affermano che...», «Come sostengono i maggiori esperti...» senza che venga specificato chi siano questi esperti, e quali siano i loro titoli. Si basano su un meccanismo simile anche quelle pubblicità in cui personaggi celebri (attori, cantanti, sportivi) ci raccomandano prodotti a proposito dei quali non hanno la minima competenza o autorevolezza. Ovviamente, rifiutare le fallacie ad verecundiam non significa negare che la testimonianza di altri possa costituire una buona ragione per accettare certi enunciati, purché ci si basi su fonti attendibili. In taluni casi l’appello alla testimonianza altrui è inevitabile, come nel caso di conoscenze specialistiche cui non possiamo accedere in prima persona. Per chi non sia un matematico, un’inferenza come la seguente è legittima: I matematici affermano che è stata trovata una dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat. QUINDI: È stata trovata una dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat.

36

Poiché la dimostrazione del teorema è estremamente lunga e complessa, e dato che io, ad esempio, non dispongo delle competenze per comprenderla, la cosa migliore che posso fare è accettare la testimonianza dei matematici, che, presumibilmente, su questo punto costituiscono una fonte attendibile. Ma le verità cui possiamo accedere solo sulla base della testimonianza altrui sono innumerevoli, e non appartengono solo ad ambiti specialistici. Si pensi all’enunciato (vero, per quanto ne posso sapere) Io sono nato il 26 aprile. L’unica fonte di evidenza di cui dispongo per accettarlo è la testimonianza di altri: dei miei genitori, dell’ufficio dell’anagrafe, ecc. Il ruolo della testimonianza nell’acquisizione della conoscenza pone problemi epistemologici che vanno oltre gli scopi di questo lavoro, per i quali si rimanda a quanto citato nella sezione Cos’altro leggere. Simile all’argumentum ad verecundiam è l’argumentum ad populum. In questo caso la fallacia consiste nel sostenere una tesi facendo acriticamente appello ad opinioni condivise, oppure all’opinione della maggioranza. Ad esempio: È noto a chiunque che la scienza non è in grado di spiegare tutto. QUINDI: *La scienza non è in grado di spiegare tutto.

Possono essere ricondotte a questa categoria quelle argomentazioni in cui vengono usate premesse del tipo È ben noto che... o Tutti sanno che... senza che ci si prenda la briga di giustificare in altra maniera ciò che viene assunto. L’argomento dell’uomo di paglia è una fallacia in cui, al fine di screditare una tesi, se ne crea una versione fittizia e caricaturale (l’uomo di paglia, appunto); tale versione viene usata come bersaglio critico per far vedere che ne seguirebbero conseguenze palesemente assurde o inaccettabili. Ad esempio: 37

Secondo le scienze cognitive la mente dell’uomo funzionerebbe come un calcolatore. Ma ciò è assurdo; ad esempio la memoria degli esseri umani non funziona come la memoria dei calcolatori. QUINDI: *Le scienze cognitive hanno torto.

L’argomento è fallace perché nelle scienze cognitive non si sostiene la tesi grottesca e palesemente falsa che la mente dell’uomo funziona come un calcolatore: delle articolate tesi che sono alla base delle scienze cognitive si dà una versione distorta che viene usata come facile bersaglio polemico. 2.1.3 Illusioni cognitive e «bias» In una prospettiva descrittiva, si può constatare che, quando ragionano deduttivamente, gli esseri umani commettono vari tipi di errori rispetto ai canoni della logica3. Ne abbiamo visto un esempio con l’esperimento delle quattro carte. Questi errori sono stati studiati dagli psicologi cognitivi (in particolare nell’ambito della psicologia del ragionamento). Come si è visto nel caso delle quattro carte, molti errori di ragionamento non sono affatto idiosincratici e casuali, ma seguono regolarità precise. In particolare, si è constatato che: 1) in certe situazioni tutti tendiamo a commettere errori simili, a prescindere dalla nostra cultura di appartenenza, dal grado di istruzione e dal livello sociale; 2) in questi casi, anche quando razionalmente ci convinciamo di aver sbagliato, rimane tuttavia una certa tendenza a ricadere nell’errore; come se, in un certo senso, la tendenza a sbagliare fosse più forte di noi, o meglio, più forte delle nostre convinzioni razionali.

3 Come vedremo nel seguito, gli esseri umani commettono errori anche rispetto ad altri canoni di razionalità, come ad esempio i canoni della teoria della probabilità.

38

Queste caratteristiche accomunano gli errori di ragionamento ad altri tipi di «errori» che commettiamo in altri domini cognitivi. Il caso più tipico e più noto è quello delle cosiddette illusioni percettive. Le illusioni percettive sono molte e ben studiate. Riporto qui due casi molto noti. Nella cosiddetta illusione di Ponzo due segmenti orizzontali della stessa lunghezza sono collocati tra due segmenti obliqui che convergono verso l’alto, come nella Fig. 2.3.

Fig. 2.3

L’illusione consiste nel fatto che il segmento orizzontale posto più in alto sembra più lungo (a dispetto del fatto che, come ho detto, i due segmenti orizzontali sono assolutamente uguali).

Fig. 2.4

Un’altra illusione percettiva molto nota è il triangolo di Kanizsa (dal nome di Gaetano Kanizsa, il percettologo triestino che l’ha individuata, e che alle illusioni percettive ha dedicato una parte importante della sua ricerca e due libri molto belli: Kanizsa 1980, 1991). Nella Fig. 2.4 i soggetti dichiarano di percepire un triangolo bianco parzialmente so39

vrapposto a tre cerchi grigi e a un triangolo con i bordi neri. Ma, a ben vedere, il triangolo non c’è. La sua presenza è soltanto suggerita da tre segni neri a V e da tre cerchi grigi privi di una «fetta». È il nostro sistema percettivo a completare l’immagine interpretando segni a V e cerchi come parti di figure parzialmente nascoste. (A volte l’illusione è così forte che alcuni soggetti dichiarano di percepire il triangolo bianco come leggermente più chiaro dello sfondo.) Errori simili non riguardano soltanto la percezione visiva. Ad esempio, se ne verificano di analoghi anche nel settore della cosiddetta fisica ingenua. Col termine fisica ingenua si indicano quelle competenze che, a prescindere da ogni conoscenza specialistica, gli esseri umani adoperano per ragionare sui fenomeni del mondo fisico. Molti schemi che spontaneamente applichiamo al mondo fisico sembrano prescindere da fattori di tipo culturale e fanno parte presumibilmente del patrimonio innato che caratterizza i nostri sistemi cognitivi. Anche in questo settore gli esseri umani commettono sistematicamente degli «errori» (danno cioè delle risposte che risultano errate alla luce delle conoscenze della fisica intesa come scienza). Gli esperimenti degli psicologi ne hanno messo in luce vari. Ecco un esempio. Ai soggetti si chiede di immaginare che da un aereo che vola nella direzione della freccia venga lasciato cadere un oggetto pesante. Viene poi domandato quale tra le cinque traiettorie della Fig. 2.5 descriverebbe l’oggetto cadendo.

(a)

(b)

(c)

Fig. 2.5

40

(d)

(e)

Invariabilmente i soggetti preferiscono le traiettorie (d) ed (e). Ebbene, queste risposte sono sbagliate. La traiettoria di un oggetto che cade da un aereo in volo è infatti simile a quella disegnata in (b) (la traiettoria risulta infatti determinata da due componenti: la forza di gravità che attrae l’oggetto verso il basso, e la forza impressa dall’aereo in volo, che spinge l’oggetto in avanti). Un altro caso è il seguente. Si immagini di far ruotare vorticosamente un peso legato a uno spago, in modo che descriva una traiettoria circolare a come nella Fig. 2.6. b

c’

c O a

Fig. 2.6

A un certo punto il peso viene sganciato. Che tipo di traiettoria descriverà a partire dal punto b di sgancio? L’intuizione di molti è che esso prosegua per un tratto lungo una traiettoria curva, del tipo della c. Questo è sbagliato: subito dopo lo sgancio la traiettoria del peso sarà una linea retta c’ tangente alla circonferenza descritta dal corpo mentre ruotava (come ben sanno, almeno implicitamente, tutti i tiratori di fionda o gli atleti che praticano il lancio del martello). Le illusioni percettive e gli errori della fisica ingenua presentano molte caratteristiche in comune tra loro, e co41

muni agli errori studiati in psicologia del ragionamento. In particolare, tutti hanno le caratteristiche 1) e 2) enunciate all’inizio del paragrafo: vengono commessi da tutti gli esseri umani, a prescindere da fattori di carattere sociale e culturale, e sono estremamente tenaci, in quanto tendono a persistere anche quando razionalmente ci si è convinti dell’errore. L’esempio più evidente in questo senso è dato dalle illusioni percettive. Nel caso dell’illusione di Ponzo, ad esempio, continuiamo a vedere il segmento superiore più lungo anche se sappiamo che i due segmenti hanno la stessa lunghezza (ad esempio perché li abbiamo misurati). Per queste caratteristiche si ritiene che questi fenomeni mettano in luce aspetti profondi del funzionamento della cognizione umana. Nella letteratura psicologica gli errori con tali caratteristiche vengono talvolta indicati con la parola inglese bias, che potremmo tradurre con propensione, pregiudizio. In virtù della citata analogia tra illusioni percettive ed errori di ragionamento, si parla talvolta per queste ultime di illusioni cognitive. 2.2 Ragionamenti formalizzati e ragionamenti ordinari In questo paragrafo prenderemo in esame due aspetti in base ai quali le inferenze studiate dai logici si differenziano dai ragionamenti ordinari. Si tratta dell’impiego di un linguaggio formale per mettere in evidenza la forma logica degli enunciati (par. 2.2.1) e della formulazione esplicita di tutte le premesse di un ragionamento (par. 2.2.2). 2.2.1 Forma logica Una differenza tra inferenze logiche e ragionamento ordinario consiste nel fatto che quest’ultimo non impiega un linguaggio artificiale, in cui la forma sintattica rispecchia la struttura logica degli enunciati. La struttura gram42

maticale degli enunciati del linguaggio ordinario maschera talvolta la loro forma logica, ed enunciati con una struttura sintattica simile possono avere strutture logiche profondamente diverse: molti enunciati si «assomigliano» sebbene, dal punto di vista logico, funzionino in maniera profondamente diversa. Questo fa sì che nei ragionamenti ordinari, in cui premesse e conclusioni sono formulate nel linguaggio naturale, spesso ci si debba aiutare con il contenuto (o con il contesto) per stabilire quali inferenze siano corrette. Iniziamo da un caso particolarmente semplice. In molti casi, la congiunzione e del linguaggio ordinario corrisponde al connettivo proposizionale  visto nel capitolo precedente. Ad esempio, la forma logica dell’enunciato Marco dorme e Giorgio corre è p  q. Quando la congiunzione e è riconducibile a un connettivo verofunzionale, allora si possono applicare le seguenti regole di inferenza corrette (dette in logica regole di eliminazione della congiunzione): AB QUINDI:

AB A

QUINDI:

B

Talvolta la congiunzione e dell’italiano collega aggettivi (come in Marco è alto e magro) o nomi propri (Giorgio e Marco sono geometri). Ma enunciati come questi possono essere ricondotti al caso precedente. Ad esempio, Marco è alto e magro può essere parafrasato come Marco è alto e Marco è magro. In tali casi si possono pertanto applicare le regole di eliminazione, per cui le seguenti inferenze cono corrette: Marco è alto e magro. QUINDI: Marco è magro.

Giorgio e Marco sono geometri. QUINDI: Giorgio è geometra.

Altri enunciati costruiti con la congiunzione e non hanno però la forma logica p  q. È il caso di Giorgio e Marco 43

sono cugini. È chiaro che quella che segue non è un’inferenza corretta: Giorgio e Marco sono cugini. QUINDI: *Giorgio è cugino.

Infatti essere cugini è una relazione a due argomenti C(x, y), e la parola e qui non ha la funzione di un connettivo proposizionale, ma sta a indicare i due argomenti della relazione. Giorgio e Marco sono cugini ha una forma logica del tipo C(g, m) (dove le costanti individuali g e m rappresentano rispettivamente Giorgio e Marco). Esistono poi casi come il seguente: Giorgio e Marco pesano 120 chili. QUINDI: [?] Giorgio pesa 120 chili.

in cui la premessa è ambigua, ossia è un enunciato che ammette due interpretazioni diverse. In base a una possibile interpretazione Giorgio e Marco pesano 120 chili ciascuno, per cui la forma logica della premessa è p  q, e l’inferenza è corretta. In base alla seconda interpretazione Giorgio e Marco pesano 120 chili complessivamente, e l’inferenza è palesemente scorretta (in questo caso la premessa ha una forma logica diversa, e per rappresentarla servirebbero strumenti formali più ricchi di quelli di cui disponiamo). In casi come questi di solito gli esseri umani se la cavano perché sono in grado di distinguere le interpretazioni corrette da quelle che non lo sono facendo riferimento al contenuto degli enunciati e al contesto, linguistico ed extra linguistico, in cui gli enunciati vengono adoperati. Se ad esempio dicessi L’obesità è un problema molto diffuso. Giorgio e Marco pesano 120 chili sareste indotti a preferire la prima interpretazione. Se dicessi invece Giorgio e Marco pesano 120 chili; la passerella regge solo 100 chili, per cui dovranno passare uno alla volta l’interpretazione preferibile diventa la seconda. 44

Problemi di questo tipo si pongono in molteplici casi. Ad esempio, enunciati con la forma grammaticale Un P è un Q possono avere forme logiche molto diverse. Se dico Un bassotto è un cane presumibilmente intendo dire che qualunque cosa abbia la proprietà di essere un bassotto ha anche la proprietà di essere un cane. Ossia, l’articolo un svolge il ruolo di un quantificatore universale, e la forma logica dell’enunciato è del tipo x (B(x)  C(x)) (dove B e C stanno rispettivamente per le proprietà essere un bassotto ed essere un cane). Se invece dico Un cugino di Giorgio è un ortopedico intendo dire che c’è un certo individuo che è cugino di Giorgio, e che ha le proprietà di essere ortopedico. Pertanto qui un svolge il ruolo di quantificatore esistenziale, e la forma logica dell’enunciato è x (C(x, g)  O(x)) (dove la lettera C sta per la relazione essere cugino di..., la lettera O per la proprietà essere ortopedico e la costante g rappresenta Giorgio). Ovviamente, nei due casi sono possibili inferenze diverse. Si confrontino le seguenti: Un bassotto è un cane. Un cugino di Giorgio è un ortoMarco possiede un bassotto. pedico. Anna ama un cugino di Giorgio. QUINDI: Marco possiede un QUINDI: *Anna ama un ortopecane. dico.

delle quali chiaramente la prima è corretta, la seconda no. Vediamo un altro caso in cui gli strumenti formali della logica possono risolvere l’ambiguità di un enunciato del linguaggio ordinario. Anche in questo esempio l’ambiguità è relativa all’impiego dei quantificatori. Si consideri l’enunciato (2.4) Tutti i marinai amano una ragazza.

(2.4) ammette due interpretazioni. In base alla prima, si afferma che esiste una data ragazza, che tutti i marinai amano (la stessa ragazza è amata da tutti). Tradizionalmente, 45

questa interpretazione viene detta de re. L’altra possibilità è che ogni marinaio ami una ragazza, ma non necessariamente la stessa per ognuno. Questa interpretazione viene detta de dicto. In entrambi i casi, la formalizzazione dell’enunciato richiede l’impiego di due quantificatori, un quantificatore universale e un quantificatore esistenziale. Ciò che cambia è l’ordine con cui i quantificatori devono essere impiegati. Usiamo le lettere predicative a un argomento M e R per rappresentare rispettivamente le proprietà essere un marinaio ed essere una ragazza, e usiamo la lettera predicativa a due argomenti A(x, y) per esprimere che x ama y. La forma logica della lettura de re di (2.4) è: y (R(y)  x (M(x)  A(x, y)))

cioè: esiste un y tale che y è una ragazza e, per ogni x, se x è un marinaio, allora x ama y. La lettura de dicto di (2.4) corrisponde invece alla formula seguente: x (M(x)  y (R(y)  A(x, y)))

ossia: Per ogni x, se x è un marinaio, allora esiste una ragazza y tale che x ama y. Tradizionalmente, si chiama anfibolia un tipo di fallacia che dipende proprio dal fatto di avere una premessa ambigua, con due letture possibili, di cui una è vera e l’altra è falsa. La conclusione viene tratta sulla base della lettura falsa. Si possono considerare anfibolie i vari ragionamenti inaccettabili visti in questo paragrafo, in cui la conclusione dipende da una formalizzazione errata dalle premesse. Il seguente è un classico esempio di anfibolia che si basa sulla distinzione tra interpretazioni de re e de dicto: C’è un numero più grande di ciascun numero. QUINDI: *C’è un numero più grande di se stesso.

46

La conclusione è ovviamente falsa (nulla può essere più grande di se stesso). Il punto è che la premessa, come nel caso di (2.4), consente sia una lettura de re sia una lettura de dicto. In base alla lettura de re, si afferma che esiste un certo numero più grande di tutti gli altri, il che è palesemente falso. Possiamo rappresentare la sua forma logica con: y x (y > x)

cioè: esiste un certo y tale che, per ciascun x, y è maggiore di x (diamo per sottinteso che stiamo parlando di numeri). La lettura de dicto afferma invece che, per ciascun numero, ne esiste uno più grande, il che è certamente vero. La sua forma logica è: x y (y > x)

La conclusione, C’è un numero più grande di se stesso, è conseguenza logica della lettura de re (falsa), ma non di quella de dicto (vera). Vediamo un altro esempio di discrepanza tra struttura grammaticale e forma logica. Abbiamo visto che per lo più gli enunciati del tipo I P sono Q possono essere parafrasati come Per ogni x, se x è un P, allora x è un Q; essi hanno cioè la forma logica x (P(x)  Q(x)). In questi casi è corretta la regola di inferenza: I P sono Q a è un P QUINDI: a è un Q

Sono di questo tipo le seguenti inferenze: Le tortore dal collare sono uccelli. Genny è una tortora dal collare. QUINDI: Genny è un uccello.

47

I cinesi sono asiatici. Xu è cinese. QUINDI: Xu è asiatico.

Ma ci sono enunciati del tipo I P sono Q la cui forma logica non è x (P(x)  Q(x)). In tali casi la regola sopra enunciata non è più corretta. Si considerino gli esempi seguenti: Le tortore dal collare sono diffuse in tutta Europa. Genny è una tortora dal collare. QUINDI: *Genny è diffusa in tutta Europa.

I cinesi sono numerosissimi. Xu è cinese. QUINDI:

*Xu è numerosissimo.

In questi esempi la prima premessa non asserisce che ogni oggetto che soddisfi la proprietà P soddisfa anche la proprietà Q. In questi enunciati la proprietà Q viene predicata piuttosto dell’insieme degli oggetti che soddisfano la proprietà P nel suo complesso. Quando dico che le tortore dal collare sono diffuse in tutta Europa non intendo dire che ciascuna tortora è diffusa in tutta Europa. Intendo dire piuttosto che è l’insieme delle tortore dal collare nel suo complesso ad essere distribuito su tutto il territorio europeo. Analogamente, quando dico che i cinesi sono numerosissimi, dico qualcosa dell’intero insieme dei cinesi, non dei singoli individui che lo compongono4. Questo vale anche per inferenze della forma I P sono Q, I Q sono R, QUINDI: I P sono R. Quando I Q sono R non può essere parafrasato come Per ogni individuo x, se x è un P allora x è un Q, questa regola non è corretta. Ad esempio, nessuno dei seguenti ragionamenti è accettabile: I diamanti sono cristalli. I cristalli sono comuni. QUINDI: *I diamanti sono

comuni.

I panda sono mammiferi. I mammiferi vivono in tutti gli habitat. QUINDI: *I panda vivono in tutti gli habitat.

4 La logica dei predicati del primo ordine non consente di formalizzare enunciati come questi. A tale fine è necessario disporre di un linguaggio di ordine superiore (si veda la nota 2 del cap. 1).

48

I campani sono italiani. Gli italiani sono 60.000.000. QUINDI: *I campani sono 60.000.000.

Anche queste inferenze errate possono essere considerate delle anfibolie. In certi testi esse vengono anche classificate come esempi della fallacia della divisio (che abbiamo visto nel par. 2.1.2), in quanto una proprietà di un insieme inteso come un tutto (ad esempio, l’insieme delle tortore dal collare, oppure quello dei cristalli) viene attribuita scorrettamente alle sue parti, ossia ai suoi elementi (come nel caso di Genny), oppure ai suoi sottoinsiemi (come nel caso dei diamanti). Un’altra caratteristica che distingue i linguaggi formali rispetto al linguaggio ordinario consiste nel fatto che nei primi l’ambiguità viene eliminata non solo a livello di forma logica, ma anche a livello del significato delle singole parole. In un linguaggio formale si fa in modo che lo stesso simbolo corrisponda sempre allo stesso significato. Nel linguaggio ordinario, invece, le parole spesso non hanno un significato univoco e ben definito. Vi sono casi di polisemia, in cui la stessa parola ha una vasta famiglia di significati diversi anche se più o meno imparentati. Ad esempio, in italiano la parola tavola può indicare, tra le altre cose, un’asse di legno, un mobile oppure l’illustrazione di un libro (e non solo: si pensi a espressioni come tavola dei logaritmi, le tavole della legge, la buona tavola). Vi sono inoltre casi di omonimia, in cui, per ragioni storiche, lo stesso segno linguistico ha assunto significati diversi e non correlati tra loro. Ad esempio, in italiano la parola cane, oltre a riferirsi al migliore amico dell’uomo, denota anche il percussore nelle armi da fuoco portatili. L’equivocazione (equivocatio) è un argomento fallace basato sul fatto che nelle premesse si usa la stessa parola con significati diversi. Un tradizionale esempio di equivocatio (un po’ macabro) è il seguente: 49

Fine di una cosa è la sua perfezione. Fine della vita è la morte. QUINDI: *Perfezione della vita è la morte.

In questo caso si equivoca tra il significato di fine come scopo (Lo scopo di ogni cosa è la sua perfezione) e il significato di fine come termine (La morte è il termine della vita). Questo è un altro esempio: L’uomo è l’unico essere vivente dotato di ragione. Le donne non sono uomini. QUINDI: *Le donne non sono dotate di ragione.

Qui l’equivoco sussiste tra il significato di uomo come essere umano (nella prima premessa) e quello di uomo come essere umano di sesso maschile (nella seconda premessa). 2.2.2 Individuare le premesse Un’altra caratteristica che contraddistingue il ragionamento ordinario rispetto alle inferenze studiate in logica è costituita dal fatto che nelle inferenze dei logici tutte le premesse devono essere rese esplicite. Viceversa, di solito i ragionamenti ordinari si basano su numerosissime premesse implicite, tanto che spesso può essere molto complicato rendere esplicite tutte le assunzioni su cui poggiano le argomentazioni che pratichiamo nella vita quotidiana. Si consideri l’argomentazione seguente: Mario è a dieta. QUINDI: Mario non vede l’ora che siano finite le feste di Natale.

Probabilmente tutti comprendiamo il senso di questo ragionamento; tuttavia esso poggia su un grande numero di premesse non espresse che più o meno potremmo riassumere in questo modo: 50

Mario è a dieta. Chi è a dieta non può mangiare molto. Durante le feste di Natale per lo più si mangia molto. Di solito le persone amano mangiare (specie quelle che hanno problemi di dieta). Chi ama fare una certa cosa e non la può fare soffre. Chi soffre non vede l’ora che la sua sofferenza termini. QUINDI: Mario non vede l’ora che siano finite le feste di Natale.

E ancora così siamo ben lontani dall’aver trasformato il ragionamento in una forma del tutto esplicita. (Si noti che questa argomentazione, quand’anche fosse resa totalmente esplicita, non sarebbe comunque riconducibile a un’inferenza logicamente corretta. Alcuni passaggi, ad esempio, sono inferenze per default.) In molti casi per riempire il divario tra le premesse esplicite e la conclusione servono informazioni che dipendono dal contesto o dalle specifiche informazioni sul mondo disponibili ai parlanti. Per cui una stessa argomentazione può essere interpretata in maniere diverse. Si consideri l’esempio seguente: C’è un taxi sotto il portone di Mario. QUINDI: Mario probabilmente sta per uscire.

Il ragionamento potrebbe essere completato aggiungendo le seguenti assunzioni (ed è forse questa l’interpretazione più ovvia): Se c’è un taxi sotto il portone di qualcuno, allora questi probabilmente lo ha chiamato e Chi chiama un taxi probabilmente sta per uscire. Ma ci sono anche altri modi possibili per completare questo argomento. Ad esempio il seguente: Quando deve uscire ed è solo in casa Mario chiama una babysitter per il figlio, e le paga il taxi perché arrivi prima. Comunque, ora prenderemo in considerazione esempi molto meno problematici. Anche così, rendere esplicite 51

tutte le premesse di un ragionamento può essere un compito delicato. Talvolta infatti non è facile rendersi conto di ciò che diamo per scontato. Si consideri ad esempio il ragionamento seguente: Marco è più alto di Gianni. Gianni è più alto di Pietro. QUINDI: Marco è più alto di Pietro.

A differenza dei due esempi precedenti, questo può essere trasformato facilmente in un ragionamento logicamente corretto. Deve però essere resa esplicita una premessa che è data per sottintesa (in quanto ciascuno di noi la considererebbe ovvia). Bisogna cioè precisare che la relazione essere più alto di è una relazione transitiva. Ossia: se qualcuno è più alto di un altro, e questi è più alto di un terzo, allora il primo è più alto del terzo. Aggiungendo tale premessa, otterremo l’inferenza seguente, che è logicamente corretta: Marco è più alto di Gianni. Gianni è più alto di Pietro. Se qualcuno è più alto di un altro, e quest’altro è più alto di un terzo, allora il primo è più alto del terzo. QUINDI: Marco è più alto di Pietro.

(Di passaggio, si noti che l’enunciato che esprime la transitività di essere più alto di è un buon esempio di come, quando si ha a che fare con enunciati di una certa complessità, la formalizzazione logica possa essere molto più chiara e perspicua della formulazione in linguaggio naturale. Se usiamo la lettera predicativa a due argomenti P per rappresentare essere più alto di, la terza premessa può essere formalizzata con la formula xyz (P(x, y)  P(y, z)  P(x, z)).) Consideriamo un altro esempio: 52

Nel giardino di Mario ci sono tre cani. Nel giardino di Mario ci sono due gatti. QUINDI: Nel giardino di Mario ci sono (almeno) cinque animali.

Anche questo ragionamento può essere ricondotto a un’inferenza logicamente corretta. (Per la precisione, per formalizzarlo bisognerebbe estendere il linguaggio della logica dei predicati che abbiamo introdotto nel capitolo precedente con i quantificatori Esistono almeno n x tali che... ed Esistono esattamente n x tali che..., dove n è un numero naturale; ma qui questo aspetto per noi non è essenziale.) In esso però varie premesse vanno rese esplicite. In primo luogo, è ovvio che bisogna specificare che cani e gatti sono animali: Nel giardino di Mario ci sono tre cani. Nel giardino di Mario ci sono due gatti. I cani sono animali. I gatti sono animali. QUINDI: Nel giardino di Mario ci sono (almeno) cinque animali.

Ma questo ancora non basta. C’è ancora una premessa «nascosta» che va resa esplicita. Si confronti questa inferenza con la seguente, che ha la stessa struttura e che non è logicamente corretta: Alla festa di Mario ci sono quindici ragazze. Alla festa di Mario ci sono tre architetti. Le ragazze sono persone. Gli architetti sono persone. QUINDI: *Alla festa di Mario ci sono (almeno) diciotto persone.

È chiaro che la conclusione non segue logicamente dalle premesse. Infatti potrebbe darsi che qualcuno degli architetti sia a sua volta una ragazza (cioè, potrebbe darsi che l’insieme delle ragazze e quello degli architetti non sia53

no disgiunti). La stessa cosa vale per il ragionamento precedente: cani e gatti costituiscono insiemi disgiunti, ma affinché si possa dedurre la conclusione, questo deve essere reso esplicito nelle premesse. Pertanto, il ragionamento deve essere formulato come segue: Nel giardino di Mario ci sono tre cani. Nel giardino di Mario ci sono due gatti. I cani sono animali. I gatti sono animali. Nessun gatto è anche un cane. QUINDI: Nel giardino di Mario ci sono (almeno) cinque animali.

2.3 Ragionamento e pragmatica Abbiamo visto vari esempi di ragionamenti che a prima vista sembrano convincenti, ma che, esaminati più attentamente, non risultano corretti. Talvolta accade anche il contrario: vi sono inferenze che sono logicamente corrette ma che, dal punto di vista del senso comune quotidiano, saremmo restii a considerare «sensate». Si considerino questi esempi: Marco è genovese. QUINDI: Marco è genovese oppure la luna è fatta di formaggio.

Marco è genovese. Se Marco è genovese, allora piove oppure non piove. QUINDI:

Dal punto di vista deduttivo, queste due inferenze sono innegabilmente corrette. Nel primo caso la conclusione è ottenuta per mezzo della regola seguente (detta regola dell’introduzione della disgiunzione): A QUINDI:

A oppure B

54

che è una regola logicamente corretta: se A è vera, allora lo è anche A oppure B perché, come abbiamo visto nel primo capitolo, affinché una disgiunzione sia vera è sufficiente che sia vero almeno uno dei due disgiunti (qui oppure è da intendersi come una disgiunzione inclusiva). Per quanto riguarda il secondo ragionamento, l’enunciato piove oppure non piove è un esempio di ciò che in logica si chiama una tautologia, ossia un enunciato che risulta sempre vero, a prescindere dal valore di verità degli enunciati che lo compongono (e quindi, a prescindere dallo stato del mondo). È facile constatare che, se T è una tautologia, ogni inferenza della forma: A QUINDI:

Se A allora T

è corretta. Anzi, Se A allora T è a sua volta una tautologia, per cui la conclusione risulta sempre vera, a prescindere dalla verità o falsità della premessa. Tutte le inferenze che hanno come conclusione una tautologia sono sempre logicamente corrette. Sarebbe logicamente corretta anche: Anna è calabrese. QUINDI: Se Marco è genovese, allora piove oppure non piove.

Inferenze come le precedenti, per quanto logicamente corrette, pongono almeno due problemi dal punto di vista delle nostre intuizioni. In primo luogo, in entrambi i casi, la conclusione dice di meno rispetto alla premessa. Nel primo caso, se so che è vero A, allora so qualcosa di più che se sapessi soltanto che è vero A oppure B. Nel secondo caso, la conclusione sarebbe addirittura vera anche qualora la premessa fosse falsa. Noi tendiamo a rifiutare inferenze di questo tipo perché la conclusione è meno informativa delle premesse. In secondo luogo, nella conclusione vengono menzionati argomenti che non hanno niente a che fare con la pre55

messa: né la costituzione materiale della luna, né le condizioni meteorologiche sono pertinenti circa la provenienza geografica di Marco. Noi siamo portati a ritenere che, affinché un ragionamento abbia senso, ciò di cui si parla nella conclusione debba essere in qualche modo pertinente rispetto a ciò che si dice nelle premesse. Tale nesso di pertinenza, però, è del tutto estraneo rispetto alla nozione di conseguenza logica. Possono venirci in aiuto a questo punto nozioni tratte dalla pragmatica. Tradizionalmente, si distinguono tre aspetti dello studio del linguaggio: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi riguarda il modo in cui i simboli di un linguaggio sono combinati tra loro. Ad esempio, restando nell’ambito della logica, la sintassi ci dice che ¬(A  B) è una formula sintatticamente corretta della logica proposizionale, mentre, poniamo, ( A) ¬ B non lo è (così come la sintassi della lingua italiana ci dice che Marco ama Anna è una frase sintatticamente corretta, mentre non lo è Ama lo Anna Marco non). La semantica studia le espressioni di un linguaggio dal punto di vista del loro significato. Vero e falso sono nozioni prettamente semantiche, così come lo sono le nozioni di conseguenza logica e inferenza logicamente corretta (infatti si tratta di nozioni che sono definite a partire dalla nozione di verità). La pragmatica, infine, studia le espressioni del linguaggio dal punto di vista del loro uso. Essa cioè indaga come i parlanti si servono delle espressioni del linguaggio, e come tale uso dipenda dal contesto linguistico ed extralinguistico. La logica tipicamente ha a che fare con problemi di sintassi e di semantica. Ma sintassi e semantica da sole non raccontano tutta la storia. Come vedremo, ci sono aspetti del ragionamento in cui entrano in gioco considerazioni di tipo pragmatico. In generale, perché un’interazione linguistica (ad esempio una conversazione) abbia successo non basta che gli interlocutori rispettino vincoli di tipo sintattico e di tipo semantico (ad esempio, dicendo la verità). Affinché una con56

versazione sia ben riuscita deve sottostare ad altri vincoli, di tipo pragmatico. Supponete ad esempio che un dialogo si svolga in questo modo: a. Scusi, dove ferma il treno che hanno appena annunciato? b. Nelle stazioni ferroviarie di alcune località italiane e, probabilmente, in alcuni altri punti del suo percorso (ad esempio, in prossimità di semafori rossi).

Dal punto di vista semantico questo dialogo è ineccepibile: b risponde in maniera semanticamente adeguata alla domanda di a (ossia, presumibilmente, gli dice il vero). Tuttavia la risposta di b è inadeguata dal punto di vista pragmatico: quando qualcuno chiede a un altro dove ferma un treno, vuole sapere quali città raggiunge (e non gli importa dei semafori o di eventuali altre soste). Se l’interlocutore risponde come b si comporta in maniera (pragmaticamente) scorretta. Analogamente, una conversazione in cui gli interlocutori proferissero enunciati veri, ma saltando continuamente di palo in frasca, sarebbe pragmaticamente inadeguata (anzi, non la considereremmo neppure una conversazione). Per render conto di questi aspetti, il filosofo del linguaggio P. Grice (1975) individuò quattro massime alle quali i partecipanti ad una conversazione devono attenersi: 1) massima della quantità: fornisci informazioni in misura né minore né maggiore da quanto è richiesto al momento; 2) massima della qualità: non dire cose che credi false o per cui non hai prove adeguate; 3) massima della relazione: di’ cose pertinenti; 4) massima del modo: sii perspicuo, ossia fatti capire; non essere inutilmente oscuro o confuso. In quest’ottica, nel dialogo dell’esempio precedente, b non rispetta la massima della quantità ad un tempo per eccesso e per difetto: tace i nomi delle stazioni, ma cita le altre fermate che non sono rilevanti per la domanda di a. 57

Possiamo tornare ora alle due inferenze riportate all’inizio del paragrafo: in esse non c’è nulla da eccepire dal punto di vista semantico (come abbiamo visto, la conclusione è conseguenza logica delle premesse). Tuttavia esse sono carenti dal punto di vista pragmatico. In particolare, in esse non si rispetta né la massima della quantità (la conclusione è meno informativa rispetto alle premesse), né la massima della relazione (la conclusione introduce argomenti che non sono pertinenti con le premesse). Bisogna precisare che, nelle inferenze logicamente corrette, la conclusione, essendo conseguenza logica delle premesse, è sempre implicita in queste ultime. Di conseguenza, essa ha sempre un valore informativo minore, o al massimo uguale, rispetto a quello delle premesse. In senso stretto, le inferenze logiche non producono nuova conoscenza. Si consideri però l’inferenza seguente (che è logicamente corretta – chi non ne fosse persuaso può verificarlo utilizzando il metodo descritto nel par. 4.4.1): Se Anna non è napoletana, allora Bruno è siciliano. Se Anna è napoletana, allora Carlo non è milanese. Se Bruno non è siciliano, allora Carlo è milanese. QUINDI: Bruno è siciliano.

La conclusione Bruno è siciliano è implicita nelle premesse, e fornisce meno informazioni di esse. Tuttavia, essa offre l’informazione in una forma diversa, che non è immediato estrarre, e che in certi casi potrebbe risultare utile. Quindi l’inferenza appare giustificata dal punto di vista epistemologico: c’è un senso secondo il quale la conclusione offre «qualcosa di diverso» rispetto alle premesse. Dice infatti qualcosa che dall’esame delle premesse potrebbe sfuggire. La stessa cosa accade – sebbene a un livello di complessità molto maggiore – in una teoria matematica espressa in forma assiomatica. Negli assiomi già sono impliciti tutti i teoremi. Ma non è ovvio dedurli. Quindi, c’è un senso per cui dimostrare un nuovo teorema «produce» cono58

scenza. Questo invece non accade nelle inferenze all’inizio del paragrafo; è in questo senso che si può dire che esse violano la massima della quantità. O, se si vuole, è difficile immaginare un contesto nel quale la conclusione di queste inferenze potrebbe risultare più utile delle premesse. Considerazioni di ordine pragmatico sono rilevanti anche in altri casi. Si consideri ad esempio l’uso della disgiunzione. Supponiamo che Gianni sappia che il colpevole di un certo delitto è Massimo. Interrogato dal magistrato, Gianni risponde che il colpevole è Massimo oppure Maria. Per la logica Gianni ha detto il vero (se è vero A, allora è vero anche A oppure B). Ma noi saremmo portati a dire che Gianni ha mentito al giudice. Per la precisione, la sua affermazione non è falsa, ma è più debole rispetto a ciò di cui egli è a conoscenza, e che in quel contesto sarebbe rilevante, per cui costituisce una violazione della massima della quantità. In generale, dal punto di vista pragmatico, ci si aspetta che una persona rispetti la massima della quantità, ossia comunichi tutto ciò che è rilevante in un dato contesto. Vediamo un altro esempio. Tutti saremmo disposti ad accettare come vero che: Qualche triangolo è isoscele

ma molti negherebbero che: (2.5) Qualche triangolo ha la somma degli angoli interni uguale a 180°.

Al secondo enunciato si obietterebbe infatti che tutti i triangoli hanno la somma degli angoli interni uguale a 180°. Ma in logica da: Tutti i P sono Q

e dal fatto che esiste almeno un individuo che è P segue logicamente: 59

Qualche P è Q

Perciò, se è vero che Tutti i triangoli hanno la somma degli angoli interni uguale a 180°, allora deve essere vero anche Qualche triangolo ha la somma degli angoli interni uguale a 180°. Nel discorso ordinario invece si tende a interpretare qualche come qualcuno ma non tutti. In altri termini, si parte dal presupposto che, se si sa che tutti gli x sono P, non sia adeguato, o sia addirittura fuorviante, dire che qualche x è P. Si tratterebbe di una violazione della massima della quantità: se qualcuno proferisce (2.5), pur sapendo che tutti i triangoli hanno la somma degli angoli interni uguale a 180°, dice meno di quello che sembra essere rilevante in quel contesto. Quindi (2.5) è semanticamente ineccepibile – (2.5) infatti è vera – ma pragmaticamente inadeguata. In casi del genere si dice che di solito agli enunciati del tipo Qualche P è Q è associata l’implicatura che Non tutti i P sono Q. In pragmatica col termine implicatura si intende tutto ciò che viene lasciato intendere implicitamente da un enunciato, ma che non fa parte del suo significato letterale (anche la nozione di implicatura fu introdotta da Grice). Un modo per riconoscere le implicature consiste nel fatto che esse sono cancellabili: esse dipendono dal contesto in cui viene usato l’enunciato, per cui in altri contesti l’implicatura non vale. Vedremo qualche esempio. Un problema simile a quello posto da (2.5) è il seguente. Tutti siamo portati a leggere l’enunciato: (2.6) Marco ha due figli.

come se significasse Marco ha esattamente due figli. Probabilmente, se sapessimo che i figli di Marco sono tre diremmo che (2.6) è falso. Ma ci sono casi in cui (2.6) può essere letto come Marco ha almeno due figli. Supponiamo ad esempio che ci sia una norma che dice: 60

(2.7) Tutti quelli che hanno due figli hanno diritto ai buoni libro gratuiti.

Supponiamo inoltre che sia vero che (2.8) Marco ha tre figli. Marco avrebbe diritto ad avere i buoni libro gratuiti? Tutti, penso, diremmo di sì. Tutti cioè concorderemmo che da (2.7) e (2.8) segue che Marco ha diritto ai buoni libro gratuiti. Se qualcuno poi ci chiedesse perché, gli risponderemmo Perché Marco ha due figli (infatti ne ha ben tre), e quindi gode dei benefici previsti dalla norma. Ossia, tutti leggiamo avere due figli nell’antecedente di (2.7) come avere almeno due figli (e non come avere esattamente due figli). Dunque, se concludiamo che Marco ha diritto ai buoni libro è perché consideriamo corretta l’inferenza: Marco ha tre figli. QUINDI: Marco ha due figli.

che in altri contesti ci sarebbe sembrata inaccettabile. Ciò si può spiegare in termini di implicature. Il significato letterale di (2.6) sarebbe Marco ha almeno due figli, ma noi lo interpretiamo come Marco ha esattamente due figli per ragioni pragmatiche: all’espressione avere x figli è associata l’implicatura avere esattamente x figli. Che si tratti di un’implicatura è confermato dal fatto che in un contesto come quello di (2.7) essa risulta cancellata. Considerazioni simili valgono anche per altri tipi di enunciati. Tutti diremmo che è, se non proprio falso, almeno inappropriato affermare che I dinosauri si sono estinti prima che Roma diventasse la capitale d’Italia, o che (2.9) La prima guerra mondiale è scoppiata dopo che le armi da fuoco sono diventate di uso comune. Anche qui però il contesto è molto importante. Usare (2.9) per rispondere alla domanda Quando è scoppiata la prima guerra mondiale? sarebbe decisamente inappropriato. Un enunciato come il seguente però suona molto meglio: A differenza della guerra dei cent’anni, la prima guerra mondiale è scoppia61

ta dopo che le armi da fuoco sono diventate di uso comune. Anche qui dunque abbiamo a che fare con implicature cancellabili: un enunciato del tipo A dopo che B letteralmente dice soltanto che l’evento descritto da B è avvenuto in un tempo successivo a quello descritto da A, ma implica che i due eventi siano stati abbastanza prossimi nel tempo (considerazioni analoghe valgono per prima che). Nel capitolo precedente abbiamo considerato la congiunzione e un connettivo verofunzionale. Tuttavia nel linguaggio ordinario talvolta la e ha delle sfumature di tipo temporale e/o causale che non sono puramente verofunzionali. Se dico Anna è andata in città e si è comprata delle scarpe nuove, lascio intendere che prima Anna è andata in città e poi, una volta in città, si è comprata le scarpe. Qui il comportamento di e non è verofunzionale: non basta più che entrambi i congiunti siano veri per rendere vera la congiunzione; devono essere rispettati anche altri vincoli, tra le altre cose, di tipo temporale. Analogamente, se dico che Marco ha mangiato i funghi e si è sentito male lascio intendere che Marco ha mangiato i funghi e a causa di ciò si è sentito male. Questo ha delle conseguenze anche sul comportamento inferenziale degli enunciati. Usualmente la congiunzione è commutativa; vale a dire, è corretta la seguente regola di inferenza: AeB QUINDI:

BeA

Ma le seguenti inferenze non sono accettabili: (2.10) Anna è andata in città e si è comprata delle scarpe nuove. QUINDI: *Anna si è comprata delle scarpe nuove ed è andata in città. (2.11) Marco ha mangiato i funghi e si è sentito male. QUINDI: *Marco si è sentito male e ha mangiato i funghi.

62

I linguisti ritengono che le sfumature non verofunzionali (di tipo causale, temporale, o altro) che sono insite in questi usi della congiunzione costituiscano delle implicature. Ossia, ritengono che tali sfumature non facciano parte del significato letterale, di ciò che l’enunciato afferma esplicitamente. Si tratterebbe piuttosto di qualcosa che viene comunicato in modo implicito. Infatti in certi contesti tali implicature possono essere cancellate. Si può dire ad esempio: Anna è andata in città e si è comprata delle scarpe nuove, ma non in quest’ordine. Oppure: Marco ha mangiato i funghi e si è sentito male, ma non è stato per via dei funghi. (Mentre non si potrebbe dire: *Anna è andata in città e poi si è comprata delle scarpe nuove, ma non in quest’ordine, oppure: *Marco ha mangiato i funghi e perciò si è sentito male, ma non è stato per via dei funghi. Qui infatti non si tratta di implicature: le parole poi e perciò hanno infatti una componente di tipo, rispettivamente, temporale e causale che fa parte del loro significato letterale.) L’inaccettabilità di inferenze come (2.10) e (2.11) dipende quindi da fattori pragmatici piuttosto che semantici. La fallacia della petitio principii, detta anche ragionamento circolare o circolo vizioso, si verifica quando si include più o meno surrettiziamente tra le premesse la tesi stessa che si vuole argomentare. Un esempio classico è il seguente: La Bibbia dice che Dio esiste. Ma la Bibbia non può mentire, perché la Bibbia è la parola di Dio. QUINDI: Dio esiste.

Ovviamente, assumere che la Bibbia sia la parola di Dio significa presupporre già che Dio esiste. Un altro esempio è il seguente: Queste azioni devono essere considerate illegali. Esse infatti sono proibite dalla legge. Formulato in maniera più esplicita: 63

Queste azioni sono proibite dalla legge. QUINDI: Queste azioni sono illegali.

Ma «illegale» e «proibito dalla legge» sono sinonimi, per cui la premessa e la conclusione affermano esattamente la stessa cosa. Ecco un altro esempio: Tizio è il miglior candidato in quanto è decisamente superiore a tutti gli altri. O ancora: Mi piacciono i film di Kubrick perché è uno dei miei registi preferiti. A volte la circolarità non è localizzata in un unico nesso inferenziale, ma risiede in una catena di passaggi che si richiamano a vicenda, come nell’esempio seguente: Questo ristorante serve il cibo migliore della città perché ha uno chef eccezionale. Sono riusciti ad accaparrarsi uno chef così bravo perché il ristorante ha una grande reputazione. Questa reputazione gli deriva dal fatto che in città è il ristorante che serve di gran lunga il cibo migliore. In generale, un ragionamento circolare ha una struttura di questo tipo: .... A ... QUINDI:

A

È chiaro a questo punto che la petitio principii, a rigore, non è un errore di logica: un enunciato è sempre conseguenza logica di se stesso, per cui un ragionamento con questa struttura è logicamente corretto. La sua inadeguatezza, caso mai, è di tipo pragmatico: si tratta di una forma di ragionamento «scorretta» nella misura in cui la conclusione si limita a ribadire quanto già detto nelle premesse non producendo quindi nessun contributo informativo. In sostanza, un ragionamento circolare non è accettabile per ragioni pragmatiche analoghe a quelle che ci portano a rifiutare le inferenze riportate all’inizio di questo paragrafo. 64

3.

Induzione, probabilità, «fuzzy logic»

3.1 Ragionamento induttivo Nel primo capitolo abbiamo visto, tra i vari tipi di ragionamento, un esempio di ragionamento induttivo: Tutti i cigni osservati sino ad ora in Europa sono bianchi. Tutti i cigni osservati sino ad ora in Nord America sono bianchi. Tutti i cigni osservati sino ad ora in Sud America sono bianchi. [...] Non sono stati mai osservati cigni che non fossero bianchi. QUINDI: Tutti i cigni sono bianchi.

In questo tipo di inferenze si parte da premesse che riguardano un certo numero di casi particolari per giungere ad una conclusione di portata generale. Non si tratta di ragionamenti logicamente corretti, in quanto le premesse non coprono tutti i casi possibili. È quindi sempre possibile che nuovi dati portino a falsificare la conclusione. Ad esempio, è possibile che un giorno venga osservato un cigno che non è bianco; in tal caso la conclusione del precedente ragionamento dovrà essere ritrattata (nel primo capitolo si ricordava che storicamente questo è effettivamente avvenuto: quando gli europei sono giunti in Australia hanno scoperto che in quel continente vivono i cigni neri della specie Cygnus atratus). 65

Nei paragrafi che seguono distingueremo tra due tipi di ragionamenti induttivi, le generalizzazioni statistiche (par. 3.1.1) e le generalizzazioni induttive in senso stretto (par. 3.1.2). 3.1.1 Generalizzazioni statistiche Chiamiamo generalizzazioni statistiche i ragionamenti che hanno una struttura di questo tipo: Su un campione casuale di m individui che sono dei P, l’n per cento sono Q. QUINDI: Circa l’n per cento dei P sono Q.

dove P e Q sono due proprietà. Vale a dire: si sceglie un campione casuale di individui che gode della proprietà di essere un P; si constata che una certa percentuale n di quegli individui gode anche della proprietà di essere un Q e si generalizza tale osservazione all’intera popolazione degli individui che sono dei P (con l’importante cautela che tale generalizzazione non può essere esatta in modo assoluto: la conclusione afferma che circa l’n per cento dei P sono Q). Generalizzazioni di questo tipo sono largamente utilizzate nelle scienze umane, e vengono impiegate per sondaggi, exit poll, indagini di mercato, ecc. Un esempio di questo tipo è il seguente: Dato un campione casuale di 500 famiglie italiane, il 15% possiede due automobili. QUINDI: Circa il 15% delle famiglie italiane possiede due automobili.

Qui la proprietà P è «essere una famiglia italiana» e la proprietà Q è «possedere due automobili». Nell’esempio seguente: 66

Dato un campione casuale di 500 elettori, il 47% ha deciso di votare sì al referendum. QUINDI: Circa il 47% degli elettori ha deciso di votare sì al referendum.

la proprietà P è «essere un elettore» e la proprietà Q è «aver deciso di votare sì al referendum». L’affidabilità di una generalizzazione statistica dipende dal fatto che il campione sia abbastanza numeroso, e che inoltre sia stato scelto in maniera tale da essere realmente casuale. Un campione casuale è un campione tale per cui ogni individuo della popolazione dei P ha la stessa probabilità di essere scelto a farne parte. Ad esempio, le seguenti non sono generalizzazioni statistiche affidabili perché il campione su cui si basano non è né casuale, né abbastanza numeroso: Il 30% dei miei amici ama Il 90% dei miei amici voterà sì il jazz d’avanguardia. al referendum. QUINDI: *Circa il 30% delle QUINDI: *Circa il 90% degli persone ama il jazz elettori voterà sì al referendum. d’avanguardia.

In primo luogo, l’insieme dei miei amici (per quanti amici io possa avere) non è abbastanza numeroso per garantire questo tipo di generalizzazioni; inoltre non si tratta neppure di un campione casuale, perché tra gli amici di una persona tendono a prevalere certe caratteristiche piuttosto che altre (dal punto di vista anagrafico, geografico, sociale, culturale, professionale, politico, ecc.). Se ad esempio fossi un fanatico di jazz, la percentuale di estimatori del jazz di avanguardia sarebbe probabilmente più alta tra i miei amici che tra altre categorie di persone. Una generalizzazione come: Dato un campione casuale di 26 italiani, il 30% odia il vino rosso. QUINDI: *Circa il 30% degli italiani odia il vino rosso.

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non è affidabile, perché il campione (per quanto possa essere impeccabile dal punto di vista del modo in cui è stato scelto) è decisamente troppo poco numeroso. Mentre questo esempio: Dato un campione di 1.000 elettori iscritti alla CGIL, il 76% ha deciso di votare sì al referendum. QUINDI: *Circa il 76% degli elettori ha deciso di votare sì al referendum.

non costituisce una generalizzazione affidabile in quanto il campione non è casuale (gli iscritti a un dato sindacato condividono una certa impostazione politica, per cui è scorretto proiettare le loro scelte elettorali su tutta la popolazione degli elettori). La difficoltà principale nelle generalizzazioni di tipo statistico consiste nell’individuazione del campione appropriato. Una volta che si dispone del campione esistono tecniche matematiche consolidate che consentono di ottenere generalizzazioni attendibili. 3.1.2 Generalizzazioni induttive in senso stretto Una generalizzazione induttiva in senso stretto è un ragionamento della forma: (3.1) Tutti i P osservati sino ad ora sono dei Q. QUINDI: Tutti i P sono dei Q.

Le generalizzazioni induttive possono assumere anche una forma probabilistica del tipo: L’n per cento dei P osservati sino ad ora sono dei Q. QUINDI: Circa l’n per cento dei P sono dei Q.

La differenza tra quelle che abbiamo chiamato generalizzazioni statistiche e le generalizzazioni induttive in sen68

so stretto è la seguente. Abbiamo visto che le generalizzazioni statistiche richiedono l’individuazione di un campione casuale di individui della popolazione che si intende studiare, dove con campione casuale si intende un campione tale per cui ogni individuo della popolazione ha la stessa probabilità di essere scelto a farne parte. Tuttavia non sempre è possibile disporre di un campione casuale in questo senso, in quanto non sempre è possibile accedere a tutto l’insieme dei P. Parte di essi potrebbe essere inaccessibile per ragioni geografiche (ad esempio, potrebbe trattarsi di oggetti che si trovano al di fuori del sistema solare), oppure la generalizzazione potrebbe riguardare eventi passati o futuri, e così via. Supponiamo di voler usare l’induzione per ricavare leggi empiriche, come quelle della fisica o della chimica. Le leggi delle scienze naturali (come ad esempio: un corpo cade con accelerazione costante, oppure il cloruro di sodio è solubile nell’acqua) non riguardano solo fenomeni attuali e accessibili, ma anche fenomeni passati e futuri, e, in generale, tutti quei fenomeni che, per ragioni di fatto o di principio, non potranno mai essere osservati direttamente. Ad esempio, quando si afferma che un corpo cade con accelerazione costante si intende parlare anche di quello che accadeva al tempo dell’antica Roma, o nel Giurassico, e anche di quei corpi che sono inaccessibili perché si trovano, poniamo, su un altro pianeta, o in un’altra galassia. È evidente, dunque, che non potremo mai disporre, ad esempio, di un campione veramente casuale di cloruro di sodio nel senso che qui ci interessa. Per formulare le nostre generalizzazioni induttive abbiamo accesso solo a una porzione molto limitata di realtà. Vi sono pertanto generalizzazioni induttive in cui si deve rinunciare alla richiesta che il campione sia casuale. Come è possibile in casi del genere essere ragionevolmente sicuri che le conclusioni che si traggono dal campione limitato di esemplari disponibili possano essere estese a tutta la popolazione in oggetto? Questo genere di 69

inferenze si basa sulla nostra fiducia che esistano delle regolarità nel dominio che si intende studiare, ossia, come si dice talvolta, che la natura si comporti in modo regolare. Ad esempio, quando il fisico formula una legge generale a partire da un numero limitato di campioni lo fa basandosi sulla fiducia che il mondo fisico si comporti più o meno sempre nello stesso modo e che le cose non cambino arbitrariamente. Ma su che base possiamo giustificare tale fiducia? Se si cerca di giustificare l’induzione seguendo questa via si va incontro a difficoltà filosofiche che furono messe in luce già nel Settecento dal filosofo scozzese David Hume. In estrema sintesi il problema che si è posto Hume è il seguente: come possiamo giustificare la nostra fiducia che esistano delle regolarità in natura? Non certo su base induttiva (con una generalizzazione del tipo: Fino ad ora ho sempre osservato che la natura si comporta in maniera regolare; QUINDI: La natura si comporta sempre in maniera regolare) perché abbiamo bisogno della tesi che esistono regolarità in natura per giustificare l’affidabilità dell’induzione, e se usassimo l’induzione per giustificare la nostra fiducia nella tesi della regolarità della natura entreremmo in un circolo vizioso. Come si può fare allora? Una versione recente del problema di Hume, formulata in termini linguistici, è stata individuata nel secolo scorso dal filosofo americano Nelson Goodman (1955). Vediamo di cosa si tratta. Tra tutti i predicati che possiamo formulare ve ne sono alcuni che ci appaiono, per così dire, «sensati», come ad esempio: essere un mammifero essere un numero primo essere francese

e altri che invece sono decisamente più bizzarri, come: avere sulla testa un numero dispari di capelli essere figlio di una calabrese e di un impiegato del catasto

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essere un numero pari diverso dai multipli dell’età dell’attuale pontefice essere un vertebrato nato in Asia oppure una pianta erbacea comparire sulla guida telefonica di Milano dell’anno 1965 tra la pagina 89 e la pagina 127.

Dal punto di vista delle inferenze deduttive logicamente corrette, tutti i predicati si comportano nello stesso modo, sia quelli «sensati» del primo gruppo, sia quelli «bizzarri» del secondo. Ad esempio la regola: Tutti gli oggetti che hanno la proprietà P hanno la proprietà Q. L’oggetto a ha la proprietà P. QUINDI: L’oggetto a ha la proprietà Q.

è corretta qualunque predicato io sostituisca a P e a Q (siano essi «sensati» o meno). La seguente inferenza: Tutti coloro che hanno un numero di capelli uguale a un numero primo maggiore di 7 hanno un numero dispari di capelli. Mario ha un numero di capelli uguale a un numero primo maggiore di 7. QUINDI: Mario ha un numero dispari di capelli.

è logicamente corretta e del tutto ineccepibile (anche se probabilmente non molto utile). Per quanto riguarda altre forme di ragionamento (ad esempio il ragionamento induttivo) non è così, i predicati non si comportano tutti allo stesso modo. Ad esempio, i seguenti ragionamenti hanno la struttura dello schema (3.1) riportato all’inizio di questo sottoparagrafo, e la loro premessa è vera. Tuttavia la conclusione che si ottiene non è accettabile. Tutti i pinguini osservati sino ad oggi sono vissuti negli ultimi 5 secoli. QUINDI: *Tutti i pinguini sono vissuti negli ultimi 5 secoli.

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Tutti i fossili osservati sino ad oggi sono stati estratti dal loro giacimento. QUINDI: *Tutti i fossili sono stati estratti dal loro giacimento.

Tutta l’acqua osservata sino ad oggi si trova in una certa porzione del sistema solare. QUINDI: *Tutta l’acqua si trova in tale porzione del sistema solare.

Vi sono cioè dei predicati che consentono di trarre generalizzazioni induttive accettabili e altri che non lo consentono. Chiamiamo proiettabili i predicati del primo tipo. Nelson Goodman ha formulato un esempio di predicato non proiettabile che è diventato celebre. Si tratta del predicato vlu (da v[erde] + [b]lu; in inglese grue, da gr[een] + [bl]ue) definito come segue: Un oggetto x è vlu se e solo se x è stato esaminato fino al 31 dicembre 2007 ed è verde, oppure x viene esaminato dopo il 31 dicembre 2007 ed è blu.

È evidente che un predicato come vlu non può essere utilizzato in generalizzazioni induttive basate sullo schema (3.1). Ad esempio, tutti gli smeraldi osservati sino ad oggi (30 aprile 2007) sono vlu. Quindi, se applichiamo lo schema (3.1), possiamo concludere che Tutti gli smeraldi sono vlu. Ma supponiamo di osservare uno smeraldo la mattina del 1° gennaio 2008: ora esso ha cessato di essere vlu. A partire da quella mattina nessuno smeraldo è vlu, e la conclusione tratta utilizzando (3.1) è falsa. Quindi, con un predicato come vlu, lo schema (3.1) non può essere applicato. I predicati proiettabili sono quelli che, in un certo senso, esprimono delle proprietà che corrispondono a delle regolarità del mondo naturale, mentre quelli non proiettabili sono arbitrari. Ma, a questo punto, si pone un problema simile a quello di Hume: come si fa a distinguere tra predicati che sono proiettabili e predicati che non lo sono? Non certo su base induttiva, perché anche in questo 72

caso ci troveremmo di fronte a un circolo vizioso: infatti la distinzione tra proprietà proiettabili e non proiettabili ci serve per giustificare quali inferenze induttive sono accettabili. Una risposta generale e definitiva per ora non è stata trovata, e il problema rimane aperto. Oltre al problema messo in luce da Goodman, vi è un’altra difficoltà per il ragionamento induttivo, nota come paradosso1 di Hempel (dal nome del filosofo Carl Gustav Hempel che l’ha individuata – essa è conosciuta anche come paradosso del corvo, per ragioni che saranno chiare tra poco). Consideriamo l’enunciato: (3.2) Tutti i corvi sono neri (in simboli, x (C(x)  N(x))).

Esso può essere confermato per via induttiva: sono stati osservati molti corvi, e non è mai stato osservato un corvo che non fosse nero. Ogni volta che viene osservato un nuovo corvo nero, ciò contribuisce a confermare (3.2), contribuisce cioè a rafforzare la nostra fiducia nella sua verità. Però, fa notare Hempel, in virtù della regola di contrapposizione (par. 1.2.1), (3.2) è logicamente equivalente a: (3.3) Qualunque cosa che non sia nera non è un corvo (in simboli, x ( N(x)   C(x))).

Se ogni osservazione di un corvo nero vale come ulteriore conferma di (3.2), allora ogni osservazione di oggetti non neri che al tempo stesso non sono corvi varrà come conferma di (3.3). Ma poiché (3.3) è equivalente a (3.2), ogni conferma di (3.3) dovrà essere considerata anche una conferma di (3.2). Quindi, ogni volta che osserviamo, ad 1 Per paradosso si intende un’inferenza che, a partire da premesse accettabili, conduce a conclusioni inaccettabili o comunque controintuitive. In base all’etimologia greca, un paradosso è qualcosa di contrario (para) all’opinione comune (doxa).

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esempio, un’anguria verde oppure un ombrello giallo, ciò dovrebbe contribuire a rafforzare l’evidenza che tutti i corvi sono neri. Si tratta di una conclusione decisamente molto poco intuitiva. Il problema di Goodman e quello di Hempel vengono spesso riuniti sotto l’etichetta di paradossi della conferma, perché entrambi hanno a che fare con il problema della conferma induttiva di una generalizzazione. I filosofi hanno tentato diverse soluzioni ai problemi posti dalle inferenze induttive, come quelli individuati da Hume, Goodman e Hempel. Una proposta radicale è quella avanzata da Karl Popper nel volume Logica della scoperta scientifica (1934). Secondo Popper, i procedimenti di tipo induttivo non possono essere oggetto di indagine razionale. Popper era interessato soprattutto alla filosofia della scienza. Egli riteneva che i procedimenti induttivi con cui gli scienziati giungono a sviluppare teorie e generalizzazioni a partire dai dati osservativi non potessero essere analizzati in termini logici, e potessero al più essere fatti oggetto di un’indagine di tipo psicologico. Ciò che invece sarebbe passibile di essere analizzato razionalmente è il processo di controllo empirico delle teorie una volta che esse sono state sviluppate. Supponiamo ad esempio di dover controllare una teoria che comprende l’enunciato (3.2). Supponiamo inoltre che un giorno venga osservato un certo corvo k che non è nero – ossia, in simboli, (3.4) C(k)   N(k). Questa osservazione è incompatibile con (3.2) – infatti da (3.2) e da (3.4) si può dedurre la contraddizione N(k)   N(k). A questo punto, secondo Popper, la teoria che comprende (3.2) deve essere rifiutata: nella terminologia popperiana si dice che essa è stata falsificata. Ciò che caratterizza le teorie scientifiche sarebbe proprio il fatto di essere potenzialmente falsificabili a partire dalle osservazioni empiriche. E il procedimento di falsificazione si basa esclusivamente su inferenze di tipo deduttivo. In seguito Popper ha reso più articolate le sue posizioni, ma ha conservato la sfiducia nella possibilità di 74

rendere conto razionalmente dei processi induttivi, e ha tenuto fede alla tesi in base a cui ciò che caratterizza la teorie scientifiche sarebbe la loro falsificabilità. Non tutti i filosofi sono altrettanto pessimisti nei confronti dell’induzione. Molti hanno sviluppato varie proposte per venire a capo del problema di Hume e dei paradossi della conferma; per tali proposte si rimanda ai testi citati nella sezione Cos’altro leggere. 3.2 Ragionamento probabilistico Quando si ha a che fare con il ragionamento induttivo, la conclusione tratta non è certa, ma solo probabile a un certo grado. Nei paragrafi seguenti vedremo alcuni strumenti elementari per effettuare inferenze di tipo probabilistico. Anche per il ragionamento probabilistico vale la distinzione tra punto di vista normativo e punto di vista descrittivo. La teoria della probabilità è una disciplina normativa, che dice come dovremmo comportarci quando effettuiamo ragionamenti di tipo probabilistico. Il par. 3.2.1 fornisce alcuni cenni di teoria della probabilità. Dal punto di vista descrittivo, si può constatare che anche in ambito probabilistico gli esseri umani sono sottoposti a bias e commettono errori e fallacie. Ne vedremo alcuni esempi nei parr. 3.2.2-3. 3.2.1 Logica della probabilità Nei primi due capitoli abbiamo accettato il principio di bivalenza, abbiamo assunto cioè che esistono due soli valori di verità, il vero e il falso, e che ogni enunciato può assumere di volta in volta uno e uno solo di tali valori. Rispetto a molti tipi di ragionamento che si possono incontrare nella vita reale e nella scienza questa assunzione è una semplificazione eccessiva. Nella parte restante di questo capitolo vedremo alcuni modelli di ragionamento in cui tale assun75

zione viene abbandonata. Questo paragrafo, in particolare, tratta del ragionamento probabilistico. In questo contesto, i casi in cui si è certi della verità o della falsità di un enunciato vengono considerati due casi limite. Tra questi casi limite si situa uno spettro di casi intermedi, nei quali si attribuisce a un enunciato un certo grado di probabilità. Rappresentiamo la probabilità che si verifichi l’evento (descritto dall’enunciato) A con un numero compreso tra 0 e 1, e la indichiamo con P(A). (In questo paragrafo si parlerà indifferentemente di probabilità di eventi o di enunciati, in quanto ciò non è causa di confusioni.) Avremo quindi che: 0  P(A)  1

Se P(A) = 1, allora siamo certi che A è vero; se P(A) = 0, allora siamo certi che A è falso. P(A) = n, con 0 < n < 1, significa che attribuiamo ad A la probabilità n. Come vedremo, la logica della probabilità presentata in questo paragrafo può essere vista come un’estensione della logica proposizionale classica del par. 1.2.1: tutto quello che vale per la logica proposizionale classica può essere esteso alla logica della probabilità se si sostituisce al valore di verità V il valore di probabilità 1 e al valore di verità F il valore di probabilità 0. Della probabilità si possono dare diverse interpretazioni. Facciamo riferimento qui alla cosiddetta interpretazione classica, in quanto si tratta della più semplice2. In base all’interpretazione classica si ha che: P(A) =

Numero degli esiti possibili in cui A occorre Numero totale degli esiti possibili

Chiariamo questa definizione per mezzo di qualche semplice esempio. Consideriamo il lancio di una moneta. 2 Per le varie interpretazioni della probabilità rimandiamo ai lavori citati nella sezione Cos’altro leggere.

76

Quando si lancia una moneta gli esiti possibili sono due: una possibilità è che esca testa, l’altra possibilità è che esca croce. Assumiamo che la probabilità che esca testa sia la stessa della probabilità che esca croce (supponiamo quindi, ad esempio, che la moneta non sia truccata in modo da fare sì che uno degli esiti sia più probabile dell’altro). Indichiamo con eT il fatto che un lancio ha avuto esito testa e con eC il fatto che un lancio ha avuto esito croce. Poiché, su due esiti possibili complessivi, uno è l’esito in cui occorre eT (in cui cioè esce testa), in base alla definizione precedente si avrà che: P(eT) =

1 2

Analogamente si avrà che: P(eC) =

1 2

Consideriamo ora il lancio di un normale dado a sei facce. Quando si lancia un dado il numero totale degli esiti possibili è 6. Anche in questo caso supponiamo che tali esiti siano equiprobabili. Indichiamo con e1 il fatto che un lancio ha prodotto come esito uno, con e2 il fatto che un lancio ha prodotto come esito due, e, in generale, con en il fatto che un lancio ha prodotto come esito n (con 1  n  6). Su sei esiti possibili complessivi, uno è l’esito in cui occorre e1 (in cui cioè esce uno), uno è l’esito in cui occorre e2, e così via. Pertanto, in base alla definizione precedente si avrà che: P(e1) = P(e2) = P(e3) = P(e4) = P(e5) = P(e6) =

1 6

Vediamo ora, sulla base di tale definizione, qual è la probabilità di enunciati complessi costruiti per mezzo degli usuali connettivi logici. Consideriamo il caso dell’enunciato  e2. Di sei esiti possibili, cinque sono quelli in cui occorre  e2 (cioè tutti tranne quello in cui occorre e2). Per cui si avrà che: 77

P( e2) =

5 6

Nel caso di un enunciato come e2  e5, ci sono due possibilità su sei che esso occorra (quella in cui l’esito è due e quella in cui l’esito è cinque). Pertanto si avrà che: P(e2  e5) =

2 1 = 6 3

Consideriamo l’enunciato come e2  e5. Le possibilità che esso occorra sono nulle perché il lancio di un dado non può dare come esito allo stesso tempo due e cinque. Pertanto si ha che: P(e2  e5) =

0 =0 6

Analogamente, sono nulle le possibilità che occorra e2   e2, in quanto l’enunciato e2   e2 ha la struttura di una contraddizione, e quindi non può mai essere vero. Per cui anche in questo caso si ha che: P(e2   e2) =

0 =0 6

Viceversa, e2   e2 ha la struttura di una tautologia3, per cui, su sei esiti possibili, si verificherà sempre che e2   e2. Si avrà dunque che: P(e2   e2) =

6 =1 6

Anche l’enunciato e1  e2  e3  e4  e5  e6, pur non avendo la struttura di una tautologia, sarà sempre vero qualunque sia l’esito del lancio che si verifica (ogni volta che si lancia un dado l’esito è 1 oppure è 2 oppure è 3... oppure è 6). Anche in questo caso si avrà dunque: 3 Si ricordi che una tautologia è una formula della logica proposizionale che risulta sempre vera, a prescindere dalla verità o dalla falsità delle lettere proposizionali che vi compaiono.

78

P(e1  e2  e3  e4  e5  e6) =

6 =1 6

In modo analogo, nel caso del lancio di una moneta, avremo che: P( eT) = 1 e P( eC) = 1 2 2 2 =1 P(eT  eC) = 2 P(eT   eT) = 2 = 1 2 0 =0 P(eT  eC) = 2 P(eT   eT) = 0 = 0 2

Vediamo ora, in generale, come si comportano i connettivi nella logica della probabilità. Nel caso della negazione si assume che: P( A) = 1 – P(A)

Questo coincide con quanto visto negli esempi del dado e della moneta. Ad esempio: P( e2) = 1 – P(e2) = 1 – 1 = 5 6 6

e P( eT) = 1 – P(eT) = 1 – 1 = 1 2 2

Si noti che, nei casi in cui P(A) vale 0 oppure 1, si ha che: P(A) P( A) 1 0 0 1

79

Ossia, se ci si limita ai valori di probabilità 0 e 1, la negazione nella logica della probabilità si comporta come la negazione della logica classica. Consideriamo la congiunzione. Definiamo mutuamente esclusivi due enunciati se e soltanto se non possono essere veri contemporaneamente. Nell’esempio del dado e2 ed e5 sono mutuamente esclusivi; non può accadere infatti che il lancio di un dado produca come esito allo stesso tempo sia 2 che 5. Certi enunciati sono mutuamente esclusivi in virtù della loro forma logica. È il caso, ad esempio, di A  B e A   B. Per sincerarsene basta costruire la loro tavola di verità: A V V F F

B V F V F

A V V F F

 V F F F

B V F V F

A V V F F

 F V F F

 F V F V

B V F V F

Non c’è nessuna riga della tavola (quindi nessuna assegnazione di vero e di falso ad A e a B) per cui entrambi gli enunciati risultino veri. Nell’esempio del dado, non sono mutuamente esclusivi enunciati come e1  e2 ed e2  e4. Essi infatti sono entrambi veri nel caso che l’esito di un lancio sia 2. Così come non sono mutuamente esclusivi  e3 e  e5. Essi sono entrambi veri in tutti i casi in cui l’esito di un lancio del dado è diverso sia da 3 che da 5. Dati due enunciati A e B, se essi sono mutuamente esclusivi, allora si ha che: P(A  B) = P(A) + P(B)

Questo concorda con quanto abbiamo constatato nell’esempio del dado. Ad esempio, e2 ed e5 sono mutuamen80

te esclusivi e P(e2) = (e5) = 1 , per cui, come abbiamo visto, 6

P(e2  e5) = 2 = 1 + 1 . 6

6

6

In generale, dati A e B qualunque (cioè, non necessariamente mutuamente esclusivi), si ha che: P(A  B)  P(A)

P(A  B)  P(B)

e

Ossia, la probabilità di una disgiunzione è sempre maggiore o uguale della probabilità dei due disgiunti. Vale inoltre che, se P(A) = P(B) = 0, allora P(A  B) = 0. Da questi due fatti segue che: P(A) 1 1 0 0

P(B) 1 0 1 0

P(A  B) 1 1 1 0

Ossia, se ci si limita ai valori di probabilità 0 e 1, la disgiunzione nella logica della probabilità si comporta come la disgiunzione della logica classica. Due enunciati A e B si dicono indipendenti se la probabilità di A non ha alcuna influenza sulla probabilità di B e viceversa. Ad esempio, se lancio contemporaneamente più monete (o se lancio più volte consecutivamente una stessa moneta) l’esito di ciascuno dei lanci è indipendente dall’esito degli altri: il fatto che un lancio, ad esempio, abbia dato esito testa non influenza in alcun modo la probabilità degli esiti degli altri lanci. Lo stesso dicasi per il lancio di dadi. Dati due enunciati A e B, se essi sono indipendenti, allora si ha che: P(A  B) = P(A) · P(B)

81

Si noti che, poiché P(A) e P(B) sono numeri compresi tra 0 e 1, P(A) · P(B)  P(A) e P(A) · P(B)  P(B). Ad esempio, se lancio due volte una moneta, la probabilità che venga due volte di seguito testa è uguale a 1 · 1 = 1 . Lo stesso dicasi per la probabilità che al pri2

2

4

mo lancio venga testa e al secondo venga croce. Se i lanci consecutivi sono tre, la probabilità che venga tre volte testa è uguale a 1 · 1 · 1 = 1 , così come la probabilità che 2

2

2

8

venga, poniamo, testa al primo lancio, croce al secondo e croce al terzo. Se tiro due volte un dado, la probabilità che venga uno al primo lancio e quattro al secondo è uguale a 1 · 1 = 1 . E così via. 6 6 36

In generale, dati A e B qualunque (cioè, non necessariamente indipendenti), si ha che: P(A  B)  P(A)

P(A  B)  P(B)

e

Ossia, la probabilità di una congiunzione è sempre minore o uguale della probabilità dei due congiunti. Vale inoltre che, se P(A) = 1, allora P(A  B) = P(B). Da questi due fatti segue che: P(A) 1 1 0 0

P(B) 1 0 1 0

P(A  B) 1 0 0 0

Ossia, se ci si limita ai valori 0 e 1, la congiunzione nella logica della probabilità si comporta come la congiunzione della logica classica4. 4

Tutti i fatti sulla logica della probabilità che abbiamo enunciato in

82

3.2.2 Illusioni cognitive e ragionamento probabilistico Passiamo ora ad alcune considerazioni di ordine descrittivo sul ragionamento probabilistico. Anche in questo ambito si verificano delle «illusioni cognitive», cioè degli errori sistematici e tenaci del tipo di quelli incontrati per il ragionamento deduttivo (par. 2.1.3). Vediamo qualche esempio. Supponete di effettuare sei lanci consecutivi di una moneta. Su quale delle due sequenze di esiti della Fig. 3.1 scommettereste (quale cioè riterreste più probabile)?

1° lancio

2° lancio

3° lancio

4° lancio

5° lancio

6° lancio

(a)

(b)

Fig. 3.1

Oppure, su quale delle due sequenze di lanci di dadi della Fig. 3.2 scommettereste?

questo paragrafo possono essere derivati come teoremi a partire dalle seguenti premesse: P(A)  0; se A è una tautologia, allora P(A) = 1; se A e B sono mutuamente esclusivi, allora P(A  B) = P(A) + P(B). Questi tre enunciati vengono detti Assiomi di Kolmogorov per il calcolo della probabilità, dal nome del matematico russo che li ha introdotti. Essi non valgono solo nell’interpretazione classica della probabilità, ma anche in tutte le interpretazioni più diffuse.

83

1° lancio

2° lancio

3° lancio

4° lancio

5° lancio

6° lancio

(a)

(b)

Fig. 3.2

Di fronte a queste domande molte persone dichiarano di ritenere più probabile la sequenza (b). La (b) viene ritenuta più probabile perché, per il suo aspetto irregolare, è più simile all’idea che abbiamo di una sequenza «casuale». Tuttavia basta un minimo di riflessione per rendersi conto che le due sequenze sono ugualmente probabili. Nel caso della moneta (Fig. 3.1), come abbiamo visto, ogni lancio è un evento indipendente dai lanci precedenti, per cui la probabilità che si verifichi ciascuna delle due sequenze è esattamente 1 . 1 . 1 . 1 . 1 . 1 = 1 = 1 . 2

2

2

2

2

2

26

64

Analogamente, le sequenze (a) e (b) di lanci di un dado (Fig. 3.2) hanno esattamente la stessa probabilità, ossia 1 . 1 . 1 . 1 . 1 . 1 = 1 = 1 . 6

6

6

6

6

6

66

46656

Passiamo a un altro esempio di illusione cognitiva legata al ragionamento probabilistico. Supponiamo che la Fig. 3.3 sia un ritratto del signor Isacco. Supponiamo inoltre di disporre su di lui delle seguenti informazioni: – egli porta sempre il capo coperto; – non mangia né prosciutto né gamberi, e non prende mai il cheeseburger; 84

Fig. 3.3

– di sabato non lavora e non viaggia; – è circonciso. A questo punto, vi si chiede di scegliere tra i due enunciati seguenti: (3.5) Isacco è un ragioniere. (3.5’) Isacco è un ragioniere e un ebreo ortodosso.

Su quale dei due scommettereste? Ossia, quale dei due ritenete sia più probabile? Di fronte a scelte di questo tipo, moltissimi soggetti tendono sistematicamente a preferire (3.5’), tendono cioè a ritenere che (3.5’) sia più probabile di (3.5). Dal punto di vista della teoria della probabilità questo è un grave errore. Infatti (3.5’) ha la forma di una congiunzione, di cui (3.5) è uno dei congiunti – (3.5’) 85

è del tipo A  B. Quindi, come abbiamo visto, la probabilità di (3.5’) è minore o uguale alla probabilità di (3.5) da solo. Inoltre la probabilità di (3.5’) sarebbe uguale a quella di (3.5) soltanto se la probabilità che Isacco sia un ebreo ortodosso fosse uguale a 1, se cioè si avesse la certezza assoluta che Isacco è un ebreo ortodosso. Ma, date le informazioni a nostra disposizione, questo, per quanto molto verosimile, non è affatto certo. Di conseguenza, (3.5’) è strettamente meno probabile di (3.5), e quindi conviene certamente scommettere su (3.5). Il terzo esempio di illusione cognitiva di tipo probabilistico che esamineremo è molto noto. Ha anche ricevuto un nome specifico: è conosciuto come il dilemma di Monty Hall (il nome deriva dal conduttore di uno spettacolo televisivo a premi degli Stati Uniti, in cui ai concorrenti veniva proposto un quesito di questo tipo). Supponete che vi siano tre porte come quelle della Fig. 3.4. Dietro una delle tre porte è nascosto un premio, dietro le altre due non c’è nulla (oppure, nella versione televisiva del dilemma, c’è una capra). Un giocatore (che chiameremo G) deve indovinare dietro quale delle porte si trovi il premio. Se indovina, il premio è suo. Altrimenti non vince nulla. Un imbonitore (che chiameremo I) invita G a scegliere una delle tre porte senza aprirla. Supponiamo ad esempio che G scelga la porta B (Fig. 3.5). A questo punto la probabilità per G di avere indovinato la porta che nasconde il premio è di un terzo. Una o entrambe le porte rimanenti nascondono la capra. I (che sa dove è nascosto il premio) spalanca una delle due porte che non sono state scelte da G, scegliendo una porta dove lui sa che c’è la capra. Poniamo sia la porta A (Fig. 3.6). Ora I chiede a G se vuole continuare a puntare sulla porta B o se preferisce cambiare scelta e passare alla porta C. Quale alternativa è più conveniente per G? La maggior parte delle persone risponde che, dal punto di vista della probabilità, la scelta è del tutto indifferente: ci sarebbe il 50% delle probabilità che il premio sia in B e il 86

A

B

C

Fig. 3.4

A

B

C

Fig. 3.5

B

Fig. 3.6

87

C

50% che esso sia in C. Pertanto tenere B o passare a C sarebbe esattamente lo stesso. Ma le cose non stanno affatto così, e questo ragionamento è gravemente errato: in realtà ora la probabilità che il premio sia in B è sempre di 1/3, mentre ci sono ben 2/3 di probabilità che il premio si trovi in C. Per quanto ciò non sia affatto intuitivo, conviene di gran lunga passare a C. In questo modo infatti si raddoppiano le probabilità di vincere. Questa affermazione può essere dimostrata rigorosamente, ma la dimostrazione è abbastanza complessa, e non disponiamo degli strumenti tecnici per effettuarla5. Possiamo tuttavia giustificarla intuitivamente come segue. Supponiamo che, dopo che G ha scelto la porta B, I gli faccia la seguente proposta: «Puoi decidere se continuare a puntare su B, oppure scegliere di puntare contemporaneamente su entrambe le porte A e C (in questo secondo caso il premio sarà tuo sia che esso si trovi in A, sia che esso si trovi in C)». È chiaro a chiunque che G avrebbe tutta la convenienza ad abbandonare B per passare ad A più C. Tutti saremmo d’accordo che, tenendo B, la probabilità di vincere sarebbe di 1/3, mentre passando ad A più C sarebbe di 2/3. Nella versione originale del gioco, dopo che I ha spalancato la porta A, scegliere C dà la stessa probabilità di vincere che darebbe scegliere A e C assieme: I sa dov’è il premio, e ha spalancato una porta tra A e C dove sa che c’è la capra. È come se I avesse detto a G: «Guarda, tra A e C, A è sicuramente senza il premio. Quindi se il premio fosse stato in A o in C, adesso deve essere per forza in C». Dunque la probabilità che il premio ora sia in C è esattamente la stessa della probabilità che prima di aprire A esso fosse in A oppure in C. Un’altra giustificazione intuitiva è la seguente. Supponiamo che le porte non siano tre ma cento. Chiamiamole 5 Essa può essere dimostrata a partire da un importante risultato di teoria della probabilità noto come Teorema di Bayes.

88

A1, A2, ..., A100. Come prima, a G viene chiesto di scegliere una porta senza aprirla. Supponiamo che egli scelga la porta An. A questo punto I spalanca tutte le porte rimanenti tranne una (e tutte le porte che I spalanca sono porte che I sa essere senza premio). Sia Am la porta che I non apre. A G converrebbe mantenere la vecchia scelta (cioè la porta An) oppure passare ad Am? In questo caso è plausibile che la scelta più conveniente sarebbe quella di passare ad Am. È intuitivo che, tenendo An, la probabilità di vincere è di 1/100, mentre passando ad Am è di ben 99/100. Ma la struttura del problema è esattamente la stessa di quella del dilemma originario; l’unica cosa che è cambiata è il numero delle porte. Se nessuna di queste argomentazioni vi ha convinto, un’ulteriore possibilità consiste nel vedere empiricamente cosa succede provando a ripetere il gioco molte volte. Siccome giocare davvero è abbastanza complicato, può essere utile disporre di un programma che simuli il gioco. Nella sezione Cos’altro leggere è riportato l’indirizzo di un sito dove si trova un programma del genere. Se vi collegherete potrete giocare ripetutamente molte partite, decidendo ogni volta quale strategia utilizzare (se cioè mantenere la vostra scelta iniziale oppure cambiarla). Il programma riporta le percentuali delle vincite ottenute con ciascuna strategia. Dopo aver giocato un buon numero di partite potrete constatare che con la prima strategia si ottiene circa il 33% di vittorie, con la seconda circa il 66%. 3.2.3 Fallacie del ragionamento induttivo e probabilistico Nella letteratura sono riportati diversi tipi di fallacie induttive, ossia di fallacie relative a forme di ragionamento di tipo induttivo o probabilistico. Qui di seguito ne vedremo alcuni. La cosiddetta generalizzazione azzardata è una generalizzazione di tipo statistico o induttivo che viene tratta a 89

partire da una base di evidenza decisamente insufficiente. Ad esempio: Ho comprato tre gerani e li ho messi sul mio balcone. Nel giro di un mese sono morti tutti. QUINDI: *Sul mio balcone non c’è un clima adatto per i gerani.

L’evidenza a partire dalla quale viene effettuata questa generalizzazione è troppo limitata. I gerani potrebbero essere morti per mille ragioni diverse dal clima del mio balcone; ad esempio perché chi me li ha venduti mi ha imbrogliato, oppure perché non sono capace di accudirli. Lo stesso vale per l’esempio seguente: Non conosco nessuno che voti no al referendum. QUINDI: *Probabilmente vincerà il sì.

Si ricordino le considerazioni sulle generalizzazioni statistiche del par. 3.1.1. Un altro esempio di generalizzazione azzardata è il seguente: Il mese scorso ho incontrato O. e sono scivolato su una buccia di banana. Due settimane fa O. mi ha telefonato e a momenti finivo sotto una macchina. Ieri ho incontrato di nuovo O. e ho perso 50 euro dal portafogli. QUINDI: *O. porta scalogna.

In questo caso, non solo l’evidenza da cui si parte è troppo limitata, ma i fenomeni considerati sono così eterogenei tra loro da non costituire in alcun modo un buon punto di partenza per una generalizzazione. (Detto in altri termini: portare scalogna non è un buon candidato a essere un predicato proiettabile.) Un fenomeno collegato alle fallacie induttive e, in particolare, alla generalizzazione azzardata, che è stato ogget90

to di studio da parte degli psicologi, è il cosiddetto bias della disponibilità (availability bias). Quando le persone devono valutare la probabilità di certi eventi tendono sistematicamente a sopravvalutare la frequenza di quegli eventi che risultano più connotati emotivamente, oppure sui quali è stata di recente guidata l’attenzione (ad esempio, da parte dei mezzi di comunicazione). Insomma, la gente tende a considerare più probabile ciò di cui si parla molto e che suscita forti emozioni. È come se nella nostra memoria tali eventi risultassero più disponibili. Ad esempio, di solito le persone tendono a sopravvalutare il rischio di disastri aerei perché i pochi aerei che cadono fanno certamente più notizia degli innumerevoli aerei che arrivano a destinazione sani e salvi (si è constatato inoltre che tale tendenza aumenta dopo che si è verificato qualche grave incidente). Analogamente, molti di noi probabilmente sopravvaluterebbero la probabilità per chi vive a Baghdad di essere vittima di un attentato suicida. Un meccanismo simile spinge anche i partecipanti ai giochi d’azzardo «di massa» (come lotto, superenalotto, ecc.) a sopravvalutare la probabilità (per lo più remota) di vincere. La cosiddetta fallacia del giocatore si basa sulla credenza errata che, in una sequenza di eventi indipendenti, l’esito degli eventi precedenti possa influenzare quello dei successivi. Si tratta di una fallacia tipica del giocatore d’azzardo ingenuo. Questo è un esempio tratto dal gioco del lotto: Da più di duecento estrazioni il 23 non esce sulla ruota di Napoli. QUINDI: *Alla prossima estrazione è probabile che esca il 23 sulla ruota di Napoli.

Oppure, nel caso di un giocatore di roulette: Sono cinque volte di seguito che esce un numero rosso. QUINDI: *Conviene puntare sul nero.

91

In entrambi i casi la probabilità di un evento non è influenzata dagli eventi precedenti. Nel primo caso a ogni estrazione la probabilità che esca 23 è esattamente la stessa, ed è uguale a 1/18 (perché ogni volta vengono estratti cinque numeri; se venisse estratto un solo numero alla volta la probabilità sarebbe, ovviamente, di 1/90); nel secondo caso la probabilità che esca rosso (o nero) è sempre un po’ meno di 1/2 (perché c’è lo zero che non è né rosso né nero; per la precisione la probabilità che esca rosso – o nero – è di 18/37, e di 18/38 = 9/19 nella roulette americana dove c’è anche il doppio zero). 3.3 Logica «fuzzy» 3.3.1 Una logica dei predicati «sfumati» Fino ad ora abbiamo assunto implicitamente che i predicati si applichino, per così dire, in maniera «tutto o niente»: qualcosa o è un cane o non lo è, un numero è pari o non lo è; non ha senso dire che un certo individuo è un cane (o che è un numero pari) soltanto a un certo grado. Non tutti i predicati però si comportano in questo modo. Consideriamo ad esempio predicati come giovane, anziano, grande, piccolo, alto, veloce, nuovo. In casi come questi non c’è un confine netto tra gli individui cui il predicato si applica e quelli cui il predicato non si applica. Prendiamo in considerazione il predicato giovane (applicato a esseri umani). Una persona di 20 anni è certamente giovane, una persona di 80 certamente non lo è. Ma a che età una persona smette di essere giovane? Non è plausibile individuare un confine preciso. Si smette di essere giovani un po’ alla volta. Per cui per enunciati come Mario è giovane è poco plausibile assumere il principio di bivalenza (secondo cui un enunciato non può essere altro che vero o falso). L’enunciato Mario è giovane smette di essere vero un po’ alla volta, proprio come Mario smette un po’ alla volta di essere giovane. Un predicato come giovane è un 92

esempio di predicato vago o sfumato. Un modo per trattare gli enunciati in cui compaiano predicati vaghi consiste nell’assumere che esistano valori di verità intermedi tra il vero e il falso. Questa tecnica è impiegata in un tipo di logiche che sono dette logiche sfumate (o, in inglese, fuzzy logic). Nelle logiche fuzzy i valori di verità degli enunciati vengono espressi come numeri compresi tra 0 e 1. Il valore di verità 0 corrisponde al falso, il valore di verità 1 corrisponde al vero, gli altri numeri sono valori intermedi tra il vero e il falso. Ad esempio, un enunciato con valore di verità 0,93 sarà quasi vero, uno con valore 0,12 sarà quasi falso, uno con valore 0,48 sarà per così dire a circa metà strada tra il vero e il falso. Il valore di verità degli enunciati è determinato a partire dal modo in cui funzionano i predicati fuzzy (ossia, appunto, sfumati). Ad esempio, un predicato come giovane avrà un comportamento del tipo di quello mostrato dal diagramma della Fig. 3.7.

1–

– 0

25

45

Fig. 3.7

Sull’asse delle ascisse è rappresentata l’età, sull’asse delle ordinate l’intervallo dei valori di verità. Il diagramma si legge in questo modo. Assumiamo che una persona a fino ai 25 anni sia da considerare giovane a tutti gli effetti. Quindi, se a ha meno di 25 anni, allora Giovane(a) 93

avrà valore di verità 1. Una persona che ha, poniamo, più di 45 anni è da considerare a tutti gli effetti non più giovane. Per cui, se a ha più di 45 anni, Giovane(a) avrà valore di verità 0. Per le età intermedie, il valore di verità di Giovane(a) seguirà l’andamento della curva. Analogamente, un predicato come anziano avrà un andamento del tipo di quello della Fig. 3.8.

1–

– 0

60

80

Fig. 3.8

In questo caso si assume che chi ha meno di 60 anni non sia anziano, e che chi ne ha più di 80 sia anziano a tutti gli effetti. Per i casi intermedi la proprietà essere anziano cresce in maniera graduale. Anche i predicati di colore sono predicati fuzzy: non c’è un salto netto tra ciò che è, poniamo, giallo e ciò che non lo è. I colori sfumano in maniera graduale dal giallo all’arancione da una parte, e dal giallo al verde e al blu dall’altra. La struttura fuzzy dei predicati di colore potrebbe pertanto essere rappresentata più o meno come nella Fig. 3.9, dove l’asse delle ascisse corrisponde alla lunghezza d’onda della luce. La logica fuzzy è stata sviluppata a partire dagli anni Settanta nel contesto dell’intelligenza artificiale e dell’ingegneria dei controlli automatici, per rappresentare tipi di conoscenza e modellare sistemi difficili da trattare con gli 94

1– ROSSO

GIALLO

BLU

– 0

Fig. 3.9

strumenti tradizionali. Ci sono delle somiglianze con la logica della probabilità. Ad esempio, sia in quest’ultima che nella logica fuzzy i valori di verità degli enunciati variano nell’intervallo dei numeri compresi tra 0 e 1. Tuttavia gli obiettivi di questi due tipi di logica sono diversi. Nel caso della logica della probabilità i valori intermedi tra 0 e 1 vengono usati per rappresentare il fatto che si ha una conoscenza incompleta sul verificarsi o meno di certi eventi: prima di lanciare una moneta non si sa se l’esito sarà testa oppure croce. Si sa soltanto che i due eventi hanno pari probabilità, quindi gli si attribuisce valore 1/2. Tuttavia una volta che il lancio è stato effettuato o l’esito è stato testa oppure è stato croce. Non sono possibili casi intermedi, e non c’è nulla di vago o sfumato. Se invece so che Giorgio ha 65 anni e voglio esprimere il fatto che egli è anziano soltanto a un certo grado, questo non dipende da una mia mancanza di conoscenza sullo stato del mondo. Il problema non ha a che fare col fatto che non sono certo delle mie informazioni. Si tratta piuttosto di come funziona il predicato giovane. Vediamo come possono essere caratterizzati i connettivi in una logica fuzzy. La negazione viene definita come segue: A=1–A

95

 P(x) 1–

– 0

P(x)

Fig. 3.10

Ossia, il valore di verità fuzzy di un enunciato  A viene ottenuto sottraendo da 1 il valore di verità dell’enunciato A. Così se A vale 0, allora  A vale 1, se A vale 1, allora  A vale 0, se A vale 0,25, allora  A vale 0,75, e così via. Di conseguenza, se il predicato P(x) ha l’andamento indicato dalla linea continua nella Fig. 3.10, il predicato  P(x) ha l’andamento indicato dalla linea tratteggiata. Per definire la congiunzione e la disgiunzione sono possibili diverse alternative, che danno luogo a tipi diversi di logica fuzzy. Prenderemo in considerazione la soluzione più semplice, che consiste nel definire la congiunzione e la disgiunzione di due enunciati rispettivamente come il minimo e il massimo tra i valori dei due enunciati. Dunque, nel caso della congiunzione, si ha che: A  B = Min {A, B}

Per cui se A vale 0 e B vale 1, A  B varrà 0, se A vale 0,75 e B vale 0,62 A  B varrà 0,62, e così via. Di conseguenza, se i predicati P(x) e Q(x) hanno l’andamento rappresentato dalle linee tratteggiate nella Fig. 3.11, il predicato P(x)  Q(x) avrà l’andamento rappresentato dalla linea continua. 96

1– P(x) – 0

Q(x)

P(x)  Q(x)

Fig. 3.11

La disgiunzione si definisce come: A  B = Max {A, B}

Per cui se A vale 0 e B vale 1, A  B varrà 1, se A vale 0,75 e B vale 0,62, A  B varrà 0,75, e così via. Di conseguenza, se i predicati P(x) e Q(x) hanno l’andamento rappresentato dalle linee tratteggiate nella Fig. 3.12, il predicato P(x)  Q(x) avrà l’andamento rappresentato dalla linea continua.

1– P(x) – 0

Q(x)

P(x)  Q(x)

Fig. 3.12

97

Come avevamo già constatato per la logica della probabilità, anche in questo caso, in base alle definizioni date, se ci si limita a enunciati che hanno come valori di verità 0 e 1, si ottengono le stesse tavole di verità della logica proposizionale classica. 3.3.2 Il sorite Il sorite è un paradosso che deriva dall’impiego di predicati vaghi o sfumati. Un esempio tradizionale di sorite è il seguente: Chi ha 0 capelli è calvo. Se chi ha n capelli è calvo, allora chi ha n + 1 capelli è a sua volta calvo. QUINDI: *Per qualsiasi n, chi ha n capelli è calvo.

La prima premessa non crea problemi: chi non ha capelli è certamente calvo. Anche la seconda premessa intuitivamente sembra accettabile: se a un calvo trapiantassimo un solo capello, questo non basterebbe certo per far sì che egli smetta di essere calvo. Ma, prese assieme, queste due premesse portano a una conclusione inaccettabile. Aggiungendo un capello alla volta, si può arrivare a qualsiasi numero di capelli. Dovremmo pertanto concludere che chiunque è calvo, compreso il cugino Itt della famiglia Addams. Il sorite è noto anche come paradosso del mucchio perché talvolta lo si formula in questo modo: Un milione di chicchi di grano formano un mucchio. Se da un mucchio si toglie un chicco, ciò che resta è ancora un mucchio. QUINDI: *Un solo chicco di grano forma un mucchio.

Una possibile via d’uscita consiste nell’utilizzare la logica fuzzy. L’idea di fondo è grosso modo la seguente. L’asserzione che qualcuno è calvo non avrebbe un valore di ve98

rità binario, o vero o falso. Il suo valore di verità sarebbe sfumato e andrebbe da 1 (quando la persona in questione non ha nemmeno un capello, o ne ha pochissimi) a 0 (quando la persona ha moltissimi capelli), passando attraverso un insieme di valori intermedi. In base a questa impostazione, il valore di verità di Chi ha n capelli è calvo diminuisce un po’ alla volta al crescere del numero n dei capelli. A un certo punto, per valori grandi di n, Chi ha n capelli è calvo avrà un valore di verità molto piccolo, e poi uguale a zero. Potremmo quindi riformulare così le premesse dell’inferenza precedente: Chi ha 0 capelli è calvo con valore di verità 1. Se chi ha n capelli è calvo con valore di verità f(n), allora chi ha n + 1 capelli è calvo con valore di verità f(n + 1).

dove f è la funzione che esprime il valore di verità di Chi ha n capelli è calvo al variare del numero n dei capelli, il cui grafico ha un andamento simile a quello della Fig. 3.13.

1–

– 0

numero n di capelli

Fig. 3.13

Per un numero n di capelli piccolo la persona è completamente calva, e il valore di f (ossia, il valore di verità di Chi ha n capelli è calvo) è 1; poi, man mano che i capelli aumentano, il valore di f comincia a decrescere, finché raggiunge lo 0 (ora la persona è completamente non calva). 99

Adesso è possibile effettuare questa inferenza: Chi ha 0 capelli è calvo con valore di verità 1. Se chi ha n capelli è calvo con valore di verità f(n), allora chi ha n + 1 capelli è calvo con valore di verità f(n + 1). QUINDI: Per qualsiasi n esiste un numero m per cui chi ha n capelli è calvo con valore di verità m.

Ora la conclusione è accettabile, perché m può essere molto piccolo o uguale a 0.

4.

Razionalità limitate

Tradizionalmente, la logica, come le altre discipline che studiano il ragionamento da un punto di vista normativo, ha proposto modelli molto idealizzati delle prestazioni inferenziali. La logica non tiene conto dei vincoli inerenti, ad esempio, il fatto che il tempo per effettuare una data inferenza di solito è limitato, oppure che le informazioni disponibili come premesse sono per lo più tutt’altro che complete. Questo capitolo è dedicato ad analizzare le prestazioni inferenziali di agenti cognitivi sottoposti a vincoli di questo tipo. A tal fine prenderemo le mosse da alcune ricerche sviluppate per lo più nel contesto dell’intelligenza artificiale. Con la nascita dell’intelligenza artificiale, molti ricercatori hanno applicato gli strumenti e le tecniche della logica a questo nuovo settore. Tuttavia chi fa intelligenza artificiale si pone da un punto di vista profondamente diverso rispetto al logico tradizionale. L’intelligenza artificiale ha come scopo la progettazione di sistemi che siano in grado di operare in condizioni realistiche, e che quindi sono sottoposti a vincoli molto forti (devono agire velocemente, devono prendere decisioni anche se non dispongono di tutte le informazioni rilevanti, e così via). Questo ha posto alla logica e, più in generale, allo studio del ragionamento problemi nuovi, e ha portato ad alcuni degli sviluppi più interessanti degli ultimi decenni. Parleremo di alcuni di questi sviluppi, assieme ad altri te101

mi, come il ragionamento abduttivo (par. 4.3), in parte collegati ad essi. 4.1 Il ragionamento non monotòno 4.1.1 Che cos’è un ragionamento non monotòno In matematica si dice monotòna una funzione il cui andamento è sempre crescente oppure sempre decrescente1. Ad esempio sono monotòne (crescenti) le funzioni che hanno grafici come quelli della Fig. 4.1.

Fig. 4.1

In questi casi il valore dell’ordinata y cresce monotonicamente al crescere del valore dell’ascissa x. Viceversa, non sono monotòne le funzioni che hanno grafici come quelli della Fig. 4.2, il cui andamento è a tratti crescente e a tratti decrescente. 1 Per essere più precisi, si dovrebbe dire che una funzione è monotòna quando è sempre non decrescente oppure sempre non crescente, in quanto una funzione è monotòna anche quando vi sono dei tratti in cui è costante.

102

Fig. 4.2

La logica tradizionale si dice monotòna nel senso seguente: al crescere dell’insieme delle premesse, l’insieme delle conclusioni che se ne possono trarre cresce, o al più resta stabile. Ossia, non può accadere che, aggiungendo nuove premesse, alcune conclusioni cessino di essere tali. In altri termini, se dall’insieme di premesse P1, ..., Pn si può trarre come conclusione l’enunciato C, dall’insieme di premesse P1, ..., Pn, Pn+1 (che estende l’insieme di premesse precedente) si potrà ancora trarre C come conclusione, qualunque sia la nuova premessa Pn+1. Quindi, l’insieme delle conclusioni cresce monotonicamente al crescere dell’insieme delle premesse. Questo accade perché, se C è conseguenza logica di P1, ..., Pn, allora, per qualunque formula Pn+1, C è conseguenza logica anche di P1, ..., Pn, Pn+1. Nel ragionamento ordinario si usano spesso tipi di inferenze che non godono della proprietà sopra enunciata. Questi ragionamenti vengono detti non monotòni. Un esempio è il ragionamento per default visto nel par. 1.1: (4.1) Gli uccelli, salvo alcune eccezioni, sono in grado di volare. Titti è un uccello. QUINDI: Titti è in grado di volare.

103

Supponiamo infatti di aggiungere due nuove premesse: Titti è un pinguino. I pinguini sono uccelli che non sono in grado di volare.

Ora non possiamo più trarre la conclusione che Titti è in grado di volare: Gli uccelli, salvo alcune eccezioni, sono in grado di volare. Titti è un uccello. Titti è un pinguino. I pinguini sono uccelli che non sono in grado di volare. QUINDI: Titti è in grado di volare.

(Anzi, dal nuovo insieme di premesse dovremo trarre la conclusione che Titti non è in grado di volare, ossia la negazione della conclusione precedente.) Sempre nel capitolo 1, abbiamo visto che il ragionamento per default non è una forma di inferenza logicamente corretta. La conclusione non è conseguenza logica delle premesse. Essa è, per così dire, soltanto provvisoria. In mancanza di informazioni più precise, si trae come conclusione un certo enunciato; se tuttavia, alla luce di nuove informazioni, questa conclusione risultasse non essere più adeguata, essa dovrà essere scartata. Nell’esempio, l’informazione che Titti è un pinguino e che i pinguini sono uccelli che non sono in grado di volare risulta incompatibile con la conclusione precedente; pertanto quest’ultima viene accantonata. (In inglese la parola default indica, tra le varie accezioni, un’opzione che viene scelta automaticamente a meno che non venga specificato il contrario. Nell’esempio precedente, se so che un certo individuo x è un uccello e non viene specificato nient’altro – ad esempio che si tratta di un pinguino – assumo per default che x voli. Questo modo di esprimersi si è diffuso anche nella nostra lingua attraverso il gergo informatico, dove si usa per indicare, ad esempio, le opzioni scelte automaticamente da un pro104

gramma, come nella frase: Il programma Microsoft Word mette per default la lettera maiuscola dopo il punto.) Il ragionamento non monotòno viene detto anche defeasible reasoning, ossia, letteralmente, «ragionamento annullabile». Di solito, defeasible reasoning si traduce in italiano con ragionamento rivedibile. Si potrebbe pensare che sia possibile ricondurre questi ragionamenti a inferenze logicamente corrette specificando in maniera più dettagliata le premesse. Nell’esempio di Titti, anziché formulare la prima premessa come Gli uccelli, salvo alcune eccezioni, sono in grado di volare avremmo potuto dire: Gli uccelli che non sono pinguini sono in grado di volare. Ma questo porrebbe immediatamente due problemi. Il primo consiste nel fatto che i pinguini non sono l’unica eccezione alla regola che gli uccelli sono in grado di volare. Ad esempio, anche gli struzzi sono uccelli che non volano. Anche le galline. Anche i tacchini, o il dodo. Inoltre ci sono gli uccelli appena nati e quelli gravemente malati. Oppure quelli legati. O quelli a cui è stato iniettato un liquido paralizzante. E così via. Vale a dire: il fatto che gli uccelli volino è una regola che vale nella maggior parte dei casi; essa tuttavia ammette un numero imprecisato di eccezioni, tali che è praticamente impossibile elencarle tutte in modo esaustivo. Supponiamo tuttavia di essere riusciti in qualche modo a risolvere questo problema. Supponiamo cioè di essere riusciti a definire un predicato P come segue: x è un P se e soltanto se x è un pinguino oppure è uno struzzo oppure è una gallina oppure è un tacchino oppure è un dodo oppure è un uccello appena nato oppure è molto malato oppure è legato oppure gli è stato iniettato un liquido paralizzante oppure...

dove al posto dei puntini sono elencati tutti gli altri casi possibili in cui un individuo è un uccello ma non vola. Ossia, P è il predicato che si applica a tutti gli uccelli «ano105

mali» che non sono in grado di volare. A questo punto, le premesse del ragionamento (4.1) possono essere riformulate come segue: Gli uccelli che non sono P sono in grado di volare. Titti è un uccello.

Ora però (e in ciò consiste il secondo problema) da queste due premesse non posso inferire in maniera logicamente corretta che Titti è in grado di volare. Per fare ciò avrei bisogno di un’ulteriore premessa, ossia: Titti non è P.

Cioè, per dedurre in modo logicamente corretto che Titti è in grado di volare devo anche sapere che Titti non è un pinguino, non è uno struzzo, non è un dodo, ecc. Ma non è questo il senso del ragionamento per default. In generale, io non ho (e non posso avere) tutte queste informazioni su Titti. Il mio scopo, avendo a disposizione la sola informazione (incompleta) che Titti è un uccello, è saltare alla conclusione che, per quanto ne so, Titti dovrebbe essere in grado di volare, salvo poi essere disposto in seguito, alla luce di ulteriori informazioni, a ritirare questa conclusione. Vale a dire, i ragionamenti non monotòni sono ragionamenti fallibili tratti sulla base delle informazioni incomplete di cui si può disporre in un determinato momento. 4.1.2 Logiche per il ragionamento non monotòno Abbiamo visto che i ragionamenti non monotòni non corrispondono a inferenze logicamente corrette, nel senso tecnico che la conclusione non è conseguenza logica delle premesse. Tuttavia, ciò non esclude che si possano usare strumenti di tipo logico per studiare le inferenze non monotòne. In anni recenti infatti sono stati sviluppati diversi sistemi di logica non monotòna, ossia modelli del ragionamento 106

non monotòno che si basano sulle tecniche della logica formale. Ciò è avvenuto soprattutto nell’ambito dell’intelligenza artificiale, in quanto in questo settore è particolarmente importante disporre di modelli realistici delle capacità di ragionamento di agenti che hanno un accesso limitato alle informazioni. Darò qui di seguito, in maniera del tutto informale, alcuni cenni su due maniere diverse di impostare lo studio logico del ragionamento non monotòno. La prima strategia va sotto il nome di circumscription, ed è stata proposta da John McCarthy, un logico e informatico che è unanimemente considerato tra i padri fondatori dell’intelligenza artificiale. L’idea alla base della circumscription è che alcuni predicati si applicano solo in casi, per così dire, eccezionali. Nel ragionamento quotidiano di solito assumiamo implicitamente che tali predicati non valgano, a meno che non si sappia esplicitamente il contrario. Un esempio potrebbe essere il predicato daltonico. Le persone daltoniche sono abbastanza poche rispetto all’insieme degli esseri umani. Solitamente, quando si ragiona su una persona che non si conosce, non si prende in considerazione la possibilità che sia daltonica, a meno che non si disponga di qualche informazione esplicita al proposito. Se ad esempio ho a disposizione le seguenti informazioni su Achille: (4.2) Achille vive a New York. (4.3) Roberto ha invitato Achille a tenere un seminario.

non sapendo nulla di più preciso sono propenso ad assumere che Achille non sia daltonico. Tuttavia questa non è un’inferenza logicamente corretta. Con la logica dei predicati, a partire dalle premesse (4.2-3) non posso trarre alcuna conclusione a proposito dell’essere daltonico o meno né di Achille, né di nessun altro. Non posso cioè derivare nessuno dei seguenti enunciati: Achille è daltonico, Achille non è daltonico, Roberto è daltonico, Roberto non è 107

daltonico, Qualcuno è daltonico, Qualcuno non è daltonico, Nessuno è daltonico, Tutti sono daltonici. L’idea di fondo alla base della circumscription è quella di circoscrivere predicati come daltonico, ossia di assumere che questi predicati abbiano l’estensione più piccola possibile compatibilmente con le informazioni disponibili. Si assume cioè che il numero degli individui che godono di quella proprietà sia il più piccolo possibile compatibilmente con ciò che sappiamo. Ad esempio, circoscrivere daltonico date le premesse (4.2-3) equivale ad assumere che nessuno sia daltonico. Questo equivale ad introdurre una nuova premessa «provvisoria» che indicherò tra parentesi quadre (dal punto di vista tecnico ciò si può ottenere utilizzando opportuni assiomi formulati nella logica dei predicati del secondo ordine). (4.2) Achille vive a New York. (4.3) Roberto ha invitato Achille a tenere un seminario. [Nessuno è daltonico.]

Ora, da questo nuovo insieme di premesse si possono trarre le conclusioni Roberto non è daltonico e Achille non è daltonico effettuando usuali inferenze (logicamente corrette) della logica dei predicati. Supponiamo ora di venire a sapere che Achille è daltonico. Si deve aggiungere questa nuova informazione alle premesse (4.2-3): (4.2) Achille vive a New York. (4.3) Roberto ha invitato Achille a tenere un seminario. (4.4) Achille è daltonico.

Adesso, date queste premesse, il più piccolo insieme dei daltonici è costituito dal solo Achille. Facendo la circumscription di daltonico in (4.2-4) otterremo quindi: 108

(4.2) Achille vive a New York. (4.3) Roberto ha invitato Achille a tenere un seminario. (4.4) Achille è daltonico. [L’unico daltonico è Achille.]

Da questo nuovo insieme di premesse posso ancora derivare Roberto non è daltonico, ma non più Achille è daltonico. La tecnica della circumscription si può adoperare per trattare l’esempio di Titti. In questo caso si deve procedere come segue. La prima premessa deve essere espressa nella forma: Gli uccelli che non siano uccelli anomali sono in grado di volare. A questo punto, date le premesse: Gli uccelli che non siano uccelli anomali sono in grado di volare. I pinguini sono uccelli anomali che non sono in grado di volare. Titti è un uccello.

si circoscrive il predicato essere un uccello anomalo. Date queste informazioni, l’insieme più piccolo di uccelli anomali è l’insieme vuoto. Pertanto circoscrivere essere un uccello anomalo equivale ad aggiungere la premessa [Non c’è alcun uccello che sia anomalo]. Per cui si avrà: Gli uccelli che non siano uccelli anomali sono in grado di volare. I pinguini sono uccelli anomali che non sono in grado di volare. Titti è un uccello. [Non c’è alcun uccello che sia anomalo.] QUINDI: Titti è in grado di volare.

Se poi però si aggiunge la nuova premessa che Titti è un pinguino, allora il più piccolo insieme di uccelli anomali compatibile con le premesse è costituito dal solo Titti, e la circumscription di essere un uccello anomalo equivarrà ad assumere che [L’unico uccello anomalo è Titti], per cui si avrà: 109

Gli uccelli che non siano uccelli anomali sono in grado di volare. I pinguini sono uccelli anomali che non sono in grado di volare. Titti è un uccello. Titti è un pinguino. [L’unico uccello anomalo è Titti.] QUINDI: Titti è in grado di volare.

L’idea intuitiva è abbastanza semplice e ragionevole. Le cose diventano più complicate quando si tratta di darne un trattamento formale rigoroso (specialmente nel caso vi siano più predicati diversi da circoscrivere contemporaneamente). Un modo differente di affrontare il ragionamento non monotòno è quello della logica di default (default logic) proposta da Raymond Reyter. Nella default logic una generalizzazione che ammette eccezioni del tipo Se A allora, salvo eccezioni, B viene rappresentata per mezzo di una regola di inferenza (detta regola di default) del tipo: A È consistente credere che B QUINDI: B

Ossia: data la premessa A, se assumere che sia vero B non crea contraddizioni con tutto ciò che sappiamo, allora assumiamo che sia vero B. Ad esempio, la premessa Gli uccelli, salvo alcune eccezioni, sono in grado di volare viene rappresentata per mezzo della regola: x è un uccello. È consistente credere che x sia in grado di volare. QUINDI: x è in grado di volare.

110

Poiché date le premesse: Titti è un uccello. I pinguini sono uccelli che non sono in grado di volare.

si può assumere senza generare contraddizioni che Titti sia in grado di volare, da tali premesse per mezzo della regola di default sopra enunciata è possibile derivare: Titti è in grado di volare.

Se aggiungiamo la nuova premessa secondo cui Titti è un pinguino, allora assumere che Titti sia in grado di volare genererebbe una contraddizione. Pertanto si avrà: Titti è un uccello. Titti è un pinguino. I pinguini sono uccelli che non sono in grado di volare. QUINDI: Titti è in grado di volare.

4.1.3 «Argumenta ad ignorantiam» e negazione come fallimento L’argumentum ad ignorantiam è una fallacia che tuttavia presenta punti di contatto con alcune forme legittime di ragionamento non monotòno. Si ha un argumentum ad ignorantiam quando, a partire dal fatto che non si dispone di prove definitive a favore di una certa tesi, si conclude che la tesi è falsa (o, viceversa, a partire dal fatto che non si dispone di prove definitive contro una certa tesi, si conclude che la tesi è vera). Abbiamo cioè uno schema di ragionamento di questo tipo: Non sappiamo che A QUINDI: *Non A

111

Oppure: Non sappiamo che non A QUINDI: *A

Ad esempio: Nessuno ha mai provato che gli OGM siano dannosi. QUINDI: *Gli OGM non sono dannosi.

Oppure: Nessuno ha mai provato che gli OGM non siano dannosi. QUINDI: *Gli OGM sono dannosi.

È chiaro che si tratta di non sequitur: dalla nostra ignoranza su un certo enunciato non siamo autorizzati a concludere che sia vera la sua negazione (anche se spesso ragionamenti di questo genere vengono usati, ad esempio, nella propaganda politica). Ovviamente, il discorso è diverso per ragionamenti come questi, che sono invece legittimi: Non sappiamo se questi funghi siano commestibili. QUINDI: Nel dubbio, è meglio non mangiarli. Nessuno ha mai provato che gli OGM non siano dannosi. QUINDI: Nel dubbio, per il momento è meglio astenersene.

Qui non usiamo la nostra ignoranza su un dato tema per concludere la verità o la falsità di qualche enunciato. Ci limitiamo a constatare che, in mancanza di informazioni più approfondite, è meglio comportarsi con cautela. Esistono però ragionamenti che hanno una struttura simile ad un argumentum ad ignorantiam e che tuttavia, pur 112

non essendo logicamente corretti, possono essere legittimi. Si consideri questo esempio: Sull’orario non c’è alcun treno per Napoli che parta tra le 5 e le 6. QUINDI: Nessun treno per Napoli parte tra le 5 e le 6.

Questo ragionamento è del tutto accettabile (di fatto, ragioniamo in questo modo ogni volta che, consultando l’orario, non troviamo ciò che cerchiamo). Tuttavia, ripeto, non si tratta di un’inferenza logicamente corretta. Essa è lecita nella misura in cui si può ritenere che l’orario sia ragionevolmente completo, per cui, se non vi si trova un treno con determinate caratteristiche, siamo autorizzati a credere che un treno siffatto non esista. Ma ciò non è garantito in assoluto. Per qualche ragione, ad esempio, potrebbero essere stati aggiunti dei treni straordinari che sull’orario non figurano. In generale, in logica, se da un insieme di premesse P1... Pn non si può derivare una certa conclusione C, non è affatto detto che da P1... Pn si possa derivare non C. In informatica e in intelligenza artificiale vengono però studiate forme di ragionamento in base a cui, a determinate condizioni, se da un certo insieme di premesse non è possibile derivare una certa conclusione, allora si assume che valga la sua negazione. Questo è lecito a condizione che: a) si possa ritenere che l’insieme di premesse costituisca una descrizione ragionevolmente completa del dominio in questione (come nel caso dell’orario dei treni), e che b) si sia sempre disposti a rivedere le conclusioni che sono state tratte, che devono comunque sempre essere considerate provvisorie e rivedibili. Si tratta dunque di una forma di ragionamento non monotòno. La conclusione non C è provvisoria e potrebbe essere accantonata se si disponesse di nuove premesse. Ad esempio, se si venisse a sapere che sono stati aggiunti dei treni straordinari, si dovrà rivedere la conclusione precedente: 113

Sull’orario non c’è alcun treno per Napoli che parta tra le 5 e le 6. Hanno appena annunciato un treno straordinario in partenza alle 5 e 23 per Campi Flegrei. QUINDI: Nessun treno per Napoli parte tra le 5 e le 6.

Questo tipo di ragionamento viene detto negazione come fallimento: se fallisce il tentativo di inferire A, allora si assume (provvisoriamente) che valga la negazione di A. Ossia: Da tutta la conoscenza disponibile non si può inferire A. QUINDI: (Fino a prova contraria) non A.

La negazione come fallimento è un tipo di inferenza non monotòna molto semplice, che viene spesso usata nelle basi di dati. Ad esempio, se nella base di dati degli iscritti all’Università Tal dei Tali non figura il nome di Marco Rossi, il sistema può concludere con ragionevole certezza che Marco Rossi non è iscritto a quell’ateneo. La negazione come fallimento è impiegata anche dal PROLOG, un linguaggio di programmazione basato sulla logica dei predicati, che viene usato in intelligenza artificiale. Questo genere di strategia si usa spesso anche nel ragionamento quotidiano. Ad esempio, potrei essere convinto che Renato non ha sorelle, non perché io abbia qualche particolare evidenza esplicita a favore di ciò (ad esempio perché Renato me lo ha detto, o perché ho consultato l’anagrafe), ma perché non ho alcuna ragione per credere il contrario: Renato non mi ha mai parlato di sorelle, conosco e ho sentito parlare solo di fratelli maschi pur avendo frequentato abbastanza a lungo lui e la sua famiglia, e così via. Insomma, assumo implicitamente che, se Renato avesse avuto una sorella, ne sarei venuto a conoscenza. Poi un giorno vengo a sapere che mi sbagliavo: Renato ha una sorella che vive da molti anni in Australia e con la quale, 114

per qualche ragione, lui e la sua famiglia hanno interrotto ogni rapporto. Sono quindi costretto a rivedere la mia conclusione originaria. Uno schema di questo tipo è implicito anche nel principio giuridico dell’habeas corpus, in base a cui chiunque è innocente fino a prova contraria. Ossia: Finora non si è dimostrato che Tizio è colpevole. QUINDI: Fino a prova contraria, assumiamo che Tizio non sia colpevole.

4.2 Saltare alle conclusioni Le inferenze non monotòne sono diffusissime nel ragionamento ordinario. Un ambito in cui se ne fa ampio uso è costituito dal ragionamento su azioni ed eventi. Si immagini un tavolo da biliardo su cui si trovano due bocce, x e y. Basta un po’ di geometria per formulare generalizzazioni del tipo: se si colpisce la boccia x con un certo angolo, allora la boccia x colpirà la boccia y e la manderà in buca. Ma regole di questo tipo devono essere sempre intese come generalizzazioni che ammettono eccezioni, un po’ come Gli uccelli, salvo alcune eccezioni, sono in grado di volare. Infatti è facilissimo immaginare situazioni, dalle più plausibili alle più fantasiose, in cui una regola del genere fallisce. Ossia, si possono concepire innumerevoli casi in cui la boccia x viene colpita con quella data inclinazione, ma la boccia y non finisce in buca. Ad esempio, potrebbe esserci una piccola imperfezione sul piano del biliardo che devia la traiettoria di una delle due bocce. Oppure qualcuno potrebbe urtare il tavolo mentre le bocce stanno rotolando. Un gatto potrebbe intercettare una delle bocce per giocarci. Potrebbe verificarsi una scossa di terremoto. Potrebbe improvvisamente crollare il pavimento. E così via. Questo è un caso particolare del cosiddetto frame problem – ossia, il problema della corni115

ce –, ben noto a chi studia tecniche di intelligenza artificiale per pianificare e ragionare su azioni nell’ambito della robotica. Se questo tipo di problemi si pone per un dominio semplice e tutto sommato ben delimitato come il gioco del biliardo, si può facilmente immaginare quanto sia complesso in ambiti meno strutturati. La presenza praticamente ubiqua di forme di ragionamento non monotòno nella vita quotidiana è dovuta al fatto che noi siamo agenti cognitivi limitati, che hanno soltanto un accesso parziale alle informazioni che sarebbero rilevanti per i loro scopi. Da qui la necessità di saltare alle conclusioni a partire da informazioni incomplete. Si tratta di un problema generale, il quale, oltre che l’ambito del ragionamento, riguarda anche altre prestazioni cognitive. Paradigmatico è il caso della percezione visiva. Ricostruire lo stato del mondo a partire dai dati che giungono ai sensori è un classico esempio di ciò che gli ingegneri chiamano un problema inverso mal posto. Vediamo di cosa si tratta per mezzo di un semplice esempio. Un problema diretto è un problema che ammette una soluzione univoca, come, ad esempio, il problema di individuare il numero che si ottiene sommando 5 e 2: 5+2=?

In questo caso la risposta è determinata univocamente: il numero cercato è 7. Supponiamo ora di porci la domanda inversa: quali sono due numeri che sommati tra loro producono 7 come risultato? ?+?=7

Ovviamente questa domanda non ammette una sola risposta. Anche se ci si limita ai numeri naturali, c’è più di una coppia di numeri la cui somma dà 7: 116

7 6 5 4 3 2 1 0

0 1 2 3 4 5 6 7

La seconda domanda costituisce un esempio di problema inverso mal posto. I problemi che deve risolvere il nostro sistema visivo quando ricostruisce gli stati del mondo esterno a partire dai dati percettivi assomigliano più al secondo caso che non al primo. Supponiamo che il segmento B si trovi nel campo visivo di un agente dotato di un occhio simile a quello degli esseri umani, come nella Fig. 4.3.

B B1

A

B2

Fig. 4.3

Sia A l’immagine proiettata da B sulla retina. Individuare A a partire da B è un esempio di problema diretto: dato B, A è determinata univocamente. Viceversa, a partire da A, il sistema non può essere in grado di ricostruire con certezza la posizione e le dimensioni di B. Infatti la proiezione A è compatibile con molti (anzi con infiniti) altri segmenti che differiscono da B sia per posizione che per dimensioni, come ad esempio B1 o B2. In altri termini, a partire da una proiezione retinica come A, ricostruire dimensioni e posizione del segmento che l’ha causata è un 117

problema inverso mal posto, un po’ come chiedersi quali numeri sommati tra loro producono 7 come risultato. È chiaro che l’informazione di cui può disporre il nostro sistema visivo è molto più ricca di una semplice proiezione come A; tale informazione deriva da fattori come la visione binoculare, i continui movimenti sia dei globi oculari che di tutto il nostro corpo, la diversa messa a fuoco di oggetti che si trovano a distanze differenti, le ombre, le occlusioni, e così via. Tuttavia in linea di principio il problema rimane immutato: l’informazione che giunge ai sensori non è sufficiente per determinare in modo univoco lo stato della scena percepita (ossia, come si dice talvolta, la scena percepita è sottodeterminata dai dati percettivi). Nonostante ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, la percezione del mondo avviene senza sforzo e senza esitazioni da parte nostra. Vale a dire, il nostro sistema visivo propone, per così dire, alla nostra coscienza una interpretazione dei dati percettivi che per lo più risulta affidabile, e questo processo avviene in maniera veloce e del tutto automatica, senza che ci costi alcuno sforzo e senza che ne siamo in alcun modo consapevoli. Questo è reso possibile dal fatto che il sistema visivo incorpora tutta una serie di assunzioni implicite che lo aiutano a interpretare i dati percettivi. Per così dire, il sistema percettivo «ci aggiunge del suo» per arrivare a una plausibile ricostruzione del mondo. Ciò dipende da una serie di ipotesi che il sistema visivo stesso incorpora, ipotesi che nella maggior parte dei casi risultano attendibili, anche se talvolta, in alcuni casi eccezionali, inducono in errore. Le illusioni percettive che abbiamo visto nel par. 2.1.3 (come molte altre analoghe) possono essere viste come casi eccezionali, in cui quelle stesse ipotesi, per così dire, di default, che usualmente portano il sistema percettivo a generare un’interpretazione corretta della scena, inducono invece il sistema a sbagliare. 118

Si consideri l’illusione di Ponzo. Essa è presumibilmente dovuta allo stesso meccanismo che, in condizioni normali, consente al sistema visivo di interpretare correttamente informazioni di tipo prospettico: il sistema percettivo tratta i due segmenti convergenti come l’indizio di una fuga prospettica, e di conseguenza «interpreta» il segmento superiore come più lontano, per cui – a parità di lunghezza della proiezione sulla retina – dovrebbe essere più lungo. Ciò risulta più evidente nella variante dell’illusione della Fig. 4.4.

Fig. 4.4

Sempre nel nel paragrafo 2.1.3 abbiamo menzionato il triangolo di Kanizsa. Un fenomeno analogo è quello della Fig. 4.5 (molti altri esempi del genere si possono trovare in Kanizsa 1980 e 1991).

Fig. 4.5

119

Qui tutti «vediamo» due forme irregolari bianche che nascondono parzialmente un rettangolo nero come quello della Fig. 4.6. Nessuno spontaneamente è portato a interpretare la figura nascosta come formata dai tre quadrati separati della Fig. 4.7, benché questo sia perfettamente compatibile con quanto percepito.

Fig. 4.6

Fig. 4.7

Questa illusione, così come il triangolo di Kanizsa, è determinata presumibilmente dallo stesso meccanismo percettivo che, nella nostra esperienza quotidiana, ci consente di percepire un oggetto come coeso anche se esso ci appare parzialmente nascosto. Si consideri la Fig. 4.8.

Fig. 4.8

120

Noi vi percepiamo senza esitazioni un toro collocato dietro quattro oggetti oblunghi che lo nascondono parzialmente (presumibilmente dei tronchi d’albero), e non, ad esempio, una serie di «fette» di toro separate (un po’ come in certe opere dell’artista contemporaneo Damien Hirst), anche se questa seconda interpretazione sarebbe del tutto compatibile con quello che la figura ci mostra. La forza con cui certe «illusioni» come il triangolo di Kanizsa o il rettangolo nero della Fig. 4.5 si impongono alla nostra coscienza è probabilmente il sintomo dell’importanza che ha per un agente cognitivo identificare gli oggetti che si trovano nel suo campo visivo. Se, di fronte a una scena come quella della Fig. 4.8, un agente – sia esso un potenziale predatore o una potenziale vittima – perdesse tempo a domandarsi se ciò che vede è un animale intero oppure si tratta soltanto di fette separate avrebbe ben poche possibilità di sopravvivere. Di conseguenza, il nostro sistema percettivo è organizzato in modo che indizi abbastanza limitati siano sufficienti per saltare alla conclusione che si ha a che fare con un unico oggetto. Si noti: il fatto che queste «illusioni» si presentino anche con figure astratte come triangoli o rettangoli ci fa supporre che esse non dipendono dalla conoscenza di alto livello che abbiamo a proposito degli oggetti del mondo. Le cose cioè non avvengono in questo modo: prima riconosciamo le forme raffigurate come parti di un toro, poi, siccome abbiamo appreso dall’esperienza che i tori si incontrano di solito come animali interi e non sotto forma di fette separate, interpretiamo la figura come un toro nascosto tra gli alberi. È plausibile piuttosto che si tratti di un meccanismo incorporato nei livelli più bassi del processo percettivo, che si applica a qualunque corpo esteso, e che non dipende dalle conoscenze di alto livello che abbiamo appreso nel corso della nostra vita – ad esempio da ciò che abbiamo imparato a proposito dei tori e degli alberi. Per un altro esempio, si considerino le due immagini della Fig. 4.9. 121

(a)

(b)

Fig. 4.9

Nella figura (a) percepiamo cinque cerchi convessi e uno concavo (al centro in basso) e in (b) cinque cerchi concavi e uno convesso (al centro in alto). Tuttavia (b) non è altro che (a) capovolta. Per sincerarsene basta girare la pagina e constatare che ora le cose si sono invertite: in (a) ci sono cinque cerchi concavi e uno convesso, e in (b) cinque convessi e uno concavo. In questo caso, l’illusione si può spiegare ipotizzando che, per aiutarsi nella percezione della tridimensionalità, il nostro sistema visivo assuma implicitamente che la luce provenga dall’alto. Questo infatti è il caso di gran lunga più comune in natura, e tale assunzione può essere di grande aiuto nell’interpretare le ombre come indizio della forma degli oggetti. Tutti questi fenomeni costituiscono esempi di un «saltare alle conclusioni» a partire da informazioni incomplete per certi versi simile a quanto avviene nel ragionamento non monotòno. Con la differenza che, nella percezione, il processo di elaborazione dell’informazione è «costruito dentro» l’architettura stessa del nostro sistema visivo e non avviene a livello consapevole come nel caso del ragionamento (tanto è vero che il sistema percettivo non è in grado di correggersi anche quando ci rendiamo conto che l’interpretazione data è sbagliata: noi continuiamo a vedere più lungo il segmento superiore dell’illusione di Ponzo anche dopo che li abbiamo misurati). Il punto dunque non è che gli stessi processi sono all’opera sia nel ragionamento sia nella percezione, e che quindi alla base della percezione ci sia qualche forma di «ragionamento inconscio». Posizioni di questo genere so122

no state effettivamente sostenute, ma oggi per lo più sono messe in discussione. Ci sono ottime ragioni per ritenere che i livelli più bassi della percezione visiva (che hanno a che fare ad esempio con la ricostruzione delle forme e dell’organizzazione spaziale degli oggetti, e che sono all’opera nelle illusioni sopra descritte) non siano penetrabili a processi cognitivi di alto livello come inferenza e ragionamento. Per usare una distinzione di Gaetano Kanizsa (1991), il vedere e il pensare presumibilmente sono fenomeni cognitivi molto diversi. Le illusioni percettive hanno a che fare con il vedere, e, presumibilmente, le nostre abilità inferenziali non vi hanno parte. È interessante sottolineare però che la percezione e il ragionamento ordinario devono affrontare problemi simili, e sono sottoposti a vincoli in qualche modo analoghi: il nostro sistema cognitivo ha un accesso limitato alle informazioni che sarebbero rilevanti per i compiti che deve risolvere, per cui si trova a dover azzardare ipotesi sulla base di dati incompleti. Ciò costituisce una caratteristica generale della cognizione. 4.3 Ragionamento abduttivo e inferenze alla migliore spiegazione Un altro tipo di ragionamento in cui si salta alle conclusioni sulla base di informazioni incomplete è l’abduzione. Nel ragionamento abduttivo si cerca di individuare un’ipotesi che sia in grado di spiegare alcuni fatti noti. Ma la spiegazione che viene proposta è sottodeterminata dai dati disponibili: gli stessi dati sono compatibili con spiegazioni diverse. Abbiamo visto un esempio nel par. 1.1: L’assassino ha sporcato di fango il tappeto. Chiunque fosse entrato dal giardino avrebbe sporcato di fango il tappeto. QUINDI: L’assassino è entrato dal giardino.

123

Che l’assassino sia entrato dal giardino è una (possibile) spiegazione del fatto che ha sporcato di fango il tappeto. L’abduzione è una forma di ragionamento molto diffusa, sia nella pratica quotidiana sia in ambiti specialistici. È il modo di procedere tipico del ragionamento diagnostico, quando, ad esempio, un medico deve identificare la malattia a partire dai sintomi del paziente, oppure quando si deve identificare il guasto di un dispositivo a partire dai suoi malfunzionamenti. Lo studio dell’abduzione ha avuto grande rilevanza nell’ambito dell’intelligenza artificiale (ad esempio, un settore di applicazione molto importante per il ragionamento diagnostico sono i sistemi esperti). L’abduzione è anche il tipo di ragionamento dell’investigatore che deve ricostruire il corso dei fatti a partire da una serie di indizi. Nei racconti di Sherlock Holmes si trovano molti esempi di ragionamento abduttivo (che Conan Doyle chiama erroneamente «deduzioni»). Infine, l’abduzione è alla base del processo di scoperta nella scienza. La scoperta scientifica non è infatti riducibile soltanto a semplici inferenze induttive come quelle viste nel par. 3.1, in cui, a partire da una serie di osservazioni singolari tra loro omogenee, si ricavano generalizzazioni del tipo Tutti i P (o l’n per cento dei P) sono Q. Le scoperte scientifiche più creative si hanno quando vengono avanzate ipotesi che sono in grado di spiegare i fenomeni osservati (spesso apparentemente eterogenei fra loro), ma che non sono riconducibili a semplici generalizzazioni. La scoperta da parte di Darwin della selezione naturale come meccanismo alla base dell’evoluzione o la scoperta da parte di Keplero dell’orbita ellittica dei pianeti non possono essere ricondotte all’impiego dello schema (3.1) del par. 3.1.2. Nella sua forma più semplice, un ragionamento abduttivo ha questa struttura: Se A allora B B QUINDI: (Forse) A

124

Ecco due esempi: Se c’è un black out, allora la lampadina della cucina non si accende. La lampadina della cucina non si accende. QUINDI: (Forse) c’è un black out.

Se la benzina è finita, allora la macchina non parte. La macchina non parte. QUINDI:

(Forse) la benzina è fi-

nita.

In questi casi si usa un condizionale del tipo se... allora... per così dire «alla rovescia», per individuare una possibile spiegazione del verificarsi di un certo fenomeno: so che si è verificato il fenomeno B, e so che, in generale, se si verifica A, allora si verifica anche B; faccio dunque l’ipotesi che si sia verificato A; A è una (possibile) spiegazione del verificarsi di B. Si sarà notato che lo schema riportato sopra ha una struttura simile alla fallacia dell’affermazione del conseguente (par. 2.1.2). Vi sono tuttavia profonde differenze. Chi commette la fallacia dell’affermazione del conseguente è convinto erroneamente di fare un’inferenza logicamente corretta; chi fa un’inferenza abduttiva è consapevole che si tratta di un processo fallibile. I ragionamenti abduttivi infatti non sono inferenze logicamente corrette, bensì ragionamenti plausibili: dalla verità delle premesse non segue con certezza la verità della conclusione. Viene avanzata un’ipotesi che potrebbe essere sbagliata, in quanto B potrebbe essersi verificato per tutt’altra ragione. Quindi si deve sempre essere disposti a rivedere le conclusioni che sono state tratte. Inoltre, in questo tipo di ragionamento il se... allora... non può essere un semplice condizionale materiale. Infatti, affinché A possa valere come possibile spiegazione del verificarsi di B è essenziale che se A allora B esprima un qualche tipo di relazione regolare di causa/effetto tra i due enunciati. I seguenti condizionali materiali sono tutti veri 125

(si ricordi infatti la tavola di verità del condizionale materiale – par. 1.2.1). Se 2 + 2 = 5, allora la lampadina della cucina non si accende. Se il papa è musulmano, allora la lampadina della cucina non si accende. Se c’è un quadrato con 16 lati, allora la lampadina della cucina non si accende.

Essi tuttavia sarebbero di poco aiuto per diagnosticare perché la lampadina della cucina non si accende. Un’inferenza come questa avrebbe infatti ben poco senso: Se il papa è musulmano, allora la lampadina della cucina non si accende. La lampadina della cucina non si accende. QUINDI: *(Forse) il papa è musulmano.

Si pone a questo punto un problema ulteriore. Dato un certo enunciato B, ci sono moltissimi enunciati Ai tali che il condizionale Se Ai allora B è vero (anzi, in generale, per ogni enunciato B, gli enunciati veri del tipo Se Ai allora B sono infiniti). Nel caso dell’esempio precedente, potremmo avere: (4.5) Se è fulminata, allora la lampadina della cucina non si accende. (4.6) Se è svitata, allora la lampadina della cucina non si accende. (4.7) Se è scattato il salvavita, allora la lampadina della cucina non si accende. (4.8) Se c’è un black out, allora la lampadina della cucina non si accende. (4.9) Se non ho pagato la bolletta e mi hanno tagliato i fili della luce, allora la lampadina della cucina non si accende. (4.10) Se un gremlin interrompe il flusso della corrente elettrica, allora la lampadina della cucina non si accende.

126

e così via. Ciascuno degli enunciati (4.5-10) potrebbe fornire una spiegazione alternativa del fatto che la lampadina della cucina non si accende. Si pone quindi il problema di scegliere quale di essi fornisca la migliore tra le spiegazioni disponibili. Per questo motivo il ragionamento abduttivo viene detto anche inferenza alla spiegazione migliore (in inglese inference to the best explanation). In questo caso, saremmo tutti d’accordo, penso, a escludere (4.10) dal novero dei candidati (nessuno crede seriamente che i gremlin esistano). Per scegliere tra le possibilità rimanenti si possono utilizzare ulteriori informazioni. Ad esempio, supponiamo che anche le altre lampadine di casa non si accendano, e che neppure il frigo funzioni. A questo punto è ragionevole escludere (4.5) e (4.6). Inoltre, guardando dalla finestra, posso constatare se anche i miei vicini sono al buio. Se è così, la più plausibile tra le spiegazioni elencate è quella fornita da (4.8). Ma, attenzione, la conclusione che traggo (c’è un black out) resta pur sempre una conclusione ipotetica. La causa potrebbe benissimo essere un’altra che non abbiamo preso in considerazione. A rigor di logica, non si può neppure escludere che la lampadina della cucina non si accenda perché, poniamo, è fulminata: per quanto improbabile, non è certamente impossibile che tutte le lampadine mie e del vicinato siano contemporaneamente fuori uso, e che al tempo stesso si sia anche rotto il frigo. D’altra parte, su basi puramente logiche non può neppure essere scartata l’ipotesi dell’intervento di un gremlin. Perciò, pur disponendo di queste ulteriori informazioni, l’inferenza abduttiva non si trasforma in un ragionamento logicamente corretto. Individuare regole generali per stabilire quale spiegazione debba essere considerata la migliore è molto complicato. Si tratta di un problema che è stato studiato in maniera approfondita in filosofia della scienza e in epistemologia. Sono stati individuati vari criteri per scegliere tra le diverse spiegazioni. Uno è quello della semplicità: tra le spiegazioni disponibili è opportuno, coeteris paribus, sce127

gliere la più semplice. Ad esempio, se il frigo non funziona e contemporaneamente nessuna delle lampadine di casa si accende, si può fare l’ipotesi che tutte le lampadine si siano bruciate contemporaneamente, e che casualmente si sia anche guastato il frigo. Ma è certamente più semplice (e più plausibile) ipotizzare un black out, oppure che sia scattato il salvavita. Un esempio classico in cui si applica il criterio di semplicità ci viene dalla storia della scienza: si tratta della scelta tra le teorie tolemaica e copernicana in astronomia. In estrema sintesi, il problema è quello di spiegare i moti dei pianeti, così come vengono osservati dalla Terra. In base all’ipotesi tolemaica, la Terra è fissa, e il Sole e i pianeti ruotano attorno ad essa. In base all’ipotesi copernicana, è la Terra a ruotare attorno al Sole, alla stregua degli altri pianeti. In linea di principio, i dati relativi alle osservazioni astronomiche sono compatibili con entrambe le ipotesi: nulla, dal punto di vista logico, impone di scartare l’ipotesi che i pianeti ruotino attorno alla Terra. Ma, per salvare la teoria tolemaica, si devono aggiungere moltissime ipotesi sussidiarie (ad esempio, un complicatissimo sistema di epicicli2) che rendono questa alternativa enormemente più complicata rispetto alla teoria copernicana. È quindi più razionale, in base al criterio di semplicità, abbandonare l’ipotesi tolemaica a favore di quella copernicana. Un ulteriore criterio è costituito dalla conservatività: di norma, si preferiscono le spiegazioni che ci costringono a modificare il minor numero possibile delle nostre credenze, soprattutto tra quelle più consolidate. Ad esempio, da questo punto di vista, (4.10) non consente di ottenere una buona spiegazione, perché ci costringerebbe a modificare

2 Per accordare la teoria alle osservazioni, nell’astronomia tolemaica si faceva l’ipotesi che i pianeti si muovessero lungo un piccolo cerchio (l’epiciclo, appunto), il cui centro a sua volta seguiva un’orbita circolare attorno alla Terra. Con il passare del tempo, per rendere conto di osservazioni sempre più precise, il sistema degli epicicli era diventato complicatissimo.

128

la nostra convinzione ben radicata che i gremlin non esistono. C’è poi il criterio della controllabilità, secondo il quale sono da preferire quelle ipotesi per le quali si dispone di una procedura indipendente per verificarne la plausibilità. Ad esempio, nel caso di (4.5-9) ci sono mezzi per controllare l’ipotesi che viene avanzata, che sono indipendenti dal fatto che si vuole spiegare. A seconda dei casi, tali mezzi possono consistere nel provare ad avvitare la lampadina, nel sostituirla, nel verificare la posizione del salvavita, nel cercare le ricevute delle bollette, e così via. È più difficile immaginare qualcosa del genere nel caso di (4.10). Questi sono solo alcuni esempi di possibili criteri. Il problema è che essi non sempre sono univoci. Ad esempio, in molti casi non è affatto facile stabilire quando un’ipotesi è più semplice di un’altra. La nozione stessa di semplicità è molto vaga, e non esiste una sua definizione rigorosa. Inoltre, possono verificarsi conflitti tra criteri diversi. Ad esempio, abbiamo visto che la teoria copernicana è più semplice di quella tolemaica. Ma nel Rinascimento essa non era certo più conservativa. Anzi, costringeva a rivoluzionare molteplici credenze profondamente radicate, che andavano ben oltre i limiti dell’astronomia e che coinvolgevano la teologia, la metafisica e, in generale, l’immagine del posto dell’uomo nell’universo. Quindi abbracciare il criterio della semplicità comportava violare quello della conservatività. 4.4 Il ragionamento ordinario tra Scilla e Cariddi: limiti di informazioni e limiti di risorse 4.4.1 I limiti di risorse computazionali Nel par. 4.3 abbiamo insistito sul fatto che gli agenti cognitivi reali hanno un accesso limitato alle informazioni che per loro sarebbero rilevanti. Da qui l’importanza di forme di ragionamento non monotòno e, in generale, non deduttivo (tutte le forme di ragionamento non deduttivo possono in qualche misura essere ricondotte all’esigenza 129

di «saltare alle conclusioni» a partire da informazioni incomplete). In questo paragrafo prenderemo in considerazione un secondo tipo di vincoli cui, in generale, devono sottostare le prestazioni inferenziali di agenti cognitivi limitati. Questi vincoli sono, in un certo senso, di segno opposto rispetto ai precedenti. Pertanto, un agente razionale limitato si trova a dover mediare tra esigenze in parte conflittuali. L’elaborazione dell’informazione ha un costo, che può essere misurato nei termini delle risorse utilizzate, quali il tempo di calcolo (misurato nei termini del numero di passi di calcolo necessari) e lo spazio di memoria impiegato. Tali risorse non sono illimitate. Ogni agente cognitivo reale ha una memoria finita, e ha a disposizione tempi limitati. Compiti che richiedono risorse troppo grandi (ad esempio, come caso limite, tempi di elaborazione più lunghi della vita di un individuo) sarebbero del tutto impraticabili. Inoltre, in moltissime situazioni gli agenti si trovano a dover reagire in maniera efficace ma rapida agli stimoli che provengono dall’ambiente: spesso è preferibile una risposta veloce anche se non troppo accurata piuttosto che una risposta migliore che però arriverebbe troppo tardi. Questi problemi si sono posti con particolare evidenza ai ricercatori di intelligenza artificiale, i quali si prefiggono di realizzare sistemi in grado di operare in condizioni realistiche (sottoposti quindi agli stessi vincoli cui sono sottoposti gli agenti cognitivi reali). I vincoli relativi alle risorse computazionali concernono tutti i compiti cognitivi, dalla percezione alla pianificazione delle azioni e dei movimenti. Qui, per sommi capi, vedremo come essi influiscano anche sul ragionamento. Le cose non sembrano andare particolarmente bene da questo punto di vista: già il ragionamento deduttivo di tipo proposizionale, che costituisce una delle forme di ragionamento più semplici, sembra richiedere risorse troppo impegnative. Consideriamo il compito di verificare se un certo enunciato segue logicamente o meno da un dato insieme di premesse. Molti compiti di tipo deduttivo possono esse130

re ricondotti a questo. Ad esempio: date tutte le informazioni disponibili, si può concludere che è vero un certo enunciato p? Oppure, dato ciò che sappiamo, possiamo escludere che p? (Dato un certo insieme di premesse, si può escludere p se da quelle premesse segue logicamente ¬ p.) Si consideri la seguente inferenza: pq ¬p QUINDI:

q

Si tratta di un’applicazione della regola del sillogismo disgiuntivo, che, come abbiamo visto nel primo capitolo, è una regola logicamente corretta della logica proposizionale. Vale a dire, in essa la conclusione è conseguenza logica delle premesse. Supponiamo ora di voler verificare questa affermazione. Un modo consiste nell’utilizzare le tavole di verità. Si può procedere come segue: si considerano tutti i possibili modi di assegnare i valori vero e falso alle lettere proposizionali p e q che compaiono nelle premesse e nella conclusione. Sono possibili in tutto quattro di queste assegnazioni. Poi, per ciascuna di esse, si calcola il valore di verità di premesse e conclusione, come nella Tab. 4.1. premesse

conclusione

p

q

pq

¬p

q

V V F F

V F V F

V V V F

F F V V

V F V F

Tab. 4.1

A questo punto, si considerano le righe in cui tutte le premesse risultano vere (in questo caso solo la terza, evidenziata in grassetto). Se, in ciascuna di esse, la conclusio131

ne risulta a sua volta vera, allora l’inferenza è corretta, altrimenti non lo è. Poiché, nel nostro esempio, nella terza riga la conclusione è vera, abbiamo la conferma che la conclusione segue logicamente dalle premesse, e che dunque il ragionamento è logicamente corretto. Vediamo ora un esempio di inferenza che non è logicamente corretta. Consideriamo la fallacia della negazione dell’antecedente (par. 2.1.2): pq ¬p QUINDI:

¬q

Una volta costruita la tavola corrispondente (Tab. 4.2), possiamo constatare che, almeno in un caso, tutte le premesse risultano vere e la conclusione falsa (è quanto accade nella terza riga della tavola). premesse

conclusione

p

q

pq

¬p

¬q

V V F F

V F V F

V F V V

F F V V

F V F V

Tab. 4.2

Questo metodo si può applicare a qualsiasi inferenza della logica proposizionale, a prescindere dal numero e dalla forma delle sue premesse. Supponiamo ad esempio di voler verificare la correttezza dell’inferenza seguente: pq pr qr

QUINDI:

r

132

(Questa inferenza coglie la forma logica di un ragionamento come il seguente: Marco è calabrese o veneziano. Se Marco è calabrese, allora è italiano. Se Marco è veneziano, allora è italiano. QUINDI: Marco è italiano.)

Costruiamo la tavola di verità di Tab. 4.3. premesse

conclusione

p

q

r

pq

pr

qr

r

V V V V F F F F

V V F F V V F F

V F V F V F V F

V V V V V V F F

V F V F V V V V

V F V V V F V V

V F V F V F V F

Tab. 4.3

I casi in cui sono vere tutte le premesse sono due, e corrispondono alla terza e alla quinta riga. In ciascuno di essi è vera anche la conclusione. Quindi il ragionamento è corretto. In generale il metodo delle tavole di verità consente sempre, in un numero finito di passi, di stabilire se una formula della logica proposizionale è conseguenza logica di un dato insieme di premesse. A questo punto si pone però un problema. Le Tabb. 4.1 e 4.2 hanno quattro righe; infatti nelle premesse e nelle conclusioni compaiono solo due lettere proposizionali diverse (p e q), e i modi di assegnare i valori vero e falso a due lettere (e quindi i casi da considerare) sono complessivamente quattro. Nella Tab. 4.3 abbiamo tre lettere pro133

posizionali diverse (p, q e r), per cui i casi da prendere in considerazione raddoppiano, e le righe della tavola diventano otto. Se avessimo avuto un’inferenza con quattro lettere proposizionali, i casi sarebbero ulteriormente raddoppiati, e le righe sarebbero state 16. In generale, le righe raddoppiano ogni volta che si aggiunge una lettera, e se le lettere proposizionali diverse sono n, il numero dei casi da prendere in considerazione è 2n. Ossia, il numero delle righe della tavola cresce esponenzialmente rispetto al numero delle lettere proposizionali. Come è noto, la crescita esponenziale è molto rapida. Ad esempio, se le lettere proposizionali sono 10, la tavola di verità avrà 210 = 1.024 righe, se sono 20 ne avrà 220 = 1.048.576, se sono 30 ne avrà 230 = 1.073.741.824. Per stabilire se una formula è o non è conseguenza logica di un certo insieme di premesse, non si deve sempre necessariamente costruire tutta la tavola di verità: qualora si trovasse una riga in cui tutte le premesse sono vere e la conclusione è falsa, si potrebbe subito concludere che il ragionamento non è corretto e porre termine al procedimento. Ma ci sono casi (ad esempio quelli in cui il ragionamento è corretto) in cui si deve costruire tutta la tavola. Quindi, stabilire con le tavole di verità se un’inferenza proposizionale è logicamente corretta richiede, nel caso peggiore, un numero di passi di calcolo il cui ordine di grandezza è esponenziale rispetto al numero delle lettere proposizionali diverse che compaiono nel ragionamento. Questo è decisamente troppo impegnativo per qualunque agente finito. Ben presto, per dati di dimensioni apparentemente «ragionevoli», si arriva a richiedere risorse di calcolo del tutto irrealizzabili. Ad esempio, anche supponendo di disporre di dispositivi dotati della massima velocità fisicamente ipotizzabile, si raggiungono presto tempi di elaborazione che supererebbero la vita dell’universo. Si potrebbe obiettare che forse le tavole di verità non sono un buon metodo per stabilire se un ragionamento è 134

corretto, e che, se si scegliesse un metodo diverso, le cose potrebbero andare meglio. Questo è indubbiamente vero: le tavole di verità sono particolarmente inefficienti, ed esistono altri metodi molto migliori da questo punto di vista (un esempio è il metodo degli alberi di refutazione presentato in Nolt, Rohatyn e Varzi 1998 e in Palladino 2002). Tuttavia, tutti i metodi noti, nei casi peggiori, richiedono tempi esponenziali rispetto alla dimensione delle formule coinvolte. Si ritiene che (anche se per ora nessuno è riuscito a dimostrarlo) qualunque metodo per stabilire la correttezza di un ragionamento proposizionale in alcuni casi richieda risorse esponenziali. Non si tratta di un problema che si può sperare di risolvere disponendo di una tecnologia migliore (ad esempio, di calcolatori più veloci e potenti di quelli attuali). Se le risorse richieste per risolvere un dato problema crescono in maniera esponenziale, qualunque tecnologia presto mostrerà la corda. Si tratta dunque di una limitazione di principio3. Quindi, già a livello di logica proposizionale, fare inferenze è un compito che può risultare molto gravoso dal punto di vista delle risorse richieste. Nel caso della logica dei predicati le cose vanno anche peggio: si dimostra che per la logica dei predicati del primo ordine non esiste alcun metodo finito (ossia, quello che tecnicamente viene chiamato un algoritmo) che sia in grado di stabilire sempre se una data conclusione è conseguenza logica o meno di un insieme di premesse. Si tratta del cosiddetto teorema di Church (si veda al proposito Palladino 2004).

3 Si è sostenuto che questi limiti possono essere superati dalla cosiddetta computazione quantistica (quantum computing). Ma per il momento la realizzazione pratica di calcolatori quantistici è ancora di là da venire, e questa possibilità resta speculativa. Sull’argomento si possono consultare Deutsch (1997) e Brown (2000).

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4.4.2 Alla ricerca di un compromesso Ricapitolando, dunque, uno dei tratti più importanti (forse il principale) dello studio del ragionamento e dell’impiego della logica in intelligenza artificiale consiste nell’aver messo in evidenza l’esigenza di modellare le capacità inferenziali di agenti razionali finiti e limitati. In ultima analisi, lo scopo dell’intelligenza artificiale risiede nello studio e nella progettazione di sistemi computazionali in grado di operare disponendo di risorse realistiche. Pertanto la logica non viene impiegata per elaborare canoni di razionalità assoluta e «disincarnata». Si tratta piuttosto di definire sistemi che, per quanto caratterizzati in termini astratti, siano comunque modelli della competenza inferenziale di agenti che dispongono di risorse limitate e di un limitato accesso alle informazioni. Dal punto di vista dello studio del ragionamento ciò è interessante in quanto questo tipo di limiti non concerne soltanto i sistemi artificiali, ma qualunque agente razionale finito (compresi dunque anche gli esseri umani). In questo capitolo abbiamo individuato due tipi di limiti cui sottostanno gli agenti cognitivi reali: (1) in primo luogo, ci sono limiti di tipo epistemologico, dovuti all’impossibilità per i soggetti cognitivi di accedere a tutte le informazioni che in linea di principio sarebbero rilevanti per i loro scopi (parr. 4.1-2); (2) in secondo luogo, ci sono limiti nelle risorse computazionali disponibili (tempo di calcolo e spazio di memoria) (par. 4.3). I limiti di cui al punto (1) determinano la necessità di prendere in considerazione forme di ragionamento come il ragionamento non monotòno, in cui, in assenza di tutta l’informazione rilevante, si salta alle conclusioni, salvo poi mantenere aperta la possibilità di ritrarre tali conclusioni qualora si rendessero disponibili nuove informazioni incompatibili con le conseguenze derivate. In linea di principio, ad esempio, per prevedere cosa succede se una pal136

la da biliardo viene colpita in un certo modo, dovremmo disporre di una mole enorme di informazioni che non ci sono accessibili, e che, anche qualora lo fossero, sarebbero del tutto impossibili da gestire in maniera efficiente. Perciò gli agenti cognitivi traggono conclusioni sulla base di informazioni incomplete e di assunzioni «di default»; tali conclusioni vengono poi riviste qualora si rivelino determinanti informazioni che non erano disponibili o che erano state trascurate. Il punto (2) ha a che fare invece con l’esigenza di individuare forme di ragionamento che siano praticabili entro limiti di risorse computazionali ragionevoli. Questo problema può essere affrontato impiegando sistemi logici più deboli di quelli tradizionali. In generale, quanto più un sistema logico è ricco dal punto di vista espressivo, tanto più risulta oneroso in termini computazionali. Quindi, i problemi legati alle risorse di calcolo hanno stimolato lo studio di sistemi meno espressivi e meno potenti dal punto di vista inferenziale. Gran parte della ricerca in intelligenza artificiale è stata dedicata ad individuare sistemi con buone proprietà computazionali, che approssimino in maniera adeguata sistemi più ricchi ma troppo dispendiosi in termini di risorse di calcolo. Tecnicamente, un sistema logico si dice corretto se, dato un insieme di premesse, consente di derivare come conclusioni solo conseguenze logiche delle premesse. Un sistema logico si dice completo se, dato un certo insieme di premesse, consente di derivare tutte le conseguenze logiche delle premesse. Tradizionalmente, i logici si sono interessati allo studio di sistemi che fossero a un tempo corretti e completi (che consentissero cioè di derivare tutte e solo le conseguenze logiche delle premesse). Per chi si pone dal punto di vista dello studio di agenti finiti e limitati le cose stanno però diversamente. I punti (1) e (2) possono essere sintetizzati come segue: nella prospettiva di elaborare modelli della competenza inferenziale di agenti cognitivi limitati, i calcoli logici (classicamen137

te) corretti e completi consentono di inferire ad un tempo (da punti di vista differenti) troppo e troppo poco. Infatti: (1’) la necessità di modellare inferenze che utilizzano conoscenze incomplete comporta la necessità di prendere in considerazione forme di inferenza logicamente non corrette (in senso tecnico); (2’) la necessità di tenere conto di limiti di risorse realistici e dei vincoli di complessità computazionale comporta la necessità di prendere in considerazione forme di inferenza logicamente incomplete. I sistemi di logica non monotòna consentono infatti di inferire di più rispetto ai sistemi logici tradizionali: come si è visto, le inferenze non monotòne sono inferenze non corrette dal punto di vista tradizionale. Viceversa, la ricerca di sistemi logici computazionalmente trattabili porta ad individuare sistemi logici più deboli, che consentono cioè di inferire di meno rispetto ai sistemi completi tradizionalmente studiati dai logici. Le esigenze di cui ai punti (1’) e (2’) sono tra loro complementari, ma non incompatibili. È possibile sviluppare sistemi che per un verso estendono la logica tradizionale con aspetti di tipo non monotòno e per un altro costituiscono degli indebolimenti della logica tradizionale, in modo da consentire prestazioni computazionali migliori. Un esempio in tal senso è costituito dalle basi di dati relazionali. Si tratta di programmi che consentono di gestire grossi archivi di dati in maniera da poterne estrarre l’informazione in modo veloce ed efficiente. (L’esempio più noto e diffuso di programma per la gestione di basi di dati relazionali è probabilmente Access della ditta Microsoft.) Dal punto di vista logico, le basi di dati relazionali costituiscono sottoinsiemi della logica dei predicati del primo ordine estremamente poveri dal punto di vista espressivo e poco potenti dal punto di vista inferenziale, ma che risultano facilmente trattabili computazionalmente. Per contro, le basi di dati relazionali prevedono forme di inferenza non mo138

notòna basate sulla negazione come fallimento (par. 4.1.3). Un altro esempio in tal senso è offerto dal PROLOG, un linguaggio di programmazione che si basa su un sottoinsieme della logica dei predicati con buone proprietà computazionali (le cosiddette clausole di Horn), e che incorpora anch’esso forme di inferenza non monotòna basate sulla negazione come fallimento. È possibile che il nostro sistema cognitivo impieghi soluzioni di compromesso di questo genere, anche se enormemente più raffinate (e, allo stato attuale delle nostre conoscenze, ancora pressoché ignote). 4.5 Ancora sugli errori di ragionamento: modelli mentali per il ragionamento sillogistico Chi studia logica dal punto di vista dell’intelligenza artificiale spesso non è molto interessato all’adeguatezza descrittiva, a tenere conto cioè di vincoli e considerazioni di ordine psicologico. Il suo scopo è quello di individuare sistemi efficaci che riescano a fornire le migliori prestazioni possibili dati i limiti cui devono sottostare. Tuttavia, il fatto che le risorse computazionali abbiano un costo può essere utile anche per spiegare certe caratteristiche empiriche delle prestazioni inferenziali umane, come ad esempio il ricorrere di certi tipi di errori. Vedremo qui, per sommi capi, una tra le più interessanti teorie psicologiche del ragionamento, ossia la teoria basata sui modelli mentali, che è stata proposta dallo psicologo inglese Philip JohnsonLaird, il quale cerca di spiegare certi errori di ragionamento nei termini del loro costo computazionale. Un modo per rendere conto delle nostre prestazioni inferenziali dal punto di vista psicologico consiste nell’ipotizzare che, per svolgere inferenze, la nostra mente impieghi regole di deduzione simili a quelle studiate in logica (ad esempio, quelle riportate alla fine dei parr. 1.2.1-2). Si tratterebbe cioè di ipotizzare l’esistenza di una logica mentale. Questa posizione è effettivamente difesa da alcuni 139

psicologi del ragionamento. Secondo Johnson-Laird, tuttavia, questa spiegazione non sarebbe in grado di rendere conto di vari fenomeni. Ad esempio, non sarebbe in grado di spiegare perché le inferenze degli esseri umani sono sensibili al contenuto (si veda par. 2.1.1). Né sarebbe in grado di spiegare come mai certe inferenze risultano più difficili di altre, che pure dovrebbero basarsi sull’impiego di regole analoghe. Per superare queste difficoltà, Johnson-Laird ha proposto una teoria psicologica del ragionamento deduttivo alternativa a quella della logica mentale, che va sotto il nome di teoria dei modelli mentali. L’idea di fondo è la seguente. Supponiamo che un soggetto derivi una conclusione C a partire dalle premesse P1... Pn. Secondo la teoria dei modelli mentali il soggetto interpreta mentalmente la prima premessa P1 e ne costruisce un modello mentale. Un modello mentale di P1 è una rappresentazione finita di una situazione che rende vera P1. Dopo di che modifica il modello mentale di P1 in modo da far sì che il modello renda vera anche la seconda premessa P2. E così via per tutte le premesse fino a Pn. Infine, per trovare una conclusione si deve individuare un enunciato C che sia vero nel modello finale ma che non sia già esplicitamente affermato nelle premesse. Inferenze diverse richiedono la costruzione di un numero diverso di modelli. L’ipotesi è che quanti più modelli mentali sono richiesti da un dato ragionamento, tanto più quel ragionamento risulterà difficile per i soggetti umani (per cui gli errori risulteranno più numerosi). La teoria dei modelli mentali è stata applicata a varie forme di ragionamento (ad esempio al ragionamento spaziale) e allo studio di aspetti della semantica delle lingue naturali. Ma la sua applicazione più nota è costituita probabilmente dal ragionamento sillogistico. I sillogismi sono un tipo di inferenza che ha avuto una grande importanza nella storia della logica. Il loro studio risale ad Aristotele e, in seguito, ha costituito il nucleo della logica medioevale dei termini. Nella logica contemporanea la sillogistica costituisce un 140

sottoinsieme della logica dei predicati. Per i nostri fini, ossia per comprendere lo spirito della teoria dei modelli mentali, non è importante specificare nei dettagli che cosa sia un sillogismo4. Vediamo piuttosto la teoria all’opera su un esempio specifico. Si consideri il sillogismo seguente: Tutti gli architetti sono biologi. Tutti i biologi sono calciatori. QUINDI: Tutti gli architetti sono calciatori.

Si tratta di un esempio di sillogismo facile, in cui la maggior parte dei soggetti fornisce la risposta corretta. Vediamo cosa dovrebbe accadere nella mente di un soggetto che compie questa inferenza secondo la teoria dei modelli mentali. Il primo passo consiste nella costruzione di un modello della prima premessa, che dovrebbe avere una struttura del genere: architetto = biologo architetto = biologo (biologo)

Vale a dire, viene introdotto un certo numero (finito – in questo caso due) di elementi che rappresentano degli architetti. Dopo di che, in accordo con la premessa, si rappresenta il fatto che ciascuno di questi architetti è anche un biologo. La premessa dice che tutti gli architetti sono biologi, ma non si pronuncia sul fatto che tutti i biologi siano o meno degli architetti. Pertanto nel modello viene inserito un terzo biologo che non è un architetto. Quest’ultimo viene messo tra parentesi per indicare il fatto che potrebbe esistere o meno (la premessa lascia aperte entrambe le possibilità). 4 A scanso di equivoci, si noti che le regole dette del sillogismo disgiuntivo e del sillogismo ipotetico (par. 1.2.1) vengono chiamate in questo modo per ragioni storiche, ma non si tratta di sillogismi in senso tecnico – non fosse altro perché sono regole della logica proposizionale, mentre i sillogismi sono ragionamenti predicativi.

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Ora bisogna integrare nel modello le informazioni della seconda premessa. Si procede in modo analogo a come si è costruito il modello della prima premessa. Pertanto il modello mentale viene modificato come segue: architetto = biologo = calciatore architetto = biologo = calciatore (biologo) = (calciatore) (calciatore)

Cioè ogni biologo viene identificato con un calciatore, e viene aggiunto un ulteriore calciatore che non è un biologo, il quale potrebbe esistere o meno. A questo punto è facile, ispezionando il modello finale, ricavare come conclusione un enunciato che risulta vero pur non essendo già esplicitamente affermato nelle premesse. Si tratta appunto dell’enunciato: Tutti gli architetti sono calciatori. In questo esempio il processo di creazione e di ispezione del modello mentale risulta particolarmente semplice. Ciò, secondo la teoria, spiega perché con questo tipo di sillogismi la maggior parte dei soggetti dà senza esitazioni la risposta corretta. Vi sono altri sillogismi che, in base agli esperimenti, sono risultati molto più difficili. La teoria dei modelli mentali è in grado di spiegare questo fenomeno in base al fatto che la costruzione e la manipolazione dei modelli mentali sarebbe più onerosa in termini di elaborazione dell’informazione. Si considerino ad esempio le due premesse seguenti: Nessun architetto è un biologo. Tutti i biologi sono calciatori.

In questo caso si verifica sperimentalmente che per i soggetti è molto più difficile individuare un enunciato che segua logicamente dalle premesse. Vediamo come ciò viene spiegato dalla teoria dei modelli mentali. Anche qui il primo passo consiste nel costruire un modello della prima premessa, che in questo caso avrà la forma seguente: 142

architetto architetto architetto biologo biologo biologo

Vengono cioè rappresentati un certo numero di architetti e un certo numero di biologi, specificando che si tratta di insiemi disgiunti (nella rappresentazione grafica ciò è indicato dalla linea orizzontale). Dopo di che, si deve aggiungere l’informazione della seconda premessa, per cui il modello viene modificato come segue: architetto architetto architetto biologo biologo biologo

= = =

calciatore calciatore calciatore (calciatore)

Viene cioè rappresentato un certo numero di calciatori, in modo che ciascun biologo sia anche un calciatore. Anche qui l’elemento tra parentesi indica che ci potrebbero essere dei calciatori che non sono biologi. Sulla base di questo modello può essere tratta la conclusione seguente: Nessun architetto è un calciatore.

Effettivamente il 60% dei soggetti cui è stato proposto un sillogismo di questo tipo ha tratto tale conclusione. Lo stesso modello può portare anche a trarre questa conclusione, equivalente alla precedente: Nessun calciatore è un architetto.

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che è stata tratta dal 10% dei soggetti. Tuttavia, nessuna di queste due conclusioni è corretta. È infatti possibile costruire un altro modello tale da rendere vere entrambe le premesse, ma in cui queste conclusioni sono false. Basta infatti rendersi conto che potrebbe esserci qualche calciatore che non è biologo, ma che è architetto. Vale a dire, in base alle premesse le cose potrebbero stare anche in questo modo: architetto architetto architetto

= biologo biologo biologo

calciatore = = =

calciatore calciatore calciatore (calciatore)

Sulla base di un modello di questo tipo, il 10% dei soggetti dell’esperimento ha tratto la conclusione che: Qualche architetto non è un calciatore.

Ma esiste ancora un ulteriore modello che rende vere le premesse e che confuta anche questa conclusione. Si tratta del modello seguente: architetto architetto architetto

= = = biologo biologo biologo

calciatore calciatore calciatore = = =

calciatore calciatore calciatore (calciatore)

in cui tutti gli architetti sono anche calciatori. Alcuni soggetti, che evidentemente hanno costruito mentalmente anche questo tipo di modello, hanno affermato che nessuna conclusione poteva essere tratta da queste due premesse (questa risposta è stata data dal 20% dei soggetti). Nessu144

no dei soggetti dell’esperimento si è reso conto che si potrebbe trarre la seguente conclusione: Qualche calciatore non è un architetto.

Infatti non possono essere architetti quei calciatori che sono anche dei biologi (in quanto la prima premessa impone che nessun biologo sia un architetto). Secondo la teoria dei modelli mentali, quindi, la maggiore difficoltà riscontrata nei soggetti degli esperimenti nei confronti del secondo sillogismo rispetto al primo sarebbe spiegata dalla maggiore difficoltà (nei termini di operazioni computazionali effettuate dalla mente) nella costruzione e nella ispezione dei corrispondenti modelli. Il secondo sillogismo ha richiesto la costruzione e l’esame di ben tre modelli diversi, mentre per il primo ne è sufficiente uno solo. In generale, i risultati confermano che quanti più modelli mentali sono necessari per ricavare le conclusioni corrette, tanto più difficile risulta per i soggetti umani produrre la risposta corretta. È opportuna a questo punto una precisazione. Affinché la conclusione Qualche calciatore non è un architetto sia conseguenza logica delle premesse si deve assumere che esista almeno un biologo. In questo Johnson-Laird segue la tradizione della logica sillogistica e accetta l’assunzione detta dell’impegno esistenziale (existential import), ossia assume che tutti i predicati che compaiono nelle premesse abbiano un’estensione non vuota. Ad esempio, in base all’assunzione dell’impegno esistenziale, affinché l’enunciato (4.11) Tutti i gatti sono mammiferi sia vero deve esistere almeno un gatto. Nella moderna logica formale, invece, la verità di (4.11) è compatibile con il fatto che non vi sia alcun gatto. (Anzi, un enunciato del tipo Tutti i P sono Q – in simboli x (P(x)  Q(x)) – qualora non esista nemmeno un P risulta sempre vero.) Vi sono sillogismi la cui validità dipende dall’assunzione dell’impegno esistenziale. Pertanto 145

questi ragionamenti sono accettati dalla tradizione sillogistica, ma non risulterebbero corretti nella moderna logica dei predicati. Un esempio è appunto il tipo di sillogismo usato nell’esperimento di Johnson-Laird, ossia: Nessun P è un Q Tutti i Q sono R QUINDI: Qualche R non è un P

Un altro esempio è il sillogismo seguente: I pipistrelli sono mammiferi. I pipistrelli volano. QUINDI: Qualche mammifero vola.

Esso corrisponde allo schema che tradizionalmente va sotto il nome di DARAPTI: Tutti gli P sono Q Tutti gli P sono R QUINDI: Qualche Q è R

Perché esso risulti corretto bisogna che esista almeno un individuo che abbia la proprietà P (ossia, nell’esempio, bisogna che ci sia almeno un pipistrello), il che, appunto, per come vengono interpretati gli enunciati nella logica dei predicati, non è garantito. Per la logica attuale, questo ragionamento risulta corretto solo se si aggiunge la premessa ulteriore Esiste almeno un P – in simboli: xP(x). Questa precisazione, ovviamente, nulla toglie al valore dell’esperimento e all’interesse della teoria di Johnson-Laird, che costituisce anzi uno dei migliori esempi delle prospettive offerte da un’impostazione multidisciplinare allo studio del ragionamento.

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Cos’altro leggere

1. Inferenze e ragionamenti Alcuni manuali di logica con un taglio introduttivo disponibili in italiano sono Berto (2007), Nolt, Rohatyn e Varzi (1998) e Palladino (2002). Tutti presentano sia la logica proposizionale sia la logica dei predicati del primo ordine. In particolare, Nolt, Rohatyn e Varzi (1998), oltre ai temi tradizionali di un manuale di logica, include capitoli su vari argomenti trattati in questo volume, come induzione, logica probabilistica e fallacie. Una nuova edizione italiana ampliata di questo volume è uscita nel 2006. Per una trattazione, sempre con un taglio introduttivo, di temi logici più avanzati (fino a comprendere i teoremi di Gödel e di Church) si veda Palladino (2004). Vari argomenti trattati in questo volume presentano punti di contatto con lo studio del cosiddetto critical thinking. Si tratta di una tradizione, diffusa soprattutto nel mondo anglosassone, che mira a sviluppare la capacità di produrre buone argomentazioni, e di valutare correttamente le argomentazioni altrui. Sono disponibili numerosi manuali, tra i quali si può ricordare Vaughn (2004). I sostenitori del critical thinking sono in genere ostili, o comunque indifferenti, all’impiego della formalizzazione logica, e in ciò consiste un’importante differenza con l’impostazione di questo libro. Coliva e Lalumera (2007) è 147

un’introduzione al problema del ragionamento che assume nei confronti della formalizzazione e del critical thinking un atteggiamento simile al nostro. Un testo in italiano che si propone di esporre i principi dell’argomentazione, senza fare uso del formalismo logico, è Iacona (2005). Un libro che presenta punti di contatto con le trattazioni di critical thinking senza condividerne i difetti (e che, in particolare, fa un uso equilibrato della formalizzazione) è Santambrogio (2006). Un volume come quello di Vaughn (2004) può comunque essere utile sotto molti aspetti. Ad esempio, individuare le inferenze presenti in un testo può non essere un compito banale; ad esso è dedicato il terzo capitolo del libro di Vaughn, con i relativi esercizi. Su questo tema si vedano anche il primo capitolo di Nolt, Rohatyn e Varzi (1998) e il terzo capitolo di Santambrogio (2006), sempre con i relativi esercizi. Per una rassegna delle varie teorie dell’argomentazione e del dialogo si veda Cantù e Testa (2006). Su internet sono disponibili molte risorse sul critical thinking. Critical thinking on the Web (http://www.austhink.org/ critical/) è una pagina curata dal filosofo Tim van Gelder, che offre un vasto repertorio di collegamenti. Il ragionamento è oggetto di studio da parte di molteplici discipline, soprattutto nel contesto delle scienze cognitive. Montecucco e Castellani (1998) e Cherubini, Giaretta e Mazzocco (2000) sono due raccolte che riflettono il carattere interdisciplinare della ricerca sul ragionamento, e includono contributi di logici, filosofi, psicologi e informatici. Nel linguaggio ordinario sono presenti molti connettivi e operatori non verofunzionali. Nel testo è citato il caso del connettivo temporale dopo che, e gli usi non verofunzionali del condizionale se... allora... (ad esempio, il suo uso controfattuale). Altri tipi di operatori non verofunzionali sono gli operatori modali aletici (è possibile..., è necessario...), deontici (è lecito..., è obbligatorio...), epistemici (si sa che..., è creduto che...). La logica non si limita allo studio 148

dei connettivi e operatori verofunzionali. Per trattare connettivi e operatori non verofunzionali sono stati sviluppati in ambito filosofico vari sistemi di logica intensionale, che sono estensioni della logica proposizionale e di quella dei predicati. Su questi argomenti si vedano Palladino e Palladino (2007) per una prima introduzione, e inoltre la sezione IX di Jacquette (2002) e i capp. 7-10 di Goble (2001). Galvan (2006) presenta in maniera sintetica alcuni sistemi di logica intensionale proposizionale (modale aletica, deontica, epistemica). Galvan (1991) tratta questi stessi temi in maniera più ampia. Sempre sulla logica modale e intensionale si veda Mugnai (2006). Carrara e Morato (2006) è una guida bibliografica ragionata che offre un’utile mappa del dibattito contemporaneo su vari temi di logica filosofica, tra cui anche i condizionali. Pizzi (2006) tratta dei condizionali controfattuali. Infine, per un punto di vista approfondito e aggiornato su questi temi si può fare riferimento all’Handbook of Philosophical Logic (Gabbay e Guenthner, 2001-05), opera monumentale, la cui pubblicazione non è ancora completa: ad oggi sono apparsi 13 dei 18 volumi previsti. 2. Ragionamento formalizzato e ragionamento ordinario Sulla psicologia del ragionamento si veda Girotto (1994). Girotto e Legrenzi (2004) è un manuale di psicologia del pensiero, dove, oltre al ragionamento, sia deduttivo che probabilistico, sono trattati altri temi affini quali la decisione e la soluzione di problemi. Anche Garnham e Oakhill (1994) è una trattazione manualistica su ragionamento e pensiero. Sacchi (2007) è un’agile introduzione alla psicologia del pensiero. Holyoak e Morrison (2005) è un manuale recente, di orientamento soprattutto psicologico, ma con un’attenzione rivolta più in generale alle scienze cognitive, comprese filosofia e intelligenza artificiale. Casadio (2006) è un agile volume che affianca un’introdu149

zione alla logica a un’introduzione ai principali temi della psicologia del ragionamento deduttivo. Per un’ampia trattazione interdisciplinare dei rapporti tra logica e ragionamento ordinario, e della misura in cui sia possibile conciliarli, si veda Gabbay et al. (2002). Varie classificazioni delle fallacie si possono trovare ad esempio in Benzi (2002), nel cap. 4 di Iacona (2005), nel cap. 8 di Nolt, Rohatyn e Varzi (1998), nel cap. 5 di Vaughn (2004). Sul problema delle fallacie in generale si vedano i saggi in Mucciarelli e Celani (2002). Le fallacie sono trattate anche in numerosi siti internet. The Fallacy Files (http://www.fallacyfiles.org/) è un sito che offre un vasto repertorio di fallacie con numerosi esempi. Per altri siti si faccia riferimento al già citato Critical Thinking on the Web (http://www.austhink.org/critical/). Per una prima introduzione al problema della testimonianza, cui si è fatto cenno a proposito dell’argumentum ad verecundiam, si veda Vassallo (2005) e, per approfondimenti, Lackey e Sosa (2006). Sulla nozione di illusione cognitiva si veda Piattelli Palmarini (1993). Sugli errori sistematici nel ragionamento probabilistico e in campo economico si rimanda al prossimo paragrafo. Su wikipedia (http://en.wikipedia.org/ wiki/List_of_cognitive_biases) si può trovare un ricco elenco di bias cognitivi, spiegati e commentati. Viale et al. (2006) è una recente raccolta di saggi che vertono sui rapporti tra aspetti innati ed influenze culturali nell’inferenza umana e nei bias del ragionamento. Per quanto riguarda le illusioni che concernono la fisica ingenua, si veda Bozzi (1990). Sulle illusioni percettive sono particolarmente interessanti Kanizsa (1980) e (1991). Sulla forma logica degli enunciati e sul suo ruolo in filosofia del linguaggio si possono consultare i capp. 4, 12 e 13 di Jacquette (2002); per una presentazione manualistica chiara e approfondita si vedano i primi 6 capitoli di Casalegno (1997). Sainsbury (2001) è un libro dedicato alla nozione di forma logica; tra le altre cose, vi si discute in 150

maniera approfondita se e in quale misura i condizionali del linguaggio ordinario siano riconducibili all’implicazione materiale. La nozione di forma logica e le tecniche formali sviluppate in filosofia, basate sulla logica intensionale, hanno trovato ampia applicazione nella semantica linguistica. Si vedano al proposito Chierchia e McConnellGinet (2000) e Chierchia (1997). Per quanto riguarda la pragmatica, un’introduzione è Bianchi (2003). Grice (1993) è una raccolta di saggi in traduzione italiana, che comprende Grice (1975), assieme ad altri scritti di interesse pragmatico di questo importante autore. Vale la pena ricordare che sono state proposte interessanti interpretazioni pragmatiche dei risultati dell’esperimento delle quattro carte; si vedano Sperber, Cara e Girotto (1995) e Sperber e Girotto (2002). 3. Induzione, probabilità, «fuzzy logic» Per un primo approfondimento su induzione e logica probabilistica si vedano rispettivamente i capp. 9 e 10 di Nolt, Rohatyn e Varzi (1998). Esistono vari volumi recenti con un taglio introduttivo che affrontano la probabilità e i temi filosofici ad essa collegati: Hacking (2000), Gillies (2000), Galavotti (2005). Più avanzato è Mellor (2005). Si rimanda a questi volumi per il complesso tema filosofico, cui nel testo non abbiamo accennato, dei diversi modi di interpretare la probabilità (interpretazione, frequentista, soggettivista, e così via). Per una panoramica più sintetica su questo tema si veda Galavotti (2006). Su induzione e probabilità si vedano anche i capp. 35 e 36 di Jacquette (2002) e il cap. 16 di Goble (2001). Su vari tentativi filosofici di superare il problema di Hume, si veda ad esempio la seconda parte di Glymour (1992). Sulla nozione di campione casuale impiegata nelle scienze sociali ai fini dell’indagine statistica si veda, ad esempio, Corbetta (2003). Per un punto di vista critico nei 151

confronti di queste tecniche si veda il V capitolo di Marradi (2007). La tecnica del campionamento casuale presuppone che la distribuzione nella popolazione della proprietà indagata rispetti determinati vincoli; sull’impiego di tecniche diverse di campionamento cfr., ad esempio, il cap. 10 di Corbetta, Gasperoni e Pisati (2001). In psicologia cognitiva è stato dato grande spazio allo studio degli errori di ragionamento di tipo probabilistico e alle scelte in condizioni di incertezza. Si veda al proposito Piattelli Palmarini (1993). Su internet si trovano diversi programmi che consentono di simulare il dilemma di Monty Hall. Uno si trova a questo indirizzo: http:// www.shodor. org/interactivate/activities/SimpleMontyHall/. Nello stesso sito, all’indirizzo http://www.shodor.org/interactivate/ activities/AdvancedMontyHall/ c’è una versione del gioco che consente di scegliere il numero delle porte. Infine, con la versione che si trova all’indirizzo http://www.shodor.org/ interactivate/activities/GeneralizedMontyHall/ si può simulare un grande numero di giocate (potendo decidere, anche in questo caso, il numero delle porte). Un settore di applicazione del ragionamento probabilistico che ha ricevuto particolare attenzione da parte degli psicologi cognitivi è il ragionamento in ambito economico. Figure di riferimento in questo campo sono Amos Tversky e Daniel Kahneman. Motterlini (2007) è un’agile introduzione a questi argomenti. Motterlini e Piattelli Palmarini (2005) è una raccolta che include le lezioni tenute da Kahneman e dall’economista Vernon Smith quando, nel 2002, è stato conferito loro il premio Nobel per l’economia per questo tipo di ricerche (Tversky è morto prematuramente nel 1996). Motterlini e Guala (2005) è un’altra raccolta di saggi su questi temi in traduzione italiana. Gigerenzer (2002) tratta della psicologia sul ragionamento probabilistico da un punto di vista in parte alternativo rispetto a quello di Tversky e Kahneman. Nel libro di Gigerenzer vengono presentati anche alcuni esempi tratti 152

da vari ambiti, tra cui quello medico e quello giuridico. Dalla pagina web di Gerd Gigerenzer si possono scaricare vari lavori su questi temi: http://www.mpib-berlin.mpg. de/en/mitarbeiter/cv/gigerenzer-body.htm. Sul ragionamento medico si veda anche Motterlini e Crupi (2005). Crupi, Gensini e Motterlini (2006) è una raccolta di saggi sul tema dell’errore nel ragionamento medico. Recentemente le ricerche sui bias nel ragionamento economico hanno trovato riscontri sul piano neurale attraverso interessanti esperimenti di neuroimmagine; si veda al proposito Piattelli Palmarini e Raude (2005). Nel testo la logica fuzzy e la logica probabilistica sono state presentate come un superamento del principio di bivalenza che caratterizza la logica classica. Non si tratta però delle uniche logiche che rifiutano il principio di bivalenza (o che negano il principio del terzo escluso – le due cose sono collegate). Esistono numerosi sistemi di logica polivalente (in inglese many-valued logic), sviluppati per scopi diversi. Su tutti questi temi si possono consultare Palladino e Palladino (2007) per una prima introduzione, il cap. 14 di Goble (2001) e la sezione X e il cap. 37 di Jacquette (2002). Bolc e Borowik (1992, 2003) e Gottwald (2001) sono manuali di logica polivalente che trattano anche la logica fuzzy ed hanno un taglio più tecnico e avanzato. Sull’argomento si possono consultare anche vari capitoli di Gabbay e Guenthner (2001-05). Il paradosso del sorite e, più in generale, il problema della vaghezza hanno trovato nella letteratura filosofica altri trattamenti oltre a quello basato sulla logica fuzzy. Al proposito si veda ad esempio il relativo capitolo del già citato Carrara e Morato (2006). 4. Razionalità limitate Tutti i manuali di intelligenza artificiale dedicano vari capitoli alla logica e ai modelli computazionali del ragiona153

mento. Tra quelli disponibili in italiano, si ricordano Fum (1994) (a carattere introduttivo), Nilsson (1998) e Russell e Norvig (2003) (più avanzati – soprattutto l’ultimo). Portoraro (2001) è un’introduzione al ragionamento automatico. Sui rapporti tra logica e intelligenza artificiale si vedano Frixione (1994, 2004) e Thomason (2003). Richmond Thomason è un filosofo che si è occupato, tra le altre cose, dell’impiego della logica nell’intelligenza artificiale; dalla sua pagina web (http://www.eecs.umich.edu/~ rthomaso/) si possono scaricare vari articoli interessanti. Koons (2005) e il cap. 15 di Goble (2001) sono introduzioni sintetiche ai sistemi di logica non monotòna. Brewka, Dix e Konolige (1997) è un agile volume dedicato allo stesso argomento. Sulle logiche non monotòne si veda anche Fischer Servi (2001). John McCarthy è uno dei padri dell’intelligenza artificiale e un pioniere dello studio della logica applicata a questo settore. Si deve a lui la tecnica della circumscription per il ragionamento non monotòno. Presso l’Università di Stanford si trova la sua pagina web, con molti articoli da scaricare, sia classici sia recenti (http://wwwformal.stanford.edu/jmc/). All’indirizzo http://www.aaai. org/AITopics/html/reason.html si trova una pagina del sito della AAAI (Association for the Advancement of Artificial Intelligence), che contiene numerosi collegamenti a risorse web dedicate al tema del ragionamento in intelligenza artificiale. Per approfondimenti sulla logica in intelligenza artificiale e, più specificamente, sulle logiche non monotòne e sul ragionamento fallibile si vedano rispettivamente Gabbay, Hogger e Robinson (1993-98) e Gabbay e Smets (1998-2000), entrambe trattazioni ampie in più volumi. Gillies (1996) dedica un intero capitolo al linguaggio PROLOG, discutendo anche i suoi aspetti non monotòni. Va ricordato, anche se il testo non vi fa riferimento, che in intelligenza artificiale hanno avuto largo impiego anche tecniche di tipo probabilistico; al proposito si veda Benzi (1997). Un ambito di ricerca che coinvolge aspetti di tipo logi154

co ed epistemologico, e che ha anche applicazioni in intelligenza artificiale e informatica, è la cosiddetta revisione delle credenze (belief revision), altrimenti detta mantenimento della verità (truth maintenance). Viene studiato il problema di come conservare la coerenza di un certo insieme di credenze (o di una base di conoscenza) man mano che vengono aggiunte nuove asserzioni, che possono essere in parziale conflitto con le precedenti. Gärdenfors (1988) è un testo classico del settore. Si vedano anche Hansson (1999) e Gärdenfors e Rott (1995). Chi fosse interessato alle diverse teorie della percezione visiva può consultare Gordon (2004). Si è detto che alcuni hanno assimilato il processo di percezione visiva a una forma di inferenza inconscia. Oggi una posizione simile è sostenuta da Gregory (1997). Per un’introduzione ad abduzione e inferenza alla migliore spiegazione si veda, ad esempio, il cap. 9 di Vaughn (2004). Eco e Sebeok (1983) è una raccolta di saggi sull’abduzione vista da punti di vista diversi (logico, semiotico, ecc.). Lipton (2004) è un ampio saggio sull’inferenza alla migliore spiegazione dal punto di vista della filosofia della scienza. Josephson e Josephson (1994) tratta l’abduzione soprattutto in un’ottica di intelligenza artificiale. Walton (2004) è un volume dedicato all’abduzione, che offre un’introduzione generale al problema e sviluppa una particolare impostazione teorica (detta modello dialogico). Sui limiti di risorse cui devono sottostare le prestazioni cognitive degli agenti reali si vedano Cherniak (1986) e Frixione (2001). Il problema dei limiti delle risorse nel ragionamento è collegato al tema più generale della complessità dei processi di calcolo; per un’introduzione chiara e piacevole al tema della complessità computazionale si rimanda a Harel (2000). Per quanto riguarda la teoria dei modelli mentali, sono disponibili in italiano varie opere di Philip JohnsonLaird, come Johnson-Laird (1983, 1993) e Johnson-Laird 155

e Byrne (1991). Dalla pagina web di Johnson-Laird presso l’Università di Princeton si possono scaricare vari articoli: http://weblamp.princeton.edu/~psych/psychology/ research/johnson_laird/.

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L’autore

Marcello Frixione (Genova, 1960) insegna Filosofia del linguaggio e Logica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. I suoi interessi di ricerca vertono su vari temi di scienze cognitive e di filosofia delle scienze cognitive. Oltre a numerosi articoli su riviste internazionali e nazionali, è autore dei volumi Logica, significato e intelligenza artificiale (Franco Angeli, Milano 1994) e, con Dario Palladino, Funzioni, macchine, algoritmi. Introduzione alla teoria della computabilità (Carocci, Roma 2004). Ha inoltre curato il volume Il connessionismo tra simboli e neuroni (Marietti, Genova 1992), traduzione italiana di un saggio di Paul Smolensky.

Indice

Premessa

V

1. Introduzione: inferenze e ragionamenti

3

1.1 Tipi di ragionamenti p. 3 1.2 Logica e formalizzazione 9 1.2.1 La logica delle proposizioni, p. 9 - 1.2.2 La logica dei predicati, p. 18

2. Ragionamento formalizzato e ragionamento ordinario

25

2.1 Errori e fallacie 25 2.1.1 Errori e psicologia del ragionamento, p. 25 - 2.1.2 Le fallacie, p. 29 - 2.1.3 Illusioni cognitive e «bias», p. 38 2.2 Ragionamenti formalizzati e ragionamenti ordinari 42 2.2.1 Forma logica, p. 42 - 2.2.2 Individuare le premesse, p. 50 2.3 Ragionamento e pragmatica 54

3. Induzione, probabilità, «fuzzy logic» 3.1 Ragionamento induttivo 65 3.1.1 Generalizzazioni statistiche, p. 66 - 3.1.2 Generalizzazioni induttive in senso stretto, p. 68

167

65

3.2 Ragionamento probabilistico 75 3.2.1 Logica della probabilità, p. 75 - 3.2.2 Illusioni cognitive e ragionamento probabilistico, p. 83 - 3.2.3 Fallacie del ragionamento induttivo e probabilistico, p. 89 3.3 Logica «fuzzy» 92 3.3.1 Una logica dei predicati «sfumati», p. 92 3.3.2 Il sorite, p. 98

4. Razionalità limitate

101

4.1 Il ragionamento non monotòno 102 4.1.1 Che cos’è un ragionamento non monotòno, p. 102 - 4.1.2 Logiche per il ragionamento non monotòno, p. 106 - 4.1.3 «Argumenta ad ignorantiam» e negazione come fallimento, p. 111 4.2 Saltare alle conclusioni 115 4.3 Ragionamento abduttivo e inferenze alla migliore spiegazione 123 4.4 Il ragionamento ordinario tra Scilla e Cariddi: limiti di informazioni e limiti di risorse 129 4.4.1 I limiti di risorse computazionali, p. 129 4.4.2 Alla ricerca di un compromesso, p. 136 4.5 Ancora sugli errori di ragionamento: modelli mentali per il ragionamento sillogistico 139

Cos’altro leggere

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Riferimenti bibliografici

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L’autore

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